Velature di un dolore

di Exentia_dream2
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


È difficile dimenticare qualcuno che ti ha dato così tanto da ricordare.

 

I.



 

È lei che non ha più cognizione del tempo — non sa quand'è che il sole tramonta e lascia spazio alla sera — perché, dei colori che prima l'avvolgevano, Mikasa non ne ha più memoria.

La sciarpa che tiene stretta al collo — e l'uccello che becca ogni mattina contro il vetro della finestra — è l'unico oggetto che ancora non ha assunto le tonalità grigiastre di cui il mondo si è vestito: ha una teoria tutta sua, pensa che la vita abbia smesso di essere colorata a causa dell'estinzione dei giganti e, questa volta, la mente degli Ackerman non ha saputo resistere al potere dei titani. Allora perché, si chiede, riesco ancora a vedere il rosso di questa stoffa?

Trascorre giorni interi a strofinarsi gli occhi, a cercare un modo per tornare a vedere i colori, ma è tutto grigio grigio grigio: sono ore infinite, quelle in cui tiene le palpebre calate e si chiude in casa, lascia fuori cielo e terra, perché a cosa serve guardare tutto e non vederlo davvero? L'emicrania ha continuato a tormentarla da quando Eren si è sacrificato — ancora di più — senza remore e batte contro le pareti del cervello come l'uccello che ha ancora i suoi colori batte contro la finestra. Lo so che sei tu, ma ti prego, dammi tregua, lasciami sola per un po'.

Quella mattina, però, i colpi che sente sono dita che bussano alla sua porta.

"C'è una lettera per te" ha detto l'uomo che si è accollato il compito di smistare la posta cha arriva da Marley: ci sono soldati — padri, figli, fratelli — che hanno lasciato l'isola di Paradis per trasferirsi oltre oceano e portare pace tra due terre che si sono conosciute nei secoli precedenti e poi si sono dimenticate.

Mikasa stringe forte la lettera tra le mani, la ceralacca che la chiude non ha colori, ma pensa che almeno foglio e inchiostro siano del colore giusto (bianco e nero, come.ogni cosa su cui posa lo sguardo) e non ha il coraggio di aprirla. Manca poco al quarto anniversario della morte di Eren e sa che, vergate, troverà le parole di conforto di Armin: chiudi con il passato, Mikasa, dai a te stessa la possibilità di essere felice, ti prego. Torneremo presto, te lo prometto, ma tu, per favore, sorridi.

La bocca le si distorce appena e si domanda come sia possibile sorridere se le sue labbra sono sempre state ferme in una linea dritta che trema quando non è più capace di ingoiare le lacrime.

Se avesse avuto la forza di contarle, probabilmente, si sarebbe resa conto di quante fossero poche le volte in cui aveva sorriso. Tre, forse quattro, non di più. 

Mikasa ha smesso di farlo quando la più grande bugia di Eren le si è conficcata nello sterno — ti ho sempre odiata — e l'ha messa di fronte a una verità con cui non hai mai voluto fare i conti: essere schiava degli intrecci del proprio DNA, avere come missione di vita quella di salvare l'unica persona che abbia mai amato (quella che poi ha ucciso, quella che, sul finire, l'ha uccisa).

E ora, che non ha più nessuno da proteggere, Mikasa china il capo e prega un Dio che ha conosciuto da poco, genuflessa di fronte a una tomba di marmo, e si stringe al collo la sciarpa che le ricorda che Eren è vissuto, che l'amore che lei ancora prova non è indirizzato a una furia che ha massacrato donne e bambini. Non solo, almeno.

Quando smette di pregare, incrocia le gambe e poggia la schiena contro il tronco dell'albero che fa ombra alla lapide: ha ancora la lettera di Armin tra le mani e, quando stacca il sigillo, l'uccello che ogni mattina bussa alla finestra le si poggia su una spalla. "Sei curioso?" gli chiede e in risposta riceve una leggera apertura di ali.

Posa gli occhi sulla scrittura ordinata di quello che è diventato il cuscino pronto ad attutire le sue cadute, anche se lei non gli ha mai dato modo di curarla: ha pianto da sola, sofferto nello stesso modo, passando ore a ripulire dal sudiciume una casa diroccata in cui s'è stanziata da quasi quattro anni.

"È l'unico modo che ho per vegliare ancora su di lui" ha confessato ad Armin quando le ha chiesto di seguirlo a Marley. "Non posso andare via."

È ancora ferma sulla prima riga quando l'uccello le becca il lobo dell'orecchio sinistro e la sprona a leggere.

 

Ciao Mikasa, 

vorrei chiederti come stai, ma so che la mia domanda non avrà risposta, come tutte le lettere che ti ho spedito in questi anni.

La missione di pace prosegue e al momento abbiamo stretto patti di alleanza con i paesi che confinano con Marley.

Questo mese torneremo a Paradis per proporre al popolo di Historia la tregua in cambio della verità. 

Non dovrai accollarti la responsabilità delle tue azioni: siamo stati una squadra, lo siamo ancora e sei la mia migliore amica.

Non permetterò agli Jeageristi di farti del male, quindi, ti prego, non cercare di proteggere nessuno: adesso tocca a te essere protetta dalle ali del Corpo di Ricerca.

A presto, amica mia.

 

Sono trascorsi sei giorni da quando Mikasa ha staccato la ceralacca dalla busta che conteneva la lettera, ha tirato le tende e s'è seduta al centro della cucina con le mani poggiate sul tavolo: non è pronta a vederli, a riesumare un passato in cui scava ancora con le unghie senza preoccuparsi di sbeccarle; non è pronta a dire loro la bugia che vogliono sentirsi dire: il dolore è passato, ora sto bene.

Ha la sciarpa stretta attorno al collo che le fa mancare l'aria, ma non la toglie mai e come potrebbe se questo è l'unico modo per sentire ancora le mani di Eren che l'accarezzano?

Lo fa di rimando, passa le dita lungo le trame della stoffa e se l'unico colore che vede è il rosso, allora, è il rosso del sangue che lui le ha versato prima di morire addosso e sulle labbra quando ha baciato una bocca senza più respiri. È per questo, si dice, che tutti gli altri colori sono svaniti: una punizione, una condanna, un monito per ricordare ciò che sono stata capace di fare (ferire, uccidere).

Eren adesso è un rivolo di sangue che le scorre implacabile tra la linea della vita e quella dell'amore che le segmentano la mano, Mikasa si chiede perché, invece di scegliere la salvezza del genere umano non abbia preferito salvare se stessa e quel cuore che adesso è ammasso di detriti che faticano a stare fermi, che franano, a una velocità che lei non riesce a concepire, in uno stomaco maciullato dai sensi di colpa che fanno di lei soltanto un insieme di muscoli e nervi sorretti da uno scheletro vuoto.

La luce che stenta a filtrare dalle tende tirate si spegne fiocamente con l'avanzare della sera e Mikasa socchiude gli occhi, in segno di preghiera al buio, perché adesso finalmente il mondo si spegne e, insieme a lui, i colori che lei non riesce più a vedere.

Il bianco e nero, lei, l'ha conosciuto quando sua madre ha smesso di raccontarle della stagione dei ciliegi e ha aperto le labbra solo per esalare l'ultimo saluto al sapore di addio e di morte, ed è tornato il verde quando ha incontrato gli occhi di chi è diventato assassino a nove anni per saperla viva e vegeta e l'ha accolta come un dono del cielo e le ha riservato i sorrisi più gentili — sbrighiamoci a tornare a casa, la nostra casa, le aveva detto, promettendole riparo dal freddo e dalla crudeltà del mondo esterno — e se ci pensa adesso, si domanda come abbia fatto a credere a quelle parole se Eren stesso è stato causa di una crudeltà inenarrabile che lo ha portato a morire pur di redimere i peccati commessi e quelli ereditati. Scuote la testa e stringe le mani, macchiandosi con il sangue della ferita che si è autoinflitta poco prima: é stata un'assenza breve di colori, quella che l'ha vista bambina orfana un'ora prima e parte di una famiglia l'attimo successivo a quel sì che ha emesso a stento in una nuvola di fumo e freddo, ma ora… ora la brevità del tempo è un concetto che le sembra estraneo e le fa scuotere le membra d'impazienza, spingendola a guardare l'orologio a pendolo che tiene sulla parete di fronte alla cucina, con le lancette che si sono spostate appena e rendendole inconcepibile l'idea che un solo istante, a volte, duri più di un giorno intero quando non si hanno risposte esaustive.

Quando bussano alla porta, Mikasa spalanca gli occhi e s'ingabbia il respiro nei polmoni: nemmeno un fruscio, nemmeno un alito a tradire la sua presenza in quelle quattro mura diroccate che lei chiama casa. La voce di Armin la chiama e lei tace ogni risposta, ferma le frasi sulla punta della lingua e le mastica come tozzi di pane secco: le sbriciola, le trattiene sul palato, ma non dice una parola che sia una.

Il ticchettio contro il legno tiene una compagnia lugubre per un tempo che non sa definire, ma quando cessa, il silenzio le crolla addosso come valanga di neve e le indolenzisce i sensi: da quant'è che non sentiva qualcuno pronunciare il suo nome? Da quanto l'unico rumore che si concedeva di ascoltare era il beccare di quell'uccello che ogni mattina picchietta contro la finestra?

Non lo sa, Mikasa, e non ha cuore per porsi una domanda a cui non sa rispondere. Ha una lista infinita di interrogativi che giacciono sullo sterno e pesano pesano pesano, le schiacciano il petto e la riducono in affanno. 

Si alza, a un certo punto, e si avvicina alla porta poggiando l'orecchio sulla superficie, forse con la speranza che lì fuori ci sia ancora qualcuno per lei o con il desiderio di scoprire di essere rimasta sola. Di nuovo.

Il fruscio degli alberi spogli carezzati dal vento, gli animali notturni che riprendono da dove avevano lasciato la notte precedente, il frinire delle cicale e, abbastanza vicino da coprire tutto il resto, l'eco lontana della mancanza, ma della presenza di Armin non resta che il silenzio di chi si è arreso: Mikasa non ha aperto, non si è affacciata sull'uscio a salutare e, di fronte a una guerra che consuma chi per primo l'ha indotta, non si può far altro che alzare mani e bandiera bianca e mettersi in salvo.

Vorrebbe urlare, chiedere aiuto — prendetevi il mio dolore, vi prego, o fatemelo sopportare da morta — ma resta in silenzio e scivola sul pavimento freddo.

È stata un'arma, nei ranghi del Corpo di Ricerca, letale e precisa e ha sulla coscienza le anime di esseri umani intrappolati nel corpo dei giganti, e guaritrice di corpi e psiche, all'occorrenza, sciorinando parole di conforto di fronte alle perdite subite dai propri compagni, ma per se stessa, Mikasa, ha tenuto solo l'abilità di ferire: guarda le sue ferite mentre s'imputridiscono e non le pulisce mai, come se trovasse un pretesto per avvicinarsi alla morte patendo le pene atroci di un'infezione mai curata, come se non fosse degna di poggiare i piedi sul terreno che le impedisce di sprofondare negli inferi, e solo il pensiero di superare il proprio lutto assorbe le poche forze che le restano e allora lo mette da parte, lo chiude in angolo di cuore insieme all'ennesima domanda senza risposta che le rimbomba nella cassa toracica al ritmo stanco del cuore: come si fa ad andare avanti quando si è vittima e carnefice del proprio dolore?

 

 

I giorni e le notti successive, Mikasa non ha voglia di vedere la porta vibrare sotto i pugni di chi reclama la sua presenza, quindi, con quello che le resta dell'attrezzatura della manovra tridimensionale, si stabilisce su un ramo dell'albero che fa ombra alla tomba di Eren e aspetta con pazienza che il sole tramonti per sentirsi libera di muoversi senza il rischio di incontrare i compagni con cui ha combattuto: li vede uno a uno fare la spola dall'interno delle mura a casa sua e andare via sconsolati, le spalle curve e l'espressione rassegnata. L'unico che insiste e si siede accanto allo stipite consumato è Reiner, che del Gigante Corazzato, adesso è soltanto un flebile riverbero: è dimagrito, senza perdere il tono muscolare, e la leggera barba che gli contorna le mascelle gli conferisce un'aria di maturità che sicuramente ritroverebbe anche nell'animo, se soltanto gli parlasse, ma non ce la fa, non ci riesce e, allora, porta le ginocchia al petto e s'abbraccia da sola in cerca di un calore che non la scalda da tempo immemore o dal lasso di istanti che passa senza che si ferisca — come quando il coltello le scivola dalle mani e lei lo afferra per la lama, come quando si scortica le ginocchia strusciando accanto al chiodo arrugginito che tiene insieme una cassapanca vecchia centinaia di anni, come quando si china a baciare il marmo sotto cui giace Eren e si punge con le spine della rosa che lascia sul terreno.

Quando anche Reiner va via, Mikasa si sofferma a guardare con quanto orgoglio lui attraversi lo spazio che lo separa dalle mura, scivola con lo sguardo lungo la linea dritta della schiena, mai curva sotto il peso della delusione, mai tesa per una rabbia che lui ha imparato a controllare da quand'era ancora un ragazzino e che lei fatica a contenere ora che tutti la definiscono una donna.

La donna che vive oltre le mura, la donna che ha ucciso il ragazzo che ancora la fa piangere, la nemica del Wall Sina, è così che la chiamano gli abitanti di Trost, senza avere alcuna percezione del dolore che la frantuma a ogni nuovo giorno vissuto, quando le uniche sfumature che vede sono quelle del bianco e del nero che le riempiono gli occhi e le ore, violate soltanto dai fili rossi di una sciarpa che è anestetico e dolore insieme, violenta macchia di colore che Mikasa assoccia perennemente al sangue con cui si è sporcata le mani — mai all'amore, mai al proprio cuore che non smette di battere nonostante il fatto che di vivo in lei ci sia poco e niente.

Soltanto quando l'immagine di Reiner diventa un punto sbiadito oltre la breccia che fa da porta ai villaggi che custodisce, e quando il sole è talmente basso da confondersi con l'orizzonte, Mikasa si permette di scendere dal ramo su cui si è nascosta, inginocchiarsi sulla tomba senza nome e baciare il terreno sotto cui Eren dorme il sonno eterno del vinto e del vincitore.

"Sapevo che ti avrei trovata qui, Mikasa" le sussurra una voce che è diventata profonda e decisa, niente a che vedere con il tono tremulo che lei ricorda, eppure l'unica emozione che le esplode dentro è la rabbia, ingenua che non è stata altro a osservare soltanto casa sua e non i dintorni immensi che si estendevano ai suoi piedi.

"È la prima volta che torno qui, lo sai?" le chiede e, quando Mikasa non risponde, Jean si siede di fronte a lei, le spalle rivolte alla lapide e gli occhi fissi in quelli immobili di lei.

Della bocca, lui riesce a scorgere solo il tremore leggero, poi la studia mentre si strofina l'indice sotto al naso e le sorride, in quel modo tutto suo di rendere omaggio a una delle innumerevoli possibilità di sopravvivenza che gli è stata concessa: è sempre stato fortunato, pensa, ad avere la velocità di difesa e di attacco di chi non è ancora pronto a porre fine ai propri giorni e ha pianto perdite che credeva insuperabili, eppure, proprio in memoria di queste, s'è fatto forza e ha ricominciato a respirare a pieni polmoni, a realizzare sogni sigillati in un cassetto insieme alla speranza di superare la soglia dei vent'anni. 

Mikasa solleva le sopracciglia in un gesto muto che gli chiede senza parole cosa ci sia da ridere se sotto la terra su cui sono seduti c'è un cadavere che non meritava di essere sepolto.

"Sei nervosa?" domanda ancora, ma lei continua il suo silenzio e lo prolunga in parole che franano nello stomaco e non acquistano mai suono. "Marco lo faceva sempre, quando era nervoso. Non sei l'unica, Mikasa, a soffrire la morte di una persona a cui ha voluto bene: anch'io ho perso un fratello e mi manca così tanto. Ci sono momenti in cui mi dimentico che lui non è con me e mi volto a cercarlo e un attimo dopo mi sento vuoto come quando ho trovato il suo corpo maciullato, ma provo a vivere anche per lui. E dovresti farlo anche tu."

Quando lei chiude gli occhi dietro alle pelle sottile delle palpebre come fossero un segreto, Jean si accolla un dolore che li accomuna più di quanto lo abbiano mai fatto le urla udite in battaglia e la conta dei morti che hanno fatto al rientro da ogni missione; si avvicina a lei con una lentezza che gli sfianca i muscoli e le accarezza i capelli, avvolgendosi le ciocche attorno alle dita fino a quando non avverte il prurito tipico del sangue che circola a fatica, poi libera le falangi dalla stretta e a palmo aperto continua il leggero tocco che termina a metà della colonna vertebrale della compagna, imprimendo una leggera pressione laddove le punte scure creano ombre sulla stoffa della maglietta, penetrando in un'anima che della salvezza non ricorda nemmeno più il retrogusto amaro — logorata da un senso di colpa che la affonda come è affondata la nave arrivata da Marley e che ora è un relitto in fondo al mare che gli abitanti di Paradis non sapevano di avere, tagliata in brandelli piccolissimi da una disperazione che non fa altro che aumentare e aumentare, fino a schiacciarla e a ridurla poltiglia, così piena dei ricordi che ha del proprio passato da essere sul punto di esplodere senza possibilità di tornare integra. Lo capisce da solo, tuttavia, è lei stessa a dare conferma a tutte le ipotesi che gli hanno affollato la mente quando dice con voce spettrale e spenta: "Non sei tu il colpevole della morte di Marco. Io sì, invece: io ho ucciso Eren."



 

Angolo Autrice:

 

Questa storia nasce grazie alle iniziative “30 (+1) Days OTP Challenge” indetta da Mako Efp sulla sua pagina Facebook.

 

Prompt scelto: 

01) primo incontro (in questo capitolo è inteso come primo incontro dopo tanto tempo);

10) toccare i capelli dell'altro.

 

Al momento, questa storia, è in fase di scrittura e non so ancora di quanti capitoli sarà composta, ma spero che questa intro vi sia piaciuta.

 

A presto.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


È stato molto tempo fa, e ora non so più nulla di lei che una volta era tutto. 

 

II.

 

Ha qualcosa nel petto che si agita come un animale braccato — e fugge, si nasconde, corre, corre, senza alcuna meta — ogni notte, quando il nero è più nero e i suoi occhi non si sforzano di vedere i colori che ha dimenticato. Serrati dietro la pelle sottile delle palpebre, si agitano appena e poi restano immobili per lasciarsi avvolgere dal buio che circonda tutto.

La coperta ha perso l'odore che aveva quando l'ha tirata fuori dal baule, i libri che ha recuperato dalla cantina di Grisha giacciono accanto al letto come corpi morti dimenticati da Dio e lei ha smesso di vivere un giorno di qualche anno prima: respira per inerzia, affronta le giornate perché deve (i polmoni recriminano aria, lo stomaco quel po' di cibo che riesce a mandare giù, la gola vuole l'acqua necessaria per non seccare), ma Mikasa non vive più. 

Jean se n'è accorto quando l'ha trovata genuflessa di fronte alla lapide di Eren e lei non ha emesso suono, se non quello dei respiri obbligati; è tornato all'ostello che divide con gli altri e ha detto: lasciatela in pace, il tempo per lei corre in maniera diversa, non ha dimenticato e non lo farà mai. Mikasa è forte solo con le armi, ma dentro è tutta franata: come pretendete di rimarginare le sue ferite se non fate altro che aprirne di nuove?

Armin ha calato il capo, la ragione di parole che hanno il sapore della verità gli è pesata sulle spalle tutta d'un tratto e ha rivisto nella mente i comportamenti tenuti in passato, i dialoghi vergati su fogli che sono stati chiusi chissà dove, i colpi alla porta e le proteste per farsi accogliere in una casa in cui, forse, c'è tutto tranne l'indispensabile, l'unica persona che avrebbe potuto tenere Mikasa ancora un po' sulla superficie di una vita degna d'essere chiamata tale.

"Hai ragione, dovremmo smetterla" dice, poi s'alza e spera di alleggerire la zavorra che gli pesa nel petto e gli occlude i polmoni — non passa, è un dolore che striscia sottopelle come i vermi nel terreno e come li fermi, gli animali che si nutrono di te se tu stesso non sei in grado di muoverti per scacciarli via? — , s'inginocchia e piange lacrime di sconfitta: non c'è pace per chi resta, pensa, e, come mai prima, questa volta vorrebbe non avere la capacità di distinguere il vero dal falso.

Quando rientra, l'ombra di Jean è immobile contro la finestra, con lo sguardo perso in luoghi che lui stesso fatica a ripercorrere; lo chiama e riceve in risposta un sospiro pesante, preludio di un segreto che è sul punto di essere svelato.

"Lo sai" dice Jean, la voce roca di chi ha taciuto per troppo tempo. "Mikasa è come il tempo di quest'isola: non passa, non passa mai."

"Non capisco."

"Mi è entrata dentro dal primo momento in cui l'ho vista e s'è presa sempre più spazio. Forse, è per questo che la capisco… perché Mikasa è per me quello che Eren è stato per lei. Come si cancella, Armin, la voglia di volerla accanto? Di vederle in faccia uno di quei sorrisi che ha sempre dedicato a un altro, di dirle di darmi la possibilità di guarirla, di insegnarle che l'amore s'impara con il tempo e non è solo quello che porti nel cuore da quando sei una bambina…"

"Non lo so" ammette. "Mikasa è un'enigma: ha investito troppa vita in una causa persa in partenza, quello che resta di lei è soltanto polvere. La polvere non torna corpo, Jean."

 

 

"Non parli mai, perché?" le chiede, quando la scena della notte precedente s'imprime nuovamente nella retina di occhi troppo abituati al buio, sedendosi al suo fianco e poggiando le mani sull'erba bagnata di pioggia invernale, senza soppesare il tempo in cui Mikasa rimane zitta: le parole non sempre sono in grado di descrivere un dolore, e allora lui accoglie quel silenzio come fosse la risposta che cerca da sempre e che non trova mai, lo custodisce come il più bello dei segreti e ripensa a quello che gli ha detto Armin quando ha paragonato Mikasa alla polvere. La polvere non è così, dice a se stesso, è qualcosa di cui resta l'assenza soltanto se la si tocca, invece Mikasa resta e basta: non serve passarci un dito per mandarla via e non c'è bisogno di lasciare le finestre aperte per farla entrare.

Le prende la mano e blocca il sussulto dei muscoli tra le proprie dita, come una promessa silenziosa di presenza eterna: ci sarò sempre per te, anche se non mi vorrai.

E, quando Mikasa trema, Jean accenna un sorriso tirato e guarda tra i rami, dove un uccello resta fermo a guardarli ad ali chiuse e becco serrato.

"Apri la bocca solo per incolparti di peccati che non sono tuoi, non solo almeno. Conosci altre parole, mh? Ti guardi mai allo specchio e ringrazi te stessa per le vite che hai salvato? Ti fermi mai ad ammirare il mondo che abbiamo contribuito a ricostruire? Sei circondata dai fiori, hai uno spazio immenso in cui perderti e ritrovarti, tuttavia, la tua vita resta ancorata a una tomba e sembra che tu non veda più il bello che hai intorno."

"Esiste una leggenda secondo cui chi perde la propria anima gemella smette di vedere i colori e tutto diventa in bianco e nero. L'unico colore che vedo è quello di questa sciarpa" dice, portando le mani sulla stoffa che le copre il collo. "la sola cosa che ancora mi lega a lui. Hai ragione, Jean: non vedo più la bellezza di quello che mi circonda, perché ho perso Eren."

Lui tace — e cosa potrebbe dire? — , ma in fondo alla gola le parole scalpitano per diventare suono: le ammazza, le riduce in pezzetti piccolissimi per ingoiarle meglio e digerirle rapidamente, giù nello stomaco, dove è giusto che muoiano.

Hai perso te stessa, vorrebbe dirle, Eren è sotto questo terreno, ma tu dove sei? Lui vive nei ricordi di chi è rimasto in vita, ma tu in cosa stai vivendo? E, soprattutto, stai vivendo? Non lo vedi, che somiglia a un morto che cammina? Non te ne accorgi, che se tu soffri per i morti, attorno a te c'è chi soffre per i vivi che si sono arresi? E tu sei una di questi: hai combattuto fino all'ultimo secondo e ora sei soltanto uno spettro che aspetta che arrivi la fine, una carcassa immobile mentre aspetti che il tempo faccia il proprio corso e ti consumi.

Non dice niente, però, ma sfila la giacca dalle braccia e la posa sulle spalle di Mikasa — trema di freddo, di rabbia, di dolore, non lo sa — perché è l'unico modo che ha per ricordarle che le è accanto.

Mikasa spalanca gli occhi: l'unica volta che qualcuno l'ha protetta in quel modo era una bambina che aveva appena visto morire i genitori, che aveva perso tutto, acquisendo la consapevolezza che i buoni non sopravvivono ai cattivi, che i deboli soccombono sempre ai più forti, eppure, Eren le aveva ridato la speranza soltanto avvolgendole una sciarpa attorno al collo per proteggerla dal freddo — e dalla cattiveria del genere umano.

Adesso, però, la sciarpa è piegata ordinatamente sulle ginocchia e l'indumento che la ripara dall'inverno è la giacca di un uomo a cui lei non ha mai rivolto uno sguardo.

È un uomo, Jean, e se ne rende conto solo quando si volta per ringraziarlo: ha un filo leggero di barba, gli occhi pieni di chi, il mondo esterno, lo ha visto davvero, e le mani grandi che sembrano pronte a sostenerla nel caso in cui cadesse.

Scuote il capo, torna a guardare la lapide e il vuoto che ha dentro sembra farsi più grande: non si riempie così, pensa, l'amore toglie tutto e non esistono surrogati che possano aiutarmi a non sentirlo più.

"Perché sei qui?" gli chiede, la voce bassa e il cuore sottoterra. 

"Lo hai sempre salvato, Mikasa, ma chi mai ha salvato te?" le chiede e lei tace tutte le risposte che s'è data negli anni, quando s'è sentita sola ed è stata l'unica ad ascoltare il proprio dolore, modellandolo con incertezza e mani tremule e allora basta, basta piangere: ingoia le lacrime, riempiti di esse e vivi di acqua salata, la stessa che Eren ha desiderato vedere solo per sentirsi ancora prigioniero, la stessa in cui per una sola volta vi siete bagnati entrambi — mai, da bambini, si sono lavati nella stessa acqua, mai Mikasa ha avuto lo stesso odore di Eren: Carla sceglieva per lei un profumo più dolce. "La donna deve avere il profumo di casa" diceva e poi le massaggiava sul collo due gocce di essenza di lavanda.

È un ricordo lontano, che le piega l'angolo delle labbra all'insù per un attimo.

Un secondo, ma tanto basta: la felicità a volte dura solo un secondo.

Jean si alza, prova a pulire l'alone dell'erba dai pantaloni e guarda verso il cielo. La notte è sempre stata un susseguirsi di ore silenziose e pensieri che fanno troppo rumore, ma adesso del rumore non resta nient'altro che il suono sottilissimo della bocca di Mikasa, che l'ha illuminato un po' di più come fosse la scia di una stella cometa che attraversa il firmamento e se una di queste passasse adesso, allora, Jean chiederebbe di fermare quell'attimo, quell'espressione, tutto, per viverlo ancora: se si domanda quante volte ha sperato che Mikasa sorridesse grazie a lui non saprebbe rispondersi, perché ha perso il conto e le dita di entrambe le mani non sono bastate (forse nemmeno quelle di tutto il Corpo di Ricerca sarebbero bastate e le speranze si sono perse chissà dove mentre la vita andava avanti e una parte di lui rimaneva infossata in esse).

Il silenzio, però, non accenna a levarsi e pesa come macigni franati sulle spalle di entrambi: sono curvi, muti, chiusi ognuno nelle parole che non dicono e chissà se non sono proprio quelle le armi che possono liberarli dai demoni che si portano dentro.

Jean ci ha provato ad aprire la porta per mandarli via e c'è riuscito solo dopo aver stretto loro la mano e ha creduto di poter fare lo stesso con quelli di Mikasa, ha studiato l'approfondimento sui sentieri, si è dato da fare chino sui libri dell'Università di Marley solo per dare a lei il conforto che cerca da tempo: ha trascorso notti intere a leggere, sottolineare, memorizzare i passaggi più difficile di una teoria che di fronte alla pratica sembra essere facilissima, si è fatto ascoltare dagli altri per confermare a se stesso di essere riuscito a imparare tutto, senza dimenticare niente e le immagini che gli passano davanti agli occhi glieli fanno bruciare come se avesse ancora quei milioni di parole davanti — impara a leggere, Jean, impara a scrivere. È partito da zero: una mattina s'è alzato e ha deciso che per crescere davvero avrebbe avuto bisogno di saper sfogliare i libri non solo per guardare le figure ma soprattutto per capirle, perciò ha fatto le valigie e se n'è andato a vivere nella casa di un professore marleyano che ha compreso la causa e il sacrificio del Gigante Fondatore e l'ha accolto a braccia aperte e carico di pazienza. Una dietro l'altra, le lettere che ha imparato, gli affolano la mente in ordine alfabetico e insieme a esse ci sono numeri, suoni, richiami per riportare l'attenzione su nozioni troppo difficili da imparare e, se ripensa a tutto quello, allora, riesce a sentirsi fiero di se stesso e del cammino che ha intrapreso. Quasi gli viene da sorridere e forse accenna una smorfia, ma un singhiozzo di Mikasa lo mette in allarme e lui torna a inginocchiarsi di fronte a lei, a prenderle le mani tra le proprie per dirle in silenzio che non è sola. Vorrebbe dirle parole dolci per evitare di ferirla, ma la verità è una lama che taglia anche se chiusa in un fodero di cuoio rigidissimo e non serve avvolgerla in strati e strati di cotone, lana, seta, no. La verità fa male e basta.

Eren è morto, le dice, e piangere non lo farà tornare: le lacrime che versi servono solo a svuotarti. Devi lasciarlo andare, Mikasa, altrimenti lui resterà imprigionato nei sentieri e non avrà mai pace. Non lo dimenticherai mai, ma il dolore è amore inespresso e, allora, forse, dovresti provare ad amare di nuovo — ama me, per favore. Oppure odiami, io ti amerò lo stesso1.

Mikasa lo sa, che non è vero. Che per quanto intensamente lo si prova a tener stretto, prima o poi, un ricordo sbiadisce.

Le succede, ogni tanto, di fermarsi a pensare e a chiedersi se il neo che Eren aveva dietro l'orecchio ci fosse realmente o no. O come fossero le mani che non gli ha mai stretto — troppo grandi, troppo piccole, giuste? 

A volte, non ricorda nemmeno se il verde dei suoi occhi si avvicinasse di più al colore dei boschi o a quello degli smeraldi.

Lo ha perso in vita, lo sta perdendo anche nei ricordi senza realmente rendersene conto.

È perché non vedo più i colori, si dice, ma la verità è che ha rievocato così tante volte il viso di Eren e non è mai stata capace di memorizzarlo davvero, perciò rincorre ogni notte quello che le resta delle proprie memorie di bambina.

Anche la voce con cui la richiamava non è altro che un sussurro indistinto senza suono, senza profondità che si confonde, di tanto in tanto, con il cinguettio di quell'uccello che ogni mattina si posa sulla finestra della cucina e reclama attenzioni, che apre leggermente le ali quando lei si mette nel palmo della mano qualche briciola e gliela lascia beccare. E, a quel pensiero, Mikasa solleva il capo e guarda i rami degli alberi spogli che non fanno da nido a nessun animale: ci sono soltanto lei e Jean di fronte alla tomba di Eren e la solitudine diventa squarcio sotto i piedi e al centro esatto del petto, dove il cuore batte impercettibile contro lo sterno — colpa del freddo, colpa della verità — ma di non sentirsi più sola, Mikasa non ne ha proprio intenzione e, anzi, a tratti l'ombra della compagnia che le sta accanto la infastidisce tanto da farle venire voglia di andare via.

Resta ferma, invece, inchiodata al terreno e vorrebbe strapparsi le gambe pur di non restare lì un secondo di più, ma continua a sentirsi paralizzata e quasi le fanno male i muscoli quando prova a muoversi, come se avesse radici affondate nelle terra: ma quanto in profondità sono arrivate, quelle radici, se riescono a tenerla bloccata lì? Non lo sa — e come potrebbe se sente di non appartenere a niente e a nessuno? — e di coraggio per scavarsi dentro e trovare risposte non ne ha.

Non si riconosce e non la riconosce nemmeno Jean quando la guarda e s'accorge che la Mikasa d'un tempo non c'è più e chissà se s'è seppellita accanto a Eren o nel luogo in cui ha preso la sua testa tra le mani e l'ha baciato per la prima e ultima volta. Vorrebbe non pensarci, eppure, il sangue che è colato quel giorno gli ricorda i motivi che lo hanno spinto ad arruolarsi nel Corpo di Ricerca piuttosto che in quello di Gendarmeria, quelli per cui ha combattuto e ha visto morire troppe persone per sentirsi davvero possessore degli anni che ha: guardare la morte in faccia fa invecchiare, pensa, ed è così che gli appare Mikasa — invecchiata di mille anni, di cento vite — e non gli è mai sembrata più vera come il quel momento.

Ha chiesto agli altri di non aprirle nuove ferite, ma a lei ha soltanto domandato cosa significassero i suoi silenzi, perché si ostinasse a tenere le labbre serrate e a non dire una parole (non parli mai, perché?), ma, con le sue mani strette tra le proprie, Jean capisce che non si può replicare a una domanda a cui non si vuol rispondere, che quesiti inaspettati possono far cadere la voce nello stomaco. Che, forse, l'unico modo che ha per starle accanto è quello di appoggiarsi a lei in silenzio e farle da cuscino allo stesso modo, senza imporre mai tempo — ché il tempo non sempre sana le ferite e spesso le infetta fino a quando l'unica cosa che resta da fare è tagliare, amputare, sopprimere — , allora le riempie lo spazio tra le dita con un frusciare di pelle che ha il suono del niente e la tira con sé per rimettersi in piedi.

"Stai tremando, Mikasa. Ti preparo qualcosa di caldo" dice e, quando lei prova ad allontanarsi, le rivolge uno sguardo che racchiude tanti, troppi sottintesi che somigliano ai cadaveri innocenti di Marley quando venivano calpestati perché la volontà di sopravvivere era più forte di quella di voltarsi per guardare chi fosse rimasto indietro, più forte del rispetto per i morti.

Glielo dice così e forse Mikasa comprende, perché ammorbidisce i muscoli e si lascia portare in casa — lascia che mi prenda cura di te questa notte. Anche domani, anche per sempre.





 

Prompt scelti:

 

06) Tenersi per mano

12) Indossare i vestiti l'uno dell'altro

 

1: il dolore è amore inespresso… Oppure odiami, io ti amerò lo stesso. È una frase (leggermente modificata) estratta da LOVE di Marracash.

Buona Pasqua a tutti.

 
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Se tu fossi stato con me t’avrei chiesto scusa. Oppure aiuto. Invece non c’eri; 

incredibile come gli altri manchino sempre nei momenti in cui se ne ha bisogno; passi giorni, mesi, anni interi con qualcuno a cui non hai da dir nulla e nel momento in cui hai da dirgli qualcosa, magari scusami, aiuto,

 lui non c’è e tu sei solo.

 

III.



 

È l'odore di qualcosa che cuoce a svegliarla e, quando apre gli occhi, Mikasa vede il verde militare della giacca di Jean appoggiata allo schienale della sedia — li stropiccia, li chiude, li riapre, ma il colore resta lì: sulla stoffa invecchiata, senza più macchie del sangue che l'ha sporcata.

Non fa in tempo a realizzare che il mondo intorno a lei non è più in bianco e nero, che si è aggiunto un altro colore a quelli che normalmente riesce a distinguere — il nero dell'oblio, il bianco dei ciechi, il rosso di una promessa infranta; non lo sa che il cambiamento che non vuole è nell'intreccio di quei fili che si uniscono in uno schema di cucitura che non conosce — che il verde è speranza e muove ossa e muscoli, spinge ad andare avanti senza che ce ne accorgiamo; è acqua di mare che non ha profondità o forse ne ha troppa e allora ci immerge la testa per farci restare senza aria e morire lentamente, com'è giusto che sia.

Sposta le lenzuole e poggia i piedi sul pavimento, ma Jean entra nella camera e la ferma: ha una ciotola in mano, il vapore a nascondergli il viso. "Ti ho preparato una zuppa, non è niente di ché…" le dice e Mikasa sente che non è giusto, averlo lì, mangiare con lui, dare a se stessa lo sprazzo di una quotidianità che ha vissuto solo e soltanto con Eren: l'unico che l'abbia mai vista vulnerabile con indosso una camicia da notte, fragile con gli occhi gonfi di lacrime e sonno — e incubi troppo reali per essere raccontati, sogni troppo belli per divenire realtà.

È questo pensiero a farle nascondere il corpo con la coperta che qualche minuto prima ha scalciato via: si sente nuda a essere guardata da occhi che non sente appartenerle e non c'è malizia nello sguardo che l'accarezza, ma una preghiera muta di resa e se soltanto ti lasciassi andare, se soltanto capissi quanta stanchezza mi pesa sulle palpebre e, pur di guardarti, metto tra le ciglia mattoni d'amore costruiti solo per te.

Ma Mikasa non ha mai saputo interpretare le righe dell'iride né ha mai capito cosa dicessero i battiti di un cuore e allora si abbraccia da sola e cala il capo.

"Dovresti mangiare" le ripete e tentenna come se volesse tenerle compagnia, ma poi scrolla le spalle e se ne va perché non serve a niente insistere, donarle mani per allentare la morsa del dolore e trovarsi i dorsi con il segno dei suoi morsi.

Lo ha fatto per quattro giorni e, all'alba del quinto, s'è dichiarato stanco. Ha preparato la colazione, ma l'ha consumata da solo al tavolo della cucina e non s'è avvicinato nemmeno con lo sguardo alla porta della camera di Mikasa — potrebbe anche sfondare il legno, vederlo cadere al suolo così come caracollavano i giganti con un taglio tra capo e collo, e vedrebbe soltanto la nebbia fitta dei pensieri di una donna che s'è segregata in un passato che non vuole dimenticare.

"La pazienza è una linea, Mikasa. A volte s'interrompe e ci lascia liberi di essere pazzi, ma tu hai preso la mia l'hai spezzettata come fosse un bastoncino di legno: non ne ho più, è sotto i tuoi piedi e ti manca poco così per trasformarla in cenere" le dice e vorrebbe aggiungere che ha ucciso Eren, gli ha fatto chiudere gli occhi per sempre, ma a lui… l'ha ridotto a un morto che cammina senza una tomba in cui riposare e allora basta, smettila per favore: mandami via, ti va?

Però non dice niente. Prende la giacca e apre la porta ché purtroppo è ancora vivo e ha bisogno di aria pulita per schiarire la mente — nebbia e fumo, i suoi pensieri che si scontrano con quelli di Mikasa senza fondersi mai lo rendono cieco e lui gli occhi li vuole: è vivo, può prendersi tutti i lussi che la vita gli ha donato e che non intenzione di sprecare.

 

Una sera ha preso le poche cose che aveva portato con sé e se n'è andato: ha messo nella sacca due camicie e un pantalone, la giacca l'ha lasciata sullo schienale della sedia e s' illude che le ali cucite sopra possano donare a Mikasa la leggerezza di cui non è più capace, che a forza di pensare a ciò che non è abbia dimenticato quello che è stata (invece lo sa bene: un'assassina, una vedova che non ha mai avuto marito, un'anima in pena che s'è condannata da sola alla sofferenza eterna); ha scritto un biglietto con poche parole e spera che lei sappia leggere: non si è nemmeno posto il problema quando s'è chinato sul tavolo e ha scarabocchiato quei segni che adesso gli fanno il cuore un po' più pesante di sensi di colpa.

Cammina piano come se non volesse davvero allontanarsi da quella catapecchia che ha cominciato ad avere il profumo di casa anche per lui — non ha capito la scelta di Mikasa di abitare fuori dalle mura finché non lo ha fatto anche lui: è bello, a volte, non sentire racconti che parlano delle gesta eroiche che ha compiuto il Corpo di Ricerca, dimenticare per un po' l'inferno sceso in Terra e così via, ché sembrano giorni lontani, ma a volte tornano a bussare alla porta e pretendono di essere vissuti come fossero istanti di presente di fronte a cui ci si deve inchinare e pagare il prezzo di ogni decisione presa. Quando succede, Jean china il capo e salda i propri debiti — gli incubi sono la spesa meno cara.

Si trascina per le vie del distretto di Shiganshina e gli pare di sentire le urla di uomini e donne condannati al macello da esseri che non erano stati altro che umani sfortunati: con un destino già segnato, piccoli puntini destinati a diventare colossi solo per riempire vuoti di un disegno cominciato da Ymir e mai portato a termine fino all'arrivo di Eren e alla pazzia che ha sterminato quasi tutta la popolazione mondiale. Non vuole farlo, eppure non può farne a meno di immagine tre bambini che scappano da quelle mura per cercare rifugio e arruolarsi con l'obiettivo di vendicare i propri cari: quando si chiede cosa ne sia stato dell'innocenza con cui ogni moccioso dovrebbe crescere, gli occhi di Mikasa gli riempiono la mente ed è tutto nero intorno (come le sue iridi e le sue pupille), quasi gli manca l'aria al solo pensiero che, a qualche chilometro di distanza dalla casa da cui è cresciuta, la donna che ama abbia abbandonato l'infanzia per proclamarsi protettrice di colui che poi, sul finire, ha sacrificato se stesso per difendere tutti loro in silenzio fino al principio della fine, quando il Boato della Terra ha segnato le sorti del mondo intero e, quindi, di ognuno di loro.

Arriva a Trost a notte fonda, poggia le punte dei piedi sul pavimento e trattiene il respiro: dormono tutti svestiti delle loro giacche e delle medaglie ricevute per le missioni di pace che hanno compiuto (per il mondo e mai per loro stessi) e grazie alle quali hanno stretto alleanze con diverse nazioni, tuttavia il silenzio viene spezzato dalla voce di Armin che lo chiama.

"Sei sparito" gli dice e Jean annuisce pur essendo consapevole che al buio il Comandante non può vederlo.

Sono sparito nel vero senso della parola, non so cosa ho lasciato di me nelle mura di una casa che non è mia: quello che vedi è solo un corpo, Armin, e non ne hai già visti tanti come me, ridotti a essere rimasugli di vita e nient'altro, ossa e muscoli che continuano a muoversi eretti soltanto perché nessuno li ha spezzati, calpestati, divorati? M⁴a io vorrei soltanto genuflettermi e chiedere perdono per tutti i peccati che ho commesso: devo aver peccato per forza, altrimenti questo dolore nel petto non so proprio spiegarlo.

Armin tace e, a un certo punto, si gira dall'altra parte e gli ordina di dormire. Nessuno dei due sa che, oltre le mura, Mikasa è in ginocchio e piange verde militare e rosso, avvolta nella sciarpa di Eren e nella giacca di Jean: ha ricordato che una mano può uccidere ma anche accarezzare, che il silenzio è amnistia ma pure condanna — assordante, ingiusto quello che Jean le ha lasciato dentro.

Da quando se n'è andato, Mikasa si sveglia ogni mattina e guarda la sedia su cui lui ha poggiato la giacca del Corpo di Ricerca. Ha freddo e non la indossa perché crede che facendolo torneranno i ricordi di un passato che vuole dimenticare e allora a cosa sono serviti anni di isolamento volti a scordare visi e voci, corpi dilaniati e urla strazianti?

Pela patate e carote e cucina per due anche se è da sola, nemmeno l'uccello che ogni mattina picchiettava sui vetri della finestra viene a farle visita: lo trova appollaiato su un ramo che disegna un'ombra sulla tomba di Eren — la taglia in un due come un sorriso, come una cicatrice curata male e perciò, ogni volta che rientra, Mikasa prende bende e pomate e cura le proprie: non vuole vederne il solco né vedere il rossore dello squarcio richiuso — , ma non spiega più le ali, non plana per librarsi nel vento e assaporare la libertà che ha agognato quand'era uomo.

Si chiede cosa si provi, a sentirsi liberi, a provare la sensazione di non avere pesi che infossino i piedi nel terreno e, al viso di Eren sempre presente si sovrappone quello di Jean: non è vero, non può essere, si dice, tuttavia, quando alza gli occhi al cielo scorge uno schizzo d'azzurro che le spezza il respiro — lo frantuma, lo riduce in piccole schegge d'ossigeno che sembrano lame nei polmoni; s'accascia al suolo e piange: guarda il terreno e prega chiunque sia a decidere le loro sorti che s'apra e la inghiotta come lei ha fatto con la zuppa che Jean le ha preparato una settimana prima (ne sente ancora il sapore sulla punta della lingua, nessun'altro pasto l'ha sostituito e lei non è stata capace di cucinare qualcosa che lo coprisse). Le lacrime le rigano il viso e sembrano dense come il sangue quando le asciuga e le vede riflettere alla luce fioca del sole: le scie del passato si fanno presente, la voce che le giurava che l'avrebbe sostenuta sempre le fa riecheggiare nella mente le parole scritte sulla lettera che ha ricevuto poche settimane prima — sembra trascorsa una vita, ma quanto dura un giorno se, tutto d'un tratto, le chiazze di colore che  erano solo macchie adesso sono disegni?

Rientra in casa a tramonto inoltrato, quando l'orizzonte si colora di sfumature che ancora non riesce a distinguere e rimane in cucina perché la camera da letto è diventata tutta verde militare e lei si sente soffocare solo a pensarci. Ci pensa da giorni — da quando Jean è andato via — , si siede e prova a raccogliere il coraggio, ma sul finire, le manca tutto e s'addormenta con le gambe incrociate e la testa sulla superficie legnosa del tavolo.

 

 

Le giornate sono tutte uguali: si sveglia, prepara la colazione per due e non mangia; s'inginocchia di fronte alla lapide di Eren e lo prega di spiccare il volo: vattene via, per favore, fallo per me, sussurra e poi si pente l'istante dopo aver parlato.

Quando rimane sola, quando l'uccello che le tiene sempre compagnia avvera la sua richiesta, Mikasa prende e se ne va. Non ha senso, si dice, restare in un posto dove la vita è un mucchio di foglie che si muove nel vento e allora a casa, a pelare patate e carote, a sbocconcellare un pezzo di pane e a guardare la porta: aprila, aprila, ti prego, ma niente. Tutto resta immobile e anche lei che aspetta un ritorno che nega di volere.

Si giustifica dicendo che il dolore pesa di meno se condiviso con qualcuno, ma Jean il suo dolore non lo ha mai voluto: le ha fatto assaggiare un attimo di leggerezza e poi gliel'ha ridato perché gli è bastato aver attraversato il proprio, aver patito notti intere trascorse a ingoiare lacrime e a martoriarsi il labbro inferiore a sangue pur di non urlare la disperazione e gliel'ha detto quando lei ha dato voce a una domanda che le ha consumato l'anima: ma come si fa a lasciare andare chi non ha fatto altro che salvarci dal mondo e da noi stessi? Come si fa a vivere se si ha paura di morire?

"Io lo so, che sei morta anche tu e ti sei seppellita accanto a ciò che è rimasto del suo corpo. Ma respiri ancora e non hai il diritto privarti di un privilegio che molti dei nostri compagni non hanno avuto. Non hai paura di morire, ma non stai vivendo" le ha risposto e lei si è resa conto che è vero: vive a metà tra il passato e il presente che passa inesorabile e del futuro non ha un'idea che sia una — forse, nemmeno una speranza.

Però qualcosa arriva e sembra un soffio d'aria fresca: bussano alla porta e lei si precipita ad aprire. É Armin che le sorride e non muove un muscolo perché è sempre stato così da quando Eren non c'è più: Mikasa ha rifiutato troppi abbracci e quindi si ferma e aspetta che sia lei a fare il primo passo che lui imita immediatamente (questa volta  un sorriso).

Restano per un po' in bilico sui silenzi — il tempo per lui di decifrare le domande che lei ha negli occhi, il tempo per lei di raccogliere il coraggio per ascoltare tutte le risposte.

"Jean è tornato a Trost" le dice e non gli sfugge il fremito che l'attraversa perciò attende che lei dica qualcosa ma niente.

Pare sia trascorso un tempo lunghissimo quando Mikasa si sposta e lo invita a entrare e lui accenna un inchino prima di accomodarsi sulla sedia che fino a poco prima aveva occupato lei: vorrebbe dirle tante cose, raccontarle cosa significhi essere adulti e assumersi responsabilità che fanno piegare le spalle e invece — come stai, Mikasa? E non mentire, per favore.

La scopre a fissarlo per qualche istante di troppo, ma non reagisce in alcun modo fino a quando non è lei a spezzare la catena di parole che nessuno dei due dice.

"Hai gli occhi azzurri" sussurra. "L'avevo dimenticato. Non vedevo i colori da quattro anni, Armin: era tutto in bianco e nero, a parte la sciarpa. Ora vedo l'azzurro dei tuoi occhi e il verde del-" s'interrompe perché continuare significherebbe ammettere sentimenti che conosce a fondo e che le sembrano estranei se provati verso qualcun altro; tace perché pronunciare il nome di Jean vuol dire riportare alla memoria quelle settimane che hanno condiviso sotto lo stesso tetto – i segreti, le accuse, tutto — e fa male in maniera diversa eppure identica a quella che ha provato quando ha seppellito l'unica reliquia che le era rimasta di Eren.

Quando fuori è buio pesto e lei sprofonda nella paura che il suo mondo torni a essere a colori, Mikasa si rintana sotto le coperte e fissa la sedia che ha di fronte al letto: è tutto uguale a una settimana prima, persino i granelli di polvere hanno smesso di sfidare il tempo e la gravità e sono lì dov'erano, però adesso c'è qualcosa che stona, che le fa male al centro del petto e cos'è che le fa battere il cuore così forte se non la consapevolezza di essere lontana dalla guarigione? Il dolore è un velo che si solleva dalla retina. Mikasa se ne rende conto quando vede ancora il verde militare della giacca del Corpo di Ricerca. Strizza gli occhi, li richiude e li riapre, ci passa le mani sopra e li serra, conta cinque, dieci, trenta secondi, ma quando li apre il colore è ancora sull'indumento. Allora guarda fuori dalla finestra e spera di annegare dal nero della notte e non riemergene più. 





 

Prompt scelti:

 

09) Colazione insieme

29) Fare qualcosa di caldo

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