Come nascono i Titani

di kanagawa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte 1 ***
Capitolo 2: *** Parte 2 ***
Capitolo 3: *** Parte 3 ***



Capitolo 1
*** Parte 1 ***


 
Come nascono i Titani 

Parte 1



Ci sono sempre dei fiori sul davanzale assolato.
Kenny te li lascia ogni giorno, quando torna da lavoro. Hai cominciato a sistemarli nei vasetti di marmellata vuoti che trovi in giro per casa, quando hanno fatto il mucchio sotto la finestra e ti è dispiaciuto che si seccassero. 
Ce ne sono sempre di nuovi. Di alcuni non sai il nome. Ma i tuoi preferiti restano le genziane, il cui significato è resilienza e determinazione, un piccolo fiore dall’intenso colore blu che sboccia tra le fessure delle rocce e cresce sfidando le asperità delle montagne, dove la vita è una continua lotta...
Sono stati i primi che ti ha donato.

È passato un mese da quando siete scappati e la pancia comincia a notarsi.
Quando sei davanti allo specchio la accarezzi cercando di cogliere ogni giorno una nuova sfumatura, un cambiamento, e ti immagini come sarà.
Chissà da quando hai cominciato a parlargli e a rivolgerti a lui - o a lei - come ad una presenza reale, come ad un’amica che non vedi da tanto e di cui hai nostalgia, anche se ti sembra in realtà di conversare con un vecchio burbero e bisognoso di attenzioni... 
Camminando in giardino, nelle giornate di sole, o mentre stendi il bucato, hai cominciato a canticchiargli vecchi ritornelli di menestrelli che un tempo passavano in paese, con la tua voce roca e un po’ stonata. 
Non lo sai, ma lui ti ascolta sempre e ha imparato a riconoscere la tua voce.

Di giorno, Kenny non è mai a casa. Ha trovato lavoro come mozzo alle banchine di scarico merce; Reeves ha conoscenze ovunque e gli doveva qualche favore.
Dice che lo tiene in forma. 
Lo detesta, in realtà - come detesta tutte le categorie di contratto sociale - ma avete bisogno di denaro; e scommesse e rapine gli sono state precluse tassativamente... 
Quando gli dici che vorresti dare una mano e contribuire, lui ti guarda come se fossi uscito di senno. E sai che ha ragione, non hai mai imparato nulla nella vita che sia di natura prettamente pratica, perché nessuno lo riteneva necessario... Sai disegnare, suonare il piano e classificare i roseti più belli, ma non hai idea di come accudire il bestiame, far crescere un ortaggio o rammendare un bottone: poiché tutto ciò che può essere utile era ritenuto inappropriato per le tue mani.
Così qualche volta esci di nascosto con il fucile e tenti di stanare qualche fagiano sul fianco della montagna, per mettere qualcosa di più sostanzioso a tavola; la stagione della caccia era un rituale tedioso e crudele che papà vi obbligava a prendere parte ogni anno, ma almeno ora hai una mira decente. Spennarlo, poi, è tutta un’altra questione...

Le nausee sono durate settimane e la casa è tutto un odore di vomito. Kenny si impanica e corre dal medico per minacciarlo di morte - Alpha idiota - ogni volta che ti trova svenuto da qualche parte, ma nemmeno lui sa spiegarglielo... Mamma avrebbe saputo dirti perché, ma la mamma non c’è più, e il potere di cui ora sei custode - i cui segreti ti sono ancora oscuri - è tutto ciò che ti rimane della tua famiglia.
E allora tocca a te rassicurarlo, e speri di averne la forza per entrambi; anzi, per tutti e tre.

A volte ti sembra ancora di sognare. Non hai pensato molto al dopo. A dove vi avrebbe condotto tutto questo, a ciò che comporterà...

Siete fuggiti insieme dopo che tuo fratello Rod ha cercato di costringerti in fidanzamento con un facoltoso marchese, sapendoti fertile, al solo scopo di farti sfornare una manciata di eredi a cui ti avrebbe poi dato in pasto, quando sarebbe giunto il momento per te di passare il potere, e risparmiare l’incombenza a se stesso e ai suoi figli ingrati. 
Quando hai scoperto di aspettare un bambino, per te è stata disperazione...
Così quella notte hai messo tutte le tue cose in una valigia, e dopo averla gettata dalla finestra ti sei gettato anche tu.
Kenny vi ha afferrati entrambi, sia tu che la valigia. 
Siete corsi attraverso il bosco e le tenebre hanno protetto la vostra fuga, fatto autostop da Orvud a Yalkell - qualche contadino si è fermato per farvi salire e le loro buone mogli vi hanno dato ristoro e offerto un riparo per la notte.
Kenny sa bene come sparire e nascondersi. È stato accorto a cancellare le poche tracce che vi siete lasciati dietro, usando sempre contanti e nomi falsi; e ha provveduto a dare a quel pidocchioso di Reeves una buona ragione per tenere la bocca chiusa... Per una volta, non hai potuto contraddire i suoi metodi.

A volte l’ansia non ti fa dormire, allora resti sveglio la notte a sfogliare romanzi gotici o libri sulla maternità che riesci a trovare nella biblioteca di paese.
Sai che nascerà a gennaio, ma è il come che ti terrorizza... 
Non hai la più vaga idea di come partorirai - la meccanica l’hai intuita, vale tanto per le mucche quanto per le donne, ma tu non sei nessuna delle due e nessuno di quei libri specifica di Titani Omega gravidi - quindi passi il tuo tempo a delineare i peggiori scenari, da quelli blandamente dipinti di sangue e budella ai tentacoli mostruosi che ti strangolano a morte come esalano il primo respiro...
Se deve succedere allora succederà in casa, e sarete solo voi due, con l’aiuto di Sina. Se la prova esigerà la tua vita, vuoi che il bambino sia in mani sicure, e solo Kenny potrà farlo... 
Ma hai paura di doverglielo dire, perché sai che farebbe di tutto per farti desistere; non rinuncerà mai a te, e se dovesse esserne obbligato sceglierebbe te invece che il bambino: un essere che è solo un puntino in fondo al tuo ventre e per cui, come insiste a dire, non prova niente.
Ma sai anche che cambierà idea. Perché tu quell’uomo lo ami con tutto ciò che hai e anche di più, e non c’è nessun altro al mondo a cui affideresti la tua vita sapendo che farà la scelta giusta. E la scelta giusta non è sempre quella più facile...

L’unico pensiero che ti consola, e che riesce a darti coraggio e il sorriso di affrontare tutto questo, è sapere che Kenny sarà padre.


 
*


Lui ti massaggia la schiena pazientemente dopo che hai avuto l’ennesimo conato. La bacinella ai piedi del letto - che in realtà è la vostra pentola - ricoperta per contenere l’odore pungente della cena parzialmente digerita.
A forza di rimettere hai perso peso, ma il dottore dice che è normale.

Ti sollevi nel bel mezzo della notte con un’impennante necessità di fragole, e siamo in piena estate, così lo butti giù dal letto perché te le vada a cercare. 
Kenny arranca nel buio fino al villaggio e bussa come un forsennato da ogni ortolano lungo la strada che assonnati gli sbattono la porta in faccia... E al suo infruttuoso ritorno, ormai alba, ti sei già rimesso a dormire.
Non deve aver dormito molte notti in quel periodo e il suo cipiglio è quantomai assassino, ma nemmeno si è mai lamentato.

Quando la nausea è passata hai cominciato a fare piazza pulita di tutta la catena alimentare. Kenny vorrebbe solo ridere. 
“Hai la faccia di uno che dice che tra un po’ si divorerà anche me.” Si schernisce di te con una smorfia spocchiosa, al tavolo del diner dove ti porta per soddisfare i tuoi attacchi di fame serali.
E tu gli rispondi con la bocca piena di.. qualsiasi cosa unta e ipercalorica, leccandoti il pollice sporco di salsa. “Sì, se non la smetti di guardarmi così.”
Francamente non ne dubita, è ciò che sottace la sua espressione costipata, mentre ti allunga una tovaglietta... E il tuo sorriso si fa solo più largo, gongolante.

“Credi che sia maschio?” È una di quelle domande che cominci a porti, mentre il ventre si fa ogni giorno più rotondo, come un mongolfiere riempito di gas idrogeno, ma letteralmente, e l’insinuazione non è delle più lusinghiere... 
Kenny posa la mano sul tuo grembo - o mappamondo, come ama definirlo - come se stesse cercando di auscultare attraverso i suoi calli il piccolo cuore che batte laggiù, sorreggendo il lato del viso con un palmo.
Hai dovuto trovarti dei abiti nuovi, nessuno di quelli che hai portato con te ti stanno più. Kenny dice che saresti bellissimo anche con 30 chili in più e non sai se esserne felice o depresso...
“La levatrice del villaggio dice che sarà una femmina.” Pensi ad alta voce, le tue gambe abbandonate sopra il materasso che regna al centro della stanza. Avete smesso di fare distinzione tra il giorno e la notte, e quel giaciglio disordinato è il centro del vostro mondo: qualche volta un campo di battaglia e qualche altra un tavolo da pranzo...
“E tu credi alle parole di quella vecchia strega?”
“Non è una strega...”
“Però aveva capito chi sei.” Insiste. Lo vedi fare spallucce, mettersi sullo stomaco, tirando vicino un cuscino, le braccia conserte sotto il mento.
“No, che non l’aveva capito.” Un sospiro paziente, ti adagi su di un fianco per poterlo guardare negli occhi. “O in caso contrario non staremmo qui tranquilli a fare ipotesi sul sesso del bambino...”
“Beh,” aggrotta la fronte. “Non è come se potessi frugare nella mente delle perso-” Poi si rende conto...
Sbatacchia le palpebre e per un secondo la sua espressione si incupisce; ogni tanto si dimentica di quanto tu sia in realtà tremendo... 
Lo compensi con un sorriso beato dei tuoi, al tempo stesso elusivo, gli occhi stretti che ti fanno somigliare quantomai a una lontra sorridente, ammesso che le lontre sorridano: “solo non con te.”
“Solo non con me.” Kenny ti fa eco, e se può dirlo, ne è onestamente grato.

Dalla veranda, il sole illumina la stanza tracciando il suo lento tragitto sul pavimento di pietra. L’aria sa di resina, di aghi di pino e di pietre bagnate.

“Una bambina...” sbuffa il moro, lo sgorbio di un sorriso che solo tu riesci a vedere. “Somiglierebbe a mia sorella se fosse così.”
La tenue rivelazione ti coglie con altrettanto delicato stupore, lo fissi con iridi frangiati di luce. “Non mi hai mai detto di avere una sorella...”
Kenny si volta, schiudendo le labbra incerto, più volte, e poi abbassa lo sguardo. “Si chiama Kuchel,” sussurra infine con un filo di voce morbida che non gli hai mai udito prima.
Vi leggi un miscellaneo di sentimenti speculari e contrastanti che non riesce a confessare... 
Non dici niente, non c’è niente da dire. Solo gli accarezzi la guancia con il pollice, incollando insieme le vostre fronti, e il sorriso sboccia in silenzio tra di voi.


 
*


A tre mesi dal termine, le ingerenze legate al parto si fanno sempre più realistiche. Hai concluso che il cesareo sarebbe stata l’ipotesi più accreditata nelle tue condizioni, così ve ne siete andati in giro a cercare un cerusico che sia disposto a eseguirlo, dopo che il dottore del villaggio si è detto indisponibile... Ma tutti, unanimemente, si sono rifiutati.
Alla fine vi siete ripresentati dal dr. Freudenberg, riassumendogli l’andazzo e offrendogli il doppio della prima volta.
Non è sembrato sorpreso.
“Ci sarebbe uno...” Sospira l’uomo, rassegnato; si è levato gli occhiali per massaggiarsi il dorso nasale con aria deperita. “Un certo Zoe, che forse è disposto a farlo, ma è complicato.”
E viene naturale domandarsi perché non lo abbia accennato prima...

Quello di dr. Zoe è un nome alquanto conosciuto in ambito medico, per aver praticato in passato certi metodi di cura sperimentali e molto azzardati. Dopo essere stato radiato dall’albo dei medici e declassato a veterinario, si è ritirato in campagna e ora vive presso una fattoria non lontano da qui.
Lo chiamano “lo Sciamano”.


“Aneste- cosa?” 

“Anestesia!” Puntualizza Victor Zoe con folgorante entusiasmo. La zazzera castano-rossiccio esplosa in aria relativa a recente incidente domestico con paracadute, trattenuta in alto da un paio di occhiali a fondo di bottiglia.
“Ecco, è semplice! Ti faccio inalare del protossido di azoto che ti farà addormentare!” Incomincia ad esporre il protocollo mimando platealmente ogni azione con le mani, mentre vi illustra i suoi strumenti di tortura sul lungo tavolo da mattatoio. “E mentre sei privo di sensi, ti apro la pancia, tiro fuori il vostro bel bambino e poi ti richiudo prima che tu possa accorgertene!” E conclude con una risata sguaiata. “Vedrai, non sentirai nemmeno un dolorino! Lo faccio sempre con le vacche che partoriscono!”
Kenny lo squadra tra inorridito e scandalizzato, prossimo ad avventarsi. “Io questo lo ammazzo!” 
“La gente si arrabbia sempre quando lo dico...” concorda Zoe grattandosi la tempia; e non riesce mai a decidere se sia per la parte sulle vacche o quella in cui insinua di squarciare un ventre...

Vi attardate per un tè che il giovane medico vi offre in un androne impolverato che funge da salotto, e il cui sapore intricato non scorderete facilmente. Zoe ha premura di sviscerare per voi i dettagli della procedura, stavolta in tono più colloquiale.
“In-fe-zio-ne!” Scandisce febbrilmente, l’indice accusatore puntato al cielo. “Il dolore non uccide, ma le infezioni sì! Oh, e poi ci sono quelli che si dimenticano di ricucirti l’utero poiché convinti che si rimargini magicamente da solo... Ma noi, ora, possiamo evitarli entrambi!” esclama infine accompagnandosi con un gesto panoramico della mano che abbraccia l’intero capannone adibito a laboratorio.
Per tutto il tempo va su e giù con indosso un largo camice bianco come fosse un accappatoio, sopra una canotta e dei mutandoni a righe blu, recando sotto braccio diversi rotoli di papiro scientifico che ha rinvenuto per voi a scopo illustrativo. E tu decidi che, nella sua sregolatezza ed eccentricità, quell’uomo ha un fascino che i profani non possono comprendere...
E ad un certo punto, come se il discorso non potesse esaltarlo più di così: “mi stupisce che lei sia così afferrato in materia di anatomia umana! Non è una cosa da tutti!” Propende affascinato all’indirizzo del più alto, dopo essersi sentito rivolgere da questi un quesito prettamente settoriale - dev’esserci una sorta di affinità di mestiere tra un esperto tagliagole e quello che le ricuce - Kenny ha preferito non soffermarsi sulle particolari circostanze che lo hanno indotto ad approfondire certe nozioni...
“Papino! Papino, il grillo si è svegliato!” 
Nel mezzo del discorso, una bambina paffutella che è praticamente la sua miniatura, fa capolino dal portone e gli corre in braccio. “Vieni qui, amore di papà!” Lui la prende al volo e la bacia, strofinando una guancia ispida contro le guance morbide della figlia che ridacchia, dimenandosi per sottrarsi dall’abbraccio molesto del genitore.
E tu riesci solo a notare l’espressione indefinibile sul volto di Kenny, intento a osservare quella scenetta indulgente e triviale...
Sempre in braccio al padre, la bimba si è sporta per toccarti la pancia, domandandotelo con quella sua vocetta garbata, poiché convinta che dentro ci sia un cavolo - sorprendente quanto vasto sia il vocabolario di una bambina di appena tre anni.
Sei stato felice di accontentarla.
Scostando di poco la mantella, l’impronta della sua piccola mano contro la curva del tuo grembo, calda e appena un po’ appiccicosa.

“No, assolutamente no.” Perentorio, Kenny. 
“Abbiamo forse alternative?”
Lui si volta indignato. “Quello voleva aprirti in due come fossi una scrofa!” - o una vacca, ma nessuno dei due accostamenti sembra migliorare la frase, e comunque non è questo il punto...
“Nessuno ha tentato finora perché è ritenuta un’operazione troppo rischiosa.” Momento curioso per scoprire le conseguenze di un mondo forzato all’ignoranza e all’oscurantismo, pensi, abbassando lo sguardo. “Il dolore è qualcosa a cui sono preparato...” Ingoi la tua paura all’insorgere, ma già ti senti tremare solo a pronunciarlo. “Potrei sempre rigenerarmi, dopo. Ci serve solo qualcuno che lo faccia e Zoe è l’unico che ha accettato di aiutarci, ci ha dato la sua parola...”
“E come sei sicuro che non andrà a gridare le sue imprese ai quattro venti, quando sarà troppo sbronzo in qualche taverna per ricordarselo?”
Rifletti flemmatico sulla questione e ti accigli. Nel peggiore dei casi vedrà i tagli operati da lui stesso richiudersi da sé sotto i ferri e sarebbe un fenomeno curioso perfino per uno scienziato. “Potremmo dargli del denaro...” O potresti alterargli la memoria, ma è l’estrema opzione; per qualche ragione l’idea di farlo ti urta, perché in fondo quell’uomo ti piace...
“C’è un solo modo per assicurarsi che un uomo tenga la bocca chiusa...” 
Una goccia di gelo serpeggia giù per la tua schiena. Pensi a quella bambina, al suo salopette stropicciato sulle ginocchia, il portachiavi a forma di ranocchia, e tutte le cose strane che diceva... 
“Non lo uccideremo.” La tua voce è ferma, e il tuo sguardo duro.
Kenny si volta e ti fissa in viso, le mani in tasche, per qualche secondo, prima di distogliere lo sguardo ricollocandolo indisturbato verso la strada su cui siete in cammino. E tu sai che il suo “come vuoi” sta a dire che farà come gli pare. 
Ma non è nemmeno importante che tu lo sappia...


Il fatto che Rod Reiss non abbia ancora sguinzagliato la gendarmeria centrale alle vostre calcagna è decisamente un punto su cui riflettere.
Probabilmente sta solo aspettando che tu partorisca, poiché sarà il momento di massima vulnerabilità per te e non potrai difenderti; Kenny è un avversario accanito, ma è da solo...

Siete soli.

Nell’ultimo periodo hai finito per chiuderti in casa, in preda ad un vortice continuo di angoscia e timore. 
La vostra casa si trova sui sentieri montani, a metà di un pendio che scende appartato tra gli alberi; un tempo doveva essere stato un rifugio per i cacciatori della zona. Da lì si riesce ad avere una buona visuale della vallata sottostante e tenere d’occhio le strade. Kenny dice di averla trovata tramite risorse sicure. 
Occorre un’ora intera per raggiungere l’insediamento più vicino, una frazione di circa 20 o 30 abitanti, e c’è un vecchio abbeveratoio dietro che raccoglie l’acqua delle sorgenti montane. In inverno la neve chiuderà il valico e sarete finalmente isolati dal mondo. Almeno fino a primavera, tempo di recuperare le forze e pianificare il prossimo passo...

Quando pensi al futuro, non è mai un orizzonte imprecisato e lontano, bensì quello immediatamente dietro l’angolo.
Non hai mai fatto progetti che vadano oltre l’anno, o non osi farlo. Non te lo puoi permettere… Dentro di te, lo sai.
Non puoi distogliere lo sguardo dal presente, o non avresti avuto la forza di alzarti dal letto ogni mattina…
Per ora vi limitate a vivere alla giornata, e sei grato che le preoccupazioni di tutti i giorni ti tengano alla larga da altre questioni.

Quando litigate te ne stai da solo a piangere sulla veranda, ma a lui non dici mai niente. Kenny è il tipo d’uomo che si irrigidisce di fronte alle lacrime.
E il bambino che avverte la tua tristezza, provvede sempre ad assestare dei calci tutt’altro che gentili al tuo rene destro, e allora sei costretto a smettere per farlo contento. Ma hai imparato che è quello il modo in cui un Ackerman esprime il suo affetto...
Ogni volta che lo senti muoversi, riesci a non pensare al futuro.



La vasca da bagno è una delle comodità che ti manca di più della tua vecchia vita. Senza l’acqua corrente in casa sei costretto ad attingerla ogni giorno dall’acquaio, riempire da te il pentolone e mettere la legna sul fuoco, quando senti la necessità di lavarti - accovacciato su uno sgabello, la bacinella di fronte a te, strizzi il panno bollente e ti strofini con quello finché l’acqua non si raffredda del tutto…
È tutto talmente pittoresco e improbabile, la vita quassù, senza accennare ad altre necessità corporee. E con l’arrivo del primo freddo diventa anche più difficile stare spogliato a lungo. 
Ma in fondo la solitudine non ti disturba. Sarebbe bello poter restare qui, far nascere il bambino e crescerlo tra queste montagne. È ciò che pensi, quando ti perdi a osservare il paesaggio, la foschia mattutina, il silenzio concitato dei boschi, pieno di attese, prima che sorga il sole...

Passi il pomeriggio a guardarlo spaccare la legna, il sole sulla veranda ha un piacevole effetto narcotico.
“Tagliami i capelli.”
È sembrato sorpreso, ma non più di tanto. Con un asciugamano sulla spalla Kenny si tampona il sudore tra il collo e la fronte, volgendoti lo sguardo; ha appeso da parte la camicia per evitare di macchiarla, convieni che il panorama non ti dispiace affatto.
Non sai come ti sia uscita. 
Sono mesi che non te li accorci e ormai cominciano a darti fastidio. Ti aspettavi un’espressione tirata e un borbottio recalcitrante tipo “puoi farlo da solo”, ma Kenny non ha detto niente... È rientrato in casa, si è sciacquato la faccia e si è cambiato, e poi ti ha fatto sedere sui gradini assolati del portico con una vecchia pezza intorno al collo. 
La luce ti abbaglia gli occhi. Ti senti un po’ eccitato, come un ragazzino che sta per ricevere un dono inaspettato. Ed è sciocco.
“L’avevi mai fatto?” domandi, ma senza dartene particolarmente pensiero. La prima ciocca cade, accompagnata dal suono rilassante delle due lame, lento e misurato, un poco incerto, alle tue spalle. 
Kenny scuote il capo, da un angolo delle labbra pende una sigaretta accesa. “No,” inspira brevemente tra i denti. “Mai a qualcun altro comunque,” soggiunge, retraendo il filtro tra le falangi per sospirare un ghirigoro di pallido fumo, deviandolo lontano da te, prima di ricacciarselo in bocca.
Poi ne recide un’altra. Sulle assi di legno, una sfarinata di lanugine chiara. Con l’ausilio della mano libera pettina una sezione di chioma bionda e si allontana di poco per accertarsi a occhio che la lunghezza del taglio sia equilibrato da entrambi i lati, il suo tocco inaspettatamente gentile. Inarca un sopracciglio e fa per occhieggiarti. “Tranquillo, non ti renderò uno sgorbio!” Te lo rassicura con una smorfia che tu non vedi. “Non più di quanto sei già...”
La tua ripicca atterra sul dorso della sua mano con un sonoro schioppo. “Ai, attento!” Si sottrae sghignazzando profusamente, le braccia sollevate in alto. “Guarda che ho delle forbici in mano!”
A vuoto covi il tuo sguardo indispettito, come se lanciassi daghe contro il praticello di fronte a te.
Per quando finisce, la luce ha già cominciato a calare. Il giorno si accorcia sempre più. Il vento porta odore di pioggia.
Ti guardi allo specchio, di fronte e di profilo, e decidi che il risultato non ti dispiace. Il solito vecchio taglio. “Lasciali in pace.” Ma non riesci a smettere di accarezzarli per tutta la sera, le punte raschiano un po’ solleticandoti il palmo; dici che ora hai freddo alla nuca, ma senti solo quel tepore indefinito in fondo allo stomaco che ti induce a sorridere e ti mette il buon umore.

È la prima e l’unica volta che ti ha tagliato i capelli.


 
*


Nei pomeriggi piovosi resti ad ascoltare le gocce che picchettano contro il vetro, cercando di catturare lo spartito di note chiare e trasparenti che la pioggia sembra eseguire su tasti immaginari. 
Allineati sul davanzale, i vecchi barattoli per fiori sono vuoti ora.
E ha un che di malinconico…


La neve ha cominciato a cadere alla fine di novembre. Una folta nevicata che ha finito per ammantare il paesaggio nel giro di una notte. La mattina ogni cosa è smussata e abbacinante. 
Il silenzio ha amplificato tutti quei piccoli suoni. Gocce d’acqua che stillano dagli angoli del tetto. Una fronda si inarca per il peso della neve accumulata. Lo scricchiolio delle assi invecchiate, contratte a causa delle basse temperature.
Nevica per altri tre giorni di fila, uno di sereno, e poi ricomincia.
Kenny ha fatto fatica ad arrivare al villaggio, scavandosi a forza la strada, dove ha acquistato un po’ di carne secca, conserve di pomodoro e pesce sott’olio, del pane e il giornale. Finché il sentiero rimane praticabile, vuole mandare un messaggio al dr. Zoe per concordare il giorno del suo arrivo. 
Con gli ultimi spiccioli prende le pesche dolci in scatola. Non sia mai che ti ritorni la voglia.

Il cielo si rannuvola nuovamente sulla strada del ritorno, in poco tempo diventa difficile guardare di fronte a sé e distinguere il percorso a causa delle forti raffiche accompagnate da fiocchi grossi come fagioli. 
Intabarrato nel suo pesante soprabito, avanza a stento, a testa bassa, il vento gelido che gli impedisce di respirare. Una strana inquietudine si insinua in un angolo della sua mente.
Ad un tornante scivola, sentendo la neve cedere sotto il suo piede, ma si aggrappa tempestivamente al ramo di un albero ed evita il dirupo per un soffio. 
Si ferma a riprendere fiato, accigliandosi. L’aria sibila alle sue orecchie. In lontananza, un boato ovattato portato dal vento. 
A pochi metri dalla baita, la prima cosa che vede è una sagoma indistinta in mezzo alla bufera.
Il cuore comincia a ruzzolare tremendamente e Kenny si sente ansimare, con il fiato che condensandosi si disperde dietro di lui, mentre i suoi passi accelerano istintivamente fino a ritrovarsi a correre...
E ti trova lì, immobile, nella distesa innevata.
Ai tuoi piedi, una macchia scura si allarga vistosamente, rosso su bianco. 
Nei tuoi occhi spalancati lo smarrimento è medesimo. 
“Kenny.” 
Come i vostri sguardi sconvolti si incontrano, lui lo realizza.

Ti riporta velocemente dentro casa, trovando la porta spalancata, e ti adagia tra le coperte, per poi andare a ravvivare il fuoco. 
Non la smetti di tremare. Sei congelato. Lo è anche lui. Ti aggrappi a lui con le tue dita desensibilizzate e sporchi le sue maniche di sangue, ma non gli importa.
“Sono caduto.” Hai continuato a scusarti, in preda al panico. “Sono caduto, e poi è cominciato il dolore...” Ansimi, ansimi. “Non sapevo cosa fare, tu non arrivavi... Così mi sono messo il cappotto e sono precipitato fuori, ho pensato di raggiungerti, ma...”
Il sangue. Hai cominciato a sanguinare dopo aver fatto solo una decina di passi e il terrore incipiente ti ha lasciato lì immobile come una statua di sale. Una serie di decisioni sbagliate, ma non è il momento di rammentarle.
Lui ti stringe la mano per un secondo come per infonderti sicurezza. “Vado immediatamente a...” Scatta in piedi, ma tu lo trattieni e lo costringi a restare lì dov’è. “Farò venire Freudenberg, sarà anche inutile ma è meglio di niente!” 
“No,” scuoti il capo. La tua voce, seppur tremante, è decisa. “Devi ascoltarmi, non farai in tempo. Non c’è più tempo. C’è stata una slavina...”
L’eco del boato indistinto udito poco fa nella tormenta sembra riverberare ora sulle lastre gelide delle sue iridi.
“A valle, credo si tratti del passo, l’ho visto da qui, e lo vedo anche nei tuoi occhi... Perciò nessuno verrà.” Le ultime due parole scandite con chiarezza impietosa e la tua presa si fa ferrea, dolorosa, intorno al suo polso. “Siamo solo noi due, hai capito?”

Il vento preme contro la finestra, facendo gridare quella fragile struttura di legno e vetro.

Lo guardi negli occhi e li vedi colmarsi di sgomento - il tuo stesso, probabilmente. “Non posso aspettare tutto questo tempo, il bambino deve nascere stanotte...” Le tue labbra si schiudono inferme, consapevoli, e una luce folle si impossessa dei tuoi occhi. “Devi farlo tu stesso, Kenny...”

La sua espressione si svuota per una frazione di secondi. “Che stai dicendo?” 

“Devi farlo o moriremo tutti e due!!” Lo hai gridato. “È un ordine, d’accordo?” Non lo avevi mai fatto, non gli avevi mai obbligato a fare niente... Solo in quell’istante sembra rendersi conto di ciò che gli stai chiedendo, come se sentisse la terra cedere sotto di sé...
Kenny si porta lentamente una mano alla fronte, caracollando indietro sui suoi passi. “Non posso,” incomincia a scuotere il capo. “No, questo... è completamente folle!” 
Una fitta sferzante ti fa piegare in due, come se un coltello ti stesse triturando gli organi dall’interno. Ingoi a denti stretti un gemito che risuona come un ringhio sotto le travi annerite del soffitto. Ansante e imperlato di sudore, sono cominciate le contrazioni.
“Kenny,” inspiri a fondo, più volte, e sollevi le palpebre appesantite. “Guardami...” Annaspi ingoiando un bolo di saliva insieme agli spasmi delle doglie. Allungando le mani per avvolgere il suo viso e costringerlo vicino a te, con tutto il coraggio e la disperazione possibile, come quando gli sussurri parole d’amore nella notte: “io mi fido di te, più di chiunque altro al mondo. Lo sai questo?” Lo vedi annuire e lo fai anche tu, ripetendo il movimento nell’atto di assicurarlo. Un sorriso tirato, il tuo. “Puoi farlo,” lo esorti. “Fallo nascere, e poi andrà tutto bene... Sì?” La voce incalzante lo riscuoti per potergli estorcere un assenso, l’espressione di lui rattrappita.

L’unico utensile che ha a disposizione è un pugnale dalla lama ricurva. 
Aborre il pensiero di doverlo usare su di te, ma non ha scelta. Lo passa sulle fiamme pochi secondi per sterilizzarlo e come disinfettante sparge una bottiglia di distillato alcolico sulla zona da incidere. Poi ne manda giù un sorso a sua volta. Brucia.
Lo occhieggi accigliato. “Dovrei berne un po’ anch’io, che dici?” Non sarà granché come anestetico, ma...
“Non è il caso che tu vomiti.”
“Giusto.” Annuisci.
Ha liberato il tavolo perché tu possa distenderti e acceso tutte le candele possibili per avere maggiore visibilità. 
Sembra un incubo lucido e delirante, come certi scenari squisitamente surreali che il tuo subconscio partorisce durante le notti con il solo scopo di torturarti. 
Kenny non parla. Se vi è del timore nei suoi occhi non riesci a scorgerlo. Suda leggermente, ma la sua espressione resta immobile, concentrata.
Mentre si arrotola le maniche, ripassa a mente fredda la conversazione avuta con Victor Zoe, deducendone i passaggi chiavi e ricollocandoli in una serrata tabella di marcia. Non è complicato, ci vuole solo mano ferma... e nervi d’acciaio. O almeno è quello che vorrebbe raccontarsi.
Lo senti prendere un profondo respiro. È agitato. Non si sente pronto, ma non lo sarà mai del tutto... 
Ti guarda solo negli occhi un’ultima volta, e poi non lo farà più per tutta la durata della dannatissima cosa.

Appoggia il palmo sul tuo ventre, come per testarne la solidità.
Lo senti freddo, leggermente  umido.
Curvo sopra di te, Kenny afferra l’impugnatura e preme il filo della lama contro la cute cedevole che si infossa mollemente come un panetto di burro, applicando la medesima pressione maturata in passato sui corpi anonimi delle sue vittime, sospingendo fino a vedere la pelle sanguinare.
Da lì fa scivolare la punta verso destra, un taglio trasversale di circa 10 cm, al di sotto dell’ombelico. Netto, veloce, senza tremore.

Ti senti gridare. 
Ti senti gridare, nella notte, in quella piccola capanna sperduta nella tormenta di neve.
Non sei qui. Non sei qui, ti ripeti. Questo dolore ti è totalmente estraneo. Ti lascia indietro, strappandoti dal tuo corpo, per poi riprenderti un secondo più tardi, come il rinculo di un fucile, e ti rigetta nuovamente nel mondo, nudo e tremolante e svuotato...
Stoico e privo di emozioni, se ne sta accovacciato sopra di te, la testa inclinata, ti fissa vagamente incuriosito. E, nel delirio, hai impressione che abbia la tua stessa faccia... O magari è quello disteso sul tavolo a non essere te. E tu sei il dolore che resta a guardare...

Il mezzo centimetro di tessuto adiposo si squaglia sotto la lama rovente, fino a raggiungere la fascia muscolare al di sotto. A questo punto, posa il suo strumento su un asciugamano pulito, e insinua entrambi i pollici tra le due metà della parete addominale, come se aprisse un frutto maturo, le divarica. Impregnato di sudore, un ciuffo corvino gli ricade sulla fronte, oscillando indisturbato davanti ai suoi occhi tesi.
Non perde tempo e riprende in mano il coltello, per recidere la membrana del peritoneo sotto la quale vengono esposti gli organi della zona pelvica - come spiegato da Zoe. L’odore che trasuda un addome squarciato, brutalmente familiare. La pozza vermiglia si allarga sempre più, gocciolando dal bordo del tavolo, una goccia alla volta, plick, plick, sul pavimento dove si forma subito un’altra. 
Non ti sente più gridare da un po’, ma non ha il coraggio di sollevare gli occhi, perciò continua a lavorare a testa bassa.
Il corpo uterino abnorme si trova attaccato alla sacca della vescica, con attenzione sposta quest’ultima per non rischiare di perforarla. Si stringe i pugni per ravvivare la sensibilità delle dita rese rigide dalla tensione, dopodiché posa le falangi sulla parete esterna dell’utero, tentando di stabilire a tatto la posizione del feto, e lo spessore indeterminato tra questi e il fragile contenitore a cui è amalgamato.
“Ok.” Sospira con decisione, leccandosi l’angolo del labbro superiore.
L’utero viene inciso. Inserisce nuovamente le sue dita, dentro quella feritoia strettissima, e percepisce qualcosa di viscido e molle rompersi: è la sacca amniotica rimasta, dietro la quale, quasi fosse un ghirigoro, sembra intravedersi un piccolo.. orecchio? 
È la testa. Se ne rallegra. Ora, con tutta la delicatezza possibile, si fa leva con la mancina trattenendo il bambino sotto la nuca e lo fa scivolare attraverso la breccia uterina, gradualmente, accompagnandosi con la destra che ne sorregge le gambette ritratte. Arpiona le forbici rimaste immerse nell’alcool, trancia il cordone ombelicale...
Ce l’ha! Ce l’ha! Lo tiene tra le mani e... Non piange. Si acciglia. Perché non piange?
Kenny ribalta quel minuscolo corpicino ricoperto di sangue e liquido amniotico, appioppandogli una prima leggera sberla sul sedere.
Dopo un silenzio lunghissimo, lo sente tossire. Tossicchia, come un tigrotto appena scampato all’annegamento, e le sue strilla acute squarciano l’aria immobile della notte, tutto indisposto e confuso.
Al lume di candele, vede che ha gli occhi chiusi. È tutto raggrinzito come un vecchietto ed è davvero brutto. Lo espone a pancia in su e quello sgola più forte, astiosamente contrariato, o solo spaventato. Serra ancora i pugnetti, ma le sue ginocchia hanno ceduto un po’ di tensione, all’inguine la miniatura di un apparato genitale... 
Aggrotta la fronte. La stanchezza smussa i suoi lineamenti facciali, strappandogli un sorriso un po’ tirato. Non è ciò che si aspettava...
“È un maschio.” Si volta verso di te. “Uri, è un maschio...!” Ma il suo sorriso si spezza non appena ti vede.
Adagia la piccola creatura in un involto di stoffa sopra il letto. 
Ha la camicia completamente inzuppata. Non si è reso del tutto conto del velo di vapore che ha continuato a saturarsi dalle tue ferite, fino a quel momento.
Ma tu non dai segno di muoverti. Te ne stai solo immobile, riverso sopra il tavolo allagato di sangue.
“Perché non si rimarginano?” C’è un filo di panico nella sua voce. “Ehi, Uri...” Ti scuote, piano. 

Silenzio. C’è troppo silenzio. Il bambino continua a piangere.

Incombe su di te, premendo ripetutamente sulle tue spalle e braccia inerti, come se volesse darti forza e assicurarsi che i muscoli restino reattivi. Avvolge il tuo viso con entrambe le mani, l’orma del pollice che lascia striature di sangue sulle guance scavate e le tue labbra esangui che restano un po’ aperte.
Non ti svegli. Lui ti chiama, ma non ti svegli.
“Cazzo,” Kenny si mette le mani tra i capelli e trema, aggrappandosi al fianco del tavolo. “Cazzo, cazzo, cazzo....” Il suo fiato si fa sconnesso e sempre più agitato. “No, no, no... Ti prego, no! No...!!” Afferra con disperazione la tua mano, premendosela contro le labbra, il suo respiro sferza sul dorso gelido.
Ingoia un principio di congestione nasale. Lo sguardo supplicante sul tuo volto, ha continuato a sfiorarlo ancora e ancora, in lente morbose carezze...
Le lacrime cominciano a solcare le sue guance, ma lui non le vede. Tu non le vedi.
“Cazzo...” Un singhiozzo rotto. 
Il groviglio di organi rimane lì esposto. La pelle del ventre divaricato si affloscia in modo asimmetrico, da una parte o dall’altra, intorno alla cavità vuota del plico uterino. 
Il fumo continua a salire, facendosi più denso ogni minuto che scorre immobile, agonizzante.
La neve ha smesso di cadere da ore. 



 
*



Ha creduto di averti ucciso. 

Sei svenuto quasi subito. 
Hai perso molto sangue, più di un litro, e il tuo corpo stremato non è stato in grado di riprendersi.
I segni dell’incisione hanno cominciato a rimarginarsi solo dopo un paio d’ore e l’intero processo, fino alla completa ermetica chiusura, ne ha richiesto altre quattro. Le tue funzioni vitali si sono come ibernate in quel momento, per poter incanalare tutte le energie nella guarigione delle ferite.
Per tutto il tempo lui è rimasto a vegliare su di te. Credendoti morto. Sentendosi morto...
Dopodiché ti ha lavato, ha lavato il bambino, ripulito il sangue dal tavolo e dal pavimento, e ti ha rimesso a letto.
Hai dormito per tre giorni e tre notti. Se abbia pregato gli dei, non lo sai.

All’alba del quarto giorno, è il tuo stomaco a brontolare per primo. 
Quando riapri gli occhi, lui è ancora lì, crollato al tuo capezzale. Non sai per quanto tempo resti a osservarlo, semplicemente osservarlo, i sensi vagamente intontiti... fino al suo risveglio.
Kenny solleva lentamente il busto. Non è sorpreso, non lo è mai. “Ehi.” Ti sorride. Non si rasa da giorni.
Hai ancora il colorito un po’ livido. Annuisci piano in risposta. 
Dopo un altro intervallo di silenzio domandi “quanto ho dormito?” e ti metti a sedere tra i cuscini, guardandoti intorno. L’aria è tersa e la stanza pare in qualche modo diversa, nuova.
“Abbastanza,” riassume lui laconicamente, non aggiunge altro. Si rialza dal letto. Lo vedi allontanarsi. 
Kenny solleva il piccolo fagotto da una culla improvvisata con una cassetta di legno e degli stracci. Il bambino si lamenta nel sonno. “Shhh, shh-shh...” Delicatamente lo culla, la mano rovesciata a sorreggergli la nuca, colpetti quasi inavvertiti che ne sfiorano la schiena minuta.
Si volta piano verso di te.
E il tuo viso si accende. 
“Dammelo!” Tendi subito le braccia, tutto trepidante, facendogli segno di affrettarsi. “Dammelo,” lo incalzi, “presto!” Non stai più nella pelle...
Kenny te lo sistema tra le braccia, maneggiandolo sempre lentamente, con estrema cautela. “Oh dio...!” squittisci. Ti senti emozionato, confuso, gratificato. Non peserà più di un uovo d’anatra, tutto soffice e vellutato, la testa spelacchiata. Si dimena leggermente tra le tue braccia, inarcando la schiena e stiracchiando un piede, gli occhi stretti, infastiditi dalla luce del primo sole. Senti il cuore stringerti nel petto.
Kenny si siede accanto a te, il ginocchio piegato sul bordo del materasso sottile. “Non è una femmina, ma...” Alzi lo sguardo trasognato su di lui. “È un maschietto?” sussurri a fior di labbra, eccitato. Lui annuisce. 
Ma assomiglia lo stesso un po’ a Kuchel, pensa Kenny, a quando era neonata. I radi ciuffetti alla nuca hanno assunto una bella sfumatura corvina, il viso è paffutello e i lineamenti minuti.
Il bambino apre lentamente le palpebre e guarda confuso sopra di sé, anche se in realtà non riesce a mettere molto a fuoco. “Ha i tuoi occhi.” Gli sorridi, e lo ami anche di più per questo...
Grigi, blu intenso nei giorni di pioggia, ceruleo pallido quando sono arrabbiati, veramente arrabbiati, e sottili come lame di ghiaccio. Gli occhi di Kenny.
Lo vedi arricciare il naso e in men che non si dica scoppia in un pianto stridulo. Ti accigli, pensi di aver fatto qualcosa di sbagliato. “Aspetta,” Kenny te lo leva dalle braccia. “Deve avere fame.”
Dal comodino accanto rinviene dell’ovatta candida e strappandone un pezzetto ne intinge la punta in una ciotola di terracotta, strizzando via poi il liquido in eccesso. Dopodiché lo mette in bocca al bambino che, d’istinto, cessa di frignare, cominciando a succhiarlo profusamente. Ripete l’azione più volte, finché non è soddisfatto e ammansito. “È latte di capra.” Spiega alla fine.
È così che lo ha nutrito in questi giorni, e sembra essere diventato bravo. Se lo adagia al petto, con la testa che sporge dalla sua spalla, la sua mano grande in contrasto al minuscolo torace del bambino, mentre si muove in lente carezze che vanno dall’alto in basso, ripetutamente. “Sono riuscito a scendere al villaggio. La vecchia mi ha spiegato come farlo.” La vecchia capraia mezza cieca che vive ai piedi della montagna e che ogni tanto lo chiama Armando.
Un piccolo sbuffo accompagnato da un sussulto, l’aria che risale dalle vie gastriche del bambino.
E ti sconcerta, tutta quella tenerezza che vedi in lui ora, quasi timorosa, e di cui sembra non accorgersene...
Non hai idea dei momenti che ha passato, bui e innominabili, lui solo con il bambino.

“Hai pensato a come chiamarlo?” gli domandi dal letto. Non ne avete mai discusso seriamente, e lui si è sempre limitato a chiamarlo “essere” o “gamberetto”.
Avevi paura che dandogli un nome e pronunciarlo il tuo bambino sarebbe scomparso, così non l’hai mai fatto.
Ma ora non c’è ne più motivo...

“Levi.” 

Kenny, lui invece ci aveva già pensato, per conto suo, in silenzio, durante tutti quei mesi. “Andava bene sia per una femmina che per un maschio, quindi...” Lo senti borbottare, con voce incerta e il bambino che gli sbava impunemente su una spalla: un ritratto di paternità davvero surreale, ma non è stato quello a colpirti maggiormente...
Sulla feritoia delle tue labbra si schiude un muto interrogativo. Il tuo sguardo su di lui, indeterminato. “Si chiamava così il vostro capostipite, il primo Ackerman...” mormori, come se pensassi ad alta voce.
Questo lui non poteva saperlo, non nel modo in cui lo sai da sempre tu…
Quando lo riporta finalmente da te, lo accogli tra le braccia, stringendoti vicino il suo tepore tutto molle e fragile.
“È un po’ da vecchio, sì,” ti concede il moro, “ma è tradizionale nella mia famiglia.” Piega le gambe per abbassarsi, seduto sui suoi talloni, e osserva il bambino insieme a te, con i gomiti puntellati sul letto, prima di continuare. “Quando morì il vecchio lo portai al cimitero, quel posto era pieno di lapidi con questo nome.”
Un’ispirazione infelice di cui puoi anche fare a meno di sapere l’origine, pensi con un accenno di raccapriccio…
“Comunque se ti fa schifo...”
“No,” un sorriso. “È perfetto.”
I tuoi occhi ricadono nuovamente sulla creaturina, che non ha idea di cosa stia succedendo ma sembra soddisfatto. 
Tracci lente carezze lungo la sua guancia lievemente arrossata, con la pressione piumata del pollice. Le sue dita minuscole si aggrappano al tuo indice, stringendo forte e studiandoselo incerto. 
“Levi...” Provi a dirlo ad alta voce, con timore e dolcezza, le guance ti fanno male a forza di sorridere. Resti lì ad ammirarlo forse per ore. Poi ti ricordi di essere ancora affamato, ma non te ne importa più.
Sotto un ventaglio di ciglia umide, gli occhi ridenti a illuminarti. “Sarai forte,” gli prometti in un sussurro pianissimo. “Sarai forte e sarai saggio, e sarai il più coraggioso degli uomini...”
Perché io sarò la tua forza e il tuo scudo, e ti starò accanto per sempre... Ma ti manca la voce per poterlo dire, allora lo preghi in silenzio dentro di te, in quella mattina innevata di dicembre, mettendolo sotto chiave nel tuo cuore, come un potente talismano contro le sventure di questo mondo, affinché possa proteggerlo per sempre...




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Capitolo 2
*** Parte 2 ***



Parte 2


Dopo il risveglio il tuo corpo ha cominciato a recuperare velocemente.
Il tuo metabolismo brucia con rinnovata energia, come se avesse fretta di vivere, e senti come se ogni cellula della pelle fosse rinata con te, quella mattina, respirando l’aria di un mondo nuovo.
Quando ti sei guardato allo specchio hai trovato il tuo addome sorprendentemente piatto. Nemmeno una cicatrice, la pelle liscia e tonica.
Il tuo intero organismo si è rimesso in moto, silenziosamente, dandoti tutto l’apporto necessario per far fronte ai rapidi mutamenti, dai più piccoli e sorprendenti a quelli più eclatanti e inaspettati...
 
Il giorno dopo che è anche la vigilia di capodanno, a pranzo, Kenny ti mette di fronte un barattolo di pesche sciroppate e tu le guardi sbavando indecorosamente. 
Pensi che siano la cosa più buona che tu abbia mai mangiato.
“Come lo sai che è il mio compleanno?” 
Lui ti fissa con un’espressione blanda. Non lo sapeva... Aggrotta la fronte. “A chi vuoi che importi di certe sciocchezze?” E avrebbe continuato a dimenticarlo anche in seguito... “Io non ho mai saputo il mio!”
Inarchi le sopracciglia, incredulo. “Sul serio?”, e ti senti in colpa senza motivo... Ti dispiace, gli dici.
“E perché?” Kenny storce la bocca, “a me no.” E distoglie lo sguardo. “Non è importante,” si schiarisce la gola. “Non lo è, da dove vengo io...”
Certo. Chissà perché non lo tieni mai in conto... È solo che a volte te lo dimentichi.
“Anche se, mia sorella,” intrecciando le sue dita le posa sul tavolo, mentre le fissa con fare assorto, “lei, da piccola faceva un gioco: quando aveva scoperto l’esistenza dei compleanni, aveva deciso che un giorno a caso della settimana, il martedì, sarebbe stato il suo giorno speciale e ci obbligava tutti a stare al gioco,” solleva una spalla scrollando il capo, “aveva 6 anni, e io 11...” Ha sempre un’espressione intenerita o incazzata, o entrambe insieme, quando parla di lei. “E poi il vecchio ce lo fece smettere perché insultavamo la memoria di nostra madre...” conclude, senza mancare di mandare al diavolo il defunto patriarca.
Non è mai stata una questione di fiducia. Non è semplicemente nella sua natura, farti confidenze delle sue vicende personali, anche ora; e anche quando dice che non gli importa, in cuor tuo, sai che non è così...
Mentre lo ascolti, il tuo sguardo cala inconsciamente sul tavolo apparecchiato - uno come ce ne sono tanti al mondo, di fronte a cui si siedono famiglie di ogni genere ed estrazione sociale - vagliando sovrappensiero il triste elenco di stoviglie che lo compongono: una coppia di scodelle smaltate, vecchie posate dall’aspetto consunto e una teiera tutta sbeccata. “A casa nostra, invece, c’erano sempre dei compleanni da festeggiare,” lo ricordi con un sorriso appena accennato. “C’erano quelli di mamma e papà, festeggiavamo anche quelli della cuoca e del maggiordomo, e il mio, e quello di Rod, e poi sono arrivati i figli di Rod e sono davvero un mucchio...!” Un principio di risate che si spegne all’insorgere, lasciandoti dell’amaro in bocca. 
Prima che capitasse tutto questo... Concludi nella tua mente. Ma sai che non puoi più tornare a quei giorni. 
Nonostante quello che ti ha fatto, non sei mai riuscito a odiarlo del tutto, tuo fratello, ne provi solo tristezza.
Kenny scorge il velo di malinconia nei tuoi occhi, ma non dice niente; è una delle cose che ami di più di lui.
“Levi, però,” tiri sù con il naso, sforzandoti a sorridere nuovamente. “Levi potrà festeggiare il suo!” E sai che ne è valso tutto il dolore e le perdite di questo mondo. “E sarai tu a ricordarglielo, va bene?”
Lui ti guarda incerto, un sopracciglio inarcato sopra il filo della tazza inclinata. “Ci proverò...”
 

Kenny ha costruito una culla per il bambino con del legname buono che gli hanno regalato certi tizi della segheria a valle. Ha comprato un barattolo di vernice e lo ha pitturato, scartavetrato con pazienza la superficie per renderla meno abrasiva. 
Ed è venuta inaspettatamente bene, un po’ rudimentale ma solida. Ti chiedi se esista qualcosa che non sappia fare... 
 
“Non è che ora gli spunteranno le ali o una coda?” Una domanda sciocca.
Dopo averla inaugurata posandoci dentro il suo piccolo ospite, ve ne state piegati tutti e due sopra la culla, a osservarlo mentre lui sbava, si dondola sulla schiena e si mette un piede in bocca con aria beata e ignaro.
“È pur sempre tuo figlio,” aggiunge elusivo. Vorresti ricordargli che i Titani non sono fenomeni da circo, perché si sta figurando di certo in testa un classe 15 metri tutto muscoli e ruggiti con in spalla il suo minuscolo padre umano, e il peggio, è che l’idea non sembra nemmeno dispiacergli...
L’abbozzo di un sorriso trasudante di pazienza e un sospiro. “Non è così che nascono i Titani, credimi...” Lo rassicuri.
Kenny aggrotta la fronte. “E come nascono?”
Da te, nessuna replica. Fingi di non averlo sentito, facendo agitare un orsetto di pezza sopra il bambino...
 
Levi è nato pretermine ma perfettamente sviluppato, e sano; pesa leggermente meno della media, come deduci dai libri, ma sta crescendo bene. 
È un bambino perfettamente normale e di questo sei grato al cielo. Se qualcuno tenterà di sottrargli questa normalità, dovrà passare sul tuo corpo... Sentimenti così arditi non ti avevano mai sfiorato prima d’ora. E lo difenderai a spada tratta, lo giuri su Sina, Rose e Maria, fino al tuo ultimo respiro:
 
A costo... di buttare giù quelle Mura.
 
 

“Oi, Uri,” Kenny bussa alla porta. “Va bene che ti vuoi chiudere dentro, ma ricordati che abbiamo solo una stanza e qua fuori fa piuttosto freddo!”
Gli hai chiesto solo un attimo di privacy e qui dentro non si sta facendo di certo progressi...
Quando la scorsa notte ti ha stretto a sé, qualcosa lo ha indotto ad allontanarsi qualche secondo dopo, leggermente stranito. “C’è qualcosa che non va...” così dicendo ha cominciato a tastarti il petto da sopra la camicia, con entrambe le mani e una faccia stoica, scoprendolo.. assurdamente rigonfio. 
“Sei più abbondante di quanto ricordassi.” Sei divampato. “Non che mi dispiaccia!” 
Hai schiaffato via le sue mani, “smettila!” e nascosto il busto dietro le braccia per il picco di disagio.
È stato mortificante. 
Il torace ti fa male da un paio di giorni, ma non hai voluto dargli peso, finché le tue camicie hanno cominciato a macchiarsi in quei due punti specifici, e il suo continuo occhieggiarti non è stato d’aiuto...
Superato lo shock iniziale, hai deciso di accettare l’accaduto come parte di un processo biologico, come succede del resto alla maggior parte dei mammiferi... E senti il bisogno di una vanga con cui sotterrarti, a questo punto. 
È il tuo stesso corpo a provvederlo. È una reazione naturale alla vicinanza del bambino, presenza che al tempo stesso ti allevia e di cui non puoi più farne a meno; come tu gli sei necessario, sebbene non indispensabile. 
Ti chiedi se anche questo tuo istinto protettivo sia insito solo nei primi mesi di vita del neonato, o qualcosa di molto più radicato e ancestrale, che da sempre fa parte di te, e se lui in qualche modo lo ricorderà sempre...
Dall’altra parte, non è stato facile convincerlo. Ha fame e strilla, strilla tanto, ma non vuole saperne di collaborare. Non capisci dov’è che sbagli e perché sia così complicato farlo abituare al tuo seno, eppure il latte di capra ha saputo subito come consumarlo... o forse preferisce l’odore di Kenny, peccato non sia lui il produttore ambulante di latte materno.
Dopo una decina di tentativi, se non di più, cambiando continuamente postura e angolazioni in cerca di quella più congeniale a entrambi, la piccola testa caparbia finalmente cede e comincia a intuire la meccanica. 
Sugge energicamente dai tuoi capezzoli irregolarmente turgidi, le palpebre socchiuse con beatitudine. Sospiri, e sul tuo viso si dilata un’espressione trionfante, “lo vedi che ci intendiamo?” Si affanna così per una decina di minuti e sembra sul punto di addormentarsi.
Sei così stanco che non hai energia per sentirti ancora in imbarazzo, oltre che mezzo sordo...
 

E dopo diverse settimane dal trauma del parto, sei finalmente pronto a riammetterlo nel tuo letto.
Il bambino dorme tranquillo nella sua culla; una vera rarità, in effetti, solo perché ha rotto le scatole tutto il giorno e prima che la prossima poppata suoni l’allarme del risveglio, avrete qualche ora di pace e solitudine.
È stato strano toccarsi di nuovo dopo tanto tempo. Sei mesi di forzata astinenza che hai imposto ad entrambi, e non ti è ancora molto chiaro il motivo.
È una notte fredda e il fuoco crepita nella stufetta. Trattenete il fiato per non svegliare il piccolo, e ogni sensazione - ogni brivido o sussulto - sembra più intensa, vivida... così dolce e appagante da farti dimenticare ogni residuo di quella notte spaventosa, avvolgendo il dolore e la paura, e levigandoli fino a sbiadirne i contorni nefasti, lasciandoli scorrere via insieme al fiume dell’orgasmo, ancora e ancora... 
Ne hai avuto bisogno, pensi, per ritrovare possesso del tuo corpo, di te stesso. E convincerlo che la sua ansia, non del tutto immotivata, di poterti in qualche modo rompere era totalmente infondata. Così lo hai guidato dentro di te e lo hai tenuto stretto tutta la notte, sospirando il tuo piacere, per guarirlo dalle sue reticenze, dall’odore del sangue e dalla morte...
“Questa notte la morte e il dolore non ci toccano...” 
Perché i vostri cuori bruceranno e saranno impavidi. 
“...Stanotte la morte resta fuori, e noi siamo vivi.”




A volte ti perdi a osservarlo, in adorazione anche per uno starnuto. E non ti capaciti di averlo fatto tu, una cosa così bella e fragile e perfetta.
La sua capigliatura si infoltisce poco a poco, a partire dal centro, il disegno della crescita dei capelli è come un minuscolo tornado.
Ha la pelle estremamente chiara, come te, e facile agli arrossamenti. Sorride, come te.
Ti segue con lo sguardo mentre ti muovi nella stanza e cerca di dirti qualcosa. Gli piace ancora sentirti cantare.
Si addormenta sulla pancia di Kenny che crolla sempre nelle posizioni più strane, e si lamenta se provi a riportarlo alla sua culla. Ha fatto sua la tua pashmina bianca, che è un connubio affascinante del tuo odore e di rigurgiti di latte, e la difenderebbe con unghie e denti se li avesse.
Di fronte a casa l’albero di susino ha messo i germogli. A marzo la neve comincia a sciogliersi sulle colline e le sorgenti gorgogliano di vita. C’è stato sole ogni giorno, così la fioritura è avvenuta in anticipo.
Se non c’è troppo vento lo porti fuori in braccio e gli mostri i grappoli di boccioli rosati che tendono lungo i rami, insegnandogli i nomi delle piante e dei fiori mentre glieli indichi con il dito, ma non sei sicuro che lui capisca. Levi guarda con assente curiosità ogni cosa, e se è stanco te lo fa capire con un mugolio e tu vedi il pianto arrivare nel corruccio della sua fronte...
Il tuo pensiero ritorna a quel laghetto al confine della tenuta, alle sue acque immobili, alle frange di nebbia che sfilacciano dalle chiome dei coniferi alla riva opposta. 
Quel luogo avrà sempre un posto speciale nel tuo cuore. 
Un giorno, forse, gli ci porterete e lo vedrà anche Levi... Questo pensiero, il desiderio, anche se precoce e vago, ti rincuora, e fa sembrare tutto questo più reale. Se esiste al mondo qualcosa che possiate lasciargli in eredità - che si tenga pure i suoi poderi e i suoi magioni, Rod... - allora è senz’altro quel lago: quel posto che in fondo non ha neanche un nome, e che non si trova su nessuna mappa, le sue bianche sponde baciate da lenti flutti, su cui si proiettano ancora le vostre pallide ombre come fantasmi intrappolati nel tempo...
Laggiù sarete per sempre giovani, e nulla al mondo potrà cambiarlo.
 

 
*
 

Kenny è preoccupato.
Giù al villaggio ha avuto impressione di essere seguito. Credi che abbia le traveggole, ma il suo istinto non sbaglia mai.
Così prima che possiate prenderne atto, avete già raccolto le vostre poche cose schiacciandole in fondo alla sacca e svuotato la casa. 
Entro sera avete raggiunto il crinale opposto, tagliando attraverso le radure boschive con il bambino in braccio, su strade secondarie note solo ai pastori della zona.
Sorge una pallida falce di luna. Sulla fiancata scura della montagna, punti di fiamme si snodano lentamente lungo i sentieri, come se galleggiassero nel liquido pece della notte.
Il cuore ti tamburella follemente nel petto. Non vi guardate indietro.
 
Hai il fiato corto. “Kenny, non ce la faccio...” annaspi e ti fermi, le tempie pulsanti di dolore. 
Il moro si volta da una decina di metri, un piede sopra il masso, sembra accorgersi solo in quel momento di averti lasciato indietro; il terreno è scosceso e accidentato, ma i suoi passi felpati lo sorvolano quasi che riuscisse a vedere al buio, mentre tu arranchi pesantemente, e potrebbe proseguire così fino all’alba senza il minimo segno di affaticamento, ma tu no. “Accampiamoci.” Da lì dov’è guarda al di là delle tue spalle, nella direzione da cui siete emersi, la folta oscurità della foresta che sembra inghiottire il suo sguardo. “Abbiamo un po’ di vantaggio. Non faranno molta strada con queste tenebre.”
Ti accasci sulle radici di un albero, totalmente esausto. Scosti di poco la mantella per accertare che lui stia bene e sorridi vedendo il suo visino addormentato: non si è svegliato nemmeno una volta. Premi le labbra tra i suoi capelli, forte e a lungo, e lo stringi di più contro il petto. La notte è fredda.
Bevete un po’ d’acqua dalle borracce. Non hai per niente appetito. Kenny attizza un piccolo falò. Mentre dormi, lui studia le mappe.
“Dimo Reeves,” ringhia sottovoce. “Quando lo rivedo lo ammazzo!” 
Di persona non lo hai mai incontrato, sai per conto di Kenny che è un mercante di città e che i suoi introiti derivano principalmente dagli appalti dei distretti di frontiera come Shiganshina: più alto è il rischio e maggiore è il guadagno, ed è seguendo questa linea filosofica che ha deciso di aiutarvi.
“Come fai ad essere sicuro che sia stato lui?” ti senti pronunciare; hai steso una coperta a terra e ti sei raggomitolato nel tuo mantello, ma non riesci a prendere sonno.
Il suo sguardo di mercurio liquido si posa su di te. “Se si sono infiltrati al villaggio,” la sua voce è compassata all’inverosimile. “Allora hanno saputo per tutto il tempo dove eravamo, e c’è una sola persona che potrebbe aver parlato...” ravviva il fuoco con un grosso ramo, le linguette di fiamme danzano sui suoi zigomi marcati, “le minacce e il denaro possono comprare il silenzio di una persona, ma basta solo un’offerta più alta per scucirgli la bocca. È così che funziona il mondo.” Una smorfia sprezzante, familiare. “La violenza è la moneta dei poveri e dei disperati...” Sospira, infine, gettando via il ramo con una punta di rabbia.
“Smettila...” Sai cosa sta per dire. Sta pensando che se lo avesse ucciso al tempo e occultato il suo cadavere, sarebbe stata una scelta più assennata... E no, non gli stai leggendo nella mente. Non puoi farlo, e comunque non serve.
Ti sollevi su di un gomito e resti a osservarlo attraverso le fiamme. “Nessuno può prevedere cosa comporterà una decisione e come questi influenzerà il suo futuro...” Levi si gira nel sonno, lo culli istintivamente con tocchi lievi e reiterati. “Hai risparmiato la vita a quell’uomo, forse perché lui ha ancora un ruolo da giocare... Ma questo non fa di te un debole.” Premi insieme le tue labbra. “Non lo sei, Kenny.”
Ma lui non conosce la forza di cui stai parlando, e nemmeno tu, in definitiva.
“Ciò non toglie che gli cambierò i connotati la prossima volta che lo incontro.” Conclude lui, seccamente.
 
 
La vostra nuova casa è una mansarda impolverata nei sobborghi di Utopia. Mobili dozzinali, pareti malsanamente rigonfiate da infiltrazioni e una finestrella piena di spifferi, affittata per pochi soldi. 
Le soffitte sono a spiovente e così basse verso le pareti che Kenny continua a sbatterci contro in tutte le posizioni possibili, così è costretto a camminare come un vecchio ingobbito dentro casa.
Ti è dispiaciuto lasciare la vostra casetta in montagna, soprattutto la culla che Kenny ha costruito per Levi: non c’è stato modo di portare via niente, e lì non ci potete più tornare...
Quella parte della città è densamente popolata, per lo più di classe operaia: lavandaie, maniscalchi, mogli di maniscalchi, piccoli delinquenti locali, e gente di campagna trasferitasi in cerca di fortuna che vivono tutti ammassati in minuscole brande dentro altrettanto affollati appartamenti.
Quelli appesi tra i palazzi non sono festoni allegri, ma file su file di camicie e sottane e mutandoni appena lavati, attraverso le quali il cielo si scorge a malapena. Una vista a cui non sei di certo avvezzo. 
La pubblica sicurezza pigramente presente, tanto caotica quanto sicura per chi cerca un nascondiglio rapido. E nessuno si preoccupa di chiederti da dove vieni, a meno che non voglia ritrovarsi con una fila di denti in meno...
Esistono probabilmente posti così in ogni località, ma nessuno si avvicina minimamente all’idea di quello che lui ha conosciuto e vissuto per un quarto di secolo della sua vita... Kenny si sa muovere bene in quei contesti, e non è un caso che l’abbia scelto. 
 
Levi piange giorno e notte, ha la fronte che scotta. Ha cominciato da poco a ingerire un po’ di cibo semi-solido, pappette e polpa di mele grattugiate, ma vomita tutto, anche il tuo latte.
Hai passato momenti infernali senza sapere cosa fare, il medico lo ausculta e dice che è solo un po’ di influenza, poi vi chiede se volete la ricevuta. 
L’unica cosa che è riuscito ad assimilare senza rigurgitare è stato il tè, un trucco che ti ha passato la corpulenta cucitrice che vive sotto di voi, vedova e madre di cinque marmocchi rumorosi che giocano sempre sulle scale: glielo dai con il biberon, poco alla volta, e a lui sembra non dispiacere.
Se è prassi che la maggior parte dei neonati vengano lasciati addormentare impotentemente in quelle circostanze e affidati alla benevolenza degli dei, Levi dal canto suo non ha manifestato qualità preoccupanti o innaturali, come stupidamente acclamato dal moro, ma è senz’altro, eccezionalmente resiliente. 
Ed è precoce, per certi aspetti; senza guardare alla sua taglia, probabilmente la tua parte di eredità. Ti domandi se anche Kenny sia stato così da piccolo...
Con rammarico ricordi che nelle sue vene scorre anche il sangue dei Reiss, e per quanto possiate fuggire non c’è modo di sottrarsi da questo dato di fatto; prima o poi anche Levi dovrà confrontarsi con il peso del suo sangue. 
Non avete ancora deciso che cognome dargli, e tu preghi che non debba essere il tuo...
“Se vorrà essere un Reiss o un Ackerman, potrà sceglierlo da sé quando sarà adulto.” Così ti ha risposto Kenny. 
Già, quella parte di lui - che è ciò per cui riesci a perdonarti - quella parte sarà sempre presente in lui e nessuno al mondo potrà negarglielo...
 
Tutto il piano è letteralmente una giungla di pannolini appesi ad asciugare, i fili del bucato tesi da una parte all’altra. 
È incredibile la quantità di lavoro che un esserino minuscolo richiede giornalmente.
Le uniche pompe idriche sono in lavanderia, al piano interrato. I servizi in condivisione, fuori dallo stabile, bui e maleodoranti, ma sei abituato a peggio. In compenso, però, non si sa come l’abbiano trascinata quassù, c’è anche una vecchia vasca da bagno in rame. In quel genere di abitazione se ne fa un uso sporadico e la superficie si è visibilmente opacizzata, al riparo sotto un enorme telone. 
Non ti concedi un bagno decente da mesi. 
Venti giri sulle scale con un catino d’acqua bollente, dal primo all’ultimo piano - prima di scoprire che il resto degli abitanti si serve normalmente di una fune trainata dalla finestra... - ma ne è valsa la pena, anche se non sei sicuro di volerlo rifare; il lusso non consiste davvero nel possedere una vasca da bagno, piuttosto nell’avere qualcuno che la riempie al posto tuo... 
Ti immergi trattenendo il fiato e riemergi, scostando le ciocche bionde bagnate dal viso e portandole all’indietro. Te ne stai in ammollo, stiracchiandoti in tutte le posizioni senza mai toccare l’altra estremità, la vasca lunga e spaziosa. La solitudine ti è mancata tanto quanto il mare di bollicine in cui sono immersi i tuoi pensieri... E l’idillio è durato finché il moro non ha deciso di saltarci dentro con un balzo, facendo allagare il parquet e dimezzando le vallate di soffice schiuma.
Sei geloso del tuo paradiso e non vuoi condividerlo con nessuno.
“Esci.”
Lui, impudente, accomoda invece i gomiti sui bordi. “No.” 
E tu ricordi, prima delle lusinghe e dei fiori, cosa lo rendeva irritante ai tuoi occhi... E il suo piede sul tuo scroto. 
“Il nanetto si è addormentato.” Che nel vostro linguaggio da neo-genitori vuol dire una sola cosa.
Hai un piede fuori dall’acqua, costretto ad accavallare una gamba, mentre lui ne massaggia la pianta, ponderosamente, muovendovi sopra i suoi pollici callosi. “Sei un po’ teso ultimamente...” 
“Hai una sorta di feticismo, o qualcosa del genere?” Sbuffi sotto il filo dell’acqua, corrugando la fronte, bollicine d’aria si sollevano ad ogni parola. Le tue guance si colorano quando alla piacevole pressione delle sue dita si sostituisce la morbidezza bagnata, impertinente della sua lingua appiattita contro la superficie plantare.
Una breve smorfia. “Può darsi...” Inali contraendo i muscoli dell’addome. L’urgenza di sottrarsi e ritrarre il ginocchio, ma la sua presa è maledettamente salda.
È una strana lotta, la vostra, quella tra la sua forza fisica e la tua ostinazione, perché in fondo sei convinto che non ti piaccia... 
Sott’acqua, la tua durezza sempre più palese contro il suo piede destro.
Non abbassi lo sguardo, lui nemmeno. Una breccia di sfida nei tuoi occhi, contrappunta a quelli di lui. La punta dell’alluce trattenuta tra i suoi bianchi incisivi, quasi per gioco. Il caldo muscolo della lingua saetta tra le fessure di quelle piccole falangi, lubrificandole generosamente della sua salivazione. Il calore liquido della sua bocca, accogliente, istigante...
“Cambiato idea?”
Ingoi a vuoto, le sopracciglia contratte nello sforzo indeterminato di mantenere il contatto visivo, ultimo baluardo le tue palpebre che minacciano di lasciarsi cadere. 
“No.”
Kenny si corruccia. “D’accordo,” replica annoiato. Afferra malamente i due lati per farsi leva, si rimette in piedi e impettito ne scavalca la sommità, incamminandosi nudo sul pavimento bagnato. La massa d’acqua sciaborda dietro di lui, indolente. E tu resti a fissarlo, frastornato, sentendoti piccolo in una vasca improvvisamente troppo grande...
Lenti rivoli di schiuma tratteggiano il disegno dei suoi glutei solidi, dissolvendosi lungo le gambe statuarie del moro. 
Mordi l’angolo del labbro inferiore, vagamente piccato dalla gradevole vista.
 
Nei cortili soleggiati le donne si riuniscono a fare il bucato, scambiandosi pettegolezzi giornalieri, con i bambini fasciati dietro le schiene e un’altra dozzina nei dintorni che rincorre una ruota di bicicletta. Le buche in strada piene di acqua di spurgo.
Si dice che ultimamente sia aumentato il numero delle guardie. Ce ne sono a ogni angolo e le ronde sono più frequenti, sia di giorno che di notte.
Kenny ha i nervi a fior di pelle, lo hai intuito, ma te ne tace. 
Evitate di uscire di casa, e per la spesa vi servite di una cesta legata all’estremità di una fune - basta solo allungare una mancia al garzone per il disturbo. 
La gente di qua è diffidente, e ognuno ha scheletri e segreti che non vorrebbe far sapere...
Ci sono momenti di pace domestica anche in tempi duri come questi, opprimenti e dilaniati d’incertezze, chiusa la porta, dove poter far finta che al mondo ci siate solo voi tre.
Il pomeriggio per Levi è scandito dal bagno e dal pisolino. Una bacinella d’acqua tiepida, gli sorreggi la nuca, e con l’altra mano cominci a insaponarlo; a volte è Kenny a farlo. Sembra turbato e si irrigidisce un pochino, ma non ha paura dell’acqua. Ti piace sempre affondare il viso nell’odore soffice della pelle asciutta, dopo averlo coricato nel letto con te, e riempire di baci la sua pancia indifesa e tutte le gambette come se volessi divorarlo. E lui si difende come può dai tuoi attacchi, dimenando calcetti vigorosi dove capita, il tuo collo o la faccia.
Stormi di pulviscoli danzano nella luce, sospesi in quel mondo autistico e cangiante al di là del silenzio.
Una parte di te, tuttavia, lo sa. Il presagio è nitido, come l’ultima volta, l’istinto che ti dice che presto dovrete lasciare anche questa casa...
 
....
 

Rumore di passi. Assi cigolanti. Qualcuno cammina sul tetto.
 
Ali oscure sfrecciano attraverso la notte, senza fare rumore. 
Un corvo si posa sopra il cornicione. Piccole zampe squamate saltellano tra le tegole, becchettando nelle fessure, il suo lamento lungo e gracchiante. Ne seguono altri due. Cinque, dieci, trenta... 
Come macchie d’inchiostro si espandono generando una matassa sospesa, brulicante e sinistra, sempre più fitta, fino a riempire ogni angolo della vista.
Una nube nera incombe sulla città. 
Il canto dei corvi cresce, si inalza, caotico nell’aria. Una poesia nefasta e malinconica di cui, in cuor tuo, sai di poter capire...
Tenti di riaprire gli occhi e non ci riesci... Non ci riesci. 
 
Ti svegli di soprassalto. 
 
È buio pesto, per un secondo non sai dove ti trovi. I polmoni si gonfiano rapidamente arrancando per l’ossigeno, come se fossi stato in apnea per minuti interi, un dolore acuto e insopportabile. 
Una voce ti chiama, Uri, propaggini di un’eco distante e incerta. Respira. Focalizza. Una mano, dal nulla, afferra la tua spalla. Trasali. 
Per forse una decina di secondi resti lì a fissarlo, come pietrificato... Poi lentamente cominci a riconoscere il volto scapigliato su cui si dipinge un’espressione impallidita identica alla tua. 
“Che cazzo ti è preso?” Parole ruvide, e a tratti rassicuranti, ti riportano alla realtà. Non sai rispondergli, ma ti sembra di ricordare. “Uri...” Balzi giù dal letto e ti precipiti a spalancare la finestra. 
L’aria fredda della notte inonda la stanza. Fissi indeterminato il tetto del palazzo di fronte, strizzando le palpebre, i comignoli raramente visibili nell’oscurità del novilunio. La strada di sotto, un baratro divorato dal silenzio.
“Cosa stai guardando?” La testa di Kenny sbuca dietro le tue spalle, sbirciando alla stessa direzione.
Apri e richiudi le labbra un paio di volte, la tua camicia da notte è gelida di sudore. “Potresti,” balbetti, abbassando lo sguardo e irrigidendoti. “Potresti guardare...” Con l’indice punti alle travi della tettoia, proprio sopra le vostre teste, non avendo il coraggio di controllare da te. Kenny increspa la fronte. 
Con fare incerto, si sporge fuori sorreggendosi con le mani e torcendo il collo fino a scorgere il canale di scolo dell’acqua piovana. Il secondo dopo si ritrae e ti guarda scuotendo il capo.
“Lascia perdere.” Ti dissuade blandamente dal tentativo di affacciarti a tua volta e ritorna verso il letto. Accende la lampada a olio sullo sgabello. Levi che dorme in mezzo a voi, si è destato e comincia a singhiozzare come lui lo prende in braccio, contrariato dal trambusto notturno. 
Non sei pazzo. Vorresti potergli spiegare, ma non sai nemmeno in quali termini...
In un angolo della mente, li senti ancora gracchiare.



La cosa migliore è non restare mai in un luogo fisso, tenere sempre le valigie pronte, per quanto avvilente sia ogni volta. Ma non dovete aspettare che vi scovino, dice Kenny. Con un neonato è anche più difficile traslocare. Levi ha solo otto mesi, ma ha visto la luce del sole per meno di tre. 
Speri sempre che il prossimo posto che andrete sia sotto un cielo stellato, o che abbia almeno un balcone dove si possa passeggiare.
Che siate ormai dei profughi è un concetto che lentamente cominci a inquadrare. Lui, dal canto suo, che lo è stato fin dalla nascita, dice di averci fatto il callo... 
Lasciata la città, vi ritrovate a bivaccare sul greto asciutto di un fiume, al chiaro di luna, il vento soffia così forte che minaccia di estinguere le fiamme sparute sulla brace. 
Per la prima volta sei riuscito ad accendere un fuoco. Nessuno sembra esaltato dall’impresa. 
Ripulisci la fuliggine dalla fronte con dell’altra fuliggine, ma sei soddisfatto del risultato.
C’è poco da fare. In certe situazioni non puoi che affidarti a lui. Hai impressione che non dureresti nemmeno due giorni senza di lui, senza i tuoi agi e i tuoi titoli, perché saresti finito nei guai già un migliaio di volte, e il pensiero ti fa sentire inetto e impacciato... 
La notte è lunga e umida. All’alba siete nuovamente in viaggio.
 
Di giorno il vostro tragitto si snoda tra le vaste piantagioni di granturco e macchie di alberi ghiandiferi che disseminano le campagne. Kenny non vuole percorrere i sentieri e ha le sue ragioni. 
Le strade sono pattugliate. I posti di blocco assediati di gendarmi che richiedono salvacondotti, come ai tempi di guerra. Ti chiedi solo cosa succederebbe se, per ipotesi, una guerra dovesse scoppiare davvero dentro queste mura... Se si dovesse arrivare alle armi, se la pace effimera di questo mondo dovesse crollare... 
Avresti davvero il coraggio di mandare a macello il resto dell’umanità per salvare un solo bambino? 
Questo non puoi saperlo. Perché non ci sarà mai una guerra.
 
Per giorni e giorni non c’è altro che vuoto e paesaggio brullo. Luoghi remoti e disabitati. Terra estesa, ininterrotta.
La pioggia imperversa sulle brughiere. Nemmeno un albero all’orizzonte, a ripararvi solo i vostri mantelli. 
Ci sono fattorie e fienili incustoditi tra una miglia e l’altra, i quali offrono un ottimo riparo per la notte, lontani dalle vie, ma a lungo andare anche quell’opzione diventa prevedibile. 
Poco lontano dalle mura vi imbattete in un accampamento di gitani.
È notte, camminate da ore e non vi siete resi conto di aver sconfinato nel loro territorio, finché una decina di uomini non vi circondano armati di torce e forconi. Kenny mette mani all’unica arma che possiede al momento, la sua fedele daga, e giureresti di averlo sentito ringhiare se non fossi troppo occupato a preoccuparti delle ostiche circostanze in cui vi trovate... Dalle tende adiacenti emergono altri gitani, figure rugose e ragazzini svestiti.
A farsi avanti e salvarvi è stata una delle loro donne.
Dopo aver scorto il neonato fasciato tra le tue braccia, si è precipitata davanti agli uomini e ha spinto indietro i loro attrezzi affilati, sgolando improperi a loro indirizzo finché non li ha visti abbassarli. Dopodiché si è approcciata, con fare circospetto e vagamente sgomenta. Ricordi i suoi occhi, incredibilmente neri e irradianti al tempo stesso, una cascata di capelli ramati come un falò acceso nell’oscurità.
Quando ha teso in avanti le sue braccia, hai relegato Kenny allarmato dietro di te, impedendogli di intervenire: sebbene con una punta di riserva e timore hai permesso che apponesse le sue mani sul bambino, scandagliarlo in una gestualità che non comprendi, come se stesse rimirando una creatura aliena. Levi si è stretto a te, nascondo il visino nel tuo collo, recalcitrante, e inducendoti a fare un passo indietro. 
Scruti in fondo ai suoi pozzi oscuri e lei ti parla senza muovere le labbra, sussurrandoti delle memorie delle sue terre e di corvi che piangono alla fine del mondo.
 
Benché non abbiano mai subito persecuzioni mirate, diversamente dal clan Ackerman e dalla minoranza asiatica, lo spirito libero e orgoglioso di questo popolo non si è mai piegato a vivere in mura di pietra. 
Come orde di uccelli migratori, le loro carovane si spostano di villaggio in villaggio lungo sentieri prestabiliti, scambiando ninnoli rudimentali per poche monete o generi alimentari. Eccezionalmente poveri, e pertanto prolifici, versati nell’arte della chiromanzia nonché abili tagliaborse.
Taluni dicono che vi sia magia antica nel loro sangue, per altri solo ciarlatani stravaganti.
 
La donna ha fatto in modo che poteste restare per la notte. Senza mai pronunciare una parola, vi ha condotti a un focolare dove le famiglie siedono in cerchio e invitati a desinare con loro. 
Il giorno dopo Kenny si reca da solo in città, lasciandoti con le donne del campo. Ha chiesto di poter acquistare una pistola, ma quegli uomini non ne possiedono e non ne barattano, sono troppo costose per loro. 
È partito prima dell’alba, assicurandoti di fare ritorno prima che tu ti svegli. Vuole infiltrarsi per osservare i movimenti della guarnigione locale, valutare eventuali contromisure.
A mezzogiorno lo stai ancora aspettando. 
Hai passato la mattina aiutando le donne a preparare il pranzo, pane non lievitato cotto su pietra che viene consumato insieme a un calderone di fagioli piccanti, e badato ai bambini insieme a loro, con Levi che dorme nel marsupio dietro la tua schiena, come ti hanno insegnato a legarlo senza farlo cadere. Ti parlano nel loro idioma arzigogolato, convinte che tu possa capirle. Benché non sappiano nulla di te e del tuo bambino, un ospite accolto sotto il loro tetto è considerato sacro.
Sul fare della sera, gli uomini fumano pipe intorno al fuoco, ascoltando il canto delle ragazze, le più giovani danzano con i loro bracciali tintinnanti ai polsi come fosse una festa popolare. 
Nessuno bada a lui, quando Kenny ricompare dalle tenebre. 
Alle voci si è aggiunta una chitarra, note pizzicate con lievi mani; qualcuno fischia. Vi guardate a lungo attraverso le faville del falò, i vostri volti scolpiti dalle fiamme.
 
Soffia una leggera brezza. L’aria della sera è dolce.
“La zingara ha detto che possiamo stare qui con loro, se vogliamo.” 
Gli fai spazio sulla stuoia stesa a terra, tenendo fermo lo scialle bianco sul capo, mentre osservate le coppie danzanti sotto il firmamento. 
“Tu cosa vorresti fare?” Lo senti domandare.
“Potremmo,” premi le labbra insieme, titubante. “Potremmo restare, magari qualche giorno, solo per riprenderci...” 
Vicino al fuoco, un vecchio tiene per le mani la nipotina e la fa dondolare sulle punte dei suoi scarponi logori. Le donne più anziane se ne stanno in disparte, i volti celati sotto stoffe pesanti dai colori sobri. Ti piace stare in mezzo a queste persone, il loro stile di vita discosto dagli affanni della civiltà, incuranti, senza pretese, la comunione con la natura. Per quanto tu abbia cognizione del rischio che comporta per loro ospitare due fuggitivi come voi...
Inebriato forse dall’atmosfera della serata, Levi è più attivo del solito. Si impunta con i piedini, si affanna e pende dalle tue braccia per andare dal padre, allungando le mani con insistenza. 
“Com’era la situazione in città?” 
Kenny lo accontenta. Lo prende da sotto le braccia e lo fa atterrare con delicatezza, i piedini sul suo petto, affondando il naso nella zazzera morbida per inspirare a fondo il profumo peculiare da neonato che, da quando lo ha tenuto in braccio e allattato per la prima volta lo associa a Levi, qualcosa come di latte rancido, talco e saliva asciutta.
Se è riuscito a procurarsi un’arma, non te la mostra e non ne fa parola. “Nessuno mi ha guardato in faccia. Un paio di soldati alla porta, il restante a ubriacarsi e a scommettere la paga. Con il cambio della guardia si allentano addirittura i controlli, ed è facile passare... Per il resto,” fa una pausa inspirando tra i denti e scuote il capo, “non ho notato manovre allarmanti, c’è molta calma in città, la gente è fin troppo rilassata da queste parti...” Che sia un bene o un male, non sai deciderlo; e nemmeno lui, sembrerebbe. Aggrappato alla sua spalla, Levi si dimena su e giù, tutto eccitato; gli afferra il cappello e lo tira giù spettinandolo, e dopo averlo cosparso di bava lo getta a terra. Kenny lo raccoglie e lo posa, senza lamentele, accanto a sé.
 
I suoi poster da ricercato sono stati rimossi all’epoca del vostro incontro, anni prima, e Rod non è così scardinato da affiggere la tua faccia buffa in giro per il reame. Tutta la nobiltà sta guardando, non di meno il clero e le alte sfere militari, e presto gli avvoltoi comincerebbero a puntare al trono vacante.
Dopotutto la temporanea scomparsa del re delle Mura è una questione scottante che va risolta in famiglia. Ora come ora, Rod sa di avere intorno più nemici che alleati.
È tutta politica, e in questo, a differenza di te, lui è sempre stato abile. 
5.860 anime entro le mura del distretto di Krolva. Non vuoi coinvolgere vite innocenti.
Hai un bambino con te e ti trovi in compagnia del sicario più pericoloso di tutti i tempi, ma non è della tua incolumità che tuo fratello si preoccupa. Finché vi troverete nei pressi di un centro urbano, i suoi segugi non oseranno fare mosse eclatanti: questa è la teoria di Kenny. Sfrutterete questo punto cieco e li aggirerete per quanto possibile, evitando lo scontro diretto.
Ma ti chiedi quanto potrete andare avanti in questo modo. 
E tu che lo conosci meglio di chiunque altro, tuo fratello, sai che starà probabilmente pensando la stessa cosa...
 
Potrebbe sembrare giovane, la donna che vi ha soccorso la prima sera, ma tutti gli uomini qui la rispettano e la temono. Lei non parla con voi, non parla molto in generale. Solo in sogno. 
Lei ti viene a trovare quando dormi. Si siede con te accanto al fuoco, si sistema con grazia la gonna e parlate. E allora ti sembra di riuscire a capire tutto ciò che dice e tace. 
Così ogni sera davanti al falò, a volte accanto a te c’è una vecchia con un bastone, altre volte una bambina, ma non ricordi mai il contenuto delle vostre conversazioni...
 
I giorni passano e presto i nomadi si sarebbero rimessi in viaggio, stavolta diretti a sud. 
Gli uomini dell’accampamento discutono tra di loro. Non sai di cosa parlano, ma ogni tanto lanciano occhiatacce alla vostra direzione.
Se finora non hanno mai attaccato brighe e hanno lasciato che gironzolaste liberamente in mezzo a loro, è stato solo per la mediazione della chiromante e di alcune di quelle donne, dalle quali sei stato protetto senza nemmeno saperlo. Ma l’aver spezzato il pane insieme e mangiato alla stessa tavola non vi rende amici.
E come biasimarli, pensi. È giusto per loro mostrarsi diffidenti, come lo è per voi averne timore. I momenti di tensione, fatti più che altro di sbuffi e gorgheggi, smussati dalla barriera linguistica. Kenny crede che stiano complottando per vendervi ai soldati in città - su quali premesse, non lo sai. Ma il pensiero non ti sbilancia e non vuoi giudicarli, anche se l’intenzione fosse reale: anche questo sarebbe perfettamente comprensibile...
 
Due giorni prima della partenza, si incomincia a smantellare la tendopoli. Il legno dei soppalchi, i teloni e ogni singolo chiodo usato per costruirli. I carri caricati di pentolame e vettovaglie sufficienti per un reggimento. Le ruote difettose riassestate. Le tende verranno smontate per ultime.
È l’ultima sera che trascorrete con loro. Ve ne andrete non appena si sarà fatto giorno. Vorresti almeno salutare le donne, ma Kenny non lo ritiene prudente.
La notte passa tranquilla. 
Dopo cena le madri mettono a letto i bambini. Dalle braci spente spirano quieti filamenti di fumo, l’accampamento è immerso nel silenzioso. 
C’è stata una festa in città. I ragazzi e le ragazze del campo che si sono imbucati all’insaputa dei loro apprensivi genitori, rientrano tardi schiamazzando e ballando, ubriachi. 
In lontananza, l’eco dalla presenza umana come una moltitudine di luci soffuse sospese nelle tenebre... 
 
Vieni svegliato a scossoni. 
Non sembra passata nemmeno un’ora da quando hai chiuso gli occhi, ma non puoi averne idea. Kenny si è già vestito, probabilmente non si è nemmeno spogliato per la sera.
C’è trambusto fuori. Grida. Confusione. Ti occorre solo una frazione di secondi per realizzare cosa sta succedendo. Non possono essere i ragazzi di prima...
Ti infili gli stivali e il soprabito, il fremito delle torce irrequieto dietro lo squarcio della tenda. Dopo aver avvolto Levi nel marsupio di stoffa, ne leghi in fretta i lembi intorno alla schiena, stringendo infine un nodo solido. Le valigie sono pronte dalla sera prima.
Una fila più avanti, una decina di tende sono avvolte dalle fiamme. I carretti con le cesta di provviste rovesciate in mezzo alla strada, la gente in preda al panico che fugge in tutte le direzioni.
L’ombra di un cavallo imponente ti sfreccia di fronte e ti fa sobbalzare. Kenny ti tira indietro appena in tempo. Trovate riparo dietro una catasta di cartelloni da fiera, ma hai già il fiato corto. Vi guardate e lui con un cenno indica la direzione opposta. Cali il cappuccio sulla fronte nell’atto di annuire, stringendo saldamente il fagottino contro di te.
Sono giunti nel mezzo della notte. Una ventina di uomini a cavallo, armati e con i volti coperti. Tutti dormivano.
Hanno ucciso i cani nel recinto perché non abbaiassero e si sono addentrati nell’accampamento - forse guidati da qualcuno - per poi appiccare il fuoco, disperdendo gli ignari abitanti come bestiame atterrito su cui hanno cominciato a sparare a vista. Non in cerca di denaro, perché i zingari non ne hanno; se avessero voluto prendere le loro donne non le avrebbero uccise. 
Ruderi di braci calpestati dai zoccoli, ripetutamente, il grigio della fuliggine serpeggia bianca come neve nella notte. Ti guardi intorno, il paesaggio libra confuso. Una bambina piange sul ciglio della strada, l’istinto ti dice di andare da lei e portarla con te, ma Kenny ti trascina via. 
Correte in mezzo ai corridoi di fumo, sommersi e sballottati tra le masse di sconosciuti in fuga. Vi imbattete nella strega dai capelli rossi: Kenny fa pressione perché vi affrettiate, ma stavolta decidi di ignorarlo.
Lei ansima, tu ansimi. I suoi occhi limpidi colmi di terrore si fissano nei tuoi. Vorresti dirle qualcosa, ma lei vi grida nella sua lingua di andare, di fuggire, di non guardare indietro, mentre vi spinge via con forza. “No! No!” Kenny ti afferra per il gomito e ti costringe a lasciarle la mano, la consapevolezza che non puoi salvarla. Nessuno di loro. 
Hai continuato a voltarti tra la folla, fino a perderla di vista.
 
La notte scarlatta illumina un cielo ottenebrato, le frangi dei cumuli tinte di velature sanguigne. Gli echi degli spari si estinguono lentamente dietro di voi, i miasmi intossicanti dell’incendio via via più trasparenti, fino a che, attraverso strati di fogliame la barriera della foresta ne soffoca definitivamente le ultime tracce.
 
“Alzati.” La sua ingiunzione, fredda e immobile.
Non ne hai la forza. Hai slacciato il marsupio e gli hai affidato il bambino, dopodiché sei crollato.
Singhiozzi a intermittenza, i fili d’erba soffocati tra i tuoi pugni. “Perché?!” Il tuo grido si infrange, furia impotente, contro il suolo umido che non può darti risposta.
E lui ripete, imparziale, “alzati”.
Futile il suo tentativo di risollevarti. Il tuo braccio ricade indietro inerme come il peso inutile che è. Non ne hai la forza…
Dall’alto Kenny fissa la tua gobba riversa a terra e sospira. Non ti abbraccia né si allontana. Decide di concederti non più di dieci minuti.
“Loro non c’entravano niente...” con voce fiacca e rotta reiteri, al vuoto che inghiotte il vuoto, a te stesso. “Perché... erano disarmati, perché...” 
Rivedi i loro volti atterriti dietro le palpebre, e risenti le grida, gli spari, quella lunga colonna di fumo che si inalzava dall’accampamento mentre vi allontanavate... Non potrai mai dimenticarlo. Non potrai mai perdonartelo.
“Non erano mercenari.” La sua affermazione sembra dare risposta e puntellare il tuo tormento, inducendoti a ingoiare le lacrime e a tendere le orecchie. “Erano soldati...”
È stato un atto di rappresaglia, compiuto con una tale cieca efferatezza - apparentemente contro una specifica etnia - da rendere ingiustificabile qualunque motivazione. Quelle persone non hanno fatto nulla di male, la loro unica colpa è di avervi accolto...
Sa come lavorano quei uomini, è stato uno di loro non più di un anno fa. E benché abbiano evitato di esporsi celando le loro giubbe color cachi, non è stato altrettanto facile confutare lo schema peculiare con cui sono soliti ad agire: un volto tra questi, in particolare, Kenny lo avrebbe riconosciuto tra mille... Ma il perché Djel Sannes si ritrovasse invischiato in questa vicenda è un impiccio che la gendarmeria, anzi l’intero corpo militare di Stato, non si sarebbe mai dovuto interessare. 
“È chiaro che ormai hanno smesso di badare alle apparenze,” conclude il moro.
Raddrizzi debolmente la schiena, rannicchiato nell’ombra del tuo scoramento, lasciando che le righe di lacrime ti si rapprendano sul viso. “Lui ha...” a fatica, ti senti inghiottire, “lui ha in mano l’esercito.” C’è una strana calma nella tua voce, desolante, come se nel renderne atto avessi ammesso un’inevitabile capitolazione. “Non solo la gendarmeria centrale… ma il potere di mobilitare a sua discrezione tutte le truppe stanziate tra le tre Mura!” Incominci a scuotere il capo e gemi, sentendoti penoso. “Come possiamo...”
Ti chiedi da quand’è che hai smesso di ribellarti a questa volontà accecante, da quando mettersi in ginocchio sia divenuta un’abitudine e l’unica opzione possibile...
“Chi credi che glielo abbia permesso?” Senti il suo sguardo trapassarti da parte a parte, inclemente come le sue parole. “Non hai mai voluto ascoltarmi.” 
Dischiudi la bocca, ma non un suono rinviene. Piccole crepe si inerpicano sul muscolo cardiaco, incrinandosi, un poco alla volta, come fosse ghiaccio prossimo a spaccarsi nel tuo petto. Un rivolo solitario ricade lungo la guancia destra...
È una discussione che avete già affrontato, troppe volte per ricordartelo. Di te e della tua irresolutezza. Della tua scarsa considerazione per la politica e della tua inerzia... Così tante volte lui ti ha spronato ad agire e a riprendere in mano il potere, a rinsaldare la tua presa sul consiglio di Stato, a non dare per scontato ciò che detieni per diritto di nascita, e così tante volte ti sei rifiutato di farlo. Hai lasciato che tuo fratello prendesse controllo delle milizie, mentre ti crogiolavi nei tuoi sordidi discorsi sulla pace universale: è solo colpa tua se siete giunti a questo punto.
Avresti potuto salvarli. Avresti potuto salvarli tutti... Se solo avessi voluto.
 
Ma è anche innegabile che, a questo mondo, non si può davvero sperare di salvare tutti quanti...
 

 
*
 

“Anche donne e bambini?” 
Una mano inanellata emerge nel velo di semioscurità, posando in cima alla testa di un leone d’avorio che carezza assentemente, al lato della poltrona imponente in cui affonda la sua mole, la postura sollazzante. I suoi occhi restano celati.
“Abbiamo ammassato i corpi e dato loro fuoco. Nessun sopravvissuto.”
Il giovane capitano alza appena lo sguardo, qualche gradino più in basso, nella zona illuminata: una risposta deferente e accurata, timoroso di indisporre in qualunque modo il suo signore.
Il fucile riposto lungo il fianco destro. Sul braccio il blasone dell’unicorno. 
“Molto bene.” La voce del lord se ne compiace. “Deve sapere cosa succede se oppone resistenza.” Dopodiché schiocca la lingua riproducendo un verso ripetuto che ricorda lo squittio dei topi, mentre scuote il capo con fare riprovante, arricciando il naso. “Tutte quelle povere persone...”
 

 
*
 

Volta dopo volta, il tempo che occorre ai suoi uomini per trovarvi si accorcia sempre più: se prima avrebbero impiegato mesi, ora solo questione di giorni.
Per evitare di coinvolgere ancora persone innocenti, cercate di stare alla larga da zone abitate. Vagate senza sosta da un posto all’altro, con il pensiero di essere costantemente inseguiti, e la notte vi rifugiate in grotte di fortuna umide e buie, o sotto le travi marce di un rudere sfondato da cui si vedono le stelle, le cui mura per qualche ora vi riparano dal vento. Vi avvicinate ai villaggi solo quando finiscono le scorte alimentari, una veloce scappata al mercato oppure prendendo in prestito - come dice il moro - ortaggi dai campi incustoditi. Appena trovate un corso d’acqua riempite le borracce e, se possibile, darvi una ripulita sciacquando gli abiti intrisi di sudore e le pezze usate come pannolini per Levi; se c’è il sole si asciugano in poche ore.
Ciò che Rod sta cercando di fare è di spingervi al limite, svigorendovi fisicamente e psicologicamente. 
Ti chiedi quale sia il suo obiettivo ultimo... Tu, o il tuo bambino? Il recupero del Fondatore ha la sua priorità, certo, ma un bambino come Levi, un bambino che ha in sé il sangue dei re ma che al tempo stesso non ne subisce l’influenza... 
Che cosa accadrebbe se dovesse cadere nelle sue mani, una creatura tanto prodigiosa?
Dall’altra parte, non può permettersi di attaccarvi frontalmente, i suoi squadroni sono stati informati della tua vera natura e del pericolo che questi costituisce. Così lui aspetta, aspetta che sia tu stesso ad arrenderti e a consegnarti a lui per chiedere la sua clemenza...
Il vero nemico resta nell’ombra e attende: questo gli dà potere, lo rende molto più temibile ai vostri occhi di quanto non sia affrontarlo a viso aperto.
“Così non può andare...” Dentro di te, lo hai sempre saputo. “Non possiamo limitarci a subire.” 
Non potrete fuggire in eterno. Non esiste un luogo realmente sicuro per voi dentro le Mura finché chi le comanda vi è ostile, e là fuori - fuori dalle Mura - non ci potete di certo andare... Il destino inevitabile per ogni Ackerman che viene al mondo? Il pensiero che tuo figlio debba crescere in un mondo simile, marchiato inappellabilmente dalla sola colpa di esservi nato, ha riacceso infine quella scintilla di ferocia che assopisce dentro di te.
Per far sì che qualcosa cambi dovete agire ora.
“Cosa hai deciso?” domanda Kenny. Qualcosa... anche solo una picciola breccia, un fallo nel sistema...
Per un secondo ti accigli ancora, ma quali alternative restano? “Se ci vogliono così tanto, allora li andremo a incontrare.” Una volta capito cosa fare il tuo sguardo si schiarisce e i lineamenti si tendono. “E poi tratteremo con mio fratello,” aggiungi.
Ostentato il modo in cui storce la bocca. “Tutta questa fatica e vuoi solo parlargli?”
“So cosa vuole da me. Ho ancora una carta da giocare con lui...”
“Bene,” acconsente seccamente il moro. “E dopo che avrete parlato potrò fare a modo mio?” E nell’insinuarlo ha armato simbolicamente la sua pistola.
Trattieni a lungo lo sguardo su di lui, come se stessi vagliando il peso di ogni singola parola sulla lingua, in bilico tra timore e risolutezza, prima ancora di prendere fiato. “Se sarà necessario, lo farò io stesso...”
Specchiando la tua figura minuta, le sue grigie iridi vengono sommosse di breve sconcerto.
Avresti davvero il coraggio di uccidere tuo fratello? Sembra domandarti, come se ti stesse leggendo nel pensiero, ma non sai darti risposta... Non ancora. 
Non è il coraggio, ciò che ti serve per uccidere la tua famiglia, ma non sai nemmeno cosa...
 
Del diverbio che avete avuto la notte dell’incursione all’accampamento non ne avete più riparlato. Ma è ancora lì, in qualche modo, come un campo elettrico sospeso in mezzo a voi. Evitate semplicemente di badarci. Kenny sa di averti spezzato il cuore, ma non è in grado di verbalizzarlo.
Non vuoi pensare che qualcosa si sia incrinato fra voi, ma non puoi fare a meno di pensarlo. Ci sono altre priorità al momento...
 
Sarà un’impresa anche solo tentare di avvicinarlo. Ci sono 10.000 guardie armate tra voi e lui, pronte a dare la loro vita per il paese. E il punto è che non siete nemmeno sicuri di dove si trovi in questo momento...
Avete un’unica chance ed è cercare di stanare Rod Reiss, o meglio farlo uscire allo scoperto. 
Viaggerete verso la tenuta e prenderete in ostaggio la primogenita. Più vicino è il pericolo e più sarà sicuro muoversi, il contrario di ciò che si aspetta il nemico. Lui avrà i numeri dalla sua e voi il fattore imprevedibilità. 
Frieda sarà ben protetta. Kenny agirà da solo, e tu e Levi dovrete nascondervi: città sotterranea, non gli viene in mente luogo più caotico e impenetrabile al mondo, lì sarete più protetti che in qualunque altro.
La pietà per tua nipote ti sarà solo di ostacolo, perciò non puoi permettertelo. Nessun cedimento, nessuna debolezza…
 
L’idea di conoscere finalmente Kuchel Ackerman ti emoziona un po’. 
Lui non ne parla mai. Solo dietro ai suoi sguardi taglienti e i rifiuti sprezzanti si lascia trasparire ogni tanto qualche tiepida traccia lasciata dalla sorella.
Tu te la immagini alta e bellissima, come il fratello maggiore - e Kenny è entrambe le cose. I suoi zigomi sono accentuati e lunghi i capelli d’ebano nelle tue divagazioni, tratti genetici che contraddistinguono il ramo principale del loro casato, dove il sangue scorre da sempre più forte e puro.
Ti piace pensare che, se Levi fosse nato femmina, crescendo sarebbe stato forse identico a lei.
Vi muovete alla volta della Capitale reale, l’ultimale roccaforte dell’umanità e gioiello della corona intorno a cui si irradiano i tre grandi anelli di pietra posti alla sua difesa. 
In diversi punti della città sono dislocati i varchi d’accesso per il mondo sotterraneo,16 in tutto, alcuni non più praticabili, i cui controlli vengono proficuamente spartiti tra la gilda dei commercianti e i membri blasonati dell’alta società. Ci sono quattro cancelli, in corrispondenza dei quattro punti cardinali, che consentono il passaggio in città, e quello meno impegnativo a livello di sorveglianza e per intensità di traffico è da sempre Porta Nord...
Quella notte, dopo essere fuggiti dal campo in fiamme, nella confusione non avete badato alla direzione che avete preso; dopo aver riconsultato la mappa, vi siete accorti di esservi spinti molto più a sud di quanto intendevate, probabilmente oltrepassato Castel Utgard senza saperlo. Tornare indietro sarebbe controproducente a questo punto, perciò non resta che proseguire per il distretto di Ehrmich, il più vicino in linea d’aria: da lì potrete imbarcarvi su una delle chiatte mercantili che transitano in mezzo alle raffinerie di ghiaccio esplosivo situate nelle alture di Wall Sina e che costituiscono la via più breve per Mitras.
Kenny vi scorterà fino a casa della sorella, dopodiché proseguirà da solo verso Orvud. Da lì, dovrai solo attendere...
Per evitare il controllo dei documenti, sbarcate un attracco prima del capolinea, approfittando dello smistamento delle merci. Camminerete lungo la cinta muraria aggirandola da est; ci sono sempre carri stipati di sacche di farina e ortaggi provenienti dalle fattorie a nord che giornalmente varcano il cancello, qualcosa vi inventerete.
Il tratto collinare è costeggiato di boschi. Vi ritrovate ad emergere da un groviglio di ginestre discutendo su che percorso prendere una volta entrati in città, quando venite fiancheggiati da un numero imprecisato di individui...
 
Senti solo i tuoi rantoli nervosi e irregolari scorrere sullo sfondo di un paesaggio slavato fatto di striature accelerate. 

Non hai ancora messo insieme i punti quando ti sei sentito strattonare per il braccio e, in uno stato di pre-panico, hai capito di aver cominciato a correre.
 
Caracollate giù per il declivio scivolando sui sassi e le poltiglie di foglie marce. Come artigli adunchi i rami pendono su di voi, strappando i bordi dei vostri mantelli inzaccherati. 
Gli echi gorgoglianti di un basso torrente sempre più vicini al di là della vegetazione. Kenny vi si getta per primo e si volta per tenderti la mano. Sciabolate gelide sferzano contro le tue cosce, estinguendoti il fiato in gola, i tuoi stivali imbarcano rapidamente acqua. 
Le braccia remate guadate il fiume tentennando su un letto di rocce viscide. Sei immerso fino ai fianchi mentre tenti disperatamente di tenere all’asciutto il tuo bambino, e ti senti morire quando riemergete all’ansa opposta, le ginocchia a terra rattrappite e tremanti, ma non vi potete fermare. 
In qualche modo riuscite a distanziarli. L’unico pensiero è stato di nascondervi. Che siate caduti in un’imboscata lo hai capito solo a posteriori.
La carcassa riversa di un tronco secolare vi dà riparo. Annaspanti, stropicciati e intirizziti nei vostri abiti bagnati. Levi singhiozza disperato tra le tue braccia. “Shh, va tutto bene, la mamma è qui,” cerchi di rassicurarlo dandogli pacche alla schiena, “hai avuto paura, vero? Mi dispiace.” Lo baci sulla fronte per incoraggiarlo, “ci siamo quasi, tra un po’ saremo in salvo...” gli sussurri tra i capelli, sperando a tua volta di potertene trarre conforto.
Kenny svuota le tasche, carica tutte le cartucce che ha disposizione, reinserendo in asse il tamburo e si assicura infine di arretrare il cane - è un modello vecchio, ma è il meglio che è riuscito a recuperare. 
Grappoli di soldati sparpagliati staranno scandagliando la foresta in cerca delle vostre tracce e ogni possibile via di fuga sarà sotto tiro in questo momento. Appena lascerete il vostro nascondiglio li avrete tutti addosso. Serve un diversivo, gli ingranaggi del moro cominciano a mettersi rapidamente in moto...
“Usciremo vivi da qui.” Lui ti promette, la fermezza delle parole scolpite in fondo agli occhi. “Non permetterò che vi accada nulla.”
“No,” replichi, la realizzazione repentina che congela i tuoi lineamenti. “Non puoi...” E lo vedi accigliarsi, sul punto di ribattere: sai quello che vuole fare, si sarebbe fatto ammazzare piuttosto che vederti cadere nelle mani di Rod Reiss. Fungerà da esca per permettervi di fuggire, tu e il bambino... Ma tu non glielo permetterai.
Senza ripensamenti, cominci a disfare le fibbie della sacca in cui è ancorato il bambino. Lui ti guarda confuso per un secondo e “no! Che cazzo stai facendo, no!” Protesta vigorosamente mentre gli spingi tra le mani il fagotto. 
“Sai benissimo che non ho i tuoi stessi riflessi! E che sono lento!” esclami stringendoti alle maniche del suo cappotto e imponendogli di prestarti fede. “Prendi Levi, esci dal bosco e raggiungi la città sotterranea. Da solo hai più possibilità di sfuggirli.” 
“Uri..!” Kenny persiste nel tentativo di dissuaderti, l’espressione assediata di sgomento. “Mio fratello non mi farà del male!” Scuoti con assolutezza il capo, eppure sai di non riuscire a convincerti in alcun modo: l’essenziale è che se ne convinca almeno lui… “L’ultima cosa che si aspettano è che possa trasformarmi qui, avranno altro a cui pensare che inseguirti, perciò...” 
Il moro inghiotte un nodo ostico, il viso contratto, mentre combatte il principio di crampi che insorge al lobo temporale, dopodiché soffia tra i denti uno stentato “merda!” e si getta sulla spalla un lembo del marsupio annodandoloselo frettolosamente.
“Prendi questo per ogni evenienza.” Rigira verso di te l’impugnatura del suo inseparabile pugnale.
Ti accigli, un tenue rifiuto nella smorfia. “Sarebbe più utile a te, non sono nemmeno sicuro di come si usa...” Lo senti leggero quando lo prendi in mano, più di quanto avresti creduto. “Si infilza con la parte affilata,” Kenny alza un sopracciglio ma il tono resta neutro. “Prendilo lo stesso,” insiste nuovamente, così non ti senti di contrariarlo. 
Si concede un ultimo frangente di esitazione, Kenny, mentre ti guarda negli occhi, stavolta in cerca di un punto fermo a cui volgere lo sguardo e di blande promesse. “Me lo ridarai quando ci rivediamo.”
 
Per tutta la vita, dovunque andassi, ti sei sempre sentito un peso per gli altri. 
Non hai smesso di esserlo... Ma ora non vuoi più permettere che a coloro che ami venga fatto ancora del male.
Mai più.
Il cielo resta coperto. Sembra stia per nevicare.
Esci allo scoperto e ti incammini verso un punto elevato, dove sarà più facile per loro avvistarti. Ai tuoi piedi il profilo del terreno discende dolcemente, spoglio e arido, disseminato di rocce, divenendo pianeggiante per meno di cento metri prima di risalire nuovamente all’altro versante e ricongiungersi al rilievo successivo. 
Una conca vuota. Dietro di te, il fitto fogliame del bosco si chiude. Non ti volti per guardare. 
Sulla collina opposta scorgi una figura solitaria, ferma in una postazione pressoché identica a quella in cui ti trovi ora: penseresti che sia il miraggio di un mondo parallelo apparso per puro caso, se non fosse per la leggera differenza di capigliatura - lui ha ereditato i colori di vostro padre, mentre tu hai sempre avuto quelli di vostra madre - entrambi infagottati nei vostri pesanti abiti invernali tanto da risultare anonimi.
La distanza che intercorre in mezzo non abbastanza da rendere inudibili le vostre voci.
“Mi hai fatto penare, fratellino...”
Il vento smuove brevemente la sua frangia corvina, in piedi, Rod continua a fissarti, non si muove, sembra averti atteso a lungo. Così fai tu. 
Non resta nemmeno lo stupore. È come se lo sapessi. Giunti a questo punto, quando non ci sono più vie da percorrere e ogni paura viene gettata alle spalle.
È come se lo sapessi. La perfetta simmetria di questo universo in cui tutto è destinato a estinguersi nell’incontro. Le vostre strade, le vostre vite, per quanto possano divergere, non sono mai state estranee le une alle altre.
Raccogli il tuo coraggio affinché la voce non ti tradisca, la presenza del bosco retrostante costante nei tuoi pensieri. “Facciamola finita,” il cipiglio è battagliero nei tuoi occhi, “questa cosa non ha senso...”
 
Dopo aver osservato i tuoi movimenti e accertatosi di essere inosservato, acquattato dietro i cespugli, Kenny decide di muoversi. 
Il senso di colpa crivella dolorosamente sotto il cranio. Lo sforzo che si impone per non ritornare sui suoi passi in quel momento - e abbandonarti - è lancinante, ma ora la priorità è portare in salvo il bambino. 
Si allontana per un centinaio di metri, in direzione nord-est, lasciandosi dietro intere sezioni di sequoie monumentali. Salta con agilità i brevi fossati e le gobbe di radici che snudano nel terreno, un fischio inquieto dietro l’orecchio. 
Il vento sfreccia tra il fogliame facendo vibrare nervosamente le diramazioni oberate dal suo peso. Un suono stridulo e prolungato come di una corda di violino teso allo spasmo, rapido, sempre più vicino... In breve tempo si ritrova circondato, a destra e a sinistra, figure incappucciate dall’alto. Cinque, sette. Una decina. Uno di questi gli danza di fronte sbarrandogli la strada, calandosi di traverso quasi rasente terra. Vedendosi puntare addosso una pistola, Kenny ha l’indice sul grilletto, ma il nemico lo anticipa di pochi decimi di secondo e l’istinto lo costringe a scansarsi per proteggere il suo bambino. La pallottola gli sfiora i capelli rimbalzando contro una roccia.
Altri colpi di proiettile dall’alto, colpi d’avvertimento, tutti a vuoto. Corre più velocemente che può, ma lo stormo non lo molla. 
Riesce a schiantarne solo un paio, mirandoli in volo quando sono stati a portata di tiro e disperderli temporaneamente, prima di imboscarsi dietro un masso. 
“Merda!” inveisce con fiato zoppicante, i pensieri totalmente a soqquadro. “Che cazzo sono quelli?” 
Non è riuscito a conteggiarli, ma a occhio saranno almeno venticinque. Sembrano grossi pipistrelli, con quelle loro vesti scure e le cappe svolazzanti che imitano ali d’uccello, i cavi su cui sono sospesi talmente sottili accompagnati da un luccichio quasi impercettibile a ogni loro trazione. Non gli è molto chiaro il meccanismo con cui riescono a muoversi così in aria... Chi avrà mai generato una tecnologia simile? L’esercito? E contro chi hanno intenzione di dare battaglia? Kenny non sa a cosa pensare...
È inutile, conclude, a questo punto deve necessariamente arrendersi o finirà ammazzato. Sono superiori di numero e si spostano a una velocità assurda con quei dannati argani invisibili; non ha importanza quanti ne potrà abbattere, questo tipo di terreno è praticamente un parco giochi per loro - anche da profano uno lo intuisce - non ci sono punti d’apertura, o uno cieco in cui potersi riparare... 
Chiude e riapre le palpebre, modulando il ritmo pressante del respiro. Levi trema tutto sotto il suo mantello, ammutolito al punto da non osare a frignare, Kenny percepisce la sua paura come il bambino riesce a captare vividamente la sua. Per quanto abbiano avuto innumerevoli occasioni non si sono mai decisi a finirlo, questo gli suggerisce che hanno ricevuto preventivamente l’ordine di catturarlo vivo, a patto che l’obiettivo non si agiti troppo e decida di essere uno spiacevole incidente da redigere nel rapporto... Si costringe a riprendere il controllo di sé, la schiena addossata alla parete di roccia, la pistola ancora appesa alla destra. “Abbiamo fatto una grande stronzata, non sei d’accordo?” Ansima nel rivolgersi al neonato, la bocca storta in una smorfia. “Spero non te la sia fatta sotto nel frattempo... Non guardarmi con quella faccia!” Levi mugola infelice. “Sei pronto, scricciolo?”
Ora deve uscire con le mani alzate e tentare vie alternative.
 
Rumore di spari nella foresta. Due colpi netti, bang, bang, rapidi, in successione. 
Il mare di alberi si scuote, inghiottendone l’eco, come un lento sospiro…
 
“Sei sempre stato troppo ottimista, convinto di poterci salvare tutti.”
Hai una brutta sensazione. Speri sia solo una suggestione aizzata dalla tua codardia, ma non vuoi che lui se ne accorga. Continua a conversare, distrailo, è la tua unica preoccupazione, così che abbiano tempo per fuggire... “Se ben ricordo, quello eri tu,” lo provochi tenuemente, “o hai scordato del tutto chi eri un tempo?”
“Solo un folle,” ammette Rod, “e un ragazzo troppo buono...” Nei suoi occhi mesti sembra esserci ancora una traccia strascicata di quella persona, il giovane supplicante dietro le sbarre, forte dell’ingenuità di voler cambiare il mondo, che aveva lottato e pianto perché, come te, credeva nell’umanità di cui era parte. “Ma io non ho smesso di esserlo, che tu ci creda o meno, voglio ancora che si salvino tutti: così come lo voleva anche papà, e il nonno prima di lui, e chi ancora prima di loro...” lo confessa guardandoti negli occhi. “Tu, invece, stai solo scappando da tutto questo.”
Non ha idea di cosa sta dicendo, pensi, lui non ha mai visto la verità, ma sa perfettamente come farti sentire in colpa, ci è sempre riuscito... Ricordi come un tempo avevi ammirato tuo fratello, come il suo coraggio ti sia stato d’ispirazione: ora, per quella stessa persona, provi solo rammarico e un vago sprezzo. “Non ho nulla di cui biasimarmi,” se anche ne dubitassi, non è a lui che devi la tua lealtà, non più ormai: “questa è la vita che mi sono scelto.”
Per un attimo sembra aver covato delle aspettative, poi la sua espressione precipita definitivamente nella delusione. “E andrà a finire male...”
Sono anni che non ti senti rivolgere quella frase… Per un attimo è come rivedere un vecchio fantasma, un fantasma dall’espressione severa, nei cui occhi rasentava la medesima luce trascendentale che si riflette ora nei tuoi - e nostalgia è l’ultima parola che vi assoceresti…
“Parli come nostro padre,” alludi perfidamente, parole affilate brandite come spade, a infliggergli colpi laddove è più vulnerabile. Un sogghigno mefistofelico a decorarti le labbra, il volto che non hai mai mostrato ad altri tranne che a tuo fratello, come memento del sangue che vi unisce.
Non di meno la tua insinuazione pare incrinare la sua maschera compassata. Rod stringe i pugni sotto il mantello, rodendo internamente, ma qualcosa lo trattiene dal cederti la soddisfazione di vederlo trapelare... Serra la mascella facendo digrignare i suoi denti. “Mi sembra che tu ti nutra ancora dell’idea di poterne uscire vittorioso e indenne...”
È in quel momento che, dal valico di vegetazione alle sue spalle, Kenny Ackerman viene spinto avanti dai suoi uomini.
Il tuo sguardo gela.
Le braccia forzate dietro la schiena, manette ai polsi. Non sono riusciti a strappargli il bambino - non sai se abbia fatto resistenza o altro - così glielo hanno fatto tenere; in ogni caso lo avrebbe reso solo più vulnerabile. Levi sembra illeso... Saperlo salvo, tuttavia, invece di alleviarti, ha solo incalzato follemente la tua paura.
“Non solo nelle sue vene scorre sangue reale,” apostrofa Rod, con ribrezzo, “ma è anche un fottuto Ackerman...” Fa come per arricciare il naso, una smorfia denigrante quanto incredula, “può esistere mai una combinazione peggiore?” 
Le spalle di Kenny hanno un sussulto, lo sguardo ringhiante di una belva, immobilizzato dai fianchi in sù e la testa di Rod Reiss non abbastanza lontana dal suo raggio d’azione; fa per scagliarsi, ma viene trattenuto malamente dai suoi aguzzini e costretto in ginocchio dal calcio di un fucile, che le colpisce seccamente da dietro facendole piegare. Rod si gira appena, impassibile, e dopo essere stato interrotto ritorna a volgerti la sua attenzione.
“Quello che avete creato è un abominio...” Lo senti infierire, ti senti fremere. “Una mostruosità!” 
Dentro di te, cominci a vacillare. Le sue sono solo provocazioni, ti ripeti che non devi cedere, ma non sai nemmeno cosa fare, come uscire da questa situazione. Mantieni a stento la calma... 
Pensavi che esponendoti avresti potuto dare a loro una possibilità, ed eri pronto a morire per questo, eppure... Hai sbagliato a valutare la disposizione delle forze e delle risorse, fin dall’inizio. Ancora una volta ti sei dimostrato impreparato, intontito dal tuo letargico egocentrismo. 
Il pianto di Levi acuisce impotente sotto il cielo. Ti sta chiamando, ti sta cercando...
“Lasciali, tu hai me,” proferisci con un filo di voce, i lineamenti congestionati, la mano sul petto mentre indichi con insistenza te stesso. “Lasciali andare. Sono io quello che vuoi. Non te ne fai niente del suo cadavere.” Scuoti nervosamente il capo, nell’estremo tentativo di negoziare. 
Rod ti guarda. “Hai ragione,” assente, lo sguardo sgranato rilucente di follia. “Non c’è ne sarà affatto uno...” Sfila la revolver dalla cintura del soldato in piedi alla sua destra e la rivolge verso la nuca del neonato singhiozzante. “Perché io li voglio entrambi.”
 
Hai smesso di pensare. Hai smesso di respirare. 
Inizi a correre giù per la scarpata con la disperazione nel cuore, e sai che non serve a niente. Non arriverai in tempo, non riuscirai a fermarlo... Ma se dovete morire, hai pensato, almeno lo farete insieme.
Uno sparo. Secco, acuto, rapido...
Si arresta, la tua corsa. Si arresta, il tuo cuore.
 
I corvi scattano in volo, intonando quella loro triste melodia… cra, cra…
 
Le falangi avvinghiate al torace, il tuo corpo si impenna, piegandosi come se fossi stato colpito in pieno petto. E avresti voluto esserlo... avresti voluto esserlo... È muta agonia a dilaniare il tuo viso, spalancato sul mondo, un grido che mai vede luce.
Kenny si è voltato d’istinto, schermando il proiettile con il suo corpo, lo vedi cadere riverso di schiena insieme al bambino.
 
Insieme alle lacrime che sgorgano, nei tuoi occhi, non vi è traccia di tristezza... Solamente rabbia, selvaggia e desolante, e le scintille di una tempesta in cui il mondo intero brucia.
Il tuo palmo chiuso sulla lama di Kenny, il manico brandito senza tremore nell’altro, ferro contro carne lo senti scorrere verso il basso. Non avverti dolore. Non più. 
Fra le radure, una lancia di luce deflagra verso l’alto spezzandosi in infinite ragnatele incandescenti che vanno a trafiggere l’etere coperto. E il giorno diviene notte in una radiosità accecante...
L’onda tellurica percuote la terra. Mentre gridi la bestia grida con te, e l’eco si propaga da montagna a montagna, livida di dolore.
 
Il ricordo è sordo e bianco.
Sentore di sangue. Un calore viscido sui palmi. 
Omini svolazzanti spuntano tra gli alberi, uno sciame persistente e fastidiosa, le loro azioni incomprensibili ai tuoi occhi; te ne liberi schiacciandoli contro quegli stessi alberi e li senti strascicare lungo la corteccia, ossa e pelle, la stessa consistenza dei moscerini.
La foresta si tinge di rosso. Lungo la galleria di arbusti, i corpi sfilano discinti e scomposti, come pezzi di marionette in una fiera macabra.
Di ciò che avviene, solo frammenti permangono.
 
Hai camminato a lungo. 
Gli animali rifuggono alla tua vista, gli uccelli smettono di cantare. Il tuo corpo rifulge pallidamente nell’ombra silvestre, riarsa di febbre, gli abiti perduti.
Uno ad uno, trascinando i tuoi passi, hai continuato a camminare. 
Al delimitare del bosco, lasciando indietro la carcassa ormai decomposta del Titano, i tuoi sensi sono infine crollati. Prima le ginocchia, poi il busto, come un ammasso di scheletro che si sfascia in avanti.
Lassù, dove è solo freddo e silenzio. Più in alto delle Mura, e più in alto di qualunque cima di cordigliera, dove nessun uomo è mai giunto, minuscole scaglie di ghiaccio sbocciano precipitando in lente traiettorie oziose, sciogliendosi l’attimo prima di toccare il suolo. 
Fa così freddo.
Nulla ha più importanza…
Con il volto riverso a terra, le lacrime continuano a scorrere, da un occhio all’altro, bagnando l’erba, nutrendo le radici, e penetrando lentamente nelle profondità della montagna...
 
 
Cosa vedi ora?  
 
 
… Dalla cima di quel campanile il mondo diveniva un reticolato di geometrie e snodi di connessione. Ogni forma di rumore prodotto dalle creature che pullulavano la superficie - la via dei Mercanti ripercorsa da un intercalare crescente di contrattazioni, il martello rimbrottante del carpentiere al porto, stridore di cavi che trascinano le chiatte lungo i canali, ruote che rimbalzano contro gli acciottolati… - ogni singolo suono veniva captato dalla sensibilità dell’udito per poi diradarsi man mano che si saliva di quota, finché intorno a loro rimase solo la linea piatta di una nota che si tendeva all’infinito. 
Non era quello a cui pensava quando gli chiese di portarlo nel suo posto preferito...
Magari dipendeva dal modo in cui si erano introdotti - di soppiatto, scassinando il chiavistello mentre il custode schiacciava un pisolino - ma Uri si era ritrovato più volte a dubitare del proprio buon senso quel pomeriggio.
Aveva condiviso con lui quel posto, la sua postazione utilitaria quando giungeva in una città sconosciuta per gli incarichi assegnatogli, aprendogli un piccolo scorcio sul proprio mondo, senza preoccuparsi che Uri potesse leggere in quel paesaggio anche i luoghi più vulnerabili e inaccessibili del suo animo. Gli chiese di descrivergli ciò che i suoi occhi vedevano, e in cambio lui gli raccontò la sua versione.
Quando il sole stava per tramontare non avrebbe voluto dirgli addio, così gli disse di seguirlo e lo condusse in un posto ancora più in alto della torre campanaria, con la certezza che Kenny non ci avesse mai messo piede…

Da lassù, gli chiese nuovamente cosa riusciva a vedere.
 
Teneva fermo il cappello in testa perché non gli volasse via, il bagliore del crepuscolo che tingeva di rosso la sommità delle Mura. Vedo… il muro Maria! esclamò, facendosi ombra con la destra nell’atto di fissare un orizzonte imprecisato, una certa ebbrezza adolescenziale negli occhi.
Uri stentò a crederci, è impossibile, glielo disse - doveva essere un sogno, o un ricordo inventato, Kenny non avrebbe mai parlato così...
E poi, anche quel come si chiama, continuò lui, quel grosso bacino di blu zaffiro… dai, quello della filastrocca! 
Vuoi dire il “mare”?
Sì! gli fece eco con entusiasmo. Riesco a vedere anche il mare! 
Il biondo non sapeva decidere se e quanto fosse serio il suo scherzo, o se era solo l’ottimo Chateau Petrus annata 829 a parlare… Fece per increspare la fronte, arricciando le labbra poco convinto e vagamente piccato.
Forse ti ci vuole un rialzo. E non fece in tempo a replicare che si sentì mancare la terra sotto i piedi, sbatacchiando le palpebre sorpreso, sollevato improvvisamente per i fianchi.
Si lasciò sfuggire risate nervose, scuotendo il capo colmo di disagio e imbarazzo, tanto da non sapere dove posare le mani, una vaga paura di cadere: così si era aggrappato alle spalle di lui, e mentre lo pregava ancora di rimetterlo a terra, avrebbe voluto che non lo facesse mai.
La voce di Kenny in un orecchio, un rimbombo incerto, soffuso… 
Allora? Lo stai vedendo?
Magari vi lesse un filo di aspettativa, o magari lo prendeva solo in giro…
… Sì, Uri sorrise e smise di agitarsi, forse riesco a vederlo.

E sapeva che era una bugia, ma in un certo senso, era anche la verità…
 
 
“Cosa vedi ora?”
 
 
Un orizzonte immobile, il cielo e il suo riflesso sulla terra.
Nei tuoi occhi azzurri si estende una distesa d’acqua, così limpida e vasta che non ne riesci a scorgere la fine. 
Lungo le sue rive, passeggia un giovane uomo… 
Vedi la brezza scompigliare la sua zazzera d’ebano, il bianco della cravatta che sbanda come un vessillo, e la forma delle caviglie sottili, identiche alle tue, le sue impronte minute nella rena scura, mentre la spuma d’argento avanzando le sommerge ripetutamente…
Non hai bisogno di pronunciare il suo nome.
Il mare si riversa fuori dai tuoi occhi, in piccoli fiotti silenziosi, picchiettando come pioggia nei campi.
Sorridi e, finalmente, chiudi gli occhi. 
Pregando, stavolta, di non doverti più svegliare.
 
 
 


 

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Capitolo 3
*** Parte 3 ***




parte 3

 

 




....... mmaaaa!

 

Mammaaaa!!

 

Scalpitando con tutte le sue forze cercava di raggiungerla, gridava il suo nome, le sue piccole braccia serrate tra le braccia del padre. 
Un lamento sinistro, lungo e cavernoso, il grido della casa mentre moriva di fronte ai loro occhi. 
Tra le fiamme la videro sorridere, tremolio di un’ombra sottile, poco prima che il tetto cedesse...

Vi vorrò bene per sempre.

 

....

 

La stanza in cui riapri gli occhi ha un’aria familiare.

Sembra la stessa dove fu segregata vostra madre per decenni, e da cui era uscita solo alla sua morte. 
Le stesse pareti rosse, opprimenti… Ma tu sai che quella stanza era andata distrutta durante un incendio. 
Fu tuo fratello ad appiccarlo.
Che sia stato per salvarla, o ucciderla, non hai mai saputo dirlo...

Le imposte interne sono sparite, ma ci sono le sbarre alle finestre. Le misero quando lei cominciò a lanciare fuori oggetti in piena notte, frantumando ripetutamente il vetro e svegliando gli abitanti della casa tra grida agghiaccianti… così le privarono anche della luce del sole, affinché non si facesse del male.

Per quanto ti riguarda, non sai che fartene della luce... 

 

Sei a casa.

 

....

 

È una melodia triste, bisbigliata a mezza voce, tutta “mhh” e “naa” come i lamenti dei neonati... 

Ora sai che era una canzone che parlava del mare. 

Fissi il soffitto, immobile. Alle tue orecchie sussurrano i fantasmi.
Se potessi uscire dal tuo corpo, vedresti da lassù una maschera livida dagli occhi vitrei, vuoti.

Quanti giorni sono passati? Quanti ne passeranno ancora?  
Che sia giorno o notte, ha smesso di fare differenza...

Lo scandire delle ore viene ratificato da un vassoio pieno di cibo, che si ripresenta sul tavolo ogni volta che riapri gli occhi. Tre volte al giorno, il contenuto quasi invariato.

Ti chiedi che senso abbia...

“Stai cercando ti lasciarti morire?” 

Non rispondi. Non ci provi nemmeno. Hai solo sonno.  
Speri che se ne vada via presto, così da riavere intorno silenzio...

Un sospiro.  
È sopravvissuto, lo fa sempre, Rod. Ed è sempre l’unico a farlo, mentre i suoi uomini, ognuno dei suoi uomini, dal primo all’ultimo... Non è rimasto di certo ad assistere alla loro fine.

Viene ogni giorno.  
Si siede alla stessa sedia contro il muro e aspetta che tu dica qualcosa: una qualsivoglia forma di reazione che differisca dalla catatonia, o anche solo per girarsi i pollici e guardare il tempo che passa...  
Da quando sei sveglio, è sempre lì.

“…Mamma aspettava un bambino, lo sapevi?” Quando parli senti le pellicine creparsi lungo le tue labbra cucite insieme dalla disidratazione, la voce pastosa. “Invece di farlo nascere, lei, lo uccise nel suo grembo... Papà disse che era impazzita, per questo l’aveva fatta rinchiudere...” In silenzio, Rod alza lo sguardo su di te. “Proprio qui, in questa stanza...”

Un altro sospiro. “Perché ora ricordi quella storia?” Si incupisce. 

“Io... non riuscivo proprio a capire, perché lo avesse fatto...” come se farfugliassi tra te e te, non per replicare alla sua domanda, ma nel riesumare gli enigmi sommersi della tua infanzia. “Lei piangeva sempre e mi stringeva, chiedendomi scusa... che era tutta colpa sua…...”

Mi dispiace di avervi messo al mondo, bambini miei, voi non avete nessuna colpa...

La sua voce era così bella, e triste. Tutto ciò che c’era di bello al mondo.  
Si era spenta a poco a poco. La sua mente si era distaccata da questo mondo, ancora prima che il corpo cedesse. E poi, la notte dell’incendio... 
Non ricordi più il volto di vostra madre. Papà fece togliere tutti i suoi ritratti quando la seppellì.  
Quando si voltò dalla pira infuocata, la chioma al vento, ti era parsa un demonio sorridente...

... Vi vorrò bene per sempre.

Volgi il capo verso di lui e, per la prima volta da quando sei tornato a casa, guardi tuo fratello negli occhi. “Tu hai ucciso nostra madre.” Il tono incolore, hai scandito.

Dopodiché ritorni a fissare il soffitto.

 

*

 

Il pugnale di Kenny, hai finito per smarrirlo.
Questo pensiero ti rattrista più di qualunque altra cosa, anche più della consapevolezza di averlo visto cadere su quella collina.

“Cosa stai canticchiando?” Una voce stanca, alle tue spalle.

Deboli refoli, simili a gemiti, sulle tue labbra.  
Una ninna nanna spezzata, senza testo, reiterata per cullare i neonati, e il peso di una piccola ombra acchiocciolata nel vuoto delle tue braccia.  
La tua coscienza oscilla tra veglia e realtà, lo sguardo fisso, disabitato... Sei a letto, nella vostra mansarda splende il sole… la luce vellutata, nell’aria il fresco profumo del bucato e di tabacco che brucia. “Shhh...” La tua mano contro le lenzuola, lentamente, nell’atto di accarezzarle come accarezzi la schiena del bambino che mugola nel sonno... 

Rod sospira, non sentendo risposta. Batte sulle ginocchia e si solleva.  
Ne ha avuto abbastanza per oggi. Decide di lasciarti al tuo delirio e di ritornare ai suoi impegni odierni. 

Non lo senti uscire dalla stanza.

Continui a dormire, ma sei sempre più stanco.  
Non hai più un motivo per vivere, ma d’altro canto, non ne hai nemmeno uno per morire…
Ti lasci sopravvivere.

Il tuo mondo ha le misure di queste pareti. I tuoi pensieri vagano lungo i suoi angusti perimetri, troppo stanchi per evadere.

Nessuno entra qui dentro.  
Quasi nessuno sa della tua presenza alla villa. Sei come un fantasma, uno dei tanti che abitano questo lato del palazzo… 
Solo che, a differenza loro, non sai ancora di esserlo...

Si sforza di mostrarsi paziente con te, mentre ti aiuta a mangiare, ma ti rifiuti di farlo. 
Tieni premute le labbra, il naso arricciato, e tenti di sottrarti quando la mano di Rod afferra il tuo mento e ti costringe ad aprire la bocca, spingendoti il cucchiaio fin in fondo alla gola, finché non senti la trachea bruciare e il liquido risalire il setto nasale come se vi annegassi dentro. 
Ti pieghi e tossisci tutto sul letto.  
Ti osserva dall’alto con sdegno, le maniche e lo scollo della tunica unti di sudore, le ciocche grigie annodate in un groviglio viscido… 
Al suo secondo tentativo, afferri il suo braccio e affondi senza pietà i denti nella carne flaccida, usando le poche forze che hai acuite dall’esasperazione, fino a sentire la linea delle ossa sotto di essa. Rod ti getta indietro, scuotendo la parte lesa con un lamento strozzato, la mimica contorta di dolore. 
Sei senza fiato, lo sforzo prodotto ti fa vorticare la vista. Lentamente ti sollevi sui gomiti e resti piegato su un fianco, le spalle infossate, ansimante, i capelli che ricadono in avanti. 
“Ho sempre voluto solo il meglio per te, Uri,” la voce di Rod è bassa, è modulata, per nulla turbata. “Una vita agiata e confortevole, al sicuro, accanto a una persona per bene… E ora, guardati, come ti sei ridotto…” Non vedi il modo in cui storce con disgusto il naso, prima aggiungere, “per cosa, poi, uhm?” 
Sul comodino c’è il vassoio del pranzo. Il coltellino da pane avvolto nel tovagliolo intonso, lo scorgi con la coda dell’occhio.  
Il vuoto nello sguardo, dilatarsi. 
Può fare di te tutto ciò che vuole… Non ha più nessuna importanza… Nessuna. 
Non c’è più ragione per lottare, per desiderare… Allora, perché, continui ad esitare? Cosa ti tiene ancora in vita? Se codardia è premessa di sopravvivenza nello stato di natura, il coraggio è forse un atto di follia? 
Non scorgi lo sguardo di tuo fratello fisso su di te, freddo, insondabile. “Non ti lascerò morire…” lo senti pronunciare, infine, prima di alzarsi. “Anzi, puoi stare certo che mi pregherai di poter mangiare!” Pressato tra i denti, come un basso ringhio lo scandire delle parole sibilante di minaccia. 
Le tue spalle fremono, lentamente come il disperdersi delle risa fiacche dalla tua gola arida. Nel mentre ti sollevi e resti a scrutarlo con occhi fiammeggianti e lucidi di follia, macabro il sorriso che resta. “Cosa pensi che abbia ancora da perdere?”

No, non hai più nulla da temere da questa persona. Ora lo sai, con certezza definitiva e inalienabile. 
Lo stato mentale di cui disponi ora, libero da ogni legame e paura, ti permetterà di fare qualunque cosa. Nessun limite a ostacolarti, nessuna ragione a offuscarti.  
La disperazione di questo infinito orizzonte, il vuoto nel cuore… È questa, la definizione di libertà?  
No… 
Sogni la notte. Di lui, e delle sue mani strette intorno alla gola recisa, mentre geme a terra e affoga nel suo stesso sangue. Ed è un’immagine nitida quanto la certezza del tuo respiro, ora.  
Questo desiderio, feroce ed elementare, il solo che abbia ancora valore, ciò a cui potresti aggrapparti per sopravvivere…  
Perché stai ancora esitando? 
Se tutto ha avuto inizio da questa stanza, questa casa… Forse era così che doveva andare, fin dal principio, solo tu e lui, e la genealogia maledetta del vostro sangue che terminerà insieme a voi… 
Nessun altro sarebbe dovuto morire.

Rod ti dà le spalle, un bersaglio facile. Con la mano afferri il coltello, il tempo del tuo respiro si contrae e dilata come l’istante rallenta. La mente lucida.  
Mentre si allontana verso la porta, balzi giù dal letto, leggero, il rimbombo dei tuoi passi sordi come macigni sul pavimento. Rod non si volta nemmeno. 
Stringi l’impugnatura, smetti di respirare, prendi lo slancio e con tutte le forze che ti restano affondi la lama nella sua schiena affinché possa trapassargli il cuore e vedi la sua testa schiantare contro la parete.

BAN!!!

… ti senti trasalire in quell’istante. E ti svegli. 
Non ti sei mosso dal letto. E Rod ti dà ancora le spalle.

“Il tuo cane è ancora vivo.”
Parole impassibili, crudeli, definitive quanto una sentenza di morte. E la porta si chiude dietro di lui.  

Per un tempo quasi infinito sei rimasto a fissare il punto in cui ha sostato fino a pochi istanti prima, gli occhi spalancati ma senza riuscire a vedere, come se il senso di quella frase non riuscisse a raggiungerti in alcun modo. 
La tua mano in bilico, protesa all’estremità di un’azione che mai compirà, gradatamente si ritrae...

E solo allora, rimasto solo con te stesso, ti permetti di piangere. 
Calde, inarrestabili, le lacrime gonfiano le palpebre innondando le tue guance come correnti monsoniche.  
È sollievo, è impotenza. Incursione di emozioni ingolfati nel petto da cui non trovano via d’uscita. Insieme alla speranza, la disperazione che risorge in te inesorabile.

Attraverso le sbarre, un sottile fascio di luce accarezza la tua schiena nell’oscurità.  
Singhiozzi a lungo, stretto contro le tue ginocchia, ma nessun dio resta ad ascoltare.

 

 

*


 

È sempre il primo a mettersi in salvo. 

Nessun altro aveva saputo captare il segnale di pericolo, quando avevi estratto la lama di fronte a loro. Nessuno poteva capire l’etimo segreto dietro a quel tuo gesto... Tranne lui. 
Aveva cominciato a correre ancora prima di scorgervi l’inizio, senza voltarsi - non abbastanza lontano da evitare di essere travolto dall’onda d’urto della tua trasformazione - ma fu quello che subì meno danni, a dispetto di altri ignari spettatori... 
Si protesse la testa ed rimase acquattato tra i massi, con le braccia dietro la nuca, finché la tempesta non era cessata.  
Alla squadra di soccorso, giunta in un frangente successivo, diede indicazione di recuperarti.

Non fu affatto uno bello spettacolo... 
Dalla voragine dell’epicentro alla montagna di ossa fumanti laddove cadde il Titano - inseguendo le pennellate di sangue ossidato lungo le cortecce, sagome rannicchiate dentro ad enormi impronte - setacciarono la foresta sulla scia del tuo passaggio... Ma prima di te, trovarono lui.  
O, per meglio dire, lo sentirono...  
Mezzo sepolto sotto un cumulo di rocce, radici e terra, era privo di sensi quando lo estrassero, ma stretto ancora contro il suo petto quella piccola creatura strillava con tutto il fiato che aveva nei polmoni... 

Testardo. Arrabbiato.

Levi, lui voleva essere ritrovato.  
Voleva vivere. Ben lungi da darsi per vinto... Proprio come la notte in cui era venuto al mondo, aveva fatto in modo che tutti quanti lo sapessero.

 

Se le battute di caccia ti hanno insegnato qualcosa, Rod ha sempre avuto una pessima mira.



Aveva resistito fino a quando le forze glielo permisero, facendogli da riparo con il peso della sua schiena - prima contro il proiettile di Rod, poi dai detriti dell’esplosione che li aveva travolti e sommersi entrambi - in modo che avesse spazio per respirare sotto la mole di terra… e sopravvivere.
Levi non poteva sapere se il suo pianto e la sua brama di vita avrebbero anche potuto condannare quella di suo padre... Ma così non era stato.

Lui è vivo. Sono vivi, entrambi

E da qualche parte, sono tenuti prigionieri.

 

Hai perso il conto delle volte che hai battuto il palmo contro quella porta.  
Ti sembra di farlo da ore, ma nessuno vuole darti ascolto. 

BAN!! BAAN!!!

Ancora, un ultimo, l’ennesimo colpo che risuona contro il legno massiccio represso di rabbia e impotenza.  
Fronte e pugni lungo la porta, ti lasci scivolare lentamente a terra. Le palpebre compresse. Sei senza forze.  
“Fatemi…” Debole, troppo debole, combatti contro il tuo stesso respiro affannato, la voce irta di raucedine dopo ore di appello invano. “Devo uscire...”

Kenny è ancora vivo.

 

Le visite di Rod si sono fatte molto meno assidue dopo quella blanda rivelazione.

Ora che si è assicurato che tu non abbia più motivo di tentare gesti estremi, anche il suo atteggiamento nei tuoi riguardi si è gradualmente raffreddato, i suoi intenti sempre più sfuggenti. 
Se Kenny non ha ancora smantellato la gabbia che lo trattiene in quel momento, e polverizzato a mani nude qualunque ostacolo - umano o strutturale che sia - lungo la strada per venirti a cercare, i motivi che glielo hanno impedito possono essere stati solo due: il primo, se è stato ferito gravemente - se il bossolo abbia trapassato gli organi o meno, non conosci l’entità delle sue lesioni - e il secondo, è perché hanno Levi. 
Loro sono la tua debolezza. È la sola ragione per cui non li ha ancora uccisi.

Hai mandato a monte tutti i suoi piani, ma il suo obiettivo resta immutato. E forse le cose sono solo avvenute in anticipo e per altre vie…

Dal momento che sei tornato a casa, l’unico suo pensiero ora è cercare di rimediare al pastrocchio politico che si è venuto a creare dopo la tua fuga. 
Occultare il figlio avuto nel frattempo illegittimamente, e riprendere il discorso del fidanzamento con il marchese interrotto un anno fa, facendo finta che tutto questo non sia mai accaduto?  
Dubita che tu sia così docile da indossare un abito bianco e camminare lungo l’altare, dopo che avrà gettato in un fossato tuo figlio…   
D’altronde, non si può nemmeno pensare di lasciare in vita un Ackerman con l’idea astratta di poterlo in qualche modo ammansire, se il suo intento è quello di averti in suo giogo servendosi di lui e del bambino... 
E se, invece… - pensa Rod - piuttosto che sbarazzarsi di questo spiacevole incomodo, perché non adattarsi alle circostanze, e tentare di farne un uso migliore?  
E il buon marchese se ne farà una ragione.


La vestaglia a volteggiargli alle spalle, mentre a grandi falcate solca il buio della casa, disperdendo con uno sventolio della mano i pochi sprovveduti affacciati sulle soglie esortati dalle tue grida dissennate. 
Quando avverti il trambusto del pesante chiavistello in corridoio, ti scansi rapidamente trascinandoti sulle mani e i piedi - sedere a terra - indietro verso la parete opposta come un animale contro le sbarre della sua cella, finché la porta non viene spalancata con furia e una luce scabra investirti.
“Cosa credi di fare?!” La fiamma della sua lanterna oscilla impietosa davanti al tuo viso, tanto da stordirti per qualche secondo, la rabbia di Rod pressata contro le corde vocali, “hai idea di che ore siano??” 
Come ti avventi su di lui, lo vedi trasalire, quasi inorridito, le pieghe delle sue vesti attorcigliate tra le tue dita piccole e smunte.  
Sei in ginocchio.
“Voglio vederlo…” È una pietosa supplica la tua e tale è il tuo sguardo, un sibilo basso quasi fosse un ansito mentre lascia la tua gola - ma non ti importa. “Fammelo vedere, ti prego!”  
Gettato via l’ultimo strascico di dignità, vorresti convincerlo delle tue pure intenzioni, che non desideri più opporti, che sei disposto a qualunque prezzo… ma resti uno sciocco a pensare che la tua pena possa smuovere un soffio di compassione in tuo fratello.
“Non ti è permesso farlo, ne abbiamo già discusso…” Stringe il tuo polso in bilico tra l’idea di sorreggerti e la tentazione di gettarti indietro, un peso traballante a sua volta nel sostenere il tuo.
Lo sai. Lo sai… è tutto inutile, ma…  
L’esasperazione lievita in te, facendoti chiudere la gola, uno pizzico acuto e familiare che risale le narici fino a invadere gli angoli degli occhi e lasciarli liquidi. “È ancora così piccolo, ti scongiuro, fratello…” Senti il pianto bagnare la tua voce, ma le lacrime tardano a giungere. “Ha bisogno di me, sono sua madre!”  
Insofferente, si libera di te e della tua insistenza tediosa, scrollandosi di dosso il tuo peso inconsistente con l’ausilio della mano libera come se stesse levando un insetto spiaccicato sugli abiti. “Ci sono le balie a occuparsi di lui, puoi stare tranquillo,” soggiunge laconico. 
Il gesto tenue è sufficiente a farti perdere l’equilibrio. Cadi indietro e sbandi contro un tavolino basso, il gomito piegato in cerca di sostegno che rovescia il vassoio riposto sopra di esso.   
Craaaaaash.
Lo sconquasso del servizio di porcellana che va in mille pezzi sembra irritarlo più del tuo tracollo, ma non ha voglia di occuparsene al momento e tantomeno l’energia per adirarsi ancora a quell’ora tarda…  
Siedi in mezzo a una pozza chiara, la tunica insozzata. Una scheggia del piatto ha ferito il tuo braccio, sotto i palmi ne avverti i frammenti… 
Un sibilo in fondo ai timpani, lo sguardo vacuo.
I tuoi polsi tremano, a stento ti reggi in piedi. Sai che sta per andare via, ora lascerà la stanza. E tu tornerai a sussurrare ai fantasmi… 
Quante volte ti dovrai ancora prostrare? Quanto in basso ancora dovrai cadere, per riuscire a farti ascoltare?  
La verità è che sei sempre stato così… Queste mani - queste piccole mani rattrappite - non hanno mai avuto la forza di salvare qualcuno. Tantomeno te stesso. 
Eppure… anche ora, spogliato di tutto ciò che hai, umiliato, possiedi forse ancora qualcosa che né le privazioni né la morte potranno mai sottrarti… 
Nella cecità tasti il pavimento in cerca di un frammento acuminato che si possa afferrare e impugnandolo con entrambe le mani, il mento levato, lo premi contro la tua gola. Muto, inesorabile, disperato.  
I movimenti di Rod si congelano di fronte a te. Non si avvicina.  
Ti fissa a lungo, dall’alto, senza lasciarsi trapelare nulla, quasi che stesse valutando la credibilità delle tue azioni.  
“Fallo,” ti senti esortare.  
L’intensità tremula con cui stringi quell’arma rudimentale lacera le tue dita. non le vedi sanguinare, nessun cedimento nei tuoi occhi.  
Cautamente Rod si muove verso di te, i passi lenti come se stesse tastando la solidità di una lastra di ghiaccio, e nel mentre incomincia a scuotere il capo. “Non ne hai il fegato…” Senza interrompere mai il contatto visivo, una pigra provocazione a flettersi tra le sopracciglia. 
Con un fulmineo movimento si rovescia su di te, prendendoti alla sprovvista, e ti ritrovi le sue mani intorno ai polsi, torcerli nell’atto di forzarli a cedere. Scalpiti come un forsennato, rispondi con fiacche gomitate, infossandoti nelle tue spalle inferme… un patetico tentativo.  
L’affanno e la sopraffazione costringono le tue corde vocali contro la glottide e l’aria che vi attraversa libera gemiti deliranti… “Smettila!” Avverti il suo fiato sul viso, un vago retrogusto di brandy e collutorio, raccapricciante. “Basta, Uri!!”  
Le tue forze si prosciugano rapidamente. Serrate davanti al viso nell’atto di proteggersi, le braccia ti vengono forzate sopra la testa - e non puoi fare nulla, non puoi combatterlo - la pressione tale da farti spalancare le dita... Il coccio affilato infine scivola, ricadendo inerte tra le pieghe di cotone avviluppate tra le tue ginocchia. 
Costretto all’immobilità, il petto si gonfia e svuota con ritmo pressante e feroce. Le tue iridi si accendono come globi infuocati, il bianco iniettato di filamenti sanguigni.  
Un singulto di timore affiora in un angolo della mente di Rod Reiss, inducendolo a retrocedere. 
“Non avrai mai mio figlio! Lo giuro sulla mia vita!” Il ruggito di una bestia in trappola, senti la collera risalire dalle profondità delle tue viscere e plasmarsi in voce. Frenetico il movimento del capo che vi si accorda, i tuoi lineamenti distorti. “Non provocarmi, o io giuro che…!!”  
Rod solleva il mento, ansante, astioso, abiti e capelli scomposti. “Cosa?” Sovrastandoti, la sua ombra ingloba totalmente la tua sagoma rannicchiata. “Prenderai in ostaggio te stesso e l’umanità intera??” Ti senti scuotere per le spalle. “Svegliati, Uri! È solo un sogno! Un’illusione!” 
Non vuoi ascoltare, non vuoi ascoltare…  
“Smettila di scappare! Hai intenzione di abbandonarli tutti al loro destino?!” La sua voce incalza, impietosa, un tuono che percuote dai recessi oscuri della tua coscienza. Una delle sue mani a imporsi su di te, mentre l’altra si indirizza indeterminatamente alla direzione della finestra rinforzata. “Tutte quelle persone là fuori… Lascerai che questo mondo cada in rovina solo per un tuo capriccio?” 
Il silenzio che ricade tra di voi è grave e inerte. 
Rod sospira, e le sue braccia tornano a posizionarsi lungo i fianchi, come i segni dell’indignazione sbiadiscono dal suo viso.  
Il tuo sguardo è ottenebrato dietro una coltre di chioma che ricade davanti al tuo viso, le spalle abbattute.
“Non ce lo possiamo permettere, Uri…” La sua voce è un filo di sussurro, permeato di stanchezza e scoramento. “Non ce lo possiamo permettere…” ripete, le sue palpebre calate sugli occhi lucidi e afflitti. “Questo è il nostro fardello... Perché siamo nati in questa famiglia.”

Abbandonati sul pavimento gelido, stanchi e svuotati, il peso di una solitudine atavica a piegare le vostre schiene inerti. Con l’impressione di essere gli unici sopravvissuti dopo una guerra durata mille anni... 
La persona che hai di fronte non è che un altro te stesso, la tua stessa immagine riflessa nello specchio. Le parole di Rod non sono altro che un’eco dei pensieri rivolti a se stesso. 
Se non sei in grado di ucciderlo né di uccidere te stesso stanotte… Allora, qual’è stato lo scopo di tutto questo?

Hai sempre saputo che non lo avresti visto crescere.  
Fosse per te distruggeresti questa prigione all’istante per andare a prendere tuo figlio e fuggire via lontano, fosse anche fuori da queste Mura… Dovunque possiate vivere liberi, tutti e tre insieme, per gli ultimi istanti che vi restano. 
Ma questo non avrebbe cambiato nulla… Il destino di questo mondo, la sorte che ti attende, non c’è mai stato modo di fermarlo… 
Il tempo che ti rimane non è molto.

Scegli ora, Uri Reiss, in modo da non dovertene pentire.

….

Un debole raggio di luna infiltra tra le sbarre imprimendo una griglia di luce diagonale accanto alle vostre ombre, che lentamente si sposta e allunga come il satellite si muove nella notte siderale.

“Siamo più simili di quanto pensi, fratello.” La calma della voce con cui ti pronunci non ti appartiene, ma è un bisbiglio greve in fondo all’anima, parole che giungono prima della consapevolezza.  
“Per quanto inconciliabili siano state le nostre convinzioni, abbiamo sempre fatto scelte pressoché identiche nella vita. Quali che siano le motivazioni non contano. Alla fine cerchiamo solo di sopravvivere, e siamo in grado di pensare solo a noi stessi...” La foschia si dirada gradualmente, il tuo campo visivo si espande e tutto ciò che ti circonda riacquista peso e consistenza, delineandosi nitidamente di fronte a te. “Questo vale sia per te che per me,” sussurri infine, dietro palpebre socchiuse. 
Così, investito di ineffabile fermezza, sei finalmente pronto a incontrare i suoi occhi e ad affrontare il te stesso in fondo a quell’antro oscuro. 
“Ti propongo uno scambio.” 
Rod si acciglia, ma è tutt’orecchi. 
“Poniamo in un’equazione ciò che ci sta più a cuore: tu e tua figlia, io e il mio.” Ti accerti di avere la sua completa attenzione - e così è - prima di proseguire. “Al posto di mio figlio, tu avrai me. Tornerò definitivamente a casa, vivrò nascosto finché non sarà venuta la mia ora, e non tenterò più di fuggire… E tu, in cambio, mi darai tua figlia.” 
Puoi cogliere le mille sfaccettature irrequiete dietro il suo sguardo, non appena hai nominato la luce dei suoi occhi. “Frida?” Il tono di Rod vacilla. “No, Frida no!” 
“Sì, invece!” Feroce è il fiato con cui investi il volto sconcertato di tuo fratello. “Oppure preferisci sacrificarti tu di persona?” Infidamente, lo sfidi. 
Rod ingoia a vuoto, interdetto. Il suo silenzio è la risposta che cerchi.
“Bene, abbiamo un accordo.”

 

 

 

*

 

 

Sarebbe stato meglio se non fosse mai venuto al mondo, ti ritrovi spesso a pensarlo.
Se solo fosse nato in un luogo differente, o da una madre migliore di te… perché piuttosto che lasciarlo ostaggio di un destino ingrato, sei arrivato a pensare che sarebbe stato meglio porre fine alla sua vita con le tue stesse mani… 
Ma i bambini non hanno colpe. Nessun bambino dovrebbe averne. 
Nessun bambino si sceglie il modo di venire al mondo, e Levi non ne fa eccezione.
L’amore non ha colpa.

Se questa è la tua decisione, allora non devi più esitare. Più tempo aspetterai e peggio sarà per te riuscire a separartene. 
Meglio così… 
Non avrà nessun ricordo di te. E sarà come se non fossi mai esistito…

 

 

La luce nella stanza è calda e soffusa, pura come una carezza al tramonto.  
Il bambino è seduto nella culla.

Non piange, né si affanna.  
Sembra un’immagine apparsa in sogno, la sua quiete che trascende i clamori del mondo circostante, quasi che sapesse di non farvi parte... 
Si porta un pezzo di coperta in bocca e ne saggia la consistenza ruvida, guardandosi intorno, inconsapevole.  
Ti siedi vicino a lui e lo osservi in silenzio, incosciente del sorriso che investe i tuoi occhi, quando gli accarezzi le guance delicatamente arrossate.  
Sta bene. È in salute. È al sicuro. 
E nulla, nulla potrà mai minacciarlo…

Levi rimanda il tuo sorriso, allungando le manine, un invito a farsi prendere in braccio come ti chini su di lui. Desiderio che esaudisci presto per entrambi.   
È cresciuto ancora. Il suo calore familiare è un conforto immenso contro i battiti frenetici del tuo cuore, mentre fragile si aggrappa a te e si lascia cullare.  
Ti conosce ancora. Sei sua madre… Saperlo è sufficiente a irrorare le tue iridi di commozione.  
Vi appartenete a vicenda.

“Sei amato, Levi, ricordalo sempre.” Sussurri piano tra i suoi ciuffi d’ebano, mentre il bambino si appisola sulla tua spalla.  
Preghi che la sorte sia clemente con lui, che possa ricevere gentilezza in ogni dove del suo cammino, e trovare il conforto di un abbraccio anche negli istanti più bui e disillusi…  
Ogni goccia di pioggia che toccherà il suo viso sarà una tua carezza per lui. Sarai il vento che guida i suoi passi, il buio che culla le sue notti. E lui ti rivedrà in ogni volto e sorriso che incrocerà lungo la strada…

Se è la cosa giusta, non sarà necessario che lui lo sappia.

“Tu sarai libero.”

 

 

….

 

A distanza di venti giorni, Kenny Ackerman viene rilasciato con una grossa fasciatura sul petto e nessuna spiegazione in merito.  
Tutti gli effetti personali gli sono stati restituiti. 

Per il luogo dell’incontro, hanno scelto una casa disabitata in mezzo alla radura. 
La sorveglianza resterà in disparte. Nessuno interferirà.

 

 

Ti trova seduto alla finestra al suo arrivo, Levi addormentato tra le tue braccia. Tracce di lacrime asciutte da ore. 
Kenny resta sulla porta. Senza proferire parola. Vuole che sia tu a voltarti. 
Ha quasi paura di rovinare l’immagine che ha davanti - immobile, irreale - come se potesse svanire da un istante all’altro se si fosse intromesso…   
I colori di quella stanza, cianotici e spenti, come il giorno volge al termine. Dietro i vetri, il cielo si rannuvola rapidamente. 

Buttato giù dalla carrozza su cui ha viaggiato sotto scorta, senza aspettarsi che torni indietro ha proseguito a piedi, gli abiti inzaccherati dagli schizzi di ruote. 
Un tempo si sarebbe stupito se non fosse filato dritto da Rod in cerca di sangue e regolamenti, ma nessun proposito di vendetta lo anima al momento. Per quello ci sarà sempre tempo… 
Kenny Ackerman non è uomo che rispetti i patti, eppure non è così dissennato da lanciarsi in un’incursione suicida, ancora convalescente e con l’urgenza di raggiungerti nel più breve lasso di tempo possibile. 

“Non importa cosa ti abbia detto quel bastardo...”   
È sempre stato convinto che tu sia solo una vittima nelle perverse macchinazioni di tuo fratello. È convinto che sia tutto un tranello, ed è convinto che tu sia stato raggirato dalle sue parole, o minacce, e indotto a presentarti qui oggi…  
E Kenny pensa questo, perché non si è ancora arreso. Ti chiedi se esista al mondo qualcosa in grado di piegare la volontà di un Ackerman.  
Deluderlo, forse, è l’unico modo che conosci…  
Ha ispezionato i dintorni prima di entrare, la casa sembra essere pulita, come ti è stato promesso.  
Lui ha deciso che oggi ve ne andrete via da lì, anche a costo di trascinarti per il tuo culo stanco e sentirti lamentare fino alla fine dei suoi giorni. Non vuole sentire ragioni. 
“C’è un’uscita sul retro…” Ti sta offrendo una possibilità - forse non è ancora troppo tardi - una via di salvezza in fondo a quegli occhi di graffite che sembrano racchiudere un giuramento inviolato ed eterno. “Andiamocene ora, tutti e tre insieme.” 
E ne sei tentato… per un secondo. 
È la sua presenza a farti credere che tutto sia possibile, anche l’atto più folle e rovinoso che si possa concepire, quando lui ti è accanto…  
Vorresti solo stringerti a lui e cedere ancora una volta ai desideri del tuo cuore, affidandoti alla sua forza, come hai sempre fatto… Ma non questa volta. 
Questa volta, sarai solo tu a dover scegliere… 
La sedia dondola a vuoto, privato improvvisamente del tuo peso. Ti allontani dal suo conforto, dandogli le spalle, per deporre il bambino nel suo giaciglio, con delicatezza per non turbare il suo sonno.  
Kenny è rimasto accanto alla seggiola vuota, un’ombra lunga e melanconica, in attesa di spiegazioni che non giungeranno...

“Portalo via.”

Temi solo che incrociandoli ora, i tuoi occhi si sarebbero infranti nei suoi, ricolmi di sconcerto come lo sono in quest’istante. 

“Portalo via, Kenny...” Ricordi di averglielo già chiesto una volta, e anche allora gli avevi mentito perché si fidasse di te. È ciò che hai sempre fatto, in fondo, e lui lo sa; e pur sapendolo ti ha comunque amato... Defili lo sguardo da un lato, i pugni stretti, per sottrarti alla sua vista, così agli occhi della tua coscienza. Una risoluzione immobile, spietata, si contrae nella tua voce frastagliata di una lenta disperazione. “Nascondilo. Tienilo al sicuro. Non permettergli di trovarlo!” 
Ti ritrovi a tremare contro di lui, con le tue mani chiuse lungo il suo cappotto e il peso della tua fronte ceduta sullo sterno. “Non chiedermi niente, ti prego…” Il cuore ti martella in gola, colpevole, laddove le sillabe rimbombano come in fondo a una voragine di fiamme.
“Cosa gli hai promesso?” Sa che la sua liberazione non può essere avvenuta senza un prezzo, e vuole sentirselo dire da te. Scuoti con forza la nuca. 
Kenny non ti stringerà a se. Il volto costipato e le spalle rigide. 
Vorresti che qualcuno ti dicesse ora che va bene così, che sa cosa provi e avrà cura del tuo cuore, perché non sei solo. Che un giorno capirai finalmente il valore di questo sacrificio e allora saprai che ne è valsa la pena… 
La verità è che l’esistenza di Rod Reiss non ha mai costituito una minaccia primaria per il futuro di tuo figlio, non è lui la persona da cui doverlo allontanare… 
L’impedimento più grande, l’unico… sei sempre stato tu. - E una parte di te, mentre lo supplichi di sottrarti il tuo bambino, vorrebbe solo ridurlo a brandelli per ciò che sta per fare… - Ora lo sai. 
Sopprimi lo sguardo dietro le palpebre.

“Va, ti prego…”

Frammenti di nevischio battono sul telaio della finestra. 
Solo per questa volta, mentirai a te stesso. 

 

 

 

Senza dire una parola, Kenny prende il bambino dalla culla e sparisce dalla porta da cui è venuto.

 

 

……

 

 

 

La neve scende senza sosta. Fuori, dentro. 

Speri che non smetta mai…

 

Il freddo risale lentamente dalla terra battuta su cui sei accovacciato, abbarbicandosi lungo la tua schiena, il tuo collo, le tue braccia… E ascoltando il suono della neve che cade hai lasciato che ti avvolgesse in un abbraccio di tremori attutiti.  
Non hai più motivo per restare, eppure non riesci ad andartene da lì; forse perché il tuo cuore non riesce a compensare cosa sia accaduto... 

L’ultimo residuo della brace spira nel camino. L’ultima flebile linea di difesa cede contro l’oscurità e la stanza ne viene sommersa. 
Questo silenzio… c’era anche prima? Quanto tempo è passato da quando Kenny se n’è andato? 
Due gocce picchiettano sul pavimento, ridestandoti, un volto paralizzato nei solchi del pianto.

Come se non fossi mai esistito…

Ti trascini in piedi barcollando e ti precipiti fuori, in preda a una repentina disperazione. La bufera ti investe appena varcata la soglia, ma là fuori non c’è più nessuno. Per chilometri non si scorge altro che la cortina bianca della tempesta.

“Le… Leviiiiiiiiii……” Hai gridato il suo nome contro le tenebre di neve vorticante, il gelo asfissiante scava sul tuo viso mescolandosi alle lacrime.

“Leviiiiiiiiiiiiiiii……!!!”

Sarai il vento che guida i suoi passi, il buio che culla le sue notti.  
E lui ti rivedrà in ogni volto e sorriso che incrocerà lungo la strada...

Cadi sulle ginocchia, annaspando e ingoiando neve a ogni respiro. Un lungo grido lascia la tua gola, sovrastando il dolore muto, e il suo eco viene inghiottito dalle raffiche, disperdendosi nella tormenta… 

 

Levi è nato in una notte come questa.

Ha appena compiuto un anno.

 

 

 

 

 

*

 

 

La strada che originariamente avrebbe dovuto percorrere con te, ora Kenny la percorre da solo.
Beh, non del tutto solo… 
Levi se n’è stato buono e tranquillo per tutto il viaggio fino ai cancelli delle scale, dove ha pagato il pedaggio prima di iniziare la discesa.
Sempre sperando che la squinternata non abbia cambiato recapito nel frattempo… Kenny bussa alla porta di un cubicolo di fango, lungo il vicolo largo appena per passarci dove le puttane si allineano per mostrare le mercanzie in offerta. 
Gli apre una magra figura femminile in camicia da notte, lunghe ciocche d’inchiostro si raccolgono su una spalla, e così alta da poterlo guardare senza difficoltà negli occhi, appuntandovi un’espressione tipicamente diffidente - truce anche dopo che lo ha riconosciuto.
La prima cosa che nota fuori posto è l’esserino attaccato al suo petto. “È mio,” dice solamente Kenny, anticipando il suo stupore imminente e l’interrogativo che sta per schiudersi sulle labbra della sorella.
Lei lo fa entrare, scrutando circospetta le due direzioni della strada, prima di chiudere la porta.

C’è shock e incredulità sul viso di Kuchel Ackerman. “Hai sempre detto di non volere figli…”
Non c’è molto su cui potersi accomodare lì dentro. Solo un letto squallido e un vecchio cassettone per gli abiti; all’angolo della finestra, la stufetta di mattone imbrattata di unto e fuliggine. Non è mai eccelsa in ospitalità, Kuchel, né in pulizia a quanto pare… Non che lui se ne faccia un problema. 
Forse si aspetta una spiegazione da parte sua. Irrompere improvvisamente a casa sua, nel pieno della notte, e con una faccia così grave…
“Non posso tenerlo…” chiarisce infine il fratello. “Ho bisogno che ti prenda cura di lui.”
Kuchel si acciglia, ancora non convinta. “Non c’è problema, ma… cos’è successo?” domanda lei inquieta, accorgendosi dell’espressione funesta sul volto del fratello, prima di porre lo sguardo sul fagottino tra le sue braccia. “Chi è la madre?”
La sua stretta attorno al bambino si fa inavvertitamente più salda, come se avvertisse una minaccia indeterminata in quella domanda del tutto legittima da parte sua. 
Dopo un intervallo combattuto, Kenny relega un fievole “è complicato…” glissando così la questione. Stacca invece il neonato dalla spalla su cui ha dormito per tutto il tempo, e sostenendogli la nuca come è abituato a fare - con cura e una delicatezza che non gli appartiene - lo solleva per passarlo alla sorella. 
Il marmocchio ha un’aria vagamente intontita, la fronte corrugata mentre strizza le palpebre, turbato dal lieve cambio di posizione e temperatura. 
Quella notte ha preso la prima cosa che gli è capitato sottomano, con cui coprirlo perché non prendesse freddo e portarlo qui - era lo scialle che avevi lasciato sullo schienale di una sedia in quella casa, il tuo preferito tra l’altro…
Lo accarezza per accertarsi che non abbia freddo, i modi pazienti e materni, il tepore del bambino si raccoglie tra le sue braccia smunte come un peso estraneo e familiare. Al lume di candele, lei nota il colore dei suoi occhi e un sorriso sghembo le affiora in viso, infuso di affetto innato.
Ora non ha più dubbi che sia suo…
“Tu, invece,” Kenny scaccia via il disaggio e prova a cambiare argomento. “Ho saputo che hai avuto un figlio qualche tempo fa… quanti anni ha adesso, due?”
“Una bambina,” soggiunge lei, abbassando inconsciamente lo sguardo. “Era una bambina… È morta durante l’epidemia, e sì, avrebbe compiuto due anni lo scosso novembre.” Kuchel sorride di un sorriso mesto, stringendosi al nipote ora accovacciato sulle sue ginocchia.
“Mi dispiace.” - Lo è davvero, anche se sa di non sembrarlo ai suoi occhi… perché ora sente di poterla comprendere un po’ meglio di prima.
“Già.”
Kuchel sospira con fare liberatorio, intenta a stroncare il discorso. “Gli hai già dato un nome?” domanda schiettamente al fratello.
“Levi,” replica lui. “Si chiama Levi...”
“Levi!” gli fa eco lei imitando una voce infantile e inclinando il profilo raggiante. “Ma che bel giovanotto che abbiamo qui, eh?” Lo fa saltellare sulle sue gambe e gli fa le facce per vederlo ridacchiare in modo adorabile. 
Lei gli piace. E lui piace a lei.
In quel sorriso affabile Kuchel scorge le tracce di un volto che non sembra appartenere al fratello - Kenny, con tutto il bene che gli vuole, non è mai stato un campione di allegria. Si chiede a chi possa assomigliare… “Come si chiama sua madre?” 
Kenny serra le mascelle, sottraendosi infastidito allo sguardo della sorella. “Non è così semplice… te l’ho detto.”
“Ma non possiamo dargli il nostro cognome,” ha insistito lei, restia e angosciata al pensiero. “Non uno come il nostro!”
“Allora non avrà un cognome!!” 
Le sue parole esplodono sotto quelle basse travature e tutto tace per un secondo. 
Le spalle di Kuchel sussultano senza volerlo, ricordando sulla pelle una fastidiosa sensazione del passato - quando, con lo stesso tono di esasperazione e rabbia, veniva messa a tacere dai maschi della sua famiglia, solo perché recava opinioni differenti dalle loro menti rattrappite dalla paura… 
Lei resta in silenzio e lo fissa a lungo, attonita. “Con te erano sempre segreti e bugie… Non sei cambiato affatto, fratello,” mormora Kuchel, la voce imparziale che tenta solo di comprenderlo, il coraggio inalterato, “eppure sei diventato padre, mi chiedo come sia possibile…” Ma lo conosce abbastanza da dire che il suo segreto - qualunque esso sia - lo porterà con sé nella tomba. Sorride tra se e se con melanconia, e soggiunge infine nella solita atipica gentilezza, “ma puoi stare tranquillo, mi prenderò cura di lui.”
“Bene,” conclude lui guardandosi intorno. “Piuttosto, perché non ti trovi un posto più decente dove stare?”
“Non ho bisogno che tu mi dica come devo vivere la mia vita.” Fredda, bella, orgogliosa; come la ricorda sempre.
“È quello che hai detto al vecchio quando te ne sei andata?” 
Il vecchio, il nonno che li aveva cresciuti e che portava lo stesso nome di suo figlio… lei gli aveva spezzato il cuore, e quel dolore il vecchio se l’era tenuto dentro fino alla fine, senza fargliela mai pesare...
Kuchel distoglie lo sguardo, adombrandosi. “Ero solo stufa di vivere all’ombra di uomini grandi e grossi che hanno paura perfino della luce del sole…” E dopo una parentesi di sconforto rinviene in sé, come fa sempre, scacciando via i sensi di colpa - o qualunque cosa sia stata, perché appartiene ormai al passato. “Io me la caverò, non ti preoccupare,” si rivolge decisa al fratello. “E tuo figlio sarà al sicuro con me.”
Kenny le rifila un mezzo sorriso. “Non ne dubito.”
Sulla porta, Levi incomincia a piagnucolare e Kuchel tenta di tranquillizzarlo. Tende le manine invano nel tentativo di raggiungere il padre che se ne sta andando, e lei ne sposta il peso continuamente da un braccio all’altro per sottrarlo alla sua vista, dandogli pacche che non sembrano confortarlo.
“Ti manderò del denaro,” aggiunge prima di levare il disturbo, raddrizzandosi il fedora in testa. 
“Fatti vivo ogni tanto.” Kuchel accenna un saluto corrucciato, ma sa che non lo farà.

 

…..

 

Non aveva niente quando era arrivato da lei, a parte il suo nome e la pezza in cui era avvolto.
Kuchel l’avrebbe lavata e messa via per lui, custodendola per molti anni, in attesa di riconsegnarglielo un giorno.  
Quando Levi crescerà lei gli dirà che è appartenuta a sua madre, la sua vera madre, perché è giusto che lo sappia… ma il bambino le avrebbe risposto che è lei la sua mamma, e lei avrebbe pianto e lo avrebbe stretto a sé, sentendosi colmare di una felicità e completezza mai provate, grata per quel dono immeritato che la vita le ha concesso…

Da allora quell’indumento è divenuto il ricordo delle sue due madri. Una gli ha donato la vita, l’altra gli ha insegnato ad amare.
Quello scialle bianco, Levi non conosce la storia intessuta nelle sue trame, né il volto celato dietro al suo mistero. Ciononostante lo porterà sempre con sé, anche quando Kuchel non ci sarà più, anche quando lascerà la Città sotterranea…
Accompagnandolo sempre, in ogni viaggio avventuroso e per tutte le rotte di questo mondo, affinché sappia sempre la direzione di casa…

 

 

*

 

 

Da allora sono trascorsi molti anni.

Kenny ha continuato a lavorare per conto della corona, ma le sue visite alla tenuta sono state sempre più sporadiche.
Il vostro rapporto si è incrinato col passare degli anni. La separazione da Levi ha fatto solo affiorare qualcosa che aveva già cominciato a traboccare da tempo, finendo per allontanare i vostri cuori.
Sai che la colpa è tua… Kenny non lo dice, ma in cuor suo lo pensa.
Non hai voluto lottare per tuo figlio, ma non hai saputo nemmeno lasciarti completamente alle spalle il tuo passato insieme al retaggio della tua famiglia, né hai avuto abbastanza coraggio per distruggerli…
Alla fine quella decisione è stata tua, non hai mai pensato di sottrarti alle sue conseguenze, ma Kenny dal canto suo non l’avrebbe mai accettata o perdonata del tutto… Forse, nemmeno tu ci riesci.

Non hai voluto rivolgergli la parola quella notte, quando tornò da Mitras dopo averti portato via Levi.
Ti aveva trovato abbandonato sul letto, avviluppato in un bozzolo di pianto ormai inaridito. Aveva voluto consolarti e si era teso per toccarti la spalla, ma tu ti eri voltato dall’altra parte e “lasciami stare…” lo avevi lasciato solo a consumare il suo dolore...
E non hai voluto farlo neanche in seguito, per molti molti anni, rifiutando di parlargli, e addossandogli tutta la responsabilità di una scelta che tu stesso avevi compiuto e che Kenny aveva solo eseguito.
Lo accusi con incoerenza e crudeltà, lo biasimi per non averti fermato quando poteva, ma di fronte al tuo rancore ingiustificato lui non si è mai difeso, neanche una volta. E odi quando se ne sta in silenzio, come se non provasse niente, quando sparisce, quando ti lascia solo… Ma soprattutto odi te stesso per averglielo lasciato fare.
Il silenzio con cui ha sempre vegliato su di te, il modo in cui ti amava e che tu amavi di lui... 
Ti chiedi da quando questo silenzio ha iniziato ad esserti intollerabile… Da quando, incontrarsi, fa così male…
Che Kenny lo andasse a trovare di nascosto, il bambino, lo hai sempre saputo.

Tu sei morto per il mondo.

Questo è stato il patto con tuo fratello, in cambio della vita di tuo figlio.
Uri Reiss, sulla carta, sarebbe scomparso in un tragico incidente e avrebbe vissuto nascondendo la sua identità, da quel momento, fino allo scadere del suo tempo.
Come un fantasma.
Rod ha predisposto tutto affinché la successione avvenga senza intoppi, occupandosi al tempo stesso della facciata pubblica di fronte alle ingerenze dell’Assemblea. Cedendo la corona, gli hai ceduto anche il destino dell’umanità di cui è divenuto segretamente sovrano. 
E Frieda, l’erede designata, avrebbe ricevuto il potere dopo la tua scomparsa - almeno per il resto del mondo - in anticipo rispetto ai tempi, ma l’avrebbe custodito solo per poco, prima che... 
Di certo nessuno poteva sapere come gli eventi di lì a poco si sarebbero rovesciati, travolti da un’incognita ancora sconosciuta, gettando così il mondo in un’era di caos e sconvolgimenti…

“Lo aspettavamo a gennaio, te lo ricordi?”

“Sì.”

Lui è venuto da te. Mancano solo due giorni al rituale, e tu credi di non poter più aspettare.

“Ma è giunto in anticipo, insieme alla neve, come se avesse fretta di vedere il mondo…” Il tempo scorre a ritroso nella tua voce, modulandosi dolcemente. “Credevamo di aspettare una femmina...” Sorridi, e le rughe che ricoprono il tuo viso sorridono con te. “Ci ha fatto una sorpresa in tutti i sensi.”
Il viso di quel bambino ormai è un ricordo lontano e sbiancato, fermo eternamente nella tua memoria, dove non crescerà mai e sarà sempre amato…
Alzi la fronte e poni lo sguardo al di là delle pareti che sovrastano le vostre esistenze, immaginando un cielo più alto e vero di qualunque privazione e menzogna. “Fuggivamo da un posto all’altro e non potevamo disfare le valige che, ecco, dovevamo andarcene di nuovo: a ripensarci, però, quello è stato forse il periodo più bello della mia vita...” L’ultima parte l’hai sussurrato, non sei certo che ti abbia sentito. “Non avevamo niente allora, ci tenevamo aggrappati uno all’altro, così da sentirci completi e lo eravamo, tu, io e Levi…”

“……”

“……”

“Ho provato ad aggiustare le cose, ci ho provato davvero…” 

“Lo so.” Ingoi stentatamente, trovando ogni sillaba bruciare.

“Pensi che sia stato tutto un errore,” domanda Kenny, descrivendo lo spazio tra di voi con un movimento casuale della mano, “tu, io?”

Sorridi, perché non sai che altro fare. “Non eravamo fatti l’uno per l’altro come pensavamo…”

Lo accetta. Gli sta bene.
E si sente sconfitto, Kenny, ancora prima di dichiarare la resa ne assapora la malinconia. 
Se ti stringesse a sé ora, sarebbe potuto sembrare un atto di insensibilità. Allora se ne sta distante, senza riuscire ad avvicinarsi, e ti parla attraverso la cortina degli anni, immaginando il tepore del tuo viso sulle dita... “Questo non vuol dire che non ti amo.” 

Anche questo, lo sai.

Per quanto non riesca a perdonarti, non riesce nemmeno a mentire a se stesso.
Questo dolore lo hai inventato per celare dentro il peso dei tuoi rimorsi, seppellendo le grida del tuo cuore dietro a grida più forti, fino a lacerarti l’anima. Cedendo la tua libertà per quella di tuo figlio, perché ormai non ne hai più bisogno…
E questo è il momento di riscattare quella promessa, siglandola con la tua morte.
È tutto ciò che tu possa fare per lui, come madre, in questa vita. Più dell’amore, più del perdono. 
Con la certezza che Kenny veglierà sempre su di lui, anche quando non ci sarai più.
Ciò che avete lasciato al mondo, è qualcosa di cui non potrai mai pentirti… No, come non potresti rinnegare i suoi sentimenti, il vostro amore imperfetto che da tempo è sfuggito alla definizione di se stesso, per divenire qualcos’altro… Forse nulla, forse tutto.
È un sentimento delicato, dolce e amaro, di chi sa di appartenersi a vicenda e comprendersi al di sopra delle parole.
Ora riesci a sentirlo vicino a te - nonostante quello che avete passato e tutto il male che vi siete recati - più che in qualunque altro istante di questo legame che la vita vi ha costretti insieme.

Le sue mani risalgono le tue braccia, fermandosi sulle tue spalle dove stringono incerte. Come sempre è rimasto a un passo dietro di te, a osservare in silenzio il mondo dalla tua prospettiva senza riuscire a vederlo. La sua vicinanza, il suo calore. Mentre quelle braccia ti si avvolgono attorno, non ti rendi conto di piangere da ore. 
Una mano sulla bocca, sentendoti soffocare.
Dimeni le spalle per riuscire a voltarti nel suo abbraccio, e ti ci aggrappi con tutte le tue forze e le tue colpe, lasciandoti affogare. 
Scivoli a terra e lui si lascia scivolare insieme a te, sorreggendo il tuo peso e tremando con te. Il tuo volto tra le sue mani, e il suo volto tra le tue. Le narici occluse e gli occhi traboccanti. Come due patetici vecchi che inciampano uno sull’altro, tenendosi stretti. “Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace…” gli chiedi perdono a non finire, come il giorno in cui vi siete conosciuti, senza sapere per cosa o a chi lo stai chiedendo… 
Forse a Dio - se davvero esiste -, forse all’umanità... o forse, solo a tuo figlio…

È l’ultima volta che ti permetti di essere egoista.

 

 

 

……

 

 

 

844 non è stato un anno particolare. 
Il raccolto è stato scarso, nonostante le piogge abbondanti. E il prezzo dei generi alimentari ha battuto più volte record secolari.
Non c’è malcontento, ma non c’è nemmeno gratitudine. 

Anche quel giorno, non è stato un giorno particolare...

Drappelli di civili e famiglie si spintonano ai due lati della strada battuta, liberata apposta per la partenza delle cappe verdi. 
Due monelli si arrampicano sull’albero per vederli passare, al lento incedere dei cavalieri, e le donne gettano fasci di fiori ai loro piedi. Sguardi colmi di apprensione, ma anche di aspettative.
Quando il fragore delle campane si innalza sopra i cieli di Shiganshina, annunciando l’imminente apertura della porta, dietro di loro si intravede anche un vecchio fantasma incappucciato.
Curvo sotto il mantello bianco, il passo zoppicante, e tutto il suo peso infermo sorretto su un bastone. 
Se ne sta un po’ distante, all’imboccatura di un vicolo, rescisso dal clamore della folla - ma va bene così, perché quello è un posto speciale, il posto a cui è riservato il suo cuore e da cui potrà vegliare indisturbato...

 

 

Lo guarderai uscire da quei cancelli larghi e maestosi, sorridendogli, per la prima e l’ultima volta…
Sono trascorsi 25 anni da quel giorno innevato. La neve l’aveva portato, e la neve se l’era portato via. Non è passato giorno che non hai pensato a lui.
Ti dispiace di non essere potuto essere una madre per lui, di non averlo visto crescere mentre imparava a parlare, a camminare… a volare.
Ti dispiace di non averlo potuto stringere quando era solo e abbattuto, consolato per una perdita o una delusione d’amore, quando il cielo sembrava non bastare... Avresti voluto essere presente in tutti quei momenti della sua vita, per gioirne e soffrire insieme a lui… Avresti voluto essere lì per avvolgere i suoi dubbi e le sue paure, ogni volta che si fosse perso o arreso, consigliarlo e prepararlo all’ignoto che lo attende…

Ma ora lui potrà finalmente essere libero.

 

 

I tuoi sentimenti non sono cambiati.

Quando avevi giurato di abbattere le Mura per tuo figlio e incendiare il mondo per difenderlo, non era una promessa a vuoto.

Magari non sarai tu a dare inizio alla valanga, magari non sarai la persona destinata a cambiare, distruggere, e salvare il mondo…

A te è toccato solo spingere il sassolino giù dalla scarpata. Questo non fa di te un Dio.

 

 

 

…….

 

…..

 



Senza nome, senza retaggio.

Questa è una storia di cui hai smesso di fare parte. La storia di un ragazzo nato con le piume innestate sulle scapole.

 


La brezza estiva smuove le tende contro gli infissi. Il ragazzo osserva il cielo, il lento transitare delle nuvole in cui si rincorrono mostri di gobbe e pesci alati. Candide lenzuola, un letto disfatto che profuma di sole.
C’è tanta tanta luce, quasi da fargli ammiccare.
Dita ruvide ripassano tra fasci di ciocche chiare e indisciplinate - dita abituate a stringere solo acciaio e mani insanguinate, capaci di infliggere morte come di dare vita. 
Ciglia pallide socchiuse, un sorriso baciato dal tepore del sole.

“Che stai canticchiando?”

Quella melodia, è come se la ricordasse da sempre… ma non ha idea di chi glielo abbia insegnato; forse sua madre, il ragazzo non ne è convinto.

“Non so quando l’ho imparato…” replica Levi, continuando a conteggiare le nuvole, la coscienza sospesa in luoghi lontani. “È una canzone che parla di marlei…”

“Vuoi dire il “mare”?” Il biondo ridacchia, la voce che riverbera tutta attraverso il suo addome.

“Beh, sì, quello che è!” sbotta il compagno.

Capelli biondi, occhi chiari…

Somigli a tua madre, un tempo gli disse il bastardo, ma Levi non avrebbe saputo dire cosa intendesse o cosa vedessero di preciso i suoi occhi in quei momenti…
Cioè, sì, da quando è entrato in pubertà ha cominciato ad assumere molti aspetti di Kuchel, sia nei tratti somatici che negli atteggiamenti, ma.. sono fatti risaputi quelli.

Ci sono certi dettagli di sé a cui, invece, non riesce a trovare collegamenti o spiegazioni… Reminiscenze di pelle, discrepanze viscerali, particolari che hanno sempre indirizzato il suo istinto senza che lo sapesse... Come quel senso di mollezza contratto al petto, la prima volta che si è concesso di adagiarsi alla sua nuca e lasciarsi trasportare; quella sensazione di familiarità rinvenuta addormentandosi sulla spalla di Erwin, ancora oggi, quasi da fargli venire nostalgia… 
Cose misteriose, inspiegabili, come gli strani eventi che si ripetono ogni anno, sempre a ridosso dell’inverno, fin da quando ha memoria.
Quando è stato abbastanza grande da rendersene conto forse non sapeva ancora tenere in mano un pugnale: la mattina, al suo risveglio, e solo in quel giorno specifico dell’anno, Levi trova sempre un fiore sotto la propria finestra.
Una genziana.
E poco cambia se quella in cui risiede è una proprietà dell’esercito, interdetta ai civili.
Chi glielo lascia non si firma né si palesa. Forse si tratta solo di uno scherzo, o di una minaccia… Non saprebbe.
L’opera di un ammiratore segreto, crede Erwin. 
Baggianate, pensa il moro, sarà senz’altro uno stalker seriale con poca fantasia...

 


 

 

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