Drive By di smarsties (/viewuser.php?uid=247570)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Zero ***
Capitolo 2: *** Uno ***
Capitolo 3: *** Due ***
Capitolo 4: *** Tre ***
Capitolo 5: *** Quattro ***
Capitolo 6: *** Cinque ***
Capitolo 7: *** Sei ***
Capitolo 1 *** Zero ***
Alcune
veloci considerazioni prima di addentrarci nella narrazione:
-
buona parte della
storia si svolge negli Stati Uniti, quindi citerò spesso le
miglia (1 chilometro = 0,621 miglia). Tuttavia, in Canada si usano le
nostre stesse unità di misura, quindi i personaggi per
parlare fra di loro faranno riferimento a quelle
-
distanze e luoghi
sono reali, il resto è frutto della mia fantasia
-
la storia segue il
punto di vista dei soli protagonisti, ma ci saranno diversi camei
– e, non me ne vogliate, potrei sfociare nell’ooc
-
siccome ho un
problema con le playlist di Spotify, questa fic ne avrà una
– ma ve la linkerò più avanti, quando
ci sarà un certo numero di canzoni
Prologo
[
Mercoledì 21 aprile – Filadelfia, Pennsylvania
]
Lo
scrosciare della pioggia contro i vetri dell’auto era
talmente
forte da coprire per buona parte la voce squillante dello speaker
radiofonico, tutto preso a raccontare stupidi aneddoti su
chissà
che. Ulteriore toccasana per il suo mal di testa post-sbornia, che,
nonostante l’aspirina, proprio non voleva saperne di
diminuire,
erano i clacson suonati ad intervalli irregolari –
cos’avevano da
suonare, poi? Il traffico non si sarebbe magicamente sbloccato.
Da
dietro le lenti scure degli occhiali da sole, che teneva su per
coprire il suo pessimo aspetto, Duncan osservava Bridgette per
cercare di capire quando sarebbe partito l’interrogatorio. E,
a
giudicare da quanto avesse insistito per accompagnarlo, trascinandolo
in strada prima ancora che potesse finire di consumare la sua
porzione di cereali, sarebbe anche stato particolarmente lungo.
Di
certo non avrebbe aperto la bocca per primo, perché
l’ultima cosa
che voleva era intrattenere una conversazione, che aveva come scopo
far uscire fuori i suoi sentimenti più reconditi. Avrebbe
atteso che
l’amica prendesse l’iniziativa, per poi evitare
alla meglio tutte
le domande più scomode.
Bridgette
gli lanciò uno sguardo attraverso lo specchietto retrovisore
e,
appena fu certa che fosse sveglio, gli sorrise candidamente. Il
segnale che attendeva.
«Mi
fa piacere che tu ti sia divertito ieri sera. Forse fin troppo, viste
le condizioni in cui Geoff ti ha ritrovato a fine serata, nel bagno
degli uomini.»
Aveva
pochi, pochissimi ricordi lucidi della sera precedente. Ciò
che era
successo nel bagno di quel locale di periferia, che Geoff aveva
scelto per festeggiare il suo trentesimo compleanno, era uno di
quelli.
«Ti
prego, dimmi che non è entrato mentre–»
«Mentre
vomitavi l’anima.»
Duncan
schiuse le labbra, probabilmente per tirare un sospiro di sollievo, e
fu in quel momento che aggiunse: «Anche perché non
c’era bisogno
che entrasse durante l’altra
cosa:
con tutti i dettagli che ci hai fornito, mentre tornavamo a casa, non
abbiamo faticato troppo a
immaginare la scena.»
Il
traffico cominciò a smuoversi proprio in quel momento.
Quando anche
l’ultima macchina era avanzata, Bridgette portò il
cambio su drive
e ripartì; subito dopo, riprese il discorso.
«Comunque,
ho saputo che ti stai dando un gran da fare per elaborare la rottura.
Sessioni di prove infinite, road trip notturni, ubriacature varie e
adesso anche un ménage
à trois.
Hai avuto anche il tempo di dormire e prenderti cura di te?»
Confessarsi
con Geoff era stata una mossa idiota. Avrebbe dovuto prevedere che,
non appena finito di parlare con lui, sarebbe andato a spifferare
tutto alla moglie. Tra di loro non c’erano segreti che
tenessero –
nemmeno quelli degli altri.
«Non
ho dormito granché, ma non puoi dire che non mi sia preso
cura di
me» ridacchiò.
«Hai
passato una notte in centrale!»
«Sono
cose che capitano.»
L’ultima
affermazione la lasciò sconvolta.
«Diciamo
che mi sono preso cura di me per
la maggior parte del tempo»
puntualizzò Duncan, alzando le mani.
«Però, tutto quello che hai
elencato faceva parte di un piano ben preciso».
«Quale
piano, quello di comportarti come l’adolescente che non sei
più?
Perché, in tal caso, ha funzionato alla grande.»
«Risparmiami
la paternale, Brì» sbottò seccamente,
alzando un po’ troppo il
tono.
«Scusa
se ci preoccupiamo per te!»
Calò
il silenzio. L’attenzione di Bridgette era nuovamente tutta
rivolta
verso la strada davanti a sé; Duncan, intanto,
s’era incantato a
guardare le gocce d’acqua scivolare veloci sul finestrino.
Non
era la prima volta che si comportava in maniera irresponsabile, e che
qualche conoscente glielo faceva notare, urlandogli contro quelle
precise parole. Non l’avevano mai toccato.
Purtroppo,
sortivano un effetto completamente diverso quando venivano
pronunciate da due specifiche persone: sua madre e Bridgette. Quelle
due donne erano capaci di farlo sentire quasi in colpa. Quasi.
«Non
ci ho pensato» mormorò a mo’ di scusa,
massaggiandosi una tempia
– il mal di testa non sarebbe mai passato. «Ero
troppo impegnato a
cercare il modo migliore per distrarmi, ed è evidente che ho
superato i limiti. Però, prometto che non vi farò
più preoccupare.
È stata una settimana estrema e sono a pezzi, dubito che ci
sarà
presto un secondo round.»
L’ultima
affermazione riuscì a strapparle un riso.
Contemporaneamente, staccò
una mano dal volante e gli carezzò la spalla sinistra.
«Quindi,
la prossima volta ci chiamerai ed esternerai tutti i tuoi
sentimenti?»
Duncan
poggiò la mano sopra la sua.
«Un
passo per volta.»
Era
certo che la conversazione si fosse chiusa lì. La tensione
s’era
allentata, avevano preso a parlare di argomenti più leggeri
e a
cimentarsi nel karaoke di Semptember
degli Earth,
Wind & Fire,
che lo speaker aveva introdotto con un velo di nostalgia.
L’arrivo
della domanda che più temeva – quando ormai erano
già davanti al
terminal aeroportuale e stavano scaricando il bagagliaio – fu
peggio di una doccia gelida.
«L’hai
più sentita?» si fece scappare Bridgette, mentre
lo aiutava a
sistemare la custodia della chitarra elettrica sulle spalle.
S’incupì
di colpo. Per
lo meno, non aveva detto il suo nome.
«Perdonami!»
squittì subito, portandosi una mano davanti alla bocca.
«Non avrei
dovuto chiedertelo.»
«Non
fa niente, davvero» la tranquillizzò, facendo del
suo meglio per
non risultare freddo. «E comunque no, ma meglio
così.»
Si
tuffò su di lui per abbracciarlo.
«Fai
buon viaggio» mormorò lei ad un soffio dal suo
orecchio. «E spacca
tutto sabato. Di nuovo, ci dispiace non poter essere presenti
fisicamente.»
Le
passò la mano libera dietro la schiena – con
l’altra, reggeva il
borsone rosso, in cui aveva infilato alla rinfusa due cambi ed altri
effetti personali.
«Se
sabato andrà tutto secondo i piani, avrete mille concerti
per
rifarvi.»
*
* *
Nelle
ultime ventiquattro ore, aveva abilmente vinto il processo
più
importante della sua carriera, si era guadagnata il rispetto di tutti
i suoi colleghi più anziani, e il suo capo le aveva promesso
una
gratifica. Per giunta, fra quattro giorni sarebbe convolata a nozze.
Di
certo non immaginava che, a darle la prima brutta notizia della
settimana, sarebbe stato il tabellone delle partenze del Philadelphia
International Airport.
Volo
K45372 – ore 11:20 – Toronto: CANCELLATO
Courtney
si concesse qualche secondo per dei respiri profondi. Dopotutto, non
c’era nessuna ragione per dare di matto. Non appena ci
sarebbero
state le condizioni per decollare, l’avrebbero messa sul
primo volo
per Toronto.
Sì,
si ripeté mentre camminava verso l’infopoint, non
c’era
assolutamente
nessuna ragione per dare di matto.
Non
vi era coda. Dietro al bancone, una ragazza dai capelli rossi,
abilmente attorcigliati in uno chignon, riordinava alcune pratiche in
una cartella. Richiamò la sua attenzione.
«Buongiorno!»
la salutò lei cordiale, girando la sedia in sua direzione e
sistemandosi gli occhiali da vista. «Come posso
aiutarla?»
«Sì,
buongiorno. Il mio volo per Toronto è stato cancellato e
volevo
sapere se c’è ancora posto per il
prossimo».
«Devo
controllare, ma la informo subito che è stata dichiarata
allerta
meteo e probabilmente saremo costretti a cancellare tutti i voli di
oggi.»
Nemmeno
quello era un problema. Tornare con un giorno di ritardo significava
rimandare diverse commissioni, ma avrebbe potuto giostrarle a
distanza, oppure chiedere a Scott di darle una mano – a tal
proposito, doveva assolutamente chiamarlo.
Una
voce maschile alle sue spalle interruppe i suoi ragionamenti.
«Davvero
non c’è nessun volo per Toronto in giornata?»
Courtney
si voltò di scatto, senza nascondere un velo di irritazione,
e si
ritrovò davanti un ragazzo che la superava in altezza di un
paio di
centimetri. Gran parte della faccia era coperta dagli occhiali da
sole, ma il buzz cut verde, i piercing e l’aspetto trasandato
non
passavano di certo inosservati.
«Non
le hanno mai insegnato che è maleducazione intromettersi
nelle
conversazioni degli altri?» sputò acida.
Scoppiò
a riderle in faccia.
«Cos’è
tutta questa formalità, dolcezza? Probabilmente abbiamo la
stessa
età.»
Aveva
proferito una sola frase e già era bastata per farle saltare
il
sistema nervoso. Lo fissava come se volesse incenerirlo –
l’altro
però, a giudicare dal sorrisetto beffardo, era
più divertito che
spaventato – e, se la hostess
non fosse intervenuta, avrebbe finito col cantargliene quattro.
«Se
non ho compreso male, siete entrambi diretti a Toronto»
commentò in
maniera tale che entrambi la sentissero. «E, se avete
l’urgenza di
partire in giornata, forse ho una soluzione.»
I
due
smisero di squadrarsi.
«Stiamo
dirottando diversi aerei negli aeroporti più vicini, dove le
condizioni atmosferiche sono più favorevoli. Se volete,
posso
rimborsarvi i biglietti e potete provare a recarvi al JFK di New
York, a due ore da qui. L’aeroporto è enorme e
sicuramente
riuscirete a trovare qualche volo last minute.»
Cinque
minuti e duecento cinquanta dollari in più sulla carta dopo,
Courtney sedeva su una panca all’ingresso e cercava sul suo
iPhone
il numero dell’agenzia di trasporti di Filadelfia. Batteva
freneticamente il piede sinistro sul pavimento, nemmeno ci provava
più a nascondere il crescente nervosismo. Non solo stava per
spendere una cifra esorbitante per spostarsi da uno stato
all’altro,
ma avrebbe dovuto ripianificare il calendario dei successivi tre
giorni – e lei odiava organizzarsi con così poco
preavviso.
Cominciava
ad intravedere diverse ragioni per dare di matto.
In
cima allo schermo spuntò una notifica. Heather aveva letto
il
messaggio in cui le raccontava dettagliatamente della mattinata
piuttosto movimentata, e aveva risposto con una sola sentenza:
“Questo
perché hai deciso di mettere avanti il lavoro e non
festeggiare
l’addio al nubilato”.
Aveva proprio deciso di farglielo pesare fino alla fine.
«Ma
guarda chi si rivede! Certo che il mondo è proprio
piccolo!»
A
tre passi di distanza, lo sconosciuto di poco fa la fissava, con la
testa leggermente inclinata e gli angoli della bocca tesi verso
l’alto. C’era qualcosa in quel mezzo sorriso che le
faceva
prudere le mani.
«Di
nuovo tu, che gioia!» esclamò con quanto
più sarcasmo possibile,
mettendo via il telefono. «Comincio a pensare che tu sia uno
stalker.»
«Non
lo sono, però ammetto che ti stavo seguendo.»
Si
accomodò di fianco a lei, accasciandosi sullo schienale e
portando
il piede destro sopra la coscia sinistra.
«So
che non si dovrebbe fare, ma ho visto cosa stavi cercando e non
conviene raggiungere New York coi mezzi» la
informò, indicando la
borsa dove aveva riposto il cellulare con un cenno del capo.
«I
prezzi sono esageratissimi.»
La
sua voce era bassa, strascicata, come se fosse sveglio da poco. Un
altro piccolo dettaglio che glielo faceva apparire fastidioso.
«E
come dovrei arrivarci, a piedi?»
«In
treno, ma dovremmo tornare in città e ci impiegheremmo
un’eternità.
Oppure, possiamo affittare una macchina qui in aeroporto».
Il
modo in cui aveva marcato la prima persona plurale non le piaceva
affatto.
«Possiamo?»
«Io
vado a New York, tu vai a New York. Non vedo perché non
andare
assieme.»
«Piuttosto
spendo duecento dollari di taxi.»
Fece
per alzarsi, ma lui fu più veloce: si allungò per
afferrarla per la
spalla, costringendola a stare ferma.
«Ascolta,
so che-
ouch!»,
si
bloccò per ritirare la mano che la ragazza le aveva
schiaffeggiato
con poca delicatezza, «So
che non ci conosciamo e, a giudicare dai segnali che mi stai
lanciando, non penso di starti troppo simpatico, ma ho tre buoni
motivi che ti convinceranno a venire con me.»
Era
vagamente interessata.
«Spara.»
«Numero
uno, la convenienza economica: spartendo il prezzo della macchina e
del carburante, spenderemo una miseria. Numero due, sono un ottimo
compagno di viaggio e ti assicuro che con me il tempo
volerà.»
Lei
simulò un colpo di tosse per nascondere un “certo,
come no”
uscitole in maniera spontanea. Lui non ci fece caso.
«Numero
tre, ti sto offrendo la possibilità di un’ultima
avventura prima
del grande giorno.»
Non
poteva dirlo con certezza per via degli occhiali, ma avvertiva che il
suo sguardo fosse puntato sull’anello che portava
sull’anulare
sinistro. Lo guardò anche lei. Era piccolo, sottile, con una
pietruzza sbrilluccicante di forma circolare. Non doveva essere
costato troppo, probabilmente non era nemmeno fatto di argento puro.
E presto sarebbe stato sostituito da una fede dorata, con il nome del
suo partner inciso nella parte interna.
Non
era mai stata un tipo impulsivo, Courtney. Ogni sera, prima di
chiudere gli occhi, pianificava mentalmente e in ogni minimo
dettaglio la giornata successiva. In quel modo, avrebbe saputo
esattamente cosa fare e non avrebbe sprecato preziosi secondi in
dettagli futili, come, per esempio, scegliere cosa e dove mangiare
durante la pausa pranzo.
Ed
era proprio per questo che l’idea di intraprendere quella
sottospecie di road trip con un estraneo le stuzzicava la mente.
«Chi
mi dice che tu non sia un truffatore? O un predatore
sessuale?»
domandò dubbiosa, ma era ormai chiaro che stesse per cedere.
«E
chi mi dice che non lo sia tu?»
Scosse
la testa, esasperata. Aveva la dialettica di un lattante.
Eppure,
si prese un po’ di tempo per analizzare lui e la sua
proposta; poi,
tornò a guardare l’anello per un’ultima
volta. Emanava
sicurezza, le prometteva tutto quello che aveva sempre desiderato. Ma
avrebbe avuto tutta la vita per continuare a percorrere strade comode
– e
per soddisfare le aspettative che gli altri avevano di lei.
Si
alzò, invitandolo a fare lo stesso.
«Andiamo,
prima che cambi idea.»
Non
se lo fece ripetere due volte.
«Sapevo
che avresti detto di sì» esultò,
scattando in piedi e recuperando
i bagagli che aveva poggiato per terra. Allungò la mano
destra in
sua direzione e si presentò: «E comunque, io sono
Duncan.»
Lei
lasciò la maniglia del trolley per potergliela stringere.
«Io
sono Courtney.»
Angolo
dell’autrice
Ogni
tanto torno a farmi viva su questo fandom.
Sto
provando a scrivere una long da eoni, ma tutti gli incipit che
partorivo non mi convincevano. Ho deciso di metterli assieme ed
è
venuta fuori questa roba qui – che non dovrebbe avere
più di dieci
capitoli, quindi la definirei più una mini-long.
Prima
di pubblicare il prologo, mi sono portata avanti col lavoro per
capire se questa idea fosse valida ho meno. Ho già pronti
altri due
capitoli e li pubblicherò nelle prossime due settimane
–
dopodiché, per via dell’università, gli
aggiornamenti saranno più
sporadici. L’intento è comunque quello di portarla
a termine.
Scusate
se la qualità è quella che è, non
scrivevo da un po’ e sono
ancora arrugginita. Ci sto riprendendo la mano giusto adesso.
A
prescindere dalla gente che mi leggerà, farò del
mio meglio per
portarla a termine. Sarà la mia sfida personale.
(Però,
se qualcuno mi legge e vuole darmi un feedback, è il
benvenuto)
|
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Capitolo 2 *** Uno ***
Uno
[
Mercoledì 21 aprile – Filadelfia, Pennsylvania ]
Alla
terza chiamata senza risposta, si ricordò che, di
mercoledì, Scott
lavorava di mattina. Gli
inviò, quindi,
una nota vocale.
«Ehi
Scott, sono io. Volevo dirti che non so a che ora torno,
perché
hanno bloccato tutti i voli per maltempo, e ho bisogno che tu vada
all’appuntamento col fioraio da solo – ti
ricordi le nostre scelte, sì?
Per sicurezza, ti mando tutto. Comunque, ora sto andando a New York,
forse
riesco a partire da lì. Ti tengo aggiornato.»
Quindici
secondi. Breve e coincisa come sempre.
Allegò
gli
screenshot, in cui vi erano dettagli su molteplici varietà
di fiori,
e attese che tutti i messaggi risultassero spediti, prima di chiudere
la chat.
«Sei
sempre così fredda col tuo fidanzato?»
Courtney
girò lentamente la testa verso sinistra, sbuffando.
Sembrava
di vedere il protagonista di una pellicola hollywoodiana. Duncan
portava la macchina con una sola mano, la sinistra – la
destra era
poggiata sopra il cambio. Si era tirato su le maniche della felpa,
mettendo in bella mostra i numerosi bracciali e tatuaggi, e non
s’era
ancora levato gli occhiali da sole, nonostante fuori continuasse ad
impazzare il diluvio universale.
«Puoi
smetterla di farti gli affari miei?» domandò con
tono scocciato. «E
la mia non è freddezza. Se ti scrivo è per una
ragione ben precisa,
perciò arrivo subito al dunque.»
La
Prius che avevano affittato in aeroporto era dotata di navigatore
satellitare. Secondo quello, avevano percorso solamente otto miglia.
Ne mancavano centonove all’arrivo. C’erano
ottime probabilità che avrebbe smesso di tollerarlo molto
prima.
«Ti
chiederei se arrivi subito al dunque anche in altri contesti, ma ci
siamo appena conosciuti e ci sono ottime possibilità che tu
possa
offenderti.»
«Mi
stai dando della permalosa?»
«Non
oserei mai!» esclamò lui, iniziando a trafficare
con la radio.
«Diciamo che sei sempre sulla difensiva. Sarà
già la quarta volta
che rispondi a tono alle mie provocazioni, come se dovessi
giustificarti per ogni cosa. Per quanto mi diverta a far saltare i
nervi alle persone come te, se dovessimo andare avanti così
fino ad
oggi pomeriggio, potrebbe diventare un tantino ridondante e- wow,
non c’è mezza canzone decente!»
Si
fermò solo dopo aver cambiato frequenza almeno dieci volte,
commentando il brano – When
you were young
dei The
Killers
– con un cenno d’assenso.
«Comunque,
non accetto critiche da chi porta gli occhiali da sole quando fuori
piove» borbottò lei, rivolta
verso
la sua immagine riflessa nello specchietto laterale.
Poteva
coprire le
occhiaie
col trucco, ma era comunque evidente che nell’ultima
settimana
aveva dormito poco e niente. Aveva un’aria a dir poco
stravolta.
Accettare un lavoro di tale portata nel bel mezzo dei preparativi
delle nozze era stata – come Heather non aveva mancato di
sottolineare più volte – una follia bella e buona.
«Nemmeno
mi ero accorto di averli ancora» mormorò,
tastandosi la faccia.
Lasciò per una frazione di secondo il volante e se li
portò sulla
testa. Sotto le lenti scure, si celavano due iridi azzurrissime.
La
ragazza si
soffermò a guardarle con attenzione
– come i capelli verdi fluo, era impossibile non notarle.
Erano
chiare, di un colore che le ricordava il ghiaccio, con qualche
pagliuzza acquamarina. Non aveva mai visto niente di simile.
«Mi
piacciono i tuoi occhi, sono molto particolari.»
Di
primo acchito, Duncan parve spiazzato da quel complimento. Si
ricompose in fretta.
«Ho
fatto capitolare diverse persone con questi» si
pavoneggiò. «Ma se
sono riusciti ad ammaliare anche un osso duro come te, devono essere
proprio magici.»
«Sei
proprio un pallone gonfiato.»
«Giusto
un po’» asserì, lasciandosi scappare una
mezza risata.
Si
spostò sulla corsia di destra, per sorpassare tre macchine
che
procedevano con una lentezza disarmante.
«Anche
a me piacciono i tuoi occhi» disse con voce bassa, guardando
un
punto fisso davanti a sé. «Sono talmente scuri che
sembra che le
pupille ci affoghino dentro. Li rende particolari.»
Gli
sorrise per la prima volta.
«Grazie.
E… Duncan?»
«Dimmi
pure, dolcezza.»
«Se
stacchi un’altra volta le mani dal volante, non ti faccio
più
guidare.»
*
* *
«Macchina
gialla!»
«Cosa?»
Duncan
le fece cenno con la testa. Una station wagon gialla li aveva appena
passati.
«Non
vale.»
«E
per quale motivo, di grazia?»
«Non
mi hai detto che stavamo giocando.»
«Pensavo
fosse scontato! Chiunque gioca a “macchina gialla”
durante i
lunghi viaggi.»
Gli
lanciò un’occhiata che non ammetteva repliche.
«D’accordo,
non vale. Il gioco inizia da adesso.»
Entrambi
tacquero per diversi minuti, pienamente concentrati a portare a casa
il primo punto.
«Macchina
gialla!» strillò Courtney, indicando un punto ben
preciso
dall’altro lato della carreggiata. «Uno a zero per
me.»
«I
taxi non contano.»
«Certo
che contano! Non azzardarti ad inventare regole a caso solo
perché
vuoi vincere.»
«Sei
tu quella che mi ha annullato un punto guadagnato in maniera
onesta!»
«Te
l’ho annullato perché non stavamo giocando!»
*
* *
«Che
scrivi?»
«Modi
per sbarazzarmi di te facendolo passare per uno spiacevole
incidente.»
«Che
coincidenza, due serial killer nella stessa macchina!»
esclamò con
finto stupore Duncan, premendo fino in fondo il pedale del freno.
«È
da un’ora che progetto un metodo per farti fuori in maniera
rapida,
per poi abbandonare il tuo corpo tra le sterpaglie.»
La
coda in ingresso in New Jersey procedeva a
fatica,
specie a causa delle condizioni meteo sempre più avverse.
«Puoi
anche smettere di sforzare i quattro neuroni nel tuo cervello,
perché
non riusciresti ad uccidermi nemmeno nel sonno» lo
avvertì
Courtney, continuando a digitare sulla tastiera. «Sono troppo
intelligente per te.»
Sul
volto di lui comparve un ghigno.
«Ho
passato metà della mia vita a guardare thriller ed horror e,
oltre
ad aver appreso qualche trucchetto, mi hanno insegnato a notare anche
il minimo dei dettagli. Infatti,» le
picchiettò la spalla, invitandola a guardare nello
specchietto
retrovisore, «macchina
gialla. Uno pari. Non avresti dovuto distrarti col telefono. In altre
circostanze, questo avrebbe potuto costarti la vita.»
Ottantotto
miglia all’arrivo.
[
Da
qualche parte nei pressi di East Windsor, New Jersey
]
«Un
bel sorriso per Instagram!»
Sentì
scattare nel momento in cui alzò la testa dal suo piatto. La
sua
immagine nel display era sfocata, aveva gli occhi semichiusi e la
bocca leggermente aperta. In primo piano, Duncan sorrideva coi denti
in bella mostra e con l’indice e il medio sollevati nel segno
della
pace.
«Non
ti azzardare a pubblicarla.»
«Perché?
Io trovo che sia perfetta» commentò lui, scorrendo
fra i vari
filtri alla ricerca di quello che meglio si adattasse alla foto.
«Ha
un non so che di artistico.»
Courtney
si sporse in avanti, nel vano tentativo di strappargli il telefono
dalle grinfie. Bastò spostarlo di qualche centimetro per far
sì che
fosse fuori dalla sua portata.
«Va
bene, se proprio ci tieni possiamo
farne
un’altra» le concesse, ma non prima di aver salvato
l’immagine
in cui era venuta male in galleria.
Stavolta,
erano entrambi perfettamente a fuoco. Duncan era nella stessa
identica posa di prima; Courtney teneva poggiato il volto sul palmo
della mano sinistra e guardava in camera, sorridendo in maniera quasi
impacciata. A separarli, c’era il tavolo su cui erano
poggiati i
vassoi coi loro pranzi – un’insalata e una mela per
lei, alette
di pollo e patate al forno per lui. Sembravano due amici di vecchia
data.
La
sala buffet dell’autogrill era semivuota – oltre a
loro, vi erano
dei camionisti e una coppia di anziani – e pregna di odore di
fritto proveniente dalla cucina. La tv era accesa sul canale di
qualche stazione radio della zona e stava trasmettendo il videoclip
di Stupid
Love
di Lady
Gaga.
«Toglimi
un dubbio» disse Duncan, masticando
rumorosamente.
«Che lavoro fai per poterti permettere dei vestiti del
genere?»
Il
completo ottanio che stava indossando non era nuovo, né
l’aveva
comprato coi suoi soldi. Gliel’aveva spedito sua madre
direttamente
dal Messico, affinché potesse metterlo alla laurea
– prima
della classe ad Harvard, non di certo un traguardo da poco.
Negli anni aveva messo su un paio di chili ed era rimasto
nell’armadio a prendere polvere, ma adesso, grazie alla
ferrea
dieta prematrimoniale, le calzava nuovamente a pennello.
«Sono
un avvocato penalista. Ero a Filadelfia per lavoro, ho dovuto
sostituire un collega in un processo piuttosto delicato –
giro di
soldi illecito fra un’azienda statunitense e una canadese,
non
andrò nei dettagli.»
«E
hai vinto?»
«In
maniera schiacciante, oserei dire» rispose con una punta
d’orgoglio,
prima di mandare giù un sorso d’acqua.
«E tu che ci facevi a
Filadelfia?»
«Toccata
e fuga per il compleanno di
un
mio amico. Sono arrivato ieri pomeriggio e sarei dovuto ripartire
stamattina. Sabato ho un concerto importantissimo e io e i miei
ragazzi abbiamo bisogno di provare fino allo sfinimento.»
«Suoni
in una band?»
«Hai
davanti a te il cantante e chitarrista dei Der
Schnitzle Kickers»
annunciò con tono solenne, sotto lo sguardo confuso di lei.
«Abbiamo
già pubblico abbastanza cospicuo e un album autoprodotto, ma
siamo
praticamente degli emergenti. Sabato ci esibiamo davanti al
discografico di una major e, se tutto va bene, avremo la
possibilità
di firmare un vero e proprio contratto.»
Un
trillo la dissuase
dal commentare il nome del gruppo. Il display del suo cellulare si
era illuminato di colpo, segno che erano arrivati nuovi messaggi. Due
erano di Scott: il primo era un semplice pollice in su, segno che
avesse recepito la sua richiesta; nel secondo le chiedeva come stesse
e cosa stesse facendo. Il terzo, il più lungo, era del suo
capo.
Lesse velocemente l’anteprima, ricordandosi solo dopo
dell’appuntamento che avevano quello stesso pomeriggio, per
parlare
del suo futuro all’interno dello studio legale.
«È
il tuo futuro marito quello?» le domandò Duncan,
che aveva smesso
di ingozzarsi per poter lanciare un’occhiata alla foto che
teneva
come blocco schermo.
Era
stata scattata lo scorso Capodanno, nel salone della villa di suo
padre e della sua compagna. Lei era elegantissima nel suo lungo abito
rosso carminio, impreziosito da gioielli dorati; lui faceva la sua
bella figura con una semplice camicia bianca, un pantalone nero e un
papillon dello stesso colore, ma era chiaro che avesse raccattato il
tutto in qualche outlet. Le cingeva la vita da dietro con entrambe le
braccia e si guardavano intensamente negli occhi, più
radianti che
mai. Nessuno, vedendo quell’immagine, avrebbe mai potuto dire
che,
una manciata di ore prima, avessero discusso in maniera piuttosto
accesa.
«Me
lo immaginavo diverso» ammise, guardandola prendere il
cellulare e
digitare rapidamente sulla tastiera. «Qualcuno di
più…
sofisticato.»
«Mi
sembra di sentire Heather, la mia damigella d’onore e non la
più
grande fan di Scott» mormorò, rimembrando
le parole con cui l’aveva descritto subito dopo averglielo
presentato – rozzo,
povero e nemmeno lontanamente alla tua altezza.
La sua opinione non era mai cambiata.
«Quand’è
che vi sposate?» le domandò Duncan dopo un minuto
abbondante. Nel
frattempo aveva ripulito quasi del tutto il piatto; la ciotola con la
sua insalata, invece, era ancora mezza piena.
«Domenica
mattina, ma sabato sera c’è la cena
prematrimoniale.»
«Dovremmo
brindare a questo weekend importante, ma farlo con l’acqua
porta
sfortuna»,
sollevò la sua bottiglietta da mezzo litro e fece un sorso, «e
sono abbastanza certo che qui gli alcolici facciano schifo.
Vorrà
dire che ti inviterò a bere qualcosa una di queste
sere.»
«Rivederti
ancora una volta dopo averti sopportato per più di mezza
giornata?
No grazie, penso proprio che passerò.»
[
Staten Island, New York ]
«Comunque
puoi anche ammetterlo, adesso.»
«Cosa?»
«Che
ti sei divertita» disse Duncan, continuando
a seguire le indicazioni per
l’aeroporto. «E che non sono poi così
terribile come credevi.»
Da
East Windsor fino al Goethals Bridge non
avevano incontrato grosse difficoltà,
ma, nell’esatto momento in cui le ampie distese verdi avevano
lasciato spazio agli alti grattacieli, si erano ritrovati
imbottigliati nel traffico newyorkese. Quel viaggio non ne voleva
sapere proprio di volgere al termine.
«Penso
ancora che tu sia un grosso pallone gonfiato»
puntualizzò Courtney.
«Però, mi trovo costretta ad ammettere che la tua
compagnia è
stata meno
tremenda
di
quanto mi aspettassi.»
Sul
suo volto comparve per l’ennesima volta quel mezzo sorriso
fastidiosissimo, ma non provò l’istinto di
schiaffeggiarlo fino a
farglielo sparire.
«Mi
aspettavo qualche commento sarcastico, quindi mi accontenterò.
Per
ora. Ho
ancora un paio di chilometri e tutto il viaggio di ritorno per
rendere la tua opinione di me positiva al cento per cento.»
«Non
ci riusciresti nemmeno se fossimo costretti a viaggiare assieme fino
a Toronto.»
Proprio
in quel momento sentì il cellulare vibrare nella sua borsa.
«È
di nuovo il lavoro?» le chiese il ragazzo, notando
come
aveva inarcato le sopracciglia.
«Non
esattamente.»
Qualcuno
aveva risposto alla sua ultima storia Instagram – il selfie
con
Duncan, che era riuscito ad ottenere il suo nome utente dopo diverse
suppliche. Si trattava di Alejandro.
Non
era sorprendente che la stesse cercando, Heather l’aveva di
sicuro
messo al corrente – e
per di più era il suo migliore amico.
Erano
subito andati d’accordo, sin da quando i Burromuerto avevano
comprato la villetta accanto a quella della sua famiglia e, per
conoscerli meglio, avevano invitato lei e suo padre a cena. Erano
coetanei, entrambi madrelingua spagnoli, con ambizioni e valori molto
simili. Era stato naturale trovarsi e legare così tanto,
così in
fretta.
Perciò
no, il messaggio di per sé non la sorprendeva affatto. Non
poteva
dire lo stesso del suo contenuto.
2.51
pm
Che
ci fai in compagnia di Duncan Nelson?
2.52
pm
Lo
conosci?
2.52
pm
Vagamente.
Abbiamo degli amici in comune e qualche volta ci sono uscito assieme.
Tu
come l’hai incontrato?
2.52
pm
In
aeroporto a Filadelfia. Abbiamo deciso di guidare assieme verso New
York solo per risparmiare.
2.53
pm
Perché?
2.56
pm
A
quanto ne so, non ha una buona reputazione, ma immagino che con gli
anni abbia messo un po’ la testa a posto.
E
poi ti conosco, so che non accetteresti mai un passaggio da tipi
loschi.
Però
non dargli troppa confidenza, va bene hermana?
«Oh,
bella questa!» esclamò Duncan d’un
tratto, alzando il volume
della radio.
Courtney
sobbalzò, mentre Drive
By
dei Train
veniva sparata con tono spacca timpani dall’impianto stereo,
e il
suo compagno di viaggio ci cantava sopra – aveva il tipico
timbro
da rockstar, pieno e graffiato di natura; era senz’ombra di
dubbio
baritono.
Intrattenuta
com’era da quel teatrino, rinchiuse le parole di Alejandro in
un
angolino del suo cervello. Era inutile starci a rimuginare, fra poco
si sarebbero salutati e non ci avrebbe avuto più nulla a che
fare.
Lui
le diede una lieve scrollata e le fece cenno di venirgli dietro.
«Assolutamente
no» disse lei, scuotendo la testa. «Non so nemmeno
le parole.»
«Impossibile,
questa canzone è stra famosa. Di sicuro conosci almeno il
ritornello» commentò, prima di riprendere il suo
concerto. «Oh,
I was overwhelmed and frankly scared as hell, because I really fell
for you.
Oh,
I swear to you-»
e qui la indicò.
«I’ll
be there for you»
intonò lei in modo riluttante. Poi, le loro voci si
mischiarono in
un improbabile duetto e quella poca sicurezza iniziale sparì
di
colpo.
Poche
volte si era sentita così spensierata come in quel momento,
lontana
da casa, in macchina con un uomo conosciuto poche ore prima, a
cantare a squarciagola una vecchia canzone. Avrebbe conservato
gelosamente quel ricordo, una volta tornata alla sua comoda routine.
«Sono
anche riuscito a farti ridere!» gongolò lui alla
fine del
ritornello. «Un’altra vittoria per me!»
Non
s’era nemmeno accorta di star sorridendo – e in
modo talmente
smagliante che faceva fatica a scovare qualsivoglia cenno di
stanchezza che, quella mattina, le erano subito saltati
all’occhio.
«Hai
una gran bella voce» aggiunse poco dopo, inumidendosi le
labbra con
la punta della lingua. «Hai preso lezioni?»
«Per
un paio di anni, tra le medie e il liceo. Ho abbandonato quando gli
impegni scolastici hanno iniziato ad accumularsi.»
«È
un po’ un peccato, però. Hai più
talento di alcuni
pseudo-cantanti che ho avuto la sfortuna di conoscere.»
Lentamente,
Staten Island lasciò posto ai quartieri periferici di
Brooklyn. E,
mentre si avvicinavano sempre più alle battute finali di
quella
folle avventura, Courtney ammise a se stessa di essersi divertita.
[
JFK
International Airport, Queens, New York
]
In
piedi davanti al tabellone delle partenze, non riusciva a distinguere
fra déjà-vu o scherzo di pessimo gusto.
Aveva
percorso la bellezza di centodiciassette miglia soltanto per vedersi
cancellare tutti i voli davanti ai suoi occhi. E, ad ogni nuovo
“cancellato”, percepiva il panico e la rabbia
ribollire nelle sue
vene.
Alla
sua destra, con una mano poggiata sul fianco e l’altra a
reggere la
maniglia del trolley, nemmeno Duncan sapeva come reagire alla
situazione.
«Beh,
principessa, a quanto pare ho più tempo del previsto per
rendere
totalmente positiva l’opinione che hai di me».
Angolo
dell’autrice
Probabilmente
voi starete leggendo questo capitolo a pochi giorni di distanza dal
prologo, ma in realtà la stesura è stata
l’equivalente di un
parto: ho allungato, poi accorciato, ho modificato paragrafi interi e
non
sono ancora soddisfatta – probabilmente non lo
sarò mai, quindi
tanto vale pubblicarlo. Vi dico solo che la primissima versione aveva
di uguale solo gli avvenimenti, il modo in cui li ho raccontati sono
variati di volta in volta.
Date
la lunghezze e la rapidità, questo sembra più un
prosieguo del
prologo che un capitolo vero e proprio. Dal prossimo aggiornamento si
entra nel vivo nella storia – e i capitoli diventeranno
più densi,
mi scuso già da adesso se diventeranno troppo prolissi. E si
alzerà
il rating della storia, anche se non conto di andare oltre il giallo.
E
per quanto riguarda la famosa playlist, ve la linkerò la
prossima
volta.
Ci
aggiorniamo con secondo capitolo – o forse un pochino prima.
|
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Capitolo 3 *** Due ***
Come
promesso, eccovi la
playlist della fanfiction.
La aggiornerò con le altre canzoni mano a mano che
pubblicherò i
prossimi capitoli.
Due
[
Mercoledì 21 aprile – Coney Island, New York ]
Il
motel in cui avrebbero passato la notte era a pochi minuti a piedi da
Coney Island – prima di arrivarvi, avevano scorto da lontano
il
famoso luna park, con le luci spente e le serrande degli stand
abbassate. Il quartiere era normalmente piuttosto frequentato ma, con
quel tempaccio, erano pochissimi
i temerari
che s’azzardavano a stare fuori.
Uscito
dalla doccia, Duncan si avvolse attorno alla vita uno degli
asciugamani in dotazione. Buttò uno sguardo prima fuori
dalla
finestra – nient’altro che pioggia e nebbia
– e poi al suo
cellulare, poggiato accanto al lavandino. Segnava le sei e
quarantacinque; la cena non sarebbe arrivata prima delle sette e un
quarto.
Prese
a rivestirsi con
tranquillità,
mentre cercava di processare le ultime trentasei ore – la
festa, il
road trip, le forse due ore di sonno fra le due cose e tutto
ciò che
era successo durante esse. Sembrava quasi impossibile che tanti
eventi si fossero accumulati in un arco temporale ben circoscritto.
Sbadigliò,
al pensiero che l’indomani sarebbe stato altrettanto pregno
di
avvenimenti. I voli continuavano ad essere rimandati
all’infinito a
causa dell’allerta meteo e, per non rischiare di perdere un
altro
giorno, guidare fino a Toronto pareva la scelta più saggia.
Si
trattava di un viaggio lungo otto ore e mezza, ma, limitando quanto
più possibile le soste, sarebbero riusciti ad arrivare in
serata.
Fu
disturbato dalla vibrazione del telefono. Lesse il nome del contatto
e accettò la chiamata; contemporaneamente,
s’infilò i pantaloni
della tuta.
«Sei
in vivavoce e dubito che le pareti siano insonorizzate, quindi non
dire porcate» si sbrigò a puntualizzare,
recuperando schiuma da
barba e lametta dal borsellino in cui teneva tutti gli articoli da
bagno.
«Hai
paura che la tua ultima conquista possa sentire i nostri
commenti?»
sghignazzò Geoff. «Quindi è
più seria di quanto pensassi! Hai
persino pubblicato una foto con lei!»
«La
mia ultima conquista è prossima al matrimonio.»
«Quindi
immagino che sia nella stanza affianco per motivi non affiliati al
sesso.»
Il
sarcasmo era palpabile.
«Che
tu ci creda o no, è proprio così»
affermò, osservando il suo
riflesso spargersi la schiuma sul
viso e sotto il mento.
«Ci hanno cancellato di nuovo il volo, e questo vuol dire che
siamo
bloccati assieme per un altro po’.»
«Potrebbe
essere l’inizio di una commedia romantica o di un
por-»
Un
leggero bip
gli notificò un’altra chiamata in arrivo.
«Starei
volentieri ad ascoltare altre speculazioni sulla mia vita sessuale,
ma purtroppo devo lasciarti» lo informò, dopo aver
visto chi fosse
a cercarlo. «Ci sentiamo in un altro momento, ok?»
«Certo,
fratello. Buon divertimento!»
Mise
giù, con la speranza che la chiacchierata con Chase, il
bassista del
suo gruppo, avrebbe trattato argomenti di diverso tipo.
«Ehi
amico, come sta andando la luna di miele?»
Roteò
gli occhi, annoiato. Come
non detto.
«Eccone
un altro che chiama
per farsi i
cazzi miei» borbottò, riprendendo a tagliarsi la
barba. «Spero non
sia solo questo il motivo per cui mi hai chiamato.»
«Certo
che no, per chi mi hai preso?» chiese lui fintamente
stizzito.
«Volevo
anche sapere
se domani ci degnerai della tua presenza.»
«A
meno che non inventino il teletrasporto in una notte, direi di no.
Sono ancora a New York per cause di forza maggiore.»
«Grandioso,
un’altra prova senza cantante a settantadue ore dal
concerto!»
Gli
sembrò di percepire una nota accusatoria nella sua voce, ma
di
sicuro era un’impressione sbagliata – insomma,
non dipendeva mica da lui!
«Sì,
nemmeno io sono troppo entusiasta» scandì per
bene, affinché
potesse sentirlo anche mentre si sciacquava la faccia. «Ma,
salvo
imprevisti, domani sera sono lì e, per quanto mi riguarda,
possiamo
anche chiuderci in saletta fino al minuto prima del concerto.»
Controllò
con l’ausilio dello specchio che il poco di peluria che aveva
lasciato fosse uniforme.
«D’accordo,
allora» affermò dopo alcuni secondi di
riflessione. «Goditi il
resto del viaggio e
salutami la tua nuova ragazza.»
Riattaccò
senza nemmeno degnarlo di una risposta. Dopodiché, una volta
data
una veloce ripulita al box doccia e al lavandino, si infilò
la felpa
e uscì.
Courtney
era seduta sul suo letto, col portatile poggiato sulle sue gambe, e
stava rispondendo
ad alcune email.
Giacca e pantaloni erano stati sostituiti da abiti più
pratici e i
capelli castani erano raccolti in una mezza coda.
«Sono
da vista?» le chiese, riferendosi agli occhiali tondi
poggiati sul
naso.
Ora
che era completamente struccata, si rese conto di quante lentiggini
avesse realmente sul volto: non solo le poche che le aveva contato
attorno al setto nasale, ma anche su tutte le gote e qualcuna sulla
mandibola.
«Sono
per le luci blu» mormorò, tutta presa dal suo
lavoro.
«Quindi
se io faccio questo»,
con
una mossa svelta, le tolse gli occhiali e, allontanatosi
quanto bastava per non farglieli raggiungere,
guardò attraverso le lenti, «ci
vedi ancora perché non sono graduati.»
«Esatto.
Ora posso riaverli?» sbuffò, allungando una mano
in sua direzione.
Si
posizionò di fronte a lei. Reggendo entrambe le stecche, la
aiutò
ad inforcarli. Indugiò per diversi millesimi di secondo,
incuriosito
da quegli occhi nerissimi che, per tutta la durata
dell’azione, non
avevano rotto il contatto visivo coi suoi.
«Questa
è l’ennesima informazione che hai acquisito su di
me» fece notare
lei, richiudendo il computer e spostandolo di lato. «Al
contrario,
io di te so poco e niente.»
«Ennesima?
Quali sarebbero tutte queste informazioni che avrei?»
«Diversi
dettagli sulla mia vita sentimentale e lavorativa, oltre ai dati
personali che hai dedotto dopo aver spulciato
il mio profilo Instagram da cima a fondo.»
«Quindi
niente
di che»
concluse lui. «Non so comunque nulla sulle tue ideologie o
sui tuoi
gusti. Per esempio, non ho idea di quale sia il tuo colore
preferito.»
«Terra
di Siena bruciata.»
«Che
razza di colore è
terra di Siena bruciata?»
«La
tua ignoranza mi lascia basita, ma non è questo il
punto.»
«Vuoi
sapere il mio colore preferito? Pensavo fosse abbastanza chiaro dai
miei capelli.»
«Non
è proprio quello che intendevo, ma è comunque un
inizio.»
Lo
guardava incuriosita, in
attesa
che aggiungesse altro.
Duncan
odiava parlare di sé, e si trovava sempre in
difficoltà quando gli
chiedevano di farlo. Non raccontava mai più dello stretto
necessario, perché aveva paura di mostrarsi vulnerabile agli
occhi
del suo interlocutore. Nemmeno nella sua musica, con cui comunque
esorcizzava parecchie sensazioni negative, riusciva ad aprirsi
troppo, motivo per cui la stragrande maggioranza di ciò che
scriveva
non gli sembrava completamente onesta.
Finì
per cedere.
In fondo, erano poco più che sconosciuti. Nulla sarebbe mai
uscito
da quelle quattro mura.
«D’accordo,
cos’altro vuoi sapere?»
Il
display del suo cellulare si illuminò di colpo.
Abbassò lo sguardo
verso di esso e subito gli si chiuse la bocca dello stomaco. Aveva
dimenticato di cancellare quel numero.
Uno,
due, tre squilli. Lui rimase immobile, le labbra ben serrate, senza
sapere come comportarsi, fino a che non smise di squillare.
Fu
allora che Courtney prese la parola.
«Potresti
cominciare
dicendomi
chi è Gwen.»
[
Dieci
giorni prima – Gravenhurst, Ontario
]
Duncan
se ne stava seduto con la testa fra le mani e lo sguardo perso nel
vuoto. Poteva sentire indistintamente il profumo delle camelie,
posate al centro del tavolo – camelie per cui aveva guidato
per due
ore, da Toronto a Gravenhurst, soltanto
per sorprenderla;
camelie che Gwen, in piedi dietro alla sedia, si rifiutava
categoricamente di guardare.
Teneva
le dita strette attorno allo schienale e la testa bassa, mortificata
come non mai. C’era talmente tanto silenzio che poteva
sentirla
inspirare ed espirare a fondo, forse per darsi il tempo di cercare
parole adatte, o forse solo per non scoppiare in lacrime.
L’elefante
nella stanza non era altri che un uomo sulla trentina, dai capelli
scuri e gli occhi verdi. Stava due passi più
in là,
con le braccia conserte e l’attenzione fissa sulle
mattonelle. Se
i diversi centimetri in più non glielo avessero impedito,
avrebbe
provato a contorcersi su se stesso, fino a sparire dietro
l’esile
figura di Gwen.
Almeno,
notò Duncan, aveva avuto la decenza di coprirsi
il petto.
«Da
quanto va avanti?»
Le
sue parole suonarono
gravi, aspre.
Alzò
il capo quanto bastasse per intravederli, immobili come statue di
cera. Allora sbatté le mani contro il tavolo, forse in
maniera un
po’ troppo violenta.
Saltarono
entrambi.
«Allora?
Da quanto cazzo va avanti questa cosa?»
Calibrò
per bene il tono, ma senza urlare – perché non era
arrabbiato. Era
deluso, schifato, ferito, ma non arrabbiato.
«Tre
mesi» balbettò Gwen.
S’era
trasferita dopo Capodanno per lavoro, quindi voleva dire che, mentre
lui si faceva il mazzo per mantenere una relazione a distanza, lei si
era lanciata in fretta e furia fra le braccia del primo aitante
sconosciuto. Realizzarlo fu una batosta.
Si
alzò di scatto, rovesciando la sedia, e si sbrigò
ad uscire da lì.
Aveva
sprecato gli ultimi tre mesi della sua vita.
Delle
loro patetiche giustificazioni non ne voleva sapere nulla.
Aveva
bisogno di bere.
I
singulti di lei furono l’ultimo rumore che percepì
prima che la
porta si chiudesse.
[
Giovedì 22 aprile – Route 80, New Jersey
]
Non
erano nemmeno le otto del mattino, eppure, con la nebbia a velare la
strada e i lampioni accesi, pareva che fosse il crepuscolo.
Courtney
avanzava cautamente, nonostante la via davanti a sé fosse
sgombra.
L’asfalto era bagnato e le gomme non vi aderivano
perfettamente, di
certo l’unica cosa che voleva era far slittare la macchina e
andare
a schiantarsi contro il guard rail.
Diede
una rapida controllata alla sua destra. Duncan ronfava beatamente con
la testa premuta contro il finestrino.
Non
gli era stato di grande compagnia, quella mattina. S’era
alzato a
fatica mugugnando e lamentandosi, le aveva rivolto un totale di
quattro parole, e poi era crollato appena entrati in New Jersey,
lasciandola sola con la musica e gli aggiornamenti meteo – e
sperava che fosse almeno per un’altra ora, perché
c’era una pace
che non percepiva ormai da settimane.
Non
fece in tempo a pensarlo che il silenzio fu rotto dalla suoneria del
suo cellulare.
Mimò
con le labbra una maledizione. Non c’era un’area di
sosta nemmeno
a pagare e nel frattempo aveva perso altre due chiamate. Duncan,
almeno lui, non fece una piega.
Si
fermò solo una manciata di minuti dopo, alla prima piazzola
disponibile. Rapidamente, portò il cambio su parking,
si slacciò la cintura e recuperò dal sedile
posteriore la sua borsa
con dentro il telefono. Diede una veloce controllata alle notifiche,
giusto per essere certa che fosse stato Scott a cercare di
contattarla, probabilmente in pensiero perché non aveva sue
notizie
dalla sera prima.
Abbassò
il volume della radio finché la voce di Mitski
in Washing
machine heart non
scemò del tutto, e lo richiamò.
«Scott?
Ehi, buongiorno! Scusa se non ti ho risposto subito, ma sono in
autostrada e-»
«Perché
non mi hai detto che stai viaggiando con un altro?»
Si
morse il labbro inferiore.
Il
suo ragazzo aveva Instagram, ma lo usava di rado e solo per mettere
mi piace a qualche meme. Era quindi fiduciosa del fatto che non
avrebbe mai visto la foto – non
perché avesse qualcosa da nascondergli!
Sin
dagli albori della loro relazione, era sempre stato convinto di non
essere alla sua altezza e, non appena se ne fosse accorta pure lei,
lo avrebbe scaricato senza troppe cerimonie.
La
sua insicurezza sfociava in scenate di gelosia inutili e, se
all’inizio si sentiva lusingata, a lungo andare Courtney
aveva
cominciato a trovare quel suo atteggiamento fastidioso, a tratti
vagamente tossico.
«Perché
non era rilevante» rispose con tono piatto. «Siamo
entrambi diretti
a Toronto e stiamo viaggiando assieme solo per risparmiare.»
«Ok,
allora perché non dirmelo subito?»
incalzò lui. «C’è forse
dell’altro?»
«Intendi
a parte aver occultato una microscopica parte di racconto,
perché
sapevo che avresti reagito in maniera esagerata e volevo evitare
questa conversazione?» ribatté, cercando di
controllare la sempre
più crescente irritazione. «Direi di no.»
«Oh,
perdonami! Quindi è solo una mia impressione e questa
situazione non
sembra una grande ultima fuga romantica, prima di incatenarti a me
finché morte non ci separi!»
Non
lo pensava davvero, erano parole dettate da una serie di fattori
–
i turni allucinanti in fabbrica, lo stress prematrimoniale, le
discussioni accese degli ultimi periodi. Eppure, l’ironia
pungente
con cui le aveva sputate fu abbastanza per farle saltare i nervi.
«Esatto,
e vuoi sapere il motivo? Mentre la tua più grande
preoccupazione era
capire se ti avessi messo le corna, io sono stata impegnata a vincere
la causa più importante della mia vita e a definire gli
ultimi
dettagli per domenica – perché sia mai fare
affidamento su di te!
No, deve pensarci la povera scema bloccata in un altro Stato, a
ottocento chilometri da casa!»
Gli
riattaccò in faccia, trattenendosi dall’urlare per
la
frustrazione. Invece, poggiò la fronte sul volante e si
concesse
qualche attimo per fare respiri profondi e processare quella
discussione a dir poco surreale – e che non avrebbe portato
conseguenze. Una volta stemperata la rabbia, Scott sarebbe tornato a
chiedere scusa con la coda tra le gambe. Era il suo modus operandi, a
prescindere che avesse torto o ragione.
Distratta
com’era, ci mise un po’ a rendersi conto che Duncan
s’era
svegliato e, adagiata la testa sulle sue cosce, la scrutava dal
basso.
«Tutto
bene?» domandò con voce ancora impastata dal sonno.
Sussultò,
portandosi una mano in petto.
«Ma
sei idiota?»
Sotto
le occhiatacce feroci di lei, si sbrigò a strisciare
indietro nel
suo angolino.
«Scusa,
non pensavo che la prendessi così male» si
giustificò, trattenendo
una risata di fronte al suo viso livido per la rabbia.
«Volevo solo
sapere perché siamo fermi qui.»
Lei
s’era già riallacciata la cinta ed era ripartita,
dando le giuste
precedenze prima di immettersi nella corsia.
«Non
sono affari tuoi» sbottò acida. «E
adesso ti pregherei di fare
silenzio, non voglio sentirti fiatare fino a quando non saremo in
Pennsylvania.»
Ovvero,
a detta del navigatore, fra meno di dieci minuti. Erano comunque
abbastanza per liberare il cervello da sentimenti negativi.
Ne
trascorsero solo quattro prima di essere costretta a fermarsi di
nuovo, stavolta a causa del traffico. Aguzzando la vista, ne comprese
la causa: la carreggiata era chiusa e gli ausiliari al traffico
stavano facendo sgomberare i mezzi verso l’uscita
più vicina.
Abbassò
il finestrino, richiamando l’attenzione di un vigile distante
solo
un paio di passi, impegnato a segnalare con le proprie braccia la
nuova traiettoria.
«Mi
scusi, a cosa è dovuta questa deviazione?» chiese
a voce alta,
sovrastando il rombare dei motori.
«Il
fiume Delaware è esondato» gli spiegò
lui, continuando a svolgere
il suo lavoro. «Nulla di anomalo, ma le strade sono piene
d’acqua
e al momento è impossibile proseguire.»
Percepiva
sempre più vicina una crisi di nervi dalla portata epocale.
Iniziò
a contare mentalmente fino a dieci nel tentativo di ritardarla
ulteriormente.
«A
questo punto, potremmo fermarci a fare colazione» propose
Duncan.
«Non volevo dire nulla per lasciarti sbollire la palese
incazzatura,
però io avrei un po’ di fame.»
Strinse
con forza il volante, tanto che le nocche si arrossarono. Era
riuscita ad arrivare solo al tre.
[
Knowlton,
New Jersey
]
8.29
am
Sappi
che in questa faccenda sono totalmente dalla tua parte.
Anche
se questa dovesse essere una “grande ultima fuga
romantica”.
8.30
am
Avresti
potuto fermarti al primo messaggio, ma grazie del supporto.
Lamentarsi
di Scott con Heather era sempre un toccasana, specie in momenti come
quelli, in cui non sono era ancora alterata per il litigio, ma si
doveva pure assumere l’incarico di rimediare ai danni creati
da
lui.
Oltre
ad iMessage, teneva aperta l’applicazione della posta
elettronica.
Era stata contatta dalla venue del matrimonio, che le chiedeva di
rivedere l’assegnazione dei posti. Quell’imbecille
del suo
fidanzato aveva deciso di inviare all’ultimo una ventina di
parenti, senza nemmeno curarsi di far aggiungere delle sedie per
loro.
«Non
hai toccato quasi nulla» le fece notare Duncan, puntando con
la
forchetta i pancake ricoperti di sciroppo d’acero e il
cappuccino.
«Non
ora» farfugliò.
Spartirli
era una soluzione da escludere, le tavolate sarebbero state troppo
affollate.
«Se
non hai fame, posso mangiarli io.»
Doveva
per forza aggiungere tre tavoli – ed era tentata di metterli
fuori
dalla porta, giusto per fare un dispetto a Scott.
«Insomma,
sarebbe un peccato rimandarli indietro.»
«Oh
mio Dio!»
sbraitò Courtney, esasperata. «Ce la fai a non
fiatare per più di
mezzo minuto? Non vedi che sono impegnata?»
Divenne
subito il centro dell’attenzione delle persone sedute ai
tavoli più
vicini.
«Ok,
direi che è abbastanza» si accigliò
lui, sfilandole il cellulare
dalle mani. «Non sei l’unica che sta attraversando
un periodo
particolarmente stressante, quindi che ne dici di darti una calmata?
Anche perché stai riversando le tue frustrazioni su di me
– che,
vorrei ricordartelo, non c’entro nulla – e al
momento l’ultima
cosa di cui ho bisogno è farmi sgridare da una primadonna
isterica.»
Ora
gli sguardi erano tutti puntati su di lui, compreso quello di
Courtney, che aveva spalancato gli occhi e aggrottato la fronte in
una maniera quasi innaturale. Poi sospirò e i muscoli
facciali
tornarono rilassati.
«Scusa,
hai ragione.»
«Non
credevo che questa frase facesse parte del tuo vocabolario!»
«Ho
avuto una discussione allucinante con Scott e sono ancora turbata
–
ma tu non c’entri nulla.»
Lui
esitò, come se stesse meditando su come portare avanti la
conversazione.
«Beh,
forse c’entro un po’ anch’io»
le sorrise, tenendo pollice ed
indice così vicini da sfiorarsi.
Aveva
sentito tutto.
Si
concesse un lungo, lento sorso del suo cappuccino, dandosi il tempo
di trovare l’appiglio per cambiare discorso – che
avrebbe dovuto fare altrimenti?
Non avevano confidenza , sarebbe stato fin troppo strano parlarne.
No, era meglio non approfondire troppo le proprie vite amorose
–
già cavargli qualche informazione sulla sua ex, ieri sera,
aveva
creato un certo imbarazzo – e continuare con i loro casuali
battibecchi.
«Comunque
sia», si
allungò in avanti per riprendersi il telefono, fermandosi ad
un paio
di palmi di distanza dal suo volto,
«dammi
un’altra volta dell’isterica e potrei casualmente
abbandonarti al prossimo autogrill.»
La
sua minaccia lo fece ghignare.
«È
difficile prenderti sul serio con quel baffo di schiuma.»
Sotto
lo sguardo divertito di Duncan, si ritirò imbronciata, e si
sbrigò
a ripulirsi con un tovagliolo di carta. Decise di lasciarlo perdere;
si concentrò, invece, nel mettere qualcosa sotto i denti.
Dopo
nemmeno tre bocconi, quasi si strozzò nel leggere la
risposta di
Heather. Rimase a fissarla, incredula, sperando che le sue guance non
si fossero tinte di rosso.
8.41
am
Quindi
vorresti farmi credere che l’idea di una sveltina col tuo
nuovo
amico non ti è minimamente passata per
l’anticamera del cervello.
Istintivamente,
rivolse un rapido sguardo al ragazzo di fronte a lei. Stava
masticando del bacon a bocca aperta.
8.43
am
No,
affatto!
«Queste
le offre la casa.»
La
cameriera, che aveva messo sotto i loro nasi due fette di torta alle
mele, era diversa da quella che li aveva serviti prima. Era
più
bassa e in carne, con dei lineamenti più delicati. Doveva
avere
pochi anni in meno di lei e tutto – la pelle liscia e ben
curata,
gli sfarzosi orecchini circolari, la sua postura – lasciava
presagire che lei, con quel minuscolo bar di periferia, non aveva
granché a che fare.
«Grazie!»
«Non
c’è di che, bella.»
Si
girò, poi, in direzione di Duncan, senza riuscire a
nascondere la
fibrillazione.
«Piacere,
sono Leshawna» si presentò, allungandogli la mano
destra. «Una
grande fan della tua musica.»
Era
genuinamente sorpreso e per assurdo, a giudicare dal modo vigoroso in
cui ricambiò la stretta, anche più felice di lei.
«Il
piacere è tutto mio» esclamò
allegramente. «Ehi, Court, guarda!»,
si
girò verso di lei, raggiante come un bimbo in un negozio di
giocattoli. «Ho
dei fan anche a centinaia di chilometri da casa!»
Quella
sua reazione così spontanea le fece spuntare un sorriso.
«Possiamo
farci una foto?» domandò Leshawna. «Quando
hai finito di mangiare, ovviamente!
E
poi, qui di solito organizziamo serate a microfono aperto, quindi, se
poi ti andasse di suonarci qualcosa…»
Sembrava
che non attendesse altro.
«Assolutamente
sì!» saltò su. «Dammi venti
minuti e sono da te.»
*
* *
Dal
momento in cui aveva finito di consumare il suo pasto e scattato un
paio di selfie con la cameriera, a quello in cui era corso a
recuperare la chitarra dalla macchina, l’aveva accordata e
collegata all’amplificatore, erano passati esattamente venti
minuti.
Aveva
da subito catturato l’attenzione di tutti i presenti;
qualcuno
aveva persino smesso di mangiare.
«Salve
a tutti, io sono Duncan e nella vita faccio il musicista» si
introdusse lui per rompere il ghiaccio. «Su richiesta di
quella
bella fanciulla»,
indicò Leshawna, che ridacchiò imbarazzata,
mentre riprendeva la
scena col suo cellulare, «vorrei
suonarvi un mio pezzo.»
Da
un tipo eccentrico come lui, non poteva aspettarsi altro che musica
rock. Courtney non era una grande fan del genere, ma la versione
stripped
che stava proponendo non era davvero niente male. Era merito della
sua abilità nel suonare, unita alla voce sporca –
ora che poteva
ascoltarla meglio, senza nessuna traccia registrata sotto, ne era
rimasta a dir poco stregata. E, a giudicare dai bisbiglii che colse,
non era l’unica a pensarla così.
Era
magnetico, era riuscita ad ipnotizzarla senza l’uso di una
band o
di effetti speciali. Aveva verve e un’innata padronanza del
palcoscenico. Sarebbe riuscito a risaltare senza fatica alcuna anche
in mezzo ad una folla.
Più
la trasportava nel suo mondo, più si rendeva conto di aver
finalmente trovato una sua parte che apprezzava – quella
estasiata
dal suo lavoro, che dava il meglio di sé ad ogni esibizione
e che
rimaneva sbigottita quando qualcuno si complimentava con lui per la
sua arte.
Fu
la prima a battere le mani, facendo partire un coro scrosciante di
applausi e richieste di bis, cui reagì con un sorriso quasi
impacciato.
Si
ritrovò a suonare altre due canzoni. Alla fine della
seconda,
annunciò: «Questa è davvero
l’ultima, poi giuro che vi lascio in
pace.»
Fu
interrotto da qualche risata.
«Per
il gran finale, vorrei chiedere ad una persona di raggiungermi
qui.»
Courtney
ci mise un po’ ad accorgersi che gli occhi di tutti fossero
poggiati su di lei. Si sentì pervasa dallo stesso nervosismo
che
aveva avuto durante la sua primissima udienza – quella per
cui, a
seguito della sentenza a suo favore, aveva sfogato due mesi di ansie,
ripensamenti e insicurezze nel bagno del tribunale.
Scosse
energicamente la testa: un conto era cantare in macchina, un altro
davanti a degli sconosciuti.
«Dai
Courtney, non farti pregare» la richiamò, prima di
far intonare
alla clientela il suo nome.
Si
mosse titubante, con quel coro che le rimbombava nelle orecchie,
fermandosi ai piedi del palco. Duncan si chinò verso di lei.
«Non
salgo. Non ho intenzione di umiliarmi.»
«Non
succederà» la rassicurò. «E
anche se fosse, non rivedrai mai più
queste persone.»
«Non
so che cantare» aggiunse con un pizzico di imbarazzo.
«La
tua canzone preferita, ne hai sicuramente una.»
In
tutta onestà, non ne aveva. Non ascoltava tantissima musica,
se non
colonne sonore di film, componimenti classici e un paio di brani pop.
E
Fly
me to the moon di
Frank
Sinatra.
Era
stato il brano del primo ballo da marito e moglie dei suoi genitori,
e probabilmente il primo che le avevano fatto ascoltare. Era il loro
brano.
Da
piccola, la sentiva risuonare di continuo, dal vecchio stereo o dalle
loro voci non propriamente intonate, tanto che era arrivata a non
sopportarla. Ironicamente, le aveva fatto compagnia nei momenti in
cui quei ricordi spensierati le erano sembrati più lontani
del
solito – il divorzio, il trasferimento di mamma a
Guadalajara, il
secondo matrimonio di papà e la nascita del suo fratellastro.
Cantarono
quella. Duncan le lasciò tutta la prima strofa, limitandosi
ad
accompagnarla con la chitarra; subentrò con naturalezza
nella
seconda, limitandosi ad armonizzare. Nonostante i loro timbri fossero
completamente diversi – il suo era molto più
pulito e acuto –
trovava che si sposassero piuttosto bene.
Stavano
in piedi l’uno accanto all’altra, con solo un
microfono a
dividerli, e i loro corpi si sfiorarono più di una volta. La
vicinanza non era solo fisica, ma anche, e soprattutto, fatta di
gesti e sguardi fugaci. Era palese che fosse tutto improvvisato
–
lei aveva leggermente stonato nell’attacco, lui aveva confuso
uno o
due accordi – ma erano comunque riusciti a creare la giusta
sinergia.
Gli
ultimi versi li cantarono con ancora più
intensità, tuffandosi
l’uno negli occhi dell’altra.
All’improvviso era tutto così
intimo – troppo
intimo,
precisò una vocina nella testa di Courtney, che non riusciva
a
trovare una spiegazione razionale alla sensazione di vuoto nel suo
stomaco. Odiava l’ambigua sintonia che stavano tessendo,
eppure non
aveva le forze di disfarla.
Non
si ruppe nemmeno quando l’ultimo accordo risuonò
nell’aria,
diversi secondi in più degli altri. Lo percepirono distante
ed
ovattato, così come lo scrosciare degli applausi. Poi, il
contatto
visivo si spezzò, la bolla scoppiò e i rumori del
mondo esterno li
investirono.
*
* *
«Volevo
scusarmi per stamattina, ho avuto una reazione esagerata ed
ingiustificabile.»
«È
anche colpa mia, avrei dovuto dirti da subito che non ero
sola.»
«La
colpa è mia e del mio carattere di merda.
Imparerò a gestire la mia
gelosia, te lo prometto.»
Silenzio.
«Ehi,
stai bene?»
«Sì,
sto… stiamo per ripartire. Tornerò più
tardi del previsto, non
aspettarmi sveglio.»
«D’accordo,
però tienimi aggiornato. Ok?»
«Ok.»
«Allora
ci vediamo domattina. Fate attenzione per strada, mi raccomando. Ti
amo.»
Tentennò.
«Ti
amo anch’io.»
La
telefonata terminò.
Courtney
si strinse nelle spalle, scivolando con la schiena lungo la parete
del bagno pubblico. Rimase accovacciata, in equilibrio sulle punte
dei piedi. Respirava piano.
In
una mano teneva una confezione di plastica. Se la portava appresso da
ormai due giorni e non aveva ancora avuto il coraggio di tirar fuori
il contenuto. Non l’avrebbe aperta nemmeno quella volta.
Aveva
troppa paura che il test risultasse positivo.
Angolo
dell’autrice
Ebbene,
eccoci qua col cliffhanger finale. Dovrete aspettare un po’
per
scoprire cosa succederà, perché questo era
l’ultimo dei capitoli
già pronti. Da adesso, gli aggiornamenti saranno
più sporadici.
Ma
non temete, perché non ho nessuna intenzione di finire qua.
Ho
previsto altri 2/3 capitoli + l’epilogo, quindi non siamo
ancora al
giro di boa, ma cominciamo già ad intravedere un piccolo
evolversi
della relazione fra i nostri protagonisti. Spero che risulti il
più
naturale possibile. Il mio timore è che, siccome la storia
si spalma
nell’arco di pochi giorni, il tutto possa risultare
affrettato e
forzato.
Ad
ogni modo, sono felice del supporto che state mostrando alla
fanfiction. Mi aspettavo molte meno interazioni – un
po’ perché
il fandom è morto, un po’ perché avevo
dubbi sulla qualità – e
invece posso ritenermi più che soddisfatta. È
anche questo che mi
spinge a continuare.
E
grazie anche a chi ha letto la one-shot natalizia, sono contenta che
abbiate apprezzato pure quella.
Detto
ciò, torno a lavorare al terzo capitolo – che
sarà un bel po’
carico di emozioni.
|
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Capitolo 4 *** Tre ***
Tre
[
giovedì
22 aprile – Knowlton, New Jersey
]
Gwen
aveva avuto la faccia tosta di provare a ricontattarlo.
Il
suo messaggio giaceva in alto a tutte le altre notifiche –
centinaia di commenti entusiasti sulla sua performance; Leshawna ne
aveva caricato i punti salienti nelle storie, che erano state presto
scovate dai suoi fan.
Il
serbatoio della Prius si riempiva velocemente. La puzza di cherosene
gli invase le narici.
Duncan
guardava con un occhio il contatore, con l’altro
l’anteprima di
qualunque cosa la sua ex avesse l’urgenza di dirgli. Qualche
scusa
patetica, gli suggerì la sua coscienza.
Ci
rimuginò su, ma alla fine sbloccò il display e
aprì la chat.
1:22
pm
So
che non vuoi sentirmi e hai tutto il diritto di odiarmi. Mi sentivo
troppo in colpa, quindi ho deciso di troncare con Trent. Nel weekend
sarò a Toronto da mia mamma e pensavo di passare a vederti,
magari
di scambiare due chiacchiere dopo. Non ti chiederò di
riprovarci,
penso che sia troppo tardi per questo. Vorrei solo chiarire faccia a
faccia.
Rilesse
quelle righe per tre volte, prima di bloccare
numero e profili social.
Voleva
venire a sentirlo suonare? Nessun problema. Ma non avrebbe passato il
post-concerto a sentire i suoi piagnistei, perché non
c’era
assolutamente nulla da chiarire. Il tradimento aveva frantumato la
fiducia che nutriva nei suoi confronti e rimettere assieme i pezzi
era impossibile.
Si
rese conto di star stringendo con
troppa foga
la pompa solo quando capì
di essersi scheggiato un’unghia, ovviamente una della mano
destra
su cui le portava più lunghe per via della chitarra.
Il
serbatoio era pieno. Rimise tutto a posto e, cacciato il portafoglio
dalla tasca, si diresse verso la cassa automatica.
Eppure,
c’era una parte di lui che voleva rivederla, che voleva star
a
sentire quello che aveva da dirgli. La
parte che pretendeva una degna conclusione per quel capitolo durato
un anno. La parte che, nonostante tutto, teneva ancora a Gwen.
Non
l’avrebbe assecondata. Non aveva passato l’ultima
settimana e
mezzo a distrarsi e sopprimere il dolore, salvo poi strisciare di
nuovo ai suoi piedi. Non importava quanto bella e importante fosse
stata la loro relazione, meritava di portarle rancore per come aveva
demolito ciò che avevano costruito.
Le
porte automatiche del bar del distributore si spalancarono. Vide
Courtney uscire fuori, stretta nel suo cappotto marrone. Quando fu
più vicina, notò una rughetta fra le sue
sopracciglia e lo sguardo
pensieroso.
«Cos’è
quella faccia grigia, principessa?» le domandò,
inclinandosi di
lato per poter cogliere degli indizi dai suoi occhi onice.
«Nulla»
affermò, tremando a causa del vento freddo. «Stavo
parlando con
Scott.»
«E
vi siete chiariti, immagino.»
Annuì,
ma tutto lasciava presagire che ci fosse dell’altro.
«Hai
un’unghia rotta, lo sai?»
gli
domandò poi d’un tratto.
Se
la guardò. Era tranciata a metà, non poteva fare
altro che
tagliarla e limarla a dovere.
«Devo
essermela graffiata
su
una mattonella in bagno» mentì lui.
Ritirò
dalla macchinetta lo scontrino fresco d’inchiostro. Lo
ripiegò e
lo infilò nel portafoglio.
«Allora,
vogliamo rimetterci in viaggio?»
[
Route
81, Pennsylvania
]
«Non
capisco perché privare i migliori pub della città
del nostro
sodalizio.»
Courtney
sospirò: non ne voleva proprio sapere di demordere.
Se
ne stava col naso su delle mappe geografiche, trovate nello scomparto
anteriore assieme alla carta d’immatricolazione
dell’auto.
Probabilmente erano appartenute a vecchi affittuari che le avevano
scordate. Ve n’era anche una della Pennsylvania e lei
s’intratteneva seguendo col dito la strada che stavano
percorrendo.
«Già
abbiamo spaccato con un’esibizione improvvisata»
le fece notare Duncan, trafficando
con l’aria condizionata.
«Immagina cosa potremmo fare con una piccola setlist ben
studiata!»
Era
il primo pomeriggio e s’erano rimessi in viaggio da circa
un’ora
e mezza. Avevano percorso ottantacinque miglia, ne mancavano una
ventina per raggiungere lo stato di New York. Nella migliore delle
ipotesi, sarebbero arrivati a Toronto attorno all’una di
notte.
«Smettila
di trovare modi per rivedermi una volta tornati a casa» sorrise
lei, guardandolo di sbieco. «Non credi che ti abbia
già sopportato
a sufficienza?»
Le
ammiccò.
«Lo
dici come se non mi amassi.»
Non
mancò di rispondergli a tono – «No,
nemmeno un po’» – ma
l’uso di quel particolare verbo smosse qualcosa dentro di
lei. Era
evidente che fosse una frase ironica, buttata lì senza
nemmeno
rifletterci troppo. Ciononostante, si ritrovò a darle fin
troppa
importanza.
La
connessione che s’era creata quella mattina, durante il
duetto, era
simile a quella che aveva percepito con una sola persona, Alejandro
–
e aveva senso che fosse stato così: erano due
metà perfettamente
complementari, capaci di comprendersi al volo. Era suo fratello.
Duncan,
al contrario, era poco più che uno sconosciuto.
Aveva
dunque provato ad imputare la colpa all’atmosfera, alla
canzone,
alla vicinanza. Poi la sua mente era volata al motel a Coney Island,
alle chiacchiere e alle domande sempre più personali
– non che si
fossero raccontati granché, ma normalmente ci impiegava
settimane,
se non addirittura mesi, per aprirsi.
Aveva
trovato una giustificazione piuttosto soddisfacente anche per quello.
Parlare come due persone civili, anziché discutere per ogni
piccolezza, avrebbe reso meno sfiancante la loro convivenza forzata,
oltre ad aiutarli a individuare punti d’incontro. Era stata
un po’
una terapia di coppia.
Le
era servito, inoltre, a togliersi dalla testa il tarlo che Alejandro
le aveva ficcato coi messaggi del pomeriggio precedente.
«Così
mi spezzi il cuore» esclamò Duncan fintamente
offeso, tamburellando
le dita sul volante a tempo di Since
U been gone
di
Kelly Clarkson.
Nel
profondo, sapeva perché quella piega inaspettatamente intima
la
turbava, e aveva a che fare col suo fidanzato.
Il
dare priorità alla sua carriera aveva mandato a monte le
poche
storie serie che aveva avuto. Era abituata alla solitudine e, a dirla
tutta, non aveva proprio tempo materiale da poter dedicare ad
un’altra persona.
Aveva
cominciato a pesarle solo negli ultimi due anni: più
partecipava a
matrimoni di amici e conoscenti, più era palese che
l’unica
zitella acida rimasta fosse proprio lei.
Per
questo, quando aveva conosciuto Scott, s’era sbrigata a
bruciare le
tappe, prima che anche lui avesse potuto vederla per quello che era:
un’isterica primadonna malata di lavoro. Poi, che lui
l’avrebbe
venerata anche se avesse avuto tre braccia e cinque occhi era
un’altra cosa!
La
fatidica scintilla, però, non era mai scoccata. Si era
accorta in
fretta di non amarlo – o almeno, non quanto lui amava lei
– ma,
tutto sommato, stargli affianco le dava la sensazione di comfort e
stabilità cui aveva sempre aspirato. Avrebbe potuto
conviverci per
tutta la vita senza troppe cerimonie. Meglio quello che essere
umiliata ad ogni evento pubblico.
E
andava tutto bene, fino a quando l’universo non gli aveva
messo
Duncan in mezzo ai piedi, e le aveva fatto capire che forse
di
fare sforzi e scendere a compromessi non le andava più.
«Non
stai andando un po’ troppo veloce?»
domandò qualche minuto più
tardi, più che altro per mettere a tacere quel folle flusso
di
coscienza.
«Rilassati,
bambolina» biascicò lui, combinando due dei
termini che più le
urtavano il sistema nervoso. «Il massimo è novanta
e io sto andando
ad ottantacinque.»
Aveva
decisamente sforato il limite, ma non ci fu bisogno di controbattere
perché, un miglio più avanti, i lampeggianti di
una volante li
abbagliarono. Sul ciglio della strada, al riparo di un grosso
ombrello nero, un’agente faceva loro segno di accostare.
Duncan
trattenne un’imprecazione, ignorando l’espressione
compiaciuta di
Courtney che celava un sonoro “te l’avevo
detto”.
«Buonasera,
agente» la salutò con voce vagamente filtrante,
mettendo su un
sorrisetto mellifluo e sbattendo le ciglia più volte del
necessario.
La
sua adorabile compagna di viaggiò gli tirò uno
scappellotto sulla
nuca.
«Patente
e libretto, per favore» ordinò quella, che nemmeno
si era accorta
dei suoi patetici tentativi di liberarsi con una semplice
ammonizione.
Mentre
lui le stendeva i documenti, l’occhio vigile di Courtney
cadde sul
distintivo dorato che l’agente portava appuntato al petto
– il
suo cognome era Sanders.
«Hai
proprio una bella faccia tosta» borbottò, nel
momento in cui quella
si allontanò, in merito al tono che aveva utilizzato con
un’ufficiale. «E smettila di guardarle il
fondoschiena dallo
specchietto!»
«Stavo
solo controllando perché ci stesse mettendo così
tanto» si
giustificò lui, senza smettere di fissare. «Non
c’è motivo di
essere gelosa, principessa.»
Lo
colpì una seconda volta.
Effettivamente,
ci stava impiegando più del previsto. Non sembrava in
procinto di
fargli una multa. Erano, però, almeno una manciata di minuti
che,
china sul finestrino, si consultava con la sua collega, seduta al
posto di guida. Questa teneva in mano la patente di Duncan e
bofonchiava qualcosa al suo walkie talkie. Finalmente lo mise via e
fece un cenno d’assenso a Sanders, che tornò da
loro.
«Signor
Nelson?»
«Dica
pure»
le sorrise lui, cortese.
«Deve
seguirci in commissariato. I suoi dati anagrafici combaciano con
quelli di una
persona che stiamo attualmente ricercando.»
[
Commissariato
di New Milford, Pennsylvania
]
L’ultima
mezz’ora l’aveva passata a ripetere di non essere
il Duncan
Nelson che aveva rapinato una banca tre notti fa, che non teneva in
ostaggio nessuna signora Wilkins, che non aveva mai messo piede a New
Milford e che nemmeno sarebbe stato in grado di localizzarla su una
cartina.
Se
ne stava seduto in silenzio al tavolo degli interrogatori, con gli
avambracci poggiati sulla superficie e le mani congiunte. Il suo
sguardo, scocciato, vagava da una parte all’altra della
stanza
asettica. Era passato un altro quarto d’ora dalla fine
dell’interrogatorio e, se inizialmente aveva trovato il tutto
divertente, quel teatrino cominciava ad essere quasi patetico.
L’orologio
sopra la porta segnava le cinque del pomeriggio. Avevano ormai perso
quasi due ore di viaggio. Sarebbero riusciti ad arrivare in nottata
solo se avessero guidato ad una velocità sostenuta, senza
fare
alcuna sosta.
Dalle
finestrelle aveva visto passare più volte il sergente che
l’aveva
interrogato. Si sarebbe volentieri affacciato per gridargli se
potesse finalmente togliere il disturbo, ma si contenne.
Fu
solo dopo altri dieci minuti che parvero ricordarsi della sua
presenza. Fece capolino da dietro l’uscio la seconda delle
poliziotte che l’avevano fermato, il cui cognome aveva
scoperto
essere MacArthur.
«Ehi,
bel ragazzone, puoi andare»
lo richiamò, facendogli segno con la mano di uscire.
Scattò
in piedi come una molla, sbrigandosi a seguirla prima che potessero
incolparlo di qualcos’altro e trattenerlo lì per
un’altra ora.
«Ci
dispiace averti fatto perdere tempo prezioso, ma purtroppo questa
è
la procedura»
gli
spiegò,
riconducendolo nella stanza principale. «Per
di più, ci sono alcuni fascicoli incompleti e-»
«Duncan!»
Alla
sua sinistra, Courtney si era appena alzata dalla scrivania di
Sanders – verosimilmente, anche a lei erano state fatte
alcune
domande – e si faceva strada attraverso gli agenti in divisa.
«Come
mai ci hai messo così tanto? È successo qualcosa?
Ti serve un
avvocato?»
Non
era sua intenzione risultare apprensiva, così come non lo
era
cercare un contatto fisico con lui. Eppure, il suo primo istinto era
stato quello di corrergli incontro, con un velo di preoccupazione
dipinto in volto, e di allungargli una mano sul braccio.
Lui
la scrutò, confuso e vagamente lusingato nello stesso
momento.
Nell’attimo in cui i loro occhi si incontrarono, la ragazza
si rese
conto di aver violato il suo spazio. Si ritrasse di scatto, come se
avesse toccato una superficie bollente.
MacArthur
spiegò brevemente il malinteso e a scusarsi più
volte per il
disagio causato. Fu allora che Duncan comprese quanto fosse realmente
durato il momento precedente: un paio di istanti. Era la seconda
volta in nemmeno dodici ore che un attimo di vicinanza con lei si
propagandava nel suo inconscio.
«Da
questa esperienza abbiamo imparato una cosa»
proferì più tardi,
una volta fuori dal commissariato.
L’intensità
della pioggia era finalmente diminuita, tanto che non era
più
necessario ripararsi con l’ombrello. Tuttavia, il cielo era
ancora
coperto e il vento freddo non accennava a calmarsi. Gli ululava nelle
orecchie e gli sferzava le guance.
«Che
bisogna rispettare sempre i limiti di velocità?»
domandò lei,
sistemando il colletto del cappotto.
«Che
di me ti importa, e pure tanto» ghignò, tirandole
una leggera
spallata. «Eri pure pronta a difendermi in
tribunale!»
Rispose
alla sua spinta con una decisamente più forte.
«È
il mio lavoro» gli disse, asciutta. «E, in fondo,
non ti detesto a
tal punto da lasciarti alla mercé della giustizia
americana.»
«Potrei
quasi arrossire di fronte a cotanta misericordia!»
Soffocò
una risata.
«Ho
parlato col centralino dell’aeroporto di
Filadelfia» gli annunciò
Courtney, aprendo lo sportello e infilandosi dentro. «Non
possiamo
guidare questa macchina fino in Canada, ma ci permettono di
sostituirla a Rochester e di pagare tutto lì.»
Duncan
impostò il navigatore. Dalla posizione attuale, Rochester
distava
centoottantuno miglia che, a causa di qualche rallentamento per dei
lavori in corso, avrebbero percorso in poco meno di tre ore e un
quarto. Se non si fossero fermati nemmeno una volta, sarebbero
arrivati per le nove di sera. Da lì, Toronto non era
distante.
Al
pensiero che il finale si avvicinasse sempre più,
provò un
improvviso ed ingiustificabile moto di tristezza. Le ultime due
settimane erano state sì estreme, ma anche a dir poco
imprevedibili
e tornare alla quotidianità, dopo tutte le avventure
vissute, si
stava rivelando più difficile del previsto. Da qualche parte
nel suo
cervello, una vocina perentoria – che somigliava
fastidiosamente a
quella di Bridgette – gli urlò di riprendersi,
‘ché era adulto
e, come tale, aveva delle responsabilità.
«È
stata una lunga giornata» sospirò, allacciandosi
la cintura e
mettendo in moto. «Pensavo che potremmo fermarci in
un’area di
camping per riposare qualche ora. Possiamo viaggiare di notte e
arrivare a Rochester domattina all’alba. Così
evitiamo anche una
buona porzione di traffico.»
«Sì,
sono d’accordo» lo colse in contropiede lei.
«Tornare con qualche
ora di ritardo non farà di certo la differenza. Insomma,
saremo
comunque a casa prima di pranzo!»
Lui
non rispose. Alzò il volume della radio e lasciò
che fosse Bless
this acid house
dei Kasabian
a
riempire
il silenzio.
«Ad
ogni modo, se avessi rispettato i limiti, non ti avrebbero fermato e
adesso saremmo già a Rochester» gli fece notare
una volta entrati
in autostrada. «Ergo, è tutta colpa tua.»
Non
l’avrebbe mai ammesso, ma un altro motivo per cui non voleva
ancora
concludere quell’avventura era Courtney.
[
Lighthouse
Landing Campground, Marathon, New York
]
Duncan
non riusciva a capire quando avesse cominciato a vederla sotto una
luce diversa. Un secondo prima era una signora di
mezz’età
intrappolata nel corpo di una giovane, che lo rimproverava per
piccolezze come intromettersi in conversazioni altrui, o staccare per
mezzo istante le mani dal volante durante la guida; un secondo dopo
era una bellissima donna dal carattere forte ed indipendente, capace
di tenergli testa come nessun altro era mai riuscito a fare.
Con
un orecchio teneva il filo delle storie assurde che Izzy ed Eva gli
stavano raccontando, annuendo ed interagendo quando necessario; con
l’altro origliava la disquisizione che Courtney e Noah
stavano
avendo sulla produzione letteraria del primo Novecento – ogni
singola parola che usciva dalle loro bocche era aramaico, ma avrebbe
potuto ascoltarla dibattere animatamente di argomenti che la
appassionavano per ore.
«E
quindi abbiamo aiutato Eva a bucare le ruote del motorino della sua
ex» ridacchiò Izzy, in conclusione di una storia
di cui aveva a
malapena capito l’incipit.
«Ci
hanno beccato con le mani nel sacco» aggiunse
l’altra donna,
spostando le fette di pane abbrustolite dalla griglia ad un piatto di
plastica, e cospargendole d’olio. «Ma è
stato allora che la
nostra amicizia si è consacrata.»
Spostò
la sua attenzione sul trio, il più insolito che aveva avuto
modo di
conoscere. Izzy, Noah ed Eva, rispettivamente una cartomante, un
insegnante di letteratura inglese e una personal trainer, si
erano conosciuti ai tempi del liceo e non avevano mai perso i
contatti. Almeno una volta l’anno, impegni personali
permettendo,
si ritrovavano e guidavano per un intero weekend ovunque la macchina
li avrebbe condotti.
Dovevano
aver notato che anche la loro accoppiata era parecchio peculiare,
perché non avevano nemmeno fatto in tempo a parcheggiare
affianco al
loro furgoncino, che subito li avevano invitati a cenare con loro.
«Voi
due, invece?» chiese Izzy, spostando lo sguardo da lui ad un
punto
poco più dietro – gli altri due si erano
riavvicinati, richiamati
dal profumo della cena ormai pronta. «Come vi siete
incontrati?»
Duncan
allungò un braccio verso la borsa frigo e vi
cacciò una lattina di
birra. Strappò via la linguetta e bevve un sorso.
«In
aeroporto a Filadelfia, nemmeno quarantotto ore fa. E mi ha subito
urlato contro.»
«Se
lo meritava» precisò prontamente Courtney, che
s’era accomodata
alla sua sinistra, addentando una fetta di pane ed olio. «Si
è
comportato da maleducato.»
«Per
buona parte della giornata di ieri mi ha apostrofato anche con altri
epiteti poco carini, come irresponsabile, incosciente, pervertito,
idiota, pallone gonfiato…»
«Tutti
termini che lo descrivono alla perfezione».
«E
poi è caduta sotto il mio incantesimo»
terminò, poggiandole una
mano sulla spalla – in un gesto del tutto amichevole, ma una
voce
nella sua testa gli chiese se non stesse attraversando, ancora
una volta,
qualche confine immaginario. «Adesso mi adora.»
«Non
è così, ma lasciamoglielo credere»
ribatté lei, girandosi in sua
direzione, senza
reagire a quel tocco.
A
quanto pare, no.
*
* *
Avevano
mangiato e bevuto, e continuato a scambiarsi racconti più o
meno
divertenti, mentre il cielo diventava sempre più scuro,
senza nessun
astro ad illuminarlo – erano tutti nascosti dietro i nuvoloni
grigi. Dopo cena, avevano fatto qualche partita a carte, fermandosi
prima che il clima potesse diventare esageratamente competitivo.
Poi,
verso le nove e mezza, il simpatico terzetto aveva cominciato a
smontare baracche e burattini – volevano arrivare a Rhode
Island
prima dell’alba, avevano spiegato – e Duncan si era
trovato
nuovamente solo
con Courtney e un mucchio di pensieri che stava facendo il possibile
per sopprimere.
In
piedi in riva al laghetto, con una sigaretta ormai consumata per
metà
fra le labbra, la guardava passeggiare avanti e indietro qualche
metro più in là, nel frattempo che parlava al
telefono con
un’amica. Sorrideva genuinamente.
E
lui non riusciva a staccarle gli occhi di dosso.
Coi
tratti latini e le curve sinuose che si ritrovava, non poteva negare
di esserne rimasto fisicamente attratto da subito. Quello che avrebbe
continuato a negare fino alla nausea era che non c’era nulla
di
più.
La
morsa allo stomaco ogni qualvolta era nei paraggi era uno stupido
scherzo del suo inconscio.
Non
provava alcun tipo di sentimento romantico per Courtney.
E,
anche se fosse, lei era praticamente sposata.
Finalmente
distolse lo sguardo e incominciò a passeggiare, evitando i
pantani
di fango. L’ululare del vento fra gli alberi della foresta
circostante si mischiava al chiacchiericcio degli accampamenti
più
vicini. Nonostante avesse smesso di piovere da un paio d’ore,
il
petricore impregnava ancora l’aria.
Ci
mise un po’ a distinguere i passi, prima affrettati e poi
sempre
più regolari, alla sua sinistra. Courtney l’aveva
affiancato e
camminava in silenzio, le mani in tasca a ripararle dal freddo e la
chioma color cioccolato leggermente spettinata.
Le
allungò la sigaretta, come tacito invito a favorire.
«No,
grazie» rispose lei con tono piatto.
«Puoi
andare a riposare, se vuoi» sentenziò, prima di
riavvicinarla alla
bocca e concedersi un tiro. «Posso guidare io fino a
Rochester,
tanto non ho sonno.»
«Sono
a malapena le dieci di sera» gli fece notare.
«Nemmeno io ho
sonno.»
«Beh,
qui non c’è granché da fare. Hai
qualche idea?»
«Camminare,
parlare.»
Proprio
quello che stava cercando di evitare.
«Ci
siamo alzati all’alba, come fai ad aver voglia di
parlare?»
La
cartina s’era ormai consumata.
«L’hai
detto tu, non ci sono molte opzioni» ribatté lei,
spostandosi una
ciocca di capelli dietro l’orecchio. «A meno che tu
non voglia –
che so – gettarti nel lago ghiacciato.»
«Potremmo
limonare» buttò lì, accompagnando alla
proposta un sorrisetto
pervertito.
La
sua mente non smetteva mai di meravigliarlo, andava in fretta e furia
verso le soluzioni più sconce e indecenti – e lui,
da bravo
impulsivo, non filtrava i suoi pensieri prima di dar loro voce.
Per
fortuna, Courtney colse l’ironia dietro le sue parole e rise
di
gusto. Peccato
che lui non fosse completamente certo di star scherzando.
«Ok,
hai vinto. Parliamo.»
*
* *
Parlarono
talmente tanto che percorsero il bagnasciuga avanti e indietro un
paio di volte – Duncan, nel frattempo, aveva fumato altre due
sigarette. Poi, stanchi, si erano riavviati verso la macchina,
aprendo il bagagliaio e accomodandosi sul bordo, nell’unico
spazio
non occupato dalle valige.
Il
vento s’era acquietato, ma la temperatura era sempre
più
ghiacciata – ben sotto la media stagionale, non sembrava di
stare
in primavera – e molti si erano ficcati nei propri
autoveicoli per
riscaldarsi. La maggior parte di questi doveva star già
dormendo; il
resto si intratteneva in svariati modi – come la coppia nella
Ford
parcheggiata tre o quattro metri più indietro: i finestrini
erano
coperti con fogli di giornale e indumenti, e l’autoradio
trasmetteva ballate romantiche ad un volume adeguatamente alto da
coprire altri tipi di rumori, ma anche da non dar fastidio al
circondario.
«Ma
come si fa a scopare con I
don’t wanna miss a thing
in sottofondo?» proruppe ad un certo punto Duncan, distratto
dalle
note che provenivano da quella direzione.
«Immagino
tu sia uno di quelli con una playlist per
certe situazioni»
commentò distrattamente Courtney, lo sguardo fisso sullo
schermo del
cellulare. L’aveva preso solo per controllare i social ed
eventuali
notifiche prima di spegnerlo, così da non consumare
inutilmente la
batteria.
«Ho
una playlist per ogni
situazione» specificò. «È
ovvio che ne abbia anche una da mettere
durante il sesso – e di certo non contiene brani
completamente
inadeguati come quella loro.»
Si
accese la quarta sigaretta della serata sotto lo sguardo contrariato
della ragazza.
«Questo
tuo vizio finirà per ammazzarti.»
Rispose
avvicinandosi alla sua faccia e cacciando una piccola nuvoletta di
fumo passivo dalla bocca; lei si voltò di scatto, tossendo
una
maledizione e svariati insulti.
«Avremmo
potuto essere noi due, Court» proferì con tono
amaro, indicando con
un gesto fugace della mano la Ford. «Ma tu hai preferito
parlare.»
Gli
tirò un pugno sull’avambraccio.
«Sto
per sposarmi» gli ricordò poi, ma con la voce
ridotta ad un
bisbiglio, come se in realtà volesse rimembrarlo a se
stessa.
Duncan
era lì lì per chiederle se ci fosse qualcosa che
non andava, ma, se
l’avesse fatto, avrebbe finito col saltare a piè
pari il confine
immaginario. Un conto erano i flirt innocenti e i contatti casuali,
che davano un semplice assaggio di cosa ci fosse al di là;
un altro
era condividere i propri sentimenti, essere brutalmente onesti
l’uno
con l’altra e mutare definitivamente la loro relazione
– perché,
e questo lo sapevano entrambi, era indubbio che la conclusione
sarebbe stata quella. E
non
poteva essere
quella.
«Posso
farti una domanda?» cominciò Courtney, un
po’ titubante. «Non
serve andare nel dettaglio, se non vuoi.»
Stava
per arrivare una domanda parecchio personale, era palese dal modo in
cui aveva tastato subito il terreno. Pareva avessero stipulato un
tacito accordo: incamminarsi lungo il sentiero, senza però
inoltrarsi troppo.
«C’è
qualcosa che ti penti di aver fatto?»
La
sua mente corse subito ad un particolare evento – a distanza
di
quattordici anni, la vergogna e la rabbia per se stesso erano
sentimenti non ancora estinti, motivo per cui i fatti per filo e per
segno li conoscevano in pochi. Eppure, nonostante si fosse concesso
qualche attimo per pensare ad altro, le parole cominciarono ad uscire
fuori come un fiume in piena.
«Quando
avevo quindici anni, c’era questo ragazzo più
grande che era il
sogno erotico di metà scuola – punk, teppista,
pieno di piercing e
tatuaggi, ribelle, probabilmente comunista… insomma,
il tuo tipo
– ammiccò
in direzione di Courtney, che alzò gli occhi al cielo
– e sfortunatamente pure il mio.
Avevo un buon rapporto col fratello, quindi non fu difficile
avvicinarmi a lui. Presto ho scoperto che faceva parte di alcuni
circoli viziosi, e questo lo fece apparire ancora più
succulento ai
miei occhi – non giudicarmi, ero un ragazzino!
«Finii
per caderci anch’io, solo per potermi far vedere da lui sotto
una
luce diversa. Ci volle un po’, ma alla fine ottenni quello
che
volevo. Era una relazione puramente carnale, dubito che abbia mai
provato quello che io provavo per lui. Ma – di nuovo
– ero solo
un ragazzino, non mi interessava sapere se fosse innamorato o se mi
usava solo per svuotarsi le palle. Ero comunque felice.»
Si
distrasse a guardare la cartina della sigaretta bruciare rapidamente
fra le dita, mentre tirava via coi denti una pellicina dal labbro
inferiore. Era arrivato il momento clou e stava cercando il modo
migliore per narrarlo; Courtney lo comprese e lo guardò,
incoraggiante.
«Una
domenica sera mi ha portato in una concessionaria di West Hill,
dicendo che solo io potevo aiutarlo, ma che non potevo fare domande
di alcun tipo. Abbiamo scavalcato il cancello, mi ha fatto forzare la
serratura di una decapottabile e mi ha chiesto se fossi in grado di
metterla in moto senza chiave. I vicini avranno avvertito il
trambusto, perché mezzo secondo dopo esserci immessi in
strada ci
siamo trovati gli sbirri alle costole. Abbiamo tentato di seminarli,
ma un’altra volante ci ha tagliato la strada e ci hanno
circondati.
Lui ha fatto un annetto di carcere, io un paio di mesi in
riformatorio.»
Provò
a leggere l’espressione sul volto di lei, ma era
completamente
impassibile. Non sembrava sul punto di volerlo giudicare, né
di
commiserarlo – aveva anzi la sensazione che una minuscola
parte del
suo cervello stesse pensando ad altro.
«In
conclusione, sono stato un enorme coglione» disse con tono
asciutto,
schiacciando la punta della paglia sul bordo del bagagliaio e
alzandosi per poterla gettare nel portacenere dell’auto. Era
posizionato fra i sedili anteriori, proprio davanti al cambio.
«Ma,
alla fine, meglio il rimorso che il rimpianto» aggiunse poi a
voce
alta, richiudendo lo sportello e tornando ad accomodarsi accanto a
Courtney, che aveva seguito i suoi movimenti con lo sguardo.
«La mia
filosofia di vita è non tirarsi mai indietro. Mal che vada,
toccherà
mettere qualche pezza in futuro. Meglio quello, che pentirsi per
tutta la vita di non aver colto l’attimo.»
«Ogni
azione ha delle conseguenze» gli fece notare, come se avesse
tralasciato il più importante dei dettagli. «Non
sempre si può
mettere una pezza.»
«Vero,
in alcuni casi è necessario qualcosa di più
ampio. Una benda, un
tendone–»
«Tu
non sai proprio cosa voglia dire assumersi le proprie
responsabilità,
non è vero?»
La
frecciatina lo colpì appieno. A ferirlo fu la consapevolezza
che,
dietro ad una frase dettata dall’impulsività, ci
fosse un alone di
verità.
La
guardò dritto negli occhi, che riflettevano un certo
disagio. Si era
pentita di quel giudizio nell’istante in cui aveva lasciato
la sua
bocca. Era inoltre turbata, e non per la visione di pensiero
differente dalla sua, ma perché la sua mente era vagata
verso
differenti lidi. Non si premurava nemmeno di nasconderlo.
Per
tutto il tempo le loro braccia non avevano fatto altro che sfiorarsi,
costretti entrambi in uno spazio ristretto. Duncan sembrò
notarlo
solo allora. Ne approfittò per muovere la mano verso la sua
e
poggiare le dita sul dorso.
«Duncan…»
Le
sue labbra vibravano in maniera quasi impercepibile, lasciavano
presagire che era sul punto di aggiungere dell’altro. Poi,
però,
scosse la testa e la lasciò scivolare sulla spalla di lui,
sospirando.
Egli
rimase paralizzato, ignorando il cuore che aveva preso a battere un
po’ più in fretta. Solo dopo un minuto buono si
azzardò a far
scivolare la punta delle dita lungo tutto il braccio, risalendo fino
alla scapola ossuta. Appoggiò la mano sulla parte alta della
schiena, continuando a carezzargliela e sentendola rilassarsi sotto
il suo tocco.
Provò
l’impulso di volerla attirare ancor più verso
sé, di stringerla
contro il suo fianco e immergere la guancia fra i suoi capelli.
Durò
giusto il tempo di ricordare che era
praticamente sposata.
«Forse
dovremmo provare a dormire un po’»
constatò, picchiettandole
gentilmente la spalla per farla alzare.
Il
suo battito cardiaco tornò regolare.
*
* *
Sette
minuti a mezzanotte.
Duncan
cambiò nuovamente posizione, stavolta accomodandosi
per bene contro il poggiatesta, alzando appena il mento. Chiuse gli
occhi.
I
pensieri presero a vorticare nella sua scatola cranica.
Era
a circa cinquecento chilometri da casa.
Sabato
sera si sarebbe esibito davanti ad un discografico.
Gwen
sarebbe stata lì.
Courtney.
Li
riaprì trenta secondi dopo, più frustrato che mai.
Recuperò
il cellulare dal portaoggetti e prese a scorrere la bacheca di
Instagram. Sperava che la noia lo colpisse in fretta, e con essa
anche il sonno. A meno che non avrebbe trovato l’interruttore
per
spegnere il suo cervello, non sarebbe successo presto.
Buttò
uno sguardo allo lo specchietto retrovisore. Rannicchiata sui sedili
posteriori, Courtney dormiva beatamente, il petto che si alzava e
abbassava ad intervalli regolari. Non aveva tolto il cappotto e
teneva attorno alle spalle una sua vecchia felpa, che le aveva
lanciato senza troppe cerimonie quando s’era accorta che
stava
battendo i denti.
Attento
a non far il minimo rumore, si infilò le scarpe da tennis
consunte e
scese dalla macchina. Di camminare non aveva voglia e aveva
già
assunto fin troppa nicotina. Si appoggiò mollemente alla
carrozzeria, desiderando di potersi scaldare con dell’alcol.
O
col calore del corpo di lei contro il suo.
La
vibrazione del telefono lo richiamò prima che
l’immagine potesse
tingersi di erotismo.
Non
si premurò di leggere il nome del contatto.
«Pronto?»
«Pensi
che tutto questo sia un gioco?»
La
voce di Chase suonò come un sibilo velenoso. Lo colse di
sorpresa, a
tal punto che aveva allontanato il ricevitore dall’orecchio.
«Dopodomani
sera ci giochiamo un contratto discografico e tu, invece di muovere
il culo e portarlo qui alla velocità della luce, stai
cazzeggiando
in un altro Stato.»
«Non
sto cazzeggiando.»
«E
allora come lo spieghi il concertino di stamattina? O il picnic? Noi
qui a sputare sangue e tu in vacanza!»
Si
sentì montare dalla collera.
«In
vacanza!
È da ieri che guido sotto
un cazzo di diluvio universale!
E, come se non bastasse, il destino ha deciso di trasformare il tutto
in una commedia degli equivoci – mi
ha fermato la polizia credendo che fossi un rapinatore della zona!»
«Quindi
è per questo che in due giorni sei stato capace di fare solo
metà
strada? Non c’è nient’altro – o
nessun altro
– che ti distrae?»
Era
palese a chi si stesse riferendo e quale implicazione avesse il verbo
distrarre.
Cominciò
ad alterarsi sul serio.
«Cosa
staresti insinuando?» tuonò minaccioso.
«Dillo ad alta voce, se
hai il coraggio.»
Chase
sbuffò. Quando riprese la parola, si era tranquillizzato.
«In
questi giorni Ziggy ha provato anche le tue parti» lo
informò con
lo stesso tono che avrebbe usato per raccontargli un pettegolezzo.
«Non è di certo te, però
all’occorrenza potrebbe essere una
buona alternativa.»
Duncan
si fece scappare una risata di scherno.
«Non
starete mica pensando di sostituirmi con lui!»
Ziggy
– che per qualche motivo arcano nessuno chiamava col vero
nome –
era il fondatore dei Der
Schnitzle Kickers e,
prima che arrivasse lui, ne era stato anche il cantante. Non era
male, ma era poco più che mediocre e troppo simile ad altri
timbri
già presenti sul mercato, quindi era stato confinato ai cori
e alla
chitarra ritmica – e lì sì che era un
mostro!
«Nessuno
vuole sostituirti, D. Sarebbe solo per sabato, nel caso in cui tu non
faccia in tempo a tornare.»
«Allora
sarebbe meglio rimandare tutto» sentenziò
glaciale. «Senza di me
ci sono ottime possibilità che non firmiate nulla.»
Sapeva
già che, a mente lucida, si sarebbe pentito di
quell’ultima
dichiarazione.
«Vola
basso, rockstar» lo riprese il suo bassista, accigliandosi
nuovamente. «Non sei indispensabile.»
«Ne
riparliamo domenica mattina.»
Riattaccò
senza dargli possibilità di replicare, borbottando una
bestemmia a
denti stretti.
Non
riusciva a scacciare di mente la sensazione soffocante di essere
stato pugnalato alle spalle per la seconda volta in meno di due
settimane. Probabilmente, l’indomani sarebbe risultata essere
solo
una crudele e distorta visione dettata dalla rabbia. Fino a quel
momento, si sarebbe sentito tradito.
Guardò
Courtney attraverso il finestrino, per accertarsi che stesse ancora
dormendo. Successivamente, voltò le spalle
all’auto e s’incamminò
in direzione dell’uscita.
Aveva
bisogno di liberarsi di quei grattacapi.
Aveva
bisogno di bere.
[
La
notte fra il 22 e il 23 aprile – Marathon, New York
]
Il
bottino della serata: un occhio pesto, un labbro spaccato e le nocche
sbucciate. Aggiunta bonus: era ubriaco fracido.
Non
doveva andare così, i piani erano prendere una leggera
sbronza e
tornare indietro. Ma, un drink aveva tirato l’altro e delle
sequenze successive aveva solo fotografie sbiadite – Warning
dei Green
Day cantata
in coro con il barman e un altro tizio, la lingua di uno dei due
nella sua bocca, il suo pugno sulla mascella di un brutto ceffo.
Duncan
trascinava il suo corpo devastato lungo un viale residenziale,
convinto che l’avesse percorso all’andata. O forse
non c’era
mai passato prima. Dopotutto, non ricordava minimamente come fosse
arrivato in città – però ricordava una
moto. Che
si fosse fatto dare un passaggio?
Non
importava, perché erano le due e mezza del mattino e non
avrebbe
avuto la stessa fortuna per il ritorno.
Cercò
l’app delle mappe sul suo cellulare, sforzandosi per
ricordare il
nome del campeggio. Distava quattro miglia dalla sua posizione, il
che significava un’ora e mezza di cammino. Per di
più, la batteria
era al dieci percento; si sarebbe scaricata prima di arrivare.
Fu
colto da un giramento di testa.
Si
accasciò contro un muretto. Si sedette con le gambe contro
il petto
e si massaggiò le tempie, ricordando cosa dovesse fare.
Doveva
tornare indietro.
Avvicinò
due dita alla bocca, intenzionato a vomitare per evitare di sentirsi
troppo male durante il tragitto.
Lasciò
ricadere il braccio lungo il fianco, troppo stremato per farlo.
Le
ferite bruciavano.
Il
sangue secco gli macchiava metà mento.
Gli
arti erano intorpiditi.
Doveva
riposare un po’.
Lasciò
che le palpebre si chiudessero, facendosi cullare dal silenzio
tombale della città addormentata.
All’improvviso,
gli si accese un campanello d’allarme.
Era
a circa cinquecento chilometri da casa.
Era
ubriaco e semi cosciente.
Se
non si fosse alzato, avrebbe finito col collassare.
Courtney.
In
un attimo di improvvisa lucidità, si fiondò alla
ricerca del suo
numero nella rubrica. La chiamò, ma dopo nemmeno uno squillo
partì
la segreteria telefonica. Provò con un messaggio, ma la sua
vista
era annebbiata e non riusciva a distinguere le lettere sulla
tastiera. Quindi, pigiò in basso a destra il tondino azzurro
col
microfono.
«Court»
cominciò, con tono di voce strascicato. «Ho
bisogno di aiuto».
Angolo
dell’autrice
Ricordate
quando ho detto che il primo capitolo era stato un parto? Ecco, mi
rimangio tutto: scrivere questo è stato mille volte peggio.
E
volete sapere la parte divertente? Nella mia testa, era già
pronto
dai tempi del prologo. Il problema è stato mettere nero su
bianco le
mille idee che avevo, ed erano talmente tante che ho dovuto pure
tagliare le scene superflue. L’unica sequenza cui non avevo
pensato
è quella in commissariato, nata a seguito di un aneddoto
raccontato
a lezione dal mio prof di letteratura anglo-americana.
Però,
adesso siamo qui e ce l’abbiamo fatta.
Ci
tenevo a dedicare un po’ di spazio a Duncan,
perché le mie
fanfiction sono sempre molto più Courtney-centric, e
c’erano un
paio di dettagli che volevo delineare – in origine avevo
pensato a
molte più cose, magari vedrò di inserire quelle
meno inutili
prossimamente.
A
tal proposito, ho già cominciato a mettere mano al capitolo
quattro
e potrebbe volerci più del previsto – ancora una
volta, ho un
sacco di spunti da rimettere in ordine. Certamente, questi due
continueranno a negare l’ovvio fino alla fine.
Ah,
e l’audio di Duncan avrete modo di
“sentirlo” tutto più avanti
nel racconto.
Detto
ciò, alla prossima! xx
|
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Capitolo 5 *** Quattro ***
Quattro
«Voglio
un bambino.»
Courtney
per poco non si strozzò.
«Con
i nostri geni assieme, non solo verrebbe fuori una meraviglia, ma
sarebbe anche intelligentissimo»
continuò a farfugliare Scott. «Io potrei
insegnargli a intagliare,
mentre tu a suonare il violino. Già ci vedo, noi tre in un
bel
cottage fuori città.»
I
suoi erano deliri dettati dalla febbre alta, ma era
consapevole
che dietro essi si celava davvero il desiderio di metter su famiglia.
Onde
evitare di morire soffocata, poggiò il bicchiere
d’acqua sul comò
e si girò
dalla sua parte per rimboccargli
le coperte.
«Un
passo per volta» sussurrò lei, sfiorandogli le
guance bollenti col
dorso della mano. «Prima pensiamo a sposarci, poi ne
riparliamo.»
Avrebbe
fatto in modo che non ci sarebbe stato nessun
poi.
Perché
lei non
voleva un bambino.
[
Venerdì
23 aprile – Lighthouse Landing Campground, Marathon, New York
]
Avrebbe
potuto essere un risveglio bucolico, tra il cinguettio degli uccelli
e i pallidi raggi del sole a bagnarla. Peccato solo per la posizione
non proprio ottimale, che aveva finito con l’intorpidirle i
muscoli. Nonostante ciò,
avrebbe dormito volentieri per un altro quarto d’ora.
Si
stiracchiò lentamente, sbattendo più volte le
palpebre e mettendo a
fuoco lo schienale del sedile anteriore. Intanto che le immagini
della giornata precedente si facevano spazio nella sua memoria, le
sue iridi si mossero verso il posto di guida, ma non vi
trovò
nessuno. Dovevano già essere giunti a destinazione. Quando
si
ridestò, però, comprese che c’era
qualcosa che le sfuggiva: era
nello stesso posto in cui s’era addormentata –
stessi alberi,
stesso lago, meno macchine e roulotte parcheggiate – e di
Duncan
non si vedeva nemmeno l’ombra.
Courtney
si scrollò da dosso la sua felpa –
ignorò che fosse impregnata
del suo odore – e si fiondò fuori dalla Prius,
cominciando a
ispezionare i dintorni. E più non scovava la sua figura da
nessuna
parte, più sentiva un peso attanagliarle il petto
– rabbia, si
disse, perché quell’imbecille era sparito senza
lasciare tracce.
Si
ricordò di aver spento il cellulare. Magari aveva provato a
contattarla.
Strabuzzò
gli occhi quando lesse l’orario: le nove e cinque. La
crisi
di nervi era ormai prossima.
In
rubrica, c’erano una chiamata persa alle due e
trentatré e un
messaggio vocale inviato tre minuti più tardi.
Nient’altro. Ed
erano passate la bellezza di sei ore e mezza.
Il
peso in petto si era intensificato e tenere a bada la tachicardia era
sempre più arduo. L’immagine di Duncan, privo di
sensi e
gravemente ferito, s’era infiltrata nella sua mente e non
riusciva
a cancellarla. Doveva
ascoltare l’audio, ma era paralizzata dal terrore che quel
sentore
potesse tramutarsi in realtà.
Avrebbe
voluto ammazzarlo a mani nude, perché non aveva nessun
diritto di
portarla ad un passo da un attacco di panico – perché
era uno sconosciuto e tale doveva rimanere.
Il
rumore di quattro pneumatici che avanzavano a fatica sullo sterrato
le fecero rendere conto di trovarsi in mezzo ai piedi, immobile al
centro della strada. La macchina inchiodò di colpo, alzando
breccia
e terra, e Courtney si voltò nello stesso istante in cui
fece
capolino dall’abitacolo un ragazzo dai capelli castani,
schiacciati
contro il cranio e il collo da un berretto rosso, e
gli occhi del medesimo colore, contornati da pesanti occhiaie.
La
salutò con la mano.
«Ciao!
Per caso è tuo?»
Si
aspettava di veder saltare fuori un animaletto domestico smarrito;
invece, si trattava di una testa verde che aveva imparato a conoscere
bene.
Si
muoveva con passo lento, quasi strisciato. Aveva delle contusioni in
faccia e in generale era messo uno schifo; perlomeno respirava
ancora.
«¡Maldito
idiota!»
sbraitò Courtney, fiondandosi addosso a lui e colpendolo
ripetutamente sulle braccia e sul petto. «¿Quieres
llevarme a mi muerte?»
(1)
Lui
aprì la bocca, forse per chiedere la traduzione di qualunque
improperio gli avesse gridato,
ma
riuscì ad emettere solo suoni stizziti, poiché
impegnato a
schivare l’uragano di pugni e sberle.
«Si
può sapere dove diamine sei stato?»
«L’ho
trovato mezzo svenuto davanti casa mia» intervenne il ragazzo
sconosciuto. «Puzzava come un pub e ha vomitato
sul mio vialetto, quindi provo ad azzardare l’ipotesi che
ieri sera
abbia bevuto un po’ troppo.»
Non
aveva mai sentito così impellente l’urgenza di
rimproverare
qualcuno. Non solo non aveva mantenuto fede alla promessa data, ma
aveva anche ben pensato di abbandonarla nel cuore della notte per
sbronzarsi a tal punto da crollare tra i vicoli di una città
sconosciuta.
«Comunque,
l’ho rianimato con due ceffoni e, dopo aver perso altro tempo
prezioso ad aspettare che gli si riattivassero le sinapsi, sono
riuscito a scucigli delle informazioni» parlò
nuovamente l’anonimo
benefattore, con aria quasi scocciata. «E nulla, eccoci
qua.»
«Grazie
mille-»
«John»
la interruppe, presentandosi. «E ringrazia il tuo amichetto
perché,
se non avesse sganciato cinque dollari, avrebbe dovuto trovarsi un
altro passaggio. Purtroppo, io non scorrazzo in giro brutti loschi
gratuitamente.»
«Ehi,
John! Te l’avevo detto che era reale»
esclamò Duncan con tono
canzonatorio, inclinando il capo in direzione della ragazza.
Quello
si limitò ad una smorfia.
«Ora
tolgo il disturbo» si congedò. «Immagino
che abbiate molto da
raccontarvi.»
Courtney
attese che la macchina ripartì, con un colpo di frizione e
un rumore
che non prometteva nulla di buono, prima di esordire con una
minuziosa e intensa filippica, che minacciava di propagarsi per
minuti interi. Duncan si era già accorto, dal modo in cui
aveva
gonfiato le guance, che stesse per esplodere e aveva provveduto ad
allontanarsi di qualche passo.
«Sei
il re dei deficienti! Mi spieghi quale fra i tuoi neuroni fulminati
ti ha suggerito che fosse una buona idea farti Dio solo quanti
chilometri a piedi e ubriacarti fino a perdere i sensi? E nemmeno hai
avuto la decenza di avvertirmi! Mi hai fatta preoccupare da morire! E
come hai fatto a ridurti la faccia in quel modo?»
Per
la seconda volta in pochi minuti, provò a prendere la parola,
ma ci ripensò quando incrociò i suoi occhi che,
se avessero potuto,
l’avrebbero ridotto in cenere seduta stante.
«Non
solo sei un incosciente, ma pure un bugiardo! Mi hai mandata a
dormire con la promessa che avresti guidato fino a Rochester durante
la notte. E indovina dove siamo la mattina dopo? Nello stesso
campeggio sperduto in qualche zona remota della Pennsylvania! Domani
sera devo presenziare una cena con cinquanta invitati e per
colpa tua
sono ancora bloccata in un altro Stato!»
«Courtney-»
«Courtney
un corno!»
gridò istericamente, attirando su di sé
l’attenzione di qualche
curioso. «Non voglio sentire un solo fiato uscire dalla tua
bocca!
Ora, fila in macchina! Non ho intenzione di sprecare un secondo di
più».
[
Cortland,
New York
]
Lo
spiacevole compito di rimproverarlo per il suo comportamento
ingestibile era toccato spesso e volentieri a suo padre, ma erano le
strigliate di sua madre che avevano sempre sortito più
effetto.
Erano sì più rade, ma capaci di farlo rimanere
senza parole e,
talvolta, persino
di
mortificarlo.
Seguivano lunghi
ed estenuanti silenzi,
fino a quando non tracollava e strisciava a chiederle scusa.
Duncan
non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi,
un giorno, al cospetto della
degna avversaria della sua genitrice.
Nei
venti minuti che separavano Marathon da Cortland, Courtney non
aveva staccato gli occhi dalla
strada e non gli aveva rivolto né sgridate, né
insulti. La tensione
s’era gradualmente allentata, così come
s’erano rilassate le sue
labbra, e non teneva più la fronte corrugata. Aveva
acconsentito ad
una breve pausa per comprare qualcosa da sgranocchiare durante il
viaggio e, di ritorno dal discount, si era persino procurata il
necessario per medicargli le ferite – «Non voglio
che qualcuno
pensi che sia stata io a ridurti così» aveva
subito tagliato a
corto.
Era
conscio, tuttavia, che la guerra fredda sarebbe terminata solo nel
momento in cui avrebbe pronunciato la fatidica parolina magica.
«È
solo acqua ossigenata» sbottò lei, notando come
aveva stretto i
denti quando gli aveva passato il batuffolo di cotone imbevuto sulle
nocche.
«Lo
so, ma brucia» si lamentò esattamente come avrebbe
potuto fare un
bambino. «E tu non hai esattamente una mano
delicata.»
Premette
più a fondo su una ferita, solo per vederlo trattenere un
verso di
dolore.
L’aveva
fatto accomodare su una panchina poco distante dal parcheggio, per
poter operare più comodamente, e aveva riempito il posto
vuoto con
una busta contenente gli
attrezzi del caso.
Gli aveva persino offerto una bottiglietta d’acqua
ghiacciata, da
appoggiare sopra l’occhio pesto.
Finito
con le mani, si spostò a disinfettargli il labbro e a
ripulirlo
dalle tracce residue di sangue. Ricurva sul suo volto, gli faceva da
parasole e si muoveva veloce e precisa, come se compiesse quelle
azioni con cadenza quotidiana.
«L’ideale
sarebbe fare
dei risciacqui
con l’acqua salata» spiegò, recuperando
una pomata antidolorifica
dalla pila. Svitò il tappo e ne applicò una
goccia sull’indice
sinistro.
«Ma questo offre la casa. E dovresti anche tenere la testa
elevata,
per evitare che il labbro si gonfi ulteriormente».
«Fra
i mille corsi che hai frequentato, ce n’era pure uno di primo
soccorso?» domandò lui, curioso.
«Sono
stata capogruppo in un campo estivo» raccontò,
richiudendo il
tubetto. «Ho dovuto imparare questo e molto altro –
per citarne
una, sarei in grado di usare un defibrillatore».
Il
labbro smise di pulsare non appena gli spalmò la crema
fresca sulla
spaccatura.
«Dovevi
proprio scegliere il giorno prima del concerto per ridurti la faccia
in queste condizioni» borbottò Courtney, infilando
una mano
all’interno di una pochette nera e tastandone
l’interno.
Accompagnata
ad una fitta di dolore, gli ritornò alla mente la
discussione accesa
avuta con Chase e la convinzione con cui aveva affermato che, senza
di lui, la band non sarebbe andata da nessuna parte. La lista di
persone cui doveva delle scuse stava diventando un tantino lunga.
Assieme,
sebbene non avesse diritto di sentirsi così,
tornò anche la
bruciante sensazione di aver un coltello conficcato fra le spalle.
«Ci
sono buone probabilità che domani non mi esibisca»
constatò con
tono amaro, appoggiando di lato la bottiglia. «Vogliono
sostituirmi
anche loro.»
Lei
interruppe la sua ricerca per guardarlo dritto negli occhi, con le
sopracciglia inarcate e una tacita richiesta a spiegarsi meglio.
«Ricordi
Gwen? Non ci siamo lasciati di comune accordo, ma ho scoperto che mi
faceva le corna. Ho guidato fino a Gravenhurst per passare una
giornata con lei e, ad aprirmi la porta, è stato
l’amante» le
narrò, il volto deformato da una smorfia. «E,
siccome si sono
convinti che io stia ritardando di
proposito
il rientro a Toronto, i ragazzi hanno trovato un rimpiazzo per il
concerto di domani. Due situazioni diverse, ma la morale della storia
è che sono stato tradito da fidanzata e amici nel giro di
nemmeno
due settimane». Esitò prima di aggiungere:
«Certo, mi sarei potuto
risparmiare l’uscita
poco simpatica
secondo cui, se il gruppo funziona, è soprattutto merito
mio, ma-»
«Chi
ti credi di essere?» tuonò Courtney, scioccata.
«Fossi in loro, ti
caccerei a calci in culo seduta stante! Il gruppo funziona
perché
lavorate
in
squadra, ognuno con le proprie idee e i propri punti di forza. Se
avete ricevuto una proposta di contratto, non
è solo per le tue doti, ma per quelle di tutti.
Altrimenti, visto che sei tanto sicuro di te, scaricali e continua
come solista.»
Duncan
distolse lo sguardo, sentendo le guance scottargli per la vergogna.
Gli aveva sbattuto in faccia la realtà dei fatti, e anche
lui s’era
accorto di aver esagerato, ma ascoltare quanto fosse stato superbo
dalla
voce di altri era una
sensazione poco piacevole.
Non
sarebbe andato da nessuna parte senza i suoi ragazzi. Suonavano
insieme da quasi dieci anni, avevano condiviso sconfitte e successi
ed erano cresciuti assieme, sia come artisti che come persone. Erano
una famiglia.
Intanto
che si appuntava a mente il discorso di scuse, Courtney era tornata
con le mani dentro alla pochette e aveva tirato fuori una
boccettina di vetro, con del fondotinta giallo al suo interno, e una
spugnetta.
«Il
giallo annulla il viola del livido» spiegò,
applicando un po’ di
prodotto sul
dorso della sua mano. Picchiettò la chiazza con la spugnetta
e, con
cura maniacale, prese a coprirgli la ferita. «Già
così va meglio,
ma domani sera, per coprirlo del tutto, puoi completare con
fondotinta del colore del tuo incarnato e cipria per fissare».
«Grazie»
rispose. «Per tutto».
Gli
sorrise timidamente.
«Quasi
come nuovo» commentò poi, dando
un’ultima controllata e riponendo
gli attrezzi. «Mentre rimetto tutto a posto, puoi chiamare i
tuoi
colleghi e chiedere umilmente perdono lontano dalle mie orecchie poco
discrete, così da non rovinare gli ultimi rimasugli della
tua
personalità da duro.»
«Che
è quella che ti ha fatta innamorare di me,
ammettilo» ammiccò
Duncan, alzandosi dalla panchina e avvicinandosi a pochi centimetri
dal suo viso. Resistette all’impulso di prenderglielo
fra le mani, per constatare se fosse più piccolo di esse.
Lei
gli diede un rapido buffetto sulla guancia, a mo’ di bonaria
presa
in giro.
«Non
avrei dovuto allontanarmi dal campeggio»
cominciò lui, con tono mesto. «Mi dispiace di
averti fatta
preoccupare.»
«Acqua
passata, ma non lo fare mai più» lo
ammonì, allungandosi di lato
per afferrare i manici della busta. Prima di girare i tacchi,
constatò con certezza disarmante: «E non conosco
la situazione, ma
se la tua ex ha ben pensato di tradirti, vuol dire che non ti ha mai
meritato.»
[
Route
90, New York
]
Da
quando si era lasciata Syracuse alle spalle e aveva imboccato la
ramificazione in direzione di Buffalo, Courtney aveva iniziato a
percepire un sempre più crescente senso di nausea.
Doveva
essere stata colpa del sandwich di tonno, addentato in fretta e furia
mentre conduceva l’automobile
lungo l’autostrada.
Evidentemente,
il retrogusto strano non era una sua peculiarità,
né era dovuto a
delle spezie, ma era soltanto andato a male e, come risultato, il
bolo alimentare le aveva provocato un bruciore insopportabile allo
stomaco, minacciando di risalire l’esofago da un momento
all’altro.
Aveva
ancora quarantacinque minuti di strada davanti. Per fortuna, il
diluvio delle due giornate precedenti sembrava essere un brutto
ricordo e le condizioni atmosferiche che le si prostravano dinanzi
–
un sole raggiante e qualche adorabile nuvoletta bianca –
erano
finalmente consone alla primavera. Poteva vincere la battaglia,
doveva solo stringere i denti e accelerare il passo.
L’immagine
del test di gravidanza, abbandonato nella sua borsa assieme a
portafoglio, fazzoletti e cianfrusaglie varie, la colpì come
un
fulmine a ciel sereno e il suo cervello le fece notare che,
nell’ultima settimana, disturbi simili erano stati frequenti.
Un
esempio era martedì mattina, quando solo il paracetamolo era
stato
in grado di lenire la forte emicrania con cui si era alzata –
non
gliel’avevano provocato il viaggio in aereo e
l’imminente
processo. O, almeno, non solo quelli.
Ancora,
ieri dopo la colazione. Di certo, dopo un mese di dieta a base di
fiocchi d’avena, ingurgitare un intero piatto di pancake
ricoperti
di sciroppo d’acero non era stata un’idea
brillante, e, come se
non bastasse, a scombussolarla ci avevano pensato anche i nascenti
sentimenti per un tipo conosciuto ventiquattro ore prima. Non
potevano, però, essere abbastanza da farla rinchiudere in un
cubicolo a vomitare l’anima.
Doveva
riempire la quiete assordante prima che l’avrebbero fatto le
sue
paranoie. Tese l’orecchio destro: con una gamba poggiata sul
cruscotto e il cellulare tenuto in modo tale da riprendere tutta la
faccia, Duncan era in videochiamata con il resto della band.
Indossava le airpods, quindi poteva captare solo il cinquanta
percento della conversazione: i consigli, le istruzioni, i
“puoi
suonarmelo ancora una volta?”, i versi intonati a bassa voce.
Era
incredibile, notò Courtney, come in quel contesto avverso,
senza uno
strumento in mano, ping e connessione ballerina che rendevano
difficile la comunicazione, e la batteria che si scaricava veloce,
stesse facendo il possibile per ottenere risultati fruttuosi. E non
c’era il minimo cenno di noia o frustrazione sul suo volto,
solo il
luccichio che gli illuminava lo sguardo ogni qualvolta nominava il
suo lavoro.
Gli
aveva raccontato come avesse faticato a trovare il proprio posto nel
mondo, e come metà della sua famiglia non avesse mancato di
farglielo pesare. Constatare quanto lo appassionasse il ruolo che
s’era cucito addosso la riempiva di immotivato orgoglio.
Gli
angolo della sua bocca erano curvi verso l’alto.
Avvampò quando
realizzò il motivo per cui stava sorridendo: era
l’ingenua
protagonista di un teen drama e si era presa una cotta per il
bulletto dal passato tenebroso e l’animo tenero.
Si
sforzò di cacciare fuori un motivo per avercela con lui
– perché,
ad un tratto, ha deciso di diventare attraente? Non poteva rimanere
un rozzo cavernicolo?
– ma era con se stessa che era arrabbiata – ti
sposi dopodomani! Non dovresti nemmeno guardarlo!
Avrebbe
voluto schiaffeggiarsi fino a smettere di formulare desideri
totalmente irrazionali.
Fra
poche ore sarebbe rincasata, non avrebbe più visto la sua
faccia
piena di piercing e, così com’erano apparsi, i
sentimenti
sarebbero annegati in qualche angolino remoto del suo cuore.
O
non c’era nessuna cotta e a parlare erano gli ormoni
impazziti a
causa della gravidanza.
La
sua bocca si era riempita di saliva. Presto o tardi, avrebbe rimesso.
«Ti
senti bene? Sei pallidissima!»
Percepì
una scarica elettrica propagandarsi per tutto il corpo dal punto in
cui Duncan aveva poggiato la mano sinistra – sulla sua
coscia, poco
più sopra del ginocchio.
La
persona che le restituì lo sguardo dallo specchietto
retrovisore
aveva, effettivamente, una brutta cera – le guance bianche,
gli
occhi spalancati e le labbra tese e ben sigillate. Non solo:
dall’espressione stralunata, si poteva evincere con chiarezza
che
la sua mente era scossa da turbe e pensieri di ogni tipo.
Anche
davanti al suo palese malessere, trovò le forze di mentire
senza
ritegno alcuno.
«Sto
bene, non preoccuparti.»
Aveva
dovuto deglutire prima di aprire bocca, perché nel frattempo
la sua
cavità orale si era trasformata in una piscina.
A
giudicare dall’aria apprensiva con cui non l’aveva
smessa di
scrutare nemmeno per un secondo, non se l’era bevuta. Era sul
punto
di aggiungere altro, era palese dal modo in cui aveva fatto
schioccare la lingua contro il palato.
«Sul
serio», gli
scostò delicatamente la mano dalla coscia, sfiorandone il
dorso con
le unghia solo per bearsi di quel contatto per un’altra
manciata di
istanti,
«sto
bene.»
Sospirò,
segno che si era arreso alla sua testardaggine. Il nuovo centro
dell’attenzione divenne l’autoradio; pigiava ogni
tasto
distrattamente, vagando da una stazione all’altra.
«Quindi,
tu e gli altri avete fatto pace» osservò Courtney,
non tanto per
curiosità, quanto più per ignorare lo stomaco
sempre più in
subbuglio.
«Non
ce la fanno a tenermi il broncio per più di mezza
giornata» ghignò
lui, alzando il volume per ascoltare meglio la voce di Florence
Welch
in Never
let me go.
«Mi vogliono troppo bene, tanto da rendermi partecipe alle
prove via
Skype. A proposito, posso usare il tuo caricabatterie?»
chiese,
indicando il cavetto bianco nel portaoggetti. «Il mio
è nel borsone
dentro al bagagliaio.»
Annuì.
«Da
piccolo, avrei preferito tagliarmi un braccio piuttosto che ammettere
i miei errori, oppure farmi aiutare da qualcuno»
spiegò Duncan,
attaccando il telefono alla presa della macchina. «Oggi, ho
chiesto
una mano ad uno sconosciuto e scusa a più di una persona. Ed
è solo
mezzogiorno! Sono fiero dei miei progressi.»
Nel
parlare, non s’era scrollato di dosso il sorrisetto mellifluo
nemmeno per un secondo, e Courtney comprese dove volesse andare a
parare con quella pillola di saggezza.
«Bella
mossa» ammise. «Peccato che non abbia bisogno di
aiuto.»
Il
suo organismo ritenne che quello fosse il momento migliore per
contraddirla.
«Sei
bianca come un lenzuolo!»
«Quindi?»
Il
sapore acro era sempre più forte, scalava spietatamente il
tubo
esofageo.
«Quindi
è chiaro che qualcosa non vada!»
esclamò lui, come se la sua fosse
la realtà assoluta. «E non capisco
perché ti sia incaponita di
voler guidare fino a Rochester.»
«Perché
era tutto sotto controllo fino a cinque minuti fa!»
gridò talmente
forte da sovrastare la canzone alla radio. «Poi hai iniziato
ad
assillarmi, mi sono innervosita e- non
ce la faccio più, devo vomitare!»
[
Lunedì
19 aprile – Toronto, Ontario
]
Ripeté
a mente lo stesso calcolo per la terza volta. Il risultato fu lo
stesso delle precedenti due volte: improbabile, ma non impossibile.
Seduta
sul bordo del letto, Courtney teneva fra le mani il calendario e
sfogliava avanti e indietro le pagine di marzo e aprile, controllando
che non avesse saltato nemmeno un giorno – invano,
perché le aveva fissate fino a memorizzarle.
Sette,
quattordici, ventuno, ventotto. Trentadue.
Quattro
giorni di ritardo.
L’ultimo
rapporto doveva essere stato tra la seconda e la terza settimana,
quindi in periodo di ovulazione.
Appoggiò
il mento su una mano. Gli occhi erano ancora incollati su quei
numeretti, ma aveva smesso di osservarli da un po’. Il
cervello, al
contrario, era perfettamente funzionante e le proponeva una serie di
ragionamenti sconnessi.
Non
poteva essere incinta, avevano usato le giuste precauzioni – ma
ci sono microscopiche percentuali che non funzionino.
Sì, ma non poteva essere quello il caso – non
doveva essere
quello il caso.
Era il suo organismo che la ringraziava per le condizioni estreme e
ansiogene cui l’aveva sottoposto nelle ultime due settimane.
C’era
da dire, però, che la pressione costante era sua compagna
sin dalla
tenera età, e questa non le aveva mai scombussolato il ciclo
mestruale. E adesso era al quarto giorno di ritardo. Ma non poteva
essere incinta. O
sì?
«Ho
caricato la valigia in macchina» le annunciò una
testa rossa,
facendo capolino dal corridoio. «Possiamo andare?»
Sollevò
lo sguardo. Scott era spettinato, indossava una consunta tuta verde
petrolio e sventolava avanti e indietro un mazzo di chiavi. Gli occhi
grigi erano incollati su di lei e studiavano ogni suo microscopico
movimento.
«Che
guardi?»
«Controllavo
le scadenze per un lavoro» rispose prontamente, come se
quella bugia
se la fosse preparata con largo anticipo, riponendo il calendario al
proprio posto sul comodino.
Si
rizzò, ma non lasciò la stanza fino a che non vi
fosse più una
singola pieghetta sulle coperte – «Ora
possiamo andare». Il suo fidanzato scosse la testa,
interdetto, nel
frattempo che la seguiva lungo il corridoio.
«Non
c’era bisogno che ti alzassi solo per accompagnarmi in
aeroporto»
gli ricordò, recuperando la borsa
dall’attaccapanni e infilandoci
dentro il naso, per accertarsi che non mancasse nulla.
«È il tuo
giorno libero, dopotutto. Avrei potuto prendere la navetta»
aggiunse
ad alta voce, quando era già sul pianerottolo e aveva
pigiato il
tasto dell’ascensore.
«Fino
a venerdì ci vedremo molto poco» disse lui,
chiudendosi alle spalle
la porta e girando la chiave nella toppa, due volte in senso
antiorario. La raggiunse e gli schioccò un bacio tra i
capelli.
«Voglio approfittare di ogni momento per stare
assieme.»
Durante
uno dei loro primi appuntamenti, Scott le aveva parlato dei suoi
nipoti, due gemellini in età prescolare dai suoi stessi
capelli
rosso carota. Il padre non si era assunto alcuna
responsabilità,
quindi si era sentito in dovere di aiutare sua sorella Alberta a
crescerli. Il rapporto che aveva con loro era speciale, aveva
imparato ad amarli più della sua stessa vita.
L’esperienza,
come Courtney aveva avuto occasione di constatare, l’aveva
portato
a coltivare un forte senso paterno – che aveva fatto breccia
anche
in Thomas, il suo fratellastro di dieci anni e il bimbo più
timido e
riservato sulla faccia della Terra. La sera in cui l’aveva
presentato alla famiglia, l’aveva chiamata in disparte e,
allargando quanto più possibile le braccia corte, le aveva
detto che
il suo ragazzo gli piaceva “tanto così”.
Non
aveva mai nascosto il desiderio di voler, un giorno, diventare padre,
e non aveva dubbi che sarebbe stato eccellente nel compito. Peccato,
però, che si fosse scelto una compagna che, a mettere su
famiglia,
proprio non ci pensava.
Nonostante
fosse stata figlia unica fino a poco prima
dell’età adulta,
Courtney proveniva da una famiglia numerosa ed era sempre stata
circondata da cugini, alcuni anche molto più piccoli di lei,
cui
s’era talvolta trovata a far da babysitter. Sebbene se la
cavasse
egregiamente – come con qualsiasi attività, del
resto – aveva
presto capito di non avere la premura e la pazienza adatte ad essere
una buona madre, né di volersi impegnare a svilupparle,
perché non
avrebbe mai avuto dei figli.
La
minima possibilità che, in quel preciso istante, ci fosse un
pulsante ammasso di cellule all’interno del suo utero,
quindi, la
spaventava a morte.
Aveva
tenuto la bocca chiusa da quando erano usciti dall’ascensore.
Con
la testa ostinatamente voltata verso il finestrino, era rimasta a
fissare i palazzi di North York scorrere velocemente davanti alle sue
retine. Le sue orecchie erano comunque vigili e captavano ogni
singolo suono – al momento, Scott fischiettava le note di un
pezzo
alla radio, Two
princes
degli Spin
Doctors.
Si era svegliato di ottimo umore e voleva esternarlo quanto
più
possibile.
Non
riusciva a mantenere il contatto visivo con lui per più di
dieci
secondi. Nella sua testa si riproduceva in un loop infinito lo stesso
video: loro due che aspettavano l’esito del test, due
lineette
rosse, lui che urlava di gioia e l’abbracciava, lei che si
stampava
un sorriso falsissimo in volto mentre tentava di non scoppiare a
piangere. Lui aveva già cominciato a pensare a dei nomi per
il
bimbo, lei a come sbarazzarsene.
«Ti
ricordi il villino a Nobleton?» domandò Scott, col
tono di chi si
fosse appena ricordato di dover dare un’importante notizia.
Aspettò
un suo cenno di assenso prima di continuare:
«L’agenzia ha
abbassato il prezzo e, se mettiamo insieme i nostri risparmi,
possiamo permettercelo. Mi hanno chiesto un deposito per bloccare
tutto, ma ovviamente volevo prima parlartene».
Il
villino unifamiliare che il suo fidanzato aveva individuato era poco
più grande dell’appartamento in cui abitavano. Si
trovava su un
viale di case tutte uguali, in una contrada scomodissima da
raggiungere, fuori dall’area metropolitana di Toronto e a
circa
quarantacinque minuti dallo studio legale – che, vista
l’inesistenza dei mezzi pubblici, avrebbe dovuto raggiungere
con la
macchina, svegliandosi all’alba per evitare di rimanere
imbottigliata nel traffico mattutino. Ciliegina sulla torta era che
la fattoria della famiglia di Scott era a tre chilometri da
lì, il
che significava che sarebbe stata costretta a vederla più
spesso.
Aveva
arricciato il naso ed era pronta a controbattere, ma lui, che aveva
rapidamente stilato una lista mentale con i pro e i contro, fu
più
svelto: «Lo so che avevamo deciso di rimanere in
città, ma siamo
realisti! I prezzi degli affitti sono alle stelle, finiremmo in
bancarotta ancor prima di firmare il contratto. Sarà uno
stress fare
avanti e indietro, ma, guardando ad un domani, è
un’ottima scelta:
la casa ha tutto quello che desideriamo, la mia famiglia è
vicina e
potrà darci una mano, e potremo crescere i nostri bambini in
un
luogo sicuro e lontano dallo smog.»
«Hai
detto bene, avevamo deciso di rimanere in città»
tagliò corto lei,
l’attenzione ancora rivolta all’esterno.
«Quindi il verdetto è
no.»
«Solo
nell’ultimo mese hai bocciato tre opzioni»
borbottò lui, senza
nascondere un pizzico di delusione. «Comincio a pensare che
tu non
voglia trasferirti.»
Sbuffò.
«Non
essere sciocco!»
La
reazione fu immediata.
«E
allora dimostramelo! Smettila di remarmi contro e proponi una
soluzione!»
Courtney
fu costretta a guardarlo. La collera nella sua voce era gemella a
quella stampata sulla faccia lentigginosa – le sopracciglia
erano
curvate verso il basso e le labbra increspate in una smorfia.
Tanto
bastò per innervosirla.
Non
trovava alcun appiglio per confutare la sua tesi –
d’accordo,
aveva ragione! Ma, data la sua professione, era un paradosso
piuttosto ironico. Per di più, non avrebbe potuto scegliere
momento
peggiore per riportare luce sulla questione.
A
dire il vero, concepiva tutto ciò che veniva dopo domenica
come un
futuro remoto, tanto da non essere ancora oggetto delle sue
preoccupazioni. Quella mattina era stato come svegliarsi da un bel
sogno e più riacquisiva conoscenza del mondo circostante,
più si
rendeva conto di non essere pronta, e più voleva tornare a
dormire.
Rimbalzò
contro il sedile. Scott aveva inchiodato di colpo davanti ad un
semaforo rosso, a pochi centimetri dalla striscia dello stop. Quella
banalità fu la goccia che fece traboccare il vaso.
«Siamo
nel bel mezzo dei preparativi di un matrimonio, per pagare le spese
stiamo lavorando come muli da mesi, e la tua priorità
è di spendere
altri soldi e trasferirti in mezzo al nulla? Ti sembra davvero il
momento giusto anche solo per valutare questa possibilità?
Non so se
l’hai notato, ma viviamo già in un appartamento
più che dignitoso
– e, nella peggiore delle ipotesi, non vedo perché
non potremmo
viverci fino alla fine dei nostri giorni!»
La
sua reazione l’aveva colto impreparato, ma non seppe definire
se
fosse più sbigottito o irato.
Non
disse nulla; si limitò a dare gas e ripartire alla volta
dell’aeroporto, mantenendo un religioso silenzio.
La
canzone era terminata da un pezzo; alla radio stavano dando le
notizie dell’ultima ora. I grattacieli cominciavano a lasciar
posto
ai palazzi e ai parchi della periferia.
«Devo
fermarmi un secondo in farmacia» riferì Courtney,
incrociando le
braccia al petto e fissando un punto davanti a sé.
«Ho dimenticato
le pastiglie per la nausea.»
Lui
alzò il mento, segno che avesse recepito, e
cacciò la freccia per
svoltare a sinistra.
Fu
allora che realizzò: lei quelle cose – una bella
casa, una
famiglia felice – in fondo le desiderava. Ma non con Scott.
[
Venerdì
23 aprile – Greater Rochester International Airport, New York
]
«Pronto?»
«Stai
lavorando? Hai cinque minuti liberi?»
«È
successo qualcosa? Mi sembri triste.»
Triste
non era il termine più adatto a descrivere la sua
condizione. Era a
dir poco terrorizzata.
Chiusa
dentro uno dei bagni, Courtney era dritta in piedi e respirava piano.
Guardava senza battere ciglio la stecca bianca che reggeva fra il
pollice e l’indice della mano destra.
Fuori
da lì, due ragazzine ridacchiavano e schiamazzavano.
«Non
sono triste, sono-»
Le
scappò un verso strozzato. La gola era stretta in un nodo e,
se
avesse alzato troppo la voce, sarebbe esplosa in un pianto disperato.
Inspirò
e ricominciò da capo.
«Ho
una settimana di ritardo, ho appena fatto un test di gravidanza
e»,
deglutì
a fatica,
«ho paura che possa essere positivo.»
Dall’altro
capo della cornetta, Alejandro mugugnò qualcosa a denti
stretti.
«Puoi
farmi compagnia mentre aspetto?» chiese lei in un soffio.
La
prima linea aveva cominciato a colorarsi. Dovevano essere passati due
minuti. Ne mancavano tre.
«Sì,
certo.»
Seguirono
trenta secondi di silenzio.
«Court,
stai vivendo un periodo di stress intenso» provò a
rassicurarla
lui, che forse aveva già messo assieme buona parte dei
pezzi. «Sono
mesi che ti stai spingendo fino al limite per conciliare tutti i tuoi
impegni, e nelle ultime settimane hai dato il meglio di te. Per di
più, sei bloccata a centinaia di chilometri da casa e dubito
che tu
stia viaggiando in maniera confortevole. Ci sono ottime
probabilità
che tu non sia incinta.»
In
circostanze normali, ascoltare le sue paranoie tradotte in parole
l’avrebbe aiutata a comprenderne
l’assurdità. Il suo cervello
era, però, annebbiato dal panico e mantenere un minimo di
lucidità
si stava rivelando più arduo del previsto.
«Sono
costantemente sotto stress, eppure questo non ha mai influito sul mio
ciclo mestruale.»
«Magari
questo è il segno che dovresti allentare i ritmi.»
«Non
sei d’aiuto.»
La
prima linea era sempre più rossa. Della seconda ancora
nessuna
traccia. Ma i cinque minuti non erano ancora passati.
Non
sentiva più le ragazzine, dovevano essersi finalmente
allontanate –
oppure i loro gridolini erano stati coperti dal suo cuore. Batteva
all’impazzata, lo sentiva rimbombare in gola e cresceva di
intensità ad ogni secondo. Provò a domarlo con
una serie di respiri
profondi.
«Perché
non ne hai parlato con Scott?»
La
domanda era genuina, non aveva l’intento di giudicare le sue
scelte.
«Lui
vorrebbe dei figli, io no.»
«A
prescindere da quello che vuole lui, la scelta finale spetterebbe
solo a te.»
«Lo
so.»
«Portare
avanti una gravidanza indesiderata finirebbe col
distruggerti.»
«Lo
so.»
Eppure,
la sola idea di interromperla la faceva sentire in colpa.
Si
ricordò di aver impostato il timer solo quando il telefono
vibrò. I
cinque minuti erano passati.
«Ci
siamo.»
Trattenendo
il fiato, abbassò lo sguardo sul test.
*
* *
Duncan
avrebbe volentieri abolito la sezione ricordi di Instagram.
Nella
storia condivisa trecento sessantacinque giorni prima, Gwen era
seduta a gambe incrociate su una panchina di Music Garden, e
scarabocchiava sull’album da disegno la natura attorno a
sé. Il
basco nero impediva che le ciocche nere e blu le finissero davanti
agli occhi, oltre a conferirle una stereotipica aria da artista.
Consapevole di essere ripresa, le sue labbra erano piegate in un
sorrisetto compiaciuto. A completare l’opera, vi era
l’emoji di
un cuore nero in alto a destra.
Erano
ancora nel pieno della fase “luna di miele”, quando
sorrideva
come un ebete solo a nominarla. Erano stati i mesi delle passeggiate
infinite, delle maratone di film horror e delle chiamate a tarda
notte. Richiamarli alla memoria gli provocava mancanza.
Non
era la sua ex a mancargli – teneva un messaggio pieno di
insulti
nelle note del cellulare; non gliel’avrebbe mai mandato. Era,
bensì, la sensazione di ebrezza tipica degli innamorati.
Non
rifiutava mai dell’adrenalinico sesso occasionale, ma
ciò che più
gli donava serotonina era la fase iniziale di una relazione, quella
fatta di conoscenza e di sentimenti intensi. Forse era colpa del poco
affetto ricevuto da bambino, sicuramente il se stesso adolescente
perennemente incazzato col mondo gli avrebbe sputato in faccia, se
l’avesse sentito articolare quell’affermazione a
voce alta, ma la
verità è che gli piaceva amare e, altrettanto,
gli piaceva essere
amato.
Purtroppo,
finiva sempre per innamorarsi della persona sbagliata.
Chiuse
l’applicazione e ripose il telefono nella tasca dei jeans. Si
stropicciò gli occhi e li puntò verso
l’ingresso del bagno delle
donne, dentro cui Courtney era sparita almeno da dieci minuti. Doveva
stare peggio di quanto traspariva, eppure, anche dopo aver rimesso
l’intero pranzo sul ciglio della strada, aveva ugualmente
insistito
per guidare fino a destinazione.
Due
bimbette spalancarono di scatto la porta, mandandola a sbattere
contro il muro. Ne approfittò per lanciare uno sguardo
discreto, ma
di lei non c’era nemmeno l’ombra.
E
quella non era l’eccezione.
La
lunga chiacchierata della sera precedente aveva cambiato le carte in
tavola. Non era più un semplice interesse quello che
nutriva,
piuttosto era un desiderio impellente di passare intere giornate a
scoprire ogni suo singolo dettaglio, e contemporaneamente di mettersi
a nudo, ‘ché in qualche modo essere sincero con
lei gli veniva
spontaneo. Non gli era capitato in nessun’altra relazione.
Aveva
anche fantasticato su come sarebbe stato bello farlo sui sedili
posteriori dell’auto, ma quello era un di più.
Il
nocciolo della questione era un altro: le loro strade erano destinate
a separarsi. Magari l’avrebbe rivista, ma in circostanze
diverse e
con una fede nuziale al dito. Era l’unico finale
contemplabile.
La
porta si aprì una seconda volta. Fu in piedi ancora prima di
accertarsi che fosse lei.
«Ehi,
ho parlato col tipo dell’infopoint e mi ha detto che
può metterci
sul prossimo volo per-»
Si
interruppe nell’istante in cui incrociò il suo
sguardo. I suoi
occhi erano velati dalle lacrime e, nel tentativo di trattenerle, si
mordeva il labbro inferiore. Reggeva qualcosa fra le mani; quando
Duncan capì cosa fosse, cominciò a boccheggiare.
«È…?»
«È
negativo.»
Il
secondo dopo stava ridendo. Era una risata forzata, innaturale, quasi
macabra se si aggiungevano le lacrime, scure per via del mascara, che
avevano iniziato a rigarle le guance.
La
sua reazione l’aveva colto alla sprovvista. Non sapeva cosa
dire,
se provare a consolarla o chiedere spiegazioni. Decise di appoggiare
le mani sulle sue braccia e lei tacque di colpo. Nel avvicinarsi, non
interruppe il contatto visivo nemmeno una volta, resistendo
all’istinto di stringerla forte contro il petto.
«Sono
un mostro» pronunciò Courtney a fatica, tirando su
col naso. «Sai
a cosa ho pensato un secondo prima di guardare il risultato?
“Se
viene fuori positivo, corro ad abortire.”»
«Non
sei un mostro» ribatté, con una serietà
e una convinzione che non
pensava di possedere. «È il tuo corpo e, se non ti
senti pronta,
nessuno avrebbe potuto –
e dovuto
– contestare la tua scelta.»
Di
tutta risposta, lei si aggrappò alla sua schiena, crollando
con la
testa sulla sua spalla. Ricambiò l’abbraccio,
lasciando che il
naso sprofondasse fra la sua chioma castana, e portandosela talmente
vicino da poter sentire i suoi singhiozzi ad un passo dal cuore. Non
aveva idea che, fra essi, si celava una domanda cui Courtney non
avrebbe dato voce.
Se
avessi abortito senza dirlo a Scott, sarei stata un mostro?
[
Alle
porte di Niagara Falls, Ontario
]
In
un’ipotetica classifica delle pensate idiote che aveva avuto
nelle
ultime due settimane, quella sarebbe entrata di diritto nel podio.
Eppure, nemmeno quella consapevolezza aveva dissuaso Duncan
dall’affittare una nuova auto e guidare verso il confine di
Stato,
dapprima senza una meta precisa e poi seguendo le indicazioni per
Niagara Falls.
«Non
c’è bisogno che tu lo faccia» gli aveva
detto Courtney, prima di
accasciarsi, sfinita, contro il sedile. Era crollata poco dopo,
trovando finalmente la pace.
L’iniziativa
era nata con puro scopo altruistico, ovvero distrarla dagli
avvenimenti tumultuosi della giornata e regalarle un paio
d’ore di
spensieratezza. A mano a mano che aveva macinato chilometri, era
venuto a galla un intento a dir poco egoista, completamente opposto
al primo: non era pronto a salutarla.
Nella
quiete del viaggio, col finestrino abbassato per metà e
l’aria
fresca del pomeriggio che gli pizzicava il cranio, si era ritrovato
ad immaginare una realtà parallela, in cui, dopo una folle
serata
fra bar e sale giochi, lui le rovesciava addosso i suoi sentimenti e
lei buttava all’aria il piano di una vita per dargli una
possibilità.
Uno
scenario talmente surreale che quasi si vergognava ad esserselo
figurato. Nei rapidi istanti in cui
l’irrazionalità aveva preso il
sopravvento, e aveva sperato che si realizzasse, più che
vergogna
aveva provato imbarazzo. Si era comunque concesso il lusso di
perdersi ancora un po’ nei meandri della sua immaginazione,
mentre
l’ammirava sorridere nel sonno; distolto lo sguardo, si
premurò di
chiudere il tutto sotto chiave.
Il
cartello di benvenuto lo riaccolse in Canada. Avanzava l’ora
del
tramonto e il cielo su Rainbow Bridge aveva assunto le tipiche
sfumature rosa e arancioni. Alla radio, tenuta a basso volume, il
conduttore annunciò il nuovo singolo di una band emergente, Cheer
up baby
degli Inhaler.
Courtney
si era svegliata da qualche minuto, ma lui se ne accorse solo quando
si girò e gli toccò una spalla, per richiamare la
sua attenzione.
«Manca
ancora tanto?»
«No,
siamo praticamente arrivati.»
Guardò
fuori dal finestrino. Riconobbe le cascate e la cittadina al di
là
del fiume, abbellite dal crepuscolo. Sull’area pedonale, i
turisti
immortalavano il paesaggio suggestivo coi propri telefoni.
«Non
dovevi» fu l’unica cosa che riuscì a
sillabare.
«E
invece dovevo» la contraddisse. «Insomma, quale
miglior modo per
concludere questo viaggio?»
(1) letteralmente
“vuoi portarmi alla morte?”,
l’equivalente italiano potrebbe
essere “vuoi forse uccidermi?”. Ho controllato e
dovrebbe essere
giusta, ma, siccome fra le lingue che studio non
c’è lo spagnolo,
correggetemi se sbaglio, o se è più corretto
usare un’altra
espressione
Angolo
dell’autrice
Ormai
gli aggiornamenti stanno diventando un appuntamento mensile, ma
purtroppo mi è impossibile fare più veloce di
così. Spero che i
miei pochi lettori – sempre che siano rimasti – non
me ne
vogliano.
Il
mistero sul test di gravidanza è stato risolto e immagino
che
abbiate tirato un sospiro di sollievo. Ammetto che ero quasi tentata
di cambiare tutto e renderlo positivo, ma non mi sembrava il caso di
mettere tutto questo angst in quella che nasce come una commedia
–
ma magari questo e altri trope tragici me li lascio per
un’altra
storia :)
Il
personaggio che compare nel primo paragrafo se lo ricorderà
bene chi
ha letto La Storia Inversa. John è il mio marchio di
fabbrica,
probabilmente il motivo per cui sono più conosciuta nel
fandom, e
dovevo omaggiarlo in qualche modo.
(per
voi che mi leggete su Wattpad, potete trovare entrambe le parti su
Efp. Vi avverto, però, che la prima è stata
scritta nel 2013,
quindi è parecchio cringe).
La
digressione centrale doveva essere più breve, ma la voglia
di
approfondire il rapporto con Scott ha avuto la meglio. Mi dispiaceva
farlo sbucare fuori solo per l’epilogo. E, nonostante il suo
sia un
cameo più breve, stesso dicasi per Alejandro, visto che ho
sottolineato più volte la sua amicizia con Courtney.
Il
prossimo è l’ultimo capitolo prima
dell’epilogo – che in
realtà, per come l’ho progettato, avrà
più o meno la stessa
lunghezza di un capitolo canonico. I nostri protagonisti sono
più o
meno venuti a capo dei loro sentimenti, quindi aspettatevi di tutto
–
e intendo proprio di
tutto,
perché ho in mente un bel po’ di cose e non so
ancora verso che
direzione virerò. Vi assicuro che, comunque
andrà, ci saranno
interazioni romantiche.
E
anche questo l’abbiamo portato a casa! Ci sentiamo al
prossimo
aggiornamento. xx
|
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Capitolo 6 *** Cinque ***
Cinque
Nel
sogno era vestita di bianco.
Non
era l’abito che aveva scelto in origine. Era meno aderente e
decisamente più pomposo, con le maniche a sbuffo e la gonna
composta
da diversi strati di tulle.
Non
poteva specchiarsi,
ma si sentiva stupenda – si sentiva una principessa. Se la
sala
fosse stata piena, gli occhi dei presenti sarebbero incollati su di
lei.
A
pensarci bene,
era strano che i suoi cari non fossero lì a celebrare.
Altrettanto
insolita era la totale assenza di illuminazione sulla navata, tranne
che per un cuneo di luce puntato sul
fondo.
Al
centro,
Duncan indossava un semplice smoking nero, adornato da un giglio
sull’occhiello. Teneva le braccia lungo i fianchi e il
sorriso, il
più bello e spontaneo tra quelli che le aveva rivolto,
lo rendeva a dir poco splendido.
Era
abbastanza certa
che egli
non fosse il suo sposo,
ma non riusciva a rammentare chi altri avesse dovuto occupare quel
posto. Vedere
lui ad attenderla le sembrava così
giusto.
Era
pronta a giurargli amore eterno.
Si
concesse un attimo per chiudere gli occhi e inspirare.
Quando
li riaprì, Duncan era seduto al posto di guida. Le mani
erano salde
sul volante e gli occhi non si staccavano dal parabrezza. Non
sorrideva.
Il
ritorno alla realtà le portò via quel pizzico di
buonumore che le
era stato concesso durante la fase rem.
Nel
sogno era tutto così giusto.
[
Venerdì
23 aprile – Niagara Falls, Ontario
]
Si
bloccò col braccio a mezz’aria e le dita a pochi
centimetri dal
suo obiettivo. Lo
ritrasse immediatamente, quasi imbarazzato. Quella che gli era appena
saltata in mente era un’idiozia bella e buona.
In
cima alla borsa, il cellulare di Courtney aveva preso a squillare e,
senza che potesse frenarla, la
curiosità di Duncan era caduta sul nome del contatto. Scott
doveva
essere uno dei pochi, se non l’unico, ad essere stato
registrato in
rubrica senza il cognome. Il suo nome non era seguito da nulla,
nemmeno da un classico cuore rosso – non che la cosa lo
sorprendesse.
Distolse
lo sguardo. Davanti a sé, dieci birilli attendevano solo di
essere
abbattuti. L’allegra famigliola, che stava giocando nella
pista
alla sua destra, era talmente rumorosa da impedirgli quasi di
riconoscere le note della canzone agli altoparlanti – Low
di Lenny
Kravitz,
indovinò quando giunse il ritornello.
La
scenata di gelosia che aveva origliato gli era rimasta impressa, per
quanto esagerata e fuori luogo gli fosse sembrata. Nemmeno
ventiquattro ore più avanti, era lui ad essere geloso di uno
sconosciuto e quella sensazione gli provocava disagio.
Aveva
urgenza di associare una voce alla persona di cui aveva sentito tanto
parlare. Voleva un quadro più preciso di colui che aveva il
privilegio di starle affianco nel bene e nel male, di conoscerla in
ogni sua sfaccettatura, di accarezzarla, di baciarla, di farla
gemere. Allora, forse, avrebbe potuto reprimere una volta per tutte i
suoi sentimenti.
La
suoneria si interruppe di colpo; lo schermo rimase acceso un paio di
secondi, notificando la chiamata persa. Nel giro di mezzo minuto,
ripartì a tutto volume e stavolta Duncan non seppe
controllare
l’impulso: premette il tasto verde ancor prima di valutare le
conseguenze di quell’azione.
«Pronto?»
«Pronto?»
domandò di rimando Scott, parecchio confuso.
«Credo di aver
sbagliato numero.»
Il
tono della sua voce era profondo, vagamente gracchiante.
«Non
hai sbagliato numero» gli assicurò.
«Sono il ragazzo che sta
viaggiando con Courtney. Lei è… in bagno. Si
è sentita poco
bene.»
«È
qualcosa di grave? Posso parlarci?»
«No,
niente di preoccupante! Deve essere stato qualcosa che ha mangiato.
È
solo che-»
Sforzò
i neuroni per partorire in fretta una scusa plausibile.
«È
ancora debole e molto scossa, non è nelle condizioni di
rimettersi
in viaggio ora – e siamo ancora abbastanza lontani da
Toronto.
Dubito che riusciremo a tornare prima di stanotte.»
Si
sbatté una mano sulla fronte. Non solo era stato
tremendamente vago,
ma le informazioni sommarie circa il suo stato di salute avrebbero
finito col farlo allarmare.
«In
tal caso, sono felice che non sia da sola. Mi fa sentire più
tranquillo.»
Gli
si contorsero le viscere, in un moto improvviso di quelli che
parevano dei sensi di colpa.
Non
era quella la risposta che si aspettava.
«Devo
scappare.»
Riattaccò
e, accertatosi che Courtney non fosse nei paraggi, trascinò
l’indice
sul display. L’intento era cancellare ogni prova di quella
telefonata; avrebbe dovuto immaginarsi, però, che il
cellulare fosse
protetto da una password numerica. Digitò una sequenza a
caso, ma
naturalmente non successe nulla.
Poté
solo far scomparire le notifiche dalla home, prima di riporlo nella
medesima posizione in cui l’aveva trovato, pregando
affinché se ne
accorgesse il più tardi possibile.
Aveva
tradito la sua fiducia, di nuovo.
Inoltre,
scambiare quattro chiacchiere con Scott non aveva cambiato un bel
niente.
Così
com’erano apparsi, i sensi di colpa si erano dileguati.
Era
ancora cotto di lei. Era ancora geloso di lui.
Sbuffò,
frustrato. Era proprio un imbecille.
Quando
fu di ritorno, Duncan si premurò di farsi trovare in piedi,
lontano
dai suoi effetti personali.
«Se
non ricordo male, eravamo rimasti che ti stavo stracciando»
annunciò
lei, le labbra stese in un ghigno compiaciuto. «E toccava a
te
tirare.»
«Non
so te, ma io comincio ad annoiarmi» le disse, recuperando il
giubbotto di pelle gettato alla rinfusa sullo schienale del
divanetto. «Vogliamo andare a berci qualcosa?»
Aveva
sfiorato il coma etilico giusto la scorsa notte, introdurre altro
alcol nel suo organismo era tra le ultime posizioni nella lista di
idee per trascorrere la serata. Si trattava, piuttosto, del tentativo
disperato di distrarla e tenerla lontana dal telefono.
«Non
puoi abbandonare ora che sto vincendo io!»
Protestare
non servì a nulla, poiché le aveva già
dato le spalle e si stava
dirigendo verso la cassa. Fu obbligata a cedere: si lasciò
sfuggire
un grugnito e gli corse appresso.
Restituite
le scarpe e pagata la quota, si ritrovarono per le viuzze piuttosto
gremite di Niagara Falls. La sera era calata e, a giudicare dalle
code fuori dai ristoranti, doveva essere l’ora di cena.
Duncan
procedeva con passo spedito lungo il marciapiede, alla ricerca di un
pub in cui potessero entrare senza aspettare più di un
quarto d’ora
al freddo. Poco più indietro, Courtney arrancava per stargli
appresso, schivando gruppetti di ragazzi che venivano dalla direzione
opposta.
«Dal
momento che stavi brutalmente perdendo, mi aspetto come minimo che
sia tu ad offrire!» gli urlò fra un respiro e
l’altro.
Individuò
dal lato opposto della strada ciò che stava cercando. Il bar
per
karaoke era incastrato fra due edifici più possenti e
passava
facilmente inosservato. Nei pressi dell’ingresso, tre uomini
stavano fumando degli spinelli.
«Nessuno
di noi due caccerà un centesimo» le
assicurò. «Ma avrò bisogno
del tuo anello.»
«Perché?»
L’espressione
malefica parlò al suo posto. Aveva in mente qualcosa di
parecchio
stupido.
«Dimmi,
principessa: quanto sono credibili le tue doti attoriali?»
*
* *
Gliel’aveva
spiegato per filo e per segno con aria fiera, e Courtney aveva
trovato conferma alla sua sensazione: era davvero un piano scemo.
«Non
funzionerà.»
«Funzionerà
eccome! La gente va pazza per questi sentimentalismi
patetici.»
Normalmente,
non aveva alcun tipo di problema a stare al centro
dell’attenzione,
ma solo quando era una situazione di potere e non risultava
vulnerabile agli occhi altrui. Non era quello il caso.
A
renderla ancora più restia, ci pensava la prospettiva di
Duncan
inginocchiato davanti a lei, a proclamare una serie di frasi fatte
stracolme di nauseabonda dolcezza, concludendo il tutto chiedendole
la mano.
Poco
importava che si trattasse di un’enorme pagliacciata con una
finalità tutt’altro che nobile. Solo ad
immaginarselo, il suo
cuore mancava un battito.
«Quante
volte hai usato questa tattica?»
«Solo
una volta. A farmi da complice è stata mia cugina.»
Soffocò
una risata.
«Comunque,
ricorda che se ti commuovi sono drink extra.»
Si
focalizzò su quell’ultimo consiglio –
lei che non aveva mai
pianto in pubblico, nemmeno ai matrimoni e ai funerali, e che ora
stava prendendo in considerazione l’idea soltanto per
sbronzarsi.
Duncan
era dall’altro lato del locale. Era chinato verso il dj e gli
stava
bisbigliando qualcosa nell’orecchio. Ad un tratto, la cassa
in
quarti sfumò per lasciare spazio ad una traccia di
pianoforte.
Lo
vide farsi spazio fra la folla, stranita dal cambio improvviso di
atmosfera, per raggiungerla ed afferrarle entrambe le mani,
trascinandola a centro pista.
Come
se fossero il fenomeno da baraccone di turno, le teste di tutti si
girarono in loro direzione. Alcuni facevano congetture, molti altri
dovevano avere già capito ed erano a dir poco elettrizzati.
Si
fermarono. Lui le ammiccò e si chinò. Dovette
distogliere un attimo
lo sguardo, perché le boccate d’aria che aveva
preso per
tranquillizzarsi si erano rivelate inutili. Si sentiva avvampare.
Abbassò
lentamente gli occhi scuri sull’anello di fidanzamento,
stretto fra
le sue dita, e si accorse che erano velati dalle lacrime.
Scott
le aveva fatto la proposta durante le celebrazioni per la notte di
mezza estate. I suoi genitori li avevano invitati in fattoria per la
tradizionale grigliata e, mentre venivano sparati in cielo i fuochi
d’artificio, lui aveva cacciato fuori una scatoletta blu e le
aveva
posto la fatidica domanda. Circondata dai suoi parenti, pronti a
giudicarla e a lanciare sprezzanti sentenze, si era vista costretta
ad accettare. Più tardi, chiusa nell’angusto bagno
degli ospiti,
aveva avuto un attacco di panico.
Stava
rivivendo le stesse sensazioni di allora, nonostante fosse tutta
un’enorme recita. Era circondata da gente che non la
conosceva, che
non avrebbe potuto dire nessuna cattiveria sul suo conto in caso di
risposta negativa. Tra l’altro, non c’è
ne sarebbe stata alcuna,
perché il piano prevedeva che lei dicesse di sì
– e non aveva il
benché minimo senso, ma lei avrebbe davvero
voluto dirgli di sì. Ciononostante, la sua mente aveva
creato
un’immediata analogia fra i due momenti, e adesso voleva solo
pregarlo di rialzarsi e portarla via da lì.
Poi,
Duncan cominciò il suo monologo.
«Le
prime parole che mi hai rivolto erano rimproveri. Mi hai urlato
contro per averti interrotta e ho subito pensato che fossi un palo in
culo – avevo ragione, ma quello era solo uno dei tuoi tanti
strati.
Andando più a fondo, ho trovato una ragazza pungente,
difficile da
trattare, con un discutibile senso dell’umorismo, ma
tremendamente
intelligente e con un fascino innegabile. Era chiaro che non avessi
alcuna possibilità.»
Si
era interrotto solamente per prendere fiato. Si chiese quanto di quel
discorso fosse improvvisato, se stesse rielaborando lo stesso copione
utilizzato l’unica volta prima di questa – o,
ancora, se ci fosse
un fondo di verità. Era alquanto improbabile, ma la minima
possibilità che si stesse dichiarando senza mezzi termini la
riempiva di un’incontrollabile gioia. Nello stesso istante,
l’ansia
andò ad affievolirsi.
«Invece,
mi hai dato la possibilità di scoprirti strato per strato.
Mi sono
ritrovato dinanzi all’unica persona con cui passerei nottate
intere
a scambiarci storie, personali o no che siano – e sai quanto
io odi
parlare di me. Dopo la serata in quel campeggio, sapevo di essere
fottuto. Ci conoscevamo da un paio di giorno ed ero già
innamorato
di tutti gli strati che ti compongono – sì, anche
quelli più
insopportabili. I passi successivi sono venuti naturali e penso sia
arrivata l’ora di compierne un altro.»
Le
sue guance erano bagnate dalle lacrime. Stava piangendo
perché, per
quanto finta potesse essere la situazione, nessuno le aveva mai
dedicato un discorso del genere, perché era più
di una semplice
cotta, perché non voleva sposare Scott. Stava piangendo
perché era
un’abnorme idiota e aveva sbagliato tutto.
Gli
altri clienti la fissavano con la stessa tenerezza che avrebbero
rivolto ad un cucciolo. Avrebbe voluto gridare fino a farli
allontanare.
Strofinò
le dita sulle palpebre inferiori, ripulendosi e cercando di darsi un
contegno. Quando si rispecchiò in quelle due pozze azzurre,
esse le
rivolsero uno sguardo carico d’amore. Persa
com’era, ci mise un
attimo ad accorgersi che le aveva avvicinato l’anello, come
tacito
invito ad accettarlo.
«Allora?»
le domandò in un soffio. «Vuoi sposarmi?»
Il
nodo alla gola le impediva di esprimersi. Annuì
vigorosamente,
sfoggiando un sorriso smagliante.
Mezzo
secondo dopo fu fra le sue braccia, mentre l’intera sala
scoppiò
in un’ovazione gioiosa. Si ancorò a lui con tutte
le sue forze e,
nella foga generale, osò stampargli un bacio sulla
mandibola,
proprio sotto l’orecchio.
Avrebbe
davvero voluto dirgli di sì.
«I
miei complimenti per il pianto disperato» si
congratulò più tardi
Duncan, davanti a due pinte di birra artigianale. «Mi hai
fatto
spaventare, credevo fosse reale.»
Perché
lo era, avrebbe dovuto confidargli. Si limitò, invece, a
piegare le
labbra in un sorrisetto sarcastico.
«Merito
della tua dichiarazione smielata. Mi ha aiutata ad entrare nel
ruolo.»
Si
inumidì le labbra con la punta della lingua. Poté
giurare di averlo
visto rabbuiarsi, ma forse era l’ennesimo tiro mancino del
suo
cervello esausto, perché l’istante dopo gli stava
restituendo una
smorfia gemella alla sua.
«Diciamo
che siamo entrambi degli attori eccellenti.»
Un
ragliato sferzò l’aria. Un tizio al karaoke stava
devastando The
Chain
dei Fleetwood
Mac.
«Direi
di brindare alla scaltrezza e alla disonestà, che stasera ci
permetteranno di ubriacarci a costo zero» propose lui,
alzando il
suo calice.
«Sono
un avvocato, brindare alla disonestà andrebbe contro i miei
principi.»
«Ma
se mentite in tribunale per difendere i colpevoli!»
«Mentire
in tribunale è reato. Quello che facciamo noi è
usare le prove a
nostro vantaggio.»
«D’accordo»
si arrese. «Allora brindiamo a questa serata e al piacere
dell’alcol
gratis.»
I
calici si scontrarono in un leggero tintinnio di vetri.
Bevvero
un lungo sorso. Courtney pensò che non aveva mai assaggiato
una
birra così buona, ma forse erano l’atmosfera e la
compagnia a
fargliela apparire così deliziosa. A giudicare dalla
velocità con
cui la ingurgitò, Duncan doveva essere del suo stesso parere.
Un
po’ di schiuma gli macchiava i baffetti. Le venne da ridere.
Lui
era confuso.
Avrebbe
voluto baciarlo. Avrebbe voluto allungarsi, arpionargli il viso e far
scontrare le loro labbra. Si ingiuriò: non poteva
permettersi di
cedere ai suoi istinti, né tanto meno immaginarseli.
Tacque
nell’istante in cui si accorse che non erano soli. In piedi
alle
spalle di Duncan, una tizia sulla trentina, dagli occhioni blu e i
capelli tinti di biondo, la fissava con la testa inclinata di lato.
L’aveva già vista da qualche parte, si
sforzò di ricordare dove.
«Sì,
sei proprio tu!» squittì quella tutta soddisfatta.
Il
ragazzo, colto di sorpresa, saltò in aria, facendo del suo
meglio
per trattenere una sonora bestemmia.
«Avevo
qualche dubbio per via dei capelli più corti, ma ora che ti
guardo
da vicino non ne ho più. Eri la secchiona che interveniva
sempre a
lezione di diritto!»
Ricollegò
immediatamente la sua voce trillante e acuta a quella del capo
cheerleader del suo vecchio liceo. Era impossibile dimenticare gli
stonati cori di incitamento per la squadra di football, talvolta
gridati a pieni polmoni con un megafono.
«Lindsay
Mills?»
«Mi
hai riconosciuta anche tu! Le mie amiche,» segnò
un punto
indefinito con un gesto della mano, le cui unghie erano laccate di un
rosso acceso, in pendant col tubino, «hanno
cercato di convincermi a lasciar perdere, ‘ché
probabilmente
nemmeno avevi idea di chi fossi e vi avrei solo importunati, ma
dovevo assolutamente accertarmi di aver ragione. È tipo la
prima
volta che la mia memoria da pesce rosso non mi inganna!»
C’erano
ottime probabilità che non sapesse nemmeno il suo nome, ma
Courtney
decise di sorvolare su quel dettaglio, limitandosi a mantenere
un’espressione cortese.
«Comunque,
sono venuta a congratularmi per le nozze – e per il futuro
sposo.
Te lo sei scelto proprio figo! Guarda che pezzo di manzo!»
Gli
tastò un bicipite senza pudore alcuno. Duncan, girato di tre
quarti
sulla sua sedia per avere una visuale migliore, non si
premurò di
nascondere quanto fosse lusingato e intrattenuto dalla situazione.
«Beh,
nemmeno tu scherzi. Non credevo che la mia donna avesse conoscenze di
cotanta bella presenza.»
Lei
ridacchiò.
Courtney
strinse i pugni. Avrebbe voluto strozzare entrambi.
«Grazie
del pensiero, Lindsay.»
Nonostante
avesse l’intelligenza di un palo della luce, colse dal tono
fermo e
vagamente inacidito l’invito a togliere il disturbo. Prima di
dar
loro le spalle, li lasciò con un ultimo commento:
«Sono sorpresa.
Pensavo che solo nelle serie tv la secchiona si innamorasse del
cattivo ragazzo.»
Lo
pensava pure lei, ma ultimamente il destino si stava divertendo a
giocarle un tiro mancino dietro l’altro.
«Che
tipetto delizioso!» esclamò Duncan, permettendosi
di sbirciare
un’ultima volta. Quando tornò finalmente a
prestarle attenzione,
lei lo guardava con le braccia conserte e gli occhi ridotti a due
fessure.
«Hai
finito di farle i raggi x?»
«Qual
è il problema? Non mi pare che io e te stiamo insieme per
davvero!»
Il
calcio che gli tirò sotto il tavolo non fece sparire quel
ghigno
fastidioso.
Con
la – dolorosa?
– consapevolezza che ciò fosse la
realtà dei fatti, si concesse
un altro sorso. Nel frattempo, colse un microscopico dettaglio: si
era riferita a lei chiamandola “la mia donna”.
La
birra le andò di traverso.
*
* *
Presto,
un drink tirò l’altro – perché
non
approfittarne?
Era tutto offerto!
Come
se non bastasse, un camionista piuttosto corpulento sfidò
Duncan a
tracannare quanti
più
shottini di vodka in trenta secondi, e chi era lui per rinunciare ad
un gioco alcolico – specie se c’era Courtney a fare
il tifo per
lui?
Entrambi
potevano affermare con certezza, però, di non essere
ubriachi. Forse
erano un po’ brilli, di sicuro euforici, ma erano ancora in
grado
di intendere e di volere.
A
dimostrazione della tesi, smisero di bere prima che potessero
prenderci gusto e si tuffarono nella mischia, fra luci psichedeliche
e sudore. Dalla postazione karaoke, una voce femminile intonava I
Wanna Dance With Somebody
di Whitney
Houston;
se la cantarono addosso, saltando e volteggiando, senza lasciarsi le
mani nemmeno per un attimo. Sebbene
non fossero più l’occhio del ciclone e non
c’era alcun motivo
per portare avanti la farsa, non si separarono nemmeno con le canzoni
successive – perché avrebbero dovuto? Stavano
così bene l’uno
fra le braccia dell’altra!
E
poi, si disse Courtney, non stava tradendo Scott. Non era scritto da
nessuna parte che ballare con un altro, portargli le braccia attorno
alle spalle, e
guardargli con insistenza le labbra,
equivalessero a tradire.
Non
ne poterono più e, poco più tardi, erano in
strada. Tirava vento,
ma avevano talmente tanto alcol e adrenalina in corpo da non sentire
freddo. Non avevano una meta precisa, si limitavano a correre e a
gridare, come avrebbero potuto fare degli adolescenti qualunque
–
in
effetti,
erano spensierati come tali.
Si
ritrovarono a seguire la folla in ingresso al casinò
più importante
della città. Non erano
lì per scommettere,
ma il tavolo della roulette attrasse la loro attenzione.
Vinsero
la prima partita. Durante la seconda, Duncan strinse la presa attorno
ai suoi fianchi – le aveva spiegato che era il suo
portafortuna.
«Se
esce otto, ti sposo stanotte» annunciò a lei e a
tutti quelli che
stavano giocando.
Tirò
i dadi: uscì il sette. Seguì un boato generale.
Per
fortuna avevano puntato poco.
«Sarà
per la prossima volta.»
*
* *
La
lunga passeggiata affacciava sul fiume, donando alle orecchie il
sottofondo musicale dell’incessante scorrere
dell’acqua, ed era
popolata da coppiette, che si godevano la quiete del luogo. Loro,
fastidiosamente rumorosi e a tratti molesti, erano le pecore nere e,
come tali, non ci misero molto a guadagnarsi gli sguardi sdegnosi di
tutti. Non potevano proprio fare a meno di ironizzare su qualsiasi
cosa, galeotto anche l’alcol che avevano ingerito.
Era
evidente che la sfida personale di Duncan fosse farla ridere a
più
non posso, perché s’era innamorato del suo suono
cristallino, e
perché la trovava a dir poco adorabile quando lo faceva, con
gli
occhi semichiusi e il naso lentigginoso arricciato. Avrebbe voluto
scattarle una foto.
In
quei giorni gliene aveva fatte un paio, la maggior parte a
tradimento, dapprima per il gusto perverso di innervosirla, e in
seguito per catturare la sua bellezza nella spontaneità e
conservarla non soltanto nella memoria.
Non
voleva pensare al momento dei saluti, non quando Courtney era
aggrappata al suo braccio e le battute che gli uscivano di bocca
erano la causa della sua ilarità. Erano ancora nella loro
bolla
paradisiaca, dove scadenze e impegni non esistevano, e intendeva
impiegare al meglio il poco tempo che restava.
«A
che pensi?»
Le
rivolse un’espressione interrogativa.
«Hai
lo sguardo vacuo. A che pensi?» gli ripeté.
«Penso
che questa serata sia memorabile.»
Ed
è merito tuo,
aggiunse nella sua testa. Erano entrambi troppo poco brilli per
permettersi di farlo ad alta voce.
Lei
sbatté le palpebre ed annuì, stringendo un
po’ più forte la
presa.
Più
avanti lungo la via, si estendevano schiere di bancarelle in legno,
che esponevano gadget di ogni tipo. Gli venne in mente di prendere
una felpa in ricordo di quei tre giorni folli, o magari di comprarle
un regalo. Fu la trovata successiva ad attizzarlo.
«Hai
già “qualcosa di vecchio, qualcosa di
nuovo”?» le chiese a
bruciapelo. «Per il matrimonio, intendo».
«Il
mio abito da sposa è nuovo» rispose, non convinta
di dove volesse
andare a parare. «E indosserò un medaglione che abuela
mi regalò per la quinceañera.
Mi mancano qualcosa di blu e di prestato, magari chiederò a mamá
o
a Heather.»
«E
se prendessi in prestito per te qualcosa di blu?»
Inarcò
un sopracciglio.
«Si
chiama rubare.»
«Solo
se ti beccano.»
Passarono
i primi stand. Duncan lanciava occhiate furtive, nell’intento
di
individuare il miglior luogo del delitto. Courtney gli camminava a
fianco controvoglia, ma al contempo non abbastanza lucida per
dibattere od opporsi.
«Va’
a parlare con quel venditore» le ordinò, indicando
con un veloce
gesto un anziano signore mezzo addormentato, seduto dietro il bancone
alla loro sinistra. Non c’era alcun curioso a osservare gli
oggetti
esposti, il che poteva rivelarsi un enorme vantaggio.
«E
poi?»
«E
poi niente, devi solo intontirlo di chiacchiere. Io vedo di
sgraffignare qualcosa.»
Non
si mosse.
«Dai
Court, andrà tutto bene! Fidati di me.»
Sottolineò
per bene le ultime tre parole e queste la fecero capitolare.
«Se
ti becca, io non ti conosco» sibilò a denti
stretti, prima di
incamminarsi in direzione della povera vittima.
Ancora
una volta, Courtney si rivelò essere la complice perfetta.
Lo
bombardò di domande, alle quali egli faceva fatica a stare
al passo,
mischiando inglese e spagnolo per finire a confondergli le idee, e
costringendolo a mantenere l’attenzione fissa su di lei.
Mentre
si avvicinava furtivamente, si incantò ad ascoltarla. Aveva
invidiabili proprietà di linguaggio e capacità di
appigliarsi al
più insignificante dei dettagli. Non potevano essere solo
frutto di
studio ed esperienza, c’era nata con quelle attitudini.
Già dai
suoi racconti non aveva dubbi che fosse eccellente nel suo lavoro,
adesso ne aveva la conferma.
Si
costrinse a concentrarsi. Da vicino, l’operazione non gli
parve più
così semplice. Tutta la roba più interessante era
in bella vista e,
per quanto il venditore ispirasse scarsa fiducia, dubitava che fosse
talmente poco sveglio da non accorgersi di un furto compiuto proprio
sotto al suo naso.
Sull’estremità
più lontana erano affisse decine e decine di calamite, tutte
di
diverse forme, raffiguranti le cascate da ogni postazione possibile e
immaginabile. Nessuno avrebbe mai notato che ne mancava una.
Indietreggiò
di qualche passo, fin quasi a toccare con le spalle il pannello
espositivo. Con una mano dietro la schiena, staccò una
calamita
quadrata e la fece scivolare nella tasca dei jeans. Non si
curò di
sceglierne una in particolare, tanto erano tutte blu.
Quando
le camminò a fianco, richiamando la sua attenzione con un
colpetto
tra le scapole, Courtney stava decantando ad alta voce le differenze
fra due t-shirt perfettamente identiche, sotto lo sguardo attonito
dell’anziano oramai ammutolito. Chiuse la sceneggiata
lanciandole
in aria e borbottando qualche maledizione intanto che si allontanava;
Duncan dovette trattenere le risa.
Accelerò
il passo, e un metro più indietro la ragazza fece lo stesso,
ma
sempre in modo tale da non risultare sospetto. Si fermò in
un punto
poco illuminato – sotto un albero, lontano da indiscrezioni
di
qualsiasi tipo – e attese che fosse vicina per lanciarle il
bottino, che lei afferrò al volo.
«E
come dovrei indossarla una calamita?»
La
smorfia divertita tradiva la serietà con cui aveva
pronunciato la
domanda.
«Non
avevi fatto nessuna richiesta, quindi ho preso il primo oggetto blu
che mi è capitato sotto tiro» si
giustificò lui. «E poi, non deve
per forza essere in bella vista. Puoi sempre incastrarla nella
giarrettiera, o infilarla nel reggiseno!»
La
reazione di Courtney fu spontanea. Rideva talmente forte da tenersi
la pancia con le braccia, il che suscitò ilarità
anche in lui.
Fu
come avere di nuovo vent’anni. Fare il giro dei bar
inventando
stratagemmi creativi per pagare di meno, ballare e cantare ammassati
in uno spazio di pochi metri quadrati, passeggiare in lungo e in
largo per ore, scherzare di qualsiasi stronzata. Essere liberi di
fare nuove esperienze.
In
quel clima spensierato, Duncan si mosse in avanti e le prese il viso
fra le mani, portandosela talmente vicino da far sfiorare le loro
fronti.
Tacquero
entrambi. Courtney lo fissava senza battere ciglio, gli occhioni neri
che luccicavano. Anche da quella distanza faceva fatica a scovare le
pupille, e di certo la penombra non aiutava. Al contrario, ebbe
l’occasione di studiare meglio gli altri piccoli dettagli
– il
neo sotto l’occhio destro che si confondeva con le lentiggini
color
caffè, le lunghe ciglia, l’arco di Cupido ben
pronunciato. Era
irreale quanto fosse splendida.
Un
altro passo e avrebbe potuto scoprire anche il suo sapore.
Bastò il
solo pensiero ad elettrizzarlo.
Piombò
tutto d’un colpo nella realtà.
L’aveva
portata lì con l’inganno per un suo capriccio.
Aveva proposto
attività su attività per appropriarsi in maniera
illecita di altro
tempo. Stava quasi per baciarla, pur sapendo che a casa
l’aspettava
il futuro marito – che, per quel poco che ci aveva parlato,
sembrava pure una bellissima persona.
Si
era invaghito di lei e, non solo non era in grado di sopprimere i
sentimenti, ma si era pure concesso il lusso di provare gelosia.
La
lasciò andare.
«Scusami.»
«Non
fa niente.»
E
lo intendeva sul serio. Questo lo sollevò.
«Vogliamo
fare qualche foto prima di andare via?»
*
* *
11:57
pm
Ehi
Geoff, ricordi quando hai conosciuto Bridgette e mi hai raccontato
che è stato amore a prima vista?
E
io ti ho preso per il culo per settimane?
11:58
pm
Potrei
aver trovato la mia Bridgette.
Però
c’è un problema bello grosso.
00:01
am
Stai
parlando della tua “conquista prossima al
matrimonio”?
00:03
am
Sì.
Porca
puttana.
*
* *
11:57
pm
Heather,
ho un’emergenza!
Provo
dei sentimenti per una persona.
Sentimenti
romantici.
E
domenica mi sposo con Scott.
11:58
pm
Come
posso farmeli passare in fretta?
11:59
pm
RISPONDI!
Per
favore.
00:00
am
Heather,
sul serio, ho bisogno di aiuto.
Non
ignorarmi.
Sono
disperata.
00:03
am
SMETTILA
DI VISUALIZZARE SENZA RISPONDERE!
00:05
am
Ti
odio.
*
* *
«Non
abbiamo bevuto abbastanza per stasera?»
«Una
birra in più non ci ucciderà»
affermò Duncan con una scrollata di
spalle, di ritorno dal minimarket con due Heineken.
Forzò
i tappi col coltellino svizzero che teneva in una tasca della giacca,
e gliene allungò una.
«E
ti avevo promesso che avremmo brindato a questo weekend importante
per entrambi.»
Courtney
corrugò la fronte, stupita dal fatto che se ne fosse
ricordato.
Poggiati
contro il cofano, consumarono in silenzio le birre, restando ad
ascoltare il vociare lontano e la musica ovattata che sferzavano la
notte. Nel frattempo, Duncan decise di accompagnare la bevanda
ghiacciata ad una sigaretta, che si ritrovò a dover smezzare.
«Mi
hai rotto le palle per tre giorni, mi hai ripetuto fino alla nausea
quanto facesse male, e adesso vuoi fumare?»
«Io
fumerò forse quattro volte l’anno, e solo quando
sono
particolarmente stressata, mentre la tua è una dipendenza.
Ergo,
passami quella cazzo di sigaretta!»
Non
si dissero nient’altro finché la cartina non si fu
consumata.
«Devo
farti una domanda» affermò poi lei.
«Spara.»
«Perché
continui a chiamarmi principessa?»
Mandò
giù un sorso prima di risponderle.
«Perché
sei sempre tesa, ligia alle regole e talvolta – forse
inconsapevolmente – hai un atteggiamento di
superiorità verso
tutto e tutti. E poi perché sei raffinata ed elegante come
tale. È
un nomignolo che ti si addice alla perfezione, insomma.»
«Mio
nonno mi chiamava così. Mi faceva sentire
speciale» gli spiegò.
«Purtroppo, ho pochi ricordi di lui. È morto che
avevo otto anni.»
«Mi
dispiace. Vuoi che smetta?»
Scosse
il capo.
Presto
non rimase granché da fare. Era pur sempre mezzanotte
passata e si
trovavano nel parcheggio deserto di un Depanneur. Non restava che
spararsi gli ultimi centotrenta chilometri e concludere finalmente
quel folle road trip.
«Non
voglio andare a casa.»
La
sua mano era già attorno alla maniglia dello sportello,
quando
Courtney lo colse in contropiede.
Era
rimasta impassibile, ma la sua voce s’era tinta di
malinconia,
gemella di quella che aveva soppresso circa ventiquattr’ore
prima.
Stavolta, però, non si sarebbe accasciata su di lui,
attendendo che
quell’attimo di debolezza se ne andasse via da solo.
Stavano
per sorpassare il confine immaginario che avevano tracciato di tacito
accordo, e da lì non potevano tornare indietro, ma solo fare
in modo
di limitare i danni. Ne era consapevole Courtney, che si stava
prendendo del tempo per valutare cosa dire e come dirlo, e ne era
consapevole Duncan, che non intendeva metterle fretta.
«Non
sono mai stata così presa», puntò lo
sguardo verso l’asfalto per
nascondere le lacrime, «ma credevo che sarei stata quantomeno
serena, con lui. Poi, mi sono ritrovata coinvolta in tutto questo,
e…»
Si
asciugò le gote. Quando tornò a guardarlo, con le
sopracciglia
piegate verso il basso, non c’era più alcuna
traccia di pianto.
«È
colpa tua»
lo accusò, marciando
verso di lui per fronteggiarlo.
«Non avevi alcun diritto di farmi capire che si
può essere davvero
felici, che di accontentarmi ed adattarmi non mi va
più.»
All’improvviso,
tutto acquisì un senso – i non detti,
l’espressione turbata con
cui aveva sottolineato che non tutti gli errori potevano essere
coperti, la reazione spropositata al test di gravidanza. Al contempo,
quel discorso lo mandò in confusione – era
piuttosto certo che ci
fosse un’altra chiave di lettura, ma non riusciva a coglierla.
«Casomai,
è merito
mio. Ti ho salvata da un eventuale matrimonio disastroso»
ribatté,
senza celare una certa confusione. «Non
c’è di che.»
«Non
capisci! Sposare Scott mi darebbe la stabilità che ho sempre
cercato!»
Lo
lasciò attonito.
«Non
mi sono mai
innamorata» confessò Courtney in un sussurro.
«Ho avuto diversi
ragazzi, più che altro per dimostrare che fossi in grado di
stare in
una relazione. Scott avrebbe dovuto essere uno dei tanti, ma
è stato
in grado di farmi sentire apprezzata
come mai prima di allora, e ho pensato che non potesse capitarmi di
meglio. In fondo, non sono altro che una stronza cinica dedita solo a
me stessa e al mio lavoro. Mostrare affetto ad altri esseri umani non
è nel mio DNA. Ma chissà, magari col
tempo
sarei
stata
in grado di restituirgli un decimo dell’amore che mi
dà ogni
giorno!»
Avrebbe
voluto abbracciarla, dirle che nulla di ciò era vero
– ma come
avrebbe potuto, se pure lui percepiva di essere incapace di amare e
di essere un buon amante?
Per
anni aveva vagato di anima in anima, risucchiando quanto esse
avessero da offrirgli, per poi abbandonarle quando si sentiva sazio a
sufficienza. Perché poteva vivere in loop la fase iniziale
di una
nuova relazione, ma era altrettanto vero che non sapeva affrontare
quanto proseguiva. Difatti, le rare volte in cui provava a portare il
tutto ad un livello successivo, si procurava nuove ferite e
bruciature.
I
parassiti come lui non erano destinati ad un lieto fine.
«Non
ho mai messo in conto il suo benessere, poco importava se fosse
contento o meno: l’importante era che fossi apposto per una
vita
intera. Voglio lasciarlo non perché ho realizzato tutte
queste cose,
ma perché sono un’egoista. Ho cominciato a provare
qualcosa per
una persona conosciuta tre giorni fa e, al contempo, a credere che
forse non sono allergica all’amore e merito di cogliere
quest’occasione.»
Eccola
lì, l’altra chiave di lettura.
Quella
mossa scombinava le carte in tavola. L’unica ragione per cui
Duncan
aveva tenuto la bocca chiusa era l’anello sul suo anulare
sinistro
– perché era un’abnorme testa di cazzo,
ma non fino a quel
punto. Adesso che Courtney aveva fatto venire a galla
l’intenzione
di cancellare le nozze, e soprattutto aveva velatamente confessato un
certo interesse nei suoi confronti, non c’era più
nulla a
bloccarlo – nemmeno la sua coscienza con la voce di
Bridgette, che
gli ricordava quanto poco fosse lucida, che era stato l’alcol
a
parlare e che probabilmente se ne sarebbe pentita l’indomani.
Meritava
anche lui di cogliere quell’occasione.
Fece
un passo in avanti, annullando quasi del tutto la distanza fra di
loro. Non la toccò, voleva che fosse lei a prendere
eventuali
iniziative.
«Per
quel che vale, non c’era nulla di finto nella mia
dichiarazione.
Dire che sono innamorato è prematuro, ma per il resto
intendevo ogni
singola lettera. Sono attratto da ogni tuo singolo strato.»
In
un battibaleno, le labbra di Courtney furono sulle sue e la lingua
spingeva con insistenza contro i suoi molari. Schiuse la bocca,
permettendole di approfondire il bacio, e immediatamente fu scosso da
una serie di scariche elettriche lungo la colonna vertebrale.
Nonostante il disgustoso retrogusto di birra, baciarla era
tutt’altro
tipo di adrenalina. Faticava a ricordare una situazione in cui
s’era
sentito tanto euforico, con la testa leggera e il battito cardiaco a
mille.
Sempre
cingendogli le spalle con le braccia, Courtney lasciò
scivolare le
dita della mano destra sotto il colletto della giacca di pelle,
massaggiandogli la nuca coi polpastrelli. Di tutta risposta, lui se
la portò ancora più vicina, facendo aderire
perfettamente i loro
corpi, e inclinò il capo in avanti. Ciò gli
permise di infilare la
lingua più a fondo nella cavità orale,
strappandole un sospiro
mozzato. Bastò quello per mandarlo su di giri.
Senza
staccarsi da lei, Duncan cercò con una mano la maniglia
dello
sportello posteriore. Lo aprì e la spinse senza troppe
cerimonie sui
sedili, liberandosi finalmente della giacca; lei lo emulò.
Si
sistemò su di lei in modo tale da non schiacciarla,
incuneando un
ginocchio fra le sue gambe, e si tuffò nuovamente sulle sue
labbra,
prendendosi il tempo di assaporarla per bene. Le mani erano scivolate
verso il lembo del suo maglioncino beige; lo alzò fino
all’altezza
del seno e, intanto che lui le lasciava una scia di baci umidi sulla
pancia, Courtney colse l’invito a liberarsene.
Quando
cominciò a leccare e succhiare la pelle del collo e del
petto, lei
non riuscì più a celare la crescente eccitazione,
lasciandosi
andare a sospiri e gemiti, e strusciandosi contro la sua gamba.
Duncan era già consapevole che quell’immagine
sarebbe tornato a
trovarlo nelle notti in cui la solitudine si faceva sentire
più
forte. Sfortunatamente, fu anche l’attimo in cui
realizzò quello
che stava realmente succedendo.
Si
fermò ad ammirarla. Era ancora più bella distesa
sotto di lui,
tutta spettinata e accaldata, con un’espressione trasognante
in
volto e le pupille ricolme di desiderio che lo supplicavano di andare
avanti. Il problema era che teneva troppo a lei, tanto da non voler
approfittare di un suo momento di debolezza per scoparsela in una
macchina non sua, parcheggiata all’interno di uno squallido
parcheggio, mentre erano entrambi sbronzi.
«Dobbiamo
fermarci.»
«Non
voglio» si lamentò lei, mettendosi a sedere e
stampandogli un
bacio, col tentativo di dissuaderlo.
«Nemmeno
io» rispose, afferrandola per le braccia. «Ma non
voglio nemmeno
fare qualcosa di cui tu possa pentirti da sobria. Se domani avrai
ancora voglia di stare con me, vienimi a cercare. Ok?»
Annuì,
mentre i suoi occhi si riempirono di lacrime.
Le
diede un veloce bacio sulla fronte e si allontanò, lasciando
che si
rivestisse.
Aveva
fatto la cosa giusta. Eppure, quando la sentì tirare su col
naso, il
suo cuore si spezzò un po’.
[
Sabato
24 aprile – Toronto, Ontario
]
Avevano
bevuto dell’acqua e preso un’aspirina.
Miracolosamente,
la sbornia si era attenuata in fretta,
ma nessuno
dei due fu in grado di riposare
per tutti i centoventotto chilometri che separavano Niagara Falls da
Toronto – chilometri che parvero il doppio, visto che, dopo
quello
che era accaduto, avevano ritenuto
che
fosse opportuno
non parlarsi.
Courtney
aveva guidato fino ad Oakville, superando i limiti di
velocità dove
era certa che non ci fossero autovelox. Prima il viaggio sarebbe
finito, meglio sarebbe stato per entrambi.
Per
gli ultimi quaranta chilometri, Duncan le diede il cambio.
Con
la musica alla radio a fare da atmosfera,
si mise a guardare le luci della notte scorrere rapide fuori dal
finestrino, come chiazze chiare su una tela nera. Era l’unico
modo
per
tenere a bada i pensieri.
Dire
che era mortificata era usare un eufemismo. Non si pentiva delle sue
azioni, ma allo stesso tempo si sentiva uno schifo per aver tradito
Scott. Qualsiasi fossero i suoi sentimenti, lui non meritava un
trattamento del genere.
L’indomani
la spaventava da morire. Avrebbe dovuto lasciare il suo ragazzo
libero di trovare qualcuna che lo amasse davvero, con la
consapevolezza di star rinunciando alla possibilità di
un’eterna
stabilità emotiva. Non sapeva, però, se avrebbe
trovato il coraggio
di farlo.
Per
quanto l’attrazione fosse reciproca, per quanto meritasse di
stare
bene, lei e Duncan erano agli antipodi e, una volta che se ne sarebbe
accorto pure lui, non ci avrebbe pensato due volte a piantarla in
asso. Nella realtà di tutti i giorni, dove non
c’erano road trip
su veicoli che sapevano di nuovo, non sarebbero durati più di
due
mesi – ma, Dio
se sarebbero stati i due mesi più felici e spensierati della
sua
vita!
«Beh,
direi che ci siamo.»
Erano
le tre e cinquanta del mattino ed erano parcheggiati sotto il suo
condominio. Erano giunti a destinazione e, ironia della sorte, in
radio era appena partita Begin
Again
di Taylor
Swift.
«Hai
bisogno di una mano coi bagagli?»
Si
girò verso di lui. Contornati da pesanti occhiaie nere, le
iridi
azzurre brillavano più del solito. Ci aveva familiarizzato
abbastanza, eppure continuava a trovarle tremendamente magnetiche.
«No,
faccio da sola.»
Lui
annuì.
Rimasero
immobili per un paio di secondi, prima di gettarsi l’uno fra
le
braccia dell’altra, come nella più scontata delle
commedie
romantiche.
«Grazie»
mormorò Courtney, con la guancia appoggiata sulla sua
spalla. «Sei
stato davvero il miglior compagno di viaggio che potessi desiderare.»
«Non
mi dire!»
esclamò, sarcastico. «Mi
hai finalmente rivalutato?»
Risero
entrambi.
Fu
lei a sciogliere l’abbraccio e, per l’ennesima
volta dall’inizio
della serata, dovette ricorrere a tutto il suo autocontrollo per non
baciarlo sulle labbra. Col suo profumo ancora addosso, scese dalla
macchina e la fiancheggiò fino al bagagliaio.
«Courtney?»
Duncan
si era sporto dal finestrino e la fissava con
un’intensità tale da
farle tremare le ginocchia.
«Non
sparire.»
Gli
angoli della sua bocca si piegarono spontaneamente verso
l’alto.
«Non
ho nessuna intenzione di farlo.»
Non
si girò a salutarlo un’ultima volta, ma attese che
il rombare del
motore fosse lontano, prima di girare la chiave nella toppa e varcare
a grandi passi l’ingresso.
Nel
pianerottolo si respirava un’atmosfera da film
dell’orrore. Nel
silenzio martellante, lo strisciare delle ruote del trolley sul
pavimento suonava amplificato. Fu quasi un sollievo entrare in casa
ed essere accolta dal russare di Scott.
Poggiò
la borsa, si sfilò la giacca e fu colta dallo sconforto. Non
sapeva
che fare, si sentiva una straniera nel suo stesso appartamento. Non
era lo stesso che aveva lasciato lunedì mattina.
Con
la speranza che, con le prime luci dell’alba, si sarebbe
sentita
meno scombussolata, e sarebbe finalmente stata in grado di prendere
una decisione, si trascinò fino al divano in soggiorno e si
sdraiò
con la testa contro il bracciolo. Non avrebbe potuto dormire nemmeno
se avesse voluto, quindi sbloccò lo schermo del cellulare e
aprì
iMessage. La prima chat non era più quella con Heather, che
non
ancora si era degnata di risponderle, ma quella con Duncan.
Le
aveva mandato ogni singolo ricordo di quel viaggio, dal primo selfie
sfocato in autogrill, ai video girati in compagnia dello sgangherato
terzetto conosciuto in campeggio, fino ad una serie di foto
più o
meno serie a Niagara Falls. Appena
avrebbe avuto un attimo libero, avrebbe caricato tutto sul computer.
Intanto
che gli inviava quel poco che aveva lei, gli tornò alla
mente
l’audio che non aveva mai ascoltato.
Risalì
la chat fino a ritrovarlo. Data la quantità di alcol che
aveva
mandato giù, c’erano ottime probabilità
che fosse composto da
parole strascicate e blateramenti vari, ma voleva ascoltarlo lo
stesso per chiudere il cerchio.
Respirò
a fondo. Poi, schiacciò il tasto play e portò il
ricevitore
all’orecchio.
«Court,
ho bisogno di aiuto. Ti manderei la posizione, ma la batteria del
telefono sta per morire. Credo di essere a Marathon, ci sono un sacco
di case bianche e la luce del lampione qui di fronte sta per
fulminarsi. È tutto quello che posso dirti, sono troppo
ubriaco per
darti informazioni più precise. Sì, mi trovo in
questa situazione
di merda perché pensavo che, bevendo, avrei smesso di dare
corda
alle paranoie che ho in testa da due settimane. Faccio sempre
così.
Piuttosto che aprirmi ed esprimere in maniera onesta i miei
sentimenti, mi autodistruggo. E adesso ho solo voglia di vomitare.
Semmai ascolterai questo audio, puoi venire a prendermi? Sono buttato
proprio affianco ad un cassonetto. E, siccome ho la sensazione che
non riuscirò a dirtelo di persona, voglio che tu sappia che
mi piaci
tantissimo, che stasera avrei voluto baciarti più e
più volte, e
che avrei voluto conoscerti in altre circostanze. In questo periodo
ho la testa che è un casino, ma avrei cercato di rimettere
in ordine
solo per provare a stare con te. Ma non importa, perché tu
stai per
sposarti. E forse è giusto così. Ti avrei
comunque cacciata in un
mare di guai.»
Angolo
dell’autrice
Beh,
è successa un bel po’ di roba. A mia discolpa, vi
avevo detto di
aspettarvi di tutto.
Sono
sorpresa anch’io di quello che è uscito fuori
– devo ancora
capire se in positivo o in negativo. La scaletta ce l’avevo
già
abbozzata, ma ad un certo punto il delirio ha avuto la meglio. Per
dirne una, la scena lime non era premeditata. Doveva essere molto
più
soft, sono io che mi sono lasciata prendere la mano. Ma immagino che
vi avrà fatto piacere, quindi passiamo oltre.
Come
avevo promesso, il famoso audio è finalmente stato
“ascoltato” –
spero di non aver deluso le aspettative di chi lo attendeva. E spero
che siate riusciti a raccapezzarvi in questo flusso di scene caotiche
e ragionamenti sconnessi che conta circa settemila parole. Di nuovo,
mi sono lasciata prendere la mano.
La
piccola digressione sul casinò e la battuta di Duncan sono
un
omaggio al finale della quinta stagione di Friends – se
capite a
quale scena, possiamo essere amici.
Altro
piccolo dettaglio: “qualcosa di vecchio, qualcosa di
nuovo” sono
i primi versi di una filastrocca inglese. Secondo la tradizione, nel
giorno del proprio matrimonio, è buon auspicio che le spose
indossino qualcosa di vecchio, di nuovo, di prestato e di blu
– e
anche una monetina d’argento in una scarpa, ma ho glissato su
quest’ultimo dettaglio.
Il
prossimo capitolo, ahimè, è l’ultimo e
compariranno quei
personaggi che sono stati più o meno presenti per tutto il
racconto,
ma – quasi – mai di persona. Altrimenti, che razza
di gran finale
sarebbe?
Per
i saluti e i ringraziamenti se ne parla fra un po’. Adesso
posso
solo augurarmi che abbiate gradito e invitarvi a lasciare feedback di
qualsiasi tipo, dalla recensione ad una semplice lettura silenziosa.
Ci
vediamo con l’epilogo! xx
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Capitolo 7 *** Sei ***
Sei
Si
appoggiò allo stipite della porta, attenta a non fare alcun
rumore.
Sua
madre falciava
a grandi passi lo spazio fra
l’armadio il
letto
matrimoniale, e poi all’inverso, e intanto
borbottava
improperi in spagnolo. Ad ogni viaggio, l’enorme valigia
rossa si
riempiva di nuovi effetti personali.
«Mamá?»
La
chiamò e lei si bloccò a metà strada,
con un carico di camicie di
seta tra le sue braccia. Anche con gli occhi arrossati dal pianto,
era la donna più bella che Courtney avesse mai visto.
«Stai
andando via?»
Non
era la prima volta che lei e papà litigavano. Il copione era
sempre
lo stesso: si accusavano a vicenda di cose terribili, si riempivano
di insulti fino a perdere la voce, e infine lui andava via per un
paio d’ore, premurandosi di sbattere per bene la porta,
mentre lei
si chiudeva in camera a preparare i bagagli. Non appena calava la
sera, era come se nulla fosse mai successo.
Stavolta,
Courtney sapeva già che la risposta alla sua domanda sarebbe
stata
affermativa. C’erano state parole più pesanti del
normale e suo
padre aveva alzato le mani – aveva sbirciato la scena dalle
scale,
trattenendo un urlo di terrore nell’istante in cui
l’aveva
colpita sulla guancia.
«Sì,
mi
vida»
mormorò, sistemando i panni in un angolo della valigia.
«Voglio
venire con te.»
La
guardò teneramente, prima di avvicinarsi e di chinarsi verso
il suo
volto.
«Non
ora. Qui hai la scuola, i corsi extracurricolari, e sia io che
papà
vogliamo che termini gli studi. Un domani, sarai libera di
scegliere.»
Poi,
la abbracciò.
«Olvidame,
mi vida»
le disse fra un singhiozzo e l’altro. «Sei
l’unica ragiona per
cui non sono andata via anni fa, e mi spezza il cuore abbandonarti,
ma non riesco più a stringere i denti e subire.»
Dal
lato opposto, non ci fu nemmeno una lacrima. Avrebbe capito quella
scelta solo da adulta, ma allora non poté fare a meno di
serbarle
rancore. Non riusciva a credere che volesse davvero lasciarla
lì.
«Mi
fai una promessa?» le domandò
all’orecchio. «Mi prometti che non
ti accontenterai mai? Che farai sempre il possibile per essere felice
e stare in pace con te stessa? Non voglio che tu finisca come
me.»
«Sì,
mamá»
affermò, senza avere una chiara idea di cosa le avesse
realmente
promesso.
Anche
quelle parole le avrebbe capite solo da adulta.
[
Sabato
24 aprile – Toronto, Ontario
]
«Allora?
Quand’è che avresti intenzione di
parlarmene?»
«Parlarti
di cosa?»
Il
riflesso di Heather nella specchiera teneva la piastra in una mano e
una ciocca dei suoi capelli nell’altra; le stava lanciando
uno
sguardo piuttosto eloquente, non riusciva a capire se stesse
scherzando o meno.
«Della
sfilza di messaggi disperati che mi hai mandato stanotte,
naturalmente!» esclamò, prima di riprendere il suo
compito.
«Ricordi? Quelli in cui ammetti di provare qualcosa per lo
scappato
di casa con cui hai viaggiato? O vogliamo far finta che nulla di
questo sia mai successo?»
Era
proprio ciò che Courtney intendeva fare.
Quella
mattina era stata svegliata da un invitante odore di uova
strapazzate, che Scott le aveva preparato con tanto amore assieme ad
una spremuta di arance. Avevano fatto colazione, seduti l’uno
affianco all’altra sul divano, e lei gli aveva raccontato le
avventure degli ultimi giorni, glissando completamente sugli
avvenimenti di Niagara Falls.
Non
aveva pensato a Duncan nemmeno per un secondo. Non aveva riguardato
per l’ennesima volta le loro foto, né aveva
riascoltato il vocale
in cui le confessava i suoi sentimenti. Non gli aveva dato il
buongiorno e non lo aveva chiamato per fargli l’in bocca al
lupo.
Avrebbe voluto fare ognuna di quelle cose, ma si era imposta di non
cedere – non le era nemmeno risultato troppo difficile. In
fondo,
aveva passato quasi tutta la sua vita a non cedere alle tentazioni.
Così
com’era entrato, doveva uscire dalla sua vita:
all’improvviso e
il più in fretta possibile.
Con
gli anni aveva imparato quanto fosse fondamentale il tempismo, e loro
si erano conosciuti nel peggiore dei momenti. Gli ultimi mesi avevano
messo a dura prova la sua salute mentale, aveva faticato a tenere
assieme i pezzi, e ciò di cui aveva bisogno era equilibrio.
Non
l’avrebbe mai trovato in lui, avevano esigenze troppo
diverse, che
nemmeno i sentimenti avrebbero potuto annullare.
Doveva
andare così.
«Non
c’è nulla da dire. Ero ubriaca, non intendevo
nessuna delle cose
che ho scritto.»
«Sicura?
Perché, se hai dei ripensamenti, questo è il
momento di
esternarli.»
Non
c’era stato un solo attimo in cui avrebbe voluto giurare
amore
incondizionato ed eterna fedeltà a Scott. Ma, nella costante
lotta
con se stessa, ad avere la meglio era sempre l’urgenza di
apparire
perfetta, crogiolandosi nella zona di comfort che si era creata con
duro lavoro e sacrifici, a discapito della sua felicità.
Avrebbe
voluto continuare a prendere lezioni di canto, avrebbe voluto
lasciare giurisprudenza per andarsene oltreoceano a studiare
criminologia, avrebbe voluto dare una chance a lei e Duncan. Quello,
però, non era il sentiero più comodo, non era la
via che gli altri
si sarebbero aspettati che percorresse.
Dunque,
aveva stretto i denti e continuato a soddisfare le loro aspettative,
nella ricerca costante di quei valori che le erano stati presentati
come ideali, con la speranza che un domani avrebbe potuto dirsi
appagata al cento per cento.
Doveva
andare così.
«Ne
sono sicura.»
Heather
annuì.
Non
si parlarono per i minuti successivi.
Courtney
ne approfittò per constatare quanto la sua amica stesse
facendo un
ottimo lavoro. I capelli, che spesso teneva raccolti per
comodità o
perché non aveva abbastanza tempo per lavarli, avevano
assunto una
forma ben definita e le ricadevano morbidamente sulle spalle. Il
trucco leggero le accentuava in maniera naturale i connotati,
alimentando l’illusione che la sua pelle fosse priva di
imperfezioni, quando in realtà era servito più
correttore del
necessario per nascondere le borse sotto gli occhi. A farla sentire
ancora più bella, ci pensava il vestito color champagne,
semplice ma
impreziosito da gioielli dorati, e che metteva in risalto i risultati
della sua dieta.
Un
raggio di sole le squarciò il viso. Mancava poco al tramonto
e,
fuori, il cielo si era tinto di rosa pallido.
La
camera d’albergo ridava sul lago. Non c’erano
nuvole
all’orizzonte, cosa inusuale per essere fine aprile, e, se
avesse
aguzzato lo sguardo, avrebbe potuto scorgere le spiagge di Centre
Island, dove l’indomani si sarebbe tenuta la cerimonia.
L’ansia
le strinse la bocca dello stomaco. Non dovette nemmeno applicarsi per
ignorarla.
Qualcuno
bussò. Heather spense la piastra, quasi la lanciò
sulla specchiera
e, mentre uno sbuffo lasciava le sue labbra, varcò
l’anticamera a
grandi passi, aprendo la porta quanto bastava per affacciarsi sul
corridoio.
«Non
siamo ancora pronte» sbottò in direzione di una
figura più alta di
lei.
«Sono
passato a salutare la futura sposa» si scusò una
voce maschile
dall’inconfondibile accento latino. «Due minuti e
tolgo il
disturbo.»
Courtney
allungò il collo al di là della lunga chioma
corvina dell’amica,
alla ricerca degli occhi smeraldo di Alejandro. Li trovò, e
in essi
erano riflessi un sorriso che sapeva di sicurezza.
S’incontrarono
a metà strada; lei si alzò sulle punte per
abbracciarlo meglio.
«Eres
muy hermosa»
le sussurrò all’orecchio.
«Gracias»
mormorò in risposta.
Sarebbe
stato bello se si fosse sentita pure felice.
*
* *
«Quello
sarebbe
il discografico? Sul serio?»
Duncan
ritirò il braccio dietro le quinte del minuscolo
palcoscenico, e
rigirò il tablet in modo tale da riprendere la sua faccia.
Dall’altra
parte dello schermo, Geoff e Bridgette erano seduti sul divano del
loro appartamento, stretti l’uno affianco all’altra
per entrare
meglio nell’inquadratura. Non era di certo un metodo
ottimale, ma
almeno avrebbero potuto assistere al concerto da ottocento chilometri
di distanza.
«A
quanto pare» rispose con una scrollata di spalle.
Dalla
voce profonda con cui aveva parlato al telefono, si era figurato un
uomo di mezza età in giacca e cravatta, che nella sua
carriera
decennale doveva aver sentito ed esaminato migliaia di band come la
loro. Invece, a presentarsi e stringergli la mano con vigore, era
stato un suo coetaneo dai capelli castani raccolti in un codino, la
barba incolta e abiti oversize.
In
un’ipotetica folla accalcata sotto a un suo palco, di
individui del
genere avrebbe potuto scorgerne a bizzeffe; ciò,
anziché
rassicurarlo, l’aveva mandato in paranoia.
Nello
stanzino adibito a camerino, la tensione era palpabile. Chase era
immobile nel suo angolino e teneva la testa ricurva sulla punta delle
scarpe; la zazzera di ricci scuri gli impediva di scorgere la sua
espressione. Nell’angolo opposto, Ziggy giocherellava con uno
dei
tanti braccialetti sul suo polso sinistro, e borbottava a denti
stretti la stessa litania – forse una preghiera, forse una
scarica
di bestemmie – da circa un quarto d’ora. A pochi
passi di
distanza, Cole, il batterista, ripassava freneticamente le partiture
con delle bacchette immaginarie, senza curarsi dei ciuffi biondi
sfuggiti dalla bandana e incollati col sudore sulla sua fronte.
Avevano
suonato assieme centinaia di volte, ma non li aveva mai visti
così
agitati. Pure loro sentivano la schiacciante pressione di dover
convincere qualcuno che, con ogni probabilità, usufruiva di
quel
genere di musica un giorno sì e l’altro pure, e
che per forza di
cose sarebbe stato più esigente del normale.
Si
sentì in dovere di intervenire, di improvvisare un discorso
di
incoraggiamento. Rimase con la bocca spalancata per qualche secondo,
prima di richiuderla e assottigliare le labbra in una smorfia.
«C’è
qualcosa che non va?»
Il
tono preoccupato di Bridgette gli rimembrò di essere ancora
in
videochiamata.
«È
tutto a posto» rispose, puntando gli occhi sullo schermo e
incurvando gli angoli della bocca in un sorriso poco convincente.
«Solo un po’ d’ansia da
prestazione.»
A
dire la verità, Duncan non ci stava con la testa.
Fisicamente era
lì, dietro le quinte di un palco, consapevole che quella
serata
avrebbe potuto svoltare le sorti della sua carriera, ed intenzionato
a dare il massimo. Mentalmente, però, non si era smosso
dall’istante
in cui Courtney aveva appoggiato le labbra sulle sue.
Quando
le aveva detto di cercarlo, semmai l’indomani non avesse
cambiato
idea, il suo cervello era annebbiato dall’alcol e dal
desiderio,
eppure intendeva ogni singola parola di quella frase, a tal punto da
convincersi che, anziché dai soliti sintomi post-sbornia,
sarebbe
stato svegliato da una sua chiamata.
La
giornata era trascorsa veloce, il cellulare aveva suonato
più volte,
ma mai per annunciare un cenno da parte sua. Minuto dopo minuto, era
divenuto sempre più chiaro che aveva fatto la sua scelta e
avrebbe
dovuto rassegnarsi – e ciò fece più
male del previsto.
Non
aveva mai provato tutte quelle sensazioni contrastanti. Si era illuso
che potesse essere l’inizio di una bella storia, sebbene le
possibilità che essa avesse potuto realizzarsi erano sempre
state
esigue, se non pari a zero. Eppure, il pensiero che
l’indomani lei
avrebbe sposato un altro uomo lo infastidiva, gli provocava un moto
di quella che era a tutti gli effetti gelosia – ma, ehi!
Che diritto aveva lui di essere geloso?
A
dir la verità, non sapeva nemmeno cosa provasse realmente
per
Courtney – o meglio, non voleva accettarlo, perché
aveva provato
qualcosa del genere solo per un’altra persona, e quella non
s’era
fatta scrupoli a rimpiazzarlo alla prima occasione buona.
E,
se non poteva averla, tanto valeva reprimere quel sentimento senza
sforzarsi di dargli un nome. Non era sua intenzione aggiungere
un’altra cicatrice alla collezione, non quando
l’ultima non s’era
nemmeno rimarginata del tutto.
«Beh,
ci credo!» intervenne Geoff. «Ti stai per giocare
il tutto per
tutto!»
La
gomitata che gli assestò Bridgette sullo stomaco lo fece
rantolare
per un po’.
La
porta del camerino si aprì con un cigolio; quattro paia di
occhi si
mossero di scatto.
Il
loro manager li guardò uno per uno, con un sorriso che
voleva
indurre conforto, prima di aprire bocca.
«Dieci
minuti e siamo pronti. Forse i tuoi amici vogliono lasciarti il tempo
di prepararti a dovere?» chiese in direzione di Duncan,
indicando il
tablet con un cenno del capo. Dopodiché, sollevò
il braccio destro,
in cui teneva un enorme mazzo di fiori, e aggiunse: «E questi
sono
per te.»
Non
prestò attenzione alle ultime rassicurazioni di Geoff e
Bridgette,
né al breve discorso motivazionale del manager. Si era
incantato a
guardare le camelie, incartate in un foglio di tessuto blu notte.
Incastrati nel fiocco che le teneva assieme, vi erano una singola
sigaretta e un talloncino di carta, su cui era scritto il suo nome in
un corsivo elegante.
Una
risata gli rimase incastrata fra le corde vocali. Fra tutti i
momenti, Gwen aveva deciso di farglieli recapitare nel peggiore di
tutti – o nel migliore. Dipendeva dai punti di vista.
Aspettò
che la stanza ripiombasse nel silenzio. Poi, accertatosi che i suoi
colleghi non stessero ficcanasando, sfilò il biglietto dalla
sua
busta e cominciò a leggere.
Una
Marlboro rossa e un mazzo di camelie – simbolicamente,
l’inizio e
la fine della nostra relazione. Mi sembrava il modo più
adatto per
darle una degna conclusione.
Non
c’è molto altro da dire, se non che mi dispiace.
Spero che un
giorno tu possa perdonarmi.
Buona
fortuna per stasera e buona vita.
Gwen
*
* *
Tutto
era come se l’era immaginato.
La
sala era piccolina, asettica, ed elegante. Il
pavimento lucido, le tovaglie, ogni singola decorazione –
tutto era
fra i toni del banco e del beige, il che a lungo andare avrebbe
potuto nauseare.
A dar colore, ci pensavano le splendide composizioni floreali
posizionate al centro di ogni tavolata. Dulcis in fundo,
l’atmosfera
era animata dal
complesso di musica leggera messo in dotazione dal hotel.
Talmente
perfetto da sembrare un sogno. Il sogno di qualcun altro.
La
serata era a malapena alle battute iniziali e Courtney aveva
già
dovuto salutare e ringraziare gli invitati uno per uno, tenendo la
mano sudaticcia di Scott, che di tanto in tanto si chinava per farle
un complimento o per stamparle un bacio sulla guancia. Aveva dovuto
sopportare le lacrime di commozione e le reazioni esagerate dei
parenti messicani, girare su se stessa svariate volte per farsi
ammirare in tutto il suo splendore, ed evitare di rispondere a tono
alle provocazioni della suocera, che non l’aveva mai vista di
buon
grado per via della sua classe sociale.
Heather,
che non l’aveva persa di vista nemmeno per un secondo,
sottolineò
con un sorrisetto mellifluo che nemmeno erano stati serviti gli
antipasti, e la sua reazione spontanea fu di vuotare il bicchiere di
spumante di fronte a sé con un solo sorso, sotto lo sguardo
attonito
degli altri seduti a quel tavolo – Alberta coi suoi bambini,
Alejandro, e naturalmente il suo futuro sposo. Il cameriere
passò di
nuovo a riempirle il bicchiere qualche istante più tardi,
intimandole con voce sottile e vago imbarazzo che fosse per il
brindisi.
Si
girò immediatamente verso il suo testimone, con
l’intento di
dissuaderlo dal pronunciare le parole che gli aveva chiesto di
scrivere per l’occasione – era l’ultima
cosa di cui aveva
bisogno, sentirlo mentre millantava idiozie sulla sua splendida e
purissima storia d’amore.
Egli
era in piedi e, prima che avesse potuto tirarlo per la manica della
giacca e costringerlo a risedersi, aveva richiamato
l’attenzione
dei presenti battendo il lato della forchetta sul calice di vetro.
Colse
solo i punti salienti del bel discorso, che stava facendo emozionare
anche i cuori di pietra – due persone all’apparenza
opposte ma
complementari, una relazione idilliaca basata su sentimenti genuini e
fiducia reciproca, Courtney non è mai stata così
serena come nei
due anni passati al fianco di Scott. Tutte stronzate, insomma.
Ebbe
come la sensazione che l’anello attorno
all’anulare, più stretto
e opprimente del solito, le stesse bloccando la circolazione
sanguigna. Con la coda dell’occhio, controllò che
non ci fosse
nulla di anomalo; successivamente, si diede della stupida per aver
assecondato quel frangente di irrazionalità.
Due
cose erano ormai lapalissiane. Uno, se era riuscita ad ingannare
anche coloro che la conoscevano come le proprie tasche, doveva essere
una bugiarda da far invidia al migliore degli attori. Due, mentire
era sfiancante, e non era sicura che sarebbe stata in grado di farlo
“finché
morte non vi separi”.
Alejandro
non aveva ancora chiamato il brindisi, quando si alzò in
piedi. La
sala rimase coi bicchieri sospesi a mezz’aria,
nell’attesa che
aggiungesse qualcosa. Ma, le sue labbra rimasero sigillate, il
silenzio stava diventando schiacciante e qualcuno cominciò a
comprendere che non sarebbe seguito nulla di buono.
Se
si fosse guardata attorno, si sarebbe accorta degli sguardi carichi
d’astio che i genitori, la sorella e svariati parenti di
Scott le
stavano rivolgendo; non parevano troppo sorpresi, era esattamente
ciò
che si aspettavano da una come lei. Pure suo padre e la sua matrigna
non le staccavano gli occhi di dosso, confusi dalla situazione e a
tratti preoccupati. Avrebbe trovato più conforto in Heather
e
Alejandro, entrambi incapaci di indorare la pillola, ma che mai
l’avrebbero giudicata per le sue scelte, e non avrebbero
osato
nemmeno in un momento tanto critico.
Courtney,
però, non considero nessuno di loro. Rivolta verso un tavolo
alla
sua destra, guardava con insistenza sua madre – incredibile,
pensò:
pure con qualche capello bianco e le rughe d’espressione era
la
donna più bella che avesse mai visto.
Anche
lei la stava guardando, con un timido sorriso di incoraggiamento
dipinto sul volto, e seppe subito che anche la sua mente era corsa a
quello specifico ricordo, a ciò che le aveva promesso il
pomeriggio
in cui era andata via di casa.
Mi
prometti che non ti accontenterai mai?
Fu
allora che qualcosa scattò.
Nessuno
aveva chissà quali aspettative su di lei, se non lei stessa.
Ergo,
non doveva dimostrar loro di avere costantemente in mano le redini
della sua vita.
Il
successo e la perfezione non erano tutto ciò che importava,
né le
uniche strade verso la tanto ambita stabilità.
Gli
ultimi tre giorni erano stati un’avventura memorabile, e non
immaginava che a quasi trent’anni, con un bel fardello di
responsabilità gravante sulle sue spalle, fosse ancora
possibile
provare cotanta spensieratezza – e non voleva più
privarsene.
Fece
un respiro profondo e abbassò il capo, individuando il
proprio
riflesso negli occhi grigi di Scott. Non vi colse nessun tipo di
reazione.
«Mi
dispiace.»
Lui
non proferì parola, né si mosse, permettendole di
recuperare la
borsa e il cappotto appesi allo schienale della sedia, e di
precipitarsi fuori di lì, sotto i versi stizziti e i
commenti
borbottati a denti stretti, facendo attenzione a schivare
l’orda di
camerieri che stava portando gli antipasti.
Courtney
non si voltò fino a che non fu nel parcheggio del hotel e la
voce di
Scott non le giunse alle spalle, distante, quasi fosse
un’allucinazione.
Era
davvero lì, qualche metro più indietro, nel
completo nero che gli
aveva regalato per il loro primo anniversario. Non aveva alcuna
intenzione di fare una sceneggiata, o di supplicarla a tornare
dentro. Era stoico, oserebbe dire rassegnato.
«Cos’è
cambiato?»
Tutto,
fu la risposta immediata.
«Nulla»,
fu quello che disse. «Ho solo realizzato un po’ di
cose in queste
ultime settimane.»
«Hai
realizzato che non mi ami.»
Scosse
il capo.
«Non
quanto tu ami me.»
Lui
schioccò la lingua contro il palato.
«Capisco.»
L’evidente
delusione sul suo volto la mise a disagio. Avrebbe volentieri girato
i tacchi e messo fine a quella sofferenza, ma sapeva che gli doveva
una spiegazione più esaustiva, una degna conclusione per
quegli anni
in cui l’aveva posta davanti a tutto e tutti.
«Ho
provato a restituirti, fin dove il mio carattere cinico me lo
permetteva, almeno un decimo di quanto mi hai dato. Mi sono sforzata
perché ero consapevole che me ne sarei pentita, se ti avessi
fatto
scappare. Mi dispiace di non esserci riuscita.»
Si
avvicinò di qualche passo, sotto lo sguardo vigile di Scott,
il cui
guscio di indifferenza stava crollando di secondo in secondo.
«Sarebbe
da egoisti obbligarti a stare con me. Mi troverei in un perenne stato
di insoddisfazione e, a lungo andare, contagerei pure te. Meriti
qualcuno che possa renderti davvero felice.»
Con
lentezza disarmante, si tolse l’anello di fidanzamento e,
tenendolo
fra il pollice e l’indice, glielo stese.
Egli,
titubante, lo prese e lo porse in uno dei taschini interni della
giacca, quello destro. Boccheggiò diverse volte, prendendosi
il
tempo di formulare una risposta adeguata – non era mai stato
un
tipo di molte parole, lui.
«Non
sei cinica» affermò, dopo un silenzio che parve
infinito. «E anche
tu meriti di essere felice. Mi dispiace che non possa essere con me,
ma imparerò a farmene una ragione.»
Venne
spontaneo colmare i pochi centimetri fra di loro e, stretti in un
abbraccio, concedersi un altro minuto per dirsi addio. Courtney
inspirò a fondo, inalando il forte odore del suo dopobarba
che aveva
sempre detestato, ma che forse un po’ le sarebbe mancato.
«Sei
stato davvero il partner perfetto» mormorò, con il
mento poggiato
sul suo omero sinistro.
«Buona
fortuna per tutto» le augurò Scott, prima di
lasciarla andare.
L’attimo
dopo era accasciata sul sedile della sua macchina, ancora stordita
dall’accaduto e con l’adrenalina le pompava nelle
sue vene.
Buttò
fuori tutta l’aria che aveva incanalato nei polmoni, come se
fosse
stata in apnea per tutto quel tempo, di preciso da quando aveva
deliberatamente mandato a monte le sue nozze. Non riusciva a credere
di aver trovato il coraggio di farlo sul serio.
Neanche
il tempo di realizzare, che l’adrenalina aveva già
lasciato spazio
al panico. Non
riusciva a credere di aver trovato il coraggio di farlo sul serio!
Rimase
pietrificata, con le mani stette attorno al volante e lo sguardo
vacuo. Non aveva preventivato nulla di tutto ciò –
seguire il suo
istinto e un consiglio che le era stato dato quasi due decadi fa
–
e adesso la sua gola era raschiata da centomila piccoli spini,
stretta in un groppo che era frutto non solo di un totale senso di
smarrimento, ma anche della consapevolezza che era troppo tardi per
pensare a finali alternativi, perché non poteva comunque
cancellare
le sue azioni.
Sentì
gli angoli degli occhi pizzicare, ma non voleva che le lacrime
rovinassero lo splendido lavoro di Heather, e nemmeno poteva
permettere ai pensieri negativi di approfittare della quiete per
prendere il sopravvento, di sgusciare fuori dal loro angolino e
minacciare di intaccare il suo ultimo briciolo di autocontrollo. Se
avesse ceduto, sarebbe seguito un attacco d’ansia di
proporzioni
epocali, che non avrebbe portato altro se non ulteriore stress.
Le
sue dita corsero alla manopola della radio, che rispose alla chiamata
d’aiuto nel modo più beffardo, più
bastardo, e più efficace
possibile.
Intanto
che le note di Drive By riempivano l’abitacolo, fu
catapultata a
New York, al traffico e alla pioggia incessante,
all’improbabile
duetto e alla prima, vera risata dopo settimane. Alla
libertà,
all’allegria, e a come si era sentita a casa in un contesto
che, di
familiare, aveva nulla.
Al
motivo per cui quella fosse la scelta più sensata che avesse
mai
preso.
Recuperata
la lucidità, si fiondò sulla sua borsa e
tirò fuori il cellulare.
Lo sbloccò, aprì Instagram e digitò il
nome di Duncan nella barra
di ricerca. Bastò scorrere le sue storie, per recuperare il
nome del
locale in cui si stava esibendo proprio in quel momento.
Impostò
il navigatore. La destinazione era a otto chilometri da lì.
Tenendo
a bada il cuore che rimbombava all’impazzata nella cassa
toracica,
Courtney sbloccò il freno a mano.
*
* *
Il
Pin Up era un club situato nella periferia sud-ovest della
città,
zona frequentata da persone con stili di vita totalmente opposti al
suo, e dove quindi l’elegantissimo outfit che indossava non
passava
di certo inosservato. A malapena fece caso ai curiosi che la
squadrarono dalla testa ai piedi, indugiando un po’ troppo a
lungo
sullo scollo, tanto ch’era stata al centro
dell’attenzione sin
dall’inizio della serata. Si pentì,
d’altro canto, di non aver
portato delle scarpe di riserva, perché i tacchi a spillo le
stavano
massacrando i piedi.
Lasciato
il cappotto al guardaroba, Courtney lasciò che ad orientarla
verso
la pista fosse la musica, dapprima ovattata e confusa, e poi sempre
più distinta – il rullante della batteria, i bassi
stordenti, le
chitarre distorte, e la voce rauca per cui aveva scoperto di avere un
debole.
Non
aveva mai messo piede ad un concerto rock, ma immaginò che
non
dovessero essere troppo diversi da quello. La folla sotto il palco
era infervorata, c’era chi ballava, chi saltava, chi
spingeva, e
ognuno di loro si stava divertendo da matti. Anche chi era rimasto
indietro era totalmente investito da ciò che stava
accadendo, e si
godeva lo spettacolo sorseggiando un drink e muovendo il corpo a
tempo, magari facendo qualche video o commentando
l’esibizione con
chi era di fianco. Si respirava un’aria rilassata, il che era
quasi
un ossimoro, e non poté fare altro che piegarsi a
quell’energia
positiva.
L’attenzione
era tutta rivolta verso una certa testa verde. Aggrappato
all’asta
del microfono, Duncan cantava con un’intensità che
avrebbe potuto
far tremare l’intero locale. Gli abiti di scena non erano
diversi
da quelli che gli aveva visto addosso nei giorni precedenti, eccezion
fatta per la canottiera sbrindellata che, oltre a garantirgli
maggiore mobilità, gli lasciava scoperte le braccia toniche
e
tatuate. Anche la matita nera attorno agli occhi era una
novità,
un’aggiunta che gli accentuava le splendide iridi azzurre
– e non
c’era traccia del livido, notò Courtney. Doveva
aver seguito alla
lettera le sue istruzioni.
Aveva
avuto un assaggio del suo carisma in quel bar del New Jersey,
osservarlo nel suo habitat naturale confermò la sua prima
impressione: era nato per fare la rockstar. Lo dimostravano le
movenze, l’attitudine da spaccone, la continue interazioni
con la
band e col pubblico. Era uno spettacolo, in
tutti i sensi.
Scacciò
dalla mente le implicazioni di quell’ultima considerazione.
Si
incamminò in direzione del bar, senza la minima intenzione
di
ordinare da bere, e si accomodò sullo sgabello
più distante. Voleva
solo godersi il concerto, là dove le luci erano
più soffuse e
nessuno l’avrebbe notata, e nel frattempo pensare a come
comportarsi poi.
La
giovane donna che prese posto al suo fianco le rovinò i
piani.
«Due
birre, per favore» gridò per richiamare
l’attenzione del barista,
indicando prima lei e poi se stessa. Successivamente, si
girò a
guardarla e, con un le labbra piegate in un sorrisetto compiaciuto,
aggiunse: «Ora capisco perché Duncan ti abbia
notata subito.
Insomma, chi si vestirebbe così
bene
per venire in un postaccio del genere? E poi, beh, sei a dir poco
deliziosa.»
Se
non avesse avuto una minima idea della sua identità,
Courtney
avrebbe azzardato a dire che stesse flirtando con lei.
Gwen
era identica alle pochissime foto che aveva trovato sul profilo
Instagram di Duncan: stessi capelli blu e neri, stesso trucco
pesante, stesso vestiario eccentrico. E, per qualche motivo,
ritrovarsela davanti in carne e ossa la metteva a disagio –
era pur
sempre l’ex fidanzata dell’uomo per cui,
disgraziatamente, si era
presa una bella cotta, e avevano avuto una storia che, definirla
intensa, era usare un eufemismo.
La
sua espressione doveva essere l’equivalente di un libro
aperto,
perché quella si lasciò scappare una mezza risata.
«A
quanto pare ti ha raccontato di me.»
«Non
so chi tu sia» mentì, e dal suo cipiglio divertito
seppe in fretta
di non averla convinta.
Il
ragazzetto dietro al bancone si presentò con due bottiglie
di birra
ghiacciate. Gwen gli allungò una banconota e si concesse un
lungo
sorso. Courtney, invece, non toccò la sua.
«Guarda
che è un peccato.»
«Perché
sei qui?» saltò su, ignorando il suo commento.
«Per vederlo? Per
chiarire con lui? Per-»
Trovò
più opportuno fissare le unghie fresche di manicure,
piuttosto che
continuare quella frase.
Non
avrebbe voluto reagire così, prima di tutto
perché era oltremodo
maleducato, e in secondo luogo perché non era nessuno per
mettere
bocca nella questione. Però, la sola ipotesi che fosse
lì per
scusarsi e lottare per una seconda possibilità, e che magari
l’avrebbe persuaso a concedergliela, le fece contorcere le
viscere.
Ottimo,
adesso era pure gelosa!
«Aspetta,
pensi davvero che-» e scoppiò di nuovo a ridere,
stavolta senza
controllarsi – ciò mandò Courtney in
bestia. «Sono qui per il
concerto. La mia occasione l’ho sprecata. Ho sbagliato e ne
sto
accettando le conseguenze. E comunque», fece un altro sorso,
«non avrei alcuna possibilità di
competere.»
«Che
intendi dire?»
Gwen
inarcò le sopracciglia, interdetta.
«Quando
sei arrivata?»
«Qualche
minuto fa. Perché?»
«Perché
ti ha letteralmente dedicato il concerto!»
esclamò. «Ora, non so
che cosa sia successo fra di voi al di fuori di ciò che ha
messo
nelle storie, ma so per certo che non l’avrebbe mai fatto, se
non
fosse innamorato pazzo di te.»
Aggiunse
qualcosa circa il fatto che fosse molto più riservato di
quanto
sembrasse, specie sulla sua vita sentimentale. Courtney
percepì a
malapena l’informazione, perché aveva smesso di
prestare
attenzione quando il termine “innamorato” aveva
raggiunto le sue
orecchie, riempendole il petto di uno strano, ma tutt’altro
che
sgradito, calore.
Attese
che l’anonimo regista della sua vita urlasse:
«Stop! Buona la
prima!». Ma non era sul set di un film, né in un
sogno ad occhi
aperti, per quanto surreale potesse sembrarle.
Ad
essere onesta, percepiva come surreali tutti gli avvenimenti
successivi a Filadelfia, come troppo inusuali per essere parte di una
vita ordinaria come la sua.
Se
era vero che esisteva la predestinazione, a lei non spettava nulla di
eclatante, giusto un lavoro d’ufficio ben retribuito e una
piccola
famigliola più o meno felice. Per fortuna, si trattava di
un’invenzione della mente umana, altrimenti non le sarebbe
mai
stata concessa l’occasione di rompere la monotonia, e di
trovare
qualcuno con cui farlo – e quel qualcuno si era innamorato di
lei.
«Non
era quello che volevi sentirti dire?» le chiese Gwen.
Il
pubblico esplose in un boato. Dritto al centro del palco, Duncan si
godette le ovazioni con un sorriso riconoscente in volto, prima di
far cenno al resto della band di attaccare con la prossima canzone.
A
vederlo così soddisfatto, sorrise di rimando. Non credeva
fosse
possibile sentirsi tanto fieri di qualcuno che non fosse se stessa. E
allora, Courtney comprese che non era una semplice cotta, che pure
lei si era innamorata – ed era una sensazione bellissima,
amare per
davvero.
«È
esattamente
quello che volevo sentirmi dire.»
Finalmente,
bevve la sua birra.
*
* *
Non
c’erano dubbi che quello fosse un contratto, uno vero, con
scritte
di ogni dimensione che si estendevano per due pagine, e postille a
specificare i vari cavilli legale. Il contenuto era inequivocabile,
nonostante avesse dovuto leggere più volte ogni singolo
paragrafo,
perché era convinto che fosse uno scherzo.
«Se
non siete convinti, potete sempre rifiutare» disse il
discografico,
burlandosi delle loro facce incredule.
«È
troppo tardi per ritirare l’offerta, amico»
ridacchiò Chase, e
afferrò la penna nera rimasta abbandonata in un angolo del
tavolino.
«Adesso vi toccherà sopportarci almeno per un paio
d’anni.»
Duncan
fu l’ultimo a firmare, la mano che tremolava per
l’emozione.
I
risparmi dilaniati per pagare la sala prove, le porte in faccia, le
litigate sul futuro coi suoi genitori avevano acquisito uno scopo. Ce
l’aveva fatta – ce
l’avevano fatta,
si corresse immediatamente, alzando lo sguardo verso i suoi amici.
Li
attendeva una nottata di celebrazioni. Avevano lasciato una bottiglia
di spumante al fresco, che attendeva solo di essere aperta e
consumata. E poi un altro giro di bevute, e un altro, e un altro
ancora. Una volta ubriachi, sarebbero andati altrove, a festeggiare
con perfetti sconosciuti, e magari a spassarsela con qualcheduno di
quelli. Se lo meritavano, dopo aver faticato tanto per arrivare a
quel traguardo.
Eppure,
Duncan non era in vena di festeggiare. Voleva soltanto andare a
dormire e risvegliarsi direttamente lunedì mattina,
all’interno di
un nuovo capitolo in cui le ultime settimane – più
nello
specifico, gli ultimi tre giorni – rappresentavano un lontano
ricordo.
Si
era imposto di non pensarla, di concentrarsi soltanto
sull’esibizione, ma era durato giusto il tempo di salire sul
palco.
La dedica gli era scivolata dai denti prima che potesse trattenerla,
e dopodiché non il suo ricordo non l’aveva
lasciato in pace per un
secondo. Ad un certo punto, se l’era figurata in mezzo al
pubblico,
e ciò l’aveva portato a sbagliare un paio
d’accordi – Ziggy se
n’era accorto, ma aveva continuato a suonare con nonchalance.
Alla
fine, l’aveva trovato un nome a ciò che provava
per lei – o
meglio, aveva accettato di chiamarlo col nome corretto. Tanto, che
differenza faceva? Per lunedì mattina, Courtney sarebbe
già stata
la moglie di un altro e lui avrebbe voltato pagina.
Doveva
voltare pagina.
Avrebbe
voluto che fosse più semplice, voltare pagina.
Divertente,
pensò mentre una smorfia gli deformava il volto. Fino a una
settimana fa non la conosceva nemmeno, e ora il suo spettro lo
tormentava in quella che avrebbe dovuto essere la sua notte
trionfale.
Furono
interrotti da tre colpi sulla porta. Il proprietario del locale
entrò
senza che nessuno lo invitasse a farlo.
«Scusate
l’interruzione, ma c’è una ragazza che
sta cercando lui.»
annunciò, e indicò proprio Duncan.
«Se
è per gli autografi, dille che escono fra un
po’» rispose il
manager del gruppo al suo posto, tentando di liquidarlo con un gesto
della mano. «Il tempo di definire gli ultimi dettagli
qua.»
«Non
è una fan, ha detto di conoscerlo molto bene. A dire la
verità,
penso che sia abbastanza ubriaca, perché ha urlato
più volte di
essere un'avvocata e che tenterà il possibile per far
chiudere il
posto, se non-»
«Dov’è?»
Non
riuscì a mascherare la fibrillazione nella sua voce.
«Fuori,
sul retro. È-»
Ma
Duncan era già lungo il corridoio, e camminava svelto verso
l’uscita
antincendio. Tirò giù il maniglione antipanico e
fu investito da un
venticello freddo. Avrebbe pure potuto beccarsi qualche malanno, poco
importava in quel momento.
Courtney
era talmente meravigliosa da mozzare il fiato. Non che normalmente
non lo fosse, ma ritrovarsela davanti vestita, truccata e pettinata
di tutto punto gliela faceva apparire ancora di più come un
miraggio
– incantevole, eterea, irraggiungibile. Eppure, era proprio
lì.
Per
lui.
«Hai
visto?» esordì con un filo di voce. «Non
sono sparita.»
Avanzò
cauto, come avrebbe fatto per attraversare un campo minato, e si
fermò a diversi palmi dal suo volto. Coi tacchi era alta
quanto lui,
se non più alta di qualche centimetro, e questo gli permise
di
osservare per bene i suoi occhi scuri luccicanti di gioia. Erano
splendidi, avrebbe potuto restare a fissarli per ore.
Fece
scivolare le mani sui suoi fianchi, stringendo la presa – non
che
fosse necessario, perché lei non aveva alcuna intenzione di
andare
via. Era, piuttosto, per accertarsi che fosse reale, che non sarebbe
arrivata nessuna metaforica secchiata d’acqua gelida a
ridestarlo.
«Sei
qui.»
«Sono
qui.»
«Hai
lasciato Scott.»
«Sì.»
«Ed
eri al mio concerto.»
«Ho
visto solo una parte. Sei stato incredibile.»
«Lo
so. Infatti ci hanno fatto firmare seduta stante. Non serviva che me
lo dicessi tu.»
Lei
ridacchiò sommessamente, prendendogli il viso fra le mani.
«Certo
che sei proprio un cretino!»
Il
bacio fu meno passionale e vorace di quello della sera precedente, ma
altrettanto intenso e, senza il retrogusto di alcol, persino
più
piacevole.
Si
prese il tempo di esplorare la sua bocca, di assaporarla per bene. E
lei rispondeva altrettanto lentamente, con altrettanta dedizione, ed
era tutto così naturale, come non lo era mai stato prima di
allora.
C’erano
centinaia di parole fra le loro labbra che danzavano insieme, si
separavano quanto bastava per riprendere fiato, e poi si ritrovavano
con un piccolo sospiro – sono felice che tu sia qui. Resta,
per
favore. Voglio provare a farla funzionare.
Duncan
si disse che avrebbe potuto cogliere la palla al balzo, e suggellare
la scena degna di una commedia romantica con una dichiarazione
passionale. Avrebbe potuto chiamare per nome i sentimenti che, fino a
qualche minuto fa, l’avevano reso miserabile. Bastava una
semplice
frase vecchia quanto il mondo.
«Courtney?»
«Mhh?»
Ci
ripensò. Dopotutto, che fretta c’era?
«Domattina
dovrei riportare la macchina a Rochester. Vuoi venire con me?»
Angolo
dell’autrice
Anzitutto,
chiedo scusa alla gente – semmai ci fosse ancora qualcuno
interessato – che ha atteso per quattro mesi questo epilogo.
Mi
dispiace avervi fatto penare così a lungo, non era mia
intenzione,
ma sono davvero stati mesi intensi.
Comunque,
è strano mettere un punto fermo. Ho iniziato a scrivere i
primi due
capitoli durante quello che, senza troppi giri di parole, è
stato
uno dei periodi peggiori della mia vita, e portare avanti questo
piccolo progetto era tra le pochissime cose per cui mi svegliavo la
mattina.
Più
andavo avanti, più mi ponevo obiettivi, e più
cominciavo a vedere
la cosiddetta luce in fondo al tunnel. Se oggi va meglio –
non
benissimo, ma sicuramente meglio – è anche grazie
a questa storia,
che mi ha aiutata a non lasciarmi andare. E sapere che,
dall’altra
parte dello schermo, c’era qualcuno a leggere e ad apprezzare
è
stato doppiamente importante, e mi ha spronata ancora di più
a fare
meglio. Quindi, grazie. Davvero.
Non
so cosa succederà poi, sto imparando a vivere giorno per
giorno e
non pormi troppi obiettivi a lungo termine. So solo che sono passati
anni, ma questo fandom ha sempre rappresentato una zona di comfort, e
tornarci dopo lunghi periodi di inattività è un
po’ come tornare
a casa.
Magari
avrete presto nuove notizie della sottoscritta, magari no.
Fino
ad allora, vi ringrazio nuovamente per avermi seguita fino a qui! xx
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