Animali e forniture elettriche

di theGan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Riguardo ai delfini e alle orche assassine. ***
Capitolo 2: *** Muffa sul soffitto ***
Capitolo 3: *** Pressione sarà applicata dove necessario ***



Capitolo 1
*** Riguardo ai delfini e alle orche assassine. ***


*questa fiction viaggia parallela al canon (aka: rielaborazione e non fedeltà assoluta)

*la lingua si adatta al POV e all’età del personaggio.


 

RIGUARDO AI DELFINI E ALLE ORCHE ASSASSINE.

 

Tsubasa non si sente solo.

Certo, i suoi compagni di classe lo chiamano “lo svitato ossessionato col calcio” e nessuno gli rivolge la parola, ma non si sente solo. Per niente.

Tsubasa sa di essere un ragazzo solare con genitori disposti a incoraggiare i suoi interessi, nonostante il nonno si preoccupi e insista che Tsubasa si cimenti con uno sport un po’ più dignitoso come il baseball. È una stupidata. Il calcio è tipo lo sport più popolare di TUTTO IL MONDO e Tsubasa ha già un grande amico e non ne ha bisogno d’altri. Si, nonno, il pallone conta, non facciamo gli sciocchini.

Tsubasa ha il calcio, un pallone e non si sente solo.

Papà è sempre via per lavoro, ma trova il tempo per mandare ogni volta a lui o a mamma un regalo per posta dal porto in cui fa scalo. Tsubasa adora quando papà invia un poster o degli adesivi o quelle cose che si chiamano “figurine Panini” che sono poi delle carte adesive con i giocatori di calcio della lega italiana. A volte arriva addirittura un giornale sportivo e mamma lo aiuta a ritagliare gli articoli e le foto dei calciatori che vuole tenere e poi li incollano su uno degli albi che tengono apposta. Tsubasa ne ha venti e mezzo e la sua collezione continua ad aumentare. Ne va molto fiero.

Tsubasa ha mamma e papà e non si sente solo.

Un giorno mamma dice che si devono trasferire, hanno comprato una nuova casa vicina al Monte Fuji e non sarà un bellissimo cambio di prospettiva? Mamma promette che questa è l’ultima volta che si trasferiscono e poi fa quella faccia che le mamme a volte fanno quando sono preoccupate per qualcosa. A Tsubasa non piace quando mamma è così, quindi sorride con tutti i denti, le chiede se ci sono squadre di calcio nella città nuova e si rifiuta di pensare alla Bambina.

La Bambina si è avvicinata a Tsubasa un venerdì mattina. Già di per sé quello è stato un avvenimento perché sono stati compagni di classe per un anno e la Bambina non gli ha mai parlato. Però è sempre stata più carina degli altri, non lo ha mai chiamato “strano” o “sfigato” e a volte gli ha persino sorriso.

- So che ti piace il calcio! Sai, mio fratello gioca in una squadra, vuoi che te lo presento?

Tsubasa aveva detto di sì così in fretta che la Bambina si era messa a ridere e aveva detto che “per un istante ho temuto che la tua testa si svitasse” e poi Tsubasa l’aveva seguita a casa. Il nome della Bambina è Yayoi e suo fratello non sapeva tutte le cose sul calcio che sa Tsubasa, ma era stato tanto gentile e gli aveva addirittura regalato un poster!

Ma Tsubasa si deve trasferire ora.

Ma va bene. Tsubasa ha un poster nuovo, la sua collezione di album di ritagli e non si sente solo.

Anche se Yayoi era carina.

Lui e mamma si trasferiscono in una città di nome Nankatsu e Tsubasa riesce a vedere il Monte Fuji dal finestrino della macchina. La casa nuova è più grande e la sua camera ha una finestra gigante che lascia entrare un sacco di luce. Ci sono già una scrivania e degli scaffali per la sua collezione di ritagli e a Tsubasa non dispiace più tanto la casa nuova. Aiuta la mamma a disfare le scatole, ma ce ne sono così tante che le sue mani iniziano a prudere e mamma dice che ha visto un campetto di calcio dalla macchina e perché Tsubasa non va a controllare e poi le racconta?

Tsubasa è un bravo bambino, così prende il suo pallone e va.

Mamma gli ha detto durante il viaggio che ci sono un sacco di bambini che giocano a calcio in questa città, Tsubasa ha controllato ed ha scoperto che ci sono addirittura DUE SQUADRE solo per le elementari! Una si chiama Shutetsu e ha vinto tipo tutto l’anno scorso. L’altra è più piccola e Tsubasa non sa ancora come si chiama, ma è calcio quindi sarà fantastica.

Il respiro di Tsubasa ora è un po’ affannato, così si ferma, aggiusta le pieghe della maglietta come gli ha spiegato di fare mamma e appoggia il pallone a terra. È un buon pallone, tutto rovinato e sporco dall’uso, agli altri bambini piacerà di sicuro.

Tsubasa inizia a correre, il pallone rimbalza contro i suoi piedi. È migliorato rispetto all’anno scorso ed è diventato persino capace di palleggiare in modo che il pallone colpisca il suo tallone e poi passi dietro la schiena prima di ritornare al ginocchio.

Quasi oltrepassa il campetto da calcio senza notarlo, ma ci sono delle persone che urlano e Tsubasa manca un palleggio e il pallone rotola da un lato del marciapiede. Il campetto è malandato e non perfettamente in piano, non c’è spazio per sedersi e non sembra affatto come quelli delle sue riviste, ma è calcio ed è la cosa più perfetta che Tsubasa abbia mai visto. Meglio del Monte Fuji di sicuro.

Ci sono un sacco di bambini in piedi, alcuni sono vestiti con una uniforme bianca e rosa e Tsubasa si domanda se per caso sono loro la Shutetsu. Non sono soli, ci sono un mucchio di altri ragazzi, ma questi sono in generale più grandi e vecchi e le loro uniforme sono tutte sbagliate: alcuni hanno delle mazze da baseball, altri indossano delle protezioni sulla testa. Tsubasa non si fida di loro: gli studenti delle scuole superiori sono sempre stati cattivi con lui.

Entrambi i gruppi sono silenziosi, sembrano quasi delle sagome di cartone ammucchiate dietro i due bambini che urlano al centro del campo. Beh, solo uno di loro sta urlando: la sua testa è rasata e ricorda tanto una palla, è più basso di Tsubasa, ma sembra che abbia la sua stessa età. L’altro è più alto e più grosso, non di tanto, ma per qualche ragione sembra MOLTO di più, indossa un cappello e ha l’aria cattiva.

Tsubasa non capisce bene di cosa stanno discutendo anche se testa-a-palla è davvero rumoroso e alto-e-cattivo non urla, ma la sua voce arriva comunque.

- Abbiamo vinto questo campetto rispettando le regole.

- REGOLE?! Ma quali regole! Voi avete già un campetto! Non ne avete bisogno di un altro!

- La nostra scuola ha un campo da calcio, ma è riservato agli studenti di medie e liceo, abbiamo bisogno di questo per fare pratica. Mi pareva di avertelo già spiegato, scimmia.

Alto-e-cattivo fa un gesto con la mano come a dire che la questione per lui è chiusa, un bambino mezzo nascosto dietro di lui inizia a ridacchiare e testa-a-palla diventa tutto rosso in faccia proprio come un pomodoro.

- NON FINISCE COSI’!

- Abbiamo vinto noi, Ishizaki. Fattene una ragione.

- I… no, ok, non lo riesci proprio a capire. La tua squadra ha già tutto Wakabayashi… dove diavolo dovremmo andare noi per giocare?

- Non è un mio problema.

Tsubasa non capisce bene dove sia il problema, forse testa-a-palla e alto-e-cattivo non sono tanto svegli: hanno un campetto, giusto? Perché non fanno a turni o, meglio ancora, giocano insieme? Magari potrebbero giocare proprio ora e Tsubasa potrebbe unirsi a loro e non sarebbe fantastico?!

Alto-e-cattivo fa un passo in avanti e la sua faccia è abbastanza spaventosa.

- Il tuo team di perdenti non avrebbe una chance se si allenasse per cento anni. E credi che non sappia che i tuoi compagni di squadra non si presentano più? Ammettilo scimmia: non hai bisogno di questo campo, non vuoi che lo abbia io.

Testa-a-palla è molto coraggioso perché non arretra di un centimetro, ma la sua faccia da rossa diventa tutta bianca e per un istante Tsubasa è convinto che inizieranno a picchiarsi e nessuno giocherà a calcio. Forse avrebbe dovuto restare con la mamma. O forse dovrebbe andare da uno di quei ragazzini in uniforme e chiedere se hanno voglia di giocare con lui.

Tsubasa sta per andare, ma a quel punto testa-a-palla e alto-e-cattivo sembrano mettersi d’accordo, si allontanano… no, stanno andando verso la porta. Oh! Allora, forse, si mettono a giocare davvero!

Tsubasa trova un posto comodo per sedersi e osservare, l’erba è soffice e bagnata e sicuramente lascerà delle macchie sui suoi pantaloni. Sembra che vogliono giocarsela ai rigori, o almeno a una specie, perché i giocatori sono un po’ più distanti dalla porta. Avrebbe preferito una partita vera, ma è calcio e quindi è eccitante comunque.

Alto-e-cattivo prende posizione dentro la porta, sorride a mo’ di sfida e sembra così a suo agio sul campo da calcio che Tsubasa smette di pensare che sia cattivo: ora è esclusivamente alto-con-cappello. Tsubasa fa proprio schifo come portiere, magari alto-con-cappello potrebbe insegnargli e poi potrebbero giocare insieme e poi Tsubasa potrebbe fargli vedere la rovesciata con cui si sta allenando e questa volta FUNZIONEREBBE.

- Visto che sei un idiota, ti ripeto le regole. Tu e i tuoi liceali potete provarci con qualsiasi cosa, ma uno alla volta. Segnate da fuori area e il campo è vostro. Fallite e sparite una volta per tutti.

- Un goal contro di te?

- Si.

- Da fuori area?

- Si.

- E possiamo provarci come vogliamo se andiamo uno alla volta?

- SI! Buon Dio, Ishizaki, sei lento come un asino. La vogliamo smettere e GIOCARE?

Testa-a-palla sorride e a Tsubasa ricorda uno degli squali di quel documentario che l’anno terrorizzato a morte due settimane fa. Papà fa il marinaio, ma mamma dice che non corre pericoli perché gli squali non possono camminare o salire su una barca e quindi è perfettamente al sicuro. Alto-con-cappello non pare molto al sicuro. I liceali si stanno avvicinando e alto-con-cappello è grande, ma loro lo sono di più  e Tsubasa sarebbe spaventato per lui se alto-con-cappello non sembrasse uno di quegli animali che mangiano gli squali per colazione. Forse è un’orca assassina.

- So che sei bravo Wakabayashi, tutta la città lo sa. Ma non sei così bravo da poter bloccare una palla da tennis.

Eh. Ma questa è una cosa RIDICOLA! E non è neanche calcio! Sono davvero un mucchio di… OH.

Alto-con-cappello ha parato la palla da tennis.

- Provate a farla difficile la prossima, eh.

Il ragazzo con la racchetta biascica qualcosa di incomprensibile, seguono dieci secondi di assoluto silenzio e poi alto-con-cappello urla: “IL PROSSIMO!”.

Arriva un altro tipo del liceo, questo indossa un’uniforme a strisce arancioni e nere e ha una protezione sulla testa. Dice di essere il capitano della squadra di rugby e qualcosa-qualcosa sul fatto che la palla da rugby ha una forma diversa da quella da calcio. Tsubasa lo ignora, la sua attenzione è tutta per alto-con-cappello.

È come se il mondo si stesse riassestando, come trovare il pezzo del puzzle che Tsubasa non sapeva di dover cercare.

Le sua mani si chiudono attorno all’erba bagnata, si morde le labbra. Cosa succederà adesso?

Il liceale tira, alto-con-cappello si lancia, il pallone colpisce il terreno e cambia direzione, dirigendosi inesorabile verso lo spazio vuoto lasciato dal portiere. Tsubasa cerca di avvisarlo, ma non ce n’è bisogno: alto-con-cappello appoggia la mano destra a terra e la usa come perno per ruotare e intercettare con la gamba sinistra il pallone e scagliarlo lontano.

Si tira in piedi, recupera il pallone e lo passa da una mano all’altra con aria canzonatoria.

- Abbiamo finito?

Testa-a-palla sta facendo la stessa faccia di Tsubasa, ma arriva un altro ragazzo: indossa un cappello, un guantone e ha una mazza da baseball appoggiata alla spalla. Fischia.

- Sei davvero un bastardo spaventoso. Vuoi provare con un vero sport?

Alto-con-cappello sorride e gli fa gesto di avvicinarsi.

Il ragazzo arriva fino al limite dell’area, ha lasciato la mazza a un amico, si prepara a lanciare, esita. Forse ha realizzato come Tsubasa che alto-con-cappello è un’orca assassina e che probabilmente oggi aveva saltato il pranzo. Lancia.

La palla è piccola e veloce, ma corre dritta ed è una macchia che Tsubasa mette a fuoco solo quando si ferma. O meglio: quando viene fermata. Alto-con-cappello non si è mosso, ha allungato una mano e l’ha afferrata al volo.

- M… mostro.

Tsubasa è innamorato.

Lo sente, lo sente nelle sue ossa che questo bambino è come lui. Ed è pure un sacco cool! Alto-con-cappello deve sentirsi osservato, alza gli occhi, vede Tsubasa E GLI FA L’OCCHIOLINO!

È UN SACCO COOL!

Gli deve parlare prima di subito, ma il bambino se ne sta andando ora che i ragazzi grandi si sono allontanati. Testa-a-palla prova a richiamare le truppe senza successo.

- Ehi, fermatevi! Dove state andando codardi?! Ma se avevamo appena iniziato…

- Dai, Ishizaki, piantala. Senti Mister Mikami mi sta aspettando. Il campetto è nostro, ma sentiti libero di sfidarci di nuovo quando ti viene in mente qualcosa di meglio, ok?

E il bambino SE NE VA. E questa è la cosa più ingiusta che sia successa a Tsubasa in tutta la sua vita. Vorrebbe correre giù, afferrarlo per un braccio e fermarlo, ma poi si ricorda che: uno, non sarebbe educato, due è pieno di persone e sarebbe strano, tre ormai è tardi e il bambino se n’è già andato e allora non rimane che una cosa da fare. Andare da testa-a-palla e chiedere.

- Chi è quel bambino? Come si chiama? Dove gioca? Credi che giocherebbe CON ME? Sai dove abita? Qual è la sua squadra di calcio preferita? Io ne ho così TANTE! Credi che gli piacerebbe la mia collezione di figurine? Sai se colleziona figurine? Credi che vorrebbe essere mio amico? Gioca sempre come portiere? È…

Testa-a-palla lo ferma, non lo tocca, basta uno sguardo. È quello sguardo che dice “cosa cazzo sei?” che la gente tira fuori ogni volta e che lo fa sentire strano e fuori posto.

Poi testa-a-palla aggrotta le sopracciglia, sbatte le palpebre, scuote le spalle, lo Sguardo sparisce e Tsubasa torna a sentirsi a proprio agio.

- Chi diavolo sei e come diavolo fai a non sapere chi è Wakabayashi?

Tsubasa glielo spiega.

Testa-a-palla dice di chiamarsi Ishizaki e sembra felice del fatto che Tsubasa non abbia mai sentito nominare Wakabayashi prima e un po’ dispiaciuto che voglia sapere tutto ora.

- È solo tipo una grossa bolla antipatica.

Ma Ishizaki decide di accompagnarlo lo stesso, cammina vicino a lui, chiacchiera e prova persino a rubargli il pallone, ma usa i piedi e quando fallisce gli chiede suggerimenti. È… piacevole. Arrivano in cima a una collina altissima e Nankatsu è come un gatto pigro addormentato sotto di loro.

- Vedi quella casa là?

Ishizaki sta indicando una villa gigantesca circondata da un giardino ancora più enorme. Sembra un posto molto solitario in cui crescere.

- Quella è la casa di quel bastardo. Crede di essere tanto meglio di… EHI! FERMA! Cosa credi di fare?

Tsubasa ha smesso di ascoltare alla parola “casa”. Ha preso un pennarello, scritto un messaggio sul Pallone, e preso posizione sul terreno bagnato. Ishizaki è preoccupato, lui no.

Conosce questa palla, è la sua migliore amica e lo perdonerà perché… beh, i palloni da calcio nascano per essere calciati. Così lo fa.

Il pallone sale alto nel cielo e per un attimo sembra che non dovrà più scendere, ma poi lo fa e va giù, giù, giù.

Tsubasa sta già correndo, ha mandato il messaggio e ora non ha bisogno di fermarsi e aspettare per sapere che Wakabayashi lo avrà ricevuto. Che Wakabayashi lo starà aspettando. Ishizaki corre dietro di lui, sta urlando qualcosa, ma Tsubasa sta volando e non sente.

Ishizaki lo raggiunge alla stazione del bus, ha il fiatone e borbotta qualcosa tipo: “è l’avvento del secondo mostro”.

Wakabayashi è dall’altra parte della strada e ha corso veloce quanto Tsubasa. La sua fronte è bagnata fradicia e i suoi occhi sono iniettati di sangue.

I loro sguardi si incrociano, Wakabayashi appoggia il pallone per terra e lo calcia forte in sua direzione. Tsubasa lo intercetta, glielo rilancia. Wakabayashi afferra il pallone con entrambe le mani e quando alza la testa non sembra più tanto annoiato. Lo guarda come se Tsubasa fosse quella cosa che mangia le orche assassine.

Ma questo non è vero: orche assassine e delfini giocano sempre insieme.

Tsubasa decide che non si sente più solo.

Davvero.

 

 

 


 

NOTE

 

Non ho mai amato Tsubasa quando ero bambina, ma lentamente ho iniziato a vedere le sue fragilità, specialmente agli inizi in cui è solo il ragazzino strano fissato con il calcio.

Considerata l’età di Tsubasa in questa storia ho cercato di scrivere in modo da renderla nella struttura della frase o nella scelta del lessico. Originalmente questa storia è stata scritta da me in inglese e pubblicata su A03 come parte di una serie LINK

Il rapporto tra Genzo e Tsubasa è quello di due fratelli separati alla nascita (quindi intendete “amore” in questo senso). Sono due psicopatici e ringraziamo Ishizaki per essere una persona normale.

 

PROSSIMO CAPITOLO: MUFFA SUL SOFFITO > POV Ryo Ishizaki.

 

Una recensione anche breve è il carico di endorfine indispensabile alla mia ansia.

 

 

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Capitolo 2
*** Muffa sul soffitto ***


* questa fiction viaggia parallela al canon: ci flirta insieme, ma non se lo sposa

* presenza di narratore inattendibile.


 

 

MUFFA SUL SOFFITTO.

 

 

Ryo Ishizaki è un bambino grande. Non è spaventato e non ha assolutamente fame. Neanche un pochetto.

Chi se ne frega se la sua pancia brontola e sente la testa tutta strana. Mamma questa mattina era troppo impegnata, così gli ha detto di prepararsi da solo il cestino del pranzo e Ishizaki non se ne è assolutamente dimenticato, perché lui è un bambino grande.

Il suo stomaco fa un rumore simile a quello di una gallina strozzata e Ishizaki si guarda attorno e spera che nessuno degli altri bambini l’abbia notato. Non lo hanno fatto, sono tutti troppo occupati a mangiare quello che le loro mamme gli hanno preparato e l’odore è così delizioso che Ishizaki è costretto a scappare.

Cerca un posto appartato nel cortile, si nasconde dietro un albero e lui non avrà fame, ma forse l’erba non ha un sapore così cattivo…

- Che sei? Una pecora?

La voce arriva all’improvviso dall’alto dell’albero e Ishizaki cade a terra di sedere. C’è un bambino tra i rami: è quello con la faccia paffuta che ha iniziato scuola tardi, non ricorda minimamente come si chiami.  

- E tu cosa sei? Una scimmia?

- No, ma tu ci somigli proprio.

Ishizaki afferra il tronco dell’albero con entrambe le mani e scuote forte. Non si muove di un millimetro. Stupido albero. Gli tira un calcio. Ora è il piede a fargli male. Il bambino ride. Stupido bambino-scimmia.

- Ehi, vuoi salire?

- Perché? Mi vuoi gettare di sotto?

Il bambino fa un verso che non è né un sì né un no, indica un ramo vicino e si stringe nelle spalle. Ishizaki lo interpreta come la sfida che chiaramente è. Stupido bambino, si vede proprio che non lo conosce: Ishizaki è un campione ad arrampicarsi sugli alberi. Ci impiega un minuto per prendere posto su un ramo accanto al bambino, non quello che gli ha indicato, nossignore, uno un po’ più in alto, un po’ più sopra di lui.

Ishizaki è molto fiero di sé, la sua pancia non concorda e ora che la distrazione è finita riprende a masticargli le interiora.

- Al volo!

Il bambino gli tira qualcosa in faccia e Ishizaki quasi perde l’equilibrio. Sfortunatamente per il bambino-scimmia, Ishizaki ha dei riflessi SUPER e afferra l’oggetto non identificato prima che lo colpisca. Lo sta per rilanciare quando si accorge che è un panino. Ne mangia metà e poi realizza che forse non dovrebbe accettare regali dalla sua nemesi.

Metà panino è pur sempre una munizione da lancio, ma: uno, ha ancora fame, due il panino è delizioso, tre sua madre gli ha insegnato meglio di così. Quindi, e solo perché sta pensando a sua mamma, dice:

- Grazie.

Il bambino si stringe nelle spalle e torna a guardare verso il centro del cortile, ma dalla sua posizione strategicamente superiore Ishizaki nota che è arrossito. Uh. Forse non è così malaccio.

- Vuoi qualcos’altro da mangiare?

DECISAMENTE non così malaccio! Annuisce e il bambino gli passa un altro panino e, dopo che Ishizaki l’ha praticamente aspirato, una banana.

- NON sono una scimmia io!

- Come vuoi.

Ma anche il bambino ha una banana in mano e Ishizaki decide di sospendere il giudizio sulla qualità dell’insulto. Mangiano in silenzio, il bambino tira fuori un biscotto, lo spezza a metà e glielo offre e ora, con la faccia puntellata di briciole e uno stomaco pienamente soddisfatto, Ishizaki si domanda se non ha finito per mangiare buona parte del pranzo del bambino.

- Grazie.

Dice semplicemente, perché Ishizaki è un bambino grande ed è in grado di riconoscere un gesto virile di solidarietà maschile. Il bambino si stringe ancora nelle spalle, ma non arrossisce più il che è un peccato.

- Io sono Ryo Ishizaki.

- Genzo Wakabayashi.

Ishizaki è un bambino grande, ma non molto ferrato sulle cose del mondo e quel cognome per lui è solo uno dei tanti. Ishizaki non si è fatto molti amici all’asilo e forse non sarebbe male se Wakabayashi diventasse il primo.

- Ehi, vuoi giocare a una cosa?

Wakabayashi pare interessato.

- Dipende.

Scendono dall’albero e Ishizaki corre a recuperare dalla cartella il regalo che gli ha portato lo zio per il suo compleanno. Lo mostra a Wakabayashi che aggrotta le sopracciglia e dice:

- Quella è la palla più brutta che abbia mai visto.

Ishizaki decide di non offendersi perché: uno, ieri ci ha giocato nel fango e si è dimenticato di pulirla (la sua cartella è un macello, speriamo che mamma non se ne accorga), due è chiaro che Wakabayashi dice una cosa e ne intende un’altra perché i suoi occhi stanno tipo brillando e ciò rende la bugia parecchio ovvia.

- Non è brutta! Questo è un pallone da calcio!

Ishizaki è un bambino grande e ciò lo rende così generoso da spiegare all’altro cosa sia il calcio. Wakabayashi ha le sopracciglia così aggrottate che per un attimo teme che gli inghiottano il naso. È abbastanza adorabile in effetti. Ishizaki non ha fratelli, ma deve essere così che si sente un fratello maggiore. Ishizaki pontifica sulla fantasticosità del calcio e Wakabayashi se ne sta zitto ad ascoltarlo in religioso silenzio.

Decidono di provare a giocare. Wakabayashi è una schiappa, ma Ishizaki è un bambino grande, così si limita a sospirare e mostrare di nuovo il trucco che gli ha insegnato lo zio e rimangono a provare fino a quando Wakabayashi non riesce a palleggiare in modo decente.

L’insegnante suona la campanella e li fa rientrare. Sono sudati marci. Wakabayashi si volta e gli sorride. Gli manca uno dei denti davanti e per un attimo è davvero come avere acquisito un fratello minore.

Il giorno dopo Ishizaki riporta il pallone, ma si ricorda di prendere anche il pranzo. Wakabayashi ha portato porzione doppia e così finiscono lo stesso per condividere. La stessa cosa succede il giorno dopo e quello dopo ancora.

A Ishizaki piacciono i cestini del pranzo di Wakabayashi perché c’è sempre un mucchio di carne, ma a volte si sente un po’ a disagio: il massimo che può offrire in cambio sono riso bollito e ravanelli al vapore. Dopo una settimana, la sensazione di fastidio cresce fino ad esplodergli in bocca e Wakabayashi lo guarda come se gli fosse spuntata un’altra testa.

- A me piacciono il riso e i ravanelli al vapore.

La cosa finisce lì. Solo che Ishizaki inizia a stare più attento a quello che prende dal pranzo dell’altro anche se Wakabayashi mette il broncio e gli abbaia dietro di prendere la carne, stupida scimmia.

Wakabayashi diventa ingiustamente bravo a giocare a calcio. Dice che è perché Ishizaki è bravo a spiegare, ma non è vero. La verità è che Wakabayashi è bravo in tutto. Gli insegnanti dicono che è un genio e che è pure qualcosa tipo “bilaterale?”, che significa sapere un’altra lingua che non sia il giapponese. Almeno Wakabayashi è più basso di lui.

- È stupido giocare sempre allo stesso modo.

Il pallone rimbalza sui piedi di Wakabayashi come se avesse un magnete nascosto nelle sue scarpe, il suono gli dà ai nervi.

- Che vuoi dire?

- Nel calcio vince la squadra che segna di più, giusto?- Aspetta fino a quando Wakabayashi non annuisce, non sembra molto convinto. – Quindi dovremmo giocare a chi segna più goal!

- Ma non abbiamo una porta.

- E secondo te quei due alberi che ci stanno a fare?

Wakabayashi lo guarda come se fosse un genio, Ishizaki gonfia il petto e si pavoneggia un pochetto.

Giocano. La distanza tra i due alberi è abbastanza grande che segnare non è difficile, così si allontanano di più e si sfidano a fare cose più difficili come tirare di sinistro o provare a farlo girati di schiena. Sono entrambi molto bravi e giocare insieme è divertente.

È mentre bevono l’aranciata che Wakabayashi ha portato per entrambi che Ishizaki ha una nuova epifania.

- Ci manca un portiere!

- Un cosa?

- Un portiere! – Ishizaki spiega. – Il tipo che sta fermo in mezzo ai pali e prova a bloccare i palloni che i giocatori gli tirano contro.

- Sembra una cosa abbastanza noiosa.

- No che non lo è! È un ruolo tipo importantissimo!

- Bene, allora fallo tu.

- Col cavolo! Io ho già avuto l’idea quindi il portiere lo fai tu.

Wakabayashi sospira, è uno dei suoi sospiri buoni, il che significa che Ishizaki ha vinto. Wakabayashi trascina i piedi fino alla “porta” e prende posizione con aria mesta. Ishizaki recupera il pallone e riprendono a giocare. Wakabayashi non riesce a intercettare un singolo tiro. Fa talmente pena come portiere che Ishizaki si sente un filino in colpo per aver suggerito l’idea.

Giocano così per il resto della settimana, perché Wakabayashi è cocciuto come un mulo ed è incapace di ammettere che ci sia una cosa in cui non sia bravo.

- Ancora!

Wakabayashi gli lancia il pallone. Sono passati solo quindici minuti dall’inizio della ricreazione ed è già coperto di terra, ha persino un paio di foglie incastrate nei capelli visto che continua a cadere di faccia nel prato.

Ishizaki tira, segna. Wakabayashi cade, si alza, prende il pallone e lo rilancia. Di nuovo. È snervante. Wakabayashi dovrebbe rassegnarsi e chiedergli di fare a cambio, ma nooooo, deve essere proprio un idiota testardo su tutti i fronti per essere contento.

Ishizaki ha qualcosa fermo in gola, magari è il pranzo (il suo, non quello di Wakabayashi), il petto è come pesante. Tira il pallone, Wakabayashi lo manca e cade a terra. Si tira su con la faccia tutta sporca e guarda la palla di traverso. Ma perché deve fare così pena a giocare?

Deve dire a Wakabayashi di smetterla e che adesso il portiere lo fa lui, continuare a cadere non è divertente e Ishizaki non ha altra scelta che essere un bambino grande visto che l’altro è un tale asino.

Rimane in silenzio.

Wakabayashi gli lancia il pallone e lui lo calcia. Gli viene tipo da ridere, ma non perché si stia divertendo. È un tipo di risata diverso.

Diverso nel modo in cui il pranzo di Wakabayashi è più ricco e migliore del suo, nel modo in cui i suoi vestiti sono più belli e più caldi, nel modo in cui c’è sempre una macchina che lo porta a scuola mentre a lui tocca il pulmino o andare a piedi, nel modo in cui è sicuro che il pallone da calcio che Wakabayashi ha a casa è più nuovo, pulito e bello di qualunque cosa Ishizaki potrà mai avere.

Quindi non chiede di fare cambio, non ride. Calcia il pallone e sta a guardare Wakabayashi cadere per la milionesima volta sul suo stupido faccione, solo che questa volta l’altro il pallone lo para.

Ovviamente non lo fa come una persona normale: calcola male il salto e il pallone lo colpisce dritto in faccia. Il naso di Wakabayashi inizia a sanguinare e Ishizaki si rifiuta di sentirsi in colpa. Certo che quest’ultimo pallone lo ha calciato davvero forte…

- Parato!

Wakabayashi sorride e insiste per continuare a giocare, ma l’insegnante gli becca mentre stanno andando ai bagni, vede la sua faccia e inizia a strillare. Adesso giocare a calcio in cortile è vietato. Wakabayashi si imbroncia e insiste che sia un’ingiustizia, ma Ishizaki è stranamente grato per l’intervento divino.

Non sa bene quando sia successo, ma giocare a calcio con Wakabayashi ha smesso di essere divertente.

Certo, sono ancora amici, o meglio, è quello che dicono tutti i loro compagni e quindi provano a fare altri giochi all’aperto, niente è come il calcio così si mettono a giocare a carte e ai videogiochi, ma pure quelli diventano noiosi. Ishizaki si è fatto dei nuovi amici e visto che stare insieme a Wakabayashi è abbastanza una palla, inizia ad evitare l’altro bambino del tutto.

Non è che lo stia lasciando proprio, proprio da solo: c’è questa bambina ultimamente che trascina Wakabayashi per un braccio e lo costringe a stare insieme al suo gruppo di invasati durante la ricreazione. Poi spunta pure un tipo dai denti strani e uno dai capelli anche peggio che si attaccano addosso a Wakabayashi tipo zecche. Ishizaki non è per niente geloso di essere stato sostituito. Solo che lui le cose le nota.

Poi un giorno Wakabayashi si piazza sulla sedia accanto alla sua ed attacca a parlare come se non fosse passato tipo un mese.

- Ce l’ho.

- Ho cosa?

Gli occhi di Wakabayashi brillano quando parla, gli sono mancati. I suoi nuovi amici sono divertenti, ma non c’è nessuno esattamente come Wakabayashi.

- Il tempismo giusto. Per fare il portiere devi essere in grado di prevedere i movimenti dell’avversario e poi devi cogliere il momento esatto per essere più veloce, più forte, più preparato. Ce l’ho.

Ora Ishizaki è davvero interessato. Il calcio gli piace ancora da matti e ci gioca sempre a casa quando mamma non c’è per urlargli di non portare il pallone in casa. È orribile che a nessun altro bambino della sua età interessi. Tranne a Wakabayashi. Wakabayashi è l’eccezione a tante cose.

- Non ti credo. – Mente al bambino. – Scommetto che cadi ancora di faccia ogni volta.

- NON È VERO!

- Provalo.

Wakabayashi non cade di faccia, né para qualcosa quel giorno: l’insegnante li becca, pallone in mano, mentre tentano la sortita e li mette in punizione.

- Ehi, vuoi venire a casa mia domani dopo la scuola?

Ishizaki deve dire di no. Sarebbe la cosa giusta da fare.

Però non dice niente e improvvisamente è il giorno dopo e Wakabayashi è convintissimo che passeranno il pomeriggio insieme a giocare. Avrebbe dovuto dire di no subito. Potrebbe farlo ora, ma mamma ha detto che ci sono le vasche da pulire a casa e Ishizaki non vuole fare nemmeno quello. Il prodotto che usa mamma puzza da maledetti e gli lascia sempre le mani che bruciano.

Quando Wakabayashi chiede se è tutto confermato per il pomeriggio, si limita ad annuire. Avrebbe dovuto pulire le vasche.

Ishizaki non invita mai amici a casa, è troppo cosciente del numero delle piastrelle rotte e del calore soffocante delle vasche che sfugge e prende possesso del microscopico spazio abitabile al secondo piano. Non gli piace l’idea che i suoi amici vedano quanto piccola sia la sua camera o la macchia di muffa che si allarga all’angolo sinistro del soffitto. Fuori dalla sua portata.

Ishizaki sa che la casa di Wakabayashi è diversa dalla sua.

Calcola male il quanto.

C’è una macchina che li aspetta fuori da scuola: è nera, grande, costosa ed è quella da cui scende Wakabayashi ogni mattina. Suo padre deve lavorare per una di quelle grosse compagnie che a mamma piacciono tanto anche se ripete che lui, Ishizaki, non avrà alcuna possibilità di trovarvi impiego da grande. Non è il padre di Wakabayashi l’uomo alla guida, ma un tipo alto, vestito in uniforme che dice:

- Salve signorino, mi auguro che la sua giornata sia andata nel migliore dei modi.

Ishizaki non ha mai sentito un adulto rivolgersi a un bambino in modo tanto formale, il suo stomaco si stringe e inizia fargli male.

Quando raggiungono la loro destinazione, Ishizaki capisce di sapere già quale sarà la casa di Wakabayashi: l’ha vista infinite volte da sopra la collina. Un giorno aveva anche chiesto a mamma se quello fosse un castello e se dentro ci vivesse una principessa. Mamma aveva brontolato che c’era andato abbastanza vicino.

Wakabayashi lo trascina per un braccio, una signora anziana vestita come le cameriere delle serie televisive, chiede se il “signorino” ha finalmente deciso di invitare un amico a casa. Wakabayashi annuisce con entusiasmo e non sembra per niente il tipo scorbutico che è a scuola.

Si siedono in una specie di veranda e la signora gli porta qualcosa da bere che Ishizaki fatica a mandare giù. Wakabayashi sta parlando, ma le parole arrivano come da molto, molto lontano. È tutto così grande in questa casa, come se fosse progettato per rimanere sempre fuori dalla sua portata.

- Ti va di giocare?

Le mani di Wakabayashi sono sudate, Ishizaki non lo aveva notato. Fa cenno di sì e Wakabayashi esita un attimo prima di sorridergli. È infuriante.

Tornano in quel giardino assurdamente gigante. Ishizaki non ce l’ha il cortile, che è una cosa stupida da non avere quando uno vive in una città come Nankatsu che è tipo il nulla avvolto da centinaia e centinaia di ettari di risaie. Il giardino di Wakabayashi è stupido come le piante che qualche idiota ha pensato di tagliare come fossero degli animali: i cigni non sono neanche fatti così.

Wakabayashi fa segno di seguirlo, probabilmente gli sta facendo fare il giro della casa per darsi delle arie, ma con lui certe cose non attaccano.  

Si fermano. C’è una vera porta da calcio in giardino. Ishizaki la fissa: è bianca come quelle delle riviste e brilla così tanto da bruciare.

- Ti piace?

Più tardi Ishizaki giurerà che Wakabayashi stava cercando di sfotterlo. Lo poteva leggere dalla voce che quasi gli tremava e nel modo in cui i suoi occhi avevano brillato un attimo prima di iniziare a parlare.

Ancora più tardi, Ishizaki giurerà di non ricordare niente di quel giorno.

Circa dieci anni dopo, quando lui e Wakabayashi avranno siglato una sorta di tregua, Ishizaki si limiterà ad ammettere che entrambi erano stati una coppia di stronzetti a quell’età.

Quello che effettivamente succede è questo: Ishizaki si gira e tira un cazzotto in faccia a Wakabayashi.

Il bambino è così sorpreso che per un attimo Ishizaki pensa di doversi scusare. Poi la faccia dell’altro si trasforma in qualcosa di orrendo e cattivo e Wakabayashi gli rifila un sinistro micidiale nello stomaco. A quel punto è guerra.

È il giardiniere a separarli alla fine.

Ishizaki ha un labbro rotto, un occhio nero e sta gridando qualcosa di orribile, che giurerà di non ricordare.

Quello che succede è che i genitori di Wakabayashi lo tolgono da scuola.

E non è come se Ishizaki avesse aspettato quella stupida macchina nera ogni giorno per una settimana di fila davanti ai cancelli. È chiaro che lo stronzo adesso reputa le scuole pubbliche troppo al di sotto del suo livello. Tipico. Lo riferisce a mamma che per una volta gli dà ragione, lo abbraccia pure il che è strano.

- Quelle persone sono differenti da noi. Non ci si può mischiare.

Ishizaki non pensa più a Wakabayashi. Ha da passare i test d’ingresso per la scuola pubblica di Nankatsu e non ha proprio tempo per altro. E poi lui e Wakabayashi non frequenteranno più nemmeno la stessa scuola. Il fetente andrà alla Shutetsu. Non che Ishizaki abbia chiesto in giro.

Un giorno mamma lo informa che dei tipi assunti dal sindaco stanno pulendo l’acquitrino vicino alla casa del macellaio e ci costruiranno un campetto “per quello sport che gli piace tanto”.

- Quei Wakabayashi si comportano come se la città fosse di loro proprietà.

Il campetto è bellino, non c’è spazio per gli spettatori e il terreno è un po’ sconnesso, ma ci sono due porte vere e sembra proprio uno di quelli dei racconti di suo zio. Il sindaco fa un discorso quando lo aprono al pubblico, ma dopo l’interesse iniziale nessuno ci gioca davvero. Tranne Ishizaki.

Tranne Ishizaki e i bambini della scuola pubblica che è riuscito a trascinare con il ricatto a giocare con lui.

Sa perfettamente che i Wakabayashi hanno costruito un altro campo da calcio in città, uno più bello con le gradinate per il pubblico e gli spogliatoi per i giocatori. L’ha letto sul giornale. Si trova dentro al campus dell’istituto privato Shutetsu. Apparentemente un anonimo donatore lo ha regalato alla scuola con la condizione che fossero formalmente istituiti dei club calcistici.

A volte gli capita di vedere Wakabayashi di sfuggita. La città non è grande.

È cresciuto e ora ci sono sempre un sacco di bambini che gli girano attorno, sembrano un branco di iene. È abbastanza ingiusto che Wakabayashi sia più alto di lui adesso, ma se si sente sollevato di non vederlo più da solo, Ishizaki non lo dice.

La squadra di calcio delle elementari Shutetsu inizia a vincere un sacco di partite in giro per la prefettura. Ci sono degli articoli sui giornali locali. Alla fine la Shutetsu si qualifica per il campionato regionale. Wakabayashi è il suo capitano.

Ovviamente.

Ishizaki va a vederli giocare. Non per fare il tifo, nossignore, ma per ridere della leggendaria mancanza di coordinazione di Wakabayashi. Forse quando cadrà di faccia inizierà a piangere. Oh, sarebbe terribilmente imbarazzante e probabilmente i suoi nuovi amichetti non vorranno più avere niente a che fare con lui. Ishizaki ci deve essere. Per più di una ragione.

È strano che lo sorprenda che Wakabayashi non faccia pena.

Wakabayashi è brillante.

Para ogni tiro, abbaia ordini a tutto volume ai i suoi compagni che gli obbediscono alla lettera. La Shutetsu è una macchina da guerra terrificante e fantastica. Un bambino dai capelli ricci segna con una finta che Ishizaki ha provato migliaia di volte senza riuscire. Un altro con dei denti piuttosto notevoli (dove l’ha già visto?), evade gli altri giocatori come birilli.

Sono presuntuosi e si lasciano aperti al contropiede, attaccano come se la difesa fosse una preoccupazione secondaria e il perché è piuttosto chiaro. Ci sono sempre un paio di ragazzi posizionati in area, uno è un dannato gigante che blocca qualsiasi avversario sia abbastanza sfortunato da capitargli a tiro. Ma la vera ragione per cui nessuno pare in grado di segnare è il portiere.  

Wakabayashi è come un muro.

Qualsiasi tentativo contro la sua porta è fermato con militare efficienza. Wakabayashi è dappertutto. Para, urla qualcosa e poi spedisce un pallone dritto sui piedi di un giocatore dai capelli lunghi, come se ci fosse un filo invisibile a guidarne la traiettoria.

Il team avversario viene annientato nel primo tempo.

Il secondo tempo è una formalità più che altro, i giocatori della Shutetsu si passano il pallone tra loro e aspettano lo scadere del tempo. Al fischio dell’arbitro i capitani delle due squadre si stringono la mano. Un trofeo viene portato in campo e Wakabayashi lo solleva alto tra le grida di gioia dei suoi compagni.

Mentre celebrano gli occhi di Wakabayashi si piantano sulle tribune, cerca qualcosa e la sua faccia è di nuovo quella del bambino un po’ impacciato che offre il pranzo a uno sconosciuto per farselo amico. I loro sguardi si incrociano. Wakabayashi si blocca, schiena dritta e sopracciglia sollevate. Poi la sua bocca si allarga in un ghigno e gli fa l’occhiolino e, oh, Ishizaki lo odia proprio.

La Shutetsu non vince solo i Regionali: vince i Nazionali. E poi lo fa di nuovo l’anno successivo.

E ancora, ma quest’anno a Wakabayashi non bastava il titolo e il signorino decide di settare un nuovo record per se stesso: in tutto il torneo nessuno riesce a segnare un goal contro di lui.

A volte la Shutetsu si allena nel campetto pubblico dietro la casa del macellaio. Indossano le loro stupide divise bianche e rosa che li fanno sembrare proprio un bel gruppo di sfigati mentre corrono e fanno esercizio. Il loro coach è un tipo assurdo che pare uscito da un film di Hollywood sulle spie perché veste di nero, indossa occhiali da sole e fuma tutto il tempo. Wakabayashi lo tratta come se fosse la seconda venuta di Cristo.

Lo riferisce a mamma mentre scrostano con le spazzole lo sporco più ostico da una delle vasche grandi.

- Si chiama Mikami. – Dice mamma, i gomiti che affondando nello sporco. - È uno di fuori che i Wakabayashi si sono portati in casa. Era un giocatore di calcio professionista una volta o qualcosa di simile.

Ishizaki non impiega molto a notare che questo Mikami non è il coach della squadra (ne hanno un altro), ma quello personale di Wakabayashi. Arrivano insieme e se ne vanno sulla stessa macchina. Sicuro, dispensa istruzioni ad ogni bambino, ma presta un’attenzione tutta particolare agli errori di Wakabayashi e dice sempre qualcosa come “questo lo riproviamo a casa”.

I genitori di Wakabayashi gli hanno pure comprato l’allenatore personale! Come tutto il resto. Non sa nemmeno perché la cosa lo sorprenda.

Ishizaki non è particolarmente atletico: è bassino e confonde ancora la destra dalla sinistra. È sicuro che se i suoi genitori gli avessero comprato un allenatore, un campo da calcio e delle uniformi da fighetta, Ishizaki sarebbe stato un giocatore bravo uguale, forse meglio.

Dopotutto è stato lui a insegnare il calcio a Wakabayashi. E il calcio era una cosa sua! Come diavolo ha osato, Genzo Wakabayashi, un bambino che ha tutto, a rubarglielo! E come ha osato diventare pure tanto bravo che Ishizaki non può più puntargli il dito contro e mettersi a ridere.

Non è giusto.

Se potessero scambiarsi di posto, anche solo per un momento: Ishizaki sarebbe davvero un giocatore migliore? Il pensiero lo tiene sveglio la notte.

Così un giorno, corre giù dalla collina e affronta Wakabayashi mentre si sta allenando con la sua squadra. Non lo fa da solo, dietro di lui ci sono i suoi amici, i suoi veri amici, la squadra che ha messo insieme con le sue sole forze.

Ishizaki marcia dritto da Wakabayashi e, sì dannazione, quell’insopportabile bolla antipatica è davvero più grande di lui ora, maledizione. Wakabayashi ha quella stupida espressione in faccia, quella in cui le sue sopracciglia stanno così aggrottate da sembrare toccargli il naso (sia messo agli atti che mai, Ishizaki, in vita sua abbia pensato che fosse adorabile). Apre la bocca, Ishizaki lo anticipa.

- Questo non è il tuo campetto. Tornatene a quello da fighette della vostra scuola. Questo è nostro.

Wakabayashi sbatte le palpebre, pare confuso e, ah, Ishizaki sente qualcosa di dolce scivolargli in bocca.

- No, non lo è. Questo campo è pubblico: lo possono usare tutti.

E ammettilo una buona volta che la tua famiglia l’ha comprato come tutto il resto.

- Beh, sei d’intralcio al NOSTRO allenamento. E dato che la MIA squadra ha diritto di anzianità sulla tua, ti suggerisco di levare le tende e non farti più rivedere.

Wakabayashi appare interdetto. Il sapore è ancora più dolce e Ishizaki si sente in cima al mondo.

- No.

Questa volta è il suo turno per essere perplesso. Il volto di Wakabayashi è placido e rilassato come se avesse finito di calcolare un infinito numero di variabili in quel suo testone e ogni operazione avesse portato allo stesso risultato.

- No? – Chiede Ishizaki.

- No. Abbiamo usato questo campetto ogni settimana allo stesso orario per più di due mesi. Se aveste avuto necessità di usarlo lo avremmo saputo.

Beh.

- Non ne abbiamo avuto bisogno PRIMA, ma ne abbiamo ORA. Quindi, sciò, via, disperdetevi o qualsiasi sia il termine che piace usare alla gente ricca.

È la cosa sbagliata da dire.

Wakabayashi respira così forte che gli si dilatano le narici, alcuni dei suoi compagni hanno smesso di giocare e hanno iniziato a convergere verso di loro mormorando tra sé. La loro presenza aziona come un bottone nel cervello di Wakabayashi che, contrariamente alla sue aspettative, abbassa i pugni e non gli tira un cazzotto in faccia. Oh, adesso capisce: sta ancora giocando a fare il capitano. A Wakabayashi e alla sua famiglia piace tanto pretendere di essere migliori degli altri.

- No. Puoi usare questo campetto quando non ci siamo. Non m’importa. Ma questo è il nostro orario. Se c’è qualcuno a doversene andare quelli siete voi.

Questo è assolutamente inaccettabile e Ishizaki non arretra di un millimetro, anche lui può essere cocciuto come un asino se vuole.

- E cosa succede se non ce ne andiamo?

- Allora la decidiamo qui, una volta per tutte.

Ah, questo è il momento di fare a pugni, Ishizaki è pronto, lo può battere. Sicuro, Wakabayashi sarà pure più alto e grosso ora, ma si ricorda ancora dell’occhio nero che gli ha fatto quella volta. Il ricordo è improvviso e lo rende triste e la cosa gli dà ai matti. Wakabayashi apre la bocca:

- Con una partita.

Con una COSA?

Wakabayashi sorride e Ishizaki realizza di aver detto l’ultima cosa ad alta voce. Cerca di non arrossire.

- Una partita. – Continua Wakabayashi. – La tua squadra contro la mia: il vincitore decide dove e quando poter giocare e il perdente rinuncia ad alcun diritto su questo campetto, reale o immaginario. Ci stai?

Wakabayashi potrà anche non aver aggiunto “o sei tanto vigliacco da scappare con la coda tra le gambe piuttosto che affrontarmi?”, ma Ishizaki lo sente lo stesso. Accetta la sfida. La squadra di Ishizaki perde.

Ma perde proprio, proprio male. Così male che i giocatori della Shutetsu si mettono a ridere più o meno a metà del primo tempo e non smettono fino alla fine della partita. Wakabayashi non ride.

Wakabayashi lo sta guardando come se fosse la merda sotto le sue preziose scarpette firmate, come un insetto che ha determinato troppo patetico per essere schiacciato. Ishizaki lo odia e spera che il suo odio un giorno lo bruci e gli sciolga gli occhi.

- Prendi la tua squadra di perdenti e vattene.

Ishizaki esegue.

Ma ritorna.

Lo sfida ancora e ancora, fino a quando persino i compagni di squadra di Wakabayashi non lo trovano più così divertente e si fanno cattivi. Quelli di Ishizaki hanno da tempo abbandonato ogni speranza di risolvere la cosa in modo ragionevole e smettono di presentarsi dopo la quinta partita. Qualcuno non viene più nemmeno agli allenamenti.

- Pensavo che il calcio sarebbe stato divertente. – Dice uno di loro, Ishizaki non riesce a dargli torto.

In un raro momento d’introspezione personale Ishizaki si domanda se sia successo per colpa sua.

È strano, ma ad un certo punto tra la quarta e la quinta partita, Ishizaki ha realizzato di non odiare Genzo Wakabayashi. L’ha visto faticare e (essendosi trasformato in una sorta di stalker durante la loro inimicizia) sa più di chiunque quanto duramente si alleni, quanto lavoro metta in ogni cosa che faccia. Sa che Wakabayashi, esattamente come lui, deve sudare e sanguinare per ogni stramaledetta goccia di talento che la natura ha pensato di elargirgli.

Ishizaki inizia a considerare, nella privacy della sua testa, che se gli fossero state presentate le stesse opportunità che un capriccio della fortuna ha offerto a Wakabayashi, non sarebbe diventato un giocatore di calcio in gamba quanto il portiere. Certo, ama il calcio, ma Wakabayashi LO AMA.

Lo ama con una forza così intensa da essere preoccupante. Tossica. Ishizaki non desidera arrivare ad amare qualcosa così tanto da lasciarsene distruggere.

E non è giusto! Perché ora Wakabayashi lo odia e Ishizaki non può certo presentarsi a casa sua come se niente fosse e chiedere:

- Ehi, vuoi giocare?

Sono nemici!

Alla fine Ishizaki si stanca di chiedere ai suoi compagni di squadra di unirsi alla sua campagna: “rimettiamo Wakabayashi al suo posto”. Sono inamovibili da quando hanno perso contro la Shutetsu cinquanta a zero.

A dirla tutta pure lui è stanco di costringerli a partite a senso unico, quindi cambia strategia e inizia a lamentarsi molto pubblicamente e molto rumorosamente di come “quei fighetti della Shutetsu utilizzino il loro status per opprimere il suo team”. Lo fa anche in occasione dell’incontro mensile dei club sportivi della scuola Nankatsu. La saletta del meeting è piena zeppa di ragazzi più vecchi di lui, alcuni sono delle medie, la maggior parte vengono dal liceo. Lo ascoltano e poi il capitano del team di rugby chiede:

- Quindi, fammi capire bene. C’è questo ragazzino ricco che vi ha rubato il campo dove andate ad allenarvi, solo perché viene da quella scuola privata e pensa di farla franca?

Sì. Si, è andata esattamente così.

Sicuro.

Corretto.

Succede qualcosa di inaspettato, il capitano della squadra di rugby dice qualcosa ai ragazzi del tennis e poi il capitano del baseball si intromette nella discussione. Alla fine annuiscono con un’espressione severa e si voltano a fissarlo.

- Ascolta, piccolo. Dicci il giorno e l’ora e veniamo ad aiutarti a sistemare questa cosa. Ok?

Ishizaki annuisce.

Cammina sulle nuvole quando si presenta due giorni dopo a interrompere gli allenamenti della Shutetsu. Questa volta, però, invece del suo solito team di perdenti ha con sé i ragazzi grandi e questo significa che è chiaramente nel giusto. Ovviamente non sono qui per fare del male a nessuno, tranne magari all’ego di un certo qualcuno.

Wakabayashi accetta la sfida.

Lo fa sempre, ogni dannata volta. Non importa se i termini a questo giro siano chiaramente a suo sfavore. Persino Ishizaki ammette (privatamente) che siano un filino ingiusti.

Non lo dice, ha bisogno di vincere o sarà per sempre condannato a essere un perdente nel diario di Wakabayashi, una nota a margine. Ha insegnato lui il calcio a quella carogna! Si merita almeno di avercelo come amico.

Wakabayashi vince la sfida.

Non solo vince, ma vince in modo così assurdamente sfacciato che ora ci cono un paio di ragazzi delle scuole medie completamente terrorizzati da lui.

Le cose non dovevano andare così.

Wakabayashi lo congeda con un gesto della mano, dice di essere stanco e di avere ancora un sacco da fare a casa. Lascia il campetto e i suoi compagni di squadra lo seguono come pulcini dietro a mamma oca.

Non doveva andare così.

È a quel punto che spunta il bambino nuovo.

Incontrare Tsubasa è simile all’essere travolti da un tornado. Non sa bene come sia successo, ma si stanno inerpicando sulla collina. Ishizaki non fa tempo a riprendere fiato che quel pazzo lancia (tecnicamente: scrive un messaggio su un pallone e lo calcia fortissimo contro la casa di Wakabayashi) la sua sfida al portiere.

Corrono giù, incontrano Wakabayashi che accetta, solo che ha un’aria strana, come se non fosse del tutto presente. Come se fosse spaventato.

La sfida procede nel modo stabilito, Tsubasa taglia i difensori riservisti della Shutetsu come burro e quando si trova a tu per tu con il portiere sgancia un bolide imprendibile che Wakabayashi respinge di pugno.

Le cose diventano davvero strane quando un tipo mezzo ubriaco decide di intervenire in modo irregolare da fuori campo con un assist che permette a Tsubasa di segnare, mentre Wakabayashi sbatte contro il palo di faccia. Per un attimo nel campetto scende un silenzio assoluto, Ishizaki guarda la macchia di sangue che si allarga sulla faccia di Genzo, Tsubasa pigola delle scuse. Un secondo dopo Wakabayashi è in piedi e una faccia coperta di sangue non gli impedisce di afferrare il nuovo arrivato per il bavero della camicia, sollevarlo a cinque centimetri dal suolo e scuoterlo come una maracas.

E lanciare la sua di sfida.

Ovviamente.

Mikami prende il suo protetto per un braccio e lo costringe a farsi vedere il brutto taglio sulla fronte.

Ishizaki raggiunge Tsubasa che osserva il portiere allontanarsi con un’espressione indecifrabile.

- Temevo ti picchiasse.

- Anche io.

Ma il bambino non pare spaventato dall’idea. Anzi. Sembra completamente affascinato mentre liscia le pieghe che Wakabayashi gli ha lasciato sulla maglietta.

Ishizaki capisce una cosa con assoluta certezza: Wakabayashi e Tsubasa sono due assoluti psicopatici.

Ma Ishizaki non ha problemi con la follia e questa volta, forse, se la gioca bene potrebbe anche finire per guadagnarci un amico invece che una nemesi. Questa volta farà le cose nel modo giusto.

- Ehi, senti, come hai detto di chiamarti?

- Oh. Oh! Sono Tsubasa Ozora.

- Ciao Tsubasa. Ehi, vuoi unirti alla mia squadra di calcio? Facciamo abbastanza schifo e un aiuto ci farebbe davvero comodo.

 

 


 

NOTES

 

Ho sempre trovato Ishizaki un personaggio affascinante, così come il suo rapporto con Wakabayashi.

Fin dai primi capitoli del manga è chiaro che si conoscano da molto tempo, una tale animosità è spesso giustificata da un’amicizia finita male: Ishizaki dimostra più volte (sia nel Rising Sun sia quando sono bambini) di saper leggere Wakabayashi meglio degli altri senza farsi ingannare dal suo atteggiamento da “duro”. L’atteggiamento infastidito di Ishizaki quando mostra a Tsubasa la casa di Genzo, mi ha portato a estrapolare che le diverse condizioni sociali siano state un fattore importante.

In qualche modo l’amicizia con Tsubasa ha messo la proverbiale pezza.

 

Nota1: quando Wakabayashi guarda la folla dopo la vittoria, sta cercando i suoi genitori. Non ci sono, ovviamente. Lo amano immensamente, ma sono persone molto occupate: gli hanno comprato un coach per questo genere di cose.

Nota2: la versione originale scritta da me in inglese è disponibile qui

 

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Una recensione è la carica di endorfina necessaria al mio cervello visto che fatica a produrla.

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Capitolo 3
*** Pressione sarà applicata dove necessario ***


*questa fiction viaggia parallela al canon (aka: rielaborazione e non fedeltà assoluta).

* un certo (alto) grado di libertà nel gestire la storia del casato Wakabayashi.

 


 

 

PRESSIONE SARÁ APPLICATA DOVE NECESSARIO.

 

 

I Wakabayashi sono un antico casato nobiliare.

Saliti al potere durante lo shogunato Tokugawa, si stabiliscono nella prefettura di Shizuoka, trasformando il piccolo insediamento nei pressi del Monte Fuji nell’attuale città di Nankatsu. I Wakabayashi si arricchiscono durante il caos dell’era Sengoku, ma prosperano durante il periodo Edo. Quando la spedizione dell’ammiraglio Perry nel 1853 costringe il Giappone ad abbandonare una politica isolazionista, i Wakabayashi si adattano in fretta adottando, almeno in apparenza, uno stile di vita filo-occidentale.

Nei dieci anni che seguono i Wakabayashi rimangono rilevanti attirando investimenti governativi per le loro nascenti imprese. Si pensa che la decisione di Hiroto Wakabayashi, nel 1864, di costruire una nuova villa a Nankatsu seguendo gli stili architettonici europei, sia stato un tentativo da parte del casato di immortalare le proprie ricchezze e impressionare gli investitori stranieri. Un tentativo goffo. La villa non fu terminata e i Wakabayashi si trasferirono nella capitale con l’intenzione di rimanerci.

Primo settembre 1923: un grande terremoto squassa il Kanto causando migliaia di morti e devastando Tokyo. I Wakabayashi ritornano a Nankatsu. La villa viene ultimata in sei mesi.

La villa subisce diversi rinnovamenti nel corso degli anni come i giardini che abbandonano lo stile francese per abbracciare quello italiano nel 1950, la casa del custode che nel 1964 viene abbattuta e completamente riedificata e il secondo piano dell’ala centrale nel 1985 restaurato per adattarsi alle nuove norme energetiche. 

Durante gli anni Sessanta i Wakabayashi iniziano ad interessarsi alla produzione di microprocessori elettronici arrivando a detenere una cospicua quota azionistica nella maggior parte delle industrie del settore e un posto a sedere in ogni consiglio di amministrazione. Sopravvissuti alla bolla speculativa degli anni Novanta, sono ad oggi uno dei nomi di riferimento dell’industria giapponese.

Genzo Wakabayashi nasce il sette dicembre di quello che sarebbe stato ricordato come il giorno più freddo dell’anno.

Sua madre, Shoko Wakabayashi, ha quarantasette anni, tre figli adulti e non aveva pianificato una nuova gravidanza. I medici rassicurano lei e il marito: Shoko è in perfetta salute, il bambino è sano e l’età non sarà un problema. I pareri negativi vengono ascoltati e ignorati: Shoko vuole questo bambino, quindi il bambino ci sarà.

La gravidanza procede senza particolari intoppi e Shoko la trascorre come le precedenti: lavorando. Finalizza un accordo con i partner europei dell’azienda, va a Milano per la settimana della moda, presenzia all’inaugurazione per un centro per la gioventù ad Hokkaido e si reca a Tokyo per supervisionare la gestione della filiale.

Ritorna alla vecchia residenza di famiglia solo quando il bambino sta per nascere. Il più giovane tra i suoi figli, Akito, insiste perché rimanga con lui a Tokyo, ma Shoko è irremovibile: da sette generazioni i Wakabayashi sono nati a Nankatsu, questo qui non sarà diverso. Fortunatamente la salute della donna è pari alla sua testardaggine e Genzo viene al mondo perfettamente sano.

Il giorno seguente, Shoko tiene dal suo letto i colloqui per la posizione di balia vagliando le candidate selezionate dalla sua segretaria, Hanako Morino. Si ricorda di telefonare al marito quattro ore dopo, per informarlo della nascita e avere aggiornamenti sull’accordo che sta siglando a New York in compagnia del figlio maggiore.

Shoko decide di concedersi una settimana di libertà: gli anni iniziano a pesare e Genzo sarà probabilmente l’unico bambino che potrà stringere tra le braccia per molto, molto tempo. Spera ancora nei nipoti, ma i suoi figli sono dei terribili scapestrati, forse con questo sarà diverso.

Ha scelto lei il nome Genzo, così come ha fatto per gli altri figli. Ichiro ha da poco iniziato ad affiancare il padre nei viaggi di lavoro: educato, preciso e carismatico, promette di essere un capo-famiglia migliore di chi lo ha preceduto. Taro, secondo per una manciata di minuti, ha finito l’università di legge e ha iniziato l’apprendistato per un importante studio estero. Akito, il più piccolo del trio originale, ha passato il test d’ingresso per Medicina all’università di Tokyo e inizierà a frequentare i corsi in primavera.

Genzo è così piccolo tra le sue braccia che non può che preoccuparsi. Ultima di cinque figli, Shoko sa perfettamente quanta forza richieda emergere in un simile ambiente. Si domanda quali errori farà con questo piccolino, ma non permette al dubbio di sopraffarla: Genzo è un Wakabayashi e i Wakabayashi sono destinati alla grandezza.

 

Genzo non ha molte occasioni per stare con la famiglia negli anni successivi. Akito torna spesso a Nankatsu durante le vacanze, ma Genzo è troppo piccolo per apprezzarne la compagnia o per ricordarsene. Quando Akito trova lavoro in un ospedale vicino Hokkaido le sue visite terminano, lo chiama una volta alla settimana, però, e la sua voce al telefono è calda e gentile.

Madre e Padre sono un enigma. Costantemente assenti, la loro opprimente presenza è sparpagliata nei costosi regali spediti dall’estero e nelle telefonate giornaliere dei loro segretari a cui è vietato sottrarsi. Genzo preferisce quando Asano, la più vecchia e simpatica delle cameriere, risponde al suo posto, anche se poi lo sgrida sempre.

- Signorino Wakabayashi, dovrebbe dimostrare un poco più di gratitudine nei confronti dei suoi genitori!

Sa di avere altri due fratelli e che uno di loro vive in Inghilterra, ma non li sente mai. Qualche volta arriva per posta una lettera che annuncia un matrimonio imminente, ma si rivela sempre un falso allarme, specialmente nel caso di Taro.

La famiglia Wakabayashi si trova al completo (per due intere settimane!) solo in occasione dei festeggiamenti per l’Anno Nuovo. I suoi componenti arrivano alla spicciolata e ripartono nello stesso momento, tranne Genzo che è costretto a restare. Capodanno è divertente e approfittano per festeggiare i compleanni di Genzo e Ichiro, essendo nati rispettivamente il sette dicembre e il quattro gennaio. Durante le vacanze parlare d’affari è vietato e i Wakabayashi sfruttano la pausa per ricaricarsi in preparazione alle sfide dell’anno successivo.

A Genzo non è permesso lasciare la villa. Quando compie cinque anni suo Padre inizia a preoccuparsi: sarà in grado di socializzare coi suoi coetanei una volta cresciuto? Genzo non vede dove sia il problema: socializza già un sacco col personale. Padre trova che questo sia anche peggio: Genzo si esprime in modo troppo formale per un bambino della sua età e manca completamente di prospettiva su come funzioni il Mondo.

Madre propone di assumere un compagno di giochi. La sua proposta viene scartata.

All’arrivo della primavera Genzo è iscritto all’asilo pubblico di Nankatsu. Un’esperienza umiliante per tutte le parti coinvolte.

 

I bambini toccano tutto, TUTTO! Parlano a vanvera, corrono, si sporcano e gli adulti GLIELO LASCIANO FARE! Genzo è abituato a urlare (è l’unico mezzo per farsi sentire), ma non ad essere rumoroso, così quando mette in atto i suoi propositi di fuga nessun insegnante viene a controllare. C’è un posto in cortile incorniciato tra due alberi: è appartato, tranquillo e viene prontamente ribattezzato suo rifugio personale dal mondo esterno.

Genzo è bravissimo ad arrampicarsi sugli alberi. Toya, il giardiniere capo della villa, è gentile e non lo sgrida come fanno gli altri quando salta nelle pozze o corre con le tasche piene di vermi. È bello stare fuori dalla Casa. È piacevole persino stare nel cortile dell’asilo, anche se le risate che echeggiano tutto attorno sfiorano un tasto fastidioso all’altezza del suo stomaco.

Un giorno un bambino decide di fare irruzione nel suo angolo di paradiso personale. Non si accorge di Genzo (probabilmente perché al momento è seduto sui rami di un albero). È uno di quelli della sua classe, non ci ha mai parlato, ma se lo ricorda perché ha sempre le ginocchia sbucciate. La pancia del bambino brontola, Genzo lo vede sedersi e passare una mano tra gli steli della gramigna che cresce a ciuffi attorno alle radici dell’albero. Ha un’aria decisamente troppo assorta e l’erba ha un sapore davvero schifoso (un misto di cenere, lurido e terra), così Genzo dice ad alta voce:

- Che sei? Una pecora?

Il bambino si chiama Ryo Ishizaki e assomiglia più a una scimmia che a una pecora. Ryo è più grande di lui, ma Genzo ha imparato che quando sei nato a dicembre sei destinato ad essere circondato da bambini formalmente della tua età, ma più vecchi. Ryo è rumoroso, fastidioso e non mangia mai abbastanza, così Genzo gli appioppa buona parte del suo pranzo e chiede ad Asano di preparare porzioni più abbondanti.

- Beh, sei in fase di crescita, dopotutto.

La cosa davvero straordinaria è che Ryo conosce UN SACCO DI COSE! Non come i suoi tutori a Casa (Madre insiste che sapere l’inglese e il mandarino sono requisiti minimi per un Wakabayashi), ma nel modo che è davvero importante come quando Toya gli ha spiegato che calpestare le formiche è sbagliato perché anche gli insetti hanno dei sentimenti, o quando Asano gli ha insegnato a fare il doppio nodo alle scarpe perché non si slaccino. Ryo sa come nascondere i pastelli dagli insegnanti in modo da averli a disposizione durante la ricreazione e come sembrare più grande così che tutti ti prestino attenzione. In sintesi: Ryo Ishizaki è un sacco figo e Genzo è felice che abbia deciso di essere suo amico.

Tra le cose che Ryo conosce c’è anche uno sport chiamato calcio.

Genzo non ne ha mai sentito parlare, ma Ryo insiste col dire che sia popolarissimo e tipo lo sport PIU’ IMPORTANTE DEL MONDO! Al suo nuovo amico piace molto esagerare.

Provano a giocarci ed è divertente. Ryo gli spiega come far rimbalzare la palla dal ginocchio al piede e viceversa. È parecchio complicato. Non sa esattamente come ci riesca, ma Genzo spedisce il pallone tra i rami di un albero. Ryo non si arrabbia, si mette a ridere, aiuta a recuperarlo e poi gli spiega di nuovo come funziona la cosa del palleggio. Continuano a provare fino a quando non gli riesce. Ryo sorride e gli fa il segno dell’okay. È… piacevole.

Genzo non può fare errori a casa, sarebbe disdicevole. Asano e Toya sono gentili con lui, ma non sono la sua famiglia e nemmeno suoi amici: i suoi genitori hanno sottolineato molto bene quest’ultimo punto. Genzo è più piccolo e più fragile rispetto ai suoi fratelli, le sue mani sono stupidamente paffute e non riesce mai a tenere il pennello fermo per scrivere i kanji nel modo giusto. Sa che dovrebbe, potrebbe fare meglio di così, ma con Ryo è diverso. Con Ryo a Genzo è permesso fare tutti gli errori.

E poi il calcio non è solo piacevole: il calcio è divertente.

Ha un ritmo che gli sfugge, ma che riesce ad intuire. A volte è come se il suo corpo e la sua mente fossero treni che viaggiano a velocità diverse e Genzo deve sforzarsi per farli coincidere. Forse se potesse giocarci a casa come fa Ryo, migliorerebbe…

No, assolutamente no. Genzo ha già fatto questo errore in passato. Il calcio è divertente, ma lo erano anche i videogiochi prima che Madre iniziasse a parlare di una cosa chiamata “Esports” e ad insistere sulle possibilità di trarne una carriera. O la cosa del pianoforte. Genzo non vuole che il calcio smetta di essere divertente, così se ne sta zitto e non chiede se per caso non è che potrebbe giusto comprare un pallone.

Non dice proprio niente.

Gioca con Ryo durante la ricreazione e se lo fa bastare. A casa disegna sui quaderni bambini inseguire un pallone. I suoi tutori non se ne accorgono, Genzo la considera una vittoria personale.

 

Genzo non è stupido, è perfettamente in grado di notare le cose. Grazie tante.

Per esempio: il pallone di Ryo è rovinato e tenuto insieme dallo scotch. È più leggero di quanto dovrebbe essere, così come lo sono i suoi vestiti ora che l’autunno sta arrivando. Ma Ryo ha smesso di mangiare il cibo che lui porta apposta e la sua voce si fa cattiva e tagliente quando Genzo fa un errore mentre giocano.

Così Genzo sta zitto e se alle volte finisce per urlargli dietro, trova di esserne pienamente giustificato.

Ryo è un idiota.

Genzo diventa bravissimo a palleggiare e la faccia di Ryo si fa ogni giorno più scura. Sta per accadere qualcosa di brutto, lo sente nell’aria. Così quando Ryo stabilisce che i due alberi vicino al cespuglio di rovi sono una porta perfetta, Genzo si limita a scrollare le spalle, ammettere ad alta voce che l’idea è buona e a fare come dice. Fare goal è facilissimo e si inventano mille modi per renderlo complicato. Il calcio torna ad essere divertente.

Per un po’.

Ammettere di essere in una posizione di stallo equivale accettare che il conflitto sia imminente. Genzo è bravo ad ignorare le cose finché non gli esplodono in faccia: ha imparato che lamentarsi non serve a cambiare niente. Così quando Ryo insiste perché inizi a fare il portiere, Genzo non protesta. Perché? Un sacco di ragioni. Davvero un sacco.

Fare il portiere è complicato.

Non importa se quando giocano a rincorrersi sia il più veloce o che i suoi calci siano i più forti, fare il portiere richiede una serie di capacità di cui è spaventosamente carente. Però se lo sente giusto. Cade di faccia una volta su due e non riesce a bloccare nemmeno un pallone. Se lo sente comunque giusto e non perché Ryo ha smesso di prenderlo in giro e ha ripreso a comportarsi come farebbe un amico.

Se lo sente giusto perché finalmente Genzo riesce a sentire il ritmo.

Quando manca il pallone lo fa per pochi centimetri, è come essere un esploratore in procinto di fare una grande scoperta.

Inciampa e cade di faccia.

- Ancora!

Se Ryo esita, Genzo non ci fa caso. I pezzi del puzzle per la prima volta combaciano. Il terreno è gonfio, ma è diverso dalla terra che suda dopo tre settimane di pioggia. Ryo prende posizione davanti al pallone e Genzo vede senza guardare che lo calcerà dritto, ma che il suo piede scivolerà sulle foglie, dovrà raddrizzarsi e questa volta il palone sfuggirà di lato. Quale? Il destro. Lo percepisce.

Genzo sbaglia il tempismo e invece di afferrarlo con le mani, il pallone sbatte direttamente contro la sua faccia. Vale lo stesso. Ce l’ha fatta! Genzo ce l’ha fatta.

- Preso!

Ryo non sta festeggiando e la cosa è alquanto insultante. Il bambino si indica il naso e poi gesticola verso di lui, assurdo: il naso di Ryo sarà pure brutto, ma è a posto.

Sente qualcosa come di viscido appiccicato alle labbra, probabilmente è fango. Hugh. Beh, sarà cascato almeno una decina di volte in una pozzanghera durante le ultime settimane, anche allo schifo ci si fa l’abitudine. Si pulisce la bocca col dorso della mano, abbassa lo sguardo e nota come la manica della maglia sia tutta sporca di sangue. Ah. Ecco cosa voleva dire Ryo.

- Che ce l’hai un fazzoletto pulito o qualcosa di simile?

L’altro scuote la testa, che barba. Genzo ne ha uno in tasca, ma non è sopravvissuto ai suoi frequenti tête-à-tête con il suolo. Ne ha un altro nella cartella, ma è meglio lavarsi la faccia prima di arrotolarlo e ficcarselo in una narice. Ryo è stranamente pallido:

- Stai bene?

Ma certo che sta bene! Sta solo perdendo del sangue dal naso! Gli succede costantemente, perché l’amore che prova per il caldo e le giornate di sole è a senso unico, così Asano ha iniziato a ficcargli un cappello in testa tutte le volte che lo vede uscire. Adesso è un po’ diverso: il naso, ad esempio, gli fa più male, ma non così tanto da pensare di mettersi a disturbare qualcuno. Non sta mica morendo! Ecco, l’unica cosa sarebbe giusto smettere di sgocciolare sangue ovunque.

L’insegnante non è d’accordo.

Li tende un’imboscata mentre vanno al bagno e, sì, Genzo sa che la sua faccia non è il top al momento, ma l’adulto sta decisamente esagerando. Continua a toccarlo e a chiedere se gli fa male, fastidioso, ma sopportabile. Quello che è inaccettabile è che tratti Ryo come un criminale o che dica che l’abbia costretto a giocare a qualcosa di pericoloso. È francamente insultante.

L’insegnante si rivolge a Genzo come se fosse un bambino, come se fosse FRAGILE, cosa del tutto ridicola: Genzo è svenuto solo due volte l’estate scorsa per il troppo caldo. Inoltre il calcio non è affatto pericoloso. Ryo è il suo migliore amico e non si sognerebbe mai di metterlo in pericolo (probabilmente). E, ugh, a lui serve solo un dannato fazzoletto! Questa è quasi peggio della volta in cui si è slogato il polso e l’intero staff ha dato nel panico.

Ryo è molto silenzioso. Non è a suo agio quando gli adulti urlano, specialmente quando urlano contro di lui. Questa cosa dà Genzo ai matti: Ryo sarà pure permaloso, bruttino e decisamente un pessimo amico ultimamente, ma è ROBA SUA.

L’insegnante si tranquillizza, ma non più di tanto. Alla fine chiamano a Casa perché lo vengano a prendere e il calcio viene proibito durante la ricreazione.

Sa che questa è tutta colpa di sua Madre.                                                                   

I bambini si fanno male costantemente mentre giocano (soprattutto quando gli adulti lasciano usare le mazze da baseball in giardino senza supervisione), è normale che gli incidenti capitino!

 

Quando Genzo torna a Casa trova Padre ad aspettarlo sul portone d’ingresso. Stranissimo. È tornato la notte prima, mentre Genzo dormiva e riparte domani mattina presto per Tokyo. Vanno nel secondo soggiorno, suo Padre lo guarda bene in faccia, poi si inginocchia e gli strizza una guancia.

Non è né arrabbiato, né preoccupato e ciò rappresenta una novità. Non dice niente quando Genzo si lamenta di quanto l’insegnante abbia esagerato, gli chiede solo se quando giocava si stava divertendo.

È… piacevole.

E forse, se questa volta Genzo usa le parole giuste, la cosa non finirà in imbarazzanti lezioni di musica o una visita guidata alla SEGA… questo è papà. Forse lui ascolta. Così gli spiega del calcio ed è solo marginalmente sorpreso che Padre conosca già lo sport.

- Non è molto popolare in America o in Giappone, ma è davvero importante in Europa, in Brasile, in Argentina… nel resto del mondo in effetti. Ne hai sentito parlare in televisione?

Così adesso Genzo deve spiegare anche di Ishizaki e Padre sembra contento di sapere che si è fatto un amico della sua età. Non aveva mai notato la ruga che si allarga sulla sua fronte quando sta pensando, forse è la stessa che viene a lui quando aggrotta le sopracciglia. Quando gli chiede di andare avanti Genzo obbedisce.

Racconta di com’era difficile all’inizio, dei modi che ha scoperto per prevedere la traiettoria del pallone, di come faccia ancora fatica a far capire al corpo quello a cui la sua testa è già arrivata. Del brivido di cogliere l’attimo giusto e di quel ritmo che pare sentire lui solo. Non riesce a spiegarsi bene, sta balbettando di sicuro, è scoordinato ed è sbagliato e niente di quello che potrebbe, dovrebbe essere. Va avanti ugualmente e Padre rimane ad ascoltare.

Quando finisce, papà gli versa un bicchiere d’acqua e gli si siede vicino.

- Non ci sono tante possibilità per un bambino a cui piace il calcio in questa città. Forse è il momento che le cose cambino.

Il giorno dopo Padre è su un treno per Tokyo. Asano nel pomeriggio gli porta il regalo che gli ha comprato per strada: è un pallone da calcio. Questo è decisamente più bello di quello di Ryo: è bianco e nero e non ci sono buchi.

Padre ordina che siano fatte delle modifiche al giardino e Toya non ne è per niente felice. Lo guarda male per una settimana e insiste a chiamarlo “signorino Wakabayashi”. Genzo sa che lo sta prendendo in giro: gli adulti sono sempre educati con lui quando sono arrabbiati.

 

A scuola Ryo si comporta in modo strano. All’inizio Genzo pensava che fosse perché non possono più giocare a calcio, ma non è quello. È qualcosa d’altro.

Genzo porta il Nintendo a scuola, contrabbandandolo nella cartella, e lascia che Ryo ci giochi quanto voglia. Un giorno prova a spiegargli il trucco per fare più punti, l’altro si arrabbia, gli restituisce la console e dice che i videogiochi sono stupidi.

Tentano con Magic, perché uno dei cugini di Ryo aveva delle carte in più e gliele ha regalate. Dopo un’ora trascorsa da Genzo a decriptare le regole, Ryo sostiene che è stupido sprecare la ricreazione da seduti e che dovrebbero uscire a provare le cose a cui giocano gli altri. Ryo non fa fatica a trovarsi degli amici nuovi e dal giorno dopo inizia ad evitarlo.

Genzo non sa esattamente cosa vada fatto in questi casi.

Così si limita a sedere e guardare gli altri giocare, c’è una bambina che urla sempre un sacco con un linguaggio che farebbe drizzare le orecchie alla signorina Asano. In mancanza di un quaderno, Genzo prende una serie di appunti mentali.

La chiamano Anego, ma il suo nome è Sanae. Anego suona meglio, ma sta bene attento a non dirglielo in faccia, perché non vuole essere preso a pugni: quella bambina ha già picchiato ragazzi tre volte più grandi  per molto meno.

Anego sa un sacco di cose su diversi sport. Non è molto ferrata sul calcio, ma pare onestamente interessata alle sue spiegazioni.

- La nostra città dovrebbe avere la sua squadra, così da DISTRUGGERE i nostri nemici e CONQUISTARE IL GIAPPONE!

Genzo non è completamente sicuro che Sanae abbia capito cosa sia il calcio.

Ma Sanae è popolare e dannatamente insistente. Quando si rende conto che Genzo passa la maggior parte della ricreazione da solo, lo agguanta per un braccio e lo costringe con la forza ad unirsi al suo gruppo.

- Ishizaki ti sta creando problemi?

A Genzo non piacciono gli amici di Sanae. Sono a posto, certo, ma passare il tempo ad urlare agli altri perché giochino in modo corretto non è il massimo. Ok. Deve ammettere che ha i suoi pregi. Sanae non ha ancora ben chiaro cosa significhi “fare il tifo”, ma lo spirito non le manca di sicuro.

Genzo non è l’unico a passare un sacco di tempo da solo.

C’è questo bambino che si siede vicino al capanno degli attrezzi e passa il tempo a guardare con desiderio gli altri giocare. È dannatamente patetico, così un giorno Genzo decide di sedersi vicino a lui e chiedergli perché non si unisca a loro.

- Non mi vogliono.

- È una cosa stupida. Va a salutarli, vedrai che andrete subito d’accordo.

Il bambino incurva le spalle e prova a diventare tutt’uno con il terreno. Forse Genzo dovrebbe semplicemente alzarsi ed andarsene, ma sente che non è la cosa giusta da fare. Sanae resterebbe. Così aspetta e viene ricompensato per i suoi sforzi quando il bambino smette di ingobbirsi e indica un altro che sta giocando in cortile.

- Non gli piacciono i miei denti.

- Cosa?

- Dice che i miei denti sono stupidi e che sembro un criceto!

Ma che?! Certo gli incisivi del bambino sono notevoli, ma i criceti sono dannatamente carini e quindi per conseguenza lo deve essere anche lui. Questo richiede un intervento diretto.

- Come ti chiami?

- Taki. Hajime Taki.

- Seguimi Hajime Taki.

Genzo si alza, marcia verso il bambino che Taki gli ha indicato e riflette: cosa farebbe Sanae in questa situazione? Genzo tira al bambino un cazzotto in faccia. Nessun insegnante spunta fuori urlando: l’operazione è un pieno successo.

Il bambino finisce a terra. Mammoletta. È pensare che è stato pure attento a fare piano: l’intento non era fare male, ma partire, come dire, da una posizione di forza. Il bambino scoppia a piangere.

 - MAMMINA!

Genzo si sente imbarazzato per entrambi.

- Smetti di fare lo scemo e tirati in piedi.

Gli offre una mano, il bambino singhiozza e la prende. Fantastico, ora si sente pure in colpa. Genzo lo trascina verso un’area meno affollata, Taki gli viene appresso. Il bambino sta tremando, ma perché? Pensa forse che Genzo lo voglia uccidere? Lo ringrazierà, invece, quando avrà smesso di piangere e si renderà conto di non essersi messo in imbarazzo di fronte a tutta la scuola.

- Ascolta, il mio amico qui… - Taki è un amico? – Il mio amico qui vuole giocare e non è carino da parte tua insultarlo per il suo aspetto. Smettila di fare lo scemo e giocate assieme.

Il bambino fissa il terreno e borbotta.

- Perché sei cattivo con me?

- Io sono cattivo IN GENERALE. Vuoi che ti faccia vedere quanto?

- NO!

Giocano. Taki non è bravo a baseball e Genzo rimane per assicurarsi che si stia effettivamente divertendo. L’altro bambino fa una faccia esasperata e poi insiste perché Taki faccia a cambio di guantone con lui.

- Il mio è il migliore di tutto il cortile!

Da quel momento le cose si aggiustano. Quando Taki si volta e vede che Genzo è ancora lì, sorride.

 

Il giorno dopo Genzo è un uomo con una missione: trovare un rifugio dove mangiare senza essere disturbato. Possibilmente un posto da cui Sanae non riesca a stanarlo e trascinarlo fuori. L’impresa fallisce prima di iniziare.

Taki lo intercetta non appena mette piede in cortile e inizia a sbracciarsi a salutare. La signorina Asano, non ha cresciuto una disgraziato, così, con un sospiro per la sua perduta privacy, Genzo lo raggiunge.

Taki è con il tipo di ieri. Apparentemente ora sono migliori amici. Il che è già abbastanza strano senza contare il fatto che il bambino lo stia fissando con evidente entusiasmo e non come se Genzo fosse la ragione per cui ieri è finito col culo dritto e tirato a terra.

- Sono Teppei Kisugi! Tu sei Wakabayashi, giusto?

Genzo annuisce, Teppei ha la faccia di chi ha appena visto Babbo Natale, si volta verso Taki che gli sorride. Sono entrambi molto strani. Teppei bisbiglia:

- Ma è vero che Ishizaki ti aveva rotto il naso?

- Ryo ha fatto cosa?

- VISTO! Che ti avevo detto? L’hanno capita tutti sbagliata! – Interviene Taki prima che possa aggiungere altro. – Ishizaki non potrebbe mai vincere a pugni contro Wakabayashi! Hai visto come ti ha colpito forte ieri?

Teppei annuisce con tanto entusiasmo che Genzo teme gli si stacchi la testa. Inspira. Questi sono bambini, è normale che non abbiano senso.

Ah, sì, anche Genzo è un bambino, ma non è COSÌ.

- Ok, frena. Io e Ishizaki non abbiamo litigato. Mi ha calciato un pallone in faccia e ho iniziato a sanguinare un pochetto, m…

- ALLORA HA USATO UN’ARMA!

- SCORRETTO!

Cerca di spiegare ancora. E ancora. Taki e Teppei rifiutano di comportarsi come persone ragionevoli e Genzo scopre di essere in grado di esercitare infinite quantità di pazienza quando la situazione lo richiede.

- Ma allora se non avete litigato, perché Ishizaki ti evita?

Oh. Genzo non ha una risposta PER QUESTO. Taki e Teppei decidono di avere vinto e ogni speranza di chiarire il fraintendimento viene buttata alle ortiche.

Non gli piace perdere, inoltre c’è ancora una cosa che lo turba riguardo Teppei Kisugi.

- Ma non sei arrabbiato per il pugno?

- Stai scherzando? È stato FANTASTICO!

Genzo i bambini non li capisce proprio.

 

Taki e Teppei non sono male una volta che ci fai il callo. Teppei non ha molti amici a scuola, sostiene che il suo migliore amico di prima (prima di Taki cioè) sia un suo vicino di casa simpaticissimo e bravissimo a giocare a baseball.

- Te lo devo assolutamente presentare, Wakabayashi! Lo adoreresti.

Genzo francamente ne dubita.

A Taki piace Magic, Genzo recupera il mazzo che aveva preparato per Ryo e iniziano a giocarci durante la ricreazione. Non è calcio, ma è piacevole. Avendo dimestichezza con le regole, finisce per essere quello a spiegarle a Teppei che prende il suo mazzo in prestito per sfidare l’amico. Quando vince per la prima volta si volta e gli sorride.

- Hai visto?

Ha visto. Dice di essere fiero di lui e il bambino arrossisce.

Taki e Teppei passano il tempo incollati, Genzo si sta giusto domandando come abbiano fatto a incastrarlo quando compare Izawa.

Mamoru Izawa è popolare tra le ragazze perché è carino, porta i capelli lunghi e parla in modo più formale rispetto agli altri bambini. O, almeno, lo fa quando spunta dal nulla durante la ricreazione per sfidare Genzo a duello. È un avvenimento così singolare che Genzo si trova ad accettare.

- Quindi, sei tipo un fan di Magic?

- Cos’è Magic?

Izawa vuole sfidarlo a braccio di ferro. Ma perché?

Almeno sa perdere con dignità: ci vogliono solo sei sconfitte di fila per fargli ammettere la disfatta. Izawa si mette in ginocchio, lo guarda fisso negli occhi e gli giura eterna fedeltà come un cavaliere dei film. Apparentemente Mamoru Izawa ha una fissa per le serie fantasy.

Izawa, Teppei e Taki sono tre sfumature della stessa stranezza.

Anche Genzo non deve essere tutto a posto, visto che gli attira come un magnete. Ma i suoi nuovi amici sono divertenti ed è facile starci assieme, non è come con Ryo quando doveva stare attento ad ogni parola. È tanto stupido che gli manchi ugualmente?

 

La ristrutturazione del giardino è ufficialmente finita. Genzo ora ha una vera porta da calcio sotto la finestra di camera sua. Padre, a quanto pare, non è tanto diverso da Madre.

Ma non gli importa, il calcio gli piace troppo.

I pali sono lisci e tanto bianchi e c’è la traversa adesso da tenere a mente quando gioca. Fare il portiere non è solo un fattore di destra e sinistra, ma anche di alto e basso. Genzo intuisce che quegli angoli in alto saranno la croce della sua esistenza.

L’erba attorno alla porta è tagliata di fresco e le linee che delimitano l’area di rigore sono dipinte di bianco.

Ci sono come delle bolle nel suo stomaco che cercano di uscirgli dalla gola. Sta ridendo. È felice e la felicità è pelle d’oca sulla schiena e voglia di vomitare.

Forse Toya giocherà con lui se Genzo glielo chiede in modo molto, molto educato. È certo che una volta a Toya lui piaceva e sicuramente qualcosa di così perfetto come questa porta non può aver distrutto l’equilibrio generale del giardino.

Toya non cede, ma smette di chiamarlo “signorino Wakabayashi”. Genzo ha più fortuna con i lavoratori stagionali che hanno assunto per aiutare con i lavori pesanti e insieme si divertono un sacco. Genzo non riesce a fermare i palloni: una porta vera è decisamente più complicata dello spazio compreso tra due alberi e lui è ancora, vergognosamente, piccolo. Non che stia cercando delle scuse.

I lavoratori gli chiedono se è stanco, Genzo fa spallucce e replica che forse sono loro quelli a esserlo. Giocano insieme quando possono nelle settimane seguenti, almeno fino a quando è sicuro che i palloni che para non siano un goffo tentativo di ingraziarsi il figlio del capo.

Toya lo sgrida per avergli rubato il personale, lo fa in modo molto maleducato e Genzo lo abbraccia, perché anche a lui era mancato. Però, alla prima occasione, gli riempirà le tasche di vermi per averlo fatto preoccupare.

- Dovresti giocare con bambini della tua età. – Borbotta Toya. – Hai degli amici, giusto? Invitali.

Toya è un adulto e non capisce, ma certo che Genzo vuole invitare Ryo. Prima però deve diventare bravo o Ryo continuerà ad evitarlo.

E se vuole diventare bravo, deve fare pratica. E adesso non ha nessuno a cui chiedere dato che la signorina Asano gli ha fatto giurare di non coinvolgere più nelle sue scorribande i membri dello staff.

Non esistono soluzioni, quindi Genzo si siede, fa i compiti e tiene il broncio.

Asano porta una spremuta d’arancia come offerta di pace e suggerisce di chiedere aiuto agli altri suoi amici. Che assurdità! Ryo non gli perdonerebbe mai di aver mostrato la porta a qualcuno prima di lui.

È una situazione senza vie d’uscita.

Il giorno dopo c’è una chiamata di Madre, Genzo non riesce a nascondersi in tempo e viene obbligato a rispondere. È strano: c’è davvero Madre al telefono questa volta e non una delle sue stupide segretarie. Dice che un suo vecchio amico verrà a stare alla Casa per qualche tempo.

Ancora più strano, i soli adulti che possono rimanere appartengono a due categorie: famigliari e membri dello staff. Che razza di persona è mai questa? Non lo chiede, tanto qualunque cosa dicesse non conterebbe: si fa sempre come vuole Madre.

Lo sconosciuto arriva il giorno successivo e Genzo ha la sorpresa più grande della sua vita: questo adulto è un sacco figo!

Indossa occhiali da sole TUTTO IL TEMPO anche quando è dentro casa o non c’è il sole, veste sempre di nero e FUMA!

Si chiama Tatsuo Mikami, Genzo non ha la più pallida idea di come Madre faccia a conoscere un adulto così interessante. La voce di Mikami è ruvida come la carta vetrata e lo fa suonare davvero tosto.

A vent’anni Genzo rifletterà su quell’incontro e concluderà che il motivo per cui la carriera di Tatsuo Mikami era dirottata su babysitter era esclusivamente dovuto alla sua enorme pila di debiti.

Ma in questo momento Genzo è un bambino e non sa che Mikami è l’ennesimo ingranaggio della macchina creata per tenerlo sotto controllo. Quello che sa è che i suoi genitori hanno chiesto di mostrarsi educato con lui nello stesso modo in cui dovrebbe fare per i suoi insegnanti privati. Quello che sa è che Mikami gli piace. E poi Genzo è sempre educato con tutti, cosa cazzo vogliono insinuare?!

Con Mikami può parlare di tutto e l’adulto lo ascolta senza sembrare annoiato o dover ripartire per Tokyo il giorno successivo. Tra dieci anni Mikami lo lascerà da solo, dopo averlo trascinato in un Paese straniero, per inseguire un nuovo lavoro, un sogno, in Giappone.

Il futuro è lontano, Genzo di anni ne ha sei e non si domanda se l’amore di Tatsuo Mikami sia condizionale. Non gli importerebbe, perché quell’amore è qualcosa di cui ha disperatamente bisogno.

Mikami è interessato al giardino, così lo accompagna a visitarlo e quando arrivano sotto la finestra di camera sua gli spiega della porta che Padre ha insistito per far costruire.

- Deve proprio amarlo molto il calcio. – Dice Mikami mentre si accende l’ennesima sigaretta, Genzo scuote la testa.

- Ha capito tutto sbagliato! È per me! Sono io quello che gioca a calcio!

- Ma veramente? Sai… una volta ero anch’io un giocatore.

- SUL SERIO?!

- Sì. Ero il portiere della Nazionale Giapponese.

Il chiaro tentativo di manipolazione passa in secondo piano, è troppo eccitato: può chiedere a Mikami TUTTE LE COSE!

Mikami oltre che calciatore è stato anche allenatore, quindi Genzo lo ribattezza “Mister Mikami” quando l’uomo promette di allenarlo.

 

Le settimane arrivano e se ne vanno, finché non si fa domenica e a Genzo tocca aspettare UN GIORNO INTERO prima di poter correre a cercare Ryo, sederglisi accanto e affermare con assoluta certezza:

- Ce l’ho!

- Ho cosa?

Spiega la sua svolta nell’arte calcistica, Ryo ascolta e per la prima volta dopo mesi sembra effettivamente interessato a qualcosa che Genzo ha da dire. Pianificano la sortita per il cortile con estrema cautela, ma l’insegnante non li perde d’occhio un momento, così Genzo elabora un compromesso e chiede: 

- Ehi, vuoi venire a casa mia domani dopo la scuola?

Ryo non risponde esattamente di no, quindi decide di prenderlo come un sì. Ecco finalmente l’occasione per rimettere le cose a posto.

Deve andare bene per forza.

Non dorme quella notte, ci sono migliaia di modi in cui le cose potrebbero andare storte: è la prima volta che invita un amico a casa e non ha la minima idea di quale sia la procedura corretta.

Asano lo rassicura dicendo che sarà tutto semplicemente perfetto. Avrebbe preferito sentirselo dire da Mikami, ma l’adulto è sparito. È una cosa che tende a fare.

Un passo per volta. Chiede conferma a Ryo per il pomeriggio, l’altro dice di sì.

Ok.

Trascorre la ricreazione con Taki, Teppei e Izawa, ultimamente il terzetto si diverte a fare finta di essere un gruppo di cavalieri e che Genzo sia il re nel cui nome affrontano e uccidono temibili draghi. Il più delle volte si ritrova ad urlarli di buttarsi a destra o a sinistra per evitare uno sbuffo di fiamma o il colpo di un artiglio e la cosa la trovano estremamente divertente. Branco di svitati.

Ryo è strano durante il viaggio in macchina, giocherella con la cintura di sicurezza, guarda continuamente fuori dal finestrino e le sue mani sono tutte sudate. Forse soffre di mal d’auto.

Asano ha preparato per loro due succhi di frutta, Ryo beve in silenzio e Genzo tenta e fallisce di iniziare una conversazione. Ok, con se stesso lo può ammettere: è nervoso. Non è bravo a gestire i bambini della sua età. Taki, Teppei e Izawa non contano perché sono le persone più strane che esistano. E poi non lo considerano davvero un amico: anche Genzo vorrebbe uccidere i draghi.

Gli adulti ripetono che è molto maturo, forse è quello il problema: Genzo non appartiene da nessuna parte.

Ryo non è sempre stato un buon amico, ma non lo ha mai trattato come se fosse diverso.

Il maglione di Genzo prude, è scomodo ed è troppo pesante visto il caldo. Non ha ben chiaro cosa stia sbagliando, ma crede di sapere come fare ad aggiustare le cose.

- Ti va di giocare?

Ryo annuisce, Genzo gli afferra la mano e lo trascina fuori prima che cambi idea.

È una bella giornata per giocare all’aperto, il sole è alto nel cielo e, nonostante non abbia piovuto per una settimana, l’erba è morbida sotto la suola delle loro scarpe. Toya gli fa un cenno di saluto quando passano. Genzo guida Ryo verso il suo angolo preferito dell’intero giardino: la porta sotto la finestra di camera sua. Ryo si congela. Genzo sorride, sa esattamente come l’altro debba sentirsi in questo momento. La prima volta che Genzo l’ha vista era così eccitato che ha finito per vomitare.

- Ti piace?

Ryo rabbrividisce, si volta e lo fissa. Genzo ha giusto il tempo di pensare “qualcosa non quadra” prima di ricevere un cazzotto in faccia.

È talmente inaspettato da farlo cadere a terra. La guancia gli fa male. Genzo è sicuro di non aver colpito Teppei così perché questo non è affatto fantastico. È sbagliato e lui era così eccitato all’idea di mostrare a Ryo la porta. Stupido. Idiota. La pelle come gli brucia, un rumore bianco gli riempie la testa: non è arrabbiato, è furioso.

Si tira in piedi e sferra un pugno a Ryo nello stomaco, l’altro invece di cadere gli tira un calcio. Ora basta. Genzo si è fatto massiccio negli ultimi mesi e non ha remore ad usarlo a suo vantaggio. Diventa una lotta senza esclusione di colpi.

Come ha osato?

Ha fatto tutto quello che poteva per piacergli. Ha fallito, fallito, fallito. Perché? Non è giusto. Non ha senso.

È triste e Genzo NON CAPISCE perché ed ecco che ci sono delle mani ed è Toya che lo afferra e lo trascina via.

Ryo sta urlando. Ha iniziato a farlo dopo il primo pugno di Genzo, le solite cose che ha già detto un milione di volte quando si sentiva cattivo o arrabbiato come “cretino”, “viziato” o “fighetta”. Ma le prossime, quelle tagliano:

- È un peccato che il denaro non possa comprarti il talento o gli amici.

La sua famiglia è composta da persone straordinarie. Sa perfettamente di non essere all’altezza dei loro standard: è la ragione per cui lo lasciano sempre indietro. Genzo Wakabayashi è un imbroglio. In qualche modo ha convinto Taki, Teppei e Izawa di essere un tipo a posto, qualcuno da ammirare, ma Ryo lo conosce meglio di tutti e sa perfettamente cos’è: ordinario.

Il resto della giornata è un vortice sfocato e confuso.

 

Ha le labbra tagliate, qualcuno deve averle pulite come per il graffio che ha sulla fronte. Non ricorda chi sia stato. Non va a scuola il giorno dopo, né quello dopo ancora.

Mister Mikami lo costringe ad uscire a giocare a calcio, gli corregge la postura, offre suggerimenti per fare meglio ed è in generale la parte migliore della sua giornata.

La segretaria preferita di Madre, la signora Morino, chiama ed Asano lo costringe a rispondere. È stato deciso che frequenterà le elementari all’istituto privato Shutetsu. C’è un programma per i bambini più dotati che desiderano iscriversi e questo si traduce in nuovi tutori e lezioni. Annuisce, si sente stupido e risponde “sì” a voce alta, le cose seguono il loro corso.

Sa perfettamente che non esiste alcun programma speciale, sua Madre se l’è inventato per riempire così tanto il suo tempo libero di attività “costruttive” che Genzo vuole trovare un buco in cui nascondersi ed iniziare a gridare. 

Padre dice che all’istituto Shutetsu c’è un campo da calcio, Genzo finge di non sapere perché. È diventato piuttosto bravo a farlo. Ha fatto pratica con il campetto pubblico che Madre ha ordinato di far costruire in città dove stava la vecchia palude.

Genzo è ordinario, ma forse può essere testardo.

Studia, si allena.

Migliora.

 

Ottiene il punteggio migliore all’esame d’ingresso ed è costretto a tenere un breve discorso davanti agli studenti radunati in assemblea. In classe ritrova Taki e Teppei. Sono felici di rivederlo. Genzo promette a se stesso di non fare più errori: Ryo è esistito solo nella sua testa, Ishizaki non è mai stato suo amico.

Teppei fatica in matematica, Taki in tutto il resto. Non va bene, Genzo divide le lezioni in passaggi più semplici e si offre di aiutarli al termine delle lezioni. Dicono “grazie Wakabayashi” e Genzo non risponde “chiamatemi Genzo”.

Izawa è in un’altra sezione, ma si unisce a loro ogni volta che può portandosi dietro sempre qualcuno di nuovo.

Durante un pigro lunedì mattina il ragazzino più alto del loro anno si avvicina, si chiama Shingo Takasugi ed è sincero e garbato quando chiede di potersi unire a loro: matematica gli sta causando parecchi grattacapi.

Il gruppo cresce e si moltiplica.

Un giorno nota due studenti delle medie estorcere denaro a un bambino della loro classe. Genzo ha da tempo adottato la filosofia di vita di Sanae “Anego” Nakazawa: prima i pugni. Gli altri ragazzi saranno pure più grandi, ma Genzo è testardo, sa essere crudele e non si fa problemi a mordere.  

Viene convocato dal preside. L’uomo ha un’aria severa, poi fa l’errore di guardare il suo cognome, spalanca gli occhi e inizia a scusarsi.

È fastidiosamente educato quando dice “prova a non farlo più in futuro” e “limitati a chiamare un insegnante”. A Genzo, onestamente, fa un po’ compassione così accetta e chiede se i ragazzini che ha picchiato stanno bene. Il preside suda di meno e il suo sorriso diventa un po’ meno posticcio.

Mister Mikami arriva a prenderlo e sgridarlo. Genzo ha voglia di abbracciarlo.

Il bambino che ha aiutato lo sta aspettando fuori: si chiama Yuzo Morisaki e quando si agita balbetta. È gracile, timido e i ragazzi più grandi lo mangeranno vivo quando scopriranno che Wakabayashi è intoccabile.

- Stammi vicino durante scuola.

Dice e Morisaki arrossisce e dice di sì.

Iniziano a circolare delle voci, dicono che Genzo “ha battuto cinque studenti del liceo con le mani legate dietro la schiena” e che “gli insegnanti sono terrorizzati da lui”. La seconda è in effetti vera, ma la prima è una panzana fotonica. Non ha la più pallida idea di chi l’abbia messa in giro.

All’inizio lo trova divertente, ma durante la notte un pensiero improvviso lo sveglia: cosa succede ora se i SUOI bambini si spaventato ed iniziano ad evitarlo? Il giorno dopo scopre che gli autori dietro le versioni più esagerate che circolano a scuola sono Taki, Teppei e Izawa. Ne vanno piuttosto fieri. Per qualche strana ragione la paura attrae ancora più persone al suo fianco.

E così, un giorno, all’improvviso, Genzo si accorge di essere popolare.

Non sa bene come lo faccia sentire.

L’insegnante responsabile della sua sezione lo avvisa che se lui e i suoi seguaci hanno intenzione di continuare a incontrarsi dopo scuola dovrebbero istituire un club. È una richiesta ragionevole considerato che il loro numero continua a crescere, ma che club potrebbe mai essere? Il “Genzo Wakabayashi fan club?”

Non tutti i nuovi acquisiti vengono da lui per studiare. La maggior parte vuole solo respirare la sua stessa aria ed è un po’ come essere il leader di una setta. Ma ci sono le eccezioni: Taki, ovviamente, così come Teppei e Izawa che conosce dall’asilo, poi c’è Takasugi che è gentile e affidabile e Morisaki che desidera disperatamente piacere agli altri. Morisaki è l’unico ad avergli chiesto se le voci che circolavano gli stessero bene. È l’unico che chiede a Genzo come sta in generale.

Di tutti i suoi non-amici, Morisaki è il suo preferito.

 

Dopo lunghe e ponderate riflessioni, Genzo decide di invitare i cinque a Casa. È la prova del fuoco definitiva e la passano a pieni voti: nessuno scatena una rissa o lo insulta, rimangono un po’ sorpresi, ma non si mettono a trattarlo in modo diverso. Sono venuti solo per giocare insieme. Due anni fa l’idea di spendere pomeriggi lenti in compagnia di bambini della sua età a cui legittimamente sembra piacere gli sarebbe parsa assurda.

Takasugi è il più fieramente indipendente del quintetto; Taki, Teppei e Izawa sono un caso a parte: vanno seguiti passo, passo e finiscono sempre per fare tutto quello che gli si dice. Si preoccupa per loro COSTANTEMENTE. Morisaki ha sempre un’espressione che pare dire “come ci sono finito in questa situazione?”.Genzo lo capisce perfettamente: lui si sente così a giorni alterni.

Decide di raccontare ai suoi amici del calcio, si tortura mentalmente per la buona parte di una mezz’ora prima di mostrare loro la porta che c’è in giardino. Non è così nuova ora ed è persino bollata nel punto in cui le ha assestato un calcione durante una giornata particolarmente frustrante.

Tutti e cinque trovano il calcio una novità interessantissima. Genzo cerca di trattenersi e di non partire per la tangente, ma sono loro i primi a fargli un sacco di domande. Giocano insieme ed è divertente.

Il calcio è divertente.

- È quello a cui tu e Ishizaki giocavate sempre, giusto? – Dice Teppei quando si fermano a riposare e bere qualcosa all’ombra.

- Cavoli, volevo un sacco chiedervi di unirmi a voi, ma ero un pochetto spaventato. – Conferma Taki.

- Spaventato? – Chiede Genzo.

C’è un battito di silenzio imbarazzato, è Izawa a romperlo:

- Wakabayashi… ti renderai conto che a volte sei un po’, come dire, intenso?

Annuiscono tutti, tranne Genzo che è perplesso e Morisaki che sta praticamente vibrando.

- Wakabayashi non è spaventoso! – Morisaki esplode. – È che a volte è un po’ deprimente vedere come sei bravo in tutto e ti fa sentire inadeguato… e non capisco cosa ci trovi o perché sprechi tutto questo tempo con noi!

Uh. Cosa? Deve dire qualcosa, ma tutti gli altri sono d’accordo. Izawa mette una mano sulla spalla di Morisaki e Genzo capisce che il suo input non è richiesto. Ingoia il groppo che gli è salito in gola e tiene la bocca chiusa. Takasugi, grazie al cielo, chiede di giocare un altro po’.

A Genzo non piace la maggior parte dei bambini che gli ronza attorno a scuola, ma questi cinque sono diversi, sono SUOI e quindi dice:

- Voglio fondare un club di calcio, vi unite a me?

La risposta è un sì entusiasta ed unanime.

 

Grazie all’inferenza genitoriale la Shutetsu ha già un campo da calcio e un club per le medie e superiori. Nessuno si aspetta un granché dagli studenti delle elementari, specialmente da quelli del primo anno.

Mancano di prospettiva.

Genzo appende un volantino in bacheca. Il giorno dopo la quasi totalità dei bambini del suo anno si materializza per le selezioni, ci sono anche un paio di ragazze. Genzo insiste per farle provare, ma l’insegnante è inamovibile: le squadre non possono essere miste.

- Se ci tengono possono creare il loro club. – Dice.

Le ragazze non sono abbastanza per fare numero ed è un peccato.

Grazie all’aiuto di Mister Mikami mettono insieme una squadra, la scuola nomina un allenatore ufficiale che è un modo gentile per definire un insegnante impreparato, felicissimo di lasciare a qualcun altro il compito di gestire l’intera faccenda.  

I suoi nuovi compagni di squadra sono più impacciati di come era lui all’inizio, qualcuno lascia dopo le prime settimane, la maggior parte resta. Alla fine dell’anno lo eleggono capitano e ogni speranza di essere chiamato “Genzo” da qualcuno di loro svanisce. Iniziano a chiamarlo capitano in classe. È lusinghiero, ma Genzo sente la pressione di dover diventare qualcun altro e in fretta.

È un cambiamento che vuole anche lui.

Mister Mikami è più severo con lui durante gli allenamenti, ma anche più gentile quando dice “sono fiero di te”. Lo diceva anche prima, ma adesso lo intende davvero.

E forse Ishizaki ha ragione e il talento non può essere comprato, ma Genzo non ha bisogno del denaro per essere più testardo del talento naturale.

Il calcio è divertente e non è un peso metterci più tempo, più impegno per giocarlo nel modo giusto.

 

Mister Mikami inizia a organizzare delle amichevoli con le scuole vicine. Esistono piccoli club dilettanteschi diffusi a macchia d’olio in giro per la Prefettura e Mikami conosce ognuno di loro. La squadra delle elementari Shutetsu è composta da ragazzini del secondo anno, nessuno si aspetta molto da loro. Vincono la loro prima partita, poi la seconda e non sembrano intenzionati a smettere.

Dopo un po’ la cosa attira una certa attenzione.

Il calcio diventa popolare a Nankatsu. Il club delle elementari inizia ad attrarre bambini più grandi, come anche quelli di medie e liceo. Il team delle medie arriva a qualificarsi per il torneo nazionale, ma viene eliminato dalla scuola Toho alla seconda partita.

Genzo continua a ricevere attenzioni.

I suoi compagni di squadra fanno affidamento completo su di lui sul campo e fuori. Mister Mikami dice che ha un talento naturale per il ruolo del portiere e che vederlo giocare l’ha convinto della possibilità di un futuro per il calcio giapponese. Fuma di meno, indossa altri colori oltre al nero e si ostina a tenere gli occhiali da sole addosso. Genzo vuole che sia ancora più fiero, ancora più felice, così si allena di più.

Non importa se il suo corpo fa resistenza, spingerlo oltre i limiti è l’unico modo che ha per migliorare.

Mister Mikami è una brava persona e lo ferma quando vede che sta esagerando, ma Tatsuo Mikami non è un dio onnipotente e quando il responsabile, maturo, diligente Genzo giura di stare bene, tende a credergli.

Sia Mikami l’allenatore che Mikami l’uomo capiscono che il loro pupillo è matto come un cavallo, anni dopo quando dovranno trattenerlo fisicamente dal giocare con una gamba rotta.

 

Genzo è in terza quando la sua squadra si qualifica per il torneo nazionale. Si piazzano secondi.

L’argento è elegante, ma non il suo colore.

L’anno seguente si classificano al primo posto, così come l’anno dopo ancora.

Ci sono spesso articoli sul team d’oro dei ragazzi Shutetsu sui giornali locali.

Molti sono su di lui, specialmente quando Genzo, inavvertitamente, crea un nuovo record per se stesso vincendo il campionato senza prendere un singolo goal. Nessuno c’era mai riuscito prima in un torneo nazionale, non solo a Shizuoka, ma nell’intero Giappone.

- Ho sempre saputo che Wakabayashi era eccezionale!

- Sei stato davvero bravo, Genzo. Devi andarne fiero.

- Wakabayashi diventerà il portiere migliore del mondo!

Perfetti sconosciuti lo fermano a scuola, altri bambini voglio unirsi al club (creano un’intera squadra di soli riservisti), persino i suoi fratelli iniziano a chiedergli come stia andando quella sua cosa del calcio durante il Tanabata. Madre è orgogliosa, Padre gli fa l’occhiolino, Mikami sta pianificando passo-passo la sua carriera futura.

Genzo dovrebbe sentirsi felice.

Certo che è felice. Sicuro.

Sicuro.

Sicuro.

Sicuro.

Genzo vuole trovare un buco, ficcarcisi dentro e urlare.

Quand’è che il calcio ha smesso di essere divertente?

 

Genzo è il ragazzo più sveglio della sua età che conosca. I suoi voti sono i migliori della scuola e si è piazzato tra i primi venti studenti del Giappone negli ultimi due anni. Non è abituato a non capire la cose.

Forse è un problema medico. C’è questa pressione costante sul petto, specialmente quando mangia. A volte il peso diventa talmente forte da non farlo respirare di notte. Madre ha un modo di dire per quando sta male e Padre insiste perché si prenda una pausa: “ogni problema di salute può essere aggirato con un po’ d’impegno”. Ma i giorni sono composti da un numero finito di ore e Genzo non sa dove incastrare “stare meglio” nell’agenda.

Sa che dovrebbe essere felice e la cosa la sta facendo impazzire.

Tutto quello per cui ha faticosamente lavorato è lì, nelle sue mani, evidente nella sua insuperabile serie di vittorie.

Mister Mikami, la sua famiglia, i suoi compagni stanno tutti aspettando il suo nuovo grande successo.

Genzo mette “stare meglio” all’ultimo posto della lista e si concentra su ciò che è davvero importante: il calcio, le ripetizioni, la scuola, le lezioni extra assegnate dai suoi genitori, l’allenamento, i compiti e fare pratica insieme a Mister Mikami.

A volte ci sono dei momenti vuoti, sono rari, ma capitano e Genzo si riconosce incapace di riposare schiacciato tra il panico del tempo sprecato e una praticata incapacità di rilassarsi.

Il calcio avrà anche smesso di essere divertente, ma Genzo lo ama comunque.

L’amore può essere abbastanza.

Ha messo troppo di se stesso, troppo impegno, troppe ore nell’amore perché vada sprecato.

Diventa inflessibile: gli errori dei suoi compagni lo fanno ammattire e abbaia contro di loro con una cattiveria che prima non c’era. Nessuno ci fa caso e quelli a cui dà fastidio vengono zittiti dagli altri.

-  I geni sono tutti un po’ matti.

Genzo Wakabayashi è una frode cresciuta come un cancro destinata a saltare in aria e a distruggere tutto quello per cui ha lavorato.

Morisaki è ufficialmente il loro secondo portiere. In allenamento lui e Genzo sono sempre su lati opposti ed il confronto è inevitabile. Nessun altro si è ancora candidato per la posizione di portiere, probabilmente perché sperano di arrivare a giocare in una vera partita.

Quando entra negli spogliatoi sente un frammento di conversazione tra Morisaki e Teppei.

- Non prendertela è che… dai, non si può competere con il talento naturale.

Genzo è più bravo di ragazzi che hanno il doppio della sua età, ma solo perché ci mette il triplo dell’impegno.

Il talento naturale non dovrebbe essere, come dire: naturale?

Genzo ama il calcio. Davvero. È un amore che gli dà la forza di lavorare fino allo stordimento. Ci sono scuola, le lezioni di lingua… forse dovrebbe iscriversi anche ad un altro club, gli farebbe bene qualche ora extra, così forse la smetterebbe di pensare.

Se Genzo è un genio perché deve faticare così tanto?

 

I complimenti di Mister Mikami si fanno più rari: è implicito che Genzo vinca, che riesca a parare un tiro difficile. Tante cose sono implicite. Genzo deve fare di meglio.

Ma come si fa a fare di meglio quando la norma è: vincere sempre, non subire mai goal durante una partita. È impossibile fare meglio, si può solo pareggiare. O fare peggio.

Saranno tutti così delusi.

Genzo non è mai stato così crudele con Ishizaki quanto lo è ora con i suoi compagni di squadra. Non li biasimerà quando si stuferanno di lui e lo abbandoneranno. È inevitabile. I suoi giorni sono contati.

Non pensa a Ishizaki da anni, ma improvvisamente la scimmia è ovunque.

Appare dal nulla un giorno mentre si sta allenando con la squadra. È a capo di un gruppo di bambini vestiti male e pretende che Genzo smetta di usare il campetto che la sua Shutetsu utilizza da oltre due mesi. Dice che è la sua squadra, ora, ad averne bisogno.

Stronzate.

- No. Abbiamo usato questo campetto ogni settimana allo stesso orario per più di due mesi. Se aveste avuto necessità di usarlo lo avremmo saputo.

- Non ne abbiamo avuto bisogno prima, ma ne abbiamo ora. Quindi, sciò, via, disperdetevi o qualsiasi sia il termine che piace usare alla gente ricca.

Come osa?!

Ishizaki lo guarda con disprezzo e fa scattare un nervo che Genzo non pensava avere scoperto.

Alle sue spalle arriva la voce di Morisaki che è silenzioso come un topolino, ma che riesce sempre a farsi sentire.

- Capitano, è tutto a posto?

Genzo inspira, conta fino a cinque, espira. Non è da solo, attorno a lui ci sono i suoi compagni di squadra, i suoi amici, bambini così stupidi da eleggerlo loro leader. Questa è una attività ufficiale del club e questo significa che c’è un insegnante a tenerli d’occhio: se Genzo tira un pugno in faccia a Ishizaki, come desidera disperatamente fare, le conseguenze ricadranno sulla squadra.

Genzo è calmo quando dice:

- No. Puoi usare questo campetto quando non ci siamo. Non m’importa. Ma questo è il nostro orario. Se c’è qualcuno a doversene andare quelli siete voi.

- E cosa succede se non ce ne andiamo?

- Allora la decidiamo qui, una volta per tutte.

Ishizaki solleva le braccia, è quasi comico: è davvero convinto che stiano per fare a botte. Genzo chiarisce: quello che intendeva era una partita tra le loro due squadre, il vincitore si tiene il campetto. Ishizaki accetta.

La Shutetsu li annienta in meno di quindici minuti. Lo fanno con cattiveria, specialmente Taki, Teppei e Izawa che si divertono a prendere in giro un bambino con gli occhiali che pare incapace di piazzare un singolo passaggio decente. Wakabayashi non li ferma: la scuola elementare Nankatsu è solo l’ultimo dei draghi che uccidono per l’onore del proprio re.

No, Wakabayashi non è arrabbiato coi suoi compagni per giocare duro, Genzo è assolutamente furioso con Ishizaki. Ma lo sta prendendo in giro? Come fa a chiamarsi capitano e poi costringere i propri compagni in una partita a senso unico. Per il suo ego?! Cosa crede? Che basti fare la voce grossa per essere seguiti?! Genzo ha sputato sangue per guadagnarsi quel tipo di fiducia.

Questa non è una partita, questo è un insulto al calcio.

Genzo è deluso. La sua amicizia con Ryo, anche con le sue crepe, gli aveva sempre ricordato un momento in cui il calcio era stato semplicemente divertente. Ishizaki ha preso quella memoria e ci ha sputato sopra.

Genzo smette di essere arrabbiato.

È più forte di Ishizaki, può continuare ad amare il calcio per tutti e due.

La Shutetsu vince venti a zero e solo perché Genzo si stufa e dichiara la partita finita. Ishizaki è sdraiato a terra in modo scomposto, respira rumorosamente, i suoi compagni non se la passano meglio. Izawa si avvicina a Genzo, il pollice alto in un gesto di vittoria.

Ignorano la boccheggiante Nankatsu e finiscono l’allenamento.

Genzo spera che questa sia l’ultima volta in cui avrà a che fare con ognuno di loro.

 

Non lo è.

Ishizaki non sa cosa significhi “perdere” e ora è il fastidio costante della sua esistenza. Lo perseguita. Genzo non è paranoico: sa perfettamente che è Ishizaki quello a disegnare le sopracciglia sulla faccia del cane.

La scimmia non appare mai da sola, è sempre circondata da uno stuolo di galoppini quando viene a chiedere la rivincita. Guarda caso succede quando la Shutetsu ha appena finito di allenarsi, forse spera di avere una chance se sono stanchi. Non ce l’ha.

Le sfide di Ishizaki sono noiose, ma non senza pregi, per esempio sono un ottimo modo per i suoi compagni di squadra per sfogare lo stress e Genzo… beh, non è una persona tanto buona da non provare piacere a buttare in faccia ad Ishizaki la sua evidente superiorità.

Diventa noioso anche quello.

Vincono contro di loro cinquanta a zero, ci sono bambini che piangono. Ishizaki prova a rimetterli in piedi, ma sono stufi marci di seguirlo. Qualcuno giura di non voler avere più niente a che fare con il calcio.

Forse ora Ishizaki la smetterà.

Lo fa. Per tre settimane.

 

Un giorno Ishizaki arriva con una baldanza che gli era mancata da tempo. A giudicare dalle persone che si porta appresso, la scimmia ha assunto mezza scuola per venire a picchiarli.

Il campetto dove la Shutetsu si stava allenando ora è pieno di ragazzi di medie e liceo con uniformi male assortite. Ai compagni di Genzo piace fare i gradassi, ma sono agitati e nervosi alle sue spalle.

Non importa chi sia questa gente, è Wakabayashi quello che dovranno affrontare.

Così propone una sfida, una cosa tipo: “se riuscite a segnare contro di me da fuori area, il campetto è vostro”. Se perdono giurano di andarsene senza piantare casini. Non c’è nessun insegnante oggi a supervisionarli e Genzo non permetterà che le cose sfuggano loro di mano.

Avanza impettito verso la porta, si piazza al centro e aspetta.

Genzo è un bravo giocatore, ma questo non è calcio: è una dichiarazione di guerra.

Fortunatamente Mister Mikami ama farlo cimentare in allenamenti impossibili (apparentemente ispirati da uno dei suoi vecchi compagni di squadra). Genzo non ha paura delle persone che Ishizaki si è portato appresso e si vede.

I ragazzi grandi giocano sporco. Niente di nuovo

Non lo conoscono, ma conosceranno il terrore che Genzo Wakabayashi sa ispirare.

Le cose seguono il loro corso.

Il capitano della squadra di baseball lo definisce un mostro, Genzo sorride, il ragazzo impallidisce e se la dà a gambe. Ottimo.

C’è un bambino seduto non troppo distante dalla sua porta, Genzo gli fa l’occhiolino e quello arrossisce. Che carino. Conosce praticamente tutte le persone in città che hanno anche solo un vago interesse per il calcio: questo bambino è nuovo. Sembra avere la sua stessa età e ha passato l’ultimo quarto d’ora a guardarlo adorante. Genzo è abituato agli ammiratori, ma è sempre piacevole trovare qualcuno di nuovo da impressionare. L’apparente imbattibilità della Shutetsu ha attratto parecchi fan, forse questo bambino sarà una nuova aggiunta alla sua squadra.

Mister Mikami arriva, gli fa segno di seguirlo e Genzo ricorda che oggi non dovrebbe nemmeno essere lì e che sta facendo tardi per le sue lezioni pomeridiane. Mentre si allontana Ishizaki prova a fermarlo, se lo scrolla di dosso. Non ha davvero tempo.

Inizia a sentirsi stanco, Ishizaki non potrebbe lasciarlo in pace una volta tanto?!

Saluta i suoi compagni, il gruppo di riservisti della Shutetsu rimarrà ancora un po’ a giocare. L’anno prossimo la maggior parte dei titolari andrà alle medie e sono in molti quelli a sperare di prendere il loro posto in squadra.

Il tempo di entrare in giardino e Genzo finisce a terra lungo e tirato e con la faccia coperta di saliva: John il cane è adorabile, ma una minaccia. Padre l’ha portato a casa l’anno scorso quando è passato in quinta, adesso è in sesta e c’è un sacco da preparare per i test d’ingresso.

C’è un pallone che punta dritto verso la sua faccia. È davvero veloce. Lo afferra senza pensare.

- Genzo! Va tutto bene?!

Ma certo che va tutto bene! Quello che non va bene è che c’è un messaggio sullo stupido pallone. È una sfida scritta con una grafia così illeggibile che Genzo non sa se ridere o mettersi a piangere (non scriveva così male neanche da neonato).

Le orecchie di John si rizzano e il cane prende ad abbaiare: c’è un uomo in giardino. È chiaramente ubriaco, ma è riuscito a saltare oltre il muro perimetrale (davvero straordinario per qualcuno nel suo stato). Lo sconosciuto ondeggia a destra e sinistra cercando di scansare le attenzioni di John. Genzo richiama il cane: il vestito di quel tipo è lurido, non vuole che il cane si ammali.

Mister Mikami dice qualcosa: apparentemente lo sconosciuto ha un’aria famigliare. È normale, il suo allenatore conosce un sacco di gente strana. L’attenzione di Genzo torna al pallone. Il suo misterioso sfidante non può essere più grande di lui, non con una calligrafia così.

Deve aver calciato dall’alto della collina che sovrasta Nankatsu, è l’unico modo per spiegare la traiettoria. Lo dice a Mikami e lo sconosciuto si intromette e conferma che sì: il responsabile è stato un bambino. Il suo allenatore insiste che siano sciocchezze, ma lo accontenta quando Genzo decide di andare a verificare.

Per la prima volta da un sacco di tempo Genzo non si sente annoiato.

Chi accidenti è questo bambino?

Se si sbriga intercetterà il bambino del mistero quando scenderà la collina, inizia a correre e Mister Mikami sospira prima di venirgli dietro, l’ubriaco è con lui. Genzo raggiunge la fermata dell’autobus, si ferma a prendere fiato e vede Ishizaki in piedi dall’altra parte della strada.

Ah.

Per un secondo il cervello si ferma, poi nota che non è solo: il bambino di questo pomeriggio è accanto a lui.

I loro sguardi si incrociano. Gli occhi del bambino sono molto neri e pieni della stessa fame che Genzo vede ogni giorno riflessa nello specchio. Mikami borbotta qualcosa, ma non lo sta ascoltando.

Lascia che il pallone cada a terra e poi lo calcia con tutte le sue forze in direzione dell’altro, angola il tiro in modo che passi attraverso lo spazio sottile che separa il corpo del bus dal grigio dell’asfalto. È un tiro impossibile e stupido e probabilmente pericoloso, ma in questo momento non gli importa.

Il bambino riceve il pallone con il piede e lo rilancia indietro senza esitare. Quando Genzo lo blocca, l’impatto è così forte da fargli formicolare le braccia.

Il suo cappello è storto. Il bambino sorride come se Natale fosse arrivato in anticipo.

C’è qualcosa di primitivo in atto, il cervello di Genzo si inceppa e fissa nella sua mente un momento, un ricordo, una paura: è quello il volto del talento naturale.

Genzo Wakabayashi ne è terrorizzato.

 

 


 

NOTE:

 

Ok, questa delle tre è stata la storia più difficile da scrivere e un incubo da tradurre (alcuni giochi di parole sono davvero impossibili, accidenti). Ho sofferto un sacco nella rissa Ishizaki vs Wakabayashi, ma spero che abbiate apprezzato come un diverso POV alteri parecchio la percezione dei fatti. Sono entrambi due narratori inattendibili.

 

Genzo è brillante, ma troppo esigente con se stesso. La sua tendenza a trascurare la sua saluta fisica e soprattutto mentale combinata all’eccessivo perfezionismo (specialmente quando è piccolo) è quasi patologica (mi ci ero rivista un sacco in questa cosa). Lo vediamo più volte incapace nel manga di chiedere aiuto alle persone che gli sono più vicine (siamo al terzo break-down più o meno conclamato). Trovo significativo che nel Rising Sun, Ishizaki sia l’unico a notare questa sua tendenza, ma (come Kaltz) non farà nulla (meno male che c’è Tsubasa a ricordare involontariamente a Genzo di stressarsi di meno). Più applichi pressione senza permettere uno sfogo, più le cose tendono a rompersi.

Tsubasa e Genzo rappresentano davvero due lati della stessa medaglia (fratelli separati alla nascita vi dico).

Io amo il quintetto Shutetsu. Avete mai notato che nel manga solo Mikami, Kaltz e i famigliari di Genzo (quando l’autore si decide a mostrarne l’esistenza) lo chiamano per nome?

 

Due parole sui Wakabayashi: 1) come specificato in alto questa caratterizzazione è precedente alla mia visione di alcune tavole (Genzo tecnicamente dovrebbe avere solo due fratelli maggiori e i loro nomi sono differenti, ma trovavo divertente che uno di loro avesse lo stesso nome di Misaki); 2) c’è un’altra cameriera menzionata per nome nel manga, Mrs. Asano è basata su di lei.

 

Queste note diventano lunghissime e a ragione. Sto lavorando ad un’altra serie di storie su CT, ma i tempi in cui vi potrò lavorare si fanno un po’ più dilatati specialmente perché ah ah, scadenze sul lavoro e una salute infelice. Ho aperto un account su wattpad, se vedete alcune mie storie attribuite a una certa TheaG.Gander avviso che sono io (ho appena aperto il profilo consigliata da uno dei miei studenti, è vuoto, ma non per molto)

 

No, davvero. Quest’ultima storia è stata un parto. Ora vado a morire un po’. Vi lascio il link del mio originale in inglese LINK e alcuni siparietti comici qui sotto che dimostrano che sono abbastanza vecchia per ricordare la follia di come una volta erano le note a fondo fic.

 

 

Tsubasa: YAY! CIAO MIO NUOVO MIGLIORISSIMO AMICO!

Wakabayashi: * sull’orlo di una crisi esistenziale *

***

La madre di Genzo: Mio figlio avrà un futuro brillante or SO HELP ME GOD!

Il padre: Tranquilla tesoro è tutto sotto controllo.

***

 

Genzo (un tot di anni dopo): Ah e ti ricordi di quella volta in cui hai assunto dei liceali per venirmi a picchiare?

Ishizaki (il cui piano geniale è stato incompreso): Io avrei fatto COSA?!

 

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