PLANETARIUM | Lyra upper us di channy_the_loner (/viewuser.php?uid=950561)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** He was so bored ***
Capitolo 2: *** Flowers, Nobody and Secret ***
Capitolo 3: *** Woody, Unwilling and Threat ***
Capitolo 4: *** Anyway, Bloody Mary and In the dark ***
Capitolo 5: *** Shut up, Princess and Fool ***
Capitolo 6: *** Irony, Grease and He didn’t ***
Capitolo 7: *** Pineapple, Theatre and Hammer ***
Capitolo 8: *** Bleachers, Lightning and Surname ***
Capitolo 9: *** Umbrella, Restless and Mayor ***
Capitolo 10: *** Sleeve, Silence and Tears ***
Capitolo 1 *** He was so bored ***
Angoletto
dell’Autrice!! (per la prima volta a inizio
storia)
‘One Piece’
da sempre accompagna la mia vita e se ne prende cura, lenisce le
ferite, mi abbraccia nei momenti di sconforto e mi fa tornare il
sorriso, perciò come avrei potuto non scrivere una long come
ringraziamento? In realtà sono anni che conservo lo schema
dei capitoli nella mia cartellina verde scarabocchiata, ma solo ora
sento di aver raggiunto la maturità per scrivere qualcosa di
un po’ più complesso – come quello che
state per leggere. Ho apportato molte modifiche alle idee originali,
quindi far congiungere tutto sarà più
complicato… Ma io amo le sfide!
Queste sono le avvertenze
che vi propongo; ci tengo, è importante!
1. L’originalità:
non è assolutamente mia intenzione copiare le fanfiction
altrui! Su questo fandom ci sono tante storie, perciò
è impossibile che io le abbia lette tutte; se nel corso dei
capitoli vi sembra di trovare evidenti similitudini con altre ff, vi
prego di segnalarmelo con cortesia (con una recensione o in privato,
come più vi è comodo).
2. I riferimenti:
mi sono divertita (e mi divertirò) a inserire qua e
là degli Easter Egg della serie originale e anche di altre
opere. Provate a coglierli e, per vedere se avete indovinato,
controllate gli Angoletti ;) Ho inserito anche delle perline
strappate rigorosamente dalla vita reale, per esempio nomi (rivisitati)
di locali o avvenimenti degni di nota (anche questi verranno segnati
alla fine di ogni capitolo!)
3. Le
età e le parentele: le ho leggermente
modificate, ovviamente ai fini della storia.
4. Il linguaggio:
alcune sezioni dei capitoli contengono dialoghi piuttosto…
speziati, ecco. Capisco che non tutti gradiscono le parolacce, quindi
ho cercato di arginare quanto più possibile il problema.
Purtroppo (o per fortuna, dipende dai punti di vista) alcuni personaggi
hanno la tendenza a esprimersi in maniera volgare, quindi li ho
“assecondati” per mantenere intatto il carattere
originale di ognuno di loro (il raiting arancione è dovuto
in gran parte proprio a questo motivo).
5. Gli spoiler:
vi prego di non farli. La sottoscritta è in pari con il
capolavoro di Oda, ma non per tutti è così. Non
creiamo disagi a nessuno!
Grazie mille per
l’attenzione!
Gli aggiornamenti
avverranno ogni dieci giorni, salvo imprevisti.
Vi auguro una buona
lettura e un buon chill!
–Channy
Prologo: He
was so bored
Racchiuse nei propri polmoni tutto l’ossigeno che
era in grado di accogliere, per poi liberarlo con l’aiuto
della bocca, nella quale si fece largo una piccola nota prodotta dalle
corde vocali, precisamente da quella più grave.
Seduto in modo scomposto sulla poltrona rossa
del piccolo salotto, l’uomo si stava silenziosamente
chiedendo cosa avrebbe potuto fare per ingannare il tempo, il quale
scorreva con una lentezza inaudita, dal suo punto di vista.
Gettò la testa all’indietro, prendendo ad
osservare il soffitto bianco; le parole gli scivolarono via senza che
lui le potesse controllare: «Ma quanto ci metti?!»
Tese le orecchie, in ascolto, ma vi fu solamente il silenzio ad
afferrare le sue speranze; il destinatario di quella lamentela
infantile semplicemente e probabilmente non aveva sentito nulla, troppo
impegnato a combinare chissà cosa.
Sospirò ancora, l’uomo, e i
suoi occhi iniziarono a trascinarsi in giro per la stanza alla ricerca
di qualcosa di minimamente interessante da osservare; dalla finestra
intrappolata da una lunga tenda color panna, il suo sguardo
scivolò al caminetto in mattoni, per poi raggiungere il
divano bianco e il televisore adagiato su un mobiletto subito di fronte
all’annoiato. Accanto a quello, si stagliava una parete
attrezzata colma di libri ordinati con un certo criterio, quello
alfabetico, poiché la persona che li aveva piazzati
lì era un’accanita lettrice. Non era un vero e
proprio amante della lettura – o sarebbe meglio dire che non
lo era per niente –, ma improvvisamente si alzò
dal proprio trono e si avvicinò ai romanzi, con
l’intento di capire perché certa gente si
ostinasse a sprecare le proprie giornate leggendo piuttosto che fare
qualcosa di divertente all’aria aperta, magari un bel picnic
in compagnia di tanti amici nel bel mezzo di un vasto prato sovrastato
da un cielo perfettamente azzurro, con il sole splendente nel suo
centro in tutta la sua bellezza.
Fu lì, in mezzo a quella miriade di
pagine rilegate e interrotte da segnalibri colorati, che
l’adulto scovò qualcosa che attirò
completamente la sua attenzione: adornato da una copertina di uno
sgargiante giallo – il colore preferito della persona che
gliel’aveva donato con tanto affetto –,
ciò che aveva per le mani non era altro che un vecchio album
di fotografie risalenti alla sua adolescenza, quello che aveva coronato
come il periodo più bello della sua vita. Ancora incredulo
di averlo trovato – erano anni che non sapeva dove fosse
finito, eppure eccolo lì, sotto il suo naso! Altro che
disperso –, si accomodò nuovamente sulla propria
poltrona e iniziò a sfogliarlo. Si rivide,
all’età di diciassette anni, circondato dalle
persone che aveva amato di più nella sua intera vita,
nonostante gli rimanesse ancora mezzo secolo da vivere; rivide la casa
in cui aveva trascorso la propria giovinezza, la sua vecchia scuola,
alcuni professori e le strade che aveva percorso così tante
volte da aver imparato a conoscerle a memoria. Tutti i volti
sorridevano di fronte all’obiettivo della fotocamera, tranne
quelli catturati di sfuggita, forse perché impegnati a fare
altro. Foto sfocate a metà si alternavano a scatti perfetti,
quelli di gruppo, nei quali emergevano alla perfezione le
personalità e i sentimenti dei soggetti in posa;
concentrandosi a dovere, riusciva ancora a percepire le urla della
giovane dalla vivace chioma color carota che intimava a lui e a un
ragazzone in bermuda di stare fermi, mentre lei stessa tentava di non
muoversi troppo dalla propria posizione. Squadrò le altre
persone presenti nell’istantanea e si lasciò
scappare un risolino; un giovane dai capelli color grano era fermo in
una posa impeccabile, seppur in viso avesse un’espressione
ebete causata dalla sua mano posata sulla vita della ragazza che aveva
accanto, mentre a essere stati ritratti perfettamente erano unicamente
due fanciulli e una biondina, i quali, inginocchiati e abbracciati,
sorridevano allegramente, rispettando i loro caratteri bambineschi e
gioiosi.
Non rimpiangeva nessuna delle decisioni che
aveva preso e aveva fatto ben attenzione a non sprecare neanche un
briciolo di tempo, sfruttando la giovane età al massimo,
tuttavia avrebbe tanto voluto tornare a quell’epoca e
riviverne i momenti trascorsi a ridere insieme a un amico, a ballare
durante una festa, a cantare – stonare – in
occasione di un compleanno; sorrise mestamente, pensando che sarebbe
stato bello persino tornare a studiare dietro un banco di scuola,
ancora di più piangere per alleggerire i cocci di un cuore
infranto più volte. Perché numerosi erano stati i
dolori che l’avevano fatto crollare in ginocchio, ma sempre
aveva trovato un motivo per alzarsi e continuare a lottare. Quella
forza e quella determinazione lo avevano caratterizzato per anni, ma
con la maturazione fisica e mentale dell’uomo, queste
s’erano indebolite gradualmente, fino a raggiungere la
grandezza di uno spiraglio. Tornare indietro, nonostante tutti i
traguardi che con i decenni aveva tagliato, era appena diventato il suo
nuovo sogno nel cassetto.
Chiuse gli occhi e, sorridendo,
ricordò.
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Capitolo 2 *** Flowers, Nobody and Secret ***
planetarium cap 1
Capitolo 1:
Flowers,
Nobody and Secret
La buona
forchetta era una caratteristica che si tramandava nella sua famiglia
da generazioni di intere epoche, grazie alla quale i Monkey avevano
fatto godere le rispettive papille gustative con l’aiuto di
pietanze dal sapore divino. Pertanto, nonostante il cibo che il ragazzo
stava ingurgitando voracemente in quel momento non avesse un
chissà quale idilliaco sapore o tantomeno fosse stato
cucinato seguendo una ricetta ben precisa, nulla andava sprecato. Da
brava pattumiera, il suo compito era quello di saziarsi a dovere dopo
una mattinata di studio con le proprie pietanze e con qualche avanzo
dei suoi compagni di abboffata del primo pomeriggio. Quello di non
sprecare mai il cibo era l’unico punto saldo
dell’amicizia che aveva con il giovane dai capelli biondi che
gli sedeva di fronte; accomodato in maniera decisamente più
elegante e composta, il suddetto ragazzo mangiava tranquillamente il
proprio pranzo guardando, di tanto in tanto, in direzione di qualche
studentessa di passaggio, ammirandone la bellezza e salutandone
qualcuna di cui aveva avuto l’immenso piacere di scoprirne il
nome.
«Certo che ne conosci di ragazze, eh Sanji?», gli
chiese retoricamente, e vide che lo sguardo blu oceano del biondo
ricadde su di lui.
«Be’, si può dire che sono amicizie di
corridoio», rispose lui. «Ci si ferma a fare
quattro chiacchiere e nulla di più.»
«Ma davvero?», fece con tono provocatorio il
ragazzo che gli sedeva accanto. «Quindi nessuna di quelle
è la tua fidanzatina? Quante volte ti hanno dato un due di
picche?»
I presenti al tavolo della mensa ridacchiarono sotto i baffi, mentre il
biondo contò fino a dieci nella propria mente. «Tu
piuttosto, testa d’alga? Non mi è sembrato di
vedere neanche l’ombra di una ragazza disposta a donarsi a
te.»
«Io certamente non mi dispero se nessuna me la dà.
Sto bene così. C’è silenzio.»
«Ma sentite come si arrampica sugli specchi! Quante volte ti
sei nascosto dietro questa pessima giustificazione?»
«Io non mi nascondo proprio da niente. Non sono interessato
ad avere alcuna relazione, al tuo contrario, morto di figa.»
I due corvini che sedevano di fronte a loro ridevano a gran voce,
guadagnandosi le occhiate indiscrete di qualcuno vicino alla loro
postazione. Uno dei due disse all’altro:
«Dov’è la lista dei soprannomi che Zoro
ha dato a Sanji?»
Il moro riccioluto e con un naso dalla punta allungata estrasse da una
tasca della propria tracolla beige un foglio di carta ripiegato
più volte e lo porse all’altro, il quale
l’afferrò e vi aggiunse una nuova voce al
già esistente elenco. «Ma il migliore
sarà sempre sopracciglio a ricciolo», disse
alludendo alla stramba caratteristica fisica del biondo.
«Vero. Gli originali sono per sempre.»
Sanji, rosso di rabbia, si rivolse al riccio: «Spero per te
che esista anche una lista dei suoi, di soprannomi, Usopp»,
fece indicando il giovane dai capelli verdi che gli stava
malauguratamente accanto.
«Ovviamente», rispose il diretto interessato.
«Quella però la tiene Luffy.»
Chiamato in causa e non potendo rispondere a voce poiché
impegnato a masticare un pezzo troppo grande di carne, Luffy
alzò il pollice per confermare ciò che Usopp
aveva detto; qualche secondo dopo riuscì ad ingoiare il
boccone, l’ultimo dell’abbondante ma modesto pasto,
quindi si concesse una lunga bevuta d’acqua frizzante seguita
da una sonora eruttazione, la quale non significava altro che il
proprio stomaco era stato soddisfatto dalla giusta quantità
di cibo. I quattro, avendo concluso il proprio pranzo, si alzarono dal
tavolo e, una volta riposti tutti i vassoi sugli appositi scaffali,
uscirono dalla mensa con l’intento di passare il rimanente
tempo di ricreazione nel cortile per godere dell’ultimo
calore della stagione estiva ormai al termine; l’aria di
metà ottobre donava alle persone unicamente un nostalgico
ricordo di ciò che avevano rappresentato i precedenti luglio
e agosto, durante i quali la maggior parte della gente si era liberata
da ogni impegno con l’obiettivo di rilassarsi su una pacifica
spiaggia, con le dita dei piedi che si facevano largo tra la sabbia
fine per raggiungere la fresca acqua marina, limpida e desiderata a
lungo durante il gelido inverno grigio, come la cenere che fuoriusciva
dai caminetti delle abitazioni, e bianco, come la neve che danzava
silenziosamente per le strade di città e campagne.
Facendo capolino da una solitaria nuvola, il sole illuminava
ciò che lo circondava, senza tuttavia rischiare di risultare
dannoso per la vegetazione; le gaillardie e le portulache, nonostante
fossero al termine della loro annuale fioritura, coloravano
allegramente l’ampia aiuola dedicata alla loro coltivazione,
venendo inevitabilmente osservati da tutti gli appassionati di
giardinaggio o, semplicemente, rapivano gli sguardi di coloro che
possedevano un inguaribile animo romantico. E le due figure femminili,
una più pronunciata e l’altra maggiormente
delicata, che stavano in piedi a perdersi in quella moltitudine di
colori, potevano definirsi appartenenti a entrambe le categorie di
osservatori. La prima, possedente lunghi capelli neri e un paio
d’occhi azzurro ghiaccio, stava sorridendo e parlando
pacatamente all’altra, la quale la stava ascoltando con
sincero interesse mentre si scostava dietro a un orecchio alcune
ciocche di capelli color grano, lisci e sottili come spaghetti.
Riconoscendo la mora, il volto di Sanji si deformò, dando
vita ad un’espressione sprizzante di felicità. La
chiamò a gran voce: «Robin, cara!»
Lei voltò il capo, riconoscendo colui che l’aveva
euforicamente nominata, e scorse i quattro amici che le si stavano
avvicinando a passo di marcia; si rallegrò molto nel vederli
– non che in precedenza fosse di cattivo umore. Nico Robin
era sempre rilassata e gioiosa, specialmente da quando, due anni
addietro, aveva fatto conoscenza con quella simpatica combriccola
composta principalmente da ragazzi privi di serietà e
capacità di concentrazione; amavano le follie,
poiché risultavano essere la perfetta combinazione tra
rischio e divertimento, e cosa sarebbe stato migliore per sfidarsi
giocosamente a vicenda se non combinare un guaio dietro
l’altro? Lei prediligeva non esporsi troppo e rimanere nelle
retrovie ad osservare marachelle coi fiocchi adornati dal marchio del
cappello di paglia – il loro simbolo per eccellenza,
nonostante fossero conosciuti in tanti modi –, limitandosi ad
accertarsi che non si facessero troppo male, esattamente come una madre
coi propri figli. E quante volte un colpo era stato così
grosso che li aveva fatti scoprire da qualcuno proveniente dai piani
alti? Tante volte certamente, ma lei si era detta che se non ricevere
più richiami avesse significato non frequentare
più i suoi adorati compagni attaccabrighe, allora ne sarebbe
valsa la pena di finire nell’ufficio del preside a
giustificare le proprie azioni con argomentazioni più che
valide.
«Ciao, ragazzi.»
«Buon pomeriggio, splendente dea del mio cuore!»,
esclamò il ragazzo dai capelli biondi scodinzolando.
«Come sei allegro oggi, Sanji», rispose lei,
girandosi completamente verso l’amico. Aggiunse, con la sua
abituale aria curiosa: «Cosa vi porta da queste parti?
È raro vedervi qui a quest’ora. Solitamente non vi
muovete dalla mensa.»
«Fortunatamente oggi non c’era tanta
fila», fece Usopp, abbandonandosi sul muretto che delimitava
l’aiuola insieme a Luffy. «Siamo riusciti a finire
prima del solito.»
«Ce ne siamo andati perché vedere la gente
mangiare senza di te fa male», sottolineò
l’altro corvino con la sconsolatezza in viso.
«Ma che dici? Hai mangiato per tre persone.»
«Tu non capisci, Zoro! Quelle persone potrebbero lasciare
degli avanzi e noi non siamo lì a impedire che vengano
buttati! È uno spreco! Sanji, diglielo anche tu!
… Sanji?»
Il biondo non stava minimamente seguendo il discorso, poiché
troppo impegnato ad ammirare la pallida bellezza della ragazza accanto
a Robin, diventata improvvisamente invisibile agli occhi dei tre
accompagnatori; ma come poteva una ninfa dall’aspetto fragile
passare inosservata agli occhi di un gentile corteggiatore incallito?
Arrossì, la fanciulla, quando le morbide mani di Sanji
sfiorarono una delle sue, con lo scopo di portarsela alle labbra e
baciarla delicatamente; il cortese gesto fu seguito da uno dei migliori
sorrisi del ragazzo, pronto a giocarsi tutto pur di ammaliarla. Le
disse, difatti: «La tua idilliaca figura mi acceca come la
luce del sole riflessa in un pacifico lago di campagna, tuttavia mi
rassicura come la danza di una lucciola attorno a una rosa rossa.
Dimmi, splendida creatura, sei per caso un angelo caduto dal
cielo?»
Lei – che certamente si sentiva in imbarazzo per quel paio di
occhi puntati addosso e affatto per le parole che le erano state
rivolte, poiché le risultavano essere alquanto strane e da
copione – cercò silenziosamente il sostegno di
Robin, incrociando il suo sguardo in un repentino istante, quasi come
se si fossero messe d’accordo per guardarsi già in
precedenza; la corvina, sentendosi in dovere di soccorrerla in un gesto
di solidarietà, fece per parlare, ma fu preceduta da una
voce maschile, la quale esclamò: «Ma queste
battute da film per poveracci te le studi?»
Sanji, improvvisamente furente, si voltò verso colui che
aveva parlato. «Non bastava il muschiato a uscirsene con
questi commenti fuori luogo? Adesso ti ci metti pure tu,
Usopp?»
Il riccio, un po’ intimorito dal comportamento
dell’amico, indicò la bionda col mento e rispose:
«Scusami ma guardala, l’hai messa a disagio. Non ti
conosce, vero?»
«Già, già, non ci conosciamo. In
proposito, bella signorina, qual è il tuo nome?»
Rossa come un peperone, la ragazza spostò gli occhi color
noce da persona in persona, ancora con una mano intrappolata nella
gentile presa di Sanji. «Mi chiamo Kaya», disse con
voce flebile e quasi infantile.
«Che nobile appellativo!», commentò il
latin lover con aria sognante. «Mi riporta alla mente
l’immagine di una donzella appartenente a una ricca famiglia
dell’Ottocento…»
«E piantala, idiota.»
«Piantala tu, testa d’alga!»
Luffy spezzò la lite tra i due con un sonoro riso, seguito a
ruota da una più pacata Robin; i due litiganti si
ammutolirono, osservando con stupore i compagni divertiti. Usopp, dopo
un leggero sospiro, si rivolse a Kaya dicendole: «Mi scuso
per il comportamento di Sanji. Parla senza rendersi conto di quello che
dice.»
La bionda sorrise appena, stringendo con entrambe le mani il
raccoglitore verde che stava mantenendo al petto.
«Grazie» rispose solamente. Senza che nessuno dei
presenti potesse aggiungere altro, si guardò attorno, come
se si fosse improvvisamente resa conto di dove si trovasse, e poi si
avviò verso l’interno dell’istituto,
accompagnata dallo squillante suono della campanella, il quale
riecheggiò tutt’intorno e stordì chi
proprio non aveva voglia di filare all’istante nelle
rispettive classi per le ultime lezioni.
«Di’ un po’, Robin», fece Luffy
mentre si grattava distrattamente il collo, «chi era quella
ragazza?»
La corvina si scostò una ciocca di capelli dal viso.
«È la prima volta che la vedo. Ha detto che
è del primo anno.»
«Una novellina quindi.»
«Effettivamente aveva l’aria di una che non sapeva
che fare. Che carina!»
«Date un sedativo a Sanji, per cortesia.»
***
L’aula studio era il suo posto preferito senza ombra di
dubbio.
Inspirò a fondo; il silenzio che le ronzava nelle orecchie
aveva il potere di trasmetterle un senso di pace totale e, con
l’aggiunta dell’ammaliante odore
dell’inchiostro inciso sulla carta, la ragazza avrebbe voluto
che quel momento di solitudine e relax non trovasse mai una
conclusione. Ma il destino delle cose belle, anche quelle
più piccole e semplici, era quello di consumarsi in fretta,
bruciare come un secco ramoscello nel pieno di una tempesta di fulmini
e saette, al solo fine di ridursi in un ulteriore ricordo nella mente
di chi le ha vissute.
Le lancette dell’orologio sembravano rimanere incollate alle
loro posizioni, poi la giovane dai lunghi e mossi capelli color
mandarino distoglieva lo sguardo per pochi attimi e il tempo ne
approfittava per scrosciare via, quasi come se avesse voluto beffarsi
di lei. Dispettosa, la lancetta dei minuti corse un altro
po’, invogliando l’amica delle ore a muoversi con
lei; la più corta, pigra com’era,
l’accontentò seppur di poco, scostandosi solamente
di qualche millimetro e venendo presa in giro dalla scattante lineetta
dei secondi, la quale percorse l’intera circonferenza
dell’orologio più volte, elogiando sé
stessa per la propria magrezza e prestazione fisica.
Profondamente annoiata dai litigi del Tempo, la rossa decise
– con grande rammarico – di finirla lì
con il personale rilassamento della propria stanca mente, la quale
veniva ingiustamente presa di mira tutti i giorni per colpa di risate
sguaiate, chiacchiere senza senso, avances imbarazzanti e facili
discussioni. Raccolse il libro di storia dell’arte, il
quaderno contenente gli appunti presi durante la spiegazione della
professoressa, il portapenne colorato e il cellulare dalla cover rosa e
infilò tutto nel proprio zaino, per poi afferrare
quest’ultimo e dirigersi all’esterno della stanza,
dritta al proprio armadietto allo scopo di fare un veloce cambio di
materiale di studio e dare una sistemata al leggero strato di trucco
che le decorava il viso; poche ore prima si era specchiata usando la
fotocamera interna del proprio telefono e aveva notato che il
lucidalabbra era quasi completamente scomparso, mentre le lunghe ciglia
necessitavano di una ripassata di mascara.
Tenendosi sulla destra raggiunse la fine del corridoio, per poi
svoltare un paio di volte; arrivò di fianco
all’aula di geografia – la sua materia preferita
– e da lì contò gli armadietti a
sinistra: uno, due, tre, quattro ed eccolo, il metallico vano verticale
numero cinquantotto. Inserì il codice d’apertura
tramite una piccola manovella e, dopo un repentino scatto,
poté finalmente afferrare il suo beauty-case, estraendo
velocemente il rossetto color ciliegia e passandolo sulle labbra
carnose; come per magia, si sentì maggiormente a suo agio
circondata da sconosciuti visi che tuttavia scorgeva tutti i giorni,
fatta eccezione per il weekend. Non c’era molta gente in
giro, dato che la gran parte degli studenti aveva già fatto
ritorno alle proprie abitazioni, ma a lei non importava; prediligeva
quella pacatezza pomeridiana, era un’amante del silenzio
poiché sosteneva – correttamente – che
grazie a esso sarebbe riuscita a portare a termine ogni compito,
scolastico e non, dato che avrebbe avuto la possibilità di
rimanere concentrata più a lungo.
Si bloccò quando udì un rumore secco provenire da
dietro l’angolo del corridoio, poi un gemito soffocato.
S’immobilizzò sul posto, riconoscendo la voce di
un suo amico. «A-Aiuto…»
Era Chopper, agonizzante contro un armadietto d’acciaio.
Nami riusciva a percepire il suo dolore, la sua sofferenza fisica e
psicologica, eppure non riuscì a fare nemmeno un passo per
correre in suo soccorso, e questo perché aveva riconosciuto
anche la risata dell’aggressore. «Sei patetico,
nanerottolo.» Continuò a ridere sguaiatamente.
«Allora? Ce li hai o no?»
Chopper respirò faticosamente. «Servono a
me.»
«Sì? E per cosa?»
Una domanda retorica, impregnata di sporco sarcasmo, ma il ragazzino
rispose ugualmente: «Devo comprare un libro.»
«Un libro?» Rise ancora di più.
«Un libro! È una barzelletta? Che cazzo te ne fai
di un libro?!»
«È per l’università, il test
d’ammissione…»
Gli arrivò un pugno in pieno volto – senza
preavviso, senza pietà. «Non me ne frega un cazzo.
Dammi quei soldi», ordinò con voce grave e ferma.
Con un briciolo di forza gli porse le prime e ultime banconote che il
suo portafogli avesse ospitato; erano sue, non gliele aveva date
nessuno, se l’era guadagnate svendendo a un mercatino
dell’usato i giocattoli che usava quando era piccolo. Era
tutto ciò che aveva per poter recuperare quel manuale di
medicina, troppo costoso ma indispensabile per poter superare le ardue
selezioni. Era il suo sogno, semplicemente tutto ciò in cui
credeva, e in quel momento se l’era visto sfuggire dalle
mani, quel desiderio rubato da quel bastardo di Kidd. Perché
aveva puntato proprio lui? Perché non andava a chiedere i
soldi per le sigarette a qualcun altro? Odiava andare a pensare a
quelle assurdità ricolme di cattiveria e, inoltre,
riconosceva di essere troppo debole per poterlo contrastare. I pugni di
Eustass erano duri come il ferro e Chopper aveva troppa paura per anche
solo provare a opporsi al suo mero volere.
E Nami non era da meno. Era codarda come pochi, nonostante il suo senso
di giustizia ardesse nel suo petto. Si detestava per non essere
riuscita, neanche quella volta, ad aiutare un suo amico in
difficoltà. “Meglio
a lui che a me”, si ritrovava a pensare ogni
volta che assisteva a carognate come quella. Conosceva bene la
spietatezza di quel bullo dai capelli rossi sparati in aria, la sua
reputazione lo precedeva e gli spianava la strada. Un mostro, ecco
cos’era. E in quanto tale, Nami ne era letteralmente
terrorizzata.
Si avvicinò a Chopper, porgendogli un fazzoletto per poter
tamponare il naso sanguinante. «Scusami.»
Non ci fu il bisogno di aggiungere altro. Il ragazzo percepì
il dispiacere dell’amica con altrettanto dolore.
Accettò il suo tardo aiuto e s’adoperò
per fermare l’emorragia. «Non ti biasimo.»
Perché neanche lui si sarebbe aiutato.
***
Il sole crepuscolare filtrava attraverso il vetro della grande finestra
della stanza; se lì fuori ci fosse stato un paesaggio
marittimo probabilmente sarebbe stato piacevole crogiolarsi sotto
quella luce, ma in quel momento dava solo un gran fastidio agli occhi.
Giorno? Notte? Né l’uno né
l’altra, solo un ipnotico effetto di ombre che costringeva
gli occhi a sforzarsi di leggere quelle interminabili righe. Non poteva
opporsi a quell’attività, se avesse voluto
realmente arrivare alla sua meta. Era in netto anticipo considerando la
sua età, eppure la sua tabella di marcia era rigorosamente
programmata per non lasciare neanche un minuto della sua vita da
trascorrere con le mani in mano. Studiare, studiare, studiare
– e nel tempo libero dedicarsi a ciò che le dava
una certa notorietà all’interno di quel plesso.
Sospirò e si stropicciò le palpebre, la
stanchezza che le pesava sulle spalle; guardò
l’orario e decretò che fosse arrivato il momento
di fare ritorno a casa propria; si sarebbe fatta una doccia veloce, poi
avrebbe preparato la cena e si sarebbe rimessa a leggere, stavolta nel
suo letto, finché non si sarebbe addormentata. Fu quel forte
desiderio di riposarsi a darle la carica per alzarsi in piedi e
sistemare tutto il materiale all’interno della sua borsa a
tracolla, per poi avviarsi fuori dall’aula. Tuttavia, a un
passo dalla porta, udì due voci familiari: ridacchiavano e
si esaltavano mentre camminavano fuori dalla classe.
«Vedrai, sarà un successone!»
«Lo credo bene, siamo troppo bravi!»
«Già, già. Se mettessi nello studio
almeno la metà dell’impegno che hai usato per
questo piano, saresti persino un secchione.»
«Parli proprio tu?»
«Sono sempre stato promosso con il massimo dei voti, al
contrario tuo e di Luffy.»
Due maschi in confidenza tra loro: voci profonde e divertite,
così sempliciotti da non fare attenzione a non farsi sentire
da nessuno. Ma di che cosa stavano parlando?
«Siamo stati promossi anche noi, genio.»
«Per il rotto della cuffia.»
«Ma hai sempre da ridire?»
«Ti prendi in giro da solo.»
Il primo rise, l’altro sbuffò. Non
c’erano dubbi su chi si trattasse: Outlook Sabo e Portuguese
Ace, popolari nel loro incastrarsi nei guai e uscirne con strigliate e
punizioni esemplari. Non erano cattivi, solo disubbidienti e con tanta
voglia di divertirsi; che cosa stavano architettando quella volta?
Come se avessero sentito i suoi pensieri, i due tornarono ad assumere
un tono serio. «Non mettere in giro questa voce. Non sia mai
che lo venga a sapere qualcuno che non vogliamo.»
Ace annuì, le braccia incrociate al petto muscoloso.
«Ovviamente. Non voglio che ci rovinino la festa. Piuttosto
sono preoccupato per quello che potrebbe fare quella testa
calda…»
Gli rispose Sabo: «Be’, vorrà dire che
lo verrà a sapere il giorno stesso.»
Non riuscì a sentire altro perché i due, seguendo
il proprio percorso, si erano allontanati troppo. Avrebbe voluto
continuare a seguire la loro conversazione, ma come avrebbe potuto
farlo? Pedinarli era fuori discussione – erano fin troppo
svegli e se ne sarebbero accorti nel giro di pochi attimi.
Pensò ad altre soluzioni, ma si disse che avrebbe fatto
meglio ad aspettare. Indagare con calma, affilando l’udito e
mostrandosi completamente disinteressata a fargli alcun tipo di
ramanzina; da aggiungere alla lista: controllare eventuali complici
– e già aveva in mente nomi e cognomi –
e mettere al corrente della situazione anche qualche suo amico,
così da avere più possibilità di
successo.
Perché lei, testarda com’era, presto o tardi
sarebbe riuscita a scoprire quel segreto.
Angoletto
degli Easter Egg!!
1.
I pugni di
Eustass erano duri come il ferro: un chiarissimo
riferimento ai poteri del Mag Mag che hanno a che fare col magnetismo.
Ricordo che però in questa fanfiction sono tutti normali!
Angoletto
dell’Autrice!!
Ho scritto questo
capitolo tanto tempo fa, tipo nel marzo del 2021, forse anche prima
– ma vi parlo delle prime duemila parole perché
poi v u o t o a b i s s a l e. Per fortuna poi sono
riuscita a sbloccarmi e a scrivere come una matta *ammicca al
lettore*
Bene, che dire? Si
introducono un paio di dinamiche, una delle quali verrà
ripresa nel prossimo capitolo. E quest’ultimo
aprirà altre sottotrame, aaaaaaa vorrei pubblicarlo subito
MA mi sono data delle tempistiche da rispettare e non posso mandare
all’aria tutto :’)
Fatemi sapere cosa ne
pensate!
A presto,
–Channy
Post Scriptum:
vorrei condividere con voi un piccolo aneddoto. Sono stata al Comicon e
lì ho incontrato diversi cosplay di ‘One
Piece’, tra cui uno di Zoro. Raga, quei pettorali erano veri.
EVVIVA LE FIERE!!!
Usopp: Tu sei decisamente
Sanji al femminile.
Assolutamente
(sì) no.
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Capitolo 3 *** Woody, Unwilling and Threat ***
Capitolo 2:
Woody, Unwilling and Threat
«Super!»,
urlò a pieni polmoni mentre si guardava attorno con
frenesia: tutto quel legno e l’armamento per poterlo incidere
gli avevano messo l’adrenalina addosso, nelle ossa, e persino
il doppio strato di polvere che ricopriva ogni superficie di
quell’aula riusciva a farlo sentire perfettamente a suo agio.
Era il suo ambiente, una seconda casa, anche se l’officina in
fondo alla strada di casa sua era di tutt’altro livello.
Il professore presente
accanto a lui incrociò le braccia, lo sguardo fisso su
alcuni martelli depositati su dei piani di lavoro. «Allora?
Vuoi mettere questa firma?»
Franky si
voltò di scatto verso di lui, mostrandogli un sorriso a
trentadue denti. «Il modulo?»
Col mento gli
indicò un blocco di fogli di carta riposto sulla piccola
scrivania accanto a loro. «Fai anche le veci del
nasone?»
Il ragazzo
segnò il proprio nome nell’apposito riquadro, per
poi fissare lo spazio bianco che si trovava subito sotto: non aveva
ancora parlato con Usopp riguardo le attività extra e,
pertanto, non aveva idea di cosa avesse voluto scegliere il suo amico.
Non era certamente obbligatorio prendere parte ai club, ma era
consigliabile per due ottimi motivi: ogni attività era a suo
modo interessante e, cosa decisamente più importante a detta
di tutti, aiutava gli studenti a sollevarsi da situazioni problematiche
con succulenti punti di credito. Non conosceva bene la media scolastica
di Usopp e sarebbe stato di gran lunga meglio chiedergli cosa avesse
intenzione di fare quell’anno, ma un impulso – a
cui dava allegramente il nome di Sarà
una suuuper
figata, fratello! – lo spinse a iscrivere anche
il suo amico. Per quanto riguardava sé stesso, Franky se la
cavava bene nello studio, ma come sarebbe potuto rimanere indifferente
al club di falegnameria e artigianato?
Uscì
dall’aula fischiettando allegramente, quasi saltellando lungo
il percorso. S’arrestò pochi metri dopo, ma solo
perché aveva sentito una notifica arrivargli sul cellulare;
controllò velocemente il messaggio e ridacchiò
sotto i baffi.
***
–
MISSIONE COMPIUTA!!! Brook è insospettabilissimo, quindi
abbiamo spedito lui a fare le fotocopie. Dopo ce le dividiamo. ACQUA IN
BOCCA CON LUFFY EH!!
Quel messaggio era stato inoltrato parecchie
volte da un singolo mittente, pertanto era inutile andare a parlarne
con Nami, anche se avrebbe tanto voluto correre da lei per chiederle un
consiglio. Avevano un anno di differenza, eppure quella ragazza dai
capelli rossi era un totale riferimento a cui aggrapparsi nei momenti
in cui non sapeva che fare. Aveva appurato che anche Nico Robin fosse
affidabile, anche più saggia e matura, ma in quel momento
confidarsi con lei non avrebbe fruttato; la corvina era la prima ad
amare quel genere di cose e, seppur non lo dimostrasse apertamente,
fremeva più di tutti nell’attesa
dell’arrivo di quel dannato giorno che pareva sempre troppo
lontano.
Bibi semplicemente
detestava l’idea di dover partecipare a
quell’avventura. La sua giovane età tradiva il suo
senso del divertimento: meglio una chiacchierata in compagnia di una
tazza di tè e biscotti dietetici, piuttosto che la frenetica
ed eccitante infrazione di ogni singola regola mai inventata. Non le
piaceva correre per i corridoi, figurarsi far finta di essere felice
per l’imminenza – ma a chi avrebbe potuto dirlo?
Erano tutti contenti per quell’evento programmato
già mesi addietro, e a lei dispiaceva profondamente dover
rovinare i piani dei suoi amici. Si trovava bene con loro, sapeva
fossero brave persone, però i gusti che condividevano si
potevano contare sulle dita di una sola mano. Troppi pochi punti in
comune, troppa voglia di restare in casa accoccolata su un divano.
Perché non avrebbero potuto organizzare un pacifico pigiama
party con tanto di castelli di cuscini e tende? Una sorta di viaggio
indietro nel tempo a quando si era piccoli e senza problemi di alcun
tipo, magari una serata tra ragazze; una commedia romantica in DVD,
scodelle di popcorn e luci accese fino alle tre di notte, oppure una
cena tutti insieme in un fast-food stellato e dopo un veloce giro di
shottini al Phoenix
all’angolo tra il cinema e quei ristorantini anonimi
– le veniva in mente qualsiasi cosa, si sarebbe fatta andare
bene tutto pur di non buttarsi a capofitto in quell’enorme
rischio.
Prendeva accuratamente
appunti con la sua Steadtler blu, nonostante la sua mente vagasse
altrove sin dall’inizio della lezione; scriveva ma non
capiva, ed era consapevole che se avesse continuato di quel passo
studiare per il test successivo sarebbe stato una catastrofe, tuttavia
in quel momento desiderava unicamente stendersi su un prato e svuotare
la testa da ogni preoccupazione. La lavagna colma di numeri –
e persino lettere! Eppure quella era matematica! Da dove erano uscite?
– non stava dalla sua parte, e più la guardava e
più le vorticavano i sensi, sembrava che stesse su una di
quelle giostre affatto sicure dei lunapark improvvisati nei campi
d’estate. Nemmeno il suono della campanella avrebbe potuto
destarla dalle sue paranoie, perché sarebbe stata
l’ennesimo segnale dell’arrivo di quel giorno, un
esasperante conto alla rovescia che lei non tollerava affatto.
Ma ben presto si fece
sentire, puntuale e assordante come sempre. Con la lentezza di un
bradipo, Bibi chiuse il quaderno e il libro, li prese sottobraccio e
aspettò che i suoi compagni lasciassero l’aula di
matematica. Camminava dietro gli altri, voleva passare inosservata,
sembrare invisibile, sparire direttamente e farsi rivedere il mese
successivo, evitando così di prendere parte ai giochi dei
suoi amici. Silenziosamente in punta di piedi, strusciava contro le
pareti e faceva attenzione a non urtare nessuno, come se agire come una
spia segreta avesse potuto servire a qualcosa. E se avesse incontrato i
suoi compagni di uscite? Se le avessero fatto domande in merito al loro
piano? Se le avessero messo tra le braccia una pila di volantini
freschi di stampa? Come si sarebbe dovuta comportare di fronte al loro
giustificato entusiasmo?
«Ehilà!»
Una voce squillante che
avrebbe potuto riconoscere tra mille altre invase le sue orecchie.
Forse era stato un bene imbattersi proprio in quella persona,
l’unica che non avrebbe potuto farla sentire a disagio in
mezzo a quella marmaglia di pensieri e malesseri.
Lo salutò con
un sorriso morbido. «Ciao, Luffy.»
Perché lui era
ancora all’oscuro di tutto, o meglio, era fermamente convinto
che ciò che desiderava con ardore fosse impossibile da
realizzare e, perciò, aveva smesso di pensarci da molto
tempo. Solitamente non demordeva facilmente, ma per farlo arrendere
quella volta erano bastati due ferrei pugni di Nami, una strigliata di
Sabo e il mancato appoggio di un altro suo grande amico, un certo
Trafalgar Law, che Bibi aveva visto in giro al massimo tre o quattro
volte.
«Che lezione
hai adesso?», le domandò prendendo a camminare
accanto a lei.
Ci pensò per
qualche attimo – non aveva ancora messo in ordine il
cervello. «Storia. Tu?»
Rise vivacemente e con
quella leggerezza contagiosa che lo caratterizzava. «E chi se
lo ricorda!»
Fu inutile il tentativo
di rimanere seria. «Ma come!», lo
rimproverò scherzosamente. «Quando diventerai uno
studente come si deve?»
«Guarda che ho
ancora quel foglio che ci hanno dato a inizio anno, posso vedere da
lì.» Rovistò velocemente nel suo zaino
rosso per poi storcere la bocca. «Credo di averlo
perso.»
«Forse lo hai
messo nel tuo armadietto», propose.
Luffy
s’illuminò di nuovo. «Deve per forza
essere lì!» Si voltò verso la ragazza.
«Mi tieni la roba mentre lo cerco?»
«Ehm»,
temporeggiò. «Veramente io dovrei
andare…»
Ma Luffy le aveva
già afferrato un polso e aveva iniziato a sfrecciare tra la
gente, incurante del divieto di correre all’interno di
un’area scolastica che non fosse la palestra o il campo sul
retro. «Permesso, permesso!», urlava a chiunque
osasse ostruire il passaggio. «Siamo di fretta, fate
largo!» E Bibi neanche sapeva come stesse riuscendo a stare
al passo, lei che era tremendamente lenta nella corsa; guardava la nuca
dell’amico: sembrava l’unico punto fermo in quella
massa di persone indignate e cattive, uno scoglio nel bel mezzo
dell’oceano a cui aggrapparsi per non annegare. Forse avrebbe
potuto confidarsi con lui, senza lasciarsi sfuggire troppi dettagli;
non aveva mai pensato a Luffy nei panni di anziano saggio residente in
una casina di legno sulla cima di una montagna, ma si disse che non
sarebbe costato nulla provare – in caso di insuccesso,
avrebbe potuto piantarlo lì e appuntarsi di non affidarsi
più a un soggetto come lui.
«Senti,
Luffy», iniziò, svegliandosi dalla sorta di trance
in cui era caduta precipitosamente; non si era neanche accorta che gli
stava mantenendo lo zaino mentre lui aveva la testa ficcata nel suo
armadietto arrugginito.
«Dimmi.»
«Ecco, mettiamo
che qualcuno ti chiede di fare qualcosa, qualcosa che tutti pensano sia
bello ma che tu in realtà detesti. Tu che cosa
faresti?»
Il ragazzo la
guardò per pochi attimi. «Gli direi di
no.» Ricominciò a rovistare tra le proprie cose.
Bibi sgranò
gli occhi. «E… basta?»
«E
basta.»
«Ma se quella
persona ci tenesse tantissimo? Se avessi paura di deludere
qualcuno?»
«Se dicessi
sì, deluderei me stesso. Anch’io sono qualcuno,
no? Perché dovrei fare qualcosa che non mi piace?»
Aveva così
tanta voglia di ribattere e di far valere il cuore d’oro che
aveva, tuttavia non trovava alcuna argomentazione soddisfacente. La
semplicità del pensiero di Luffy era stato un vento che
aveva spazzato via le nuvole, rivelando un cielo sereno; quel breve
scambio di battute era bastato per toglierle ogni dubbio, per
alleggerire il suo animo. Non aveva mai pensato che esistesse una
soluzione così banalmente efficace, e scoprirla aveva messo
in moto una rivoluzione dentro di lei. “E non mi ha neanche
chiesto spiegazioni”, pensò.
«Perché
mi fai queste domande comunque?»
“Come non
detto.”
Evitò di
guardarlo, focalizzandosi su un cartellone giallo poco più
in là. «Niente di che.»
«Bibi»,
la chiamò con fare canzonatorio. «Cosa
c’è che non va?»
Una parte di
sé avrebbe voluto rivelargli tutto, spinta
dall’incontrollabile desiderio di vederlo gioire, ma
ciò era fuori discussione. Luffy non sapeva mantenere i
segreti e, se avesse saputo quello che stavano architettando i suoi
fratelli, sarebbe andato a urlarlo al mondo – la voce sarebbe
arrivata ai responsabili e sarebbe andato tutto in fumo. Nonostante non
condividesse l’idea dei suoi amici, non voleva rovinare tutto.
«Un ragazzo mi
ha chiesto di uscire, ma non sono interessata.» Una bugia
bella e buona, ma la prima menzogna credibile che le era venuta in
mente.
Luffy inclinò
appena la testa di lato senza perdere il sorriso. «Certo che
fai stragi di cuori», commentò. «Uff, non riesco a
trovare il mio orario. Mi accompagni in segreteria per prenderne un
altro?»
Campanella di fine
intervallo, una manna dal cielo.
«Devo
andare.»
Non lo salutò
né si voltò indietro quando Luffy la
chiamò da lontano; stava scappando da un nemico invisibile,
un’entità sconosciuta. Non sapeva cosa fosse
quella strana sensazione al petto, che era scoppiata
all’improvviso per poi sparire un attimo dopo, come un
meteorite che si sgretola in migliaia di detriti. Forse aveva il timore
di essere rimproverata se avesse tardato o, forse, aveva sperato in una
sua reazione diversa.
***
«Ne sei proprio sicura?»
«Sì.»
Il giovane
accavallò le gambe sopra il banco dove era accomodato,
sporcandone la superficie di fango proveniente dall’esterno.
«Se quello che mi hai detto fosse vero, si tratterebbe di una
questione grossa. In caso contrario, sappi che ti stai mettendo nella
merda.»
Lei
assottigliò gli occhi e rispose: «Pensi che quello
che ti ho riferito sia così tanto assurdo?»
«No,
considerando i nomi che hai fatto.»
«Appunto! Se
vuoi una fonte, non ci metto nulla a trovartela.»
Si alzò,
rivelandosi parecchio alto e con un fisico ben allenato –
merito di ore e ore trascorse in palestra, quasi come se vivesse
lì dentro. «Non ce n’è
bisogno. Vado di persona.» Uscì
dall’aula; prima di imboccare il corridoio si
voltò verso la ragazza e l’avvertì:
«Non combinare guai.»
***
– SOS!!!!!!!
Il cacciatore bianco sospetta!!!!!
–
?!?!?! Come fa a saperlo?!
–
Evidentemente qualcuno ha fatto la spia.
– No
raga, se becco chi è stato lo ammazzo!!!!
– E
Luffy?
–
Eh, speriamo non vada a parlare con lui…
E lo scambio di messaggi indignati era andato
avanti per una buona mezz’ora: era un’accozzaglia
di imprecazioni e dita incrociate, battaglie interiori tra chi sperava
che la situazione non peggiorasse e chi era arrivato al punto di voler
mettere fine all’intera storia. Decisero di incontrarsi di
nascosto dopo le lezioni, lontano dalla scuola, nel solito bar in via
Groove 13 dove non c’era mai nulla da fare se non ordinare un
drink fresco e fare due chiacchiere in buona compagnia.
Salutarono la
proprietaria del Tispenno
e, consci di avere il suo indispensabile permesso, unirono un paio di
tavolini e vi accostarono le rispettive sedie, in maniera tale che vi
fosse posto per ognuno di loro – e anche qualche sedia in
più, usata dagli scomposti per poggiare i piedi o dalle
ragazze per posare le proprie borse.
«Facciamo il
punto della situazione», iniziò Usopp, afferrando
rapidamente una bic allo stremo delle forze e il suo inseparabile
taccuino. «A chi avete rivelato il nostro piano?»
«A
nessuno!», rispose prontamente Chopper alzando la mano.
«Chi si
giustifica per primo solitamente è il killer ricercato dalla
polizia.»
Il ragazzo dalla bassa
statura s’agitò ancora di più, se
possibile, poiché già alterato
dall’assurda situazione in cui versava insieme ai suoi amici.
«Non dire queste cose, Robin! Io non ho fatto niente, lo
giuro!»
Usopp alzò gli
occhi al cielo, già esausto e desideroso di andarsene a casa
propria. «Sì, Chopper, ti crediamo.»
«Fiuuu»,
fischiò. «Menomale.»
Subito dopo fu Zoro a
parlare: «Anche io sono innocente.»
«Sì,
come no», l’incalzò Sanji con tono
provocatorio.
«Mi stai
accusando, torciglio?»
«Certamente.
Soltanto un imbecille come te sarebbe in grado di farci
scoprire.»
«Eeh? Sei tu ad aver
combinato questo casino. Scommetto che hai spifferato tutto a delle
ragazze in cambio di qualche bacetto.»
«Tu sei
completamente fuori! Non farei mai una cosa del genere!»
«Valla a
raccontare a qualcun altro, damerino!»
«Come mi hai
chiamato, testa muschiata?!»
I litiganti vennero
prontamente fermati dalle mani di Nami, le quali si chiusero a pugno e
piombarono sulle teste dei due, mentre Ace e Franky se la ridevano a
gran voce e battevano le mani sul tavolino, facendo tintinnare il
ghiaccio nei bicchieri di Coca-Cola e producendo un gran fracasso.
«Spero vivamente per voi che nessuno di voi due abbia
rivelato il nostro segreto!», urlò la rossa su
tutte le furie; rimproverarli era l’attività che
svolgeva con più assiduità a causa dei loro
continui battibecchi, la maggior parte dei quali culminavano con delle
risse per strada e una manciata di cerotti a coprire i lividi che si
procuravano con ferocia. «E poi piantatela di comportarvi da
persone immature, per una buona volta!»
Zoro grugnì e,
con le braccia incrociate ben salde al petto, prese a fissare il
bancone fingendosi interessato al cocktail che Shakuyaku stava
abilmente preparando; Sanji, dal canto suo, sfoderò quello
che considerava uno dei suoi migliori sorrisi – che in
realtà era una smorfia deformata e a tratti inquietante.
«Ah,
Nami, amore, sei sempre così decisa e severa che mi fai
sciogliere il cuore!»
Lei roteò gli
occhi e decise di ignorare le sue moine. «A ogni
modo», fece voltandosi verso i suoi amici,
«dobbiamo capire come ha fatto Smoker a scoprire il nostro
piano.»
«Non ha
scoperto un bel niente», la corresse Sabo.
«Sospetta solo. Forse ha sentito qualcuno parlarne di
sfuggita e ha iniziato a farsi due domande.»
«Mi domando chi
sia l’idiota che se n’è andato in giro a
parlarne con i suoi compari come se nulla fosse»,
commentò Ace grattandosi il capo. E se solo avesse
saputo…
Nami si spostò
i lunghi capelli rossi di lato, poggiandoli su una spalla.
«Conoscendo Smoker sicuramente le sue ipotesi si basano su
concretezze. Lui sa cosa abbiamo organizzato ma le chiacchiere non
concludono niente, gli servono i fatti. Abbiamo idea di chi possa
tramare contro di noi?»
I presenti pensarono a
molteplici visi, essendo tuttavia tacitamente consapevoli di star
brancolando nel buio. Il primo a proporre un nome fu Usopp:
«Se fosse stato quel Trafalgar Law? Non me l’ha mai
contata giusta.»
Robin scosse il capo.
«Lo escluderei. Non si è mai interessato al nostro
progetto.»
«Ecco!
Perché era contrario!»
«No,
perché gli era indifferente. Trafalino è un lupo
solitario, non una spia.»
«E allora chi
potrebbe essere?», chiese Sabo guardandosi attorno.
«Non ho coinvolto nessuno di cui non ci fidiamo. Spero
abbiate fatto lo stesso.»
«Ovvio»,
rispose Nami. «L’unica persona a saperlo oltre ai
presenti è Bibi.»
Franky si mise un mignolo
in un orecchio, grattando il suo interno. «Non è
che è stata lei?»
«Ma sei scemo?!
Bibi è una santa, non farebbe mai la spia! Con Smoker e i
suoi poi! Ti pare?»
«Non dico che
l’abbia fatto di proposito», si corresse Franky,
«però la conosciamo bene. Spesso parla a vanvera e
non sa mantenere i segreti. Secondo me, quel fumatore incallito le ha
fatto il quarto grado e lei come un’idiota ha
confessato.»
«No, ci avrebbe
sicuramente avvisati e si sarebbe scusata.»
«Nami ha
ragione, Bibi è una ragazza d’oro», fece
Sanji mentre cercava un accendino nelle tasche dei suoi pantaloni neri.
Aggiunse: «È per questo che mi piace
così tanto», ma ciò gli fece guadagnare
unicamente un altro doloroso pugno.
Osservando con
compassione la scenetta, Chopper prese dei cubetti di ghiaccio dal suo
bicchiere di aranciata, li avvolse in un panno e li porse al biondo.
Angoletto degli
Easter Egg!!
1. Phoenix:
questo lo
capisco solo io lmao, è un locale che si trova
nei pressi della mia cittadina, è tipo minuscolo, vende
quasi solo shottini ed è frequentatissimo dai ragazzi del
liceo (pubblicità progresso: non ubriacatevi mai, imparate a
regolarvi con l’alcol, non superate mai i vostri limiti!)
2. Tispenno:
è il nome italiano del locale di Shakky situato, come anche
riportato, nel Groove 13 (che è anche il mio numero
fortunato yohohoho)
Angoletto
dell’Autrice!!
Eccoci qua, finalmente. In questi giorni sono troppo allegra grazie
all’Eurovision (la seconda settimana santa dopo Sanremo,
senza se e senza ma), sono troppo in fissa con la Moldavia HEY OH
LET’S GO FOLKLORE AND
ROCK’N’ROLL (aiutatemi vi
prego) Belle anche tante altre esibizioni (rosicando
perché la Lettonia è stata eliminata) (che
qualcuno mandi la Norvegia a disintossicarsi dalle sostanze
stupefacenti, Francia ci pensi tu?)
Ma passiamo al capitolo di quest’oggi!
Il nostro gruppetto di idioti
amici sta tramando qualcosa all’ombra di Luffy –
che cosa potrà essere? Perché Bibi non vuole
assolutamente partecipare? E ce la farà Smoker a sventare i
loro piani? Il prossimo capitolo risponderà a queste domande!
Avete delle ipotesi? Vi siete già fatti dei film mentali?
Fatemi sapere cosa ne pensate con una recensione ^^
A presto,
–Channy
Post Scriptum:
Bellissimo che sto editando questo capitolo ascoltando un podcast su
omicidi famosi. Sono proprio bipolare aiuto--
|
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Capitolo 4 *** Anyway, Bloody Mary and In the dark ***
3
Anyway, Bloody Mary and In the dark
Alla
fine del loro appuntamento di gruppo, erano giunti a una conclusione
comunemente approvata: nonostante il rappresentante
d’istituto stesse palesemente tentando di sventare i loro
piani – o di gran lunga peggio, di andarli a denunciare
direttamente al preside –, alitando sui loro colli e
osservando di nascosto i loro movimenti e le loro interazioni, Ace e
Sabo avevano proposto di continuare a seguire quella tortuosa strada e
rendere concreta quella bravata che, secondo loro, qualcuno avrebbe
riportato sui libri di storia. Che fossero esagerati, gli altri membri
del gruppo lo sapevano fin troppo bene, ma avevano concordato
perché l’idea di avere un futuro piedipiatti alle
calcagna rendeva quel progetto ancora più proibito ed
eccitante.
La limatura del piano d’azione era a dir poco perfetta:
invece di distribuire i volantini che il loro amico Brook aveva fatto
stampare – e aveva pure corso un bel rischio
poiché inizialmente li aveva dimenticati nella
fotocopiatrice della segreteria, e Dio solo sapeva come aveva fatto a
tornare indietro, farsi aprire la porta, recuperare il materiale e
andare via come se non fosse accaduto nulla –, avrebbero
diffuso la notizia tramite innocenti passaparola, come una semplice
voce di corridoio infondata e a tratti esagerata. Con un occhiolino ai
destinatari del succulente invito e una sana scrollata di spalle
davanti agli agenti in borghese di quel ficcanaso di Smoker, non solo
avrebbero raggiunto il loro obiettivo ma l’avrebbero anche
fatta franca, dato che non avrebbero mai rivelato a nessuno i nomi e i
cognomi degli organizzatori dell’evento.
Sarebbe andato tutto per il meglio. Non rimaneva altro che attuare il
piano e attendere il giorno prestabilito.
***
Imprecò tra i denti: la torcia aveva smesso di funzionare
nel momento più critico; le luci della struttura in cui si
trovava si erano spente all’improvviso, probabilmente a causa
del violento temporale in atto, attutito dai finestroni dotati di vetri
spessi. La cosa più logica da fare era andare alla ricerca
del generatore di corrente per riattivare il sistema
d’illuminazione, ma era consapevole che non avrebbe concluso
un bel niente andando in giro come una talpa cieca. Di trovare le
batterie di ricambio per la sua candela meccanica non se ne parlava:
era impossibile scovarle in mezzo alle cianfrusaglie sparse per terra e
sui tavoli, in mezzo alle scartoffie scritte con una calligrafia
illeggibile.
Fece un paio di passi in avanti, impavido di fronte al pericolo che si
nascondeva nell’ombra, forse non conscio di ciò;
ma quando la musica s’arrestò di colpo,
iniziò a pensare che c’era qualcosa che non andava.
«Ciao Luffy!»
«AAAAHHHH!!!»
Si portò una mano al petto come a voler calmare il cuore in
corsa e, quasi lanciando via le cuffie, si voltò di scatto
verso la persona che gli aveva improvvisamente picchiettato la spalla
con un dito. Si ritrovò davanti Usopp, spaventato a sua
volta dalla reazione spaccatimpani che aveva avuto il suo amico. Gli
chiese infatti: «Che hai da urlare tanto?!»
Il moro impiegò qualche secondo per calmarsi.
«Pensavo fosse un assassino venuto qui per
uccidermi.» Gli mostrò una mano chiusa a pugno.
«E non ci saresti riuscito perché ti avrei
conciato per le feste.»
«Dovresti smetterla di giocare agli horror se te la fai
sotto.»
«Mi stai dando del fifone?»
Usopp scrutò attentamente il volto scettico di Luffy e no,
non avrebbe potuto accusarlo di essere un codardo. Cambiò
argomento velocemente. «Comunque, che ci fai in camera tua la
sera di Halloween?», gli domandò con un sorriso
vagamente sornione.
«Che dovrei fare? Alla fine della mia idea non se
n’è fatto niente.»
L’altro gli sventolò sotto al naso uno dei
volantini mai distribuiti. «Ne sei davvero sicuro?»
Il broncio di Luffy si trasformò in un’espressione
di pura gioia.
***
Si preparò in un tempo da record. In meno di
un’ora, Luffy si fece una doccia – fu costretto a
lavarsi, poiché Usopp non avrebbe retto tutta la serata
stando con il naso tappato per ignorare il tanfo di sudore
dell’amico – e s’infilò il
costume che gli era appena stato regalato: con una benda
sull’occhio, un uncino finto e un pappagallo di peluche come
accessori, pareva un autentico re dei mari.
Non si curò affatto del trucco, nonostante gli fosse stato
detto che Nami e Robin si erano proposte di completare il suo look con
del make-up d’urgenza, e si mise la cintura mentre Usopp
girava la chiave nel quadro d’accensione del suo Pandino
verde sgangherato; l’automobile sgommò via come
una Ferrari appena sfornata, nonostante la portiera ammaccata e gli
specchietti sverniciati facessero venire in mente un futuro cliente di
un rottamatore. Prima di raggiungere il luogo prestabilito,
l’autista passò a prendere un Chopper vestito da
quello che pareva essere un procione e Zoro, il quale, ben poco
festaiolo, si era limitato a indossare una vecchia tuta rovinata;
inizialmente avrebbe voluto abbandonare la nave per restarsene in
camera sua a sonnecchiare in completa pace, ma l’allestimento
di un tavolo di alcolici di qualità lo aveva indotto a
prender parte a quella spaventosa serata.
Eppure, più che terrificante, l’istituto di notte
pareva identico alla sua versione alla luce del sole. Dei faretti ad
alto consumo illuminavano le lettere che componevano il nome del liceo,
mentre l’ingresso era pulito e per nulla faceva pensare a
un’intrusione illegale.
Usopp parcheggiò all’ombra di un cipresso distante
un centinaio di metri, in maniera da non destare sospetti
dall’esterno. Perché, appena varcata la soglia
d’ingresso, scoppiava il caos. Decine e decine di adolescenti
rumorosi affollavano l’atrio principale, ognuno di loro
vestito a tema; le voci si sovrapponevano nel buio, ma nessuno pareva
stranito o impaurito: anche quella era una precauzione per non farsi
scoprire dagli indiscreti occhi di chi sarebbe potuto passare davanti
alla scuola.
Gli occhi di Luffy luccicavano d’emozione e le sue gambe a
stento riuscivano a stare ferme. «Ragazzi! Ma come avete
fatto?!»
«Segreto professionale», ridacchiò Usopp
mentre si strofinava il prolabio – gesto che era solito
compiere senza neanche rendersene conto.
«Ti piace?», gli chiese ingenuamente Chopper.
«Puoi dirlo forte!»
«Ecco, invece dillo molto piano.»
Il corvino li guardò con aria sommamente confusa.
«In che senso, scusate?»
«Una spia», brontolò Zoro reprimendo uno
sbadiglio; tutto quel buio non faceva altro che favorirgli il sonno.
«Il Consiglio studentesco sa qualcosa di questa storia, ed
è un problema, te ne rendi conto?»
«E perché sarebbe un problema?»
«Perché non abbiamo ottenuto il permesso di
nessuno, idiota!»
Luffy increspò le labbra. «Una sospensione in
più non ci cambia la vita, ragazzi.»
«Parla per te. Siamo responsabili di tutta la gente che
è qui. Se dovesse succedere qualcosa, non ce la caveremmo
con tre giorni di domiciliari», mormorò Usopp
guardandosi attorno. «La maggior parte sono primini convinti
che qui possono fare quello che pare e piace a loro.»
Chopper annuì con convinzione. «È una
faccenda importante, Luffy. Facciamo attenzione.»
Lui li scrutò per qualche attimo, decidendo tra
sé quale fosse il comportamento migliore da adottare in
quelle circostanze. Poi, semplicemente, diede ragione ai suoi amici.
«E gli altri dove sono? Ci sono?»,
domandò.
«I tuoi fratelli dovrebbero essere in palestra», lo
informò Usopp. «Robin, Nami e Bibi onestamente non
lo so. L’ultima volta che le ho sentite si stavano finendo di
preparare. Sanji e Franky sono da Brook, e ora dovrei
raggiungerli.»
«Cosa? Come avete fatto a convincere Brook?»
Zoro si mise a ridere. «Quello è un pazzo,
figurati se non era dei nostri.»
Luffy rise a sua volta. «È vero!» Poi
tornò a rivolgersi a Usopp: «Che devi fare con
Franky e Sanji?»
«Lavori tecnici», rispose lui. «Non posso
perdere altro tempo. Ti spiego meglio dopo.» Si
affrettò ad allontanarsi, e ben presto la sua figura si
confuse tra quelle dei suoi coetanei.
Un anziano saggio diceva con aria placida che il caso non esiste,
eppure, in quel momento, tre ragazze fecero il proprio ingresso
nell’androne catturando l’attenzione di parecchi:
la prima aveva indosso uno splendido costume da Stregatto che faceva a
cazzotti con la serietà della seconda, fasciata nel suo
tubino nero; l’ultima aveva preferito puntare sul trucco: il
suo volto, ben visibile poiché i capelli erano legati in
alto, era stravolto da ghirigori e glitter.
«Finalmente siete arrivate», commentò
Zoro con sommo disinteresse.
Nami lo squadrò da capo a piedi. «E sarebbe questo
il tuo costume? Dei vestiti vecchi?»
«Problemi?»
«Assolutamente no. La figura dello straccione la fai tu, mica
io.»
«Pensavo ti vestissi da strega. Evidentemente non ne hai
bisogno.»
La rossa era intenzionata a tirargli un sonoro ceffone, ma venne
prontamente fermata da Chopper. «Non litigate, per
favore!», scongiurò. «Cerchiamo di
goderci la serata tutti insieme.»
Robin convenne. Si rivolse all’unica persona che, fino a poco
tempo prima, era all’oscuro di tutto. «Ti
è piaciuta la sorpresa?»
«Altroché!»
Nami incrociò le braccia sotto il seno prosperoso.
«E speriamo che fili tutto liscio. Tenete gli occhi aperti.
Al primo movimento sospetto di qualcuno, mandate un messaggio nel
gruppo. Smoker non deve assolutamente venire a sapere di tutto questo,
chiaro?»
Gli altri annuirono in silenzio.
«Che deve fare Usopp?», domandò Luffy
per l’ennesima volta.
A rispondergli fu Robin: «Dobbiamo eludere la
sorveglianza», spiegò con
professionalità. «Bisogna fare in modo che domani
i custodi non ci vedano infestare i corridoi e le aule. Brook ci ha
dato un grosso aiuto non attivando l’allarme quando ha chiuso
a chiave la scuola. Ma rimane il problema delle videocamere»,
e indicò con il dito indice una di esse, che puntava verso
di loro. «Franky ha trovato il modo di hackerare il sistema,
e Usopp e Sanji gli danno una mano.»
«E come diavolo hanno intenzione di fare?!»
«Sostituiranno i filmati di questa sera con dei
fasulli», rispose Nami. «Sanji qualche giorno fa si
è intrufolato per duplicare riprese vecchie. Useranno
quelle, e con un po’ di fortuna nessuno se ne
accorgerà.»
Luffy esultò e, impaziente di attendere ancora, si immerse
nella folla di ragazze e ragazzi.
Bibi, che fino a quel momento era rimasta in silenzio – non
aveva avuto modo di metter bocca sugli argomenti di conversazione, dato
che per tutto il tempo era rimasta fuori dalle azioni dei suoi amici
per libera scelta – seguì Nami e Robin verso il
capo della fila che gli altri studenti avevano inconsciamente formato,
e prese ad ascoltare con distrazione le istruzioni dettate da Sabo
tramite degli altoparlanti. Il gioco che si sarebbe svolto da
lì a pochi minuti era molto semplice: scegliendo liberamente
uno dei percorsi segnati su un paio di mappe affisse nella grande
bacheca degli annunci, sulla parete di fianco alla segreteria, le
persone avrebbero dovuto camminare fino alla palestra tentando di non
avere un attacco di cuore. Chi non si fosse spaventato, non avrebbe
vinto niente; non era una gara: tutto quel teatrino serviva unicamente
a giustificare la festa che si sarebbe svolta sul liscio campo da
basket – Halloween significava farsi spaventare dai mostri,
per poi consolarsi con il buffet allestito alla fine della strada.
Agli effetti speciali ci aveva pensato Ace in persona. Il mese prima si
era impuntato sul volersi far carico della parte più
delicata del progetto, e niente e nessuno si era azzardato a fargli
cambiare idea: Ace voleva a tutti i costi sorprendere Luffy. Nessuno
sapeva come fosse riuscito a procurarsi tutti quegli attrezzi di scena
e quelle decorazioni quasi autentiche, ma quando Franky li aveva
installati qualche ora prima, erano risultati essere eccezionali. Non
gli fecero domande, né tantomeno commentarono il suo
pacchiano costume da cowboy totalmente fuori tema.
Bibi sospirò e si mise a camminare al fianco di Nami e
Chopper, formando un trio di codardi che urlava e piagnucolava a ogni
ombra adocchiata all’angolo dell’occhio.
Presentarsi, quella sera, era stata decisamente una pessima idea.
***
«Un brindisi al nostro successo!»
I calici tintinnarono allegramente e furono svuotati dei loro contenuti
nel giro di pochi secondi.
La musica house rimbombava per tutta la palestra e trapanava i timpani
dei malcapitati che avevano trovato un posto libero accanto alle casse.
Anche Brook si era unito alle danze, arzillo nonostante la sua
età avanzata, e tra una canzone a un’altra si era
divertito a strimpellare la sua inseparabile chitarra elettrica a forma
di squalo; i più giovani lo applaudivano e gli chiedevano di
continuare, esaltati dai fiumi di alcool ingeriti. Qualcuno aveva
persino vomitato e altri erano scivolati nella poltiglia.
Nel loro gruppo, solo Franky si astenne dal bere. Fedele alle sue
lattine di Coca-Cola, si era ugualmente sbottonato la strampalata
camicia hawaiana e si era esibito in una strana danza al centro della
pista. «Venite anche voi, ragazzi!», aveva urlato a
nessuno in particolare.
Luffy, Usopp e Chopper colsero volentieri l’invito, iniziando
a sculettare per la palestra e facendo ridere gli altri partecipanti
alla festa. Usopp, in particolar modo, si sentiva finalmente rilassato:
per giorni e giorni aveva dovuto convivere con un perpetuo stato di
ansia causato dalla paura di venire sgamato e subirne le conseguenze e,
poiché tutto era filato liscio, non si era voluto privare di
qualche cocktail dai dubbi contenuti.
Ballò esageratamente e senza vergogna, almeno fino a quando
non scivolò su del punch caduto sul pavimento e
andò a sbattere contro qualcuno. Il dolore alla tempia fu
indescrivibilmente tremendo, poiché alterato dalla
stanchezza mischiata ai tre mojito che si era scolato di fila, assetato
e accaldato. Si portò una mano alla zona lesa e mosse piano
le dita, mimando un massaggio che sperava fosse rigenerante;
ringraziò mentalmente la sua maschera fatta a mano per non
essersi rotta nell’impatto. Nel frattempo biascicò
delle scuse alla persona che aveva involontariamente colpito.
«Non preoccuparti», ricevette come risposta, e la
vocina timida che aveva parlato lo indusse a sollevare finalmente lo
sguardo.
Davanti a sé la pelle naturalmente pallida di una ragazza,
resa ancora più cadaverica da una cipria bianchissima, si
macchiò di rosso scarlatto; nell’impacciato
tentativo di fermare il flusso di sangue che le colava dalle narici, si
racchiuse il naso all’interno del palmo di una mano, mentre
l’altra frugava nervosamente all’interno della
borsetta a tracolla alla ricerca di un fazzoletto da poter utilizzare.
La riconobbe immediatamente, e il suo nome scivolò via dalle
sue labbra. «Kaya?»
Lei lo guardò da dietro un paio di occhiali finti e
arrossì appena. Non trovò nulla da dire,
perciò a parlare fu nuovamente Usopp: «Sei
venuta», constatò con ovvietà.
«Mi sembrava divertente», rispose la bionda con la
bocca nascosta a metà dalla mano, che si stava velocemente
imbrattando di sangue.
Quella vista bastò a far guarire Usopp dalla sbornia e dallo
stordimento causato dalla musica che continuava a diffondersi
nell’aria. Si adoperò per cercare di aiutarla, ma
l’unico oggetto vagamente somigliante a un fazzoletto che
possedeva era un pezzo del suo costume da mummia improvvisato:
staccò alcuni pezzi del bendaggio che si era annodato alle
gambe e glieli porse, sperando in cuor suo che Kaya non trovasse
quell’iniziativa profondamente antigienica.
Lei, dal canto suo, rimase impalata sul posto, indecisa se accettare o
meno quel goffo tentativo di aiuto; decise infine di afferrare quelle
bende ingiallite e portarsele al viso – del resto, non aveva
niente di meglio da utilizzare. «Grazie»,
mormorò da dietro il tessuto.
Nonostante la sua voce fosse appena un sussurro in quella palestra
gremita di urla stonate, Usopp riuscì a sentirla.
«Figurati. E scusami ancora, sono scivolato.»
Kaya sorrise senza essere vista. «Ho visto.»
«Mi stavi guardando?» Lo disse con una scioltezza
tale da non rendersi conto dell’imbarazzo che la sua domanda
suscitò; l’effetto gli arrivò in
ritardo come un boomerang, e si ritrovò ad arrossire di
vergogna. «Cioè, volevo dire, ti sei accorta che
sono scivolato o mi stavi guardando già da prima? No,
neanche così. Ehm,
stavi ballando anche tu?»
Impacciata quanto lui, la bionda ridacchiò nel tentativo di
smettere di agitarsi tanto. «Sì, ehm, no in
realtà, però tu e i tuoi amici avete catturato
l’attenzione di molti.»
«Davvero? Non me ne ero neanche accorto.» Rise
anche lui, prendendosi del tempo per cercare altro da dire –
che poi, perché aveva così tanto interesse nel
mantenere in piedi quella disastrosa conversazione?
«Posso portarti qualcosa da bere? Così ti riprendi
dalla botta.»
Lei annuì, seppur con poca convinzione.
«Grazie.» Allontanò le bende dal volto e
prese a osservarle, constatando di aver finalmente smesso di
sanguinare. «Che guaio», mormorò a
sé stessa.
«Ma no!», intervenne Usopp anche se non
interpellato. «Non stai male. È come un costume di
Halloween», commentò osservando il viso della
ragazza, che si era sporcato di sangue. «Sembri…
Bloody Mary.»
Kaya abbozzò un sorriso di educazione.
«Sarà meglio che vada a lavarmi», disse
e girò i tacchi, allontanandosi velocemente da lui.
Ma, invece di dirigersi verso i bagni, scappò a casa.
***
Ironia della sorte, l’unico a mancare all’appello
era Zoro.
Madre Natura con lui era stata assai concessiva: gli aveva donato un
penetrante sguardo magnetico, un fisico ben messo e un carattere fermo
per la sua età; aveva però peccato
sull’apparentemente insignificante ma in realtà
indispensabile senso dell’orientamento. Nonostante
frequentasse quel liceo da anni e lo avesse percorso in lungo e in
largo molteplici volte, ancora non era in grado di distinguere i
corridoi tra loro; incapace di per sé a trovare le aule per
fare lezione durante le ore diurne, era ancora più confuso a
quell’ora della notte, con tutte le luci spente e i punti di
riferimento nascosti da grandi ragni impagliati e le loro tele
appiccicose. Se qualcuno gli avesse fatto notare di star passeggiando
per la stessa strada per la quarta o quinta volta di seguito, le
decorazioni tutte uguali si sarebbero potute trasformare in ottimi
appigli per fuggire dalla vergogna scaturita dalla consapevolezza di
essersi perso.
Poche ore prima aveva deciso di prendere parte al gioco organizzato da
Sabo, nonostante il suo piano suonasse molto banalmente alle sue
orecchie. Come già detto, era stato il rifresco illegale
alla fine del percorso a fargli approvare l’iniziativa, oltre
alla totale gratuità dell’evento – aveva
già speso la paghetta del mese in acquisti superflui
– ampiamente argomentata da Nami, che avrebbe tanto
desiderato intascare qualche soldo.
Decise pigramente che continuare ad andare a zonzo sarebbe servito a
ben poco, soprattutto se un’ondata di sonno lo stava
sommergendo fin sopra i capelli color prato – testa d’alga
avrebbe detto Sanji, e solo a pensarlo gli salì il nervoso.
Una sedia abbandonata contro un muro fece al caso suo: si
lasciò cadere come una sacca colma di ortaggi e
appoggiò la testa contro la parete, usando braccia e mani
come un cuscino improvvisato. Al termine della festa, qualcuno si
sarebbe accorto della sua assenza e lo avrebbe cercato, dato che le sue
sorti quella notte dipendevano dalla patente nuova di zecca di Usopp.
Un rumore gli fece aprire gli occhi. Non seppe dargli una definizione,
ma lo associò a uno stridio, come se qualcuno fosse
scivolato a causa delle suole delle scarpe troppo liscie.
Pensò che probabilmente qualcuno stesse semplicemente
camminando, eppure non udì nessun altro suono;
com’era possibile? Sembrava quasi che un’ombra
silenziosa stesse tentando di non farsi sentire, impersonando un agente
sotto copertura impegnato a portare a termine indagini riguardanti
loschi affari. Che si trattasse della spia senza nome che era stata in
grado di far tentennare le loro convinzioni in appena tre giorni?
Senza indugio decise di andare a controllare. Impossibilitato nel
capire dove si stesse effettivamente dirigendo, optò per
affidarsi totalmente all’udito. Seguì
l’eco di piccoli passi, a sua volta riducendo al minimo i
movimenti e i conseguenti rumori. Chi era il cacciatore? Chi era la
preda? A ogni avanzo i loro ruoli si scambiavano tra loro,
rincorrendosi ed evitandosi, nascondendosi e invitando
l’altro a mostrarsi. Era un carosello al buio, un gioco
d’astuzia e d’azzardo svolto nel totale silenzio
impregnato di tensione e respiri sottili.
Zoro dimostrò di essere più veloce e agile.
Quando finalmente individuò una figura snella
nell’ombra, scattò in avanti e allungò
una mano, afferrando la spalla dell’individuo misterioso e
costringendolo a voltarsi. «Chi sei?»,
domandò con fermezza.
Probabilmente a causa dello spavento o per la rapidità di
reazione, la persona si liberò dalla presa e
balzò all’indietro, ancora coperta dal buio. La
fortuna non fu dalla sua parte: con la schiena urtò
dolorosamente degli scaffali, e ciò che vi era sopra cadde;
sei trofei sportivi finirono inevitabilmente sul pavimento e si
ammaccarono, e gli attestati che li accompagnavano non li abbandonarono
neanche in quel pasticcio. La silhouette cacciò un gridolino
e subito dopo strinse la mascella per non cedere alla sofferenza
fisica. «Accidenti», disse fra i denti.
Approfittando del gran fracasso, Zoro afferrò il proprio
cellulare e accese la torcia di cui era dotato, puntandola sullo
strambo individuo. Questi si rivelò essere una ragazza
dall’aria conosciuta, ma lui non riuscì a
collegare il suo volto ad alcun nome. Prese in mano la situazione e
pronunciò con la medesima serietà di poco prima:
«Cosa stavi tentando di fare?»
Lei alzò finalmente lo sguardo verso di lui e
l’espressione che si dipinse sul suo volto rappresentava puro
sconcerto. «Roronoa!», esclamò con
sorpresa mescolata a una sana dose di rabbia. «Tu cosa stavi
tentando di fare!?»
Zoro strinse la mascella a sua volta. «Non ci provare, qui le
domande le faccio io.»
Lei lo ignorò bellamente. «Ci avevo visto giusto
allora. Ero sicura che anche tu fossi coinvolto in questo… Questo!»
«Ma di che diavolo stai parlando?»
«E non credere di farla franca! Quando chi di dovere lo
verrà a sapere, tu e i tuoi amici finirete nei guai fino al
collo!»
Zoro non era un asso con le donne, ma aveva capito che tentare far
ragionare quella strana ragazza sarebbe stato completamente inutile.
Piuttosto, dove l’aveva già vista?
«Senti», disse mentre lei continuava a imprecare,
«sei tu la spia?»
Come se l’incantesimo del fiume in piena fosse scoppiato come
una bolla di sapone, la giovane si interruppe; parve riflettere su
quella domanda, vagabondando nella confusione, poi rispose:
«Non sono affatto una spia. Sto solo facendo il mio
dovere.»
«Il tuo dovere? Ma chi sei?», ripeté.
La ragazza si rimise in piedi e si calò degli occhiali dalla
montatura rossa sul naso appuntito. «Faccio parte del
Comitato della rappresentanza degli studenti.»
«E allora non stai facendo il tuo dovere.»
«Eh?»
«Se rappresenti gli studenti dovresti batterti per
difenderli, non per buttarli nella merda», rispose Zoro con
ovvietà.
«Non c’entra un bel niente! Mi occupo di fare in
modo che in questo istituto tutto funzioni al meglio, e se un giorno un
gruppo di scapestrati s’inventa di voler dare una festa
abusiva in palestra, non sono io che li butto
nella…», tentennò,
«… nei guai, ma loro stessi. Tu e i tuoi amici
state violando tutto il regolamento d’istituto in una volta
sola, te ne rendi conto?»
«Aah,
esiste un regolamento d’istituto? E tu l’hai anche
letto?»
La ragazza arrossì dalla furia e fu tentata di mettergli le
mani addosso. «Roronoa, ti ordino di andarti a costituire
immediatamente!»
Zoro le mostrò un sorriso beffardo – si stava
palesemente prendendo gioco di lei. «Costringimi,
quattrocchi.»
Lei fece per scaraventarsi su di lui ma, nell’avanzare alla
cieca, non si accorse di avere ai piedi uno dei trofei dorati e
pertanto gli diede un calcio così forte che fece ruzzolare
via l’importante premio. Impallidì.
Il ragazzo non si mosse di un millimetro, continuando a sorridere
sinistramente. «Qua però io non c’entro
niente.»
«C’entri eccome!», urlò lei.
«Perché la vetrina dei trofei è aperta?
Te lo dico io. Perché ci avete messo dentro le vostre
stupidissime decorazioni! Il mio è stato un incidente, nulla
di più.»
«Quindi andrai a costituirti anche tu, vero?»
La giovane aprì la bocca per ribattere, ma una
preoccupazione la colpì come un fulmine. «Non
posso.»
Zoro sollevò un sopracciglio.
«Non posso, non posso, non posso»,
mormorò come un disco rotto. Sembrava stesse parlando con
sé stessa. «Smoker non sa che sono qui, non lo sa
nessuno. Se scoprono che mi sono fatta viva mi ammazzeranno di sicuro.
Ma questi trofei li ho rotti io… Come faccio?»
Colse la palla al balzo. «Ti dico io come fare.»
Ottenne la sua attenzione e continuò. «Tu fai la
brava e non spifferi a nessuno cosa è successo qui stanotte.
Io, in cambio, non dirò a nessuno che sei stata tu a
combinare questo macello. Ci stai?»
«Assolutamente no. Quello che avete fatto è grave
e io non sono affatto disposta a diventare complice di voi
criminali.»
«In tal caso non mi lasci altra scelta.» Fece una
fotografia alla ragazza con dietro di lei le coppe danneggiate,
accecandola con il flash dello scatto. Approfittò della sua
confusione – cieca come una talpa di per sé, aveva
preso a strofinarsi gli occhi con le dita per scacciare il fastidio
visivo provocato dalla luce – e la caricò in
spalla, iniziando a camminare per raggiungere una determinata zona.
Compose un numero sul telefono e avvicinò
quest’ultimo all’orecchio; quando il suo
interlocutore rispose, disse: «Hey, Robin, raduna gli altri
in fretta. Ho trovato la spia», e riattaccò senza
neanche attendere un assenso.
La ragazza, rendendosi conto di trovarsi addosso a lui, prese a
scalciare come una furia. «Levami immediatamente le mani di
dosso, imbecille!»
Zoro sbuffò rumorosamente. «Quanto
rompi.»
«Taci! Dove mi stai portando? Spero per te che tu non abbia
brutte intenzioni, ti avverto che so difendermi bene.»
Lui ghignò nuovamente; stavolta lei non fu in grado di
vederlo. «Andiamo dal capo.»
Angoletto degli
Easter Egg!!
1. Futuro
piedipiatti: è un riferimento al mestiere di
Smoker nell’opera originale. Mi piace pensare che lui possa
rappresentare la giustizia anche in un contesto AU.
2. La
torcia aveva smesso di funzionare […] qualcosa che non andava:
sottile riferimento al videogioco ‘Outlast’.
Se non erro c’era un momento in cui accadeva qualcosa del
genere, ma sono passati tanti anni e non ricordo con precisione. In
questa scena Luffy sta giocando proprio a questo videogame.
3. Pareva
un autentico re dei mari: be’, qui non
c’è molto da spiegare lmao.
4. Un
anziano saggio diceva con aria placida che il caso non esiste:
il maestro Oogway da ‘Kung
Fu Panda’, ovviamente!
5. La
sua maschera fatta a mano: riferimento a Sogeking, re dei
cecchini *parte la canzoncina*
Angoletto
dell’Autrice!!
Pubblico con un po' di ritardo a causa di impegni lavorativi e
universitari (settimana infernale, ma è quasi
finita) Anyway, I'm right here.
I capitoli cominciano ad allungarsi, ormai siamo entrati nel vivo della
storia! I nostri protagonisti si sono infiltrati a scuola di sera/notte
per festeggiare Halloween eeeed è una cosa totalmente
impensabile da fare nella realtà AHAHAHA
Abbiamo visto il ritorno di Kaya (ma poi è scappata via di
nuovo!) e l’ingresso di un nuovo personaggio; in
realtà è stata protagonista anche
nell’ultima parte del primo capitolo, ma qui si ha una
visione di lei decisamente più ampia… avete
capito chi è, vero? ;)
Cosa accadrà adesso? Scopritelo nel prossimo capitolo e nel
frattempo lasciate una recensione ^^
A presto,
–Channy
Post Scriptum:
per evitare fraintendimenti vorrei precisare alcune cose. In primis, la
scuola di questa fanfiction è di tipo americano,
ciò significa che gli anni sono quattro e non cinque! In
secundis, Brook non è magicamente ringiovanito; è
un vecchietto anche qui e l’ho piazzato a fare il
collaboratore scolastico, così da poter sempre vegliare sui
protagonisti e dar loro una mano nei momenti di difficoltà!
|
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Capitolo 5 *** Shut up, Princess and Fool ***
4
Shut up, Princess and
Fool
«Mi chiedo se andrà tutto
bene.»
«Rilassati, fratello. Hai sentito Nico Robin, no?
È stato Zoro a trovare la spia. Sono suuuper sicuro che
avrà la situazione sotto controllo.»
«Non è che mi fidi molto di quella testa
d’alga, comunque…»
Franky sorseggiò la Coca-Cola in lattina che aveva
sgraffignato dalla palestra mentre si dondolava su una sedia di
plastica. Accanto a lui, Sanji giocherellava distrattamente con un
accendino, conscio di non poter fumare in un ambiente chiuso a meno che
non fosse intenzionato a far scattare l’allarme antincendio;
fissava la porta della stanza di videosorveglianza, sperando che si
aprisse in fretta: non temeva di finire in presidenza dopo il disastro
che aveva accuratamente organizzato con i restanti membri del gruppo,
piuttosto era preoccupato che a rimetterci troppo fossero le tre
ragazze della combriccola. Robin, Nami e Bibi erano in piedi in un
angolino della stanza impegnate a consolare un Usopp moralmente
distrutto. Il suo sguardo color mare indugiò sulla seconda,
tracciando i contorni del suo viso distorto a tratti
dall’ansia e a tratti dalla determinazione di non volersi
piegare ai chissà quali scopi della spia. Pensò
che anche quel giorno fosse bella e, nonostante si fosse già
espresso in una moltitudine di complementi smielati, elogiando il suo
originale costume, non riusciva a distogliere l’attenzione.
Sapeva che per lei era fondamentale che filasse tutto liscio: si stava
impegnando al massimo per accumulare buoni voti poiché aveva
come scopo entrare in un’accademia prestigiosa una volta
conclusi gli studi della scuola dell’obbligo; aveva alle sue
spalle pagelle perfette e quell’anno, il penultimo, non
doveva essere da meno – era fondamentale ottenere una borsa
di studio.
Quest’ultima batteva il piede a terra con insistenza e
nervosismo, nonostante i tacchi le procurassero fastidio alle caviglie.
«Spero per Zoro che non ne abbia combinata una delle sue. Ci
manca solo che Sakazuki lo venga a sapere… E tu, Usopp,
smettila di frignare!»
Il ragazzo si strinse a Chopper, il quale annaspò alla
ricerca d’ossigeno. «Chissà che idea si
sarà fatta di me», borbottò fissando il
pavimento.
Bibi gli carezzò la schiena con fare amorevole.
«Coraggio, Usopp. Non avevi cattive intenzioni, è
stato un incidente. Magari mentre era in bagno i suoi genitori sono
passati a prenderla e se n’è dovuta andare. Non
avendo il tuo numero non ha potuto avvertirti.»
«Già, Usopp», intervenne Luffy con un
sorriso innocente. «Perché non le hai chiesto il
numero? Potresti non rivederla mai più.»
«Luffy!», lo sgridò Bibi. «Non
dirgli così, lo farai stare peggio!»
«Non è vero», fece Ace al suo fianco.
«Starebbe peggio se gli dicessimo che in realtà
l’intenzione di quella là era proprio non farsi
vedere più.»
Bibi continuò a urlare, indignata, mentre Robin
ridacchiò coprendosi la bocca con una mano.
Fu in quel momento che sentirono delle lamentele provenire dal
corridoio; un attimo dopo l’uscio venne aperto con violenza,
come se chi avesse compiuto il gesto fosse al limite di una crisi di
nervi.
L’espressione accigliata di Zoro venne illuminata dalla luce
della stanza; con un movimento rapido fece scendere la ragazza che
portava in spalla come un sacco di patate, e lei cadde con il
fondoschiena a terra – il tutto accompagnato dalle urla
contrariate di Sanji. «Finalmente siamo arrivati. Non ti
sopportavo più, quattrocchi.»
«Questo dovrei dirlo io! Possibile che non conosci neanche le
strade della scuola che frequenti da anni? Ti ho dovuto dire io come
arrivare qua!», ribatté lei.
Nami si portò davanti a tutti gli altri e
puntellò le mani sui fianchi. «Bene bene, guardate
chi abbiamo qui.»
Sabo affiancò la ragazza con espressione severa.
«Non sono affatto sorpreso. Del resto, era molto semplice da
capire.»
Gli altri membri del gruppo formarono rapidamente un cerchio attorno
all’intrusa, mentre la porta venne richiusa per non lasciare
che nessuno all’esterno udisse la conversazione. “Io la conosco,
è una belva”, sibilava Usopp a
Chopper che, impaurito, tentava di nascondersi malamente dietro le sue
gambe magre.
«Ti manda Smoker?», domandò Robin con un
sorriso accennato sul volto; era tranquilla, come se nulla di
ciò che stesse accadendo la tangesse.
La ragazza si rimise in piedi e li scrutò uno per uno.
«No, venire qui è stata una mia iniziativa. Smoker
e Hina non sanno nulla.»
«Perché?», proseguì
l’interrogatorio.
«Perché volevo dar loro delle prove, dimostrare
che i nostri sospetti erano fondati.»
«Che prove ti sei procurata?»
«Questo non sono tenuta a dirvelo. È mia
intenzione denunciarvi al preside Sakazuki per l’infangamento
del regolamento d’istituto, violazione di
proprietà privata e detenzione di alcolici.»
Zoro si grattò la testa. «Dimentichi la storia dei
trofei, quattrocchi.»
«La storia dei trofei?», domandò Nami
con evidente confusione.
«L’imbranata li ha fatti cadere e ora sono tutti
ammaccati. Ho fatto una foto per incastrarla»,
spiegò lui.
«Perché te la sei presa con quei trofei? Sono suuuuper
belli!»
La ragazza arrossì furiosamente. «Ho
già spiegato a questo cretino che si è trattato
di un incidente. Per colpa sua, per giunta.»
«Mia adorata, splendido raggio di sole che illumina questo
liceo buio, anche io penso che sia un cretino. Ti va di uscire insieme
per conoscerci meglio?»
Gli arrivò un pugno dritto in testa. «Non
è il momento, Sanji!»
Le goti del biondo si tinsero di un piacevole rosso. «Sei
gelosa, amore mio?»
«Affatto», tagliò corto Nami.
Tornò poi a rivolgersi alla spia. «Toglimi una
curiosità. Come ti è giunta alle orecchie la
notizia della nostra festa? Te lo ha detto qualcuno? Aveva come scopo
quello di tradirci?»
L’altra scosse il capo, facendo oscillare i lunghi capelli
neri. «Ho sentito tutto per caso. Portuguese e Outlook ne
stavano parlando a gran voce in corridoio alla fine delle lezioni.
Evidentemente non mi hanno vista.»
L’aria si congelò all’istante. I due
ragazzi in questione si scambiarono occhiate preoccupate, le loro
fronti improvvisamente imperlate di sudore; sapevano che da
lì a poco si sarebbe scatenato l’inferno. A
confermare le loro paure fu la valanga di schiaffi che ricevettero,
seguite da urla indignate e colme di rabbia allo stato puro.
«E ti pareva che c’entravate voi!»
«Mi domando perché diavolo ve ne andate in giro a
urlare ai quattro venti del nostro piano segretissimo!»
«Vi dovrei cambiare i connotati a suon di calci!»
«Ma quali calci?! Io prendo una spada e li faccio a
fette!»
«Io invece li manderei all’altro mondo con un
bazooka!»
«Adesso ve la vedete voi con Sakazuki! E niente
storie!»
Luffy, che era l’unico in quella stanza che poteva ancora
dirsi innocente, se la rise a crepapelle; dovette portarsi le mani
sullo stomaco per non piegarsi in due dalle risate. Ancora con le
lacrime agli occhi, si rivolse alla spia dicendole: «Dai,
come puoi andarli a denunciare?! Sono troppo divertenti!»
La giovane, rimasta naturalmente fuori dalla rissa, si strinse nella
camicia a fiori; a causa della temperatura bassa di quella stanza
costantemente ventilata rischiava di incappare in un raffreddore coi
fiocchi. «Quello che avete fatto è grave, non
posso far finta di nulla. Ne vale il mio orgoglio.»
A sentir quelle parole, Zoro si tirò fuori dal polverone e
tornò vicino a lei. «Mi costringi a
ricattarti.»
La ragazza strinse gli occhi in due fessure strette.
«Cancella immediatamente quella fotografia,
Roronoa.»
«Ti aspetti che lo faccia? Tu tieni la bocca chiusa e ti
assicuro che non ti succederà niente. Ci siamo
capiti… Come hai detto che ti chiami?»
«Tashigi.»
«Ecco. Ci siamo capiti, quattrocchi?»
Lei sorvolò sulla questione del nome – era
convinta che Zoro se lo fosse già dimenticato – e
gonfiò le guance. Avrebbe voluto continuare a insistere,
dirgli che non era disposta a trattare con la sua faccia da schiaffi e
con i suoi amici criminali, ma si rese conto che la situazione non
giocava affatto a suo favore. Innanzitutto era in svantaggio numerico:
per quanto quel gruppo di scalmanati ce l’avesse con i due
colpevoli della spifferata, si sarebbero dati man forte nel proteggersi
a vicenda. In più tra loro non solo c’era Nami
– che spesso riusciva a farla franca davanti ai professori
grazie alla sua grande abilità di distorcere la
realtà usando paroloni nei suoi discorsi di scuse
–, ma anche Nico Robin e Bibi, intoccabili dal punto di vista
morale; davanti al preside l’azzurra probabilmente si sarebbe
fatta prendere dal panico, ma Robin sarebbe apparsa irremovibile sulla
sua versione dei fatti. A nulla sarebbe servito incolpare loro per la
rovina di quelle dannatissime coppe, e mentendo ci avrebbe solo perso.
Giunse pertanto a una conclusione amara.
«Me la pagherai molto cara, sappilo.»
Luffy allargò il sorriso e Zoro ghignò ancora e
tuffò le mani in tasca. «Hey, ragazzi»,
li chiamò mettendo fine al massacro. «La secchiona
qui presente terrà la bocca chiusa.»
Le loro urla di rabbia si trasformarono in grida gioiose.
«Finalmente una bella notizia!», esclamò
Chopper mentre agitava le braccia al cielo.
«Direi che possiamo andarci a godere il resto della
serata.»
«E quando avete intenzione di smontare tutto?»
Si voltarono a guardare la giovane con gli occhiali. Prese la parola
Franky: «Mh,
verremo domani mattina a disfarci delle prove. Approfittiamo che la
scuola resterà chiusa, dato che è
domenica.»
«Non potete», si lasciò sfuggire.
Rendendosi conto della notizia segreta che era in procinto di rivelar
loro, si tappò la bocca con le mani.
«Tashigi cara», fece Sanji con dolcezza, ma il suo
sguardo raccontava un principio di stato d’allerta.
«Cosa ci vuoi dire?»
La mora tornò a guardarli. Sospirò, maledicendo
mentalmente il suo non saper mentire. «Vi conviene iniziare
da adesso a liberarvi delle prove. Domani mattina Smoker ha intenzione
di fare un sopralluogo con la scusa di occuparsi
dell’organizzazione di alcuni eventi che si terranno nei
prossimi mesi. Ha già ottenuto il permesso da chi di
dovere.»
Sabo si portò una mano al mento tumefatto, massaggiandolo
delicatamente. «Questa sì che è
un’informazione preziosa. Facciamo come dice lei.»
Nami annuì. «Avete sentito, gente? Sono le due di
notte e tra poche ore il cacciatore bianco sarà qui a farci
sospendere! Correte a mettere tutto a posto! Franky e Usopp, voi
occupatevi dei bracci meccanici degli zombie e dell’impianto
stereo in palestra. Ace, vai immediatamente a prendere il furgone per
caricare la roba. Chopper e Bibi, radunate i primini e dite loro di
sloggiare e di tenere il becco chiuso. Sanji e Zoro, voi occupatevi del
rinfresco e vedete di non mettervi a litigare. Luffy, tu vai a cercare
Brook e mettete a posto i trofei. Già che ci siete, date una
mano a Franky a smontare la roba. Non dovete dimenticare neanche un
misero ragnetto, altrimenti siamo fritti. Robin, tu resta con me a
occuparti della videosorveglianza. Muoversi, muoversi!»
L’occhialuta vide tutti i presenti scattare
sull’attenti quando la rossa li chiamava per nome, per poi
precipitarsi fuori dalla stanza per eseguire gli ordini. Capendo che le
dritte erano concluse, fece per andarsene, ma le due ragazze la fecero
bloccare sul posto. «Tashigi?»
Si voltò e incrociò nuovamente i loro sguardi
severi. Rimasero a scrutarsi per svariati attimi, quando i lineamenti
delle due giovani si rilassarono. «Grazie per
l’avvertimento», le disse Nami.
Robin aggiunse: «Ci sei stata di grande aiuto.»
La ragazza si morse le labbra mentre camminava verso l’uscita
della scuola.
In che guaio si stava cacciando?
***
L’aula del corso di lettura era deserta quella mattina, ma
quel vuoto non stupiva nessuna delle tre figure che non mancavano a
neanche un incontro. Il club dedicato ai libri era stato bocciato a
causa delle troppe poche adesioni, tuttavia le autorità
scolastiche avevano chiuso un occhio grazie alle insistenze delle
solite partecipanti, che anche gli altri anni avevano lottato per
ottenere un posticino dove poter leggere in gruppo un buon romanzo
– o chiacchierare senza essere disturbate da nessuno
sfruttando l’ora di pranzo, durante la quale la massa
d’adolescenti si radunava in mensa o in cortile, lasciandosi
alle spalle un piacevole silenzio.
«Eeeh?
Un ragazzo ti ha chiesto di uscire?»
«E chi è? Chi è? Lo
conosciamo?»
«Scommetto che è quel tipo affascinante del
quarto. Come si chiamava…?»
«Dici Ace?»
«No, no. Caven-qualcosa.»
«Aah,
Cavendish.»
«Non farti ingannare da quel biondino. È un
egocentrico di prim’ordine, e poi dicono che ci provi con
tutte.»
Agitò le mani per aria. «Ragazze! Ho mentito, ho
mentito!»
Strabuzzarono gli occhi. «Cheeee?!»
Poi una delle due aggiunse: «Come mai?»
Bibi sospirò, poggiando una guancia sul palmo di una mano.
«Non ho avuto il coraggio di dirgli la verità. E,
in ogni caso, non avrei potuto dirgliela. La nottata di Halloween,
sapete, no?»
«E ora cosa farai?»
L’azzurra guardò Shirahoshi e, per farlo, dovette
sollevare il capo; la ragazza era incredibilmente alta nonostante fosse
la più piccola fra loro. «Credo che debba
rimangiarmi tutto.»
«Ma Bibi», fece la terza, «in questo modo
ti ritroverai punto di partenza.»
«Me ne rendo conto, Rebecca, ma quali altre soluzioni
ho?» Il suo sguardo madreperlaceo si spense ancor di
più. «Inoltre, non ho il coraggio di guardarlo in
faccia.»
Shirahoshi si sporse in avanti, stringendo il banchetto di legno con le
sue lunghe dita bianche, quasi a volersi aggrappare a esso per non
cadere rovinosamente; il seno prosperoso coprì la copertina
del suo libro, abbandonato su quella superfice legnosa e quel giorno
mai aperto, lasciando il segnalibro bianco dove l’aveva
posizionato il giorno precedente.
«Perché?», chiese con aria infantile.
Bibi lasciò che alcune ciocche di capelli le coprissero lo
sguardo quando chinò il capo verso il basso, con la scusa di
guardare l’orario sull’orologio da polso.
«Non lo so. Mi vergogno», biascicò e
raccolse le proprie cose, imitata dalle altre due.
«Per avergli rifilato una menzogna?»
«Non solo. Quando sono scappata senza neanche
salutarlo… Mi sento di avergli mancato di
rispetto.»
Mentre uscivano dall’aula, intenzionate a sgranchirsi le
gambe prima che scattassero le due ore di lezioni pomeridiane, Rebecca
le poggiò una mano sulla spalla. «Luffy non bada a
queste cose, dovresti saperlo. Probabilmente non se lo ricorda neanche
più.»
Lei si rilassò sotto il suo tocco, ma il suo volto rimase
amareggiato e vagamente imbronciato.
«C’è dell’altro,
vero?», le chiese Shirahoshi scrutandola con i suoi occhioni
color cielo.
Bibi evitò accuratamente di incrociare lo sguardo.
«Probabilmente», ammise, «non mi piace la
sua amicizia.»
Le due amiche furono pronte a ribattere, ma si tapparono la bocca per
evitare che delle spettatrici udissero il continuo di quella spigolosa
chiacchierata; l’intensità delle voci cresceva, e
quella che tutti chiamavano principessa serpente occupava i paraggi con
le sue mille orecchie. Gli occhi guardavano verso una direzione diversa
rispetto a dove Bibi, Rebecca e Shirahoshi si trovavano, ma sapevano
che il ragazzo che pocanzi avevano solo nominato aveva catturato tutta
la sua attenzione.
«Ma guardate che ore si sono fatte!»,
esclamò l’azzurra battendosi una mano sulla fronte
scoperta.
«Che sbadate! Dovremmo proprio tornare a lezione!»
«Ma non abbiamo nulla da fare…»
Rebecca fu rapida a tappare la bocca di Shirahoshi con una mano.
«Già! Se non corro subito in classe, il professor
Kuzan andrà su tutte le furie.»
Ridacchiarono nervosamente e se ne andarono a gambe levate.
***
Possibile che due grandi occhi color oceano fossero tanto dolci come
caramelle zuccherate quanto affilati come lame spietate?
Ebbene, se i suddetti occhi fossero stati donati a una qualsiasi
persona nel continente, la risposta sarebbe stata negativa; ma la
proprietaria di quelle due sfere incantatrici era dotata di una
bellezza tale da rendere tangibile realtà anche il
controsenso più astratto. La pelle diafana era in netto
contrasto con i lunghissimi capelli neri, e quel suo aspetto angelico
la faceva somigliare a una nota principessa delle fiabe – ma
del carattere di Biancaneve non c’era traccia. Non amava
mostrarsi spiritualmente bella agli occhi altrui, neanche dinanzi
all’autorità emanata dal giovane uomo che la
fronteggiava, osservandola dietro un paio di occhiali da sole.
«Che vuoi?»
Il suo tono di voce fu gelido, ma lui non era fatto per intimorirsi di
fronte a quell’imparagonabile bellezza. «Voglio che
sputi il rospo.»
Lei resse il suo sguardo cattivo senza batter ciglio; fece una bolla
con la gomma che stava masticando, studiando bene il modo in cui
fargliela scoppiare in faccia. «Non so niente.»
Impassibile come una roccia millenaria, ribatté:
«Non prendermi per il culo, Hancock. Tu sai.»
Lei continuò a scrutarlo; poi si voltò verso il
proprio armadietto, e la velocità con cui s’era
girata permise ai suoi capelli di diventare una frusta. «Se
sei così in vena di fare l’investigatore,
perché non provi a ficcare il naso negli sporchi affari di
Eustass Kidd, invece di prendertela con gli innocenti?»
Smoker avrebbe voluto fumare, in quel momento, per placare il crescente
nervosismo che tuttavia era restio a mostrare. «Quello
stronzo di Kidd può aspettare. La faccenda di Luffy
è più urgente.»
«Hai paura che ti scada il mandato di
perquisizione?», ironizzò lei mentre inseriva la
combinazione per sbloccare il lucchetto. «Se non trovi nulla,
vuol dire che non ha fatto niente di male.»
«Cazzate», le rispose. «Tutti sanno che
quello là prova gusto nel collezionare punizioni.»
Hancock aprì l’anta metallica
dell’armadietto. «E tu, Smoker? Tu non hai le tue
piccole manie?» Gli impedì di ribattere
poiché proseguì: «Sei sempre addosso
alla gente, agli occhi di tutti sembri un dittatore.
C’è già Sakazuki a far sembrare questo
liceo un carcere, non serve che ti ci metta anche tu. Per quanto mi
riguarda, Luffy è libero di compiere tutti i casini che gli
pare. Almeno con lui non ci si annoia a morte.»
Se quella ragazza era alta, allora Smoker era vertiginoso. Le sue
sopracciglia s’aggrottarono maggiormente. «Stai
ammettendo la sua colpevolezza?»
Negò scuotendo il capo. «Ti sto sgridando.
Perché sei così convinto che Luffy abbia fatto
qualcosa di sbagliato?»
«Mi è stato riferito.»
«Da chi? Da qualche insulsa voce di corridoio? Oppure
c’è lo zampino di uno dei tuoi?»
«Senti, qui le domande le faccio io.»
Rise di scherno. «Sì, sono sicura che sei stato
informato da loro. Sarà stata la fumatrice incallita, il
topo da biblioteca che non si regge in piedi o lo sfigato dalle
improponibili bandane? Venghino, signori, venghino! Il banco delle
scommesse è aperto!»
Smoker ignorò la sua arroganza e le domandò:
«Dov’eri la notte di Halloween, Hancock?»
Lei tornò seria, seppur mantenendo un sorriso furbo in
volto. «All’Evening
Drink Less. Serata a tema, entrata gratuita, posti
limitati e cocktail a metà prezzo per l’occasione.
Ora che farai? Andrai lì a chiedere i filmati di
videosorveglianza per accertarti del mio ingresso?»
Prese ciò che le serviva dall’armadietto e lo
richiuse, poi si allontanò ancheggiando.
Smoker la guardò, del tutto disinteressato al sex appeal che
quella ragazza trasudava da ogni poro perché concentrato su
ben altro. Era sicuro che in quell’istituto fosse accaduto
qualcosa di losco, ed era altrettanto certo che Luffy e i suoi compari
c’entrassero qualcosa – ma fino a quel momento non
aveva fatto altro che buchi nell’acqua.
Aveva ancora la voce del vicepreside in testa. Quella mattina Spandman
non aveva fatto altro che strillare come un pazzo, lamentando la
distruzione della vetrina dei trofei scolastici; gli aveva ordinato
– inutilmente, poiché era già sua
intenzione procedere di quella lena – di scovare il colpevole
di quella catastrofe e piazzarglielo davanti agli occhi, a portata di
urla e sputacchi qua e là. Prima il grosso sgarro di
Halloween, poi le coppe ridotte a lattine di birra abbandonate tra gli
spalti di uno stadio e più volte calpestate dai tifosi, i
cui danni erano stati camuffati da qualcuno, probabilmente dal
colpevole di quello scempio: non poteva essere un caso. In
quell’istituto era accaduto qualcosa, e Smoker
l’avrebbe scoperto.
Oltretutto, c’era anche da capire per quale motivo Boa
Hancock avesse trascorso la serata da un’altra parte, lontana
dal ragazzo per cui aveva una cotta abissale da tempi immemori, mai
nascosta e sempre commentata da bocche altrui, che vivevano per
spettegolare sulle faccende di quella giovanissima diva. Per non
parlare dell’ignoranza di Luffy stesso: quando aveva provato
a fargli confessare il misfatto, tutto ciò che aveva
ottenuto era stato un lamento sconnesso e una scrollata di spalle.
C’era decisamente qualcosa che non tornava. Come fare per
venire a capo di quella fastidiosa storia?
Meditò, poggiato al muro e controllando che nessuno studente
corresse per i corridoi. Poi, l’illuminazione: le telecamere
a circuito chiuso.
***
Noiosa e pacchiana allo stesso tempo, chimica era decisamente la
materia che tutti detestavano. Gli argomenti trattati erano in qualche
modo interessanti e, se uniti alle ore di pratica, potevano diventare
persino divertenti o quantomeno erano in grado di mantenerli svegli.
L’unico esperimento che li aveva fatti rabbrividire
riguardava le vivisezioni, e la quasi totalità degli alunni
si era categoricamente rifiutata di aprire in due
un’innocente rana; alcuni avevano persino inaugurato una vera
e propria protesta contro lo sfruttamento degli animali a scopi
scientifici, quindi abbracciando anche il campo d’interesse
di vegetariani e vegani.
Il problema delle lezioni di chimica era di base uno solo e portava il
nome di professor Caesar. Era il peggior insegnante che si potesse
assumere, eppure era dietro quella cattedra a dettare ordini a destra e
a manca come se si trovasse a bordo di una nave pirata e ne fosse il
capitano; rideva a gran voce agli sbagli dei suoi studenti, cogliendo
ogni occasione per sbandierare il proprio talento naturale e per
narrare di quella volta in cui aveva – per errore –
creato un gas letale in laboratorio per poi essere denunciato dai
vicini di casa, rischiando di finire al fresco se non avesse
immediatamente distrutto la sua formula.
«Andiamo, stupide scimmie!», sbraitava al limite
della sopportazione. «Quanto vi ci vuole per creare questa
maledetta miscela? Saranno tre ore che vi sto suggerendo i
passaggi!»
La sua voce calcava le s
e perforava nelle teste di chi era troppo vicino alla sua postazione.
Nami roteò gli occhi al cielo, nonostante la puntuale
emicrania le causasse un dolore non indifferente nel compiere quel
gesto teatrale. «Non lo sopporto più, è
una tortura», mormorò più a
sé stessa che al compagno di laboratorio che le stava di
fianco.
Il suddetto le rispose con aria sognante: «Sono disposto ad
affrontare ogni genere di tortura, purché sia con
te.»
La tentazione di tirargli un pugno fu forte, ma il contenitore che
aveva in mano si sarebbe rotto. Si limitò ad ammonirlo:
«Sanji, per favore.»
«Ma Nami», fece lui, perso in chissà
quali armoniose fantasie, «a te non piace l’ora di
laboratorio? È l’unica che possiamo passare soli
soletti.»
«No, non mi piace.» Osservò il composto
chimico, agitandolo appena. «Mi passi la fiala con il liquido
verdognolo?»
«Ti va di uscire con me?»
«Ti ho chiesto la fiala.»
«E io ti ho chiesto di uscire. Venerdì sera sei
libera? Pensavo di venirti a prendere dopo le lezioni, ti porto a cena
fuori.»
Capendo che lui non avrebbe abbandonato quella sua espressione da
allocco nel giro di poco tempo, Nami afferrò da sola
ciò che le serviva, continuando l’esperimento
chimico. «Credevo che il venerdì
lavorassi.»
Sanji si poggiò al banco con i gomiti. «Come
sempre, sì. Il vecchiaccio mi ha dato il giorno libero.
Allora, ti va?»
Sospirò, dubbiosa anche solo di arrivarci viva, al
venerdì. «No, spiacente.»
Il biondo sospirò a sua volta, vagamente mesto.
«Mi costringi a trascorrere il weekend da solo.»
«Non credo che per te sia un problema trovare
compagnia», gli rispose, ancora indaffarata
nell’attività assegnata loro dal professore,
intento a sgridare un poveretto che aveva fatto cadere per terra una
boccetta di vetro, frantumandola in mille piccoli pezzi.
Sanji ignorò il fracasso, continuando a guardare la
compagna. «Una serata senza impegni, Nami, da amici. So bene
che non provi nulla per me», aggiunse con voce più
bassa.
La rossa lo conosceva abbastanza bene da sapere quanto lui detestasse
mostrarsi debole e alla ricerca di approvazioni, ma leggere una
così tanta tristezza in quegli occhi azzurri fu un colpo al
cuore. Sanji faceva bene a credere di non avere alcuna chance con lei
– era fin troppo un Don Giovanni per i suoi gusti
–, ma non aveva motivi per negargli una serata tra due buoni
amici.
Finalmente si decise. «Be’, immagino che offrirai
tu, non è vero?»
Assecondando l’aria volutamente civettuola della ragazza, il
biondo si trattenne dal volteggiare per tutta l’aula.
«Certo! Ti offrirò una cenetta coi fiocchi. Hai
preferenze sul locale?»
Lei fece per pensarci su, mentre posò un po’ del
composto tra due sottili lastre di vetro, che successivamente prese a
osservare tramite il microscopio che le stava di fianco.
«Scegli tu. Basta che non sia nulla di pesante, sono a dieta.
Mmh, questo
non è ancora pronto…»
«Ti va del sushi? Hanno aperto un nuovo ristorante vicino
Piazza Gyoncorde. Sono solo venti minuti in macchina.»
«Vada per il sushi, allora. Passa da me alle sette e mezza,
l’indirizzo lo sai.»
Che gli dèi fossero finalmente dalla parte di Sanji? Era
davvero riuscito a strappare un appuntamento a Nami? Se avesse avuto un
paio d’ali incollate alla schiena, le avrebbe spiegate e si
sarebbe alzato in volo alla velocità della luce. La sua
contentezza era indescrivibile, nonostante nel suo petto albergasse
ancora uno spillo amaro, il quale non faceva altro che ricordargli
dell’esistenza della parola amicizia. Sanji avrebbe voluto di
più, molto di più, ma solo l’idea di
poter finalmente andare da qualche parte con lei, senza
nessun’altro membro della combriccola a fare da incomodo, era
così allettante da annebbiargli la mente come il fumo delle
sigarette che aspirava, gironzolando nel suo distruttivo vizio preso
qualche annetto prima, quando voleva mostrarsi grande dinanzi ai suoi
colleghi di lavoro.
Il sorriso che aveva in volto andava da un orecchio all’altro
– quasi gli facevano male le guance – e il ciuffo
di capelli che portava a mo’ di frangia troppo lunga faticava
a contenere lo sguardo ammirato che fuoriusciva dai suoi occhi blu,
tutto dedicato alla rossa che appuntava dei dati sul quaderno di
chimica con la sua scrittura precisa e ordinata.
«Sarà un onore, amore mio.» Se nessuno
dei due avesse indossato quegli scomodi e vagamente maleodoranti guanti
di lattice, avrebbe tirato fuori le sue maniere da gentiluomo
d’epoca e le avrebbe fatto un baciamano davanti a tutta la
classe. «Posso esserti d’aiuto in qualche
maniera?»
Nami quasi non credette alle proprie orecchie. «Direi di
sì», rispose contenendo il proprio sollievo.
«Manca ancora qualcosa a questo composto per renderlo come
vuole Caesar. Potresti occupartene tu?»
Fece il saluto militare. «Signorsì signora! Mi
dica cosa devo fare.»
Nami ridacchiò dinanzi alle buffe maniere del compagno; gli
porse poi una fiala. «Aggiungi cinque millilitri di questa
soluzione, non uno in più. Mi hai capito? Cinque»,
scandì.
Sanji annuì e, dopo aver scannerizzato con gli occhi tutto
il materiale presente sul loro banco, si appropriò del
contagocce. Immerse il beccuccio nel cilindretto di vetro e
aspirò la quantità indicata dall’amica
per portare a termine quel faticoso esperimento scientifico.
Certo che Nami era brava anche in quella materia. I suoi gusti
personali mettevano in prima posizione le materie artistiche e
umanistiche, richiamando le sue spiccate doti nel disegno e la sua
profonda benignità; che importava se certe volte mostrava un
pessimo carattere, quando poi era in grado di esprimersi in sorrisi
così dolci da essere in grado di sciogliere il cuore di
chiunque? Effettivamente, a pensarci, a Sanji non veniva in mente
nessun ambito in cui quella ragazza dai lunghi capelli rossi peccava
– e a proposito di quei fili di rame! Se li era legati in
alto in modo che non le dessero noie davanti agli occhi, scoprendo la
linea del suo collo liscio su cui il biondo avrebbe volentieri posato
un bacio casto. Insaziabile, scese a guardarle le mani, bianche e
curate, con il dorso appena sporco dell’inchiostro nero che
seminava la penna che reggeva per scrivere; faceva a cazzotti con il
latte del camice da laboratorio, ma s’intonava bene con il
blu scuro dei suoi inseparabili jeans skinny. Nel suo insieme di
colori, altro che quadro astratto – Nami era un museo intero.
«Hey, voi in seconda fila! Che state combinando?!»
Nami ci mise qualche frangente per capire che il professor Caesar ce
l’aveva proprio con loro. Abbassò lo sguardo,
controllando le condizioni del microscopio e i fogli del quaderno ad
anelli, non trovando nulla di anomalo. Storse il naso; con un pessimo
presentimento, si voltò a guardare Sanji e vide
l’orrore.
«Che diamine hai fatto?! Ma mi ascolti quando parlo?!
Idiota!»
«Eh?»
Aveva posato il contagocce sul banco e versato l’intero
contenuto della fiala nel composto. Il risultato era quel vulcano che
si era formato nel giro di un attimo, macchiandogli il camice, i
pantaloni, il banco e mandando all’aria l’intero
esperimento. L’insegnante urlava con isteria, i suoi capelli
crespi sparati all’insù dall’agitazione.
«E non pensate di passarla liscia»,
sibilò rosso in viso, voltandosi per tornare verso la
cattedra e cercare un buon modo per assegnar loro una punizione
esemplare, che avrebbero ricordato anche in una lontana vecchiaia.
Zuppo di chissà-che-cosa-aveva-creato
fino ai calzini, Sanji faticò a girarsi verso Nami,
già consapevole che il castigo più grave
l’avrebbe ricevuto da lei. Si congelò
all’istante quando incontrò il suo sguardo
furente; il sudore gli appiccicò i capelli più di
quanto non avesse già fatto l’ormai ex composto
chimico, e desiderò avere una pala in mano per scavarsi una
fossa e sparire seduta stante.
«Ti sei giocato tutto», disse lei con voce ferma e
grave, come se stesse tentando in ogni modo di non mettersi a urlare
per non aggravare la sua condizione da peggiore della classe.
Il ragazzo avrebbe tanto voluto spiegarle che si era trattata di una
stupida disattenzione, che avrebbe convinto il professore a chiudere un
occhio su di lei per concentrare l’altro su di lui, in modo
da contenere i danni, ma non trovò alcuna scusa plausibile
per giustificare la sua imperdonabile distrazione.
Perché Sanji si era incantato a guardarla e aveva perso le
parole.
Angoletto degli Easter
Egg!!
1. Vi
dovrei cambiare i connotati […] bazooka:
rimandano alle tipiche frasi rissose pronunciate rispettivamente da
Sanji, Zoro e Franky nell’opera originale.
2. Evening
Drink Less: nome rivisitato e inglesizzato di un locale
che si trova dalle mie parti. Non ci sono mai andata perché
non sono un’amante delle discoteche, ma so che è
frequentato principalmente da neodiplomati.
3. L’unico
esperimento che li aveva fatti rabbrividire […] scopi
scientifici: è un riferimento a un episodio di
‘Ned – Scuola di sopravvivenza’ I RISULTATI POSSONO
VARIARE.
4. Quella
volta in cui aveva – per errore – creato un gas
letale in laboratorio: è proprio lui, Regno di
Morte! Che bella la saga di Punk Hazard :’)
5. Il
risultato era quel vulcano […] mandando all’aria
l’intero esperimento: allusione al videoclip di
‘Teardrops on my guitar’, canzone di Taylor Swift.
Angoletto
dell’Autrice!!
Fun fact: ho pronto questo capitolo da un anno ma lo sto pubblicando
solo ora perché mi sono scordata come si usa NVU ((il
programma che uso per inserire il codice HTML, dato che quello che
fornisce EFP non mi funziona da millenni)) e quindi ho dovuto
re-imparare. E sono un po’ lenta. E stupida.
ANYWAY-- questo capitolo mi piace molto *modestia mode: on*
perché mi sono divertita parecchio a scriverlo, ho faticato
poco e non ho forzato nulla. E visto che vi ho fatto aspettare tanto,
vi regalo tre spoiler del prossimo aggiornamento:
- un’azione in buona fede di Luffy avrà una
conseguenza a lungo termine su qualcun altro;
- un nuovo personaggio farà la sua comparsa;
- una mancanza da parte di un personaggio farà cadere la
prima tessera di un domino.
BASTABASTABASTA ho detto pure troppo!!!!!
Vi ringrazio per aver letto e vi do appuntamento al prossimo capitolo!
Per ingannare il tempo, scrivetemi una recensione *occhiolino tattico*
e seguitemi su Twitter (@about_goldrush)
e su Wattpad (dove ho due account: @channy_the_loner
e @about_goldrush)
A presto,
–Channy
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Capitolo 6 *** Irony, Grease and He didn’t ***
5
Irony, Grease and He
didn’t
«Allora? Cos’hai scoperto?»
«Un cazzo di niente.»
«Perfetto», disse una ragazza dai lunghi capelli
color cipria con palese tono sarcastico.
Smoker risucchiò una quantità asfissiante di fumo
dal suo sigaro, per poi ricacciarla con un grugnito. «Mi sta
sfuggendo qualcosa, ne sono sicuro», disse a denti stretti.
«Ho la soluzione sotto i miei occhi, ma non riesco a
vederla.»
Anche lei aspirò del fumo, ma da una sigaretta.
«Quei ragazzi non hanno fatto niente, mettiti
l’animo in pace.»
«Non dire stronzate, Hina, per cortesia.»
«Hancock ha ragione. Sei ossessionato e ti stai solo rendendo
ridicolo.»
«E va bene, mettiamo che quel branco di idioti non ha fatto
nulla. Come spieghi la storia dei trofei rotti?»
«Mh,
probabilmente un ragazzone della squadra di rugby ha pensato di dare
una spallata a quella vetrina.»
Lui osservò il cortile dinanzi a sé, gremito di
studenti dal lato dei distributori automatici, desiderosi di svuotarli
dal carico di merendine arrivato quella mattina stessa. «Ho
già verificato questa versione, e non è mai
successa. Senti quello che ti dico: c’erano segni di calci su
quelle coppe, ciò significa che qualcuno ha aperto quella
dannata vetrina e si è messo a giocare a football.»
«Eh?
Le hai fatte analizzare dalla scientifica?»
«Sei qui per darmi una mano sì o no?!»
Hina gli mostrò un sorriso sghembo, cacciando del fumo dalle
narici.
Al centro dei due fuochi, Tashigi pensò che, se Smoker fosse
andato avanti di quel passo, avrebbe fatto meglio a iniziare a scrivere
il proprio necrologio: i sensi di colpa la opprimevano e faticava a
tenere la bocca chiusa, ma doveva riuscirci. Non voleva neanche
immaginare le conseguenze di un’ipotetica confessione,
né l’espressione delusa di Smoker, né
quelle furenti di Nami e Zoro e tutti gli altri, né sentirsi
addosso l’occhio malgiudicante dell’intero
complesso scolastico.
Erano diversi giorni che non mangiava – precisamente cinque.
Il suo stomaco era sottosopra e si rifiutava di digerire gli alimenti
di un normale pasto; la ragazza stava tirando avanti gonfiandosi di
gallette di riso e insalata, e gli effetti collaterali di
quell’alimentazione fasulla avevano iniziato a manifestarsi
quarantotto ore dopo l’inizio del suo digiuno. Il suo pallore
accentuava il nero delle occhiaie, evidenti persino se sugli occhi
erano sempre calate le rettangolari lenti rosse. Sapeva di non poter
continuare in quella maniera, ma ovunque si girasse non riusciva a
trovare alcuna via di fuga dal suo perenne tormento.
«Hey, Tashigi, tutto bene?»
Cascata dalle nuvole, la corvina volse velocemente lo sguardo a Koby,
leale compagno di comitato, seduto su un gradino poco più in
là. «Sì, sì,
grazie.»
«Non mi sembra», insisté lui con la sua
caratteristica voce gentile. «C’è
qualcosa che ti dà a pensare.»
Lei deglutì. «Tu credi?»
Il giovane annuì. «Ti si legge in
faccia.»
La ragazza si sentì schiacciata dagli occhi scuri di Hina e
sperò di non darlo a vedere. Mostrò un sorrisetto
palesemente nervoso. «Nulla di cui ti debba preoccupare,
davvero. Ho dormito poco stanotte.»
Lui parve crederci, così come Hina e Smoker;
quest’ultimo si apprestò ad avvicinare nuovamente
il sigaro alle labbra, quando lo sguardo gli cadde sulla figura che si
stava avvicinando a loro a passo allegro e saltellante.
«Ehilà», salutò il nuovo
arrivato con un gran sorriso; ma cosa ci faceva lì, nel loro
angolo di ritrovo?
«Che vuoi?», tagliò corto il poliziotto.
Luffy arricciò le labbra. «Come sei scontroso,
fumoso», commentò alludendo al suo dannoso vizio.
«Sei venuto a confessare i tuoi crimini?»
Incrociò le braccia al petto tonico e scosse la testa.
«Non ho fatto nulla, lo giuro.» Si rivolse poi a
Tashigi, mantenendo la sua aria contenta: «Le ragazze ti
hanno invitata a pranzare con noi.»
La corvina strabuzzò gli occhi così tanto da
temere che i bulbi oculari fuoriuscissero dalle loro cavità.
«Che…?»
«Approfittiamo della bella giornata per fare un picnic ai
tavoli fuori. Hai il pranzo a sacco? Se non hai niente non ti devi
preoccupare, di solito Sanji porta sempre tantissime cose. Allora,
vieni?»
L’occhialuta, congelata in piedi, faticò a volgere
uno sguardo ai suoi colleghi. «Non credo sia una buona
idea…», riuscì a biascicare,
miracolosamente senza affogarsi con la saliva.
Sul volto di Luffy si dipinse un broncio bambinesco. «Ma Nami
e le altre ci tenevano tanto… Zoro e Usopp un po’
meno», aggiunse sottovoce, come se stesse parlando fra
sé e sé.
«Verrà.»
Questa volta Tashigi scattò in direzione di Smoker,
incredula e confusa. «Andrò?»
Lui soffiò sul volto di Luffy il fumo del sigaro.
«Non ho nulla in contrario.»
«Perfetto», rispose l’altro mostrando i
denti. «Allora ci vediamo dopo!»
Si allontanò così com’era arrivato,
lasciandosi dietro una scia di perplessità.
«Smoker», lo chiamò Tashigi visibilmente
preoccupata. «Cos’hai in mente?»
Lui temporeggiò – l’agitazione che lo
stava attanagliando fino a pochi minuti prima pareva essere stata
spazzata via. «Dovrei chiederlo io a te», rispose
con una spaventosa serietà. «Che rapporti hai con
quella gente?»
Stavolta fu lei ad attendere prima di rispondere, studiando i suoi
compagni, i quali avevano iniziato a fissarla come se fosse
un’estranea, e cercando una risposta a quel quesito. Mentire
fu l’unica buona scelta: «Nessun rapporto degno di
nota. Alcune volte ho avuto modo di parlare con Nico Robin e Nefertari
Bibi, suppongo sia per questo.»
«Quello ha nominato anche la tirchia, Pinocchio e la bussola
rotta.»
«Sono un gruppo. È inevitabile che mi sia
imbattuta anche in loro.»
Hina buttò il mozzicone di sigaretta nel posacenere che
aveva di fianco, schiacciandone la punta per spegnere la miccia; Koby
si fece un nodo più stretto alla bandana, come se temesse di
perderla da un momento all’altro.
Smoker grugnì nuovamente. «Capisco», le
rispose. «È un bene che sia così.
Ascolta qua.» Quando lei si accostò col viso, in
modo da porgergli un orecchio, continuò:
«Approfittane per ricavare informazioni. Sono scaltri e si
guardano in continuazione le spalle, ma hanno un’alta
concezione dell’amicizia. Diventa intima con qualcuno di loro
e riferiscimi quello che combinano.»
Tashigi sperò che lui non si accorgesse del sudore che le
aveva imperlato la fronte. «Devo diventare… una
spia?»
Il giovane strinse il sigaro consumato tra i denti. «Buon
lavoro.»
Che ironia della sorte.
***
Se quello spazietto claustrofobico fosse stato abbastanza grande da
poter ospitare il suo corpo, Bibi si sarebbe volentieri sigillata nel
suo armadietto, lasciandosi schiacciare dai libri, dalla scatola
contenente materiale da cancelleria di riserva e
dall’appuntito appendiabiti che serviva a ben poco.
Impalata davanti allo sportello aperto, fissava il romanzo che avrebbe
dovuto continuare a leggere con Rebecca e Shirahoshi; il loro
appuntamento giornaliero era stato rimandato al giorno seguente per
lasciare spazio al pranzo che avevano organizzato i suoi amici,
nonostante, anche questa volta, la ragazza fosse restia a prenderne
parte. L’ondata d’insicurezza che l’aveva
travolta giorni addietro non aveva accennato a sloggiare dal suo animo,
appesantito come un lenzuolo appena uscito da una lavatrice.
«Così non risolvo nulla», disse a bassa
voce. Se non ci fossero stati i suoi capelli azzurri a caderle sul viso
come una tenda, un estraneo le avrebbe letto il labiale e
l’avrebbe derisa per star parlando da sola.
«Sì, ma come faccio?», si
domandò mordicchiandosi l’unghia del pollice.
La soluzione migliore sarebbe stata quella di far finta che quella
conversazione non fosse mai avvenuta, anzi, cancellarla completamente
dalla mente – forse sbattere la testa da qualche parte
avrebbe potuto aiutarla. Probabilmente Luffy se n’era
dimenticato; mostrandosi impacciata in quel modo ai suoi occhi non
avrebbe portato altro che conseguenze a cui lei non voleva neanche
pensare, come un interrogatorio non solo da parte del ragazzo, ma da
tutti gli altri. Respirò profondamente per calmarsi: i suoi
amici erano brave persone e il suo dialogo con Luffy era stato solo una
bugia bianca. Non aveva nulla di cui preoccuparsi.
Pertanto, con un raccoglitore tra le braccia dato che nello zaino non
entrava, s’incamminò verso i tavoli del cortile.
«Hey, aspetta!»
Nessuno aveva fatto il suo nome, eppure Bibi si voltò lo
stesso; scoprì che il ragazzo che aveva parlato ce
l’aveva proprio con lei, nonostante non l’avesse
mai visto prima d’allora. Non era eccessivamente alto; i
primi due fattori che risaltarono agli occhi grigioperla della ragazza
furono i suoi capelli brillanti di gelatina e una cicatrice vicino
all’occhio sinistro. Schiuse le labbra:
«Dimmi.»
Lui si avvicinò rapidamente e le consegnò una
manciata di fogli. «Ti sono caduti questi.»
Bibi se li rigirò tra le mani, riconoscendo immediatamente
la propria scrittura. «Oh,
non me n’ero accorta.» Gli sorrise.
«Grazie.»
«Dovere», le rispose lui, ma senza alcuna briciola
di presunzione o narcisismo nella voce. «Semini spesso i tuoi
appunti in giro?»
Lei aprì il raccoglitore e li ficcò alla meglio
tra le altre pagine. «No, a dire il vero. Solo quando non ho
abbastanza spazio nello zaino.»
Lui le osservò la borsa con interesse. «Cazzo,
deve essere pesante. Perdona il francesismo.»
Bibi ridacchiò divertita. «Figurati.»
«Vuoi che ti aiuti a portare le cose?», le propose
con uno sguardo vagamente ammiccante.
L’azzurra ringraziò divinità astratte
per l’esistenza di Sanji – abituata
com’era alle sue longeve avance, era solo grazie a lui che
aveva imparato a declinare i flirt dei ragazzi che le ronzavano attorno
di tanto in tanto. «Non ti scomodare. Non sembra, ma sono
forte.»
«Non lo metto in dubbio», le rispose lui.
«Anche io non sono male. Gioco nella squadra di
rugby.»
Fu solo allora che Bibi notò che indossava una t-shirt con
il logo della scuola, e la collegò immediatamente allo
sport; difatti in quegli anni l’aveva vista indosso
unicamente ai giocatori di football, pallacanestro e volleyball, di cui
lei aveva fatto parte per un anno.
«Deve essere impegnativo», commentò.
«Però porta tante soddisfazioni», le
disse lui. Si voltò indietro perché richiamato
dai suoi compagni; fece segno loro di attendere e tornò a
rivolgersi alla ragazza. «Qualche volta vieni a vedere gli
allenamenti. Puoi portarti anche da studiare. Le urla del coach in
sottofondo sono un toccasana per concentrarsi.»
Sorrise nuovamente. «Ci penserò.»
Si dileguarono entrambi, ognuno nella propria direzione.
Bibi arrivò in fretta al luogo dell’incontro,
improvvisamente col cuore leggero; salutò calorosamente i
suoi amici, dimenticando i pensieri negativi che l’avevano
devastata fino a poco tempo prima, per poi accomodarsi sulla panca di
legno e tirando fuori dallo zaino il contenitore del pranzo, imitata da
Robin e Chopper. Mancava ancora qualcuno all’appello; di Zoro
nessuna traccia – che si fosse smarrito da qualche parte?
– così come era sparito Franky. Arrivarono
entrambi pochi minuti dopo con delle lattine di bibite gasate comprate
a pochi spicci dai distributori. Fecero spazio affinché si
potessero sedere, e mangiarono ben stretti gli uni agli altri.
Risero delle buffe imitazioni di Luffy e Usopp i quali, con le voci
alterate per calarsi al meglio nelle parti, avevano preso a
scimmiottare il vicepreside Spandman e il preside Sakazuki, beccandosi
inevitabilmente occhiatacce da parte di chi passava di lì
per caso e li udiva.
«Vi siete completamente bevuti il cervello o
cosa?!»
Entrambi furono rapidi a levarsi dei bastoncini dalle narici e a far
finta di star mangiando come delle persone normali, nonostante ci fosse
Chopper a smascherare la loro messa in scena, ancora reduce dal
soffocamento mancato dovuto alle risate. Tutti i presenti si voltarono
verso la nuova arrivata: Tashigi stava in piedi davanti a loro con le
mani chiuse in pugni e un’espressione irata in volto.
«Guarda chi si vede», la salutò Robin;
aveva la bocca pulita, come se non avesse affatto messo qualcosa sotto
i denti.
«Ah,
sei venuta alla fine», le disse Luffy con la bocca piena di
mozzarella. Il latte gli fuoriusciva dalle labbra, colando lungo il
mento sbarbato. «Non ci speravamo più.»
Sanji sfoderò un sorriso entusiasta.
«Ben arrivata, dolce Tashigi.»
Lei strinse le palpebre, contando mentalmente da uno a dieci.
Ripeté a voce più bassa: «Cosa avete in
testa?»
Bibi si mordicchiò il labbro inferiore, cogliendo il
malessere dell’altra. «Pensavamo che le circostanze
in cui ci siamo incontrati per la prima volta non fossero tanto
allegre. Così abbiamo pensato che potesse essere carino
chiacchierare in un contesto più… agiato,
ecco.»
Tashigi ci impiegò qualche secondo per replicare:
«Noi non dovremmo neanche rivolgerci la parola.»
«Ecco, sono d’accordo»,
mormorò Usopp con le gambe che gli tremavano.
«Come siamo scontrosi.»
«Taci, Roronoa», rispose piccata. Si rivolse a
Luffy: «E poi, come ti è venuto in mente di
venirmelo a chiedere mentre ero con Smoker e Hina?»
«Perché, scusa?», fece lui.
«Ti ha dato fastidio?»
«Tu…» Dovette sforzarsi per mantenere un
certo contegno. «Hai la minima idea di cosa potrebbe
succedere se loro due venissero a scoprire cosa è successo
tra di noi?»
Il moro fece per pensarci su; fece poi spallucce. «Non lo
scopriranno. Vuoi mangiare?»
«No che non voglio mangiare!»
Un tonfo catturò l’attenzione di tutti: si
voltarono verso Nami la quale, con un nervo ben visibile che le pulsava
al centro della fronte, aveva chiuso di scatto il libro che stava
leggendo. La rossa, in un silenzio che non prometteva nulla di buono,
squadrò i suoi compagni a uno a uno; poi parlò:
«Che cosa hai fatto, scusa?»
Luffy, capendo che ce l’aveva con lui, le rispose con un gran
sorriso. «L’ho invitata a pranzo come volevi
tu.»
«E l’hai fatto davanti gli altri del Comitato
studentesco.»
«Erano lì.»
Si lanciò in avanti per strozzarlo. «Ma vuoi
riflettere prima di fare le cose?!»
Allarmato, Chopper afferrò la ragazza per la vita e
trascinandola indietro, in modo tale da farle staccare le mani dal
collo dell’amico. «Lasciami
immediatamente!», sbraitò lei. «Dopo
questa lo devo solo ammazzare!»
«Ha ragione lei, Chopper. Questo deficiente per rigare dritto
ha bisogno dei mezzi pesanti. Adesso lo colpisco col mio pugno di
ferro!»
«Non ci provare, Franky!»
Robin rise in maniera composta. «Hey, sentinella»,
disse rivolgendosi a Tashigi. «Tieni per te anche questa
scenetta, okay?»
L’occhialuta annuì con incertezza –
troppe erano le stranezze a cui stava assistendo negli ultimi tempi.
Quando il viso di Luffy tornò di un colorito normale e i
suoi polmoni ripresero a funzionare correttamente, urlò alla
rossa: «Ma sei impazzita?! Mi hai fatto male!»
«Era proprio quello che volevo fare.»
«Cheee?»
Assistito dalla sua cavalleria e soprattutto dalla sua gentilezza,
Sanji s’intromise nella discussione. «Luffy, Nami
ha ragione. Se Smoker iniziasse a sospettare che anche Tashigi
c’entri qualcosa con la storia di Halloween, sia per noi che
per lei sarebbe la fine. E non incolpare Nami per i suoi modi, cerca di
capirla, non sono giorni semplici per lei.»
Luffy mise il broncio.
Sul viso della rossa si stampò un sorriso. «Ben
detto, Sanji.»
«Ti sosterrò in qualsiasi momento, amore
mio!»
«Ne sono convinta. Ora come ora non ho molto da offrirti come
ringraziamento… Ci sono! Vuoi una mentina? La metti nella
Coca-Cola, così già che ci sei fai esplodere
anche quella.»
Tashigi le rivolse uno sguardo a metà tra lo stupito e il
confuso. «Esplodere…?»
Solo in quel momento i presenti notarono che il sorriso sul volto di
Nami non era altro che un ghigno tremolante dalla rabbia. Con voce
isterica rispose: «Non hai saputo? Eppure ne parlano tutti.
Questo cretino ha fatto saltare in aria il laboratorio del professor
Caesar.»
Sanji forzò una risata per mascherare la vergogna.
«Non proprio, però…»
Zoro si sganasciò dalle risate. «Avrei pagato oro
per assistere!»
«Ma se non hai un centesimo, alga ambulante.»
Usopp rise a sua volta. «Tutti avremmo voluto
esserci.» Aggiunse poi, calcando la voce per mostrarsi
superiore: «Andiamo, gli esperimenti di Caesar sono
banalissimi. Come avete fatto a sbagliare?»
«Avete?»,
scandì Nami. «Fino a quando quella maledettissima
miscela era nelle mie mani andava tutto bene. Poi gli ho chiesto di
fare una cosa, una!»
Il biondo lasciò perdere il battibecco a cui aveva dato vita
con Zoro per rivolgersi nuovamente a lei: «Infatti
è stata colpa mia, Nami. Quei compiti extra avrebbe dovuto
assegnarli solo a me.»
«Non serve che fai il sottone ora», gli disse.
«Tanto ormai la ricerca l’ho fatta, devo solo
consegnarla.»
Usopp avvicinò una mano a un orecchio. «Riuscite a
sentirlo? Questo rumore è il cuore di Sanji che si
spezza.»
Ricominciarono tutti a ridere, meno che Tashigi, sentendosi ancora
spaesata in quel gruppo di matti e allibita dalla loro spensieratezza
– perché, l’aveva capito, era quello lo
stato d’animo che condividevano ogni giorno, senza
preoccuparsi troppo per le conseguenze delle loro azioni. Per quanto
alcuni di loro potessero mostrarsi sgarbati o irritati,
l’occhialuta comprese che nessun conflitto tra loro sarebbe
mai durato a lungo.
Accennò un sorriso. «Fate attenzione»,
mormorò. Girò i tacchi e si allontanò,
senza prima inciampare nella radice di un albero.
I ragazzi la guardarono, improvvisamente muti, come se fino a pochi
istanti prima non fosse accaduto nulla.
«Non è cattiva», constatò
Luffy con sorriso che mostrava i denti.
«Ne siamo proprio sicuri?», domandarono Usopp e
Chopper.
Sanji si accese una sigaretta. «Una donna con un sorriso
dolce come il suo non può avere brutte
intenzioni.»
«Sarà», disse Zoro, le dita delle mani
intrecciate dietro la nuca. «Ma è meglio non
fidarsi.»
«Come sei acido», commentò Robin col
volto poggiato sul palmo di una mano.
«Sta’ zitta.»
«Hey, pezzo di merda, come ti permetti di rivolgerti a lei in
questa maniera?!»
***
Il suo sguardo attento e nascosto la vide dirigersi verso
l’aula di storia, dove avrebbe seguito la lezione successiva
da lì a pochi minuti. C’era qualcosa di strano nel
suo comportamento, ma era ancora presto per fare ipotesi.
Con spirito di risoluzione, decise che avrebbe continuato a tenere
d’occhio la situazione.
***
Uscì di casa con una contentezza che faticava a restare
intima; se avesse voluto attirare l’attenzione su di
sé, si sarebbe volentieri messo a saltellare lungo tutto il
marciapiede, fino alla sua destinazione. Abitare a poca distanza dal
centro gli piaceva molto: probabilmente gli faceva storcere il naso
dover fare tutto di corsa per arrivare in tempo a un appuntamento,
poiché dalle sue parti non passava alcun autobus che potesse
dargli un passaggio, ma in giornate tranquille si dilettava a
passeggiare in lungo e in largo. Chopper era bassino, ma aveva il passo
svelto come quello di un cervo.
Il tragitto durò inconsciamente poco, ed era stato riempito
dai fischiettii allegri del ragazzo, accompagnati in tutte le direzioni
dai soffi di vento autunnale. La libreria, con la sua insegna
illuminata dai neon e con le vetrine colme di volumi di ogni genere,
era affascinante; Chopper ebbe un brivido lungo la schiena –
una scarica elettrica che solo i libri, con le loro conoscenze e le
loro storie da raccontare sapevano infondergli.
Incapace di attendere anche un solo minuto in più, si
avvicinò alle porte scorrevoli, le quali captarono la sua
presenza e si aprirono silenziosamente; il giovane varcò la
soglia del negozio e inspirò profondamente l’odore
di carta che impregnava l’aria di quel luogo magico. Mentre
si dirigeva verso il reparto che gli interessava, tuffò le
mani in tasca: era felice di avere nuovamente i soldi che la settimana
prima aveva miseramente consegnato a quella carogna di Kidd. Con una
profonda vergogna, aveva deciso di raccontare l’intera
vicenda all’unica persona che viveva insieme a lui; sua nonna
l’aveva ascoltato mentre beveva del vino a tavola
direttamente dalla bottiglia e gli aveva detto che avrebbe dovuto
cavarsela da solo. Eppure, a distanza di pochi giorni, lo aveva visto
cercare disperatamente altri oggetti da vendere per racimolare denaro;
pertanto, intenerita dalla sua determinazione e consapevole che
l’orgoglio doveva esser messo da parte, gli aveva consegnato
un paio di banconote profumate.
Chopper sorrise sotto il cappello rosa che indossava, prendendo a
leggere i titoli dei libri sullo scaffale che aveva fronteggiato.
Trovò diversi manuali di medicina, tutti inevitabilmente
grossi, e decise di afferrarne uno che gli pareva più
affidabile degli altri. Ma nel momento in cui la sua mano
toccò la copertina del volume, questi venne preso anche da
un’altra persona; si voltò alla sua destra,
infastidito, ma dovette sgranare gli occhi dallo stupore.
«K-K-Kaya?»
La ragazza lo scrutò con occhi curiosi. «Ci
conosciamo?»
“Ecco, lo
sapevo, era meglio far finta di niente”,
pensò, improvvisamente zuppo di sudore. Disse invece:
«Ci siamo incontrati a scuola.»
Lei arricciò le labbra, pensierosa. Fu allora che il giovane
realizzò che, in realtà, l’unica volta
che l’aveva vista era in occasione della festa abusiva di
Halloween, quando Usopp era andato a sbatterle contro ed era stato
così inopportuno con le parole da spingerla ad allontanarsi
alla svelta.
Si diede mentalmente dell’idiota.
La bionda, dopo un lasso di tempo che parve interminabile,
annuì. «Sì, è vero.
Però io non conosco il tuo nome.»
Si affrettò a rispondere. «Chopper. Ehm, piacere di
conoscerti.»
Lei sorrise per la prima volta – e Chopper dovette ammettere
che aveva un’espressione dolcissima. «Piacere
mio.» Indicò poi il libro. «Medicina
anche tu?», chiese con fare retorico.
«Sì, è il mio sogno da sempre.
È un peccato che questo sia l’ultimo
manuale.» Glielo porse. «Tienilo tu.»
Kaya scosse la testa, agitando appena anche le mani pallide.
«Non preoccuparti, volevo solo dargli un’occhiata.
Comprerò un’altra edizione.»
«Sei sicura?», domandò Chopper,
vagamente dispiaciuto. «Dicono che questo sia il
più completo e affidabile.»
«Già, l’ho sentito dire
anch’io», gli rispose. «Ma davvero,
prendilo. Dopotutto, l’avevi adocchiato prima tu.»
Chopper dubitò di quella versione dei fatti, tuttavia
capì che insistere non sarebbe servito a molto.
«Ti ringrazio.» La vide poi chinarsi a prendere un
manuale diverso, prendendo a sfogliarlo con cura, desiderosa di
accertarsi di prendere la scelta più giusta –
dopotutto era in ballo il suo futuro. Non aveva fretta di rincasare,
pertanto decise di aspettarla; era il minimo che potesse fare, dopo la
gentilezza che lei gli aveva regalato.
Quando Kaya si fu decisa, raggiunsero insieme la cassa e ognuno
pagò la propria merce; il commesso porse loro i sacchetti di
carta con dentro i novelli acquisti e li vide uscire insieme dalla
libreria. L’aria fredda della stagione autunnale inoltrata
schiaffeggiò i loro volti – il naso di Chopper
divenne blu dal gelo, invece quello della ragazza di tinse di rosso.
«Grazie per la compagnia», disse
quest’ultima tornando a sorridergli.
«Figurati. Grazie a te per il libro.»
Kaya guardò l’orario dal cellulare. «Mh, devo proprio
andare adesso», mormorò a sé stessa, ma
Chopper la udì ugualmente. Prima di avviarsi verso casa, gli
si rivolse nuovamente a lui: «Che ne dici di studiare insieme
per il test, qualche volta?»
Il ragazzo sorrise a sua volta. «Certo! Sarebbe bello
sostenerci a vicenda.»
La bionda confermò e aggiunse: «Frequenti qualche
club? Perché pensavo che potremmo vederci in aula studio
dopo le lezioni.»
Lui annuì energicamente. «Per me va bene, non sono
iscritto a nulla.»
«A lunedì allora.»
«A lunedì.»
La salutò scuotendo la mano nonostante lei non potesse
vederlo, poiché gli dava le spalle allontanandosi a passo
calmo. Chopper, poi, si avviò a sua volta verso casa,
stavolta camminando velocemente perché desideroso di entrare
nel salotto e abbracciare un termosifone bollente.
Sorrideva, contento di aver trovato una compagna di studi, qualcuno con
cui parlare dei suoi argomenti preferiti senza preoccuparsi di
risultare noioso. Non vedeva l’ora di telefonare Usopp per
raccontarglielo.
Si bloccò sul posto.
Usopp.
Il sorriso morì. “Accidenti.”
***
Nami aveva uno strano rapporto con la televisione.
Considerava indispensabile avere uno schermo, anche se piccolo, nella
camera che condivideva con sua sorella maggiore perché non
aveva alcuna voglia di contendersi il televisore con il resto della sua
famiglia – non avrebbe rinunciato al telefilm in prima serata
del trentanovesimo canale per nulla al mondo. Eppure, per la restante
parte della settimana, quella scatola piazzata sopra al comò
di fianco alla porta era buona solo per prendere polvere. Dava fastidio
soprattutto dover fare zapping e non trovare mai un programma
interessante da poter guardare; schiacciato il pulsante
d’accensione, puntualmente ci si ritrovava dinanzi a una
serie infinita di pubblicità, tra telepromozioni di
pentolame e sponsor di medicinali e integratori dalla dubbia efficacia
– e ne erano così tanti da far venire voglia di
spegnere tutto e cercare un nuovo passatempo.
Se era consapevole di ciò, perché la ragazza si
era sdraiata sul letto e si era messa a guardare un pessimo talkshow
identico a tanti altri? Ascoltava le parole della conduttrice con falso
interesse, di tanto in tanto buttando un occhio al telefono posato
accanto a lei: mancavano pochi minuti alle sei di sera.
Era agitata e nasconderlo a sé stessa era
un’impresa impossibile; non riusciva a tenere le gambe ferme,
continuava a cambiare posizione e a controllare il tempo fuori dalla
finestra: era nuvoloso, ma non avrebbe piovuto. Era possibile uscire,
quindi?
Masticò un’imprecazione, decidendosi finalmente a
spegnere quell’inutile televisore e alzandosi in piedi,
lasciando il copriletto arancione sgualcito. Era il tardo pomeriggio di
venerdì e Nami non aveva affatto dimenticato di aver
promesso a Sanji di uscire. Non era ancora giunto l’orario
che avevano prefissato, ma lei non aveva neanche iniziato a prepararsi.
A dir la verità, non era neanche più sicura che
il ragazzo sarebbe per davvero passato a prenderla; oltre ai suoi
immancabili modi da gentiluomo, quel biondo aveva quella stramaledetta
capacità di leggerle nel pensiero: quando Nami era felice,
si sentiva libero di comportarsi in maniera frivola, strappandole anche
qualche risata divertita; quando Nami era triste, restava in silenzio e
non la forzava mai a confidarsi; quando Nami era arrabbiata, capiva che
avrebbe fatto meglio a restarle alla larga per un po’.
Senza che neanche rendersene conto, si era diretta verso il bagno per
farsi una doccia veloce. La rossa sapeva bene di averlo trattato in
maniera pessima durante l’intera settimana, furente per il
guaio che aveva combinato nel laboratorio di Caesar; per colpa sua,
aveva dovuto consegnare una tesi sugli argomenti trattati fino a quel
momento, approfondendoli con estenuanti ricerche e, di conseguenza,
perdendo del tempo prezioso da poter dedicare ad altro – Nami
era una persona pragmatica, pertanto detestava dover cambiare i propri
piani all’ultimo minuto. Però Sanji sarebbe
arrivato, giusto? Ci teneva tanto, lo sapeva. Il dubbio
l’assillava, ma non lo avrebbe chiamato per nulla al mondo
– troppo orgogliosa in primis, contraria a dargli false
speranze in secundis.
Al suo ritorno in camera, le uniche notifiche segnalate sul cellulare
provenivano dal gruppo con i ragazzi:
– Ma quindi
che facciamo a Capodanno?
– Oh
no…
– Qualsiasi
cosa, magari che non sia illegale stavolta
– Io direi di
organizzare un banchetto GIGANTE!!!
– Pensi sempre
e solo al cibo…?
Quella domanda, quella temutissima domanda era appena riaffiorata nelle
menti di tutti e li avrebbe tormentati fino al giorno prima del
veglione; ogni anno si presentava sempre lo stesso scenario: Usopp
proponeva mille opzioni e Zoro gliele bocciava tutte, poi Franky
tentava di convincere tutti di attendere il conto alla rovescia
nell’officina dove lavorava e alla fine si ritrovavano tutti
nella solita e squallida discoteca insieme a qualche gruppo di
conoscenti, di quelli incontrati per caso una volta per strada e con
cui si pretendeva di avere un bel rapporto solo per ottenere uno sconto
all’ingresso del locale prescelto.
Vestitasi, posò un paio di stivali in un angolo della
stanza, in modo che fossero pronti per essere indossati. Si sedette
alla scrivania e prese a girovagare per i social, storcendo il naso di
fronte alla ricchezza ostentata di chi si divertiva a postare contenuti
multimediali in continuazione.
«Che combini?»
Nonostante sua sorella fosse arrivata in punta di piedi, Nami non si
spaventò. «Sto studiando», rispose con
fare vago.
Nojiko alzò un sopracciglio, le mani puntate sui fianchi a
farla sentire moralmente in cima a una scalinata coperta da un tappeto
rosso. «Con i libri chiusi e il telefono in mano?»
Nami sospirò – quando la sorella assumeva quel
tono significava che stava insinuando qualcosa. «Stavo
facendo una pausa.»
L’altra ridacchiò. «Con chi devi
uscire?»
«Eh?
Con nessuno!»
«E allora perché ti sei vestita e
truccata?»
Roteò al cielo gli occhi sovrastati da un sottile strato di
ombretto. «Sei peggio di mamma quando fai
così.»
Nojiko continuò a ridersela, come se stesse guardando un
film comico. «Appena torna dal lavoro vedrai che ti
farà lo stesso interrogatorio. E se le dai le stesse
risposte che stai dando a me, non se la berrà.»
Nami posò finalmente il cellulare, senza prima mettere la
suoneria. «Piantala, non sto nascondendo niente.»
Si picchiettò un indice sul labbro, pensierosa.
«Vediamo… Se Robin c’entrasse qualcosa
me l’avresti detto subito, stessa cosa per Bibi. Devo dedurne
che si tratti di un ragazzo.» Sorrise maliziosamente e
domandò: «Lo conosco?»
Il volto di Nami divenne violaceo dall’imbarazzo mischiato
alla furia. «È in amicizia.»
«Oh,
quindi fa parte del tuo gruppo di amici», disse Nojiko.
«È Luffy?»
«Cos… No!»
«Fuori uno. Allora è quello con il naso
lungo.»
«Senti, basta così. Tanto di questo passo non
verrà nemmeno.»
«Aah,
ci sei rimasta male. Quindi tanto in amicizia non
è.»
La rossa dovette fare un respiro profondo per calmarsi. «Ne
ho abbastanza. Ti sto dicendo che non esco. Anzi, andiamo a preparare
la cena.»
Nojiko le mostrò un sorriso morbido. «Va bene,
sorellina.»
Nami credette che la sorella maggiore stesse iniziando a soffrire di
una strana forma di bipolarismo, ma preferì tenere quel
pensiero per sé stessa. Non guardò più
il telefono, abbandonandolo sotto la luce gialla della lampada da
scrivania, né desiderò di sentire la suoneria in
lontananza; cucinò per i suoi genitori, che rincasarono
esattamente un’ora dopo, e cenò in loro compagnia.
Nojiko non tirò più in ballo la questione,
limitandosi a lanciarle qualche occhiata di nascosto.
Quando tornò in camera, notò immediatamente altri
messaggi dei suoi amici:
– No, Franky,
non festeggeremo in mezzo alla segatura.
– Guarda che
ho intenzione di pulire per l’occasione!
– Davvero? Mi
domando da quanto tempo quel posto non veda l’ombra di uno
swiffer.
– Robin, non
ti ci mettere anche tu!!
– Li volete o
no i biglietti per l’Often Disco?
– NOOOO!!!
Sorrise e si unì finalmente alla conversazione, incapace di
togliersi di dosso quei vestiti.
Attendere ancora, nonostante ne fosse stata consapevole, fu tempo
sprecato: Sanji non arrivò mai sotto casa sua, né
si fece sentire.
“Meglio”,
pensò Nami mentre si struccava, pronta per andare a dormire.
“Tanto non me
ne importa nulla.”
Angoletto degli Easter
Egg!!
1. Adesso
lo colpisco col mio pugno di ferro: riferimento alla mossa
di Franky nell’opera originale, naturalmente.
2. Aveva
il passo svelto come quello di un cervo: be’, a
dire il vero Chopper è una renna, ma la famiglia animale
è quella! E ricordo a tutti che qui ha fattezze umane ;)
3. Sua
nonna l’aveva ascoltato mentre beveva del vino:
la dottoressa Kureha.
4. Telefilm
in prima serata del trentanovesimo canale: qui mi
riferisco a ‘Law & Order – Special Victims
Unit’, in onda sul canale 39. Questa serie
>>>>>>
5. Often
Disco: nome rivisitato di un locale minuscolo dove sono
andata una volta. Pessima compagnia, pessima musica, pessimi drink
pessima serata, ma almeno il giorno dopo sono partita per visitare la
splendida Firenze!
Angoletto
dell’Autrice!!
Ho fieramente sfiorato le cinquemila parole, ma vi dico già
che il prossimo capitolo sarà più corto.
È incredibile, mi sembra di aver scritto già
tantissimo e invece siamo solo al numero cinque! Spero che questa
storia vi stia appassionando così come sta appassionando me
o.o'
Avete capito chi è il giocatore di rugby? E siete riuscit* a
cogliere gli spoiler della volta scorsa? Io non sto più
nella pelle, voglio subito pubblicare la prossima parte! Ma devo
controllarmi… quindi vi dirò solo il titolo:
“Pineapple, Theatre and Hammer” ;9
A presto,
–Channy
|
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Capitolo 7 *** Pineapple, Theatre and Hammer ***
6
Pineapple, Theatre and
Hammer
Una delle attività che più gradiva da quando
aveva indossato i panni di custode della scuola era potersi sentire
libero di gironzolare per tutto il tempo che voleva, senza essere
disturbato da nessuno.
Ricordava bene i giorni in cui anche lui era uno studente, quando
l’unico momento in cui poteva calpestare le mattonelle di
quei lunghi corridoi era quel misero stacco tra una lezione e
l’altra, e non gli era permesso neanche di sgranchirsi le
ossute gambe poiché il suo armadietto si trovava sempre
troppo lontano dall’aula che ospitava la sua lezione
successiva, pertanto era costretto a correre senza guardarsi attorno,
senza salutare i suoi amici delle altre sezioni, senza sognare un
po’ con gli occhi aperti. L’affezione per quel
luogo era rimasta, e fu quel motivo a spingerlo a proporsi di lavorare
tra quelle mura; la paga non era alta, le tasche erano leggere come
piume, ma il suo cuore era ogni giorno colmo di felicità e,
soprattutto, senza rimpianto alcuno.
C’era un solo difetto che, imperterrito, tormentava la sua
vita lavorativa: era completamente incapace di mantenere
l’ordine tra quelle mura frastagliate di locandine e poster
d’ogni tipo.
Si sentì chiamare da qualcuno alle proprie spalle:
«Hey, Brook, cattive notizie! Una tipa ha rimesso la
colazione nei bagni del secondo piano.»
Voltandosi poté incrociare gli sguardi divertiti di due dei
suoi più grandi problemi. «Che state facendo, voi
due?»
«La lezione del professor Issho è troppo noiosa,
quindi ci facciamo un giro per ingannare il tempo.»
«State marinando le lezioni?!», fece il custode.
«Di nuovo?!»
«Andiamo, amico, fai finta di non averci visti.»
In compenso, il suo animo era dotato di una grande pazienza fruttata in
seguito ad anni e anni di yoga e meditazione. «Ace,
Sabo», li chiamò. «Capisco che la
gioventù sia una carica di adrenalina che vi spinge a
provare il gusto del brivido di venire scoperti, ma non potete fare
così tutti i giorni.»
«Io me lo posso permettere», disse Sabo con
l’aria di chi amava vantarsi. «I miei voti sono
tutti eccellenti. Chiuderanno un occhio sul comportamento.»
Ace roteò gli occhi al cielo – detestava
l’amico quando faceva il sapientone. «Pensa che
l’anno prossimo non ci saremo più. Goditi la
nostra presenza, Brook.»
«Se dici così sembra che tu debba morire da un
momento all’altro.»
«Oh,
sì, certo», scherzò. «Magari
per mano di Sakazuki, eh?»
«Con tutti i casini che combini, certo che ti può
ammazzare.»
«Ma per favore, non morirei neanche durante una
guerra.»
Sabo fece per replicare, ma venne fermato da Brook: «Se
continuate ad assentarvi, rischio di finire anch’io in guai
seri.» Aggiunse con aria benevola: «Non vorrete
mica che venga licenziato?»
«Brook, c’hai novant’anni, sarebbe anche
ora.»
«Io sono giovane e arzillo dentro, bello mio! Anche se sembro
solo un mucchietto d’ossa.»
Dovettero ammutolirsi all’istante, poiché
sentirono dei passi cadenzati procedere verso la porzione di atrio che
avevano occupato per discutere tra loro. Spinti dalla
curiosità – e da un non indifferente timore
– si voltarono in contemporanea alla loro destra per scoprire
chi fosse la persona in avvicinamento; scorsero immediatamente una
camicia viola indossata da un uomo molto alto, possedente un viso ovale
e un paio di sottili occhiali da lettura poggiati su un naso aquilino.
Aveva l’espressione intelligente, a tratti tonta, ma lo
strato di barba e le rughe accennate agli angoli degli occhi gli
conferivano un’aria vissuta che, se unita alla circostanza
che lo vedeva passeggiare a piede libero durante le ore di lezione,
fece pensare ai tre che dovesse trattarsi di una personalità
importante.
«Vi pregherei di parlare più piano. Di
là i ragazzi stanno svolgendo una verifica, e non riescono a
concentrarsi.» Aveva una voce vellutata e calma, come se non
fosse affatto infastidito, quindi risultando incoerente con la
lamentela appena espressa.
Il custode si schiarì la voce. «Chiedo perdono.
Stavo giusto spedendo questi due marinai in classe.»
L’altro li squadrò a sua volta, senza cambiare
espressione. «Per stavolta chiudo un occhio. E voi
due», fece rivolgendosi agli studenti, «imparate a
rigare dritto. Quando c’è lezione, si sta in
classe.»
Sabo rispose: «Lo terremo presente,
professor…?»
«Oh, giusto, non mi conoscete», disse
l’adulto. «Sono Marco Fenice, il nuovo docente di
fisica.»
Fece dietrofront
e camminò nella direzione dalla quale era arrivato, le mani
nelle tasche dei pantaloni e le spalle rilassate.
Ace diede un paio di gomitate scherzose a Sabo.
«L’hai visto, fratello? Sembra un ananas.»
L’altro dovette trattenersi per non ridere a gran voce,
continuando a osservare la stramba capigliatura
dell’insegnante.
Ma il professore arrestò il passo; mantenendo
l’umore placido, si voltò a guardare Ace e lo
squadrò da capo a piedi. «Ti ho
sentito», lo canzonò. E riprese a camminare.
***
«Più ci penso e più non ci
credo.»
«A che cosa?»
«Al fatto che mi hai iscritto senza né chiedermelo
né avvisarmi!»
Franky rise a gran voce. «Andiamo, fratello, cosa vuoi che
sia?»
«Cosa vuoi che sia?», lo scimmiottò.
«Io volevo frequentare il club di basket, non
questo!»
«Ma se fai schifo a giocare a basket.»
Usopp guardò da un’altra parte, colto in fallo.
«Be’, forse è vero, ma resta il fatto
che le mie intenzioni erano quelle di passare tutti i pomeriggi in
palestra ad allenarmi. Con la giusta motivazione e un costante
allenamento si diventa dei campioni.»
«Hey, Michael Jordan», lo richiamò il
professor Paulie. «Torna al lavoro.»
Sul volto del ragazzo si dipinse un’espressione seccata, ma
gli diede ascolto. La verità era che Usopp era un portento
nei lavori manuali e l’attività extrascolastica
dedicata alla falegnameria e al bricolage era fatta su misura per lui;
peccava nelle riparazioni degli oggetti, tuttavia nel crearli era un
vero genio. Aveva la capacità di far diventare le sue
fantasie realtà, sfruttando le sue profonde conoscenze nel
campo della matematica e della scienza.
«Qual è il nostro lavoro, esattamente?»,
domandò mentre prendeva gli attrezzi necessari per levigare
una tavola di legno.
Franky gli fece eco: «Già, ancora non sappiamo
nulla.»
Il professore restò seduto scompostamente alla cattedra.
«Prima di tutto dovete prenderci la mano, con i miei
attrezzi. Iniziate con qualcosa che vi fa comodo, poi passeremo a
progetti più concreti.»
Proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta
dell’aula; quando le fu dato il permesso di fare la propria
entrata, la persona abbassò la maniglia e aprì
lentamente l’uscio. «Buon pomeriggio,
professore», salutò con voce vellutata.
Franky si diresse subito verso di lei, contento di vederla.
«Nico Robin! Che ci fai da queste parti?»
La corvina sorrise cordialmente. «Sono qui per parlare con il
vostro insegnante.»
Il suddetto la stava fissando con la bocca spalancata.
«Tu…», riuscì a biascicare.
«Come diavolo ti sei conciata?! A scuola è
espressamente richiesto un abbigliamento decoroso, non…
questo!»
Robin diede una veloce occhiata al proprio vestiario, non trovando
nulla di sbagliato né nella camicia bianca coperta da un
leggero cardigan, né tantomeno nel pantalone a sigaretta; ma
Paulie continuò a squarciagola: «Troppo aderente,
troppo aderente! Fila immediatamente a metterti una felpa
larga!»
«Lascialo perdere, Robin, non sei indecente», le
disse Usopp, rimasto dietro al suo tavolo, sollevandosi gli occhiali
trasparenti da lavoro. «Che notizie porti?»
La corvina gli sorrise, ringraziandolo per la gentilezza, e porse al
professore un foglio di carta ripiegato più volte.
«È da parte del club di teatro»,
spiegò. «Il professor Sengoku vorrebbe che vi
occupiate di preparare la scenografia per lo spettacolo di
Natale.»
Paulie lesse con attenzione la nota del collega, facendo dei cenni
d’assenso di tanto in tanto, come se stesse mentalmente
spuntando le voci di una lista.
«Eh?»,
fece Franky. «Non credevo che ti interessasse il
teatro.»
«Non mi dispiace», rispose lei, «ma non
sono io a frequentare il club, se è questo ciò
che intendi.»
«Certo che sei proprio versatile»,
commentò Usopp giocherellando con un martello.
«Fa’ attenzione con
quell’affare», lo ammonì Franky.
«Rischi di farti male se non lo sai usare.»
L’altro fece un sorrisetto. «Ma che dici, amico?
È solo un semplice martello, non vedo come
possa…» Gli sfuggì di mano e gli
colpì il dito indice della mano sinistra. Durante un istante
di assoluto silenzio, gli occhi spalancati di Usopp si riempirono di
lacrime; cacciò un urlo di dolore che riecheggiò
per le pareti dell’aula.
«Usopp», fece Robin con preoccupazione mentre gli
si avvicinava a piccoli passi. «Stai bene?»
Lui si inginocchiò a terra, premendo forte sulla ferita con
la mano sana. «Che domande mi fai?»,
riuscì a mormorare in risposta.
«Professore?»
«Se l’è cercata», rispose del
tutto disinteressato.
Franky annuì. «L’avevo anche
avvertito.»
Robin faticò a non essere d’accordo con loro.
Tornò a rivolgersi all’infortunato: «Vai
in infermeria, sbrigati.»
Il riccio annuì; si rimise in piedi e, non curandosi di
portarsi dietro lo zaino scolorito, lasciò la stanza del
club.
«Stavamo dicendo», riprese Franky, «il
club di teatro?»
Robin si sistemò una ciocca di capelli dietro
l’orecchio. «Ah,
sì. Ero lì perché avevo accompagnato
una persona per la lezione. Il professor Sengoku mi ha chiesto di
portare qui il suo messaggio per non impegnare nessuno dei suoi
allievi.»
Franky alzò un sopracciglio. «E chi stavi
accompagnando?»
Lei gli rivolse un sorriso enigmatico.
***
«Che paaaalle…»
«Perché sei qui se non ti piace
recitare?»
«E che ne so? Io volevo andare a basket, ma mi sono ritrovato
qua.»
«Questa mi sembra di averla già sentita.»
Luffy fece un gran sorriso mentre Nami scuoteva la testa.
«Tu invece perché ti sei iscritta? Secchiona come
sei, non ti servono crediti.»
«Infatti», rispose lei, «mi è
stato chiesto di fare le audizioni per lo spettacolo e io ho deciso di
accettare.»
Luffy inclinò la testa di lato. «E
perché?»
La rossa fece spallucce. «Probabilmente perché io
sono una presenza indispensabile per la riuscita della commedia che
metteranno in scena quest’anno, sai, col mio carisma, la mia
bellezza…»
«Certo che sei proprio narcisista.»
Lei gli diede uno schiaffo così forte che Luffy temette gli
rimanesse un livido sulla pelle.
La loro lite fu interrotta dall’arrivo
dell’organizzatore del club; quando Sengoku salì
sul palco del teatro, tutti coloro che avevano aderito al progetto e
che se ne stavano seduti sulle poltroncine scomode e deformate della
sala si ammutolirono all’istante, come se improvvisamente
fossero interessati a ciò che l’insegnante aveva
da dire. Escludendo chi era lì perché
effettivamente appassionato della materia, gli altri, se si fossero
trovati presso un banco scommesse, non avrebbero puntato neanche un
soldo sulla serietà di Sengoku perché nelle loro
menti era solo un maestro prossimo alla pensione, che avrebbe speso
interamente per comprare crackers aromatici e camice orribili da
guardare. Eppure lui era serissimo mentre esponeva le sue idee per la
rappresentazione teatrale che avrebbe voluto presentare a un pubblico
– sperava – numeroso prima della pausa invernale.
Si era già procurato un copione abbastanza completo; la
persona che l’aveva scritto – non volle fare nomi,
nonostante la curiosità albergasse nei petti di chi ci
teneva, a far bella figura – gli aveva consegnato solo uno
schizzo di ciò che sarebbe stato poi il risultato finale.
«Voglio che leggiate queste pagine», disse mentre
distribuiva dei fogli spillati tra loro, «e mi riferiate le
vostre impressioni in merito. Dopodiché tutti insieme faremo
un lavoro di editing, e solo dopo questo sceglieremo le parti. Chi
soffre d’ansia da prestazione, non si preoccupi: ci sono
parecchie cose da fare dietro le quinte.»
Qualcuno si sentì libero di cacciare un sospiro di sollievo,
mentre altri ribattevano piccati: «Che ci state a fare, qui,
se non vi piace esibirvi?!»
Luffy strinse il proprio copione tra le dita, stropicciando le pagine
con la foga e la non curanza con cui le girava; la timidezza per lui
non era affatto un problema, e quale ruolo sarebbe stato migliore da
interpretare se non quello del protagonista?
E Nami, accanto a lui, condivideva quell’opinione.
***
Agli occhi di chiunque, quello poteva sembrare un normale manuale di
preparazione alla vita universitaria – eppure, agli occhi di
Chopper, era molto più di un mattone gravante sulla sua
schiena dolorante di quaderni e vario materiale scolastico. Il sapere
che quel libro trasmetteva era puro oro colato, gli occhi magnetici
della Maga Circe o il dolce e ritmico suono di un flauto per un
serpente a sonagli.
Chopper osservava le illustrazioni che coloravano le pagine affiancato
da Kaya, altrettanto affascinata dalle parole riportate nei paragrafi
accuratamente suddivisi. Erano dei flussi di conoscenza che circolavano
nei loro corpi a partire dai loro occhi, diventati i cuori di quel
processo di profondo apprendimento che li avrebbe accompagnati per la
vita, a partire da quelle routine di gioventù che
desideravano di smettere di respirare al più presto,
poiché il futuro che li attendeva appariva più
appetitoso se comparato al loro presente.
«Dev’essere proprio bello andare in giro con uno
stetoscopio al collo», disse lui con aria sognante.
La bionda sorrise. «A me piacerebbe lavorare in
pediatria.»
Chopper asserì col capo. «È uno scopo
nobile. Non riesco a immaginare quanto debba essere difficile per i
bambini affrontare i periodi di ricovero.»
«Già, nemmeno io.» Strinse il
raccoglitore tra le braccia. «Detesto dovermi svegliare la
mattina e sapere che qualche anima innocente là fuori stia
soffrendo. Vorrei avere il potere di debellare tutte le malattie
esistenti.»
Il ragazzo ascoltò le sue parole con attenzione, guardandola
ammirato. «Allora non sarebbe meglio che tu ti dedicassi al
campo di ricerca?»
Kaya ridacchiò, in evidente imbarazzo. «Purtroppo
sono una frana in chimica. Proverò e riproverò a
cimentarmi, ma non sono fiduciosa.»
Chopper comprese che avrebbe fatto meglio a cambiare argomento,
pertanto si guardò attorno nella speranza di trovare un
appiglio solido su cui andare a costruire un’intera
conversazione; contrariamente a ciò che avevano deciso
giorni prima, i due non si trovavano affatto in un’aula
studio per dedicarsi alla preparazione del test d’ammissione,
bensì avevano deciso di appoggiarsi direttamente
nell’infermeria scolastica per poter osservare da vicino gli
utensili del mestiere. Quella sala, del resto, era sempre vuota.
L’infermiera era solita declinare le proprie mansioni,
preferendo legarsi una fune attorno ai fianchi e restare incatenata in
segreteria, dove chiacchierava con i dipendenti di quel settore in
compagnia di molteplici bicchierini di caffè bruciacchiato e
amaro che, per il gusto di assaggiarlo, una volta Chopper stesso aveva
avuto l’intestino sottosopra per tre giorni consecutivi.
«Ehilà? C’è
nessuno?»
Voleva qualcosa di cui parlare? Eccolo accontentato.
Si raccapricciò quando le sue orecchie identificarono quella
voce che proveniva dall’anticamera dell’infermeria;
era fin troppo familiare e in egual misura capitava a sproposito,
provocando un brivido di paura e disapprovazione lungo
l’intera colonna vertebrale di Chopper. Perché non
aveva trovato il coraggio di dirglielo, di metterlo al corrente
dell’ultimissima novità e, nonostante il ragazzo
conoscesse l’amico come le sue tasche, non riusciva a
immaginare nessuna reazione in particolare che avrebbe potuto
travolgerlo all’udir quelle parole: si sarebbe arrabbiato?
Sarebbe stato contento? Si sarebbe rattristato? Era così
confuso e timoroso di fargli del male, che aveva preferito tacere e
sperare – invano – che uno scenario del genere non
fosse previsto nel libro del Fato.
«C’è qualcuno»,
sussurrò Kaya riemergendo dalla sua lettura.
Eccome se c’era qualcuno! Probabilmente lei non aveva ancora
imparato a riconoscere quella voce ma, se qualche entità
superiore l’avesse voluto, avrebbe appreso molto in fretta
gli accenti con cui il ferito calcava le parole quando dava aria alla
bocca, e le espressioni gigantesche che utilizzava per condire i suoi
discorsi e le occhiate che lanciava per capire se il suo interlocutore
stesse al passo con i suoi discorsi fenomenici o meno.
I passi si facevano sempre più vicini e Chopper seppe che
non era possibile evitare l’inevitabile, eppure non
riuscì a sollevarsi dalla sedia e andare incontro
all’ospite, magari bloccandolo nell’altra stanza e
suggerendogli di andare a cercare l’infermiera da qualche
altra parte, inventandosi la scusa che anche lui era lì per
parlare con lei e di non averla trovata. Ma Usopp aprì la
porta e restò sulla soglia, sgomentato.
«Ma che…?»
Non riuscì a pronunciare nient’altro. Rimase
lì, impalato come uno stoccafisso, a fissare i due studiosi
come se avessero assunto sembianze aliene. Di fronte
all’espressione attonita di Kaya, Chopper finalmente
scattò in piedi, avendo compreso di essere l’unica
persona presente in grado di attutire la caduta libera nella quale
erano precipitati tutti e tre all’improvviso.
«Usopp!», esclamò raggiungendolo.
«Che succede? Come mai sei qui?»
Si sentiva come un assassino con le vesti macchiate di sangue che
giurava di fronte a degli agenti di polizia di non aver ucciso nessuno.
L’intruso spostò più volte lo sguardo
dall’amico alla ragazza, boccheggiando alla ricerca di
qualcosa da dire. «Mi sono fatto male»,
riuscì a pronunciare a voce bassa.
«Cosa? Com’è successo?»
Fu il turno di Usopp tuffarsi in un flusso di coscienza.
Con che faccia poteva spiegare che, come un idiota, si era messo a
giocare con un martello finendo col darselo su un dito, avendo
volontariamente ignorato gli avvertimenti di Franky al solo fine di
fare lo spaccone davanti a lui, il professor Paulie e Nico Robin?
Chopper probabilmente si sarebbe fatto prendere dal panico, ansioso
com’era, ma Kaya? Per quanto gli sembrasse una brava ragazza,
avrebbe potuto tranquillamente scoppiare a ridere, bellamente divertita
dalla pessima figura avvenuta tra le mura del corso di bricolage al
piano terra, in fondo al corridoio, poi stradina a sinistra e subito
dopo a destra, nuovamente dritto e la destinazione è alla
sinistra di chi cammina, lontana dalle altre aule in maniera che il
rumore delle seghe elettriche non disturbasse le attività
altrui.
Rispose infine: «Franky mi ha passato male il
martello.» Tanto nessuno avrebbe mai scoperto quella bugia
bella e buona, tantomeno il diretto interessato di quella frottola, che
sicuramente avrebbe disapprovato la copertura e si sarebbe lanciato a
raccontare la verità, spiattellando in giro manifesti pieni
zeppi di insulti nei suoi confronti – vero?
Come se si fossero danneggiate le gambe, Chopper lo costrinse a sedere.
«Adesso controllo se hai riportato una frattura alla
falange», lo informò mentre guardava attentamente
il dito danneggiato. «Fortunatamente non ci sono perdite di
sangue.»
Kaya si avvicinò a piccoli passi timidi fino ad affiancare
il collega. «Presenta un ematoma subungueale?»
Usopp la guardò con la bocca aperta. «Ematoma sub-che?»
La bionda sorrise. «Si tratta dell’accumulo del
sangue sotto l’unghia. Se ne è troppo dovresti
andare in ospedale per consultare un medico.»
«Credevo di esserci già, dal medico»,
borbottò lui tenendo la testa bassa.
Chopper cacciò un sospiro di sollievo. «Non
è niente di grave», decretò.
«Non sono autorizzato a darti dei farmaci, ovviamente, ma ti
basterà applicare del ghiaccio sulla ferita in modo che
riduca il gonfiore e allevi il dolore. Vado a prendertelo»,
disse, e fuggì a gambe levate. Si sentiva un vigliacco nel
lasciare l’amico in compagnia di Kaya e viceversa, ma sperava
si chiarissero, che mettessero da parte la vigliaccheria per dialogare
finalmente come persone normali.
Ma nessuno dei due, rimasti sotto la luce del lampadario acceso, si
azzardò a fare il primo passo. Kaya semplicemente
tornò a sedersi al tavolo per continuare a leggere il
manuale di medicina che aveva acquistato giorni prima, con matita alla
mano e penna a riposo accanto a lei, che prendeva solo per riportare
importanti schemi sul suo quaderno a quadretti grigi. Usopp faceva ben
attenzione a non far cadere i suoi occhi su di lei neanche per sbaglio
– l’ultima cosa che voleva era farle pensare che la
stesse fissando; che poi le mattonelle che componevano il pavimento
erano molto interessanti, chissà chi aveva avuto la pazienza
di metterle tutte in riga lì, con una tale precisione? Nella
sua mente giocava a trovare un errore nella loro incollatura, ma quando
queste si avvicinavano pericolosamente al tavolo dove era seduta lei,
il ragazzo ricominciava d’accapo; aveva anche preso a
contarle, facendo improbabili calcoli matematici in mente per
indovinare quante ce ne stessero in quella stanza.
Se avesse potuto, Chopper avrebbe preso a schiaffi entrambi.
Chiuso nel buio dello stanzino dell’infermeria, la mano con
cui reggeva il ghiaccio secco si stava progressivamente congelando. “Al diavolo”,
pensò, ricongiungendosi a loro. Consegnò
l’impacco a Usopp; quest’ultimo si alzò
e, con un grazie formale e detto a voce bassa, uscì
dall’infermeria con tutte le intenzioni di tornare da
dov’era venuto. Chopper non fece nulla per trattenerlo o
esortare Kaya ad andare a parlargli – semplicemente
tornò a sua volta a sedersi, riprendendo a studiare da dove
aveva interrotto una decina di minuti prima.
Angoletto degli Easter
Egg!!
1. Se
dici così sembra che […] durante una guerra:
black humor onepieciano, anche detto riassunto della saga di Marineford.
Angoletto
dell’Autrice!!
Capitolo povero di riferimenti esterni, giusto per compensare la
mattonata della morte di Ace. Mi confermate che tutti hanno riso almeno
una volta su un meme in proposito? *verso dei grilli* Non
fraintendetemi, eh, ha fatto parecchio male anche a me… che bei tempi quando
la Mediaset mandava in onda gli episodi di Marineford, ne erano
cinquantasette ma ne sembravano centotrenta
BENE, è il mio primo giorno libero da lavoro dopo settimane
intere e invece di riposarmi mi sono messa a scribacchiare ancora sul
mio computerino. Sono masochista? Sì. Me ne pento? No.
Ma bando alle ciance, che ne pensate di questo capitolo? Non
è molto articolato, anzi, è piuttosto leggero.
Non come il martello che Usopp si è dato sul dito.
Recupereremo col prossimo!
A presto,
–Channy
|
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Capitolo 8 *** Bleachers, Lightning and Surname ***
7
Bleachers,
Lightning and Surname
Le nuvole che soffocavano il cielo erano
così nere che pareva dovesse cascare giù il
finimondo da un momento all’altro, eppure nessuno si
preoccupava di correre a trovar riparo da qualche parte o tenere a
portata di mano un ombrello saldo: l’omino in televisione
aveva detto che non avrebbe piovuto, quindi perché
preoccuparsi? Quel vecchietto con la bacchetta sempre in mano non aveva
mai sbagliato un colpo.
Le temperature, tuttavia, esprimevano appieno la stagione invernale
ormai alle porte. Infagottata nel suo cappotto color cenere e avvolta
nella sua sciarpa a quadri, gli occhi perlati di Bibi saettavano da
destra a sinistra, poi da sinistra a destra, mentre al petto stringeva
il libro di storia non ancora aperto come a volerlo stritolare.
«Siamo qui per studiare o per fare le cheerleader?»
A udir la domanda traboccante di sarcasmo di Nami, l’azzurra
si affrettò a cambiare obiettivo da squadrare. Rispose
balbettando: «Per studiare, ovvio.»
La rossa ridacchiò, la bocca coperta dalla cerniera del
piumino tirata fino in cima. «Bibi, con tutto il bene che ti
voglio, sto congelando. Dimmi chi è e facciamola
finita.»
Il volto di Bibi divenne violaceo; prese ad osservare i gradini degli
spalti, improvvisamente molto più interessanti dello
spettacolo che la fronteggiava. «Quello che adesso sta
bevendo dalla borraccia.»
Nami guardò nella direzione indicata discretamente.
«Però, niente male!»,
decretò. «E brava la principessina!»
L’amica scattò sull’attenti.
«Non insinuare nulla. Mi ha solo detto che sarebbe stato
carino venire a vedere gli allenamenti.»
«Andiamo, è stata palesemente una scusa per
vederti di nuovo», rispose la rossa mentre sottolineava sul
proprio libro con l’ausilio di una matita ben temperata.
«Sì? E dov’è scritta questa
legge della natura? Sentiamo.»
«Nel manuale universale sul linguaggio maschile. Vai in
biblioteca, ne trovi sicuramente una copia.»
Bibi si decise finalmente ad aprire il proprio libro anche se, lo
sapeva già, avrebbe fatto solo finta di imparare qualcosa.
«Non so neanche come si chiama.»
«Potevi chiederglielo.»
«Poteva chiedermelo anche lui, se è per
questo.»
«Ti ha già invitata a uscire, quindi il suo
l’ha fatto. Vuoi che ti porti anche in braccio o che ti
sbucci la frutta?»
«Allora, punto uno, ti ho detto che non mi ha invitata a
uscire. Punto due, non penso sia il tipo di fare quelle cose.
È più alla Sanji.»
Nami alzò gli occhi al cielo. «Per
carità, non nominarlo neanche in mia presenza.»
Bibi, dal canto suo, trovò il pretesto per chiudere
nuovamente il libro. «Sei ancora arrabbiata con
lui?»
«Non sono arrabbiata», sbottò la rossa,
«però mi dà fastidio.»
«Nami, hai bisogno di mettere in ordine le idee»,
le disse l’amica. «Sei incoerente quando
parli.»
La rossa chiuse a sua volta il libro e gettò la matita nello
zaino, senza preoccuparsi di riporla nel borsello in cui custodiva
penne ed evidenziatori; gonfiò le guance, stringendosi nel
giubbino per non soffrire a causa di una folata di vento improvvisa.
«Non è semplice da spiegare. È che lui
è un amico, un amico vero, ma a volte penso che faccia di
tutto per farmi arrabbiare. Non ripongo aspettative su di lui, non mi
piace incastrare le persone, però lo considero un ragazzo
maturo. Be’, almeno fino a venerdì
scorso.»
Bibi ascoltò in silenzio, tentando di capirci qualcosa. Solo
quando l’amica finì il discorso si permise di
parlare: «Forse non è vero che non riponi
aspettative in lui. Sanji è un ragazzo d’oro, e i
suoi modi di fare ti avranno convinta che sarebbe venuto a prenderti
nonostante tu l’avessi messo in punizione. È per
questo che lo stavi aspettando.»
Nami fece segno di no
col dito indice. «Non lo stavo aspettando. Mi aspettavo che
venisse lo stesso. È diverso.»
«Sei un caso perso.»
«Senti da che pulpito! Pensa al tuo bel giocatore di rugby,
piuttosto.»
Seppur non lo volesse davvero, il volto di Bibi andò a fuoco
a causa dell’imbarazzo che aveva pervaso il suo corpo.
Tornò a guardare verso il campo sportivo, dove la squadra
stava svolgendo l’allenamento quotidiano;
all’azzurra non interessava affatto assistere alle loro
flessioni, né agli scatti in avanti né ai lanci
della palla, bensì trovava rilassante poter guardare da
lontano il ragazzo con, pochi giorni prima, aveva scambiato qualche
parola in corridoio. Era bravo nel suo sport, e Bibi poteva solo
immaginare in che portento avrebbe potuto trasformarsi durante le
partite vere e proprie; era talentuoso ed energico, ed era tutto
perfetto fino a quando la sua mente volle prendersi gioco di lei,
mettendole in testa paragoni illogici e scombinati tra loro.
Tornò a guardare la ragazza che la affiancava, intenta a
strofinarsi le mani sulle braccia nel tentativo di riscaldarle. Decise
che sì, con lei ne avrebbe potuto parlare: Nami aveva un
animo sensibile, l’avrebbe sicuramente capita e avrebbe
saputo consigliarle – vero?
«Devo confessare una cosa.»
La rossa si voltò verso di lei, invitandola silenziosamente
a continuare.
«È da un po’ di tempo che ho un problema
con Luffy. Anzi, no, credo sia meglio dire che ho un problema con me
stessa.»
«Che vuoi dire?»
Bibi sospirò, osservando con falsa attenzione le dita delle
sue mani, arrossate a causa del freddo – avrebbe dovuto
iniziare a usare i guanti invernali. «Ecco, è una
storia un po’ strana. Risale a prima di Halloween.»
L’altra incrociò le braccia sotto al seno
prosperoso. «E tu ne stai parlando solo ora? Sono passate
quasi tre settimane.»
«Lo so», rispose, afflitta.
«Perché credevo che fosse uno stato
d’animo passeggero, insomma, non ero molto allegra quel
giorno. Ma appena ho notato che nonostante i giorni stessero passando
ed io stavo sempre allo stesso modo, mi sono allarmata. Non so neanche
per quale motivo mi stia dando così tanta pena.»
Nami sospirò, spazientita. «Insomma, mi vuoi dire
o no cosa è successo?»
«Io non ci volevo venire, alla festa di Halloween.»
Bibi aveva parlato così velocemente che la rossa dovette
ripetersi più volte la frase in mente per comprenderne il
significato. «E perché non ce l’hai
detto?»
«Perché sapevo che tutti voi stavate attendendo
con ansia quella festa. Non volevo rovinarmela con i miei capricci,
dato che sapevo che ci sareste rimasti male. Poi di mezzo
c’era anche la questione di Smoker e tutto il
resto.» Fece un respiro profondo per calmarsi.
«Così ho pensato di chiedere consiglio
all’unica persona che non ne sapeva nulla.»
«Ne hai parlato con Luffy?», domandò la
rossa in evidente confusione. «Ma quando è
arrivato alla festa sembrava realmente sorpreso…»
«Be’, sì, perché ovviamente
non gli ho rivelato nulla del vostro piano», rispose Bibi.
«Mi sono inventata una scusa, sono stata molto
vaga.»
«Capisco. E lui?»
«E lui non si è affatto sbilanciato. Ha fatto il
sempliciotto come al solito.»
Nami sorrise, divertita. «Tipico di lui. E dove sarebbe il
problema?»
L’azzurra sospirò per l’ennesima volta.
«Il problema è che mi ha dato fastidio. Mi
aspettavo qualcosa di più, un minimo di interesse,
curiosità… E invece niente.»
L’altra si resse il viso con le mani, i gomiti puntellati
sulle ginocchia coperte da jeans scuri. «Cosa avrebbe dovuto
risponderti? Non è così intelligente da poter
intuire cosa gli stavi nascondendo.»
«Nami, gli ho detto che un ragazzo stava insistendo per
uscire con me e che io non volevo. Non ha fatto una piega, ha cambiato
argomento come se nulla fosse.»
La rossa vide Bibi nascondere il naso congelato nella sciarpa morbida,
così lunga che aveva dovuto avvolgerla tre volte attorno al
collo e alle spalle.
«Me ne sono andata e non gli ho rivolto la parola per diverso
tempo, però lui è rimasto lo stesso. Non riesco a
capire cosa c’è che non va»,
mugugnò.
Nami annuì, poi si aggiustò il berretto di lana
che le copriva la testa. «In sostanza, ti senti in colpa per
una bugia bianca e perché l’hai mollato
lì dopo l’ennesima sua dimostrazione del suo
essere idiota, dico bene?»
«A grandi linee sì.» La
guardò negli occhi, implorante. «Come faccio a
risolvere la faccenda?»
«Stammi a sentire», fece. «Ai miei occhi
questa storia è ridicola. Insomma, conosci Luffy, sai che
non riesce a fare neanche due più due. Dovresti metterti a
piangere e a implorarlo per fargli capire che c’è
qualcosa che non va. Ma, in questo caso, non ce
n’è stato bisogno dato che è stata una
bugia a fin di bene. L’unico consiglio che posso darti
è metterti l’animo in pace e dimenticare
tutto.»
«E se dovesse ricordarsene?», le
domandò. «Nessun ragazzo mi sta facendo la corte,
e sai che io non so mentire.»
«Be’, basta che gli spieghi che non potevi
rivelargli la nostra sorpresa.» Un secondo dopo, Nami sorrise
furbamente. «Oppure, puoi fare riferimento a lui»,
e indicò il ragazzo che correva nel campo di rugby.
Bibi sorrise a sua volta. Proprio in quel momento il giovane atleta si
voltò verso gli spalti dove le due fanciulle sedevano
solitarie; alzò una mano in segno di saluto, che
l’azzurra ricambiò timidamente.
«Dicevamo? Il linguaggio universale?»
«Ma piantala, Nami.»
Un discorso tirò l’altro e continuarono a
chiacchierare del più e del meno, fino a quando non vennero
raggiunte da una giovane donna dai lunghi capelli castani e dalle
sensuali forme femminili. Conoscevano a malapena il suo volto,
poiché si era trasferita da poco tempo
nell’istituto che frequentavano, tuttavia era impossibile
dimenticare i suoi marcati tratti latini e il forte profumo che le
abbracciava la pelle. Parlò con voce profonda:
«Scusatemi, ragazze. Siete voi Bibi e Nami?»
Entrambe annuirono, scambiandosi occhiate sfuggenti e vagamente confuse.
«Sono la nuova insegnante di educazione fisica del primo
anno. Mi chiamo Viola Riku», disse con un sorriso cordiale.
«Cosa possiamo fare per lei?», domandò
Nami con la medesima espressione in volto.
«Vedete, faccio parte del comitato di organizzazione della
raccolta fondi di Natale», spiegò con
professionalità. «Nello specifico mi occupo del
match di pallavolo. Non so se ne avete già sentito
parlare.»
«Io sì», fece Bibi.
«È tra gli eventi proposti per raccogliere il
denaro destinato al laboratorio di ricerca di Punk Hazard. I soldi dei
biglietti verranno spediti lì.»
«Proprio così», fece la docente.
«Sono qui per proporvi di far parte della squadra. Uno
studente mi ha parlato della vostra bravura in questo sport»,
aggiunse accarezzando i petali di una rosa rossa, che solo in quel
momento le ragazze notarono.
«È la stessa persona che le ha regalato quel
fiore?»
Viola si rigirò il gambo del fiore tra le dita, sapendo che
non si sarebbe fatta male poiché privato delle
caratterizzanti spine. «Esatto. Però non ricordo
come si chiama…»
«Era biondo e un po’ logorroico?»
L’insegnante annuì. «Ed era vestito di
nero.»
Nami assunse un’espressione seccata.
«Sanji…»
«Ah,
sì, proprio lui. Ma tornando alla mia proposta: che ne
dite?»
La rossa scosse la testa con rassegnazione. «Mi piacerebbe,
ma sono già occupata con lo spettacolo teatrale del
professor Sengoku.»
«Capisco. E tu?», domandò rivolgendosi a
Bibi.
Quest’ultima si grattò nervosamente una guancia.
«Su due piedi non saprei dire», mugugnò.
«Le farò sapere.»
«Non ci sono problemi. Per qualsiasi cosa mi puoi trovare in
palestra o nell’aula docenti», rispose.
«Anche se si tratterà di un’amichevole,
ci alleneremo due volte alla settimana, il martedì e il
giovedì.»
Detto ciò, si congedò e si allontanò.
***
Adorava svolgere le mansioni correlate all’impegno che, mesi
prima, aveva scelto di assumersi; era il tipo di persona che ascoltava
gli ordini, prendeva nota e annuiva con serietà, per poi
svolgerli e portarli a termine con successo. Non era, dunque, un peso
fare i giri di ronda durante le attività lei club; le
bastava controllare che nessuno facesse danni in giro e che tutti
stessero nelle rispettive aule o, se si trovavano al di fuori di esse,
che presentassero il permesso per muoversi da un posto
all’altro. Per le segnalazioni di infrazioni bastava annotare
la disubbidienza e riportarla al suo capo il quale, a propria volta,
l’avrebbe girata alle autorità superiori.
Non le importava di fare la figura della rigida, di qualcuno che non
conoscesse il significato del termine divertimento – era
fatta così, cresciuta a pane, rigore e disciplina, sguardo
austero e schiena dritta, anche se spesso la sua immagine fiera finiva
col capitolare a causa della sua eterna sbadataggine: lacci sciolti,
pavimento bagnato e spallate contro gli stipiti delle porte erano
piccoli e imbarazzanti incidenti che le capitavano ogni giorno, senza
preavviso e senza pietà, e lei in quei momenti doveva
sperare che non vi fosse anima viva nei dintorni, in maniera tale da
non essere vista e di conseguenza derisa.
Neanche il tempo di finire di pensarlo, che l’ultimo gradino
delle scale che stava scendendo per dirigersi dal terzo al secondo
piano si trasformò in una lastra di ghiaccio; fu letale per
la suola liscia delle scarpe che indossava, poiché
slittò in avanti e già si vide con la faccia a
terra, gli occhiali rotti e un bernoccolo sulla fronte coperta dalla
frangia irregolare. Ma lo schianto non arrivò mai,
bensì un paio di mani a sorreggerla, insieme alle rispettive
braccia spuntate da chissà dove.
«Grazie», fece lei, il cuore accelerato per lo
spavento. «Mi hai evitato una brutta
caduta…»
«Ma guarda dove vai, quattrocchi.»
Tutta la gratitudine di cui si era riempita scivolò via dal
suo corpo per lasciare spazio a un profondo senso di
contrarietà. «Tu…»,
mormorò con voce terribilmente bassa. «Si
può sapere cosa ci fai qui?»
Zoro fece spallucce, incurante del nuvolone nero che aveva sovrastato
il capo della ragazza. «Camminavo.»
Tashigi si scostò furiosamente dalle sue braccia, le quali
erano rimaste protese a mantenerla in piedi. «Mi vengono in
mente due scenari possibili che giustificano la tua presenza qui e
ora.» Si aggiustò gli occhiali sul ponte del naso.
«Ipotesi numero uno: stavi cercando l’aula del
corso extracurricolare che hai scelto e ti sei perso», disse
alzando il dito indice; poi alzò il medio, continuando a
contare: «Ipotesi numero due: sei rimasto nascosto fino a ora
per combinare chissà cosa e solo adesso te ne stai
andando.»
Lui si grattò la nuca, seccato almeno quanto lei.
«Che brutta immagine hai di me. Comunque, le tue supposizioni
sono entrambe errate.»
Affilò lo sguardo tagliente. «Fila immediatamente
in classe.»
«No.»
«È un ordine.»
«Detta ordini quanto ti pare, io me ne sbatto.»
Tashigi emise un verso di evidente frustrazione, dopodiché
lo afferrò per un polso e lo trascinò verso una
nuova rampa di scale, ricominciando a scendere i gradini
frettolosamente e con l’aria di chi stava facendo uno sforzo
immane per non mettersi a urlare. Alla domanda di lui, che contrariato
le aveva chiesto cosa avesse intenzione di fare, rispose: «Ti
ci porto io, in classe.»
«Ma se non sai neanche qual è!»
«Infatti stiamo andando in segreteria, così
potrò scoprirlo.»
Zoro si chiese mentalmente se la segreteria di quell’istituto
servisse realmente a qualcosa, dato che ogni volta che gli capitava di
passare da quelle parti per chiedere informazioni – o
perché ci si era ritrovato senza volerlo – tutti
gli addetti al settore erano magicamente in pausa caffè,
come a voler ricompensare le immani fatiche che avevano compiuto fino a
quel momento, non che qualcuno potesse effettivamente testimoniare a
loro favore.
Difatti anche quel pomeriggio la segreteria era deserta, con i ripiani
ricoperti da un sottile strato di polvere e balle di fieno che
rotolavano accompagnate da fischianti folate di vento. Nonostante in
quella stanza si respirasse aria di desolazione e abbandono, Tashigi lo
mollò sulla soglia della porta per dirigersi a passo di
marcia verso un’alta cassettiera da ufficio e ne
aprì un cassetto, dal quale sbucarono fuori una miriade di
fogli di carta racchiusi in raccoglitori grigi; ne scelse una decina e
se li issò sulle braccia, non badando al loro peso.
«E quella che roba è?»
«Sono i dossier delle attività
extracurricolari.» Seppur barcollando, riuscì a
raggiungere una scrivania spoglia e a poggiarli sulla superficie
legnosa con un sonoro tonfo. «Contengono l’elenco
degli iscritti a ciascun corso. Mi basterà consultarli a uno
a uno per scovarti.»
Zoro sbadigliò, visibilmente annoiato.
«Fa’ pure, non mi interessa»,
biascicò sedendosi su una poltrona girevole, le mani a
mo’ di cuscino dietro la testa e le gambe stese a impicciare
il passaggio.
La ragazza gonfiò le guance, ma si mise subito
all’opera; i suoi occhi scorrevano velocemente
dall’alto verso il basso, poi le sue dita sottili voltavano
una pagina, e il processo si ripeté fino alla fine del primo
portadocumenti. Lo mise da parte e iniziò a consultarne un
secondo, poi il terzo, il quarto e così via, arrivando al
punto di aver terminato la ricerca senza un risultato.
«Che scherzo è?»
Zoro, appisolato, trovò la forza di ghignare. «Non
mi hai trovato?»
«No.»
«Bene», rispose. «Adesso mettiti
l’animo in pace e lasciami andare.»
Uno per volta, la ragazza ripose al proprio posto tutto ciò
che aveva precedentemente preso. «Posso giurare di aver
controllato bene nonostante la fretta. Cosa mi è
sfuggito?»
Lui si rimise in piedi con un balzo, senza preoccuparsi di riaccostare
la sedia al tavolo. «Proprio niente.» La
guardò di sottecchi. «Non mi sono iscritto a
nessun corso.»
Tashigi dovette battere le palpebre più volte per accertarsi
di essere sveglia, che quella situazione non stesse accadendo solo
nella sua mente. «Stai scherzando»,
decretò.
«Affatto.»
Lo afferrò per le possenti spalle e iniziò a
scuoterlo avanti e indietro. «Ma sei cretino?! I tuoi voti
fanno pena e tu non ti degni neanche di sollevarli un po’ con
degli stupidissimi crediti?!»
«E tu come fai a sapere che voti ho?»
«Roronoa, sono nel Comitato, ho accesso a più
informazioni di quanto tu possa credere.»
«Questa è violazione della privacy!»
«Sei sicuro di voler affrontare questo discorso? Proprio
tu?!»
«Certo, proprio io. Non mi sembra di aver
mai…»
«Per carità», lo interruppe,
«non completare neanche la frase.»
Le afferrò le braccia e la costrinse a mollare la presa.
«Cosa vuoi da me?!»
Tashigi si scostò e indietreggiò di qualche
passo. «Vorrei che tu rispettassi il regolamento. Non
pretendo che tu possa diventare lo studente modello, ma non ci provi
neanche a rigare dritto.»
La fissò dall’alto della sua altezza,
l’occhio torvo ben incollato allo sguardo color cioccolato di
lei. «Che t’importa? Non abbiamo niente a che fare,
io e te.»
Tashigi incrociò le braccia al petto, cocciuta.
«Questo lo so bene, ma il ruolo che occupo in questo istituto
comporta delle responsabilità. Non posso lasciare che tu o
qualcun altro vi roviniate così.»
Zoro rimase per un po’ in silenzio; il suo volto inespressivo
e marmoreo era ancora piegato appena verso il basso, in modo da
mantenere ancora in piedi quel contatto visivo. Sembrava una gara a chi
fosse più testardo, a chi volesse prevalere
sull’altro, come se in quell’invisibile linea che
univa i loro occhi vi fosse una scarica elettrica oscillante prima
verso di lui e poi verso di lei, e poi di nuovo indietro e avanti,
indietro e avanti, costringendo i due sfidanti a combattere per non
rimanere fulminati da quelle scintille di rivalità che
avrebbero potuto far scoppiare un incendio da un momento
all’altro.
Quando capì che quello scontro si sarebbe concluso con un
pareggio, il ragazzo si tirò indietro. Voltò il
capo a destra per fissare un punto indefinito della segreteria.
«Sei troppo severa», masticò con la
mascella contratta.
«Come?»
«Ho detto», fece con il tono di voce più
alto, «che devo andare in palestra.»
Tashigi aggrottò le sopracciglia. «Che ci vai a
fare? È occupata. A quest’ora si stanno allenando
quelli di basket.»
«Idiota», la apostrofò Zoro.
«Mica qua. Al Kuraigana.»
«Eehh?
Frequenti veramente quel posto?»
«Sì, perché?»
«Be’, dicono che i programmi che propone
l’allenatore vadano oltre l’umana concezione. Un
tizio per poco non è morto per seguire gli esercizi alla
lettera.»
Zoro fece spallucce. «Tutte stronzate. Sono due anni che vado
là e non è mai successo nulla.» Si
batté una mano sulla pancia e le sue labbra si curvarono per
dar vita a un sorriso soddisfatto. «Oggi
addominali.»
Appoggiata con le anche a una delle scrivanie dell’ufficio,
Tashigi alzò gli occhi al cielo, ignorando quel palese
vanto. Lo vide tuffare le mani nelle tasche dei pantaloni della tuta e
darle le spalle, intenzionato ad andarsene; raggiunse presto la porta
della segreteria e girò a sinistra.
La voce uscì senza che lei potesse controllarla:
«Zoro.»
Lui si bloccò sul posto, tornando a guardala negli occhi per
l’ennesima volta da quando si erano incrociati quel nuvoloso
pomeriggio, circondati da un silenzio spezzato solo dal cigolio di una
finestra in lontananza, la cui anta cigolava a causa dei soffi di vento
che s’intrufolavano all’interno
dell’edificio così grande, eppure così
piccolo da poter permettere incontri casuali come il loro.
«L’uscita è a destra.»
***
Con tutta la pazienza che il suo corpo era in grado di contenere, Sanji
si domandò per quale motivo avesse deciso di acconsentire a
quella richiesta.
Camminava con lo sguardo puntato verso il basso, che a guardarlo da
fuori pareva stesse semplicemente mettendo un piede davanti
all’altro, senza una meta precisa, senza uno scopo nella vita
– ma il biondo ce l’aveva, ed essere costretto a
raggiungere la linea del traguardo del suo percorso svogliato gli dava
sui nervi; sentiva addosso un malessere che non accennava ad andar via,
come un tatuaggio sulla pelle, un marchio a fuoco sulla sua lunga
schiena.
Quando varcò la soglia della palestra che ospitava il campo
da pallacanestro, le urla dei giocatori gli arrivarono come uno
schiaffo in viso insieme alla puzza di sudore, e si chiese quando
avessero intenzione di aprire qualche finestra per pulire quel tanfo e
per raffreddare i loro bollenti spiriti combattivi. Restò
immobile contro l’uscio, nel minuscolo atrio che precedeva lo
stanzone vero e proprio, e dovette farsi violenza per non fare marcia
indietro. Avanzò in direzione dell’allenamento in
corso, infastidito dallo stridio delle suole delle scarpe che
slittavano sul pavimento liscio.
Venne illuminato dalla luce dei faretti della palestra e dovette
coprirsi lo sguardo per abituarsi a quel bagliore accecante;
probabilmente aveva attirato l’attenzione
dell’allenatore, poiché un fischio assordante gli
trapanò le orecchie e decretò una pausa per i
cestisti.
«Ehh?
E tu che ci fai qua?»
“Me lo chiedo
anch’io”, pensò Sanji ma
evitò di dirlo. Sostenne bene l’occhiataccia del
suo interlocutore e disse: «A che ora finite?»
Ne arrivò un altro. «Perché questa
domanda?»
Con lo stesso tono arrogante, si aggiunse un terzo: «Non
è da te.»
Il biondo si ritrovò circondato da quei brutti ceffi, ma il
suo volto non esprimeva paura bensì disprezzo.
«Infatti a me non frega un cazzo. Lo vuole sapere mamma. Sta
provando a telefonarvi, ma non rispondete.»
Il primo rise sguaiatamente, anzi, forzò la risata per
mostrarsi divertito nonostante non lo fosse. «E grazie al
cazzo, stiamo in campo! Ma ci arriva o no, quella?»
Con uno scatto furioso, Sanji lo afferrò per il colletto
della maglia sportiva. «Bada a come parli di nostra madre,
Yonji.»
Gli altri due furono altrettanto rapidi a fargli mollare la presa.
Il biondo si scostò bruscamente, trattenendosi dal non
prendere a pugni quei visi così simili a cui,
sfortunatamente, somigliava anche lui. «A che ora
finite?», ripeté.
Il giovane con i capelli rossi rispose: «Non lo sappiamo.
Adesso vattene.»
«Mamma lo vuole sapere», insisté Sanji.
«Vuole che ceniamo tutti insieme, per una
volta…»
«Senti, mammone, va’ a farti un giro. Finiamo
quando finiamo. Se vuole che mangiamo insieme, ci
aspetterà.»
Sanji aveva un disperato bisogno di fumare per distendere i nervi.
«Ma che stronzate vai dicendo, Niji?! Per una volta, una
misera cazzo di volta, potreste accontentarla!»
A parlare fu nuovamente il ragazzo dai capelli rossi. «Non ti
scaldare. Ci stiamo allenando per il torneo invernale.»
«Ichiji, anche tu, non dire stronzate. Non esiste nessun
torneo invernale.»
«Ah?
E quello del ventuno dicembre come lo chiami?»
«È il porca puttana di match per la raccolta
fondi. Non importa chi vince, ma i soldi dei biglietti.»
«Questa è la versione per chi non sa un cazzo di
basket», fece Yonji con le braccia incrociate al petto
gonfio. «Tipo te, coglione.»
Gli altri due sghignazzarono.
Sanji roteò gli occhi al cielo. «Va bene, come
volete.» Tuffò le mani nelle tasche dei pantaloni
e fece per andarsene.
«Tu sei proprio sicuro di non volerti unire alla
squadra?»
Quella domanda, quella maledettissima domanda lo costrinse a voltarsi
nuovamente verso i suoi fratelli; i suoi occhi blu incontrarono
repentinamente i sorrisi sadici dei tre gemelli e desiderò
la loro sparizione dalla faccia della terra. Con voce dura
scandì: «Sì.»
E come previsto, la risposta pianificata arrivò in fretta da
Ichiji: «È per non farti male alle
manine?»
«Fratello, fai attenzione a come parli», lo riprese
sarcasticamente Niji. «Rischi di far piangere il piccolo
Sanji.»
«Le mani si usano solo per cucinare e carezzare i visi delle
belle donne», disse Yonji, scimmiottando la voce del gemello
biondo.
Sanji non ci vide più. Ancora con le mani nelle tasche dei
pantaloni neri, tirò un calcio dritto sulla faccia di Niji,
dal cui naso presero a uscire fiotti di sangue scarlatto; quella
visione non fu abbastanza, Sanji ne voleva ancora, voleva far del male
ai suoi stessi fratelli, voleva far patir loro lo stesso dolore che per
anni gli avevano procurato e soprattutto desiderava ardentemente farli
rigare dritto, in modo che iniziassero a rispettare la genitrice.
«Pezzo di merda!», urlò Niji fiondandosi
su di lui con un pugno alzato, intenzionato a restituirgli lo
spiacevole trattamento, spalleggiato dagli altri due.
Ma il colpo non arrivò mai. Davanti a Sanji si erano come
materializzati dal nulla Sabo ed Ace, che avevano parato il pugno.
«State calmi», intimò Sabo.
«Fatevi i cazzi vostri.»
«Tre contro uno? Un po’ scorretto, non
credete?»
«Ace, siamo intervenuti per fermarli, non per partecipare
alle danze.»
Li raggiunse una voce: «Voi, laggiù, che sta
succedendo?» Si voltarono e videro il docente camminare
lentamente verso di loro.
«È l’allenatore Borsalino»,
fece Ace a denti stretti. «Non ci voleva.»
Quando l’omone fu finalmente davanti a loro, prese a studiare
la ferita del giocatore dai capelli blu. «Niji»,
disse in un lamento, «che hai fatto al naso?»
L’interpellato fu rapido a rispondere: «Mio
fratello mi ha colpito.»
Indicò il colpevole con il dito indice e il professore
seguì con gli occhi la traiettoria, iniziando presto a
studiare il volto di Sanji come se si stesse sforzando di ricordarsi
chi fosse. Biascicò: «E per quale
motivo?»
Il biondo sostenne lo sguardo. «Sono stato provocato. Ha
insultato mia madre.»
«Eh?
Tua madre? Ma siete gemelli. È anche la loro
madre.»
Percependo l’aura omicida dell’amico, Sabo si vide
implicitamente costretto a intervenire al fine di placare gli animi.
«Non ci dia troppo peso, mister, si è trattato
solo di una comune discussione tra fratelli. Sarà meglio non
sprecare altro tempo prezioso e tornare all’allenamento, non
crede?»
L’uomo si voltò placidamente a guardarlo, aprendo
un po’ di più gli occhi, come sorpreso di vederli.
«Outlook, Portuguese, ci siete anche voi. Credevo che stesse
ancora provando i tiri da tre punti.»
Ace si passò una mano davanti al volto. «Non ci
credo, non può essere così
stupido», sussurrò tra sé e
sé.
«Che provvedimento intende prendere, mister?»,
chiese Yonji alludendo all’offesa di Sanji.
L’allenatore arricciò le labbra. «Boh.»
«Ma come boh?!»
Suonò il fischietto, cogliendoli di sorpresa, disse con voce
calma: «Si ricomincia. Tutti ai propri posti.»
Mentre Sabo ed Ace festeggiarono in silenzio, i tre gemelli camminarono
verso il centrocampo con espressioni furenti e gli occhi dei compagni
di squadra addosso. Sanji, invece, fece nuovamente retromarcia,
arrabbiato ma affatto sorpreso; ringraziò brevemente i due
amici che erano corsi in suo soccorso e si apprestò ad
abbandonare la palestra, quando sentì la voce
dell’allenatore dirgli: «Domani andrai dal preside,
Vinsmoke.»
Non rispose e se ne andò, maledicendo il proprio cognome.
Angoletto degli Easter
Egg!!
1. Il
denaro destinato al laboratorio di ricerca di Punk Hazard:
sottile riferimento a ciò che Caesar Clown riceveva da Big
Mom per poter condurre gli esperimenti sui giganti. Solo che qui siamo
in una fanficion AU e tutte le stramberie di quel pazzo non esistono! E
in più vi ricordo che il nostro Gangster Gasssstino
è professore di chimica!
2. Kuraigana:
riferimento all’isola natia di Zoro.
Angoletto
dell’Autrice!!
Aneddoto divertentissimo: mentre scrivevo questo capitolo, si era
spento il PC. L’avevo quasi finito. Quando l’ho
riacceso il giorno dopo ho scoperto che non aveva salvato niente. E
l’ho dovuto riscrivere. Dall’inizio.
Percepite la mia sofferenza?
A PARTE QUESTO, finalmente riesco ad aggiornare! Il lavoro mi sta
uccidendo, è una montagna russa che non si ferma mai (e io
sono terrorizzata da queste giostre mega alte mega veloci mega tutto).
Aggiorno poco proprio per questo motivo, la sera non ho quasi mai la
forza per mettermi al PC ed editare i capitoli –
perché a scrittura sono più avanti… al 19 hehehehe
Il prossimo capitolo vedrà la sua prima parte allacciarsi
all’ultima di questo eeeee vi dico già che la
situa non sarà propriamente allegra e spensierata lmao, but
we like dramas, don’t we? ;)
A presto,
–Channy
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Capitolo 9 *** Umbrella, Restless and Mayor ***
8
Umbrella,
Restless and Mayor
L’odore della pioggia scrosciante
aveva lo straordinario potere di invadere le narici non solo dei
passanti, ma persino di chi rimaneva serrato in casa propria o in un
grigio ufficio per l’intera giornata bagnata, evitando
così d’incappare in spiacevoli pozzanghere di
fango e fastidiosi schizzi provenienti dai balconi delle case, dalle
insegne dei negozi o dai porticati più sporgenti affacciati
sui marciapiedi gremiti di pendolari.
Nami era uscita di casa con la consapevolezza che avrebbe piovuto
– non solo aveva assistito all’annuncio delle
previsioni del tempo la sera prima, ma poco prima di riversarsi in
strada aveva dato un’occhiata al cielo, scorgendo un
prepotente nuvolone nero tuonare famelico –, ma mai si
sarebbe aspettata che il suo ombrello la abbandonasse a metà
percorso. Il suo fido compagno di viaggio si era piegato al volere del
vento freddo, e le stecchette che reggevano la tela proprio non avevano
voluto saperne di tornare ai rispettivi posti. Con i denti digrignati e
un fiume di parolacce ben leggibile nei suoi occhi nocciolati, la
ragazza si era vista costretta a correre verso la scuola seguendo un
bizzarro percorso fatto di ripari improvvisati e tentativi di tenere
saldo il cappuccio del giubbino su in testa, a contenere la cascata di
capelli che avrebbe fatto meglio a legare quando ancora si stava
preparando per affrontare quel mercoledì, il punto centrale
di una settimana che pareva infinita.
Continuando a correre e a saltellare per evitare di inzupparsi le
scarpe con l’acqua che s’accumulava ai lati dei
tombini, riuscì finalmente a scorgere l’edificio
scolastico; mai tale visione la rallegrò così
tanto, ‘ché le sue dodici fatiche erano giunte
alla fine. La pioggia aumentò
d’intensità, ma non se ne curò affatto.
Oltrepassò i cancelli dell’istituto e
s’apprestò a compiere l’ultimo sprint
fino alle porte – sessanta metri erano facili da superare
perciò, come a equilibrare i piatti della bilancia, si
preoccupò di non urtare nessuno lungo il tragitto; se sui
marciapiedi della città aveva avuto la
possibilità di darsela a gambe ogni volta che finiva addosso
a un povero passante, sul vialetto della scuola correva il serio
pericolo di essere derisa da quelle decine di volti che, seppur di
sfuggita, conosceva bene. Non puntava affatto a bagnarsi il meno
possibile dato che oramai era diventata ella stessa parte integrante
della pioggia, piuttosto il suo intento era quello di correre in
infermeria ad asciugarsi per non buscarsi un raffreddore coi fiocchi,
se non peggio.
«Nami?»
Lo scatto finale venne bloccato sul nascere da quella voce tanto
familiare quanto indesiderata. Per pura cortesia – e
perché non poteva spiattellare la scusa d’esser in
ritardo, dato che mancavano ancora dieci minuti circa al suono della
campanella di inizio giornata – si voltò alla
propria destra e scoprì un grande ombrello porto nella
propria direzione come un invito ad afferrarlo e a ripararsi dalle
lacrime del cielo.
Guardò l’occhio azzurro che la scrutava
teneramente e si sforzò di non storcere la bocca.
«Non mi serve, grazie. Ormai sono arrivata.»
E lui, come al solito, ebbe la risposta pronta: «Permettimi
di accompagnarti fino all’interno. Questo tratto è
scivoloso da bagnato, non vorrei tu ti facessi male.»
Nami si domandò come diamine facesse Sanji a essere
così gentile anche quando ce l’aveva a morte con
lui o quando semplicemente non le andava di vederlo. Tenne per
sé quel dubbio esistenziale e annuì, dandogli il
consenso di farsi più vicino fino a inglobarla nella sua
area protetta; iniziò a scortarla verso l’interno
dell’edificio, percependo quell’entrata sempre
più vicina, quella salvezza sempre più tangibile.
Nessuno dei due aprì bocca durante la passeggiata lenta e
lei se ne stupì parecchio: perché quel ragazzo,
che sempre trovava un modo per torturarla con i suoi discorsi senza
senso, si era ammutolito? Cosa gli era successo?
Ignorando il motivo per il quale si stesse arrovellando così
tanto, fu lei a proporre un argomento di discussione: «Che
hai fatto ai capelli?», domandò alludendo
all’acconciatura di lui, che s’era spostato la
lunga frangia a coprire l’occhio sinistro,
‘ché solitamente oscurava quello destro.
Sanji la guardò di sbieco senza un’espressione ben
definita – era a metà tra l’onesta
felicità per l’interesse e la cortesia di
circostanza. «Pensavo che di tanto in tanto fa bene
cambiare.»
Una risposta senza esaltazione, ecco come le era sembrata quella frase.
«Ma ti pettinavi così anni fa. Ti mancava quella
piega?»
Lui forzò palesemente una risata. «Diciamo di
sì. Stamattina ero nostalgico.»
Non se n’era uscito con un monosillabo! Che la conversazione
potesse andare avanti come i loro passi sui sanpietrini bagnati?
«Non vorrai mica che mi tagliassi di nuovo i capelli,
vero?», chiese con ironia e sarcasmo la ragazza, come a
volerlo stuzzicare, imponendogli di chiamarla cigno –
appellativo che le aveva affibbiato quando si erano conosciuti qualche
anno prima, ai tempi in cui lei portava ancora il caschetto e
l’onda dei suoi ricci morbidi andava a creare una delicata
curva all’insù sul suo collo niveo.
Sanji sorrise ancora, stavolta con un pizzico di sincerità
in più. «Non potrei mai.»
Fu allora che udirono un pesante tonfo e una voce lamentarsi del dolore
provocato dalla caduta o, per meglio dire, dalla scivolata. Si
voltarono in simultanea per guardarsi alle spalle e scoprirono che era
stato Luffy a cadere e, impedito com’era a trovare il proprio
baricentro quando si trovava a contatto con l’acqua e
addizionando la suola sempre liscia delle scarpe che solitamente
indossava, non riusciva più a rimettersi eretto. Attesero
l’avvicinarsi di Ace o Sabo o entrambi, che di solito
accompagnavano il minore lungo il tragitto verso la scuola per poi
separarsi nei corridoi, ognuno diretto alle proprie aule –
tuttavia non giunse nessuno in suo soccorso.
«Andiamo ad aiutarlo», fece Nami con evidente
preoccupazione nei confronti dell’amico e Sanji
annuì, d’accordo con lei.
Non fecero tuttavia in tempo a fare un passo che una voce femminile
ostacolò loro il percorso. «Vinsmoke!»
Scottati forse allo stesso modo, si bloccarono sul posto e tornarono a
guardare verso le porte d’entrata e scorsero immediatamente
la silhouette di Tashigi avvolta in un candido cappotto rosa confetto
– e mai si sarebbero aspettati, dato il suo carattere spesso
e volentieri rude, di vederla indossare quel colore; era stretta nei
suoi vestiti come a scudarsi dal freddo e le sue sopracciglia
aggrottate lasciavano ben intendere l’animo battagliero che
le teneva compagnia anche quella mattina piovosa.
«Buongiorno», la salutò il ragazzo
chiamato in causa restando tuttavia accanto alla rossa.
«Buongiorno», gli rispose l’occhialuta.
Con voce più bassa gli chiese: «Entri?»
«Di già?»
Annuì da dietro lo sciarpone a quadri e in cima ai gradini
d’ingresso. «Il prima possibile.»
Nami si ritrovò ancora una volta a porsi delle domande;
prima fra tutte vedeva quei due interagire in maniera così
naturale e misteriosa, quasi come se stessero parlando una stramba
lingua coniata sul momento, come quelle che da bambina inventava per
parlare in codice con sua sorella senza farsi comprendere dai genitori
– un idioma fatto di scarabocchi e disegni stilizzati, ognuno
corrispondente a una precisa lettera dell’alfabeto
internazionale.
A malincuore, Sanji dovette togliersi la sigaretta bianca dalle labbra
e spegnerla calpestandola con la scarpa; mormorò un tienilo tu, e Nami
capì che si stava riferendo all’ombrello solo
quando le sue mani si ritrovarono a stringere il manico di legno
liscio. Nel giro di pochi attimi si ritrovò da sola sotto
quel riparo di tela sottile e impermeabile, osservando la figura nera
dell’amico slittare all’interno del plesso
scolastico e sparire una volta girato l’angolo.
«Che gli è preso?», domandò
all’aria e raggiunse a grandi falcate Luffy, che nel
frattempo era riuscito a rimettersi in piedi. Quest’ultimo
chiese a sua volta: «A cosa ti riferisci?»
Lei avvicinò l’ombrello all’amico per
ripararlo. «A Sanji. Mi è sembrato diverso dalle
altre volte.»
Il moro seguì la traiettoria dello sguardo nocciolato di
Nami, ma non riuscì a scorgere il soggetto della loro
repentina conversazione. «E così ti interessi a
Sanji, eh?»,
le disse con un sorriso a trentadue denti stampato sul volto bagnato.
«Idiota», lo apostrofò la rossa.
«Certo che mi interesso a Sanji, è un mio amico.
Perché devo sempre passare per quella senza
pietà?»
Luffy rise più apertamente. «Rilassati, ti stavo
solo prendendo in giro.»
Nami riuscì finalmente a raggiungere l’interno
della scuola con a seguito il compagno, così poté
chiudere l’ombrello e dare il buongiorno all’aria
condizionata calda che aveva abbracciato i suoi vestiti fradici.
Tuttavia, nonostante fosse giunta al limite della sopportazione, non
corse ad asciugarsi; piuttosto rimase in piedi dinanzi a Tashigi la
quale, seppur infreddolita, non aveva ancora abbandonato la propria
postazione da guardiana della porta – sicuramente era
incollata lì per controllare che nessuno decidesse di
marinare le lezioni, o almeno questo fu quello a cui la rossa
pensò.
«Immagino tu me lo sappia spiegare.»
L’occhialuta la guardò con
un’espressione vagamente confusa. «Di cosa stai
parlando?»
Nami puntellò le mani sulla vita femminile e sottile, da
perfetta modella di una rivista di moda.
«Dov’è andato Sanji?»
L’altra ragazza si diede dell’idiota mentalmente
per non afferrato il riferimento precedente, ma tentò di non
mostrarlo in pubblico. «Non sai cos’è
successo ieri pomeriggio?»
«Ti sembra che lo sappia?», rispose Nami con palese
acidità nella voce.
Si aggiustò le lenti rosse sul ponte del naso.
«Vinsmoke si è messo di nuovo nei guai.»
«Cosa?!», esclamò Luffy incredulo di
aver udito quelle parole. «Che ha fatto?»
Tashigi scosse la testa. «Il professor Borsalino lo ha
denunciato al preside per comportamento violento. Sakazuki lo vuole
vedere subito, non durante la giornata. Dato che prima ci siamo
incontrati, mi ha chiesto di convocarlo immediatamente.» Fece
una brevissima pausa per salutare Koby, il quale aveva appena fatto il
proprio ingresso nell’atrio. «Non so
altro.»
«Bugiarda!», urlò Luffy afferrandola per
il colletto del cappotto pesante e sollevandola da terra.
«Stai mentendo!»
«Lasciami immediatamente!»
Il moro non le diede ascolto. «Sanji non farebbe del male a
una mosca! Non ci credo che ha picchiato qualcuno, non è
possibile!»
Koby, il quale si era allontanato di qualche passo, corse indietro per
prestare soccorso alla compagna di Comitato. «Monkey,
smettila!», disse autoritario e incurante delle gambe
tremanti.
«Luffy!», strillò Nami afferrandolo per
il giaccone. «Non farle del male! Finirai anche tu nei
casini!»
Lui si voltò rabbioso verso l’amica. «E
dovrei lasciar perdere?!», sbraitò. «Non
ti fa incazzare che Sanji sia nella merda per qualcosa che sicuramente
non ha fatto?!»
«Certo che mi fa incazzare!», fece la rossa.
«Ma che motivo avrebbe Tashigi per mentirci? Pensaci, Luffy!
Non sappiamo cosa sia successo a Sanji, per questo prima di prendercela
con qualcuno faremmo meglio a parlare direttamente con lui.»
Il moro spostò più volte lo sguardo
dall’amica, a Koby e a Tashigi, che ancora si stava dimenando
alla sua presa ferrea con in volto un’espressione infastidita
e sofferente. «Hai ragione», decretò
infine con voce roca. Liberò l’occhialuta e le
disse: «Mi dispiace.»
Aiutata da Koby, lei si aggiustò il cappotto, sbottonandosi
il bottone più alto per lasciare libero il collo e favorire
la respirazione. «Non ti preoccupare», gli rispose
con tono fermo.
Nami gli prese la mano e lo tirò appena per incitarlo a
camminare con lei. «Andiamo ad asciugarci. Poi penseremo a
cosa fare con quel beota, okay?»
Luffy accennò un sorriso. «Okay.»
***
L’occhio tumefatto bruciava, nascosto dal lungo ciuffo di
capelli biondi.
Appena ricevuto il permesso per entrare, il ragazzo aprì la
porta e andò a sedersi su una delle due poltroncine presenti
davanti alla scrivania del preside, incurante di essere bagnato
fradicio dalla testa ai piedi.
Sakazuki lo fissava da dietro le mille scartoffie che aveva da firmare;
i muscoli tesi del collo e le sopracciglia aggrottate lo facevano
assomigliare a un vulcano pronto a esplodere e a spazzare via tutto. Se
avesse potuto avrebbe volentieri fumato un sigaro per sciogliere i
nervi, ma avrebbe infervorato i sensori presenti sul soffitto e sarebbe
scattato l’allarme antiincendio; l’unico fumo che
poteva aspirare era l’odore emanato dai vestiti dello
studente, ma sarebbe stato un crimine paragonare quella terribile
nicotina al sapore dei suoi cubani che conservava nel taschino della
giacca per qualsiasi evenienza.
Soffiò, proprio come se stesse fumando: «Mi
è stato riferito che hai aggredito un tuo compagno nel campo
da basket, ieri pomeriggio.»
Il ragazzo alzò il mento, impavido. «Sono stato
provocato.»
I vestiti rossi del preside parvero andare a fuoco, come a coronare il
sentimento di rabbia che gli ribolliva dentro. «È
tutto quello che hai da dire, Vinsmoke?»
Anche Sanji strinse i pugni – un modo per darsi un contegno e
non peggiorare la propria situazione. «Sì,
signore.»
«Non è la prima volta», fece Sakazuki
prendendo una penna e cercando dei fogli in un cassetto della
scrivania, «che vieni mandato da me per questo motivo. Non
sei in una buona posizione.»
Il biondo batté furiosamente un piede a terra in preda a un
tic nervoso.
Il preside lesse velocemente il contenuto del documento che si era
procurato al fine di accertarsi d’aver afferrato quello della
categoria giusta. «Non m’importa di quello che
combini nella tua vita, ma non tollero un comportamento simile
all’interno di queste mura.» Mise una firma rapida
e precisa nell’apposito spazio e gli consegnò il
foglio. «Ti consiglio di farti un esame di coscienza a casa
tua. Hai una settimana di tempo.»
Sanji prese con sé il comunicato e
s’alzò, dirigendosi verso l’uscita della
presidenza.
«Vinsmoke.»
A un passo dalla porta, dovette farsi violenza per non mettersi a
urlare. Si voltò nuovamente verso
l’autorità suprema dell’istituto e
rimase in silenzio, come un invito a continuare la frase.
«Alla prossima sei fuori. Chiaro?»
Si morse gli interni guancia per contenere la furia e si
sforzò di rispondere: «Sì,
signore.»
***
Forse perché non aveva nulla da perdere, forse
perché era convinta di poter dare una mano, o forse
perché non aveva niente di meglio a cui dedicarsi, Bibi
scelse di presentarsi agli allenamenti di pallavolo. La titubanza non
aveva ancora abbandonato completamente le fibre del suo corpo
infreddolito dalla tuta che stava indossando negli spogliatoi, che
avrebbero dovuto esser caldi abbastanza da non rischiare di far
prendere un raffreddore a qualcuno, ma il sistema di riscaldamento era
piuttosto inutile dinanzi agli spifferi che provenivano dal bagno
lì accanto. L’azzurra si domandò se
avesse preso una scelta giusta mentre si legava i lunghi capelli in una
coda di cavallo, lasciando che i ciuffi più corti le
cadessero ai lati del viso.
Ripose gli effetti personali nello zaino, che lasciò su una
delle panche dello spogliatoio, ed entrò in palestra; la
scoprì già in funzione grazie alle figure
femminili che stavano facendo stretching a bordo campo, ognuna per
conto proprio e senza guardare in faccia le altre.
«Sapevo che saresti venuta.»
La ragazza si voltò per guardare alla propria destra e
scoprì l’allenatrice che stava camminando nella
sua direzione. «Buon pomeriggio», salutò.
Viola la accolse con un gran sorriso, come se si sentisse sollevata
dalla sua presenza. «Sei arrivata giusto in tempo.
L’allenamento inizierà tra pochi
minuti.» Non le lasciò neanche qualche attimo per
guardarsi attorno ‘ché suonò il
fischietto, in maniera da richiamare l’attenzione delle altre
giocatrici. «Benvenute a tutte», così
iniziò il discorso. «Vi ringrazio per aver aderito
a quest’importante iniziativa. Siete parte fondamentale della
collaborazione tra il nostro liceo e Punk Hazard.»
Bibi si guardava i lacci delle scarpe, le dita delle mani intrecciate
dietro la schiena.
«Prima di inaugurare la sessione di allenamento, vorrei che a
turno vi presentaste», continuò
l’insegnante. «Provenite da anni diversi,
perciò non so se vi conoscete già. Reputo che il
rapporto umano sia fondamentale per portare a casa il nostro obiettivo.
Tengo a precisare una cosa: il nostro scopo non è vincere la
partita, bensì divertirci. È per questo motivo
che voglio spingere molto sul legame tra ognuna di voi. Forza, comincia
tu», fece guardando una delle giocatrici.
«Presentati alle tue compagne.»
La ragazza in questione fece un timido passo in avanti e
parlò: «Mi chiamo Margaret Kuja. Sono del primo
anno.»
Aveva una voce gentile, così Bibi ebbe il coraggio di alzare
lo guardo e squadrare silenziosamente le persone che le avrebbero fatto
compagnia in campo. Le bastarono pochi secondi per impallidire.
La seconda a presentarsi, difatti, aveva delle fattezze fin troppo
conosciute: il suo corpo, sbocciato in tutta la sua
femminilità, era ricoperto da una cascata di capelli color
pece che facevano a cazzotti con la pelle bianca. «Sono Boa
Hancock, del quarto anno», disse con voce adulta.
«Piacere di conoscervi.»
“Questa non ci
voleva”, pensò l’azzurra
mentre si affrettava a puntare gli occhi in direzione della terza
ragazza; quest’ultima era magra come un chiodo e possedeva
una tonalità di voce opposta a quella profonda di Hancock.
«Ciao, ragazze», starnazzò – o
almeno, Bibi associò il suo modo di parlare a una papera.
«Mi chiamo Perona Horo e sono del terzo anno.»
Accanto a quest’ultima, una giovane dai lunghi capelli verdi
si aggiustò un grosso paio di occhiali rotondi sul ponte del
naso. «Monet Harpie, quarto anno», disse solo.
L’ultima a parlare fu una ragazza che non aveva mai visto
prima d’allora: aveva dei dolci occhi azzurri e un cappello
rosso posato su corti capelli color caramello. «Piacere, sono
Koala Yukino», fece con un sorriso e un breve inchino.
«Sono una nuova studentessa. Mi sono trasferita in questa
scuola da pochi giorni. Ah,
e sono al quarto anno.»
Seguì un momento di silenzio in cui l’azzurra si
sentì sei paia di occhi puntati addosso, che le ricordarono
di doversi presentare poiché era giunto il suo turno. Si
schiarì la gola: «I-Io sono Nefertari Bibi e
frequento il secondo anno.»
La professoressa batté le mani con energia.
«Bene!», esclamò. «Adesso
cominciamo con un po’ di stretching. Distribuitevi lungo il
campo facendo attenzione a non urtarvi tra di voi.»
E mentre correva sul posto a ritmo di un assillante fischietto e sotto
il pressante sguardo di una compagna di gioco in particolare, Bibi
tornò a domandarsi se quella fosse stata realmente una buona
idea.
***
Una persona normale, una volta finito di prendere appunti, avrebbe
poggiato la matita a lato della carta, tenendola pronta a un nuovo
utilizzo – e invece Franky se l’appoggiò
sull’orecchio destro come se fosse stata la stanghetta di un
paio di occhiali da vista.
«Così dovrebbe andare»,
borbottò grattandosi la nuca.
Fece scorrere gli occhi sui fogli da disegno che aveva dinanzi a
sé, e il suo sorriso s’allargava man mano che
osservava i dettagli che aveva tracciato fino a pochi minuti prima con
il suo grafite appuntito. Sparpagliò meglio i fogli sul
tavolo in modo da riuscire a guardarli tutti assieme; il lavoro, nel
complesso, non era niente male. Si fece i complimenti da solo, spinto
dall’alta considerazione che aveva di sé stesso,
mentre con il pollice di una mano scorreva i numeri salvati nella
rubrica del cellulare alla ricerca di un contatto specifico; appena lo
trovò cliccò la cornetta verde apparsa poco sotto
come per magia.
«Dimmi, Franky»,
sentì dire dalla persona che aveva accettato la chiamata.
«Ho finito di disegnare i progetti, fratello.»
«Di
già?! Ci hai messo appena due giorni!»
Lui si pettinò il ciuffo di capelli azzurri con le dita
della mano libera. «Che ci vuoi fare, amico? Sono un fottuto
genio.»
Dall’altro capo si sentì un sospiro. «Sì, sì. E
a cosa hai pensato?»
Franky scattò in piedi, alimentato dalla foga del momento e
dai litri di bevande energetiche che aveva mandato giù per
tutta la giornata. «Prima di tutto, faremo una parete su
misura per lo sfondo del primo atto», disse camminando in
tondo. «Poi, per la seconda scena, aggiungiamo in
più solo qualche oggetto scenografico.»
«Ne sei sicuro?»,
gli venne chiesto. «Il
secondo atto è breve, ma è la parte
più importante della storia.»
«Sta’ tranquillo, nasone», gli rispose.
«Dobbiamo concentrare tutta la nostra attenzione sul terzo
atto.»
Usopp sospirò nuovamente. «Be’, sì,
è la scena che piace a tutti. E per il finale, invece?»
«Mh,
a quel punto si torna alla prima scenografia. Mi rompe non poter
aggiungere niente di nuovo, dato che tutti gli attori si riuniranno sul
palco in quel momento.»
«Effettivamente
è un problema», fece il suo
interlocutore. «Ricorda
che devi avere l’approvazione del professor Paulie.»
«Sono sicuro che l’avrò»,
rispose Franky sedendosi pesantemente sul letto di camera sua.
«Te, invece, a che punto sei?»
Si sentì uno starnuto. «Ehm, sto buttando giù
alcuni schizzi per la prima parte dello spettacolo. Credo di riuscire a
finire per domani.»
«Tanto non supererai mai i miei. Sono moooolto
più super!»
«Guarda che
non è una gara. E poi non siamo gli unici del club di
falegnameria a star lavorando per le scenografie del corso di teatro.»
Franky grugnì sonoramente. «Lo sanno tutti che io
e te siamo i più capaci, Usopp. Li hai visti, come lavorano?
Fanno tenerezza.»
«Sì,
effettivamente non so cosa ci facciano lì.»
Aggiunse: «Ah, e
domani ricordati di portare le viti di cui abbiamo parlato stamattina.
Quelle nella scatola si sono volatilizzate.»
«Ci penso io, ci penso io», fece tornando ai suoi
progetti illuminati da una forte luce gialla proveniente da una lampada
da tavolo. «A domani, fratello.»
Quando Usopp lo salutò a propria volta, Franky
riagganciò e abbandonò il cellulare sulla
superfice legnosa della scrivania per poter ammirare nuovamente il
frutto della sua fervida e matematica immaginazione.
Accarezzò con i polpastrelli le sottili rughe della carta.
Proprio in quel momento udì dei rumori in lontananza, ma il
suo orecchio era abbastanza allenato da intercettare dei passi veloci e
allegri salire su per le scale di casa e poi correre lungo il
corridoio; un paio di ciabatte sbatterono e strusciarono sul pavimento
piastrellato fino alla sua camera da letto – che il ragazzo
aveva precedentemente chiuso per poter disegnare indisturbato
–, poi si sentì bussare e una vocina parlare:
«Fraaanky,
ci sei?»
Lui scosse la testa sorridendo. «Certo che ci sono,
Chimney.»
Una bambina di non più di dieci anni fece capolino nella
stanza, rivelando un viso paffuto e dei lunghi capelli legati a
mo’ di trecce talmente strette da schizzare vero
l’alto; sorrideva mostrando i denti sporchi del rossetto con
cui spesso si divertiva a colorarsi le labbra piene.
«Scendi», gli disse. «È
arrivato il fratellone.» Trotterellò indietro e
produsse il medesimo rumore di quand’era arrivata.
Il ragazzo guardò allora l’orario sul display del
cellulare e, accompagnato dal brontolio del proprio stomaco,
decretò fosse finalmente arrivata l’ora di cena.
Si pettinò il lungo ciuffo azzurro con il pettine sottile e,
un’occhiata allo specchio dopo, abbandonò la
camera per dirigersi nel salotto al piano inferiore da cui provenivano
molteplici voci. Trattenne un sorriso quando i suoi piccoli occhi
incontrarono la figura dell’ospite appena approdato,
nonché suo fratello maggiore; aveva sempre avuto un rapporto
conflittuale con lui, ma crescendo entrambi avevano imparato a
convivere pacificamente – fino a quando, anni prima, il
maggiore aveva abbandonato il nido per poter continuare il proprio
percorso di formazione presso un’università
privata a centinaia di chilometri da casa. Raramente aveva fatto
ritorno, se non per qualche visita di cortesia in occasione delle
più varie festività, eppure il ragazzone avrebbe
potuto riconoscerlo anche a un miglio di lontananza.
«Franky», gli disse con un sorriso di cortesia
sulle labbra. «Da quanto tempo.»
Nessuno dei due si era mai mostrato espansivo nei confronti
dell’altro, perciò Franky si guardò
bene dal dargli delle calorose pacche sulla schiena e sulle spalle,
sulle quali si era invece arrampicata la piccola Chimney senza troppe
cerimonie.
«Ti trovo bene, Iceburg», rispose poggiando un
gomito sul passamano delle scale.
Il maggiore annuì. «Mah, non vi ho
ancora presentato la mia ragazza», disse facendo un cenno
alla bella donna che lo affiancava, alta quasi quanto lui e magra come
un chiodo, avvolta in un elegante completo sobrio. «Lei
è Kalifa. Ci siamo incontrati al college.»
Lei fece un lento inchino, e i suoi lunghi capelli biondo cenere
scivolarono verso il basso. «È un piacere
conoscere voi tutti.»
Una risata sguaiata seguì subito dopo; proveniva dalla larga
bocca di un’anziana comodamente vestita: le numerose rughe
che le caratterizzavano il volto si stropicciavano a ogni suo
singhiozzo e le donavano un’aria calorosamente simpatica.
«Benvenuti, benvenuti!», disse, per poi alzare al
cielo una bottiglia di vino appena stappata. «Bisogna
festeggiare il ritorno del mio caro nipote come si deve»,
aggiunse quasi come se volesse giustificare la presenza
dell’alcolico tra le sue mani callose.
«Nonna», fece Franky, «vacci piano.
Ricordi cosa ti ha detto il dottore?»
La vecchia annuì senza modificare la propria espressione e,
nel farlo, barcollò. «Certo che me lo ricordo. Non
sono mica stupida.»
«Sei malata, nonna?», domandò Iceburg
accostandosi a lei.
«Ma no, ma no», rispose la donna anziana.
«Ho solo qualche valore sballato, niente di
preoccupante.»
Anche Franky si mise al suo fianco al fine di scortarla fino alla
tavola, dove Chimney si era già seduta dondolando
vivacemente le gambe. «È vero, ma devi comunque
smettere di bere così tanto vino.»
Lei poggiò la bottiglia sulla tavola bianca.
«Infatti questo ben di Dio non è solo per me. Lo
condivido con voi, che siete la mia famiglia. Anche con te,
cara», aggiunse rivolgendosi a Kalifa, la quale la
ringraziò pacatamente per la generosa offerta.
Le portate della cena furono a dir poco squisite, tanto da venir
divorate una dopo l’altra; proprio per questo motivo non
volò più di qualche manciata di chiacchiere in
aria, riempita solo dal tintinnio delle posate e dall’unica
bambina presente, che masticava a bocca aperta e si guardava attorno di
continuo, facendo smuovere le sue lunghe trecce disordinate.
«Come sei bello, fratellone», disse
quest’ultima con un sorriso che le andava da un orecchio
all’altro. «Sei andato a una cerimonia,
prima?»
Iceburg diede una rapida occhiata alla propria giacca a righe.
«No, Chimney», rispose. «Mah, ormai sono
abituato a vestirmi in questo modo.»
«Eeh?
Sei sempre così elegante?»
«È la prassi per il mio lavoro.»
Franky alzò un sopracciglio. «E che lavoro
fai?», domandò con sincera curiosità.
L’altro si tamponò gli angoli della bocca con il
proprio tovagliolo, lasciando su di esso piccole tracce della salsa che
aveva da poco mangiato. «Sbrigo delle commissioni presso il
Comune di Venice.»
«Tesoro», intervenne Kalifa poggiando una mano su
quella del fidanzato. «Non esser timido e di’ loro
la verità.»
«Mah,
non vorrei far la figura del vanitoso.»
«E invece meriteresti solo delle lodi. Glielo dica anche lei,
Kokoro.»
L’anziana mandò giù il fondo del
bicchiere sporco di vino rosso e rivolse l’ennesimo gran
sorriso al primo nipote. «Forza, Iceburg», lo
incitò.
Lui si passò una mano tra i capelli viola fissati tra loro
grazie a un’abbondante quantità di gel.
«Lavoro al Comune di Venice perché ne sono il
sindaco.»
La nonna spalancò la bocca mentre Chimney si mise a urlare;
anche Franky non poté credere alle proprie orecchie.
«Mi sono candidato alle scorse elezioni e le ho vinte. Mah, è
il primo passo per entrare nel grande mondo della politica»,
spiegò, per poi riprendere a mangiare.
«Propongo un brindisi per festeggiare questo bellissimo
traguardo.»
«Nonna!»
La bambina bionda rise allegramente. «Sei grande,
fratellone!», esclamò tutta contenta. «E
perché hai cambiato il sogno della tua vita?»
Kalifa si voltò in direzione di Iceburg. «Credevo
che fosse la politica, il sogno della tua vita. Ne avevi un
altro?»
«E lo è», le rispose accennando un
sorriso. «Ma quando ero più giovane trascorrevo
molto tempo all’officina di Tom, in fondo alla
strada.»
«Perché non passi a fargli un saluto?»,
fece Kokoro. «Sono certa che sarebbe molto contento di
rivederti.»
«Senz’altro.»
Franky storse la bocca, i denti digrignati e la mascella contratta.
«Ancora non riesco a capire perché diavolo tu te
ne sia andato», disse sprezzante – quella storia
gli faceva bruciare lo stomaco e non poco anche a distanza di cinque
anni. «Eri portato per la falegnameria. Tom aveva una marea
di progetti da affidarti per mandare avanti la sua attività,
e tu te ne sei fregato. Gli hai voltato le spalle come se non ci fosse
stato nulla in gioco.»
Iceburg distolse lo sguardo, sentendosi scomodo in quella conversazione
con il fratello minore. «Mah,
ho solo seguito la mia strada. Non nascondo di essermi divertito in
falegnameria, ma era solo un passatempo per me.»
«Sei stato un egoista!», esclamò Franky
scattando in piedi. «Un egoista bastardo!»
«Fratellone», starnazzò Chimney
coprendosi le orecchie con le mani, «non si dicono le
parolacce!»
«Franky, cerca di capirmi.»
Una vena pompò furiosamente sul suo largo collo.
«Cosa dovrei capire? Quel vecchio aveva scommesso tutto su di
te! Quando ti sei trasferito, lui…»
Anche Iceburg si alzò e sbatté le mani sulla
tavola imbandita. «Quali colpe avrei?», gli
domandò retoricamente. «Avrei dovuto congelare il
tempo e rimanere fermo allo stesso punto? A respirare la polvere
accumulata sulle mensole e a ferirmi le mani con le seghe
circolari?»
«Tesoro», lo chiamò Kalifa con
preoccupazione.
A sentire la sua voce, l’uomo si calmò e
tornò a sedere. «La vita va avanti,
Franky», disse con compostezza. «Mah. Cerca di
capirlo anche tu.»
Angoletto degli
Easter Egg!!
1. Le
sue dodici fatiche erano giunte alla fine: quelle di
Eracle, uno dei celebri eroi della mitologia greca successivamente
romanizzata in Ercole.
2. Imponendogli
di chiamarla cigno: non ho nulla da dire se non
NAMI-SWAAAAAN—
3. Impedito
com’era […] a contatto con l’acqua:
riferimento all’indebolimento causato dall’acqua
marina nella serie originale.
4. Guardiana
della porta: sottilissima reference alla battaglia contro
Monet, quando la mia amata Copycat è rimasta indietro per
proteggere il corpo del G5.
5. Lo
facevano assomigliare a un vulcano pronto a esplodere:
perché Cane Rosso questo è.
6. Comune
di Venice: se Water 7 prende spunto da Venezia…
Angoletto
dell’Autrice!!
Mentre mi sto occupando dell’editing di questo capitolo, sto
sorseggiando l’Ocean Bomb a tema Sanji - e posso dire che fa
proprio schifo. Desculpame, mi amor.
Come avete trascorso le feste di Natale? Avete recuperato tutti gli
episodi di One Piece? Vi vedo, che siete indietro! Daidaidai che tra
pochi giorni approdiamo a Egghead E IO NON VEDO L’ORAAAAAA--
Zoro:
Nel prologo ti eri raccomandata di non fare spoiler, e ora nomini
Egghead come se nulla fosse?
Maaaaa tantooooo lo sanno tuttƏ
che è la prossima isola...
Zoro:
Cosa mi aspetto? A te piace il cuoco.
Purtroppo i biondi hanno una grandissima influenza sul mio
autocontrollo.
Vi do appuntamento al prossimo capitolo. Piccola anticipazione: ci
sarà una scena ZoRobin per i fan di questa ship!
A presto,
-Channy
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Capitolo 10 *** Sleeve, Silence and Tears ***
9
Sleeve,
Silence and Tears
Accovacciato a terra, prese a controllare se il proprio
zaino contenesse tutto il materiale di cui avrebbe avuto bisogno
durante quella che si prospettava essere una lunga e faticosa giornata.
Ficcò la testa dentro la cartella e frugò tra i
quaderni come una talpa intenta a scavare una buca: gli appunti
c’erano, così come le matite e le penne di
riserva; di lato troneggiava la sua fiera borraccia contenente acqua
sempre fresca, mentre dalla parte opposta sbucava lo skateboard nero
che non sapeva mai dove parcheggiare durante le lezioni. Ace
esultò mentalmente, abbandonò il proprio
armadietto e si avviò fischiettando verso la propria aula.
«Come mai così di buon umore?»
Riconobbe la persona che aveva parlato nell’immediato istante
in cui udì la voce. Si voltò a salutare Sabo con
un gran sorriso e gli disse: «Perché oggi,
fratello, è il giorno della mia vittoria.»
Il biondo lo affiancò per camminare insieme a lui, dato che
la loro destinazione era la stessa. «Hai vinto la schedina al
banco delle scommesse?»
«No, no», rispose Ace. «Oggi
prenderò il mio primo voto pieno.»
Sabo parve riflettere su quelle parole, alla ricerca del nesso logico
che le univa; poi ricordò. «Aah, oggi
c’è il test di fisica!», fece battendo
un pugno sulla mano aperta. «E tu vorresti dirmi che hai
studiato?»
«Certo», rispose il moro con un sorriso smagliante.
«Ho studiato il modo per copiare tutte le risposte senza
essere scoperto.»
«Ah,
ecco, mi sembrava strano.»
Raggiunsero in fretta l’aula e presero posto l’uno
accanto all’altro; Ace si adoperò subito per
mettere in atto il suo piano, incurante degli sguardi curiosi dei suoi
compagni di corso. «Hai presente quando si dice un asso nella manica?»,
chiese al biondo armeggiando con una manciata di bigliettini contenenti
scritte microscopiche. «Mi basterà attaccarli
all’avanbraccio con dello scotch. Il prof non se ne
accorgerà mai.»
«Non per rovinare i tuoi piani per conquistare il
mondo», fece Sabo ridacchiando, «ma non credi che
si possa insospettire vedendoti con le braccia scoperte il ventisette
novembre?»
Il moro staccò un pezzo di nastro adesivo con
l’ausilio dei denti e posizionò il primo biglietto
sul proprio polso sinistro. «Ma no, ti assicuro che Issho non
mi vedrà neanche!»
«Se lo dici tu…»
«Inoltre», continuò Ace, «tu
potresti passarmi qualche risposta visto che sei qui.»
«Non ci penso nemmeno.»
«E perché?»
Il biondo sfogliò alcune pagine del proprio manuale di
fisica, intenzionato a ripetere gli ultimi concetti prima del suono
della campanella. «Perché non mi voglio rovinare
la media, mi sembra logico.»
Ace roteò gli occhi al cielo. Lo scimmiottò con
una smorfia: «Logico, logico…»
«È tutto quello che so.»
«Ripeti sempre le stesse cose», lo
canzonò l’altro. «Non fai altro che
stare sui libri, sembri un matto. Anzi, lo sei.»
Sabo sospirò poggiando il mento su una mano, il gomito
coperto da un maglione blu puntellato sulla superficie legnosa del
banchetto. «Lo sai che i miei tengono molto alla mia
formazione. È già tanto che mi abbiano permesso
di frequentare un liceo pubblico per stare con te e Luffy, altrimenti
mi avrebbero rinchiuso volentieri in un carcere per geni.»
Guardò fuori dalla finestra e i suoi occhi catturarono il
volo sbarazzino di un uccello diretto al proprio nido, costruito con
della pagliuzza incastrata tra i rami di un albero ormai spoglio.
«Ma anch’io considero lo studio una cosa
importante. Voglio costruirmi un futuro solido.»
Ace incrociò le braccia al petto. «Potrai
inseguire i tuoi sogni una volta uscito di qui», disse
imbronciato e dondolandosi sulla sedia. «I tuoi ti hanno
già iscritto al college, no? Quest’ultimo anno
è la tua occasione per divertirti e goderti la vita senza
alcun rimpianto. Perché non ci arrivi?»
«E chi ti dice che non mi stia già
divertendo?», fece il biondo con un sorrisetto in volto.
«Bighellonare con te e gli altri nei corridoi durante le
lezioni mi fa sentire un vero ribelle.»
«Ma ti senti?! Solo un secchione come te potrebbe usare la
parola bighellonare
durante una chiacchierata con suo fratello», lo
canzonò Ace trattenendo una risata.
L’altro non fece in tempo a rispondere che la campanella
trillò nelle orecchie dell’intera popolazione
studentesca, mettendo fine al breve intervallo per il cambio
dell’ora e annunciando l’imminente inizio della
verifica. Ace si strofinò le mani e nascose nel proprio
zaino le prove del crimine appena compiuto, lasciando sul banco solo
una Bic
nera col tappo morsicato molteplici volte.
Tuttavia la soglia della porta della classe venne varcata da un
individuo che affatto somigliava al docente che avrebbe dovuto
presenziare durante quell’ora; la figura di
quell’uomo era resa sgargiante grazie alla vivace camicia a
fiori che sbucava allegramente da sotto una giacca più
sobria. Ace lo riconobbe immediatamente e si chiese cosa ci facesse
lì, in piedi accanto alla cattedra dell’aula. Come
se gli avesse letto nel pensiero – o forse perché
era la prassi per giustificare la propria presenza tra quelle mura
– l’uomo, accompagnato dal silenzio generale che si
era venuto a creare tra gli studenti, disse: «Il vostro
docente di fisica è assente per malattia.»
Un urlo di esultanza si elevò in aria, ma fu
un’azione sconsiderata e prematura.
«Tuttavia», continuò con un sorriso
cordiale in volto, e le voci cessarono nuovamente di farsi udire,
«io insegno la stessa materia. Il test di oggi si
svolgerà come da programma.» Ignorò poi
la somma delusione che si era sollevata tra gli alunni e
distribuì i fogli a ciascun ragazzo. «Avete
un’ora di tempo. Per qualsiasi dubbio potrete rivolgervi a
me.»
Ace si sporse verso Sabo e sussurrò: «Che cazzo ci
fa Fenice qua?»
«E lo chiedi a me?»
«E a chi dovrei chiederlo?! Questo non è mezzo
cieco come Issho! Mia madre mi vuole tagliare i viveri!»
«Senti», fece il biondo scrivendo il proprio nome
sul foglio, «non puoi scappare né correndo fuori
dalla porta né tantomeno saltando giù dalla
finestra. Tanto vale che provi a fare il compito.»
«Sabo, se prendo meno di B sono fottuto!»
«C’è qualche problema?»
Ace sentì il sangue nelle vene congelarsi; vide Sabo avere
la medesima reazione, ma fu più furbo poiché
incollò la faccia sulla verifica che aveva dinanzi a
sé. Voltò lentamente il capo si trovò
faccia a faccia con Marco, il quale lo fissava dall’alto con
aria a metà tra il rimproverante e il curioso; aveva le
braccia incrociate al petto e un ciuffo di capelli biondi che gli
ricadeva ribelle sulla fronte, e in qualche modo Ace si
sentì avvampare: gli faceva uno strano effetto essere
osservato in quella maniera, da quegli occhi così piccoli da
rendere impossibile scoprire il colore delle iridi.
Si ricordò improvvisamente di dover rispondere;
deglutì. «No, professore.»
Il docente studiò la postazione dello studente con sospetto
e sorrise con una vaga soddisfazione quando intravide qualcosa di
severamente vietato. «Posso chiederti per quale motivo,
allora, ti stavi agitando fino a un attimo fa?»
«Perché», temporeggiò
– ma cosa gli stava succedendo? «non mi aspettavo
che il professor Issho fosse malato. Solitamente è un
vecchietto molto arzillo.»
«Capisco», rispose Marco. «E considerando
i suoi problemi di vista hai creduto di passare inosservato con quei
bigliettini.»
«Già… No, un attimo! Non ho dei
bigliettini!», urlò scattando in piedi ma,
così facendo, lo scotch che aveva utilizzato in precedenza
si allentò; di conseguenza dai suoi vestiti larghi volarono
via dei piccoli fogli di carta bianca.
L’insegnante allargò il sorriso, che quasi pareva
una smorfia di puro divertimento. «Davvero?»
Sabo si sbatté una mano sulla fronte, dando mentalmente
dell’idiota al fratello, mentre quest’ultimo
continuava a osservare i biglietti danzare per aria poiché
troppo leggeri per crollare sul pavimento a peso morto.
«Ragazzi», fece Marco rivolgendosi alla restante
parte della classe, la quale stava osservando la scena con
incredulità, «potete continuare a svolgere il
vostro test. Con te, invece», disse tornando a guardare Ace,
«vorrei fare due chiacchiere in privato. Ti aspetto in sala
professori dopo le lezioni.»
Il motivo non seppe spiegarselo, ma quell’ordine, ad Ace, non
dispiacque affatto.
***
Duecentoquarantasette, duecentoquarantotto, duecentoquarantanove,
duecentocinquanta.
A contare sapeva contare, eppure Zoro aveva la vaga sensazione di star
andando nella direzione sbagliata: ricordava che la sua meta si trovava
vicino all’armadietto numero duecentouno ma, da quando aveva
abbandonato la lezione di storia per tuffarsi nel corridoio, non aveva
scorto quelle cifre neanche una volta – doveva sicuramente
trattarsi di un deficiente che si era divertito a cambiare le targhette
dei piccoli ripostigli in ferro, dato che quella strada la faceva tutti
i giorni. E poi, quando erano stati appesi quei cartelloni colorati di
azzurro e giallo? Era sicuro che la mattina prima non ci fossero,
così come l’aula di inglese la ricordava accanto
alle scale.
«Ma guarda chi si vede.»
Mantenendo le mani nelle tasche dei pantaloni felpati, il ragazzo
arrestò la camminata svogliata e puntò gli occhi
in quelli azzurri di Robin, che stava poggiata contro una parete
spoglia a braccia conserte, il suo solito sorrisetto indecifrabile a
coronarle il volto pulito.
«Hey», la salutò mantenendo
un’espressione annoiata e a tratti imbronciata.
«Stai cercando qualcuno?»
Zoro fece spallucce. «Sto andando a pisciare.»
Lei ridacchiò coprendosi la bocca con le unghie smaltate di
nero.
«Che cazzo ridi?»
«I bagni», gli disse senza smettere di divertirsi,
«sono da tutt’altra parte.»
Il ragazzo si grattò la nuca guardandosi attorno –
ora tutti i tasselli del puzzle sembravano essere tornati ai propri
posti. Sentire la risata dell’amica lo faceva sentire in
imbarazzo, sentimento che odiava profondamente, pertanto si
affrettò a cambiare discorso: «Tu che stai facendo
qua impalata?»
Il riso di Robin si placò, ma lei non smise
d’esser allegra. «Sto indagando.»
Zoro storse la bocca – detestava quando lei si comportava in
quella maniera così misteriosa. «Sinceramente non
ci tengo a sapere su che cosa.»
«Invece credo che ti possa interessare.»
Alzò un sopracciglio. «Eh?»
Robin si mise un dito sulle labbra, facendogli cenno di non parlare; fu
allora che il ragazzo si accostò a lei, silenzioso come
un’ombra, per sbirciare con gli occhi e con le orecchie nella
porta che stava lì accanto. “L’ufficio
di Spandman?”, si domandò con
curiosità e sospetto; la prima figura che riuscì
a scorgere fu proprio quella del vicepreside – non fu
complicato, dato che quell’uomo era solito urlare e dimenarsi
come un ossesso a ogni problema –, per poi concentrarsi sulle
due persone che, sedute sulle poltrone della stanza, davano le spalle
alla porta: nonostante ciò, riuscì a riconoscere
immediatamente Smoker e Hina.
«Credevo che foste i migliori in circolazione!»,
sbraitò Spandman. «Ecco perché vi ho
lasciato campo libero!»
Con il capo leggermente chinato in avanti, a rispondergli fu la
ragazza: «Hina e Smoker sono dispiaciuti, signore. Hina la
prega di accettare le loro scuse.»
«Ma quali scuse e scuse! La vostra incapacità non
servirà a riparare i danni!»
«Hina e Smoker ne sono perfettamente consapevoli.»
«E piantala di parlare in terza persona! Mi fai solo
infuriare di più!»
Fu il turno del rappresentante d’istituto di parlare:
«Lei ha ragione, vicepreside, noi siamo i migliori in
circolazione. È per questo motivo che non ha
necessità di scaldarsi in questo modo.»
Spandman fece crollare due pugni sulla scrivania, per poi lanciarsi col
busto in avanti per fissarlo meglio negli occhi. «Certo che
ne hai di fegato, ragazzo. Osi parlare in questa spregevole e arrogante
maniera a un’autorità del mio calibro!»
Tornò a sedersi compostamente, rosso in viso per essersi
sgolato. «Ricordatemi come è nata questa
faccenda.»
«Ci è giunta una voce di
corridoio…»
«Voce di corridoio, voce di corridoio!»,
tornò a urlare. «Ogni volta che succede qualcosa
in questo istituto è sempre colpa di una voce di corridoio!
Non vi sembra assurdo?!»
Sia Zoro che Robin riuscirono a captare l’immenso nervosismo
di Smoker che, chissà come, stava riuscendo a mantenere la
calma e a non esplodere. «È per questo motivo che
abbiamo indagato a lungo.»
Il vicepreside sospirò pesantemente. «È
trascorso un mese dall’inizio di questa storia e voi due
più i vostri aiutanti, o come si chiamano, non siete
riusciti a dimostrarmi nulla.» Bevve un sorso di
caffè dalla tazzina che stava lì di fianco, ma si
scottò la lingua e imprecò:
«Accidenti!» Alitò sui visi dei due
studenti, immobili come statue di marmo, per poter rinfrescare la
cavità orale. Poi si ricompose e disse: «Avete
sollevato un polverone per niente. Non avete prove, non avete
colpevoli, solo sospetti che non valgono il becco d’un
quattrino. Ne siete consapevoli, almeno?»
«Sì, signore.»
«Bene», decretò Spandman trafficando con
dei documenti sparsi per la scrivania. «La questione
è ufficialmente archiviata. Non mi venite più a
parlare né di feste segrete né tantomeno di
trofei! Ho già spedito i più danneggiati da uno
specialista che li rimetterà in sesto. Sono stato
chiaro?!»
Non diede loro il tempo di rispondere ‘ché si
alzò dalla propria poltrona e, a grandi falcate pesanti come
passi di un elefante inferocito, uscì dall’ufficio
per dirigersi verso un luogo ignoto; era così agitato che
non si accorse di essere passato accanto ai due intrusi, i quali
restarono attaccati al muro per continuare a sentire ciò che
i membri del Comitato studentesco avevano da dirsi.
«Cazzo, ho finito i sigari.»
«Non vorrai mica fumare qui dentro?»
«Quello che mi fa imbestialire», disse Smoker a
denti stretti, «è che sono costretto ad arrendermi
così. Dammi pure del pazzo e del rompicoglioni, ma questa
storia non mi va ancora giù.»
«Sei un pazzo e un rompicoglioni», fece la ragazza
dai capelli rosa. «E lascia che Hina te lo dica, ti fidi
troppo.»
Lui grugnì, tenendo incollate le braccia conserte al petto.
«Tashigi può essere imbranata e certe volte
svampita, ma prende molto sul serio quello che fa. Non credo che si sia
inventata tutto. A che scopo, poi?»
«Magari ha sentito una cosa per un’altra.»
«Nah.
Non sembra, ma è riflessiva. Oltretutto, Hina, ricorda
quello che hai trovato.»
Zoro e Robin si guardarono reciprocamente, allarmati: erano sicuri di
aver pulito tutto prima di abbandonare l’edificio scolastico
la notte dell’illegalità, quindi a cosa si stavano
riferendo quei due?
La fumatrice distese le labbra colorate di ciliegio in un sorriso ed
estrasse dal taschino della propria giacca rossa un piccolo pendente
con una perla color acquamarina. «Potrebbe appartenere a un
intruso o all’addetta alla videosorveglianza licenziata
l’anno scorso. Chissà?»
Smoker si alzò finalmente dalla poltroncina. «Non
separartene mai. Potrebbe essere importante.»
«Allora non hai intenzione di mollare?»
Lui la fissò dall’alto. «Per quanto mi
faccia incazzare, devo seguire gli ordini di quello stronzo di un
vicepreside», disse distogliendo lo sguardo. «Ci
sono tanti altri problemi in questa scuola ed è giusto che
me ne occupi. Ma la mia mente non dimentica le cose tanto
facilmente.»
Suonava molto come un avvertimento, ma sia Robin che Zoro si sentirono
liberi di tirare un sospiro di sollievo. Camminarono velocemente per
allontanarsi da quella zona, in modo da non farsi scoprire dal
rappresentante degli studenti e, nel mentre, la corvina estrasse il
cellulare dallo zaino a tracolla.
«A giudicare dalla tua faccia», fece il ragazzo,
«sai a chi appartiene quell’orecchino.»
Robin mosse rapidamente i pollici sullo schermo del telefono e rispose:
«Sì, è di Nami. Mi ha detto di averlo
perso la sera della festa.»
«È sempre colpa di quella mocciosa.»
Lei non staccò gli occhi dallo smartphone. «Non ti
crucciare. Basta avvertirla e quel gioiello diventerà un
orfano. Peccato, è così bello.»
Zoro sbuffò sonoramente. «Voi donne siete
superficiali.»
La ragazza ridacchiò, riponendo il proprio cellulare nella
borsa. «Lasciamo perdere gli stereotipi che voi uomini ci
avete affibiato. È un ottimo giorno per noi. Dobbiamo andare
subito a dare la bella notizia agli altri.»
«Vacci tu», le disse lui. «Io devo ancora
trovare il cesso.»
«Sinceramente non me l’aspettavo.»
Zoro trasalì. «Piantala, non mi sono perso! Volevo
dire che…»
Robin rise ancora e si arrestò accanto al proprio
armadietto. «Non intendevo questo», gli fece
inserendo la combinazione e aprendo lo sportello. «La ragazza
di Smoker è rimasta in silenzio. Non me lo sarei aspettato,
dato il suo senso del dovere.»
A quel punto il ragazzo avrebbe potuto esprimersi in quattro modi:
avrebbe potuto gioire, innanzitutto, nel sapere che finalmente avrebbe
potuto lasciarsi alle spalle quella storia dell’orrore durata
fin troppo; avrebbe potuto fare il vago e restare sulle sue,
commentando che era sempre stato certo di passarla liscia; avrebbe
potuto fare spallucce e andarsene, come era solito comportarsi, dato
che la sua vescica gli stava implorando di raggiungere un orinatoio al
più presto; avrebbe anche potuto mostrarsi appena
preoccupato per le scoccianti intenzioni di Smoker, ricordando
all’amica che il pericolo sarebbe rimasto sempre in agguato.
E invece tutto ciò che riuscì a formulare fu:
«La quattrocchi e quel tossicodipendente stanno
insieme?»
Robin posò un libro su uno scaffale di ferro e ne
recuperò un altro, che le sarebbe tornato utile per il corso
avanzato di storia al quale si era iscritta con entusiasmo.
«Potrebbe essere. Lei lo segue ovunque e gli obbedisce come
un soldatino. E come hai potuto sentire poco fa, anche lui sembra
preoccuparsi per lei.» Gli rivolse l’ennesimo dei
suoi sorrisi enigmatici. «La cosa ti infastidisce?»
Infilò il mignolo della mano sinistra
nell’orecchio per grattarselo, mentre si allontanava
svogliatamente. «Ma che cazzo me ne frega.»
***
«Okay, ancora una volta e ci siamo.»
Avrebbe tanto voluto ripetere quelle nozioni ad alta voce, ma sapeva
che avrebbe solamente disturbato gli altri studenti rinchiusi in
quell’aula studio, l’unica in tutto
l’istituto in cui la gente rispettava lo scopo al quale era
stata adibita. Il silenzio era fatto di bisbigli e borbottii appena
udibili, di fruscii di pagine voltate, dello sfregare delle matite
consumate sui quaderni, dei sospiri tristemente rassegnati, dei rumori
ovattati provenienti dal corridoio e delle chiacchiere sussurrate per
non risultare come un trombone orchestrale in una spoglia galleria
scavata in una vecchia montagna.
Il volume del Codice Penale pesava sul tavolo e nella mente, ma il suo
scopo la costringeva a ricordare a memoria ogni singola parola
riportata su quell’alto libro; davanti a sé non vi
era l’ombra di appunti o post-it sgargianti: il suo studio
era fatto di scritte nere e sottolineature della medesima colorazione.
«Ti disturbo?»
Tashigi alzò gli occhi e l’articolo numero
centoottantatre sparì dalla sua vista, scoppiando come una
bolla di sapone; la silhouette di Nami risultava essere più
slanciata del solito grazie agli stivali col tacco che aveva deciso di
indossare quella mattina, donandole un’aria adulta rispetto a
quella da eterna adolescente sbarazzina che la caratterizzava
solitamente.
«No, accomodati pure», le rispose indicando la
sedia accanto alla propria.
La rossa si sistemò, estraendo dalla propria borsa un
manuale di geometria analitica, un quaderno a quadretti e il necessario
per poter scrivere. «Sembra complicato», le disse
alludendo al libro della facoltà di giurisprudenza.
L’occhialuta annuì piano. «È
per questo che lo studio con un anno d’anticipo.»
Si sentì in dovere di dire altro per non lasciare che un
velo di imbarazzo si stendesse su di loro. «Anche tu ti
prepari per il test d’ammissione?»
Nami sorrise. «Già. Devo impegnarmi al massimo per
riuscire a entrare.»
«Farai matematica quindi?»
«Economia, nello specifico.» Ridacchiò.
«Mi piacciono i soldi.»
Quella confidenza tanto onesta e schietta fece stupire Tashigi, la
quale si costrinse a soffocare un sorriso spontaneo.
Rimasero tranquille per un paio di minuti, fino a quando Nami non prese
nuovamente la parola. «Volevo chiederti scusa da parte di
Luffy», fece picchiettando una penna sulla carta.
«L’altro giorno ti ha trattata molto male e,
be’, neanch’io sono stata esattamente un angelo nei
tuoi confronti.»
L’altra continuò la propria lettura.
«Ormai è acqua passata.»
«Ma è giusto mettere le cose in chiaro»,
insistette la rossa, «altrimenti qui finiremo tutti con
l’odiarci a vicenda. Io non voglio questo, e immagino neanche
tu.»
Tashigi guardò gli occhi nocciolati della ragazza. “Diventa intima con
qualcuno di loro e riferiscimi quello che combinano”,
le aveva detto Smoker qualche settimana prima, ma lei non aveva avuto
il coraggio di sforzarsi affinché il suo desiderio venisse
esaudito; si sentiva una vigliacca nel pensare di dover agire in quella
maniera e, essendo onesta con sé stessa, da quando aveva
saputo che il vicepreside aveva gettato nel dimenticatoio la storia
della festa di Halloween, non sapeva neanche più se
quell’incarico avesse ancora validità o meno.
Sarebbe stato meglio allontanarsi, tornare alle posizioni iniziali,
quando lei passava le giornate tra le scartoffie del Comitato e i
membri di quello strano e rumoroso gruppo la ignoravano come se avesse
la peste.
Avere Nami di fianco, in quel momento, non contribuì affatto
a trovare una soluzione al suo dilemma e alle sue preoccupazioni.
«Già», riuscì a balbettare.
«Neanch’io.»
«Bene», fece la rossa chiudendo di scatto il
proprio libro. «Allora, per cominciare, vorrei spiegarti una
cosa.»
Comprendendo che sarebbe stato un discorso lungo, Tashigi mise un
segnalibro tra le pagine del manuale del Codice Penale e lo chiuse con
delicatezza.
«Immagino tu abbia avuto modo di osservarci da quando le
nostre strade si sono incrociate», iniziò Nami.
«Avrai sicuramente notato che nessuno di noi ti ha trattata
male né considerata diversa. Be’, a eccezione di
Zoro, ma lui è un caso a parte. Fidati, si comporta male con
chiunque. Non è cattivo, ha solo un carattere un
po’ burbero.»
L’occhialuta aggrottò le sopracciglia, ma decise
di non commentare.
La rossa continuò: «Usopp e Chopper saranno stati
strani nei tuoi confronti, ma anche loro sono schivi di natura. Non
credi di dover abbandonare i tuoi pregiudizi e ammettere che siamo
brave persone?»
«Potrei farlo», le rispose, «ma hai visto
anche tu cosa è successo con Vinsmoke. Una settimana di
sospensione a causa dei suoi modi bruschi.»
«E tu ci credi pure?»
«Eh?»
«Dico, credi seriamente che Sanji abbia potuto fare una cosa
del genere?», le domandò Nami, i pugni chiusi e la
rabbia in volto. «Ma l’hai visto?
Quell’idiota è frivolo, allegro e maledettamente
gentile, non farebbe del male a una mosca!», urlò,
incurante di attirare su di sé l’attenzione di
tutti gli studenti presenti nell’aula. «Conosci i
suoi fratelli, immagino.»
Tashigi annuì, senza lasciarsi intimorire dal cambiamento di
tono.
«Sono degli stronzi, anzi, gli stronzi più stronzi
mai esistiti. Non conosco nessuno peggiore di loro. Non so molto
sull’argomento, ma a quanto pare tutta la famiglia Vinsmoke
è fatta così. Ma Sanji è
diverso», fece abbassando nuovamente la voce.
«Detesta dover condividere con loro quel cognome proprio
perché sa di essere capitato in una famiglia moralmente
molto triste. Per questo motivo, ti pregherei di non rivolgerti
più a lui chiamandolo per cognome. Lui è Sanji e
basta, okay?»
Tashigi rimase in silenzio e Nami sospirò, abbassando lo
sguardo. «Ha avuto un’accesa discussione con i suoi
gemelli. Non ci ha visto più e ha colpito Niji. Il professor
Borsalino se n’è accorto e per questo lo ha fatto
convocare dal preside il giorno dopo. Quando abbiamo saputo della sua
sospensione, io e gli altri abbiamo provato a parlargli. Sai cosa ci ha
detto?» Dalla sua bocca uscì una risata amara e
forzata. «Che ha litigato con un professore a causa di un
voto basso immeritato. Lì per lì ci abbiamo
creduto, ma poi Sabo ed Ace ci hanno raccontato la verità,
dato che erano presenti anche loro al momento del litigio. Capisci
ora?»
Tashigi si torturò le dita delle mani aggrovigliandole tra
loro. «Vi ha mentito», constatò.
Nami annuì piano. «Già, e non
è neanche la prima volta che lo fa. Lui è fatto
così, non condivide i suoi problemi con gli amici
perché non vuole pesare a nessuno. L’altra
mattina, quando ci siamo scontrati, aveva la piega dall’altro
lato della testa. Credo che volesse nascondere un occhio
nero», aggiunse sottovoce, come se facesse fatica a
visualizzare nella propria mente quello scenario fisicamente doloroso.
Poi schiuse nuovamente le labbra lucide di gloss:
«Solitamente né a me né ai miei
compagni interessa il giudizio altrui.» Sospirò.
«Ma siamo legati a te da un segreto. Cerchiamo di andare
d’accordo.»
L’occhialuta rimase congelata sulla propria sedia, fissando
il tavolo davanti a sé alla ricerca di qualcosa da dire
– ma il silenzio fu la scelta migliore.
***
Con un rumoroso scatto veloce, il metro si richiuse come una lumaca
rintanata nel proprio guscio.
«Quattro metri!»
A quell’esclamazione seguì lo scribacchiare di una
matita su un block-notes, poi un pollice alzato a confermare di aver
acquisito quell’informazione. «Poi?»
Il metro giallo venne aperto nuovamente e puntato in un’altra
direzione. «In lunghezza siamo a undici metri e mezzo.
Arrotonda a dodici.»
«Ricevuto.»
Luffy guardava la scena con gli occhi che gli brillavano, seduto a
gambe penzoloni sul palco del teatro della scuola. «Siete una
squadra mitica, voi due», disse tutto contento, un sorriso a
trentadue denti a illuminargli il volto giovane.
Usopp si strofinò un dito indice sotto le narici.
«Be’, sì, facciamo del nostro
meglio», rispose con finta modestia e trattenendo a stento
una risata ricca di soddisfazione.
Franky, invece, non parlò e continuò a prendere
le misure di una parte del palcoscenico, mettendo di tanto in tanto
dello scotch colorato a terra come punto di riferimento.
«Tutto bene, amico?»
L’azzurro sollevò finalmente lo sguardo verso i
due compagni, i quali lo stavano guardando con aria incuriosita e
vagamente preoccupata; notare i sentimenti altrui non era troppo nelle
loro corde, eppure quella nuvola di malumore si sarebbe potuta scorgere
da miglia e miglia di distanza. «Mh»,
rispose solo. «Nasone, segna la profondità. Due
metri e sette.»
«E no!», fece il riccio abbandonando i propri
appunti. «Prima sputi il rospo e poi riprendiamo la nostra
attività.»
«Cos’è, vuoi litigare?», fece
Franky avvicinandosi pericolosamente a lui.
Usopp deglutì e agitò le mani davanti al viso.
«No, no, niente affatto.»
Anche Luffy intervenne, alzandosi da terra per avvicinarsi ai due.
«Coraggio, amico, dicci cos’hai.»
Un tempo probabilmente Franky gli avrebbe mollato un pugno in pieno
viso, fracassandogli il naso e facendolo volare via con
l’impatto della botta – ma non era più
il delinquente di allora. Per questo motivo si sciolse in una
pozzanghera di lacrime, crollando in ginocchio e singhiozzando
animatamente, nonostante tentasse di soffocare i lamenti nel grosso
avambraccio tatuato. «Sono un buono a nulla!»,
piagnucolò ad alta voce, battendo le mani a terra per
scaricare la tensione.
I due amici si guardarono a vicenda, sconvolti da quel repentino
cambiamento d’umore. «Che cosa è
successo?»
Franky ispirò rumorosamente per far rientrare una goccia di
muco nella narice dalla quale aveva fatto capolino.
«Quell’ingrato di Iceburg ha ragione! Dovrei
smetterla di avercela con lui!»
Usopp gli posò una mano sulla spalla nel tentativo di farlo
calmare. «Iceburg? Vuoi dire tuo fratello? Avete
litigato?»
Il disperato annuì forte. «Non riesco ancora ad
accettare il fatto che abbia lasciato Tom da solo», disse con
più calma e scandendo bene le parole in maniera da farsi
capire dagli altri due. «Io ero ancora un marmocchio e ho
faticato molto per arrivare al suo livello. Sentivo il peso
dell’officina sulle spalle, ma non volevo mollare. Amavo
lavorare con Tom, amo farlo tutt’oggi.»
Luffy si accovacciò in modo da raggiungere
l’altezza del compagno. Serio e composto, rimase ad ascoltare
ciò che aveva da dire.
«Ho impiegato anni per diventare un bravo
falegname», continuò. «Quando non ero
ancora all’altezza, è stato Tom a fare i lavori
più pesanti. Lui è un genio, è il
carpentiere più bravo che sia mai esistito. Ma è
anche vecchio. Quando Iceburg se n’è andato,
è invecchiato tutto d’un colpo e
io…» Non riuscì a completare la frase
poiché i singhiozzi si fecero molto più forti.
«Ma non posso arrabbiarmi con Iceburg per aver preferito il
college all’officina. Lui è sempre stato bravo
nello studio e ha sempre ambito a una carriera politica. Dovrei essere
contento per lui, ma non riesco a togliermi dalla mente
l’immagine di Tom che si accascia a terra. Me lo ricordo come
se fosse successo ieri.»
Usopp dovette sforzarsi per trattenere le lacrime, mentre Luffy non
fece una piega; semplicemente, gli mise una mano sulla spalla e gli
disse: «Però ora sei bravo.»
Franky alzò la testa e lo guardò.
«Non puoi cancellare il passato, questo è
vero», continuò. «Ma il futuro
è tutto da scrivere. Ci sei tu con lui, e ora più
che mai sei in grado di prendertene cura. E poi sono certo che Tom non
abbia mai sofferto per la mancanza di tuo fratello. Anzi,
sarà stato lui a incitarlo ad andarsene per seguire i suoi
sogni.»
Il sorriso di quel vecchio carpentiere si fece largo nella mente di
Franky, e ciò bastò a farlo commuovere di
più. Accettò dei fazzoletti di carta da Usopp e
consumò quasi l’intero pacchetto. Quello sfogo gli
fece del bene perché, quando tornò a esser calmo,
sentì nel proprio corpo una carica vitale che lo
aiutò parecchio nel completare il lavoro iniziato trenta
minuti prima; finì di analizzare l’intero
perimetro del palcoscenico e confrontò i suoi progetti con
quelli realizzati da Usopp, alla ricerca di un compromesso per iniziare
la fase di creazione delle scenografie della rappresentazione teatrale
natalizia.
Ma ben presto l’opera del corso di falegnameria, trasferitosi
momentaneamente nel teatro dell’istituto, venne interrotto
dallo scalpiccio di uno studente a loro conosciuto, il quale
entrò nella sala con un’aria trafelata e scomposta.
«Ehilà, Chopper!», esclamò
Luffy agitando la mano; anche Usopp, accanto a lui, si
mostrò molto contento di vederlo.
Il ragazzo di bassa statura non ricambiò il saluto,
bensì corse verso di loro con gli occhi fuori dalle orbite.
Non diede loro il tempo di chiedergli come mai andasse tanto di fretta,
che domandò a bruciapelo: «Sapete
dov’è Trafalgar Law?»
Angoletto degli Easter
Egg!!
1. Un
asso nella manica: perché Ace si chiama Ace fa
riderissimo (che squallore...)
2. Ti
assicuro che Issho non mi vedrà neanche:
un'altra delle mie battutone, potrei andare a Colorado.
3. "Logico,
logico...", "È tutto quello che so": PER OGNI
DOMANDA COMPONI UN VERSOOO NON SIAMO SOLI IN QUESTO UNIVERSOOOO--
4. Poggiata
contro una parete spoglia a braccia conserte: si tratta di
un richiamo al potere del Fleur.
5. Come
passi di un elefante inferocito: riferimento all'arma di
quel burlone di Spandman.
Angoletto
dell'Autrice!!
Eccomi di ritorno sul grande schermo! Questi mesi sono volati e non ho
proprio avuto il tempo di aggiornare, nonostante avessi questo capitolo
pronto da un bel po' di tempo... e, be'... tanti altri ;)
Dunque dunque dunque, che succede qui? Seconda interazione Ace-Marco,
festa di Halloween finalmente archiviata, pace (fatta?) tra le ragazze
e un pianto liberatorio del nostro grande e grosso e tenero Franky - e
avete letto il nome finale? Eh sì, anche il chirurgo della
morte è presente in questa long. Mica potevo arginare il mio
infinito amore per lui in Anyway
(che vi consiglio di passare a leggere, se volete farvi un bel
piantino)! Lo ritroveremo più avanti... chissà
che guaio combinerà! ... magari, dopo Capodanno ;)
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e, in generale, che stiate
apprezzando l'intera storia nonostante sia solo all'inizio. Ringrazio
tutte le personcine belle che l'hanno inserita tra le preferite, le
ricordate e le seguite! Vi mando un abbraccio virtuale e vi sono tanto
grata per il sostegno! <3
Prometto di aggiornare presto. Il prossimo capitolo è uno dei miei preferiti ;P
-Channy
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