PLANETARIUM | Lyra upper us

di channy_the_loner
(/viewuser.php?uid=950561)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** He was so bored ***
Capitolo 2: *** Flowers, Nobody and Secret ***
Capitolo 3: *** Woody, Unwilling and Threat ***
Capitolo 4: *** Anyway, Bloody Mary and In the dark ***
Capitolo 5: *** Shut up, Princess and Fool ***
Capitolo 6: *** Irony, Grease and He didn’t ***
Capitolo 7: *** Pineapple, Theatre and Hammer ***
Capitolo 8: *** Bleachers, Lightning and Surname ***
Capitolo 9: *** Umbrella, Restless and Mayor ***
Capitolo 10: *** Sleeve, Silence and Tears ***



Capitolo 1
*** He was so bored ***


Angoletto dell’Autrice!! (per la prima volta a inizio storia)
One Piece’ da sempre accompagna la mia vita e se ne prende cura, lenisce le ferite, mi abbraccia nei momenti di sconforto e mi fa tornare il sorriso, perciò come avrei potuto non scrivere una long come ringraziamento? In realtà sono anni che conservo lo schema dei capitoli nella mia cartellina verde scarabocchiata, ma solo ora sento di aver raggiunto la maturità per scrivere qualcosa di un po’ più complesso – come quello che state per leggere. Ho apportato molte modifiche alle idee originali, quindi far congiungere tutto sarà più complicato… Ma io amo le sfide!
Queste sono le avvertenze che vi propongo; ci tengo, è importante!

    1. L’originalità: non è assolutamente mia intenzione copiare le fanfiction altrui! Su questo fandom ci sono tante storie, perciò è impossibile che io le abbia lette tutte; se nel corso dei capitoli vi sembra di trovare evidenti similitudini con altre ff, vi prego di segnalarmelo con cortesia (con una recensione o in privato, come più vi è comodo).
    2. I riferimenti: mi sono divertita (e mi divertirò) a inserire qua e là degli Easter Egg della serie originale e anche di altre opere. Provate a coglierli e, per vedere se avete indovinato, controllate gli Angoletti ;)  Ho inserito anche delle perline strappate rigorosamente dalla vita reale, per esempio nomi (rivisitati) di locali o avvenimenti degni di nota (anche questi verranno segnati alla fine di ogni capitolo!)
    3. Le età e le parentele: le ho leggermente modificate, ovviamente ai fini della storia.
    4. Il linguaggio: alcune sezioni dei capitoli contengono dialoghi piuttosto… speziati, ecco. Capisco che non tutti gradiscono le parolacce, quindi ho cercato di arginare quanto più possibile il problema. Purtroppo (o per fortuna, dipende dai punti di vista) alcuni personaggi hanno la tendenza a esprimersi in maniera volgare, quindi li ho “assecondati” per mantenere intatto il carattere originale di ognuno di loro (il raiting arancione è dovuto in gran parte proprio a questo motivo).
    5. Gli spoiler: vi prego di non farli. La sottoscritta è in pari con il capolavoro di Oda, ma non per tutti è così. Non creiamo disagi a nessuno!

Grazie mille per l’attenzione!
Gli aggiornamenti avverranno ogni dieci giorni, salvo imprevisti.
Vi auguro una buona lettura e un buon chill!
–Channy




Prologo: He was so bored



Racchiuse nei propri polmoni tutto l’ossigeno che era in grado di accogliere, per poi liberarlo con l’aiuto della bocca, nella quale si fece largo una piccola nota prodotta dalle corde vocali, precisamente da quella più grave.

Seduto in modo scomposto sulla poltrona rossa del piccolo salotto, l’uomo si stava silenziosamente chiedendo cosa avrebbe potuto fare per ingannare il tempo, il quale scorreva con una lentezza inaudita, dal suo punto di vista. Gettò la testa all’indietro, prendendo ad osservare il soffitto bianco; le parole gli scivolarono via senza che lui le potesse controllare: «Ma quanto ci metti?!» Tese le orecchie, in ascolto, ma vi fu solamente il silenzio ad afferrare le sue speranze; il destinatario di quella lamentela infantile semplicemente e probabilmente non aveva sentito nulla, troppo impegnato a combinare chissà cosa.

Sospirò ancora, l’uomo, e i suoi occhi iniziarono a trascinarsi in giro per la stanza alla ricerca di qualcosa di minimamente interessante da osservare; dalla finestra intrappolata da una lunga tenda color panna, il suo sguardo scivolò al caminetto in mattoni, per poi raggiungere il divano bianco e il televisore adagiato su un mobiletto subito di fronte all’annoiato. Accanto a quello, si stagliava una parete attrezzata colma di libri ordinati con un certo criterio, quello alfabetico, poiché la persona che li aveva piazzati lì era un’accanita lettrice. Non era un vero e proprio amante della lettura – o sarebbe meglio dire che non lo era per niente –, ma improvvisamente si alzò dal proprio trono e si avvicinò ai romanzi, con l’intento di capire perché certa gente si ostinasse a sprecare le proprie giornate leggendo piuttosto che fare qualcosa di divertente all’aria aperta, magari un bel picnic in compagnia di tanti amici nel bel mezzo di un vasto prato sovrastato da un cielo perfettamente azzurro, con il sole splendente nel suo centro in tutta la sua bellezza.

Fu lì, in mezzo a quella miriade di pagine rilegate e interrotte da segnalibri colorati, che l’adulto scovò qualcosa che attirò completamente la sua attenzione: adornato da una copertina di uno sgargiante giallo – il colore preferito della persona che gliel’aveva donato con tanto affetto –, ciò che aveva per le mani non era altro che un vecchio album di fotografie risalenti alla sua adolescenza, quello che aveva coronato come il periodo più bello della sua vita. Ancora incredulo di averlo trovato – erano anni che non sapeva dove fosse finito, eppure eccolo lì, sotto il suo naso! Altro che disperso –, si accomodò nuovamente sulla propria poltrona e iniziò a sfogliarlo. Si rivide, all’età di diciassette anni, circondato dalle persone che aveva amato di più nella sua intera vita, nonostante gli rimanesse ancora mezzo secolo da vivere; rivide la casa in cui aveva trascorso la propria giovinezza, la sua vecchia scuola, alcuni professori e le strade che aveva percorso così tante volte da aver imparato a conoscerle a memoria. Tutti i volti sorridevano di fronte all’obiettivo della fotocamera, tranne quelli catturati di sfuggita, forse perché impegnati a fare altro. Foto sfocate a metà si alternavano a scatti perfetti, quelli di gruppo, nei quali emergevano alla perfezione le personalità e i sentimenti dei soggetti in posa; concentrandosi a dovere, riusciva ancora a percepire le urla della giovane dalla vivace chioma color carota che intimava a lui e a un ragazzone in bermuda di stare fermi, mentre lei stessa tentava di non muoversi troppo dalla propria posizione. Squadrò le altre persone presenti nell’istantanea e si lasciò scappare un risolino; un giovane dai capelli color grano era fermo in una posa impeccabile, seppur in viso avesse un’espressione ebete causata dalla sua mano posata sulla vita della ragazza che aveva accanto, mentre a essere stati ritratti perfettamente erano unicamente due fanciulli e una biondina, i quali, inginocchiati e abbracciati, sorridevano allegramente, rispettando i loro caratteri bambineschi e gioiosi.

Non rimpiangeva nessuna delle decisioni che aveva preso e aveva fatto ben attenzione a non sprecare neanche un briciolo di tempo, sfruttando la giovane età al massimo, tuttavia avrebbe tanto voluto tornare a quell’epoca e riviverne i momenti trascorsi a ridere insieme a un amico, a ballare durante una festa, a cantare – stonare – in occasione di un compleanno; sorrise mestamente, pensando che sarebbe stato bello persino tornare a studiare dietro un banco di scuola, ancora di più piangere per alleggerire i cocci di un cuore infranto più volte. Perché numerosi erano stati i dolori che l’avevano fatto crollare in ginocchio, ma sempre aveva trovato un motivo per alzarsi e continuare a lottare. Quella forza e quella determinazione lo avevano caratterizzato per anni, ma con la maturazione fisica e mentale dell’uomo, queste s’erano indebolite gradualmente, fino a raggiungere la grandezza di uno spiraglio. Tornare indietro, nonostante tutti i traguardi che con i decenni aveva tagliato, era appena diventato il suo nuovo sogno nel cassetto.

Chiuse gli occhi e, sorridendo, ricordò.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Flowers, Nobody and Secret ***


planetarium cap 1
Capitolo 1:
Flowers, Nobody and Secret





La buona forchetta era una caratteristica che si tramandava nella sua famiglia da generazioni di intere epoche, grazie alla quale i Monkey avevano fatto godere le rispettive papille gustative con l’aiuto di pietanze dal sapore divino. Pertanto, nonostante il cibo che il ragazzo stava ingurgitando voracemente in quel momento non avesse un chissà quale idilliaco sapore o tantomeno fosse stato cucinato seguendo una ricetta ben precisa, nulla andava sprecato. Da brava pattumiera, il suo compito era quello di saziarsi a dovere dopo una mattinata di studio con le proprie pietanze e con qualche avanzo dei suoi compagni di abboffata del primo pomeriggio. Quello di non sprecare mai il cibo era l’unico punto saldo dell’amicizia che aveva con il giovane dai capelli biondi che gli sedeva di fronte; accomodato in maniera decisamente più elegante e composta, il suddetto ragazzo mangiava tranquillamente il proprio pranzo guardando, di tanto in tanto, in direzione di qualche studentessa di passaggio, ammirandone la bellezza e salutandone qualcuna di cui aveva avuto l’immenso piacere di scoprirne il nome.

«Certo che ne conosci di ragazze, eh Sanji?», gli chiese retoricamente, e vide che lo sguardo blu oceano del biondo ricadde su di lui.

«Be’, si può dire che sono amicizie di corridoio», rispose lui. «Ci si ferma a fare quattro chiacchiere e nulla di più.»

«Ma davvero?», fece con tono provocatorio il ragazzo che gli sedeva accanto. «Quindi nessuna di quelle è la tua fidanzatina? Quante volte ti hanno dato un due di picche?»

I presenti al tavolo della mensa ridacchiarono sotto i baffi, mentre il biondo contò fino a dieci nella propria mente. «Tu piuttosto, testa d’alga? Non mi è sembrato di vedere neanche l’ombra di una ragazza disposta a donarsi a te.»

«Io certamente non mi dispero se nessuna me la dà. Sto bene così. C’è silenzio.»

«Ma sentite come si arrampica sugli specchi! Quante volte ti sei nascosto dietro questa pessima giustificazione?»

«Io non mi nascondo proprio da niente. Non sono interessato ad avere alcuna relazione, al tuo contrario, morto di figa.»

I due corvini che sedevano di fronte a loro ridevano a gran voce, guadagnandosi le occhiate indiscrete di qualcuno vicino alla loro postazione. Uno dei due disse all’altro: «Dov’è la lista dei soprannomi che Zoro ha dato a Sanji?»

Il moro riccioluto e con un naso dalla punta allungata estrasse da una tasca della propria tracolla beige un foglio di carta ripiegato più volte e lo porse all’altro, il quale l’afferrò e vi aggiunse una nuova voce al già esistente elenco. «Ma il migliore sarà sempre sopracciglio a ricciolo», disse alludendo alla stramba caratteristica fisica del biondo.

«Vero. Gli originali sono per sempre.»

Sanji, rosso di rabbia, si rivolse al riccio: «Spero per te che esista anche una lista dei suoi, di soprannomi, Usopp», fece indicando il giovane dai capelli verdi che gli stava malauguratamente accanto.

«Ovviamente», rispose il diretto interessato. «Quella però la tiene Luffy.»

Chiamato in causa e non potendo rispondere a voce poiché impegnato a masticare un pezzo troppo grande di carne, Luffy alzò il pollice per confermare ciò che Usopp aveva detto; qualche secondo dopo riuscì ad ingoiare il boccone, l’ultimo dell’abbondante ma modesto pasto, quindi si concesse una lunga bevuta d’acqua frizzante seguita da una sonora eruttazione, la quale non significava altro che il proprio stomaco era stato soddisfatto dalla giusta quantità di cibo. I quattro, avendo concluso il proprio pranzo, si alzarono dal tavolo e, una volta riposti tutti i vassoi sugli appositi scaffali, uscirono dalla mensa con l’intento di passare il rimanente tempo di ricreazione nel cortile per godere dell’ultimo calore della stagione estiva ormai al termine; l’aria di metà ottobre donava alle persone unicamente un nostalgico ricordo di ciò che avevano rappresentato i precedenti luglio e agosto, durante i quali la maggior parte della gente si era liberata da ogni impegno con l’obiettivo di rilassarsi su una pacifica spiaggia, con le dita dei piedi che si facevano largo tra la sabbia fine per raggiungere la fresca acqua marina, limpida e desiderata a lungo durante il gelido inverno grigio, come la cenere che fuoriusciva dai caminetti delle abitazioni, e bianco, come la neve che danzava silenziosamente per le strade di città e campagne.

Facendo capolino da una solitaria nuvola, il sole illuminava ciò che lo circondava, senza tuttavia rischiare di risultare dannoso per la vegetazione; le gaillardie e le portulache, nonostante fossero al termine della loro annuale fioritura, coloravano allegramente l’ampia aiuola dedicata alla loro coltivazione, venendo inevitabilmente osservati da tutti gli appassionati di giardinaggio o, semplicemente, rapivano gli sguardi di coloro che possedevano un inguaribile animo romantico. E le due figure femminili, una più pronunciata e l’altra maggiormente delicata, che stavano in piedi a perdersi in quella moltitudine di colori, potevano definirsi appartenenti a entrambe le categorie di osservatori. La prima, possedente lunghi capelli neri e un paio d’occhi azzurro ghiaccio, stava sorridendo e parlando pacatamente all’altra, la quale la stava ascoltando con sincero interesse mentre si scostava dietro a un orecchio alcune ciocche di capelli color grano, lisci e sottili come spaghetti.

Riconoscendo la mora, il volto di Sanji si deformò, dando vita ad un’espressione sprizzante di felicità. La chiamò a gran voce: «Robin, cara!»

Lei voltò il capo, riconoscendo colui che l’aveva euforicamente nominata, e scorse i quattro amici che le si stavano avvicinando a passo di marcia; si rallegrò molto nel vederli – non che in precedenza fosse di cattivo umore. Nico Robin era sempre rilassata e gioiosa, specialmente da quando, due anni addietro, aveva fatto conoscenza con quella simpatica combriccola composta principalmente da ragazzi privi di serietà e capacità di concentrazione; amavano le follie, poiché risultavano essere la perfetta combinazione tra rischio e divertimento, e cosa sarebbe stato migliore per sfidarsi giocosamente a vicenda se non combinare un guaio dietro l’altro? Lei prediligeva non esporsi troppo e rimanere nelle retrovie ad osservare marachelle coi fiocchi adornati dal marchio del cappello di paglia – il loro simbolo per eccellenza, nonostante fossero conosciuti in tanti modi –, limitandosi ad accertarsi che non si facessero troppo male, esattamente come una madre coi propri figli. E quante volte un colpo era stato così grosso che li aveva fatti scoprire da qualcuno proveniente dai piani alti? Tante volte certamente, ma lei si era detta che se non ricevere più richiami avesse significato non frequentare più i suoi adorati compagni attaccabrighe, allora ne sarebbe valsa la pena di finire nell’ufficio del preside a giustificare le proprie azioni con argomentazioni più che valide.

«Ciao, ragazzi.»

«Buon pomeriggio, splendente dea del mio cuore!», esclamò il ragazzo dai capelli biondi scodinzolando.

«Come sei allegro oggi, Sanji», rispose lei, girandosi completamente verso l’amico. Aggiunse, con la sua abituale aria curiosa: «Cosa vi porta da queste parti? È raro vedervi qui a quest’ora. Solitamente non vi muovete dalla mensa.»

«Fortunatamente oggi non c’era tanta fila», fece Usopp, abbandonandosi sul muretto che delimitava l’aiuola insieme a Luffy. «Siamo riusciti a finire prima del solito.»

«Ce ne siamo andati perché vedere la gente mangiare senza di te fa male», sottolineò l’altro corvino con la sconsolatezza in viso.

«Ma che dici? Hai mangiato per tre persone.»

«Tu non capisci, Zoro! Quelle persone potrebbero lasciare degli avanzi e noi non siamo lì a impedire che vengano buttati! È uno spreco! Sanji, diglielo anche tu! … Sanji?»

Il biondo non stava minimamente seguendo il discorso, poiché troppo impegnato ad ammirare la pallida bellezza della ragazza accanto a Robin, diventata improvvisamente invisibile agli occhi dei tre accompagnatori; ma come poteva una ninfa dall’aspetto fragile passare inosservata agli occhi di un gentile corteggiatore incallito?

Arrossì, la fanciulla, quando le morbide mani di Sanji sfiorarono una delle sue, con lo scopo di portarsela alle labbra e baciarla delicatamente; il cortese gesto fu seguito da uno dei migliori sorrisi del ragazzo, pronto a giocarsi tutto pur di ammaliarla. Le disse, difatti: «La tua idilliaca figura mi acceca come la luce del sole riflessa in un pacifico lago di campagna, tuttavia mi rassicura come la danza di una lucciola attorno a una rosa rossa. Dimmi, splendida creatura, sei per caso un angelo caduto dal cielo?»

Lei – che certamente si sentiva in imbarazzo per quel paio di occhi puntati addosso e affatto per le parole che le erano state rivolte, poiché le risultavano essere alquanto strane e da copione – cercò silenziosamente il sostegno di Robin, incrociando il suo sguardo in un repentino istante, quasi come se si fossero messe d’accordo per guardarsi già in precedenza; la corvina, sentendosi in dovere di soccorrerla in un gesto di solidarietà, fece per parlare, ma fu preceduta da una voce maschile, la quale esclamò: «Ma queste battute da film per poveracci te le studi?»

Sanji, improvvisamente furente, si voltò verso colui che aveva parlato. «Non bastava il muschiato a uscirsene con questi commenti fuori luogo? Adesso ti ci metti pure tu, Usopp?»

Il riccio, un po’ intimorito dal comportamento dell’amico, indicò la bionda col mento e rispose: «Scusami ma guardala, l’hai messa a disagio. Non ti conosce, vero?»

«Già, già, non ci conosciamo. In proposito, bella signorina, qual è il tuo nome?»

Rossa come un peperone, la ragazza spostò gli occhi color noce da persona in persona, ancora con una mano intrappolata nella gentile presa di Sanji. «Mi chiamo Kaya», disse con voce flebile e quasi infantile.

«Che nobile appellativo!», commentò il latin lover con aria sognante. «Mi riporta alla mente l’immagine di una donzella appartenente a una ricca famiglia dell’Ottocento…»

«E piantala, idiota.»

«Piantala tu, testa d’alga!»

Luffy spezzò la lite tra i due con un sonoro riso, seguito a ruota da una più pacata Robin; i due litiganti si ammutolirono, osservando con stupore i compagni divertiti. Usopp, dopo un leggero sospiro, si rivolse a Kaya dicendole: «Mi scuso per il comportamento di Sanji. Parla senza rendersi conto di quello che dice.»

La bionda sorrise appena, stringendo con entrambe le mani il raccoglitore verde che stava mantenendo al petto. «Grazie» rispose solamente. Senza che nessuno dei presenti potesse aggiungere altro, si guardò attorno, come se si fosse improvvisamente resa conto di dove si trovasse, e poi si avviò verso l’interno dell’istituto, accompagnata dallo squillante suono della campanella, il quale riecheggiò tutt’intorno e stordì chi proprio non aveva voglia di filare all’istante nelle rispettive classi per le ultime lezioni.

«Di’ un po’, Robin», fece Luffy mentre si grattava distrattamente il collo, «chi era quella ragazza?»

La corvina si scostò una ciocca di capelli dal viso. «È la prima volta che la vedo. Ha detto che è del primo anno.»

«Una novellina quindi.»

«Effettivamente aveva l’aria di una che non sapeva che fare. Che carina!»

«Date un sedativo a Sanji, per cortesia.»



***



L’aula studio era il suo posto preferito senza ombra di dubbio.

Inspirò a fondo; il silenzio che le ronzava nelle orecchie aveva il potere di trasmetterle un senso di pace totale e, con l’aggiunta dell’ammaliante odore dell’inchiostro inciso sulla carta, la ragazza avrebbe voluto che quel momento di solitudine e relax non trovasse mai una conclusione. Ma il destino delle cose belle, anche quelle più piccole e semplici, era quello di consumarsi in fretta, bruciare come un secco ramoscello nel pieno di una tempesta di fulmini e saette, al solo fine di ridursi in un ulteriore ricordo nella mente di chi le ha vissute.

Le lancette dell’orologio sembravano rimanere incollate alle loro posizioni, poi la giovane dai lunghi e mossi capelli color mandarino distoglieva lo sguardo per pochi attimi e il tempo ne approfittava per scrosciare via, quasi come se avesse voluto beffarsi di lei. Dispettosa, la lancetta dei minuti corse un altro po’, invogliando l’amica delle ore a muoversi con lei; la più corta, pigra com’era, l’accontentò seppur di poco, scostandosi solamente di qualche millimetro e venendo presa in giro dalla scattante lineetta dei secondi, la quale percorse l’intera circonferenza dell’orologio più volte, elogiando sé stessa per la propria magrezza e prestazione fisica.

Profondamente annoiata dai litigi del Tempo, la rossa decise – con grande rammarico – di finirla lì con il personale rilassamento della propria stanca mente, la quale veniva ingiustamente presa di mira tutti i giorni per colpa di risate sguaiate, chiacchiere senza senso, avances imbarazzanti e facili discussioni. Raccolse il libro di storia dell’arte, il quaderno contenente gli appunti presi durante la spiegazione della professoressa, il portapenne colorato e il cellulare dalla cover rosa e infilò tutto nel proprio zaino, per poi afferrare quest’ultimo e dirigersi all’esterno della stanza, dritta al proprio armadietto allo scopo di fare un veloce cambio di materiale di studio e dare una sistemata al leggero strato di trucco che le decorava il viso; poche ore prima si era specchiata usando la fotocamera interna del proprio telefono e aveva notato che il lucidalabbra era quasi completamente scomparso, mentre le lunghe ciglia necessitavano di una ripassata di mascara.

Tenendosi sulla destra raggiunse la fine del corridoio, per poi svoltare un paio di volte; arrivò di fianco all’aula di geografia – la sua materia preferita – e da lì contò gli armadietti a sinistra: uno, due, tre, quattro ed eccolo, il metallico vano verticale numero cinquantotto. Inserì il codice d’apertura tramite una piccola manovella e, dopo un repentino scatto, poté finalmente afferrare il suo beauty-case, estraendo velocemente il rossetto color ciliegia e passandolo sulle labbra carnose; come per magia, si sentì maggiormente a suo agio circondata da sconosciuti visi che tuttavia scorgeva tutti i giorni, fatta eccezione per il weekend. Non c’era molta gente in giro, dato che la gran parte degli studenti aveva già fatto ritorno alle proprie abitazioni, ma a lei non importava; prediligeva quella pacatezza pomeridiana, era un’amante del silenzio poiché sosteneva – correttamente – che grazie a esso sarebbe riuscita a portare a termine ogni compito, scolastico e non, dato che avrebbe avuto la possibilità di rimanere concentrata più a lungo.

Si bloccò quando udì un rumore secco provenire da dietro l’angolo del corridoio, poi un gemito soffocato. S’immobilizzò sul posto, riconoscendo la voce di un suo amico. «A-Aiuto…» Era Chopper, agonizzante contro un armadietto d’acciaio.

Nami riusciva a percepire il suo dolore, la sua sofferenza fisica e psicologica, eppure non riuscì a fare nemmeno un passo per correre in suo soccorso, e questo perché aveva riconosciuto anche la risata dell’aggressore. «Sei patetico, nanerottolo.» Continuò a ridere sguaiatamente. «Allora? Ce li hai o no?»

Chopper respirò faticosamente. «Servono a me.»

«Sì? E per cosa?»

Una domanda retorica, impregnata di sporco sarcasmo, ma il ragazzino rispose ugualmente: «Devo comprare un libro.»

«Un libro?» Rise ancora di più. «Un libro! È una barzelletta? Che cazzo te ne fai di un libro?!»

«È per l’università, il test d’ammissione…»

Gli arrivò un pugno in pieno volto – senza preavviso, senza pietà. «Non me ne frega un cazzo. Dammi quei soldi», ordinò con voce grave e ferma.

Con un briciolo di forza gli porse le prime e ultime banconote che il suo portafogli avesse ospitato; erano sue, non gliele aveva date nessuno, se l’era guadagnate svendendo a un mercatino dell’usato i giocattoli che usava quando era piccolo. Era tutto ciò che aveva per poter recuperare quel manuale di medicina, troppo costoso ma indispensabile per poter superare le ardue selezioni. Era il suo sogno, semplicemente tutto ciò in cui credeva, e in quel momento se l’era visto sfuggire dalle mani, quel desiderio rubato da quel bastardo di Kidd. Perché aveva puntato proprio lui? Perché non andava a chiedere i soldi per le sigarette a qualcun altro? Odiava andare a pensare a quelle assurdità ricolme di cattiveria e, inoltre, riconosceva di essere troppo debole per poterlo contrastare. I pugni di Eustass erano duri come il ferro e Chopper aveva troppa paura per anche solo provare a opporsi al suo mero volere.

E Nami non era da meno. Era codarda come pochi, nonostante il suo senso di giustizia ardesse nel suo petto. Si detestava per non essere riuscita, neanche quella volta, ad aiutare un suo amico in difficoltà. “Meglio a lui che a me”, si ritrovava a pensare ogni volta che assisteva a carognate come quella. Conosceva bene la spietatezza di quel bullo dai capelli rossi sparati in aria, la sua reputazione lo precedeva e gli spianava la strada. Un mostro, ecco cos’era. E in quanto tale, Nami ne era letteralmente terrorizzata.

Si avvicinò a Chopper, porgendogli un fazzoletto per poter tamponare il naso sanguinante. «Scusami.»

Non ci fu il bisogno di aggiungere altro. Il ragazzo percepì il dispiacere dell’amica con altrettanto dolore. Accettò il suo tardo aiuto e s’adoperò per fermare l’emorragia. «Non ti biasimo.»

Perché neanche lui si sarebbe aiutato.



***



Il sole crepuscolare filtrava attraverso il vetro della grande finestra della stanza; se lì fuori ci fosse stato un paesaggio marittimo probabilmente sarebbe stato piacevole crogiolarsi sotto quella luce, ma in quel momento dava solo un gran fastidio agli occhi. Giorno? Notte? Né l’uno né l’altra, solo un ipnotico effetto di ombre che costringeva gli occhi a sforzarsi di leggere quelle interminabili righe. Non poteva opporsi a quell’attività, se avesse voluto realmente arrivare alla sua meta. Era in netto anticipo considerando la sua età, eppure la sua tabella di marcia era rigorosamente programmata per non lasciare neanche un minuto della sua vita da trascorrere con le mani in mano. Studiare, studiare, studiare – e nel tempo libero dedicarsi a ciò che le dava una certa notorietà all’interno di quel plesso.

Sospirò e si stropicciò le palpebre, la stanchezza che le pesava sulle spalle; guardò l’orario e decretò che fosse arrivato il momento di fare ritorno a casa propria; si sarebbe fatta una doccia veloce, poi avrebbe preparato la cena e si sarebbe rimessa a leggere, stavolta nel suo letto, finché non si sarebbe addormentata. Fu quel forte desiderio di riposarsi a darle la carica per alzarsi in piedi e sistemare tutto il materiale all’interno della sua borsa a tracolla, per poi avviarsi fuori dall’aula. Tuttavia, a un passo dalla porta, udì due voci familiari: ridacchiavano e si esaltavano mentre camminavano fuori dalla classe.

«Vedrai, sarà un successone!»

«Lo credo bene, siamo troppo bravi!»

«Già, già. Se mettessi nello studio almeno la metà dell’impegno che hai usato per questo piano, saresti persino un secchione.»

«Parli proprio tu?»

«Sono sempre stato promosso con il massimo dei voti, al contrario tuo e di Luffy.»

Due maschi in confidenza tra loro: voci profonde e divertite, così sempliciotti da non fare attenzione a non farsi sentire da nessuno. Ma di che cosa stavano parlando?

«Siamo stati promossi anche noi, genio.»

«Per il rotto della cuffia.»

«Ma hai sempre da ridire?»

«Ti prendi in giro da solo.»

Il primo rise, l’altro sbuffò. Non c’erano dubbi su chi si trattasse: Outlook Sabo e Portuguese Ace, popolari nel loro incastrarsi nei guai e uscirne con strigliate e punizioni esemplari. Non erano cattivi, solo disubbidienti e con tanta voglia di divertirsi; che cosa stavano architettando quella volta?

Come se avessero sentito i suoi pensieri, i due tornarono ad assumere un tono serio. «Non mettere in giro questa voce. Non sia mai che lo venga a sapere qualcuno che non vogliamo.»

Ace annuì, le braccia incrociate al petto muscoloso. «Ovviamente. Non voglio che ci rovinino la festa. Piuttosto sono preoccupato per quello che potrebbe fare quella testa calda…»

Gli rispose Sabo: «Be’, vorrà dire che lo verrà a sapere il giorno stesso.»

Non riuscì a sentire altro perché i due, seguendo il proprio percorso, si erano allontanati troppo. Avrebbe voluto continuare a seguire la loro conversazione, ma come avrebbe potuto farlo? Pedinarli era fuori discussione – erano fin troppo svegli e se ne sarebbero accorti nel giro di pochi attimi. Pensò ad altre soluzioni, ma si disse che avrebbe fatto meglio ad aspettare. Indagare con calma, affilando l’udito e mostrandosi completamente disinteressata a fargli alcun tipo di ramanzina; da aggiungere alla lista: controllare eventuali complici – e già aveva in mente nomi e cognomi – e mettere al corrente della situazione anche qualche suo amico, così da avere più possibilità di successo.

Perché lei, testarda com’era, presto o tardi sarebbe riuscita a scoprire quel segreto.







Angoletto degli Easter Egg!!
1.    I pugni di Eustass erano duri come il ferro: un chiarissimo riferimento ai poteri del Mag Mag che hanno a che fare col magnetismo. Ricordo che però in questa fanfiction sono tutti normali!




Angoletto dell’Autrice!!
Ho scritto questo capitolo tanto tempo fa, tipo nel marzo del 2021, forse anche prima – ma vi parlo delle prime duemila parole perché poi  v u o t o  a b i s s a l e. Per fortuna poi sono riuscita a sbloccarmi e a scrivere come una matta  *ammicca al lettore*
Bene, che dire? Si introducono un paio di dinamiche, una delle quali verrà ripresa nel prossimo capitolo. E quest’ultimo aprirà altre sottotrame, aaaaaaa vorrei pubblicarlo subito MA mi sono data delle tempistiche da rispettare e non posso mandare all’aria tutto :’)
Fatemi sapere cosa ne pensate!

A presto,
–Channy


Post Scriptum: vorrei condividere con voi un piccolo aneddoto. Sono stata al Comicon e lì ho incontrato diversi cosplay di ‘One Piece’, tra cui uno di Zoro. Raga, quei pettorali erano veri. EVVIVA LE FIERE!!!
Usopp: Tu sei decisamente Sanji al femminile.
Assolutamente (sì) no.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Woody, Unwilling and Threat ***


Capitolo 2:
Woody, Unwilling and Threat




«Super!», urlò a pieni polmoni mentre si guardava attorno con frenesia: tutto quel legno e l’armamento per poterlo incidere gli avevano messo l’adrenalina addosso, nelle ossa, e persino il doppio strato di polvere che ricopriva ogni superficie di quell’aula riusciva a farlo sentire perfettamente a suo agio. Era il suo ambiente, una seconda casa, anche se l’officina in fondo alla strada di casa sua era di tutt’altro livello.

Il professore presente accanto a lui incrociò le braccia, lo sguardo fisso su alcuni martelli depositati su dei piani di lavoro. «Allora? Vuoi mettere questa firma?»

Franky si voltò di scatto verso di lui, mostrandogli un sorriso a trentadue denti. «Il modulo?»

Col mento gli indicò un blocco di fogli di carta riposto sulla piccola scrivania accanto a loro. «Fai anche le veci del nasone?»

Il ragazzo segnò il proprio nome nell’apposito riquadro, per poi fissare lo spazio bianco che si trovava subito sotto: non aveva ancora parlato con Usopp riguardo le attività extra e, pertanto, non aveva idea di cosa avesse voluto scegliere il suo amico. Non era certamente obbligatorio prendere parte ai club, ma era consigliabile per due ottimi motivi: ogni attività era a suo modo interessante e, cosa decisamente più importante a detta di tutti, aiutava gli studenti a sollevarsi da situazioni problematiche con succulenti punti di credito. Non conosceva bene la media scolastica di Usopp e sarebbe stato di gran lunga meglio chiedergli cosa avesse intenzione di fare quell’anno, ma un impulso – a cui dava allegramente il nome di Sarà una suuuper figata, fratello! – lo spinse a iscrivere anche il suo amico. Per quanto riguardava sé stesso, Franky se la cavava bene nello studio, ma come sarebbe potuto rimanere indifferente al club di falegnameria e artigianato?

Uscì dall’aula fischiettando allegramente, quasi saltellando lungo il percorso. S’arrestò pochi metri dopo, ma solo perché aveva sentito una notifica arrivargli sul cellulare; controllò velocemente il messaggio e ridacchiò sotto i baffi.




***




– MISSIONE COMPIUTA!!! Brook è insospettabilissimo, quindi abbiamo spedito lui a fare le fotocopie. Dopo ce le dividiamo. ACQUA IN BOCCA CON LUFFY EH!!



Quel messaggio era stato inoltrato parecchie volte da un singolo mittente, pertanto era inutile andare a parlarne con Nami, anche se avrebbe tanto voluto correre da lei per chiederle un consiglio. Avevano un anno di differenza, eppure quella ragazza dai capelli rossi era un totale riferimento a cui aggrapparsi nei momenti in cui non sapeva che fare. Aveva appurato che anche Nico Robin fosse affidabile, anche più saggia e matura, ma in quel momento confidarsi con lei non avrebbe fruttato; la corvina era la prima ad amare quel genere di cose e, seppur non lo dimostrasse apertamente, fremeva più di tutti nell’attesa dell’arrivo di quel dannato giorno che pareva sempre troppo lontano.

Bibi semplicemente detestava l’idea di dover partecipare a quell’avventura. La sua giovane età tradiva il suo senso del divertimento: meglio una chiacchierata in compagnia di una tazza di tè e biscotti dietetici, piuttosto che la frenetica ed eccitante infrazione di ogni singola regola mai inventata. Non le piaceva correre per i corridoi, figurarsi far finta di essere felice per l’imminenza – ma a chi avrebbe potuto dirlo? Erano tutti contenti per quell’evento programmato già mesi addietro, e a lei dispiaceva profondamente dover rovinare i piani dei suoi amici. Si trovava bene con loro, sapeva fossero brave persone, però i gusti che condividevano si potevano contare sulle dita di una sola mano. Troppi pochi punti in comune, troppa voglia di restare in casa accoccolata su un divano. Perché non avrebbero potuto organizzare un pacifico pigiama party con tanto di castelli di cuscini e tende? Una sorta di viaggio indietro nel tempo a quando si era piccoli e senza problemi di alcun tipo, magari una serata tra ragazze; una commedia romantica in DVD, scodelle di popcorn e luci accese fino alle tre di notte, oppure una cena tutti insieme in un fast-food stellato e dopo un veloce giro di shottini al Phoenix all’angolo tra il cinema e quei ristorantini anonimi – le veniva in mente qualsiasi cosa, si sarebbe fatta andare bene tutto pur di non buttarsi a capofitto in quell’enorme rischio.

Prendeva accuratamente appunti con la sua Steadtler blu, nonostante la sua mente vagasse altrove sin dall’inizio della lezione; scriveva ma non capiva, ed era consapevole che se avesse continuato di quel passo studiare per il test successivo sarebbe stato una catastrofe, tuttavia in quel momento desiderava unicamente stendersi su un prato e svuotare la testa da ogni preoccupazione. La lavagna colma di numeri – e persino lettere! Eppure quella era matematica! Da dove erano uscite? – non stava dalla sua parte, e più la guardava e più le vorticavano i sensi, sembrava che stesse su una di quelle giostre affatto sicure dei lunapark improvvisati nei campi d’estate. Nemmeno il suono della campanella avrebbe potuto destarla dalle sue paranoie, perché sarebbe stata l’ennesimo segnale dell’arrivo di quel giorno, un esasperante conto alla rovescia che lei non tollerava affatto.

Ma ben presto si fece sentire, puntuale e assordante come sempre. Con la lentezza di un bradipo, Bibi chiuse il quaderno e il libro, li prese sottobraccio e aspettò che i suoi compagni lasciassero l’aula di matematica. Camminava dietro gli altri, voleva passare inosservata, sembrare invisibile, sparire direttamente e farsi rivedere il mese successivo, evitando così di prendere parte ai giochi dei suoi amici. Silenziosamente in punta di piedi, strusciava contro le pareti e faceva attenzione a non urtare nessuno, come se agire come una spia segreta avesse potuto servire a qualcosa. E se avesse incontrato i suoi compagni di uscite? Se le avessero fatto domande in merito al loro piano? Se le avessero messo tra le braccia una pila di volantini freschi di stampa? Come si sarebbe dovuta comportare di fronte al loro giustificato entusiasmo?

«Ehilà!»

Una voce squillante che avrebbe potuto riconoscere tra mille altre invase le sue orecchie. Forse era stato un bene imbattersi proprio in quella persona, l’unica che non avrebbe potuto farla sentire a disagio in mezzo a quella marmaglia di pensieri e malesseri.

Lo salutò con un sorriso morbido. «Ciao, Luffy.»

Perché lui era ancora all’oscuro di tutto, o meglio, era fermamente convinto che ciò che desiderava con ardore fosse impossibile da realizzare e, perciò, aveva smesso di pensarci da molto tempo. Solitamente non demordeva facilmente, ma per farlo arrendere quella volta erano bastati due ferrei pugni di Nami, una strigliata di Sabo e il mancato appoggio di un altro suo grande amico, un certo Trafalgar Law, che Bibi aveva visto in giro al massimo tre o quattro volte.

«Che lezione hai adesso?», le domandò prendendo a camminare accanto a lei.

Ci pensò per qualche attimo – non aveva ancora messo in ordine il cervello. «Storia. Tu?»

Rise vivacemente e con quella leggerezza contagiosa che lo caratterizzava. «E chi se lo ricorda!»

Fu inutile il tentativo di rimanere seria. «Ma come!», lo rimproverò scherzosamente. «Quando diventerai uno studente come si deve?»

«Guarda che ho ancora quel foglio che ci hanno dato a inizio anno, posso vedere da lì.» Rovistò velocemente nel suo zaino rosso per poi storcere la bocca. «Credo di averlo perso.»

«Forse lo hai messo nel tuo armadietto», propose.

Luffy s’illuminò di nuovo. «Deve per forza essere lì!» Si voltò verso la ragazza. «Mi tieni la roba mentre lo cerco?»

«Ehm», temporeggiò. «Veramente io dovrei andare…»

Ma Luffy le aveva già afferrato un polso e aveva iniziato a sfrecciare tra la gente, incurante del divieto di correre all’interno di un’area scolastica che non fosse la palestra o il campo sul retro. «Permesso, permesso!», urlava a chiunque osasse ostruire il passaggio. «Siamo di fretta, fate largo!» E Bibi neanche sapeva come stesse riuscendo a stare al passo, lei che era tremendamente lenta nella corsa; guardava la nuca dell’amico: sembrava l’unico punto fermo in quella massa di persone indignate e cattive, uno scoglio nel bel mezzo dell’oceano a cui aggrapparsi per non annegare. Forse avrebbe potuto confidarsi con lui, senza lasciarsi sfuggire troppi dettagli; non aveva mai pensato a Luffy nei panni di anziano saggio residente in una casina di legno sulla cima di una montagna, ma si disse che non sarebbe costato nulla provare – in caso di insuccesso, avrebbe potuto piantarlo lì e appuntarsi di non affidarsi più a un soggetto come lui.

«Senti, Luffy», iniziò, svegliandosi dalla sorta di trance in cui era caduta precipitosamente; non si era neanche accorta che gli stava mantenendo lo zaino mentre lui aveva la testa ficcata nel suo armadietto arrugginito.

«Dimmi.»

«Ecco, mettiamo che qualcuno ti chiede di fare qualcosa, qualcosa che tutti pensano sia bello ma che tu in realtà detesti. Tu che cosa faresti?»

Il ragazzo la guardò per pochi attimi. «Gli direi di no.» Ricominciò a rovistare tra le proprie cose.

Bibi sgranò gli occhi. «E… basta?»

«E basta.»

«Ma se quella persona ci tenesse tantissimo? Se avessi paura di deludere qualcuno?»

«Se dicessi sì, deluderei me stesso. Anch’io sono qualcuno, no? Perché dovrei fare qualcosa che non mi piace?»

Aveva così tanta voglia di ribattere e di far valere il cuore d’oro che aveva, tuttavia non trovava alcuna argomentazione soddisfacente. La semplicità del pensiero di Luffy era stato un vento che aveva spazzato via le nuvole, rivelando un cielo sereno; quel breve scambio di battute era bastato per toglierle ogni dubbio, per alleggerire il suo animo. Non aveva mai pensato che esistesse una soluzione così banalmente efficace, e scoprirla aveva messo in moto una rivoluzione dentro di lei. “E non mi ha neanche chiesto spiegazioni”, pensò.

«Perché mi fai queste domande comunque?»

“Come non detto.”

Evitò di guardarlo, focalizzandosi su un cartellone giallo poco più in là. «Niente di che.»

«Bibi», la chiamò con fare canzonatorio. «Cosa c’è che non va?»

Una parte di sé avrebbe voluto rivelargli tutto, spinta dall’incontrollabile desiderio di vederlo gioire, ma ciò era fuori discussione. Luffy non sapeva mantenere i segreti e, se avesse saputo quello che stavano architettando i suoi fratelli, sarebbe andato a urlarlo al mondo – la voce sarebbe arrivata ai responsabili e sarebbe andato tutto in fumo. Nonostante non condividesse l’idea dei suoi amici, non voleva rovinare tutto.

«Un ragazzo mi ha chiesto di uscire, ma non sono interessata.» Una bugia bella e buona, ma la prima menzogna credibile che le era venuta in mente.

Luffy inclinò appena la testa di lato senza perdere il sorriso. «Certo che fai stragi di cuori», commentò. «Uff, non riesco a trovare il mio orario. Mi accompagni in segreteria per prenderne un altro?»

Campanella di fine intervallo, una manna dal cielo.

«Devo andare.»

Non lo salutò né si voltò indietro quando Luffy la chiamò da lontano; stava scappando da un nemico invisibile, un’entità sconosciuta. Non sapeva cosa fosse quella strana sensazione al petto, che era scoppiata all’improvviso per poi sparire un attimo dopo, come un meteorite che si sgretola in migliaia di detriti. Forse aveva il timore di essere rimproverata se avesse tardato o, forse, aveva sperato in una sua reazione diversa.




***



«Ne sei proprio sicura?»

«Sì.»

Il giovane accavallò le gambe sopra il banco dove era accomodato, sporcandone la superficie di fango proveniente dall’esterno. «Se quello che mi hai detto fosse vero, si tratterebbe di una questione grossa. In caso contrario, sappi che ti stai mettendo nella merda.»

Lei assottigliò gli occhi e rispose: «Pensi che quello che ti ho riferito sia così tanto assurdo?»

«No, considerando i nomi che hai fatto.»

«Appunto! Se vuoi una fonte, non ci metto nulla a trovartela.»

Si alzò, rivelandosi parecchio alto e con un fisico ben allenato – merito di ore e ore trascorse in palestra, quasi come se vivesse lì dentro. «Non ce n’è bisogno. Vado di persona.» Uscì dall’aula; prima di imboccare il corridoio si voltò verso la ragazza e l’avvertì: «Non combinare guai.»




***



– SOS!!!!!!! Il cacciatore bianco sospetta!!!!!

– ?!?!?! Come fa a saperlo?!
– Evidentemente qualcuno ha fatto la spia.
– No raga, se becco chi è stato lo ammazzo!!!!
– E Luffy?
– Eh, speriamo non vada a parlare con lui…



E lo scambio di messaggi indignati era andato avanti per una buona mezz’ora: era un’accozzaglia di imprecazioni e dita incrociate, battaglie interiori tra chi sperava che la situazione non peggiorasse e chi era arrivato al punto di voler mettere fine all’intera storia. Decisero di incontrarsi di nascosto dopo le lezioni, lontano dalla scuola, nel solito bar in via Groove 13 dove non c’era mai nulla da fare se non ordinare un drink fresco e fare due chiacchiere in buona compagnia.

Salutarono la proprietaria del Tispenno e, consci di avere il suo indispensabile permesso, unirono un paio di tavolini e vi accostarono le rispettive sedie, in maniera tale che vi fosse posto per ognuno di loro – e anche qualche sedia in più, usata dagli scomposti per poggiare i piedi o dalle ragazze per posare le proprie borse.

«Facciamo il punto della situazione», iniziò Usopp, afferrando rapidamente una bic allo stremo delle forze e il suo inseparabile taccuino. «A chi avete rivelato il nostro piano?»

«A nessuno!», rispose prontamente Chopper alzando la mano.

«Chi si giustifica per primo solitamente è il killer ricercato dalla polizia.»

Il ragazzo dalla bassa statura s’agitò ancora di più, se possibile, poiché già alterato dall’assurda situazione in cui versava insieme ai suoi amici. «Non dire queste cose, Robin! Io non ho fatto niente, lo giuro!»

Usopp alzò gli occhi al cielo, già esausto e desideroso di andarsene a casa propria. «Sì, Chopper, ti crediamo.»

«Fiuuu», fischiò. «Menomale.»

Subito dopo fu Zoro a parlare: «Anche io sono innocente.»

«Sì, come no», l’incalzò Sanji con tono provocatorio.

«Mi stai accusando, torciglio?»

«Certamente. Soltanto un imbecille come te sarebbe in grado di farci scoprire.»

«Eeh? Sei tu ad aver combinato questo casino. Scommetto che hai spifferato tutto a delle ragazze in cambio di qualche bacetto.»

«Tu sei completamente fuori! Non farei mai una cosa del genere!»

«Valla a raccontare a qualcun altro, damerino!»

«Come mi hai chiamato, testa muschiata?!»

I litiganti vennero prontamente fermati dalle mani di Nami, le quali si chiusero a pugno e piombarono sulle teste dei due, mentre Ace e Franky se la ridevano a gran voce e battevano le mani sul tavolino, facendo tintinnare il ghiaccio nei bicchieri di Coca-Cola e producendo un gran fracasso. «Spero vivamente per voi che nessuno di voi due abbia rivelato il nostro segreto!», urlò la rossa su tutte le furie; rimproverarli era l’attività che svolgeva con più assiduità a causa dei loro continui battibecchi, la maggior parte dei quali culminavano con delle risse per strada e una manciata di cerotti a coprire i lividi che si procuravano con ferocia. «E poi piantatela di comportarvi da persone immature, per una buona volta!»

Zoro grugnì e, con le braccia incrociate ben salde al petto, prese a fissare il bancone fingendosi interessato al cocktail che Shakuyaku stava abilmente preparando; Sanji, dal canto suo, sfoderò quello che considerava uno dei suoi migliori sorrisi – che in realtà era una smorfia deformata e a tratti inquietante. «Ah, Nami, amore, sei sempre così decisa e severa che mi fai sciogliere il cuore!»

Lei roteò gli occhi e decise di ignorare le sue moine. «A ogni modo», fece voltandosi verso i suoi amici, «dobbiamo capire come ha fatto Smoker a scoprire il nostro piano.»

«Non ha scoperto un bel niente», la corresse Sabo. «Sospetta solo. Forse ha sentito qualcuno parlarne di sfuggita e ha iniziato a farsi due domande.»

«Mi domando chi sia l’idiota che se n’è andato in giro a parlarne con i suoi compari come se nulla fosse», commentò Ace grattandosi il capo. E se solo avesse saputo…

Nami si spostò i lunghi capelli rossi di lato, poggiandoli su una spalla. «Conoscendo Smoker sicuramente le sue ipotesi si basano su concretezze. Lui sa cosa abbiamo organizzato ma le chiacchiere non concludono niente, gli servono i fatti. Abbiamo idea di chi possa tramare contro di noi?»

I presenti pensarono a molteplici visi, essendo tuttavia tacitamente consapevoli di star brancolando nel buio. Il primo a proporre un nome fu Usopp: «Se fosse stato quel Trafalgar Law? Non me l’ha mai contata giusta.»

Robin scosse il capo. «Lo escluderei. Non si è mai interessato al nostro progetto.»

«Ecco! Perché era contrario!»

«No, perché gli era indifferente. Trafalino è un lupo solitario, non una spia.»

«E allora chi potrebbe essere?», chiese Sabo guardandosi attorno. «Non ho coinvolto nessuno di cui non ci fidiamo. Spero abbiate fatto lo stesso.»

«Ovvio», rispose Nami. «L’unica persona a saperlo oltre ai presenti è Bibi.»

Franky si mise un mignolo in un orecchio, grattando il suo interno. «Non è che è stata lei?»

«Ma sei scemo?! Bibi è una santa, non farebbe mai la spia! Con Smoker e i suoi poi! Ti pare?»

«Non dico che l’abbia fatto di proposito», si corresse Franky, «però la conosciamo bene. Spesso parla a vanvera e non sa mantenere i segreti. Secondo me, quel fumatore incallito le ha fatto il quarto grado e lei come un’idiota ha confessato.»

«No, ci avrebbe sicuramente avvisati e si sarebbe scusata.»

«Nami ha ragione, Bibi è una ragazza d’oro», fece Sanji mentre cercava un accendino nelle tasche dei suoi pantaloni neri. Aggiunse: «È per questo che mi piace così tanto», ma ciò gli fece guadagnare unicamente un altro doloroso pugno.

Osservando con compassione la scenetta, Chopper prese dei cubetti di ghiaccio dal suo bicchiere di aranciata, li avvolse in un panno e li porse al biondo.







Angoletto degli Easter Egg!!
1.    Phoenix: questo lo capisco solo io lmao, è un locale che si trova nei pressi della mia cittadina, è tipo minuscolo, vende quasi solo shottini ed è frequentatissimo dai ragazzi del liceo (pubblicità progresso: non ubriacatevi mai, imparate a regolarvi con l’alcol, non superate mai i vostri limiti!)
2.    Tispenno: è il nome italiano del locale di Shakky situato, come anche riportato, nel Groove 13 (che è anche il mio numero fortunato yohohoho)







Angoletto dell’Autrice!!
Eccoci qua, finalmente. In questi giorni sono troppo allegra grazie all’Eurovision (la seconda settimana santa dopo Sanremo, senza se e senza ma), sono troppo in fissa con la Moldavia HEY OH LET’S GO FOLKLORE AND ROCK’N’ROLL  (aiutatemi vi prego)  Belle anche tante altre esibizioni (rosicando perché la Lettonia è stata eliminata) (che qualcuno mandi la Norvegia a disintossicarsi dalle sostanze stupefacenti, Francia ci pensi tu?)
Ma passiamo al capitolo di quest’oggi!
Il nostro gruppetto di idioti amici sta tramando qualcosa all’ombra di Luffy – che cosa potrà essere? Perché Bibi non vuole assolutamente partecipare? E ce la farà Smoker a sventare i loro piani? Il prossimo capitolo risponderà a queste domande!
Avete delle ipotesi? Vi siete già fatti dei film mentali? Fatemi sapere cosa ne pensate con una recensione ^^

A presto,
–Channy



Post Scriptum: Bellissimo che sto editando questo capitolo ascoltando un podcast su omicidi famosi. Sono proprio bipolare aiuto--

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Anyway, Bloody Mary and In the dark ***


3
Anyway, Bloody Mary and In the dark




Alla fine del loro appuntamento di gruppo, erano giunti a una conclusione comunemente approvata: nonostante il rappresentante d’istituto stesse palesemente tentando di sventare i loro piani – o di gran lunga peggio, di andarli a denunciare direttamente al preside –, alitando sui loro colli e osservando di nascosto i loro movimenti e le loro interazioni, Ace e Sabo avevano proposto di continuare a seguire quella tortuosa strada e rendere concreta quella bravata che, secondo loro, qualcuno avrebbe riportato sui libri di storia. Che fossero esagerati, gli altri membri del gruppo lo sapevano fin troppo bene, ma avevano concordato perché l’idea di avere un futuro piedipiatti alle calcagna rendeva quel progetto ancora più proibito ed eccitante.

La limatura del piano d’azione era a dir poco perfetta: invece di distribuire i volantini che il loro amico Brook aveva fatto stampare – e aveva pure corso un bel rischio poiché inizialmente li aveva dimenticati nella fotocopiatrice della segreteria, e Dio solo sapeva come aveva fatto a tornare indietro, farsi aprire la porta, recuperare il materiale e andare via come se non fosse accaduto nulla –, avrebbero diffuso la notizia tramite innocenti passaparola, come una semplice voce di corridoio infondata e a tratti esagerata. Con un occhiolino ai destinatari del succulente invito e una sana scrollata di spalle davanti agli agenti in borghese di quel ficcanaso di Smoker, non solo avrebbero raggiunto il loro obiettivo ma l’avrebbero anche fatta franca, dato che non avrebbero mai rivelato a nessuno i nomi e i cognomi degli organizzatori dell’evento.

Sarebbe andato tutto per il meglio. Non rimaneva altro che attuare il piano e attendere il giorno prestabilito.



***



Imprecò tra i denti: la torcia aveva smesso di funzionare nel momento più critico; le luci della struttura in cui si trovava si erano spente all’improvviso, probabilmente a causa del violento temporale in atto, attutito dai finestroni dotati di vetri spessi. La cosa più logica da fare era andare alla ricerca del generatore di corrente per riattivare il sistema d’illuminazione, ma era consapevole che non avrebbe concluso un bel niente andando in giro come una talpa cieca. Di trovare le batterie di ricambio per la sua candela meccanica non se ne parlava: era impossibile scovarle in mezzo alle cianfrusaglie sparse per terra e sui tavoli, in mezzo alle scartoffie scritte con una calligrafia illeggibile.

Fece un paio di passi in avanti, impavido di fronte al pericolo che si nascondeva nell’ombra, forse non conscio di ciò; ma quando la musica s’arrestò di colpo, iniziò a pensare che c’era qualcosa che non andava.

«Ciao Luffy!»

«AAAAHHHH!!!»

Si portò una mano al petto come a voler calmare il cuore in corsa e, quasi lanciando via le cuffie, si voltò di scatto verso la persona che gli aveva improvvisamente picchiettato la spalla con un dito. Si ritrovò davanti Usopp, spaventato a sua volta dalla reazione spaccatimpani che aveva avuto il suo amico. Gli chiese infatti: «Che hai da urlare tanto?!»

Il moro impiegò qualche secondo per calmarsi. «Pensavo fosse un assassino venuto qui per uccidermi.» Gli mostrò una mano chiusa a pugno. «E non ci saresti riuscito perché ti avrei conciato per le feste.»

«Dovresti smetterla di giocare agli horror se te la fai sotto.»

«Mi stai dando del fifone?»

Usopp scrutò attentamente il volto scettico di Luffy e no, non avrebbe potuto accusarlo di essere un codardo. Cambiò argomento velocemente. «Comunque, che ci fai in camera tua la sera di Halloween?», gli domandò con un sorriso vagamente sornione.

«Che dovrei fare? Alla fine della mia idea non se n’è fatto niente.»

L’altro gli sventolò sotto al naso uno dei volantini mai distribuiti. «Ne sei davvero sicuro?»

Il broncio di Luffy si trasformò in un’espressione di pura gioia.



***



Si preparò in un tempo da record. In meno di un’ora, Luffy si fece una doccia – fu costretto a lavarsi, poiché Usopp non avrebbe retto tutta la serata stando con il naso tappato per ignorare il tanfo di sudore dell’amico – e s’infilò il costume che gli era appena stato regalato: con una benda sull’occhio, un uncino finto e un pappagallo di peluche come accessori, pareva un autentico re dei mari.

Non si curò affatto del trucco, nonostante gli fosse stato detto che Nami e Robin si erano proposte di completare il suo look con del make-up d’urgenza, e si mise la cintura mentre Usopp girava la chiave nel quadro d’accensione del suo Pandino verde sgangherato; l’automobile sgommò via come una Ferrari appena sfornata, nonostante la portiera ammaccata e gli specchietti sverniciati facessero venire in mente un futuro cliente di un rottamatore. Prima di raggiungere il luogo prestabilito, l’autista passò a prendere un Chopper vestito da quello che pareva essere un procione e Zoro, il quale, ben poco festaiolo, si era limitato a indossare una vecchia tuta rovinata; inizialmente avrebbe voluto abbandonare la nave per restarsene in camera sua a sonnecchiare in completa pace, ma l’allestimento di un tavolo di alcolici di qualità lo aveva indotto a prender parte a quella spaventosa serata.

Eppure, più che terrificante, l’istituto di notte pareva identico alla sua versione alla luce del sole. Dei faretti ad alto consumo illuminavano le lettere che componevano il nome del liceo, mentre l’ingresso era pulito e per nulla faceva pensare a un’intrusione illegale.

Usopp parcheggiò all’ombra di un cipresso distante un centinaio di metri, in maniera da non destare sospetti dall’esterno. Perché, appena varcata la soglia d’ingresso, scoppiava il caos. Decine e decine di adolescenti rumorosi affollavano l’atrio principale, ognuno di loro vestito a tema; le voci si sovrapponevano nel buio, ma nessuno pareva stranito o impaurito: anche quella era una precauzione per non farsi scoprire dagli indiscreti occhi di chi sarebbe potuto passare davanti alla scuola.

Gli occhi di Luffy luccicavano d’emozione e le sue gambe a stento riuscivano a stare ferme. «Ragazzi! Ma come avete fatto?!»

«Segreto professionale», ridacchiò Usopp mentre si strofinava il prolabio – gesto che era solito compiere senza neanche rendersene conto.

«Ti piace?», gli chiese ingenuamente Chopper.

«Puoi dirlo forte!»

«Ecco, invece dillo molto piano.»

Il corvino li guardò con aria sommamente confusa. «In che senso, scusate?»

«Una spia», brontolò Zoro reprimendo uno sbadiglio; tutto quel buio non faceva altro che favorirgli il sonno. «Il Consiglio studentesco sa qualcosa di questa storia, ed è un problema, te ne rendi conto?»

«E perché sarebbe un problema?»

«Perché non abbiamo ottenuto il permesso di nessuno, idiota!»

Luffy increspò le labbra. «Una sospensione in più non ci cambia la vita, ragazzi.»

«Parla per te. Siamo responsabili di tutta la gente che è qui. Se dovesse succedere qualcosa, non ce la caveremmo con tre giorni di domiciliari», mormorò Usopp guardandosi attorno. «La maggior parte sono primini convinti che qui possono fare quello che pare e piace a loro.»

Chopper annuì con convinzione. «È una faccenda importante, Luffy. Facciamo attenzione.»

Lui li scrutò per qualche attimo, decidendo tra sé quale fosse il comportamento migliore da adottare in quelle circostanze. Poi, semplicemente, diede ragione ai suoi amici. «E gli altri dove sono? Ci sono?», domandò.

«I tuoi fratelli dovrebbero essere in palestra», lo informò Usopp. «Robin, Nami e Bibi onestamente non lo so. L’ultima volta che le ho sentite si stavano finendo di preparare. Sanji e Franky sono da Brook, e ora dovrei raggiungerli.»

«Cosa? Come avete fatto a convincere Brook?»

Zoro si mise a ridere. «Quello è un pazzo, figurati se non era dei nostri.»

Luffy rise a sua volta. «È vero!» Poi tornò a rivolgersi a Usopp: «Che devi fare con Franky e Sanji?»

«Lavori tecnici», rispose lui. «Non posso perdere altro tempo. Ti spiego meglio dopo.» Si affrettò ad allontanarsi, e ben presto la sua figura si confuse tra quelle dei suoi coetanei.

Un anziano saggio diceva con aria placida che il caso non esiste, eppure, in quel momento, tre ragazze fecero il proprio ingresso nell’androne catturando l’attenzione di parecchi: la prima aveva indosso uno splendido costume da Stregatto che faceva a cazzotti con la serietà della seconda, fasciata nel suo tubino nero; l’ultima aveva preferito puntare sul trucco: il suo volto, ben visibile poiché i capelli erano legati in alto, era stravolto da ghirigori e glitter.

«Finalmente siete arrivate», commentò Zoro con sommo disinteresse.

Nami lo squadrò da capo a piedi. «E sarebbe questo il tuo costume? Dei vestiti vecchi?»

«Problemi?»

«Assolutamente no. La figura dello straccione la fai tu, mica io.»

«Pensavo ti vestissi da strega. Evidentemente non ne hai bisogno.»

La rossa era intenzionata a tirargli un sonoro ceffone, ma venne prontamente fermata da Chopper. «Non litigate, per favore!», scongiurò. «Cerchiamo di goderci la serata tutti insieme.»

Robin convenne. Si rivolse all’unica persona che, fino a poco tempo prima, era all’oscuro di tutto. «Ti è piaciuta la sorpresa?»

«Altroché!»

Nami incrociò le braccia sotto il seno prosperoso. «E speriamo che fili tutto liscio. Tenete gli occhi aperti. Al primo movimento sospetto di qualcuno, mandate un messaggio nel gruppo. Smoker non deve assolutamente venire a sapere di tutto questo, chiaro?»

Gli altri annuirono in silenzio.

«Che deve fare Usopp?», domandò Luffy per l’ennesima volta.

A rispondergli fu Robin: «Dobbiamo eludere la sorveglianza», spiegò con professionalità. «Bisogna fare in modo che domani i custodi non ci vedano infestare i corridoi e le aule. Brook ci ha dato un grosso aiuto non attivando l’allarme quando ha chiuso a chiave la scuola. Ma rimane il problema delle videocamere», e indicò con il dito indice una di esse, che puntava verso di loro. «Franky ha trovato il modo di hackerare il sistema, e Usopp e Sanji gli danno una mano.»

«E come diavolo hanno intenzione di fare?!»

«Sostituiranno i filmati di questa sera con dei fasulli», rispose Nami. «Sanji qualche giorno fa si è intrufolato per duplicare riprese vecchie. Useranno quelle, e con un po’ di fortuna nessuno se ne accorgerà.»

Luffy esultò e, impaziente di attendere ancora, si immerse nella folla di ragazze e ragazzi.

Bibi, che fino a quel momento era rimasta in silenzio – non aveva avuto modo di metter bocca sugli argomenti di conversazione, dato che per tutto il tempo era rimasta fuori dalle azioni dei suoi amici per libera scelta – seguì Nami e Robin verso il capo della fila che gli altri studenti avevano inconsciamente formato, e prese ad ascoltare con distrazione le istruzioni dettate da Sabo tramite degli altoparlanti. Il gioco che si sarebbe svolto da lì a pochi minuti era molto semplice: scegliendo liberamente uno dei percorsi segnati su un paio di mappe affisse nella grande bacheca degli annunci, sulla parete di fianco alla segreteria, le persone avrebbero dovuto camminare fino alla palestra tentando di non avere un attacco di cuore. Chi non si fosse spaventato, non avrebbe vinto niente; non era una gara: tutto quel teatrino serviva unicamente a giustificare la festa che si sarebbe svolta sul liscio campo da basket – Halloween significava farsi spaventare dai mostri, per poi consolarsi con il buffet allestito alla fine della strada.

Agli effetti speciali ci aveva pensato Ace in persona. Il mese prima si era impuntato sul volersi far carico della parte più delicata del progetto, e niente e nessuno si era azzardato a fargli cambiare idea: Ace voleva a tutti i costi sorprendere Luffy. Nessuno sapeva come fosse riuscito a procurarsi tutti quegli attrezzi di scena e quelle decorazioni quasi autentiche, ma quando Franky li aveva installati qualche ora prima, erano risultati essere eccezionali. Non gli fecero domande, né tantomeno commentarono il suo pacchiano costume da cowboy totalmente fuori tema.

Bibi sospirò e si mise a camminare al fianco di Nami e Chopper, formando un trio di codardi che urlava e piagnucolava a ogni ombra adocchiata all’angolo dell’occhio. Presentarsi, quella sera, era stata decisamente una pessima idea.



***



«Un brindisi al nostro successo!»

I calici tintinnarono allegramente e furono svuotati dei loro contenuti nel giro di pochi secondi.

La musica house rimbombava per tutta la palestra e trapanava i timpani dei malcapitati che avevano trovato un posto libero accanto alle casse. Anche Brook si era unito alle danze, arzillo nonostante la sua età avanzata, e tra una canzone a un’altra si era divertito a strimpellare la sua inseparabile chitarra elettrica a forma di squalo; i più giovani lo applaudivano e gli chiedevano di continuare, esaltati dai fiumi di alcool ingeriti. Qualcuno aveva persino vomitato e altri erano scivolati nella poltiglia.

Nel loro gruppo, solo Franky si astenne dal bere. Fedele alle sue lattine di Coca-Cola, si era ugualmente sbottonato la strampalata camicia hawaiana e si era esibito in una strana danza al centro della pista. «Venite anche voi, ragazzi!», aveva urlato a nessuno in particolare.

Luffy, Usopp e Chopper colsero volentieri l’invito, iniziando a sculettare per la palestra e facendo ridere gli altri partecipanti alla festa. Usopp, in particolar modo, si sentiva finalmente rilassato: per giorni e giorni aveva dovuto convivere con un perpetuo stato di ansia causato dalla paura di venire sgamato e subirne le conseguenze e, poiché tutto era filato liscio, non si era voluto privare di qualche cocktail dai dubbi contenuti.

Ballò esageratamente e senza vergogna, almeno fino a quando non scivolò su del punch caduto sul pavimento e andò a sbattere contro qualcuno. Il dolore alla tempia fu indescrivibilmente tremendo, poiché alterato dalla stanchezza mischiata ai tre mojito che si era scolato di fila, assetato e accaldato. Si portò una mano alla zona lesa e mosse piano le dita, mimando un massaggio che sperava fosse rigenerante; ringraziò mentalmente la sua maschera fatta a mano per non essersi rotta nell’impatto. Nel frattempo biascicò delle scuse alla persona che aveva involontariamente colpito. «Non preoccuparti», ricevette come risposta, e la vocina timida che aveva parlato lo indusse a sollevare finalmente lo sguardo.

Davanti a sé la pelle naturalmente pallida di una ragazza, resa ancora più cadaverica da una cipria bianchissima, si macchiò di rosso scarlatto; nell’impacciato tentativo di fermare il flusso di sangue che le colava dalle narici, si racchiuse il naso all’interno del palmo di una mano, mentre l’altra frugava nervosamente all’interno della borsetta a tracolla alla ricerca di un fazzoletto da poter utilizzare.

La riconobbe immediatamente, e il suo nome scivolò via dalle sue labbra. «Kaya?»

Lei lo guardò da dietro un paio di occhiali finti e arrossì appena. Non trovò nulla da dire, perciò a parlare fu nuovamente Usopp: «Sei venuta», constatò con ovvietà.

«Mi sembrava divertente», rispose la bionda con la bocca nascosta a metà dalla mano, che si stava velocemente imbrattando di sangue.

Quella vista bastò a far guarire Usopp dalla sbornia e dallo stordimento causato dalla musica che continuava a diffondersi nell’aria. Si adoperò per cercare di aiutarla, ma l’unico oggetto vagamente somigliante a un fazzoletto che possedeva era un pezzo del suo costume da mummia improvvisato: staccò alcuni pezzi del bendaggio che si era annodato alle gambe e glieli porse, sperando in cuor suo che Kaya non trovasse quell’iniziativa profondamente antigienica.

Lei, dal canto suo, rimase impalata sul posto, indecisa se accettare o meno quel goffo tentativo di aiuto; decise infine di afferrare quelle bende ingiallite e portarsele al viso – del resto, non aveva niente di meglio da utilizzare. «Grazie», mormorò da dietro il tessuto.

Nonostante la sua voce fosse appena un sussurro in quella palestra gremita di urla stonate, Usopp riuscì a sentirla. «Figurati. E scusami ancora, sono scivolato.»

Kaya sorrise senza essere vista. «Ho visto.»

«Mi stavi guardando?» Lo disse con una scioltezza tale da non rendersi conto dell’imbarazzo che la sua domanda suscitò; l’effetto gli arrivò in ritardo come un boomerang, e si ritrovò ad arrossire di vergogna. «Cioè, volevo dire, ti sei accorta che sono scivolato o mi stavi guardando già da prima? No, neanche così. Ehm, stavi ballando anche tu?»

Impacciata quanto lui, la bionda ridacchiò nel tentativo di smettere di agitarsi tanto. «Sì, ehm, no in realtà, però tu e i tuoi amici avete catturato l’attenzione di molti.»

«Davvero? Non me ne ero neanche accorto.» Rise anche lui, prendendosi del tempo per cercare altro da dire – che poi, perché aveva così tanto interesse nel mantenere in piedi quella disastrosa conversazione?

«Posso portarti qualcosa da bere? Così ti riprendi dalla botta.»

Lei annuì, seppur con poca convinzione. «Grazie.» Allontanò le bende dal volto e prese a osservarle, constatando di aver finalmente smesso di sanguinare. «Che guaio», mormorò a sé stessa.

«Ma no!», intervenne Usopp anche se non interpellato. «Non stai male. È come un costume di Halloween», commentò osservando il viso della ragazza, che si era sporcato di sangue. «Sembri… Bloody Mary.»

Kaya abbozzò un sorriso di educazione. «Sarà meglio che vada a lavarmi», disse e girò i tacchi, allontanandosi velocemente da lui.

Ma, invece di dirigersi verso i bagni, scappò a casa.



***



Ironia della sorte, l’unico a mancare all’appello era Zoro.

Madre Natura con lui era stata assai concessiva: gli aveva donato un penetrante sguardo magnetico, un fisico ben messo e un carattere fermo per la sua età; aveva però peccato sull’apparentemente insignificante ma in realtà indispensabile senso dell’orientamento. Nonostante frequentasse quel liceo da anni e lo avesse percorso in lungo e in largo molteplici volte, ancora non era in grado di distinguere i corridoi tra loro; incapace di per sé a trovare le aule per fare lezione durante le ore diurne, era ancora più confuso a quell’ora della notte, con tutte le luci spente e i punti di riferimento nascosti da grandi ragni impagliati e le loro tele appiccicose. Se qualcuno gli avesse fatto notare di star passeggiando per la stessa strada per la quarta o quinta volta di seguito, le decorazioni tutte uguali si sarebbero potute trasformare in ottimi appigli per fuggire dalla vergogna scaturita dalla consapevolezza di essersi perso.

Poche ore prima aveva deciso di prendere parte al gioco organizzato da Sabo, nonostante il suo piano suonasse molto banalmente alle sue orecchie. Come già detto, era stato il rifresco illegale alla fine del percorso a fargli approvare l’iniziativa, oltre alla totale gratuità dell’evento – aveva già speso la paghetta del mese in acquisti superflui – ampiamente argomentata da Nami, che avrebbe tanto desiderato intascare qualche soldo.

Decise pigramente che continuare ad andare a zonzo sarebbe servito a ben poco, soprattutto se un’ondata di sonno lo stava sommergendo fin sopra i capelli color prato – testa d’alga avrebbe detto Sanji, e solo a pensarlo gli salì il nervoso. Una sedia abbandonata contro un muro fece al caso suo: si lasciò cadere come una sacca colma di ortaggi e appoggiò la testa contro la parete, usando braccia e mani come un cuscino improvvisato. Al termine della festa, qualcuno si sarebbe accorto della sua assenza e lo avrebbe cercato, dato che le sue sorti quella notte dipendevano dalla patente nuova di zecca di Usopp.

Un rumore gli fece aprire gli occhi. Non seppe dargli una definizione, ma lo associò a uno stridio, come se qualcuno fosse scivolato a causa delle suole delle scarpe troppo liscie. Pensò che probabilmente qualcuno stesse semplicemente camminando, eppure non udì nessun altro suono; com’era possibile? Sembrava quasi che un’ombra silenziosa stesse tentando di non farsi sentire, impersonando un agente sotto copertura impegnato a portare a termine indagini riguardanti loschi affari. Che si trattasse della spia senza nome che era stata in grado di far tentennare le loro convinzioni in appena tre giorni?

Senza indugio decise di andare a controllare. Impossibilitato nel capire dove si stesse effettivamente dirigendo, optò per affidarsi totalmente all’udito. Seguì l’eco di piccoli passi, a sua volta riducendo al minimo i movimenti e i conseguenti rumori. Chi era il cacciatore? Chi era la preda? A ogni avanzo i loro ruoli si scambiavano tra loro, rincorrendosi ed evitandosi, nascondendosi e invitando l’altro a mostrarsi. Era un carosello al buio, un gioco d’astuzia e d’azzardo svolto nel totale silenzio impregnato di tensione e respiri sottili.

Zoro dimostrò di essere più veloce e agile. Quando finalmente individuò una figura snella nell’ombra, scattò in avanti e allungò una mano, afferrando la spalla dell’individuo misterioso e costringendolo a voltarsi. «Chi sei?», domandò con fermezza.

Probabilmente a causa dello spavento o per la rapidità di reazione, la persona si liberò dalla presa e balzò all’indietro, ancora coperta dal buio. La fortuna non fu dalla sua parte: con la schiena urtò dolorosamente degli scaffali, e ciò che vi era sopra cadde; sei trofei sportivi finirono inevitabilmente sul pavimento e si ammaccarono, e gli attestati che li accompagnavano non li abbandonarono neanche in quel pasticcio. La silhouette cacciò un gridolino e subito dopo strinse la mascella per non cedere alla sofferenza fisica. «Accidenti», disse fra i denti.

Approfittando del gran fracasso, Zoro afferrò il proprio cellulare e accese la torcia di cui era dotato, puntandola sullo strambo individuo. Questi si rivelò essere una ragazza dall’aria conosciuta, ma lui non riuscì a collegare il suo volto ad alcun nome. Prese in mano la situazione e pronunciò con la medesima serietà di poco prima: «Cosa stavi tentando di fare?»

Lei alzò finalmente lo sguardo verso di lui e l’espressione che si dipinse sul suo volto rappresentava puro sconcerto. «Roronoa!», esclamò con sorpresa mescolata a una sana dose di rabbia. «Tu cosa stavi tentando di fare!?»

Zoro strinse la mascella a sua volta. «Non ci provare, qui le domande le faccio io.»

Lei lo ignorò bellamente. «Ci avevo visto giusto allora. Ero sicura che anche tu fossi coinvolto in questo… Questo

«Ma di che diavolo stai parlando?»

«E non credere di farla franca! Quando chi di dovere lo verrà a sapere, tu e i tuoi amici finirete nei guai fino al collo!»

Zoro non era un asso con le donne, ma aveva capito che tentare far ragionare quella strana ragazza sarebbe stato completamente inutile. Piuttosto, dove l’aveva già vista?

«Senti», disse mentre lei continuava a imprecare, «sei tu la spia?»

Come se l’incantesimo del fiume in piena fosse scoppiato come una bolla di sapone, la giovane si interruppe; parve riflettere su quella domanda, vagabondando nella confusione, poi rispose: «Non sono affatto una spia. Sto solo facendo il mio dovere.»

«Il tuo dovere? Ma chi sei?», ripeté.

La ragazza si rimise in piedi e si calò degli occhiali dalla montatura rossa sul naso appuntito. «Faccio parte del Comitato della rappresentanza degli studenti.»

«E allora non stai facendo il tuo dovere.»

«Eh?»

«Se rappresenti gli studenti dovresti batterti per difenderli, non per buttarli nella merda», rispose Zoro con ovvietà.

«Non c’entra un bel niente! Mi occupo di fare in modo che in questo istituto tutto funzioni al meglio, e se un giorno un gruppo di scapestrati s’inventa di voler dare una festa abusiva in palestra, non sono io che li butto nella…», tentennò, «… nei guai, ma loro stessi. Tu e i tuoi amici state violando tutto il regolamento d’istituto in una volta sola, te ne rendi conto?»

«Aah, esiste un regolamento d’istituto? E tu l’hai anche letto?»

La ragazza arrossì dalla furia e fu tentata di mettergli le mani addosso. «Roronoa, ti ordino di andarti a costituire immediatamente!»

Zoro le mostrò un sorriso beffardo – si stava palesemente prendendo gioco di lei. «Costringimi, quattrocchi.»

Lei fece per scaraventarsi su di lui ma, nell’avanzare alla cieca, non si accorse di avere ai piedi uno dei trofei dorati e pertanto gli diede un calcio così forte che fece ruzzolare via l’importante premio. Impallidì.

Il ragazzo non si mosse di un millimetro, continuando a sorridere sinistramente. «Qua però io non c’entro niente.»

«C’entri eccome!», urlò lei. «Perché la vetrina dei trofei è aperta? Te lo dico io. Perché ci avete messo dentro le vostre stupidissime decorazioni! Il mio è stato un incidente, nulla di più.»

«Quindi andrai a costituirti anche tu, vero?»

La giovane aprì la bocca per ribattere, ma una preoccupazione la colpì come un fulmine. «Non posso.»

Zoro sollevò un sopracciglio.

«Non posso, non posso, non posso», mormorò come un disco rotto. Sembrava stesse parlando con sé stessa. «Smoker non sa che sono qui, non lo sa nessuno. Se scoprono che mi sono fatta viva mi ammazzeranno di sicuro. Ma questi trofei li ho rotti io… Come faccio?»

Colse la palla al balzo. «Ti dico io come fare.» Ottenne la sua attenzione e continuò. «Tu fai la brava e non spifferi a nessuno cosa è successo qui stanotte. Io, in cambio, non dirò a nessuno che sei stata tu a combinare questo macello. Ci stai?»

«Assolutamente no. Quello che avete fatto è grave e io non sono affatto disposta a diventare complice di voi criminali.»

«In tal caso non mi lasci altra scelta.» Fece una fotografia alla ragazza con dietro di lei le coppe danneggiate, accecandola con il flash dello scatto. Approfittò della sua confusione – cieca come una talpa di per sé, aveva preso a strofinarsi gli occhi con le dita per scacciare il fastidio visivo provocato dalla luce – e la caricò in spalla, iniziando a camminare per raggiungere una determinata zona. Compose un numero sul telefono e avvicinò quest’ultimo all’orecchio; quando il suo interlocutore rispose, disse: «Hey, Robin, raduna gli altri in fretta. Ho trovato la spia», e riattaccò senza neanche attendere un assenso.

La ragazza, rendendosi conto di trovarsi addosso a lui, prese a scalciare come una furia. «Levami immediatamente le mani di dosso, imbecille!»

Zoro sbuffò rumorosamente. «Quanto rompi.»

«Taci! Dove mi stai portando? Spero per te che tu non abbia brutte intenzioni, ti avverto che so difendermi bene.»

Lui ghignò nuovamente; stavolta lei non fu in grado di vederlo. «Andiamo dal capo.»







Angoletto degli Easter Egg!!
1. Futuro piedipiatti: è un riferimento al mestiere di Smoker nell’opera originale. Mi piace pensare che lui possa rappresentare la giustizia anche in un contesto AU.
2. La torcia aveva smesso di funzionare […] qualcosa che non andava: sottile riferimento al videogioco ‘Outlast’. Se non erro c’era un momento in cui accadeva qualcosa del genere, ma sono passati tanti anni e non ricordo con precisione. In questa scena Luffy sta giocando proprio a questo videogame.
3. Pareva un autentico re dei mari: be’, qui non c’è molto da spiegare lmao.
4. Un anziano saggio diceva con aria placida che il caso non esiste: il maestro Oogway da ‘Kung Fu Panda’, ovviamente!
5. La sua maschera fatta a mano: riferimento a Sogeking, re dei cecchini *parte la canzoncina*





Angoletto dell’Autrice!!
Pubblico con un po' di ritardo a causa di impegni lavorativi e universitari (settimana infernale, ma è quasi finita) Anyway, I'm right here.
I capitoli cominciano ad allungarsi, ormai siamo entrati nel vivo della storia! I nostri protagonisti si sono infiltrati a scuola di sera/notte per festeggiare Halloween eeeed è una cosa totalmente impensabile da fare nella realtà AHAHAHA
Abbiamo visto il ritorno di Kaya (ma poi è scappata via di nuovo!) e l’ingresso di un nuovo personaggio; in realtà è stata protagonista anche nell’ultima parte del primo capitolo, ma qui si ha una visione di lei decisamente più ampia… avete capito chi è, vero? ;)
Cosa accadrà adesso? Scopritelo nel prossimo capitolo e nel frattempo lasciate una recensione ^^

A presto,
–Channy


Post Scriptum: per evitare fraintendimenti vorrei precisare alcune cose. In primis, la scuola di questa fanfiction è di tipo americano, ciò significa che gli anni sono quattro e non cinque! In secundis, Brook non è magicamente ringiovanito; è un vecchietto anche qui e l’ho piazzato a fare il collaboratore scolastico, così da poter sempre vegliare sui protagonisti e dar loro una mano nei momenti di difficoltà!

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Shut up, Princess and Fool ***


4
Shut up, Princess and Fool





«Mi chiedo se andrà tutto bene.»
«Rilassati, fratello. Hai sentito Nico Robin, no? È stato Zoro a trovare la spia. Sono suuuper sicuro che avrà la situazione sotto controllo.»
«Non è che mi fidi molto di quella testa d’alga, comunque…»
Franky sorseggiò la Coca-Cola in lattina che aveva sgraffignato dalla palestra mentre si dondolava su una sedia di plastica. Accanto a lui, Sanji giocherellava distrattamente con un accendino, conscio di non poter fumare in un ambiente chiuso a meno che non fosse intenzionato a far scattare l’allarme antincendio; fissava la porta della stanza di videosorveglianza, sperando che si aprisse in fretta: non temeva di finire in presidenza dopo il disastro che aveva accuratamente organizzato con i restanti membri del gruppo, piuttosto era preoccupato che a rimetterci troppo fossero le tre ragazze della combriccola. Robin, Nami e Bibi erano in piedi in un angolino della stanza impegnate a consolare un Usopp moralmente distrutto. Il suo sguardo color mare indugiò sulla seconda, tracciando i contorni del suo viso distorto a tratti dall’ansia e a tratti dalla determinazione di non volersi piegare ai chissà quali scopi della spia. Pensò che anche quel giorno fosse bella e, nonostante si fosse già espresso in una moltitudine di complementi smielati, elogiando il suo originale costume, non riusciva a distogliere l’attenzione. Sapeva che per lei era fondamentale che filasse tutto liscio: si stava impegnando al massimo per accumulare buoni voti poiché aveva come scopo entrare in un’accademia prestigiosa una volta conclusi gli studi della scuola dell’obbligo; aveva alle sue spalle pagelle perfette e quell’anno, il penultimo, non doveva essere da meno – era fondamentale ottenere una borsa di studio.
Quest’ultima batteva il piede a terra con insistenza e nervosismo, nonostante i tacchi le procurassero fastidio alle caviglie. «Spero per Zoro che non ne abbia combinata una delle sue. Ci manca solo che Sakazuki lo venga a sapere… E tu, Usopp, smettila di frignare!»
Il ragazzo si strinse a Chopper, il quale annaspò alla ricerca d’ossigeno. «Chissà che idea si sarà fatta di me», borbottò fissando il pavimento.
Bibi gli carezzò la schiena con fare amorevole. «Coraggio, Usopp. Non avevi cattive intenzioni, è stato un incidente. Magari mentre era in bagno i suoi genitori sono passati a prenderla e se n’è dovuta andare. Non avendo il tuo numero non ha potuto avvertirti.»
«Già, Usopp», intervenne Luffy con un sorriso innocente. «Perché non le hai chiesto il numero? Potresti non rivederla mai più.»
«Luffy!», lo sgridò Bibi. «Non dirgli così, lo farai stare peggio!»
«Non è vero», fece Ace al suo fianco. «Starebbe peggio se gli dicessimo che in realtà l’intenzione di quella là era proprio non farsi vedere più.»
Bibi continuò a urlare, indignata, mentre Robin ridacchiò coprendosi la bocca con una mano.
Fu in quel momento che sentirono delle lamentele provenire dal corridoio; un attimo dopo l’uscio venne aperto con violenza, come se chi avesse compiuto il gesto fosse al limite di una crisi di nervi.
L’espressione accigliata di Zoro venne illuminata dalla luce della stanza; con un movimento rapido fece scendere la ragazza che portava in spalla come un sacco di patate, e lei cadde con il fondoschiena a terra – il tutto accompagnato dalle urla contrariate di Sanji. «Finalmente siamo arrivati. Non ti sopportavo più, quattrocchi.»
«Questo dovrei dirlo io! Possibile che non conosci neanche le strade della scuola che frequenti da anni? Ti ho dovuto dire io come arrivare qua!», ribatté lei.
Nami si portò davanti a tutti gli altri e puntellò le mani sui fianchi. «Bene bene, guardate chi abbiamo qui.»
Sabo affiancò la ragazza con espressione severa. «Non sono affatto sorpreso. Del resto, era molto semplice da capire.»
Gli altri membri del gruppo formarono rapidamente un cerchio attorno all’intrusa, mentre la porta venne richiusa per non lasciare che nessuno all’esterno udisse la conversazione. “Io la conosco, è una belva”, sibilava Usopp a Chopper che, impaurito, tentava di nascondersi malamente dietro le sue gambe magre.
«Ti manda Smoker?», domandò Robin con un sorriso accennato sul volto; era tranquilla, come se nulla di ciò che stesse accadendo la tangesse.
La ragazza si rimise in piedi e li scrutò uno per uno. «No, venire qui è stata una mia iniziativa. Smoker e Hina non sanno nulla.»
«Perché?», proseguì l’interrogatorio.
«Perché volevo dar loro delle prove, dimostrare che i nostri sospetti erano fondati.»
«Che prove ti sei procurata?»
«Questo non sono tenuta a dirvelo. È mia intenzione denunciarvi al preside Sakazuki per l’infangamento del regolamento d’istituto, violazione di proprietà privata e detenzione di alcolici.»
Zoro si grattò la testa. «Dimentichi la storia dei trofei, quattrocchi.»
«La storia dei trofei?», domandò Nami con evidente confusione.
«L’imbranata li ha fatti cadere e ora sono tutti ammaccati. Ho fatto una foto per incastrarla», spiegò lui.
«Perché te la sei presa con quei trofei? Sono suuuuper belli!»
La ragazza arrossì furiosamente. «Ho già spiegato a questo cretino che si è trattato di un incidente. Per colpa sua, per giunta.»
«Mia adorata, splendido raggio di sole che illumina questo liceo buio, anche io penso che sia un cretino. Ti va di uscire insieme per conoscerci meglio?»
Gli arrivò un pugno dritto in testa. «Non è il momento, Sanji!»
Le goti del biondo si tinsero di un piacevole rosso. «Sei gelosa, amore mio?»
«Affatto», tagliò corto Nami. Tornò poi a rivolgersi alla spia. «Toglimi una curiosità. Come ti è giunta alle orecchie la notizia della nostra festa? Te lo ha detto qualcuno? Aveva come scopo quello di tradirci?»
L’altra scosse il capo, facendo oscillare i lunghi capelli neri. «Ho sentito tutto per caso. Portuguese e Outlook ne stavano parlando a gran voce in corridoio alla fine delle lezioni. Evidentemente non mi hanno vista.»
L’aria si congelò all’istante. I due ragazzi in questione si scambiarono occhiate preoccupate, le loro fronti improvvisamente imperlate di sudore; sapevano che da lì a poco si sarebbe scatenato l’inferno. A confermare le loro paure fu la valanga di schiaffi che ricevettero, seguite da urla indignate e colme di rabbia allo stato puro.
«E ti pareva che c’entravate voi!»
«Mi domando perché diavolo ve ne andate in giro a urlare ai quattro venti del nostro piano segretissimo!»
«Vi dovrei cambiare i connotati a suon di calci!»
«Ma quali calci?! Io prendo una spada e li faccio a fette!»
«Io invece li manderei all’altro mondo con un bazooka!»
«Adesso ve la vedete voi con Sakazuki! E niente storie!»
Luffy, che era l’unico in quella stanza che poteva ancora dirsi innocente, se la rise a crepapelle; dovette portarsi le mani sullo stomaco per non piegarsi in due dalle risate. Ancora con le lacrime agli occhi, si rivolse alla spia dicendole: «Dai, come puoi andarli a denunciare?! Sono troppo divertenti!»
La giovane, rimasta naturalmente fuori dalla rissa, si strinse nella camicia a fiori; a causa della temperatura bassa di quella stanza costantemente ventilata rischiava di incappare in un raffreddore coi fiocchi. «Quello che avete fatto è grave, non posso far finta di nulla. Ne vale il mio orgoglio.»
A sentir quelle parole, Zoro si tirò fuori dal polverone e tornò vicino a lei. «Mi costringi a ricattarti.»
La ragazza strinse gli occhi in due fessure strette. «Cancella immediatamente quella fotografia, Roronoa.»
«Ti aspetti che lo faccia? Tu tieni la bocca chiusa e ti assicuro che non ti succederà niente. Ci siamo capiti… Come hai detto che ti chiami?»
«Tashigi.»
«Ecco. Ci siamo capiti, quattrocchi?»
Lei sorvolò sulla questione del nome – era convinta che Zoro se lo fosse già dimenticato – e gonfiò le guance. Avrebbe voluto continuare a insistere, dirgli che non era disposta a trattare con la sua faccia da schiaffi e con i suoi amici criminali, ma si rese conto che la situazione non giocava affatto a suo favore. Innanzitutto era in svantaggio numerico: per quanto quel gruppo di scalmanati ce l’avesse con i due colpevoli della spifferata, si sarebbero dati man forte nel proteggersi a vicenda. In più tra loro non solo c’era Nami – che spesso riusciva a farla franca davanti ai professori grazie alla sua grande abilità di distorcere la realtà usando paroloni nei suoi discorsi di scuse –, ma anche Nico Robin e Bibi, intoccabili dal punto di vista morale; davanti al preside l’azzurra probabilmente si sarebbe fatta prendere dal panico, ma Robin sarebbe apparsa irremovibile sulla sua versione dei fatti. A nulla sarebbe servito incolpare loro per la rovina di quelle dannatissime coppe, e mentendo ci avrebbe solo perso. Giunse pertanto a una conclusione amara.
«Me la pagherai molto cara, sappilo.»
Luffy allargò il sorriso e Zoro ghignò ancora e tuffò le mani in tasca. «Hey, ragazzi», li chiamò mettendo fine al massacro. «La secchiona qui presente terrà la bocca chiusa.»
Le loro urla di rabbia si trasformarono in grida gioiose.
«Finalmente una bella notizia!», esclamò Chopper mentre agitava le braccia al cielo.
«Direi che possiamo andarci a godere il resto della serata.»
«E quando avete intenzione di smontare tutto?»
Si voltarono a guardare la giovane con gli occhiali. Prese la parola Franky: «Mh, verremo domani mattina a disfarci delle prove. Approfittiamo che la scuola resterà chiusa, dato che è domenica.»
«Non potete», si lasciò sfuggire. Rendendosi conto della notizia segreta che era in procinto di rivelar loro, si tappò la bocca con le mani.
«Tashigi cara», fece Sanji con dolcezza, ma il suo sguardo raccontava un principio di stato d’allerta. «Cosa ci vuoi dire?»
La mora tornò a guardarli. Sospirò, maledicendo mentalmente il suo non saper mentire. «Vi conviene iniziare da adesso a liberarvi delle prove. Domani mattina Smoker ha intenzione di fare un sopralluogo con la scusa di occuparsi dell’organizzazione di alcuni eventi che si terranno nei prossimi mesi. Ha già ottenuto il permesso da chi di dovere.»
Sabo si portò una mano al mento tumefatto, massaggiandolo delicatamente. «Questa sì che è un’informazione preziosa. Facciamo come dice lei.»
Nami annuì. «Avete sentito, gente? Sono le due di notte e tra poche ore il cacciatore bianco sarà qui a farci sospendere! Correte a mettere tutto a posto! Franky e Usopp, voi occupatevi dei bracci meccanici degli zombie e dell’impianto stereo in palestra. Ace, vai immediatamente a prendere il furgone per caricare la roba. Chopper e Bibi, radunate i primini e dite loro di sloggiare e di tenere il becco chiuso. Sanji e Zoro, voi occupatevi del rinfresco e vedete di non mettervi a litigare. Luffy, tu vai a cercare Brook e mettete a posto i trofei. Già che ci siete, date una mano a Franky a smontare la roba. Non dovete dimenticare neanche un misero ragnetto, altrimenti siamo fritti. Robin, tu resta con me a occuparti della videosorveglianza. Muoversi, muoversi!»
L’occhialuta vide tutti i presenti scattare sull’attenti quando la rossa li chiamava per nome, per poi precipitarsi fuori dalla stanza per eseguire gli ordini. Capendo che le dritte erano concluse, fece per andarsene, ma le due ragazze la fecero bloccare sul posto. «Tashigi?»
Si voltò e incrociò nuovamente i loro sguardi severi. Rimasero a scrutarsi per svariati attimi, quando i lineamenti delle due giovani si rilassarono. «Grazie per l’avvertimento», le disse Nami.
Robin aggiunse: «Ci sei stata di grande aiuto.»
La ragazza si morse le labbra mentre camminava verso l’uscita della scuola.
In che guaio si stava cacciando?



***



L’aula del corso di lettura era deserta quella mattina, ma quel vuoto non stupiva nessuna delle tre figure che non mancavano a neanche un incontro. Il club dedicato ai libri era stato bocciato a causa delle troppe poche adesioni, tuttavia le autorità scolastiche avevano chiuso un occhio grazie alle insistenze delle solite partecipanti, che anche gli altri anni avevano lottato per ottenere un posticino dove poter leggere in gruppo un buon romanzo – o chiacchierare senza essere disturbate da nessuno sfruttando l’ora di pranzo, durante la quale la massa d’adolescenti si radunava in mensa o in cortile, lasciandosi alle spalle un piacevole silenzio.
«Eeeh? Un ragazzo ti ha chiesto di uscire?»
«E chi è? Chi è? Lo conosciamo?»
«Scommetto che è quel tipo affascinante del quarto. Come si chiamava…?»
«Dici Ace?»
«No, no. Caven-qualcosa.»
«Aah, Cavendish.»
«Non farti ingannare da quel biondino. È un egocentrico di prim’ordine, e poi dicono che ci provi con tutte.»
Agitò le mani per aria. «Ragazze! Ho mentito, ho mentito!»
Strabuzzarono gli occhi. «Cheeee?!» Poi una delle due aggiunse: «Come mai?»
Bibi sospirò, poggiando una guancia sul palmo di una mano. «Non ho avuto il coraggio di dirgli la verità. E, in ogni caso, non avrei potuto dirgliela. La nottata di Halloween, sapete, no?»
«E ora cosa farai?»
L’azzurra guardò Shirahoshi e, per farlo, dovette sollevare il capo; la ragazza era incredibilmente alta nonostante fosse la più piccola fra loro. «Credo che debba rimangiarmi tutto.»
«Ma Bibi», fece la terza, «in questo modo ti ritroverai punto di partenza.»
«Me ne rendo conto, Rebecca, ma quali altre soluzioni ho?» Il suo sguardo madreperlaceo si spense ancor di più. «Inoltre, non ho il coraggio di guardarlo in faccia.»
Shirahoshi si sporse in avanti, stringendo il banchetto di legno con le sue lunghe dita bianche, quasi a volersi aggrappare a esso per non cadere rovinosamente; il seno prosperoso coprì la copertina del suo libro, abbandonato su quella superfice legnosa e quel giorno mai aperto, lasciando il segnalibro bianco dove l’aveva posizionato il giorno precedente. «Perché?», chiese con aria infantile.
Bibi lasciò che alcune ciocche di capelli le coprissero lo sguardo quando chinò il capo verso il basso, con la scusa di guardare l’orario sull’orologio da polso. «Non lo so. Mi vergogno», biascicò e raccolse le proprie cose, imitata dalle altre due.
«Per avergli rifilato una menzogna?»
«Non solo. Quando sono scappata senza neanche salutarlo… Mi sento di avergli mancato di rispetto.»
Mentre uscivano dall’aula, intenzionate a sgranchirsi le gambe prima che scattassero le due ore di lezioni pomeridiane, Rebecca le poggiò una mano sulla spalla. «Luffy non bada a queste cose, dovresti saperlo. Probabilmente non se lo ricorda neanche più.»
Lei si rilassò sotto il suo tocco, ma il suo volto rimase amareggiato e vagamente imbronciato.
«C’è dell’altro, vero?», le chiese Shirahoshi scrutandola con i suoi occhioni color cielo.
Bibi evitò accuratamente di incrociare lo sguardo. «Probabilmente», ammise, «non mi piace la sua amicizia.»
Le due amiche furono pronte a ribattere, ma si tapparono la bocca per evitare che delle spettatrici udissero il continuo di quella spigolosa chiacchierata; l’intensità delle voci cresceva, e quella che tutti chiamavano principessa serpente occupava i paraggi con le sue mille orecchie. Gli occhi guardavano verso una direzione diversa rispetto a dove Bibi, Rebecca e Shirahoshi si trovavano, ma sapevano che il ragazzo che pocanzi avevano solo nominato aveva catturato tutta la sua attenzione.
«Ma guardate che ore si sono fatte!», esclamò l’azzurra battendosi una mano sulla fronte scoperta.
«Che sbadate! Dovremmo proprio tornare a lezione!»
«Ma non abbiamo nulla da fare…»
Rebecca fu rapida a tappare la bocca di Shirahoshi con una mano. «Già! Se non corro subito in classe, il professor Kuzan andrà su tutte le furie.»
Ridacchiarono nervosamente e se ne andarono a gambe levate.



***



Possibile che due grandi occhi color oceano fossero tanto dolci come caramelle zuccherate quanto affilati come lame spietate?
Ebbene, se i suddetti occhi fossero stati donati a una qualsiasi persona nel continente, la risposta sarebbe stata negativa; ma la proprietaria di quelle due sfere incantatrici era dotata di una bellezza tale da rendere tangibile realtà anche il controsenso più astratto. La pelle diafana era in netto contrasto con i lunghissimi capelli neri, e quel suo aspetto angelico la faceva somigliare a una nota principessa delle fiabe – ma del carattere di Biancaneve non c’era traccia. Non amava mostrarsi spiritualmente bella agli occhi altrui, neanche dinanzi all’autorità emanata dal giovane uomo che la fronteggiava, osservandola dietro un paio di occhiali da sole.
«Che vuoi?»
Il suo tono di voce fu gelido, ma lui non era fatto per intimorirsi di fronte a quell’imparagonabile bellezza. «Voglio che sputi il rospo.»
Lei resse il suo sguardo cattivo senza batter ciglio; fece una bolla con la gomma che stava masticando, studiando bene il modo in cui fargliela scoppiare in faccia. «Non so niente.»
Impassibile come una roccia millenaria, ribatté: «Non prendermi per il culo, Hancock. Tu sai.»
Lei continuò a scrutarlo; poi si voltò verso il proprio armadietto, e la velocità con cui s’era girata permise ai suoi capelli di diventare una frusta. «Se sei così in vena di fare l’investigatore, perché non provi a ficcare il naso negli sporchi affari di Eustass Kidd, invece di prendertela con gli innocenti?»
Smoker avrebbe voluto fumare, in quel momento, per placare il crescente nervosismo che tuttavia era restio a mostrare. «Quello stronzo di Kidd può aspettare. La faccenda di Luffy è più urgente.»
«Hai paura che ti scada il mandato di perquisizione?», ironizzò lei mentre inseriva la combinazione per sbloccare il lucchetto. «Se non trovi nulla, vuol dire che non ha fatto niente di male.»
«Cazzate», le rispose. «Tutti sanno che quello là prova gusto nel collezionare punizioni.»
Hancock aprì l’anta metallica dell’armadietto. «E tu, Smoker? Tu non hai le tue piccole manie?» Gli impedì di ribattere poiché proseguì: «Sei sempre addosso alla gente, agli occhi di tutti sembri un dittatore. C’è già Sakazuki a far sembrare questo liceo un carcere, non serve che ti ci metta anche tu. Per quanto mi riguarda, Luffy è libero di compiere tutti i casini che gli pare. Almeno con lui non ci si annoia a morte.»
Se quella ragazza era alta, allora Smoker era vertiginoso. Le sue sopracciglia s’aggrottarono maggiormente. «Stai ammettendo la sua colpevolezza?»
Negò scuotendo il capo. «Ti sto sgridando. Perché sei così convinto che Luffy abbia fatto qualcosa di sbagliato?»
«Mi è stato riferito.»
«Da chi? Da qualche insulsa voce di corridoio? Oppure c’è lo zampino di uno dei tuoi?»
«Senti, qui le domande le faccio io.»
Rise di scherno. «Sì, sono sicura che sei stato informato da loro. Sarà stata la fumatrice incallita, il topo da biblioteca che non si regge in piedi o lo sfigato dalle improponibili bandane? Venghino, signori, venghino! Il banco delle scommesse è aperto!»
Smoker ignorò la sua arroganza e le domandò: «Dov’eri la notte di Halloween, Hancock?»
Lei tornò seria, seppur mantenendo un sorriso furbo in volto. «All’Evening Drink Less. Serata a tema, entrata gratuita, posti limitati e cocktail a metà prezzo per l’occasione. Ora che farai? Andrai lì a chiedere i filmati di videosorveglianza per accertarti del mio ingresso?»
Prese ciò che le serviva dall’armadietto e lo richiuse, poi si allontanò ancheggiando.
Smoker la guardò, del tutto disinteressato al sex appeal che quella ragazza trasudava da ogni poro perché concentrato su ben altro. Era sicuro che in quell’istituto fosse accaduto qualcosa di losco, ed era altrettanto certo che Luffy e i suoi compari c’entrassero qualcosa – ma fino a quel momento non aveva fatto altro che buchi nell’acqua.
Aveva ancora la voce del vicepreside in testa. Quella mattina Spandman non aveva fatto altro che strillare come un pazzo, lamentando la distruzione della vetrina dei trofei scolastici; gli aveva ordinato – inutilmente, poiché era già sua intenzione procedere di quella lena – di scovare il colpevole di quella catastrofe e piazzarglielo davanti agli occhi, a portata di urla e sputacchi qua e là. Prima il grosso sgarro di Halloween, poi le coppe ridotte a lattine di birra abbandonate tra gli spalti di uno stadio e più volte calpestate dai tifosi, i cui danni erano stati camuffati da qualcuno, probabilmente dal colpevole di quello scempio: non poteva essere un caso. In quell’istituto era accaduto qualcosa, e Smoker l’avrebbe scoperto.
Oltretutto, c’era anche da capire per quale motivo Boa Hancock avesse trascorso la serata da un’altra parte, lontana dal ragazzo per cui aveva una cotta abissale da tempi immemori, mai nascosta e sempre commentata da bocche altrui, che vivevano per spettegolare sulle faccende di quella giovanissima diva. Per non parlare dell’ignoranza di Luffy stesso: quando aveva provato a fargli confessare il misfatto, tutto ciò che aveva ottenuto era stato un lamento sconnesso e una scrollata di spalle. C’era decisamente qualcosa che non tornava. Come fare per venire a capo di quella fastidiosa storia?
Meditò, poggiato al muro e controllando che nessuno studente corresse per i corridoi. Poi, l’illuminazione: le telecamere a circuito chiuso.



***



Noiosa e pacchiana allo stesso tempo, chimica era decisamente la materia che tutti detestavano. Gli argomenti trattati erano in qualche modo interessanti e, se uniti alle ore di pratica, potevano diventare persino divertenti o quantomeno erano in grado di mantenerli svegli. L’unico esperimento che li aveva fatti rabbrividire riguardava le vivisezioni, e la quasi totalità degli alunni si era categoricamente rifiutata di aprire in due un’innocente rana; alcuni avevano persino inaugurato una vera e propria protesta contro lo sfruttamento degli animali a scopi scientifici, quindi abbracciando anche il campo d’interesse di vegetariani e vegani.
Il problema delle lezioni di chimica era di base uno solo e portava il nome di professor Caesar. Era il peggior insegnante che si potesse assumere, eppure era dietro quella cattedra a dettare ordini a destra e a manca come se si trovasse a bordo di una nave pirata e ne fosse il capitano; rideva a gran voce agli sbagli dei suoi studenti, cogliendo ogni occasione per sbandierare il proprio talento naturale e per narrare di quella volta in cui aveva – per errore – creato un gas letale in laboratorio per poi essere denunciato dai vicini di casa, rischiando di finire al fresco se non avesse immediatamente distrutto la sua formula.
«Andiamo, stupide scimmie!», sbraitava al limite della sopportazione. «Quanto vi ci vuole per creare questa maledetta miscela? Saranno tre ore che vi sto suggerendo i passaggi!»
La sua voce calcava le s e perforava nelle teste di chi era troppo vicino alla sua postazione.
Nami roteò gli occhi al cielo, nonostante la puntuale emicrania le causasse un dolore non indifferente nel compiere quel gesto teatrale. «Non lo sopporto più, è una tortura», mormorò più a sé stessa che al compagno di laboratorio che le stava di fianco.
Il suddetto le rispose con aria sognante: «Sono disposto ad affrontare ogni genere di tortura, purché sia con te.»
La tentazione di tirargli un pugno fu forte, ma il contenitore che aveva in mano si sarebbe rotto. Si limitò ad ammonirlo: «Sanji, per favore.»
«Ma Nami», fece lui, perso in chissà quali armoniose fantasie, «a te non piace l’ora di laboratorio? È l’unica che possiamo passare soli soletti.»
«No, non mi piace.» Osservò il composto chimico, agitandolo appena. «Mi passi la fiala con il liquido verdognolo?»
«Ti va di uscire con me?»
«Ti ho chiesto la fiala.»
«E io ti ho chiesto di uscire. Venerdì sera sei libera? Pensavo di venirti a prendere dopo le lezioni, ti porto a cena fuori.»
Capendo che lui non avrebbe abbandonato quella sua espressione da allocco nel giro di poco tempo, Nami afferrò da sola ciò che le serviva, continuando l’esperimento chimico. «Credevo che il venerdì lavorassi.»
Sanji si poggiò al banco con i gomiti. «Come sempre, sì. Il vecchiaccio mi ha dato il giorno libero. Allora, ti va?»
Sospirò, dubbiosa anche solo di arrivarci viva, al venerdì. «No, spiacente.»
Il biondo sospirò a sua volta, vagamente mesto. «Mi costringi a trascorrere il weekend da solo.»
«Non credo che per te sia un problema trovare compagnia», gli rispose, ancora indaffarata nell’attività assegnata loro dal professore, intento a sgridare un poveretto che aveva fatto cadere per terra una boccetta di vetro, frantumandola in mille piccoli pezzi.
Sanji ignorò il fracasso, continuando a guardare la compagna. «Una serata senza impegni, Nami, da amici. So bene che non provi nulla per me», aggiunse con voce più bassa.
La rossa lo conosceva abbastanza bene da sapere quanto lui detestasse mostrarsi debole e alla ricerca di approvazioni, ma leggere una così tanta tristezza in quegli occhi azzurri fu un colpo al cuore. Sanji faceva bene a credere di non avere alcuna chance con lei – era fin troppo un Don Giovanni per i suoi gusti –, ma non aveva motivi per negargli una serata tra due buoni amici.
Finalmente si decise. «Be’, immagino che offrirai tu, non è vero?»
Assecondando l’aria volutamente civettuola della ragazza, il biondo si trattenne dal volteggiare per tutta l’aula. «Certo! Ti offrirò una cenetta coi fiocchi. Hai preferenze sul locale?»
Lei fece per pensarci su, mentre posò un po’ del composto tra due sottili lastre di vetro, che successivamente prese a osservare tramite il microscopio che le stava di fianco. «Scegli tu. Basta che non sia nulla di pesante, sono a dieta. Mmh, questo non è ancora pronto…»
«Ti va del sushi? Hanno aperto un nuovo ristorante vicino Piazza Gyoncorde. Sono solo venti minuti in macchina.»
«Vada per il sushi, allora. Passa da me alle sette e mezza, l’indirizzo lo sai.»
Che gli dèi fossero finalmente dalla parte di Sanji? Era davvero riuscito a strappare un appuntamento a Nami? Se avesse avuto un paio d’ali incollate alla schiena, le avrebbe spiegate e si sarebbe alzato in volo alla velocità della luce. La sua contentezza era indescrivibile, nonostante nel suo petto albergasse ancora uno spillo amaro, il quale non faceva altro che ricordargli dell’esistenza della parola amicizia. Sanji avrebbe voluto di più, molto di più, ma solo l’idea di poter finalmente andare da qualche parte con lei, senza nessun’altro membro della combriccola a fare da incomodo, era così allettante da annebbiargli la mente come il fumo delle sigarette che aspirava, gironzolando nel suo distruttivo vizio preso qualche annetto prima, quando voleva mostrarsi grande dinanzi ai suoi colleghi di lavoro.
Il sorriso che aveva in volto andava da un orecchio all’altro – quasi gli facevano male le guance – e il ciuffo di capelli che portava a mo’ di frangia troppo lunga faticava a contenere lo sguardo ammirato che fuoriusciva dai suoi occhi blu, tutto dedicato alla rossa che appuntava dei dati sul quaderno di chimica con la sua scrittura precisa e ordinata.
«Sarà un onore, amore mio.» Se nessuno dei due avesse indossato quegli scomodi e vagamente maleodoranti guanti di lattice, avrebbe tirato fuori le sue maniere da gentiluomo d’epoca e le avrebbe fatto un baciamano davanti a tutta la classe. «Posso esserti d’aiuto in qualche maniera?»
Nami quasi non credette alle proprie orecchie. «Direi di sì», rispose contenendo il proprio sollievo. «Manca ancora qualcosa a questo composto per renderlo come vuole Caesar. Potresti occupartene tu?»
Fece il saluto militare. «Signorsì signora! Mi dica cosa devo fare.»
Nami ridacchiò dinanzi alle buffe maniere del compagno; gli porse poi una fiala. «Aggiungi cinque millilitri di questa soluzione, non uno in più. Mi hai capito? Cinque», scandì.
Sanji annuì e, dopo aver scannerizzato con gli occhi tutto il materiale presente sul loro banco, si appropriò del contagocce. Immerse il beccuccio nel cilindretto di vetro e aspirò la quantità indicata dall’amica per portare a termine quel faticoso esperimento scientifico.
Certo che Nami era brava anche in quella materia. I suoi gusti personali mettevano in prima posizione le materie artistiche e umanistiche, richiamando le sue spiccate doti nel disegno e la sua profonda benignità; che importava se certe volte mostrava un pessimo carattere, quando poi era in grado di esprimersi in sorrisi così dolci da essere in grado di sciogliere il cuore di chiunque? Effettivamente, a pensarci, a Sanji non veniva in mente nessun ambito in cui quella ragazza dai lunghi capelli rossi peccava – e a proposito di quei fili di rame! Se li era legati in alto in modo che non le dessero noie davanti agli occhi, scoprendo la linea del suo collo liscio su cui il biondo avrebbe volentieri posato un bacio casto. Insaziabile, scese a guardarle le mani, bianche e curate, con il dorso appena sporco dell’inchiostro nero che seminava la penna che reggeva per scrivere; faceva a cazzotti con il latte del camice da laboratorio, ma s’intonava bene con il blu scuro dei suoi inseparabili jeans skinny. Nel suo insieme di colori, altro che quadro astratto – Nami era un museo intero.
«Hey, voi in seconda fila! Che state combinando?!»
Nami ci mise qualche frangente per capire che il professor Caesar ce l’aveva proprio con loro. Abbassò lo sguardo, controllando le condizioni del microscopio e i fogli del quaderno ad anelli, non trovando nulla di anomalo. Storse il naso; con un pessimo presentimento, si voltò a guardare Sanji e vide l’orrore.
«Che diamine hai fatto?! Ma mi ascolti quando parlo?! Idiota!»
«Eh?»
Aveva posato il contagocce sul banco e versato l’intero contenuto della fiala nel composto. Il risultato era quel vulcano che si era formato nel giro di un attimo, macchiandogli il camice, i pantaloni, il banco e mandando all’aria l’intero esperimento. L’insegnante urlava con isteria, i suoi capelli crespi sparati all’insù dall’agitazione. «E non pensate di passarla liscia», sibilò rosso in viso, voltandosi per tornare verso la cattedra e cercare un buon modo per assegnar loro una punizione esemplare, che avrebbero ricordato anche in una lontana vecchiaia.
Zuppo di chissà-che-cosa-aveva-creato fino ai calzini, Sanji faticò a girarsi verso Nami, già consapevole che il castigo più grave l’avrebbe ricevuto da lei. Si congelò all’istante quando incontrò il suo sguardo furente; il sudore gli appiccicò i capelli più di quanto non avesse già fatto l’ormai ex composto chimico, e desiderò avere una pala in mano per scavarsi una fossa e sparire seduta stante. «Ti sei giocato tutto», disse lei con voce ferma e grave, come se stesse tentando in ogni modo di non mettersi a urlare per non aggravare la sua condizione da peggiore della classe.
Il ragazzo avrebbe tanto voluto spiegarle che si era trattata di una stupida disattenzione, che avrebbe convinto il professore a chiudere un occhio su di lei per concentrare l’altro su di lui, in modo da contenere i danni, ma non trovò alcuna scusa plausibile per giustificare la sua imperdonabile distrazione.
Perché Sanji si era incantato a guardarla e aveva perso le parole.










Angoletto degli Easter Egg!!
1.    Vi dovrei cambiare i connotati […] bazooka: rimandano alle tipiche frasi rissose pronunciate rispettivamente da Sanji, Zoro e Franky nell’opera originale.
2.    Evening Drink Less: nome rivisitato e inglesizzato di un locale che si trova dalle mie parti. Non ci sono mai andata perché non sono un’amante delle discoteche, ma so che è frequentato principalmente da neodiplomati.
3.    L’unico esperimento che li aveva fatti rabbrividire […] scopi scientifici: è un riferimento a un episodio di ‘Ned – Scuola di sopravvivenza’ I RISULTATI POSSONO VARIARE.
4.    Quella volta in cui aveva – per errore – creato un gas letale in laboratorio: è proprio lui, Regno di Morte! Che bella la saga di Punk Hazard :’)
5.    Il risultato era quel vulcano […] mandando all’aria l’intero esperimento: allusione al videoclip di ‘Teardrops on my guitar’, canzone di Taylor Swift.




Angoletto dell’Autrice!!
Fun fact: ho pronto questo capitolo da un anno ma lo sto pubblicando solo ora perché mi sono scordata come si usa NVU ((il programma che uso per inserire il codice HTML, dato che quello che fornisce EFP non mi funziona da millenni)) e quindi ho dovuto re-imparare. E sono un po’ lenta. E stupida.
ANYWAY-- questo capitolo mi piace molto *modestia mode: on* perché mi sono divertita parecchio a scriverlo, ho faticato poco e non ho forzato nulla. E visto che vi ho fatto aspettare tanto, vi regalo tre spoiler del prossimo aggiornamento:
- un’azione in buona fede di Luffy avrà una conseguenza a lungo termine su qualcun altro;
- un nuovo personaggio farà la sua comparsa;
- una mancanza da parte di un personaggio farà cadere la prima tessera di un domino.
BASTABASTABASTA ho detto pure troppo!!!!!
Vi ringrazio per aver letto e vi do appuntamento al prossimo capitolo! Per ingannare il tempo, scrivetemi una recensione *occhiolino tattico* e seguitemi su Twitter (@about_goldrush) e su Wattpad (dove ho due account: @channy_the_loner e @about_goldrush)


A presto,
–Channy

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Irony, Grease and He didn’t ***


5
Irony, Grease and He didn’t





«Allora? Cos’hai scoperto?»
«Un cazzo di niente.»
«Perfetto», disse una ragazza dai lunghi capelli color cipria con palese tono sarcastico.
Smoker risucchiò una quantità asfissiante di fumo dal suo sigaro, per poi ricacciarla con un grugnito. «Mi sta sfuggendo qualcosa, ne sono sicuro», disse a denti stretti. «Ho la soluzione sotto i miei occhi, ma non riesco a vederla.»
Anche lei aspirò del fumo, ma da una sigaretta. «Quei ragazzi non hanno fatto niente, mettiti l’animo in pace.»
«Non dire stronzate, Hina, per cortesia.»
«Hancock ha ragione. Sei ossessionato e ti stai solo rendendo ridicolo.»
«E va bene, mettiamo che quel branco di idioti non ha fatto nulla. Come spieghi la storia dei trofei rotti?»
«Mh, probabilmente un ragazzone della squadra di rugby ha pensato di dare una spallata a quella vetrina.»
Lui osservò il cortile dinanzi a sé, gremito di studenti dal lato dei distributori automatici, desiderosi di svuotarli dal carico di merendine arrivato quella mattina stessa. «Ho già verificato questa versione, e non è mai successa. Senti quello che ti dico: c’erano segni di calci su quelle coppe, ciò significa che qualcuno ha aperto quella dannata vetrina e si è messo a giocare a football.»
«Eh? Le hai fatte analizzare dalla scientifica?»
«Sei qui per darmi una mano sì o no?!»
Hina gli mostrò un sorriso sghembo, cacciando del fumo dalle narici.
Al centro dei due fuochi, Tashigi pensò che, se Smoker fosse andato avanti di quel passo, avrebbe fatto meglio a iniziare a scrivere il proprio necrologio: i sensi di colpa la opprimevano e faticava a tenere la bocca chiusa, ma doveva riuscirci. Non voleva neanche immaginare le conseguenze di un’ipotetica confessione, né l’espressione delusa di Smoker, né quelle furenti di Nami e Zoro e tutti gli altri, né sentirsi addosso l’occhio malgiudicante dell’intero complesso scolastico.
Erano diversi giorni che non mangiava – precisamente cinque. Il suo stomaco era sottosopra e si rifiutava di digerire gli alimenti di un normale pasto; la ragazza stava tirando avanti gonfiandosi di gallette di riso e insalata, e gli effetti collaterali di quell’alimentazione fasulla avevano iniziato a manifestarsi quarantotto ore dopo l’inizio del suo digiuno. Il suo pallore accentuava il nero delle occhiaie, evidenti persino se sugli occhi erano sempre calate le rettangolari lenti rosse. Sapeva di non poter continuare in quella maniera, ma ovunque si girasse non riusciva a trovare alcuna via di fuga dal suo perenne tormento.
«Hey, Tashigi, tutto bene?»
Cascata dalle nuvole, la corvina volse velocemente lo sguardo a Koby, leale compagno di comitato, seduto su un gradino poco più in là. «Sì, sì, grazie.»
«Non mi sembra», insisté lui con la sua caratteristica voce gentile. «C’è qualcosa che ti dà a pensare.»
Lei deglutì. «Tu credi?»
Il giovane annuì. «Ti si legge in faccia.»
La ragazza si sentì schiacciata dagli occhi scuri di Hina e sperò di non darlo a vedere. Mostrò un sorrisetto palesemente nervoso. «Nulla di cui ti debba preoccupare, davvero. Ho dormito poco stanotte.»
Lui parve crederci, così come Hina e Smoker; quest’ultimo si apprestò ad avvicinare nuovamente il sigaro alle labbra, quando lo sguardo gli cadde sulla figura che si stava avvicinando a loro a passo allegro e saltellante. «Ehilà», salutò il nuovo arrivato con un gran sorriso; ma cosa ci faceva lì, nel loro angolo di ritrovo?
«Che vuoi?», tagliò corto il poliziotto.
Luffy arricciò le labbra. «Come sei scontroso, fumoso», commentò alludendo al suo dannoso vizio.
«Sei venuto a confessare i tuoi crimini?»
Incrociò le braccia al petto tonico e scosse la testa. «Non ho fatto nulla, lo giuro.» Si rivolse poi a Tashigi, mantenendo la sua aria contenta: «Le ragazze ti hanno invitata a pranzare con noi.»
La corvina strabuzzò gli occhi così tanto da temere che i bulbi oculari fuoriuscissero dalle loro cavità. «Che…?»
«Approfittiamo della bella giornata per fare un picnic ai tavoli fuori. Hai il pranzo a sacco? Se non hai niente non ti devi preoccupare, di solito Sanji porta sempre tantissime cose. Allora, vieni?»
L’occhialuta, congelata in piedi, faticò a volgere uno sguardo ai suoi colleghi. «Non credo sia una buona idea…», riuscì a biascicare, miracolosamente senza affogarsi con la saliva.
Sul volto di Luffy si dipinse un broncio bambinesco. «Ma Nami e le altre ci tenevano tanto… Zoro e Usopp un po’ meno», aggiunse sottovoce, come se stesse parlando fra sé e sé.
«Verrà.»
Questa volta Tashigi scattò in direzione di Smoker, incredula e confusa. «Andrò?»
Lui soffiò sul volto di Luffy il fumo del sigaro. «Non ho nulla in contrario.»
«Perfetto», rispose l’altro mostrando i denti. «Allora ci vediamo dopo!»
Si allontanò così com’era arrivato, lasciandosi dietro una scia di perplessità.
«Smoker», lo chiamò Tashigi visibilmente preoccupata. «Cos’hai in mente?»
Lui temporeggiò – l’agitazione che lo stava attanagliando fino a pochi minuti prima pareva essere stata spazzata via. «Dovrei chiederlo io a te», rispose con una spaventosa serietà. «Che rapporti hai con quella gente?»
Stavolta fu lei ad attendere prima di rispondere, studiando i suoi compagni, i quali avevano iniziato a fissarla come se fosse un’estranea, e cercando una risposta a quel quesito. Mentire fu l’unica buona scelta: «Nessun rapporto degno di nota. Alcune volte ho avuto modo di parlare con Nico Robin e Nefertari Bibi, suppongo sia per questo.»
«Quello ha nominato anche la tirchia, Pinocchio e la bussola rotta.»
«Sono un gruppo. È inevitabile che mi sia imbattuta anche in loro.»
Hina buttò il mozzicone di sigaretta nel posacenere che aveva di fianco, schiacciandone la punta per spegnere la miccia; Koby si fece un nodo più stretto alla bandana, come se temesse di perderla da un momento all’altro.
Smoker grugnì nuovamente. «Capisco», le rispose. «È un bene che sia così. Ascolta qua.» Quando lei si accostò col viso, in modo da porgergli un orecchio, continuò: «Approfittane per ricavare informazioni. Sono scaltri e si guardano in continuazione le spalle, ma hanno un’alta concezione dell’amicizia. Diventa intima con qualcuno di loro e riferiscimi quello che combinano.»
Tashigi sperò che lui non si accorgesse del sudore che le aveva imperlato la fronte. «Devo diventare… una spia?»
Il giovane strinse il sigaro consumato tra i denti. «Buon lavoro.»
Che ironia della sorte.



***



Se quello spazietto claustrofobico fosse stato abbastanza grande da poter ospitare il suo corpo, Bibi si sarebbe volentieri sigillata nel suo armadietto, lasciandosi schiacciare dai libri, dalla scatola contenente materiale da cancelleria di riserva e dall’appuntito appendiabiti che serviva a ben poco.
Impalata davanti allo sportello aperto, fissava il romanzo che avrebbe dovuto continuare a leggere con Rebecca e Shirahoshi; il loro appuntamento giornaliero era stato rimandato al giorno seguente per lasciare spazio al pranzo che avevano organizzato i suoi amici, nonostante, anche questa volta, la ragazza fosse restia a prenderne parte. L’ondata d’insicurezza che l’aveva travolta giorni addietro non aveva accennato a sloggiare dal suo animo, appesantito come un lenzuolo appena uscito da una lavatrice.
«Così non risolvo nulla», disse a bassa voce. Se non ci fossero stati i suoi capelli azzurri a caderle sul viso come una tenda, un estraneo le avrebbe letto il labiale e l’avrebbe derisa per star parlando da sola. «Sì, ma come faccio?», si domandò mordicchiandosi l’unghia del pollice.
La soluzione migliore sarebbe stata quella di far finta che quella conversazione non fosse mai avvenuta, anzi, cancellarla completamente dalla mente – forse sbattere la testa da qualche parte avrebbe potuto aiutarla. Probabilmente Luffy se n’era dimenticato; mostrandosi impacciata in quel modo ai suoi occhi non avrebbe portato altro che conseguenze a cui lei non voleva neanche pensare, come un interrogatorio non solo da parte del ragazzo, ma da tutti gli altri. Respirò profondamente per calmarsi: i suoi amici erano brave persone e il suo dialogo con Luffy era stato solo una bugia bianca. Non aveva nulla di cui preoccuparsi.
Pertanto, con un raccoglitore tra le braccia dato che nello zaino non entrava, s’incamminò verso i tavoli del cortile.
«Hey, aspetta!»
Nessuno aveva fatto il suo nome, eppure Bibi si voltò lo stesso; scoprì che il ragazzo che aveva parlato ce l’aveva proprio con lei, nonostante non l’avesse mai visto prima d’allora. Non era eccessivamente alto; i primi due fattori che risaltarono agli occhi grigioperla della ragazza furono i suoi capelli brillanti di gelatina e una cicatrice vicino all’occhio sinistro. Schiuse le labbra: «Dimmi.»
Lui si avvicinò rapidamente e le consegnò una manciata di fogli. «Ti sono caduti questi.»
Bibi se li rigirò tra le mani, riconoscendo immediatamente la propria scrittura. «Oh, non me n’ero accorta.» Gli sorrise. «Grazie.»
«Dovere», le rispose lui, ma senza alcuna briciola di presunzione o narcisismo nella voce. «Semini spesso i tuoi appunti in giro?»
Lei aprì il raccoglitore e li ficcò alla meglio tra le altre pagine. «No, a dire il vero. Solo quando non ho abbastanza spazio nello zaino.»
Lui le osservò la borsa con interesse. «Cazzo, deve essere pesante. Perdona il francesismo.»
Bibi ridacchiò divertita. «Figurati.»
«Vuoi che ti aiuti a portare le cose?», le propose con uno sguardo vagamente ammiccante.
L’azzurra ringraziò divinità astratte per l’esistenza di Sanji – abituata com’era alle sue longeve avance, era solo grazie a lui che aveva imparato a declinare i flirt dei ragazzi che le ronzavano attorno di tanto in tanto. «Non ti scomodare. Non sembra, ma sono forte.»
«Non lo metto in dubbio», le rispose lui. «Anche io non sono male. Gioco nella squadra di rugby.»
Fu solo allora che Bibi notò che indossava una t-shirt con il logo della scuola, e la collegò immediatamente allo sport; difatti in quegli anni l’aveva vista indosso unicamente ai giocatori di football, pallacanestro e volleyball, di cui lei aveva fatto parte per un anno.
«Deve essere impegnativo», commentò.
«Però porta tante soddisfazioni», le disse lui. Si voltò indietro perché richiamato dai suoi compagni; fece segno loro di attendere e tornò a rivolgersi alla ragazza. «Qualche volta vieni a vedere gli allenamenti. Puoi portarti anche da studiare. Le urla del coach in sottofondo sono un toccasana per concentrarsi.»
Sorrise nuovamente. «Ci penserò.»
Si dileguarono entrambi, ognuno nella propria direzione.
Bibi arrivò in fretta al luogo dell’incontro, improvvisamente col cuore leggero; salutò calorosamente i suoi amici, dimenticando i pensieri negativi che l’avevano devastata fino a poco tempo prima, per poi accomodarsi sulla panca di legno e tirando fuori dallo zaino il contenitore del pranzo, imitata da Robin e Chopper. Mancava ancora qualcuno all’appello; di Zoro nessuna traccia – che si fosse smarrito da qualche parte? – così come era sparito Franky. Arrivarono entrambi pochi minuti dopo con delle lattine di bibite gasate comprate a pochi spicci dai distributori. Fecero spazio affinché si potessero sedere, e mangiarono ben stretti gli uni agli altri.
Risero delle buffe imitazioni di Luffy e Usopp i quali, con le voci alterate per calarsi al meglio nelle parti, avevano preso a scimmiottare il vicepreside Spandman e il preside Sakazuki, beccandosi inevitabilmente occhiatacce da parte di chi passava di lì per caso e li udiva.
«Vi siete completamente bevuti il cervello o cosa?!»
Entrambi furono rapidi a levarsi dei bastoncini dalle narici e a far finta di star mangiando come delle persone normali, nonostante ci fosse Chopper a smascherare la loro messa in scena, ancora reduce dal soffocamento mancato dovuto alle risate. Tutti i presenti si voltarono verso la nuova arrivata: Tashigi stava in piedi davanti a loro con le mani chiuse in pugni e un’espressione irata in volto.
«Guarda chi si vede», la salutò Robin; aveva la bocca pulita, come se non avesse affatto messo qualcosa sotto i denti.
«Ah, sei venuta alla fine», le disse Luffy con la bocca piena di mozzarella. Il latte gli fuoriusciva dalle labbra, colando lungo il mento sbarbato. «Non ci speravamo più.»
 Sanji sfoderò un sorriso entusiasta. «Ben arrivata, dolce Tashigi.»
Lei strinse le palpebre, contando mentalmente da uno a dieci. Ripeté a voce più bassa: «Cosa avete in testa?»
Bibi si mordicchiò il labbro inferiore, cogliendo il malessere dell’altra. «Pensavamo che le circostanze in cui ci siamo incontrati per la prima volta non fossero tanto allegre. Così abbiamo pensato che potesse essere carino chiacchierare in un contesto più… agiato, ecco.»
Tashigi ci impiegò qualche secondo per replicare: «Noi non dovremmo neanche rivolgerci la parola.»
«Ecco, sono d’accordo», mormorò Usopp con le gambe che gli tremavano.
«Come siamo scontrosi.»
«Taci, Roronoa», rispose piccata. Si rivolse a Luffy: «E poi, come ti è venuto in mente di venirmelo a chiedere mentre ero con Smoker e Hina?»
«Perché, scusa?», fece lui. «Ti ha dato fastidio?»
«Tu…» Dovette sforzarsi per mantenere un certo contegno. «Hai la minima idea di cosa potrebbe succedere se loro due venissero a scoprire cosa è successo tra di noi?»
Il moro fece per pensarci su; fece poi spallucce. «Non lo scopriranno. Vuoi mangiare?»
«No che non voglio mangiare!»
Un tonfo catturò l’attenzione di tutti: si voltarono verso Nami la quale, con un nervo ben visibile che le pulsava al centro della fronte, aveva chiuso di scatto il libro che stava leggendo. La rossa, in un silenzio che non prometteva nulla di buono, squadrò i suoi compagni a uno a uno; poi parlò: «Che cosa hai fatto, scusa?»
Luffy, capendo che ce l’aveva con lui, le rispose con un gran sorriso. «L’ho invitata a pranzo come volevi tu.»
«E l’hai fatto davanti gli altri del Comitato studentesco.»
«Erano lì.»
Si lanciò in avanti per strozzarlo. «Ma vuoi riflettere prima di fare le cose?!»
Allarmato, Chopper afferrò la ragazza per la vita e trascinandola indietro, in modo tale da farle staccare le mani dal collo dell’amico. «Lasciami immediatamente!», sbraitò lei. «Dopo questa lo devo solo ammazzare!»
«Ha ragione lei, Chopper. Questo deficiente per rigare dritto ha bisogno dei mezzi pesanti. Adesso lo colpisco col mio pugno di ferro!»
«Non ci provare, Franky!»
Robin rise in maniera composta. «Hey, sentinella», disse rivolgendosi a Tashigi. «Tieni per te anche questa scenetta, okay?»
L’occhialuta annuì con incertezza – troppe erano le stranezze a cui stava assistendo negli ultimi tempi.
Quando il viso di Luffy tornò di un colorito normale e i suoi polmoni ripresero a funzionare correttamente, urlò alla rossa: «Ma sei impazzita?! Mi hai fatto male!»
«Era proprio quello che volevo fare.»
«Cheee?»
Assistito dalla sua cavalleria e soprattutto dalla sua gentilezza, Sanji s’intromise nella discussione. «Luffy, Nami ha ragione. Se Smoker iniziasse a sospettare che anche Tashigi c’entri qualcosa con la storia di Halloween, sia per noi che per lei sarebbe la fine. E non incolpare Nami per i suoi modi, cerca di capirla, non sono giorni semplici per lei.»
Luffy mise il broncio.
Sul viso della rossa si stampò un sorriso. «Ben detto, Sanji.»
«Ti sosterrò in qualsiasi momento, amore mio!»
«Ne sono convinta. Ora come ora non ho molto da offrirti come ringraziamento… Ci sono! Vuoi una mentina? La metti nella Coca-Cola, così già che ci sei fai esplodere anche quella.»
Tashigi le rivolse uno sguardo a metà tra lo stupito e il confuso. «Esplodere…?»
Solo in quel momento i presenti notarono che il sorriso sul volto di Nami non era altro che un ghigno tremolante dalla rabbia. Con voce isterica rispose: «Non hai saputo? Eppure ne parlano tutti. Questo cretino ha fatto saltare in aria il laboratorio del professor Caesar.»
Sanji forzò una risata per mascherare la vergogna. «Non proprio, però…»
Zoro si sganasciò dalle risate. «Avrei pagato oro per assistere!»
«Ma se non hai un centesimo, alga ambulante.»
Usopp rise a sua volta. «Tutti avremmo voluto esserci.» Aggiunse poi, calcando la voce per mostrarsi superiore: «Andiamo, gli esperimenti di Caesar sono banalissimi. Come avete fatto a sbagliare?»
«Avete?», scandì Nami. «Fino a quando quella maledettissima miscela era nelle mie mani andava tutto bene. Poi gli ho chiesto di fare una cosa, una!»
Il biondo lasciò perdere il battibecco a cui aveva dato vita con Zoro per rivolgersi nuovamente a lei: «Infatti è stata colpa mia, Nami. Quei compiti extra avrebbe dovuto assegnarli solo a me.»
«Non serve che fai il sottone ora», gli disse. «Tanto ormai la ricerca l’ho fatta, devo solo consegnarla.»
Usopp avvicinò una mano a un orecchio. «Riuscite a sentirlo? Questo rumore è il cuore di Sanji che si spezza.»
Ricominciarono tutti a ridere, meno che Tashigi, sentendosi ancora spaesata in quel gruppo di matti e allibita dalla loro spensieratezza – perché, l’aveva capito, era quello lo stato d’animo che condividevano ogni giorno, senza preoccuparsi troppo per le conseguenze delle loro azioni. Per quanto alcuni di loro potessero mostrarsi sgarbati o irritati, l’occhialuta comprese che nessun conflitto tra loro sarebbe mai durato a lungo.
Accennò un sorriso. «Fate attenzione», mormorò. Girò i tacchi e si allontanò, senza prima inciampare nella radice di un albero.
I ragazzi la guardarono, improvvisamente muti, come se fino a pochi istanti prima non fosse accaduto nulla.
«Non è cattiva», constatò Luffy con sorriso che mostrava i denti.
«Ne siamo proprio sicuri?», domandarono Usopp e Chopper.
Sanji si accese una sigaretta. «Una donna con un sorriso dolce come il suo non può avere brutte intenzioni.»
«Sarà», disse Zoro, le dita delle mani intrecciate dietro la nuca. «Ma è meglio non fidarsi.»
«Come sei acido», commentò Robin col volto poggiato sul palmo di una mano.
«Sta’ zitta.»
«Hey, pezzo di merda, come ti permetti di rivolgerti a lei in questa maniera?!»



***



Il suo sguardo attento e nascosto la vide dirigersi verso l’aula di storia, dove avrebbe seguito la lezione successiva da lì a pochi minuti. C’era qualcosa di strano nel suo comportamento, ma era ancora presto per fare ipotesi.
Con spirito di risoluzione, decise che avrebbe continuato a tenere d’occhio la situazione.



***



Uscì di casa con una contentezza che faticava a restare intima; se avesse voluto attirare l’attenzione su di sé, si sarebbe volentieri messo a saltellare lungo tutto il marciapiede, fino alla sua destinazione. Abitare a poca distanza dal centro gli piaceva molto: probabilmente gli faceva storcere il naso dover fare tutto di corsa per arrivare in tempo a un appuntamento, poiché dalle sue parti non passava alcun autobus che potesse dargli un passaggio, ma in giornate tranquille si dilettava a passeggiare in lungo e in largo. Chopper era bassino, ma aveva il passo svelto come quello di un cervo.
Il tragitto durò inconsciamente poco, ed era stato riempito dai fischiettii allegri del ragazzo, accompagnati in tutte le direzioni dai soffi di vento autunnale. La libreria, con la sua insegna illuminata dai neon e con le vetrine colme di volumi di ogni genere, era affascinante; Chopper ebbe un brivido lungo la schiena – una scarica elettrica che solo i libri, con le loro conoscenze e le loro storie da raccontare sapevano infondergli.
Incapace di attendere anche un solo minuto in più, si avvicinò alle porte scorrevoli, le quali captarono la sua presenza e si aprirono silenziosamente; il giovane varcò la soglia del negozio e inspirò profondamente l’odore di carta che impregnava l’aria di quel luogo magico. Mentre si dirigeva verso il reparto che gli interessava, tuffò le mani in tasca: era felice di avere nuovamente i soldi che la settimana prima aveva miseramente consegnato a quella carogna di Kidd. Con una profonda vergogna, aveva deciso di raccontare l’intera vicenda all’unica persona che viveva insieme a lui; sua nonna l’aveva ascoltato mentre beveva del vino a tavola direttamente dalla bottiglia e gli aveva detto che avrebbe dovuto cavarsela da solo. Eppure, a distanza di pochi giorni, lo aveva visto cercare disperatamente altri oggetti da vendere per racimolare denaro; pertanto, intenerita dalla sua determinazione e consapevole che l’orgoglio doveva esser messo da parte, gli aveva consegnato un paio di banconote profumate.
Chopper sorrise sotto il cappello rosa che indossava, prendendo a leggere i titoli dei libri sullo scaffale che aveva fronteggiato. Trovò diversi manuali di medicina, tutti inevitabilmente grossi, e decise di afferrarne uno che gli pareva più affidabile degli altri. Ma nel momento in cui la sua mano toccò la copertina del volume, questi venne preso anche da un’altra persona; si voltò alla sua destra, infastidito, ma dovette sgranare gli occhi dallo stupore.
«K-K-Kaya?»
La ragazza lo scrutò con occhi curiosi. «Ci conosciamo?»
“Ecco, lo sapevo, era meglio far finta di niente”, pensò, improvvisamente zuppo di sudore. Disse invece: «Ci siamo incontrati a scuola.»
Lei arricciò le labbra, pensierosa. Fu allora che il giovane realizzò che, in realtà, l’unica volta che l’aveva vista era in occasione della festa abusiva di Halloween, quando Usopp era andato a sbatterle contro ed era stato così inopportuno con le parole da spingerla ad allontanarsi alla svelta.
Si diede mentalmente dell’idiota.
La bionda, dopo un lasso di tempo che parve interminabile, annuì. «Sì, è vero. Però io non conosco il tuo nome.»
Si affrettò a rispondere. «Chopper. Ehm, piacere di conoscerti.»
Lei sorrise per la prima volta – e Chopper dovette ammettere che aveva un’espressione dolcissima. «Piacere mio.» Indicò poi il libro. «Medicina anche tu?», chiese con fare retorico.
«Sì, è il mio sogno da sempre. È un peccato che questo sia l’ultimo manuale.» Glielo porse. «Tienilo tu.»
Kaya scosse la testa, agitando appena anche le mani pallide. «Non preoccuparti, volevo solo dargli un’occhiata. Comprerò un’altra edizione.»
«Sei sicura?», domandò Chopper, vagamente dispiaciuto. «Dicono che questo sia il più completo e affidabile.»
«Già, l’ho sentito dire anch’io», gli rispose. «Ma davvero, prendilo. Dopotutto, l’avevi adocchiato prima tu.»
Chopper dubitò di quella versione dei fatti, tuttavia capì che insistere non sarebbe servito a molto. «Ti ringrazio.» La vide poi chinarsi a prendere un manuale diverso, prendendo a sfogliarlo con cura, desiderosa di accertarsi di prendere la scelta più giusta – dopotutto era in ballo il suo futuro. Non aveva fretta di rincasare, pertanto decise di aspettarla; era il minimo che potesse fare, dopo la gentilezza che lei gli aveva regalato.
Quando Kaya si fu decisa, raggiunsero insieme la cassa e ognuno pagò la propria merce; il commesso porse loro i sacchetti di carta con dentro i novelli acquisti e li vide uscire insieme dalla libreria. L’aria fredda della stagione autunnale inoltrata schiaffeggiò i loro volti – il naso di Chopper divenne blu dal gelo, invece quello della ragazza di tinse di rosso.
«Grazie per la compagnia», disse quest’ultima tornando a sorridergli.
«Figurati. Grazie a te per il libro.»
Kaya guardò l’orario dal cellulare. «Mh, devo proprio andare adesso», mormorò a sé stessa, ma Chopper la udì ugualmente. Prima di avviarsi verso casa, gli si rivolse nuovamente a lui: «Che ne dici di studiare insieme per il test, qualche volta?»
Il ragazzo sorrise a sua volta. «Certo! Sarebbe bello sostenerci a vicenda.»
La bionda confermò e aggiunse: «Frequenti qualche club? Perché pensavo che potremmo vederci in aula studio dopo le lezioni.»
Lui annuì energicamente. «Per me va bene, non sono iscritto a nulla.»
«A lunedì allora.»
«A lunedì.»
La salutò scuotendo la mano nonostante lei non potesse vederlo, poiché gli dava le spalle allontanandosi a passo calmo. Chopper, poi, si avviò a sua volta verso casa, stavolta camminando velocemente perché desideroso di entrare nel salotto e abbracciare un termosifone bollente.
Sorrideva, contento di aver trovato una compagna di studi, qualcuno con cui parlare dei suoi argomenti preferiti senza preoccuparsi di risultare noioso. Non vedeva l’ora di telefonare Usopp per raccontarglielo.
Si bloccò sul posto.
Usopp.
Il sorriso morì. “Accidenti.”



***



Nami aveva uno strano rapporto con la televisione.
Considerava indispensabile avere uno schermo, anche se piccolo, nella camera che condivideva con sua sorella maggiore perché non aveva alcuna voglia di contendersi il televisore con il resto della sua famiglia – non avrebbe rinunciato al telefilm in prima serata del trentanovesimo canale per nulla al mondo. Eppure, per la restante parte della settimana, quella scatola piazzata sopra al comò di fianco alla porta era buona solo per prendere polvere. Dava fastidio soprattutto dover fare zapping e non trovare mai un programma interessante da poter guardare; schiacciato il pulsante d’accensione, puntualmente ci si ritrovava dinanzi a una serie infinita di pubblicità, tra telepromozioni di pentolame e sponsor di medicinali e integratori dalla dubbia efficacia – e ne erano così tanti da far venire voglia di spegnere tutto e cercare un nuovo passatempo.
Se era consapevole di ciò, perché la ragazza si era sdraiata sul letto e si era messa a guardare un pessimo talkshow identico a tanti altri? Ascoltava le parole della conduttrice con falso interesse, di tanto in tanto buttando un occhio al telefono posato accanto a lei: mancavano pochi minuti alle sei di sera.
Era agitata e nasconderlo a sé stessa era un’impresa impossibile; non riusciva a tenere le gambe ferme, continuava a cambiare posizione e a controllare il tempo fuori dalla finestra: era nuvoloso, ma non avrebbe piovuto. Era possibile uscire, quindi?
Masticò un’imprecazione, decidendosi finalmente a spegnere quell’inutile televisore e alzandosi in piedi, lasciando il copriletto arancione sgualcito. Era il tardo pomeriggio di venerdì e Nami non aveva affatto dimenticato di aver promesso a Sanji di uscire. Non era ancora giunto l’orario che avevano prefissato, ma lei non aveva neanche iniziato a prepararsi. A dir la verità, non era neanche più sicura che il ragazzo sarebbe per davvero passato a prenderla; oltre ai suoi immancabili modi da gentiluomo, quel biondo aveva quella stramaledetta capacità di leggerle nel pensiero: quando Nami era felice, si sentiva libero di comportarsi in maniera frivola, strappandole anche qualche risata divertita; quando Nami era triste, restava in silenzio e non la forzava mai a confidarsi; quando Nami era arrabbiata, capiva che avrebbe fatto meglio a restarle alla larga per un po’.
Senza che neanche rendersene conto, si era diretta verso il bagno per farsi una doccia veloce. La rossa sapeva bene di averlo trattato in maniera pessima durante l’intera settimana, furente per il guaio che aveva combinato nel laboratorio di Caesar; per colpa sua, aveva dovuto consegnare una tesi sugli argomenti trattati fino a quel momento, approfondendoli con estenuanti ricerche e, di conseguenza, perdendo del tempo prezioso da poter dedicare ad altro – Nami era una persona pragmatica, pertanto detestava dover cambiare i propri piani all’ultimo minuto. Però Sanji sarebbe arrivato, giusto? Ci teneva tanto, lo sapeva. Il dubbio l’assillava, ma non lo avrebbe chiamato per nulla al mondo – troppo orgogliosa in primis, contraria a dargli false speranze in secundis.
Al suo ritorno in camera, le uniche notifiche segnalate sul cellulare provenivano dal gruppo con i ragazzi:


– Ma quindi che facciamo a Capodanno?
– Oh no…
– Qualsiasi cosa, magari che non sia illegale stavolta
– Io direi di organizzare un banchetto GIGANTE!!!
– Pensi sempre e solo al cibo…?


Quella domanda, quella temutissima domanda era appena riaffiorata nelle menti di tutti e li avrebbe tormentati fino al giorno prima del veglione; ogni anno si presentava sempre lo stesso scenario: Usopp proponeva mille opzioni e Zoro gliele bocciava tutte, poi Franky tentava di convincere tutti di attendere il conto alla rovescia nell’officina dove lavorava e alla fine si ritrovavano tutti nella solita e squallida discoteca insieme a qualche gruppo di conoscenti, di quelli incontrati per caso una volta per strada e con cui si pretendeva di avere un bel rapporto solo per ottenere uno sconto all’ingresso del locale prescelto.
Vestitasi, posò un paio di stivali in un angolo della stanza, in modo che fossero pronti per essere indossati. Si sedette alla scrivania e prese a girovagare per i social, storcendo il naso di fronte alla ricchezza ostentata di chi si divertiva a postare contenuti multimediali in continuazione.
«Che combini?»
Nonostante sua sorella fosse arrivata in punta di piedi, Nami non si spaventò. «Sto studiando», rispose con fare vago.
Nojiko alzò un sopracciglio, le mani puntate sui fianchi a farla sentire moralmente in cima a una scalinata coperta da un tappeto rosso. «Con i libri chiusi e il telefono in mano?»
Nami sospirò – quando la sorella assumeva quel tono significava che stava insinuando qualcosa. «Stavo facendo una pausa.»
L’altra ridacchiò. «Con chi devi uscire?»
«Eh? Con nessuno!»
«E allora perché ti sei vestita e truccata?»
Roteò al cielo gli occhi sovrastati da un sottile strato di ombretto. «Sei peggio di mamma quando fai così.»
Nojiko continuò a ridersela, come se stesse guardando un film comico. «Appena torna dal lavoro vedrai che ti farà lo stesso interrogatorio. E se le dai le stesse risposte che stai dando a me, non se la berrà.»
Nami posò finalmente il cellulare, senza prima mettere la suoneria. «Piantala, non sto nascondendo niente.»
Si picchiettò un indice sul labbro, pensierosa. «Vediamo… Se Robin c’entrasse qualcosa me l’avresti detto subito, stessa cosa per Bibi. Devo dedurne che si tratti di un ragazzo.» Sorrise maliziosamente e domandò: «Lo conosco?»
Il volto di Nami divenne violaceo dall’imbarazzo mischiato alla furia. «È in amicizia.»
«Oh, quindi fa parte del tuo gruppo di amici», disse Nojiko. «È Luffy?»
«Cos… No!»
«Fuori uno. Allora è quello con il naso lungo.»
«Senti, basta così. Tanto di questo passo non verrà nemmeno.»
«Aah, ci sei rimasta male. Quindi tanto in amicizia non è.»
La rossa dovette fare un respiro profondo per calmarsi. «Ne ho abbastanza. Ti sto dicendo che non esco. Anzi, andiamo a preparare la cena.»
Nojiko le mostrò un sorriso morbido. «Va bene, sorellina.»
Nami credette che la sorella maggiore stesse iniziando a soffrire di una strana forma di bipolarismo, ma preferì tenere quel pensiero per sé stessa. Non guardò più il telefono, abbandonandolo sotto la luce gialla della lampada da scrivania, né desiderò di sentire la suoneria in lontananza; cucinò per i suoi genitori, che rincasarono esattamente un’ora dopo, e cenò in loro compagnia. Nojiko non tirò più in ballo la questione, limitandosi a lanciarle qualche occhiata di nascosto.
Quando tornò in camera, notò immediatamente altri messaggi dei suoi amici:


– No, Franky, non festeggeremo in mezzo alla segatura.
– Guarda che ho intenzione di pulire per l’occasione!
– Davvero? Mi domando da quanto tempo quel posto non veda l’ombra di uno swiffer.
– Robin, non ti ci mettere anche tu!!
– Li volete o no i biglietti per l’Often Disco?
– NOOOO!!!


Sorrise e si unì finalmente alla conversazione, incapace di togliersi di dosso quei vestiti.
Attendere ancora, nonostante ne fosse stata consapevole, fu tempo sprecato: Sanji non arrivò mai sotto casa sua, né si fece sentire.
“Meglio”, pensò Nami mentre si struccava, pronta per andare a dormire. “Tanto non me ne importa nulla.”








Angoletto degli Easter Egg!!
1.        Adesso lo colpisco col mio pugno di ferro: riferimento alla mossa di Franky nell’opera originale, naturalmente.
2.        Aveva il passo svelto come quello di un cervo: be’, a dire il vero Chopper è una renna, ma la famiglia animale è quella! E ricordo a tutti che qui ha fattezze umane ;)
3.        Sua nonna l’aveva ascoltato mentre beveva del vino: la dottoressa Kureha.
4.        Telefilm in prima serata del trentanovesimo canale: qui mi riferisco a ‘Law & Order – Special Victims Unit’, in onda sul canale 39. Questa serie >>>>>>
5.       Often Disco: nome rivisitato di un locale minuscolo dove sono andata una volta. Pessima compagnia, pessima musica, pessimi drink pessima serata, ma almeno il giorno dopo sono partita per visitare la splendida Firenze!






Angoletto dell’Autrice!!
Ho fieramente sfiorato le cinquemila parole, ma vi dico già che il prossimo capitolo sarà più corto. È incredibile, mi sembra di aver scritto già tantissimo e invece siamo solo al numero cinque! Spero che questa storia vi stia appassionando così come sta appassionando me  o.o'
Avete capito chi è il giocatore di rugby? E siete riuscit* a cogliere gli spoiler della volta scorsa? Io non sto più nella pelle, voglio subito pubblicare la prossima parte! Ma devo controllarmi… quindi vi dirò solo il titolo: “Pineapple, Theatre and Hammer” ;9

A presto,
–Channy

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Pineapple, Theatre and Hammer ***


6
Pineapple, Theatre and Hammer




Una delle attività che più gradiva da quando aveva indossato i panni di custode della scuola era potersi sentire libero di gironzolare per tutto il tempo che voleva, senza essere disturbato da nessuno.
Ricordava bene i giorni in cui anche lui era uno studente, quando l’unico momento in cui poteva calpestare le mattonelle di quei lunghi corridoi era quel misero stacco tra una lezione e l’altra, e non gli era permesso neanche di sgranchirsi le ossute gambe poiché il suo armadietto si trovava sempre troppo lontano dall’aula che ospitava la sua lezione successiva, pertanto era costretto a correre senza guardarsi attorno, senza salutare i suoi amici delle altre sezioni, senza sognare un po’ con gli occhi aperti. L’affezione per quel luogo era rimasta, e fu quel motivo a spingerlo a proporsi di lavorare tra quelle mura; la paga non era alta, le tasche erano leggere come piume, ma il suo cuore era ogni giorno colmo di felicità e, soprattutto, senza rimpianto alcuno.
C’era un solo difetto che, imperterrito, tormentava la sua vita lavorativa: era completamente incapace di mantenere l’ordine tra quelle mura frastagliate di locandine e poster d’ogni tipo.
Si sentì chiamare da qualcuno alle proprie spalle: «Hey, Brook, cattive notizie! Una tipa ha rimesso la colazione nei bagni del secondo piano.»
Voltandosi poté incrociare gli sguardi divertiti di due dei suoi più grandi problemi. «Che state facendo, voi due?»
«La lezione del professor Issho è troppo noiosa, quindi ci facciamo un giro per ingannare il tempo.»
«State marinando le lezioni?!», fece il custode. «Di nuovo?!»
«Andiamo, amico, fai finta di non averci visti.»
In compenso, il suo animo era dotato di una grande pazienza fruttata in seguito ad anni e anni di yoga e meditazione. «Ace, Sabo», li chiamò. «Capisco che la gioventù sia una carica di adrenalina che vi spinge a provare il gusto del brivido di venire scoperti, ma non potete fare così tutti i giorni.»
«Io me lo posso permettere», disse Sabo con l’aria di chi amava vantarsi. «I miei voti sono tutti eccellenti. Chiuderanno un occhio sul comportamento.»
Ace roteò gli occhi al cielo – detestava l’amico quando faceva il sapientone. «Pensa che l’anno prossimo non ci saremo più. Goditi la nostra presenza, Brook.»
«Se dici così sembra che tu debba morire da un momento all’altro.»
«Oh, sì, certo», scherzò. «Magari per mano di Sakazuki, eh?»
«Con tutti i casini che combini, certo che ti può ammazzare.»
«Ma per favore, non morirei neanche durante una guerra.»
Sabo fece per replicare, ma venne fermato da Brook: «Se continuate ad assentarvi, rischio di finire anch’io in guai seri.» Aggiunse con aria benevola: «Non vorrete mica che venga licenziato?»
«Brook, c’hai novant’anni, sarebbe anche ora.»
«Io sono giovane e arzillo dentro, bello mio! Anche se sembro solo un mucchietto d’ossa.»
Dovettero ammutolirsi all’istante, poiché sentirono dei passi cadenzati procedere verso la porzione di atrio che avevano occupato per discutere tra loro. Spinti dalla curiosità – e da un non indifferente timore – si voltarono in contemporanea alla loro destra per scoprire chi fosse la persona in avvicinamento; scorsero immediatamente una camicia viola indossata da un uomo molto alto, possedente un viso ovale e un paio di sottili occhiali da lettura poggiati su un naso aquilino. Aveva l’espressione intelligente, a tratti tonta, ma lo strato di barba e le rughe accennate agli angoli degli occhi gli conferivano un’aria vissuta che, se unita alla circostanza che lo vedeva passeggiare a piede libero durante le ore di lezione, fece pensare ai tre che dovesse trattarsi di una personalità importante.
«Vi pregherei di parlare più piano. Di là i ragazzi stanno svolgendo una verifica, e non riescono a concentrarsi.» Aveva una voce vellutata e calma, come se non fosse affatto infastidito, quindi risultando incoerente con la lamentela appena espressa.
Il custode si schiarì la voce. «Chiedo perdono. Stavo giusto spedendo questi due marinai in classe.»
L’altro li squadrò a sua volta, senza cambiare espressione. «Per stavolta chiudo un occhio. E voi due», fece rivolgendosi agli studenti, «imparate a rigare dritto. Quando c’è lezione, si sta in classe.»
Sabo rispose: «Lo terremo presente, professor…?»
«Oh, giusto, non mi conoscete», disse l’adulto. «Sono Marco Fenice, il nuovo docente di fisica.» Fece dietrofront e camminò nella direzione dalla quale era arrivato, le mani nelle tasche dei pantaloni e le spalle rilassate.
Ace diede un paio di gomitate scherzose a Sabo. «L’hai visto, fratello? Sembra un ananas.»
L’altro dovette trattenersi per non ridere a gran voce, continuando a osservare la stramba capigliatura dell’insegnante.
Ma il professore arrestò il passo; mantenendo l’umore placido, si voltò a guardare Ace e lo squadrò da capo a piedi. «Ti ho sentito», lo canzonò. E riprese a camminare.


***


«Più ci penso e più non ci credo.»
«A che cosa?»
«Al fatto che mi hai iscritto senza né chiedermelo né avvisarmi!»
Franky rise a gran voce. «Andiamo, fratello, cosa vuoi che sia?»
«Cosa vuoi che sia?», lo scimmiottò. «Io volevo frequentare il club di basket, non questo!»
«Ma se fai schifo a giocare a basket.»
Usopp guardò da un’altra parte, colto in fallo. «Be’, forse è vero, ma resta il fatto che le mie intenzioni erano quelle di passare tutti i pomeriggi in palestra ad allenarmi. Con la giusta motivazione e un costante allenamento si diventa dei campioni.»
«Hey, Michael Jordan», lo richiamò il professor Paulie. «Torna al lavoro.»
Sul volto del ragazzo si dipinse un’espressione seccata, ma gli diede ascolto. La verità era che Usopp era un portento nei lavori manuali e l’attività extrascolastica dedicata alla falegnameria e al bricolage era fatta su misura per lui; peccava nelle riparazioni degli oggetti, tuttavia nel crearli era un vero genio. Aveva la capacità di far diventare le sue fantasie realtà, sfruttando le sue profonde conoscenze nel campo della matematica e della scienza.
«Qual è il nostro lavoro, esattamente?», domandò mentre prendeva gli attrezzi necessari per levigare una tavola di legno.
Franky gli fece eco: «Già, ancora non sappiamo nulla.»
Il professore restò seduto scompostamente alla cattedra. «Prima di tutto dovete prenderci la mano, con i miei attrezzi. Iniziate con qualcosa che vi fa comodo, poi passeremo a progetti più concreti.»
Proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta dell’aula; quando le fu dato il permesso di fare la propria entrata, la persona abbassò la maniglia e aprì lentamente l’uscio. «Buon pomeriggio, professore», salutò con voce vellutata.
Franky si diresse subito verso di lei, contento di vederla. «Nico Robin! Che ci fai da queste parti?»
La corvina sorrise cordialmente. «Sono qui per parlare con il vostro insegnante.»
Il suddetto la stava fissando con la bocca spalancata. «Tu…», riuscì a biascicare. «Come diavolo ti sei conciata?! A scuola è espressamente richiesto un abbigliamento decoroso, non… questo!»
Robin diede una veloce occhiata al proprio vestiario, non trovando nulla di sbagliato né nella camicia bianca coperta da un leggero cardigan, né tantomeno nel pantalone a sigaretta; ma Paulie continuò a squarciagola: «Troppo aderente, troppo aderente! Fila immediatamente a metterti una felpa larga!»
«Lascialo perdere, Robin, non sei indecente», le disse Usopp, rimasto dietro al suo tavolo, sollevandosi gli occhiali trasparenti da lavoro. «Che notizie porti?»
La corvina gli sorrise, ringraziandolo per la gentilezza, e porse al professore un foglio di carta ripiegato più volte. «È da parte del club di teatro», spiegò. «Il professor Sengoku vorrebbe che vi occupiate di preparare la scenografia per lo spettacolo di Natale.»
Paulie lesse con attenzione la nota del collega, facendo dei cenni d’assenso di tanto in tanto, come se stesse mentalmente spuntando le voci di una lista.
«Eh?», fece Franky. «Non credevo che ti interessasse il teatro.»
«Non mi dispiace», rispose lei, «ma non sono io a frequentare il club, se è questo ciò che intendi.»
«Certo che sei proprio versatile», commentò Usopp giocherellando con un martello.
«Fa’ attenzione con quell’affare», lo ammonì Franky. «Rischi di farti male se non lo sai usare.»
L’altro fece un sorrisetto. «Ma che dici, amico? È solo un semplice martello, non vedo come possa…» Gli sfuggì di mano e gli colpì il dito indice della mano sinistra. Durante un istante di assoluto silenzio, gli occhi spalancati di Usopp si riempirono di lacrime; cacciò un urlo di dolore che riecheggiò per le pareti dell’aula.
«Usopp», fece Robin con preoccupazione mentre gli si avvicinava a piccoli passi. «Stai bene?»
Lui si inginocchiò a terra, premendo forte sulla ferita con la mano sana. «Che domande mi fai?», riuscì a mormorare in risposta.
«Professore?»
«Se l’è cercata», rispose del tutto disinteressato.
Franky annuì. «L’avevo anche avvertito.»
Robin faticò a non essere d’accordo con loro. Tornò a rivolgersi all’infortunato: «Vai in infermeria, sbrigati.»
Il riccio annuì; si rimise in piedi e, non curandosi di portarsi dietro lo zaino scolorito, lasciò la stanza del club.
«Stavamo dicendo», riprese Franky, «il club di teatro?»
Robin si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Ah, sì. Ero lì perché avevo accompagnato una persona per la lezione. Il professor Sengoku mi ha chiesto di portare qui il suo messaggio per non impegnare nessuno dei suoi allievi.»
Franky alzò un sopracciglio. «E chi stavi accompagnando?»
Lei gli rivolse un sorriso enigmatico.


***


«Che paaaalle…»
«Perché sei qui se non ti piace recitare?»
«E che ne so? Io volevo andare a basket, ma mi sono ritrovato qua.»
«Questa mi sembra di averla già sentita.»
Luffy fece un gran sorriso mentre Nami scuoteva la testa.
«Tu invece perché ti sei iscritta? Secchiona come sei, non ti servono crediti.»
«Infatti», rispose lei, «mi è stato chiesto di fare le audizioni per lo spettacolo e io ho deciso di accettare.»
Luffy inclinò la testa di lato. «E perché?»
La rossa fece spallucce. «Probabilmente perché io sono una presenza indispensabile per la riuscita della commedia che metteranno in scena quest’anno, sai, col mio carisma, la mia bellezza…»
«Certo che sei proprio narcisista.»
Lei gli diede uno schiaffo così forte che Luffy temette gli rimanesse un livido sulla pelle.
La loro lite fu interrotta dall’arrivo dell’organizzatore del club; quando Sengoku salì sul palco del teatro, tutti coloro che avevano aderito al progetto e che se ne stavano seduti sulle poltroncine scomode e deformate della sala si ammutolirono all’istante, come se improvvisamente fossero interessati a ciò che l’insegnante aveva da dire. Escludendo chi era lì perché effettivamente appassionato della materia, gli altri, se si fossero trovati presso un banco scommesse, non avrebbero puntato neanche un soldo sulla serietà di Sengoku perché nelle loro menti era solo un maestro prossimo alla pensione, che avrebbe speso interamente per comprare crackers aromatici e camice orribili da guardare. Eppure lui era serissimo mentre esponeva le sue idee per la rappresentazione teatrale che avrebbe voluto presentare a un pubblico – sperava – numeroso prima della pausa invernale.
Si era già procurato un copione abbastanza completo; la persona che l’aveva scritto – non volle fare nomi, nonostante la curiosità albergasse nei petti di chi ci teneva, a far bella figura – gli aveva consegnato solo uno schizzo di ciò che sarebbe stato poi il risultato finale. «Voglio che leggiate queste pagine», disse mentre distribuiva dei fogli spillati tra loro, «e mi riferiate le vostre impressioni in merito. Dopodiché tutti insieme faremo un lavoro di editing, e solo dopo questo sceglieremo le parti. Chi soffre d’ansia da prestazione, non si preoccupi: ci sono parecchie cose da fare dietro le quinte.»
Qualcuno si sentì libero di cacciare un sospiro di sollievo, mentre altri ribattevano piccati: «Che ci state a fare, qui, se non vi piace esibirvi?!»
Luffy strinse il proprio copione tra le dita, stropicciando le pagine con la foga e la non curanza con cui le girava; la timidezza per lui non era affatto un problema, e quale ruolo sarebbe stato migliore da interpretare se non quello del protagonista?
E Nami, accanto a lui, condivideva quell’opinione.


***


Agli occhi di chiunque, quello poteva sembrare un normale manuale di preparazione alla vita universitaria – eppure, agli occhi di Chopper, era molto più di un mattone gravante sulla sua schiena dolorante di quaderni e vario materiale scolastico. Il sapere che quel libro trasmetteva era puro oro colato, gli occhi magnetici della Maga Circe o il dolce e ritmico suono di un flauto per un serpente a sonagli.
Chopper osservava le illustrazioni che coloravano le pagine affiancato da Kaya, altrettanto affascinata dalle parole riportate nei paragrafi accuratamente suddivisi. Erano dei flussi di conoscenza che circolavano nei loro corpi a partire dai loro occhi, diventati i cuori di quel processo di profondo apprendimento che li avrebbe accompagnati per la vita, a partire da quelle routine di gioventù che desideravano di smettere di respirare al più presto, poiché il futuro che li attendeva appariva più appetitoso se comparato al loro presente.
«Dev’essere proprio bello andare in giro con uno stetoscopio al collo», disse lui con aria sognante.
La bionda sorrise. «A me piacerebbe lavorare in pediatria.»
Chopper asserì col capo. «È uno scopo nobile. Non riesco a immaginare quanto debba essere difficile per i bambini affrontare i periodi di ricovero.»
«Già, nemmeno io.» Strinse il raccoglitore tra le braccia. «Detesto dovermi svegliare la mattina e sapere che qualche anima innocente là fuori stia soffrendo. Vorrei avere il potere di debellare tutte le malattie esistenti.»
Il ragazzo ascoltò le sue parole con attenzione, guardandola ammirato. «Allora non sarebbe meglio che tu ti dedicassi al campo di ricerca?»
Kaya ridacchiò, in evidente imbarazzo. «Purtroppo sono una frana in chimica. Proverò e riproverò a cimentarmi, ma non sono fiduciosa.»
Chopper comprese che avrebbe fatto meglio a cambiare argomento, pertanto si guardò attorno nella speranza di trovare un appiglio solido su cui andare a costruire un’intera conversazione; contrariamente a ciò che avevano deciso giorni prima, i due non si trovavano affatto in un’aula studio per dedicarsi alla preparazione del test d’ammissione, bensì avevano deciso di appoggiarsi direttamente nell’infermeria scolastica per poter osservare da vicino gli utensili del mestiere. Quella sala, del resto, era sempre vuota. L’infermiera era solita declinare le proprie mansioni, preferendo legarsi una fune attorno ai fianchi e restare incatenata in segreteria, dove chiacchierava con i dipendenti di quel settore in compagnia di molteplici bicchierini di caffè bruciacchiato e amaro che, per il gusto di assaggiarlo, una volta Chopper stesso aveva avuto l’intestino sottosopra per tre giorni consecutivi.
«Ehilà? C’è nessuno?»
Voleva qualcosa di cui parlare? Eccolo accontentato.
Si raccapricciò quando le sue orecchie identificarono quella voce che proveniva dall’anticamera dell’infermeria; era fin troppo familiare e in egual misura capitava a sproposito, provocando un brivido di paura e disapprovazione lungo l’intera colonna vertebrale di Chopper. Perché non aveva trovato il coraggio di dirglielo, di metterlo al corrente dell’ultimissima novità e, nonostante il ragazzo conoscesse l’amico come le sue tasche, non riusciva a immaginare nessuna reazione in particolare che avrebbe potuto travolgerlo all’udir quelle parole: si sarebbe arrabbiato? Sarebbe stato contento? Si sarebbe rattristato? Era così confuso e timoroso di fargli del male, che aveva preferito tacere e sperare – invano – che uno scenario del genere non fosse previsto nel libro del Fato.
«C’è qualcuno», sussurrò Kaya riemergendo dalla sua lettura.
Eccome se c’era qualcuno! Probabilmente lei non aveva ancora imparato a riconoscere quella voce ma, se qualche entità superiore l’avesse voluto, avrebbe appreso molto in fretta gli accenti con cui il ferito calcava le parole quando dava aria alla bocca, e le espressioni gigantesche che utilizzava per condire i suoi discorsi e le occhiate che lanciava per capire se il suo interlocutore stesse al passo con i suoi discorsi fenomenici o meno.
I passi si facevano sempre più vicini e Chopper seppe che non era possibile evitare l’inevitabile, eppure non riuscì a sollevarsi dalla sedia e andare incontro all’ospite, magari bloccandolo nell’altra stanza e suggerendogli di andare a cercare l’infermiera da qualche altra parte, inventandosi la scusa che anche lui era lì per parlare con lei e di non averla trovata. Ma Usopp aprì la porta e restò sulla soglia, sgomentato.
«Ma che…?»
Non riuscì a pronunciare nient’altro. Rimase lì, impalato come uno stoccafisso, a fissare i due studiosi come se avessero assunto sembianze aliene. Di fronte all’espressione attonita di Kaya, Chopper finalmente scattò in piedi, avendo compreso di essere l’unica persona presente in grado di attutire la caduta libera nella quale erano precipitati tutti e tre all’improvviso.
«Usopp!», esclamò raggiungendolo. «Che succede? Come mai sei qui?»
Si sentiva come un assassino con le vesti macchiate di sangue che giurava di fronte a degli agenti di polizia di non aver ucciso nessuno.
L’intruso spostò più volte lo sguardo dall’amico alla ragazza, boccheggiando alla ricerca di qualcosa da dire. «Mi sono fatto male», riuscì a pronunciare a voce bassa.
«Cosa? Com’è successo?»
Fu il turno di Usopp tuffarsi in un flusso di coscienza.
Con che faccia poteva spiegare che, come un idiota, si era messo a giocare con un martello finendo col darselo su un dito, avendo volontariamente ignorato gli avvertimenti di Franky al solo fine di fare lo spaccone davanti a lui, il professor Paulie e Nico Robin? Chopper probabilmente si sarebbe fatto prendere dal panico, ansioso com’era, ma Kaya? Per quanto gli sembrasse una brava ragazza, avrebbe potuto tranquillamente scoppiare a ridere, bellamente divertita dalla pessima figura avvenuta tra le mura del corso di bricolage al piano terra, in fondo al corridoio, poi stradina a sinistra e subito dopo a destra, nuovamente dritto e la destinazione è alla sinistra di chi cammina, lontana dalle altre aule in maniera che il rumore delle seghe elettriche non disturbasse le attività altrui.
Rispose infine: «Franky mi ha passato male il martello.» Tanto nessuno avrebbe mai scoperto quella bugia bella e buona, tantomeno il diretto interessato di quella frottola, che sicuramente avrebbe disapprovato la copertura e si sarebbe lanciato a raccontare la verità, spiattellando in giro manifesti pieni zeppi di insulti nei suoi confronti – vero?
Come se si fossero danneggiate le gambe, Chopper lo costrinse a sedere. «Adesso controllo se hai riportato una frattura alla falange», lo informò mentre guardava attentamente il dito danneggiato. «Fortunatamente non ci sono perdite di sangue.»
Kaya si avvicinò a piccoli passi timidi fino ad affiancare il collega. «Presenta un ematoma subungueale?»
Usopp la guardò con la bocca aperta. «Ematoma sub-che
La bionda sorrise. «Si tratta dell’accumulo del sangue sotto l’unghia. Se ne è troppo dovresti andare in ospedale per consultare un medico.»
«Credevo di esserci già, dal medico», borbottò lui tenendo la testa bassa.
Chopper cacciò un sospiro di sollievo. «Non è niente di grave», decretò. «Non sono autorizzato a darti dei farmaci, ovviamente, ma ti basterà applicare del ghiaccio sulla ferita in modo che riduca il gonfiore e allevi il dolore. Vado a prendertelo», disse, e fuggì a gambe levate. Si sentiva un vigliacco nel lasciare l’amico in compagnia di Kaya e viceversa, ma sperava si chiarissero, che mettessero da parte la vigliaccheria per dialogare finalmente come persone normali.
Ma nessuno dei due, rimasti sotto la luce del lampadario acceso, si azzardò a fare il primo passo. Kaya semplicemente tornò a sedersi al tavolo per continuare a leggere il manuale di medicina che aveva acquistato giorni prima, con matita alla mano e penna a riposo accanto a lei, che prendeva solo per riportare importanti schemi sul suo quaderno a quadretti grigi. Usopp faceva ben attenzione a non far cadere i suoi occhi su di lei neanche per sbaglio – l’ultima cosa che voleva era farle pensare che la stesse fissando; che poi le mattonelle che componevano il pavimento erano molto interessanti, chissà chi aveva avuto la pazienza di metterle tutte in riga lì, con una tale precisione? Nella sua mente giocava a trovare un errore nella loro incollatura, ma quando queste si avvicinavano pericolosamente al tavolo dove era seduta lei, il ragazzo ricominciava d’accapo; aveva anche preso a contarle, facendo improbabili calcoli matematici in mente per indovinare quante ce ne stessero in quella stanza.
Se avesse potuto, Chopper avrebbe preso a schiaffi entrambi.
Chiuso nel buio dello stanzino dell’infermeria, la mano con cui reggeva il ghiaccio secco si stava progressivamente congelando. “Al diavolo”, pensò, ricongiungendosi a loro. Consegnò l’impacco a Usopp; quest’ultimo si alzò e, con un grazie formale e detto a voce bassa, uscì dall’infermeria con tutte le intenzioni di tornare da dov’era venuto. Chopper non fece nulla per trattenerlo o esortare Kaya ad andare a parlargli – semplicemente tornò a sua volta a sedersi, riprendendo a studiare da dove aveva interrotto una decina di minuti prima.






Angoletto degli Easter Egg!!
1.        Se dici così sembra che […] durante una guerra: black humor onepieciano, anche detto riassunto della saga di Marineford.





Angoletto dell’Autrice!!
Capitolo povero di riferimenti esterni, giusto per compensare la mattonata della morte di Ace. Mi confermate che tutti hanno riso almeno una volta su un meme in proposito? *verso dei grilli* Non fraintendetemi, eh, ha fatto parecchio male anche a me… che bei tempi quando la Mediaset mandava in onda gli episodi di Marineford, ne erano cinquantasette ma ne sembravano centotrenta
BENE, è il mio primo giorno libero da lavoro dopo settimane intere e invece di riposarmi mi sono messa a scribacchiare ancora sul mio computerino. Sono masochista? Sì. Me ne pento? No.
Ma bando alle ciance, che ne pensate di questo capitolo? Non è molto articolato, anzi, è piuttosto leggero. Non come il martello che Usopp si è dato sul dito. Recupereremo col prossimo!

A presto,
–Channy

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Bleachers, Lightning and Surname ***


7
Bleachers, Lightning and Surname



Le nuvole che soffocavano il cielo erano così nere che pareva dovesse cascare giù il finimondo da un momento all’altro, eppure nessuno si preoccupava di correre a trovar riparo da qualche parte o tenere a portata di mano un ombrello saldo: l’omino in televisione aveva detto che non avrebbe piovuto, quindi perché preoccuparsi? Quel vecchietto con la bacchetta sempre in mano non aveva mai sbagliato un colpo.
Le temperature, tuttavia, esprimevano appieno la stagione invernale ormai alle porte. Infagottata nel suo cappotto color cenere e avvolta nella sua sciarpa a quadri, gli occhi perlati di Bibi saettavano da destra a sinistra, poi da sinistra a destra, mentre al petto stringeva il libro di storia non ancora aperto come a volerlo stritolare.
«Siamo qui per studiare o per fare le cheerleader?»
A udir la domanda traboccante di sarcasmo di Nami, l’azzurra si affrettò a cambiare obiettivo da squadrare. Rispose balbettando: «Per studiare, ovvio.»
La rossa ridacchiò, la bocca coperta dalla cerniera del piumino tirata fino in cima. «Bibi, con tutto il bene che ti voglio, sto congelando. Dimmi chi è e facciamola finita.»
Il volto di Bibi divenne violaceo; prese ad osservare i gradini degli spalti, improvvisamente molto più interessanti dello spettacolo che la fronteggiava. «Quello che adesso sta bevendo dalla borraccia.»
Nami guardò nella direzione indicata discretamente. «Però, niente male!», decretò. «E brava la principessina!»
L’amica scattò sull’attenti. «Non insinuare nulla. Mi ha solo detto che sarebbe stato carino venire a vedere gli allenamenti.»
«Andiamo, è stata palesemente una scusa per vederti di nuovo», rispose la rossa mentre sottolineava sul proprio libro con l’ausilio di una matita ben temperata.
«Sì? E dov’è scritta questa legge della natura? Sentiamo.»
«Nel manuale universale sul linguaggio maschile. Vai in biblioteca, ne trovi sicuramente una copia.»
Bibi si decise finalmente ad aprire il proprio libro anche se, lo sapeva già, avrebbe fatto solo finta di imparare qualcosa. «Non so neanche come si chiama.»
«Potevi chiederglielo.»
«Poteva chiedermelo anche lui, se è per questo.»
«Ti ha già invitata a uscire, quindi il suo l’ha fatto. Vuoi che ti porti anche in braccio o che ti sbucci la frutta?»
«Allora, punto uno, ti ho detto che non mi ha invitata a uscire. Punto due, non penso sia il tipo di fare quelle cose. È più alla Sanji.»
Nami alzò gli occhi al cielo. «Per carità, non nominarlo neanche in mia presenza.»
Bibi, dal canto suo, trovò il pretesto per chiudere nuovamente il libro. «Sei ancora arrabbiata con lui?»
«Non sono arrabbiata», sbottò la rossa, «però mi dà fastidio.»
«Nami, hai bisogno di mettere in ordine le idee», le disse l’amica. «Sei incoerente quando parli.»
La rossa chiuse a sua volta il libro e gettò la matita nello zaino, senza preoccuparsi di riporla nel borsello in cui custodiva penne ed evidenziatori; gonfiò le guance, stringendosi nel giubbino per non soffrire a causa di una folata di vento improvvisa. «Non è semplice da spiegare. È che lui è un amico, un amico vero, ma a volte penso che faccia di tutto per farmi arrabbiare. Non ripongo aspettative su di lui, non mi piace incastrare le persone, però lo considero un ragazzo maturo. Be’, almeno fino a venerdì scorso.»
Bibi ascoltò in silenzio, tentando di capirci qualcosa. Solo quando l’amica finì il discorso si permise di parlare: «Forse non è vero che non riponi aspettative in lui. Sanji è un ragazzo d’oro, e i suoi modi di fare ti avranno convinta che sarebbe venuto a prenderti nonostante tu l’avessi messo in punizione. È per questo che lo stavi aspettando.»
Nami fece segno di no col dito indice. «Non lo stavo aspettando. Mi aspettavo che venisse lo stesso. È diverso.»
«Sei un caso perso.»
«Senti da che pulpito! Pensa al tuo bel giocatore di rugby, piuttosto.»
Seppur non lo volesse davvero, il volto di Bibi andò a fuoco a causa dell’imbarazzo che aveva pervaso il suo corpo. Tornò a guardare verso il campo sportivo, dove la squadra stava svolgendo l’allenamento quotidiano; all’azzurra non interessava affatto assistere alle loro flessioni, né agli scatti in avanti né ai lanci della palla, bensì trovava rilassante poter guardare da lontano il ragazzo con, pochi giorni prima, aveva scambiato qualche parola in corridoio. Era bravo nel suo sport, e Bibi poteva solo immaginare in che portento avrebbe potuto trasformarsi durante le partite vere e proprie; era talentuoso ed energico, ed era tutto perfetto fino a quando la sua mente volle prendersi gioco di lei, mettendole in testa paragoni illogici e scombinati tra loro.
Tornò a guardare la ragazza che la affiancava, intenta a strofinarsi le mani sulle braccia nel tentativo di riscaldarle. Decise che sì, con lei ne avrebbe potuto parlare: Nami aveva un animo sensibile, l’avrebbe sicuramente capita e avrebbe saputo consigliarle – vero?
«Devo confessare una cosa.»
La rossa si voltò verso di lei, invitandola silenziosamente a continuare.
«È da un po’ di tempo che ho un problema con Luffy. Anzi, no, credo sia meglio dire che ho un problema con me stessa.»
«Che vuoi dire?»
Bibi sospirò, osservando con falsa attenzione le dita delle sue mani, arrossate a causa del freddo – avrebbe dovuto iniziare a usare i guanti invernali. «Ecco, è una storia un po’ strana. Risale a prima di Halloween.»
L’altra incrociò le braccia sotto al seno prosperoso. «E tu ne stai parlando solo ora? Sono passate quasi tre settimane.»
«Lo so», rispose, afflitta. «Perché credevo che fosse uno stato d’animo passeggero, insomma, non ero molto allegra quel giorno. Ma appena ho notato che nonostante i giorni stessero passando ed io stavo sempre allo stesso modo, mi sono allarmata. Non so neanche per quale motivo mi stia dando così tanta pena.»
Nami sospirò, spazientita. «Insomma, mi vuoi dire o no cosa è successo?»
«Io non ci volevo venire, alla festa di Halloween.»
Bibi aveva parlato così velocemente che la rossa dovette ripetersi più volte la frase in mente per comprenderne il significato. «E perché non ce l’hai detto?»
«Perché sapevo che tutti voi stavate attendendo con ansia quella festa. Non volevo rovinarmela con i miei capricci, dato che sapevo che ci sareste rimasti male. Poi di mezzo c’era anche la questione di Smoker e tutto il resto.» Fece un respiro profondo per calmarsi. «Così ho pensato di chiedere consiglio all’unica persona che non ne sapeva nulla.»
«Ne hai parlato con Luffy?», domandò la rossa in evidente confusione. «Ma quando è arrivato alla festa sembrava realmente sorpreso…»
«Be’, sì, perché ovviamente non gli ho rivelato nulla del vostro piano», rispose Bibi. «Mi sono inventata una scusa, sono stata molto vaga.»
«Capisco. E lui?»
«E lui non si è affatto sbilanciato. Ha fatto il sempliciotto come al solito.»
Nami sorrise, divertita. «Tipico di lui. E dove sarebbe il problema?»
L’azzurra sospirò per l’ennesima volta. «Il problema è che mi ha dato fastidio. Mi aspettavo qualcosa di più, un minimo di interesse, curiosità… E invece niente.»
L’altra si resse il viso con le mani, i gomiti puntellati sulle ginocchia coperte da jeans scuri. «Cosa avrebbe dovuto risponderti? Non è così intelligente da poter intuire cosa gli stavi nascondendo.»
«Nami, gli ho detto che un ragazzo stava insistendo per uscire con me e che io non volevo. Non ha fatto una piega, ha cambiato argomento come se nulla fosse.»
La rossa vide Bibi nascondere il naso congelato nella sciarpa morbida, così lunga che aveva dovuto avvolgerla tre volte attorno al collo e alle spalle.
«Me ne sono andata e non gli ho rivolto la parola per diverso tempo, però lui è rimasto lo stesso. Non riesco a capire cosa c’è che non va», mugugnò.
Nami annuì, poi si aggiustò il berretto di lana che le copriva la testa. «In sostanza, ti senti in colpa per una bugia bianca e perché l’hai mollato lì dopo l’ennesima sua dimostrazione del suo essere idiota, dico bene?»
«A grandi linee sì.» La guardò negli occhi, implorante. «Come faccio a risolvere la faccenda?»
«Stammi a sentire», fece. «Ai miei occhi questa storia è ridicola. Insomma, conosci Luffy, sai che non riesce a fare neanche due più due. Dovresti metterti a piangere e a implorarlo per fargli capire che c’è qualcosa che non va. Ma, in questo caso, non ce n’è stato bisogno dato che è stata una bugia a fin di bene. L’unico consiglio che posso darti è metterti l’animo in pace e dimenticare tutto.»
«E se dovesse ricordarsene?», le domandò. «Nessun ragazzo mi sta facendo la corte, e sai che io non so mentire.»
«Be’, basta che gli spieghi che non potevi rivelargli la nostra sorpresa.» Un secondo dopo, Nami sorrise furbamente. «Oppure, puoi fare riferimento a lui», e indicò il ragazzo che correva nel campo di rugby.
Bibi sorrise a sua volta. Proprio in quel momento il giovane atleta si voltò verso gli spalti dove le due fanciulle sedevano solitarie; alzò una mano in segno di saluto, che l’azzurra ricambiò timidamente.
«Dicevamo? Il linguaggio universale?»
«Ma piantala, Nami.»
Un discorso tirò l’altro e continuarono a chiacchierare del più e del meno, fino a quando non vennero raggiunte da una giovane donna dai lunghi capelli castani e dalle sensuali forme femminili. Conoscevano a malapena il suo volto, poiché si era trasferita da poco tempo nell’istituto che frequentavano, tuttavia era impossibile dimenticare i suoi marcati tratti latini e il forte profumo che le abbracciava la pelle. Parlò con voce profonda: «Scusatemi, ragazze. Siete voi Bibi e Nami?»
Entrambe annuirono, scambiandosi occhiate sfuggenti e vagamente confuse.
«Sono la nuova insegnante di educazione fisica del primo anno. Mi chiamo Viola Riku», disse con un sorriso cordiale.
«Cosa possiamo fare per lei?», domandò Nami con la medesima espressione in volto.
«Vedete, faccio parte del comitato di organizzazione della raccolta fondi di Natale», spiegò con professionalità. «Nello specifico mi occupo del match di pallavolo. Non so se ne avete già sentito parlare.»
«Io sì», fece Bibi. «È tra gli eventi proposti per raccogliere il denaro destinato al laboratorio di ricerca di Punk Hazard. I soldi dei biglietti verranno spediti lì.»
«Proprio così», fece la docente. «Sono qui per proporvi di far parte della squadra. Uno studente mi ha parlato della vostra bravura in questo sport», aggiunse accarezzando i petali di una rosa rossa, che solo in quel momento le ragazze notarono.
«È la stessa persona che le ha regalato quel fiore?»
Viola si rigirò il gambo del fiore tra le dita, sapendo che non si sarebbe fatta male poiché privato delle caratterizzanti spine. «Esatto. Però non ricordo come si chiama…»
«Era biondo e un po’ logorroico?»
L’insegnante annuì. «Ed era vestito di nero.»
Nami assunse un’espressione seccata. «Sanji…»
«Ah, sì, proprio lui. Ma tornando alla mia proposta: che ne dite?»
La rossa scosse la testa con rassegnazione. «Mi piacerebbe, ma sono già occupata con lo spettacolo teatrale del professor Sengoku.»
«Capisco. E tu?», domandò rivolgendosi a Bibi.
Quest’ultima si grattò nervosamente una guancia. «Su due piedi non saprei dire», mugugnò. «Le farò sapere.»
«Non ci sono problemi. Per qualsiasi cosa mi puoi trovare in palestra o nell’aula docenti», rispose. «Anche se si tratterà di un’amichevole, ci alleneremo due volte alla settimana, il martedì e il giovedì.»
Detto ciò, si congedò e si allontanò.


***


Adorava svolgere le mansioni correlate all’impegno che, mesi prima, aveva scelto di assumersi; era il tipo di persona che ascoltava gli ordini, prendeva nota e annuiva con serietà, per poi svolgerli e portarli a termine con successo. Non era, dunque, un peso fare i giri di ronda durante le attività lei club; le bastava controllare che nessuno facesse danni in giro e che tutti stessero nelle rispettive aule o, se si trovavano al di fuori di esse, che presentassero il permesso per muoversi da un posto all’altro. Per le segnalazioni di infrazioni bastava annotare la disubbidienza e riportarla al suo capo il quale, a propria volta, l’avrebbe girata alle autorità superiori.
Non le importava di fare la figura della rigida, di qualcuno che non conoscesse il significato del termine divertimento – era fatta così, cresciuta a pane, rigore e disciplina, sguardo austero e schiena dritta, anche se spesso la sua immagine fiera finiva col capitolare a causa della sua eterna sbadataggine: lacci sciolti, pavimento bagnato e spallate contro gli stipiti delle porte erano piccoli e imbarazzanti incidenti che le capitavano ogni giorno, senza preavviso e senza pietà, e lei in quei momenti doveva sperare che non vi fosse anima viva nei dintorni, in maniera tale da non essere vista e di conseguenza derisa.
Neanche il tempo di finire di pensarlo, che l’ultimo gradino delle scale che stava scendendo per dirigersi dal terzo al secondo piano si trasformò in una lastra di ghiaccio; fu letale per la suola liscia delle scarpe che indossava, poiché slittò in avanti e già si vide con la faccia a terra, gli occhiali rotti e un bernoccolo sulla fronte coperta dalla frangia irregolare. Ma lo schianto non arrivò mai, bensì un paio di mani a sorreggerla, insieme alle rispettive braccia spuntate da chissà dove.
«Grazie», fece lei, il cuore accelerato per lo spavento. «Mi hai evitato una brutta caduta…»
«Ma guarda dove vai, quattrocchi.»
Tutta la gratitudine di cui si era riempita scivolò via dal suo corpo per lasciare spazio a un profondo senso di contrarietà. «Tu…», mormorò con voce terribilmente bassa. «Si può sapere cosa ci fai qui?»
Zoro fece spallucce, incurante del nuvolone nero che aveva sovrastato il capo della ragazza. «Camminavo.»
Tashigi si scostò furiosamente dalle sue braccia, le quali erano rimaste protese a mantenerla in piedi. «Mi vengono in mente due scenari possibili che giustificano la tua presenza qui e ora.» Si aggiustò gli occhiali sul ponte del naso. «Ipotesi numero uno: stavi cercando l’aula del corso extracurricolare che hai scelto e ti sei perso», disse alzando il dito indice; poi alzò il medio, continuando a contare: «Ipotesi numero due: sei rimasto nascosto fino a ora per combinare chissà cosa e solo adesso te ne stai andando.»
Lui si grattò la nuca, seccato almeno quanto lei. «Che brutta immagine hai di me. Comunque, le tue supposizioni sono entrambe errate.»
Affilò lo sguardo tagliente. «Fila immediatamente in classe.»
«No.»
«È un ordine.»
«Detta ordini quanto ti pare, io me ne sbatto.»
Tashigi emise un verso di evidente frustrazione, dopodiché lo afferrò per un polso e lo trascinò verso una nuova rampa di scale, ricominciando a scendere i gradini frettolosamente e con l’aria di chi stava facendo uno sforzo immane per non mettersi a urlare. Alla domanda di lui, che contrariato le aveva chiesto cosa avesse intenzione di fare, rispose: «Ti ci porto io, in classe.»
«Ma se non sai neanche qual è!»
«Infatti stiamo andando in segreteria, così potrò scoprirlo.»
Zoro si chiese mentalmente se la segreteria di quell’istituto servisse realmente a qualcosa, dato che ogni volta che gli capitava di passare da quelle parti per chiedere informazioni – o perché ci si era ritrovato senza volerlo – tutti gli addetti al settore erano magicamente in pausa caffè, come a voler ricompensare le immani fatiche che avevano compiuto fino a quel momento, non che qualcuno potesse effettivamente testimoniare a loro favore.
Difatti anche quel pomeriggio la segreteria era deserta, con i ripiani ricoperti da un sottile strato di polvere e balle di fieno che rotolavano accompagnate da fischianti folate di vento. Nonostante in quella stanza si respirasse aria di desolazione e abbandono, Tashigi lo mollò sulla soglia della porta per dirigersi a passo di marcia verso un’alta cassettiera da ufficio e ne aprì un cassetto, dal quale sbucarono fuori una miriade di fogli di carta racchiusi in raccoglitori grigi; ne scelse una decina e se li issò sulle braccia, non badando al loro peso.
«E quella che roba è?»
«Sono i dossier delle attività extracurricolari.» Seppur barcollando, riuscì a raggiungere una scrivania spoglia e a poggiarli sulla superficie legnosa con un sonoro tonfo. «Contengono l’elenco degli iscritti a ciascun corso. Mi basterà consultarli a uno a uno per scovarti.»
Zoro sbadigliò, visibilmente annoiato. «Fa’ pure, non mi interessa», biascicò sedendosi su una poltrona girevole, le mani a mo’ di cuscino dietro la testa e le gambe stese a impicciare il passaggio.
La ragazza gonfiò le guance, ma si mise subito all’opera; i suoi occhi scorrevano velocemente dall’alto verso il basso, poi le sue dita sottili voltavano una pagina, e il processo si ripeté fino alla fine del primo portadocumenti. Lo mise da parte e iniziò a consultarne un secondo, poi il terzo, il quarto e così via, arrivando al punto di aver terminato la ricerca senza un risultato.
«Che scherzo è?»
Zoro, appisolato, trovò la forza di ghignare. «Non mi hai trovato?»
«No.»
«Bene», rispose. «Adesso mettiti l’animo in pace e lasciami andare.»
Uno per volta, la ragazza ripose al proprio posto tutto ciò che aveva precedentemente preso. «Posso giurare di aver controllato bene nonostante la fretta. Cosa mi è sfuggito?»
Lui si rimise in piedi con un balzo, senza preoccuparsi di riaccostare la sedia al tavolo. «Proprio niente.» La guardò di sottecchi. «Non mi sono iscritto a nessun corso.»
Tashigi dovette battere le palpebre più volte per accertarsi di essere sveglia, che quella situazione non stesse accadendo solo nella sua mente. «Stai scherzando», decretò.
«Affatto.»
Lo afferrò per le possenti spalle e iniziò a scuoterlo avanti e indietro. «Ma sei cretino?! I tuoi voti fanno pena e tu non ti degni neanche di sollevarli un po’ con degli stupidissimi crediti?!»
«E tu come fai a sapere che voti ho?»
«Roronoa, sono nel Comitato, ho accesso a più informazioni di quanto tu possa credere.»
«Questa è violazione della privacy!»
«Sei sicuro di voler affrontare questo discorso? Proprio tu?!»
«Certo, proprio io. Non mi sembra di aver mai…»
«Per carità», lo interruppe, «non completare neanche la frase.»
Le afferrò le braccia e la costrinse a mollare la presa. «Cosa vuoi da me?!»
Tashigi si scostò e indietreggiò di qualche passo. «Vorrei che tu rispettassi il regolamento. Non pretendo che tu possa diventare lo studente modello, ma non ci provi neanche a rigare dritto.»
La fissò dall’alto della sua altezza, l’occhio torvo ben incollato allo sguardo color cioccolato di lei. «Che t’importa? Non abbiamo niente a che fare, io e te.»
Tashigi incrociò le braccia al petto, cocciuta. «Questo lo so bene, ma il ruolo che occupo in questo istituto comporta delle responsabilità. Non posso lasciare che tu o qualcun altro vi roviniate così.»
Zoro rimase per un po’ in silenzio; il suo volto inespressivo e marmoreo era ancora piegato appena verso il basso, in modo da mantenere ancora in piedi quel contatto visivo. Sembrava una gara a chi fosse più testardo, a chi volesse prevalere sull’altro, come se in quell’invisibile linea che univa i loro occhi vi fosse una scarica elettrica oscillante prima verso di lui e poi verso di lei, e poi di nuovo indietro e avanti, indietro e avanti, costringendo i due sfidanti a combattere per non rimanere fulminati da quelle scintille di rivalità che avrebbero potuto far scoppiare un incendio da un momento all’altro. Quando capì che quello scontro si sarebbe concluso con un pareggio, il ragazzo si tirò indietro. Voltò il capo a destra per fissare un punto indefinito della segreteria. «Sei troppo severa», masticò con la mascella contratta.
«Come?»
«Ho detto», fece con il tono di voce più alto, «che devo andare in palestra.»
Tashigi aggrottò le sopracciglia. «Che ci vai a fare? È occupata. A quest’ora si stanno allenando quelli di basket.»
«Idiota», la apostrofò Zoro. «Mica qua. Al Kuraigana
«Eehh? Frequenti veramente quel posto?»
«Sì, perché?»
«Be’, dicono che i programmi che propone l’allenatore vadano oltre l’umana concezione. Un tizio per poco non è morto per seguire gli esercizi alla lettera.»
Zoro fece spallucce. «Tutte stronzate. Sono due anni che vado là e non è mai successo nulla.» Si batté una mano sulla pancia e le sue labbra si curvarono per dar vita a un sorriso soddisfatto. «Oggi addominali.»
Appoggiata con le anche a una delle scrivanie dell’ufficio, Tashigi alzò gli occhi al cielo, ignorando quel palese vanto. Lo vide tuffare le mani nelle tasche dei pantaloni della tuta e darle le spalle, intenzionato ad andarsene; raggiunse presto la porta della segreteria e girò a sinistra.
La voce uscì senza che lei potesse controllarla: «Zoro.»
Lui si bloccò sul posto, tornando a guardala negli occhi per l’ennesima volta da quando si erano incrociati quel nuvoloso pomeriggio, circondati da un silenzio spezzato solo dal cigolio di una finestra in lontananza, la cui anta cigolava a causa dei soffi di vento che s’intrufolavano all’interno dell’edificio così grande, eppure così piccolo da poter permettere incontri casuali come il loro.
«L’uscita è a destra.»


***


Con tutta la pazienza che il suo corpo era in grado di contenere, Sanji si domandò per quale motivo avesse deciso di acconsentire a quella richiesta.
Camminava con lo sguardo puntato verso il basso, che a guardarlo da fuori pareva stesse semplicemente mettendo un piede davanti all’altro, senza una meta precisa, senza uno scopo nella vita – ma il biondo ce l’aveva, ed essere costretto a raggiungere la linea del traguardo del suo percorso svogliato gli dava sui nervi; sentiva addosso un malessere che non accennava ad andar via, come un tatuaggio sulla pelle, un marchio a fuoco sulla sua lunga schiena.
Quando varcò la soglia della palestra che ospitava il campo da pallacanestro, le urla dei giocatori gli arrivarono come uno schiaffo in viso insieme alla puzza di sudore, e si chiese quando avessero intenzione di aprire qualche finestra per pulire quel tanfo e per raffreddare i loro bollenti spiriti combattivi. Restò immobile contro l’uscio, nel minuscolo atrio che precedeva lo stanzone vero e proprio, e dovette farsi violenza per non fare marcia indietro. Avanzò in direzione dell’allenamento in corso, infastidito dallo stridio delle suole delle scarpe che slittavano sul pavimento liscio.
Venne illuminato dalla luce dei faretti della palestra e dovette coprirsi lo sguardo per abituarsi a quel bagliore accecante; probabilmente aveva attirato l’attenzione dell’allenatore, poiché un fischio assordante gli trapanò le orecchie e decretò una pausa per i cestisti.
«Ehh? E tu che ci fai qua?»
“Me lo chiedo anch’io”, pensò Sanji ma evitò di dirlo. Sostenne bene l’occhiataccia del suo interlocutore e disse: «A che ora finite?»
Ne arrivò un altro. «Perché questa domanda?»
Con lo stesso tono arrogante, si aggiunse un terzo: «Non è da te.»
Il biondo si ritrovò circondato da quei brutti ceffi, ma il suo volto non esprimeva paura bensì disprezzo. «Infatti a me non frega un cazzo. Lo vuole sapere mamma. Sta provando a telefonarvi, ma non rispondete.»
Il primo rise sguaiatamente, anzi, forzò la risata per mostrarsi divertito nonostante non lo fosse. «E grazie al cazzo, stiamo in campo! Ma ci arriva o no, quella?»
Con uno scatto furioso, Sanji lo afferrò per il colletto della maglia sportiva. «Bada a come parli di nostra madre, Yonji.»
Gli altri due furono altrettanto rapidi a fargli mollare la presa.
Il biondo si scostò bruscamente, trattenendosi dal non prendere a pugni quei visi così simili a cui, sfortunatamente, somigliava anche lui. «A che ora finite?», ripeté.
Il giovane con i capelli rossi rispose: «Non lo sappiamo. Adesso vattene.»
«Mamma lo vuole sapere», insisté Sanji. «Vuole che ceniamo tutti insieme, per una volta…»
«Senti, mammone, va’ a farti un giro. Finiamo quando finiamo. Se vuole che mangiamo insieme, ci aspetterà.»
Sanji aveva un disperato bisogno di fumare per distendere i nervi. «Ma che stronzate vai dicendo, Niji?! Per una volta, una misera cazzo di volta, potreste accontentarla!»
A parlare fu nuovamente il ragazzo dai capelli rossi. «Non ti scaldare. Ci stiamo allenando per il torneo invernale.»
«Ichiji, anche tu, non dire stronzate. Non esiste nessun torneo invernale.»
«Ah? E quello del ventuno dicembre come lo chiami?»
«È il porca puttana di match per la raccolta fondi. Non importa chi vince, ma i soldi dei biglietti.»
«Questa è la versione per chi non sa un cazzo di basket», fece Yonji con le braccia incrociate al petto gonfio. «Tipo te, coglione.»
Gli altri due sghignazzarono.
Sanji roteò gli occhi al cielo. «Va bene, come volete.» Tuffò le mani nelle tasche dei pantaloni e fece per andarsene.
«Tu sei proprio sicuro di non volerti unire alla squadra?»
Quella domanda, quella maledettissima domanda lo costrinse a voltarsi nuovamente verso i suoi fratelli; i suoi occhi blu incontrarono repentinamente i sorrisi sadici dei tre gemelli e desiderò la loro sparizione dalla faccia della terra. Con voce dura scandì: «Sì.»
E come previsto, la risposta pianificata arrivò in fretta da Ichiji: «È per non farti male alle manine?»
«Fratello, fai attenzione a come parli», lo riprese sarcasticamente Niji. «Rischi di far piangere il piccolo Sanji.»
«Le mani si usano solo per cucinare e carezzare i visi delle belle donne», disse Yonji, scimmiottando la voce del gemello biondo.
Sanji non ci vide più. Ancora con le mani nelle tasche dei pantaloni neri, tirò un calcio dritto sulla faccia di Niji, dal cui naso presero a uscire fiotti di sangue scarlatto; quella visione non fu abbastanza, Sanji ne voleva ancora, voleva far del male ai suoi stessi fratelli, voleva far patir loro lo stesso dolore che per anni gli avevano procurato e soprattutto desiderava ardentemente farli rigare dritto, in modo che iniziassero a rispettare la genitrice.
«Pezzo di merda!», urlò Niji fiondandosi su di lui con un pugno alzato, intenzionato a restituirgli lo spiacevole trattamento, spalleggiato dagli altri due.
Ma il colpo non arrivò mai. Davanti a Sanji si erano come materializzati dal nulla Sabo ed Ace, che avevano parato il pugno. «State calmi», intimò Sabo.
«Fatevi i cazzi vostri.»
«Tre contro uno? Un po’ scorretto, non credete?»
«Ace, siamo intervenuti per fermarli, non per partecipare alle danze.»
Li raggiunse una voce: «Voi, laggiù, che sta succedendo?» Si voltarono e videro il docente camminare lentamente verso di loro.
«È l’allenatore Borsalino», fece Ace a denti stretti. «Non ci voleva.»
Quando l’omone fu finalmente davanti a loro, prese a studiare la ferita del giocatore dai capelli blu. «Niji», disse in un lamento, «che hai fatto al naso?»
L’interpellato fu rapido a rispondere: «Mio fratello mi ha colpito.»
Indicò il colpevole con il dito indice e il professore seguì con gli occhi la traiettoria, iniziando presto a studiare il volto di Sanji come se si stesse sforzando di ricordarsi chi fosse. Biascicò: «E per quale motivo?»
Il biondo sostenne lo sguardo. «Sono stato provocato. Ha insultato mia madre.»
«Eh? Tua madre? Ma siete gemelli. È anche la loro madre.»
Percependo l’aura omicida dell’amico, Sabo si vide implicitamente costretto a intervenire al fine di placare gli animi. «Non ci dia troppo peso, mister, si è trattato solo di una comune discussione tra fratelli. Sarà meglio non sprecare altro tempo prezioso e tornare all’allenamento, non crede?»
L’uomo si voltò placidamente a guardarlo, aprendo un po’ di più gli occhi, come sorpreso di vederli. «Outlook, Portuguese, ci siete anche voi. Credevo che stesse ancora provando i tiri da tre punti.»
Ace si passò una mano davanti al volto. «Non ci credo, non può essere così stupido», sussurrò tra sé e sé.
«Che provvedimento intende prendere, mister?», chiese Yonji alludendo all’offesa di Sanji.
L’allenatore arricciò le labbra. «Boh
«Ma come boh?!»
Suonò il fischietto, cogliendoli di sorpresa, disse con voce calma: «Si ricomincia. Tutti ai propri posti.»
Mentre Sabo ed Ace festeggiarono in silenzio, i tre gemelli camminarono verso il centrocampo con espressioni furenti e gli occhi dei compagni di squadra addosso. Sanji, invece, fece nuovamente retromarcia, arrabbiato ma affatto sorpreso; ringraziò brevemente i due amici che erano corsi in suo soccorso e si apprestò ad abbandonare la palestra, quando sentì la voce dell’allenatore dirgli: «Domani andrai dal preside, Vinsmoke.»
Non rispose e se ne andò, maledicendo il proprio cognome.







Angoletto degli Easter Egg!!
1.        Il denaro destinato al laboratorio di ricerca di Punk Hazard: sottile riferimento a ciò che Caesar Clown riceveva da Big Mom per poter condurre gli esperimenti sui giganti. Solo che qui siamo in una fanficion AU e tutte le stramberie di quel pazzo non esistono! E in più vi ricordo che il nostro Gangster Gasssstino è professore di chimica!
2.        Kuraigana: riferimento all’isola natia di Zoro.










Angoletto dell’Autrice!!
Aneddoto divertentissimo: mentre scrivevo questo capitolo, si era spento il PC. L’avevo quasi finito. Quando l’ho riacceso il giorno dopo ho scoperto che non aveva salvato niente. E l’ho dovuto riscrivere. Dall’inizio. Percepite la mia sofferenza?
A PARTE QUESTO, finalmente riesco ad aggiornare! Il lavoro mi sta uccidendo, è una montagna russa che non si ferma mai (e io sono terrorizzata da queste giostre mega alte mega veloci mega tutto). Aggiorno poco proprio per questo motivo, la sera non ho quasi mai la forza per mettermi al PC ed editare i capitoli – perché a scrittura sono più avanti… al 19 hehehehe
Il prossimo capitolo vedrà la sua prima parte allacciarsi all’ultima di questo eeeee vi dico già che la situa non sarà propriamente allegra e spensierata lmao, but we like dramas, don’t we? ;)

A presto,
–Channy

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Umbrella, Restless and Mayor ***


8
Umbrella, Restless and Mayor



L’odore della pioggia scrosciante aveva lo straordinario potere di invadere le narici non solo dei passanti, ma persino di chi rimaneva serrato in casa propria o in un grigio ufficio per l’intera giornata bagnata, evitando così d’incappare in spiacevoli pozzanghere di fango e fastidiosi schizzi provenienti dai balconi delle case, dalle insegne dei negozi o dai porticati più sporgenti affacciati sui marciapiedi gremiti di pendolari.
Nami era uscita di casa con la consapevolezza che avrebbe piovuto – non solo aveva assistito all’annuncio delle previsioni del tempo la sera prima, ma poco prima di riversarsi in strada aveva dato un’occhiata al cielo, scorgendo un prepotente nuvolone nero tuonare famelico –, ma mai si sarebbe aspettata che il suo ombrello la abbandonasse a metà percorso. Il suo fido compagno di viaggio si era piegato al volere del vento freddo, e le stecchette che reggevano la tela proprio non avevano voluto saperne di tornare ai rispettivi posti. Con i denti digrignati e un fiume di parolacce ben leggibile nei suoi occhi nocciolati, la ragazza si era vista costretta a correre verso la scuola seguendo un bizzarro percorso fatto di ripari improvvisati e tentativi di tenere saldo il cappuccio del giubbino su in testa, a contenere la cascata di capelli che avrebbe fatto meglio a legare quando ancora si stava preparando per affrontare quel mercoledì, il punto centrale di una settimana che pareva infinita.
Continuando a correre e a saltellare per evitare di inzupparsi le scarpe con l’acqua che s’accumulava ai lati dei tombini, riuscì finalmente a scorgere l’edificio scolastico; mai tale visione la rallegrò così tanto, ‘ché le sue dodici fatiche erano giunte alla fine. La pioggia aumentò d’intensità, ma non se ne curò affatto. Oltrepassò i cancelli dell’istituto e s’apprestò a compiere l’ultimo sprint fino alle porte – sessanta metri erano facili da superare perciò, come a equilibrare i piatti della bilancia, si preoccupò di non urtare nessuno lungo il tragitto; se sui marciapiedi della città aveva avuto la possibilità di darsela a gambe ogni volta che finiva addosso a un povero passante, sul vialetto della scuola correva il serio pericolo di essere derisa da quelle decine di volti che, seppur di sfuggita, conosceva bene. Non puntava affatto a bagnarsi il meno possibile dato che oramai era diventata ella stessa parte integrante della pioggia, piuttosto il suo intento era quello di correre in infermeria ad asciugarsi per non buscarsi un raffreddore coi fiocchi, se non peggio.
«Nami?»
Lo scatto finale venne bloccato sul nascere da quella voce tanto familiare quanto indesiderata. Per pura cortesia – e perché non poteva spiattellare la scusa d’esser in ritardo, dato che mancavano ancora dieci minuti circa al suono della campanella di inizio giornata – si voltò alla propria destra e scoprì un grande ombrello porto nella propria direzione come un invito ad afferrarlo e a ripararsi dalle lacrime del cielo.
Guardò l’occhio azzurro che la scrutava teneramente e si sforzò di non storcere la bocca.
«Non mi serve, grazie. Ormai sono arrivata.»
E lui, come al solito, ebbe la risposta pronta: «Permettimi di accompagnarti fino all’interno. Questo tratto è scivoloso da bagnato, non vorrei tu ti facessi male.»
Nami si domandò come diamine facesse Sanji a essere così gentile anche quando ce l’aveva a morte con lui o quando semplicemente non le andava di vederlo. Tenne per sé quel dubbio esistenziale e annuì, dandogli il consenso di farsi più vicino fino a inglobarla nella sua area protetta; iniziò a scortarla verso l’interno dell’edificio, percependo quell’entrata sempre più vicina, quella salvezza sempre più tangibile. Nessuno dei due aprì bocca durante la passeggiata lenta e lei se ne stupì parecchio: perché quel ragazzo, che sempre trovava un modo per torturarla con i suoi discorsi senza senso, si era ammutolito? Cosa gli era successo?
Ignorando il motivo per il quale si stesse arrovellando così tanto, fu lei a proporre un argomento di discussione: «Che hai fatto ai capelli?», domandò alludendo all’acconciatura di lui, che s’era spostato la lunga frangia a coprire l’occhio sinistro, ‘ché solitamente oscurava quello destro.
Sanji la guardò di sbieco senza un’espressione ben definita – era a metà tra l’onesta felicità per l’interesse e la cortesia di circostanza. «Pensavo che di tanto in tanto fa bene cambiare.»
Una risposta senza esaltazione, ecco come le era sembrata quella frase. «Ma ti pettinavi così anni fa. Ti mancava quella piega?»
Lui forzò palesemente una risata. «Diciamo di sì. Stamattina ero nostalgico.»
Non se n’era uscito con un monosillabo! Che la conversazione potesse andare avanti come i loro passi sui sanpietrini bagnati?
«Non vorrai mica che mi tagliassi di nuovo i capelli, vero?», chiese con ironia e sarcasmo la ragazza, come a volerlo stuzzicare, imponendogli di chiamarla cigno – appellativo che le aveva affibbiato quando si erano conosciuti qualche anno prima, ai tempi in cui lei portava ancora il caschetto e l’onda dei suoi ricci morbidi andava a creare una delicata curva all’insù sul suo collo niveo.
Sanji sorrise ancora, stavolta con un pizzico di sincerità in più. «Non potrei mai.»
Fu allora che udirono un pesante tonfo e una voce lamentarsi del dolore provocato dalla caduta o, per meglio dire, dalla scivolata. Si voltarono in simultanea per guardarsi alle spalle e scoprirono che era stato Luffy a cadere e, impedito com’era a trovare il proprio baricentro quando si trovava a contatto con l’acqua e addizionando la suola sempre liscia delle scarpe che solitamente indossava, non riusciva più a rimettersi eretto. Attesero l’avvicinarsi di Ace o Sabo o entrambi, che di solito accompagnavano il minore lungo il tragitto verso la scuola per poi separarsi nei corridoi, ognuno diretto alle proprie aule – tuttavia non giunse nessuno in suo soccorso.
«Andiamo ad aiutarlo», fece Nami con evidente preoccupazione nei confronti dell’amico e Sanji annuì, d’accordo con lei.
Non fecero tuttavia in tempo a fare un passo che una voce femminile ostacolò loro il percorso. «Vinsmoke!»
Scottati forse allo stesso modo, si bloccarono sul posto e tornarono a guardare verso le porte d’entrata e scorsero immediatamente la silhouette di Tashigi avvolta in un candido cappotto rosa confetto – e mai si sarebbero aspettati, dato il suo carattere spesso e volentieri rude, di vederla indossare quel colore; era stretta nei suoi vestiti come a scudarsi dal freddo e le sue sopracciglia aggrottate lasciavano ben intendere l’animo battagliero che le teneva compagnia anche quella mattina piovosa.
«Buongiorno», la salutò il ragazzo chiamato in causa restando tuttavia accanto alla rossa.
«Buongiorno», gli rispose l’occhialuta. Con voce più bassa gli chiese: «Entri?»
«Di già?»
Annuì da dietro lo sciarpone a quadri e in cima ai gradini d’ingresso. «Il prima possibile.»
Nami si ritrovò ancora una volta a porsi delle domande; prima fra tutte vedeva quei due interagire in maniera così naturale e misteriosa, quasi come se stessero parlando una stramba lingua coniata sul momento, come quelle che da bambina inventava per parlare in codice con sua sorella senza farsi comprendere dai genitori – un idioma fatto di scarabocchi e disegni stilizzati, ognuno corrispondente a una precisa lettera dell’alfabeto internazionale.
A malincuore, Sanji dovette togliersi la sigaretta bianca dalle labbra e spegnerla calpestandola con la scarpa; mormorò un tienilo tu, e Nami capì che si stava riferendo all’ombrello solo quando le sue mani si ritrovarono a stringere il manico di legno liscio. Nel giro di pochi attimi si ritrovò da sola sotto quel riparo di tela sottile e impermeabile, osservando la figura nera dell’amico slittare all’interno del plesso scolastico e sparire una volta girato l’angolo.
«Che gli è preso?», domandò all’aria e raggiunse a grandi falcate Luffy, che nel frattempo era riuscito a rimettersi in piedi. Quest’ultimo chiese a sua volta: «A cosa ti riferisci?»
Lei avvicinò l’ombrello all’amico per ripararlo. «A Sanji. Mi è sembrato diverso dalle altre volte.»
Il moro seguì la traiettoria dello sguardo nocciolato di Nami, ma non riuscì a scorgere il soggetto della loro repentina conversazione. «E così ti interessi a Sanji, eh?», le disse con un sorriso a trentadue denti stampato sul volto bagnato.
«Idiota», lo apostrofò la rossa. «Certo che mi interesso a Sanji, è un mio amico. Perché devo sempre passare per quella senza pietà?»
Luffy rise più apertamente. «Rilassati, ti stavo solo prendendo in giro.»
Nami riuscì finalmente a raggiungere l’interno della scuola con a seguito il compagno, così poté chiudere l’ombrello e dare il buongiorno all’aria condizionata calda che aveva abbracciato i suoi vestiti fradici. Tuttavia, nonostante fosse giunta al limite della sopportazione, non corse ad asciugarsi; piuttosto rimase in piedi dinanzi a Tashigi la quale, seppur infreddolita, non aveva ancora abbandonato la propria postazione da guardiana della porta – sicuramente era incollata lì per controllare che nessuno decidesse di marinare le lezioni, o almeno questo fu quello a cui la rossa pensò.
«Immagino tu me lo sappia spiegare.»
L’occhialuta la guardò con un’espressione vagamente confusa. «Di cosa stai parlando?»
Nami puntellò le mani sulla vita femminile e sottile, da perfetta modella di una rivista di moda. «Dov’è andato Sanji?»
L’altra ragazza si diede dell’idiota mentalmente per non afferrato il riferimento precedente, ma tentò di non mostrarlo in pubblico. «Non sai cos’è successo ieri pomeriggio?»
«Ti sembra che lo sappia?», rispose Nami con palese acidità nella voce.
Si aggiustò le lenti rosse sul ponte del naso. «Vinsmoke si è messo di nuovo nei guai.»
«Cosa?!», esclamò Luffy incredulo di aver udito quelle parole. «Che ha fatto?»
Tashigi scosse la testa. «Il professor Borsalino lo ha denunciato al preside per comportamento violento. Sakazuki lo vuole vedere subito, non durante la giornata. Dato che prima ci siamo incontrati, mi ha chiesto di convocarlo immediatamente.» Fece una brevissima pausa per salutare Koby, il quale aveva appena fatto il proprio ingresso nell’atrio. «Non so altro.»
«Bugiarda!», urlò Luffy afferrandola per il colletto del cappotto pesante e sollevandola da terra. «Stai mentendo!»
«Lasciami immediatamente!»
Il moro non le diede ascolto. «Sanji non farebbe del male a una mosca! Non ci credo che ha picchiato qualcuno, non è possibile!»
Koby, il quale si era allontanato di qualche passo, corse indietro per prestare soccorso alla compagna di Comitato. «Monkey, smettila!», disse autoritario e incurante delle gambe tremanti.
«Luffy!», strillò Nami afferrandolo per il giaccone. «Non farle del male! Finirai anche tu nei casini!»
Lui si voltò rabbioso verso l’amica. «E dovrei lasciar perdere?!», sbraitò. «Non ti fa incazzare che Sanji sia nella merda per qualcosa che sicuramente non ha fatto?!»
«Certo che mi fa incazzare!», fece la rossa. «Ma che motivo avrebbe Tashigi per mentirci? Pensaci, Luffy! Non sappiamo cosa sia successo a Sanji, per questo prima di prendercela con qualcuno faremmo meglio a parlare direttamente con lui.»
Il moro spostò più volte lo sguardo dall’amica, a Koby e a Tashigi, che ancora si stava dimenando alla sua presa ferrea con in volto un’espressione infastidita e sofferente. «Hai ragione», decretò infine con voce roca. Liberò l’occhialuta e le disse: «Mi dispiace.»
Aiutata da Koby, lei si aggiustò il cappotto, sbottonandosi il bottone più alto per lasciare libero il collo e favorire la respirazione. «Non ti preoccupare», gli rispose con tono fermo.
Nami gli prese la mano e lo tirò appena per incitarlo a camminare con lei. «Andiamo ad asciugarci. Poi penseremo a cosa fare con quel beota, okay?»
Luffy accennò un sorriso. «Okay.»




***




L’occhio tumefatto bruciava, nascosto dal lungo ciuffo di capelli biondi.
Appena ricevuto il permesso per entrare, il ragazzo aprì la porta e andò a sedersi su una delle due poltroncine presenti davanti alla scrivania del preside, incurante di essere bagnato fradicio dalla testa ai piedi.
Sakazuki lo fissava da dietro le mille scartoffie che aveva da firmare; i muscoli tesi del collo e le sopracciglia aggrottate lo facevano assomigliare a un vulcano pronto a esplodere e a spazzare via tutto. Se avesse potuto avrebbe volentieri fumato un sigaro per sciogliere i nervi, ma avrebbe infervorato i sensori presenti sul soffitto e sarebbe scattato l’allarme antiincendio; l’unico fumo che poteva aspirare era l’odore emanato dai vestiti dello studente, ma sarebbe stato un crimine paragonare quella terribile nicotina al sapore dei suoi cubani che conservava nel taschino della giacca per qualsiasi evenienza.
Soffiò, proprio come se stesse fumando: «Mi è stato riferito che hai aggredito un tuo compagno nel campo da basket, ieri pomeriggio.»
Il ragazzo alzò il mento, impavido. «Sono stato provocato.»
I vestiti rossi del preside parvero andare a fuoco, come a coronare il sentimento di rabbia che gli ribolliva dentro. «È tutto quello che hai da dire, Vinsmoke?»
Anche Sanji strinse i pugni – un modo per darsi un contegno e non peggiorare la propria situazione. «Sì, signore.»
«Non è la prima volta», fece Sakazuki prendendo una penna e cercando dei fogli in un cassetto della scrivania, «che vieni mandato da me per questo motivo. Non sei in una buona posizione.»
Il biondo batté furiosamente un piede a terra in preda a un tic nervoso.
Il preside lesse velocemente il contenuto del documento che si era procurato al fine di accertarsi d’aver afferrato quello della categoria giusta. «Non m’importa di quello che combini nella tua vita, ma non tollero un comportamento simile all’interno di queste mura.» Mise una firma rapida e precisa nell’apposito spazio e gli consegnò il foglio. «Ti consiglio di farti un esame di coscienza a casa tua. Hai una settimana di tempo.»
Sanji prese con sé il comunicato e s’alzò, dirigendosi verso l’uscita della presidenza.
«Vinsmoke.»
A un passo dalla porta, dovette farsi violenza per non mettersi a urlare. Si voltò nuovamente verso l’autorità suprema dell’istituto e rimase in silenzio, come un invito a continuare la frase.
«Alla prossima sei fuori. Chiaro?»
Si morse gli interni guancia per contenere la furia e si sforzò di rispondere: «Sì, signore.»




***




Forse perché non aveva nulla da perdere, forse perché era convinta di poter dare una mano, o forse perché non aveva niente di meglio a cui dedicarsi, Bibi scelse di presentarsi agli allenamenti di pallavolo. La titubanza non aveva ancora abbandonato completamente le fibre del suo corpo infreddolito dalla tuta che stava indossando negli spogliatoi, che avrebbero dovuto esser caldi abbastanza da non rischiare di far prendere un raffreddore a qualcuno, ma il sistema di riscaldamento era piuttosto inutile dinanzi agli spifferi che provenivano dal bagno lì accanto. L’azzurra si domandò se avesse preso una scelta giusta mentre si legava i lunghi capelli in una coda di cavallo, lasciando che i ciuffi più corti le cadessero ai lati del viso. Ripose gli effetti personali nello zaino, che lasciò su una delle panche dello spogliatoio, ed entrò in palestra; la scoprì già in funzione grazie alle figure femminili che stavano facendo stretching a bordo campo, ognuna per conto proprio e senza guardare in faccia le altre.
«Sapevo che saresti venuta.»
La ragazza si voltò per guardare alla propria destra e scoprì l’allenatrice che stava camminando nella sua direzione. «Buon pomeriggio», salutò.
Viola la accolse con un gran sorriso, come se si sentisse sollevata dalla sua presenza. «Sei arrivata giusto in tempo. L’allenamento inizierà tra pochi minuti.» Non le lasciò neanche qualche attimo per guardarsi attorno ‘ché suonò il fischietto, in maniera da richiamare l’attenzione delle altre giocatrici. «Benvenute a tutte», così iniziò il discorso. «Vi ringrazio per aver aderito a quest’importante iniziativa. Siete parte fondamentale della collaborazione tra il nostro liceo e Punk Hazard.»
Bibi si guardava i lacci delle scarpe, le dita delle mani intrecciate dietro la schiena.
«Prima di inaugurare la sessione di allenamento, vorrei che a turno vi presentaste», continuò l’insegnante. «Provenite da anni diversi, perciò non so se vi conoscete già. Reputo che il rapporto umano sia fondamentale per portare a casa il nostro obiettivo. Tengo a precisare una cosa: il nostro scopo non è vincere la partita, bensì divertirci. È per questo motivo che voglio spingere molto sul legame tra ognuna di voi. Forza, comincia tu», fece guardando una delle giocatrici. «Presentati alle tue compagne.»
La ragazza in questione fece un timido passo in avanti e parlò: «Mi chiamo Margaret Kuja. Sono del primo anno.»
Aveva una voce gentile, così Bibi ebbe il coraggio di alzare lo guardo e squadrare silenziosamente le persone che le avrebbero fatto compagnia in campo. Le bastarono pochi secondi per impallidire.
La seconda a presentarsi, difatti, aveva delle fattezze fin troppo conosciute: il suo corpo, sbocciato in tutta la sua femminilità, era ricoperto da una cascata di capelli color pece che facevano a cazzotti con la pelle bianca. «Sono Boa Hancock, del quarto anno», disse con voce adulta. «Piacere di conoscervi.»
“Questa non ci voleva”, pensò l’azzurra mentre si affrettava a puntare gli occhi in direzione della terza ragazza; quest’ultima era magra come un chiodo e possedeva una tonalità di voce opposta a quella profonda di Hancock. «Ciao, ragazze», starnazzò – o almeno, Bibi associò il suo modo di parlare a una papera. «Mi chiamo Perona Horo e sono del terzo anno.»
Accanto a quest’ultima, una giovane dai lunghi capelli verdi si aggiustò un grosso paio di occhiali rotondi sul ponte del naso. «Monet Harpie, quarto anno», disse solo.
L’ultima a parlare fu una ragazza che non aveva mai visto prima d’allora: aveva dei dolci occhi azzurri e un cappello rosso posato su corti capelli color caramello. «Piacere, sono Koala Yukino», fece con un sorriso e un breve inchino. «Sono una nuova studentessa. Mi sono trasferita in questa scuola da pochi giorni. Ah, e sono al quarto anno.»
Seguì un momento di silenzio in cui l’azzurra si sentì sei paia di occhi puntati addosso, che le ricordarono di doversi presentare poiché era giunto il suo turno. Si schiarì la gola: «I-Io sono Nefertari Bibi e frequento il secondo anno.»
La professoressa batté le mani con energia. «Bene!», esclamò. «Adesso cominciamo con un po’ di stretching. Distribuitevi lungo il campo facendo attenzione a non urtarvi tra di voi.»
E mentre correva sul posto a ritmo di un assillante fischietto e sotto il pressante sguardo di una compagna di gioco in particolare, Bibi tornò a domandarsi se quella fosse stata realmente una buona idea.




***




Una persona normale, una volta finito di prendere appunti, avrebbe poggiato la matita a lato della carta, tenendola pronta a un nuovo utilizzo – e invece Franky se l’appoggiò sull’orecchio destro come se fosse stata la stanghetta di un paio di occhiali da vista.
«Così dovrebbe andare», borbottò grattandosi la nuca.
Fece scorrere gli occhi sui fogli da disegno che aveva dinanzi a sé, e il suo sorriso s’allargava man mano che osservava i dettagli che aveva tracciato fino a pochi minuti prima con il suo grafite appuntito. Sparpagliò meglio i fogli sul tavolo in modo da riuscire a guardarli tutti assieme; il lavoro, nel complesso, non era niente male. Si fece i complimenti da solo, spinto dall’alta considerazione che aveva di sé stesso, mentre con il pollice di una mano scorreva i numeri salvati nella rubrica del cellulare alla ricerca di un contatto specifico; appena lo trovò cliccò la cornetta verde apparsa poco sotto come per magia.
«Dimmi, Franky», sentì dire dalla persona che aveva accettato la chiamata.
«Ho finito di disegnare i progetti, fratello.»
«Di già?! Ci hai messo appena due giorni!»
Lui si pettinò il ciuffo di capelli azzurri con le dita della mano libera. «Che ci vuoi fare, amico? Sono un fottuto genio.»
Dall’altro capo si sentì un sospiro. «Sì, sì. E a cosa hai pensato?»
Franky scattò in piedi, alimentato dalla foga del momento e dai litri di bevande energetiche che aveva mandato giù per tutta la giornata. «Prima di tutto, faremo una parete su misura per lo sfondo del primo atto», disse camminando in tondo. «Poi, per la seconda scena, aggiungiamo in più solo qualche oggetto scenografico.»
«Ne sei sicuro?», gli venne chiesto. «Il secondo atto è breve, ma è la parte più importante della storia
«Sta’ tranquillo, nasone», gli rispose. «Dobbiamo concentrare tutta la nostra attenzione sul terzo atto.»
Usopp sospirò nuovamente. «Be’, sì, è la scena che piace a tutti. E per il finale, invece?»
«Mh, a quel punto si torna alla prima scenografia. Mi rompe non poter aggiungere niente di nuovo, dato che tutti gli attori si riuniranno sul palco in quel momento.»
«Effettivamente è un problema», fece il suo interlocutore. «Ricorda che devi avere l’approvazione del professor Paulie.»
«Sono sicuro che l’avrò», rispose Franky sedendosi pesantemente sul letto di camera sua. «Te, invece, a che punto sei?»
Si sentì uno starnuto. «Ehm, sto buttando giù alcuni schizzi per la prima parte dello spettacolo. Credo di riuscire a finire per domani.»
«Tanto non supererai mai i miei. Sono moooolto più super
«Guarda che non è una gara. E poi non siamo gli unici del club di falegnameria a star lavorando per le scenografie del corso di teatro.»
Franky grugnì sonoramente. «Lo sanno tutti che io e te siamo i più capaci, Usopp. Li hai visti, come lavorano? Fanno tenerezza.»
«Sì, effettivamente non so cosa ci facciano lì.» Aggiunse: «Ah, e domani ricordati di portare le viti di cui abbiamo parlato stamattina. Quelle nella scatola si sono volatilizzate.»
«Ci penso io, ci penso io», fece tornando ai suoi progetti illuminati da una forte luce gialla proveniente da una lampada da tavolo. «A domani, fratello.»
Quando Usopp lo salutò a propria volta, Franky riagganciò e abbandonò il cellulare sulla superfice legnosa della scrivania per poter ammirare nuovamente il frutto della sua fervida e matematica immaginazione.
Accarezzò con i polpastrelli le sottili rughe della carta. Proprio in quel momento udì dei rumori in lontananza, ma il suo orecchio era abbastanza allenato da intercettare dei passi veloci e allegri salire su per le scale di casa e poi correre lungo il corridoio; un paio di ciabatte sbatterono e strusciarono sul pavimento piastrellato fino alla sua camera da letto – che il ragazzo aveva precedentemente chiuso per poter disegnare indisturbato –, poi si sentì bussare e una vocina parlare: «Fraaanky, ci sei?»
Lui scosse la testa sorridendo. «Certo che ci sono, Chimney.»
Una bambina di non più di dieci anni fece capolino nella stanza, rivelando un viso paffuto e dei lunghi capelli legati a mo’ di trecce talmente strette da schizzare vero l’alto; sorrideva mostrando i denti sporchi del rossetto con cui spesso si divertiva a colorarsi le labbra piene. «Scendi», gli disse. «È arrivato il fratellone.» Trotterellò indietro e produsse il medesimo rumore di quand’era arrivata.
Il ragazzo guardò allora l’orario sul display del cellulare e, accompagnato dal brontolio del proprio stomaco, decretò fosse finalmente arrivata l’ora di cena. Si pettinò il lungo ciuffo azzurro con il pettine sottile e, un’occhiata allo specchio dopo, abbandonò la camera per dirigersi nel salotto al piano inferiore da cui provenivano molteplici voci. Trattenne un sorriso quando i suoi piccoli occhi incontrarono la figura dell’ospite appena approdato, nonché suo fratello maggiore; aveva sempre avuto un rapporto conflittuale con lui, ma crescendo entrambi avevano imparato a convivere pacificamente – fino a quando, anni prima, il maggiore aveva abbandonato il nido per poter continuare il proprio percorso di formazione presso un’università privata a centinaia di chilometri da casa. Raramente aveva fatto ritorno, se non per qualche visita di cortesia in occasione delle più varie festività, eppure il ragazzone avrebbe potuto riconoscerlo anche a un miglio di lontananza.
«Franky», gli disse con un sorriso di cortesia sulle labbra. «Da quanto tempo.»
Nessuno dei due si era mai mostrato espansivo nei confronti dell’altro, perciò Franky si guardò bene dal dargli delle calorose pacche sulla schiena e sulle spalle, sulle quali si era invece arrampicata la piccola Chimney senza troppe cerimonie.
«Ti trovo bene, Iceburg», rispose poggiando un gomito sul passamano delle scale.
Il maggiore annuì. «Mah, non vi ho ancora presentato la mia ragazza», disse facendo un cenno alla bella donna che lo affiancava, alta quasi quanto lui e magra come un chiodo, avvolta in un elegante completo sobrio. «Lei è Kalifa. Ci siamo incontrati al college.»
Lei fece un lento inchino, e i suoi lunghi capelli biondo cenere scivolarono verso il basso. «È un piacere conoscere voi tutti.»
Una risata sguaiata seguì subito dopo; proveniva dalla larga bocca di un’anziana comodamente vestita: le numerose rughe che le caratterizzavano il volto si stropicciavano a ogni suo singhiozzo e le donavano un’aria calorosamente simpatica. «Benvenuti, benvenuti!», disse, per poi alzare al cielo una bottiglia di vino appena stappata. «Bisogna festeggiare il ritorno del mio caro nipote come si deve», aggiunse quasi come se volesse giustificare la presenza dell’alcolico tra le sue mani callose.
«Nonna», fece Franky, «vacci piano. Ricordi cosa ti ha detto il dottore?»
La vecchia annuì senza modificare la propria espressione e, nel farlo, barcollò. «Certo che me lo ricordo. Non sono mica stupida.»
«Sei malata, nonna?», domandò Iceburg accostandosi a lei.
«Ma no, ma no», rispose la donna anziana. «Ho solo qualche valore sballato, niente di preoccupante.»
Anche Franky si mise al suo fianco al fine di scortarla fino alla tavola, dove Chimney si era già seduta dondolando vivacemente le gambe. «È vero, ma devi comunque smettere di bere così tanto vino.»
Lei poggiò la bottiglia sulla tavola bianca. «Infatti questo ben di Dio non è solo per me. Lo condivido con voi, che siete la mia famiglia. Anche con te, cara», aggiunse rivolgendosi a Kalifa, la quale la ringraziò pacatamente per la generosa offerta.
Le portate della cena furono a dir poco squisite, tanto da venir divorate una dopo l’altra; proprio per questo motivo non volò più di qualche manciata di chiacchiere in aria, riempita solo dal tintinnio delle posate e dall’unica bambina presente, che masticava a bocca aperta e si guardava attorno di continuo, facendo smuovere le sue lunghe trecce disordinate. «Come sei bello, fratellone», disse quest’ultima con un sorriso che le andava da un orecchio all’altro. «Sei andato a una cerimonia, prima?»
Iceburg diede una rapida occhiata alla propria giacca a righe. «No, Chimney», rispose. «Mah, ormai sono abituato a vestirmi in questo modo.»
«Eeh? Sei sempre così elegante?»
«È la prassi per il mio lavoro.»
Franky alzò un sopracciglio. «E che lavoro fai?», domandò con sincera curiosità.
L’altro si tamponò gli angoli della bocca con il proprio tovagliolo, lasciando su di esso piccole tracce della salsa che aveva da poco mangiato. «Sbrigo delle commissioni presso il Comune di Venice.»
«Tesoro», intervenne Kalifa poggiando una mano su quella del fidanzato. «Non esser timido e di’ loro la verità.»
«Mah, non vorrei far la figura del vanitoso.»
«E invece meriteresti solo delle lodi. Glielo dica anche lei, Kokoro.»
L’anziana mandò giù il fondo del bicchiere sporco di vino rosso e rivolse l’ennesimo gran sorriso al primo nipote. «Forza, Iceburg», lo incitò.
Lui si passò una mano tra i capelli viola fissati tra loro grazie a un’abbondante quantità di gel. «Lavoro al Comune di Venice perché ne sono il sindaco.»
La nonna spalancò la bocca mentre Chimney si mise a urlare; anche Franky non poté credere alle proprie orecchie.
«Mi sono candidato alle scorse elezioni e le ho vinte. Mah, è il primo passo per entrare nel grande mondo della politica», spiegò, per poi riprendere a mangiare.
«Propongo un brindisi per festeggiare questo bellissimo traguardo.»
«Nonna!»
La bambina bionda rise allegramente. «Sei grande, fratellone!», esclamò tutta contenta. «E perché hai cambiato il sogno della tua vita?»
Kalifa si voltò in direzione di Iceburg. «Credevo che fosse la politica, il sogno della tua vita. Ne avevi un altro?»
«E lo è», le rispose accennando un sorriso. «Ma quando ero più giovane trascorrevo molto tempo all’officina di Tom, in fondo alla strada.»
«Perché non passi a fargli un saluto?», fece Kokoro. «Sono certa che sarebbe molto contento di rivederti.»
«Senz’altro.»
Franky storse la bocca, i denti digrignati e la mascella contratta. «Ancora non riesco a capire perché diavolo tu te ne sia andato», disse sprezzante – quella storia gli faceva bruciare lo stomaco e non poco anche a distanza di cinque anni. «Eri portato per la falegnameria. Tom aveva una marea di progetti da affidarti per mandare avanti la sua attività, e tu te ne sei fregato. Gli hai voltato le spalle come se non ci fosse stato nulla in gioco.»
Iceburg distolse lo sguardo, sentendosi scomodo in quella conversazione con il fratello minore. «Mah, ho solo seguito la mia strada. Non nascondo di essermi divertito in falegnameria, ma era solo un passatempo per me.»
«Sei stato un egoista!», esclamò Franky scattando in piedi. «Un egoista bastardo!»
«Fratellone», starnazzò Chimney coprendosi le orecchie con le mani, «non si dicono le parolacce!»
«Franky, cerca di capirmi.»
Una vena pompò furiosamente sul suo largo collo. «Cosa dovrei capire? Quel vecchio aveva scommesso tutto su di te! Quando ti sei trasferito, lui…»
Anche Iceburg si alzò e sbatté le mani sulla tavola imbandita. «Quali colpe avrei?», gli domandò retoricamente. «Avrei dovuto congelare il tempo e rimanere fermo allo stesso punto? A respirare la polvere accumulata sulle mensole e a ferirmi le mani con le seghe circolari?»
«Tesoro», lo chiamò Kalifa con preoccupazione.
A sentire la sua voce, l’uomo si calmò e tornò a sedere. «La vita va avanti, Franky», disse con compostezza. «Mah. Cerca di capirlo anche tu.»


















Angoletto degli Easter Egg!!
1.        Le sue dodici fatiche erano giunte alla fine: quelle di Eracle, uno dei celebri eroi della mitologia greca successivamente romanizzata in Ercole.
2.        Imponendogli di chiamarla cigno: non ho nulla da dire se non NAMI-SWAAAAAN—
3.     Impedito com’era […] a contatto con l’acqua: riferimento all’indebolimento causato dall’acqua marina nella serie originale.
4.        Guardiana della porta: sottilissima reference alla battaglia contro Monet, quando la mia amata Copycat è rimasta indietro per proteggere il corpo del G5.
5.        Lo facevano assomigliare a un vulcano pronto a esplodere: perché Cane Rosso questo è.
6.        Comune di Venice: se Water 7 prende spunto da Venezia…










Angoletto dell’Autrice!!
Mentre mi sto occupando dell’editing di questo capitolo, sto sorseggiando l’Ocean Bomb a tema Sanji - e posso dire che fa proprio schifo. Desculpame, mi amor.
Come avete trascorso le feste di Natale? Avete recuperato tutti gli episodi di One Piece? Vi vedo, che siete indietro! Daidaidai che tra pochi giorni approdiamo a Egghead E IO NON VEDO L’ORAAAAAA--
Zoro: Nel prologo ti eri raccomandata di non fare spoiler, e ora nomini Egghead come se nulla fosse?
Maaaaa tantooooo lo sanno tuttƏ che è la prossima isola...
Zoro: Cosa mi aspetto? A te piace il cuoco.
Purtroppo i biondi hanno una grandissima influenza sul mio autocontrollo.
Vi do appuntamento al prossimo capitolo. Piccola anticipazione: ci sarà una scena ZoRobin per i fan di questa ship!

A presto,
-Channy

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Sleeve, Silence and Tears ***


9
Sleeve, Silence and Tears





Accovacciato a terra, prese a controllare se il proprio zaino contenesse tutto il materiale di cui avrebbe avuto bisogno durante quella che si prospettava essere una lunga e faticosa giornata. Ficcò la testa dentro la cartella e frugò tra i quaderni come una talpa intenta a scavare una buca: gli appunti c’erano, così come le matite e le penne di riserva; di lato troneggiava la sua fiera borraccia contenente acqua sempre fresca, mentre dalla parte opposta sbucava lo skateboard nero che non sapeva mai dove parcheggiare durante le lezioni. Ace esultò mentalmente, abbandonò il proprio armadietto e si avviò fischiettando verso la propria aula.
«Come mai così di buon umore?»
Riconobbe la persona che aveva parlato nell’immediato istante in cui udì la voce. Si voltò a salutare Sabo con un gran sorriso e gli disse: «Perché oggi, fratello, è il giorno della mia vittoria.»
Il biondo lo affiancò per camminare insieme a lui, dato che la loro destinazione era la stessa. «Hai vinto la schedina al banco delle scommesse?»
«No, no», rispose Ace. «Oggi prenderò il mio primo voto pieno.»
Sabo parve riflettere su quelle parole, alla ricerca del nesso logico che le univa; poi ricordò. «Aah, oggi c’è il test di fisica!», fece battendo un pugno sulla mano aperta. «E tu vorresti dirmi che hai studiato?»
«Certo», rispose il moro con un sorriso smagliante. «Ho studiato il modo per copiare tutte le risposte senza essere scoperto.»
«Ah, ecco, mi sembrava strano.»
Raggiunsero in fretta l’aula e presero posto l’uno accanto all’altro; Ace si adoperò subito per mettere in atto il suo piano, incurante degli sguardi curiosi dei suoi compagni di corso. «Hai presente quando si dice un asso nella manica?», chiese al biondo armeggiando con una manciata di bigliettini contenenti scritte microscopiche. «Mi basterà attaccarli all’avanbraccio con dello scotch. Il prof non se ne accorgerà mai.»
«Non per rovinare i tuoi piani per conquistare il mondo», fece Sabo ridacchiando, «ma non credi che si possa insospettire vedendoti con le braccia scoperte il ventisette novembre?»
Il moro staccò un pezzo di nastro adesivo con l’ausilio dei denti e posizionò il primo biglietto sul proprio polso sinistro. «Ma no, ti assicuro che Issho non mi vedrà neanche!»
«Se lo dici tu…»
«Inoltre», continuò Ace, «tu potresti passarmi qualche risposta visto che sei qui.»
«Non ci penso nemmeno.»
«E perché?»
Il biondo sfogliò alcune pagine del proprio manuale di fisica, intenzionato a ripetere gli ultimi concetti prima del suono della campanella. «Perché non mi voglio rovinare la media, mi sembra logico.»
Ace roteò gli occhi al cielo. Lo scimmiottò con una smorfia: «Logico, logico…»
«È tutto quello che so.»
«Ripeti sempre le stesse cose», lo canzonò l’altro. «Non fai altro che stare sui libri, sembri un matto. Anzi, lo sei.»
Sabo sospirò poggiando il mento su una mano, il gomito coperto da un maglione blu puntellato sulla superficie legnosa del banchetto. «Lo sai che i miei tengono molto alla mia formazione. È già tanto che mi abbiano permesso di frequentare un liceo pubblico per stare con te e Luffy, altrimenti mi avrebbero rinchiuso volentieri in un carcere per geni.» Guardò fuori dalla finestra e i suoi occhi catturarono il volo sbarazzino di un uccello diretto al proprio nido, costruito con della pagliuzza incastrata tra i rami di un albero ormai spoglio. «Ma anch’io considero lo studio una cosa importante. Voglio costruirmi un futuro solido.»
Ace incrociò le braccia al petto. «Potrai inseguire i tuoi sogni una volta uscito di qui», disse imbronciato e dondolandosi sulla sedia. «I tuoi ti hanno già iscritto al college, no? Quest’ultimo anno è la tua occasione per divertirti e goderti la vita senza alcun rimpianto. Perché non ci arrivi?»
«E chi ti dice che non mi stia già divertendo?», fece il biondo con un sorrisetto in volto. «Bighellonare con te e gli altri nei corridoi durante le lezioni mi fa sentire un vero ribelle.»
«Ma ti senti?! Solo un secchione come te potrebbe usare la parola bighellonare durante una chiacchierata con suo fratello», lo canzonò Ace trattenendo una risata.
L’altro non fece in tempo a rispondere che la campanella trillò nelle orecchie dell’intera popolazione studentesca, mettendo fine al breve intervallo per il cambio dell’ora e annunciando l’imminente inizio della verifica. Ace si strofinò le mani e nascose nel proprio zaino le prove del crimine appena compiuto, lasciando sul banco solo una Bic nera col tappo morsicato molteplici volte.
Tuttavia la soglia della porta della classe venne varcata da un individuo che affatto somigliava al docente che avrebbe dovuto presenziare durante quell’ora; la figura di quell’uomo era resa sgargiante grazie alla vivace camicia a fiori che sbucava allegramente da sotto una giacca più sobria. Ace lo riconobbe immediatamente e si chiese cosa ci facesse lì, in piedi accanto alla cattedra dell’aula. Come se gli avesse letto nel pensiero – o forse perché era la prassi per giustificare la propria presenza tra quelle mura – l’uomo, accompagnato dal silenzio generale che si era venuto a creare tra gli studenti, disse: «Il vostro docente di fisica è assente per malattia.»
Un urlo di esultanza si elevò in aria, ma fu un’azione sconsiderata e prematura.
«Tuttavia», continuò con un sorriso cordiale in volto, e le voci cessarono nuovamente di farsi udire, «io insegno la stessa materia. Il test di oggi si svolgerà come da programma.» Ignorò poi la somma delusione che si era sollevata tra gli alunni e distribuì i fogli a ciascun ragazzo. «Avete un’ora di tempo. Per qualsiasi dubbio potrete rivolgervi a me.»
Ace si sporse verso Sabo e sussurrò: «Che cazzo ci fa Fenice qua?»
«E lo chiedi a me?»
«E a chi dovrei chiederlo?! Questo non è mezzo cieco come Issho! Mia madre mi vuole tagliare i viveri!»
«Senti», fece il biondo scrivendo il proprio nome sul foglio, «non puoi scappare né correndo fuori dalla porta né tantomeno saltando giù dalla finestra. Tanto vale che provi a fare il compito.»
«Sabo, se prendo meno di B sono fottuto!»
«C’è qualche problema?»
Ace sentì il sangue nelle vene congelarsi; vide Sabo avere la medesima reazione, ma fu più furbo poiché incollò la faccia sulla verifica che aveva dinanzi a sé. Voltò lentamente il capo si trovò faccia a faccia con Marco, il quale lo fissava dall’alto con aria a metà tra il rimproverante e il curioso; aveva le braccia incrociate al petto e un ciuffo di capelli biondi che gli ricadeva ribelle sulla fronte, e in qualche modo Ace si sentì avvampare: gli faceva uno strano effetto essere osservato in quella maniera, da quegli occhi così piccoli da rendere impossibile scoprire il colore delle iridi.
Si ricordò improvvisamente di dover rispondere; deglutì. «No, professore.»
Il docente studiò la postazione dello studente con sospetto e sorrise con una vaga soddisfazione quando intravide qualcosa di severamente vietato. «Posso chiederti per quale motivo, allora, ti stavi agitando fino a un attimo fa?»
«Perché», temporeggiò – ma cosa gli stava succedendo? «non mi aspettavo che il professor Issho fosse malato. Solitamente è un vecchietto molto arzillo.»
«Capisco», rispose Marco. «E considerando i suoi problemi di vista hai creduto di passare inosservato con quei bigliettini.»
«Già… No, un attimo! Non ho dei bigliettini!», urlò scattando in piedi ma, così facendo, lo scotch che aveva utilizzato in precedenza si allentò; di conseguenza dai suoi vestiti larghi volarono via dei piccoli fogli di carta bianca.
L’insegnante allargò il sorriso, che quasi pareva una smorfia di puro divertimento. «Davvero?»
Sabo si sbatté una mano sulla fronte, dando mentalmente dell’idiota al fratello, mentre quest’ultimo continuava a osservare i biglietti danzare per aria poiché troppo leggeri per crollare sul pavimento a peso morto.
«Ragazzi», fece Marco rivolgendosi alla restante parte della classe, la quale stava osservando la scena con incredulità, «potete continuare a svolgere il vostro test. Con te, invece», disse tornando a guardare Ace, «vorrei fare due chiacchiere in privato. Ti aspetto in sala professori dopo le lezioni.»
Il motivo non seppe spiegarselo, ma quell’ordine, ad Ace, non dispiacque affatto.




***




Duecentoquarantasette, duecentoquarantotto, duecentoquarantanove, duecentocinquanta.
A contare sapeva contare, eppure Zoro aveva la vaga sensazione di star andando nella direzione sbagliata: ricordava che la sua meta si trovava vicino all’armadietto numero duecentouno ma, da quando aveva abbandonato la lezione di storia per tuffarsi nel corridoio, non aveva scorto quelle cifre neanche una volta – doveva sicuramente trattarsi di un deficiente che si era divertito a cambiare le targhette dei piccoli ripostigli in ferro, dato che quella strada la faceva tutti i giorni. E poi, quando erano stati appesi quei cartelloni colorati di azzurro e giallo? Era sicuro che la mattina prima non ci fossero, così come l’aula di inglese la ricordava accanto alle scale.
«Ma guarda chi si vede.»
Mantenendo le mani nelle tasche dei pantaloni felpati, il ragazzo arrestò la camminata svogliata e puntò gli occhi in quelli azzurri di Robin, che stava poggiata contro una parete spoglia a braccia conserte, il suo solito sorrisetto indecifrabile a coronarle il volto pulito.
«Hey», la salutò mantenendo un’espressione annoiata e a tratti imbronciata.
«Stai cercando qualcuno?»
Zoro fece spallucce. «Sto andando a pisciare.»
Lei ridacchiò coprendosi la bocca con le unghie smaltate di nero.
«Che cazzo ridi?»
«I bagni», gli disse senza smettere di divertirsi, «sono da tutt’altra parte.»
Il ragazzo si grattò la nuca guardandosi attorno – ora tutti i tasselli del puzzle sembravano essere tornati ai propri posti. Sentire la risata dell’amica lo faceva sentire in imbarazzo, sentimento che odiava profondamente, pertanto si affrettò a cambiare discorso: «Tu che stai facendo qua impalata?»
Il riso di Robin si placò, ma lei non smise d’esser allegra. «Sto indagando.»
Zoro storse la bocca – detestava quando lei si comportava in quella maniera così misteriosa. «Sinceramente non ci tengo a sapere su che cosa.»
«Invece credo che ti possa interessare.»
Alzò un sopracciglio. «Eh?»
Robin si mise un dito sulle labbra, facendogli cenno di non parlare; fu allora che il ragazzo si accostò a lei, silenzioso come un’ombra, per sbirciare con gli occhi e con le orecchie nella porta che stava lì accanto. “L’ufficio di Spandman?”, si domandò con curiosità e sospetto; la prima figura che riuscì a scorgere fu proprio quella del vicepreside – non fu complicato, dato che quell’uomo era solito urlare e dimenarsi come un ossesso a ogni problema –, per poi concentrarsi sulle due persone che, sedute sulle poltrone della stanza, davano le spalle alla porta: nonostante ciò, riuscì a riconoscere immediatamente Smoker e Hina.
«Credevo che foste i migliori in circolazione!», sbraitò Spandman. «Ecco perché vi ho lasciato campo libero!»
Con il capo leggermente chinato in avanti, a rispondergli fu la ragazza: «Hina e Smoker sono dispiaciuti, signore. Hina la prega di accettare le loro scuse.»
«Ma quali scuse e scuse! La vostra incapacità non servirà a riparare i danni!»
«Hina e Smoker ne sono perfettamente consapevoli.»
«E piantala di parlare in terza persona! Mi fai solo infuriare di più!»
Fu il turno del rappresentante d’istituto di parlare: «Lei ha ragione, vicepreside, noi siamo i migliori in circolazione. È per questo motivo che non ha necessità di scaldarsi in questo modo.»
Spandman fece crollare due pugni sulla scrivania, per poi lanciarsi col busto in avanti per fissarlo meglio negli occhi. «Certo che ne hai di fegato, ragazzo. Osi parlare in questa spregevole e arrogante maniera a un’autorità del mio calibro!» Tornò a sedersi compostamente, rosso in viso per essersi sgolato. «Ricordatemi come è nata questa faccenda.»
«Ci è giunta una voce di corridoio…»
«Voce di corridoio, voce di corridoio!», tornò a urlare. «Ogni volta che succede qualcosa in questo istituto è sempre colpa di una voce di corridoio! Non vi sembra assurdo?!»
Sia Zoro che Robin riuscirono a captare l’immenso nervosismo di Smoker che, chissà come, stava riuscendo a mantenere la calma e a non esplodere. «È per questo motivo che abbiamo indagato a lungo.»
Il vicepreside sospirò pesantemente. «È trascorso un mese dall’inizio di questa storia e voi due più i vostri aiutanti, o come si chiamano, non siete riusciti a dimostrarmi nulla.» Bevve un sorso di caffè dalla tazzina che stava lì di fianco, ma si scottò la lingua e imprecò: «Accidenti!» Alitò sui visi dei due studenti, immobili come statue di marmo, per poter rinfrescare la cavità orale. Poi si ricompose e disse: «Avete sollevato un polverone per niente. Non avete prove, non avete colpevoli, solo sospetti che non valgono il becco d’un quattrino. Ne siete consapevoli, almeno?»
«Sì, signore.»
«Bene», decretò Spandman trafficando con dei documenti sparsi per la scrivania. «La questione è ufficialmente archiviata. Non mi venite più a parlare né di feste segrete né tantomeno di trofei! Ho già spedito i più danneggiati da uno specialista che li rimetterà in sesto. Sono stato chiaro?!»
Non diede loro il tempo di rispondere ‘ché si alzò dalla propria poltrona e, a grandi falcate pesanti come passi di un elefante inferocito, uscì dall’ufficio per dirigersi verso un luogo ignoto; era così agitato che non si accorse di essere passato accanto ai due intrusi, i quali restarono attaccati al muro per continuare a sentire ciò che i membri del Comitato studentesco avevano da dirsi.
«Cazzo, ho finito i sigari.»
«Non vorrai mica fumare qui dentro?»
«Quello che mi fa imbestialire», disse Smoker a denti stretti, «è che sono costretto ad arrendermi così. Dammi pure del pazzo e del rompicoglioni, ma questa storia non mi va ancora giù.»
«Sei un pazzo e un rompicoglioni», fece la ragazza dai capelli rosa. «E lascia che Hina te lo dica, ti fidi troppo.»
Lui grugnì, tenendo incollate le braccia conserte al petto. «Tashigi può essere imbranata e certe volte svampita, ma prende molto sul serio quello che fa. Non credo che si sia inventata tutto. A che scopo, poi?»
«Magari ha sentito una cosa per un’altra.»
«Nah. Non sembra, ma è riflessiva. Oltretutto, Hina, ricorda quello che hai trovato.»
Zoro e Robin si guardarono reciprocamente, allarmati: erano sicuri di aver pulito tutto prima di abbandonare l’edificio scolastico la notte dell’illegalità, quindi a cosa si stavano riferendo quei due?
La fumatrice distese le labbra colorate di ciliegio in un sorriso ed estrasse dal taschino della propria giacca rossa un piccolo pendente con una perla color acquamarina. «Potrebbe appartenere a un intruso o all’addetta alla videosorveglianza licenziata l’anno scorso. Chissà?»
Smoker si alzò finalmente dalla poltroncina. «Non separartene mai. Potrebbe essere importante.»
«Allora non hai intenzione di mollare?»
Lui la fissò dall’alto. «Per quanto mi faccia incazzare, devo seguire gli ordini di quello stronzo di un vicepreside», disse distogliendo lo sguardo. «Ci sono tanti altri problemi in questa scuola ed è giusto che me ne occupi. Ma la mia mente non dimentica le cose tanto facilmente.»
Suonava molto come un avvertimento, ma sia Robin che Zoro si sentirono liberi di tirare un sospiro di sollievo. Camminarono velocemente per allontanarsi da quella zona, in modo da non farsi scoprire dal rappresentante degli studenti e, nel mentre, la corvina estrasse il cellulare dallo zaino a tracolla.
«A giudicare dalla tua faccia», fece il ragazzo, «sai a chi appartiene quell’orecchino.»
Robin mosse rapidamente i pollici sullo schermo del telefono e rispose: «Sì, è di Nami. Mi ha detto di averlo perso la sera della festa.»
«È sempre colpa di quella mocciosa.»
Lei non staccò gli occhi dallo smartphone. «Non ti crucciare. Basta avvertirla e quel gioiello diventerà un orfano. Peccato, è così bello.»
Zoro sbuffò sonoramente. «Voi donne siete superficiali.»
La ragazza ridacchiò, riponendo il proprio cellulare nella borsa. «Lasciamo perdere gli stereotipi che voi uomini ci avete affibiato. È un ottimo giorno per noi. Dobbiamo andare subito a dare la bella notizia agli altri.»
«Vacci tu», le disse lui. «Io devo ancora trovare il cesso.»
«Sinceramente non me l’aspettavo.»
Zoro trasalì. «Piantala, non mi sono perso! Volevo dire che…»
Robin rise ancora e si arrestò accanto al proprio armadietto. «Non intendevo questo», gli fece inserendo la combinazione e aprendo lo sportello. «La ragazza di Smoker è rimasta in silenzio. Non me lo sarei aspettato, dato il suo senso del dovere.»
A quel punto il ragazzo avrebbe potuto esprimersi in quattro modi: avrebbe potuto gioire, innanzitutto, nel sapere che finalmente avrebbe potuto lasciarsi alle spalle quella storia dell’orrore durata fin troppo; avrebbe potuto fare il vago e restare sulle sue, commentando che era sempre stato certo di passarla liscia; avrebbe potuto fare spallucce e andarsene, come era solito comportarsi, dato che la sua vescica gli stava implorando di raggiungere un orinatoio al più presto; avrebbe anche potuto mostrarsi appena preoccupato per le scoccianti intenzioni di Smoker, ricordando all’amica che il pericolo sarebbe rimasto sempre in agguato. E invece tutto ciò che riuscì a formulare fu: «La quattrocchi e quel tossicodipendente stanno insieme?»
Robin posò un libro su uno scaffale di ferro e ne recuperò un altro, che le sarebbe tornato utile per il corso avanzato di storia al quale si era iscritta con entusiasmo. «Potrebbe essere. Lei lo segue ovunque e gli obbedisce come un soldatino. E come hai potuto sentire poco fa, anche lui sembra preoccuparsi per lei.» Gli rivolse l’ennesimo dei suoi sorrisi enigmatici. «La cosa ti infastidisce?»
Infilò il mignolo della mano sinistra nell’orecchio per grattarselo, mentre si allontanava svogliatamente. «Ma che cazzo me ne frega.»




***




«Okay, ancora una volta e ci siamo.»
Avrebbe tanto voluto ripetere quelle nozioni ad alta voce, ma sapeva che avrebbe solamente disturbato gli altri studenti rinchiusi in quell’aula studio, l’unica in tutto l’istituto in cui la gente rispettava lo scopo al quale era stata adibita. Il silenzio era fatto di bisbigli e borbottii appena udibili, di fruscii di pagine voltate, dello sfregare delle matite consumate sui quaderni, dei sospiri tristemente rassegnati, dei rumori ovattati provenienti dal corridoio e delle chiacchiere sussurrate per non risultare come un trombone orchestrale in una spoglia galleria scavata in una vecchia montagna.
Il volume del Codice Penale pesava sul tavolo e nella mente, ma il suo scopo la costringeva a ricordare a memoria ogni singola parola riportata su quell’alto libro; davanti a sé non vi era l’ombra di appunti o post-it sgargianti: il suo studio era fatto di scritte nere e sottolineature della medesima colorazione.
«Ti disturbo?»
Tashigi alzò gli occhi e l’articolo numero centoottantatre sparì dalla sua vista, scoppiando come una bolla di sapone; la silhouette di Nami risultava essere più slanciata del solito grazie agli stivali col tacco che aveva deciso di indossare quella mattina, donandole un’aria adulta rispetto a quella da eterna adolescente sbarazzina che la caratterizzava solitamente.
«No, accomodati pure», le rispose indicando la sedia accanto alla propria.
La rossa si sistemò, estraendo dalla propria borsa un manuale di geometria analitica, un quaderno a quadretti e il necessario per poter scrivere. «Sembra complicato», le disse alludendo al libro della facoltà di giurisprudenza.
L’occhialuta annuì piano. «È per questo che lo studio con un anno d’anticipo.» Si sentì in dovere di dire altro per non lasciare che un velo di imbarazzo si stendesse su di loro. «Anche tu ti prepari per il test d’ammissione?»
Nami sorrise. «Già. Devo impegnarmi al massimo per riuscire a entrare.»
«Farai matematica quindi?»
«Economia, nello specifico.» Ridacchiò. «Mi piacciono i soldi.»
Quella confidenza tanto onesta e schietta fece stupire Tashigi, la quale si costrinse a soffocare un sorriso spontaneo.
Rimasero tranquille per un paio di minuti, fino a quando Nami non prese nuovamente la parola. «Volevo chiederti scusa da parte di Luffy», fece picchiettando una penna sulla carta. «L’altro giorno ti ha trattata molto male e, be’, neanch’io sono stata esattamente un angelo nei tuoi confronti.»
L’altra continuò la propria lettura. «Ormai è acqua passata.»
«Ma è giusto mettere le cose in chiaro», insistette la rossa, «altrimenti qui finiremo tutti con l’odiarci a vicenda. Io non voglio questo, e immagino neanche tu.»
Tashigi guardò gli occhi nocciolati della ragazza. “Diventa intima con qualcuno di loro e riferiscimi quello che combinano”, le aveva detto Smoker qualche settimana prima, ma lei non aveva avuto il coraggio di sforzarsi affinché il suo desiderio venisse esaudito; si sentiva una vigliacca nel pensare di dover agire in quella maniera e, essendo onesta con sé stessa, da quando aveva saputo che il vicepreside aveva gettato nel dimenticatoio la storia della festa di Halloween, non sapeva neanche più se quell’incarico avesse ancora validità o meno. Sarebbe stato meglio allontanarsi, tornare alle posizioni iniziali, quando lei passava le giornate tra le scartoffie del Comitato e i membri di quello strano e rumoroso gruppo la ignoravano come se avesse la peste.
Avere Nami di fianco, in quel momento, non contribuì affatto a trovare una soluzione al suo dilemma e alle sue preoccupazioni. «Già», riuscì a balbettare. «Neanch’io.»
«Bene», fece la rossa chiudendo di scatto il proprio libro. «Allora, per cominciare, vorrei spiegarti una cosa.»
Comprendendo che sarebbe stato un discorso lungo, Tashigi mise un segnalibro tra le pagine del manuale del Codice Penale e lo chiuse con delicatezza.
«Immagino tu abbia avuto modo di osservarci da quando le nostre strade si sono incrociate», iniziò Nami. «Avrai sicuramente notato che nessuno di noi ti ha trattata male né considerata diversa. Be’, a eccezione di Zoro, ma lui è un caso a parte. Fidati, si comporta male con chiunque. Non è cattivo, ha solo un carattere un po’ burbero.»
L’occhialuta aggrottò le sopracciglia, ma decise di non commentare.
La rossa continuò: «Usopp e Chopper saranno stati strani nei tuoi confronti, ma anche loro sono schivi di natura. Non credi di dover abbandonare i tuoi pregiudizi e ammettere che siamo brave persone?»
«Potrei farlo», le rispose, «ma hai visto anche tu cosa è successo con Vinsmoke. Una settimana di sospensione a causa dei suoi modi bruschi.»
«E tu ci credi pure?»
«Eh?»
«Dico, credi seriamente che Sanji abbia potuto fare una cosa del genere?», le domandò Nami, i pugni chiusi e la rabbia in volto. «Ma l’hai visto? Quell’idiota è frivolo, allegro e maledettamente gentile, non farebbe del male a una mosca!», urlò, incurante di attirare su di sé l’attenzione di tutti gli studenti presenti nell’aula. «Conosci i suoi fratelli, immagino.»
Tashigi annuì, senza lasciarsi intimorire dal cambiamento di tono.
«Sono degli stronzi, anzi, gli stronzi più stronzi mai esistiti. Non conosco nessuno peggiore di loro. Non so molto sull’argomento, ma a quanto pare tutta la famiglia Vinsmoke è fatta così. Ma Sanji è diverso», fece abbassando nuovamente la voce. «Detesta dover condividere con loro quel cognome proprio perché sa di essere capitato in una famiglia moralmente molto triste. Per questo motivo, ti pregherei di non rivolgerti più a lui chiamandolo per cognome. Lui è Sanji e basta, okay?»
Tashigi rimase in silenzio e Nami sospirò, abbassando lo sguardo. «Ha avuto un’accesa discussione con i suoi gemelli. Non ci ha visto più e ha colpito Niji. Il professor Borsalino se n’è accorto e per questo lo ha fatto convocare dal preside il giorno dopo. Quando abbiamo saputo della sua sospensione, io e gli altri abbiamo provato a parlargli. Sai cosa ci ha detto?» Dalla sua bocca uscì una risata amara e forzata. «Che ha litigato con un professore a causa di un voto basso immeritato. Lì per lì ci abbiamo creduto, ma poi Sabo ed Ace ci hanno raccontato la verità, dato che erano presenti anche loro al momento del litigio. Capisci ora?»
Tashigi si torturò le dita delle mani aggrovigliandole tra loro. «Vi ha mentito», constatò.
Nami annuì piano. «Già, e non è neanche la prima volta che lo fa. Lui è fatto così, non condivide i suoi problemi con gli amici perché non vuole pesare a nessuno. L’altra mattina, quando ci siamo scontrati, aveva la piega dall’altro lato della testa. Credo che volesse nascondere un occhio nero», aggiunse sottovoce, come se facesse fatica a visualizzare nella propria mente quello scenario fisicamente doloroso. Poi schiuse nuovamente le labbra lucide di gloss: «Solitamente né a me né ai miei compagni interessa il giudizio altrui.» Sospirò. «Ma siamo legati a te da un segreto. Cerchiamo di andare d’accordo.»
L’occhialuta rimase congelata sulla propria sedia, fissando il tavolo davanti a sé alla ricerca di qualcosa da dire – ma il silenzio fu la scelta migliore.




***




Con un rumoroso scatto veloce, il metro si richiuse come una lumaca rintanata nel proprio guscio.
«Quattro metri!»
A quell’esclamazione seguì lo scribacchiare di una matita su un block-notes, poi un pollice alzato a confermare di aver acquisito quell’informazione. «Poi?»
Il metro giallo venne aperto nuovamente e puntato in un’altra direzione. «In lunghezza siamo a undici metri e mezzo. Arrotonda a dodici.»
«Ricevuto.»
Luffy guardava la scena con gli occhi che gli brillavano, seduto a gambe penzoloni sul palco del teatro della scuola. «Siete una squadra mitica, voi due», disse tutto contento, un sorriso a trentadue denti a illuminargli il volto giovane.
Usopp si strofinò un dito indice sotto le narici. «Be’, sì, facciamo del nostro meglio», rispose con finta modestia e trattenendo a stento una risata ricca di soddisfazione.
Franky, invece, non parlò e continuò a prendere le misure di una parte del palcoscenico, mettendo di tanto in tanto dello scotch colorato a terra come punto di riferimento.
«Tutto bene, amico?»
L’azzurro sollevò finalmente lo sguardo verso i due compagni, i quali lo stavano guardando con aria incuriosita e vagamente preoccupata; notare i sentimenti altrui non era troppo nelle loro corde, eppure quella nuvola di malumore si sarebbe potuta scorgere da miglia e miglia di distanza. «Mh», rispose solo. «Nasone, segna la profondità. Due metri e sette.»
«E no!», fece il riccio abbandonando i propri appunti. «Prima sputi il rospo e poi riprendiamo la nostra attività.»
«Cos’è, vuoi litigare?», fece Franky avvicinandosi pericolosamente a lui.
Usopp deglutì e agitò le mani davanti al viso. «No, no, niente affatto.»
Anche Luffy intervenne, alzandosi da terra per avvicinarsi ai due. «Coraggio, amico, dicci cos’hai.»
Un tempo probabilmente Franky gli avrebbe mollato un pugno in pieno viso, fracassandogli il naso e facendolo volare via con l’impatto della botta – ma non era più il delinquente di allora. Per questo motivo si sciolse in una pozzanghera di lacrime, crollando in ginocchio e singhiozzando animatamente, nonostante tentasse di soffocare i lamenti nel grosso avambraccio tatuato. «Sono un buono a nulla!», piagnucolò ad alta voce, battendo le mani a terra per scaricare la tensione.
I due amici si guardarono a vicenda, sconvolti da quel repentino cambiamento d’umore. «Che cosa è successo?»
Franky ispirò rumorosamente per far rientrare una goccia di muco nella narice dalla quale aveva fatto capolino. «Quell’ingrato di Iceburg ha ragione! Dovrei smetterla di avercela con lui!»
Usopp gli posò una mano sulla spalla nel tentativo di farlo calmare. «Iceburg? Vuoi dire tuo fratello? Avete litigato?»
Il disperato annuì forte. «Non riesco ancora ad accettare il fatto che abbia lasciato Tom da solo», disse con più calma e scandendo bene le parole in maniera da farsi capire dagli altri due. «Io ero ancora un marmocchio e ho faticato molto per arrivare al suo livello. Sentivo il peso dell’officina sulle spalle, ma non volevo mollare. Amavo lavorare con Tom, amo farlo tutt’oggi.»
Luffy si accovacciò in modo da raggiungere l’altezza del compagno. Serio e composto, rimase ad ascoltare ciò che aveva da dire.
«Ho impiegato anni per diventare un bravo falegname», continuò. «Quando non ero ancora all’altezza, è stato Tom a fare i lavori più pesanti. Lui è un genio, è il carpentiere più bravo che sia mai esistito. Ma è anche vecchio. Quando Iceburg se n’è andato, è invecchiato tutto d’un colpo e io…» Non riuscì a completare la frase poiché i singhiozzi si fecero molto più forti. «Ma non posso arrabbiarmi con Iceburg per aver preferito il college all’officina. Lui è sempre stato bravo nello studio e ha sempre ambito a una carriera politica. Dovrei essere contento per lui, ma non riesco a togliermi dalla mente l’immagine di Tom che si accascia a terra. Me lo ricordo come se fosse successo ieri.»
Usopp dovette sforzarsi per trattenere le lacrime, mentre Luffy non fece una piega; semplicemente, gli mise una mano sulla spalla e gli disse: «Però ora sei bravo.»
Franky alzò la testa e lo guardò.
«Non puoi cancellare il passato, questo è vero», continuò. «Ma il futuro è tutto da scrivere. Ci sei tu con lui, e ora più che mai sei in grado di prendertene cura. E poi sono certo che Tom non abbia mai sofferto per la mancanza di tuo fratello. Anzi, sarà stato lui a incitarlo ad andarsene per seguire i suoi sogni.»
Il sorriso di quel vecchio carpentiere si fece largo nella mente di Franky, e ciò bastò a farlo commuovere di più. Accettò dei fazzoletti di carta da Usopp e consumò quasi l’intero pacchetto. Quello sfogo gli fece del bene perché, quando tornò a esser calmo, sentì nel proprio corpo una carica vitale che lo aiutò parecchio nel completare il lavoro iniziato trenta minuti prima; finì di analizzare l’intero perimetro del palcoscenico e confrontò i suoi progetti con quelli realizzati da Usopp, alla ricerca di un compromesso per iniziare la fase di creazione delle scenografie della rappresentazione teatrale natalizia.
Ma ben presto l’opera del corso di falegnameria, trasferitosi momentaneamente nel teatro dell’istituto, venne interrotto dallo scalpiccio di uno studente a loro conosciuto, il quale entrò nella sala con un’aria trafelata e scomposta.
«Ehilà, Chopper!», esclamò Luffy agitando la mano; anche Usopp, accanto a lui, si mostrò molto contento di vederlo.
Il ragazzo di bassa statura non ricambiò il saluto, bensì corse verso di loro con gli occhi fuori dalle orbite. Non diede loro il tempo di chiedergli come mai andasse tanto di fretta, che domandò a bruciapelo: «Sapete dov’è Trafalgar Law?»






Angoletto degli Easter Egg!!
1.    Un asso nella manica: perché Ace si chiama Ace fa riderissimo (che squallore...)
2.    Ti assicuro che Issho non mi vedrà neanche: un'altra delle mie battutone, potrei andare a Colorado.
3.    "Logico, logico...", "È tutto quello che so": PER OGNI DOMANDA COMPONI UN VERSOOO NON SIAMO SOLI IN QUESTO UNIVERSOOOO--
4.    Poggiata contro una parete spoglia a braccia conserte: si tratta di un richiamo al potere del Fleur.
5.    Come passi di un elefante inferocito: riferimento all'arma di quel burlone di Spandman.





Angoletto dell'Autrice!!
Eccomi di ritorno sul grande schermo! Questi mesi sono volati e non ho proprio avuto il tempo di aggiornare, nonostante avessi questo capitolo pronto da un bel po' di tempo... e, be'... tanti altri ;)
Dunque dunque dunque, che succede qui? Seconda interazione Ace-Marco, festa di Halloween finalmente archiviata, pace (fatta?) tra le ragazze e un pianto liberatorio del nostro grande e grosso e tenero Franky - e avete letto il nome finale? Eh sì, anche il chirurgo della morte è presente in questa long. Mica potevo arginare il mio infinito amore per lui in Anyway (che vi consiglio di passare a leggere, se volete farvi un bel piantino)! Lo ritroveremo più avanti... chissà che guaio combinerà! ... magari, dopo Capodanno ;)
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e, in generale, che stiate apprezzando l'intera storia nonostante sia solo all'inizio. Ringrazio tutte le personcine belle che l'hanno inserita tra le preferite, le ricordate e le seguite! Vi mando un abbraccio virtuale e vi sono tanto grata per il sostegno! <3
Prometto di aggiornare presto. Il prossimo capitolo è uno dei miei preferiti ;P

-Channy

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4019928