Don't you worry child, see heaven's got a plan for you

di Sognatrice_2000
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

Bianco. Ovunque guardasse, vedeva solo bianco.

Erano bianche le pareti, il pavimento e le poltroncine nella sala d’attesa. 

Rick si agitò sulla sedia su cui era seduto da quella che gli sembrava un’eternità, cercando invano una posizione comoda-si ritrovò a pensare che in un ospedale, dove le pareti sembravano impregnate di lacrime, le sedie avrebbero dovuto essere scomode, per preparare le persone al dolore.  

Non sapeva quanto tempo fosse passato con certezza da quando era lì.

Probabilmente una o due ore, ma senza un orologio era difficile stabilirlo con sicurezza.

Tutto sembrava sospeso e immobile lì dentro, congelato in un’eterna attesa.

Dopo che Cliff era stato portato via dall’ambulanza, rassicurandolo con il suo solito sorriso storto che sarebbe stato bene, Rick aveva pensato di tornare a casa, ma poi un tizio che stava alla porta accanto, un certo Jay, si era accorto del trambusto e gli aveva chiesto cosa fosse successo, e poi si ritrovato nel soggiorno dei vicini a raccontare della carneficina che si era consumata quella notte a nientedimeno che a Sharon Tate, la moglie dell’acclamato regista Roman Polanski.

Aveva sempre sperato di poterla incontrare, magari insieme a suo marito, e finire a recitare in uno dei suoi film, ma in quella sera la carriera era davvero l’ultimo dei suoi pensieri.

Non riusciva ad allontanare dalla sua mente l’immagine di Cliff sdraiato sul pavimento, privo di sensi, con un coltello conficcato nell’anca. Prima di quel momento, Rick aveva sempre pensato a Cliff come a qualcuno di invincibile.

L’aveva visto prendere in giro la morte innumerevoli volte sul set, e aveva finito per scordare che nella vita vera avrebbe potuto correre pericoli reali.

Notando il suo turbamento, Sharon gli aveva offerto una coperta e qualcosa di caldo da bere, ma Rick aveva rifiutato e aveva detto che purtroppo non poteva restare, perché doveva assicurarsi che il suo amico stesse bene.

Sharon era stata veramente gentile e aveva insistito perché Jay gli desse un passaggio, sostenendo che lo avrebbe accompagnato lei stessa se avesse potuto guidare ( era incinta di otto mesi e mezzo e aveva un enorme pancione che le impediva quasi di muoversi)

Jay lo aveva accompagnato in ospedale e avevano chiesto notizie di Cliff. Un dottore spiegò che le sue condizioni erano stabili, il coltello non aveva causato danni gravi, ma dovevano fargli una tac per assicurarsi che non avesse subito una commozione celebrale e altri esami.

Jay si era offerto di rimanere ad aspettare con lui, ma Rick aveva capito che stava solo cercando di essere educato, così lo aveva ringraziato e poi aveva risposto che non ce n’era bisogno.

Tuttavia restare solo con i propri pensieri si era rivelata una pessima idea, perché aveva a disposizione un sacco di tempo per crogiolarsi nella propria angoscia, che aumentava man mano che i minuti passavano.  

Nonostante tutto il tempo trascorso, nessun medico si era ancora presentato per informarlo sulle sue condizioni e questo non faceva altro che aumentare l’ansia di Rick. 

 

Cosa stava succedendo? Perché ci mettevano così tanto a fare questi esami? C’erano state complicazioni?  

Rick chiuse gli occhi e prese un respiro profondo nel tentativo di distogliere la mente da quei pensieri, perché Cliff sarebbe stato bene, sarebbe andato tutto bene, doveva smetterla di pensare al peggio.

Riaprì gli occhi di colpo quando udì il cigolio di una porta che si apriva. Da una delle stanze di fronte a lui era uscita una dottoressa con un lungo camice bianco e uno stetoscopio avvolto attorno alle spalle.

“Lei è qui per il signor Booth, Cliff Booth?”

Rick annuì e si alzò di scatto. “Sì, mi chiamo Rick Dalton, sono il suo migliore amico.” Confermò senza un attimo di esitazione. “Come sta?”

La dottoressa gli lanciò un’occhiata strana di cui Rick non colse il significato-sembrava… pietà? Compassione?- e la sua voce si fece improvvisamente più gentile. “Prego, mi segua. La accompagno alla sua stanza.”

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


 

Un mese prima -luglio 1969-

 

“Penso che tutta la mia vita sia stata decisa dal destino.”

La stanza dove si stava svolgendo l’intervista era calda e afosa in quel giorno di inizio luglio.

Rick Dalton e Cliff Booth si trovavano in Italia, più precisamente in un lussuoso appartamento a Roma, dove un giornalista li stava intervistando.

Nel prossimo numero della rivista per cui lavorava sarebbe stata pubblicato un articolo sulla star di spaghetti western più in voga in quel periodo e la sua controfigura.

Il giornalista fece domande sui film che Rick aveva girato fino a quel momento, sull’acrobazie eseguite da Cliff sul set, e alla fine sulla loro amicizia, un legame che li univa da dieci anni ormai, e che nonostante gli alti e bassi della vita e della carriera non si era mai spezzato.

“Penso che sia stato il destino a farci incontrare.” Affermò casualmente Cliff aspirando una boccata di fumo dalla sua sigaretta. 

“Dunque lei crede nel destino?” Chiese allora il giornalista.  

“Certo. Tutta la mia vita è stata decisa dal destino. Penso che qualcosa di più potente di noi decida i nostri destini per noi. So una cosa, non ho mai pianificato niente di ciò che mi è successo.* Non avevo affatto pianificato di diventare uno stunt-man, né di incontrare Rick Dalton su quel set dieci anni fa.” 

Cliff sorrise in direzione di Rick, un sorriso caldo e affettuoso. “Ma posso affermare con assoluta certezza che non rimpiango nulla di ciò che il destino aveva in serbo per me. Non rimpiango nulla dei misteriosi piani del destino, che mi hanno portato a conoscere il mio partner.”  

Poco tempo dopo, Rick si sarebbe ritrovato a chiedersi se Cliff avrebbe nuovamente detto quelle parole, se solo avesse saputo cosa il destino aveva in serbo per lui.

 

**

Notte del 9 Agosto 1969

 

 

 

Rick seguì la dottoressa attraverso un lungo corridoio, impaziente di accertarsi con i suoi occhi che Cliff stesse bene. Gli avevano finalmente permesso di vederlo, e tutta la tensione accumulata in quelle ore di attesa minacciava di farlo sciogliere in lacrime di sollievo.

“C-come sta Cliff adesso?” Chiese alla dottoressa, senza nemmeno sforzarsi di nascondere l’ansia nella sua voce.  

Lei si fermò in mezzo al corridoio, e Rick notò con sgomento che lo stava guardando con la stessa strana espressione compassionevole di prima.

Un orribile presentimento iniziò a farsi strada nel suo cervello. “Cliff sta bene? Sta bene, vero? ” La sua voce adesso tremava, mentre gli scenari peggiori gli attraversavano la mente. Perché la dottoressa continuava a fissarlo con quell’aria grave stampata sul volto? 

“Cosa c’è che non va?”

La dottoressa sospirò, mettendogli una mano sul braccio. “Forse è il caso che si sieda un momento. Vuole qualcosa da bere? Magari un caffè…” 

“N-non ho bisogno di nessuno stramaledetto caffè!” La sua voce salì di un paio d’ottave, uscendogli come un grido rabbioso.

Rick non era mai stato un tipo paziente, e l’ansia continuava a crescere dentro di lui ad ogni minuto che passava.   

A quel punto, nel vederlo così turbato, la dottoressa finalmente parlò: “Il signor Booth ha subito un intervento molto complesso… è sicuro che non vuole sedersi?”

Rick aveva troppa paura per riuscire ad arrabbiarsi davvero.

Scosse la testa. “Ho s-solo b-bisogno di sapere come sta Cliff…”  Le sue parole suonavano disperate alle sue stesse orecchie. “S-sarà in grado di tornare a c-camminare come prima? L-lui è uno stunt-man, è il s-suo lavoro, sa? È eccezionale… s-sa fare acrobazie fantastiche, e lo fa con una tale sicurezza, un t-tale coraggio… io sarei morto di paura ta-tante di quelle volte al posto suo…” I suoi occhi brillavano d’orgoglio mentre elogiava le capacità di Cliff. Era così evidente l’affetto di Rick per quell’uomo, l’adorazione e l’ammirazione che provava nei suoi confronti. 

La dottoressa non potè trattenere un sorriso agrodolce. Questo avrebbe reso ancora più difficile ciò che stava per dire.

“M-mi scusi, sto divagando…” Si rese conto Rick un po’ imbarazzato. “La ferita alla ga-gamba è grave? S-sarà in grado d-di tornare a fare il suo lavoro?”

C’era così tanta paura, ma anche così tanta speranza negli occhi di Rick. La dottoressa non voleva essere colei che avrebbe ucciso quella speranza, eppure sapeva che doveva farlo.  

Decise di iniziare dalla parte più facile. “La ferita non era molto profonda, quindi la gamba non subirà danni permanenti. Abbiamo provveduto a steccarla e dovrebbe guarire entro un mese.”

Sul volto di Rick si aprì un ampio sorriso, così sollevato che alla dottoressa si strinse ancora di più il cuore.

“E’-è fantastico! Cristo, avevo così paura… ero così terrorizzato…” Qualche lacrima di gioia sfuggì ai suoi occhi, ma Rick se le asciugò rapidamente con il dorso della mano, sostituendole con un sorriso colmo di genuina felicità. “Vorrei vederlo subito, mi può indicare la stanza?”

“Signor Dalton… vede, quando il suo amico è arrivato qui, non aveva solo una ferita alla gamba. Durante la lotta con i suoi aggressori, è caduto e ha picchiato violentemente la testa.”

Il sorriso svanì dal volto di Rick e con esso ogni traccia di entusiasmo. “C-che vuol dire?”

“Ha avuto un’emorragia celebrale e il suo cuore si è fermato…”

Il viso di Rick divenne improvvisamente, spaventosamente pallido. “ S-sta dicendo che è…?”

“No, no, non mi ha lasciato il tempo di finire di parlare. Il suo cuore si è fermato per alcuni minuti, ma fortunatamente siamo riusciti a rianimarlo.”

“A-allora va tutto bene, no? Cliff sta bene… voglio vederlo, voglio parlare con lui…”

“Signor Dalton, il signor Booth ha avuto una grave insufficienza di ossigenazione al cervello.”

Rick la guardò senza capire. “Mi dispiace, ma il suo cervello ha subito danni gravi e, purtroppo, permanenti.”

“C-che genere di danni?”

“Paralisi di braccia e gambe, paralisi delle corde vocali, difficoltà di deglutizione, cecità permanente. Non sarà in grado di muoversi in modo autosufficiente, non potrà più vedere né parlare. Ma l’udito è rimasto intatto e potrà sentire tutto quello che dice. Magari non capirà sempre cosa sta dicendo; ora la sua mente è come quella di un bambino piccolo. Cerchi di parlargli con dolcezza e di non spaventarlo… signor Dalton, si sente bene? Vuole sedersi?”      
Si allarmò la dottoressa, vedendolo rigido e pallido, immobile e con occhi spaventosamente vuoti.  

Rick non sapeva spiegare cosa fosse successo con esattezza; sapeva solo dopo aver sentito quelle parole, tutto il resto aveva smesso di avere importanza.

La sua carriera, il suo matrimonio… niente di tutto questo contava più adesso.

Il mondo si era come fermato, congelato.

La voce della dottoressa continuava a risuonare nelle sue orecchie, il peso di ogni singola lettera si schiantava contro il suo cuore.

Rick non aveva mai provato niente di simile: il suo corpo era ancora ancorato alla terra, eppure non riusciva più a sentirlo. 

C’era solo quella morsa soffocante che gli opprimeva il petto spezzandogli il respiro. 

Che diavolo gli stava succedendo?

Perché stava lottando per buttare l’aria fuori dai polmoni?

Perché respirare era diventato improvvisamente tanto difficile? 

Le parole della dottoressa, aliene e ovattate, stavano man mano assumendo un significato sempre più concreto e spaventoso.  

Cliff Booth, il suo migliore amico, il suo unico vero amico, colui con cui aveva condiviso i momenti più belli della sua vita, colui che gli era rimasto accanto nei momenti più bui senza chiedere nulla in cambio … costretto su una sedia a rotelle per il resto della sua vita. Incapace di camminare, parlare, vedere. Un dannato vegetale. 

La sua mente brillante, intelligente, arguta, si era trasformata in quella di un bambino. 

Sarebbe diventato uno scemo, un ritardato, qualcuno di cui la gente avrebbe riso costantemente o che avrebbe guardato con disgusto.  

Cliff, dio mio, non può essere vero…  amico mio, ti sei ridotto così per colpa mia, per difendermi da quei dannati hippy… se solo non avessi fatto l’eroe, se fossi scappato e mi avessi lasciato lì a morire sarei stato un uomo felice, se avrei saputo che eri vivo e al sicuro, perché il mio sguardo che si chiude sul mondo varrà sempre meno del tuo che si apre su una mattina qualsiasi…

Rick deglutì, cercando con tutte le sue forze di non lasciarsi sopraffare dal panico e dalla disperazione, cercando di trattenere coraggiosamente le lacrime. Ma il coraggio non faceva per lui. Era sempre stato Cliff quello coraggioso.  “M-ma ci sarà qualcosa che voi dottori potete fare… insomma, ci sono progressi in medicina continuamente…”

La dottoressa scosse la testa, parlando con tono gentile ma fermo. “Mi dispiace davvero molto, abbiamo fatto tutto il possibile.”  

Le ultime scintille di speranza che Rick aveva nutrito si spensero bruscamente. 

Aveva voglia di fare una scenata, di urlare contro quei medici incompetenti che non erano stati in grado di aiutare Cliff, ma sarebbe stato tutto inutile. 

Non avrebbe riavuto il suo migliore amico, niente sarebbe cambiato, e questa consapevolezza gli fece venire solo più voglia di piangere.

“Se vuole vedere il signor Booth, le faccio strada…”

“M-mi dia solo cinque minuti…” E senza aspettare la risposta della dottoressa, Rick corse nei bagni e si chiuse in uno dei cubicoli. Una volta lì, si prese la testa fra le mani e pianse fino a non avere più lacrime.                                             

 

 
*frase realmente detta da Sharon Tate durante un'intervista

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Dieci anni prima 

1959

 

 

 

Era la prima volta che Cliff vedeva la casa di Rick. 

Cliff conosceva Rick Dalton già da sei mesi, ma non era mai stato a casa sua.

Ogni volta che Rick voleva provare le sue battute con lui o volevano bersi una birra e guardare insieme la tv si ritrovavano nella roulotte di Cliff.

Rick preferiva il calore che emanava quel posto, a differenza delle stanze enormi ma gelide e solitarie di casa sua, e nonostante lo spazio ridotto, trovava la roulotte di Cliff intima e confortevole. 

Gli piaceva l’odore di birra che si respirava costantemente lì dentro, e gli piaceva il cane di Cliff, l’affettuosa Brandy, che gli saltava addosso per dargli il benvenuto ogni volta che varcava quella soglia.

Ma quella sera, alla fine di una giornata di riprese, mentre Cliff stava riaccompagnando a casa Rick con la propria auto, scoppiò un violento temporale.

Erano praticamente già arrivati alla villa di Rick quando aveva iniziato a piovere grandine.

Cliff era già pronto a salutarlo, ma Rick insistette perché si fermasse.

“E’ già buio e con questa pioggia rischi di avere un incidente.” Aveva detto in quel suo modo burbero ma tenero che, Cliff avrebbe scoperto con il tempo, significava che si preoccupava sinceramente per lui.

E fu così che Cliff si ritrovò nell’ampio soggiorno di Rick, dopo una corsa dalla macchina alla porta che aveva finito comunque per inzuppare entrambi da capo a piedi.

Rick gli offrì asciugamani e alcuni dei suoi vestiti, indicandogli il corridoio dove si trovava il bagno per usare la doccia.

Ma Cliff sbagliò porta e invece del bagno entrò in una stanza ingombra di giocattoli e peluche, con una culla montata a metà in un angolo.

“Che diavolo fai?” Rick gli comparve improvvisamente alle spalle e si affrettò a chiudere la porta. “Chi ti ha detto che potevi venire a curiosare dove ti pare?” 

“Ehi amico, mi dispiace, io stavo solo cercando il bagno…”

“L’ultima porta a destra.” Disse Rick seccamente prima di voltargli le spalle e scomparire in un’altra stanza.

Cliff si chiese cosa potesse aver causato quella reazione. Rick non sembrava arrabbiato, o meglio, era arrabbiato, ma c’era anche qualcosa di più. Sembrava turbato, ferito.

Cliff conosceva l’attore da poco, ma il pensiero che ci fosse qualcosa a tormentarlo, che qualsiasi cosa lo facesse soffrire, lo faceva star male.

C’era sempre una tristezza segreta che sembrava albergare in Rick, in ogni suo sguardo, in ogni gesto, in ogni parola, quasi una seconda pelle.

Quali misteri nascondeva quella stanza? 

Rick non gli aveva mai accennato di avere un figlio. 

Cliff trascorse più tempo del solito sotto il getto d’acqua calda della doccia a riflettere su quanto poco sapeva di quell’uomo e quanto avrebbe voluto conoscere tutto della sua vita. Quanto avrebbe voluto sapere come far sparire tutto il suo dolore. 

Quando alla fine uscì, indossando i vestiti di Rick e con i capelli ancora bagnati, si diresse verso la cucina, da dove provenivano imprecazioni sommesse.

Rick gli dava le spalle, cercando di mescolare una salsa grumosa che sembrava incollata alla pentola. 

“Stupido sugo del cazzo…”

“Cosa c’è sul menù di stasera?” Chiese Cliff nel suo miglior tono disinvolto, cercando di mantenere rilassata l’atmosfera.

Rick imprecò di nuovo, prima di gettare il mestolo sul piano cottura con rabbia. “‘Fanculo, sai che ti dico? Ordiniamo una pizza.”

Cliff si morse la guancia per trattenere una risata. “Non serve, so cucinare abbastanza bene. Vediamo se si può rimediare…” Si avvicinò alla pentola e vi gettò un’occhiata rapida all’interno. “Ma cos’hai combinato? Sembra una specie di cemento a presa rapida, ci si può stuccare le pareti con questa roba… amico, mi dispiace dirlo, ma cucini davvero di merda.”

“E tu sapresti fare di meglio?” Si inviperì Rick, guadagnandosi una risata da parte di Cliff.

“Non scaldarti, cowboy, è solo un dato di fatto. Non fa niente se non sai cucinare. I tuoi talenti risiedono altrove.”

“Cosa vorresti dire?”

“Beh, sei un attore fantastico, su questo non c’è dubbio.”

L’espressione corrugata di Rick si appianò all’istante, lasciando spazio alla sorpresa e ad un timido sorriso che gli illuminava il volto. “L-lo pensi davvero?” Chiese, la voce roca per l’emozione.        

Sembrava così stupito, come se nessuno gli avesse mai fatto un complimento prima d’ora.

Qualcosa tremò nel petto di Cliff e non desiderò altro che vedere sempre quell’espressione felice sul suo viso, così ripetè: “Certo che lo sei. Sei fottutamente straordinario.”

Rick arrossì leggermente, evidentemente lusingato ma non del tutto convinto. “M-ma quando sono nervoso balbetto come un idiota e sbaglio metà delle battute…”

“Amico, se un essere umano. Gli esseri umani commettono errori di continuo.” Era sorprendente come Cliff, con poche parole, riuscisse a calmare tutti i suoi tormenti. 

“Q-quindi tu non p-pensi che io sia una nullità…?”

Rick ricercava sempre conferme negli altri, Cliff lo aveva imparato quasi subito dopo averlo conosciuto. 

Ma quella sua necessità di ottenere lodi e apprezzamento, invece di considerarla una debolezza, secondo Cliff era solo il risultato di una carenza d’affetto che si portava dietro da chissà quanto tempo.

Nel vedere quegli occhi sgranati per la gioia e la sorpresa, Cliff provò l’impulso di spaccare la faccia a chiunque avesse osato chiamare Rick una nullità, chiunque l’avesse fatto sentire insicuro e inadeguato, chiunque avesse portato anche un solo attimo di dolore nella sua vita.

“Certo che no. È l’ultima cosa che potresti essere.” Disse dolcemente, appoggiandogli una mano sulla spalla. 

Cliff non amava particolarmente il contatto fisico, ma per Rick era disposto a fare un’eccezione. 

Specialmente quando si rese conto che il suo corpo scosso dai tremiti si rilassò all’istante contro la presa ferma della sua mano. I due si guardarono negli occhi ancora per qualche istante, prima che Cliff allontanasse la mano dopo avergli dato una leggera pacca sulla spalla.

“Pensa a una cosa che desideri mangiare. Qualsiasi cosa, la preparerò per te.” Promise Cliff, nel tentativo 

di mantenere vivo quel sorriso sulle labbra di Rick.

Rick ci pensò su per qualche istante prima di decidere. “Pancake.” 

Cliff alzò un sopracciglio, sorridendo suo malgrado. La luce che irradiava Rick quando era felice era contagiosa. “Pancake per cena?”

“Con sciroppo al cioccolato.”

“Okay, pancake in arrivo!”  

Mangiarono in un silenzio confortevole mentre la pioggia infuriava fuori dalle finestre.

Rick lodò la cucina di Cliff e scherzò sull’assumerlo come cuoco e tuttofare a tempo pieno; trascorsero la serata davanti al televisore a guardare vecchie puntate di Bounty Law, la serie western di cui era protagonista Rick, dispensando complimenti per la sua performance.

“Ecco, questa scena mi piace un sacco, ti sei calato perfettamente nel personaggio…” Cliff smise di parlare quando si accorse che Rick stava piangendo.

Cazzo, stava singhiozzando tanto forte che le sue spalle  sobbalzavano, con la faccia nascosta tra le mani.

Rick si allungò sul divano e premette la fronte contro la spalla di Cliff. “Who, who, amico, che succede?”

Cliff gli diede una pacca sulla schiena, un po’ a disagio da quella vicinanza. Rick si staccò quasi subito, asciugandosi gli occhi con il dorso della mano.

“Cazzo, scusami amico… scusami tanto… è solo che sono così felice… è una stata una serata bellissima…”

“La fai sembrare brutta così.” Se da un lato era contento di sapere che aveva reso felice Rick in qualche modo, dall’altro Cliff si domandava quanto poco amore dovesse aver ricevuto l’amico nella sua vita se qualche parola gentile e qualcuno che gli preparava la cena bastavano a farlo piangere così, come se nessuno l’avesse mai trattato con gentilezza, come se nessuno avesse mai cucinato per lui, come se nessuno l’avesse mai fatto ridere. 

“S-scusami tanto…” Ripeteva Rick senza sosta, riprendendo a piangere.

“Non fa niente, Rick, va tutto bene, non c’è niente di male nel piangere.”

“No, scusami per c-come ho reagito prima. Q- quando hai visto quella stanza… io ti ho trattato male e non lo meriti… t-tu non hai fatto altro che essere gentile con me e io ti ho trattato in quel modo… devi sapere perché l’ho fatto…”

“Rick, tu non mi devi niente. Non sei obbligato a dirmi nulla che non vuoi…”

“Ma voglio farlo. Voglio che tu lo sappia.” Rick esitò per un momento. Non aveva raccontato a nessuna quella parte della sua vita, ma anche se non si conoscevano da molto tempo, si fidava di Cliff. Cliff non era solo il suo stunt-man; era l’uomo che lo incoraggiava prima di ogni ripresa, colui che lo consolava quando era giù di morale, e dopo quella sera, era anche la prima persona nella sua vita che gli aveva fatto credere di valere qualcosa. 

Certo, Rick lo pagava ed era il suo capo, ma Cliff non era obbligato ad essere così gentile con lui, ad accollarsi tutto il peso delle sue paure e insicurezze.  

Forse, pensò in un momento di speranza irrazionale e infantile, forse era sincero. Forse quelle cose che aveva detto le pensava veramente.

Forse, solo forse, avrebbe potuto azzardarsi a considerarlo più un collega. Cliff era suo amico, si rese conto con stupore, realizzando solo in quel momento quanto avesse fatto per lui. Le continue rassicurazioni, le parole di conforto quando ne aveva più bisogno, le chiacchiere a volte superficiali a volte profonde davanti a una birra, le risate che sapeva strappargli anche quando era triste, le serate che condividevano davanti al televisore della roulotte di 

Cliff e lunghe discussioni sui film che amavano e quelli che odiavano. Cliff aveva fatto molto per lui; aveva sopportato le sue debolezze senza mai fargliele pesare e gli aveva regalato autentici attimi di felicità. 

Se c’era qualcuno che meritava di conoscere quella parte del suo passato, era lui.

Così Rick si asciugò le lacrime e iniziò a raccontare: “Avevo vent’anni quando la mia ragazza, Susan, rimase incinta. All’inizio non ero affatto entusiasta all’idea di diventare padre così presto, ma poi è cambiato qualcosa. Ho pensato … ho pensato che sarebbe stato bello lasciare una mia traccia nel mondo, una traccia del nostro amore, che pensavo sarebbe durato per tutta la vita. Dio, sembra così patetico ora che lo dico ad alta voce…” Rick sentì la voce iniziare a incrinarsi, ma continuò a parlare: “Ho passato mesi a comprare vestitini, giocattoli, a montare la culla… l’ecografia aveva visto che era un maschio, ero così orgoglioso di avere un bel maschietto … comunque Susan era di trentasei settimane quando è entrata in travaglio. Secondo i medici è stato causato dallo stress... il bambino non ce l'ha fatta.”

"Mi dispiace tanto, Rick."

“Ho ancora... ho ancora tutte queste cose con me nonostante sia passato così tempo. Sono passati anni, ma fa ancora male. Ero così felice. Quello era il mio bambino.” 

"Io... non riesco a immaginare, amico.”

“Spero che a te non capiti mai, è...” Rick si lasciò sfuggire una risata senza umorismo. “Fa schifo. È un fottuto schifo.” Sorrise, un triste sorriso spezzato. “Ma dopotutto sono stato padre, anche se solo per poco, e non riesco a dimenticarlo. Non riesco ancora a decidermi a buttare via tutta questa roba. È stupido, lo so…” 

“Non è stupido, Rick, non pensarlo neanche per un momento. Io non ho mai vissuto una cosa del genere, quindi mentirei se dicessi che capisco cosa provi. Tutto quello che posso dirti è che mi dispiace, e se c’è qualsiasi cosa che posso fare per aiutarti, dimmelo. Io ci sono se hai bisogno di me, amico.”

“Grazie…” Rick ricominciò a piangere; la gentilezza di Cliff era servita solo a commuoverlo di più. “Grazie grazie grazie…” Non sa neanche per cosa lo sta ringraziando. Per aver ascoltato il suo sfogo, per non averlo deriso per le sue lacrime, per aver promesso di essere lì per lui quando sarà troppo debole per farcela da solo. Per essere il primo ad avergli detto che era un bravo attore. Perché gli aveva preparato la cena. Perché lo aveva fatto sorridere.

Semplicemente grazie di esistere.

Quando riuscì a calmarsi e i suoi occhi furono asciutti, Rick parlò di nuovo: “In effetti c’è una cosa che mi farebbe sentire meglio…”

“Cosa?”

“Voglio che tu sia il primo e l’unico a vedere la stanza del bambino.”

Dopo un attimo di sorpresa, Cliff sorrise e annuì. “Certo, amico. Qualsiasi cosa possa farti sentire meglio.”

 

 

**

 

 

 

La camera da letto era ampia e ariosa, con una grande finestra che dava sul giardino e sulla piscina.  Accanto alla culla dalle sbarre azzurre montate per metà, c’erano alcune scatole colme di giocattoli e minuscoli vestitini, anch’essi azzurri.

Cliff restò sulla soglia, aspettando che Rick gli disse il permesso di entrare con un cenno della mano.

Rick si chinò e frugò in una delle scatole, prima di tirare fuori un piccolo orsetto giallo di peluche. “Il suo nome è Sunshine. Mia madre cantava quella canzone quando ero piccolo, sai? 'Sei il mio raggio di sole’? La cantavo a mio figlio di continuo. Ho sentito che i bambini possono sentire la musica nel grembo materno. Non so se è vero. Spero sia vero.” 

“È una bella canzone. Sono sicuro che al tuo bambino sarebbe piaciuta.” 

Rick cercò di ignorare il groppo in gola, ma le lacrime vennero comunque.  

"Che cosa sono queste?” Chiese Cliff, tirando fuori qualcosa dalla stessa scatola da cui Rick aveva estratto l’orso di peluche. 

"Lettere. Le ho scritte per il bambino, durante la gravidanza. E... anche dopo. Anche Susan l'ha fatto, ma... ha portato via le sue quando mi ha lasciato. Probabilmente era più difficile per lei. Era lei quella che era incinta.”

Cliff mise da parte le lettere con estrema cura, ancora sigillate nelle buste. Non chiese altro su di loro.  Cliff allungò una mano e la poggiò sulla spalla di Rick, nel tentativo di confortarlo. Rick coprì la mano di Cliff con la propria, sorridendogli tra le lacrime.

“Sono felice che tu sia qui, Cliff. È…è bello che qualcuno lo sappia." Cliff ricambiò il sorriso e tirò fuori una coperta per bambini, cucita goffamente a casaccio.

“L'ho cucita io." Disse Rick con orgoglio. "Non è fatta bene, ma ci è voluto molto tempo… non l’avevo ancora finita quando è successo…”  

Cliff maneggiò la coperta con cura, riponendola delicatamente nella scatola. "Grazie Rick. Grazie per aver condiviso queste cose con me."

“Grazie, Cliff... sono felice che tu sia qui. Davvero molto felice.”

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


“Ehi.” Quando varcò la soglia della stanza d’ospedale di Cliff, Rick tentò di sorridere, poi si ricordò che l’amico non poteva vederlo e lasciò il suo dolore libero di manifestarsi sul suo viso. “Sono Rick.” La dottoressa gli aveva detto che la memoria di Cliff non aveva subito danni, quindi anche senza vederlo avrebbe potuto sapere chi era e conservare ancora tutti i ricordi dei momenti passati insieme.   

Non poteva parlare con Rick, ma avrebbe saputo che il suo amico era lì con lui.             

Cliff era disteso sull’unico letto al centro della stanza;  la gamba destra era ingessata e sollevata, le braccia erano irrigidite, immobili lungo i fianchi, la bocca storta in una strana smorfia, le labbra schiuse da cui fuoriusciva un filo di bava e gli occhi aperti ma vuoti, che riflettevano come uno specchio l’ambiente circostante.

Cliff aveva perso il controllo del proprio corpo ed era circondato dall’oscurità; aveva paura, ma al suono della voce di Rick tentò di sorridere. 

In un attimo non provava più alcun tipo di angoscia o timore. 

Rick notò quel suo tentativo di sorridergli e le lacrime minacciarono di cadere di nuovo. 

Si asciugò frettolosamente gli occhi umidi e si avvicinò al letto. Avrebbe voluto rassicurarlo, dirgli non sei solo, ti voglio bene, perdonami per aver lasciato che ti accadesse questo, invece le parole che uscirono dalle sue labbra furono molto più stupide e banali: “S-scusa, non ti ho portato i beagle che mi avevi chiesto. È notte fonda, a quest’ora t-tutti i negozi sono chiusi… Ho conosciuto Sharon, sai? Sharon Tate, la moglie di Polanski, ci credi?” Le parole gli uscirono prive di qualsiasi entusiasmo, nonostante avesse desiderato così tanto quell’incontro, fin da quando aveva scoperto che i Polanski si erano trasferiti nella casa accanto alla sua. 

Che importanza aveva adesso, in un momento questo, pensare a trovare gli ingaggi giusti per risollevare le sorti della propria carriera? Che importanza aveva qualsiasi cosa?

“Mi invitato a bere un drink a casa sua. Abbiamo parlato a malapena, ma mi è sembrata una donna molto gentile. È stato il suo amico Jay ad accompagnarmi in ospedale.” La voce gli ruppe in gola e smise di blaterare sciocchezze, lasciando che a parlare fosse il suo cuore. “N-non potevo starmene a casa a dormire con Francesca come se niente fosse, sapendo che tu eri qui da solo. Io… io…” Mi dispiace mi dispiace mi dispiace… “non dovevi farlo, fottuto idiota!” Rick avrebbe voluto che le sue parole suonassero arrabbiate, perché era così che si sentiva, furioso con il mondo intero. 

Ma la sua voce era macchiata di lacrime e prima di rendersene conto stava singhiozzando convulsamente. Afferrò Cliff per il bavero della maglietta, strattonandolo con forza mentre continuava a piangere. “Non dovevi pensare a me! Avresti dovuto scappare via, dannazione! Avresti dovuto prendere la porta e correre più lontano che potevi, senza preoccuparti di nessuno! Non ti ho chiesto di salvarmi, non ti ho chiesto di fare l’eroe del cazzo!” Cliff lo fissò con quei suoi occhi vuoti, ma senza alcun tipo di spavento. 

Sembrava stranamente consapevole di ciò che stava succedendo, nonostante la dottoressa avesse detto che adesso ragionava come un bambino e quindi avrebbe avuto difficoltà a comprendere molte cose.

Rick continuava a strattonarlo, ma Cliff lo fissava tranquillo, come a voler dire non me ne pento, rifarei tutto daccapo, ed era la verità.

Anche se ora era ridotto in quello stato, bloccato in un letto d’ospedale, Cliff non riusciva a dispiacersi degli eventi che lo avevano condotto fin lì, non quando Rick era davanti a lui, ancora vivo, senza neppure la minima ferita.

Qualcosa si spezzò dentro Rick quando vide quell’espressione e lo lasciò andare di colpo.

“Cazzo, scusami… scusami tanto…” Scusami per tutto, scusami per averti trascinato nella mia miserabile vitase non mi avessi mai conosciuto questo non sarebbe successo, adesso non saresti qui…

Rick continuò a singhiozzare per diversi minuti, nascondendo la faccia tra le mani, dando sfogo a tutta la sua sofferenza.

Si addormentò così, seduto vicino al letto di Cliff, cullato dal suono pietoso della sua stessa infelicità.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Nove anni prima

1960

 

 

 

 

Il ristorante messicano Casa Vega era particolarmente affollato quel quattro luglio 1960. 

Seduti ad un tavolo circolare in un angolo della sala, c’erano due uomini: Rick, biondo, basso e dalla corporatura squadrata, e accanto a lui, Cliff, alto e magro, con i capelli castani pettinati all’indietro con il gel. 

Dei due era probabilmente il più bello, con un viso dai lineamenti armonici che rasentavano la perfezione.   

Quel ristorante l’aveva scelto Rick, che amava scoprire posti nuovi ed esotici, e nonostante il cibo troppo piccante per i suoi gusti, Cliff era felice. 

Momenti come questo, quando erano solo loro due, a ridere e scherzare davanti a qualche birra, erano incredibilmente preziosi per Cliff.

Queste sere spensierate non erano nulla di straordinario, ma per Cliff rappresentavano tutto l’oro del mondo. 

Del resto era sempre stato un uomo di poche pretese.

Gli bastava quello, quei piccoli momenti insieme ritagliati alla fine di una giornata di riprese, quando la tensione di Rick scivolava via e lasciava spazio ad un altro lato di lui, un lato privo di preoccupazioni e insicurezze, un lato più felice.

Vedere il sorriso sulle labbra di Rick e la gioia nei suoi occhi era tutto ciò che bastava a Cliff per essere felice a sua volta.

E ad una parte di lui piaceva pensare che fosse la sua vicinanza a far star bene Rick, a scacciare le sue angosce e a renderlo così sereno e contento.

Ma quella sera, si rese conto Cliff, sembrava esserci qualcosa di diverso nel comportamento dell’amico.

Rick sembrava giù di morale, non sorrideva mai e parlava a malapena, un fatto insolito per lui, che amava essere sempre al centro dell’attenzione. 

“Ehi, partner, che succede? Va tutto bene?” Si decise a chiedere Cliff ad un certo punto, quando la cena era ormai terminata.

Rick annuì, ma il suo sguardo era assente, perso in qualche pensiero a cui Cliff non aveva accesso. “ Mmm-mmm, tutto okay. Stavo solo pensando…”

“A cosa?” Alla domanda di Cliff, Rick sembrò ancora più teso e non disse niente.

“Scusa, non sei obbligato a dirmelo, non sono affari miei. Pago il conto, stasera la cena la offro io.” Cliff stava per alzarsi, quando notò che gli occhi di Rick erano improvvisamente lucidi e qualche lacrima era sfuggita dai suoi occhi. Rick cercò di nasconderlo voltando il viso di lato, ma Cliff se ne accorse ugualmente.

“Ehi ehi ehi, va bene se non vuoi dirmelo, solo… dimmi se posso aiutarti in qualche modo. Sono qui se hai bisogno di me, lo sai vero?” Cliff cercò di far suonare la voce in modo che fosse rassicurante e gli sorrise, affettuoso e gentile, facendo battere più forte il cuore di Rick. Nessuno gli aveva mai sorriso così prima. 

Nessuno gli aveva mai parlato in quel modo, con quella gentilezza, come se gli importasse sinceramente di lui.

“M-magari ne possiamo parlare q- quando arriviamo a casa.” Disse casa come se fosse un posto solo loro, un posto in cui ritornare insieme dopo una giornata difficile e dimenticare ogni ansia, ogni preoccupazione nel loro piccolo rifugio. 

Era solo una fantasia irrazionale e irrealizzabile, ma cazzo, quanto gli sarebbe piaciuto. 

Quanto gli sarebbe piaciuto arrivare a casa alla fine del giornata e trovare il sorriso di Cliff ad aspettarlo.

“Okay amico, ne parliamo più tardi.” La voce di Cliff lo riportò alla realtà.

Lo stuntman si alzò dalla sedia, ma prima che potesse muovere un altro passo improvvisamente Rick lo bloccò, afferrandolo forte per il braccio.

“Grazie.” Grazie per essermi accanto nei momenti difficili, per credere in me quando nemmeno io non credo in me stesso, per aver creduto che nonostante le mie debolezze  valessi qualcosa. 

Grazie di abitare questo mondo di merda e renderlo un posto migliore con la tua sola presenza.

Rick voleva dirgli tutte queste cose, invece sussurrò solamente quel grazie appena accennato, senza neppure avere il coraggio di guardarlo negli occhi, ma Cliff sembrò capire ugualmente e gli sorrise, facendogli l’occhiolino. “Quando vuoi, collega.”

Cazzo, di nuovo quel sorriso. Non per la prima volta, Rick notò che Cliff era un uomo molto bello. 

Tutti quelli che lo incontravano gli dicevano che era troppo bello per essere un semplice stuntman. 

Cliff sarebbe potuto essere un attore eccellente, sicuramente più affascinante e talentuoso di lui.

Eppure, chissà perché, si accontentava di vivere ai margini della storia anche se avrebbe potuto esserne il protagonista indiscusso. 

Cosa spingeva un uomo straordinario come Cliff Booth a scegliere di restare accanto a questa persona mediocre e inutile che era Rick Dalton?

Per quanto si sforzasse, Rick non riusciva a trovare una risposta.

“Rick…” La voce di Cliff interruppe bruscamente il filo dei suoi pensieri.

“Che c’è?”

“Se non mi lasci il braccio non posso muovermi.” Cliff sorrideva divertito e solo in quel momento Rick si rese conto imbarazzato che aveva continuato a stringere con forza il braccio dell’amico, e che ancora si ostinava a non volerlo lasciare.

“Vado solo a pagare il conto, Rick.” Disse Cliff con quella voce calda e confortante che aveva sempre il potere di calmare i suoi nervi tesi. “Non ho intenzione di scappare.”  Le parole erano scherzose, ma il tono con cui le aveva pronunciate era serio e deciso. “Vado a pagare e torno subito. Poi andiamo a casa tua e parliamo.”

Solo allora Rick lo lasciò andare lentamente, rassicurato dalle sue parole. 

Cliff non sarebbe andato da nessuna parte, continuava a ripetersi. Non era un sogno. 

Quest’uomo gentile che si preoccupava davvero per lui non era un’illusione creata dalla sua mente affamata d’affetto.

Cliff Booth era il primo vero amico che avesse mai avuto in tutta la sua vita, e aveva promesso a Rick che non sarebbe scappato via. 

Che non l’avrebbe lasciato solo in quel ristorante a singhiozzare come un patetico bambino abbandonato a se stesso.

Che a differenza delle altre persone, che si erano tirate indietro quando stare con lui diventava la sfida più difficile del mondo, Cliff sarebbe rimasto al suo fianco.

Se fosse per i soldi o perché ci teneva veramente, Rick non sapeva dirlo, ma Cliff tornò davvero da lui indossando il solito sorriso che illuminava le stanze in cui entrava, e questo rese Rick scioccamente, incommensurabilmente felice; quel sorriso era come un balsamo per il suo cuore tormentato.

Il tragitto verso la casa di Rick fu silenzioso, e quando arrivarono alla villa dell’attore si sistemarono entrambi a sedere sulla sedia a dondolo del portico, con la scusa di guardare i fuochi d’artificio che illuminavano il cielo notturno.

“Allora… volevi parlare?” Chiese cautamente Cliff dopo un po’, con voce morbida e incoraggiante.

“Sì, io…” Rick sospirò, un sospiro esausto e rassegnato che sottolineava la sua frustrazione. “Io non lo so più…”

“Non sai più cosa?”

“Non so più s-se sono soddisfatto della direzione che ha preso la mia vita. Voglio dire, ho sempre sognato, fin da quando ero bambino, di diventare un attore, ma certe volte mi sento come un p-pesce fuor d’acqua in questo ambiente.  M-mi sento come se sbagliassi continuamente, come se continuassi a inciampare a-ad ogni passo che faccio. 

Lo sai che oggi ho dovuto rifare la stessa scena d-dieci volte perché continuavo a sbagliare le battute? E l’altro giorno sono stato invitato ad una festa e sono rimasto d-due ore in un angolo senza parlare con nessuno perché a-avevo paura di cominciare a balbettare come un idiota?”

“Rick, prima di tutto non sei assolutamente un idiota. Lo so che gli eventi mondani non fanno per te, ma questo non vuol dire che tu debba buttare all’aria la tua carriera-”

“Non si tratta della festa, Cliff. Io non…non mi ci ritrovo qui.” In questo lavoro, in questa casa, in questa vita. C’è mai stato un momento nella mia vita in cui ho sentito di appartenere a qualcosa o a qualcuno?

“Questa città è interamente popolata da gente che non ci si ritrova. Credi di essere l’unico ad avere delle paure, delle insicurezze? Le persone sono così fottutamente incasinate.

Io sono convinto che molte più persone di quante credi hanno gli stessi dubbi che nutri tu. Sono solo più bravi a nasconderli, tutto qui.” Rick non sembrava del tutto convinto dalle sue parole, così Cliff decise di confessargli ciò che aveva provato quando aveva avuto il suo primo assaggio di com’era la vita a Los Angeles e nel mondo del cinema hollywoodiano. “Ascolta, non te l’ho mai detto, ma un anno fa stavo per mollare tutto. Mi sentivo assolutamente fuori posto in questa città, ogni mattina mi chiedevo cosa diavolo ci facevo qui, io che non avevo nessun talento, in un posto pieno di stelle del cinema.”

Rick lo guardò a bocca aperta. Sul serio Cliff, così sicuro di sé, così a suo agio in ogni situazione, trasudando fascino qualunque cosa facesse, sul serio si era sentito inadatto a frequentare questi ambienti? Non riusciva a crederci. 

Cliff non era come lui. 

Cliff era sicurezza e stabilità, un porto sicuro, una roccia incrollabile. 

Sembrava così assurdo che avesse delle debolezze come tutti gli esseri umani. 

Ed era ancora più assurda la sicurezza con cui affermava di non avere alcun talento, quando Rick lo considerava il miglior stunt-man di Hollywood.

Avrebbe voluto dirgli che era lui quello che non sapeva fare niente, era lui quello che non valeva niente.

Cliff era semplicemente straordinario in tutto ciò che faceva. Avrebbe voluto dirglielo, ma Cliff stava già continuando il suo racconto: “Avevo anche già fatto i bagagli… ma poi mi sono convinto a provare per altre due settimane.”

“E cosa è successo?”

“Ti ho incontrato.” Di tutte le risposte che si era immaginato, Rick non si aspettava assolutamente ciò che disse Cliff. Arrossì, pregando che il buio nascondesse il calore sbocciato sulle sue guance, mentre il suo cuore minacciava di uscire dal petto e volare nel cielo in mezzo alle stelle.

Cliff Booth, che uomo straordinario. 

Se ne stava lì perfettamente tranquillo, come se quello che aveva appena detto non fosse niente di importante. Come se non fossero state le parole più belle che qualcuno gli avesse mai detto.

Rick era stato una ragione per scappare per molte persone, mai una ragione per restare.  

Cliff sorrise, dolce e meraviglioso, e il cuore di Rick volò ancora un po’ più in alto. “Non permetterò che tu rinunci ai tuoi sogni. Non ti permetterò di mandare tutto al diavolo per dubbi così sciocchi. Con l’aspetto e il talento che hai, tu sei destinato ad essere una star. Io, d’altra parte, sarò sempre conosciuto come Cliff Booth, la controfigura e l’ombra del mitico Rick Dalton.”

“Ma smettila…” Rick rise, dandogli un piccolo pugno scherzoso sulla spalla. Non sei solo questo, non lo sarai mai. Sei il tutto che compensa il mio niente. Sei la risata che illumina le mie ore più buie. Sei la felicità che ho sempre inseguito. Sei l’angelo che cammina tra i mortali.

Mi piace pensare che qualcuno lassù ti abbia mandato per salvarmi.

“C’è una ragione se non ti ambienti qui: non è perché sei diverso, ma perché sei assolutamente unico e speciale.”

Nella sua vita, Rick Dalton non aveva mai sentito di appartenere a niente e a nessuno.

Ma dopo aver sentito queste parole, il suo cuore fece la sua scelta: apparteneva a Cliff Booth.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


9 Agosto 1969

mattina

 

 

 

   

La luce dorata del mattino filtrava attraverso le tapparelle socchiuse, proiettando una serie di fasci luminosi all’interno della camera.

Uno di questi si infranse sul viso di un uomo seduto su una sedia vicino al letto, la faccia affondata nel materasso su cui era crollato la notte precedente.

Rick si portò una mano alle palpebre, schermandosi gli occhi per ripararsi dal sole, stropicciandosi gli occhi con un mugolio infastidito.

Per un attimo la sua mente annebbiata dal sonno rimase immersa in un dolce oblio. 

Aveva rimosso gli eventi delle ultime ventiquattr’ore, tanto che credeva ancora di essere sull’aereo diretto a Los Angeles.

Era mattina inoltrata, probabilmente Cliff era già sveglio, a differenza sua era un tipo mattiniero e non gli pesava svegliarsi presto… Cliff

I ricordi tornarono tutti insieme all’improvviso, e furono dolorosi come una pugnalata allo stomaco.

Gli hippy armati piombati in casa sua la notte prima, il panico, le urla, il sangue, le luci lampeggianti delle auto della polizia, la sirena acuta dell’ambulanza…l’ambulanza che si era portata via Cliff. 

Cliff che lo aveva rassicurato con un sorriso “sto bene, passa la notte con tua moglie, vieni a trovarmi domattina”. 

Cliff che non stava affatto bene, Cliff che più tardi aveva avuto complicazioni, Cliff che adesso giaceva in un letto d’ospedale cieco e paralizzato, la mente frantumata e il corpo inutile. 

Cliff che adesso era ridotto così per colpa sua.

Non avrebbe nemmeno dovuto essere in quella casa.

Se non avessero bevuto così tanto non avrebbero avuto bisogno di chiamare un taxi e Cliff non si sarebbe fermato nella villa di Rick per smaltire la sbornia.

Perché aveva dovuto chiedergli di cenare insieme quella sera? Perché non si erano salutati con una semplice stretta di mano prima di andare ognuno per la propria strada?

Dentro di sé, Rick conosceva la risposta. 

Egoisticamente, voleva prolungare il tempo trascorso con Cliff più che poteva.

Non avrebbe sopportato di svegliarsi l’indomani senza trovare Cliff in giro, senza prima avergli dato un vero addio.

Era stato difficile metabolizzare che avrebbe dovuto dire addio a quello che erano stati nel corso di quegli ultimi dieci anni, a quel noi due contro il mondo che aveva sempre caratterizzato il loro rapporto.

Ma quella mattina Rick si rese conto che anche senza quella dannata invasione hippy non sarebbe mai riuscito a lasciare andare davvero Cliff.  

Lo sguardo di Rick si posò sul suo amico, che dormiva tranquillo, il volto rilassato come quello di un bambino.

Ancora una volta Rick si ritrovò a pensare che uomo straordinario fosse Cliff. Così coraggioso, così generoso.

Talmente generoso da addossarsi giorno dopo giorno tutti i suoi problemi e le sue fragilità, da sopportarlo quando era troppo debole per stare in piedi da solo.

Talmente generoso da sacrificare tutto per proteggerlo da quei fottuti pazzi.

Cosa aveva fatto per meritare un simile angelo?

“Rick!” Una voce squillante lo strappò bruscamente dai suoi pensieri.

Sharon aveva appena fatto il suo ingresso nella stanza insieme a Jay. 

Indossava un ampio vestito a righe colorate che metteva ancora più in risalto il suo enorme pancione e aveva in mano un enorme mazzo di fiori.

Era una vista così luminosa che Rick non potè fare a meno di rivolgerle un sorriso.

Le fece segno con la mano di tenere la voce bassa, indicando con un cenno del capo Cliff, ancora addormentato, e lei si portò una mano alla bocca, mortificata. “Oh, scusami tanto, non volevo svegliarlo!”

“Non fa niente, signora Tate, sta ancora dormendo.”

“Rick, te l’ho già detto ieri sera, chiamami Sharon, sennò mi fai sentire una vecchietta.”

“Va bene, Sharon. Grazie per essere passati, è un pensiero davvero gentile.”

“Oh, non dirlo nemmeno. Come sta il tuo amico?”

“Cliff è… lui è…” Dio, quant’era patetico. Non riuscì nemmeno a formulare una frase coerente prima di scoppiare in lacrime. Sharon mise i fiori in mano a Jay e abbracciò Rick, che ricambiò con slancio, disperatamente bisognoso di conforto.

Ehi, partner.” La voce di Cliff risuonò improvvisamente nella sua testa. “Non piangere, sii forte. Andrà tutto bene.” 

Ci mise un po’ a rendersi conto che la voce che lo stava consolando in realtà era quella di Sharon, e quando se ne accorse si scostò subito, terribilmente imbarazzato.

“Sono così mortificato, Sharon… non volevo che mi vedessi così…”

“Non essere sciocco, Rick.” Detto da chiunque altro sarebbe sembrato un brusco rimprovero, ma non c’era cattiveria nelle parole di Sharon, solo dolcezza e calore.

“Non c’è nulla di male nell’esprimere i propri sentimenti.”

Il suo sguardo si spostò su Cliff e sul volto si formò uno strano sorriso, come se avesse appena scoperto un prezioso segreto finora celato agli occhi del mondo.

Era un sorriso gentile, che diceva capisco cosa provi.

“Sei molto legato a lui, non è vero?”

“Ci conosciamo da dieci anni. Cliff è…” E’ il motivo per il quale affronto le giornate. È la persona più importante della mia vita, forse anche più di mia moglie. 

“E’ la mia controfigura, ma è anche un mio amico. Un amico eccezionale. Mi ha salvato la vita questa notte, e ha salvato anche quella di mia moglie. Ma lui… lui adesso non può più camminare, né vedere, né parlare. Io sto bene e lui… a malapena si rende conto di chi è e dove si trova…” Rick strinse i pugni tanto da far sbiancare le nocche per non crollare di nuovo, ma la sua voce tremava in modo evidente: “Non doveva andare così, cazzo… dovevo esserci io al suo posto…” 

“Rick Dalton, non dire mai più una cosa del genere.” La voce dolce ma perentoria di Sharon non ammetteva repliche. “Cliff ha fatto le sue scelte, mettendo la tua vita al primo posto. E l’ha fatto perché tiene profondamente a te.” Sharon sorrise, posando la mano sulla guancia di Rick in una carezza gentile. “E’ una cosa bella, sai? Essere amati in questo modo.” Lo sguardo di Sharon si adombrò per un momento. “La maggior parte delle persone cerca per tutta la vita un amore così, ma solo pochi riescono a trovarlo.” Sharon fu improvvisamente colta da una fitta di malinconia. Suo marito Roman non l’aveva mai fatta sentire così amata, anzi, a volte Sharon dubitava persino che l’amasse. 

Non era un segreto che avesse altre donne e che amasse assecondare le proprie pulsioni. 

Non si pentiva di averlo sposato, non dopo che lui le aveva regalato questo bambino che stava per dare alla luce.

Voleva diventare mamma, lo desiderava più di ogni cosa al mondo, ma lei e Roman volevano cose diverse. 

Lei voleva una famiglia, lui una moglie che non lo imprigionasse negli schemi consueti della società.

Roman voleva un rapporto non convenzionale, ma era amore anche quello, giusto? Sharon non lo sapeva.

Era giovane e ingenua, e non aveva ancora imparato a capire bene gli uomini. 

Ma ciò che sapeva era che quello che legava Cliff e Rick era certamente, inequivocabilmente amore.  

Esistono così tanti tipi d’amore al mondo e Sharon non poteva dare una precisa definizione del sentimento che provavano l’uno per l’altro, ma non c’era dubbio che si amassero.

E se non se ne fosse resa conto prima, il modo in cui Rick si era precipitato a vedere come stava Cliff non appena aveva aperto gli occhi non lasciava spazio ad alcun dubbio.

I monitor iniziarono a lampeggiare indicando l’aumento della frequenza cardiaca quando Cliff si svegliò.

I suoi occhi saettarono in tutte le direzioni ma senza riuscire a vedere nulla. Provò a muovere un braccio, una gamba, ma il suo corpo pareva ancorato al letto.

Il respiro di Cliff accelerò in preda ad un attacco di panico quando si rese conto che era circondato dal buio e non poteva muoversi.

“Ehi ehi ehi. Sono qui, Cliff.” Lo rassicurò immediatamente Rick, stringendogli la mano d’istinto. Cliff smise di ansimare quasi subito, tranquillizzato dal suono familiare della voce del suo amico. Rick parlava a bassa voce per non spaventarlo, accarezzandogli teneramente il dorso della mano con il pollice. “Sono qui con te. Lo so che hai paura, ma non ne hai motivo. Ci sono io adesso, mi prenderò cura di te. Andrà tutto bene.” Rick cercò di ricacciare indietro le lacrime, ma alcune sfuggirono ugualmente al suo controllo, rigandogli le guance. Per la prima volta era grato che Cliff non potesse vedere l’uomo debole e patetico che era. “Verrai a vivere con me.” Non era stata una decisione pianificata, ma non aveva bisogno di rifletterci sopra. 

Non avrebbe lasciato Cliff in qualche asettica clinica per il resto della sua vita.  

Rick non voleva tornare ad abitare in quella casa, non dopo quello che era successo, ma non aveva abbastanza soldi per permettersi di alloggiare in albergo, senza contare che 

Cliff aveva bisogno di essere circondato da un ambiente  familiare.

Forse Francesca non sarebbe stata d’accordo, ma a Rick non importava. 

Sua moglie non avrebbe mai potuto capire fino in fondo il legame che lo univa a Cliff e quanto fosse importante per entrambi avere vicino l’altro. 

La sua vita sarebbe cambiata in moltissimi modi a causa di questa decisione, ma Rick non aveva paura. 

Lui e Cliff sarebbero stati insieme, e questo era tutto ciò che contava.

“Avrai la tua stanza e ci sarà un sacco di spazio dove far scorrazzare Brandy.  Temo che dovrai abituarti alla mia pessima cucina però. Oppure andiamo a cena fuori, che ne dici? Ti porto in quel ristorante italiano che volevi provare…”

“Andiamo, Sharon, è meglio se li lasciamo soli.” Disse Jay quando vide che Rick aveva chiaramente occhi solo per Cliff e sembrava che si fosse dimenticato la loro presenza nella stanza.

Sharon annuì e posò il mazzo di fiori sul comodino. “Noi andiamo, Rick, ci vediamo presto. Facci sapere se hai bisogno di qualsiasi cosa.”

“In effetti c’è qualcosa che potreste fare, se non è troppo disturbo. Dovrei andare a prendere alcuni vestiti di ricambio per Cliff dalla sua roulotte. Potreste restare qui con lui finché non torno? Non mi piace che resti solo.”

“Ma certo Rick, non è affatto un disturbo. Saremmo felici di restare con lui tutto il tempo che vuoi.” Rispose Sharon nel suo solito tono gentile. 

Quella donna era così dolce che non sembrava reale.  

La sua gentilezza e l’amore per il prossimo erano qualcosa che Sharon aveva in comune con Cliff. 

In un’altra vita, Sharon e Cliff sarebbero stati una coppia perfetta. Il suo amico meritava di avere vicino una donna bellissima e buona come lei, non un alcolizzato depresso ed egoista.

Sì, Rick era un egoista, se n’era reso conto solo adesso.

Cliff gli aveva dato tutto se stesso, aveva fatto letteralmente qualsiasi cosa per lui, senza mai chiedere niente in cambio.

E Rick cosa aveva fatto per lui? Niente. 

Neanche un atto di gentilezza disinteressata, neppure una parola di ringraziamento.    

Come vorrebbe poter tornare indietro nel tempo e dimostrare a Cliff quanto fosse importante per lui.

Vorrebbe abbracciarlo, vorrebbe ringraziarlo, vorrebbe dirgli che non vuole che vada via, che vuole averlo vicino sempre, ogni giorno, ogni istante. 

Ma tutto ciò che Rick poteva fare adesso era stargli accanto e farlo sentire amato come Cliff aveva fatto sentire amato lui.

Sapeva di non essere degno di Cliff, ma voleva provare ad essere una persona migliore per lui. 

Non appena Rick si alzò dalla sedia e lasciò andare la sua mano Cliff fu preso di nuovo dal panico e ricominciò ad ansimare terrorizzato, così l’attore fu costretto a tornare indietro per rassicurarlo. “Vado solo a prenderti dei vestiti di ricambio e poi torno qui. Non ci metterò molto, starò via un’ora al massimo. Sharon e Jay, i nostri vicini, saranno qui a tenerti compagnia mentre io prendo la tua roba. Ti porto anche i bagle che ti piacciono tanto… ” Rick non sapeva più cos’altro dire per calmarlo. Due grosse lacrime solcarono le guance di Cliff e Rick si sentì impreparato per questa reazione. Dei due, era Cliff quello stoico, che sopportava coraggiosamente il dolore in ogni sua forma, sia fisico che mentale. Rick non l’aveva mai visto piangere, ma adesso era cambiato tutto e il suo migliore amico si era trasformato in un bambino terrorizzato che non voleva essere lasciato solo con degli sconosciuti.

“Shh, shh, buono, Cliff, non piangere. Ecco, così. Sì, bravissimo, sono orgoglioso di te…”    

“Amico, non c’è bisogno di parlargli in quel modo, non ha mica cinque anni.” Jay si rese conto di aver detto la cosa sbagliata quando Rick lo fulminò con occhi minacciosi,  come se volesse ucciderlo con il solo sguardo.

“Ha un danno al cervello, brutto stronzo.” Sibilò Rick infuriato, con l’aria di volerlo prendere a pugni da un momento all’altro.

Jay sgranò gli occhi, sinceramente dispiaciuto. “Scusa, io non sapevo…”

“Ci dispiace moltissimo, Rick, non l’avevamo capito.” Intervenne Sharon, e al suono della sua voce dolce e pacata Rick sembrò calmarsi un po’.

La rabbia svanì, lasciando spazio alla sofferenza, ora scritta su tutto il suo viso.  “La dottoressa ha detto che il suo cuore si è fermato e il cervello è rimasto senza ossigeno per troppo tempo. Quando sono riusciti a rianimarlo la mente è rimasta danneggiata. Non so neppure se Cliff si rende conto che sono qui…” Ancora una volta Rick era sull’orlo delle lacrime. “La dottoressa dice che la sua memoria è rimasta intatta, ma non so se capisce che sono accanto a lui…”  

“Sono convinta di sì, Rick. Non appena ha sentito la tua voce si è calmato subito, non te ne sei accorto? Ti ha riconosciuto, ne sono certa.” 

Le parole di Sharon riaccesero una timida fiammella di speranza dentro di lui. 

Che l’avesse detto per consolarlo o no, a Rick piaceva pensare che fosse così, perché l’alternativa sarebbe stata troppo crudele.

Sharon lo abbracciò nuovamente e Rick la ringraziò, non solo perché aveva accettato di tenere compagnia a Cliff, ma anche e soprattutto per il conforto che lei gli aveva offerto. 

Dato che la sua patente era stata ritirata e perciò non poteva guidare, Rick prese un taxi per arrivare al drive in dietro cui abitava Cliff nella sua roulotte, poi entrò e iniziò a raccogliere alcune delle sue cose.

Prese un po’ dei suoi vestiti, e quando si ritrovò in mano la giacca di jeans di Cliff, la sua preferita, affondò il naso nel tessuto, inspirando il suo odore familiare, un misto di sigarette e colonia di sandalo, che per lui significava sicurezza e affetto. La strinse al petto solo per qualche attimo, per avere l’illusione di abbracciare Cliff, prima di prendere il resto delle sue cose.

Aprì l’armadietto della cucina per vedere se poteva prendere del cibo per il suo amico, magari qualcosa che gli piacesse in modo particolare e che avrebbe potuto mangiare al posto dei pessimi pasti dell’ospedale, ma quando aprì le ante trovò solo una piccola confezione di pasta. Il resto dei ripiani erano interamente occupati da cibo per cani in lattine, notò perplesso Rick.

Ma poi sorrise in un moto d’affetto: certo che Cliff aveva più cibo per Brandy che per sé, era tipico di lui pensare più agli altri che a se stesso.  

Rick continuò a guardarsi in giro e fu sorpreso nel vedere alcuni giornali a fumetti western sparsi qua e là (non aveva idea che a Cliff piacessero cose del genere, e questo era un altro dei suoi rimpianti. C’erano tante cose che non sapeva di lui, tante cose che non aveva fatto in tempo a chiedergli e che adesso non avrebbe mai saputo), ma fu ancora più sorpreso, quasi scioccato, nel vedere una pistola in bella vista su uno dei ripiani della piccola cucina del camper.

Rick non aveva mai creduto alle voci che giravano sul suo conto, su come fosse un tipo poco raccomandabile e avesse ucciso sua moglie durante una gita in barca, eppure, nonostante la pistola fosse proprio sotto i suoi occhi, la sua opinione su Cliff non cambiò affatto.

Cliff era stato in guerra e di certo era stato testimone di fin troppa violenza, per questo doveva essersi tenuto quell’arma, perché era abituato a vedere più potenziali pericoli di un uomo che non aveva mai assistito alla guerra con i propri occhi, e con la pistola probabilmente si sentiva più al sicuro. 

Sì, era senz’altro quello il motivo. Cliff non era un assassino.

L’uomo gentile che conosceva da più di un decennio non avrebbe mai potuto esserlo.

Rick non seppe spiegarsi perché, ma in un gesto puramente istintivo raccolse la pistola e la infilò nel borsone, nascondendola sotto i vestiti di Cliff.

Risalì sul taxi e chiese all’autista di fare una piccola deviazione a Cielo Drive prima di tornare in ospedale.

Gli era venuto in mente che avrebbe potuto portare Brandy in ospedale, corrompendo un’infermiera con la mancia per farla entrare. Avrebbe sicuramente sollevato il morale a Cliff e l’avrebbe fatto sentire meno solo e spaventato.

Tuttavia Rick si rese presto conto che fare un salto a casa sua si era rivelata una pessima idea.

La villa dove abitava era circondata dal nastro giallo della polizia e assomigliava in tutto e per tutto alle scene del crimine che si vedevano in televisione.

Rick fu colto da un sudore freddo davanti a quella scena, rievocando gli eventi della notte precedente.

Orribili e raccapriccianti immagini di corpi sanguinanti e massacrati da numerose pugnalate si materializzarono nella sua mente, rendendosi conto che le cose sarebbero potute andare in modo molto diverso se solo Cliff fosse tornato qualche minuto dopo dalla sua passeggiata con Brandy.

Doveva tutto a lui, la sua vita e quella di sua moglie erano salve solo per merito suo. Se Cliff non fosse stato lì, probabilmente lui e Francesca sarebbero stati uccisi da quella banda di invasati.

Francesca. Il pensiero della moglie gli attraversò la mente in modo quasi distratto, quasi come se la sua presenza nella propria vita fosse un dettaglio di poco conto.

Rick si sentì un pessimo marito in quel momento. 

Sua moglie, terrorizzata e sconvolta dall’invasione di quegli hippy strafatti, si era quasi drogata da tanto era imbottita di sonniferi e tranquillanti, e lui, concentrato com’era su Cliff, si era scordato di lei. 

Lei che sicuramente era ancora a letto e si aspettava di trovarlo al suo risveglio per sentirsi protetta e rassicurata dopo aver rischiato di morire.  

“Francesca!” Dato che la zona era deserta e non c’era nessun poliziotto in vista, Rick si infilò sotto il nastro giallo e si addentrò in casa, continuando a chiamare il nome della moglie. “Francesca! Tesoro, dove sei?” 

Rick perlustrò ogni stanza, ma di sua moglie non c’era traccia. Guardò nell’armadio e notò che mancavano i suoi vestiti, poi diede un’occhiata al bagno e vide che lì non c’erano più le cose. Possibile che sua moglie se ne fosse andata così, senza alcuna spiegazione? Gli ci volle un po’ per rendersi conto che c’era un biglietto sul tavolo della cucina. Lo aprì con mani tremanti e lesse le poche righe impresse sul foglio: 

Credo sia meglio per entrambi se non ci vediamo più. Se ti preoccupi più del tuo stunt-man che di tua moglie mi sembra ovvio quali siano le tue priorità.

Torno in Italia e contatterò al più presto un avvocato per ufficializzare il divorzio.

Ti farò avere i documenti non appena saranno pronti. Addio e buona fortuna.                        

Addio e buona fortuna? Sul serio non era stata capace di dirgli altro? Se n’era andata così, su due piedi, senza nemmeno una spiegazione sensata, senza neppure salutarlo un’ultima volta… perché, poi?

Era stata solo l’invasione di quei dannatissimi hippy ad averla spinta a fuggire o c’era qualcosa di più? E cos’erano quelle parole di gelosia verso Cliff?

Era un’assurdità, perché Francesca avrebbe dovuto essere gelosa di Cliff? Era solo un amico… no, era molto più di questo.
Era più che un fratello e poco meno di una moglie.

Era una costante nella sua vita, era il suo confidente, il suo sostegno nei momenti più bui.

Aveva perso Francesca, ma Cliff era ancora con lui.

E dopotutto chi era più importante per Rick, la donna che conosceva da appena due mesi e che aveva sposato in un momento di follia passeggera o l’amico che gli era rimasto accanto per dieci anni sopportandolo e supportandolo in ogni circostanza, bella o brutta che fosse? 

L’attore conosceva già la risposta.        

Non pianse questa volta; era finito il tempo delle lacrime.

Era tempo di essere forte per Cliff. 

Quando notò Brandy, accucciata tristemente in un angolo del soggiorno, Rick si chinò per accarezzarla sorridendo dolcemente.

“Lo so che ti senti persa senza di lui. Anch’io mi sento così senza Cliff al mio fianco. Ma ora ti porto da lui. Coraggio, andiamo, Brandy. Andiamo a trovare il nostro migliore amico.”

 

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