Lividi sui gomiti

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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** And when your fantasies become your legacy, promise me a place in your house of memories ***
Capitolo 2: *** And now I have the power to bathe all of you in entertaining fire ***
Capitolo 3: *** Amore accanto a te, baby accanto a te, io morirò da re ***
Capitolo 4: *** E pagherei per andar via, accetterei anche una bugia ***
Capitolo 5: *** E non c'è taglio, non c'è cicatrice che questa passione non possa curare ***
Capitolo 6: *** A noi il coraggio non ci manca siamo impavidi, siamo cresciuti con i lividi sui gomiti ***
Capitolo 7: *** All we ever here from you is blah blah blah ***
Capitolo 8: *** E quindi prendimi, mordimi, toglimi tutto, continuerò a non avere la paura del buio ***
Capitolo 9: *** Fight so dirty, but your love's so sweet; talk so pretty, but your heart got teeth ***
Capitolo 10: *** So sick and tired of being alone; So long, farewell, I'm on my own ***
Capitolo 11: *** Sono fuori di testa, ma diverso da loro ***



Capitolo 1
*** And when your fantasies become your legacy, promise me a place in your house of memories ***


Fandom: Spider-Man (Tom Holland films), Deadpool (Any verse), X-Men, MCU in generale comprese alcune serie di D+. Un gran mischione, insomma.

Titolo: Lividi sui gomiti

Personaggi: Spider-Man, Deadpool, Daredevil, Ned Leeds, Sam Wilson, Bucky Barnes, Weasel, varie altre comparse

Coppia: Spider-Man/Deadpool

Rating: Arancione tendente verso il Rosso per un bel po’ di gore, splatter e gente che muore male

Words: 50k circa

Generi: Romantico, Giallo, Mystery, Introspettivo, Avventura

Avvisi: Questa storia si ambienta parecchi anni dopo la morte di Tony Stark, ma non tiene conto né di Far From Home, né di No Way Home. In realtà è un bel mix di varie cose, dato che ci ho infilato un Deadpool nato principalmente dalla mia psiche, e sappiamo tutti che dove va Deadpool ovviamente compaiono gli X-Men. Quindi bho, forse ho dato alcune cose per scontate, ma ormai è troppo tardi. Ciao. LOL

Note: C’è una playlist per questa storia che si trova qua. Il titolo di ogni capitolo è preso da una canzone che è presente nella playlist, perché mi drogo male e non faccio altro che ascoltare questa roba da mesi. Obsessive much? Inoltre, ormai sono abbastanza convinta che quasi tutte le canzoni dei Måneskin abbiano un subtex Spideypool. Cosa vogliamo fare?

 
 
Lividi sui gomiti
 
E allora prendi la mia mano bella señorita
Disegniamo sopra il mondo con una matita
Resteremo appesi al treno solo con le dita
Pronta che non sarà facile, è tutta in salita
E allora prendi tutto quanto
Baby prepara la valigia
Metti le calze a rete e il tacco
Splendiamo in questa notte grigia

Amore accanto a te
Baby accanto a te
Io morirò da re

 
Morirò da re, Måneskin
 
  1. And when your fantasies become your legacy, promise me a place in your house of memories
Avvolto nel caldo rassicurante delle sue coperte, Peter Parker cercava con disperazione di dormire. Aveva calcolato di avere poco meno di tre ore a disposizione prima di doversi alzare e andare al lavoro, ma il sonno lo eludeva come ormai succedeva da settimane. Ned gli aveva suggerito di prendere dei sonniferi o roba del genere (le esatte parole erano state «O risolvi questo casino, oppure inizi a drogarti»), ma il metabolismo accelerato di Peter non avrebbe mai concesso la benedizione di un sonno indotto. Di risolvere “quel casino” invece… be’, Peter non sapeva bene da dove iniziare.

Si limitava ad arrovellarsi, quindi, cercando di calcolare con precisione il momento esatto in cui tutto era iniziato. Dopo giorni passati a rimuginare e a darsi dell’idiota in tutte le accezioni possibili della parola, aveva capito che la vita di Spider-Man (e conseguentemente la sua vita) aveva iniziato a scivolare lentamente nella fogna un giovedì di quasi sei mesi prima, un giovedì che avrebbe volentieri cancellato per sempre dalla memoria.

All’epoca Spider-Man sedeva sul cornicione di un grattacielo, la notte ribolliva attorno a lui e il caldo estivo aveva recentemente assalito New York senza lasciar tregua a nessuno. Nonostante la brezza leggera, sotto il suo costume la pelle di Peter era coperta da un lieve velo di sudore che asciugava lentamente. L’eroe aveva passato buona parte delle ore precedenti a spostarsi di palazzo in palazzo, lanciandosi nel vuoto con abbandono, concentrandosi sulla familiare sensazione di strappo allo stomaco e poco altro. Quando i muscoli avevano però iniziato a tremare e la sua vista ad appannarsi, Peter aveva rallentato la corsa folle in cui si era lanciato e, senza la minima sorpresa, si era trovato seduto su quel tetto particolare, al centro esatto di Manhattan. Persino a quell’altezza il suo olfatto riusciva a percepire l’odore nauseante dei fiori che marcivano lentamente nel tepore della notte.

Avrebbe davvero voluto una birra.

Con un sospiro esausto lasciò dondolare le gambe nel vuoto come un bambino troppo cresciuto e cercò di concentrarsi sul rombare distante del traffico, che nemmeno a quell’ora accennava ad attenuarsi.

I suoi sensi di ragno si stiracchiarono. Non si trattava di un avvertimento o di un imminente pericolo in arrivo: si limitavano a ricordargli pigramente che quel posto non era tra i suoi preferiti. Stringendosi nelle spalle il giovane eroe cercò di non pensarci e puntò gli occhi sulla gigantesca figura rosso-oro che troneggiava di fronte a lui, spalmata sulla parete di uno dei grattacieli più imponenti della città. L’artista (rimasto anonimo tutti quegli anni) non aveva perso tempo a dipingere il volto di Tony Stark, ma la maschera inespressiva di Iron-man stava proprio all’altezza degli occhi di Peter. Meglio così, aveva sempre pensato lui, che continui a restare un simbolo e nient’altro.

Sospirò di nuovo, immaginando una birra ghiacciata stretta tra le dita, la bottiglia gocciolante, il sapore amaro sulla lingua. Erano trascorsi parecchi anni, eppure la sensazione di vuoto e lutto era esattamente la stessa.

«Stai diventando prevedibile, Spidey!» lo raggiunse la voce cupa e graffiante di Deadpool. Dal tono e da una lieve accelerazione del respiro, Peter fu abbastanza sicuro che Wade avesse scalato il palazzo, oppure fatto le scale quasi di corsa.

«Ti ho sentito arrivare dieci minuti fa» rispose senza alcuna sorpresa, la voce accuratamente neutrale.

Wade emise una risatina allegra. «Si chiama barare, Spidey! Troppo facile usare il ragnetto istallato nella tua bella testolina.»

Udendo i passi pesanti di Wade avvicinarglisi alle spalle, Peter sorrise sotto la maschera. Il ragnetto, come lo chiamava Wade, o meglio i suoi sensi potenziati, non l’avevano mai una volta avvertito della presenza o dell’arrivo del mercenario. Nemmeno nei primi tempi della loro conoscenza, nemmeno quando Wade sguainava le sue katane o toglieva la sicura al suo apparentemente infinito set di pistole. Nemmeno quando Peter era stato talmente sopraffatto dal dolore per la morte di Tony, dalle ondate di mancanza così intense, che i suoi sensi avevano preso a registrare come nemico anche il più innocuo dei passanti. Deadpool, per quanto assurdo, non era mai stato una minaccia per Spider-Man.

Non che Peter glielo avesse mai detto: il mercenario era già abbastanza esaltato all’idea dell’amicizia che li legava e il ragazzo preferiva non fagli venire strane idee. E non fare venire a sé stesso altre strane idee.

Pesantemente e accompagnato da un gran clangore metallico, Wade si accomodò proprio accanto a lui, tanto vicino che le loro cosce di sfioravano. Peter non ci fece caso e si concentrò sull’oro dell’elmo di Ironman, che brillò di fronte allo sfareggiare rapido di una macchina di passaggio. Per un attimo sembrò che il supereroe defunto volesse far loro un occhiolino.

Senza dire altro, Wade estrasse dal nulla un cartone di birra, se lo piazzò in grembo e ruppe la carta che teneva assieme le bottiglie bagnate di condensa.

Spidey scosse appena il capo, lo stomaco pieno di inopportuno affetto mescolato a un senso di perdita che faceva eco all’antico dolore della perdita di Ben. Wade sollevò la maschera sopra al naso, mostrando il solito sorriso irriverente che Peter si limitò a scrutare di sbieco, attraverso le lenti appannate della maschera di ragno.

L’altro si portò una bottiglia alla bocca e la stappò mordendo il tappo coi denti, come fosse la cosa più semplice e sana del mondo. Un piccolo fiume di schiuma gli bagnò le labbra ricoperte di cicatrici e un attimo dopo la bottiglia fu spinta tra le mani guantate di Peter.

Ci fu un secondo di quiete, seguito dal rumore inconfondibile di altre due bottiglie aperte con la sola forza delle mandibole di Wade e poi, di nuovo, straniante, il silenzio.

«Vuoi forse dirmi» fece Peter sentendosi leggermente a disagio, «che non hai un apribottiglie in quel tuo marsupio?»

Il sorrisetto storto di Wade non fece che aumentare, ma entrambi gli uomini mantennero gli occhi fissi sulla riproduzione gigante di Ironman. «Vuoi controllare, Pete? Non ho alcun problema a farti mettere le mani nel mio marsupio, se capisci cosa intendo.»

Peter si sfilò la maschera dalla testa, principalmente per far vedere a Wade che stava roteando gli occhi, ma il gesto fu abbastanza inutile quando la sua bocca decise di dire, con affetto mal nascosto: «So sempre cosa intendi, idiota!»

E davvero, Peter avrebbe dovuto imparare a dosare meglio le parole.

La maschera iperespressiva di Wade gli lanciò uno sguardo in tralice, ma evidentemente il suo possessore dovette giudicare la penombra abbastanza sufficiente da permettergli di imitare il gesto di Spidey e liberarsi a sua volta della maschera di Deadpool. Peter fece finta di nulla mentre il pezzo di spandex rosso e nero veniva appallottolato e messo al sicuro tra le cosce di Wade, sotto il cartone di birra mezzo distrutto. Di rado l’amico osava togliersi la maschera in pubblico, ma ormai quando erano insieme succedeva quasi sempre. Spidey immaginava che la maschera, per quanto utile, non fosse proprio il massimo per la pelle ipersensibile di Wade.

I sensi di ragno di Peter gli regalarono l’ennesimo brivido della serata, distraendolo spiacevolmente e obbligandolo a riportare l’attenzione su Tony Stark. Non succedeva spesso che il murales lo mettesse così a disagio, quindi aggrottò le sopracciglia, confuso.

«Alla tua, vecchio genio pazzoide!» esclamò Wade a quel punto. Peter sussultò per l’improvviso rumore, chiedendosi cosa mai gli stesse succedendo quella sera… notte…be’, ormai quasi l’alba, mentre con un gesto svolazzante della mano l’amico rovesciò una delle bottiglie, in un’imitazione un po’ esagerata dell’ultimo brindisi che si fa sulla tomba del caro defunto.

Peter lo squadrò con occhi spalancati, cercando di non farsi notare, seguendo le forme disastrate delle cicatrici che si fondevano con le ombre della notte, ma Wade stava fissando come ipnotizzato la piccola cascata di birra che ruscellava verso terra, in una lunga discesa che l’avrebbe portata a sfracellarsi al suolo venti o venticinque piani più in basso.

«Al signor Stark» gli fece eco il giovane dopo un attimo, facendogli segno di voler brindare con lui. Si guardarono per un attimo, occhi azzurri in occhi marroni, e poi Peter gli sorrise mentre i colli delle rispettive bottiglie si incontravano a mezz’aria.

«Ehi Pete, se sorridi così, a una ragazza potrebbero venire strane idee…»

Spider-Man aprì la bocca per rispondere a tono, quando per la terza volta i suoi sensi di ragno gli fecero sapere che in quel posto, in quell’intera situazione, c’era qualcosa che non andava. Deglutì, passandosi una mando dietro il collo. Il sudore gli aveva bagnato i capelli che gli solleticavano la fronte e le orecchie in lunghe ciocche umide. Avrebbe dovuto tagliarseli presto.

«Che c’è?» gli domandò Wade a quel punto, infilandosi in tutta fretta la maschera. «Guai in arrivo? Cattivoni da pestare? Una nonnina che deve attraversare la strada? Uno stupratore da evirare? Trump è nei paraggi?»

Peter si alzò in piedi, subito costretto a guardare verso il basso da qualche forza a lui incomprensibile. Assieme ai mazzi di fiori mezzi morti lasciati lì in occasione dell’anniversario della morte di Tony, il vicolo olezzava di spazzatura che era ammucchiata nella zona più lontana dalla strada principale: i bidoni vomitavano sacchi neri che si erano sparsi per terra, spaccandosi e riversando il loro contenuto marcescente sulla pavimentazione lurida. Persino nel buio Peter era consapevole di quanta schifezza ci fosse laggiù.

E c’era anche qualcos’altro.

«Spider-Man» lo richiamò Wade con un tono che disse a Peter che non era la prima volta che cercava di attirare la sua attenzione. «Che succede?». La voce di Deadpool aveva perso ogni inflessione giocosa, ogni voglia di scherzo, era la voce del soldato che un tempo era stato, dell’assassino prezzolato che ancora era. Peter ne fu stranamente rassicurato.

«Non lo so» rispose, cercando di scrutare nelle tenebre. «C’è qualcosa laggiù. Non mi piace.»

«Allora andiamo a controllare.» Durante quel breve scambio anche Wade si era alzato, le birre dimenticate, la mano sull’impugnatura di una pistola. «Ti seguo, Spider-Man.»

Senza attendere oltre, con la mano destra Peter lanciò una delle sue ragnatele, mentre con la sinistra si infilava di nuovo la maschera. Wade, per parte sua, saltò giù dal parapetto quasi immediatamente e il ragazzo roteò gli occhi, annoiato, costretto a lanciare subito un'altra ragnatela e ad arrestare la sua caduta nel vuoto mentre al tempo stesso lo seguiva.

«Non mi fai mai divertire!» si lamentò Wade qualche attimo dopo, mentre metteva i piedi a terra senza danni e Spider-Man atterrava con eleganza accanto a lui.

«Sai che non mi piace quando muori.» Era a malapena un eufemismo, ma Peter non elaborò oltre. Non era il momento e decisamente non era il luogo. Il vicolo era silenzioso e deserto. Tony Stark torreggiava su di loro come un antico dio pagano intento a giudicarli e in Spidey la sensazione di disagio e disgusto non fece che aumentare.

«Uuuuuh» esclamò Deadpool pochi attimi dopo guardando fisso alla sua destra, tra le fauci oscure dei cassonetti. «Cadavere!» aggiunse dopo un secondo, muovendosi rapido verso ciò che aveva appena intravisto.

Con un senso inquietante di vuoto allo stomaco Peter lo seguì passo passo, finché il suo naso non andò a colpire con dolore sull’elsa di una delle katane che DP portava ancorate alla schiena. Il ragazzo sbatté le palpebre, confuso, e subito iniziò a girare attorno alla figura improvvisamente immobile del mercenario, finché quest’ultimo non allungò un braccio per bloccargli l’avanzata.

«Meglio di no, bimbo.»

«Cosa?»

Deadpool gli scoccò un’occhiata brevissima. «Meglio se ti tiri fuori da… questo, credimi sulla parola.»

«Wade, non fare l’idiota!» esalò Peter con la voce più profonda e rilassata che riuscì a produrre. Non funzionò molto bene, ma pur con tutta la sua forza Wade non sarebbe mai riuscito a impedire a Spider-Man di andare dove voleva andare.

Fece un balzo, superando senza problemi il braccio teso del compagno, e atterrò con schiena incurvata e ginocchia piegate proprio sul coperchio di un cassonetto, cosicché si trovò a osservare l’intera scena dall’alto.

All’inizio ciò che aveva davanti agli occhi non gli raggiunse il cervello. La mente di Peter registrò il tutto come fosse un puzzle, ma rifiutandosi di accettare l’intera immagine: una mano dalle unghie rotonde, dipinte di smalto azzurro sbeccato in più punti; la testa, posata su quella che un tempo era stata una pagnotta di qualche tipo e che adesso ammuffiva nel vicolo, ironico cuscino per il riposo eterno. Lo stomaco incavato, nudo; le ginocchia sbucciate e piegate in direzioni diverse; i riccioli scuri e bagnati di una seconda testa, che coprivano pudicamente il sesso esposto della ragazzina. E poi l’incavo insanguinato dei petti; il seno acerbo e dilaniato, il costato spezzato per raggiungere il cuore, le ossa sporgenti, come se qualcuno avesse scavato con rabbia, con violenza inspiegabile, dentro ai corpi giovani, così piccoli rispetto a quella discarica a cielo aperto.

Erano due bambini, a malapena dei ragazzini. Nudi, abbandonati sul pavimento lercio, gli occhi sbarrati a guardare il cielo, le guance tonde macchiate di sangue. Qualcuno aveva strappato il cuore dal loro petto e li aveva scaricati lì, come fossero rifiuti.

Spider-Man aveva visto parecchie cose brutte nei lunghi anni passati a fare il vigilante. Parecchie cose ancora più brutte nel tempo passato a lavorare a fianco degli Avengers, ma in quel momento desiderò di aver dato retta a Wade, di essersi fidato della sua voce calma, familiare.

«Pete» lo richiamò quella stessa voce proprio allora.

Lui sollevò lo sguardo, senza rendersi pienamente conto di quanto a lungo aveva tenuto gli occhi fissi su quello scempio. In compenso Wade aveva gli occhi fissi su di lui e Peter poté quasi percepire fisicamente il livello di preoccupazione che la massa rossa e nera di Deadpool stava emanando.

Si schiarì la gola, incerto rispetto a ciò che avrebbe detto. I riccioli scuri della ragazzina gli ricordarono i capelli di Morgan, la bambina sorridente che lo trattava spsso come un fratello maggiore, e per poco non vomitò. L’odore del sangue gli invase le narici e gli graffiò le pareti della gola mentre parlò, senza preoccuparsi di mascherare il tono rotto che gli uscì fuori: «Io chiamo la polizia. Tu… tu dai un’occhiata in giro.» Trova i loro cuori, Wade. Come possono essere seppelliti senza il loro cuori? Per fortuna però non dovette aggiungerlo: Wade semplicemente lo capì, oppure era sempre stata sua intenzione. In ogni caso, aveva poca importanza.

Peter rimase nel vicolo fino all’arrivo della polizia, parlò con gli agenti come raramente si permetteva di fare, a meno che non fosse in missione per gli Avengers, lasciò la sua testimonianza, li aiutò come poté mentre sopra di lui, appollaiato a una finestra, Wade osservava la scena in silenzio.

Tre ore dopo, quando il sole era ormai alto e i corpi dei bambini senza cuore erano stati infilati dentro a sacchi neri senza luce, Spider-Man si trovò in un nuovo vicolo olezzante di marciume e piscio. Lì si avvicinò lentamente a uno degli angoli che ancora conservava qualche ricordo della notte appena passata, le ombre, il buio, il silenzio. Teneva la maschera stretta tra le dita, gli occhi pieni di lacrime e non si stupì affatto quando fu costretto a piegarsi in avanti e vomitare la magra cena della sera prima.

Passarono circa quattro secondi prima che Wade gli fosse accanto per tirargli indietro i capelli sudati, per accarezzargli la schiena col palmo della mano in lenti movimenti circolari.

Né la polizia, né loro due ebbero alcuna fortuna nel recuperare i cuori strappati dal petto dei due bambini.

Mesi dopo quella notte orribile che aggiungeva altro orrore al ricordo della morte di Tony, lo schermo del cellulare stava dicendo a Peter che gli restavano ormai solo due ore di sonno, ma il ragazzo sapeva bene che ormai qualsiasi speranza di mettersi davvero a dormire era pressoché inesistente così sbloccò il salvaschermo con l’impronta digitale, inserì il codice segreto e sussurrò il proprio nome con la cadenza giusta. Era il cellulare di Spider-Man e i protocolli di sicurezza erano abbastanza elaborati.

Per nulla stupito di non trovarvi alcun messaggio, Peter evitò la pugnalata di senso di colpa che minacciò di infilarglisi tra le coste e cercò in fretta tra le immagini salvate e scaricate. Quasi immediatamente trovò la foto che voleva. Le facce sorridenti di due bambini gli accecarono lo sguardo, il buio della stanza rischiarato dallo sfondo bianco di una giornata di sole in riva al mare.

Mark e Julia Spencer vivevano in foster care quando qualcuno aveva deciso di rapirli e ucciderli. Erano fratello e sorella ed erano conosciuti nell’ambiente per essere due bambini riottosi, difficili da gestire. Dato che Mark aveva quasi quindici anni, le autorità avevano pensato a una fuga volontaria e la polizia si era impegnata poco e male nelle loro ricerche.

Mark e Julia erano due tra le varie migliaia di orfani del blip: i loro genitori erano morti quando l’autista del pullman su cui viaggiavano era svanito nell’etere e il mezzo era volato giù dal ponte di Brooklyn. A detta degli assistenti sociali i bambini non si erano mai ripresi.

«Né si riprenderanno mai più» aggiunse Peter in un bisbiglio. Nella foto Julia sorrideva: le mancava l’incisivo destro e sembrava la bambina più felice dell’universo. Mark gli teneva la mano sulla spalla, protettivo. Sorrideva anche lui.

Erano passati più di cinque mesi da quella notte nel vicolo, ma Peter non aveva scoperto quasi niente. Non importava quante volte lui e Wade fossero penetrati nel dipartimento di polizia per ripulire i computer, non importava quante mazzette Wade avesse pagato per ottenere i risultati dell’autopsia e per parlare faccia a faccia col medico legale. Non importava nemmeno quante volte Peter avesse supplicato Capitan America di intervenire. Piccoli omicidi come quelli non interessavano agli Avengers. Piccoli omicidi come quelli non interessavano alla polizia. Piccoli omicidi come quelli non interessavano a New York.

A Pepper sarebbe importato, così come sarebbe importato a zia May, ma Pepper aveva una figlia di pochi anni da crescere e una compagnia multimilionaria da mandare avanti e zia May, be’, Peter non sarebbe mai stato così crudele da parlare con lei di due bambini massacrati in un vicolo.

Poi, finalmente, recentemente, quando Peter aveva iniziato a perdere le speranze, un altro cadavere era saltato fuori.

Sospirando, il ragazzo aprì il programma di messaggistica istantanea e cercò la conversazione. Era una chat di gruppo creata da Wade che il mercenario aveva rinominato #CappuccettiRossi e che contava un entusiastico Deadpool, un rassegnato Spider-Man e un quasi sempre assente Daredevil.

I messaggi non erano molti e a Peter occorse pochissimo tempo per trovare quelli incriminati. Rilesse la breve conversazione in cui Daredevil chiedeva se fossero interessati a un criminale che lasciava le sue vittime in giro senza cuore.

Spider-Man aveva risposto di sì. Matt aveva dato loro appuntamento per le tre di notte sul tetto di Hell’s Kitchen che usavano a volte per le collaborazioni e i rari pattugliamenti che svolgevano insieme.

Seguivano una serie di messaggi minatori di Wade che all’apparenza avrebbe preferito passare la notte a dormire, ma Peter non aveva risposto. Conosceva Deadpool da così tanto ormai che sapeva perfettamente quando l’altro usava l’umorismo per evitare di mostrare i suoi veri sentimenti.

Circa il novanta per cento del tempo.

In ogni caso, quell’incontro, quel piccolo rendez-vous di supereroi, antieroi e vigilanti dal costume rosso e dai volti scuri, segnava forse con più accuratezza il momento esatto in cui tutto, per Spider-Man, era andato definitivamente in malora.

 
 
Note: il titolo della storia è tratto dall'omonima canzone dei Måneskin, Lividi sui gomiti.
Il titolo del capitolo è invece tratto da House of Memories, dei Panic at the Disco
La storia è conclusa. Non sono molto soddisfatta del capitolo finale, quindi penso che lo allungherò e dividerò in due parti, ma in totale dovrebbero esserci tra gli 11 e i 12 capitoli per un totale di 50k circa.
Aggiornamento ogni lunedì, se riesco.
 

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Capitolo 2
*** And now I have the power to bathe all of you in entertaining fire ***


2. And now I have the power to bathe all of you in entertaining fire

Con un sospiro Spider-Man ricordò di essere arrivato all’appuntamento con Daredevil con qualche minuto di anticipo e una morsa dolorosa che gli serrava la bocca dello stomaco. Non voleva altri fantasmi di bambini massacrati a popolargli il sonno, ma non poteva negare che un altro cadavere di quel tipo avrebbe permesso di collegare le investigazioni. Il commissario che si interessava al caso era un incompetente di alto livello, ma il suo vice era un fan di Spider-Man e gli aveva fatto presente in gran segreto che, in caso di serial killer, avrebbe fatto di tutto per far intervenire i federali.

E Peter aveva visto troppi episodi di Criminal Minds per non sapere che una scia di cadaveri interessava sempre a quelli dell’FBI.

«Possiamo giocare noi a Criminal Minds, tesoro» gli aveva detto Deadpool dopo aver origliato quella conversazione tra Peter e il vicecommissario. Gli aveva letto nella mente in modo estremamente fastidioso, con un ghigno che sembrava spaccargli la faccia in due. «Tu fai Reed e io faccio Morgan! Oh, daaaai!» aveva aggiunto poi vedendo che Peter non aveva alcuna intenzione di dargli corda, «non dirmi che non li shippi! Sono fatti l’uno per l’altro!»

«È tutto un gioco per te?» aveva chiesto Spidey a quel punto, fermandosi nel bel mezzo del marciapiede. Era stato il giorno prima di ricevere il messaggio da Matt Murdock e Peter si sentiva frustrato e stressato per mille e uno motivi. Il più grande era però la loro apparente incapacità nello scovare l’assassino.

Era quasi l’alba e i due eroi mascherati si sarebbero separati di lì a breve, dopo un pattugliamento ben poco fruttuoso. Deadpool aveva smesso all’improvviso di scherzare, le mani chiuse a pugno, la mandibola serrata, ma non aveva fatto in tempo a dire niente perché Peter si era subito reso conto della stupidata appena detta e si era affrettato a scusarsi. «Wade, mi dispiace. Scusa… sono dei giorni un po’–»

New York li stava fissando coi suoi occhi freddi, insensati. Spider-Man però non ricambiava lo sguardo, troppo intento a osservare il cambio d’umore nell’amico basandosi solo sui movimenti lievi dei suoi muscoli e sulle ombre della maschera stranamente inespressiva.

«Lo so» aveva fatto eco Deadpool dopo un attimo, un sorriso lieve a increspare il rosso dello spandex che gli copriva le labbra.

Si erano salutati poco dopo senza aggiungere altro.

Invece la notte successiva si erano trovati in tre, appollaiati su una scala di servizio mezza rugginosa, mentre qualche metro sotto di loro le voci attutite di due cuochi in pausa che si fumavano una sigaretta li raggiungevano fiacche. Come tre corvi dalle piume insanguinate i tre vigilanti discutevano: Peter se ne stava accucciato sulla ringhiera, mani e piedi agganciati al metallo gelido, Deadpool puliva distrattamente la lama di un coltello, appoggiato contro il muro di mattoni sbeccati. Solo Daredevil manteneva una posizione quantomeno eretta, le braccia incrociate, la mandibola serrata: aveva appena finito di far loro rapporto sugli ultimi sviluppi e Wade gli aveva fatto notare quanto l’omicidio di cui aveva parlato poco c’entrasse con i fratelli Spencer. Peter si era tristemente trovato d’accordo.

«Non sto dicendo che questa storia sia una perdita di tempo, però» aveva aggiunto poco dopo, snervato dalla mancanza di replica da parte di Matt. Avrebbe voluto che Daredevil ribattesse che invece c’entrava eccome, ma il vigilante dalle corna di diavolo si limitava al silenzio.

«Non lo stai dicendo» gli fece eco Wade a quel punto. Erano entrambi tesi come corde di violino, ma col cavolo che l’avrebbero ammesso. «Non lo stai dicendo, ma lo stai pensando, tesorino, proprio come lo sto pensando io. Non puoi nasconderti da papà-Deadpool.»

«In ogni caso» si intromise Matt con il solito tono di voce da avvocato che usava quasi solo con loro quando le situazioni si facevano tese, «è l’omicidio più simile al vostro di cui ho sentito parlare nelle ultime settimane.»

«Solo perché l’hanno trovato senza cuore non vuol dire che sia lo stesso assassino» proseguì Deadpool rinfoderando il coltello con un movimento fluido del braccio. Si stiracchiò appena, come se l’intera situazione non lo stesse mandando ai pazzi esattamente come stava mandando ai pazzi Peter. «Hai detto che si trattava di un vecchio vagabondo, no? Conoscevo parecchi stronzi che andavano in giro a rastrellare le strade in cerca di quel tipo di gente. Poveracci, disperati, drogati. Malati terminali–» Wade si interruppe per un attimo, diede un colpo di tosse e poi continuò. «Di quella gente là l’NYPD se ne strabatte il cazzo, bambini miei. Non devo venire a dirvelo io.»

Peter emise un sospiro. Avrebbe voluto dire a Wade che si sbagliava, che c’era ancora speranza, che era la pista migliore su cui fare affidamento, ma vedeva bene anche lui che le possibilità che si trattasse dello stesso assassino erano minime. Matt aveva detto che chiunque fosse stato aveva usato una lama, quella volta. L’età non combaciava. La zona della città non era la stessa ed erano passati parecchi mesi dal primo omicidio. «Puoi farci avere il rapporto del medico legale?» domandò comunque Peter, tanto per mostrare gratitudine per la soffiata, tanto per non rischiare di perdere un’opportunità.

«L’hanno scaricato nel mio territorio» replicò subito Daredevil senza alcuna inflessione nella voce. Peter sapeva benissimo che Matt era in grado di carpire ogni singolo mutare di sentimento solo dall’impercettibile aumento del battito cardiaco dei presenti e la cosa non gli era mai andata a genio. Non gli piaceva che qualcuno gli leggesse nella mente in quel modo. «L’anno trovato in un parcheggio sotterraneo sull’angolo tra la 76esima e First Avenue, vicino a un asilo, praticamente di fronte a una scuola superiore. Ovvio che posso farvi avere il rapporto del medico legale.»

Di nuovo ci fu un secondo di silenzio mentre Spidey e Deadpool registravano l’informazione.

«Aspetta un attimo» esclamò il mercenario nello stesso istante in cui Peter ripeteva: «Tra la 76esima e First Avenue?»

Si guardarono e Peter percepì distintamente il proprio cuore saltare un battito. Per assurdo che poteva sembrare…

«Cosa?» s’informò subito Matt. «Vi dice qualcosa?»

Deadpool stava guardando fisso le grandi lenti bianche della maschera di Spider-Man. «Non è l’incrocio in cui si trova il murales di Natasha?»

Ah, i murales degli Avengers originali. Peter l’aveva trovato incredibilmente toccante quando nel lontano 2024 avevano iniziato a comparire per tutta la città. Prima quello di Tony, il più grande, ma anche il meno dettagliato. Poi quello di Steve Rogers. Quello di Natasha e poi Bruce e Hawkeye. I primi vendicatori, morti o in pensione o scomparsi dalla faccia della terra.

Era stato bello, all’inizio, come se fossero ancora là, a vegliare su New York, a passare il testimone ad altri… Ma dopo un paio di anni passati a dondolare tra i grattacieli della città, ritrovare di fronte a sé gli occhi gentili di Steve o l’arco teso di Clint aveva iniziato a dare a Peter il mal di stomaco.

«I bambini sono stati scaricati sotto il murales di Stark» spiegò Wade sempre senza distogliere gli occhi da Peter che era improvvisamente saltato giù dal parapetto e camminava nervosamente avanti e indietro.

«Non può essere una coincidenza» bisbigliò Spider-Man, sicuro che i suoi compagni l’avrebbero sentito.

Wade si schiarì la gola. «Sai quello che si dice… una volta è un caso, due volte è fortuna, ma tre volte–»

Spidey si fermò di scatto, voltandosi verso di lui. «Non possiamo aspettare una terza volta. Un terzo cadavere!»

«Ehi ragazzino, sono un mercenario, non un investigatore privato. Per queste cose ci vuole tempo.»

«Non dirmi che ci vuole tempo! Lo so che ci vuole tempo, Wade, per chi mi hai preso?»

«In questo momento? Per un ragnetto sull’orlo di una crisi di nervi.»

«Una crisi» si intromise Daredevil con un sorrisetto apologetico, «che non possiamo permetterci di avere. Mi rincresce interrompere questo teatrino, e sono certo che il luogo in cui è stato ritrovato il cadavere sia di fondamentale importanza, ma due strade più in là c’è un negozio di liquori in cui è in corso una rapina.»

Gli altri due supereroi si bloccarono di scatto, aguzzando le orecchie. Il suono ritmato di un sistema d’allarme di terza categoria invase l’aria, distante. Il rumore parve quasi richiamarli all’ordine, imporgli di smetterla di giocare e iniziare a fare sul serio, la tensione si sciolse e rientrarono in una routine che avevano imparato a fare propria anni prima. Una routine a cui Peter non avrebbe più saputo rinunciare.

«Merda» sbottò Wade dopo un secondo, mentre Peter si limitò a sospirare.

«Posso occuparmene da solo» si offrì Daredevil senza esitazione, ma naturalmente né Peter né Wade gli avrebbero mai permesso di scendere in campo in solitaria, se erano presenti anche loro.

«Andiamo Matt, sarà come scacciare una mosca: siamo un dream team! I Big Red, i cappuccetti rossi che hanno fatto fuori il lupo cattivo e anche il cacciatore! Seriamente, che cazzo di sport è la caccia? Ammazzare animali indifesi per sport? Che stronzata sarebbe?! Ehi, Spidey, mi daresti uno strappo?» Con la solita bocca che sparava a mitraglietta, Wade lasciò calare una mano guantata sulla spalla di Peter che automaticamente gli afferrò l’avambraccio e se lo tirò contro.

«Non metterti a strillare come tuo solito, però» lo avvertì subito, già percependo l’eccitazione dell’amico aumentare a dismisura.

Daredevil era già partito, aprendo loro la strada. Dopotutto era pur sempre il suo territorio.

«Sto volando, Jack!» gli bisbigliò Wade all’orecchio qualche attimo dopo, quando entrambi vennero investiti da folate di vento gelido e le parole e i pensieri vennero trascinati via con lo slancio del salto. Peter ricordò per un attimo le facce sorridenti di Mark e Julia, gli occhi felici che mai più avrebbero guardato nulla, le mani di Wade gli si serrarono gentilmente attorno alle spalle e poi, come fosse passato solo un secondo, atterrarono di botto in mezzo alla devastazione in cui il negozio di liquori si era trasformato.

«Uh-oh» fece Deadpool staccandosi dalla sua schiena. «Peggio di quel che credevo! Che figata!» E con ciò si chinò in avanti per evitare un proiettile che volava allegramente verso la sua testa. Peter dal canto suo era stato avvertito dai suoi sensi di ragno e già era saltato in cima a un lampione, a distanza di sicurezza. L’allarme antifurto scelse proprio quel momento per lanciare un ultimo grido sfiancato e poi spegnersi di botto, precipitandoli in un improvviso e inaspettato silenzio.

«C’è qualquadra che non cosa» dichiarò Deadpool quattro secondi dopo, rompendo il silenzio e grattandosi la testa col manico del coltello che aveva in mano.

«Che cosa te lo fa dire?» rincarò la dose Spider-Man atterrando di nuovo di fianco a lui. «Il fatto che il negozio sia deserto? Il cadavere del proprietario che ci guarda con occhi sgranati? Oppure il fatto che l’allarme non fosse del negozio di liquori ma della banca sistemata proprio qui di fianco

«Wow, Pete, te l’ha mai detto nessuno che non c’è bisogno di essere un so-tutto-io ogni singolo secondo della tua esistenza?»

Peter gli lanciò un sogghigno, perché il tono di Wade era irriverente, quel tono che canzonava tanto quanto avrebbero potuto fare le sue labbra sorridenti nascoste sotto lo spandex e il centimetro di cicatrici che le deturpava. «Lo sai che ti piace!» dichiarò Spider-Man dopo un secondo, lieto suo malgrado di quella distrazione, mentre voci sussurrate gli indicavano che, dopotutto, qualcuno era ancora appostato dentro al negozio male illuminato.

«Bimbo, non sai quanto!»

«Se avete finito» li interruppe Matt a quel punto, raggiungendoli alle spalle, «ci sono sette persone che stanno per tenderci un agguato.»

Wade si strinse nelle spalle, ma a Peter non sfuggì il movimento che fece per togliere la sicura a una delle sue pistole. «Solo sette?»

Lentamente, emergendo dalle ombre e sistemandosi vicino al lampione, Daredevil aguzzò quelle orecchie già sufficientemente aguzze. «Nel negozio» spiegò dopo un attimo. «Nella banca potrebbero essere di più. C’è troppo rumore.»

Il silenzio era assoluto.

«D’accordo» dichiarò Peter a quel punto, scrocchiandosi le dita della destra. «Chi vuole aprire le danze?»

Deadpool fece una piroetta per nulla aggraziata, allungando una mano verso di lui. «Posso avere questo ballo?»

Peter strinse i denti, impedendosi di ridere, lieto che finalmente la sua mente non fosse solo e costantemente concentrata sui fratelli Spencer e proprio in quel momento qualcuno scelse di scaricare un caricatore sui tre vigilanti mascherati. Due di questi ultimi saltarono via illesi, mentre il terzo se ne rimase immobile, indifferente alla pioggia di proiettili.

«Potresti anche fare uno sforzo!» esclamò Spider-Man arpionando la spalla di Wade con una ragnatela e trascinandolo via dalla linea di tiro.

«E perché? Almeno ‘sti stronzi finiscono i proiettili! Oh, non preoccuparti per me, ragnetto del mio cuore, oppure mi farai arrossire e credimi, non è un bello spettacolo! A proposito, sembra che le danze le abbiano aperte loro.»

Peter osservò la scena dall’altro chiedendosi come gestire la faccenda: Matt si sistemò con le spalle al muro del negozio camminando sulla distruzione di vetri esplosi dalle finestre, al sicuro da un’eventuale nuova pioggia di proiettili. Wade perse qualche prezioso secondo a sistemare il silenziatore alla sua arma, cosa che fece sorridere Peter per l’ennesima volta quella sera. Wade poteva fingersi idiota quando voleva, ma sapeva essere estremamente gentile con le persone che gli stavano attorno, soprattutto nei confronti di Matt e del suo udito ipersensibile.  

«Al mio tre entriamo per cambiare la musica?»

«Tre, quattro, cinque… ti seguo anche se ti metti a contare fino a cento, Webs.»

«Quando vuoi, Spider-Man.»

Peter prese slancio con un breve salto e con una capriola a mezz’aria penetrò nel negozio passando per la porta principale ormai divelta, mentre le sirene della polizia invadevano l’aria. «Tre!» dichiarò nell’esatto momento in cui Daredevil imprecava sottovoce per il nuovo suono disturbatore, ma non ci fu tempo di fare molto altro, se non bloccare con due grumi di ragnatela le mani tese di un rapinatore dal volto coperto e strappargli dalle dita le pistole puntate verso di loro. Da quel momento in poi al rumore di spari e di sirene spiegate si unì quello dei vetri infranti che schizzavano attorno a loro, mescolandosi all’odore rivoltante di decine di tipi di alcol diversi che si mischiavano assieme, rendendo il pavimento un ammasso di viscidume tagliente.

Peter cercò di districarsi tra le grida di dolore e gli strepiti che chiamavano i rinforzi e fu nella penombra di quel delirio alcolico che, saltando sulla schiena di Deadpool per ritrovare l’equilibrio, si accorse che c’era un buco di discrete dimensioni nella parete del negozio alla sua sinistra.

Senza preoccuparsi di cosa stesse facendo, Peter usò Deadpool come punto di appoggio mentre allo stesso tempo allungava una mano e lo obbligava a voltare la testa verso sinistra. «Cosa?» domandò quest’ultimo, senza smettere di tirar pugni al tizio dalla faccia coperta che teneva tra le mani.

«Mi sembra di aver visto un vecchio film con questa trama.»

«Oooohoooh!» esclamò Wade lasciando cadere a terra il rapinatore privo di sensi e al contempo togliendosi Spider-Man dalle spalle spingendolo via. Peter atterrò accanto a lui schivando un proiettile solitario. «Vuoi dirmi che non te lo ricordi? Un nerd so-tutto-io come te?»

Peter roteò gli occhi sotto la maschera, fregandosene se l’altro l’avrebbe visto o meno. «E dai!»

«Ah-ah, tesoro» replicò Deadpool tagliando di netto la mano a un tizio che si precipitò contro di loro. Peter si affrettò a fasciargli il moncherino con un lancio di ragnatela prima che sanguinasse a morte. «Se ti aspetti che ti dica il titolo puoi scordartelo» gridò Wade per supere gli strepiti di dolore della sua nuova vittima.

Spidey si accucciò per evitare l’ennesima raffica di proiettili proveniente da dietro il bancone. «Primo: era davvero necessario tagliargli la mano? E Secondo: vuol dire solo che non lo ricordi nemmeno tu.»

«Ehi, non cercare di tarpare le mie ali d’artista. E per tua informazione lo ricordo eccome» esclamò Wade, punto sul vivo, e ripulendo la lama della sua tanto amata catana sul maglione di uno dei rapinatori riverso a terra.

«Col cavolo.»

«Mi stai dando del bugiardo?»

«Per l’amor d’iddio» sputò fuori Matt a quel punto, emergendo da dietro uno scaffale con un uomo grosso il doppio di lui mezzo soffocato da una stretta di qualche disciplina asiatica di cui Peter probabilmente non conosceva il nome. «Spidey, stai pensando a La rapina perfetta, ma almeno in quel film gli idioti hanno avuto la bella idea di affittare il negozio da cui sono partiti per fare la rapina, e non scassinarlo.»

Wade, che ancora non aveva ammesso (e ormai non lo avrebbe mai fatto) di non ricordarsi il titolo, emise un fischio ammirato. «Un connoisseur del cinema inglese! Chi l’avrebbe detto!?»

Peter emise una risatina. «Del cinema in bianco e nero, vorrai dire!»

«Ehi, ragazzino, occhio a come parli! È un film del 2008 o giù di lì!»

«Ricordi l’anno ma non ricordi il titolo? È forse l’Alzheimer che avanza, DP?»

«Basta con queste stronzate» esclamò una quarta voce, che purtroppo non apparteneva a nessuno dei tre Cappuccetti Rossi. Dal buco nel muro emerse l’ennesimo rapinatore che decise di lanciar loro – e con estrema nonchalance, Peter dovette dargliene atto – una granata. Il rumore inconfondibile del piccolo cilindro verde militare che cadeva a terra non parve sorprendere affatto Matt, che si limitò a portarsi le mani alle orecchie mentre correva nella direzione opposta. Peter ebbe qualche secondo per decidere se tentare di afferrare la bomba e lanciarla indietro, ma calcolò che sarebbe stato meno rischioso scappare; così, come ormai era diventata sua abitudine, allungò una mano per essere sicuro di trascinare via con sé anche Deadpool e batté in ritirata.

Probabilmente i suoi sensi di ragno non riuscirono ad avvertirlo in tempo perché erano già sotto stress a causa del lancio della granata, dei cattivoni che cercavano di ammazzarli e del generale casino che si stava sviluppando attorno a loro, ma sta di fatto che non si accorse mai che il cattivone responsabile della bomba, invece di nascondersi come qualsiasi persona normale avrebbe fatto, si era esposto ancora di più e stringeva adesso tra le mani una doppietta.

In compenso, Deadpool se ne accorse. Forse perché lui e le armi erano congiunti in quella strana e complessa storia d’amore che Peter faticava a comprendere, o forse perché a differenza di Peter, Wade non era così distratto da mille altri pensieri vorticosi. O forse solo perché era dannatamente bravo in quello che faceva. Sta di fatto i proiettili destinati a Spider-Man furono, come spesso accadeva, intercettati da Deadpool.

Il tutto accadde nel giro dei pochi secondi in cui la granata li fece saltare tutti in aria.
 



Note: Il titolo del capitolo è tratto da Insane, dei Black Gryph0n & Baasik

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Capitolo 3
*** Amore accanto a te, baby accanto a te, io morirò da re ***


3. Amore accanto a te, baby accanto a te, io morirò da re


Col senno di poi, Peter dovette ammettere che, in fin dei conti, messi insieme tutti i pezzi, enumerati e analizzati tutti i dettagli, la colpa di tutto il casino in cui si era tristemente ritrovato era in realtà del tizio idiota che aveva lanciato una granata e poi pensato bene di crivellarli di proiettili. E morire nell’intento, oltretutto.

Ah, giusto, e portarsi pure Wade con lui, nella cazzo di oltretomba. Un processo che, come sempre, era stato lungo, doloroso, e assolutamente disastroso.

«Wade. No.»

Deadpool tossì. La maschera era mezza strappata quindi Peter poté tranquillamente vedere che, assieme alla saliva, arrivò anche del sangue a macchiare le labbra screpolate e deturpate dalle cicatrici del mercenario. «Ti ricordo» dichiarò quest’ultimo con una voce che avrebbe voluto essere del tutto normale e tendente all’allegro, ma che venne fuori più come un sibilo agonizzante, «che non sono un cane e non posso obbedire ai tuoi comandi. Anche se, pensandoci bene, perché no?» Gli fece un occhiolino. «Ordina e obbedisco, Spidey-baby.»

Ed ebbe perfino il coraggio di ondeggiare le sopracciglia in un gesto che avrebbe dovuto essere ammiccante, ma che, con tutto quel sangue, si rivelò solo grottesco.

«Non morire» gli ordinò allora Peter. E perché no? Testardo com’era, c’era un’ottima probabilità che Wade si sforzasse di obbedire per davvero.

Lui, Deadpool e Daredevil si erano spostati in un vicolo poco distante dalla banca, Matt si stava asciugando un piccolo rivolo di sangue che aveva iniziato a uscirgli dall’orecchio destro e Peter aveva la spalla lussata e dolorante, se non peggio. Solo che non aveva ancora avuto il tempo né la voglia di controllare, non quando era stato costretto a trascinare via con sé un Deadpool incapace di camminare, incapace di alzarsi, incapace di fare alcunché se non aggrapparsi agli ultimi scampoli di vita che gli rimanevano.

A volte a Peter sembrava di giocare a un lungo e snervante videogioco di cui non si vedeva mai la fine. Era una cosa stupida, lo sapeva bene. L’immortalità era il superpotere di Wade, quindi perché, perché, perché prendersela tanto?!

«Spiacente, ragnetto del mio cuore» affermò Deadpool rifiutandosi di tornare serio. «Temo che quest’ordine sia l’unico a cui non posso obbedire. Mi dicono dalla regia che nell’aldilà hanno organizzato un party col mio nome sopra e sarebbe molto maleducato non presentarsi. Inoltre, il fatto che io muoia adesso è funzionale alla trama, o roba del genere.»

Peter si era accucciato davanti a lui e lo fissava con le grandi lenti di Spider-Man inespressive come al solito. Se si fosse tolto la maschera i suoi occhi sarebbero stati sgranati, leggermente lucidi, l’espressione implorante. «Non morire.»

«Ehi, Spider-Man» lo richiamò Daredevil alle sue spalle. «Non è che abbia molta scelta. I suoi battiti sono… be’, non gli rimane molto. Ma è meglio così: dalla respirazione mi sembra che abbia entrambi i polmoni perforati.»

Peter non si voltò nemmeno a guardarlo. «Perché ti sei messo in mezzo?» domandò invece all’amico mezzo disteso a terra. Non lo stava toccando, non voleva fargli male, non voleva per qualche motivo aumentare la gravità della sua condizione.

«La prossima volta» fece Wade dopo un attimo di silenzio attonito, «la prossima–».

Non finì mai la frase e per l’ennesima volta Peter si trovò tra le mani un cadavere di cui era a tutti gli effetti il diretto responsabile.

«La prossima volta» ripeté il ragazzo alzandosi in piedi e osservando il corpo riverso nell’ombra. «Perché deve sempre esserci una prossima volta?»

Matt gli mise una mano sulla spalla e Peter dovette combattere l’istinto che l’avrebbe volentieri spinto a scostarla in malo modo. Non era in vena di essere consolato, non per una cosa così stupida. Passarono alcuni secondi in cui non accadde proprio nulla e fu Daredevil ad avvicinarsi e acquattarsi tra le ombre.

«Credo che sia il caso di allontanarci. Il tetto di questo palazzo dovrebbe andare bene… la polizia ha già abbastanza da fare senza che ci mettiamo in mezzo pure noi.»

Peter annuì brevemente e poi, ricordandosi che l’altro non avrebbe potuto vederlo, borbottò una risposta affermativa, per poi affrettarsi a caricare Wade sulla spalla non contusa e iniziare a scalare il muro. Daredevil lo seguì a sua volta, per una strada un po’ più convenzionale.

Peter fu il primo a raggiungere il tetto. Qualche abitante del palazzo vi aveva predisposto una piccola zona dove stendere il bucato e un’altra ancora dove piantare alcuni fiori ed erbe aromatiche. Era carino. C’era perfino una panchina scrostata che guardava verso il formicaio brulicante di luci che era Manhattan. Vi sistemò Wade il più gentilmente possibile, assicurandosi che la posizione non fosse troppo scomoda. Non che cambiasse qualcosa per il mercenario, ma cambiava qualcosa per Spider-Man. Era più facile immaginare che il cadavere di Deadpool stesse dormendo.

«Sai…» gli si rivolse Matt pochi attimi dopo, comparendo all’improvviso dalla scala antincendio. «È sempre un bello spettacolo assistere a un vostro combattimento.»

Peter emise una risata priva di vita. «Wade è convinto che sotto sotto tu ci odi.»

«Non mi fraintendere, siete stressanti da morire, e a volte mi sembra di avere a che fare con due adolescenti. Ma vedervi in azione è… molto educativo.»

«Matt, senza offesa, ma tu non hai mai visto nessuno in azione.»

Daredevil gli lanciò qualcosa che Peter afferrò al volo. Era una bottiglia trafugata dal negozio di liquori fatto a pezzi. «Per Deadpool» gli spiegò l’altro, in risposta al suo silenzio interrogativo. «Mi sembra di aver capito che quando si sveglia è meglio avere dell’alcol a portata di mano.»

«Grazie» replicò Peter con un secondo di ritardo, sentendosi in colpa per la millesima volta in quell’orribile serata. Settimana. Vita.

«Be’, è arrivato il momento per me di tagliare la corda, se non ti dispiace. Pensi di aver bisogno di aiuto?»

Spidey scosse il capo e tentò di muovere la spalla dolorante allo stesso tempo. «Mi sembra che ci siamo aiutati a sufficienza, questa sera.»

Non disquisirono affatto del bel fiasco fatto al negozio e alla banca, e per quanto riguardava gli omicidi, Peter sapeva che presto avrebbe avuto il rapporto di polizia promessogli da Matt, assieme a quello del medico legale. Non c’era altro da aggiungere se non che… «Aspetta, Matt! Cosa volevi dire quando hai detto che è… educativo vederci combattere?»

Daredevil era sul punto di andarsene, ma si voltò un’ultima volta, le labbra arricciate in un sorrisetto che avrebbe potuto dire tutto o niente, gli occhi nascosti e indecifrabili, come sempre. «Ah, be’, tu e Deadpool entrate così in sincro che ci sono momenti in cui i vostri cuori battono alla stessa velocità.» Fece una piccola pausa, come se stesse riflettendo. «Non ti dico quanto sia inquietante.»

Peter non rispose niente. Non lo salutò nemmeno. Non aprì neppure la bocca. Lui, il mago delle risposte immediate, il maestro delle battutacce, il signore delle freddure. Se ne rimase lì, come un idiota qualsiasi; lì, con una bottiglia di liquore in mano e il suo migliore amico morto di fronte a lui. Lì, come uno stoccafisso, a scrutare il punto in cui un attimo prima la figura rosso sangue di Daredevil gli aveva annunciato che il cuore di Spider-Man batteva all’unisono con quello di un mercenario immortale; e per un lungo, lunghissimo attimo Peter non fece altro che ascoltarlo, quel cuore che gli martellava contro la gola, irregolare, feroce, finché con un sospiro si sfilò la maschera dal volto e si passò un paio di volte la mano libera tra i capelli arruffati, cercando di non notare quanto gli stesse tremando.

«Ok» dichiarò a voce alta, rivolto a nessuno in particolare. «Ok, va tutto bene.»

Si avvicinò a Wade a grandi passi, posando la bottiglia di liquido ambrato accanto alla panchina e obbligandosi a guardare l’uomo lì disteso per la prima volta da quando questo aveva esalato l’ultimo respiro. A guardarlo davvero.

Pensò all’inizio della loro amicizia, anni prima, quando Peter ancora faticava a sopportarlo, quando cercava di evitarlo in ogni modo, quando Spidey era stato così tanto avviluppato nel cordoglio per la morte di Tony che ben poco era riuscito a sorpassare il muro che aveva sollevato attorno a sé. Quando, suo malgrado, si trovava a ridere per le battutacce di quel mercenario comparso dal nulla… be’, a quei tempi, ogni volta che Deadpool si faceva ammazzare in qualche avventura rocambolesca, il sorridente Deadpool, il sempre-pronto-a-far-casino Deadpool, quello stesso Deadpool che non perdeva occasione per piazzarsi al centro della scena, si assicurava sempre che a vederlo morire non ci fosse mai nessuno.

Come un cane battuto dal padrone, come un animale ferito sul ciglio della strada che sente arrivare la sua ora, Wade si trascinava via dal luogo del combattimento – a meno di non morire sul colpo, certo –, si trascinava via, si rintanava in un vicolo e lì, da solo, dimenticato da tutti, moriva.

L’unica colpa di Peter, all’epoca, era stata quella di essere un diciassettenne con la testa nascosta sotto la sabbia, di essere così tanto incazzato con tutto e tutti che solo di rado riusciva a vedere al di là del proprio naso. E nonostante quello, nonostante Spider-Man fosse lontano anni luce da una persona equilibrata in grado di aiutare e supportare un compagno, ebbene, Spider-Man era stato anche l’unico a non sopportare il fatto che Wade continuasse a morire da solo in mezzo ai rifiuti e, ancora peggio, che Wade continuasse a risvegliarsi da solo in mezzo ai rifiuti.

Ogni volta che gli Avengers – be’, i nuovi Avengers – lo facevano scendere in campo per qualche collaborazione, Deadpool era l’ultimo ingranaggio di un meccanismo che funzionava ancora a scatti e dal quale Peter si sentiva sempre più distante. Deadpool era quello spendibile, quello sacrificabile. Cazzo! Era quasi sempre chiamato appositamente per morire, per fare da esca e rimetterci la pelle. Finché, un bel giorno, con sua estrema sorpresa, Spider-Man si era reso conto che avrebbe preferito passare le proprie notti a saltare di tetto in tetto assieme a Wade Wilson alla ricerca di qualche rapinatore da quattro soldi, piuttosto che partecipare a missioni interminabili a fianco di Capitan America e Bucky Barnes.

E così, per un tempo che a guardarsi indietro pareva lungo decenni, Peter aveva inseguito un Deadpool morente in innumerevoli vicoli, stradine, parcheggi sotterranei, discariche, cimiteri di macchine, giardini privati e angoli appartati di Central Park e lì, con pioggia, neve o sole a picco, aveva aspettato la resurrezione di quello che, da noiosa presenza inopportuna, si era prima trasformato in collega di lavoro e poi, inaspettatamente, in amico.

«Resto qua» gli aveva detto Peter un milione di volte.

«Non è il mio primo rodeo, ragazzino» rispondeva Deadpool a ogni morte. Finché quel “ragazzino” era diventato “ragazzo”, e poi “Spidey” e poi “Peter” e poi “Pete”. E a volte, sempre con tono irriverente, con fare ammiccante, con una strana luce in quegli occhi azzurri che sembravano volerlo trapassare, a volte diventava “baby”, “tesoro”, “bimbo”.

Ma ogni volta Wade moriva. E ogni volta Peter rispondeva un laconico «comunque io resto qua», pur sapendo che l’altro non avrebbe potuto sentirlo.

«Karen» disse quella sera alla maschera che si era tolto dalla faccia perché aveva difficoltà a respirare.

«Sì, Peter?»

«Hai attivato il cronometro?»

«Sì, Peter. L’ordine è di attivarlo ogni volta che Wade Wilson muore.»

Peter emise un altro sospiro. «A quanto stiamo?»

«Venti minuti e trentotto secondi» replicò la vece suadente dell’AI, ovattata dalla maschera che ancora dondolava dalla mano chiusa a pugno di Spidey. «Secondo il pattern che ho calcolato basandomi sulle altre registrazioni, la resurrezione dovrebbe impiegare altri 19 minuti e quaranta secondi circa.»

Ringraziando il genio di Tony Stark che aveva pensato di dotare il suo costume di un sistema di riscaldamento interno, Peter si sedette sul cemento gelido, col gelido vento di fine novembre che gli schiaffeggiava la faccia e lo teneva sveglio. Senza riflettere posò la testa sul sedile scrostato della panchina e socchiuse gli occhi. E se la guancia sinistra di Spider-Mande finì per sfiorare le dita rigide e fredde di Deadpool, be’, nessuno l’avrebbe mai saputo.

«Resto qui» disse per l’ennesima volta, mettendosi a contare i minuti. I secondi. I battiti del cuore.

Se glielo avessero chiesto, Peter non avrebbe saputo dire quando quella strana routine aveva smesso di essere qualcosa che faceva per Deadpool e aveva iniziato a essere qualcosa che faceva per se stesso. Quando il fatto di avere un amico immortale aveva smesso di essere in un certo modo confortante e si era trasformato nell’attesa più spasmodica della vita, in un terrore puro che gli attanagliava la gola e gli impediva di respirare.  

Attese con pazienza, perché c’era ben poco che potesse fare, perché non aveva senso caricarsi Deadpool in spalla e portarlo a casa, perché aveva imparato da tempo che Wade preferiva risvegliarsi dove era morto, o a poca distanza, e soprattutto perché Spider-Man era davvero, davvero esausto. Aprì la bottiglia lasciatagli da Matt e prese un sorso, tanto per fare qualcosa. Il liquore gli bruciò la lingua, il palato, la gola. Gli scese giù nello stomaco come un pugno, come una medicina amara che si fatica a buttare giù e con una smorfia richiuse la bottiglia.

Guardando l’ora si accorse che erano passati solo quattro minuti.

Tutto attorno a lui New York ululava alla luna i suoi problemi di creatura ibrida, fatta di metallo e carne, di contraddizioni, di gioie e di follie, di santi e criminali. Di piccoli orfani trovati morti nei vicoli. A loro, a lui, a Deadpool, a Matt… a tutti i vigilanti mascherati che ne pattugliavano le strade toccava la parte mostruosa della città, quella che usciva fuori di notte, che faceva casino. Quella di cui, purtroppo, non riuscivano a fare a meno.

Un colpo di tosse improvviso lo riscosse dai suoi pensieri e con un senso di stupore misto a bruciante, intenso sollievo, si accorse che Wade era tornato in vita prima del previsto.

Avrebbe voluto urlargli contro, vomitargli addosso tutto quello che sentiva stretto nel petto da mesi, forse da anni interi, ma quanto sarebbe stato egoista da parte sua? Quindi si limitò a voltarsi in fretta, ritrovandosi gli occhi grandi e sgranati della maschera di Deadpool che lo fissavano con muto dolore, incomprensione distante. Senza fare movimenti bruschi Peter allungò una mano in avanti e gli sfilò via dal volto il tessuto bruciato e mezzo distrutto. Wade e il suo sguardo trasparente lo trapassarono da parte a parte.

Peter deglutì a vuoto. «Bentornato» gli disse, perché era quello che diceva sempre, perché quella era la parte più facile e perché il silenzio, tra loro due, non aveva mai funzionato.

Wade sbatté le palpebre, passandosi poi una mano su volto, grugnendo la propria insoddisfazione. «Perché ho come l’impressione che mi sia esplosa una bomba in faccia?»

«Perché ti è esplosa una bomba in faccia.» Peter sollevò la bottiglia facendo sciabordare il liquido al suo interno. «Sete?»

Wade si sollevò a sedere con un brontolio, passandosi una mano guantata sulla testa e controllando eventuali danni non ancora sistemati, ma sembrava a posto quando accettò l’offerta con un sorriso dei suoi: storto, ampio, che gli cancellava dal volto dieci anni e ogni cicatrice. «Potrei seriamente pensare di sposarti.»

«Ah-ah. Dovresti pensare a sposare Matt: è lui che te l’ha lasciata in pegno.»

«Un pegno d’amore» gorgogliò la voce di Wade tra un sorso e l’altro. «Senza dubbio. Dio! Morire è sempre una merda per il mio povero stomaco.»

Peter gli sorrise meccanicamente, incapace di nascondere il sollievo sul volto. Non sentiva quasi più nemmeno il dolore alla spalla. «In tal caso, non credo che l’alcol aiuti.»

Deadpool si asciugò un rivolo di liquore che gli stava scivolando lungo la mandibola per andare a svanire sotto la gola, tra le pieghe dello spandex stretto attorno al collo. «Cosa ne sai tu, puritano da strapazzo?»

Peter avrebbe potuto continuare la conversazione leggera che Wade si stava sforzando di tenere in piedi, avrebbe potuto lasciar perdere, così come lasciava perdere a ogni singolo “non è il mio primo rodeo, bimbo” e ad ogni “bentornato” sussurrato nelle ore più assurde della notte e invece, invece scelse la domanda sbagliata.

«Come stai?»

Ci fu un attimo di silenzio, gli occhi di Wade che saettarono dal collo della bottiglia verso Peter e poi di nuovo sulla bottiglia. La chiuse. «Mai stato meglio, Spidey.»

Era un invito a non entrare nella caverna del mostro, a finirla lì. Un invito che Spider-Man, da quell’idiota che era, da quello stupido ragazzino che sotto sotto era rimasto, un ragazzino a cui non era mai passata la voglia innata di salvare il mondo e tutti quelli che vi abitavano, scelse di non cogliere. «Sai? Tanto per cambiare, tanto per movimentare un po’ le cose, potresti dirmi la verità.»

Wade sbatté le palpebre, fingendosi confuso, oppure confuso per davvero. «Prego?»

«Ti ho fatto una domanda, mi aspetto una risposta.»

L’aria si riempì d’improvvisa tensione e le spalle di Peter tornarono a fare male, a pulsare dolorosamente strette nella morsa del suo stress, dell’ansia mal trattenuta. Al contrario suo, Deadpool sembrò quasi sciogliersi sulla panchina su cui era ancora seduto, allargò le gambe e si accomodò sullo schienale. C’era stato un tempo in cui rimanere così tanto a volto scoperto lo avrebbe fatto impazzire. Per fortuna almeno quel problema sembrava essere risolto.

«Sissignore, signor Spider-Man» ironizzò Wade con un tono di voce che aveva perso ogni briciola di calore. «E che tipo di risposta gradisce, questa sera?»

«La verità sarebbe un piacevole diversivo, una volta tanto.»

D’improvviso Wade gli fu quasi addosso, completamente sporto in avanti, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, le labbra strette in una linea dura e gelida. Si era mosso con rapidità estrema, con l’abilità che lo rendeva il mercenario più famoso e richiesto d’America. Peter non diede alcun segno di disagio e i suoi sensi di ragno, come sempre, rimasero muti e inattivi.

«Non puoi gestirla, la verità, ragazzino.»

«News flash» replicò Peter stringendo i denti con forza. «Non sono più un ragazzino da qualche anno, Deadpool.»

Wade gli rivolse una smorfia. «Dice di non essere un ragazzino solo chi si comporta da ragazzino.»

«Se decidi di farti ammazzare per me» continuò il vigilante con estrema calma, o almeno con un tono di voce che avrebbe voluto simularla, «non mi sembra che chiedere una risposta sincera alla domanda “come stai?” sia chiedere troppo.»

L’altro si fece indietro e Peter si chiese se potesse in effetti sentire quanto il cuore gli batteva, quanto quella discussione lo stesse spingendo oltre il limite, oltre quel muro accuratamente eretto per tenere tutto fuori, tutti fuori.

«Hai ragione» sbottò Deadpool incrociando le braccia sul petto. «La prossima volta lascerò che sia il tuo bel culo a saltare in aria, così poi sarò io a chiederti “come stai?”. A no, aspetta, non potrò farlo… perché quando il tuo culo salta in aria, è un addio per sempre, ka-boom, adieu, auf Wiedersehen

Spidey schizzò in piedi come una molla. Avrebbe voluto tirargli un pugno in piena faccia e al contempo sentiva il bisogno di allontanarsi da lui il più velocemente possibile prima di fare qualcosa di cui si sarebbe pentito. «Non ti ho mai chiesto di morire per me.»

Troppo stupito per fare alcunché se non rimanere lì seduto e seguire i movimenti sconnessi di Spider-Man, Wade aggrottò la fronte. «E che cazzo vorrebbe dire? Muoio per un sacco di gente, Spidey. Ti direi che tu non sei niente di speciale, ma sappiamo entrambi che sarebbe una bugia bella e buona e ho promesso a Babbo Natale di fare il bravo, quest’anno.» Poi, vedendo che Peter si era limitato ad allontanarsi un po’ per posare la fronte contro il freddo metallo di un palo della struttura per stendere il bucato, Deadpool continuò più gentilmente: «Senti, lo so che sei stressato per questo casino dei fratelli Spencer, lo so che il fatto che nessuno degli Avengers voglia aiutare ti manda ai pazzi. E capisco anche che sei distratto e che la gente distratta compie passi falsi. Si dà solo il caso che nel nostro campo compiere passi falsi porti spesso all’altro mondo. Ma, ehi! Per fortuna hai sempre con te il tuo amichevole mercenario immortale di quartiere!»

Al tono di voce non curante usato da Wade, Peter si voltò piano, le mani strette a pugno, il cuore che gli rombava nel petto senza tregua, nella testa la voglia di fare qualcosa di stupido, oh così stupido. Si obbligò a rimanere immobile e quasi non registrò il fatto che anche Wade si era alzato in piedi e aveva compiuto qualche passo verso di lui e lo scrutava con aperta curiosità.

«Non hai la minima idea di cosa voglia dire per me, vero?» si arrischiò a dire alla fine, perché non ce la faceva più. Spider-Man era stanco e non gli importava che l’intera conversazione che stavano avendo viaggiasse su due binari completamente diversi. Era quasi sempre così, con Wade.

Wade, la cui espressione cambiò repentinamente, il cui sguardo accogliente si fece asciutto, quasi tagliente. «Ah, sì, posso solo immaginare quale tortura cinese sia per te vedermi morire e tornare in vita! Oh no, fatelo smettere, vi prego! Morte per interposta perso– EHI!»

Non era facile interrompere Deadpool quando iniziava una delle sue tirate, e non era facile farlo soprattutto quando la tirata era dovuta a frustrazione mista a rabbia e confusione. Eppure Peter, da quell’esperto del carattere di Wade Wilson che era diventato, ci riuscì con estrema abilità.

Invece di tirargli un pugno come forse sarebbe stato meglio, fece l’altra cosa che aveva cercato di trattenersi dal fare per tutto quel tempo e per innumerevoli resurrezioni precedenti. Mosse due passi traballanti verso Deadpool, registrando a malapena di star calpestando tutte le piantine aromatiche amorevolmente piantate dagli inquilini di quel palazzo, si spostò quasi barcollando, ma si spostò in ogni caso, lo afferrò per la tuta rosso-nera, aggrappandosi a un pugno di spandex, cercando di evitare le eventuali macchie di sangue e sporcizia e lo tirò verso di sé con decisamente più forza di quella che sarebbe stata necessaria. E così, invece di tirargli un pugno, lo baciò.

Non fu niente di delicato, perché erano entrambi arrabbiati per cose diversissime, perché erano entrambi frustrati da anni di mordi e fuggi, anni fatti di allusioni che non conducevano mai da nessuna parte e di una tensione alle volte positiva e alle volte negativa che viaggiava tra di loro alla velocità della luce e che la maggior parte della gente non notava o fingeva di non notare. Per Peter fu come una vertigine, gli parve di lanciarsi giù da un grattacielo senza la sicurezza delle ragnatele, senza nessuno a poterlo afferrare o trarre in salvo. Gli parve di scende sott’acqua senza sapere dove fosse il sopra e il sotto, con l’aria che gli bruciava nei polmoni e il cuore che, bum-bum-bum, batteva al ritmo delle onde distanti.

Durò pochissimo tempo, i secondi necessari a Wade per rendersi conto di quello che stava succedendo, aprire le labbra, emettere un sospiro scioccato e sollevare una mano, forse per spingere Peter via da lui, forse per mettergliela tra i capelli, tirarselo addosso, qualcosa, qualsiasi cosa.
Ma Peter si fece indietro, rapido, scattante, i suoi sensi di ragno che per la prima volta da quando conosceva Wade gli bombardavano le sinapsi con l’avvertimento “scappascappascappa”.

«Oh no» esalò con voce flebile, il sapore di alcol lieve ed esilarante sulla lingua, la sensazione della pelle di Wade, ruvida, bollente, che non lo lasciava andare. «Oh, nonono.»

«Pet–»

Ma Peter non rimase lì a sentire quello che Wade aveva da dire – Wade, con i suoi occhi azzurri sgranati, le pupille dilatate, la mano sporta verso di lui come a chiamarlo a sé –, perché, da quel codardo che era, da quell’egoista che si era appena dimostrato, saltò giù dal tetto e fuggì verso casa.

E quindi, in fin dei conti, a pensarci davvero bene, la colpa di tutto il casino in cui Spider-Man si era ritrovato era, in effetti, solo di Spider-Man.



Note: il titolo di questo capitolo è tratto da Morirò da re, dei Måneskin 

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Capitolo 4
*** E pagherei per andar via, accetterei anche una bugia ***


4. E pagherei per andar via, accetterei anche una bugia

Con gli occhi che lacrimavano dalla stanchezza, Peter lanciò uno sguardo all’orologio e si accorse che ormai avrebbe avuto ben poco senso mettersi a dormire, così fece quello che non faceva da tre giorni. No, non si mise a pensare a quel cazzo di bacio, perché il suo cervello ormai si alternava quasi solo tra quello e il pensiero fisso dei fratelli Spencer. No. Decise però di aprire la chat privata che aveva con Deadpool e, da buon codardo, evitò con cura di leggere i messaggi più recenti, per tornare indietro nel tempo, molto indietro, a quando ancora il loro rapporto sembrava avere un senso, ma camminava comunque sul filo di lama ed era chiaramente sul punto di precipitare in un baratro.

Potevano passare giorni interi in cui non si sentivano, poi a volte trascorrevano tre ore – ore in cui Peter avrebbe di certo potuto dormire, o lavorare, o studiare – a sparare una cazzata dopo l’altra come gli adolescenti che sotto sotto ancora erano. C’erano giorni in cui Wade, con un laconico messaggio di poche sillabe, si autoinvitava nell’appartamento che Spider-Man condivideva con Ned, e tutti e insieme ai due giovani si abbrutiva davanti alla tv, a giocare a Mario Kart. C’erano giorni in cui Wade gli dava il buongiorno, o la buonanotte. C’erano giorni in cui era Peter a scrivere, a chiedere se le cose andassero bene a chiedersi che cosa mai avrebbe potuto fare se le cose non fossero, in effetti, andate bene.

E c’erano giorni in cui Wade gli mandava messaggi del genere:

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Peter fissò lo schermo del cellulare, rileggendo la conversazione avvenuta mesi prima, cliccando di nuovo sulle pagine di YouTube e riascoltando le canzoni a volume basso per non svegliare Ned, che di certo dormiva nella stanza accanto.

L’idea che Wade gli avesse mandato “I wanna be your slave” per delle intenzioni non proprio innocenti gli era passato per la mente quasi subito, non era così scemo da non rendersene conto. Aveva ascoltato la canzone trattenendo il fiato, mentre un qualcosa di caldo e inopportuno si faceva strada nel suo stomaco, gli inondava la cassa toracica e lo faceva deglutire a fatica.

Aveva chiuso la conversazione, perché non voleva entrare in territori pericolosi, perché non voleva rovinare nulla di quello che aveva con il mercenario, perché la sanità mentale di Spider-Man dipendeva ormai quasi esclusivamente da quanto a lungo sarebbe riuscito a tenersi strette le persone che amava. E non era mai stato bravo in quel gioco.

Però. Però, invece di dormire, si era messo ad ascoltare le canzoni più popolari dei Måneskin. Aveva cercato i singoli, soprattutto le canzoni in inglese e aveva definitivamente capito di essere un idiota di alto livello quando, dopo essere riuscito a chiudere in modo perfettamente civile una conversazione pericolosa che avrebbe potuto degenerare se solo Peter si fosse azzardato a dare a Wade il minimo segno di quanto avrebbe voluto che degenerasse, be’, il suo cervello aveva avuto la brillante idea di fare quello.

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«Stupido stupido stupido» aveva detto a mezza bocca, fissando come ipnotizzato lo schermo del telefono. Nell’esatto momento in cui aveva inviato il secondo messaggio se n’era pentito, ma Deadpool aveva già visualizzato.

Ci aveva solo messo un po’ a rispondere, e quel “bimmmmbo” con la M allungata aveva come riverberato nel cervello di Peter. Se l’era immaginato dal vivo, con la cadenza che Wade sapeva dare alle parole, la voce densa come una colata di qualcosa di bollente. Era un suono che aveva il potere di insinuarglisi sotto la pelle e distrarlo, trascinarlo via.

«Perché stai fissando il telefono come se volessi bruciarlo?»

Era tardi, ma non troppo tardi perché Ned fosse già a letto. Peter aveva sollevato la testa rendendosi conto di essere quasi piegato in due sul divano di casa, con la testa totalmente abbassata sul cellulare e gli occhi sgranati di un animale in trappola.

Ned l’aveva guardato impassibile. «A chi hai scritto cosa, stavolta, sentiamo?»

Peter aveva scosso il capo, bloccando lo schermo, incapace di credere di aver appena inviato quel tipo di canzone a uno come Wade. Incapace di credere di averlo fatto e aver poi fatto finta di niente. Aveva lanciato il sasso e nascosto la mano.

Col senno di poi si sarebbe accorto che quello era il suo modus operandi, apparentemente.

«Eeeeh, di' a zio Ned cosa hai combinato, forza!»

Peter aveva scosso il capo, sconsolato e sconvolto al tempo stesso. «Non fare quella voce, è super creepy!»

L’amico si era seduto pesantemente accanto a lui, aprendo un pacchetto di patatine e offrendogliene una manciata, subito rifiutata. «Tanto lo sai che finirai per dirmelo. Togliti il dente adesso.»

Peter si era tolto il dente facendogli ascoltare la canzone a volume abbastanza alto. Nonostante il panico crescente al pensiero di aver mandato quella roba a Wade si era ritrovato suo malgrado a battere il piede a terra, a ritmo della voce roca del cantante.

«Leggermente esplicita, no?» aveva ridacchiato Ned tra una manciata di patatine e l’altra.

Senza una parola Peter gli aveva fatto leggere la conversazione appena avuta con Wade osservando con orrore come gli occhi del suo migliore amico si ingrandissero man mano che scorreva la chat.

«Wow» fece Ned dopo un secondo di orribile silenzio, schiarendosi la voce. «Hai mandato a Deadpool una canzone in cui letteralmente viene detto “dammi un ordine e obbedirò perché la mia musica preferita è il tuo aah-aah”?! Dove con “aah-aah” s’intende il suono specifico che viene prodotto durante un rapporto sessuale?»

Peter si era guardato attorno, scrutando con crescente disperazione il loro minuscolo appartamento, come se dalla loro mobilia potesse giungere un aiuto inaspettato. I muri scrostati, i divani in pelle che avevano visto giorni migliori, la televisione gigante che proiettava un film dimenticato e da tempo messo in muto, niente venne in suo soccorso. L’unica lampada accesa era quella nell’angolo, ma nemmeno la vaga oscurità dell’ambiente gli impedì di notare il divertimento scritto a grandi lettere sulla faccia di Ned.

«Forse?» tentò dopo un secondo.

Sollevando le sopracciglia Ned gli indicò la chat ancora aperta, in cui era ben evidente che la canzone l’aveva mandata eccome. «A casa mia questo si chiama flirtare. Anzi. A casa mia questo si chiama–»

«Non dirmelo» l’aveva interrotto Spider-Man coprendosi la faccia con le mani. «Sono un deficiente.»

C’era stato un intenso momento di quiete in cui Peter si era lasciato cadere all’indietro sul divano e aveva fissato il soffitto, sconsolato. A volte avrebbe voluto tornare a quando aveva diciassette anni e tutto nella vita gli era sembrato chiaro e cristallino. Non ricordava più che a diciassette anni non avrebbe voluto altro che averne venticinque.

«Peter, per quel che vale, a me Wade piace» aveva detto a quel punto Ned, con un tono di voce stranamente serio, misurato.

L’altro l’aveva guardato con la coda dell’occhio, pensando a uno scherzo, ma scorgendo solo un lieve disagio, come se la conversazione stesse mettendo Ned a dura prova. Aveva aperto la bocca per dire qualcosa, ma l’amico l’aveva prevenuto. «Non voglio mettermi in mezzo o niente del genere, ma tra tutti i pazzi che hai conosciuto da quando sei diventato Spider-Man penso che Deadpool sia il meno pazzo di tutti.»

«Ma se quando l’hai conosciuto per poco non te la sei fatta sotto!»

«Non è colpa mia se va in giro armato fino ai denti!»  

Avevano riso insieme e la conversazione era morta lì, con Peter che cercava di capire come fosse possibile che Deadpool, la persona che era considerata da tutti gli altri supereroi come la più instabile tra le loro conoscenze, fosse invece considerata dai suoi amici come la meno fuori di testa di tutti.

Sta di fatto che da quella sera fino alla fatidica notte in cui Peter aveva pensato bene di baciarlo, Wade non aveva perso occasione di canticchiare MAMMAMIA tra sé e sé, o di bisbigliarla all’orecchio di Spider-Man, o metterla sul cellulare, o farla filtrare in modo stupidamente astuto dagli auricolari. L’aveva persino messa come suoneria e Peter non aveva mai ringraziato così tanto la presenza di una maschera a coprirgli la faccia, che puntualmente e senza che lui potesse farci un bel niente, arrossiva fino alle orecchie.

Wade era anche quello: Wade aveva la capacità di farlo sentire come un povero ragazzino impacciato e allo stesso tempo come una persona che ha tutte le risposte a tutte le domande del mondo. Wade sapeva prendere in mano la situazione e gestire il pericolo come il professionista che era, ma allo stesso tempo trattava Peter come un suo pari, si affidava a lui otto volte su dieci e la metà di quelle volte finiva spiaccicato contro una parete, o morto o in fin di vita. Eppure, in nessuna occasione gliene aveva fatto una colpa. Tornavano a casa insieme, malconci e distrutti dalla guerra che combattevano ogni notte contro le ombre di New York; mangiavano pizza fredda innaffiandola con birra calda di fronte a qualche robaccia trash che Wade sceglieva a caso su Netflix. Giocavano ai videogiochi fino all’alba, come se Peter non avesse un lavoro alla Stark Tower a cui presentarsi o lezioni da frequentare, come se Wade non passasse il tempo libero a far fuori gente per soldi in qualche remoto paese del sud-est asiatico. Saltavano di palazzo in palazzo, di missione in missione, di notte in notte e, sì, Wade scherzava, Wade giocava, Wade gli chiedeva di sposarlo, gli diceva di adorarlo, gli ripeteva allusioni che allusioni non erano, ma non avevano mai superato quella linea, mai affrontato quell’energia statica che sedeva in mezzo a loro. Non avevano mai davvero rischiato nulla, tranne le loro vite, mille e mille volte.

Quindi perché rompere l’equilibrio? Perché Peter non era riuscito a imbottigliare i suoi istinti come aveva sempre fatto, e perché, per l’amor del cielo, non era ancora riuscito ad affrontare le conseguenze delle proprie azioni?

Sconsolato, scrollò l’intera conversazione per tornare al presente e scrutò con rabbia gli ultimi messaggi che si erano scambiati. O meglio, che Peter aveva ricevuto senza mandare risposta.

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Peter rilesse la conversazione per l’ennesima volta, ripensando al consiglio di Ned che gli diceva di risolvere quel casino al più presto, perché Wade non se lo meritava, perché Wade era già stato abbastanza paziente nel non tempestarlo di messaggi, nel non fargli agguati nella notte, nel non pretendere la conversazione risolutrice di cui in effetti avevano estremo bisogno.

Così, con un senso di colpa potente che gli attanagliava le viscere scrisse finalmente una risposta che in realtà risposta non era:

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Pazzesco come nei cinque minuti (uniti ai sei giorni interi) che Peter aveva impiegato per pensare a cosa scrivere, fosse riuscito pure a eliminare un messaggio. Come se avesse importanza. Come se dopo tutto quel silenzio e quel fare di tutto per evitare il problema – per evitare Wade –, una qualsiasi parola da parte sua avrebbe mai potuto sistemare davvero le cose.

Era già tanto che Deadpool non lo avesse bloccato.

Però, nel frattempo, i messaggi non arrivavano a destinazione.

Peter meditò se aggiungere le novità sul caso dei fratelli Spencer, poi si diede dell’idiota per l’ennesima volta e si disse che se Wade aveva dovuto aspettare quasi una settimana perché Spider-Man si facesse vivo, be’, Spider-Man avrebbe potuto aspettare qualche ora affinché i messaggi fossero consegnati. Poco importava che sul cadavere trovato a Hell’s Kitchen fosse stato rinvenuto del sangue di Julia Spencer: il fatto che i tre omicidi fossero collegati non aveva prodotto nulla, tranne un iniziale momento di euforia per Peter. Dopo due giorni, però, si era reso conto che i due ritrovamenti non avevano nient’altro in comune e che l’assassino era virtualmente ancora del tutto sconosciuto.

Fu allora che la sveglia decise di suonare facendolo sussultare e facendogli perdere la presa sul cellulare, che gli cadde dolorosamente sul naso. Un ottimo inizio di giornata.

Lavorare alla Stark Tower rappresentava la parte adulta della vita di Peter Parker, così come frequenta il corso di biomeccanica all’università rappresentava solo Peter, la parte che ancora lo legava a quel ragazzino un po’ goffo che faceva esperimenti nel bagno di casa. Entrambi gli impegni, però, rappresentavano senza dubbio la parte normale della sua vita. E a volte Peter odiava la sua vita.

Trascinandosi come uno zombie nella minuscola cucina dell’appartamento con un grugnito salutò Ned, che rispose con un identico grugnito, affrettandosi a fare il caffè con gli occhi semichiusi. Nell’attesa, Peter controllò la chat ancora aperta, ma non c’erano segni di vita.

Sul tavolo della colazione c’erano i rapporti della polizia da cui Ned si teneva a debita distanza, dato che contenevano anche le foto di Mark e Julia e del senzatetto, che di nome faceva Fred Johnson. Peter tentò di richiamarli a sé con la forza del pensiero, ma non riuscendovi si limitò ad allungarsi sul tavolo e trascinarseli davanti agli occhi. Li sapeva a memoria, ma non per quello aveva smesso di rileggerli.

I due amici finirono di fare colazione insieme, come di rado succedeva, scambiandosi solo qualche monosillabo, Ned che scrollava Facebook, Peter che scrollava le analisi del medico legale. Si salutarono pochi minuti dopo, ognuno diretto alle proprie normali vite di venticinquenni e Peter controllò di nuovo la chat.

Ancora nulla.

Prendendo un bel respiro aprì la conversazione privata che teneva con Daredevil e gli inviò un vocale per nulla ragionato, che era frutto della sua totale impazienza e chiara stupidità. «Ehi, Matt… senti. È un paio di giorni che non parlo con Deadpool. Abbiamo…err, avuto una discussione. Per caso sai se sarà in giro stanotte?»

Ebbe appena il tempo di arrivare al piano terra che ricevette la risposta, quindi si immaginò Matt al tavolo della colazione che era costretto a far fronte ai suoi drammi sentimentali senza peraltro averne la minima idea.

«Wade è fuori dal paese fino a domani notte. Strano che non ti abbia avvertito, ma adesso mi spiego perché ha deciso di avvertire me…»

Peter notò con disappunto un tono ironico, così, come piccola vendetta personale inviò una serie di emoji che il lettore automatico di Daredevil avrebbe avuto qualche problema a tradurre in parole e poi si sentì automaticamente in colpa. Era una sensazione che doveva imparare a scrollarsi di dosso, perché ormai viveva avviluppato in un senso di colpa perenne che rendeva le cose molto più difficili da gestire.

Almeno adesso aveva la conferma che Wade non aveva deciso di tagliare i ponti con lui. Probabilmente aveva spento ogni forma di comunicazione mentre era fuori per uno dei suoi… lavori. Lavori a cui Peter preferiva non pensare, ma era anche vero che ultimamente Deadpool prendeva soltanto incarichi quando i target erano i peggiori dei peggiori, quindi Spider-Man non se la sentiva di lamentarsi.

Entrare a lavoro con zero ore di sonno sulle spalle fu peggiore del previsto e la sua mente si alternava senza freni sull’assassino ancora in circolazione, sul fatto che nessuno oltre Wade e Matt sembrava prendere la cosa sul serio e su ciò che avrebbe detto a Deadpool una volta che fossero stati di nuovo faccia a faccia.

Alla Stark Tower, Pepper aveva fatto in modo di assumerlo come tirocinante, ma in realtà Peter aveva un laboratorio tutto suo dove poteva sviluppare progetti legati ai suoi interessi personali e dove cercava di collegare gli studi di bioingegneria a progetti pratici per gli Avengers, ma non solo. Prima di assumerlo, Pepper si era offerta di finanziare una borsa di studio creata appositamente per lui e perfino di pagargli una casa vicino all’università.
Peter aveva rifiutato immediatamente e la donna si era dovuta accontentare di fargli un’assunzione proforma. A quella proposta Peter non aveva saputo proprio dire di no, e in ogni caso zia May l’avrebbe ucciso se solo ci avesse provato. Inoltre, alla Stark Tower c’era sempre l’opportunità di imbattersi in Morgan, soprattutto nelle ore pomeridiane e Peter adorava la figlia di Tony e Pepper.

Quindi sì, lavorare all’interno della compagnia del suo vecchio mentore, scambiarsi consigli col dottor Banner a ogni ora del giorno, e in più avere la possibilità di veder crescere l’unica figlia di suddetto mentore era una benedizione, per Peter. Ma quel giorno, alle undici di mattina e al termine del quarto caffè i suoi occhi continuavano a chiudersi in automatico e il ragazzo decise che, per quanto quel lavoro gli piacesse, si meritava almeno una piccola pausa.
Si stava dirigendo alla caffetteria del piano terra con passi pesanti quando il cellulare di Spider-Man si mise a suonare.

Peter lo estrasse dalla tasca del camice da laboratorio con dita appiccicose, sperando senza grande speranza che fosse Wade. Invece era un numero sconosciuto. Con un sospiro stanco si portò il telefono all’orecchio.

«Sì?»

«Spider-Man?» replicò subito una voce roca e vagamente familiare.

Peter si grattò la testa. «Dipende da chi vuole saperlo» decise di dire dopo un secondo, abbastanza certo che, se qualcuno era riuscito a ottenere il suo numero, non aveva granché senso mentire.

«Wilson mi ha dato il tuo numero, ragazzo. Chiamo per conto del professor X.»

Sbattendo le palpebre Peter si fermò in mezzo al corridoio, il cuore che d’improvviso gli saliva nella gola, le mani appiccicose di sudore e mucosa. Deglutì a vuoto. «Wolverine?»

Wade gli aveva parlato di Wolverine. In realtà Peter l’aveva incontrato anni prima, brevissimamente e solo durante una delle rare situazioni in cui Avengers e X-Men si trovavano a combattere fianco a fianco. Non si erano mai scambiati una parola e Peter all’epoca era stato poco più di un ragazzino. A quanto sapeva la mutazione di Wade aveva a che fare con la mutazione di Logan e Deadpool gli era sempre sembrato particolarmente affezionato all’X-Man, come una sorta di fan un po’ molesto. Aveva anche intuito che Logan sopportasse la presenza di Wade a malapena. Quindi per quale motivo gli stava telefonando, se non per comunicargli qualche orribile, orribile notizia?

«Perspicace» borbottò la voce distante dell’uomo. «Abbiamo dato un’occhiata agli omicidi di cui tu e quel cretino vi state occupando.»

Oh.

«Oh?» Peter si sentì stringere gli intestini in una morsa. Nonostante Wade avesse tutto il diritto di essere estremamente incazzato con lui, e nonostante fosse fuori città, aveva trovato il tempo di indagare su qualcosa che stava a cuore a Peter. Si era sentito una merda tante volte in vita sua, ma quella mattina la sensazione lo lasciò quasi senza fiato.

«Un tipo di poche parole, eh? Strano. Mi avevano detto che riesci a blaterare quanto e più di Wilson, quando ti ci metti. Comunque. Passo l’informazione: a quanto sembra tutti i tuoi cadaveri avevano un qualche tipo di fattore di guarigione. Chi più, chi meno. La ragazzina sembrava particolarmente dotata, ma non c’è tanta gente in grado di rigenerare interi organi. Soprattutto il cuore. Una merda, lasciatelo dire.»

Peter si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore. Si sentì accaldato, l’informazione che gli penetrava nel cervello, sommandosi alle altre cose che già conosceva. L’ubicazione dei corpi, il cuore estratto, il sangue delle vittime precedenti trovato sulla terza vittima. Che diavolo voleva dire? Che accidenti pensava di fare la persona che si divertiva a operare su gente in grado di rigenerarsi?

«Come avete fatto a scoprirlo? Non c’era nei rapporti dei medici legali.»

Peter lo sentì inalare qualcosa, come se stesse prendendo una boccata da una sigaretta o da un sigaro. La voce di Wolverine si fece ancora più roca quando rispose. «Gli stronzi dello S.H.I.E.L.D. tengono un archivio con tutti i mutanti registrati. A volte lo usiamo per cercare la gente che se la passa male.»

Ci fu una breve pausa e per un secondo Peter credette che la conversazione sarebbe finita lì; invece, Logan decise di aggiungere qualcosa che era forse più a beneficio di Wade che di Spider-Man: «Non sono informazioni che diamo a chiunque.»

«Io… grazie.»

La risposta fu un generico borbottio e Peter fece per allontanare il telefono dall’orecchio e chiudere la chiamata, ma la voce di Logan lo fermò. «Ehi ragazzino» disse, probabilmente ignaro della vera età di Peter, ma per uno con l’età di Logan – era bicentenario o roba simile, no? –  probabilmente tutti sembravano ragazzini. «Di’ a quell’idiota in calzamaglia di chiamare, se le cose si mettono male. Questa faccenda riguarda anche noi, non solo la tua città.»

Per qualche motivo, l’idea che per Wolverine New York fosse la città di Spider-Man riempì il petto di Peter di stupido orgoglio, una cosa di cui si vergognò quasi all’istante, ma sperò che non gli si leggesse nella voce quando rispose un semplice «Glielo dirò quando lo vedo, signore». Poi si portò una mano agli occhi, stropicciandoseli, sentendosi come un povero idiota per l’uso di quel “signore”.

L’ultima cosa che udì fu la risata catarrosa di Logan che chiudeva la chiamata.

Dieci secondi dopo stava già scrivendo nella chat dei Cappuccetti Rossi.

Sapeva che nei confronti di Matt sarebbe stato più gentile mandare un vocale, ma non se la sentiva di parlare a voce alta delle sue faccende di Spider-Man in mezzo a un corridoio della Stark Tower. Era già stato abbastanza fortunato a non dire troppo durante la telefonata con Wolverine.

Ho delle novità importanti, scrisse nella chat, camminando a testa bassa, la stanchezza della notte insonne che pesava sulle sue spalle ormai quasi del tutto dimenticata. Ci vediamo stasera sul solito tetto di Hell’s Kitchen, alle 11.

Non era una domanda, non era una gentile richiesta. Non era nemmeno un ordine. Era una vaga speranza che Wade ricevesse il messaggio, che fosse tornata dalla sua missione all’estero, qualsiasi cosa ci fosse andato a fare. Che non fosse così tanto arrabbiato con lui da non accettare.

Matt fu il primo a rispondere un lapidario OK, che Peter chiaramente si aspettava.

Per la risposta di Wade, però, il ragazzo dovette attendere metà giornata, durante la quale ogni dieci minuti controllava i messaggi per vedere se almeno fossero stati consegnati, letti, qualsiasi cosa. La risposta arrivò alle quattro, quando Peter era intento a fare altro. Quasi perse la presa su una provetta quando il cellulare gli vibrò sul tavolo.

Deadpool aveva inviato un’unica emoji: un pollice all’insù.

I messaggi nella chat privata tra lui e Peter rimanevano invece senza risposta, ma almeno erano stati ricevuti e letti.

Nonostante la sua indifferenza, all’idea che Wade fosse tornato in America, che fosse di nuovo presente in quel dedalo di strade e vicoli che formavano New York City, riempì Peter di uno strano, inaspettato senso di speranza.

Come se, con la sua semplice presenza, Wade potesse risolvere ogni problema.

Dio, cos’era diventata la sua vita?



Note: Il titolo di questo capitolo è tratto da Brividi di Blanco e Mahmood. 
Mi scuso enormemente per la settimana di ritardo nel postare, ma venerdì 18 febbraio ho perso 30 anni di vita quando ho rovesciato la mia borraccia d'acqua sul computer. Ne è seguita una settimana terribile in cui il mio bambino è andato all'ospedale dei computer e io sono stata chiusa in biblioteca a cercare di lavorare alla tesi con le tastiere orribili che hanno qui in Francia (vivo in Francia), dove la A e la Q sono invertite, la M sta al posto della nostra ò e la mia vita fa chiaramente schifo. Vabbe, ormai il peggio è passato e il mio bambino è tornato a casa sano e salvo.
On the bright side, visto che questo è un capitolo estremamente filler con solo una spruzzatina di trama, tra domani e martedì posterò il capitolo 5, col POV di Wade, che spero possa far ridere un po'. 

 

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Capitolo 5
*** E non c'è taglio, non c'è cicatrice che questa passione non possa curare ***


5. E non c'è taglio, non c'è cicatrice che questa passione non possa curare

Wade si svegliò dopo un lungo sonno ristoratore, il che era molto strano dato che non dormiva in modo decente da prima della sua mutazione. E non si trattava di un eufemismo: solo di rado era riuscito a dormire per più di due ore di fila in una notte.

Il suo corpo naturalmente non ne subiva danni, ma il cervello, be’… quello era tutta un’altra storia.

Quindi, svegliandosi lentamente, come dopo una di quelle dormite che ricordava vagamente dai tempi della sua infanzia perduta, quando si appisolava nel rifugio sotto il letto durante i fiacchi pomeriggi estivi, seppe subito che qualcosa non andava.

Non che fosse un fatto strano, non in quella vita di merda che continuava a rimanere attaccata alla sua pellaccia con una resilienza che ormai Wade trovava vagamente offensiva, ma era quasi una settimana che mancava da quel pozzo di liquami che recentemente New York era diventata e l’unica cosa che non vedeva l’ora di fare era sparare contro la silhouette acrobatica di un certo aracnide. Per poi, una volta mancato il bersaglio, spingere suddetta silhouette contro un muro e farle dimenticare nome, cognome e pseudonimi eventuali. Sempre che gli fosse permesso, ovvio.

Invece di questa dolce e potenzialmente pericolosa speranza, Wade si svegliò da qualche parte che non era il suo letto e, partendo dal fatto che gli occorsero diversi secondi per capire dove effettivamente si trovasse, capì anche che per esservi portato senza che lui se ne fosse accorto qualcuno doveva averlo iniettato con roba potente. Roba estremamente potente, visto che il corpo di Wade Wilson era famoso per assorbire qualsiasi cosa gli venisse proposta come una spugna assorbe l’acqua sporca dei piatti nel lavello.

«Dio santo» si lamentò, rendendosi conto di avere la lingua pesante, il tono trasognato. «Chi ti ha insegnato a scrivere, ché crei paragoni così idioti? Mai sentito parlare di metafore?»

Sopra di lui il soffitto era lontano, distantissimo e illuminato da una serie tutta uguale di luci fredde, da ospedale. Cercò di muovere la testa, ma si accorse che era bloccata da una banda di cuoio che gli circondava la fronte. Non aveva la sua maschera a proteggergli i tratti sfigurati, indossava soltanto i pantaloni della divisa da Deadpool, e qualcuno lo aveva privato della casacca che si trovava poco distante, una pozza rossa sul pavimento grigio. Sperò che nessuno avesse avuto la malsana idea di toccare le sue katane o le sue numerose armi da fuoco che – l’ultima volta che aveva controllato – giacevano abbandonate sul pavimento della stanza da letto di casa sua, luogo in cui ricordava abbastanza bene di essere entrato prima di ritrovarsi lì. Inoltre, come Wade si avvide ben presto, non era solo la sua testa a essere bloccata, ma anche tutto il resto del corpo.

«Pure!» esclamò Deadpool a quel punto, rivolto a nessuno in particolare. «Non ti è bastato distruggermi emotivamente con quel bacio del cazzo? Devo anche subire torture varie, adesso?»

Con un piccolo sforzo dei muscoli del collo Wade si voltò un poco alla sua destra, notando che vicino al lettino da dentista in cui era stato evidentemente incatenato, c’era un tavolo con, in effetti, vari strumenti di tortura. O meglio, strumenti medici ben allineati e brillanti, ma che per lui, che aveva passato una quantità di tempo francamente imbarazzante in vari laboratori, significavano quasi sempre tortura, poco importava che il bisturi fosse disinfettato e il pazzo che glielo infilava nella carne avesse lavato le mani per quindici minuti.

«Si prospetta una nottata divertente, ricca di cliché e nuovi traumi psicologici da affrontare» borbottò il mercenario, cercando di forzare i legacci che lo tenevano fermo. Ma per sua sfortuna non possedeva la forza sovrumana di Spidey e quindi fu costretto a rimanersene là, da solo, nel silenzio minaccioso di quella che sembrava un vecchio capannone abbandonato. «Sarebbe stato meglio fossi rimasto a Seoul, ma noooooo, Spider-Man chiama e Deadpool risponde. Bah! Ehilà! C’è nessuno in questo scenario dell’orrore di prima categoria? Kudos per l’ambientazione, davvero, ma con chi me la devo prendere? Chi devo segnare nel mio Death Note. Spoiler: sarò io ad ammazzarvi, e non uno shinigami, ma sarà figo comunque. Almeno per me. Eeeeehi!!»

Mentre parlava cercava di allentare i legacci che lo tenevano fermo e finalmente riuscì a muovere la testa verso sinistra. Fu allora che si accorse di non essere solo affatto.

Su una sedia da dentista identica alla propria c’era un’altra persona nelle sue stesse condizioni, legata, cioè, perché nessuno era mai nelle stesse identiche condizioni di Wade. Inoltre, quella persona era diversi centimetri più corta di Wade, in ogni senso.

Era una ragazzina. Una ragazzina che lo fissava con gli occhi sgranati e un terrore vero, il panico più puro che Deadpool avesse mai visto sulla faccia di qualcuno. E di terrore ne aveva visto parecchio nella sua lunga vita.

Wade si schiarì la gola. «Buonsalve. Come ti chiami?»

La ragazzina non rispose per lungo tempo. Aveva un ciuffo di capelli scuri, riccissimi, che le copriva l’occhio destro, ma il sinistro era spalancato, la pupilla dilatata. Probabilmente se l’uomo si fosse concentrato avrebbe potuto sentire il battito cardiaco della piccola, rapido come quello di un coniglio che sente arrivare la fine quando l’allevatore entra nel recinto.

Wade non le mise fretta, non le sorrise, non fece assolutamente nulla se non guardarla di sbieco, il più tranquillamente possibile, e quando finalmente lei si decise ad aprire bocca e confessare il segreto del suo nome, il vigilante le rivolse un unico breve gesto col capo. «Ti prometto che ti tirerò fuori dai guai, Abby, ma devi dirmi se per caso hai visto chi ci ha portato qui, se ti è stato detto qualcosa o se qualcuno ti ha parlato.»

Lei, che la testa ce l’aveva libera, si limitò a scuotere il capo per poi aggiungere dopo un secondo di riflessione: «Stavo dormendo… mi sono risvegliata qui e basta.»

Wade emise un sospiro. «Benvenuta nel club.»

«Un uomo ti ha portato, ma aveva un cappuccio sulla testa, una maschera. Non ha detto niente.»

Un uomo che doveva essere abbastanza forzuto, vista la stazza di Wade, non proprio da pesi leggeri. «D’accordo, Abby. Dimmi, ti piacciono gli unicorni?»

Doveva però essere una domanda troppo difficile a cui rispondere, perché la ragazzina la evitò del tutto preferendo porne una lei. «È stato lui a farti… quello

Ah, quello. Quando indossava troppo tempo la maschera di Deadpool, Wade dimenticava che cosa volesse dire avere a che fare con la gente norm– no, era una sporca bugia. Wade non dimenticava mai che cosa volesse dire avere a che fare con la gente normale, con gli sguardi disgustati, terrorizzati, affascinati, increduli, stomacati, interessati, indiscreti, esplorativi, paurosi. Così tante occhiate, così pochi aggettivi. Non lo dimenticava mai. Non per via della maschera di Deadpool, almeno. A volte, quando passava molto tempo con Peter, a volte, rarissimamente, quando meno se lo aspettava, per dieci miseri secondi nella sua lunga e altrettanto misera esistenza, diventava inconsapevole del proprio aspetto fisico.

Non fu quello il caso. «Cosa? Parli della pelle da neonato che mi ritrovo? No, dolcezza, questa roba viene col pacchetto Deadpool. Spiacente, non si accettano resi al mittente.»

Lei si agitò, ma le sue catene non si spostarono di un millimetro. Chiunque fosse a tenerli prigionieri sapeva il fatto suo. «Deadpool?! Quello che va in giro con Spider-Man?! Allora lui verrà, non è vero? Verrà Spider-Man a salvarci!»

«Wow» esclamò lui riportando lo sguardo sul soffitto per evitare di diventare strabico. «Fingerò di non essere profondamente offeso dal fatto che tu preferisca Spidey a me, perché, dai, chi può darti torto, ragazzina?! Ma, mi dispiace deluderti: io e il vecchio insetto a otto zampe abbiamo avuto una piccola divergenza. Dubito che abbia la minima idea di dove mi trovo. Ehi, no, non piangere adesso. Sono piuttosto bravo a togliermi dagli impicci anche senza Spider-Man che ripulisce dietro di me e in ogni caso non hai ancora risposto alla mia domanda. Ti piacciono gli unicorni? C’è questo negozio nel Queens che vende solo peluche di unicorni. Non ho la minima idea di come possa sopravvivere con questa economia, ma porca troia se sono fighi!»

La tirata gli regalò la risata lacrimosa della ragazzina e Deadpool si complimentò mentalmente.

«Mi piacciono gli unicorni.»

«Abby» fece Wade deliziato. «Credo che questo sia l’inizio di una bella amicizia.»

«Siete molto carini» fece una terza voce appartenente a una terza persona che – Wade ci avrebbe giurato – pochi secondi prima non era affatto lì, in piedi di fronte a loro, a guardarli con le mani strette dietro la schiena e il volto impenetrabile. Be’, il passamontagna impenetrabile.

«Ma che cazzo–»

«Non sei un uomo facile da ottenere Wade Wilson.»

Wade sbatté le palpebre, senza perdere nemmeno un secondo per rispondere: «Questo perché di solito gli esseri umani non si ottengono, cattivone-dalla-voce-da-dodicenne.» Aveva davvero una voce molto infantile, un tono alto e quasi acuto. «Ti stanno per scendere o fai parte delle voci bianche del coro della parrocchia?»

«Ah sì» fece lui senza spostarsi di un millimetro, «mi avevano detto che eri un chiacchierone.»

«Chiacchierone? MOI?! Mi sento personalmente offeso.» Mentre si sentiva offeso, però, Deadpool cercò di capire con chi stesse avendo a che fare. Gli abiti del rapitore erano comuni, niente di appariscente, anche se tutto quel nero gli stava dando sui nervi. L’unica cosa distinguibile della sua persona erano gli occhi, castano chiaro, ma giallastri e iniettati di sangue, come se il tizio fosse febbricitante o malato in qualche modo. Niente della sua persona stava indicando debolezze e Wade moriva dalla voglia di sapere come uno di quella stazza, ovvero mingherlina e forse la metà di lui, fosse riuscito a trasportarlo lì dentro e soprattutto a renderlo incosciente.

«Vorrei scusarmi in anticipo per quello che sto per fare, principalmente perché non posso usare alcun anestetico, dato che il tuo corpo sembra immune.» Ah. La faccenda si faceva seria.

«Ooooh, ti preoccupi per me, cattivone? Che cosa tenera. Hai anche intenzione di sputare fuori il tuo piano malefico, oppure vuoi cercare di evitare quel cliché specifico?»

Mentre parlava, l’uomo aveva deciso di abbandonare il gioco delle belle statuine e si era spostato verso il tavolo da laboratorio, esaminandone gli oggetti, affilati e non, che vi stavano sopra quasi che non fossero suoi. «Perfino il mix di droghe che ho usato per portati qui è durato meno di dieci minuti» continuò, come se Wade non avesse detto nulla. «E credimi, quella roba avrebbe steso un’intera scuderia di cavalli.»

«Dieci minuti?» ripeté Wade distrattamente, cercando di far segno ad Abby che tutto era sotto controllo, per quanto fosse una bugia di enormi dimensioni. La ragazzina aveva due scie di lacrime silenziose che le scendevano lungo le guance e tremava in modo incontrollato. Gesù… Spidey avrebbe saputo esattamente cosa dire per tranquillizzarla.

Fu allora che la mente sovraccarica di Deadpool registrò il fatto. «Come sarebbe dieci minuti?! Vuoi farmi credere che ti sei intrufolato in casa mia senza che io me ne accorgessi, hai evitato tutte le mie trappole, mi hai iniettato con qualsiasi cosa fosse quella roba e mi hai trasportato qui in meno di dieci minuti? E a proposito, dove cazzo siamo? A giudicare dalle tempistiche e dalla tua massa muscolare al massimo dovremmo essere nello scantinato del mio palazzo? Mi dispiacerebbe molto, prima di tutto perché se avessi saputo che era così grande avrei comprato questo e non quell’appartamento di merda che mi ritrovo, e soprattutto perché non vorrei trovarmi costretto a far saltare in aria casa mia. Di nuovo.»

«Iniziamo con qualcosa di semplice» dichiarò il cattivone, senza dar credito alle parole di Wade, ma quest’ultimo ci era abituato: di rado la gente lo ascoltava.

Cercando di far forza sui legacci che erano davvero a prova di bomba, complimenti vivissimi, applausi e baci, Deadpool osservo i movimenti calcolati dell’uomo, che si spostò dal tavolo alle loro sedie e che, invece di andare dritto da lui, decise di andare dritto dalla ragazzina.

«No!» gridò lei, divincolandosi dalla stretta delle linguette di cuoio. Wade poté vedere le screpolature attorno alle caviglie nude, ai polsi sottili. «No, nonono! Per favore!»

«Shhh» replicò l’uomo nero. Ah! Ecco un nome da cattivone perfetto, soprattutto per uno che rapiva ragazzini e mercenari. Uomo Nero! Wade riportò la propria attenzione sulla scena che si stava svolgendo davanti ai suoi occhi, o meglio, lateralmente rispetto ai suoi occhi. Si chiese se sarebbe diventato strabico per davvero, ma poi rifletté che il suo fattore di guarigione avrebbe messo a posto tutto.

«Lasciala stare, pezzo di merda» ordinò tra i denti digrignati. «Prenditela con me, sono grande e grosso e sono abituato agli scienziati pazzi!»

Essendo in effetti abituato agli scienziati pazzi, Wade non si sorprese affatto quando l’Uomo Nero non si degnò né di guardarlo né di rispondergli, e nemmeno di impietosirsi di fronte alle lacrime della ragazzina. «Abby! Ehi! Guarda me, non lui. Lo so che non sono un granché da guardare, ma sempre meglio di quello stronzo lì. Ehi! Ehi! Dimmi…eeer… hai un animale a casa? Un cagnetto? Un pesce rosso? Un boa conscrictor? Raccontami qualcosa, pensa a qualcosa che non sia qui e adesso, puoi farlo? Abby!»

Abby piangeva lacrime non più silenziose e per ogni singhiozzo che proveniva dalla ragazzina Wade avrebbe voluto affondare un coltello molto, molto lentamente, nell’occhio sinistro di quello stronzo del loro rapitore, ma naturalmente per farlo doveva aspettare.

Non accadde poi molto. Abby cercò di rispondere alle domande di Wade, di guardare verso di lui, di obbligarsi a non tremare così tanto. Aveva un gatto di nome Fluffy, a proposito di cliché. Ci fu un unico grido da parte sua, una cosa alta, acuta, che trapassò il timpano di Wade e gli fece voglia di ammazzare qualcosa e poi l’Uomo Nero si girò di nuovo, un bisturi in una mano, gli occhi stretti in due fessure concentrate.

Abby respirava affannosamente, ma era viva. Sulla sua coscia spiccava, rosso e gocciolante, un taglio lungo e preciso, abbastanza profondo, ma niente di cui preoccuparsi davvero. Almeno non dal punto di vista di Deadpool che teneva adesso gli occhi fissi sul loro rapitore. «Che cazzo di pervertito sei?» gli domandò, quasi amichevolmente.

«Mi offendi, Deadpool. Preferirei essere conosciuto come un uomo di scienza.»

«Liberami, cocco, e ti faccio vedere io cos’è la scienza.» Il tono che gli uscì dalla gola era aspro, duro, il tono che usava nelle missioni fuori dal paese, il tono che produceva appositamente per gli stupratori e i pedofili, quello che lo rendeva Wade Wilson, mercenario, e non Deadpool, (amato) antieroe della grande mela.

L’Uomo Nero non parve colpito. Ignorando sia le minacce di Wade che le lacrime di Abby, si diresse di nuovo al tavolo da lavoro e prese un piccolo recipiente di vetro. Senza preoccuparsi poi di ripulire il bisturi usato sulla ragazzina, tornò verso Wade a una velocità leggermente esagerata rispetto a tutti i movimenti ipercontrollati che aveva compiuto fino ad allora e, senza tanti complimenti, gli tagliò il polso proprio dove il sangue esce a fiotti.

«Ehi!» si lamentò Wade allungando lo sguardo finché poteva. «Lo sai che non puoi ammazzarmi, vero?»

«Oh» replicò lui con quella che sembrava delizia nella voce da ragazzino. «Ma è proprio per questo che sei qui» concluse poi, raccogliendo il sangue zampillante finché la pelle cancerogena di Wade non decise di richiudersi e guarirlo, come sempre.

Il passaggio successivo forse avrebbe dovuto essere ovvio, per Deadpool, ma lo scuserete se il fatto di essere emotivamente instabile da tutta una vita, col cervello spappolato da mesi e mesi di torture vecchie di anni, ma con le quali ancora non aveva ben fatto i conti, e in generale psicologicamente disturbato da un sacco di cose, tra cui la gente che non mette le cinture di sicurezza in auto, be’, lo scuserete se tutto questo gli rendeva difficile concentrarsi. Soprattutto essendo lui la povera vittima di un rapimento.

L’Uomo Nero lasciò cadere il sangue raccolto sulla ferita appena inflitta ad Abby e tutti e tre, in silenzio tombale, osservarono con fascinazione l’operazione che si compì di fronte ai loro occhi. Il sangue mutato di Deadpool richiuse la ferita in otto secondi esatti. Wade li aveva contati. Wade era anche consapevole che quel tipo di risultato lo si poteva ottenere senza problemi. Diavolo! L’aveva fatto più volte pure con Spidey, ma funzionava solo nel caso in cui la persona che si faceva un bagno nel sangue di Wade Wilson avesse, per parte sua, almeno un minimo di fattore di guarigione.

Gli venne da pensare che forse, forse, Abby non era stata scelta a caso. Gli venne anche da pensare che non ne poteva più di prendere parte a folli esperimenti scientifici e soprattutto gli venne da pensare che, per come l’Uomo Nero si stava muovendo attorno a loro, quella non era la prima volta che indossava i panni del chirurgo psicopatico.

Gli venne anche da pensare, ma quella fu più un’intuizione che altro, che l’intera faccenda doveva in qualche modo avere a che fare col ladro di cuori di cui Webs era ossessionato. Perché, diavolo, quella era una fanfiction, non è che potevano essere aperte infinite sottotrame.

«Sei tu che vai in giro a scaricare cadaveri per la città? E mi riferisco a un particolare tipo di cadavere.»

«Sì, Deadpool» fu l’immediata risposta. «So bene di aver attirato l’attenzione di Spider-Man, e so altrettanto bene che aver scelto te come cavia mi porterà l’attenzione un sacco di altra gente. Ma non sono preoccupato, vedi?»

Wade, in effetti, vedeva. Perché l’Uomo Nero non era preoccupato?

«Conosco Spider-Man da parecchio e credimi quando ti dico che dovresti preoccuparti.»

Il tono di voce dell’uomo si fece freddo, disgustato. «Loro dovrebbero preoccuparsi. I cosiddetti eroi di questa città! Loro sono quelli che dovrebbero preoccuparsi degli altri, e invece che fanno? Ci guardano dai grattacieli, pieni di soldi, acclamati, onorati come fossero degli dèi. Non sono eroi. Sono tutti assassini che indossano una maschera.»

«Wow» replicò Deadpool, per nulla colpito. «Qual è la tua triste storia, allora? Sei stato bullizzato da bambino? Mammina non ti voleva bene? Abbandonato in fasce e adottato da un prete squilibrato? Iron-Man ha fatto fuori la tua famiglia per sbaglio? Ah, no, quella è la storyline di Wanda. Ma comunque, il punto è, non me ne frega un cazzo di scoprire quali brutte-brutte cose ti sono successe nella vita per portarti qui, a strappare il cuore dal petto di bambini. Non ci sono giustificazioni.» Oh, diavolo, Peter sarebbe stato fiero di quel discorsetto.

Non ci fu risposta, se non lo sferragliare del tavolo da lavoro, che venne posizionato a fianco di Wade. L’Uomo Nero si mise vicino a lui, osservandolo dall’alto.

«Se stai per fare quello che penso tu stia per fare almeno copri gli occhi della ragazzina.»

L’altro si strinse nelle spalle. «Non la sto certo obbligando a guardare.»

Wade si volse verso Abby quel poco che poté. La ragazzina li squadrava con occhi grandi come uova, panico, panico e nient’altro. «Abby, chiudi gli occhi, vedrai che non succederà nulla. Detto tra me e te, il mio superpotere è l’immortalità.» Non le disse che purtroppo per lei quel superpotere là non avrebbe potuto salvarla, nemmeno se Wade si fosse dissanguato per lei. E sarebbe stato disposto a farlo.

«Raccontami qualcosa» le disse, mentre il bisturi gli penetrava nel petto, incidendo pelle e muscoli che si ricomponevano quasi immediatamente. Per un attimo pensò che l’Uomo Nero non sarebbe riuscito nell’intento, che per quanto affilata la lama non avrebbe potuto star dietro al suo fattore di guarigione, ma come al solito Wade si sbagliava. Con la voce tremante di Abby nelle orecchie, osservò con fascinazione le mani del suo rapitore velocizzarsi, strappare via carne e sangue, muscoli e tessuti. Gli strumenti cambiarono, pinze arrivarono a tenergli aperta la carne che cercava di ricucirsi, di riconnettere le cellule, ristrutturare i tessuti, ma l’Uomo Nero era veloce, veloce veloce.

Per un po’ la voce triste e piccola di Abby gli tenne compagnia, Wade era bravo a sopportare il dolore, aveva affinato la tecnica, ma come già detto, aveva anche evitato di pensare ai mesi di tortura subiti per mano di Francis per anni, e quella situazione, quella sedia da dentista, quelle mani che sventravano e scavavano e strappavano, erano un promemoria costante di ciò che aveva cercato di infilare nel fondo della sua mente. Un accartoccìo di ricordi indistinti fatti di grida e di dolore freddo come il ghiaccio e a volte bollente, implacabile.

Così, visto che Abby non era sufficiente, che la sua voce si affievoliva e diventava indistinta e si mescolava al disgustoso suono dei guanti di gomma che squittivano contro la carne viva, Wade pensò a Peter.

Peter, che un luminoso giorno di quattro anni prima, seduto a gambe incrociate sul divano mezzo sfondato del salotto di Wade, si era sfilato la maschera dalla testa così, nel bel mezzo di una partita a Mario Kart.

«Che caldo» aveva detto, sventolandosi la faccia arrossata con la suddetta maschera, come se non fosse la prima volta in cui gli faceva vedere il volto, come se non fosse mai stata una questione di “se”, ma una semplice questione di “quando”. Per Wade era sempre stata una questione di “se”, con la consapevolezza che Spider-Man non si sarebbe mai tolto la maschera di fronte a lui, né gli avrebbe confessato il suo nome. E invece eccolo lì. Lo rivedeva adesso, mentre le mani di un pazzo gli si infilavano nel costato, il cuore che batteva all’impazzata, il sangue che sgorgava senza freni, bagnando il pavimento. Rivedeva quella testa carica di capelli scompigliati, castano scuro come gli occhi, grandi, sorridenti, i denti scoperti in un sorriso che si apriva in una fossetta sulla guancia sinistra. La macchina di Wade era andata a schiantarsi fuori pista, ma quello era uno dei ricordi migliori che aveva. Spider-Man che diventava Peter come se Deadpool se lo meritasse, come se Wade fosse abbastanza una brava persona da ottenere l’amicizia di qualcuno come Spidey.

Pensò a Peter, cupo e ferito, un ragazzino di – cosa? – sedici, diciassette anni al massimo. Un bimbo che si dondolava tra i grattacieli di New York senza sapere che cosa fare con tutto il dolore per la perdita di Tony Stark. Quel dolore era una matassa ingarbugliata di sofferenze che si trascinava dietro di lui, appesa a quelle sue ragnatele. Wade lo conosceva da nemmeno due settimane e già avrebbe voluto abbracciarlo, adottarlo, rinchiuderlo in una stanza piena di cuccioli di labrador, qualcosa, qualsiasi cosa per farlo smettere di essere così incazzato con tutti.

Peter, che lo trascinava a casa sua, che lo presentava a Ned, che trovava normale dividere con lui una pizza in compagnia di amici normali, gente che non portava pistole nascoste nello zaino e i cui problemi si alternavano tra scuola e lavoro al massimo.

Peter che lo guardava in faccia mentre parlavano. Che non distoglieva gli occhi, che non fissava con disgustata fascinazione il modo in cui le sue cicatrici mutavano, si spostavano, gli riarrangiavano la pelle.

Peter che gli diceva «bentornato» una, due, mille volte. Che gli portava una bottiglia di lozione: «Non avevo molto da fare negli ultimi giorni, quindi ho pensato di lavorare su questa ricetta. Dovrebbe aiutarti quando la tua pelle… quando hai più fastidio del solito.» Peter che gli dava dell’idiota, ma la parola che usava non corrispondeva mai al tono in cui la pronunciava. Peter che un giorno aveva deciso di baciarlo.

Si soffermò su quel ricordo, non solo perché era recente, non solo perché ce l’aveva stampato a fuoco nella memoria, ma perché la sensazione delle labbra di Spider-Man sulle sue lo riempiva di una rabbia impotente, di un’incomprensione totale, di una mancanza di risposte terribile e bellissima che lo aiutava a concentrarsi per capire per capire per capire come fosse possibile che quel pazzo che gli estraendo chirurgicamente il cuore dal petto per… per cosa? Per usarlo come? Per metterlo dove? Ed Abby… la ragazzina cosa cosa come? Come faceva quell’uomo a lavorare superando la velocità del suo fattore di guarigione, come come come l’aveva portato lì in dieci minuti, come, come?!

Deadpool sgranò gli occhi che non si era accorto di aver chiuso.

La realtà dei fatti, con un superpotere come il suo, era che anche senza cuore sapeva già che il suo corpo sarebbe riuscito a tenerlo in vita per qualche minuto. Ok, magari un minuto intero e non di più, ma sapeva anche che per rigenerarsi, quella volta, gli ci sarebbe voluto parecchio. Da una ferita mortale al cervello o alla spina dorsale si guariva con facilità, ma il cuore… be’, poetico quanto vuoi, ma per ricostruire il cuore, ci sarebbe voluto del tempo.

Prima di morire pensò ad Abby, al fatto di averle mentito, al suo piccolo cuore di coniglio in trappola e poi sentì qualcuno chiamarlo. Una minuscola parte di lui seppe che era Spider-Man e alla fine non gli importò poi molto che fosse vero o meno, che Peter fosse lì o meno, perché finalmente capì come.

Come diavolo aveva fatto l’Uomo Nero a portarlo lì e strappargli il cuore.

A ben pensarci era quasi ovvio.




Note: Il titolo del capitolo è tratto da L'altra dimensione, dei Måneskin

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Capitolo 6
*** A noi il coraggio non ci manca siamo impavidi, siamo cresciuti con i lividi sui gomiti ***


6. A noi il coraggio non ci manca siamo impavidi, siamo cresciuti con i lividi sui gomiti

Peter batteva ritmicamente il piede sul pavimento lurido dell’abbandonato magazzino di stoccaggio in cui lui e Matt erano penetrati esattamente quarantotto minuti prima. Quarantacinque minuti prima, però, lo stesso posto era stato preso d’assalto da un mezzo plotone di agenti S.H.I.E.L.D., Sharon al comando, accompagnata dai sempre presenti Bucky e Sam. Peter non aveva idea di come l’intera faccenda potesse interessare a quelle stesse persone che meno di dieci giorni prima lo avevano caldamente invitato a farsi un giro e lasciar perdere il fantomatico assassino di bambini, ma evidentemente Daredevil non era della sua stessa opinione. Era stato lui a volerli coinvolgere e a informarli di, be’, di tutto

«Quello che vorrei sapere» gli stava dicendo Sam in quell’istante, «è perché non hai pensato di avvertirci nell’istante in cui hai saputo che c’era qualcuno sulle vostre tracce.»

«Per l’ennesima volta» esalò Peter, desiderando solo togliersi la maschera dalla faccia: faceva un caldo infernale e lui aveva iniziato ad avere difficoltà a respirare nell’esatto momento in cui avevano ritrovato Wade in quel modo. «Nessuno è sulle nostre tracce. Al massimo qualcuno era sulle tracce di Deadpool, e ha chiaramente ottenuto quello che voleva» concluse con voce piatta, indicando la sedia da dentista da cui Wade ancora non era stato liberato. «E devono proprio lavorargli attorno come fosse un cadavere?!»

C’erano un paio di agenti S.H.I.E.L.D. che fotografavano il corpo disastrato del suo migliore amico, prelevavano tessuti, insacchettavano prove, scrutavano gli schizzi di sangue e le ossa spezzate, e soprattutto lavoravano come se stessero avendo a che fare con un corpo morto e nient’altro. Peter lo detestava.

«Sapevate comunque che qualcuno era sulle tracce di Deadpool e avete voluto fare di testa vostra» rincarò la dose Sam. Di rado Peter l’aveva visto così nervoso, sembrava che l’aver dovuto ricorrere all’aiuto di Sharon in una situazione che sarebbe stata perfettamente gestibile da Spider-Man lo pungesse nell’orgoglio, o roba simile.

Per fortuna Matt si mise in mezzo, impedendo a Peter di fare una battuta molto al di sotto dei suoi normali standard. «Abbiamo scoperto che Deadpool era nei guai solo un’ora fa, Sam.»

Bucky, silenzioso come sempre, fece un passo avanti dalle ombre in cui si teneva nascosto. «E in una sola ora siete riusciti a trovarlo?»

«Ah» tossicchiò Spidey, leggermente in imbarazzo e passandosi una mano dietro la testa. «Potrei, e dico potrei, aver sistemato degli Spider-track sul costume di Deadpool qualche anno fa. Molti anni fa. Non lo conoscevo ancora… quasi. Tutti mi dicevano che era pericoloso… volevo solo tenerlo sotto controllo e da allora li ho disattivati, giuro!»

Sam sollevò un sopracciglio, curioso e forse divertito. «Nessuno ti sta giudicando, ragazzo. Deadpool è pericoloso.»

Peter roteò gli occhi, sperando che anche indossando la maschera l’altro supereroe lo notasse. «Sì, be’, mi sembra che ci sia qualcuno più pericoloso di lui, in giro.»

«Qualcuno che abbiamo mancato per un soffio» completò Daredevil. «DP era ancora quasi del tutto vivo quando abbiamo fatto irruzione. I battiti cardiaci erano tre, poi uno dei tre ha iniziato a sfasare, come sotto un grande sforzo. E poi nulla.»

Sam e Bucky si lanciarono uno sguardo. «Teletrasporto? Ci sono i segni di una terza persona che era legata sull’altra sedia. Senza teletrasporto come avrebbero fatto a sparire?»

Peter sospirò. Per quanto in qualsiasi altra occasione avrebbe fatto di tutto pur di trovare quella terza persona svanita nel nulla, in quel momento voleva solo uscire di lì portandosi via Wade. «Non abbiamo visto o sentito niente che lo facesse supporre.»

«Be’» si intromise Sharon, aggiungendosi al loro quartetto con la testa piegata su un tablet che le illuminava i lineamenti di una luce malaticcia, artificiale. «Per sapere con sicurezza cosa sia successo e quanta gente c’era in questa stanza non resta che aspettare che la bella addormentata si svegli.»

Bucky incrociò le braccia sul petto. «Quanto ci vuole, normalmente?»

«Secondo i record che abbiamo» spiegò Sharon muovendo rapidamente le dita sul tablet, «i tempi variano dai pochi minuti a più di dieci ore, ma dipende dai tipi di ferite.»

«Dovrebbe volerci poco in questo caso.»

Peter, incredulo, tentò di interromperli. «Ehi!»

«Normalmente sarei d’accordo con te, Sam, ma a quanto mi dicono i cervelloni siamo ancora lontani da una ripresa comple–»

«Aspettate un secondo!» quasi gridò Spidey, a bocca aperta. «Fermi tutti. Time-out! Mi state dicendo che volete aspettare che Wade si rigeneri qui?!»

Lo fissarono tutti, pure Daredevil, il volto come al solito impenetrabile. Gli altri parevano vagamente stupiti dal tono che Spidey aveva appena usato. Ne era stupito pure lui, ma nascondere il disgusto dalla voce gli risultò impossibile. «Volete lasciarlo lì legato e aspettare che si risvegli nell’ennesimo laboratorio in cui è stato sottoposto a torture come una cazzo di cavia?! Sto davvero capendo bene quello che state dicendo?!»

Sharon si strinse nelle spalle. «Questa è l’idea, sì.»

«Ne hai una migliore, Spider-Man?» s’informò Sam, spostando il peso da un piede all’altro, calmo e rilassato, come se non avesse un solo problema al mondo.

Succedeva di rado che Peter si arrabbiasse, perché, prima di lasciare che la rabbia prendesse il sopravvento, gli era stato insegnato a contare fino a dieci e a soppesare le motivazioni di tutte le persone coinvolte nella discussione. In quel caso contò fino a quindici, e arrivò perfino a capire le motivazioni, ma stranamente si ritrovò incazzato come di rado gli era successo.

«Ne ho una, Capitan America, perché non ti infili quello scudo su per il–»

«Calmiamo gli animi, signori» intervenne Matt, mettendo una mano sulla spalla di Peter e trascinandolo indietro. Il ragazzo non si era nemmeno accorto di aver fatto tre passi avanti e di trovarsi a meri centimetri di distanza da un Sam davvero poco impressionato. Bucky, dietro di lui, sembrava stranamente divertito. Sharon li fissava ancora senza capire. Eppure, prima di allora, a Peter era sempre stata simpatica.

Con la sua miglior voce da avvocato, Daredevil prese le difese di Spider-Man. Non che Peter si aspettasse niente di diverso, in realtà: dopotutto faceva parte pure lui dei dannati Cappuccetti Rossi. «Vorrei ricordarvi che DP è un essere umano, per quanto indistruttibile, e Spidey ha ragione: non potete lasciarlo qui a rigenerarsi. Non visti i precedenti che ha avuto con Weapon X, eccetera. Capisco la necessità di avere risposte, ma…»

«E cosa proponete, quindi?» lo interruppe l’agente dello S.H.I.E.L.D., spegnendo finalmente quel cazzo di tablet e incrociando le braccia a sua volta. «Lo possiamo prendere in custodia noi, senza problemi.»

«Lo riporto a casa» dichiarò Peter, col tono di chi considera chiusa la questione. Tre paia di occhi e un paio di ottime orecchie si spostarono su di lui, in silenzio. Il silenzio durò per un po’.

«A casa?» s’interessò Bucky alla fine, guardandosi le unghie. «Casa tua? O casa sua?». Il tono era studiatamente innocente, e Peter quasi si aspettò che concludesse con un “Oppure casa vostra?”, cosa che, sinceramente, all’interno di quella conversazione non lo avrebbe stupito troppo.

«Casa sua» replicò. «Tanto sono sicuro che abbiate l’indirizzo, visto che partecipa da anni a varie missioni suicide per conto degli Avengers. E se sta sul vostro libro paga di certo gli avrete chiesto qualche assicurazione.»

«Potrebbe averci dato un falso indirizzo.»

Spidey esalò una risata tutta gola. «Wade?! Mentire per entrare negli Avengers? Vi avrebbe ceduto il suo primogenito, se glielo aveste chiesto. E pensate di farmi credere che non abbiate controllato?»

«D’accordo, d’accordo» sbottò Sharon che evidentemente ne aveva avuto abbastanza. «Mi aspetto che risolviate tra di voi questa faccenda, e i miei capi si aspettano un lungo elenco di motivi per cui ho guidato una squadra in questo posto dimenticato da Dio. Quindi, Sam, mi aspetto di averli al più presto. E che siano motivi validi.» E detto questo girò sui tacchi e si allontanò.

Sam la fissò per un attimo mentre se ne andava, per poi tornare a puntare gli occhi su Peter. «Tra due ore saremo a casa di Wilson, ragazzo.»

«Ah-ah» scosse il capo Spidey. «Minimo dieci ore, se non volete trovarlo ancora morto.»

Sam aprì la bocca per replicare, ma Bucky lo interruppe appena in tempo. «Che ne dici di cinque ore? Credo siano più che sufficienti.»

«Lo sono» confermò Matt al posto suo.

Peter, che si sarebbe accontentato di tre, tirò un sospiro di sollievo. Non sarebbero mai state lontanamente sufficienti per far riprendere Wade psicologicamente, ma almeno fisicamente sarebbe stato a posto. Sperava. Per il poco che aveva osato guardare, nel petto di Wade c’era ancora una grande, vuota cavità sanguinolenta laddove avrebbe dovuto esserci il cuore. Le ossa della cassa toracica sporgevano all’infuori, il sangue era colato a fiotti sul pavimento, imbrattandogli gran parte del busto, l’orlo dei pantaloni, e fin sotto la gola.

«Non c’è bisogna che venga anche tu, se non vuoi» dichiarò il giovane a voce altra pochi attimi dopo, percependo il passo rapido di Daredevil dietro di lui. Si stavano muovendo verso Wade.

«Si dà il caso che voglia, Spider-Man.»

Peter gli lanciò un’occhiata di sbieco mentre un senso di profonda gratitudine andava a sostituire il sentimento di orrore e panico che aveva cercato di tenere malamente sotto controllo fino ad allora. Aveva trasformato le sue mani tremanti e la sua voce rotta in rigurgiti di rabbia per come Wade stava venendo trattato, per il poco rispetto che gli veniva dato come persona in generale, e per come Sam si ostinasse a considerarli tutti come parte integrante di un team che non esisteva. Almeno non per Peter. Ma dentro di sé, in una parte molto ampia del suo cuore che riusciva a stento a controllare, Peter avrebbe voluto strappare quelle cinture di cuoio che tenevano Wade legato alla sedia da dentista, caricarselo in spalla e mandare tutti a fanculo.

Quello che invece fece fu quasi rompere un dito al tizio che aveva pensato bene di tirar fuori un sacco per cadaveri dove sistemare DP. «Non. È. Morto» sillabò molto lentamente allontanando l’agente dal corpo del suo migliore amico. Poi si ricordò che il suo titolo era ancora “l’amichevole Spider-Man di quartiere” e lasciò andare il malcapitato borbottando parole di scusa. Dopo quella scena, a lui e Matt fu lasciato campo libero.

Qualcuno aveva già provveduto a slegare Deadpool e lo squarcio sul suo petto sembrò fissare Peter come un occhio di Sauron redivivo. Il ragazzo ringraziò il cielo che la maschera di Spider-Man fosse ancora ben salda sulla sua testa, perché non aveva davvero idea di quale espressione potesse avere la sua faccia in quel momento, e finalmente procedette a nascondere la ferita con un bello strato di ragnatela, che avviluppò l’uomo in un piccolo bozzolo e lo rese più semplice da trasportare.

Lui e Matt rifiutarono in tono secco la macchina che venne loro proposta e Peter chiamò invece Dopinder, che arrivò in tempo record. Il viaggio in taxi fu silenzioso e nessuno dei due uomini fece niente per alleggerire l’atmosfera. Dopinder, dopo un iniziale tentativo di conversazione, decise fortunatamente di tacere. Peter si tenne la testa di Wade sulle gambe, ma si obbligò a non guardarlo, a non sfiorarlo, a non desiderare con tutto se stesso che aprisse gli occhi, perché sapeva per esperienze pregresse che quella sarebbe stata una ferita che richiedeva tempo e lasciarsi prendere dal panico o dalla fretta non era la soluzione.

Entrare nell’appartamento di Wade fu semplice: Spider-Man salì lungo il muro, caricandosi sulle spalle il peso dell’amico, mentre Daredevil scelse l’ascensore.

Peter entrò dalla stessa finestra che aveva usato poche ore prima quando, insospettiti dall’estremo ritardo di Deadpool e dal fatto che nessuno dei loro messaggi riceveva risposta, i due supereroi avevano deciso di andare a vedere se fosse effettivamente rientrato dalla sua missione all’estero. Penetrando nella camera di Wade, Peter aveva subito notato il letto vuoto, il cimitero di vestiti sparsi per il pavimento e Bea e Arthur, che giacevano abbandonate assieme a tutte le armi da fuoco che in quel periodo il mercenario sembrava preferire.

«Non lascerebbe mai le sue spade così» aveva commentato Spider-Man, indicando i due oggetti luccicanti.

Matt non aveva chiesto cosa intendesse Peter per “così”, ma si era limitato a commentare un laconico: «Lo conosci davvero bene, Spidey.»

Lui aveva sospirato, osservandosi attorno con curiosità. «A volte penso di conoscerlo troppo bene.»

Poi aveva trovato la siringa e Peter era entrato nel panico.  

Era ancora notte fonda quando Spidey rimise piede sullo stesso pavimento ricoperto di vestiti sporchi sul quale giacevano le spade tanto amate da Wade e si accorse che, per qualche motivo soprannaturale, Daredevil aveva fatto prima di lui. Lo attendeva nel minuscolo salotto/cucina/ingresso dell’appartamento e si muoveva con cautela, ma abbastanza pratico dell’ambiente. Peter si immaginò Wade che invitava altri super a casa sua, Wade che offriva birre e stuzzichini in giro con un gran sorriso nascosto sotto la maschera rosso-nera. L’immagine era al contempo assurda e plausibile.

Ci fu un attimo di quiete e Peter si sentì leggermente a disagio. Sapeva cosa avrebbe dovuto fare, ma si era sempre trovato a gestire quella situazione da solo: la compagnia di Matt lo turbava e allo stesso tempo lo rassicurava.

«Rallenta i battiti, Spidey. Se pensi che sia di troppo posso sempre tornare dopo.»

«No!» esclamò Peter con veemenza, vagamente consapevole di avere ancora Wade caricato sulle spalle. Per qualche motivo non se la sentiva di lasciarlo a terra. L’idea di farlo sedere contro il muro alla stregua di un vecchio paio di pantaloni o di una maglietta sudata gli ricordò il modo in cui i fratelli Spencer erano stati abbandonati nel vicolo, e all’improvviso gli venne da vomitare. Si tirò via la maschera dalla testa prendendo lunghi respiri. L’odore familiare di alcol e polvere da sparo gli assalì l’olfatto, ma perfino quello era meglio del suo stesso odore di sudore e alito cattivo che respirava dentro la maschera.  «Non andartene, Matt. Err… rimani con Wade mentre riempio la vasca…?»

Se Daredevil trovò la richiesta bislacca, per fortuna non lo diede a vedere e si limitò seguire Peter con lo sguardo cieco, quasi che potesse vederlo davvero. Anche lui si era tolto la maschera e si sistemò accanto a Wade non appena Peter ebbe posato il suo corpo su una delle poche sedie libere da vecchi cartoni di pizza.

«Ci metterò solo pochi minuti» aggiunse il giovane dopo un secondo, assicurandosi che l’amico non crollasse a terra come una bambola rotta.

Entrato nel bagno, trovò l’ambiente stranamente meno disgustoso delle altre volte in cui aveva fatto visita a Deadpool, come se fosse stato utilizzato e poi pulito molto di recente. Senza fermarsi a riflettere su cosa stava per fare e come avrebbe gestito un Wade ferito, disorientato e sicuramente fuori di sé per essere stato rapito e torturato, aprì l’acqua e attese finché la vasca fu piena per un quarto. L’acqua era fredda, ma sapeva che Wade l’avrebbe preferita: la sua pelle non gestiva bene l’estremo calore.

Tornato in salotto, si fece aiutare da Matt per liberare il mercenario dalle ragnatele ormai in via di disfacimento, poi i due supereroi lo calarono nella vasca afferrandolo sotto le ginocchia e sotto le ascelle. Peter avrebbe tranquillamente potuto fare tutto da solo, eppure non disdegnava la compagnia silenziosa di Daredevil.

Quando gli tolsero a fatica i pantaloni della divisa da Deadpool, Peter fu lieto che quel giorno Wade non avesse deciso di andarsene in giro commando: vederlo nudo e inerme sarebbe stato troppo intimo, troppo doloroso da sopportare, soprattutto quando si trattava di avere davanti una persona così energetica come Wade. Era forse quella la cosa che Peter odiava di più quando DP faceva una visita nell’oltretomba: l’immobilità, il silenzio, la quiete. Wade era grande e grosso, prendeva spazio, non aveva paura di entrare in scena con urli e strepiti, si faceva notare, mangiava il mondo e spesso lo risputava quando non era di suo gusto. E invece, averlo lì, impassibile, malleabile come un burattino… a Peter sembrava quasi di poterlo prendere tra i palmi delle mani, stringerlo, tenerlo al caldo, al sicuro. E invece non poteva. Doveva aspettare, e aspettare. E aspettare.

«Non ho la minima idea di quello che ti sta passando per la testa, Peter» disse allora Matt, facendolo sussultare. Il ragazzo stava passando una spugna imbevuta d’acqua sulla pelle butterata di Wade: non si era nemmeno accorto di ciò che stava facendo. «Ma mi sembra quasi di sentire gli ingranaggi del tuo cervello muoversi a scatti. Qualsiasi cosa ci sia tra te e Wade, ti consiglio di sistemarla al più presto, prima che ti mangi vivo.»

«Ah» dichiarò lui, eloquentemente. Non si era nemmeno accorto di essersi messo a togliere il sangue in eccesso dalle membra gelide dell’amico. Eppure c’era stato un tempo in cui gli veniva quasi da vomitare alla vista delle ferite al limite dello splatter – e volte ben oltre lo splatter – che Deadpool subiva in combattimento. Dio… quanto cazzo era cambiata la sua vita negli ultimi anni?

Sciacquò quello che poté, ripulì le pareti della vasca e fece scorrere via l’acqua lurida, per poi riempirla un’altra volta. E in tutto quel processo non trovò niente di intelligente da dire al diavolo di Hell’s Kitchen, che se ne rimase lì, una presenza incongrua, inaspettata, ma della quale Peter fu profondamente grato.

Ci fu un orribile CRACK quando il costato di Wade prese vita e cominciò ad autorigenerarsi. Purtroppo per lui, il rumore indusse Peter a osservare davvero la cavità toracica di Wade, e vi scorse con sorpresa un minuscolo cuore, qualcosa che avrebbe potuto essere l’organo di un uccellino, che batteva all’impazzata. Gli ricordò il battito del cuore dei bambini quando ancora stavano al sicuro nell’utero della madre, veloce, veloce, un minuscolo attimo di vita che non cedeva, che non avrebbe mai ceduto, che non l’avrebbe mai lasciato.

A metà tra il disgustato e l’affascinato, Peter ricominciò a respirare.

Rimase lì, inginocchiato sulle piastrelle gelide e viscide, i gomiti doloranti e pieni di lividi poggiati lungo il bordo della vasca, i capelli sudati che gli ricadevano sugli occhi, mentre questi ultimi non facevano che passare dal petto ormai in totale ricostruzione di Wade al suo volto, che conosceva a memoria nonostante le cicatrici che mutavano di giorno in giorno. Non si accorse nemmeno che Matt scelse quel momento per uscire dal bagno, se per dar loro della privacy o solo perché non voleva assistere alla resurrezione non fu dato sapere.

Peter attese come sempre faceva, un battito dopo l’altro, contando i secondi, contando le gocce che cadevano sulla superficie rosata dell’acqua, plick-plock, bumbum-bumbum, e per ogni attimo che passava si rendeva conto che nella cosa che Matt gli aveva appena suggerito di sistemare c’era dentro fino al collo e non pensava di poterne più uscire. Nemmeno con tutta la forza sovrumana di Spider-Man.

Wade tornò alla vita con un grido silenzioso strozzato in gola, uno spasmo che fece tremare l’acqua e sussultare il ragazzo inginocchiato accanto a lui. Peter fece appena in tempo a leggere il terrore negli occhi azzurri e sfocati di Wade, e poi una mano andò a serrarglisi attorno alla trachea, stringendo. Avrebbe potuto liberarsene nel giro di un secondo forzandogli le dita, ma l’ultima cosa di cui Wade aveva bisogno in quel momento era qualcuno che usasse della forza contro di lui.

Aveva gli occhi appannati, distanti, blu come sempre, ma iniettati di sangue.

Peter cercò con disperazione di inghiottire dell’aria, scioccato che neppure quella volta, con le dita di un assassino prezzolato che gli si stringevano attorno alla gola, i suoi sensi di ragno gli facessero sapere che forse era un tantino in pericolo.

«Ben…tornato» riuscì a dire con un filo di voce, le dita che gli prudevano dalla voglia di togliersi la mano di Wade dal collo. Ma non ce ne fu bisogno.

«S-- Spidey?»

«No» replicò lui con voce roca, massaggiandosi la gola ormai libera. «Babbo Natale. Oh-oh-oh.»

Wade batté le palpebre un paio di volte, ma non era una cosa nuova: ogni volta che si ritrovava in un posto molto diverso dal luogo della morte, Wade aveva bisogno di qualche attimo per ambientarsi. Ed erano anni che praticava quell’esercizio: Peter non osava immaginare come doveva essersi sentito le prima volte, così tanti anni prima.

Wade lo fissò a occhi sgranati, le dita strette attorno ai bordi della vasca, le gambe che creavano piccoli tsunami nell’acqua in cui era immerso. Alcuni minuti e si sarebbe tranquillizzato, solo alcuni minuti e…

«Spidey!» esclamò di nuovo Deadpool, portandosi una mano al petto come se il cuore ancora non fosse del tutto funzionante. Peter lo vide socchiudere le palpebre, come in preda a una sofferenza interna che di solito era perfettamente in grado di nascondere. Poi Wade aprì di nuovo gli occhi, le labbra strette, la mandibola serrata. «La ragazzina… Peter! Abby!»

Ah, la persona catturata assieme a lui era quindi una ragazzina. Sam gli aveva detto qualcosa a tal proposito, tracce trovate sulla seconda sedia, capelli lunghi e ricci, tessuto epiteliale incastrato nei legacci, del sangue, troppo poco per indicare un altro cadavere… ma Spider-Man aveva ascoltato solo con un orecchio, ogni briciola della sua attenzione concentrata su Wade.

«Starà bene, Wade, vedrai che andrà tutto bene. Adesso concentrati a respirare.»

Come se un grosso peso gli fosse appena stato tolto dalle spalle, per lunghi attimi Wade fece proprio quello, posò la testa sul bordo della vasca, la bocca semi aperta, lunghi respiri tremanti che entravano e uscivano. Peter gli scrutò la faccia alla ricerca di altri danni, di ulteriore dolore, ma per molto tempo l’unica cosa che vide furono le minuscole gocce d’acqua che cercavano una via di fuga tra le cicatrici, lungo le guance, tra le labbra semi aperte. Una mano di Spidey decise di sua spontanea volontà di stringersi lungo l’avambraccio dell’uomo riverso nella vasca, ma nessuno dei due se ne rese realmente conto. Poi il mercenario parve ricordarsi di qualcosa.

«Esci dal mio bagno» dichiarò aprendo gli occhi di scatto e puntandoli con rabbia verso Peter.

Per un secondo il ragazzo non seppe come reagire. «Wade…»

«Esci dal mio cazzo di bagno, Spider-Man» continuò lui con un tono di voce gelido e distante che Peter gli aveva sentito usare spesso, ma mai, mai rivolto a lui. «Non ho bisogno della balia.»

Si alzò in piedi, allora, perché quel tono, quello sguardo, quell’espressione tradita e risoluta al tempo stesso furono per Peter più convincenti del tentativo soffocarlo di pochi attimi prima – e del quale il suo collo iniziava già a mostrare i segni, tra parentesi. Poco male, i lividi sarebbero spariti entro breve, ma per la prima volta in assoluto i suoi sensi di ragno gli dissero di andare, e andare alla svelta.

Uscì dal bagno camminando all’indietro, all’improvviso consapevole che Wade non gli aveva mai permesso di vedere così tanta pelle tutta insieme, non sotto la luce asettica e bianca che penzolava dal soffitto del bagno, non nella trasparenza rosata dell’acqua. Non senza la sua piena e assoluta volontà. Si voltò di scatto, perché lo sguardo di Wade bruciava, lasciava segni sul costume di Spider-Man, penetrava lo spandex e gli ustionava la pelle e, cazzo, essere disprezzato da Wade faceva un male d’inferno.

Il bello era che sapeva pure di meritarselo.

Uscì il più velocemente possibile, chiudendosi la porta alle spalle e appoggiandovisi subito dopo, un sospiro tremante chiuso in gola, le dita appiccicose di nervosismo come non gli succedeva dai primi tempi della sua mutazione.

«A giudicare dai vostri rispettivi battiti… non è andata molto bene» lo accolse la voce di Matt, che aveva deciso di fare come a casa sua e si era sistemato sul divano. Stava bevendo da una lattina di birra di fronte alla televisione accesa a un volume ridicolmente basso.

«Ti ho mai detto che questa cosa che ascolti i battiti della gente mi fa accapponare la pelle?»

«Ti ho mai detto che i ragni mi fanno schifo?»

«Touché» sospirò Spider-Man, ben deciso a ignorare l’elefante nell’appartamento che per il momento rimaneva chiuso nel bagno. Con Wade avrebbe fatto i conti più tardi, dopo l’arrivo e la partenza di Sam e Buck.

Lanciò un’occhiata all’orologio da muro mezzo storto che correva trentasette minuti indietro e che Wade si ostinava a tenere appeso sopra la porta dell’ingresso. Facendo un rapido calcolo, i due supereroi sarebbero stati da loro in poco meno di due ore.

A Spidey non restava che una cosa da fare: cercare un modo utile per occupare il tempo senza cadere preda degli speciali pensieri ossessivi targati Peter Parker™.

Note: Titolo del capitolo tratto da LIVIDI SUI GOMITI dei Måneskin

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Capitolo 7
*** All we ever here from you is blah blah blah ***


7. Al we hear from you is blah blah blah

La prima cosa che Peter fece fu mandare un messaggio a Sam comunicandogli il nome della ragazzina che apparentemente era stata compagna di prigionia di Wade. Non attese la risposta, posò il cellulare sulla prima superficie orizzontale che trovò e si mise a sistemare il minuscolo appartamento come se ne andasse della propria vita.

Raccolse piatti e bicchieri sporchi lasciati in giro e li ammucchiò nel lavello, abbandonandoli al loro destino: prima o poi Wade li avrebbe lavati, ma chissà quando. Fece una torre pericolante di cartoni di pizza, take-away vari e lattine di birra vuote e uscì nel corridoio per far scivolare il tutto nella colonna dell’immondizia sotto lo sguardo invisibile di Daredevil, che sembrava seguire i suoi movimenti con vago interesse.

In camera da letto Peter si limitò a creare una piccola montagna di vestiti sporchi in uno dei quattro angoli, lasciando le armi per terra. Sistemò solo le catane sul piedistallo che Wade aveva istallato sul muro, probabilmente l’unico lavoro di carpenteria che il mercenario avrebbe mai fatto nella vita. Lanciò un’occhiata critica alle coperte sfatte e alle lenzuola che alla pallida luce che filtrava dal salotto gli parvero sporche, ma non così tanto come aveva temuto. Le tolse comunque, sperando che Deadpool avesse da qualche parte un cambio di biancheria.

In effetti lo trovò, infilato sul fondo del cassetto che, anno dopo anno, era diventato il cassetto di Spidey. All’inizio, oh, anni prima, aveva lasciato a casa di Deadpool una maglietta degli AC/DC e per qualche motivo non si era mai preoccupato di portarla via. Un giorno l’aveva trovata piegata e lavata in cima al cassettone, circondata da pistole e coltelli affilati. L’aveva fissata, chiedendosi che cosa ci facesse una delle sue magliette nella stanza da letto di DP, ma poi si era dimenticato della faccenda, perché lo stesso DP stava cercando di rinfilarsi gli intestini nello stomaco nella stanza adiacente e Peter era richiesto ad assistere.

Poi aveva lasciato una felpa. Poi un paio di scarpe. Poi un giorno che era andato a trovarlo in abiti civili per giocare con la XBOX erano stati entrambi richiamati all’azione da qualche catastrofe imminente e Peter vi aveva lasciato un paio di jeans e una vecchia camicia di flanella. Tutti quegli oggetti erano stati piegati e impilati sul cassettone di Wade, come se il proprietario aspettasse che Peter ne facesse fagotto e li riportasse a casa.

Peter non l’aveva mai fatto, finché tutti i vestiti che continuava a lasciare in giro avevano trovato il loro posto in uno dei cassetti del mercenario.

L’unica cosa che mancava era uno spazzolino da denti, ma la sola idea di entrare nel bagno di DP e trovare due spazzolini nel bicchiere incrostato di dentifricio era per Peter… un po’ troppo. Troppo intimo, troppo qualcosa a cui ancora non riusciva a dare un nome, nonostante fosse lì, ben visibile, alla mercé di chiunque avesse gli occhi per vederla.

Si accorse di essere rimasto immobile con le lenzuola pulite tra le mani a fissare i propri vestiti nel secondo cassetto, che era il suo secondo cassetto, e si riscosse, sistemandole alla meno peggio sul materasso che aveva di certo visto tempi migliori.

Una volta finito, sentì la doccia iniziare a scorrere nel bagno e tirò un sospiro stanco. Avrebbe voluto – in ordine di importanza – fare una doccia pure lui, dormire per tre anni, svegliarsi e accorgersi che era tutto stato un brutto sogno, a cominciare dalla scoperta dei cadaveri di due bambini in un vicolo di New York e per finire con quel bacio sul tetto.

A passo stanco tornò in salotto e lungo il tragitto si fermò di fronte alla porta chiusa del bagno. Da sotto alla fessura penetrava un piccolo fascio di luce e del vapore. Bussò e senza attendere risposta aprì uno spiraglio minuscolo per annunciare a Wade l’imminente arrivo di Capitan America. Come previsto la risposta non arrivò e dopo un secondo lasciò perdere, decidendo di dirigersi invece verso il divano su cui Matt era ancora sistemato.

«È una tua abitudine?» domandò quest’ultimo non appena Peter si fu lasciato cadere accanto a lui ed ebbe aperto una birra a sua volta. Avrebbe voluto affogarci dentro.

Il ragazzo gli lanciò un’occhiata di sbieco, prendendo un sorso. Il liquido era tiepido, ma non gli importò. «Cosa?»

«Risistemare l’appartamento di Deadpool» precisò Matt con un lieve sorrisetto che Peter cercò di ignorare.

«No! Cioè… no.»

Era una patetica bugia, ma entrambi finsero che non lo fosse. Wade non si era mai lamentato, anzi, non aveva mai nemmeno dato segno di accorgersene e Peter aveva iniziato a pensare che per l’amico non cambiasse assolutamente nulla, che non si accorgesse delle modifiche, dei vuoti dei takeaway che svanivano, della polvere che veniva spazzata via, dei piatti che magicamente tornavano puliti. Quindi aveva iniziato a farlo saltuariamente, soprattutto quando diventava difficile sedersi a causa del casino lasciato in giro. Non era niente di diverso rispetto a quello che faceva Ned per lui, a volte, no? Con la differenza che lui e Ned erano effettivamente coinquilini, certo.

La doccia smise di scorrere e Peter rabbrividì senza sapere perché. Fuori da lì, mentre lui si dava alla pazza gioia con le pulizie, aveva preso a cadere una neve mista a pioggia che gli occupò i pensieri per qualche attimo, almeno finché la porta del bagno si aprì di scatto e i due super si voltarono verso il suono inaspettato.

Peter tentò di distogliere lo sguardo, ma per qualche motivo non riuscì.

«Cosa?» s’informò Deadpool con falsa noncuranza, la stessa espressione rabbiosa di prima sul volto. Indossava solo un asciugamano attorno alla vita, la sua pelle era arrossata, come se fosse stato a lungo sotto il getto bollente, ma era una cosa assurda: Wade odiava l’acqua troppo calda. «Tanto non è niente che tu non abbia già visto, no, Spidey?»

Peter roteò gli occhi, fingendo con se stesso di non stare arrossendo, di non aver fissato il mercenario un po’ troppo a lungo, e soprattutto fingendo che quel lieve calore alla bocca dello stomaco fosse dovuto solo e soltanto al bruciante senso di colpa che apparentemente ormai non faceva che crescere di giorno in giorno.

Quando Daredevil sbuffò fuori una risatina mascherata da colpo di tosse e la schiena di Deadpool svanì nella camera da letto, Peter schizzò in piedi annunciando che si sarebbe fatto una doccia pure lui, perché col cazzo che voleva stare a stretto contatto con Wade, in quel momento. E se la fuga lo rendeva un codardo, be’, avrebbe convissuto pure con quella consapevolezza.

Si lavò in fretta e furia, strusciando via sudore e polvere con una spugna ruvida, ostinandosi a non processare il fatto che magari non c’era uno spazzolino per lui, in quel bagno, ma c’era di certo uno shampoo e un asciugamano in più. Dio santo!

Peter si insaponò i capelli, cercando di strappare via i propri pensieri e metterli in un ordine che avesse un minimo di logica. Scrutò la propria immagine distorta nello specchio e si rese conto, come se qualcuno lo avesse appena colpito allo stomaco, che non era più il Peter Parker che Tony Stark aveva conosciuto. Da qualche parte in quei lunghi, lunghi anni si era trasformato in qualcuno che ancora non aveva imparato del tutto a identificare: l’amichevole Spider-Man di quartiere non era più tanto amichevole e apparentemente aveva pure smesso di prendersi le proprie responsabilità.

Posò la fronte contro il vetro appannato e uscì dalla doccia ancora mezzo insaponato, strofinandosi i capelli finché quasi non fece male, trascinandosi passo dopo passo fuori da quel bagno pieno di vapore e olezzante di bagnoschiuma. In tre secondi fece in modo di aprire la porta e balzare nella camera da letto, di fronte al cassettone, da cui prese un paio di pantaloni e una felpa, gettandoseli addosso come fossero sacchi dell’immondizia. Con la coda dell’occhio vide che Wade si era seduto accanto a Daredevil ed entrambi erano alla seconda o terza birra. Wade non si voltò a guardarlo.

Qualcuno bussò alla porta.

Perfetto.

«Ti spiace aprire, Spider-Man? Dopotutto sono i tuoi cazzo di invitati, no?»

«Ehi!» replicò Peter, punto sul vivo. «Non ho deciso io di chiamare la cavalleria, per tua informazione.»

«Sono stato io a far intervenire gli Avengers, Wade» spiegò Matt in tono pacato. “Perché Peter era troppo fuori di testa dalla preoccupazione per pensare a un eventuale back-up” venne miracolosamente lasciato fuori dalla spiegazione.

Aprendo la porta, il ragazzo si trovò davanti un Sam e un Bucky in abiti civili, cosa che per un attimo lo lasciò perplesso: se li era aspettati in tenuta da battaglia e invece l’unico rimasto con la divisa tra tutti loro era Daredevil. Non che a lui sarebbe importato qualcosa, o che se ne sarebbe mai accorto.

«Peter.»

«Sam» salutò lui, facendosi da parte per farli entrare.

Wade si alzò dal divano stiracchiandosi, come se non avesse una sola preoccupazione al mondo. Indossava una felpa scura, col cappuccio tirato su che gli copriva metà volto, ma non parve troppo a disagio nel mostrarsi senza maschera. Matt, vicino a lui, si alzò a sua volta.

Ci fu un attimo di teso silenzio finché Wade non sbottò: «Be’? Che diavolo volete sapere?!»

«Tutto» tagliò corto Sam, mentre Bucky si avviava verso il basso tavolino di fronte alla televisione per prendersi una birra. Tutti lo ignorarono.

Wade incrociò le braccia sul petto. «Non potete chiedere al cattivone, invece di rompere i coglioni a me?»

Lo fissarono tutti. «Potremmo» spiegò lentamente Bucky, scolandosi un paio di sorsi. Sam non si era ancora mosso dall’ingresso, praticamente. «Se solo l’avessimo catturato.»

Wade si volse verso Peter, guardandolo per la prima volta da quando era uscito dalla doccia. «Che cazzo vorrebbe dire? Non l’hai preso?»

«Cosa diavolo ti fa pensare che l’abbia preso?!» replicò il ragazzo, senza capire.

«Ti ho sentito entrare nel capannone pochi secondi prima di morire» spiegò Wade con un tono di voce che voleva essere calmo, ma pronunciando parole che non spiegavano proprio nulla.

Sam abbandonò la sua posa rigida e si mosse verso di loro, sistemandosi in piedi vicino a Bucky. I due si scambiarono uno sguardo rapido. «Ok, facciamo tutti in passo indietro: DP, racconta dall’inizio.»

«Dall’inizio» ripeté Deadpool grattandosi la base del collo, chiaramente a disagio. «Avrei dovuto vedermi alle undici con questi due» disse, indicando prima Peter e poi Matt. «E invece mi sono svegliato su quella sedia da dentista e un tizio incappucciato si è messo a fare esperimenti su di me. Suppongo che siate entrati in azione tutti insieme per salvare il mio povero culo butterato, no? Com’è possibile che quattro tra i super più forti di NYC non siano riusciti ad acciuffare il malvivente con la voce da minorenne, mi domando. Cioè, ero lì, con le sue mani che ravanavano tra i miei organi interni e cosa non sento se non la voce del nostro amichevole Spider-Man di quartiere? Quanto ci avrai messo ad arrivare sulla scena? Dieci? Venti secondi al massimo?»

«Taglia corto, Deadpool.»

«Wow» replicò lui sbattendo gli occhi e guardandosi attorno, stupito che nessuno riuscisse a seguirlo e vagamente compiaciuto al tempo stesso. «È così che ti senti quando sai qualcosa che io non so, Spidey? Potrei abituarmi.»

Peter incrociò le braccia sul petto, per nulla in vena di giochetti. «Wade.»

Di fronte al tono esasperato del ragazzo, Wade cedette. «È un mutante, probabilmente. O un mutato o roba simile. In ogni caso ha la supervelocità. Che c’è? Non ve lo aspettavate? Come diavolo avrebbe fatto a: uno, entrare qui dentro senza che io me ne accorgessi, due, drogarmi, tre, portarmi dall’altra parte della città nei dieci scarsi minuti in cui quell’ottimo cocktail di farmaci ha lasciato il mio sistema, e quattro, compiere un’operazione a cuore aperto sul sottoscritto – sapete tutti che il mio fattore di guarigione è abbastanza potente da ricucirmi in pochi secondi, se non sono troppo disastrato – e, ultimo, ma non ultimo, svanire nell’etere in quegli attimi che avrete impiegato nell’invadere la mia triste, triste prigione. Svanire nell’etere col mio povero cuore, aggiungerei, ma non nel senso romantico del termine, Pete, non preoccuparti.» Ed ebbe pure il coraggio di rivolgere un occhiolino nella generica direzione in cui Spider-Man si era sistemato. Peter roteò gli occhi.

Ci fu un attimo di silenzio in cui ognuno si mise a fare le proprie considerazioni, forse, finché, misericordiosamente, Sam decise di concentrarsi solo sulla parte importante di quella tirata. «L’hai effettivamente visto muoversi con la supervelocità? Lo puoi descrivere?»

Wade si strinse nelle spalle. «Non l’ho visto, ma non ci vuole un genio per fare due più due. Inoltre, la ragazzina, Abby… sono sicuro che lei l’ha visto. Sarà stata lì legata molto più di me.»

«Basterebbe trovarla» commentò Bucky con nonchalance.

Peter giurò di poter quasi percepire il cambio d’atmosfera nell’aria. «Trovarla?» ripeté Deadpool con un tono molto diverso rispetto al suo solito, falsissimo ottimismo. «Come sarebbe a dire trovarla? Spidey! Mi hai detto che stava bene!»

Tutti gli occhi si spostarono su Peter, ma quest’ultimo ebbe cuore di fissare solo il volto di Wade che lo stava implorando per una rassicurazione che non sarebbe venuta. «No… Wade, quando mi hai chiesto della ragazza… eri appena tornato-- Eri sul punto di… non volevo agitarti. C’eri solo tu. Quando sono entrato, c’eri solo tu lì legato su quella sedia.»

Wade superò la distanza che li divideva e torreggiò sopra di lui scrutandolo come se Peter avesse appena ammesso qualcosa di inconcepibile. «Mi stai dicendo che quel pazzoide è sparito con Abby?»

«Deadpool» si intromise Sam, cercando di appianare la situazione. «La stiamo cercando. Per questo abbiamo bisogno di dettagli. Più dettagli.»

«Non volevi agitarmi?» rincarò la dose Wade, senza dar segno di aver captato una sola parola proveniente da Capitan America. «Hai dimenticato chi cazzo sono, ragazzino? Quello che faccio? Come vivo?! Pensi davvero che abbia bisogno di qualcuno che mi tiene la fottuta mano ogni volta che–»

«Wade!» lo richiamò Daredevil in tono secco. «Vuoi salvare la ragazzina? Dacci dei dettagli

Peter si era fatto indietro, un passo dopo l’altro, senza quasi rendersene conto, senza registrate il moto di panico, il sentirsi di nuovo in fallo, di nuovo sbagliato, di nuovo come quel piccolo adolescente incompetente che aveva rovinato tutto. Da quanto tempo Spider-Man aveva smesso di preoccuparsi dei civili per paura di ferire un collega, un amico? Qualsiasi cosa Wade fosse per lui? E il risultato era stato comunque quello di ferirlo.

Si coprì la faccia con le mani, stringendo le dita contro le palpebre, fino a farsi male. Quando li riaprì Wade gli dava le spalle.

«Abby, avrà avuto dodici anni al massimo. Afroamericana, occhi enormi, scuri, Cristo! Era terrorizzata… le piacciono gli unicorni, ha un gatto di nome Fluffy, ha un fratello… minore? Non ricordo. Deve cambiare scuola e non vuole perché la sua migliore amica rimarrà lì. Abitano vicine, ma ha paura che non si vedranno più. Ah, e il fattore di guarigione! Ha un fattore di guarigione!»

Bucky finì l’ultimo sorso di birra, osservando con Sam con blanda attenzione, quest’ultimo inviava le vaghe informazioni a qualcuno tramite cellulare. «Non hai pensato a prendere un cognome, già che c’eri?»

«Ehi, ghiacciolino» ringhiò Wade nella direzione dell’uomo proprio mentre quest’ultimo stritolava la lattina con la sua mano di metallo. «La prossima volta vai tu a farti operare al cuore senza anestesia, e vediamo quante domande riesci a fare agli altri prigionieri!»

«Come sai che la ragazzina aveva un fattore di guarigione?» domandò Matt a quel punto. Peter gli fu grato per la domanda. Avrebbe voluto porla lui, ma non si fidava della propria voce, non si fidava di sé stesso in quel momento, mentre un senso di colpa più grande di lui lo sommergeva, lasciandolo sospeso in un limbo di “voglio uscire di qui e andare a salvare Abby che ama gli unicorni” e “voglio rimanere qui e sistemare le cose”.

Wade spiegò lo scambio di sangue, la ferita di Abby che si era rimarginata all’istante.

«Ha un problema al cuore» commentò Spider-Man a quel punto. «Il tizio, dico, ha un problema al cuore.»

Wade gli lanciò un brevissimo sguardo. «L’ho pensato anche io» ammise dopo un secondo.

«Perché dovrebbe avere un problema al cuore?» domandò Sam, sollevando gli occhi dal telefono.

«Sta facendo degli esperimenti. È stato lui stesso a dirlo. E scommetto che tutte le sue vittime hanno un fattore di guarigione più o meno elevato, come me…» ipotizzò Wade, indovinando esattamente ciò che Wolverine aveva detto a Peter quella mattina. Peter lo fissò con stupita ammirazione mentre lo ascoltava fare altre ipotesi. «I primi due, i fratelli Spencer… Scommetto che ha cercato di scambiare il cuore di uno con quello dell’altra, vedere se attecchiva o roba simile. Non ha funzionato, ma ha tenuto i cuori.»

«Ha provato anche con Fred Johnson. Ecco perché c’era il sangue dei due Spencer sul suo corpo» completò Daredevil, annuendo tra sé e sé. «Pure lui aveva un fattore di guarigione, no?»

«Niente di così potente come quello di Wade» ammise Peter, «ma sì. Era per dirvi questo che vi ho dato appuntamento stanotte» aggiunse a beneficio di DP.

«Ce l’ha coi supereroi» continuò quest’ultimo imperterrito, quasi come se Peter non avesse parlato. «Scommetto che dà la colpa al vecchio Tony Stark per non averlo preso sotto la sua ala protettrice o roba simile. La colpa è di tutti tranne la sua… per questo scarica i cadaveri sotto i murales.»

«Per lavarsi la coscienza? Dare la colpa a qualcun altro?» s’interessò Bucky.

Wade esitò solo un secondo prima di continuare con le sue ipotesi. «Non ha bisogno di lavarsi la coscienza. È convinto che quello che fa sia giusto, che qualsiasi cosa è giustificata perché non c’è nessuno che voglia aiutarlo, tranne lui stesso. Probabile anche che l’uso della super velocità peggiori la sua condizione. L’ho visto succedere in altri super.»

«Wade» commentò Matt a quel punto. «Sembra che tu abbia capito parecchio della psiche di quest’uomo.»

«Sai com’è, Matty? Quando qualcuno ti tocca il cuore, finisce che impari parecchie cose.» Poi più lentamente, abbandonando il tono ironico: «In un certo modo, posso identificarmi.»

Nessuno aprì bocca.

«Bene» fece Sam dopo qualche secondo di estremo disagio. «Direi che abbiamo quello per cui siamo venuti. Non sarà difficile trovarlo.»

«Certo» dichiarò Peter, senza disturbarsi a nascondere il tono sarcastico. «Non adesso che il serial killer di cui vi siete disinteressati per mesi ha acceso l’interesse degli Avengers!»

«Ti ho già spiegato come vanno queste cose, Peter.»

«E tutto quello che riesco a sentire è blah-blah-blah!»

Sam e Peter si squadrarono dai due lati della stanza, nessuno dei due avrebbe ceduto di un millimetro perché entrambi avevano l’assoluta certezza di essere nel giusto; perché Peter non aveva la minima idea delle pressioni a cui Capitan America era sottoposto, ma Sam non aveva la minima idea di quello che la vita di Spider-Man era diventata; quindi, non ci sarebbero stati né vinti né vincitori, ma nemmeno un semplice compromesso.

«Invece di parlare di queste stronzate, che ne dite di andare a salvare una povera bambina terrorizzata?» s’informò Wade dopo un secondo, spingendo Peter all’indietro, senza però disturbarsi a guardarlo in faccia. «Dov’è il tuo costume, Spider-Man?»

«No-no-no!» li interruppe di botto Sam, con la miglior voce da Capita America che Peter gli avesse mai sentito produrre. «Voi due! Non voglio vedervi sul campo per almeno ventiquattr’ore e prima di essere sommerso da inutili lamentele, , al momento fate parte della mia squadra, e no, non mi interessa se non sei d’accordo con le mie decisioni, Parker. Siete in panchina per due semplici motivi: Peter, da quante ore non dormi? E Wade, sappiamo tutti che il tuo superpotere è l’immortalità, ma so riconosce una PSTD quando ne vedo una. Inoltre, prendetevi del tempo per risolvere qualsiasi sia questa cosa» e Sam indicò prima l’uno e poi l’altro dei due supereroi, «che vi rende due idioti non appena interagite. Spider-Man: oggi hai quasi staccato la mano a un sottoposto di Sharon perché si era avvicinato troppo a DP. Quindi, qualsiasi sia il problema, sistematelo.»

«Sappiamo tutti qual è il problema» commentò Bucky a mezza voce. Come riuscisse a suonare sarcastico e a mantenere quella faccia da statua di sale era un mistero a cui Peter non aveva però tempo di pensare.

Wade emise una risatina, ma aveva i pugni stretti lungo le gambe, la linea delle spalle rigida, contratta. «Voglio vedere come farai a impedirmi di uscire da qui, Cap.»

«Ho già sistemato degli agenti su tutto il perimetro. Non hanno l’ordine di fermarvi, ma hanno l’ordine di avvertirmi. Provate a mettere il naso fuori dalla finestra e giuro che la mia prossima visita non sarà in abiti civili.»

Matt tossicchiò quella che sembrava una risata a mezza bocca, ma evidentemente decise che era giunto il momento di togliere il disturbo. «Suppongo che almeno io non sia stato messo in punizione, no?»

Sam roteò gli occhi. «Libero di andare e venire, Daredevil.»

Matt fece un breve gesto con la testa rivolto ai suoi due colleghi dalla calzamaglia rossa, recuperò la sua maschera e scavalcò il davanzale della finestra, scivolando giù per la scala antincendio senza aggiungere una sola parola in loro favore.

«Bucky!» si lamentò Peter a quel punto, voltandosi verso i due rimasti. «Non puoi lasciarglielo fare.»

«Si dia il caso che sia stato proprio Bucky quello che lo ha suggerito. Un giorno a riposo può solo farvi bene.»

Stavano praticamente già uscendo, Bucky aveva la mano sulla maniglia della porta, i suoi capelli neri non erano abbastanza lunghi da nascondere l’espressione mezzo soddisfatta, mezzo esasperata.

«Siete due stronziii» cantilenò dietro di loro Wade, che aveva estratto un cellulare dai meandri della sua felpa. La porta si richiuse alle loro spalle con un click estremamente quieto, e Wade aveva già lo smart-phone all’orecchio.

«Weasel» disse a voce alta, senza preoccuparsi di essere udito oppure no dai due Avengers che avrebbero potuto essere ancora a portata d’orecchio. «Ho bisogno di un favore: devi trovarmi una persona. Un mutante, o roba simile. No, non rompere il cazzo, non ti pago. Con tutte le volte che ti ho salvato il culo questa linea dovrebbe essere sempre a mia disposizione. No! Ma ti rendi conto dell’assurda quantità di soldi che hai appena nominato? No.» Piccola pausa. «Sì, ha pagato bene e avrei decisamente dovuto rimanere a Seoul per almeno altri dieci giorni. Mi sarei risparmiato un sacco di grane. E allora!? Ho detto di no.»

Il teatrino andò avanti ancora per un po’, finché Weasel abbassò il prezzo e Wade accettò di pagarlo. Seguì qualche minuto in cui il mercenario descriveva le caratteristiche peculiari del rapitore/serial killer/psicopatico e la telefonata si concluse con un lapidario: «Chiamami appena sai qualcosa.»

E così Spider-Man e Deadpool rimasero soli.

 

Note: Il titolo del capitolo è tratto da Blah blah blah, di Armin van Buuren 

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Capitolo 8
*** E quindi prendimi, mordimi, toglimi tutto, continuerò a non avere la paura del buio ***


8. E quindi prendimi, mordimi, toglimi tutto, continuerò a non avere la paura del buio

«Vaffanculo a Capitan America!» fu la prima cosa che Wade decise di dire. «Appena Weasel sa qualcosa io sono fuori di qui». Mentre parlava teneva gli occhi puntati sul cellulare il cui schermo era nero e vuoto, la linea delle sue spalle era contratta, distante.

«Certo» confermò Peter, che dovette combattere il primo, fatale impulso che gli gridava di lanciarsi fuori dalla finestra e sparire nella notte. «Wade… mi dispiace.»

«Dovresti dirlo ad Abby, non a me.»

Ouch. Peter percepì l’intestino stringersi in una morsa, come se tutti i suoi organi interni fossero stati rimescolati da un pugno piazzato alla perfezione. Se avesse avuto qualcosa nello stomaco probabilmente avrebbe vomitato e Wade se ne accorse subito, perché Wade si accorgeva sempre di tutto. Non fece nulla per farlo sentire meglio, però, e quello sì che era straniante. Non che Peter non si meritasse un po’ di sano disprezzo, visto l’assoluto casino che aveva contribuito a combinare, ma era sempre strano vederlo arrivare da Deadpool, quel disprezzo. Deadpool, che aveva sempre baciato il terreno su cui Spider-Man camminava.

Dopo un attimo in cui cercava di raccogliere i pezzi del proprio ego distrutto, Peter si accorse che non erano mai stati così tanto tempo in silenzio, fermi immobili, senza nemmeno guardarsi.

«DP…» fece, prendendo un lungo respiro che non lo aiutò affatto. «Penso che dovremmo parlare.»

L’altro non gli fece quasi finire la frase. «Avremmo dovuto parlare una settimana fa, Webs.»

La stanza era piccola, ma fino ad allora Peter non l’aveva mai considerata soffocante. Stava appoggiato all’isola in finto marmo che separava la cucina dal resto dell’ambiente; invece, Wade stava direttamente opposto a lui, le braccia incrociate sul petto, il busto leggermente spostato all’indietro, il sedere posato sullo schienale del divano. Dietro di lui la televisione era ancora accesa, ma il volume era inesistente: fasci di luce di diverso colore illuminavano la stanza, con l’aiuto di una vecchia abat-jour abbandonata in un angolo. Wade non amava le luci forti.

Peter lo osservò mentre si passava una mano sulla testa, mentre faceva cadere il cappuccio all’indietro, e desiderò che potessero essere sempre così, senza maschera, senza protezioni, senza schermi e lenti attraverso cui guardarsi, senza modulatori di voce attraverso cui parlare.

A proposito di parlare, sapeva bene di essere quello che avrebbe dovuto iniziare a far uscire la voce, ma, senza grande sorpresa, fu Wade a prendere l’iniziativa e lo fece con un tono stanco che non gli era affatto proprio e che indusse Peter a pensare a quel commento su un’eventuale PSTD fatto da Sam, poco prima.

«Pete… non so davvero cosa fare con te. Penso di conoscerti, di sapere tutto quello che c’è da sapere su Spider-Man, ma poi fai sempre qualcosa che mi manda fuori asse. Questo balletto che facciamo, questo cazzo di girarci e rigirarci attorno… è tutto simpatia e divertimento, finché qualcuno non si fa male. E quella ragazzina è una delle vittime.»

Peter deglutì a vuoto. «Pensi che non lo sappia?»

Wade sollevò lo sguardo e, di nuovo, azzurro cielo che ustionava. «E allora dimmi quale cazzo è il tuo problema! E prima che inizi a fare l’adolescente, non sto parlando di quel bacio, ok? Messaggio ricevuto forte e chiaro, non importa, non è la fine del mondo. Non volevi farlo, non era tua intenzione, è stato un errore, chissenefrega. Sto parlando del fatto che ogni volta che tiro le cuoia fai partire una stracazzo di tragedia greca e finisce che ci sono danni collaterali di cui io non posso occuparmi, perché, be’, sono morto.» S’interruppe, le mani strette sugli avambracci, le labbra serrate. E poi, vedendo che Peter si limitava a fissarlo probabilmente con l’espressione più idiota dell’universo, distolse lo sguardo per un attimo e aggiunse, quasi timidamente: «Hai davvero quasi staccato la mano a un tizio per il tuo vecchio Deadpool?»

Oh, quella era una domanda facile a cui rispondere. «Senti… quello voleva infilarti in un sacco per cadaveri, Wade, io non–»

Deadpool sollevò le mani al cielo, esasperato. «È di questo che sto parlando! Peter, hai la minima idea di quante volte mi sono risvegliato in un sacco per cadaveri? Non è un problema, non è la fine del mondo. Sono come un brutto caso di herpes: pensi che me ne sia andato, ma torno sempre indietro a rompere i coglioni. Sai quante volte hanno cercato di cancellare il mio fumetto?»

Peter prese un bel respiro. Gli sembrava impossibile che Deadpool non capisse, che desse così poco valore alla propria persona da non vedere quanto Peter ci tenesse, quanto quella stessa vita che si ostinava a mettere in gioco da mattina a sera per i motivi più idioti e senza preoccuparsi delle conseguenze fosse di fondamentale importanza per Spider-Man.

«Wade, se non avessi insistito ti saresti ritrovato di nuovo legato a quella sedia, stesso posto, stessa immagine mentale di qualcuno che ti tortura a morte. Non capisci che ogni volta che muori, la gente… la gente smette di vederti come un essere umano?»

L’altro mosse la mano come a scacciare una mosca. «Si chiama spirito di sopravvivenza, succede spesso di fronte a un cadavere. La gente normale cerca di dissociarsi e di–»

«Io non lo faccio mai» lo interruppe Peter, perché sapeva perfettamente che cos’era la dissociazione e non era quello il punto.

Wade divenne improvvisamente immobile. «No» confermò in tono neutro. «Non lo fai mai.»

«Sai quante persone ho perso…» continuò Peter, sentendosi come se il primo mattone di una diga fosse stato smosso, come se una crepa si fosse formata nel muro che aveva cercato di tirare attorno a sé e tutte le persone che amava. «Lo sai perché eri lì a raccogliere i pezzi» emise una risata amara. «Eri l’unico che c’è sempre stato per raccogliere i pezzi. Mio zio all’inizio… e poi Tony. Sai quello che mi ha fatto vederlo morire. Ma MJ c’è andata molto vicina, Wade, l’ho ripresa per i capelli: c’eri anche tu. E zia May, quella volta con Doc Oc… E ogni volta che coinvolgo Ned nelle mie stronzate so quale sia il rischio. Ogni volta che qualcuno ci va vicino… c’è una parte di me che se ne va con loro.»

«Peter…»

«No! No, fammi finire. Ogni volta che le persone che amo rischiano la vita a causa mia è un’agonia, ma ci sono abituato. Faccio di tutto per evitarlo, faccio di tutto per proteggere chi mi sta intorno.» Gli lanciò uno sguardo, perché fino ad allora aveva guardato da ogni parte, tranne che nella diretta direzione di Deadpool. «E poi ci sei tu. E con te non posso fare nulla, se non aspettare.»

Ci fu un lungo attimo di silenzio che si distese tra di loro come catrame fuso eppure, per qualche motivo, Peter non si sentì a disagio. Wade lo fissava con attenzione, con una curiosità mista a incomprensione che gli fece venir voglia di sorridere ed era assurdo, perché imbottigliare i sentimenti che provava per Wade non aveva portato a niente, se non a quel confronto al limite del doloroso, ma rendersi conto appieno di quanto DP fosse ignaro dell’importanza che aveva per Peter era anche stupidamente divertente.

«Non sono molto sicuro di sapere dove stai andando a parare, bimbo» dichiarò Wade alla fine, storcendo un poco il capo, come avrebbe potuto fare un labrador troppo cresciuto che non capisce la scena a cui sta assistendo.

Peter fece un passo avanti, e poi un altro. Non avere più la protezione del finto marmo alle sue spalle all’inizio non gli piacque, come ai primi tempi della sua mutazione, quando per saltare giù da un palazzo doveva effettivamente staccare le mani dal muro. Ma la sensazione non gli impedì di continuare ad avanzare. «Ogni volta che muori ho il terrore che non tornerai indietro, brutto idiota! È così difficile da capire?» Gli arrivò di fronte, tanto vicino da poter allungare una mano e puntargli l’indice contro il petto. «Ogni cazzo di volta che soffochi nel tuo sangue rimango lì a contare i secondi finché non riprendi a respirare. Quindi, scusami tanto se mi incazzo quando la gente attorno ti tratta come se fossi davvero un cadavere. Scusami tanto se non sopporto che decidi ogni volta di sacrificarti per me! Scusami tanto se non riesco a ragione al cento per cento delle mie capacità! Immagina il giorno… immagina il giorno in cui non tornerai indietro! Eh? Non l’hai mai fatto, ci scommetto.» Ad ogni parola Peter gli spingeva ritmicamente il dito contro il petto, senza nemmeno lesinare sulla superforza. «E invece io ci penso ogni singola volta. Non hai idea di cosa voglia dire aspettare col terrore di dover continuare ad aspettare e la consapevolezza che uno non può aspettare per sempre.»

Wade fece per afferrargli il braccio, bloccarlo. Peter era vagamente cosciente di avere le lacrime agli occhi, ma non gli importava; spinse via la mano protesa di Deadpool e continuò la sua tirata.

«Ma poi ti risvegli sempre e ogni volta l’unica cosa che vorrei fare è baciarti, ma che cazzo di persona orribile sarei se lo facessi? Uno ritorna dalla morte, è disorientato, traumatizzato, probabilmente ancora dolorante e c’è un povero idiota che riesce a pensare solo a quanto sia felice. Non riesco mai a ragionare su quello che stai provando tu, a come ti senti tu… solo a come mi sarei sentito io se non ti fossi risvegliato. Wade.» Peter si interruppe di botto, la mano che per volontà propria si era aperta e posava adesso sul petto di Wade a palmo aperto. Il tessuto morbido della felpa non gli impediva di percepire il battito del cuore dell’altro, vago e distante, ma rapido. Si chiese che cosa avrebbe sentito Matt se fosse stato presente, ma visto che il cuore di Peter batteva con così tanta forza da rimbombargli nelle orecchie, probabilmente Matt se ne sarebbe andato con un timpano perforato. «Wade» continuò senza saper bene come avrebbe potuto concludere, senza nemmeno tentare di decifrare l’espressione dell’uomo di fronte a lui. «Tu… tu mi tieni coi piedi per terra. Sei l’unico punto fisso che mi rimane e l’idea di perderti mi terrorizza.»

Bum-bum, bum-bum fece il cuore di Deadpool, rimbalzando lungo le dita di Spider-Man, palpabile come qualcosa di reale, di toccabile. In quell’istante Peter si permise di pensare all’uomo che aveva letteralmente preso il cuore di Wade e l’aveva tenuto tra le mani, portandoglielo via, e fu così che, violento, inarrestabile, incontestabile, gli salì alla bocca il desiderio di uccidere. Fu solo per una frazione di secondo e la sensazione non ebbe il tempo di destabilizzarlo a sufficienza da impedirgli di rendersi conto che la mano di Wade era salita a stringergli il polso in una presa gentile, quasi delicata.

«Spidey» gli disse Wade con una voce roca che dovette schiarirsi due volte per continuare. Peter puntò gli occhi sulla mano di Wade, si concentrò sulla forma delle sue dita attorno al proprio polso, il pollice che gli strofinava il punto più sensibile, la pelle sottile attraverso cui si intravedeva il reticolo di vene, e per un folle attimo si chiese se anche Wade non gli stesse controllando il battito. «Spidey, Peter… bimbo, sono anni ormai in cui l’unica cosa che mi fa sentire vagamente contento di tornare sei tu. Tu che mi dici “bentornato”.»

Peter sollevò lo sguardo cercando gli occhi del compagno, chiedendosi non per la prima volta come facesse Deadpool a nascondere così tante emozioni al di là di quella maschera rossa e nera. Com’era possibile che non schizzassero fuori tutte assieme dai fori delle pallottole, dalle cuciture fatte a mano, e com’era possibile che Peter riuscisse a riconoscerne la maggior parte?

«Non cambia il fatto che tu continuerai a morire e io non posso fare nulla per…»

«Allora non mi ascolti, Peter!» Il tono di Wade era finto arrabbiato, i suoi occhi sorridevano, la mano stretta sul polso di Spider-Man si era ammorbidita, il tessuto cicatriziale che si fondeva con la pelle morbida di Peter. «Quello che fai… è l’unica cosa che mi tiene lontano dai pensieri sucidi. Lo sai che aspetto di morire… l’hai sempre saputo, anche quando eri un ragazzino. Probabilmente anche quando nemmeno mi conoscevi. Fa parte del mio personaggio, per questo piaccio tanto ai fan, ironia tragica, ballare il tango con la morte, cazzo! Se penso che in alcuni fumetti me la scopo pure, la Morte… ma sto divagando. Il punto è che senza di te sarebbe infinitamente più difficile.» Wade distolse lo sguardo per poi riportarlo sul volto di Peter parlando veloce, mangiandosi le parole. Erano talmente vicini adesso che il ragazzo poteva sentire quando il corpo di Wade fosse caldo. Sapeva che era un effetto collaterale della mutazione, ma visto che la mutazione di Spider-Man tendeva a farlo sentire sempre infreddolito la cosa, più che inquietarlo, lo attirava. «A dirtela tutta» concluse Deadpool con un sorriso storto, «sono abbastanza certo che se non ci fossi tu, non sarei più molto in grado di farcela. Cristo…! Sommetto che se si venisse a sapere in giro perderei un sacco di lavoro.»

Senza pensare a quello che faceva Peter posò la fronte accanto alla propria mano, ancora aperta sul petto di Deadpool. Wade se lo strinse contro senza aggiungere nulla, una mano sulla nuca, un braccio stretto attorno alle spalle. Era così caldo e accogliente, solido come un muro, e l’unica cosa che Peter avrebbe voluto fare era sciogliersi contro di lui, fondersi, svanirgli sotto la pelle, diventare parte integrante di quel corpo in costante lotta per la sopravvivenza.

La sensazione, la vicinanza con Wade, gli ricordarono un giorno di molti anni prima, quando aveva capito che Deadpool non era quello che tutti pensavano, non era cattivo come tutti pensavano. Quando Peter si era trovato da solo a gestire una situazione che non era evidentemente in grado di gestire. Quando a causa della sua inesperienza erano morte due persone. Quando all’arrivo ritardato degli Avengers la situazione era sì stata messa sotto controllo, ma quelle due persone erano rimaste morte. Alla fine, Peter si era trovato con le lacrime che scendevano lungo le guance e gli impregnavano lo spandex mescolandosi al sudore e al sangue, aveva il naso bloccato e un principio di un attacco di panico che gli serrava la gola. Wade era stato lì. Wade era stato il primo ad arrivare, in realtà. Wade se l’era stretto contro il petto in quello stesso modo, permettendogli di affondare la faccia nella sua clavicola, stritolandogli le spalle tremanti, fingendo per buona parte di non rendersi conto che Spider-Man gli stava singhiozzando contro il collo. Non aveva detto niente per molto tempo.

«Quanti anni hai, Spidey?» gli aveva chiesto, dopo che Peter si era calmato.

Peter aveva risposto che ne aveva diciotto, anche se in realtà non era ancora del tutto vero. Per i sei mesi successivi Deadpool si era rifiutato di accettare qualsiasi missione assieme agli Avengers e aveva dichiarato a tutti coloro che erano stati disposti ad ascoltarlo che, se Tony Stark non fosse stato già morto, lui, Wade Wilson, mercenario straordinario, l’avrebbe fatto fuori con le sue mani per aver permesso a un bimbo di giocare a fare il supereroe.

«Quindi, fammi capire bene» disse Wade dopo un lungo momento in cui non fecero altro che rimanere immobili, incastrati l’uno nell’altro. «Perché c’è ancora un punto che mi sfugge e dovrai essere molto preciso nella risposta.» Si sistemò in modo che le sue labbra fossero a poca distanza dall’orecchio di Peter e una delle sue mani si aprì a ventaglio sulla schiena del ragazzo, stringendolo contro di sé. Il tono, quando parlò di nuovo, era divertito, giocoso. Leggermente incredulo. «Ogni volta che torno dal magico regno dei morti tu pensi a baciarmi

Ah. Be’… a quel punto Peter supponeva che quella confessione non fosse nemmeno la più imbarazzante fatta nella serata. Quindi perché non–

Il telefono di Wade scelse quel momento per mettersi a strillare “MAMMAMIA” a tutto volume, cosa che fece sussultare entrambi, come se fossero stati colti con le mani nel sacco da qualcuno.

«Merda» sbottò Deadpool fissando lo schermo. «Perché la mia vita fa così schifo? Cazzo… devo rispondere, bimbo. È Weasel.»

Peter fece per scostarsi e lasciargli spazio, ma l’altro non glielo permise. «No-no, rimani con la tua bella testolina stretta contro il mio petto e trasformiamo definitivamente questa fanfiction in un cazzo di musical targato Disney! Yoh, Weasel!»

Peter emise una risata vacua mentre Wade gli infilava la mano libera nei capelli, scompigliandoli più di quanto già non fossero. Avrebbe dovuto sentirsi in imbarazzo per quanto quel semplice gesto gli rendesse le ginocchia morbide come gelatina, e invece decise di disconnettere un attimo il cervello e stringere le braccia attorno ai fianchi di Wade.

«Non me ne frega un cazzo se trovi solo documenti in cui si dichiara che è morto» stava blaterando l’altro a un volume molto alto. «Come hai detto che si chiama? Brian? Be’, il piccolo Brian è vivo e vegeto, un po’ troppo vivo e vegeto, per i miei gusti.»

Peter fu raggiungo dalla voce distorta e gracchiante di Weasel. «Senti Wade, cosa devo dirti? Qui dice soltanto che è scomparso durante il blip e non è mai tornato indietro. La sua famiglia… come cazzo si chiamano? Ah, Brett! Insomma, lo hanno dichiarato morto un paio di anni fa e fine. Stop. Non è che posso cambiare quello che è scritto qua solo perché non ti piace.»

«Brian Brett? Classico nome da super villain!»

Peter ascoltava con un solo orecchio, pronto a captare qualsiasi info decente che permettesse loro di schizzare fuori dalla finestra e mandare al diavolo l’ordine di Capitan America. Senza riflettere, mentre i due uomini discutevano, il ragazzo sollevò un lembo della felpa di Wade per toccargli la pelle. Era così caldo, e Peter non dormiva da… quante ore? Gli sfiorò la parte bassa della schiena, passando le dita tra le cicatrici, lungo strade immaginarie che sognava di percorrere da mesi, ormai.

Wade emise qualcosa a metà tra un sibilo e un’esclamazione stupita. «Nno» fece dopo un attimo, rivolto chiaramente a Weasel. «Sì, stronzo, sono ancora qui. Senti, ci devono essere dei documenti su uno come lui… tra i mutanti la supervelocità è uno dei poteri più accettati.»

«Anche uno dei più facili da nascondere» s’intromise Peter, le parole attutite dalla felpa di Wade.

«Anche uno dei più facili da nascondere» ammise quest’ultimo, con un sospiro. Peter lo sentì rilassarsi sotto il suo tocco. Da quanto tempo era che stavano abbracciati in quel modo?

«È comunque qualcuno che ha avuto accesso a parecchio materiale medico. E soprattutto ha avuto accesso agli elenchi dei mutanti dello S.H.I.E.L.D., come minimo. L’ho sempre detto che dovrebbero bruciare quei cazzo di archivi. Vabbe’, controlla quella roba là. Avrà pure cambiato nome… No, non ti sto dicendo come fare il tuo lavoro, scassapalle.»

Peter sollevò la testa, la mano di Wade, ancora stabilmente ancorata ai suoi capelli si mosse con lui. «Se hai bisogno di supporto tecnico chiama Ned!» dichiarò rivolto verso l’apparecchio. «Ce l’hai ancora il suo numero, no?»

Wade sollevò un sopracciglio, scostando un poco il telefono dall’orecchio. La voce di Weasel si fece un po’ più forte. «Ho ancora il numero di quel nerd, mi chiede! Ovvio che ce l’ho. Come posso farlo passare dalla mia parte senza intrattenere un contatto costante? A proposito. Wade, credevo di averti detto che non voglio essere messo in vivavoce, cazzo! Ci tengo alla mia privacy.»

«Alla tua privacy? E da quando? E comunque datti una calmata. Non sei in vivavoce.»

Ci fu un attimo di silenzio. Wade stava parlando con Weasel, Peter ne era consapevole, ma allo stesso tempo i suoi occhi non si staccavano dalla sua faccia, lo scrutavano quasi fosse la prima volta che lo vedeva senza maschera, quasi che volesse memorizzarne ogni dettaglio.

«E allora siete seduti davvero molto, molto vicini, se riesco a sentire così bene quello che–»

«Chiamami appena sai qualcosa, stronzo.» Senza guardare, Wade premette il tasto che mise fine alla chiamata e quasi nello stesso istante si stavano già baciando. Il cellulare cadde a terra, ma Peter se ne accorse molto in ritardo, probabilmente quando la mano finalmente libera di Wade andò a stringergli il sedere, spingendoselo ancora più contro. Non trovò molto da protestare mentre apriva la bocca e gli lasciava campo libero. Wade sapeva di birra e di dentifricio e baciava come faceva ogni altra cosa nella vita: con poca grazia e molto, molto entusiasmo.

Il cuore di Peter gli martellava nelle orecchie, Wade gli tirò i capelli, gli infilò le mani sotto la felpa, lasciò che Peter si aggrappasse a lui senza impedirgli di toccargli la pelle, i muscoli tesi delle spalle, di percorrergli i nodi della spina dorsale con le dita. Peter non fu delicato, non poteva esserlo quando ognuno dei suoi sensi – compresi quelli di ragno – premeva per essere più vicino a Wade.

Si staccarono inghiottendo aria, il fiato corto, le pupille dilatate. C’era un sottile rivolo di saliva che per un attimo tenne le loro bocche connesse, come il residuo di una minuscola ragnatela, ma si spezzò quando Wade parlò. «Cazzo» disse, con la voce più sorda che Peter gli avesse mai sentito produrre. «Mentirei se ti dicessi che non ho passato l’intera settimana a pensare esattamente a questo

«Meglio o peggio?» chiese Peter, per nulla sorpreso che ancora la mano dell’altro non avesse lasciato il suo sedere, ma consapevole che la frizione tra i loro corpi stesse producendo, be’, altro.

La risposta fu un sorriso abbagliante. «Meglio, bimbo, cosa credevi?»

Peter non perse nemmeno tempo a far finta che il soprannome non gli producesse un improvviso attorcigliarsi di stomaco e lo baciò di nuovo, perché era lì, perché voleva, perché Wade lo faceva ridere ed era sempre, sempre presente, qualsiasi cosa succedesse. E anche perché lo sentì emettere un suono a metà tra un gemito e un sospiro e per qualche motivo decise che avrebbe voluto risentire quel suono altre mille volte, in altre mille situazioni.

«Sto per portarti a letto» gli annunciò Wade lunghi minuti dopo. «Preparati a ricevere il miglior pompino della tua vita.»

«Bene» replicò Peter, che in qualche modo era riuscito a divincolarsi abbastanza da far incontrare degnamente le loro erezioni, sebbene separate dalla stoffa. A dirla tutta, era incredulo che il divano fosse ancora al proprio posto e soprattutto che loro due fossero ancora in posizione verticale. «Perché non credo di riuscire a fare molto altro, stasera.»

«Peter» replicò Wade mentre gli mordicchiava la mandibola e al contempo gli affondava una mano dentro ai pantaloni. «Non dovrai fare nient’altro per molto, molto, moltissimo tempo.»

Peter sapeva di non meritarselo, di non meritarsi quella persona disastrata, ferita e col cuore così grande che aveva imparato a battere assieme a quello rattrappito di Spider-Man. Sapeva di aver sbagliato tante cose, e che entrambi avrebbero fatto meglio ad andare a cercare Brian Brett, prima che fosse troppo tardi, ma sapeva anche che era troppo esausto per continuare a pattugliare le strade di New York senza una meta, e sapeva che risolvere le cose con Wade sarebbe stato il modo migliore per risolvere anche i problemi tra Spider-Man e Deadpool.

Quello di cui non era del tutto sicuro era se l’andare a letto con Wade avrebbe davvero migliorato la situazione, ma il problema era che lo voleva troppo per fermarsi lì, proprio sul più bello.

Note: Titolo del capitolo tratto da LA PAURA DEL BUIO, dei Måneskin 

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Capitolo 9
*** Fight so dirty, but your love's so sweet; talk so pretty, but your heart got teeth ***


9. Fight so dirty, but your love's so sweet; talk so pretty, but your heart got teeth

A New York la poca neve che cadeva a novembre non durava mai un cazzo.

Il tempo di raggiungere terra e nel migliore dei casi veniva immediatamente inghiottita dall’asfalto, nel peggiore se ne rimaneva lì, un lieve tappeto di pochi millimetri, che al primo levare del sole si scioglieva e si trasformava in un nevischio grigiastro, calpestato dai mille piedi frettolosi che invadevano le strade. Si ammucchiava per un po’ lungo i canali di scolo, un ammasso catramoso che a chiamarlo neve si sarebbe stati presi per pazzi e che per le dieci di mattina era già svanito del tutto, come se non fosse mai esistito.

Wade, come gran parte dei vigilanti di NYC, assisteva spesso all’arrivo di quelle nevicate improvvise e rapide, e al conseguente, lento deformarsi del manto nevoso. Non era il tipo da fare inutili paragoni, o metafore azzardate, ma a volte pensava alla neve della sua infanzia, quei ricordi nebulosi spazzati via dai fumi della WeaponX. Ricordava manti di metri e metri dove potersi lasciar cadere, svanire al di là di una coltre bianca, intonsa, intoccata. Si sentiva un po’ così, Wade Wilson: un tempo era stato una spolverata di neve sulle montagne del Canada, e adesso non era altro che un ammasso di fanghiglia che scivolava nelle fogne della Grande Mela.

«Hai premuto l’acceleratore su “depressione”, per caso?» domandò il mercenario a nessuno in particolare. Stava bisbigliando nonostante Spidey dormisse nella stanza di fianco e ci fosse una porta a separarli. Lui, come al solito, non dormiva. Si era appollaiato sul davanzale della stessa finestra da cui, poche ore prima, quel traditore di Daredevil si era dileguato. Era un davanzale bello ampio, Wade indossava solo un paio di mutande e dondolava una gamba fuori dalla finestra, l’altra era ben piantata al suolo e il vento gelido di novembre gli sputava in faccia manciate di nevischio acquoso. Il freddo lo aiutava a gestire il proprio corpo, che quella sera non sembrava volerne sapere di darsi una calmata. Avesse potuto si sarebbe strappato di dosso il primo strato di epidermide, ma sapeva per esperienza personale che, oltre ad essere estremamente doloroso e a volerci un sacco per ripulire, era anche estremamente inutile. Doveva solo aspettare che la sua pelle si decidesse a fare la brava.

Non era del tutto vero, poi, che ci fosse un’intera porta a separare Spider-Man da Deadpool. Ogni tanto Wade lanciava occhiate allo spiraglio che aveva lasciato aperto e da cui si intravedeva il letto, le coperte sparpagliate, un ciuffo di capelli scuri che emergeva dal piumone, la silhouette di un braccio che pendeva verso il pavimento. Le dita di Spidey non toccavano il suolo, ma la luce che filtrava dalla porta proiettava un’ombra dietro la sua mano e, poeticamente, l’ombra somigliava a un ragno. Wade sorrise appena, incapace di distogliere lo sguardo da quella prova fisica di Peter nel suo letto, delle sue mani su di lui, del suo respiro rapido che gli si infrangeva contro la bocca. La testa gettata all’indietro, i muscoli tesi, le dita che gli stringevano la nuca. Wade non aveva mai desiderato dei capelli con così tanta intensità come nel momento in cui era stato evidente che, se li avesse avuti, Spidey li avrebbe tirati fino a fargli venire le lacrime agli occhi. Rabbrividì, ma non per il freddo. Poi si diede un pizzicotto, per essere proprio sicuro-sicuro di non stare allucinando.

Si era immaginato di portarsi a letto Spider-Man in molti modi, in molte posizioni, in molte, discutibili situazioni, ma ciò che non aveva immaginato era il livello di intensità che avevano raggiunto quella sera. E si erano pure limitati a semplici lavoretti di bocca e di mano. Non la migliore performance della sua vita, doveva ammetterlo, ma Peter gli era sembrato estremamente soddisfatto e sentirgli pronunciare il suo nome con quel tono di urgenza aveva fatto cose al cervello di Wade che di certo il mercenario non si era aspettato.

«Evidentemente non te lo aspettavi nemmeno tu, cara scrittrice, visto che questo capitolo avrebbe dovuto essere POV Peter, no? Non potevi semplicemente darmi una smut decente e chiuderla qui? Che cazzo mi significa questo mal di vivere?! Lo sapevo che non dovevo fidarmi quando mi hanno scritturato per questa fanfiction!»

Mentre parlava coi suoi fantasmi immaginari, Wade si portò una sigaretta mezza divorata dal vento alle labbra. Era la seconda che si fumava nel giro di una mezz’ora e il pacchetto era ancora quasi del tutto pieno. A volte il bruciore del fumo l’aiutava a calmare i pensieri, ma quella sera i suoi pensieri tornarono a Brian Brett, alla sua faccia senza volto che si mescolava alla faccia di Francis, e poi alla faccia di ogni altro scienziato pazzo che prima o dopo aveva deciso di usare Wade come una cavia di laboratorio. Un miscuglio di facce deformate, che non lo aiutò affatto a capire come ritrovare Abby, ma aumentò a dismisura il suo vago e distante mal di testa.

Non si era mai preoccupato di raccogliere il cellulare da terra e Weasel non aveva ancora richiamato. Non che fossero passati mille anni, eh, al massimo un paio d’ore. Forse tre. Fuori da lì l’alba sembrava ancora qualcosa di lontano, di irraggiungibile.

«Il tuo piano è quello di morire assiderato o far morire me assiderato?» domandò la voce di Peter all’improvviso. Si era alzato dal letto, si era avvolto nel piumone che strusciava dietro di lui come una distorta immagine di un abito da sera, ed era emerso dalla camera. Con i capelli del ragazzo sparati in ogni direzione che lo supplicavano di infilarci le mani dentro – mmm? Era forse un nuovo kink? – Wade concentrò l’attenzione sul suo volto: gli occhi castani erano cerchiati di nero, esausti, le labbra sottili erano aperte in un sorriso appena accennato, ancora mezzo sonnolente. Se avesse potuto, Wade l’avrebbe obbligato a dormire per due giorni di fila. Poi l’avrebbe svegliato e l’avrebbe reso esausto tutto da capo.

Invece si limitò a prendere l’ennesimo tiro di sigaretta. «Avrei dovuto chiudere la porta, ma non riuscivo a smettere di guardarti il culo» dichiarò con un sorriso vago. Dalle labbra gli sfuggirono spire di fumo che vennero trascinate via dal vento. Wow, che poesia!

Peter roteò gli occhi. Wade ricordava ancora com’era stata la prima volta che glielo aveva visto fare senza la maschera. Aveva avuto come l’impressione che il novanta per cento delle reazioni che aveva prodotto in Spider-Man fino ad allora fossero state quasi tutte delle rotate di occhi. Non gli era dispiaciuto, perché non erano mai rotate di occhi esasperate. Non del tutto. 

«Non potevi guardarmi il culo da lì! E poi ero coperto.»

«Sottovaluti il potere della mia immaginazione, bimbo.» S’interruppe per un attimo, chiedendosi cosa stessero facendo e quando fosse iniziata quella cosa, qualsiasi cosa fosse. Si chiese se lui, Wade, non avesse sbagliato tutto, se non avrebbe fatto meglio a lasciar perdere quell’assurda relazione quando aveva scoperto che Spider-Man era solo un ragazzino. Trigger warning: grande differenza di età, caro lettore!

Ma Peter, quel Peter che gli stava di fronte, quello che si era rotto in mille pezzi senza far rumore, senza dirlo a nessuno, senza mai lamentarsi, quello che aveva raccolto i suddetti pezzi da solo, con l’unico, sporadico aiuto di un mercenario dal grilletto facile, quel Peter, be’, lui non era più un ragazzino. A quel Peter non importava se Wade fosse coperto da capo a piedi di cicatrici, se la gente lo vedeva e cambiava marciapiede, se ogni tanto, saltuariamente, Deadpool andava ancora a caccia di criminali internazionali per ammazzarli senza farli passare dal tritacarne della giustizia che, per la maggior parte dei casi, non tritava un bel niente. Quel Peter, che cercava ancora – con cocciuta disperazione, a volte – di dividere il mondo in bianco e nero, sapeva ormai riconosce alla perfezione una scala di grigi, quando ne trovava una sulla sua strada. E se quello non voleva dire essere maturi… be’, che cazzo ne sapeva Wade di cosa volesse dire essere maturi? La sua collezione di peluche di Hello Kitty poteva confermare.

Peter gesticolò nella vaga direzione della finestra. «Posso?»

Dovresti rimandarlo a dormire: guardalo… si regge in piedi per miracolo. E invece Wade gli fece cenno di avvicinarsi perché chi era lui per rifiutare la compagnia di Spider-Man? Non ci era mai riuscito e a quel punto, dopo averne assaggiato letteralmente il sapore, sospettava che mai lo avrebbe fatto.

Con sua sorpresa – ma grande soddisfazione – Peter non gli si sistemò di fronte, in un’immagine specchiata e rovesciata, pronto a guardarlo in faccia con quell’espressione sincera e candida a cui era estremamente difficile mentire. Invece si mosse rapido ed elegante come quando volteggiava tra i grattacieli e s’infilò con apparente facilità tra le gambe di Wade, appoggiandosi a lui come se il mercenario fosse lo schienale di una poltrona. Ah… per Spidey avrebbe potuto diventare anche una sedia a dondolo. Pun intended.

Era decisamente troppo facile abituarsi a quel tipo di intimità.

Il ragazzo era avvoltolato nel piumone come in un bozzolo, quindi non erano esattamente pelle contro pelle, ma nell’istante in cui si fu accomodato, Wade lo sentì tirare un sospiro. «Come fai a essere così caldo anche quando fuori si gela?» domandò in tono rilassato come se stessero facendo normale conversazione. Come se non si fossero incastrati l’uno nell’altro ore prima e non fossero ancora riusciti a disincastrarsi. Gli parve di essere nel bel mezzo di un’infinita partita di Twister, e Wade stava decisamente perdendo. Non che gli dispiacesse.

Ancora troppo impegnato nel cercare di accettare il fatto che Peter non solo sembrava disposto a stare a stretto contatto con lui, ma che era spesso il primo a iniziare suddetto contatto, Wade rimase in silenzio per un po’. Quando ritrovò la voce si assicurò di darle un tono divertito, canzonatorio. «È per attrarre gli insetti a sangue freddo.»

Non lo vedeva bene in faccia, perché la posizione non glielo permetteva, ma lo sentì sbuffare una risata stanca. «Aracnide!»

«Ehi, pensi che segua solo una dieta fatta di ragni?! Sono un tipo dai gusti facili, io. Basta che abbiano un minimo di tre zampe e non ho problemi.»

Spidey gli diede una lieve gomitata che venne intralciata dagli strati di tessuto e Wade si trovò a desiderare la sparizione del piumone. Per compensare circondò il ragazzo con un braccio, stringendoselo di più addosso. Peter tirò un po’ indietro la testa, appoggiandosi alla sua spalla e lui poté vedere un’ombra di sorriso sul volto giovane, affaticato e arrossato dal freddo. I capelli di Spidey gli solleticarono la pelle, aumentando leggermente il suo fastidio, ma per una volta non gli importò affatto. Avrebbe voluto scattare una fotografia per vantarsi col mondo intero: guardate! Questa persona perfetta ha scelto volontariamente moi, Deadpool!

«Non ti vedo quasi mai fumare» commentò Peter dopo un secondo, allungando gli occhi verso la sigaretta che Wade non aveva ancora finito.

Lui si strinse nelle spalle. «Non è che rischio un tumore ai polmoni!»

«Mi fai fare un tiro?» La voce di Peter era bassa, rilassata. La voce di qualcuno che è perfettamente a proprio agio nella situazione in cui si trova. O di qualcuno ubriaco di sonno.

«Uh? Ok…» Wade sollevò la mano che teneva la sigaretta schermata dal vento, nella parte interna dell’appartamento. Il braccio di Peter emerse quel tanto che bastava ma, invece di prendergliela dalle dita, il ragazzo si appropriò della sua mano intera, afferrandogli il polso con gentilezza e portandosi la sigaretta alle labbra. I polpastrelli di Wade gli sfiorarono il volto gelido, un principio di barba sulle guance, la leggera umidità delle sue labbra, il fiato che si tramutava in vapore a contatto con le cicatrici. Era una delle cose più sexy che Spider-Man avesse mai fatto, e probabilmente ne era del tutto inconsapevole.

Ignaro dei pensieri che vagavano per la mente di Wade, Peter prese una lunga boccata di fumo, cosa che disse al proprietario della sigaretta che non era la prima volta che fumava. Ma poi di che si stupiva? Era tutta la sera che Peter gli dimostrava che non era la prima volta che faceva parecchie cose. Grazie al cielo! Aveva sempre mal sopportato le story-line in cui Peter Parker rimaneva vergine fino ai trent’anni. Che gusto c’era?

Wade socchiuse gli occhi concentrandosi sulla sensazione di averlo per sé, talmente vicino che faceva quasi fisicamente male. Si figurò il fumo che viaggiava nei sentieri interni del corpo di Spider-Man, gli penetrava i polmoni e riemergeva, spandendosi dalle sue labbra alle dita di Wade, sfuggendo nell’aria, svanendo tra le ciglia socchiuse del ragazzo accoccolato contro di lui. O era morto, o stava per morire, perché non c’era nessuna versione della realtà in cui gli sarebbe stata concessa così tanta fortuna, così tanta intimità con qualcuno.

Peter gli lasciò andare il polso per infilarsi di nuovo nella sicurezza delle coperte. «Quindi? Perché non dormi?»

La domanda lo lasciò spiazzato, ma non così tanto spiazzato da impedirgli di lanciare la sigaretta ormai quasi finita nel vuoto alla loro sinistra e trovare un’apertura nel piumone per cercare di toccare più pelle possibile. «Un po’ difficile dormire con te nel letto, bimbo.»

Peter rabbrividì sotto il suo tocco e lui sorrise a mezza bocca.

«Non è la vera ragione, Wade.»

«No?» replicò Deadpool con la vaga sensazione di star per essere messo al muro. «E come lo sai?» aggiunse subito, obbligando Peter a piegare la testa di lato mentre lui affondava il naso nell’incavo del suo collo. Dai meandri delle coperte si spandeva un pigro calore addormentato, l’odore di Peter era il solito miscuglio di acidulo e fresco, come la corteccia di un qualche albero appena piantato. Wade gli piantò le labbra e la lingua contro il collo, cercando di distrarlo; una mano che gli toccava l’addome, i muscoli dello stomaco, la leggera peluria che proseguiva fino al suo inguine. L’altra mano che lo teneva fermo. Peter gli diede pieno accesso, e per un attimo Wade pensò che finalmente avrebbe ricevuto quella smut che tanto si meritava. Ma Spidey non si distrasse.

Sospirando Wade non desistette, ma non fu troppo stupito quando Peter continuò il suo interrogatorio. Vabbe’, la verità era che Deadpool era stato interrogato in situazioni ben peggiori di quella: poteva pur stringere i denti e sopportarlo.

«Non sei il tipo da starsene nudo di fronte al vicinato.»

«Un vicinato addormentato» rincarò la dose Wade, ma le sue parole erano fiacche, attutite dal sapore di Peter sulla lingua. Era qualcosa a cui non avrebbe più potuto rinunciare, già lo sapeva. Era fottuto a così tanti livelli che nemmeno si mise a calcolarli. Be’, almeno quella era una cosa IC. «Non stanno certo a guardare me.»

«DP… parlami. So che tra di noi le cose non sono… sistemate. Non so che altra parola usare.»

Wade sollevò la testa, appoggiandosi di nuovo allo stipite della finestra, tirando l’ennesimo sospiro. «Senza parole, Pete? E io che pensavo fossi un genio.»

Il ragazzo gli mise una mano sull’avambraccio. A Wade sembrò che la pelle gli schizzasse via dalle ossa, ma non fece il minimo movimento per allontanarsi. Pure la pressione di Peter contro il suo petto stava diventando dolorosa… eh, forse non avrebbe dovuto farsi quella doccia bollente.

Ignaro del suo malessere fisico, Spider-Man parlò di nuovo. «La gente mi sopravvaluta, lo sai.»

«Sei solo tu che ti sottovaluti, bimbo.»

«Stiamo cambiando discorso?»

Wade sospirò (quanti sospiri aveva tirato, quella notte?), ma oramai era stato messo con le spalle al muro per davvero e non nel senso più sexy. «Le avevo detto che sarebbe andato tutto bene» dichiarò dopo un secondo, scegliendo accuratamente uno tra i millemila pensieri che gli si arrovellavano nel cervello. «Ad Abby, dico. Lo fai sempre anche tu, quando le cose buttano male per i civili… e ogni volta la gente sembra rassicurata. Quando l’ho detto io però è suonata solo come una bugia.»

Ci fu un secondo di silenzio e Wade riuscì quasi a sentire il sonno svanire di botto dai pensieri del giovane uomo mezzo disteso su di lui. «Sono certo che anche Abby sia stata rassicurata» gli disse Peter dopo un attimo, lentamente. Era lo stesso tono che usava Spider-Man con la gente che salvava. Un tono quasi professionale. Wade sentì il bisogno immediato di distanziarsi da tutto e tutti, ma non si mosse.

«È probabilmente già morta» replicò a mezza voce, il tono altrettanto professionale, distaccato. Il cuore gli batteva rapido contro il petto, ma per un attimo gli parve quasi di vederselo di fronte agli occhi, grondante di sangue, una cosa viscida e inanimata che non gli apparteneva più.

Peter deglutì rumorosamente. «Non puoi saperlo.»

«Vuoi scommettere?»

«Wade…»

«No… meglio non scommettere su poveri bambini morti. Ti sei mai fermato a riflettere sul perché sei così ossessionato dai fratelli Spencer?»

Peter era rigido adesso. La sua mano non aveva abbandonato il braccio di Wade, vi stava aggrappato come se quello fosse l’unico appiglio di fronte a un baratro senza fine, ma Spider-Man non aveva bisogno di appigli: aveva le sue ragnatele a tenerlo su, checché avesse detto poche ore prima. Wade non era così idiota da credere davvero di essere l’unico punto fisso rimasto a uno come Peter Parker. Uno come Peter Parker non aveva bisogno di punti fissi. Era lui il punto fisso.

«Te lo dico io il perché» rincarò la dose Deadpool. «Vuoi sempre aiutare tutti. Vuoi aiutare il mondo intero, vuoi salvare tutti, sempre e comunque e non ti fermi mai a pensare che qualche volta la gente non può essere salvata. Non perché tu non sei abbastanza bravo, o abbastanza veloce, o abbastanza eroe, ma perché nessuno può vivere per sempre.»

«Tu puoi.»

«Eh, bella merda. Non è questo il punto, bimbo. Quello che dico è che… cerchi sempre di prenderti cura di tutti, me compreso.» Ed era quello il punto, non Abby, non il suo senso di colpa con cui avrebbe fatto i conti dopo, come ormai faceva da anni. No, il punto era quella sensazione di calore alla bocca dello stomaco quando Peter era vicino a lui, e pure quando non c’era, a dirla tutta. Quella specie di dipendenza di cui non riusciva a disfarsi. Quel qualcosa che gli impediva di ringraziare Spider-Man per ogni piccola cosa che faceva per lui, ma che rendeva Wade dolorosamente consapevole di cosa sarebbe stata la sua vita senza Peter.

Sentì il ragazzo muoversi appena, forse a disagio, ma non allentò la presa e Peter non cercò di divincolarsi. Avrebbe voluto tenerlo lì per il resto della vita.

«Non cerco di–»

«Non dire stronzate!» sbottò lui con un po’ troppa enfasi. «Pensi che non mi sia accorto che hai cambiato le lenzuola e sistemato questa fogna di casa? E non è nemmeno la prima volta. Oppure pensi che esista tanta gente disposta a togliermi di dosso i vestiti e ripulirmi dalle schifezze che mi ricoprono ogni volta che tiro le cuoia? C’è sicuramente una fila infinita di persone si metterebbe a litigare con Capitan America per me. Ti sei pure messo a fabbricare quella crema per la pelle in laboratorio – tra parentesi, roba pazzesca, che diavolo ci metti dentro? –, ma il punto è… lo fai con tutti. Ti prendi cura di tutti, e non lasci mai che nessuno si prenda cura di te. E quando non riesci a salvare tutti quelli che hanno bisogno di essere salvati ti assumi tutta la colpa. Te lo vedo fare da quando ti conosco. A volte mi chiedo come fai a respirare con tutto quel senso di colpa che ti pesa sulle spalle.»

Wade stava ancora parlando quando Peter sollevò la mano che teneva nascosta tra le coperte e andò a sfiorargli la guancia con le dita. Non si stavano nemmeno guardando e Wade era stato molto attento a modulare la voce perché i suoi veri sentimenti fossero attutiti il più possibile, ma per qualche ragione Spidey sembrava conoscerlo troppo bene per caderci.

E infatti: «Stai proiettando su di me qualcosa che riguarda anche te. E non te lo direi se non ci credessi.»

«No» confermò Wade a mezza bocca. «Sei troppo nobile per dirmi stronzate.»

«Non ti ho mai mentito Wade. Mai. Nemmeno una volta.»

Lo sapeva. Non c’era bisogno che Peter glielo dicesse. Ma non voleva neppure entrare nel cuore di quella conversazione, non voleva ammettere a voce alta quanto quella notte lo avesse segnato. Quanto si era avvicinato all’orlo del baratro dopo il risveglio nella vasca da bagno. Non aveva mentito quando aveva detto che Peter era ormai quasi l’unica cosa al mondo che lo rendeva felice di non riuscire a morire. Ma non si sentiva pronto ad ammettere quanto la sua presenza, quella sera, era stata davvero l’unica cosa in grado di trattenerlo dal perdere del tutto il contatto con la realtà.

I ricordi che Brett aveva risvegliato col suo esperimento da Allegro Chirurgo erano qualcosa a cui Wade preferiva non pensare. E l’idea che Peter avrebbe potuto non essere lì a raccogliere i suoi pezzi lo agghiacciava. Non voleva dipendere così tanto da un altro essere umano, ma ormai doveva iniziare a chiedersi se non fosse troppo tardi per tornare indietro, se Peter non l’avesse del tutto addomesticato. La volpe, il piccolo principe, quelle stronzate là, insomma! Lui, che dopo Vanessa aveva giurato che non avrebbe più permesso a nessuno di entrargli sotto la pelle. Che gran bel fallimento!

«DP…» lo chiamò Peter gentilmente. «Mi hai detto mille volte che il calore non è il massimo per la tua pelle. E stasera ti sei fatto una doccia così calda che usciva il vapore dal bagno.» Si interruppe, come ad attendere di essere bloccato, ma Wade era stanco di combattere e voleva fumarsi un’altra sigaretta. Solo che il pacchetto era lontano e prenderlo avrebbe significato spostare Spidey via da lui e non voleva perdere il contatto fisico. Dio, com’era diventato patetico!

«Mi sono fatto una doccia, sì» ammise dopo un attimo, dato che l’altro sembrava aver perso il dono della parola.

Peter si mosse quel che bastava per guardarlo da sotto in su. Un lampo di iridi scure, ciglia folte, cerchi neri attorno agli occhi. Cristo, ma perché era così perfetto? «So cosa vuol dire avere l’impressione che il sangue non si tolga mai di dosso.»

«Ah, sì» commentò Wade in tono amaro, distogliendo lo sguardo. «Immagino quanta gente hai fatto fuori, amichevole Spider-Man di quartiere.»

L’altro scosse appena il capo. La mano contro il volto di Wade era gelida, un toccasana per la sua pelle infiammata. «Non il loro sangue, Wade… il mio. Il tuo, in questo caso. Lo vedo quando rimani ferito. È vero che guarisci, ma ci sono cose che corrono più a fondo di una ferita fisica.»

«Pete…»

«Perché pensi che ti abbia fatto portare via dal posto in cui quel tizio ti ha––?» non concluse mai la frase, ma non ce n’era bisogno. «Sapevo che non sarebbe stato un bel risveglio. E sì, mi prendo cura di te, come fai tu con me. E tu lo fai da così tanto tempo che è diventato quasi naturale, mentre è una cosa che non dovrei mai dare per scontata.»

Wade avrebbe voluto rispondere qualcosa di pungente, qualcosa di irriverente. E invece se ne rimase zitto. Perché era vero che aveva passato lunghi minuti sotto l’acqua bollente a strofinarsi via l’impressione delle mani guantate di Brett. Perché sulle dita vedeva ancora il sangue di Abby, per la quale nutriva ancora una piccola speranza, checché avesse appena detto a Spider-Man. Perché l’acqua calda e il dolore che l’accompagnava trascinavano nello scarico il sangue invisibile assieme alla sensazione disgustosa delle ossa che si spezzavano e delle mani che scavavano dentro di lui e gli portavano via qualcosa che gli apparteneva.

«Quindi» continuò Spider-Man come se non ci fosse mai stato un lungo momento di silenzio. «Lascia che mi prenda cura di te. Te lo devo.»

Wade deglutì. «Me lo devi? Non mi pare molto romantico.»

«Sai cosa voglio dire.»

«Per mia sfortuna, so sempre cosa vuoi dire, bimbo» replicò subito lui, rinfacciandogli le parole che Peter gli aveva rivolto quella fatidica sera di fronte al murales di Tony Stark.

«E allora torna a letto» disse subito il ragazzo, voltandosi finalmente a guardarlo. Gli mise una mano all’altezza del cuore, laddove la pelle di Wade era più infiammata e bruciava al tatto. Come riuscisse a toccarlo in quel modo semplice, naturale, rimaneva un mistero. «Ti aiuterò a dormire.»

Avrebbe voluto rifiutare, ma gli occhi grandi e spalancati di Peter lo obbligarono ad annuire lentamente. Era impossibile dirgli di no. «Dovresti andartene sempre in giro senza maschera, Pete. Una sola occhiata come questa farebbe inginocchiare tutti i criminali di New York.»

Ignorandolo, Peter si alzò in piedi stiracchiandosi e tirandolo per un braccio, il piumone che gli pendeva floscio dalle spalle. «Dov’è che tieni quella stupida crema? Cristo, mi hai fatto quasi congelare!»

«Cosa hai intenzione di fare? Non sei pronto per Deadpool Junior, bimbo… credimi. Ti reggi a malapena in pieni. Domani ti dondoleresti tutto strano e la gente inizierebbe a farsi delle domande.»

Peter gli lanciò contro il primo oggetto che gli capitò sottomano. Era un telecomando. «Perché devi sempre fare così schifo?»

«È un talento naturale» replicò Wade, mentre chiudeva la finestra e udiva l’altro che trafficava in bagno. La sua pelle rimpianse immediatamente il vento gelido, ma sapeva anche lui di dover cercare di dormire almeno un paio d’ore. E in più voleva cercare di togliere di dosso a Peter quella cazzo di coperta.

Andarono in camera, con il ragazzo che praticamente lo spinse dentro, la testa mezza nascosta dal piumone. Wade allungò le mani aprendole e chiudendole a pugno per fargli cenno di avvicinarsi, ma non ottenne altro che di essere spinto sul letto.

«Aggressivo, Spider-Man?»

L’altro gli rivolse un sorriso che avrebbe voluto essere ammiccante o roba simile, ma che risultò essere solo un po’ maldestro. «Non mi conosci ancora, Deadpool».

Wade avrebbe voluto mangiarselo. Invece rimase fermo, mezzo seduto e mezzo disteso, a fissare quel ragazzo pazzesco che per qualche ragione trovava normale e sano dividere il letto con lui. Aveva pensato che Peter si sarebbe svegliato in preda ai sensi di colpa, e invece ce l’aveva ancora davanti, la coperta che ormai non lo copriva più, un paio di boxer che non ricordava di avergli mai prestato e un barattolo tra le mani che cercava di aprire nonostante il tappo scivoloso. Wade lo fissò nella penombra. L’aveva già visto senza vestiti prima di allora, e in ogni caso la tuta di Spiderman non nascondeva poi molto, ma l’assoluta tranquillità con cui gli si mostrava lo lasciava a bocca aperta. Era qualcosa che parlava di fiducia assoluta e c’erano davvero poche persone che si fidassero di lui a tali livelli. Forse nessuno.

«Che vorresti fare?» gli domandò, anche se ne aveva già una mezza idea. La cosa lo stuzzicava, e allo stesso tempo lo terrorizzava. Ma Wade Wilson era un vero uomo™ e avrebbe sopportato qualsiasi cosa da Spider-Man.

«Aloe, menta, verbena e camomilla, ah, e l’olio di mandorle e lavanda.»

Wade lo fissò senza capire. «Prego?»

Peter finalmente riuscì ad aprire il barattolo e immerse due dita nella mistura. «Sono alcuni degli ingredienti che uso per questa roba. Ne ho un barile pieno in laboratorio, ma non mi hai mai dato un feedback decente, quindi non sapevo se ti stava aiutando oppure no.»

Era davvero disposto a lasciare che Peter gli spalmasse addosso quella roba, visto che quella sembrava essere l’idea? Wade l’aveva usata da solo più volte e aiutava davvero, ma lasciarlo fare voleva dire lasciagli toccare la sua pelle disastrata per parecchio tempo e non era sicuro di…

Qualcosa di quei pensieri dovette trasparire sul suo volto, perché Peter si chinò un poco su di lui con un sorriso esausto. «Sarò gentile» lo rassicurò. «Non ti farà male.» Glielo disse con lo stesso tono che avrebbe potuto usare con un animale ferito. Non ti farei mai del male, gli dicevano quegli occhi enormi, sgranati su una faccia che a volte riusciva ad essere ancora infantile. Lascia che mi prenda cura di te… lascia che ci prendiamo cura l’uno dell’altro.

«Tutta questa faccenda sta diventando un po’ troppo hurt/comfort per i miei gusti» borbottò Wade lasciandosi cadere del tutto sul letto, vagamente consapevole di non avere la sua tuta addosso, così come lo era stato per tutta la sera. Come lo era sempre quando si trovava in abiti civili (o mezzo nudo). Avrebbe voluto la protezione della maschera di Deadpool, ma allo stesso tempo la sola idea di avvicinare la sua pelle infiammata alle cinghie e alle cerniere del costume lo fece rabbrividire. Era una delle reazioni peggiori che ricordava di aver mai avuto e si fece un appunto mentale di scuoiare vivo Brett, se l’avessero mai trovato.

Poi Peter si spalmò la crema sulle mani e iniziò ad applicargliela gentilmente sul petto, all’altezza del cuore, e Wade socchiuse gli occhi quasi all’istante. Era mille volte meglio del nevischio e del vento gelido. Era mille volte meglio di molte altre cose, a pensarci bene.

Sbirciò il giovane uomo che torreggiava sopra di lui con circospezione, cercando nei suoi lineamenti un minimo senso di disgusto, l’accennato desiderio di allontanarsi, di smettere di toccare quella pelle rovinata e in costante mutazione, le piaghe che si ricucivano da sole, il tessuto cicatriziale bianco e antico in alcuni punti, e rosso e tenero in altri. Un patchwork d’uomo, un mostro di Frankenstein dei tempi moderni.

Peter però si limitò a sorridere, premendo con entrambi i pollici per sciogliergli un nodo nei muscoli. «Dovresti rilassarti di più, DP. La tensione è causa primaria di infarti.»

Wade gli carezzò la parte esterna della coscia proprio sotto al sedere, l’unico punto che avrebbe potuto raggiungere senza muoversi troppo. «Vieni quaggiù e ti faccio vedere come mi rilasso.»

Lo sentì ridere a distanza, perché in qualche momento di quel trattamento aveva chiuso davvero gli occhi del tutto, concentrato sulla sensazione straniante delle mani del ragazzo su di sé, la frescura della lozione, la tensione che effettivamente lasciava il suo corpo. C’era nell’aria un vago odore di menta e il peso di Peter che mosse il materasso quando si arrampicò vicino a lui quasi non lo disturbò. Wade ebbe a malapena la forza di socchiudere gli occhi: non si era reso conto di essere così esausto. Eppure, quando il giovane si sistemò avvoltolandosi tra le coperte e allungò i piedi gelidi per incastrarli tra le sue gambe, in automatico Wade si allungò di lato e cercò la sua bocca fresca. La sensazione effimera e deludente di quel bacio sul tetto fu finalmente dissipata del tutto dalla semplicità con cui Peter gli diede accesso, bisbigliando il suo nome, come una carezza, una mezza preghiera.

Come se Wade valesse davvero qualcosa. 

Note: Titolo del capitolo tratto da Teeth, dei 5 seconds to Summer

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Capitolo 10
*** So sick and tired of being alone; So long, farewell, I'm on my own ***


10. So sick and tired of being alone; So long, farewell, I'm on my own

Peter spalancò gli occhi di scatto quando i sensi di ragno gli vibrarono lievemente alla base del collo, spedendogli un brivido lungo la spina dorsale. Non era niente di grave, niente di immediato, ma sufficiente per svegliarlo dal sonno profondo in cui era crollato la notte precedente.

Gli occorse solo un attimo per rendersi conto che Deadpool dormiva ancora. Era disteso accanto a lui di traverso sul letto, un piede che penzolava fuori dal materasso, un braccio posato mollemente sullo stomaco, le dita rilassate, il volto distante, pacifico. Peter perse qualche secondo a osservare la linea dei suoi muscoli, il modo in cui il petto gli si alzava e abbassava al ritmo piatto dei suoi respiri. Avrebbe voluto allungarsi, distendersi su di lui come un gatto, cercare quel contatto di pelle contro pelle che aveva appena iniziato a conoscere. Avrebbe voluto baciarlo ancora, fare una smorfia fintamente disgustata di fronte al sapore cattivo dei loro rispettivi fiati dopo il sonno, baciarlo di nuovo quando Wade gli avrebbe sorriso nel dormiveglia.

Invece quello che fece fu voltarsi lentamente verso l’oggetto che aveva risvegliato i suoi sensi. Il cellulare, abbandonato per terra, si illuminava a intermittenza. Per fortuna aveva avuto la prontezza di spirito di togliere la vibrazione, oppure Wade sarebbe stato in piedi in un attimo. Per un ex-soldato era normale avere il sonno leggero, ma se Peter avesse potuto, avrebbe evitato in ogni modo di svegliarlo.

Non riconobbe il numero sullo schermo, ma seppe istantaneamente che non erano buone notizie.

Sapeva essere silenzioso come un gatto, quando voleva, e applicò la sua abilità anche in quell’occasione raccogliendo il telefono e spostandosi rapido fuori dalla stanza. Era molto probabile che Wade si sarebbe svegliato al suono della sua voce, ma se avesse parlato piano forse se la sarebbe cavata.

Entrando in salotto si accorse che fuori era spuntato un sole grigiastro, la luce opaca dell’inverno illuminava a malapena l’ambiente e la televisione era ancora accesa. Andò a spengerla recuperando il telecomando che aveva lanciato a Wade la sera prima, e nel mentre rispose alla chiamata.

«Spider-Man» sbottò una voce roca dall’altra parte della cornetta.

Peter lo riconobbe all’istante. «Bucky? Novità?» domandò in quello che sperò essere poco più di un sussurro.

«Del tipo che non ti piaceranno.»

«L’avete trovata?» La domanda venne posta in tono patetico. Sperò con disperazione che Bucky gli dicesse di no, ma quale altra novità avrebbe mai potuto esserci? Di rado Wade si sbagliava su quel tipo di cose.

«Non l’abbiamo trovata» replicò Bucky lentamente. La sua voce era accompagnata dal suono intermittente del traffico di NY, voci attutite, professionali, distanti. «Ce l’ha fatta trovare.»

«Cristo!»

«L’ha abbandonata sotto il murales di Bruce. Esattamente ai suoi piedi.»

Peter si portò una mano agli occhi, la mente in subbuglio. «Perché non avete messo nessuno a controllare i murales?»

Ci fu una piccola pausa. «L’abbiamo fatto, Peter. Ma questo tizio è più furbo di quanto pensassimo.»

«O più rapido» ipotizzò Peter, perché se si fosse fermato a riflettere su qualsiasi altra cosa che non fossero le dinamiche fisiche di quell’ennesimo assassinio probabilmente si sarebbe messo a gridare. «Il suo nome è Brett, tra parentesi» aggiunse dopo un attimo, rendendosi conto che forse era il caso di condividere info, dato che Bucky era stato il primo a farlo.

«Ah, sì. Lo sappiamo. Non che conoscere la sua identità ci stia facilitando le cose.» Ci fu una breve pausa, poi un sospiro. Le voci attorno a Bucky si attenuarono, come se fosse andato a cercare un posto tranquillo. «Sam è andato a parlare con la sua famiglia, di Brett, dico. Non lo vedono da anni. I genitori sono spariti col blip e quando sono ricomparsi lui non c’era. Lo hanno cercato per molto tempo, ma quando non si è più fatto vedere hanno pensato che fosse morto come le centinaia di persone vittime dei vari incidenti. Apparentemente invece non è mai scomparso. Ha cambiato identità tre volte, a quanto sappiamo. Ha mentito sulla sua età, ha mentito sulle sue origini. Sua madre dice che non ha mai accettato di dover evitare di usare i suoi poteri per non aggravare la sua condizione al cuore. Finché era in casa con loro potevano gestirlo, ma una volta libero dai genitori… È sparito che aveva solo diciassette anni.»

Il che lo rendeva più o meno dell’età di Peter. Che schifo. Era tutto uno schifo.

«Credevo che fossimo in panchina. Perché mi stai dicendo tutto questo?»

«Tu hai le tue fonti. Io i miei motivi. A proposito… la ragazzina, Abby.»

Peter si passò una mano tra i capelli, occhieggiando di soppiatto la camera ancora chiusa di Wade. Era colpa sua se le informazioni a proposito di Abby non erano state subito rese pubbliche, colpa sua se adesso Wade si sarebbe sentito responsabile della sua morte. Colpa sua, sua, sua. «Cosa?» bisbigliò di rimando.

«È morta meno di un’ora dopo che abbiamo preso d’assalto quella rimessa, Peter. Anche volendo, né tu né Deadpool avreste potuto fare nulla per aiutare.»

Peter trattenne il respiro, calcolando che Wade non si era ancora risvegliato quando Abby probabilmente stava tirando il suo ultimo respiro. Per un solo secondo si sentì sollevato, e poi si sentì ancora più uno schifo.

«Dovrebbe farmi sentire meglio?»

«No» replicò Bucky lapidario. «Ma solo perché ancora non ti sei messo in testa che non è sempre possibile salvare tutti.»

Peter strinse i denti, ripensando a Wade, alle sue parole, alle sue grandi mani che gli si stringevano contro le spalle, come a volerlo liberare da un peso che ormai faceva parte di lui. «È quello che faccio» protestò lentamente, le parole che si formavano e gli cadevano sulla lingua amare come fiele. «Quello che ho sempre fatto.»

Ma era stanco. Così stanco…

Ci fu una breve pausa e Peter si rese conto che quella era la conversazione più lunga che avesse mai avuto con Bucky Barnes.

«Per questo mi piaci, Spider-Man. Ah, e dì a Deadpool che avremmo bisogno dei suoi occhi sulla scena del crimine.»

Peter tossicchiò, all’improvviso a disagio. Non voleva che Wade fosse costretto ad osservare il cadavere di una persona con cui aveva chiaramente formato un legame, per quanto labile. «Non penso che sia un’idea–»

«Non fare il protettivo. Solo la scena del crimine, non la ragazzina.» E con quello la chiamata si concluse.

Peter non fece nemmeno in tempo a rendersi conto che erano stati richiamati sul campo ben prima delle ventiquattro ore di pausa che Sam aveva loro imposto, perché si accorse con un brivido che Wade era sveglio. In qualche momento durante quella conversazione aveva aperto la porta e si era seduto su uno degli sgabelli della cucina. Lo fissava con le mani raccolte sotto il mento, una felpa a coprirgli la parte superiore del corpo, le gambe nude nascoste dal finto marmo. Peter si sentì incredibilmente scoperto, come se Wade lo avesse colto in una posizione compromettente.

«Devo proprio aver vinto la scommessa» esordì Deadpool dopo un secondo di silenzio. Il tono era a metà tra l’amaro e il sarcastico. Peter odiò ogni parola, ogni espressione di quel volto irrequieto. Avrebbe voluto dirgli che si sbagliava, che Abby era al sicuro, di nuovo con i genitori, il fratello e il gatto di nome Fluffy, e invece non disse nulla. Il cellulare vibrò e lui gli lanciò un’occhiata. Aveva almeno venti messaggi da parte di Ned, ma non poteva occuparsene in quel momento.

«È morta quando ancora non eri tornato. Wade… anche volendo non avresti potuto fare nulla.» Era una cosa estremamente codarda da dire. Perché se quel ragionamento per Peter non funzionava, perché mai avrebbe dovuto funzionare per Wade? Ma Peter voleva disperatamente che il mercenario non si sentisse in colpa. Poteva prendersela tutta lui, aggiungerla a quel senso costante di soffocamento che non lo lasciava mai andare. Cos’era un morto in più sulla coscienza?

Ma come volevasi dimostrare Wade gli rivolse una smorfia arida, il fantasma di un sorriso. «Non cambia un cazzo, Webs.»

Peter gli fu vicino in pochi passi e gli afferrò la mano, stringendo. «No… lo so» disse soltanto, il cuore a pezzi per la ragazzina, per la famiglia distrutta, per Wade che le aveva detto che sarebbe andato tutto bene e che – Peter lo sapeva – sentiva dentro di sé di aver mentito a una bambina spaventata.

«Vorrei solo–»

«Non è il tuo peso da portare, bimbo» lo interruppe Wade, sollevando gli occhi azzurri dal punto in cui le loro mani si univano. «Dovremmo smettere di cercare di combattere le battaglie l’uno dell’altro. Questa è la mia.»

«Non potrebbe essere la nostra?»

Wade portò lo sguardo su di lui. Aveva gli occhi trasparenti come acqua, vorticanti di sentimenti in contraddizione. Lo fissavano come se Peter fosse l’unica cosa davvero decente rimasta nell’universo, come se a parte lui non esistesse più niente di buono, di sacro. Gli mise una mano dietro al collo all’improvviso, se lo tirò contro e lo trascinò in un bacio che chiedeva conforto e che Peter si trovò a restituire con doloroso trasporto. Per la seconda volta in poche ore desiderò di stringere le mani attorno al collo di Brett, percepire la vita che svaniva per sempre, il respiro che lo lasciava. Ma pensare a quella cosa mentre stava baciando Wade gli parve al limite del blasfemo, così si concentrò solo sulla sensazione delle sue labbra screpolate, delle sue dita che gli affondavano nella carne, tenendolo stretto. Come aveva fatto a vivere senza tutto quello fino ad allora?

«Dobbiamo andare» dichiarò dopo un lungo minuto, fronte contro fronte, gli occhi di entrambi serrati.

«Credevo fossimo in punizione» replicò Deadpool deglutendo a vuoto.

«Bucky vuole che tu dia un’occhiata alla scena del crimine.»

Wade si alzò in piedi lentamente, si voltò e aprì il frigo, spostando pacchi di birra e confezioni di take-away a caso. «Avrebbero dovuto mettere gente a controllare i murales rimasti» sbottò, senza preoccuparsi di guardare l’altro in faccia. «A volte mi sembra di essere l’unico ad avere un cervello, ed è tutto dire. Cazzo… ho solo pizza avanzata per colazione.»

«Va bene» fece Peter, intento a leggere i messaggi di Ned. Non avrebbe voluto mangiare, ma alla menzione del cibo il suo stomaco fece una piccola capriola. «E hanno messo gente a controllare i murales, solo che non hanno visto niente.»

Wade si tirò su con una fetta di pizza in bocca. «Potrei essere leggermente ammirato» commentò col suo solito tono noncurante. Si stava già preparando a indossare i panni di Deadpool e Peter ne fu al contempo felice e preoccupato. Ma alla fine quello era il loro lavoro, no?

Dopo una serie di messaggi al limite dell’isterico per la sua lunga sparizione, Ned doveva aver ricevuto una chiamata da Weasel, perché sembrava essersi calmato, e la sfilza di messaggi si limitava a tenerlo aggiornato. Ancora non avevano scoperto nulla di molto utile.

Peter rispose rapidamente: “Quando sapete qualcosa chiama me, non Wade. E assicurati che Weasel tenga la bocca chiusa.

La risposta arrivò quasi subito: un pollice in su. Poteva voler dire sia che Ned era arrabbiato per il suo prolungato silenzio, completamente distrutto per la nottata in bianco, oppure sommerso fino ai capelli di dati da analizzare. Quale che fosse la motivazione di quel messaggio lapidario, Peter avrebbe dovuto preoccuparsene dopo.

Si infilò in bocca un paio di fette di pizza, masticando mentre indossava la tuta di Spider-Man che era rimasta a inumidirsi tutta la notte sul pavimento del bagno. C’era ancora del sangue di Wade sparso sulle rifiniture blu, ma dire che non ci era abituato sarebbe stata una bugia. Quando emerse dal bagno deglutendo mozzarella gelida, Wade era già in tenuta da battaglia, con molte più pistole del solito appese alla cintura. Peter non ebbe cuore di commentare.

«Pronto?»

«Nato pronto, Webs. Potresti darmi uno strappo a lavoro? Credo che stiamo andando nella stessa direzione.»

Peter roteò gli occhi mentre al contempo si infilava la maschera. «Salta su.»

«A proposito, bimbo. Ho dimenticato di chiedere com’è che mi hai trovato così facilmente ieri notte. La forza dell’amore?»

Peter tossicchiò, sentendosi leggermente in difetto. Mentre scavalcava il davanzale della finestra e si accucciava per permettere a Deadpool di aggrapparsi alla sua schiena, rifletté su come rispondere senza sembrare un assoluto maniaco. Non dovette dire molto, però.

«Ha per caso a che fare con quei localizzatori che hai messo sui miei costumi?»

Per la sorpresa Peter lanciò una ragnatela che cadde nel vuoto, il peso ormai familiare di Wade ben sistemato attorno ai fianchi. «Lo sapevi?»

«Non per vantarmi, ma ti ricordo che sono uno dei mercenari più richiesti al mondo. Pensavi che non me ne sarei mai accorto?»

«A mia discolpa… li ho disattivati due mesi dopo che ci siamo conosciuti.»

Mentre volavano tra i grattacieli la risata di Wade si perse un po’, trascinata via dal vento, ma le sue mani strusciarono allegre contro il petto di Spiderman. Abituato ai continui cambi di umore di Wade, Peter cercò di non farci caso: sapeva che la cosa migliore per DP era tenere la mente impegnata, non pensare troppo alla loro destinazione. «Come sarebbe a dire disattivati?» Il suo tono era quasi deluso.

Confuso, Peter aggrottò le sopracciglia, schivando uno stormo di piccioni. «E tu com’è che non li hai mai tolti?»

«Ad essere sincero… trovavo super sexy che tu sapessi sempre dove stavo. Non è che hai pure istallato telecamere in camera mia, vero?»

Peter roteò gli occhi, il sorriso nascosto dalla maschera. «No, vecchio pervertito.»

«Peccato» gli bisbigliò Wade all’orecchio, la voce più bassa di qualche ottava. «Dopo stanotte avremmo avuto un bel video da vedere e rivedere.»

Peter rischiò di sbatterli entrambi contro un muro, ma era bello riavere il solito Wade che gli bisbigliava sconcezze all’orecchio. Per un attimo riuscì a scordarsi tutto, a dimenticare dove stavano andando, a cosa li aspettava al loro arrivo. Brett non era nemmeno lontanamente paragonabile ai super-villain a cui Peter era abituato, ma per qualche motivo l’uomo era riuscito a entrare sotto la pelle di entrambi, sia di Spider-Man che di Deadpool, sia figurativamente, sia letteralmente e Peter non era più un ragazzino pronto a perdonare e dimenticare. Non quando la vita di chi amava era a rischio, non quando lo sguardo di Wade sembrava supplicarlo di sistemare le cose e nemmeno se ne rendeva conto. Non quando, a causa di un pazzo qualunque, l’unica persona in grado di renderlo davvero felice si trovava per l’ennesima volta sull’orlo di un abisso.

Oltre all’enorme immagine di Hulk che torreggiava nel mezzo alla via, capirono di essere arrivati a destinazione per il semplice fatto che era pieno di polizia, FBI e agenti S.H.I.E.L.D. che si mescolavano alle altre divise. Ognuno occhieggiava gli altri con diffidenza e in alcuni casi aperto disprezzo. Sam, con lo scudo ben sistemato sulle spalle, li accolse con un lieve cenno di saluto non appena atterrarono in mezzo a quel gran casino. Bucky non sembrava essere nei paraggi, così come Sharon.

Peter pensò al dottor Banner, a come si sarebbe sentito quel gigante buono nello scoprire che sotto la sua immagine era stato scaricato il cadavere di una ragazzina, come fosse un sacco di spazzatura. Poi smise di pensarci, perché aveva altro con cui fare i conti.

«Non sono un profiler» stava dicendo Wade ad un tizio che doveva essere di sicuro dell’FBI. «Ma spero che abbiate un’analista come Garcia tra i vostri ranghi, perché mi piacerebbe molto conoscerla. Cosa? Non fai maratone di Criminal Minds come tutte le persone normali?»

Il tizio lo fissò allibito, le mani strette attorno al tablet che stava usando prima di essere assalito da Wade. Peter sospinse l’amico via dal povero agente con un sorriso di scuse che sperò si leggesse anche da sotto la maschera. Sam andò loro in contro.

«Tempo record» fece con una smorfia che avrebbe potuto somigliare a un sorriso di benvenuto, se la situazione fosse stata diversa. «Spidey, non c’è bisogno della tua assistenza.»

Dentro di sé Peter sapeva che l’occhio esperto di Wade era l’unico che aveva senso portare in campo, e non era estremamente interessato ad osservare il luogo in cui era morta l’ennesima ragazzina. A volte ancora sognava i piccoli corpi dei fratelli Spencer e non voleva aggiungere orrore all’orrore, nonostante ne avesse viste tanto nella sua vita. Ma l’idea di mandare Wade da solo nella tana del lupo…

«Bimbo, riesco a percepire la tua preoccupazione da qui. Prenditi un caffè e lasciami fare il mio lavoro.»

«E da quando analizzare scene del crimine è il tuo lavoro?»

Wade estrasse da una delle sue infinite tasche un paio di occhiali da sole e se li mise sugli occhi – ovvero sulla maschera – con fare esperto. Erano occhiali da sole specchiati. «Non ne hai idea, Spidey, ma una volta sono riuscito a trovare un tizio molto, molto cattivo solo da un chewing-gum mezzo masticato che aveva sputato a terra.»

«Che diavolo c’entra questo con--?»

Sam li interruppe con un sospiro. «Dicci solo se noti qualcosa che possa appartenere a Brett, Wade, niente cazzate.»

Peter si allontanò da entrambi lentamente. In una delle sue piccole tasche il cellulare aveva preso a vibrare, ma era ancora a portata d’orecchio quando il tono di Wade cambiò repentinamente e aggiunse, bisbigliando: «Fammi dare un’occhiata anche alla ragazza.»

Peter si volse, il telefono in mano, le labbra strette in una morsa, ma entrambi i supereroi gli davano le spalle e non riuscì a sentire la risposta di Sam. Conoscendo entrambi, sapeva che Wade avrebbe cercato indizi sul corpo di Abby, che Sam gli desse il permesso o meno, pur di trovare il colpevole. Ed era quasi sicuro che Capitan America non avrebbe avuto niente in contrario.

«Ned?» bisbigliò, decidendo d’impulso che la telefonata era leggermente più pressante.

«Peter! Dio santo! Stai bene? Quando non ti ho visto tornare potrei essere andato leggermente nel panico.»

Peter prese un respiro profondo. «Non è la prima notte che non torno a casa.»

«Lo so, ma… sai quando hai un brutto presentimento che non riesci a toglierti di dosso? E poi normalmente mi rispondi sempre ai messaggi.»

«Mi dispiace, Ned. Le cose si sono fatte… difficili.» Poi, allontanandosi lentamente dalla scena del crimine e sollevando la corda gialla della polizia, Peter si fece da parte, continuando a bisbigliare. «Hai notizie?»

«Eeeeeh. Forse. Non so quanto possano essere valide, però. E poi… Weasel non mi ha detto niente di niente! Questo Brett… è il tizio che ha ucciso i due ragazzini e quel senzatetto?»

Peter si passò una mano dietro la testa, lo spandex che strusciava contro lo spandex producendo cigolii sinistri. Ma Ned si meritava almeno la verità. «E rapito Wade e ucciso un’altra ragazzina.»

La voce di Ned si abbassò di qualche tono, dispiaciuta. «Cristo Peter mi disp– Aspetta un secondo! Come “rapito Wade”? Questo tizio avrebbe rapito Deadpool? Deadpool-Deadpool? Il mercenario che si sveglia se sente volare una mosca?! Quello che si vanta di essere sempre iper-consapevole di quello che lo circonda?»

Peter tirò un sospiro. «È la super-velocità, Ned. Non c’era molto che potesse fare. Comunque tutto bene, è vivo e vegeto. Grazie per l’interessamento.»

Ned ignorò il suo tono ironico, ormai partito per la tangente. «Gli hai salvato le chiappe, vero?»

«Sì» ammise Peter, impaziente. Si guardò attorno e sembrò che nessuno facesse molto caso a lui, tranne i soliti curiosi che in lontananza gridavano il suo nome. Cioè, il nome di Spider-Man. «Vuoi dirmi quello che hai scoperto o dobbiamo fare notte?»

Ci fu una lunga pausa durante la quale Peter socchiuse gli occhi, aspettandosi il peggio. E infatti la voce di Ned si fece acuta, sospettosa. «Vuoi per caso andare a suonarle a questo tizio tutto da solo?»

«Come ti viene in mente?» replicò lui, un po’ troppo velocemente. Merda, non era mai stato bravo a mentire.

«Perché ti conosco, Peter Parker. Perché ti faresti tagliare a pezzetti per tutti quelli a cui vuoi bene e anche per quelli che ti stanno indifferenti, ma sia mai che qualcuno vicino a te venga sfiorato anche solo con un dito.»

«Ned» replicò Peter in tono stanco. «Non lo sto facendo solo per Wade, ma tu non l’hai visto ieri notte. Ha raggiunto il punto di rottura.»

Ci fu una breve pausa e Peter sapeva che a Ned Wade piaceva, che gli era sempre piaciuto, anche quando le prime volte lo faceva pisciare sotto dalla paura, con tutte quelle pistole e le spade appese sulla schiena.

«E quand’è che Spider-Man raggiunge il suo punto di rottura?»

Peter deglutì a vuoto. Lanciò uno sguardo dietro di sé e i suoi occhi si posarono per un breve attimo sull’ampia schiena fasciata nella casacca di pelle rosso-nera di Deadpool. «Spider-Man non può permettersi un punto di rottura» fu la laconica risposta.

«Sì-sì, sei molto figo quando dici queste cose, Peter, ma promettimi che non andrai da solo a inseguire un tizio che è riuscito a catturare Deadpool, tra tutti! Altrimenti puoi scordarti queste info e dovrai aspettare che Weasel si svegli dal suo pisolino. E lui non perderà tempo a chiamare te.»

«Ned…»

«Promettimelo, Peter!»

Peter si morse le labbra fin quasi a sentire dolore. Odiava mentire ai suoi amici, ma a mali estremi. «D’accordo» sospirò, come se la promessa gli costasse molto. «Chiamerò Daredevil, contento?» Era piuttosto sicuro che Ned non avesse il numero di Matt.

«Per nulla» fu la risposta immediata, poi una piccola pausa. «Allora, quello che abbiamo scoperto è che nel corso degli anni Brett ha cambiato tre identità. La prima in assoluto l’ha forgiata pochi mesi dopo il blip, quando era più facile falsificare documenti e mentire sulla data di nascita. È diventato Douglas Auster per un paio di anni, ovviamente si è fatto passare per maggiorenne o sarebbe stato dato in affidamento. Era anche il periodo in cui comprare casa era diventato come comprare una manciata di noccioline e quindi… non chiedermi con quali soldi, ma ha comprato un appartamento vuoto. Era vuoto davvero, però, perché era stato messo in vendita prima del blip. Non una di quelle case svuotate e poi riempite di nuovo quando siamo tutti ricomparsi. Ci ha visto lungo, direi, perché quando gli Avengers ci hanno fatto tornare non c’era nessuno a reclamare quel posto e l’appartamento è rimasto a nome di Douglas Auster, mentre lui cambiava identità per la terza volta. Non ha mai venduto, mai affittato, ma l’intero palazzo è in lista per essere demolito ormai da un anno. Non ci vive più nessuno, non c’è acqua, non c’è luce, tutti gli inquilini sono stati trasferiti o hanno venduto.»

«Lasciami indovinare… tutti tranne uno.»

«Bingo. Apparentemente il sito di costruzioni che ha preso l’appalto non è mai riuscito a trovare il proprietario di quell’appartamento. Come fosse svanito nel nulla.»

Peter si grattò la base del collo, ragionando. «Come fai a essere sicuro che si nasconde lì?»

«Non sono per niente sicuro, amico. Ma Weasel ha avuto la brillante idea di controllare tutti i crimini compiuti in varie farmacie nell’ultimo anno. Avete detto che ha un problema al cuore, no? E non credo sinceramente che sia il tipo da avere un’assicurazione medica. Be’, è venuto fuori che ci sono cinque farmacie nella zona limitrofa a quell’appartamento e che tutte sono state rapinate negli ultimi sei mesi.»

«Potrebbe essere stato…»

«…chiunque» terminò Ned, eccitato. «Lo so, lo so. Ma c’è un pattern: oltre ai soldi, ovviamente, oltre a una lunga serie di oppiacei i cui effetti sono francamente spaventosi, sparivano sempre medicine specifiche per malati cardiaci, assieme a strumenti di sutura, bende, alcol e varie cose che non interessano il mercato nero dei farmaci, né potrebbero mai interessare a un fattone che cerca solo una dose.»

«Ned!»

«Cosa?!» replicò lui sconvolto dal cambio di tono di Spider-Man.

Peter sorrise sotto la maschera. «Sei un genio!»

«Ah, be’» si schermì subito l’altro. «Dovresti vedere Weasel… l’attrezzatura che ha è davvero…».

Peter smise di ascoltarne nell’istante in cui Ned iniziò a raccontagli come l’amico di Deadpool gli avesse appena insegnato ad abbassare il firewall del dipartimento di polizia quel tanto che bastava per sbirciare all’interno dei dati e fuggire a gambe levate, e si mise a ragionare in fretta. Dovette interrompere l’amico due volte, per farsi dare l’indirizzo, ma quando finalmente poté concludere la telefonata l’ultima cosa che udì fu: «Mi raccomando, chiama Daredevil!»

Si guardò attorno di nuovo. C’era un sacco di gente che stava cercando Brian Brett. La polizia di New York. L’FBI. S.H.I.E.L.D. Capitan America. Forse pure Matt si era messo alla ricerca per conto proprio. Dopo che gli X-Men avevano scoperto che Brett puntava ai mutanti probabilmente sarebbero stati contenti di partecipare alla caccia. C’era Wade, ovviamente.

Un sacco di gente che avrebbe potuto aiutare Spider-Man a catturarlo e consegnarlo alla giustizia.

Solo che, forse per la prima volta nella vita, Spider-Man non era molto sicuro di volerlo catturare.

Lanciò una ragnatelo che si aggrappò al tetto del palazzo sotto cui si era sistemato. Nessuno parve trovarlo strano, nessuno tentò di fermarlo. Si arrampicò alla luce del sole, visibile come una fiamma rosso-blu che brilla senza sosta. Wade non si accorse di lui, troppo intento a scrutare la pavimentazione scrostata dell’ennesimo vicolo di New York. Sam non sollevò gli occhi. Un paio di poliziotti seguirono il suo percorso lungo il muro, così abituati ai supereroi che i loro sguardi erano al massimo annoiati.

Arrivato in cima al tetto, Spidey si fermò per prendere fiato ed estrarre di nuovo il telefono che aveva vibrato durante la sua scalata. C’era un messaggio vocale di Daredevil nel gruppo che dividevano con Deadpool.

«Ho sentito adesso le news» diceva la voce di Matt, il tono tombale. «… deduco che lo zio Sam vi ha dato via libera? Posso essere là in venti minuti.»

Peter non rispose. Spense il telefono, prese un respiro e si lanciò nel vuoto.

Note: Titolo del capitolo tratto da Lonely, by Palaye Royale

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Capitolo 11
*** Sono fuori di testa, ma diverso da loro ***


11. Sono fuori di testa, ma diverso da loro

Peter volteggiò in modo così rapido tra un grattacielo e l’altro che ad un certo punto dovette fermarsi, appendersi a un lampione e tirare il fiato per scacciare un giramento di testa che era sì dovuto all’esercizio fisico appena svolto, ma anche alla stanchezza che non lo abbandonava da giorni, e che qualche ora di sonno nel letto di Deadpool non avevano certo portato via.

Si guardò attorno, chiedendosi quanto tempo poteva avere a disposizione prima che Ned mangiasse la foglia, o Weasel collegasse a sua volta le rapine alle farmacie con quel misterioso appartamento abbandonato. Conoscendo entrambi, non molto.

«Karen» fece a mezza voce, respirando a bocca aperta. «Quanto manca alla destinazione?»

«Ciao Peter. La destinazione che hai inserito dovrebbe essere alla tua destra, al prossimo incrocio.»

Be’, perfetto. Il ragazzo si umettò le labbra, assaporando il sale del proprio sudore. Dentro di sé non aveva idea di quello che avrebbe trovato, né di quello che avrebbe fatto.

«Vuoi che chiami dei rinforzi, Peter?»

«No!» si affrettò a rispondere lui.

«Il tuo battito cardiaco è accelerato.»

«Ho appena attraversato mezza New York correndo come un pazzo» protestò lui, come se si stesse giustificando con una persona in carne ed ossa. Matt avrebbe probabilmente detto la stessa cosa, si fosse trovato lì con lui come Peter aveva promesso a Ned. E invece c’era solo la sua AI a trattarlo come un bambino.

Riprendendo fiato, Spidey percorse gli ultimi metri che l’avrebbero portato di fronte al palazzo incriminato e non si stupì più di tanto quando si ritrovò in uno spiazzo desolato, tre grattacieli superstiti circondati da gru, ruspe e detriti. Era una zona di New York che Peter non bazzicava, ma sapeva che era stata inserita in un progetto di sanificazione e ricostruzione. E a giudicare dai palazzi che si trovava davanti, be’, ce n’era un discreto bisogno.

Tutti e tre i grattacieli erano scuri, addormentati. Niente vestiti appesi alle finestre, niente piante sui minuscoli balconi, niente luci accese – era giorno, è vero, ma era anche una giornata grigia e nebbiosa, quindi se fossero state case abitate qualche luce sarebbe stata accesa. Peter fu costretto ad emergere dalla giungla del traffico che lo proteggeva e si addentrò nel cantiere aperto. Doveva esserci davvero stato qualche ostacolo a bloccare le demolizioni, perché la zona era praticamente deserta, nonostante fosse un normale giorno lavorativo. Meglio così: se si fosse messa male Spidey sarebbe stato sicuro di poter contenere i danni ed evitare inutili feriti tra i civili. Inoltre, la sola presenza di Brett gli avrebbe permesso di concentrarsi esclusivamente su di lui, cosa che intendeva fare al meglio.

Si assicurò di aver scelto il palazzo giusto da scalare e si apprestò a iniziare l’ispezione. I suoi sensi di ragno erano silenziosi, tranquilli come se stesse facendo una passeggiata in un prato, quindi ne dedusse che Brett non doveva essere a casa. Si maledisse un paio di volte per non aver chiesto a Ned a quale piano si trovasse l’appartamento, ma poco male: l’avrebbe trovato.

Sbirciò all’interno di case grigie, alcune svuotate del tutto, altre con la carta da parati che pendeva floscia dai muri, lampadine nude che penzolavano dal tetto, mobilia mezza sfasciata abbandonata negli angoli. C’erano finestre rotte, porte sventrate, lavandini di ceramica fatti a pezzi negli angoli di bagni pieni di muffa. Arricciò il naso, chiedendosi come avrebbe mai fatto una persona sana di mente a istallarsi in un buco del genere, ma ad essere davvero onesto con sé stesso, quando era andato in cerca di appartamenti assieme a Ned avevano visto posti peggiori.

I suoi sensi di ragno gli diedero una leggerissima scarica elettrica quando passò accanto a una finestra ricoperta di carta di giornale. Peter si fermò, mani e piedi ben piantati sui mattoni scoscesi, la testa piegata di lato per captare il minimo rumore. A parte il traffico sotto di lui, c’era ben poco altro da udire.

Girò attorno a quel particolare appartamento, cercando uno spiraglio nel giornale che bloccava la vista, ma era abbastanza sicuro di aver appena fatto jackpot. Dopotutto, quello era l’unico gruppo di finestre che qualcuno si era preoccupato di oscurare, e Peter era in quel campo da troppo tempo per credere davvero alle coincidenze.

Per sua fortuna trovò una piccola crepa nella carta di giornale e riuscì a sbirciare all’interno. Era tutto buio, ma riuscì comunque a notare dei resti di un pasto su un tavolo. Un pasto ancora abbastanza fresco. Attese qualche altro secondo, aspettandosi che i suoi sensi gli comunicassero l’arrivo di un pericolo, ma niente si mosse.

Peter sollevò il bordo esterno della finestra e penetrò nell’appartamento di Brett.

L’odore non era terribile come aveva immaginato, ma il tanfo di chiuso e di sangue era difficile da non notare. Le stanze erano due, una grande e ampia che comprendeva salotto e cucina, l’altra minuscola, con un materasso buttato al suolo e coperte sporche ammucchiate contro il muro. Peter diede un’occhiata lì, ma non trovò niente di anomalo, poi entrò nel resto dell’appartamento.

La cucina era stata trasformata in un minuscolo laboratorio. Bombole a gas riposavano in un angolo del salotto, sia piene che vuote. C’erano alcuni fornelli da campeggio, più grandi e più piccoli, provette, grafici appesi alla parete, libri di anatomia sparsi al suolo, oggetti medici che brillavano sul tavolo, medicine allineate dentro ai pensili privi di ante. Non c’era quasi niente di decente da mangiare, poca roba in scatola, bottiglie di bibite gassate. Quando Peter aprì il frigorifero – ovviamente spento – dovette reprimere un conato di vomito, ma chi voleva imbrogliare? Era esattamente quello che stava cercando. Quello che si aspettava di trovare.

Allineati dentro barattoli di quella che poteva essere benissimo formaldeide, stavano tre cuori.

Eh, pure un collezionista.

Viste le dimensioni e lo stato di conservazione, Peter immaginò che fossero i cuori dei fratelli Spencer e quello di Fred Johnson. Oltre a quello di Abby, mancava ovviamente quello di Wade e il ragazzo fu attraversato da un brivido disgustato all’idea di dove potesse essere Brett, di cosa stesse facendo col cuore di Deadpool in quell’esatto momento.

Era evidente che Brian non usasse il posto dove viveva come luogo dei suoi… trapianti? Come chiamarli? Ma la cosa non stupì Peter: aveva ben chiaro di non star avendo a che fare con un idiota.

Si chiese che cosa fare. Si domandò molto seriamente se non fosse stato lui, l’idiota. Lui, che aveva deciso di addentrarsi in quella follia tutto da solo, perché lo sguardo di Wade alla notizia della morte dell’ennesima ragazzina gli aveva attorcigliato lo stomaco, strappato via ogni refolo d’aria dai polmoni. Non era mai stato così tanto emotivo prima di allora, ma quell’intera faccenda aveva preso una parte di lui, l’aveva accartocciata e lanciata dall’altra parte della stanza. Deglutì a vuoto e fu allora che i suoi sensi di ragno gli spaccarono la testa in due. Livello di pericolo: uragano imminente.

Fece appena in tempo a spostarsi di lato, agendo puramente per istinto, quando una massa indistinta dai bordi sfocati sganasciò la porta via dai cardini e gli si gettò addosso. Se Peter non fosse mai stato morso da quel ragno, probabilmente Brett gli sarebbe passato attraverso come un grosso proiettile umano, spiaccicandolo contro i muri di un appartamento cadente.

«Invasione di proprietà privata, Spider-Man? Eppure mi avevano detto che eri un eroe.»

Peter si voltò verso il punto in cui proveniva la voce, lanciando un paio di ragnatele che si appiccicarono al muro e staccarono via parte della carta da parati a fiori assieme a un po’ d’intonaco. Brett si era già spostato, così veloce che per Peter fu impossibile notare il suo movimento.

Se lo ritrovò dall’altra parte della stanza, le mani bene in vista nel segno universale di resa. Teneva sotto il braccio due contenitori, uno simile a quelli che Peter aveva visto nel frigo. Al suo interno un piccolo cuore deformato dal liquido giallastro sembrò occhieggiare il vigilante con fare sarcastico. L’altro contenitore era più professionale, chiuso ermeticamente. Probabilmente rubato in qualche ospedale in cui si facevano trapianti.

Non ci voleva un genio per capire che lì dentro era conservato il cuore di Wade.

Peter non seppe nemmeno perché, ma la sola idea lo mandò fuori di testa.

Con un suono che era a metà tra un ringhio e un gemito lanciò di nuovo una scarica di ragnatele, sperando di bloccarlo contro il muro e farla finita così, ma di nuovo Brett si spostò così rapidamente da far volare in giro una serie di appunti che caddero tra di loro come enormi fiocchi di neve. Non lo stava attaccando, ma Peter aveva la netta sensazione che stesse solo cercando di proteggere i suoi tesori sanguinolenti.

«Smetti di muoverti come una trottola» sbottò voltandosi nel nuovo angolo occupato dall’uomo. Ora che lo guardava bene riusciva a vederne i tratti giovani sotto la barba di qualche giorno. Aveva lunghi capelli neri raccolti sulla testa in una coda scomposta, gli occhi scuri e cerchiati, i lineamenti marcati, ma affilati, come se non mangiasse a sufficienza. Ed era estremamente pallido. Coperto da capo a piedi da abiti scuri, per Peter fu impossibile giudicarne la stazza, ma gli sembrò molto magro. Quando lo vide stringersi la mano libera contro il petto e trattenere un’espressione dolorante, si rese conto di quanto malato sembrasse.

Avrebbe dovuto provare pena per lui, avrebbe dovuto simpatizzare. Avrebbe dovuto perdonare, aiutare, comprendere… e invece riusciva solo a pensare agli occhi sgranati sul nulla dei fratelli Spencer; a quanto Julia gli aveva ricordato Morgan, coi suoi ricci scuri, i suoi sorrisi pronti, gli occhi uguali a quelli del padre. Riusciva a pensare solo a come si era sentito quando aveva capito che il serial killer a cui stavano dando la caccia aveva preso Wade, l’aveva portato chissà dove. A quanto si era sentito stupido per non averci pensato: se il suo target principale erano i mutanti con abilità di guarigione, chi meglio di Wade Wilson per sperimentare le sue stronzate?

Quell’uomo davanti a lui gli ispirava di tutto, tranne che della pietà.

«Vorrei obbedire, Spider-Man, ma sarebbe come smettere di respirare. Un po’ come se ti chiedessi di smettere di lanciare le tue ragnatele e fare parkour tra i grattacieli di questa fogna di città. Un grande no-no, per te, vero?» La sua voce era sottile, quasi acuta, ma il suo tono era canzonatorio, per nulla allarmato. Evidentemente non gli importava di essere stato beccato.

Posò lentamente i due barattoli sulla prima superficie piana che trovò e Peter ne seguì i movimenti. Aveva delle dita molto lunghe, dinoccolate. Se le immaginò mentre aprivano il petto a Wade, gli strappavano il cuore, lo lasciavano lì a morire. Il suo primo impulso fu quello di rompere ogni singolo dito delle mani di Brett e per la prima volta ebbe paura di sé stesso. Di quello che avrebbe potuto fare.

«Dimmi, Spider-Man. Gira voce che anche tu abbia un buon fattore di guarigione…» il suo tono era interessato, come quello di uno studente che fa una domanda a un professore. «Mi chiedo se riusciresti a resistere quanto il tuo compare. Ti confesso che sono rimasto impressionato: non ne voleva sapere di schiattare e le ossa continuavano a ricomporsi. Una vera fatica.»

«Perché?» domandò Peter a quel punto, il tono roco di chi si sta trattenendo a malapena. Sapeva che avrebbe dovuto cercare di catturarlo, di renderlo inoffensivo, ma sapeva anche che il minimo movimento verso di lui avrebbe indotto Brett a spostarsi a velocità supersonica. E per quanto i suoi sensi di ragno fossero potenti, non erano in grado di avvertirlo in tempo ogni singola volta.

Lo vide stringersi nelle spalle. «Hai mai visto qualcuno come Deadpool? Quel suo cuore è ancora vivo, in un certo senso. L’ho infilato nel petto di quella ragazza, l’ho visto che cercava di aggrapparsi a lei come un parassita. Affascinante e disgustoso allo stesso tempo: ogni cellula continua a rigenerarsi. Penso che ci sia un limite, ovviamente, ma mi chiedo se non potremmo creare un secondo Deadpool a partire dal suo cuore. Dopotutto il cuore è l’organo più potente che possediamo.»

«Dimentichi il cervello» esalò Peter, il sapore di bile sulla lingua. Voleva prenderlo a pugni fino a ridurlo a una poltiglia sanguinolenta.

«Ah… e suppongo che sia stato il cervello a portati qui da me tutto solo. Non certo il tuo cuore.»

«Sei uno scienziato? O un poeta? Niente di personale, ma mi sembra che tu faccia schifo in entrambe le professioni.»

Brett gli rivolse un sorriso storto, distante. Per la prima volta Peter si rese pienamente conto di quanto fuori di testa fosse. «E a me sembra che ci sia molto di personale, Spider-Man.»

E con quello si gettò contro di lui a grande velocità. Niente di supersonico, niente di esagerato. Peter riuscì a vederlo discretamente bene, riuscì a parare un pugno con facilità, ma la velocità dell’impatto lo fece arretrare di qualche passo, l’avambraccio scricchiolò sotto la violenza del colpo. Non si trattava di super forza, ma la velocità rese il colpo violento.

Le dita di Brett si piegarono sotto la forza della sua stessa aggressione, le orecchie ipersensibili di Peter captarono almeno tre fratture e quando l’uomo si fece indietro, rapido e scattante, lo vide portarsi la mano al petto per qualche secondo. Ma il suo fattore di guarigione non doveva essere male, visto che pochi attimi dopo era di nuovo su Spider-Man, aggressivo, rapido come un serpente e altrettanto velenoso.

Peter scartò di lato, il punto d’impatto che diventava insensibile. Se il pugno l’avesse preso in piena faccia probabilmente gli avrebbe fratturato lo zigomo.

Forse, forse, aveva sottovalutato la situazione.

«Vediamo se riesco a piazzare il cuore di Deadpool nel petto di Spider-Man, eh? Che dici? Se funziona poi tocca a me! Se non funziona… be’, ho tutto il tempo del mondo per provare. E riprovare! E riprovare ancora!»

Peter cercò di nuovo di imprigionarlo con una ragnatela, questa volta diretta ai suoi piedi. «Tutto il tempo del mondo? L’intera città ti sta cercando. Quanto tempo pensi che ti rimanga?»

Brett saltò sul piano cottura in disuso, schivando la ragnatela senza problemi. «Il tempo necessario: io viaggio su un treno ad alta velocità, Spider-Man. Da ragazzino volevo essere come te, volevo salvare la gente. Ma non c’è mai stato nessuno che volesse salvare me.»

Peter si asciugò una lacrima immaginaria. «Oh, bhoooo» esclamò mentre si lanciava su di lui, pronto a fare tutto il necessario per impedirgli di fare ancora del male alle persone che amava.

Con sua sorpresa Brett non si spostò abbastanza in fretta, Peter riuscì ad assestargli un colpo alla testa che perse di potenza, visto che comunque l’altro si era schivato. Per un attimo rimasero entrambi a mezz’aria, poi rotolarono a terra, l’uno sull’altro. Peter gli mise una mano sul petto per cercare di spingerlo via oppure colpirlo di nuovo, una delle due. Il battito di Brett era una sequela di sussulti scomposti, una danza frenetica senza capo né coda. Per un attimo il ragazzo né fu sconvolto, ma quando un pugno ben assestato lo beccò in piena bocca fu costretto ad ammettere che la condizione dell’uomo sopra di lui non gli avrebbe impedito di lottare senza riserve.

«Fammi vedere com’è fatto il tuo cuore, Spider-Man! Un cuore è come un’impronta digitale… ognuno ha il suo, ognuno batte per qualcosa, per qualcuno.» Ansimava, ma non smetteva di parlare tra un colpo e l’altro. Peter lo prese per una spalla, lo scagliò contro il muro. Brett non lo raggiunse mai, i suoi piedi trovarono appiglio a terra, si spostò come il vento alle spalle di Peter, un sorriso bianco che svaniva nell’aria. I sensi di Spidey fecero a malapena in tempo a dirgli di abbassarsi, che il ragazzo riceveva un calcio nello stomaco. «Qualcosa mi dice che il cuore di Deadpool funzionerebbe alla grande dentro di te. Super poetico. Lo sai che la gente vi shippa, online? Tutto quel saltellare insieme di tetto in tetto ha fatto venire strane idee ai tuoi fan.»

«Che cazzo stai dicendo?!» ansimò Peter cercando un punto fisso, un qualcosa a cui aggrapparsi per riprendere fiato. Gli era chiaro che Brett avrebbe voluto averlo sul suo tavolo da chirurgo, che non lo avrebbe mai ucciso prima di procedere a quell’assurdo trapianto di organi. Ma aveva un labbro spaccato, almeno un paio di coste incrinate, la testa gli ronzava per quanto i suoi sensi di ragno gli ululavano nel cervello e ogni minuto che passava riusciva solo a pensare a Wade.

«E se funziona su di te, sono sicuro che funzionerebbe anche su di me. Mi basterà riacchiapparlo e rioperarlo. Deadpool è come una fabbrica infinita di pezzi di ricambio.» Emise una risatina stridula, forse ignaro di quando la faccia di Peter fosse disgustata. «Strano che nessuno ci abbia mai pensato.»

«Smetti di parlare così!» gridò Peter incapace di ascoltare un’altra parola. Si lanciò in avanti, atterrò con tutta la sua superforza sopra di lui, lo colpì al volto, lo colpì al petto. «Smettila! Smettila!!»

«Ah» ansimò Brett, cercando di difendersi. «Allora forse fanno bene a shipparvi.»

Era come se niente lo toccasse, come se il dolore fisico fosse del tutto ininfluente per lui, come se l’unica cosa che gli importasse fossero quelle mostruosità immerse nella formaldeide.

Peter si sollevò la maschera sotto il naso, perché si sentiva sul punto di vomitare e non voleva vomitarsi in faccia, ma la sensazione di nausea non gli impedì di lanciare una ragnatela alla porta del frigo, strapparla via dai cardini e far cadere a terra, uno dopo l’altro, i barattoli di vetro. Si infransero al suolo quasi in contemporanea, una cacofonia di vetro rotto e il rumore viscido di tre pezzi di carne che si spiaccicano a terra.

Finalmente vide una sembianza di orrore nei lineamenti dell’uomo che stava cercando di ammazzare.

Perché, inutile illudersi, inutile prendersi in giro. Spider-Man non era andato lì per acchiappare il criminale, quella volta. Spider-Man non aveva risparmiato sui pugni, non aveva trattenuto la sua superforza, aveva mirato agli occhi con le ragnatele, aveva colpito al petto, dove sapeva essere il punto debole del nemico.

Spider-Man aveva ufficialmente smesso di essere amichevole.

«No!» ululò Brett, sputacchiando sangue e saliva, rivoltandosi, cercando di arrancare verso i suoi terribili trofei. «No! Cos’hai fatto?! No!!»

Poi Peter lo vide scrutare con disperazione il punto in cui aveva lasciato il contenitore col cuore di Wade, lo vide alzarsi sulle quattro zampe, scuotere la testa fradicia di sudore, bagnata di schizzi di formaldeide, e correre poi verso il suo ultimo tesoro, la sua unica speranza di tornare a funzionare. Il suo pezzo di ricambio, come l’aveva chiamato.

Lo bloccò con una ragnatela che gli immobilizzò le gambe. Brett cadde in avanti, sbatté la testa contro il bordo del piano della cucina. Il suono fu simile a quello fatto dai cuori che erano caduti a terra, un rumore a metà tra uno scricchiolio e qualcosa di molle che viene sbattuto contro il muro. Lo stomaco di Peter rischiò di rivoltarsi di nuovo. Quante volte era stato sul punto di vomitare, quel giorno?

Brett si tirò su di nuovo, gli occhi ancora fissi sul contenitore, come fosse la sua unica ancora di salvezza, come se non potesse pensare ad altro. «No…no» bisbigliò col sangue che gli colava dal naso, dalla bocca. Arrancava ancora, inarrestabile, ma lento, così lento.

Si sistemò con le spalle al muro, una mano sollevata come a chiamare a sé il suo tesoro di carne e sangue. Peter gli fu davanti in due secondi, disgustato. Lo sollevò da terra senza complimenti e per un attimo si fissarono negli occhi, Spidey attraverso le lenti della sua maschera, Brett attraverso quelle della follia.

«Non mi fermerò, Spider-Man» gli confessò Brian in un sussurro esausto. «Se posso guarire, non mi fermerò mai.»

Peter osservò le proprie mani che si allungavano in avanti come prese da una volontà propria, le vide che si stringevano attorno alla gola dell’uomo di fronte a lui, che si chiudevano come una morsa, una stretta infrangibile. Avrebbe potuto spezzargli il collo come uno stuzzicadenti, ma si limitò a impedire all’aria di entrare.

Per un attimo ci fu solo il silenzio rotto dal raspare affannato delle dita di Brett che cercavano di rompere la stretta, poi Peter udì passi frettolosi nel corridoio esterno, voci soffocate, rumore di stivali che pestavano cartacce e detriti cercando di far piano. E poi il rumore di altri stivali, una camminata che conosceva bene, che non aveva alcun bisogno di far piano, perché quando mai Wade si era preoccupato del rumore che faceva quando entrava in scena?

Peter deglutì, strinse i denti, non mollò la presa.

«Spidey?» Il tono di voce di Wade era estremamente morbido. Peter dovette concentrarsi a lungo per evitare di muovere il capo verso la sua voce. Ci riuscì: rimase concentrato sull’uomo morente di fronte a lui.

Ci fu un attimo di pausa. La figura massiccia di Deadpool si fece avanti attraversando la porta divelta, osservandosi attorno, assestando la situazione. Peter sentì i suoi occhi su di lui.

«Wilson» dichiarò la voce estremamente professionale di Sam dal corridoio. «Hai cinque minuti, poi do l’ordine di entrare.»

Wade non si preoccupò di rispondere, fece qualche passo nella stanza, si avvicinò a Peter con fare rilassato, i pollici infilati nella cintura, la maschera di Deadpool ben calata sulla faccia. Peter lo osservò brevemente con la coda dell’occhio.

«Credevo avessimo detto di combattere insieme le nostre battaglie, bimbo» gli ricordò Wade scandendo bene ogni sillaba, fregandosene di chi avrebbe potuto sentire.

Peter non rispose, ma si distrasse e Brett riuscì a prendere un refolo d’aria.

Wade si sedette sul bancone della cucina, proprio accanto a loro e Peter non resistette: gli lanciò uno sguardo. In qualche momento, dall’istante in cui era entrato all’istante in cui si era sistemato vicino a loro due, Deadpool aveva avuto il tempo di sfilarsi la maschera. I suoi occhi azzurri trapassarono Peter da parte a parte.

«Lasciami fare» gli fece Spider-Man senza riconoscere del tutto la propria voce, ma tornando a guardare la faccia dell’uomo che aveva torturato e ucciso così tante persone. L’uomo che, togliendogli Wade, gli aveva tolto il terreno sotto i piedi. Buffo come aveva sempre creduto che innamorarsi di qualcuno di immortale gli avrebbe evitato una preoccupazione costante per la sua sopravvivenza. Evidentemente, Peter non era in grado di non morire un po’ ogni volta che chi gli era vicino rischiava la vita, anche se era solo un rischio passeggero.

«Ti ricordi la prima volta che ci siamo incontrati?» gli domandò invece Deadpool, le mani strette in grembo, le gambe penzolanti. Se Peter avesse chiuso gli occhi probabilmente avrebbe potuto immaginare di essere sul tetto di un grattacielo qualsiasi a mangiare tacos e bere birra da due soldi. «Io me lo ricordo perfettamente. Mi ricordo anche quello che mi hai detto. Le tue prime parole… lo so, sono un vecchio sentimentale, ma che vuoi farci? Mi conoscevi già, almeno di nome, sapevi qual era il mio lavoro, come mi guadagnavo da vivere e tutta la baracca.»

Peter gli lanciò un altro sguardo in tralice, confuso. Dove voleva andare a parare? Certo che ricordava quella notte: aveva sorpreso Deadpool che rincorreva un tizio in un vicolo, una katana in una mano e una pistola nell’altra. Il tizio aveva ucciso una vecchia signora durante una rapina e anche Spider-Man gli stava dando la caccia da un paio di notti.

«Non ti ricordi cosa mi hai detto? Hai detto: “Deadpool! Se lo uccidi adesso il numero di assassini nel mondo non diminuirà!”»

Ci fu una breve pausa in cui a Peter parve che l’altro non avrebbe continuato. «E?» fece a quel punto, permettendo a Brett di prendere un altro respiro fischiante. L’uomo aveva gli occhi fuori dalle orbite, iniettati di sangue e Peter riusciva a sentire i battiti erratici e disperati del suo cuore contro la gola. Era così che si uccideva qualcuno a mani nude? Era quella la sensazione che Wade aveva provato tante volte?

«E?!» sbottò Deadpool con quella che avrebbe potuto essere una risatina. «Eri un ragazzino e sei venuto da un mercenario conosciuto ovunque per i suoi fumetti super-splatter e hai deciso di aprire con quella frase. Ho perso il cervello per te in quell’istante. Cioè… ti conoscevo di nome e ti avevo già visto volteggiare in giro un paio di volte, col tuo culo in bella mostra, ma con quella frase idiota mi hai conquistato del tutto, bimbo. L’hai detta con così tanta convinzione: è il tuo mantra, il tuo marchio di fabbrica. Perché pensi che i tuoi fumetti vendano così bene? Cristo, ci sono nove film in cui sei l’assoluto protagonista, mentre per me ci sono voluti anni di suppliche e Ryan Raynolds che finanzia metà produzione e probabilmente tiene in ostaggio qualcuno. Il punto è, tesoro, che Spider-Man non uccide.»

Gli mise una mano sull’avambraccio e Peter finse di non accorgersi di quanto gli stessero tremando i muscoli, di quanta fatica stesse facendo: voleva usare la sua superforza, farla finita, concludere il lavoro che aveva cominciato.

Ma non riusciva. Non con la voce di Wade che gli placava i pensieri, la mano di Wade su di lui, gli occhi supplicanti del mercenario che non lo lasciavano un secondo.

«Lo vuoi davvero morto?» domandò Deadpool a quel punto, vedendo che Peter non lasciava la presa, ma allo stesso tempo non si decideva a dire nulla. A fare nulla di decisivo.

Peter si sentì annuire, ma era una parte di lui estremamente discosta dalla realtà, era quella parte di lui che lo teneva sveglio la notte, gli occhi sgranati nel buio, terrorizzato per zia May, terrorizzato per MJ, terrorizzato per Ned. Era la parte di lui che non ne poteva più: quella parte che aveva detto a Ned non si sarebbe mai spezzata. Il suo punto di rottura.

Wade gli mise una mano sotto il mento, gli sollevò la testa perché i loro occhi si potessero incrociare. Peter avrebbe voluto strapparsi di dosso la maschera, ma rimase con le mani ancorate al collo di Brett, ormai molle sotto le sue dita.

Wade gli rivolse un sorriso stanco, lo stesso sguardo adorante a cui Peter si era abituato anni prima, niente disprezzo, niente delusione. «E allora lascia che sia io a farlo fuori per te.»

Spider-Man aprì la bocca, quelle poche parole lo colpirono al petto, gli stritolarono i polmoni in una morsa. Avrebbe voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma si concentrò su come lentamente, un passo alla volta, quell’orribile desiderio di morte rinculò, venne riassorbito dentro di lui, andò a nascondersi negli anfratti più orrendi del suo cuore, quelli da cui si era sempre tenuto alla larga. Lasciò andare di botto il collo del serial killer che si accasciò a terra come senza vita, ma il suono sibilante di un respiro disse a entrambi i vigilanti che era ancora vivo.

Peter si aggrappò al ginocchio di Wade: in qualche momento durante la colluttazione si era inginocchiato a terra, mentre Brett sedeva inerme di fronte a lui. Wade lo aiutò a tirarsi in piedi tenendogli il gomito, le dita forti che non lo lasciarono andare mai. Peter si aggrappò a lui, al rosso della sua casacca, alle cinghie delle sue catane. «Non dirlo mai più» gli bisbigliò, fronte contro fronte.

«Cosa?» domandò Wade in tono soffice, tenendolo contro di lui senza abbracciarlo del tutto, ma quasi.

«Non devi mai uccidere per me, Wade, promettimelo. Riesco a malapena a sopportare che tu muoia, per me…Non devi-- Non posso--»

«Ah» gli sorrise lui, uno dei suoi sorrisi più brillanti, denti perfetti al di là di labbra divorate dalle cicatrici. «Ma allora sai perfettamente come mi sento! Spidey… ho fatto fuori un sacco di brutta gente, un sacco di assassini, stupratori, signori della droga eccetera, eccetera. Ma quello che non ho mai fatto è stato aumentare effettivamente il numero di killer nel mondo. Se Spider-Man si mettesse a uccidere per Deadpool, be’, sarebbe un po’ come se avessi fallito in gran parte del mio lavoro.»

Peter aveva le lacrime agli occhi, un blocco di pianto in fondo alla gola, la voglia di uscire di lì e non metterci più piede. I paramedici erano già nella stanza con loro, ma lui nemmeno ci fece caso mentre portavano via Brett per occuparsi di lui, rimetterlo in sesto, piazzarlo dietro le sbarre. Dio… se non ci fosse stato Wade…

«Non sopporto quello che ti ha fatto» bisbigliò a mezza bocca, la fronte piantata contro quella di Wade, una mano del mercenario schiacciato contro il cuore, l’altra che lo sosteneva tenendolo fermo per una spalla. Non stava cercando di giustificarsi, era solo un dato di fatto.

«Be’, bimbo, dovrai. Se lo sopporto io, puoi farlo anche tu. Quello che io non sopporto è che tu sia disposto a cambiare il tuo intero sistema di valori per uno stronzo come me.»

«Uno stronzo come te?» sputò fuori Peter, sconvolto.

Gli occhi di Wade si spostarono leggermente verso destra, perdendo contatto con quelli nascosti dalla maschera di Spider-Man. «Sai cosa voglio dire.»

«No, Wade, non so cosa vuoi dire» replicò Spidey stanco, distrutto, esausto. «Forse è perché ti adoro e perché penso che ci siano davvero poche persone migliori di te nella mia vita, ma non so davvero cosa vuoi dire.»

«Peter…» bisbigliò Wade, riportando la sua intera attenzione su di lui. E per una volta al ragazzo non importò che stesse usando il suo vero nome di fronte ad altra gente.

Qualcuno tossicchiò, per attirare la loro attenzione o per distruggere la poca sanità mentale rimasta a Spider-Man, sta di fatto che Peter fece un passo indietro. Wade non lo lasciò andare, come se avesse paura di vederselo svanire da davanti agli occhi.

«Odio interrompere questo quadretto» dichiarò Capitan America con le braccia incrociate sul petto, in tenuta completa. «Ma vorrei sapere cosa cazzo è successo.»

Matt emerse dalle ombre, dietro di lui. «Sembra legittima difesa.»

Sam nemmeno si voltò. «Risparmiami le tue cazzate da avvocato, Daredevil.»

Il fatto che Sam usasse il turpiloquio davvero molto di rado indusse Peter a capire di essere nei guai fino agli occhi. E a ragione. Non si sarebbe nascosto dietro ai suoi amici: aveva delle responsabilità. Le mani gli pulsavano dolorosamente, ricordandogliene una dopo l’altra.

«È esattamente quello che sembra, Sam. Per quello che vale, mi dispiace.»

«Ehi» fece Bucky entrando allegramente, indossando i suoi abiti civili, quasi che se ne tornasse da una passeggiata nel parco. «Tutti noi abbiamo fatto degli errori, non è vero Sam?» aggiunse dopo un secondo sbattendo la sua mano di metallo sulla spalla dell’amico. Sam fu quasi spostato in avanti dall’impatto, ma la sua espressione corrucciata non mutò.

«Spidey» dichiarò quest’ultimo dopo un secondo, senza degnare di uno sguardo nessuno dei presenti, tranne Peter. «Ti consiglio di prenderti una vacanza.» Poi si voltò verso Deadpool. «DP, portatelo via, prendete un paio di biglietti per le Hawaii e non fatevi vivi per almeno un mese.»

Wade si grattò la testa, saltando giù dal ripiano della cucina, l’altra mano non aveva mai lasciato andare la spalla di Peter, cosa di cui il ragazzo era più che grato. «Sissignore, signor capitano!» acconsentì facendo il segno del saluto.

Peter spostò lo sguardo da uno all’altro dei supereroi presenti nella stanza, non c’erano più agenti, il corridoio era stato svuotato, le sirene dell’ambulanza si erano placate. «A– aspettate… non– non c’è altro?»

«Cosa vuoi che ti dica, Peter?» replicò Sam abbandonando il cipiglio severo. «Abbiamo tutti un punto di rottura: è una fortuna non essere soli quando lo raggiungiamo.» Lanciò una breve occhiata verso Bucky che gli rivolse il più insignificante dei sorrisi, una cosa minuscola ma che evidentemente significava parecchio.

Non aggiunsero nient’altro. Se ne andarono, lasciando i tre vigilanti in rosso nella stanza disastrata. Matt si era appoggiato al muro, in un punto miracolosamente privo di sangue, muffa o schifezze varie.

«Quindi…» esordì Daredevil non appena i passi echeggianti degli altri due svanirono lungo le scale del complesso. «Brian Brett sperimentava davvero per farsi un trapianto di cuore tutto da solo. Al di là della follia… capisco perché voleva proprio il tuo cuore, DP.»

«Ah» ridacchiò Deadpool lanciando un lungo sguardo nella generica direzione di Spider-Man. «Un vero peccato che il mio cuore sia già altrimenti occupato…»

«Cristo, potrei mettermi a vomitare» fu la laconica risposta di Matt, ma in realtà sorrideva. Anche Peter sorrideva, nonostante il terrore per quello che avrebbe potuto fare gli serrasse la bocca dello stomaco e lo lasciasse respirare a stento.

Wade batté una mano sulla sua spalla, infilandosi di nuovo la maschera di DP. «Usciamo da questo posto di merda» disse con voce gioviale, facendo cenno a Spidey di precederlo.

«Meglio» approvò Daredevil con lo stesso tono. «Così la scientifica dell’FBI può iniziare a fare il suo lavoro.»

Peter non tentò nemmeno di uscire dalla finestra e lasciarsi scivolare in basso. Gli girava leggermente la testa e i muscoli delle gambe erano come gelatina. Senza pensarci afferrò la mano di Wade mentre si avviavano lungo il corridoio, la strinse tra le dita, ne ottenne tutto il conforto di cui sentiva il bisogno. Aveva quasi ucciso un uomo. Un uomo terribile, ma pur sempre un uomo.

«Non posso credere di averlo fatto» dichiarò a voce bassa, consapevole che Matt avrebbe udito ogni cosa.

«Passerà, bimbo. Raccoglieremo i pezzi. Sia i tuoi che i miei. Non è certo la prima volta.» Gli rivolse un sorriso perfettamente visibile al di là dello spandex. «E poi sono una bomba a fare i puzzle, credimi!»

«Ok» replicò Peter con voce rotta. Lanciò un’occhiata verso il compagno che gli camminava accanto, qualche spanna sopra di lui, vicino come sempre gli era stato e forse pure più del solito. «Ok» ripeté dopo un secondo.

Matt si voltò a fissarli con i suoi occhi ciechi, ma le orecchie ben dritte. «Dovete smettere di far battere quei cuori all’unisono» sbottò con un tono fintamente disgustato. «È una delle cose più inquietanti che abbia mai sentito. Cristo, mi mette i brividi!»

Wade rise. Peter gli strinse di più la mano.

Fine

Note: Titolo del capitolo tratto da Zitti e Buoni, dei Måneskin

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