La Principessa e il Re di Razaghena (/viewuser.php?uid=148685)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Stendardi ripiegati ***
Capitolo 2: *** Fango sotto gli stivali ***
Capitolo 3: *** Calici e boccali ***
Capitolo 4: *** Il prezzo del miele ***
Capitolo 5: *** All'ombra degli ulivi ***
Capitolo 1 *** Stendardi ripiegati ***
DISCLAIMER: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono di
proprietà di J.R.R. Tolkien. Questa storia è
stata scritta senza scopo di lucro.
Éomer
proseguì ad ignorare la giovane moglie che
gli sgambettava timidamente attorno e che ancora andava farfugliando
ragioni, cercando il suo sguardo, la sua attenzione. Non poteva
affrontare la questione in quel momento. Era arrabbiato. Furioso.
Sentiva di doversi allontanare al più presto da lei.
La sua armatura però non sembrava voler collaborare. Dopo
aver nuovamente fallito a sganciare lo spallaccio con cui stava
armeggiando, trattenne a stento un ringhio in gola. Sentiva
l’acido caldo del suo temperamento scorrergli nelle vene,
pronto a detonare. Si arrese. Sarebbe uscito a cavalcare
così, in armatura, non aveva importanza.
Si sollevò in piedi e incontrò in quel momento
gli occhi confusi di Lothíriel, che ancora non aveva smesso
di argomentare, anche se più debolmente. Il torrente di
emozioni crude che gorgogliavano nel suo petto si placò per
un istante.
La sua mano si mosse da sola e si insinuò nella chioma scura
della ragazza. Chiuse il pugno sulla sua nuca, attirandola a
sé, facendola finalmente tacere. La ragazza
sussultò appena, stupita, ma rispose comunque al suo brusco
bacio. Serrò di più il pugno attorno i capelli di
lei, costringendola a dargli maggiore accesso alla sua piccola bocca,
che esplorò avidamente. Sentì vibrare contro la
lingua un gemito soffocato che gli fece allentare di poco la presa.
Quando si separò dalla moglie le impresse un ultimo,
possessivo, bacio, poi la superò, lasciandosela alle spalle.
«No». Un sussurro pressoché
inudibile
raggiunse Éomer quando era già alla porta.
«No?», voltò appena la
testa verso di
lei.
«No»,
ribadì Lothíriel con
maggiore convinzione,
«Vorrei- Voglio che usi le parole.
Parlami… Spiegami».
Non finì nemmeno di ascoltarla. Era già al suo
terzo passo lungo il corridoio quando si bloccò sul posto.
Sospirò, frustrato, rendendosi conto di averla lasciata con
uno sbuffo quasi derisorio.
Tornò indietro, affacciandosi alla stanza. «Questa
mattina…», si appoggiò
allo stipite,
«Questa mattina
ti avevo detto di aspettare. Se-…
Iriel, maledizione, se ti fosse successo
qualcosa…». Serrò gli
occhi, inspirando
profondamente.
«Lo so, lo so.
Sono stata avventata, lo so. Ma solo
perché sapevo che stavi per arrivare».
Éomer guardò negli occhi sua moglie e si sforzò
di addolcire la propria espressione. No, lei non poteva capire. Non
poteva capire quanta paura gli facesse. E lui non era stato preparato a
tutto questo. Non aveva messo in conto che amare qualcuno potesse
essere così spaventoso.
«Iriel…»,
sospirò passandosi
una mano sul viso.
«Tu non puoi-… Io- Sono
così- così
arrabbiato…».
«Qui»,
un altro sussurro.
«Qui?».
«Sì.
Non parlarmi da lì, sulla porta.
Parlami da qui», gli chiese mentre indicava lo
spazio che li
divideva. «Ti-ti
prego…», aggiunse
più docilmente di fronte al suo aggrottamento di
sopracciglia.
Éomer inspirò di nuovo, lasciando che il silenzio
calasse nella stanza. Poi si avvicinò a lei lentamente,
mantenendo gli occhi nei suoi. Si fermò a un passo di
distanza, torreggiando sulla moglie.
«Tu. Tu.
Non ascolti mai», iniziò
pacato, «Corri
rischi evitabili. Di continuo», la
sua voce cavernosa andava caricandosi di irritazione, «Tu.
Sei così-».
Questa volta fu Lothíriel a zittirlo con un bacio. Aveva
agganciato le dita nella parte superiore del suo pettorale per
attirarlo a sé, sollevandosi sulle punte fino ad arrivare a
unire le labbra alle sue, modellando impazientemente la bocca contro la
sua. Éomer non tardò a circondarla con le
braccia. Attraverso la sua schiena, poteva sentirle il cuore battere
imbizzarrito.
«Ti chiedo
scusa». Lothíriel
esalò con un filo di voce contro le sue labbra. Il fiato
già corto, le guance colorate.
«Tu- Mmh-
Uhmf-». Éomer tentò
di pronunciare una risposta ma la moglie non aveva smesso di rubargli
baci. Abbandonò la vita di lei per prenderle il viso tra le
mani,
«Lasciami parlare, Iriel», le
intimò con tono pacato ma fermo.
Non voleva le sue scuse. Voleva arrabbiarsi, rimproverarla. Farle
capire. Ma quando incontrò il suo sguardo, lei gli sorrise.
Gli sorrise, con uno dei suoi sorrisi, quelli belli, che le sollevavano
gli zigomi e coinvolgevano gli occhi, facendoli brillare ancora di
più. Maledetti quei suoi occhi che brillavano. Gli sorrise e
lui si ritrovò a ricambiarla, mentre sentiva qualcosa
tendersi e squarciarsi dentro la sua cassa toracica.
«Maledizione…»,
esalò
esasperato prima di tornare a baciarla.
L’amore era davvero qualcosa di spaventoso.
Due anni prima...
14 settembre 3019, Terza Era
Campo dei Tumuli, Edoras, Rohan
288 miglia a nord
Settembre
di
quell’anno memorabile era iniziato più dolcemente
di quelli precedenti. Il vento era gentile e sorprendentemente caldo,
correva vivace sui pascoli per poi spazzare le piazze di Edoras,
accarezzando con le sue dita invisibili i visi dei passanti. Gli
eorlingas esorcizzavano il ricordo dell’Ombra che aveva
abitato le loro terre tessendo arazzi per il re defunto e componendo
canti in onore degli ospiti che si attardavano ancora nel Palazzo
d’Oro: il sovrano di Gondor e il suo nobile seguito.
Éomer stava risalendo la strada verso i Cancelli, conducendo
Zoccofuoco a piedi, quando gli giunsero alle orecchie le voci che si
sollevavano dai cortili della città. Sorrise tra
sé e sé mentre i suoi occhi si spostavano sui
tumuli che costeggiavano la via, fermandosi su quello dello zio.
«Lo senti, mio
signore?», parlò a bassa
voce, «Canta,
la tua gente. Guarisce».
Passò lentamente la mano sui bianchi ricordasempre che
stavano gradualmente prendendo possesso del nuovo tumulo, facendoli
scuotere piano. Avrebbe volentieri indugiato un po’
più a lungo, ma tre uomini che conversavano tra di loro gli
stavano già venendo incontro.
«Siamo stati
ingannati, Re Éomer. A Gondor si dice
che i venti del Mark non conoscano moderazione»,
il Principe
Imrahil lo apostrofò bonariamente appena lo avevano
raggiunto; accanto a lui, Éomer riconobbe il figlio che lo
aveva accompagnato in guerra, Erchion. Un’ottima spada e
immagine del padre, anche se decisamente meno impostato e formale, come
aveva avuto modo di osservare nei mesi passati.
Il suo amico, Brandwine*¹, passeggiava con loro.
«Eppure»,
proseguì il Principe dopo che
gli uomini si erano scambiati un cenno di saluto con il capo,
«Questo vento
è più tenero della brezza
della nostra costa. Inizio a credere che fossero solo dicerie per
scoraggiare i visitatori».
«Non mi
stupirebbe se queste dicerie fossero provenienti da
Rohan», Éomer rivolse un sorriso dal
sapore amaro
al Principe, «Temo
che non siamo stati una terra
particolarmente accogliente negli ultimi anni».
«Non ditelo
nemmeno, mio signore. Noi gondoriani abbiamo
trattato con sospetto i nostri stessi fratelli, se vivevano anche solo
un passo fuori dalle nostre mura. Ma è vano guardare al
passato ora», Imrahil allungò un
braccio e strinse
la spalla del Re in un moto di affetto, «Guardate Meduseld,
guardate come fiorisce! Uomini, Elfi, Nani, Mezzuomini…
Tutti accolti dalla vostra gente con canti e calici traboccanti. Non
credo possibile che qualcuno di noi chiamerebbe mai Rohan
inospitale».
«Che sia come
avete detto, Principe. Che sia come avete
detto». Éomer si rivolse al suo
amico,
«Dove porti
oggi i nostri ospiti, Brandwine? Non è
tardi per uscire a piedi?».
«Oh, io non
credo ci siano luoghi qui nei dintorni che i
Principi non abbiano già visitato. Stasera li accompagno
solo alla Guardiola Est».
«Uhm»,
Éomer annuì. Poteva
pensare solo a una ragione per recarsi in un posto così
banale. «Un
altro messaggio da Sud, Principe?».
«Temo…»,
Imrahil tossicchiò
quasi imbarazzato, «Temo
sia di nuovo così, mio
signore».
«State forse
cercando di governare tutto il Belfalas via
lettera?».
«Ci credereste
se vi dicessi che i messaggi non sono
indirizzati a me?».
Gli occhi dei presenti si indirizzarono sul Principe Erchion, che si
era semplicemente stretto nelle spalle. «Non sapevo aveste
moglie», Brandwine
inquisì, curioso.
«Oh no,
no-no-no», il giovane si
affrettò a correggerlo, «Non
una moglie. Ma una
sorella. Una sorella così avida di notizie che se fosse
possibile esigerebbe da me il rendiconto dei capelli in capo a nostro
padre».
Imrahil sospirò, «Erchion…
Queste
conversazioni non interessano i nostri amici».
«E che se
potesse cavalcare», continuò
il giovane non curandosi del velato richiamo del padre,
«Sarebbe già venuta a riportarlo da
sé».
«Le vostre
donne non cavalcano?»,
domandò Éomer, mal celando la propria confusione.
«Oh…
Mia figlia cavalca, mio signore».
«È
questo il problema». Erchion si
schiarì la gola cercando di nascondere il sorriso dietro al
pugno.
La cagnesca occhiata che Imrahil aveva appena riservato al figlio
cozzava buffamente con i suoi lineamenti nobili. «So che per
voi può risultare difficile da comprendere, ma mi fa dormire
meglio la notte sapere che mia figlia non ha sempre a disposizione un
cavallo».
«Uhm…
Capisco», Éomer
asserì. Non capiva affatto. Ma era saggio abbastanza da non
pretendere di comprendere gli usi della nobiltà gondoriana
in tutte le sue numerose declinazioni. Con la coda
dell’occhio, colse Brandwine incrociare le braccia sul petto
e assumere quella che avrebbe potuto descrivere come la postura della
pettegola del villaggio. Inspirò profondamente. Sapeva che
l’amico – come suo solito – si preparava
a immischiarsi in affari che non lo riguardavano.
«Posso
immaginare che un padre preferisca far scortare la
figlia ovunque si sposti», Brandwine
cercò di
approfondire la questione.
«Pft-…»,
Erchion si affrettò
a premere le labbra in una linea, visibilmente divertito.
«Sì. L’intento di mio padre era quello,
esatto. Per quanto riguarda l’attuazione…
L’attuazione è risultata lacunosa, possiamo
dire».
«Uhm-mmh…».
Éomer si
limitò nuovamente ad annuire, ma Brandwine
incoraggiò il giovane Principe con uno dei sui
«Oh~
È così».
«Dovete sapere
che mio padre aveva in tasca la strategia
perfetta», si era lanciato il giovano gondoriano
che ci aveva
evidentemente preso gusto nel testare la pazienza del genitore.
«Un figlio per
ereditare il principato. Un figlio per la
guerra», così dicendo
indicò se stesso,
«E un terzo figlio per custodire mia sorella, la
più piccola».
«Erchion…»,
Imrahil si stava
massaggiando la rughetta verticale che si era formata tra le sue
sopracciglia scure.
Brandwine lo incentivò, con fare interessato,
«Sembrerebbe un
ottimo piano».
«Un ottimo
piano sulla carta. Ma il vero scherzo del destino
è la complicità tra mio fratello minore e mia
sorella. La stessa che sarà il solo motivo per cui un giorno
mio padre diventerà il primo della nostra stirpe ad avere la
chioma completamente bianca».
«Erch-…
Ah, basta così»,
frustrazione, esasperazione e imbarazzo si susseguirono nel tempo di un
secondo sul volto di Imrahil, che si fermò ad esalare un
sospiro. «Vi
chiedo scusa, mio signore. Perdonate e ignorate
ciò che esce dalla bocca insolente di questo giovane. Pago
ogni giorno le conseguenze del non aver insegnato le buone maniere a
questo… questo mio... figlio
per la guerra, come ha deciso
di definirsi», scosse la testa con
disapprovazione.
Prima che il giovane principe potesse controbattere, una folata di
vento portò con sé lo scalpitìo di
zoccoli in avvicinamento. L’attenzione dei quattro uomini si
spostò sulla linea dell’orizzonte da cui videro
presto spuntare un vessillo azzurro raffigurante un argenteo cigno. Era
diventata una visione piuttosto familiare.
«Credo che non
dobbiate più arrivare alla
guardiola», commentò
Éomer,
segretamente sollevato che la conversazione avesse trovato una naturale
conclusione.
Il cavaliere proveniente dal Belfalas li raggiunse in poco tempo.
Smontò prontamente di sella esibendosi in un profondo
inchino. «Vi
saluto Re del Mark, vi saluto Principi. Viaggio
sotto lo stendardo del Cigno d’Argento e porto un messaggio
da Dol Amroth», si annunciò con la
formula di
rito, aspettando di ricevere una risposta prima di risollevare il capo.
«Bentornato
Rìathos», Éomer
lo salutò chiamandolo per nome, avvicinandosi per
accarezzare il collo del suo animale. «E
bentornata Filiher», riconobbe la
giumenta
grigia. Con la recente impennata di scambi tra Dol Amroth e Edoras,
Éomer aveva avuto modo di conoscere a rotazione quasi tutti
i destrieri delle stazioni di cambio tra il Belfalas e i Monti Bianchi.
Erchion si fece avanti,
«Con il vostro permesso, sire, vado
ad assolvere ai miei doveri di informatore segreto. Del resto, suppongo
che il messaggio sia indirizzato a me, corretto?».
«Sì,
mio signore, ho una lettera da
consegnarvi». Dopo aver parlato, il messaggero
sembrò esitare. Aprì e chiuse la bocca,
pensieroso.
«C’è
altro,
Rìathos?», lo incalzò
Imrahil.
«Non per quanto
riguarda il mio incarico, Principe».
«Parla
liberamente».
«Nel Lamedon,
mentre aggiravo i Monti Bianchi, ho visto
dall’alto, guardandomi alle spalle, altri messaggeri
percorrere fianco a fianco la via per Rohan. Tre in tutto. A meno di
mezza giornata di viaggio dietro di me».
«Sotto che
stendardo viaggiavano?»,
s’informò Éomer.
«È
proprio questo che mi ha portato a sollevare la
questione», Rìathos sembrava parlare
con cautela,
«Nessuno.
Nessuno stendardo esposto, mio signore».
«E tu sei
sicuro che fossero messaggeri?», si volle
accertare Imrahil.
«Indubbio,
Principe. Viaggiatori senza fagotto. E ho
riconosciuto alcuni dei loro cavalli. Li ho usati io stesso in
passato».
«Li hai visti
nel Lamedon, hai detto…»,
Erchion si strofinò il collo, «Perciò
provengono dalle Province del Sud. E viaggiano con gli stendardi
coperti per venire qui, ad Edoras, dove sono ospitati il Re di Gondor e
il suo consiglio quasi al completo».
Ci fu un loquace, per quanto rapido, scambio di sguardi tra i principi
gondoriani e i rohirrim.
«Rientriamo»,
sentenziò asciutto
Éomer. Sapeva che le buone notizie non viaggiavano a
stendardi ripiegati.
26 settembre 3019, Terza Era
Palazzo del Cigno d’Argento, Dol Amroth, Gondor
288 miglia a sud
Lesti
passi sul pavimento
marmoreo riecheggiavano per i corridoi del Palazzo.
Lothíriel camminava senza celare la propria fretta,
tenendosi poco elegantemente sollevate le vesti per non inciampare.
Sapeva che la ramanzina che il fratello le avrebbe destinato sarebbe
stata proporzionale al suo ritardo. Si arrestò di fronte a
una doppia porta laccata, riportante un rifulgente emblema del Cigno
d’Argento. Si rassettò l’abito prima
bussare e spingere la porta verso l’interno.
«Mi hai fatta
chiamare, fratello?», si richiuse la
pesante porta alle spalle.
«Dove sei
stata?». Elphir
l’apostrofò incolore, seduto dietro al suo
massiccio scrittoio. Aveva parlato senza sollevare gli occhi dal tavolo.
«Ero scesa in
città».
«In
città dove?».
«Nella Piazza
delle Fonticoperte». Seguì
un silenzio che la Principessa trovò presto opprimente.
«Uhm…
In- in città c’era-
c’è una compagnia di cantastorie e… E
raccontavano dell’incoronazione del nuovo Re. Io ho pensato
di- di andare ad ascoltare e…». Si
fermò quando il suo cervello registrò di stare
straparlando. Dietro la schiena aveva preso a stropicciarsi
nervosamente le mani.
Dopo qualche interminabile minuto, il Principe Erede chiuse il registro
su cui aveva fatto delle annotazioni e si rilassò contro lo
schienale della sedia, alzando per la prima volta gli occhi sulla
figura che aveva di fronte. Lothíriel accennò un
timido sorriso nella sua direzione, ma il viso di Elphir rimase
inespressivo.
«Dove hai detto che sei stata?».
«Piazza delle
Fonticoperte».
«Accompagnata?».
«Amrothos e
Thïria*² erano con
me».
«Thïria?».
«Thïria…
La- La mia dama di compagnia,
Thïria». A volte Lothíriel
dimenticava
quanto il fratello maggiore si disinteressasse di imparare i nomi dei
domestici.
Elphir annuì appena. «Dunque,
veniamo al motivo
per cui sei qui. Il Comandante Sîrfalas si unirà a
noi per la cena di questa sera. Mi aspetto da parte tua un
abbigliamento adeguato», gli occhi di Elphir si
soffermarono
sul semplice abito da giorno che Lothíriel stava indossando,
«e maggiore
impegno per quanto riguarda la conversazione. Non
credevo fosse necessario farti queste raccomandazioni, ma
tant’è». L’uomo
accompagnò le sue parole con un sospiro.
La sorella sentì la gola farsi secca. «Il
Comandante? Ci-… Ci ha fatto spesso compagnia negli ultimi
mesi».
«Ti
stupisce?», inarcò un sopracciglio,
«Si attarda
dopo le riunioni del Consiglio per dipanare
questioni amministrative. È comune cortesia che io lo inviti
a rimanere a cenare, Iriel». Il “non essere
sciocca” iscritto nel suo timbro mordace era
sottinteso, ma
affatto velato.
«Sì…
Naturalmente… Dico
sol-».
«Non
farfugliare», la interruppe, freddo,
«Parla a modo,
Iriel. Ne sei capace».
Lothíriel deglutì. Sentiva il pizzicore delle
unghie che aveva affondato nella carne del suo stesso polso.
«Mi chiedevo
solamente se non fosse sconveniente ospitarlo
così frequentemente. Il Comandante potrebbe
fraintendere».
«Nessun
fraintendimento. Nostro padre non ha interrotto il
suo corteggiamento».
«Ma ha respinto
la sua proposta di matrimonio».
Elphir si fermò a studiare la sorella. Gli occhi taglienti,
quasi felini, ma del tutto imperscrutabili. «Sorella…»,
cominciò piano,
la voce bassa e innaturalmente calma, «Voglio essere franco
con te in modo da non dovermi ripetere in futuro. Nostro padre non ha
concesso la tua mano per questioni di tempismo, non di partito. Non ti
ingannare. L’iniziativa del Comandante non è stata
accolta per via della guerra imminente. Esclusivamente per via della
guerra imminente. Inizia a familiarizzare con quest’idea,
Iriel. Il nuovo Re di Gondor è stato incoronato, come anche
il nuovo Re di Rohan; esauriti i suoi impegni diplomatici, nostro padre
non può che fare ritorno e, se dovessi azzardare una
previsione, prima della fine dell’anno la proposta del
Comandante sarà riesaminata».
Anche se il padre non era stato schietto con lei come lo era stato
Elphir in quel momento, Lothíriel sapeva che il fratello le
stava dicendo il vero. Allora perché sentiva lo stomaco
attorcigliarsi in quel modo su se stesso?
«Fratello, non
sarebbe-… Non- non credi che
sarebbe più opportuno aspettare il ritorno di nostro padre
per- prima di-… Insomma, promuovere la
frequentazion-».
«Parla come si
deve, Iriel!», il fratello la
sgridò mentre gli angoli della sua bocca prendevano la
più lieve increspatura verso il basso, «A sentirti
balbettare così mi chiedo a cosa siano serviti quindici anni
di precettorato. Quel vecchio si starà rivoltando nella
tomba».
«I-il»,
la ragazza si interruppe quando
udì la propria voce uscire ancora più tentennante
del solito. Si sforzò di deglutire. «Il mio
precettore è vivo. Ora gestisce l’archivio del
Consiglio. Lo sai, lo incontri ogni settimana».
«Allora si
starà rivoltando
nell’archivio», Elphir mosse una mano
per aria come
a voler scacciare una mosca, «Non
vedo come questo cambi il
fatto che inciampi nelle tue stesse parole. Ad ogni modo»,
sospirò, «Non
ho altro da dirti per ora. Ti
rivedrò a cena». Bruscamente come gli
ebbe rivolto
la sua attenzione, gliela stava ora togliendo. Gli occhi
dell’uomo erano di nuovo sui documenti di fronte a lui.
Se il Principe Erede diceva che la conversazione era chiusa, allora la
conversazione era chiusa. Lothíriel ne era più
che cosciente. Lasciò lo studio in silenzio e
appoggiò la fronte alla porta che aveva appena richiuso. Si
prese un momento per poter far entrare aria nei polmoni, mentre i suoi
occhi seguivano sovrappensiero le venature del pavimento in marmo. Il
suo sguardo cadde sulla mano che ancora teneva sulla maniglia della
porta. Avrebbe dovuto indossare un abito a maniche lunghe per la cena.
Note dell’autrice
• Alcuni personaggi introdotti o nominati in questo capitolo
sono del tutto inventati ma rivestiranno ruoli ricorrenti. Tra questi
segnalo:
*¹ Brandwine, dal
Rohirric
brand
(lancia) + wine
(desinenza maschile che significa
“amico”). Personaggio originale, amico
d’infanzia di Éomer
e suo secondo
in battaglia.
*² Thïria,
dall’Ovestron tyriw
(fanciulla snella) + rë
(desinenza femminile); origine Sindarin. Personaggio originale, fedele dama di compagnia di Lothíriel.
• Feedback
riguardo la formattazione
So
che è formalmente sbagliato evidenziare in grassetto i
discorsi diretti, ma personalmente la ritengo una soluzione efficace
per quanto riguarda la lettura su schermo. Fatemi sapere se, al
contrario, vi disturba l’uso che ho fatto del grassetto e
provvederò a riformattare.
• Vi ringrazio per aver letto questo capitolo! Il cuore della
storia sarà ovviamente la relazione tra Éomer e
Lothíriel, ma permettetemi di prendere le cose un
po’ alla larga. Parole chiave: combustione lenta. A presto!
Razaghena
La storia ti sembra familiare? Una
prima
versione di questo racconto
è stata pubblicata sul sito 10 anni fa, sotto lo stesso
titolo. Ho rimosso la storia precedente solo di recente, per non creare
confusione.
Chi
ha letto la versione precedente deve rileggere tutto da capo?
Questa nuova versione è frutto di una radicale revisione:
sono stati tagliati alcuni personaggi, caratterizzati diversamente
altri. Molti dei nodi della trama sono rimasti però
invariati. I capitoli originali che si discostano al 100% dalla
versione precedente inizieranno dal decimo capitolo.
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Capitolo 2 *** Fango sotto gli stivali ***
Un
giovanotto biondo era seduto sul primo gradino delle scale in pietra di
Meduseld. Sopra la sua casacca luccicava un medaglione tondo,
d’oro e di smalti, raffigurante un cavallo bianco. Il ragazzo
lasciava vagare lo sguardo sui tetti di Edoras, illuminati dagli
ultimi, orizzontali raggi dorati, mentre l’aria della sera si
faceva gradualmente più pungente. Alle sue spalle, due
soldati montavano silenziosamente la guardia all’ingresso. Il
disordinato rumore di stivali in avvicinamento disturbò la
quiete che stava regnando sulla terrazza del Palazzo.
«Éomer!
Devi venire subito!». Una testa ramata
spuntò dal
fondo della gradinata. Un ragazzo, troppo smilzo per la sua notevole
statura, risalì le scale quattro gradini alla volta,
sfruttando tutta la lunghezza delle sue gambe. «Forza, in
piedi», gli ribadì con il fiato corto
e un
luccichìo che non prometteva nulla di buono negli occhi.
I
Custodi della
Porta non sembrarono scomporsi. Non doveva essere una scena a loro
nuova.
«Sai
che
non posso venire, Brandwine. Sto aspettando di andare a cavalcare con
il Re», Éomer rispose incolore
all’amico. Nessun cenno che indicasse la sua
volontà di alzarsi.
«Uno
dei
carri, giù, alla piazza inferiore, è bloccato nel
fango e sbarra la via principale»,
l’eccitazione
evidente nella voce del ragazzo.
Éomer
lo guardò con aria interrogativa per qualche secondo.
«Quindi?».
«Quindi?!»
«Quindi.»
Brandwine
si
esibì in una sequenza di gesticolamenti per aria.
«Oggi
c’è il mercato. Ci sono le ragazze
che fanno commissioni per le madri. Le ragazze,
Éomer. Sai
quelle graziose creature in cui rischieresti seriamente di imbatterti
se tu non passassi il tuo tempo immerso nel letame delle
scuderie».
Il
nipote del Re
inarcò un sopracciglio. Una delle guardie alle loro spalle
si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito. «Mi hai
cercato per questo?».
«Sì.
Ed è un ottimo motivo, se posso permettermi di dire tanto.
Ma non possiamo perderci in chiacchiere ora»,
Brandwine gli
girò attorno per portarsi dietro la sua schiena.
«Alza il tuo
regale didietro e andiamo a liberare quel carro
prima che lo faccia qualche troppo zelante passante»,
lo
spintonò sgraziatamente fino a farlo sollevare.
«Brandwine
non scenderò in piazza per-… per esibirmi o
qualsiasi cosa tu abbia in mente. Ho degli obblighi, dei doveri. Tra
questi, la cavalcata serale con il-».
«Con
il
Re, sì-sì-lo-so. Lo so. Non volevo iniziare con
questo, ma ammetto che», Brandwine si fece
più
vicino, «c’è
Rowan», gli
sussurrò accompagnando le sue parole con una lunga occhiata
d’intesa.
Éomer
guardò inespressivo l’amico, inspirando
profondamente.
«Tu sai che quel nome non mi dice nulla,
vero?».
«Row-!
Te ne ho sicuramen-… Sai, in quanto tuo amico- Che dico,
siamo sinceri, in quanto tuo unico
amico, mi ferisce il tuo
disinteresse per i miei affari». Brandwine non
aveva smesso
di trascinarlo come meglio poteva per un gomito o per la casacca. Erano
ormai a metà scalinata.
«Hai
blaterato fino a ieri di… di Ingrid! Ti stupisce che Rowan
mi suoni estraneo?».
«Ingrid?
Ingrid, Éomer?!», Brandwine
alzò gli
occhi al cielo con finta esasperazione, «Segrid. Si chiamava
Segrid. E non faceva per me, per quanto possa suonare triste».
«Tragico».
Éomer a questo punto si stava lasciando spintonare per le
spalle, opponendo a malapena resistenza. Anche se non lo avrebbe mai
ammesso, le bizzarrie di Brandwine rappresentavano spesso il punto
più alto delle sue giornate.
«Ma
l’amica della sorella di Segrid, invece…! Rowan!
Oh, Rowan! Credo di aver trovato moglie. Éomer devi venire a
vederl-».
I due
giovani si
fermarono appena in tempo per non scontrarsi con un uomo che era
apparso ai piedi della gradinata del Palazzo. Alto, spalle larghe e
un’armatura tirata a lucido. Éomer e Brandwine lo
riconobbero ancora prima che si togliesse l’elmo. Un rapido
scambio di sguardi si susseguì nell’istante di
silenzio che si aprì. Gli occhi di Théodred
passarono velocemente sui due giovani, esaminandoli.
Aprì
bocca per primo. «Ho
sentito», si indicò
alle spalle,
«che hanno bisogno di una mano giù
alla piazza del mercato». Il sorriso complice in
cui si
aprì dissipò la tensione.
«Oh,
è così, mio signore? Credo che dovremmo andare a
dare una mano allora. Nevvero, Éomer?»,
Brandwine
colse l’attimo. Superò Théodred
trascinandosi dietro Éomer nel mentre.
«Brandwine»,
l’Erede lo apostrofò a distanza di qualche gradino.
«Sì,
mio signore?».
«Inizia
ad adoperarti per trovare una moglie anche per Éomer.
Bisogna sottrarlo alle scuderie».
«Lo
consideri fatto, mio signore. Più ardua l’impresa,
maggiore la mia gloria».
Théodred
si era voltato per rivolgere ai due ragazzi un ultimo affettuoso
sorriso.
«Andate», i suoi occhi si spostarono
su
Éomer,
«Parlerò io con mio padre.
Va’ e non farmi sfigurare!».
Dieci anni dopo
28
settembre 3019, Terza Era
Palazzo
del Cigno d’Argento, Dol Amroth, Gondor
288 miglia a
sud
Lothíriel
passò sotto l’ampio arco che delimitava
l’ingresso alla cucina splendidamente intonacata di bianco.
Il suo sguardo non ebbe il tempo di registrare ciò che stava
accadendo nella stanza che individuò la divisa fiordaliso
della sua dama di compagnia. «Eccoti,
Thïr-».
La
serva si
voltò al suono del suo nome e, con esasperati gesti delle
braccia, si affrettò a indicare alla Principessa di
nascondersi. Negli istanti successivi, tutto accadde molto velocemente.
Lothíriel si era resa conto della presenza
dell’anziana cuoca, Madegar; quest’ultima si era
voltata verso l’ingresso, armata di un notevole coltello e
un’espressione accigliata in volto; «Chi
è arrivato?», aveva domandato mentre
Lothíriel si era prontamente lasciata cadere sulle ginocchia.
«Nessuno.
Niente. Io non ho sentito proprio niente e soprattutto nessuno. Uhm,
cosa-…», Thïria
reindirizzò
l’attenzione della cuoca, «Cosa
mi stavate
raccontando, cos’è successo
all’alba?».
«Dov’ero
rimasta? Ah, sì, ecco. Poco dopo l’alba, come mio
solito, sono andata dal pescivendolo, giù al porto. Gli ho
chiesto i migliori pesci di stagione e mi ha confezionato un pesce
spada, parecchie sogliole e qualche branzino. Oh bambina mia, bambina
mia! Avresti dovuto vedere quanto velocemente ha incartato quei
branzini! Non mi piaceva proprio la faccia del pescivendolo stamattina,
nemmeno i suoi baffi stavano ritti. E a Madegar certe cose non
sfuggono».
«Inteso»,
confermò Thïria.
Approfittando
della sentita narrazione della cuoca e dall’incoraggiante
rumore del coltello sul tagliere, Lothíriel aveva gattonato
fino al massiccio tavolo da lavoro situato al centro della cucina. Si
sedette con la schiena contro quest’ultimo, tirandosi le
ginocchia al petto, accogliendo con un sospiro silenzioso il suo
destino.
«I
miei
sospetti si sono rivelati fondati quando la testa di uno dei branzini
è sbucata fuori durante l’incartamento. Saresti
dovuta esserci, Thïria, figlia mia, per vedere la testa di
quel branzino! Aveva l’occhio infossato! INFOSSATO, ti
dico!». Le parole della cuoca furono
accompagnate da una
serie di preoccupanti fruscii. A Lothíriel non fu difficile
immaginare che Madegar stesse tirando fendenti per aria, come da sua
consuetudine. Nascose il viso tra le mani, pregando che non fosse
quello il giorno in cui l’anziana accoltellava se stessa o
qualcuno. «Allora
ho preteso che mi mostrasse il branzino, ma
quel farabutto continuava a trovare scuse. Si è finto
perfino offeso quando l’ho accusato di volermi vendere del
pesce poco fresco! Perché sai, bambina mia, Madegar si
procura solo il pesce migliore per la tavola del Principe! Se avessi
mandato un inserviente al porto, non si sarebbe accorto
dell’inganno, ne sono certa!».
«Iriel,
allora sei q-», la voce di Amrothos giunse
dall’ingresso. Lothíriel spalancò gli
occhi e gesticolò qualcosa in direzione del fratello.
«Chi-
Chi ha parlato?», la domanda della cuoca era
arrivata un
istante dopo che il giovane si era abbassato.
«Nonhosentitonulla.
Ma ditemi, Madegar, come fate a scovare sempre il pesce più
fresco?», Thïria si immolò
in un moto di
lealtà.
«Non
dirmi che non ti ho mai insegnato come distinguere il pesce fresco,
figliuola», l’indignazione evidente
nella voce
della cuoca, «Vieni
qui, avvicinati. Prima di tutto, il pesce
deve avere l’occhio vivo, lucido e splendente. Come questo,
vedi? Brillante e in rilievo».
Amrothos
aveva
raggiunto la sorella camminando a quattro zampe. «Chi ha
osato turbare Madegar oggi?», le
sussurrò mentre
le sedeva accanto.
«Il
pescivendolo. Ha provato a venderle del branzino poco
fresco», gli bisbigliò in risposta.
«Principiante»,
Amrothos fece una smorfia. «Thïria?
Riusciamo a
tirarla fuori dall’impiccio?».
«Ne
dubito. Madegar non rinuncia mai al suo pubblico».
«È
vero. Farò avere alla sua famiglia
un’indennità, non credo la rivedranno a breve. E a
che punto della narrazione siamo? Avevo piani per la mattinata. Ero
venuto a chiederti se volevi accompagnarmi ai porti
commerciali».
La
Principessa
rivolse uno sguardo loquace al fratello.
«Capito.
Siamo ostaggi», esalò sconfitto.
Allungò un braccio, tastando il tavolo alla cieca, quando lo
ritirò teneva in mano due fichi. «Tieni, mangiamo.
Non possiamo prevedere quanti inverni rimarremo bloccati qui».
I due
fratelli
consumarono la loro colazione occultati dal robusto tavolo; in
sottofondo, l’anziana cuoca illustrava con esacerbante enfasi
i suoi segreti a spese dell’inerme Thïria, i cui
versi d’assenso giungevano sempre meno convincenti. Gli occhi
di Lothíriel continuavano ad andare sul viso del fratello,
per poi tornare sfuggenti sul motivo delle mattonelle del pavimento.
Era qualche giorno che dibatteva con se stessa se parlargli della sua
apprensione riguardo al corteggiamento del Comandante. Non era certo la
mancanza di complicità che la faceva esitare, piuttosto il
focoso astio che il fratello nutriva per il Primogenito. Non voleva
essere lei a rimarcare quel solco. Una leggera gomitata nelle costole
le ricordò che non era mai stata brava a nascondere qualcosa
al fratello.
«Quindi?
Di cosa si tratta?», Amrothos le
sussurrò.
Lei
si
limitò a fare spallucce. «Cosa
intendi?».
«Lo
sai.
Quello che muori dalla voglia di dirmi. Forza, ti ascolto».
«Non
è qualcosa di grave…»,
cominciò la Principessa.
«Mmh…»,
Amrothos sospirò, «Ma
è qualcosa che mi
farà arrabbiare. Sentiamo allora».
«Sei
consapevole di non essere molto incoraggiante,
vero?».
«Non
volevo esserlo», il fratello
accompagnò le sue
parole con una scrollata di spalle e un mezzo sorriso.
«Che
visione», una voce dal timbro inconfondibile
risuonò nella cucina, Lothíriel
sussultò, «Principi
di Gondor che mangiano per
terra». Elphir era in piedi di fronte a loro con
le mani
raccolte dietro la schiena. La sua divisa blu notte era impeccabile,
come sempre. «In
piedi». La voce distaccata. Anche
quello come sempre.
Amrothos
si
chinò verso la sorella, non curandosi veramente di non farsi
udire, «Allora
è vero che piove sul
bagnato… Guarda un po’ com’è
profonda la ruga di Elphir già dal mattino».
Si
sollevò in piedi per rivolgersi direttamente al maggiore,
«Cosa ti porta
fin qui, fratello? Forse non ne sei a
conoscenza, ma in questa zona alloggiano e lavorano i
domestici».
Seguì
un momento di silenzio in cui i due fratelli si soppesarono con lo
sguardo. Persino il brusio della cuoca era cessato. Il Principe Erede
riusciva dove finanche il nobile padre capitolava; era
l’unico a mettere in soggezione Madegar. Gli occhi azzurri di
Elphir si spostarono lentamente su Lothíriel. Chiaramente,
aveva deciso di soprassedere.
«Iriel,
se hai finito di fare colazione va’ a prepararti. Anche tu,
Amrothos. Le vedette mi hanno avvisato che nostro padre e nostro
fratello dovrebbero essere ormai alle porte. Se posso osare chiedervi
tanto, cerchiamo di non accoglierli sul pavimento della
cucina».
«Quando?
Quando arrivano?», Lothíriel
inquisì
ansiosa. Gli occhi di Elphir si spostarono sulle dita di lei che si
erano aggrappate al suo braccio.
Lo
squillante
suono di un corno raggiunse in quel momento il Palazzo. La ragazza
sussultò di nuovo sul posto e prima che potesse rendersene
pienamente conto stava già scendendo di corsa la scalinata
d’ingresso. Si precipitò giù per la via
principale, correndo fino a sentire un sapore ferroso in bocca. Il
cuore le tamburellava contro la cassa toracica, le orecchie le
pulsavano. Negli angoli degli occhi iniziò a sentire il
pizzicore delle lacrime, che ignorò. Come ignorò
la polvere e il fango che andavano sgualcendole l’orlo delle
vesti.
Il
suono di altri
due corni riempì l’aria, il corteo doveva essere
arrivato alla cinta interna. Lothíriel accelerò
la corsa e, quando la via si tuffò nella Prima Piazza, si
trovò davanti a un muro di persone venute ad acclamare i
Principi. Si immerse nella folla, senza abbandonare con lo sguardo gli
stendardi d’azzurro e d’argento che vedeva
sopraggiungere. Riusciva a sentire il selciato tremarle sotto ai piedi
al ritmo degli zoccoli in avvicinamento. D’improvviso la
folla ringhiò, urla gioiose si levarono
all’unisono alla vista del Principe Imrahil che guidava il
corteo con il Secondogenito al suo fianco. Dopo sei mesi dalla partenza
per Minas Tirith, il Principe era tornato.
Lothíriel
si spinse fino alla prima fila. Padre.
Aprì, chiuse e
riaprì la bocca. Boccheggiò ancora ma non aveva
fiato in corpo per emettere suoni. Padre,
guardami.
Gli
occhi del
Principe incontrarono i suoi tra la folla. «Iriel!».
La
Principessa
sgusciò tra le guardie per raggiungerlo. Imrahil rimase in
sella ma sfilò prontamente lo stivale da una delle staffe;
la stessa staffa su cui la figlia appoggiò il piede per
gettargli di slancio le braccia al collo. E mentre si stringevano tra
le acclamazioni degli amrothiani, nascondendo entrambi il viso contro
la spalla dell’altro, la Principessa sentì la mano
del padre accarezzarle amorevolmente i capelli.
«Sono
tornato. Sono tornato».
Dopo
sei mesi
dalla partenza per Minas Tirith, suo padre era tornato.
1 ottobre 3019,
Terza Era
Edoras,
Rohan
288 miglia a
nord
La
vita nel Mark aveva subito un’improvvisa
accelerata dopo l’arrivo dei messaggeri con gli stendardi
oscurati. Il fumo rigettato dalle fucine anneriva da settimane i cieli
sopra l’Ovestfalda, e tutte le cuoierie e sellerie del regno
lavoravano incessantemente per far fronte alle commissioni.
Notizie
nefaste
erano giunte dal Lebennin: notizie di incursioni di Sudroni e villaggi
di confine scomparsi nella notte. Qualcosa si stava silenziosamente
muovendo nel Harondor, strisciando nelle ore senza luce lungo la foce
dell’Anduin e, quantunque non ne riuscissero ancora a
cogliere l’entità, Re Elessar e i suoi alleati non
avrebbero lasciato le province del Sud sole di fronte alla nuova
minaccia. Una spedizione congiunta tra Gondor e Rohan era stata
pianificata. Al termine di lunghe giornate di Consiglio gli ospiti
gondoriani avevano lasciato il Mark, con la promessa di ricongiungersi
nel Lebennin il mese successivo per stanziare un accampamento.
Organizzare
una
campagna militare dal termine incerto non era cosa da poco. Provviste,
materiali per il campo, armature; tutto doveva essere ordinato,
forgiato, conciato, eventualmente riparato, per poi convergere ad
Edoras, città da dove sarebbero partiti i quattromila
cavalieri di Rohan.
E
proprio nella
guardiola all’ombra dei Cancelli di Edoras stanziava come
ogni giorno il Re del Mark, impegnato a convogliare il massiccio arrivo
d’equipaggiamento e uomini provenienti da ogni angolo del
regno. Tra il fremente vociare dei Marescialli e ufficiali, si
udì un cavallo fermarsi bruscamente di fronte
all’edificio, ed una testa ramata comparve poco dopo sulla
soglia della guardiola.
«Re
Éomer! Abbiamo un problema!», si
annunciò Brandwine mentre entrava a grandi passi, chinando
il capo per non sbattere contro le travi del soffitto troppo basso per
lui.
Éomer
sospirò. «In
magazzino?».
«No,
la
situazione delle scorte è sotto controllo. Ma ho appena
intercettato un uomo a cavallo proveniente dalla strada per Dunclivo,
uno dei carrettieri del carico di ferro e rame che stavamo aspettando.
È stato mandato avanti dai suoi compagni perché
uno dei loro carri è bloccato in mezzo alla via. Ha riferito
di due ruote sprofondate nel fango. I suoi abiti riferivano la stessa
storia. Hanno bisogno di una mano per liberarlo».
Un
moto di
frustrazione attraversò Éomer come una scarica.
Lo manifestò a malapena, serrando e rilasciando la mandibola
un paio di volte. Non erano già abbastanza in ritardo? Fece
un cenno di saluto in direzione degli ufficiali presenti ed
uscì, seguito da Brandwine.
«Chi
vuoi che mandi? Bastano due o tre uomini e i loro cavalli per aiutare i
carrettieri», chiese l’amico mentre
montavano in
sella.
«Dov’è
l’uomo con cui hai parlato?».
«In
attesa al bivio Sud della via. Gli ho detto di aspettare i cavalieri
che avresti mandato. Chi faccio chiamare?
Éomer…?», Brandwine doveva
aver letto
qualcosa di spiacevole nella sua espressione,
«Éom-…
Éomer. Chi vuoi che
mandi?». La risposta era facilmente intuibile.
Un
sorriso
increspò appena le labbra del Re. «Prendiamo aria,
Brandwine. Andiamo noi. Onoriamo i vecchi tempi».
Spronò il cavallo risalendo la via per Dunclivo.
Tirò
la
catena verso il basso e il secchio si rovesciò sopra la sua
testa. L'acqua fresca gli pizzicò feroce la pelle ed
Éomer si affrettò a lavarsi il fango di dosso.
Accanto a lui, Brandwine aveva già infilato la casacca ed
era passato a pulire gli stivali.
«È
stata la nostra più grande scoperta quella delle docce degli
scudieri. Ci ha evitato parecchie tirate d’orecchi quando
eravamo più giovani», Brandwine
commentò con un sorriso nostalgico che gli danzava negli
angoli della bocca.
«Sono
stato rimproverato da mio zio per tante cose, ma sono sempre tornato a
Palazzo più pulito di prima che lo lasciassi».
Éomer concluse la doccia e iniziò a raccattare i
suoi indumenti.
«Più
pulito di prima, ma con un sentore di letame
addosso», specificò Brandwine,
ricevendo in
risposta solo uno sbuffo. «Sai,
sono contento di vederti
più disteso, anche solo per un attimo. Sono stati giorni
intensi questi».
«Sì…
Intensi. Un mese di preparativi consumato in un battito»,
Éomer sospirò. In quelle settimane aveva sentito
il peso della sua corona gravargli addosso. Sollevò gli
occhi sull’amico che stava barbaramente sbattendo gli stivali
in terra, distribuendo fango a raggiera. «Chi
l’avrebbe mai detto»,
rifletté ad alta
voce, «che
saremmo finiti così. Io sul trono e
tu… Tu…».
«Io?».
Brandwine assottigliò lo sguardo.
«Tu…
Così…».
«Così
come?», Brandwine si alzò dallo
sgabello e
iniziò lentamente ad allungare un braccio verso un forcone
appoggiato lì accanto. «Finisci
la tua frase, mio
signore».
«Sposato,
credo. Non ci avrei scommesso un soldo di rame».
Brandwine
ridacchiò. La sua mano si reindirizzò dal forcone
alla spalla di Éomer. La risposta dovette averlo
soddisfatto. «Con
Rowan per giunta!»,
esclamò orgoglioso.
Uno
scudiero li
avvertì della sua presenza schiarendosi la gola
all’ingresso della stalla. «Sire»,
si
inchinò, «Il
Capo delle Scuderie si chiede se
potrebbe sottoporvi una questione».
«Ci
sono
problemi con i nuovi finimenti?».
«No,
mio
signore, vorrebbe chiedervi di stimare una giovane giumenta».
Éomer
e
Brandwine si scambiarono uno sguardo e un’alzata di spalle.
Fintanto che non si trattava di nuovi
problemi, il re avrebbe stimato volentieri ogni giumenta del suo regno.
Mentre
passava la
mano sul collo muscoloso del cavallo e sentiva le familiari scintille
mordergli i polpastrelli, le parole scivolarono fuori dalle labbra di
Éomer senza volerlo. «Dove
ti tenevano
nascosta?».
«È
magnifica, non trovate, sire?»,
l’anziano Capo
delle Scuderie si avvicinò, «Gléodis,
questo è il suo nome, ha compiuto sette anni. Ha terminato
la formazione alla monta ed è pronta per essere destinata a
qualcuno, mio re».
Éomer
fece a malincuore un passo indietro per lasciare Gléodis
libera di trottare nel pascolo. Non riusciva a staccarle gli occhi di
dosso. «Ti
viene in mente qualcuno?», si rivolse a
Brandwine.
«Nessuno.
Ma sono molti i soldati che hanno da poco perso il proprio destriero.
Anche se…», l’amico scosse
la testa,
combattuto, «Devo
ammettere che questa giumenta è
notevole. Siete certo che sia nata nella stalla giusta?».
«Non
è un mearas,
ve lo garantisco», il Capo delle
Scuderie assicurò con una certa solennità nella
voce. «Ma
riconosco che potrebbe ingannare anche un occhio
esperto. Osservate i suoi appiombi, tutti corretti. La muscolatura,
tesa e ben sviluppata. La sua corporatura sarebbe ideale per diventare
un cavallo da guerra. Ma, se concedete a questo vecchio di parlare
oltre, sire…».
«Non mi
risparmiare, Holdred».
«Ritengo
che sarebbe sprecata come cavallo da carica. Il suo
portamento…», l’anziano
gesticolò grandiosamente in direzione del cavallo,
«Il suo
portamento, sire, la rende un diamante tra pezzi di
vetro*¹.
Sottoporla a un addestramento militare andrebbe a
intaccare, sciupare il suo portamento signorile. Questa è la
mia umile opinione».
«Mi
trovi d’accordo». Gli occhi di
Éomer non
avevano abbandonato per un istante l’animale che si muoveva
flessuosamente nella campagna. I suoi crini folti si agitavano nel
vento e il manto morello esposto al sole appariva straordinariamente
lucido. Benché avesse una conformazione solida, le andature
erano elastiche, eleganti e rilevate. Era apparente che il suo
portamento spiccasse su quello dei cavalli con cui stava pascolando.
Un’idea.
Un’idea bizzarra si fece spazio nella sua mente. Per un
attimo si sentì sollevato, come se avesse trovato un
incastro perfetto. Poi le possibili ricadute gli balenarono in mente,
spezzando il suo spirito iniziale. Prese a massaggiarsi il collo.
«Chi?»,
Brandwine lo riportò sulla terra. «A chi hai
pensato adesso?».
«Ti
ricordi… Dei Principi di Dol Amroth?».
«Il
Principe Imrahil e suo figlio? Non hanno perso i loro cavalli in
guerra, che io sappia».
«No,
è così… Ricordi bene, ricordi
bene…». Éomer
inspirò
profondamente. «Pensavo
piuttosto…», non
era certo di voler esprimere ad alta voce ciò che aveva in
mente, «Alla
conversazione che i Principi hanno avuto ai
Tumuli… Qualche giorno prima della loro partenza».
Sulla
fronte di
Brandwine si susseguirono una progressione di aggottamenti. Quando
colse ciò a cui l’amico si stava riferendo, la sua
espressione cambiò del tutto. Ci mancò poco che
le sue sopracciglia raggiungessero l’attaccatura dei capelli.
«Parli
della…?».
«Sì,
Brandwine».
«Stiamo
pensando alla stessa cosa? Intendi proprio la… la
Principessa?», si volle assicurare
l’amico. Il Capo
delle Scuderie drizzò la schiena, in allerta. La
conversazione a cui stava assistendo stava prendendo una piega
intrigante. Brandwine continuò imperterrito, «Ho
capito bene? Vuoi donare Gléodis alla Principessa di Dol
Amroth? Alla giovane, con ogni probabilità molto bella
Principessa di Dol Amroth? Anzi, alla giovane, con ogni
probabilità molto bella, e molto…
molto…
MOLTO nubile Principessa di Dol Amroth?».
«Sì»,
Éomer esalò in un sospiro. «Era solo
un’idea. Una pessima idea. Chiederò ai Marescialli
se hanno qualche candidato in mente per Gléodis».
«No-no-no-no.
Non fraintendere il mio stupore. Io dico di esplorare
quest’idea». Brandwine
accompagnò le sue
parole con sentiti ed esagerati cenni della testa a cui si aggiunse
persino il Capo delle Scuderie, che Éomer fulminò
con lo sguardo.
«Perché ti è venuta in
mente la Principessa di Dol Amroth?», lo
incalzò
l’amico.
«Non mi
è venuta in mente lei.
Mi è venuta in mente
quella conversazione. Questo sarebbe il cavallo perfetto da inviare in
dono a dei nuovi alleati. A degli amici».
«Sì,
ma…», Brandwine sembrò
quasi
sofferente, «Ti
ho già fatto notare quanto
straordinariamente nubile sia la principessa in questione?».
«Più volte. Ma non è lei il punto. Imrahil ha un
figlio che necessita di un cavallo, noi abbiamo un ottimo cavallo. Un
cavallo a cui, siamo convenuti, vorremmo risparmiare
l’addestramento militare. Ha veramente importanza che il
figlio in questione sia… una figlia?».
Brandwine
inspirò platealmente, guadagnando tempo prima di esalare un
poco convinto «Nnno~…?
No».
«Sì».
I due uomini si voltarono verso il Capo delle Scuderie che ora si stava
tappando la bocca con le mani.
«No, no.
Non ha necessariamente importanza. Non così
tanta», Brandwine sembrò cercare di
convincere se
stesso quanto il re. «Rimane
però la questione
della decisione del Principe. Si era detto contrario a dare un cavallo
alla figlia».
«Di
certo non è aggirare la volontà del Principe
ciò che voglio», Éomer
rifletté ad alta voce, «Potremmo…
Potremmo indirizzare Gléodis a lui e lasciare che sia lui a
scegliere se tenerla nelle proprie scuderie o appuntarla alla figlia.
In entrambi i casi, non finirebbe su un campo di battaglia».
Saggiò nuovamente con gli occhi il magnifico cavallo che
pascolava poco distante da loro. Per qualche motivo, riusciva a trovare
pace all’idea che quel cavallo fosse nelle cure del Principe
Imrahil. Lo reputava un uomo degno di stima e lo aveva osservato con il
proprio destriero. Gléodis sarebbe stata in buone mani.
Tornò con lo sguardo sull’amico, che si
stupì di trovare ancora in silenzio. Aveva
un’espressione pensosa e un luccichìo fin troppo
familiare negli occhi. «Tutto
qui? Hai già
esaurito le obiezioni?».
Brandwine
alzò le mani. «Non
ho altro. Me ne occupo io se tu
vuoi tornare ai Cancelli».
«Te ne
vuoi occupare tu?».
«Sì».
«Ora te
ne vuoi occupare tu?».
«È
così».
Nulla
nel tono
candido che stava esibendo l’amico avrebbe potuto convincere
meno il Re della sua sincerità. Gli puntò
l’indice contro, «Brandwine…
Bada
bene-…», i suoi occhi si spostarono
sul Capo delle
Scuderie che stava allungando il collo per cogliere ogni inflessione
delle loro voci con mal dissimulata curiosità.
Ritirò il dito con un sospiro. «Occupatene tu. Io
ho fretta di rientrare in città, mi stupisce che non sia
venuto ancora nessuno a cercarmi. Prepara un messaggio, un buon
messaggio. Chiaro, infraintendibile. Brandwine…»,
gli rivolse la migliore delle sue peggiori occhiate,
«Infraintendibile, mi hai sentito?».
«Infraintendibile,
sì».
«Prepara
il messaggio e fai scortare Gléodis alla sua nuova
terra», concluse prima di allontanarsi verso la
strada che
conduceva in città. Con una spedizione militare alle porte,
Éomer non aveva altro tempo da investire in questa faccenda.
Oltretutto, pensò,
quanti danni avrebbe
potuto mai fare
Brandwine?
Note dell’autrice
•
Vi ringrazio per essere tornati a leggere questo secondo capitolo e per
il vostro feedback. Leggo avidamente le vostre recensioni e i vostri
messaggi più o meno nel momento stesso in cui premete ‘Invio’;
il mio ritardo nel rispondervi è dovuto soltanto al mio
desiderio di darvi una risposta significativa e non scritta di fretta.
Un grosso grazie per la vostra pazienza.
*¹ Un
diamante tra pezzi di vetro, citazione da
“Pericle, principe di Tiro” di William Shakespeare.
•
Aggiunta delle sintesi di
fine capitolo - Mi sono ripromessa di
aggiornare questa storia più volte al mese e
cercherò di tenere fede alla mia parola. Ho deciso
però di iniziare a lasciare una sintesi del capitolo
corrente in fondo alla pagina, per permettere ai lettori occasionali di
rimanere al passo con i nodi principali della trama. È una
soluzione che, da lettrice, io amo trovare, soprattutto in storie la
cui pubblicazione si protrae nel tempo.
Razaghena
Riassunto
Capitoli 1 e 2 Settembre 3019. Il
Principe Imrahil e il suo
secondogenito Erchion sono ospitati a Edoras come parte del seguito di
Re Elessar. Durante una passeggiata, Éomer apprende che la
figlia di Imrahil non ha un cavallo per volontà del padre,
che desidera in questo modo salvaguardarla. Giungono ad Edoras alcuni
messaggeri con gli stendardi ripiegati, portatori di cattive notizie:
le incursioni dei Sudroni vicino alle foci dell’Anduin
gettano un’ombra sulla pace di Gondor. Viene pianificata una
spedizione congiunta tra Gondor e Rohan e gli ospiti gondoriani tornano
alle loro terre per riorganizzare le forze.
A
Dol Amroth, in assenza del padre, governa l’austero
primogenito del Principe, Elphir. Lothíriel apprende dal
fratello che il corteggiamento di un nobile della città, il
Comandante Sîrfalas, culminerà con ogni
probabilità con il matrimonio. La Principessa viene
però allietata dal ritorno del padre.
Ottobre
3019. Éomer, nel pieno dei preparativi per la partenza dei
suoi cavalieri, è chiamato a decidere del destino di
Gléodis, una magnifica giumenta della sua scuderia. Per
risparmiarle l’addestramento militare, decide
inaspettatamente di inviarla alla Principessa di Dol Amroth. Assegna a
Brandwine, suo amico e braccio destro, l’incarico di scrivere
un messaggio chiarificatore e organizzare la consegna del dono.
|
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Capitolo 3 *** Calici e boccali ***
4 ottobre 3019,
Terza Era
Baia del
Principe, Dol Amroth, Gondor
288
miglia a sud
L
a
corrente calda che ogni autunno scivolava morbida lungo le coste
gondoriane fino ad insenarsi nella Baia di Belfalas si stava quel
giorno ribellando. Gorgogliava insolitamente bellicosa, facendo cozzare
tra di loro le imbarcazioni attraccate nel pontile poco distante da
dove Lothíriel stava nuotando. Aveva da poco iniziato a
sentire le spalle intorpidirsi, stanche di lottare contro quel mare
imbizzarrito. Si riempì d’aria i polmoni e
sparì sotto la superficie dell’acqua. Riemerse
quando percepì il familiare innalzamento del fondale sotto
di sé; aveva raggiunto la colonna che giaceva stesa nella
Baia del Principe, ultima reduce di chissà quale disastro
commerciale. Arenata in un banco di sabbia, si trovava alla
profondità ideale per permette a chi vi si appoggiava di
mantenere il busto sopra il pelo dell’acqua. E
così fece Lothíriel, mentre, con un sospiro,
lasciava vagare lo sguardo verso l’orizzonte, intenta a
placare quel senso di oppressione che da giorni la stava tormentando.
Il ritorno di suo
padre, tanto agognato e tanto sofferto, non le aveva restituito
l’auspicata pace. Poche erano state le occasioni che avevano
avuto per stare insieme. Il Palazzo si era trasformato in un quartier
generale, crocevia di alti ufficiali, consiglieri, signori provenienti
dalle più disparate città del Dor-en-Ernil. Suo
padre e i suoi fratelli passavo gran parte delle loro giornate chiusi
nella Sala del Consiglio, intenti a discutere di questioni delle quali
a lei non era dato sapere. Malgrado avesse imparato sin da quando era
piccola di non torturarsi per faccende in cui non aveva voce, le
risultava ancora difficile scrollarsi di dosso l’angoscia che
si era annidata nel suo stomaco. Passò forse una manciata di
minuti prima che giungesse a lei il suono di irregolari bracciate. Si
voltò e vide la sua dama di compagnia annasparle incontro.
«Immergervi
e sparire sotto le onde», Thïria
iniziò a
rimproverarla non appena fu a portata di orecchio, brontolando e
sputacchiando acqua salata ad ogni frase, «Come se non
sapeste che non posso perdervi di vista, specialmente qui, in
mare». Lothíriel tese le mani per
aiutarla a
salire sul fusto della colonna. «Non
pensate alla mia testa,
Principessa? Al mio collo? Se la risacca vi dovesse cogliere di
sorpresa…».
«Io
penso sempre al tuo collo, Thïria. Guarda le creste bianche
delle onde, non c’è risacca qui. Non
c’era bisogno che mi
raggiungessi». La Principessa rivolse un sorriso
rassicurante
alla sua dama e ricevette una smorfia in risposta. Le loro braccia si
intrecciavano sott’acqua alla ricerca di maggiore
stabilità contro le onde.
«Ugh…»,
Thïria rabbrividì visibilmente. Il vento mordeva
impietoso i loro visi. «Mi
vedo costretta a dover protestare,
Principessa, e insistere che questo sia la vostra ultima nuotata. Il
tempo non è più sufficientemente
clemente».
«Hai
ragione, Thïria. Ti chiedo scusa».
«Il
riscaldamento delle vasche della Residenza è stato attivato,
Principessa. Perché non nuotare a Palazzo?».
«Io-»,
Lothíriel esitò. Sapeva che quello che la stava
opprimendo non era alleviabile semplicemente confidandosi.
«Un’ultima
nuotata prima dell’arrivo
dell’inverno. Tutto qui. Ma ora suona… Piuttosto
sciocco, non è così?»,
strofinò energicamente le spalle della sua dama di
compagnia, cercando di riscaldarla. «Prima
che il vento e
l’acqua abbiano la meglio su di noi, potresti parlarmi di
ciò che si dice in città?
Thïria… Ti prego?».
Informazioni.
L’avere informazioni l’avrebbe alleviata.
«Torniamo
a riva, Principessa. Vi racconterò tutto ciò che
ho appreso in questi giorni».
«N-no.
Restiamo…». Il modo in cui le parole
avevano
lasciato la bocca della ragazza ricordava molto una supplica.
Lo sguardo di
Thïria mutò. «Principessa…
So
che alcuni dei servitori a corte rispondono al Principe Erede, ma
questa cautela è… È eccessiva, non
credete?».
«Considerando
coloro che riferiscono a mio fratello, a mio padre e con ogni
probabilità persino al Comandante…».
«Oh,
quello sciocco garzone deve essere allontanato»,
Thïria intervenne con poco velata disapprovazione.
«Ci sono
troppe orecchie orientate su chi si muove a Palazzo»,
continuò Lothíriel, «Thïria,
io vorrei solo-… Vorrei poter avere qualche conversazione
che non mi venisse restituita la sera a cena. E non voglio allarmare
nessuno con le mie domande».
«Che
cosa vorreste sapere?».
La Principessa si
aprì in un sorriso riconoscente, prima di schiarirsi la
gola. «Si sta
parlando di nuovo di guerra, non è
così?».
«Nondimeno,
Principessa, nondimeno. Ci sono voci che circolano nelle botteghe e nei
porti. Si parla di una minaccia proveniente da Sud. Si parla di
ritrovamenti…», abbassò
sensibilmente
la voce, «Cadaveri…»,
esalò
la parola senza quasi emettere suono,
«Trasportati
dall’Anduin. E l’urgenza con cui vostro padre, il
Principe, ha inviato messaggeri per tutto il Dor-en-Ernil non ha che
confermato molti dei sospetti della gente».
«Difficile
non notare che il Consiglio è stato convocato. Tuttavia
avevo sperato che fosse per tirare le somme della guerra passata, non
per prepararne una ventura».
«Il
Terzogenito non vi ha davvero confidato nulla?»,
azzardò cautamente Thïria.
La Principessa
scosse la testa. «No.
Ho chiesto, certo che ho chiesto. Ma
Amrothos segue l’esempio di mio padre. Sembra che potrei
sgretolarmi in un cumulo di polvere e ossa se mi venisse riferita una
brutta notizia».
«Principessa…».
«Non
dirmelo, Thïria, ne sono consapevole»,
la ragazza sospirò appena, «È per
tutelarmi. È per il mio bene». Gli
occhi azzurri
della Principessa rifuggirono quelli della sua dama e andarono a
riposare sulle bianche mura che si elevavano al di sopra delle navi che
ondeggiavano nel porto.
«D’altronde…
Perché dovrebbero dirmelo? Che ci sia un’altra
guerra o meno, il mio compito è rimanere qui, dentro le
nostre mura, ad aspettare. Soltanto… Soltanto…
Cielo, sono appena tornati…». Fu
grata che
l’incessante sciabordio delle onde avesse coperto
l’incrinatura che aveva preso la sua voce. Si
schiarì la gola. «Hai
idea di quando
partiranno?».
«No,
Principessa. Ma non lontano da qui, alla Locanda delle Corporazioni che
si affaccia sulla Baia», Thïria fece un
cenno in
direzione della città, «Giungono
notizie dalla
Capitale. Non so se lo sapete, ma lì stazionano i mercanti
in arrivo da Minas Tirith. E parlano, parlano, chiacchierano. Sembra
che il nuovo Re stia chiamando a raccolta i suoi uomini con
straordinaria rapidità. Temo che questa non sarà
una guerra di primavera*¹».
«Oh».
Lothíriel rimase in silenzio, sovrappensiero. «Chi
partirà?», riportò gli
occhi su
Thïria,
«Lo sai?».
«Non ne
sono sicura, Principessa».
«Chi?»,
ripeté appena udibile, «A
me-…
Thïria, a me sai che non lo diranno».
«A detta
del garzone del fabbro», Thïria
iniziò
piano, «Sono
in riparazione le armature di vostro padre e del
Secondogenito. Ma i rifornimenti in arrivo alle Scuderie raccontano
un’altra storia. Sembra che anche il cavallo del Principe
Erede stia ricevendo la sua bardatura da guerra».
«El-
Elphir? Chi reggerà il principato se dovesse partire anche
Elphir?». La mente di Lothíriel
correva. Amrothos
era da poco stato riconfermato Capo della Guarnigione cittadina e il
suo disinteresse per la politica lo aveva palesato sin dalla
gioventù. Era sicura che suo padre fosse sceso a patti con
quella decisione da tempo. Questa decisione le sembrava così
discordante.
«Non lo
immaginate, Principessa?».
Lothíriel
guardò Thïria confusa. «Elphir ha guidato
il principato in assenza di mio padre da quando- Non so, da quando
aveva la mia età, credo. Dieci anni? Dodici, persino? Ha le
sue alleanze in Consiglio, i suoi sostenitori, una fazione. Ha leggi a
suo nome. Non c’è nessuno altro in Consiglio,
oltre mio padre, inteso, di cui si possa dire lo stesso. Se
non-». Lothíriel si
bloccò.
L’espressione di Thïria le suggerì che
era approdata alla giusta conclusione. «No».
«Temo di
sì».
«No».
«Temo
proprio di sì».
«No…»,
pigolò sconsolata mentre si lasciava andare
all’indietro nell’acqua. Il Comandante. Il
Comandante Sîrfalas*² era l’unico nobile
che vantava un adeguato peso politico in città. E suo padre
stava consegnando nelle sue mani ulteriore potere e prestigio che
sarebbero i gran lunga sopravvissuti alla provvisorietà del
suo incarico da Governatore.
«Ora
rientriamo, Principessa, vi prego. Questo vento… Uff- Ugh,
questo vento non è affatto gentile con noi».
«Thïria,
precedimi. Io vorrei… Cre-credo che rimarrò qui
ancora per un po’. Solo per un
po’…».
Sentì
una mano chiudersi attorno la sua caviglia, Thïria la stava
afferrando. «Il
mio collo, Principessa!».
6 ottobre 3019,
Terza Era
Edoras,
Rohan
288 miglia a
nord
Il
suono della
birra versata
nel boccale era qualcosa che un uomo riusciva ad apprezzare in una
maniera del tutto diversa la sera, al termine di una giornata
penosamente lunga. Éomer distese le gambe sotto il tavolo e
si appoggiò allo schienale, gustandosi ogni sorso della
bevanda schiumosa. Il suo boccale aveva a malapena toccato il legno del
tavolo che Rowan si stava già alzando per riempirglielo di
nuovo.
«Ecco a
voi, sire. Bevete».
«Rowan».
Éomer si sforzò di
sorriderle di rimando.
«E tu
mangia più lentamente», la donna
rimproverò il marito, completamente chino sulla sua ciotola,
quasi a volerci entrare con tutta la faccia.
«Donna»,
la replica di Brandwine arrivò
biascicata tra un boccone e l’altro, «Hai idea di
quanto tempo passerà prima che io possa mangiare di nuovo
del capriolo in umido? Éomer! Éomer, devi
ascoltarmi», l’amico
sventolò il suo
tozzo di pane per aria, «Dovremmo
portarci dietro
Gárbald. Sì, sì. Portiamocelo dietro,
che ne dici?».
«No. Per
la quinta volta questa sera, no», gli
rispose con calma.
«Ma,
MMHPH~», emise il più sentito dei
rantoli di piacere. Qualche testa si girò verso il loro
tavolo, Rowan nascose il viso dietro una mano. «Non hai
notato come il suo stufato migliori di anno in anno? Quando penso che
non riuscirà più a stupirmi, bam! Mette qualche
erbetta, o qualcosa nel suo sughetto, o… O… O,
non saprei, mette una grattata di qualcosa sopra… E
io… Ah! Aaah~! Insomma, io non credo di poter rinunciare a
Gárbald, Éomer. Non credo di riuscirci».
«Brandwine.
Il taverniere rimarrà qui, alla sua
taverna».
«E non
pensi al morale dei tuoi uomini? Al mio di morale? Sei
Re adesso, dovresti pensare al mio morale».
«Darò
istruzioni ai nostri cuochi di campo di
mettere qualche erbetta o qualcosa nel sugo o grattare qualcosa sopra
ai tuoi pasti. Non ti preoccupare, Brandwine. In qualche modo
sopravvivrai».
«Ma-».
Rowan
ficcò dritto nella bocca aperta del marito il pezzo di
pane che aveva fino ad allora agitato davanti alle loro facce,
soffocando l’arringa appassionata che, a giudicare dal
luccichio nei suoi occhi, si stava preparando a fare.
«Mangia, léofa*³. Mangia e
risparmiaci».
Éomer
sentì emergere l’impulso di
ridere, che però sembrò non riuscire a
concretizzare. Il suo pessimo umore gli pesava addosso. Lo sentiva
sulle spalle, nella punta delle dita, sul volto. Le notti prima di una
partenza lo rendevano cupo e irrequieto, più silenzioso di
quanto già non fosse incline ad essere di natura. Assorbito
dai suoi pensieri, si sentiva insolitamente emotivo, consapevole che
ogni istante della serata sarebbe diventato un nostalgico ricordo per i
mesi a venire.
In quel momento si
udì un brindisi in onore del Re provenire
da un tavolo occupato da un gruppo di soldati. La bassa saletta in cui
si trovavano Éomer e Brandwine non era del tutto isolata
dagli altri locali della taverna; gli fu facile individuare i boccali
che si elevavano alla sua salute. Si alzò in piedi a
ringraziare i presenti con cenni del capo. Quello era stato il settimo
brindisi della serata ed Éomer si lasciò cadere
pesantemente sulla panca, esausto di aspettare il sorgere del sole e la
partenza.
«Non
mangiate più? Sono sicura di aver visto una
torta al miele dietro al bancone, ve ne porto una fetta se non gradite
più lo stufato», lo
interrogò Rowan,
facendo già per alzarsi.
«Non ho
appetito, Rowan. Ma ti ringrazio».
Evocato da quelle
parole, Brandwine riemerse dal suo piatto.
«Quelle…»,
gli occhi puntati sulle sue
patate, «non
le mangi?». Éomer
avvicinò semplicemente il piatto a quello del compagno che
si tuffò sul cibo con eccessivo entusiasmo, finendo
inevitabilmente per strozzarsi con un boccone. Iniziò a
tossire convulsamente.
Rowan
sospirò. «Se
decidessi di
ignorarlo?», si rivolse al Re.
Éomer
si strinse nelle spalle.
«Non te ne farei
una colpa…», osservò come
le
sopracciglia di Brandwine andavano incontrandosi, mentre le vene sul
suo collo avevano preso a ingrossarsi ad ogni colpo di tosse,
«La mia offerta
di annullamento di matrimonio è
ancora sul tavolo, Rowan. Quando sarai pronta, firmo il decreto e torni
ad essere una donna libera. Lascia che io usi la mia corona per fare
del bene».
«Uhm»,
gli angoli della bocca della donna
fluttuarono nello sforzo di non curvarsi verso l’altro,
«La vostra
offerta si fa ogni giorno che passa più
allettante, mio signore». Nonostante le sue
parole,
iniziò ad impartire vigorose pacche alla schiena del marito
fino a quando quest’ultimo non riuscì a prendere
nuovamente respiro. «Per
adesso respingo la vostra offerta,
ma vi prego fortemente di continuare a ripropormela».
«Sarà
fatto».
«Tu»,
il volto di Brandwine aveva appena
riacquistato un colorito normale,
«Insolente», tirò
bruscamente la moglie a sé circondandole la vita con un
braccio. «Tuo
marito soffoca e tu tergiversi».
«Ti
avevo detto di mangiare più
lentamente».
«Questo-
Questo è del tutto irrilevante ora,
donna».
«Donna?»,
la voce di Rowan oscillava
pericolosamente tra l’irritazione e il divertimento,
«Brandwine,
continua a chiamarmi così e ci penso
io a stroz-».
«Ssh»,
l’uomo la zittì, il
sorriso evidente sulla sua bocca, «Silenzio,
do-
don-… Moglie?». Le impresse a raffica
una serie di
baci tra viso e collo a cui Rowan oppose giocosamente resistenza.
Éomer
distolse lo sguardo dalla coppia. Era abituato al loro
battibeccare, ma alle loro smancerie – specialmente quando si
consumavano a un braccio di distanza – si sarebbe volentieri
sottratto. Si stiracchiò e lasciò vagare lo
sguardo per la taverna. Incontrò sull’uscio un
paio di freddi occhi verdi che non si sarebbe aspettato di trovare. Si
studiarono inespressivi per qualche secondo, poi il contatto
terminò. Éomer tornò al suo boccale
mentre la donna si abbassò il cappuccio sulle spalle ed
attraversò il salone centrale, fermandosi al tavolo del Re.
Non porse i saluti. Al petto teneva stretto un fagottino che continuava
ad agitarsi; braccia paffutelle spuntavano e sparivano ripetutamente da
sotto la coperta di lana in cui era avvolto.
«Rowan,
il bimbo ha fame».
L’interessata
spinse via il marito e si affrettò
ad accogliere il neonato tra le braccia. «Ti ringrazio,
Heruwyn*⁴», strinse affettuosamente una mano
dell’amica, «Ti
ringrazio per questo tempo. Me ne
ricorderò».
«Il
piccolo ha dormito tutta la notte, non ci sono stati
problemi se non fino a poco fa».
«Sono
lieta di sentirlo. Brandwine…»,
assestò un colpo sulla nuca del marito che era tornato come
se nulla fosse a rivolgere l’attenzione al cibo,
«Alzati,
andiamo a casa a mettere a letto tuo
figlio».
L’uomo
si sollevò dedicando un’ultima,
torbida occhiata alla sua ciotola di stufato e andò a
sorridere al rumoroso fagotto che strepitava in braccio alla moglie.
Era comicamente alto rispetto alla donna e si dovette curvare di molto
per poter lasciare un bacio sulla guancia del figlio che, di rimando,
afferrò a due mani la sua barba ramata, urlando di gioia.
Éomer sorrise inconsapevolmente.
«Ecco
fatto! Ora ci vorrà un bel po' per
dividervi!». Rowan cercò inutilmente
di aprire la
morsa ferrea del neonato. Heruwyn approfittò della chiassosa
esibizione del bambino per defilarsi silenziosamente. Éomer
fu l’unico ad accorgersi della sua uscita e condivise con lei
un ultimo sguardo prima che prendesse la porta.
«Éomer
allora io- Ah… Argh-»,
un Brandwine leggermente dolorante tentò di sollevare la
testa verso l’amico senza portarsi dietro un intero neonato
gioiosamente scalcitante, «Io
aspetto la partenza a casa,
d’accordo? Il Piccolo Girasole chiama, e il fabbro non
dovrebbe finire prima dell'alba con le ultime spade».
«Va'
pure. Ti mando a chiamare quando dobbiamo
partire».
Brandwine lo
interrogò nuovamente con lo sguardo e
lasciò la taverna dopo aver ricevuto un secondo cenno di
conferma. Il grande tavolo divenne d’un tratto desolatamente
vuoto e per il resto della notte non si sentirono più
battibecchi, stoviglie che cozzavano o risate in quell'angolo del
locale. Éomer finì in silenzio un terzo boccale
di birra e decise di stendere le gambe sulla panca. Passare la notte
alla taverna era il suo antidoto all’angosciante attesa e il
rumore dei commensali non lo disturbava, al contrario, era esattamente
ciò di cui sentiva di avere bisogno. Non si accorse di
essersi addormentato fino a qualche ora più tardi, quando fu
svegliato da un ragazzino dal volto sporco di ditate di fuliggine.
«Mio-…
Mio Re. Vengo dalle fucine. Il Mastro
Fabbro vi comunica che l'ordine è stato portato a
termine». Il giovane garzone sembrava
terribilmente a disagio
per aver dovuto disturbare il suo sonno.
Éomer
si alzò in piedi, sgranchiendosi le gambe.
Mise una mano sulla testa del giovane, «Le spade sono
già state trasportate nelle armerie dei Cancelli?».
«Sono
stato mandato ad avvertirvi non appena la prima cassa
è stata chiusa. Il trasporto sta avvenendo in questo
momento».
«Molto
bene. Qual è il tuo nome,
ragazzo?».
«M-mi
chiamo Folca, mio signore»,
balbettò incerto il giovane, gli occhi puntati sui propri
stivali.
Éomer
lo afferrò per le spalle e
chiamò a sé l'attenzione dell'oste, intento a
spillare due boccali di birra dietro il bancone.
«Gárbald!
Da' da mangiare a questo ragazzo, Folca.
Ha lavorato tutta la notte. E quando avrà finito
rispediscilo alle fucine con cibo anche per il fabbro e gli altri
aiutanti».
Il locandiere
agitò vigorosamente la testa, pozzanghere di
birra andavano formandosi ai suoi piedi. «Già
fatto, sire. Lo consideri già fatto».
Qualche minuto
dopo Éomer era all'esterno a dare
disposizioni al suo scudiero. Si avvicinava il momento della partenza.
L’aria pungente dell’ora prima dell’alba
stava dissipando la tensione accumulata, mentre andava facendosi spazio
in lui l’eccitazione. Decise di andare di persona ad
avvertire Brandwine e s’incamminò cercando
voracemente di assorbire il proprio circondario con gli occhi. La via
principale, la piazza inferiore, i porticati, le familiari facciate
delle botteghe. Fissare ogni polveroso dettaglio di Edoras nella sua
memoria gli sembrò d’un tratto cruciale. Arrivato
a poche decine di passi dalla sua méta, notò una
figura avvolta nel mantello appoggiata a una delle colonne di legno di
un portico. Riconobbe all'istante la chioma dorata.
«Cosa
succede, Heruwyn?», la apostrofò
affiancandosi a lei.
La donna si
strinse verso la colonna, sottraendosi al contatto tra le
loro spalle. «Stavo
andando ad aiutare al forno quando li ho
visti».
Éomer
seguì il suo sguardo e vide che sotto la
finestra della casa antistante sedeva Brandwine con in braccio la
moglie, entrambi profondamente addormentati. La corporatura minuta di
Rowan la faceva apparire una bambina sulle ginocchia del marito. I
capelli ramati dell'uomo scendevano a mescolarsi a quelli biondi della
moglie, che riposava sotto al suo mento, avvolta dalle sue lunghe
braccia. Éomer non si accorse di stare nuovamente
sorridendo. «Dici
che sono riusciti a mettere al sicuro il
bambino o dovrei ripercorrere la strada verso la taverna?».
«È
dentro casa. Credo siano solo usciti
a-».
«A
litigare. Immagino sia così. Non mi
stupirebbe…». Il silenzio si
annidò tra
i due. Era già qualche anno che non vi erano più
molte parole che avrebbero potuto essere dette. In momenti come questi
ne erano entrambi penosamente consci.
«Le
partenze vi rendono ancora irrequieto, sire?».
La voce carezzevole di Heruwyn si insinuò tra i suoi
pensieri.
«Non
credo che questo cambierà mai»,
sollevò gli occhi in quelli di lei, «Ma non mi
piace essere così».
«Una
volta pensavate fossero premonizioni. Credevate non
avreste più fatto ritorno dalla battaglia».
Éomer
sospirò, reminiscente.
«Uhm,
è così… Quante notti sprecate a
pensare che fossero le ultime».
«Sprecate?»,
la risposta giunse in un sussurro,
«Io me le
ricordo tutte, quelle notti».
Sentì le dita di lei tracciargli esitanti il profilo delle
nocche. Rimase immobile, non ritrasse la mano nemmeno quando il
contatto si trasformò in una lenta carezza. Voleva mettere
alla prova l’effetto di quel tocco. «Sapevamo come
esorcizzare la vostra irrequietezza…»,
continuò lei. Gli sembrò che gli occhi di lei
tremassero nella penombra del portico, intanto che attorno a loro i
primi raggi del sole iniziavano gradualmente ad illuminare i tetti
delle case. Con la luce li raggiunse anche una folata di vento, che
mulinò per qualche istante tra i pilastri del portico.
Éomer
si riscosse,
«Heruwyn…»,
allontanò
lentamente la mano. C’era stato un tempo in cui aveva
desiderato ricambiare quegli occhi vulnerabili, quegli acerbi
sentimenti. Ma il mondo era cambiato da allora e lui era cambiato con
esso.
Guardò
la donna stringersi nuovamente verso la colonna.
«Lo
so», la voce bruscamente asciutta, la bocca
rigida, gli occhi altrove, «Lo
so».
«Se ti
stai aggrappando al pensiero che un giorno, o una
notte, io cambi idea... Questo non accadrà-».
«Lo
so», Heruwyn si voltò verso
l’uomo in un palese moto di irritazione. Gli occhi freddi e
vibranti. «Lo
so, mio re. Siete stato inequivocabile. La
maggior parte delle volte, quanto meno»,
sputò
fuori prima di allontanarsi giù per il portico. Mentre
guardava come i capelli color del grano le ondeggiavano sulla schiena,
Éomer si rese conto che la sofferenza di lei lo feriva meno
del previsto. Se ne vergognò.
I vagiti di un
neonato rimbombarono sulle facciate delle abitazioni di
quel vicolo di Edoras. Éomer si voltò verso la
casa di Brandwine e vide Rowan scattare in piedi, allarmata, e sparire
dietro la porta d’ingresso. Il marito si agitò
brevemente sulla panca per poi sistemarsi in una posizione
più comoda. Intanto che il pianto del bambino cessava,
Éomer attraversò il piazzale. Spintonò
con lo stivale il piede dell’amico, riscuotendolo dal sonno.
«È giunto il momento della partenza, Brandwine.
Va’, saluta Rowan e tuo figlio».
7 ottobre 3019,
Terza Era
Palazzo
del Cigno d’Argento, Dol Amroth, Gondor
253 miglia a sud
L’occasionale
tintinnio tra le posate e il bordo del piatto era l’unica
interruzione al silenzio che gravava sulla sala da pranzo. La cena a
Palazzo, specialmente quando circoscritta ai soli membri della
famiglia, non era mai stato un momento particolarmente concitato, ma
era l’unico pasto della giornata a cui tutti partecipavano
devotamente, sottraendosi indistintamente da riunioni di Consiglio,
colloqui o visite.
La cena di quella sera era in linea con quelle
recentemente svolte: il pasto veniva consumato quasi in silenzio e con
un certa fretta. Di tanto in tanto, quando aveva sollevato gli occhi
dal piatto, Lothíriel aveva incrociato lo sguardo di Erchion
o Amrothos, con i quali aveva scambiato un veloce sorriso.
L’atmosfera era troppo plumbea per iniziare una
conversazione, specialmente se frivola. E di ciò che non era
frivolo, a lei, non era dato sapere. Era evidente sul volto di suo padre e dei suoi fratelli che le loro menti fossero rivolte altrove,
verso incombenze che non potevano essere discusse a tavola. Non con lei
presente.
Quando Erchion si
schiarì la gola, Lothíriel
– assorbita nel risultare meno rumorosa possibile e
nell’occupare meno spazio possibile – quasi
trasalì sul posto. «Padre,
credi che siano
già partiti? I nostri amici di Rohan, intendo».
«È
quasi passato un mese, suppongo che sia
così. Sono un popolo affidabile, alleati affidabili.
Sì, dovrebbero già aver lasciato Edoras. Avranno
sicuramente stimato i tempi di spostamento dei loro uo-
delle-», Imrahil si interruppe e a
Lothíriel non
servì sollevare gli occhi dal piatto per immaginare lo
scambio di sguardi che gli uomini stavano avendo.
«I tempi
di viaggio», la voce fredda e controllata
di Elphir ovviò all’impiccio.
«I tempi
di viaggio, esatto».
L’ingresso
in sala di uno dei servitori riorientò
l’attenzione dei commensali. Si avvicinò al tavolo
e presentò con un inchino un vassoio con sopra una lettera
al Principe Imrahil, il quale la scorse velocemente con gli occhi. Gli
altri uomini rimasero in attesa, le posate a mezz’aria. Le
interruzioni erano ormai all’ordine del giorno, raramente i
Principi rimanevano a tavola da inizio a fine pasto.
«Oh»,
Lothíriel percepì su di
sé lo sguardo stupito del padre. «Iriel, sembra
che il Comandante Sîrfalas ti stia invitando a pranzo.
Domani, alla sua tenuta». I suoi fratelli
ripresero a
mangiare, le loro spalle si rilassarono. Eccezion fatta per quelle di
Amrothos.
«Per
quale occasione?», inquisì bieco il
Terzogenito, dando inconsapevolmente voce ai pensieri della sorella.
«Non lo
dice», Imrahil tornò a rileggere
l’invito, «Non
menziona alcun evento particolare.
Credo… Credo sia un semplice pranzo».
Il tono del
Principe mal celava la sua approvazione, la ruga tra le sue
sopracciglia risultava quasi scomparsa. «Mi è
stato riferito che è venuto spesso a cena, nei mesi passati.
Con ogni probabilità vorrà ricambiare la
cortesia».
Amrothos si mosse
sulla propria seduta, le labbra premute in una linea.
Stava indubbiamente fremendo per aggiungere qualcosa alla
conversazione. In termini puramente statistici, nulla di costruttivo.
«Allora avrebbe
dovuto invitare a pranzo Elphir. Fratello,
perché non accetti tu l’invito del
Comandante?». Amrothos aveva combattuto e aveva
perso, e,
soprattutto, aveva accettato la sua sconfitta con un sorrisetto
soddisfatto.
Lothíriel
sgranò appena gli occhi.
«Amrothos…»,
Erchion e Imrahil fecero
eco l’uno all’altro. Elphir proseguì a
mangiare, imperturbabile.
«Non ho
forse detto il vero? Non è di certo stata
lei a proporgli di trattenersi a cena tutte quelle volte. Iriel riesce
a malapena a rivolgergli la parola».
«Questo…
È…», la
Principessa aprì bocca per controbattere,
«È
piuttosto aderente alla
realtà».
«Mi era
stato detto che avevate approfondito la vostra
conoscenza», suo padre la scrutò con
aria
interrogativa.
«Ho inteso male?», la domanda era
rivolta al maggiore dei suoi figli.
«Il
Comandante ha presenziato a quindici cene negli ultimi
sei mesi. La conversazione è stata ricca durante ognuna di
esse».
Amrothos e la
sorella si scambiarono una rapida occhiata che Erchion
intercettò. «Ricca…?
È
così, Iriel? Definiresti come ricche le vostre
conversazioni?», le domandò
quest’ultimo, una nota spiccatamente scettica nella voce.
Elphir
poggiò il calice da cui aveva appena bevuto sulla
tavola, puntando gli occhi inespressivi in quelli della sorella.
L’avere l’attenzione del fratello su di
sé fu sufficiente per metterla in soggezione. «Da
parte sua, il Comandante è-… È
indubbiamente un ottimo conversatore. Questo io-… Io non lo
nego-».
«Le ha
dato in dono alcuni libri», con una
naturalezza derivabile solo dall’esercizio, Elphir si
sovrappose alle parole delle sorella, interrompendola.
«Oh. Dei
libri…», il viso del padre si
schiarì, «Vedo
che ha imparato a conoscere i tuoi
passatempi, Iriel. Questo mi rasserena. Il Comandante dispone di una
ricchissima biblioteca nella sua tenuta. Una raccolta sorprendentemente
varia e di pregio. Hai già avuto modo di
visitarla?».
Erchion si
portò il calice alle labbra, «Una ricca
biblioteca per fare ricche
conversazioni», mormorò
contro il cristallo. Amrothos, che lo aveva udito, sbuffò
dal naso.
«No,
padre. Se non in occasione del Ballo, non sono mai stata
alla sua tenuta».
«Ah
sì? Non sei davvero
stata…?». Imrahil aveva spostato gli
occhi sul
Primogenito. Per quanto vano, Lothíriel non
riuscì a fare meno di essere attraversata da un
impercettibile fremito di frustrazione. Soffriva di come le domande che
il padre rivolgeva a lei a parole, le indirizzasse al fratello maggiore
con lo sguardo.
«In tua
assenza, padre, il Comandante non ha ritenuto
opportuno incontrare Iriel all’esterno del Palazzo. Io ho
condiviso questa decisione», spiegò
Elphir. Alle
orecchie di Lothíriel quest’informazione
suonò del tutto nuova. Mentre si sforzava di metabolizzare
ancora un’altra conversazione che era avvenuta a porte
chiuse, sentì lo stomaco stringersi. Deglutì a
vuoto.
«Inappuntabile.
Ma non mi sarei aspettato di meno da
Sîrfalas», Imrahil tornò
alla figlia,
«Domani. Domani
devi necessariamente domandargli di mostrarti
la biblioteca. Io ne ero rimasto molto colpito. E sono passati anni
dall’ultima volta che sono stato alla Tenuta del Giglio.
Immagino che da allora il Comandante abbia ampliato la sua
raccolta».
«È
già deciso, dunque?». La
voce della Principessa suonò più risentita di
quanto avrebbe voluto. Dietro ai denti aveva trattenute troppe parole.
Suo padre la
guardò con le sopracciglia sollevate.
«Per rifiutare
un invito, Iriel cara, bisogna avere delle
valide motivazioni», precisò con
calma,
«O avere degli
impegni pregressi da far valere. Se
invece-… Se sei esitante a causa della tua timidezza,
naturalmente sai che non sarai sola. Verrai accompagnata».
Imrahil indicò in direzione del figlio minore che si
limitò a tirare le labbra in un sorriso poco entusiasta.
«Il consiglio che avanzo è di non respingere un
invito senza solide ragioni. In particolar modo non in questa fase.
Potrebbe aprire la via a fraintendimenti».
«Quale
fase, padre? In quale fase mi trovo?».
Imrahil
sembrò del tutto disorientato.
«Conoscitiva…
Sì, la chiamerei
così. Non che abbia un vero nome, inteso, ma tu e il
Comandante vi state conoscendo».
La ragazza sentiva
gli occhi dei presenti addosso. Curiosi, confusi,
alcuni ostili. Il bisogno di sottrarsi a quegli sguardi era
martellante, ma un’ulteriore contorsione dello stomaco la
spinse a continuare a parlare. «Padre,
il Comandante
è per me… Uno sconosciuto».
Come poteva
non capirlo, non vederlo?
«Iriel.
No. Il Comandante è il tuo promesso. Non
è uno sconosciuto». Il tono candido
di suo padre
la spiazzò. Iriel,
no. Si ripeté le parole nella
testa. Non è
uno sconosciuto. La pungente, per quanto
familiare, sensazione di non essere stata considerata le
pizzicò sotto le palpebre.
«Non ti sto
capendo». L’apprensione evidente sulla
fronte
dell’uomo.
Nemmeno io,
sussurrò una voce dentro la sua testa, tuttavia
le sue labbra non si mossero. Se lo avessero fatto, sarebbe scivolata
via da lei la già sfuggente presa che aveva sulle sue
lacrime. E non avrebbe mai più pianto di fronte ad Elphir.
Se lo era ripromesso.
Fu incidentalmente assistita
dall’arrivo di un secondo messaggio indirizzato al Principe.
Questa volta più gli occhi di suo padre scendevano sulla
carta, più il suo volto si induriva e fu chiaro che la
conversazione, unitamente alla cena, fosse conclusa. Erchion e Amrothos
si erano alzati dalle sedie ancora prima che il padre terminasse di
riferir loro il contenuto della lettera. «Elphir, Erchion,
Amrothos. Mi avvisano che siamo attesi alle Porte. Iriel, se ci vuoi
scusare. Dovrai terminare la cena senza di noi».
La ragazza li
salutò con inchini del capo, troppo insicura
della stabilità della sua voce per potervi fare affidamento.
Il Principe Erede era l’ultimo degli uomini ad essere ancora
seduto al tavolo, Erchion lo apostrofò dalla porta,
«Elphir, non
vieni?».
Il maggiore
sollevò semplicemente il suo calice, mezzo
pieno.
«Termino. Sarò dietro di voi».
Lothíriel
percepì l’esitazione del
Secondogenito. L’aria rarefatta della sala non doveva
essergli sfuggita.
«Ti aspetto».
«Sarò
dietro di voi». Questa volta
Elphir scandì maggiormente le sue parole. Le repliche non
erano in quel caso ammesse.
«Affrettati»,
così dicendo, e con un
ultimo sguardo alla sorella, anche Erchion lasciò la sala.
Lothíriel
smise di spostare da una parte all’altra
del piatto il boccone che aveva continuato a tormentare
nell’ultima mezz’ora. Era superfluo fingere che
avrebbe mangiato altro. Si portò le mani in grembo,
stringendole a pugno, trovando ogni secondo che passava più
soffocante del precedente. Le pesava addosso lo sguardo scrutatore
Elphir, che però si limitò a svuotare
placidamente il calice. Giunto all’ultimo sorso, fece roteare
il cristallo tra le dita. Sorrise appena. «Mi stavo
chiedendo, sorella, quanto arrogante
tu debba essere per pensare di
poter trascorrere i tuoi anni senza adempiere ai tuoi doveri. Come
principessa. Come figlia. Non c’è che dire, una
vita invidiabile».
Il rumore di lenti
passi che si allontanavano sul marmo
riempì gli istanti successivi.
Note
dell’autrice
• Grazie a chi mi da un prezioso
feedback e grazie anche a voi, lettori
silenziosi. I vostri Seguiti
e Preferiti
non passano inosservati. Ho
fiducia che se qualcosa dovesse colpire il vostro occhio,
favorevolmente o negativamente che sia, troverete il modo di
comunicarmelo. Ora vi saluto, ho un pranzo da organizzare e un cavallo
da far recapitare. A presto!
*¹ Guerra di primavera,
detto
medioevale riferito all’usanza dei feudatari di prediligere
la primavera alle stagioni fredde per intraprendere campagne militari,
al fine di scongiurare carestie.
*² Sîrfalas,
dall’Ovestron saer
(amaro) + phalas
(sguardo); origine
Sindarin. Personaggio originale, nobile di alto rango di Dol Amroth di
retaggio militare, promesso sposo di Lothíriel.
*³ Léofa,
dal
Rohirric léof
(amore) + a (desinenza
maschile che aggettiva
i sostantivi o i verbi a cui è unito). Léofa si
traduce con l’epiteto “amato”.
*⁴ Heruwyn, dal
Rohirric herû
(spada) + wyn
(desinenza femminile che significa
"gioia"). Personaggio originale, amica
d’infanzia di Rowan, Brandwine ed Éomer; con
quest’ultimo, in età post-adolescenziale, ha
condiviso più di un’amicizia.
Razaghena
Riassunto
Capitolo 3 Inizio ottobre 3019. Nel Palazzo di
Dol Amroth
sono in corso i preparativi per la campagna congiunta, di cui
Lothíriel è tenuta scrupolosamente
all’oscuro. La Principessa apprende dalla sua dama di
compagnia i dettagli della partenza: il padre, Elphir e Erchion saranno
alla guida dei cavalieri inviati dal principato. Amrothos
sarà l’unico dei fratelli a rimanere in
città, la cui guida verrà provvisoriamente
affidata al Comandante Sîrfalas, corteggiatore della
Principessa. Le iniziative del Comandante non tardano ad arrivare e
Lothíriel viene invitata a pranzare alla sua tenuta.
A Edoras i preparativi
per la guerra sono terminati. Éomer e
Brandwine trascorrono la notte prima della partenza nella taverna.
Quando l’amico è chiamato ad adempiere ai suoi
doveri di padre, Éomer condivide un momento di reminiscenza
con una donna del suo passato, Heruwyn, che culminerà con il
suo rifiuto di rivivere tali ricordi.
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Capitolo 4 *** Il prezzo del miele ***
8 ottobre 3019,
Terza Era
Palazzo
del Cigno d’Argento, Dol Amroth, Gondor
240 miglia a sud
«Oh...»,
la voce di suo fratello la raggiunse dal basso, «Iriel, sei
stupenda». Erchion si era fermato a guardarla da
in fondo le
scale, un fascio di documenti rilegati in pelle sotto al braccio e
un’espressione stupita in volto. «Non mi sarei
aspettato di vederti così agghindata».
Lothíriel
finì di scendere gli ultimi gradini, afferrando la mano che
il fratello le aveva porto. «Non
me ne prenderei il merito.
Sono stata vestita contro la mia volontà»,
la
Principessa indicò con lo sguardo Thïria, qualche
passo dietro di lei.
«In tal
caso…», Erchion chinò la
testa in
direzione della donna, «Hai
fatto un ottimo lavoro,
Thïria, le mie congratulazioni. Posso immaginare non sia stato
un compito facile».
«Dovere,
Principe, dovere. Ma vedere la Principessa così bella mi
ripaga decisamente delle mie pene».
«Mi
ricorderò delle tue pene anche quando preparerò i
salari», le promise ammiccante. Il suo sguardo
tornò alla sorella, i suoi occhi la percorsero con una certa
incredulità. E anche qualcos’altro, che
Lothíriel non avrebbe saputo definire. Le strinse di
più la mano, «Sembri
proprio…
Sembri-».
«La
mamma», s’inserì Amrothos
mentre li
raggiungeva d’altro lato dell’atrio
d’ingresso. «Woh,
Iriel», si
arrestò a due passi da loro, la stessa espressione del
maggiore. La sua bocca però deteriorò rapidamente
in una smorfia. «Tutto
questo per il Comandante?».
«Amrothos…
Le tue personali antipatie non concernono nostra sorella. Non le sono
utili. Ti prego di tenerle per te».
«Da
quando sei così diplomatico? Trovi il Comandante sgradevole
almeno quanto me. Sono piuttosto certo che lo detestassi con ardente
passione durante gli anni dell’Accademia. Nostro padre ha
dovuto dedicare un intero cassetto del suo scrittoio alle tue lettere,
quelle in cui lo supplicavi di poter essere assegnato a una camerata
dove non ci fossero né lui né Elphir».
Erchion emise un
sospiro. «Sono
passati anni dai tempi in cui eravamo cadetti
all’Accademia e-».
«E
quindi ora hai una considerazione diversa del Comandante? Mi stai
dicendo questo?».
«Nemmeno
le mie personali antipatie concernono
nostra sorella, è
questo quello che sto dicendo. Iriel»,
tirò le
labbra in un sorriso diretto a lei,
«Sono contento che tu
stia facendo del tuo meglio per non dare ulteriori preoccupazioni a
nostro padre. So che questo genere di impegni sociali non sono
congeniali alla tua indole, me ne rendo conto, ma so anche che il
Comandante non sarà spiacevole con te. Per quanto mi costi
ammetterlo, è un uomo acuto, giudizioso. Si contano sulle
dita di una mano i suoi passi falsi. E questo fidanzamento è
indubbiamente importante per lui».
«Ugh»,
il Terzogenito scosse le spalle, come attraversato da un brivido.
«Smetti di
incoraggiare questa grottesca frequentazione,
fratello».
«E tu
smetti di scoraggiare
questa frequentazione, fratello. Nostro padre
l’ha già approvat-».
«Corteggiamento
volevi dire?». Lothíriel
richiamò a
sé l’attenzione dei due uomini.
«Cosa
intendi?».
«Ha-hai
detto fidanzamento poco fa».
«L’ho
chiamato così?».
«Sì,
lo hai fatto, nonostante si tratti di un corteggiamento. Hai sbagliato
termine», le occhiate che si scambiarono i due
fratelli non
furono delle più promettenti, «Perché
hai sbagliato termine, non è così…
Erchion…?».
Il Secondogenito
la fissò qualche istante, impreparato. Si voltò
semplicemente verso il fratello, «Tu
dove sei stato fino
adesso?», gli diede una pesante pacca sulla
spalla,
«Questo è un impegno di Iriel, non uno dei tuoi.
Non puoi farle fare tardi».
«Chi
credi avesse l’incarico di avvisare Madegar della nostra
assenza?», si giustificò Amrothos. «Ho
ascoltato il resoconto della sua mattinata per venti minuti e
argomentato per almeno altri quaranta».
«Argomentato
per cosa?».
Amrothos
sollevò il paniere che teneva in mano. «Non
c’è stato verso. Ha voluto prepararci un pranzo di
riserva. Nel caso in cui, e sto citando, quei lavapentole delle cucine
della Tenuta ci dessero acqua sporca al posto del brodo».
I tre giovani
ridacchiarono. «Tipico
di Madegar, mandarvi a pranzo con il
pranzo», Erchion allungò una mano e
si
appropriò a sorpresa della cesta. Il sorriso sulle labbra di
Amrothos si spense all’istante. «Tuttavia, sarebbe
irrispettoso se vi presentaste con un pasto di ripiego»,
anticipò le proteste in arrivo, «E i consiglieri
saranno lieti di ricevere questo spuntino, la riunione va avanti da
ore. Ora andate, i cavalli sono pronti. Se nostro fratello dovesse
metterti in imbarazzo, sorella, non me lo terrai nascosto,
vero?».
Lothíriel
scosse la testa. Amrothos le porse un braccio, che lei
accettò.
«Pronta?», le sorrise.
«Affatto».
«Ottimo.
Questo è lo spirito»,
commentò senza
battere ciglio mentre la guidava verso l’uscita. Salutarono
Thïria e il Secondogenito sulla soglia.
«Ah,
Iriel». La Principessa si voltò.
Erchion la stava
di nuovo guardando con quell’espressione malinconica negli
occhi. «Al tuo
rientro, prima di cambiarti d’abito,
passa a salutare nostro padre. Quel lilla, che indossi… Era
il colore della mamma. E potreste… No, dovreste parlare
del
tuo avvenire».
Sebbene
il suo rango glielo
avrebbe permesso, il Comandante Sîrfalas non alloggiava a
Palazzo. In una buona posizione panoramica, su di un crinale con ampia
vista sulla Baia del Principe e sui Porti Commerciali, si trovava la
sua tenuta di famiglia, conosciuta in città come la Tenuta
del Giglio. Il verdeggiante giardino davanti alla villa era in parte
pensile e terminava con un emiciclo racchiuso da mura di pietra
opalina.
Superati gli alti
cancelli, lo sguardo di Lothíriel spaziò sulla
facciata principale che si stagliava contro il cielo del mezzogiorno.
L’iridescente blasone araldico catturava immediatamente
l’attenzione. L’intarsio di madreperla che
componeva il giglio di mare al centro dell’insegna nobiliare
scomponeva i raggi solari diventando una fonte fulgente di luce
rifratta. Si diceva che una nave che giungesse ai Porti di Dol Amroth
avvistasse il giglio bianco dello stemma del Comandante ancor prima
delle luci faro.
Dopo che i suoi
occhi si furono abituati alla luminosità della villa,
conversero naturalmente sulla figura del Comandante. Era un uomo dalla
notevole fisicità, e il taglio della sua divisa non faceva
che sottolineare le sue spalle larghe. Sarebbe spiccato in qualsiasi
folla, ma anche così, in piedi sotto il loggiato centrale
della sua gloriosa tenuta, il suo portamento era inequivocabile.
Inequivocabilmente superbo. Lothíriel inspirò
profondamente. Sarebbe andato tutto bene. Era solo un pranzo.
Il Comandante
andò loro incontro. «Principessa,
benvenuta. Grato
che abbiate accettato il mio invito», le
sfiorò il
dorso della mano con un bacio. Prolungò il contatto tra le
loro mani oltre al necessario, mentre le sue iridi di ghiaccio si
muovevano sui lineamenti di lei. Sollevò appena un angolo
della bocca e ritirò la mano. La ragazza ebbe la sensazione
di aver appena superato una valutazione. «Di rado posso
godere di una compagnia così piacevole».
Il cuore
della Principessa tamburellò contro il suo sterno. Era solo
un pranzo.
«È
vicendevole», Amrothos si affiancò
alla sorella
con un sorriso di cortesia esposto sulla faccia.
«Comandante»,
chinò la testa.
«Terzogenito».
«La-la
tenuta», Lothíriel si
schiarì la gola
quando il silenzioso braccio di ferro tra i due uomini si era fatto
insostenibile, «È-…
È
veramente magnifica, mio signore. Ho avuto poche occasioni di visitarla
all’infuori del Ballo, ma-ma è esattamente come la
ricordavo». La sua voce la stava tradendo ancora
prima che il
pranzo fosse iniziato.
Gli occhi del
Comandante abbandonarono finalmente il fratello. «Porremo
rimedio anche a questo. Ora», indicò
in direzione
della villa, «Seguitemi,
accomodiamoci
all’interno».
Passando per
l'atrio e un corridoio riccamente arredato con armi e stemmi,
raggiunsero la sala da pranzo. Varcata la soglia, Amrothos
soffocò una risata. «Comandante,
così
mi fate sentire mancante. Nel vostro invito avevate omesso la
necessità di portare un binocolo». La
tavolata
eccezionalmente lunga che troneggiava al centro della sala era stata
apparecchiata in maniera peculiare: due posti a un capo del tavolo, un
posto all’estremità opposta. In mezzo, svariati
metri.
«Mi era
stato detto che sarebbe stato sufficiente che la dama di compagnia
rimanesse nel nostro stesso ambiente», il
Comandante
commentò inespressivo.
Lothíriel
e il fratello si scambiarono una rapida occhiata. Vide Amrothos
inspirare lentamente, il sorriso di cortesia ancora innaturalmente
tirato sulle labbra. Intanto che prendeva posto sulla seduta in fondo
al tavolo, le lanciò un ultimo, eloquente sguardo, muta
richiesta di non trattenersi troppo lungamente.
Sentì
una mano alla base della schiena, «Di
qua,
Principessa». La voce del Comandante
suonò sopra
al suo orecchio,
«Sedetevi».
D
opo quella che sospettava
essere la terza portata – l’incessante turbinio di
salse, intingoli e contorni aveva reso difficile tenere il conto delle
portate – Lothíriel iniziò a chiedersi
quando si sarebbe potuta sottrarre allo sguardo esaminatore del
Comandante. I suoi occhi vigili l’abbandonavano solo il tempo
di inforcare il suo prossimo boccone. E trovava la sua aura soffocante.
Sicuro, autoritario, dominante. Le tornava continuamente alla mente il
maggiore dei suoi fratelli, con cui il Comandante condivideva non solo
il portamento, ma anche una decennale amicizia. Non poteva
però negare che l’uomo fosse un naturale oratore,
a modo, cordiale, abile nel mantenere viva la conversazione
indipendentemente dalle inclinazione del proprio interlocutore. Che, in
questo caso, erano pressoché nulle.
«Concedetemi
di dirvelo, Principessa. Vi trovo molto gradevole»,
la
noncuranza con cui quelle parole avevano lasciato la bocca
dell’uomo la spiazzarono.
«Co-come?».
«Il
vostro aspetto», chiarì senza
smettere di tagliare
il suo filetto di pesce spada, «Siete
molto gradevole agli
occhi. E c’è un certo candore in voi che trovo
apprezzabile».
«Grazie»,
la voce di Lothíriel perse gradualmente di convinzione. Non
era più nemmeno sicura di come si rispondesse a un
complimento. Limitarsi a ringraziare sarebbe stato sufficiente? Si
stava aspettando altro da lei il Comandante? Sapeva che Elphir si
sarebbe già da tempo spazientito di fronte alle sue risposte
inadeguate.
Il Comandante
chinò la testa di lato, studiandole l’espressione.
«Vi ho forse
offeso lodando il vostro aspetto?».
«Oh no,
mio signore. No davvero». Gli occhi grigi del
Comandante non
l’abbandonavano. Si sforzò di approfondire la
risposta.
«No-non sapevo bene cosa dire».
«Principessa, frequento
il Palazzo da anni. Sono a conoscenza delle… difficoltà
che esibite», la gola di
Lothíriel si strinse, «Vorrei
assicurarvi che non
mi aspetto ora, né mai lo farò, che voi siate
versata nell’arte del conversare. È una aspetto
che non ha peso ai miei occhi. Tanto più in una
donna».
La ragazza
deglutì e si impose di far uscire le parole senza
tentennamenti. «Pertanto,
cosa direste che vi aspettate da
me?».
«Se mi
state chiedendo cosa mi aspetto da una moglie… Ubbidienza.
Lealtà». Si portò la
forchetta alla
bocca e masticò con indolenza il suo boccone. Aveva
assottigliato lo sguardo, come se stesse soppesando qualcosa.
«Se invece mi
state chiedendo cosa mi aspetto da
voi», proseguì lentamente, «il prestigio
derivato da uno sposalizio con la figlia del Principe lo
reputerò più che sufficiente».
Lothíriel
non fu certa di essere riuscita a controllare la propria espressione.
Strinse inavvertitamente la presa attorno alle posate. «Siete
stato alquanto… di-diretto, mio signore».
«Non
ditemi che il parlare onesto vi intimorisce».
«Non
è la vostra onestà che mi spaventa. Piuttosto, le
vostre intenzioni». Seguì
un istante di silenzio. Nonostante fosse riuscita a pronunciare quelle
parole senza vacillare, sentì di non avere potere sui propri
occhi. Erano incollati al bordo del piatto e non volevano sollevarsi.
Nemmeno quando il Comandante si lasciò andare a una risata
divertita.
«Elphir,
Elphir… Mi ha mentito quando mi ha assicurato che sareste
stata docile. Un’opinione, una voce, vedo che ce
l’avete. Decisamente
interessante…». Quelle parole
pronunciate con
tanta facilità le si conficcarono dritte tra le costole.
«Come
può farvi paura qualcosa che è
stato palesato, Principessa?»,
continuò,
«Credete forse
che io faccia dono della mia schiettezza a qualsiasi fanciulla della
Baia?».
«Questo
no-non mi è dato saperlo».
«Uhm…»,
un altro beffardo sbuffo dal naso, l’uomo non sembrava voler
nascondere quanto fosse intrattenuto dal loro scambio, «Se
potete prendermi in parola, vi assicuro che non è
così. Perché dunque pensate che abbia scelto di
essere franco con voi?».
«In
tutta verità, non saprei dirlo».
«Tuttavia
è semplice. Voi diverrete mia moglie,
Principessa». Lothíriel
trovò il
coraggio di sollevare gli occhi in quelli dell’uomo, che
sostenne con innata calma il suo sguardo. Le rivolse persino un
sorriso. «Per
questo ho voluto fare una gentilezza a me
stesso, e a voi, e risparmiarci frivole recite. Non ho alcuna
intenzione di versare miele nelle orecchie della mia promessa sposa.
Nelle vostre di orecchie. Che beneficio ne avremmo
ricavato?». Benefici, prestigio, guadagno.
Sentir parlare del
suo matrimonio in termini economici, politici le stava facendo
contorcere lo stomaco. «Ma
leggo sul vostro volto del
disdegno, Principessa».
«Vi
stupisce che io mi possa sentire insultata dalle vostre
parole?».
«In
realtà no. Suppongo sia la più prevedibile delle
reazioni. Ma vi ho conosciuto attraverso le parole di vostro fratello e
vostro padre, e so per certo che l’acume non vi manca.
L’insulto si trasformerà in lusinga, se
pondererete sufficientemente a lungo le mie parole. Quanti uomini
portano le loro intenzioni cucite sul petto?».
«Vi
ripeto, Comandante, non è la vostra onestà a
intimorirmi ma le vostre intenzioni».
«Quanti
corteggiatori avete avuto fino ad ora, vostro padre ve lo ha mai
riferito?». La brusca virata della discussione
la
lasciò interdetta. L’uomo la incalzò,
«Assecondatemi,
vi prego. Conoscete il numero degli uomini
che hanno chiesto fin’ora la vostra mano? Inclusi quelli che
sono stati preventivamente dissuasi da vostro fratello,
inteso».
«Io
non… Io non saprei indicarvi un numero».
«Diciassette.
E sto volutamente escludendo quelli che hanno avvicinato vostro padre
prima ancora che foste in età da marito»,
l’uomo accennò a una smorfia di disgusto prima di
prendere un sorso dal proprio calice. Per tutto il tempo aveva
placidamente continuato a pranzare, masticando al contempo il cibo e le
emozioni del suo interlocutore. «Ditemi
ora, quanti di questi
nobili rampolli provenienti da dentro e fuori il Dor-en-Ernil credete
non abbiano mai considerato il vostro titolo, la vostra
posizione?».
«Non ho
modo di saperlo».
«Ma
potete supporlo. Fate un’ipotesi, dite un numero. Dieci?
Otto, forse? Suona plausibile che metà dei vostri
corteggiatori possa non aver mai pensato al vostro titolo? Cinque?
Quattr-».
«Suppongo…»,
lo fermò nella speranza che le pulsazioni che sentiva nelle
orecchie si placassero, «Suppongo
che tutti loro abbiamo
tenuto conto in qualche misura dei privilegi che avrebbero
acquisito».
L’uomo
le sorrise nuovamente. Tronfio. «Ora,
Principessa, ditemi un
altro numero. Il numero di uomini che credete avrebbero palesato a voi
le loro intenzioni».
«Ho
inteso il vostro ragionamento, Comandante. Ciò non toglie
che… che…», una mano di
Lothíriel andò inconsapevolmente a premersi
contro lo stomaco. Respirare stava diventando difficile. «Il
fatto che i sentimenti non ricoprano alcun ruolo nel vostro piano
è… è per me… Mi-mi
disturba».
Il Comandante
sembrò per la prima volta preso in contropiede.
«Sentimenti…»,
saggiò
lentamente quella parola, facendola scivolare sulla lingua.
«Principessa, voi mi amate?».
L’ennesima
virata della conversazione le fece girare la testa. «Io-io
nemmeno vi conosco…».
«Non
sarebbe dunque insensato se vi stessi confessando il mio amore?
Eppure…», piegò il collo
di lato,
«È forse questo ciò che vi
manca?».
«No…»,
esalò la ragazza.
«Dichiarazioni,
sonetti? Può darsi che io abbia commesso questo errore?
Avrei realmente dovuto prediligere il miele?»
«Trovate
così irrisorio aspettarsi di essere considerata
più di… di prestigio
impacchettato in una forma
gradevole ai vostri occhi?».
«Io non
escludo i sentimenti, Principessa», la voce del
Comandante
era tornata asciutta e incolore.
«È auspicabile
che, negli anni, i sentimenti giungano. Ma non ho intenzione di
fabbricarli per compiacervi. Non sarebbe una scelta
efficiente». I suoi occhi caddero sul piatto
della
Principessa, abbandonato da tempo.
«Non mangiate
più? Vi faccio portare un piatto che non sia freddo, se lo
gradite».
«No.
Cre-credo… Non ho più appetito».
Prese
a stirarsi le pieghe dell’abito in grembo, eludendo al suo
sguardo.
«In tal
caso, siete libera di andarvene, Principessa».
«Co-come?»,
la voce la stava abbandonando del tutto.
«Credevate
forse di essere mia prigioniera? Vi garantisco che la mia tenuta non ha
sotterranei e, se li avesse, non vi trovereste le persone che invito a
pranzare con me. Sarebbe con ogni probabilità occupata da
metà del Consiglio di vostro padre»,
le rivolse un
mezzo sorriso.
Lothíriel
rimase per l’ennesima volta interdetta. I continui
cambiamenti di tono dell’uomo, le sue indigeribili parole, i
suoi freddi ragionamenti, i suoi sorrisi.
L’unico aspetto prevedibile del Comandante era la sua
imprevedibilità. «Non
voglio mancarvi di rispetto.
Non lascerò la tavola che avete imbastito per me».
«Davvero
non mangerete più?», il suo tono era
ora
premuroso. Premuroso? Le tempie della ragazza presero a pulsare,
preannunciando un terribile mal di testa. «Ho fatto preparare
la cotognata*¹ per voi. Ve la faccio volentieri portare, se
preferireste passare direttamente a quella».
Il suo dolce
preferito. Qualcos’altro che non era stata lei a confidargli.
«No…
Vi ringrazio, Comandante».
«Allora
avete il mio permesso, abbandonate liberamente la tavola. Spogliamoci
di inutili sensi di colpa o del dovere. Siamo
convenuti che sarà l’onestà a guidare i
nostri scambi». Il Comandante si era alzato e si
era portato
dietro la Principessa, pronto a spostarle la sedia.
«A
questo, siamo convenuti?», domandò
confusa mentre
si alzava in piedi. Accettò titubante il braccio che le
veniva offerto.
«È
la mia speranza. Io sono stato l’iniziatore, è
vero, tuttavia ho fiducia che vi convertirete alle mie vie. Vi chiedo
di esaminarvi, Principessa, ve ne darò il tempo»,
le parlò intanto che attraversavano la sala da pranzo.
«Esaminate
ciò che vi ha infastidito delle mie
parole. Ponetevi attenzione. Credo che, infine, riterrete la
verità essere una fondazione più solida del
miele. Ora andate, non mi cruccerò di essere stato lasciato
prima del tempo. La biblioteca, ve lo prometto, ve la farò
visitare al nostro prossimo incontro». Avevano
raggiunto
Amrothos, che era entusiasticamente saltato su dalla sua sedia al loro
primo segnale di movimento.
«Non vi
ho mai chiesto di visitare la biblioteca».
Lothíriel corrugò la fronte.
«È
così? Devo essermi sbagliato».
«Il tempo di
un’altra portata e avrei
ultimato la mia fionda», Amrothos
spezzò il
gravoso silenzio che li stava accompagnando da quando si erano lasciati
alle spalle la Tenuta del Giglio.
«Cosa
hai detto?», Lothíriel riemerse dai
turbinosi
pensieri.
«Una
fionda. La stavo costruendo con le posate, ma ammetto di essere stato
messo in difficoltà dal laccio. Mi stavo avvicinando,
però. Avrei trovato presto una soluzione».
Lothíriel
lo guardò confusa. «Una…
una fionda di
posate. A cosa ti sarebbe servita una fionda di posate?».
«Per
lanciarvi del cibo, naturalmente. O lanciarlo alle vetrate, non ne sono
certo. Non ero arrivato a quel punto del piano».
La Principessa
accennò un sorriso in direzione del fratello. Sapeva cosa
stava cercando di fare e avrebbe parlato con lui. Eventualmente. Non
appena fosse riuscita a dare ordine ai suoi stessi pensieri.
Uno scalpitio di
zoccoli li fece voltare. Due cavalieri li superarono al
galoppo, risalendo la via che conduceva al Palazzo. Montavano magnifici
destrieri dalle verdi bardature e sui loro alti stendardi sventolava il
Cavallo Bianco di Rohan. Poco dietro di loro, un cavallo dal lucente
manto morello li seguiva al trotto. Non era sellato e non portava
nemmeno le redini, ma rispondeva con straordinaria ubbidienza ai
segnali dei due uomini. Si arrestarono di fronte all’entrata,
dove smontarono di sella; due guardie stavano già andando
loro incontro.
Lothíriel
e il fratello spronarono i cavalli senza bisogno di accordarsi. Non
appena ebbero raggiunto gli ospiti, si rivolse ad Amrothos una delle
guardie di Palazzo. «Principe»,
s’inchinò, «Messaggeri
provenienti da
Rohan sono giunti in questo momento».
«Lo
vedo, Damegond, ti ringrazio. Vi do il benvenuto a Dol Amroth, signori.
Il Principe Imrahil è al momento impegnato con il Consiglio,
potrete riferirgli il vostro messaggio dopo esservi rifocillati. Se
l’urgenza del vostro messaggio lo richiede,
affretterò l’incontro».
I due rohirrim
s’inchinarono in segno di saluto e uno dei due fece un passo
avanti. «I
nostri nomi sono Eòghann e Cadeyrn,
viaggiamo sotto lo stendardo del Mark. Vi ringraziamo per il vostro
benvenuto e l’ospitalità. Cerchiamo tuttavia la
Principessa Lothíriel, il nostro messaggio è
destinato a lei».
Il volto di
Amrothos non nascose il suo stupore. «Presto
detto», prese per mano la sorella che stava
assistendo in
disparte di qualche passo, e la presentò. «Questa
è Dama Lothíriel, Principessa di Dol
Amroth».
I due cavalieri si
scambiarono una rapidissima occhiata d’intesa che la ragazza
non avrebbe saputo interpretare e s’inchinarono nuovamente in
segno di saluto. Lothíriel sbatté le palpebre un
paio di volte prima di ricordarsi delle buone maniere.
«Be-benvenuti, Eòghann e Cadeyrn di Rohan.
Entrate,
vi prego. Consumate un pasto caldo. Mando a chiamare qualcuno che si
faccia carico dei vostri cavalli».
«Mia
signora, siamo costretti a rifiutare l’invito. Siamo entrambi
impazienti di ricongiungerci al nostro Re e al suo esercito in marcia
verso il Lebennin». Con la coda
dell’occhio,
Lothíriel vide il fratello muoversi nervoso.
Comprensibilmente nervoso. Di eserciti e di guerra nessuno aveva mai
proferito parola davanti a lei.
«Non vorremmo intrattenerci
più del dovuto», gli occhi della
ragazza scesero
sulle spade che portavano appese alle cinture. Erano indubbiamente
soldati oltre che messaggeri.
«Del resto non vi ruberemo
troppo tempo. Per voi abbiamo un dono».
«Un-un
dono, mio signore?», Lothíriel si
chiese se fosse
stato il loro forte accento ad aver deformato quel termine.
«Ho inteso
bene?».
«Sì,
Principessa. Portiamo il dono del nostro Re, una gemma del
Mark», così dicendo si
scostò di lato,
facendo schioccare due volte la lingua. Il cavallo che non indossava i
finimenti rispose al richiamo e si avvicinò fino ad
arrestarsi con il muso all’altezza della spalla
dell’uomo. «Il
nome di questa giumenta è
Gléodis, è nel suo settimo anno di età
e ha terminato la formazione alla monta. Ed è
vostra».
Uno sbuffo
divertito sfuggì dalle labbra della ragazza, che si
portò le mani alla bocca non appena il suo cervello ebbe
registrato quello che aveva fatto. «Non-non
rido di voi,
signori. Perdonatemi», si affrettò a
chiarire,
mortificata, «Sono
solo… Confusa. Credo».
«Avvicinatevi,
toccatela», la invitò il messaggero.
«È
nata nelle Scuderie Reali di Edoras, discende
da una delle razze superiori, imparentate con i mearas. Il Re
solitamente onora i propri Marescialli o gli Ufficiali particolarmente
meritevoli con un regalo sì prezioso»,
le
spiegò mentre la ragazza avvicinava cautamente una mano al
muso dell’animale. Era innegabilmente il cavallo
più bello che avesse mai visto. Non era paragonabile ai
destrieri della Scuderia di suo padre. Il manto lucido, la muscolatura
possente e tesa, gli occhi vispi. Quel cavallo era semplicemente
magnifico.
Lothíriel
ritrasse riluttante la mano con un’ultima, lentissima carezza
alla testa montanina dell’animale. «Io…
Io non posso accettarlo. È un dono immeritato».
«Principessa,
con tutto il rispetto, chiunque si fosse sentito degno di ricevere un
dono simile sarebbe dovuto passare sopra la brace del capretto prima di
averlo».
La ragazza
fissò interdetta il messaggero che aveva parlato.
«Il-il…
capretto… dite?», non
aveva idea di cosa avesse appena sentito.
Gli uomini di
Rohan erano passati a sellare Gléodis con i finimenti che
fino ad allora avevano trasportato sulle loro cavalcature.
«Accettate a
cuor leggero questo dono, mia signora, di cui
peraltro avete intuito il valore. Saprete trattarlo di
conseguenza», uno dei due aveva finito di
imbrigliare il
cavallo. La bardatura era differente da quelle a cui
Lothíriel era abituata; meno appariscente, senza insegne
né stemmi. La mano degli artigiani del Mark visibile nella
linea perfettamente ponderata della sella e nel particolare intreccio
delle briglie doppie. I cavalieri continuarono ad assicurare le cinghie
del sottopancia senza curarsi più di tanto delle proteste
della giovane, che, non sapendo come comportarsi, cercò
disperatamente con lo sguardo l’appoggio di Amrothos.
Quest’ultimo si strinse semplicemente nelle spalle.
«Principessa,
in tutta coscienza non posso permettervi di rifiutare un purosangue di
Rohan senza prima avervene fatto saggiare
l’andatura», così dicendo,
Eòghann l’aveva afferrata per i fianchi e fatta
salire in groppa al cavallo.
La ragazza si
passò il dorso di una mano sulle guance che andavano
scaldandosi. A quell’improvviso contatto era a stento
riuscita a trattenere in gola un gridolino. Nessuno
all’infuori della sua famiglia l’aveva mai toccata
in quel modo, per di più con la naturalezza
dell’uomo che ora stava pronunciando incomprensibili parole
rivolte al cavallo su cui era stata posta. A quel comando,
Gléodis scrollò il collo e balzò in
avanti.
Ci volle qualche
secondo prima che riuscisse a prendere in mano le redini, ma le
andature non avevano bisogno di essere
riassestate. Percorse a ritroso il selciato che portava al Palazzo e, a
tratti, le sembrò che gli zoccoli non toccassero terra, tale
era la sensazione di leggerezza che il portamento
dell’animale trasmetteva. Non resistette
all’impulso di spronarla. Immediatamente i suoi muscoli
tonici si tesero e gonfiarono e la sua testa iniziò la sua
danza. Lasciò i giardini della Residenza e volò
giù per la via principale, scansando gli ignari cittadini
con impressionante grazia. La prima piazza, la seconda, poi
la terza. Si trovò alle mura inferiori nel tempo di un paio
di battiti. Il suo cuore non faceva però fede, stava
attivamente cercando di uscirle fuori dal petto.
«Principessa…
Siete voi?», una volta che si era
arrestata sotto le mura, sentì una voce
maschile chiamarla
dall’alto
«Ohtar!
Abbiamo una buona giornata oggi, nevvero?»,
rispose raggiante
all'anziano guardiano dei Cancelli che la stava guardando moderatamente
sconcertato.
«Sì,
è… È così,
sì».
«Oh
no». Lothíriel cercò con
lo sguardo la
fonte della seconda voce familiare. Eccola, Thïria,
all’uscita di una delle botteghe della cittadina bassa. Un
cesto rovesciato ai suoi piedi. Gli occhi sgranati, fissi sul suo
gigantesco animale morello. «No-no-no-no-no-NO!».
«Oh-oh»,
l’espressione della sua dama di compagnia non era delle
migliori. «Devo
andare, Ohtar! Buon lavoro!»,
diede con i polpacci la guida al cavallo, che schizzò in
avanti. Con l’adrenalina che ancora le scorreva in tutto il
corpo, risalì la via centrale dovendo a malapena condurre
l’animale. In un attimo stava nuovamente percorrendo i
sentieri bianchi che ritmavano i giardini del Palazzo. Sulla scalinata
d’ingresso si era unita al fratello una nuova figura. Le fu
facile riconoscere il padre.
«Credevo
di stare avendo una visione quando le vetrate della Residenza hanno
iniziato a tremare. Tua madre che galoppa davanti al
Palazzo», Imrahil si era accostato al figlio
minore,
«Ma vedo ora
che si tratta di… Iriel.
Dimmi, perché mia figlia è in sella al
più
grande destriero della Baia, Amrothos? Cosa sta succedendo?».
Amrothos si
grattò la nuca. «Messaggeri
da Rohan, padre. Hanno
portato un destriero in dono a Iriel. Da parte del loro Re,
pare».
«Éomer?
Re Éomer…?», i solchi
sulla nobile
fronte del Principe si fecero più profondi,
«Questo non ha
alcun senso».
Lothíriel
aveva fermato l’animale di fronte ai gradini della Residenza
e smontato di sella gettandosi praticamente tra le braccia del padre,
che l’aveva prontamente afferrata. «Questo cavallo,
padre, questo cavallo! Ha il completo controllo di ogni suo muscolo,
dico il vero. Io non ho mai, mai
visto un cavallo così nelle
tue Scuderie. Modifica la traiettoria con una precisione
tale… E anche ad alte andature non perde in morbidezza,
e… e-». Suo padre si
schiarì la gola,
interrompendo il fiume di entusiasmate parole con cui
Lothíriel lo aveva investito. La ragazza riprese fiato,
tornando ai propri sensi. Si voltò verso i messaggeri di
Rohan; esposti sui loro volti, due grandi sorrisi compiaciuti.
«Oh, io con
questo non volevo dire che accetterò
il regalo, sapete io non posso… Non…
Posso…?»,
guardò il padre da sotto le
lunghe ciglia,
«Non è così…
padre? Io non…».
«Non
puoi», Imrahil confermò.
«Non
posso accettarlo, mi dispiace»,
Lothíriel concluse
rivolgendo loro un veloce sorriso,
«Vi-vi prego comunque di
rifocillarvi, se la fretta ve lo permette. Avete affrontato una
settimana di viaggio per venire qui, non ripartite senza aver
riposato».
Eòghann
e Cadeyrn si scambiarono uno sguardo, e fu quest’ultimo ad
iniziare a parlare.
«Lungi da noi cercare di forzarvi
ulteriormente la mano, Principessa. Ma secondo le leggi del nostro
popolo, se ci allontanassimo ora con Gléodis, verremo
accusati di furto».
«Oh»,
Lothíriel lanciò un’occhiata al padre.
«Furto…»,
ripeté
sommessamente.
«Furto,
padre», Amrothos sottolineò in un
sussurro.
Imrahil inspirò lentamente.
«Altresì,
se deciderete di rigettare il dono del Re»,
proseguì Cadeyrn, «Quale messaggio
desiderate che io riferisca al mio signore?».
«Umh... Rigettare
il dono…», Amrothos esalò
sottovoce
mentre si stiracchiava la schiena.
Il padre
espirò rumorosamente, massaggiandosi ad occhi chiusi la ruga
in mezzo alle sopracciglia. Quando li riaprì e
guardò la figlia, il cuore di Lothíriel
esultò facendo capriole sul suo stomaco. L’uomo
aveva un’espressione tormentata, a metà tra il
rimprovero e la resa. «Iriel…»,
iniziò minaccioso.
«Padre».
Imrahil
sospirò.
«Accompagnata. Sarai sempre accompagnata
quando uscirai a cavallo. Sempre.
Dentro e fuori dalle mura. Mi hai
inteso?».
La figlia si
limitò ad annuire con forza ad ogni frase. Aveva paura
di parlare, timorosa di spezzare quel momento.
Lo sguardo di suo
padre tornò morbido, le sue spalle si rilassarono.
«Re
Éomer», si rivolse ai due uomini di
Rohan, «Vi ha
forse spiegato il motivo di questo dono
inaspettato? Non me ne aveva fatto parola quando sono stato suo ospite,
meno di un mese fa».
«Gléodis
è accompagnata da un messaggio per la Principessa. Ho il
vostro permesso di riferirlo pubblicamente?».
«Certamente»,
acconsentì la ragazza.
I due messaggeri
temporeggiarono, guadagnandosi qualche istante. Nessuno dei due dava
l’impressione di bruciare di desiderio di trasmettere il
messaggio. Cadeyrn perse la muta battaglia di occhiate e si
schiarì la gola. «Messaggio
di Re Éomer
a Dama Lothíriel: Un gioiello del Mark per il gioiello del
Sud. Un dono propiziatorio per il nostro primo, anticipato
incontro».
Nemmeno con due
settimane di allenamento, Lothíriel, Amrothos e Imrahil
sarebbero riusciti a piegare la testa di lato con
l’impeccabile sincronia che avevano appena esibito.
«Come?».
208 miglia a nord
É
omer torse il
collo e strinse gli occhi, premendosi insistentemente un palmo contro
l’orecchio. Un improvviso, fastidioso ronzio aveva preso a
tormentarlo da qualche minuto. Sotto di lui, Zoccofuoco
scrollò di riflesso il possente collo.
«Cosa
succede, Éomer?». Brandwine aveva
affiancato il
cavallo al suo.
«Un-un
ronzio», grugnì scuotendo la testa.
«È dannatamente persistente».
Tra lo scalpitio
degli zoccoli, sentì la risata malamente trattenuta
dell’amico. Aprì un occhio per fulminarlo,
«Ti
diverte?».
Brandwine sorrise,
del tutto impenitente, «Ti
fischiano le orecchie. Qualcuno
deve starti pensando, non credi?».
Note dell’autrice
• Ho optato per l’intramontabile classico dei fischi
nelle orecchie. Spero mi perdonerete il cliché. Alla
prossima!
*¹ Cotognata,
dessert a base di
mele cotogne diffuso in Europa a partire dal Seicento. Si tratta di una
marmellata lasciata essiccare e solidificare; servita solitamente a
cubetti.
• Stato di
famiglia – Visto il mio sconsiderato uso
di appellativi ufficiali e ufficiosi, ho pensato di lasciarvi un breve
riepilogo dei personaggi secondari che animano la famiglia di
Lothíriel
(20).
Oltre ad Imrahil
(64), attuale Principe di Dol Amroth, saranno
ricorrenti i suoi tre figli: Elphir
(32), Primogenito o Erede;
Erchion
(29), Secondogenito; Amrothos
(25), Terzogenito. Alphros (2), figlio
di Elphir, è già nato
nell’anno in cui è ambientata la storia anche se,
unitamente alla madre, comparirà marginalmente. Erchion e
Amrothos sono da considerarsi celibi. La
zia Ivriniel
(72) è viva e arzilla, e sono quasi certa
che si stia godendo la vita in qualche tenuta costiera, totalmente e
beatamente ignara delle vicissitudini dei suoi nipoti. La
presenza della madre
di Lothíriel avrebbe ulteriormente
appesantito le dinamiche relazionali. Per tanto, il sole
è caldo, l’acqua è bagnata e la madre
di Lothíriel è morta di parto. Non
avrà ricevuto un nome, ma in compenso offrirà un
ottimo retroscena emotivo ai restanti personaggi. Ah,
dimenticavo il cugino Faramir
(36). C’è, ma
è come se non ci fosse. Sapete, Éowyn,
l’Ithilien, l’amore.
Razaghena
Riassunto Capitolo 4 Lothíriel
si reca alla tenuta del
Comandante Sîrfalas per il pranzo. L’uomo palesa le
sue intenzioni e propone alla Principessa di considerare un matrimonio
di convenienza basato sulla brutale onestà, seppur svuotato
dell’amore. Rientrata a Palazzo l’attendono due
messaggeri provenienti da Rohan; le consegnano Gléodis come
dono da parte di Re Éomer, assicurando il disorientamento
generale di tutti i presenti.
|
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Capitolo 5 *** All'ombra degli ulivi ***
12 ottobre 3019,
Terza Era
Palazzo
del Cigno d’Argento, Dol Amroth, Gondor
173 miglia a sud
La
fronte
aggrottata di Erchion riemerse da dietro il resoconto su cui aveva
invano cercato di concentrarsi negli ultimi minuti. Poggiò
la schiena contro la sedia e lasciò che il suo sguardo
vagasse per il soffitto del salottino della colazione. Nel primo
mattino, l’ala residenziale del Palazzo era ancora avvolta in
un morbido torpore, interrotto unicamente dal ritmico scricchiolio di
gusci di noce.
«Mi
chiedo…», alla voce del figlio,
Imrahil, seduto di fronte a lui, sospese la sua metodica –
per quanto elegante – carneficina di frutta secca, «Per un gioiello del
Sud… Per. Quel
per. Per come ‘indirizzato a’ o come
‘in cambio di’? Da che parte iniziare ad
interpretare quel messaggio?».
Il
padre mugugnò un mezzo sospiro e riportò la sua
attenzione alle noci che giacevano sparse davanti a lui.
«Credi sia
un’usanza di Rohan quella di inviare doni propiziatori? Hai
mai sentito parlare di qualcosa del genere, padre?».
«Ti prego…
Erchion…». Una dopo
l’altro, i gusci continuavano a soccombere rumorosamente tra
le mani del Principe.
«Potrebbe esserci
sfuggito qualcosa», il Secondogenito
seguitò a ragionare ad alta voce, deliberatamente noncurante
degli occasionali brontolii di insofferenza provenienti
dall’altra parte del tavolo, «Era apparente che non
fosse uomo da confidenze, ma arrivare a non fare cenno di voler
corteggiare Iriel… Certo, Re Éomer è
celibe. E giovane. E da poco sul trono. Potrebbe forse essere questa la
chiave? È in cerca di una regina e il suo sguardo
è arrivato fino a Gondor?».
Un
frammento legnoso sfuggì come una scheggia volante allo
schiaccianoci del padre. Erchion lo scansò con un
sopracciglio alzato.
«Padre, ci sono modi più ortodossi per farmi
tacere».
Imrahil
poggiò lo strumento incriminato sul tavolo. «Erchion»,
inspirò profondamente, «Non
dormo da due notti. Tua sorella non l’ho più vista
se non in sella a quel cavallo i-i-indecorosamente…
sfacciatamente… grande. Ti ho già detto che
il suo scalpitio mi suona nelle orecchie ognora?».
«Credo di avertelo
sentito dire».
«Notte e giorno, giorno
e notte. Come un monito», Erchion
seguì con gli occhi la mano del padre stringersi attorno lo
schiaccianoci, «Dai
prova di avere un po’ di compassione di tuo padre, te ne
prego», lo implorò Imrahil
riprendendo a far scoppiettare i gusci sotto le dita.
«Credevo avessi in
stima il Re di Rohan».
«È
così, è così. Questo non è
messo in dubbio. È un giovane pregevole, di una rara tempra.
Nondimeno», il Principe diede enfasi alle sue
parole fendendo l’aria con il suo luccicante strumento di
morte, «tua
sorella è già promessa. Ogni ulteriore
corteggiamento è fuori discussione».
«Chiaro,
chiaro». Erchion riportò di nuovo la
sua attenzione sul resoconto. Inutilmente. Era forse passato un minuto
prima che tornasse alla carica,
«Non
sarebbe il primo fidanzamento nella storia del principato a venire
interrotto. Le nozze non sono nemmeno state annunc-».
«Perché
questa mattina hai deciso di non darmi tregua, figliolo?».
Puntuali, altre due schegge esplosero in direzione del Secondogenito,
il quale le schivò fulmineo, «Ti senti forse in
dovere di compensare l’assenza di Amrothos? A tal proposito,
dove sono i tuoi fratelli?», la voce di Imrahil
si stava ingrossando di pari passo con la vena sulla sua nobile fronte,
«E di grazia,
perché oggi le noci non sono state sgusciate?».
Si lasciò andare a un sospiro esasperato e prese a
stropicciarsi gli occhi, affaticato.
Il
giovane Principe ne approfittò per allungare un braccio e
allontanare lo schiaccianoci dal padre. «Elphir sta badando i
Consiglieri. Amrothos sta badando Iriel. Iriel è con ogni
probabilità in sella a un cavallo indecorosamente e
sfacciatamente grande».
Imrahil
sospirò.
«Dentro o fuori le mu-».
«Non chiedere, padre.
Non chiedere», Erchion lo anticipò,
mal celando il suo divertimento.
«Il responsabile delle tue noci non sgusciate è
invece la mano ferita di Madegar. Ho risposto a tutte le tue domande,
quindi perché non tornare sulle ripercussioni del messaggio
di Re Éo-».
«Madegar si
è fatta male? Quanto male? Ricordati di essere generoso con
il suo salario, non vogliamo che non sia soddisfatta».
«Sappiamo entrambi,
padre, che se alzassi ulteriormente il salario della cuoca, Elphir
pretenderebbe in cambio il mio primogenito».
«Non possiamo perdere
Madegar, figliolo. Tu sai che non possiamo. Nessuno a Gondor mangia
come alla nostra tavola».
«Corretto. Ma hai
sentito la parte relativa al mio primogenito?»,
Erchion assottigliò lo sguardo, «Che sarebbe anche tuo
nipote…?».
«Posso iniziare a
valutare le tue candidate spose?».
«Negativo»,
un sorrisetto impenitente sulle labbra del giovane.
«Allora rischiare di
perdere la cuoca è una questione più stringente
di un nipote che non mi hai ancora dato».
«A proposito di
questioni stringenti e di pretendenti, discutiamo di quelli di mia
sorella?», il giovane lo incalzò
senza perdere un colpo.
«La mia testa»,
Imrahil si passò una mano sulla fronte. «Non ho mai desiderato
che un Consiglio iniziasse come questa mattina.
Erchion…».
«Dico soltanto, padre,
che non genererebbe poi grande scandalo».
«Scandalo? Quale
scandalo?».
«La rottura del
fidanzamento».
«Erchion, no. Vecchio.
Tuo padre è vecchio. E non sono ancora le otto del
mat-».
«La famiglia della
sposa può permettersi di avere un ripensamento e favorire un
nuovo pretendente. Ne sentiamo parlare di continuo».
Il Secondogenito prese un veloce sorso del suo tè, valutando
come pungolare il fianco esposto. I suoi occhi studiarono i lineamenti
stanchi del padre, o quello che del suo volto non era nascosto
dall’ampia mano. Aveva da tempo imparato che senza applicare
alcuna pressione non era possibile conoscere
l’entità di una lesione. «Un re non
è esattamente un pretendente che si può scartare
così, in maniera avventata. Se questo… Questo dono si rivelasse
essere l’avvio di un corteggiamento, non vedo
perché non vagliare la possibilità a
fondo».
Imrahil
scosse la testa, come a voler scacciare quell’idea,
«Erchion, tu… Tu sai bene che è
più complicato di così. Trascurando il fatto che
ho dato la mia parola al Comandante, devo comunque tenere in
considerazione la posizione di Elphir in Consiglio. Scandalo o meno,
togliere l’appoggio al Comandante significherebbe perdere il
suo. Se io- Se questo finisse per danneggiare
Elphir…».
Il
giovane Principe unì le sopracciglia, «Padre»,
cominciò piano, «Non
può ridursi tutto a questo. Al tuo debito – o in
qualsiasi altro modo tu voglia definirlo – con Elphir.
Quantomeno non il matrimonio di-».
«Credo di essere stato
generoso questa mattina, Erchion», lo interruppe
il padre, «Ho
assecondato le tue congetture, ma non approfondirò
ulteriormente la questione. Arriverà il giorno in cui
sarà tuo fratello a dover reggere il principato, appoggiarlo
oggi in ciò che potrà garantirgli
stabilità in futuro non è che il mio
dovere». Il Principe aveva parlato con
autorevolezza, nonostante non avesse sollevato gli occhi in quelli del
figlio nemmeno una volta. L’atmosfera nella saletta era
mutata all’improvviso. C’erano corde che non
andavano toccate, faccende che non andavano discusse ad alta voce.
Equilibri troppo fragili per essere portati alla luce.
Erchion
si fece indietro, figurativamente e letteralmente. Si
appoggiò di nuovo allo schienale, «Capisco…»,
tamburellò sui braccioli di legno. «Dimmi che postura
tenere nei confronti di Re Éomer e io seguirò le
tue indicazioni. Poco più di una settimana e saremo compagni
d’armi».
«Qualsiasi cosa abbia
voluto dirci con quel cavallo, l’onere della chiarezza grava
ancora su di lui. Non agiamo in base alle nostre speculazioni. Sono
certo che avremo occasione di dissipare ogni dubbio nel nostro tempo
all’accampamento».
«Inteso».
Un
rumore di passi in avvicinamento li raggiunse dall’esterno
del salotto. Chiunque avesse calcato con sufficiente frequenza le sale
del Palazzo, avrebbe saputo riconoscere quell’andatura.
Misurata, controllata. Propria di qualcuno a cui non si poteva mettere
fretta. Qualcuno che, del resto, non tardava mai ai suoi doveri. Elphir
comparve sulla soglia. Si avvicinò al loro tavolo,
arrestandosi a due passi di distanza; lentamente, si chinò a
raccogliere qualcosa dal pavimento: frammenti di guscio. Non li
commentò, non fu necessario.
«Padre. Fratello. Il
Consiglio è riunito, l’ultima seduta sta per avere
inizio».
Imrahil
ed Erchion si scambiarono un’occhiata.
«L’ultima»,
l’anziano Principe sospirò mentre annuiva con il
capo, «Non
sembra vero. La partenza è davvero già alle
porte».
«Così
pare», il Secondogenito raccattò i
resoconti che avevano steso attorno – e sopra – le
loro colazioni.
«Facci strada, Elphir,
grazie. Mettiamoci anche questo alle spalle».
Imrahil abbozzò un sorriso, mentre i suoi occhi passavano
affezionatamente sui volti dei due figli che l’avrebbero
accompagnato in guerra.
Le
ginocchia la
tradirono non appena i suoi stivali avevano toccato terra. Non ne
volevano sapere di rimanere salde.
«Woh, woh»,
Amrothos sostenne la sorella per un gomito, «Al primo ginocchio
sbucciato nostro padre infiocchetta Gléodis e la rispedisce
al mittente, tienilo a mente».
«Non
ricordarmelo», esalò la ragazza con
il fiato corto. Il suo corpo non si era ancora del tutto adattato alle
lunghe, concitate cavalcate di quei giorni.
«Riproviamo? Ti lascio
andare?», si accertò il fratello.
«S-sì.
Grazie».
«Ho mandato a chiamare
Thïria, aspettala qui e tornate a Palazzo insieme».
«Tu non
rientri?».
«Ho da fare alla
Guarnigione. Salterò il pranzo per oggi».
L’uomo affidò le redini dei loro destrieri allo
scudiero che era venuto loro incontro. Lothíriel fece per
allungare una mano, ma il fratello la intercettò,
stritolandogliela giocosamente. «E
no. Non puoi riaccompagnare Gléodis alla stalla. Saresti di
nuovo in sella girato il primo angolo», fece per
mordere la mano che lei sfilò appena in tempo dalla sua
presa.
La
ragazza boccheggiò. «Questo
non è… Non è
affatto…», avrebbe voluto potersi
fingere offesa, «Questo
è piuttosto vero», ammise.
«Se faccio in tempo
usciamo oggi pomeriggio. Ho una rivincita da prendermi e puoi stare
certa che me la prenderò con molta soddisfazione. E il
sentiero toccherà a me sceglierlo».
Il fratello l’aveva guidata spintonandola leggermente per le
spalle fino l’ingresso laterale della Guarnigione; i soldati
di guardia li salutarono con un inchino. La fece sedere lì
di fronte, sul muretto di pietra che costeggiava il canale del porto.
«Non
c’è terreno su cui tu possa superare
Gléodis. Non credi sia il momento di ammetterlo,
fratello?», lo stuzzicò lei, di buon
umore.
«Iriel, mettiamo bene
in chiaro una cosa: hai vinto solo perché io ho perso.
Intesi?».
«Tu sai che non
c’è un altro modo di vincere se non quello che hai
appena descritto, vero?».
«La prossima volta ci
spingeremo fino al vecchio frantoio e vedremo chi torna prima
indietro».
«Il vecchio frantoio?
Credi sia ancora in piedi?».
«Il suo ponte di
pietra, quello no di certo. Nostro padre lo ha fatto distruggere da
almeno un decennio. Credo sia andato ad abbatterlo di persona; leggenda
vuole, a mani nude. Per via del tuo ultimo ginocchio sbucciato, se non
vado errato», la prese in giro con uno sbuffo
piccato, «Ma
il frantoio è ancora lì, in disuso. Lo useremo
noi, come punto di partenza e ti dimostrerò che i cavalli
della Baia non sono da sottovalutare».
«Mio
signore…», un soldato si era
avvicinato a loro.
Amrothos
gli fece un cenno con il capo.
«Iriel», tornò a rivolgersi
a lei, concentrando tutte le sue raccomandazioni in uno sguardo
minaccioso, le sopracciglia unite. La sorella gli rispose con un
sorriso.
Non
appena il Terzogenito era sparito all’interno
dell’edificio, la Principessa iniziò a guardarsi
attorno, proteggendosi con una mano dall’alto sole del
mezzogiorno, risalendo con gli occhi la via che fiancheggiava il canale
del porto. Le botteghe erano aperte, le merci esposte; la cittadina
bassa era spumeggiante a quell’ora del giorno, vivace e
chiassosa. Lothíriel si ritrovò in piedi prima
ancora di rendersene conto. Era già in mezzo al torrente di
passanti quando sentì la voce del fratello alle sue spalle.
«Non abbiamo appena avuto una conversazione a
riguardo? Tu, che aspetti Thïria. Qui. Ferma.
Ricordi?». Le aveva gridato da sotto il
porticato della Guarnigione, le braccia conserte. In una mano teneva
una fiasca che non le fu difficile immaginare fosse venuto a offrirle.
«Alla tintoria. Vado
solo fino la tintoria», tentò di
farsi udire, «Dai
bambini».
Era
ancora sufficientemente vicina da non perdersi il bianco degli occhi
che le stava mostrando il fratello. Agitò una mano in aria
per salutarlo insolentemente.
Arrivata
a
metà strada, si rese conto di aver largamente sovrastimato
le proprie condizioni fisiche. Sentiva il suo passo farsi
più incerto e il pizzicore dei suoi muscoli indolenziti
più vivo. Mantenere l’equilibrio
sull’acciottolato di quella via che aveva percorso
innumerevoli volte non le era mai sembrato così arduo. E
dover dissimulare il proprio disagio per prodursi in inchini e
ricambiare i saluti dei passanti – tutti, i passanti, ogni
singolo cortese, zelante, amabile passante che l’aveva
riconosciuta – non fece che aggiungere fatica alla
stanchezza. Gli ampi lenzuoli e teli che le segnalavano la presenza
della tintoria apparivano ancora in lontananza, coriandoli colorati che
oscillavano al vento.
Dopo
qualche altro passo, si costrinse a fermarsi a riprendere fiato,
appoggiandosi contro il muretto in pietra che separava la via dal molo
sottostante. Inspirò a pieni polmoni, asciugandosi le tempie
imperlate di sudore. Quando si voltò, lo scontro contro
qualcosa di solido la fermò sul posto. Alzò lo
sguardo e incontrò due occhi cerulei e un sopracciglio
alzato. Prima ancora che registrasse contro chi fosse andata a
sbattere, ritirò le mani che aveva istintivamente appoggiato
contro il petto dell’uomo. Cercò di farsi
indietro, ma vacillò quando i suoi talloni avevano
inevitabilmente incontrato la base del muretto. Uno strano verso di
stupore le sfuggì dalle labbra.
«Avete
appena… Squittito, Principessa?», il
Comandante l’aveva attirata a sé afferrandola per
la vita. La testa piegata di lato, una punta di divertimento nello
sguardo.
«No…»,
la voce le uscì in un sussurro. «No-no»,
si schiarì la gola, cercando di dissimulare
l’imbarazzo. I suoi occhi evadevano disperati quelli
dell’uomo che stava torreggiando su di lei.
«Come dite
voi». Sîrfalas ritrasse la mano dopo
averla rimessa in piedi. Non l’abbandonò
però con lo sguardo. Lothíriel
deglutì, sapeva di avere un aspetto a dir poco inadeguato,
poteva sentire i capelli appiccicarsi alla fronte ad ogni movimento
della testa. Non era di certo preparata a sottoporsi di nuovo a quegli
occhi vigili. Troppo
presto, una voce nella sua testa continuava a ricordarle,
l’aveva rincontrato troppo presto.
La
sensazione di un pezzo di stoffa che veniva tamponato contro la sua
fronte la riscosse dagli affannosi pensieri. Il Comandante le stava
asciugando il sudore con il suo fazzoletto, un’espressione
neutra in volto. Quando terminò, le sollevò il
mento tenendolo tra due dita, studiandola qualche istante con un
accenno di sorriso nascosto in un angolo della bocca. La Principessa si
costrinse ad alzare lo sguardo. Non lo aveva mai guardato
così da vicino prima di allora. La mandibola decisa, la
rasatura impeccabile, la pelle ambrata. E gli occhi taglienti e chiari
resi ancora più intensi dalle folte ciglia. Lo aveva notato
anche durante il loro pranzo, ma il Comandante era innegabilmente un
bell’uomo.
«Vi-vi-…»,
sentiva la gola stretta e tesa, «Vi
ringrazio, Comandante». Distolse gli occhi,
incapace di sostenere oltre lo sguardo dell’uomo.
«Verso dove stavate
barcollando, se mi è dato saperlo?».
«Alla tintoria, io- Io
volevo solo arrivare alla tintoria. Laggiù. La-la mia dama
di compagnia sa di… di trovarmi lì. Sta
arrivando, comunque. E sono stata accompagnata fino a poco fa».
La Principessa smise di parlare, in imbarazzo. Rivolse a se stessa
molte parole e tutte poco gentili.
«Non dovete
giustificarvi con me, Principessa. Come vedete, non ho
séguito nemmeno io. Siamo in due ad essere in fallo.
L’onore di entrambi è in serio pericolo»,
le rivolse un sorriso impudente. Per qualche motivo, il suo
cervello registrò soltanto quanto fossero decisi i canini
dell’uomo. Gli davano un aspetto felino. Lo
assecondò ricambiandolo a sua volta con un esitante sorriso,
nonostante le loro condizioni non fossero certo comparabili.
C’era differenza tra come un uomo e una donna non sposati
potessero muoversi.
«Voi cosa fate qui,
alla cittadina bassa, Comandante?».
«Dubitate forse della
casualità del nostro incontro?».
«No, io-»,
la ragazza scosse la testa,
«Non intendevo-».
Di
fronte al suo farfugliare, il sorriso dell’uomo si era
allargato. «Mi
stavo solo prendendo gioco di voi», la
fermò, «Sono
qui per affari. Sapete, gli armatori sono una razza particolare di
uomini. Sembrano non essere in grado di stipulare un accordo se non
hanno sott’occhio le loro navi. Se vi foste mai chiesta
perché la Casa delle Corporazioni è stata eretta
sul porto…». Le porse un braccio, «Ma ho stretto mani e
firmato carte a sufficienza, vi accompagno alla tintoria».
L’espressione
della Principessa non dovette essere di difficile lettura, «Siamo in pubblico.
Non ci saranno problemi», la
rassicurò, quasi ammiccante.
Lothíriel
si guardò attorno aspettandosi che Thïria e la sua
divisa azzurra sbucassero provvidenziali da in mezzo la folla. Di
fronte a quella mancata apparizione, non poté che accettare
il braccio che le veniva offerto. Ad ogni passo, un nuovo paio di occhi
curiosi andava a sommarsi ai precedenti. I passanti rallentavano o si
fermavano a guardarli, scambiandosi bisbigli e sguardi loquaci,
facendosi da parte con profondi inchini. Era quanto di più
simile ad un incubo la Principessa avrebbe potuto immaginare. Il colpo
di coda le fu inflitto a tradimento dalla sua stessa caviglia; un piede
appoggiato male e l’unico ostacolo tra la sua fronte e il
selciato fu il suo accompagnatore.
Il
braccio di Sîrfalas la mantenne in piedi, di nuovo. «Apparite piuttosto
sottovento, Principessa. Non vi starete affaticando troppo con le
vostre cavalcate?».
La
ragazza sollevò gli occhi nei suoi. Il cavallo. Il dono di
Re Éomer. L’argomento di cui avrebbe volentieri
fatto a meno di parlare con il Comandante, che ora la stava guardando
con l’abituale espressione neutra in volto. Nei suoi occhi,
latente, un'astuzia vigile e sottile.
«Non ho intenzione di
chiedervelo. Non temete», il Comandate
riportò lo sguardo davanti a sé.
«Già
s-sapete?».
«Principessa, siete a
conoscenza di quali faccende mi occupo?».
Eccolo,
riaffiorava – se n’era quasi riuscita a dimenticare
– il familiare senso di disorientamento che provava nel
parlare con un uomo come lui, che sollevava argini, deviava la
conversazione a piacimento, per farla poi convogliare esattamente dove
gli era utile. «Siete…
Siete Ammiraglio Comandante delle flotte di mio padre».
La sua risposta era quantomeno riduttiva, ne era consapevole. I suoi
incarichi militari spaziavano dall’Accademia al consiglio
disciplinare. Ed era certa che l’uomo amministrasse le
proprietà della sua famiglia, i terreni, le
attività commerciali; aveva colto conversazioni sparse a
riguardo.
«Certo, ma delle mie
mansioni, di ciò che faccio giorno per giorno, avete formato
un’idea?».
«Se mi state chiedendo
della vostra posizione in Consiglio, io non… io non sono
m-molto versata-».
«No di certo»,
poteva sentire quanto fosse intrattenuto a quell’idea, «So che quelle
politiche sono questioni che esulano dal vostro reame di interesse. Vi
stavo domandando se sapeste cosa faccio per vostro fratello. Fuori da
Palazzo, intendo».
«N-no…».
«Valuto. Gli affari, i
rischi, ciò che muove le persone. E avanzo previsioni.
È un incarico ancora meno accattivante di quanto non suoni.
Ma di certo allena lo sguardo di un uomo, per non dire il suo intuito,
non concordate? Anche se trovo che parlare di
intuito…», l’uomo fece
schioccare la lingua,
«Sia inaccurato. Volgare, quasi. Le mie sono inferenze.
Quando dico inferenza, sapete a cosa mi riferisco?».
«Sì».
La risposte le uscì più asciutta di quanto avesse
inteso fare. Qualcosa nel tono paternalistico del Comandante le stava
mandando piccole, mordenti scariche elettriche lungo la spina dorsale.
L’uomo
le rivolse un sorriso che a lei sembrò ancora più
condiscendente della sua voce. «E
in questo caso qual è la vostra, di inferenza? Qual
è la vostra conclusione logica?».
«Perciò ora
me lo state domandando?».
«Divertente»,
il Comandante fermò il suo passo per guardarla. «Siete una persona
divertente, sapete? Sembrerebbe così, ve lo sto domandando.
Voi cosa farete? Eluderete oltre?».
Lothíriel
ispirò profondamente, imponendosi di fare uscire le parole
senza tentennamenti. «Credo
si tratti di un equivoco, non potrebbe essere altrimenti. E uno di
quelli fortunati, se penso esclusivamente a ciò che ho
acquisito. Immagino fosse un dono rivolto più a mio padre,
che a me».
«Mmh…»,
il Comandante continuava ad osservarla, immobile, la testa piegata di
lato. «Siamo
giunti a conclusioni simili, allora»,
riprese finalmente a passeggiare. «Nel
mio incarico
ciò che è ancora più importante,
è il regime da adottare dopo aver avanzato delle
inferenze. Ebbene, per quale strategia credete io abbia
optato?».
«Voi fate progredire
sempre le vostre conversazioni per domande?».
Era riuscita a parlare senza farfugliare, ma la sua voce era stata
elusiva quanto il suo sguardo. Continuava a contare con gli occhi le
navi attraccate al porto come se la sua vita fosse dipesa da questo.
Un
altro sbuffo divertito.
«Vi infastidisce forse, questo mio modo di fare?».
«N-no. Mi perdonerete
però se vi confesso che mi mette a disagio non sapere se
state solo adeguando le vostre risposte alle mie».
«Solo uno sciocco non
lo farebbe, non trovate?», questa volta
l’uomo rise apertamente. «Affascinante…»,
fermò nuovamente il passo e strinse il braccio al corpo,
ottenendo tutta l’attenzione della giovane.
Avvicinò il volto al suo, «Se continuate
così, Principessa, rischiate seriamente di far nascere dei
sentimenti nel vostro pretendente». Fece una
pausa, che lei non riempì. «Torniamo alla domanda
che avete aggirato».
«Non mi è
dato sapere co-come abbiate deciso di comportarvi in… in
merito».
«Lasciate che ve lo
dica io, dunque. Ritengo che non sia un rischio tale da dovermene
preoccupare. Siete stata a me promessa e un regalo, sconveniente per
giunta, non è sintomo di altro se non delle cattive maniere
del suo mittente. Come vi fa sentire questo?».
Formulare
una risposta adeguata in quel momento le sembrò quanto di
più irrealizzabile. Non c’era altro che pulsasse
nelle sue tempie eccetto il martellante desiderio di sottrarsi a quella
conversazione. E a quello sguardo indagatore che la faceva sentire
piccola, impotente. Non riuscì a fare a meno di lanciare
un’occhiata verso la tintoria, che non avevano ancora
raggiunto.
«Vi ho messa a
disagio?».
«No»,
rispose velocemente, riportando gli occhi a lui. Colse distrattamente
uno spostamento tra i passanti, qualcosa color fiordaliso si stava
muovendo ai margini del suo campo visivo. «Comandante, n-non sono
accompagnata, come potete vedere. Credo abbiamo passeggiato insieme
più a lungo di quanto fosse opportuno. Se-se me lo
permettete, ora…». Fu lieta di
sfilare il braccio da quello dell’uomo, mentre salutava
Thïria con un cenno. Riservò un inchino anche al
Comandante.
«So che siete avida di
informazioni». La voce pacata
dell’uomo la fermò ad appena due passi di
distanza. Era sicura che i suoi occhi confusi fossero stati
sufficientemente loquaci, perché continuò, «La vostra dama di
compagnia… Thïria, così si chiama,
giusto? Vi è molto fedele. Ha solo peccato di troppo zelo
nel raccogliere certe notizie per voi, null’altro.
Un’innocua domanda rivolta alla persona sbagliata, e io ne
sono venuto a conoscenza. A vostro fratello è sfuggito, se
questo può esservi di conforto».
Lentamente, Sîrfalas aveva compensato la distanza tra di
loro. Sul suo viso non era difficile scorgere il compiacimento
nell’avere in pugno il suo interlocutore. «Di informazioni, io,
ne ho. Anche per voi, Principessa. Vorreste sentirle o sarebbe troppo inopportuno
continuare a parlare con me?».
Mentre
era lì, immobile, affannandosi in silenzio a formulare una
risposta, Lothíriel avrebbe soltanto voluto avere la
prontezza di spirito per riuscire a reagire, controbattere con qualcosa
di altrettanto sagace o pungente. O, perlomeno, riuscire a mascherare
meglio la sua curiosità. Fu il Comandante a mettere fine
alla sua muta agonia.
«Due giorni. Due giorni
e tre notti, per essere precisi. Questo il tempo prima della partenza
di vostro padre e dei vostri fratelli».
Oh. Il cuore prese
a martellarle contro lo sterno. Non aveva idea che la partenza fosse
così imminente. Nessuno l’aveva informata.
«Perché me
lo state dicendo?».
«Fiducia per fiducia,
Principessa. Fiducia per fiducia. D’altra parte non vi
nascondo che preferirei di gran lunga vedervi struggere per i vostri
cari che in sella a quel cavallo del Nord. Lo avete testato a
sufficienza negli scorsi giorni, non trovate? Ora potrebbe essere il
momento di concedergli un po’ di riposo».
«Principessa, dobbiamo
rientrare per il pranzo», Thïria si era
fatta avanti con esitazione.
«Gra-grazie»,
Lothíriel ringraziò l’uomo.
«Dovere»,
le rispose con tutta l’aria che fosse invece stato un piacere.
15 ottobre 3019,
Terza Era
Cancelli della città, Dol Amroth, Gondor
108 miglia a sud-ovest
Le
ombre ai piedi
delle mura cittadine si allungavano sotto la cintura di ulivi giganti
che circondavano Dol Amroth. Il sole non era ancora visibile sopra la
linea dell’orizzonte e il cielo era insolitamente fumoso per
essere un’alba battuta dal vento. C’era una coltre
di silenzio che pesava sopra i soldati dispiegati ai due lati della via
principale e che rendeva tutto innaturalmente immobile.
Sotto
ai grandi Cancelli, la Principessa si strinse nel mantello. In quel
silenzio stava faticando a respirare. «Stanno
tardando», sussurrò.
«Il passaggio di
consegne a Palazzo. Dev’essere per quello»,
Amrothos, accanto a lei, le rispose senza guardarla. I suoi occhi
vagavano nervosamente davanti a sé, saltellando tra le fila
di uomini di fronte a loro.
«Tu non avresti dovuto
presenziare?».
«E tu?»,
chiese premendo una spalla contro quella della sorella. Si scambiarono
un’occhiata e tornarono entrambi a guardare la via. «Allora siamo
d’accordo».
Sopra
le loro teste, il guardiano dei Cancelli suonò il corno,
allertando i presenti dell’arrivo del Principe. Il petto di
Lothíriel tremò e si caricò di tutta
l’angoscia fino ad allora subdolamente latente.
Inspirò, espirò ed inspirò di nuovo,
come meglio riusciva, lasciando che l’aria fresca le
pizzicasse la gola. Inesorabile, lo scalpitio di zoccoli si stava
avvicinando a loro. Vide finalmente comparire il padre e i due fratelli
maggiori, in sella a cavalli splendidamente bardati, alla guida del
loro séguito di ufficiali. Gli stendardi del principato
ancora non dispiegati. Smontarono appena fuori dalle mura.
Erchion
andò ad afferrare Amrothos per le spalle, che
intrecciò le braccia alle sue. Due larghi sorrisi goliardici
sui loro volti. «Ma
guardati», il Secondogenito esaminava con
sfacciata incredulità la divisa formale dell’altro.
«Guardati tu».
Il minore fece un cerimonioso inchino con la testa, «Capo della
cavalleria», lo salutò.
«Capo della
guarnigione», Erchion ricambiò con la
stessa energia.
La
Principessa si era avvicinata al padre, che stava allungando il collo
alla ricerca di qualcuno. «Elphir»,
si rivolse al figlio maggiore da loro poco distante, «Tua moglie e tuo
figlio, non li vedo. Dove sono?».
«Ho preso commiato da
loro alla Residenza».
«Io non ho avuto modo
di salutarli», un velo di delusione nella sua
voce, «Credevo
sarebbero stati qui. Se lo avessi saputo prima…».
Il
Primogenito attraversò il padre con lo sguardo, come se non
fosse stato a un passo di distanza.
«Qui fa freddo», fu tutto
ciò che disse, incolore. Poi rivolse la sua attenzione
altrove.
Il
padre guardò allora la figlia, che si fece avanti. Prese le
mani di lei nelle sue.
«Iriel cara, è giunto il momento di
salutarci».
Gli
occhi della ragazza elusero quelli dell’uomo. «Questi
adii, non mi piacciono...».
«Ma non ti
dirò addio, come non te lo dissi prima di partire per Minas
Tirith». Chinò la testa per
incontrare il suo sguardo, «È
mai successo che non fossi tornato da te?».
Lei
si limitò a scuotere la testa.
«Figlia
mia…», Imrahil iniziò a
congedarsi.
Prima
che potesse dire altro, gli circondò il petto con le
braccia. Era più facile così. «Porterò io
i tuoi saluti ad Alphros*¹», gli
sussurrò con la guancia premuta contro l’armatura,
«Ti
manderò anche i suoi disegni, con le mie lettere. E tu
dovrai conservarli tutti, senza eccezioni. Anche quelli con le barche
piccoline e la matassa di onde per il resto della carta. E…
E dovrai rispondere. Sempre. Dovunque ti troverai, do-dovrai
rispondere».
Sentì
il padre appoggiarle il mento sulla testa.
«Ricevuto»,
le bisbigliò.
Quando
sciolsero l’abbraccio, Lothíriel gli rivolse un
ultimo, incerto sorriso. Meno convincente e più tremolante
di quanto avesse sperato. Premette le labbra in una linea. Si
guardò attorno ed Amrothos ed Erchion sembrava si stessero
ancora scambiando smancerie, burlandosi a turno della divisa da
cerimonia dell’altro. Erano ora passati agli stivali.
Spostò gli occhi sul fratello maggiore. «Elphir…»,
cercò la sua attenzione.
Il
Primogenito spostò gli occhi su di lei. Tentò un
timido sorriso in sua direzione, ma non venne ricambiata se non con un
sopracciglio inarcato. «Sono…
Sono certa che tu non abbia bisogno delle mie raccomandazioni,
fratello. M-ma stai attento sul… sul campo. E- e fuori.
Riguardati».
La
differenza d’altezza tra i due non era d’aiuto nel
non farla sentire guardata dall’alto verso il basso. Se il
viso del fratello fosse stato capace di assumere espressioni, ne era
sicura, ce ne sarebbe stata una di disprezzo.
«Sì»,
fu l’unica risposta.
«Tocca a me chiudere le
danze, prima che il sole ci sorprenda tutti ancora qui».
Erchion era accanto a loro, «Iri»,
aprì le braccia per accogliere la sorella. «Qualsiasi cosa ti
abbia detto Elphir, ti do ufficialmente il permesso di fare il
contrario», le parlò contro
l’orecchio, «È
sufficiente – non trascurare questa parte che è la
più importante – che tu faccia ricadere la colpa
su Amrothos». Si separarono, ma il fratello
continuò a guardarla tenendola per le spalle. Era chiaro che
stesse assorbendo il suo viso. «Non
fateci preoccupare, intesi? Sia tu che testa calda,
laggiù».
«Ehi»,
un lamento proveniente dalle loro spalle.
«Voi ricambierete la
cortesia?», gli domandò lei.
Il
Secondogenito espirò rumorosamente dal naso. «Dubiti di me solo
perché non mi hai mai visto sul campo, sorella.
L’ultima volta te l’ho riportato, nostro padre, non
è forse così?», aggiunse
con un mezzo sorriso.
Lothíriel
guardò i fratelli e il padre rimontare in sella e portarsi
alla guida dell’avanguardia. Con la città non
ancora del tutto sveglia, l’esercito del Dor-en-Ernil si mise
in viaggio. La Principessa e il Terzogenito rimasero fermi davanti ai
Cancelli fino a quando non riuscirono ad udire altro che il fruscio del
vento tra le chiome degli ulivi.
«Se la
caveranno», Amrothos sospirò, «E anche noi, gambe di
gelatina, ce la caveremo».
Note
dell’autrice
•
Potrei essere stata convinta di aver pubblicato questo capitolo
più di 10 giorni fa. Senza però averne
finalizzato il caricamento. Accoglierò tutti i pomodori a me
riservati con umiltà e gratitudine.
*¹ Alphros,
dal Sindarin alph
(cigno) + ross
(schiuma). Personaggio dei libri, nato a Dol Amroth nel 3017 della
Terza Era, figlio del Principe Elphir.
•
Dopo due capitoli interamente ambientati a Dol Amroth, Re
Éomer dovrebbe avere finalmente coperto 430 (noiosissime)
miglia a cavallo. Ora che le forze alleate si ricongiungeranno nel
Lebennin, sarà più facile portare avanti la
narrazione a due piani.
•
Volevo ringraziare le coraggiose recensitrici che affrontano ogni mese
il mio fiume di parole. Grazie! Non per ultimo, per la vostra pazienza.
Razaghena
Riassunto
Capitolo 5 Il Principe
Erchion e il padre, perplessi, discutono di come interpretare il regalo
inviato da Rohan. Interrompere il fidanzamento di Lothíriel
con il Comandante Sîrfalas è fuori discussione,
tanto più che quest’ultimo è un
importante alleato politico del Principe Elphir.
Dall’altra
parte della città, Lothíriel, di ritorno da una
cavalcata, s’imbatte nel Comandante. Passeggiano insieme;
l’uomo ostenta il suo disinteresse rispetto la faccenda del
cavallo e la informa della data di partenza prevista per la guerra. La
Principessa ne era stata tenuta fino ad allora all’oscuro.
Pochi
giorni dopo, Lothíriel e Amrothos si congedano sotto le mura
della città dal padre e dai due fratelli maggiori. Le truppe
di Dol Amroth partono alla volta dell’accampamento nel
Lebennin.
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