iQué viva Tortuga!

di Bethesda
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***



Capitolo 1
*** I ***


Quando il Muto entrò nella locanda, gomitando Izzy per attirare la sua attenzione, Edward quasi non ci fece caso, dedito come era a controllare il risultato ottenuto sui dadi che aveva appena lanciato. Un’esclamazione di vittoria uscì dalla sua bocca, alla faccia del suo braccio destro e degli altri astanti, ma sembrò essere stata gettata a vuoto quando notò l’espressione dell’altro, più preoccupato dallo sguardo eloquente del sottoposto che dal fatto che presto avrebbe dovuto pagare pegno offrendo da bere all’intera ciurma.

 

«Cosa vuole?»

 

«Niente, capo», tagliò corto Izzy, facendo un cenno al Muto perché si allontanasse.

 

«Non sembra niente», disse Ed, una mano a cercare i dadi sul tavolo mentre con l’altra cercava il boccale ormai vuoto. Lo sollevò in aria e con rapidità se lo ritrovò nuovamente pieno, traboccante di una birra schiumosa e tiepida che a malapena dissetava in quel clima umido e soffocante che regnava su Tortuga.

Avrebbe dovuto uccidere l’oste, si disse, per il solo fatto di avergli permesso di ridurre in piscio quelle poche botti che era riuscito a procurarsi, ma non era il momento.

Izzy tramava qualcosa, lo sapeva bene.

Ogni volta che dietro a quella espressione perennemente schifata si nascondeva qualcosa dirgli la palpebra sinistra tremava lievemente e dal momento che era quanto mai raro che il suo secondo non gli comunicasse ogni singolo pensiero la cosa lo rendeva ancora più sospetto.

 

«Muto», disse Ed, un mezzo sorriso rivolto adesso verso il suo sgherro, «dimmi cosa succede».

 

L’uomo si congelò, permettendosi di lanciare un rapido sguardo ad Izzy come in cerca di aiuto.

 

Ed schioccò la lingua rumorosamente contro i denti per attirare la sua attenzione.

 

«No. Non guardare lui. Guarda me».

 

Inebetito dal terrore, incapace di proferir verbo, l’uomo aprì la bocca e con mano tremante andò ad indicarsi il moncone di lingua che gli era rimasto. Un dono che lui stesso gli aveva fatto anni addietro, quando lo aveva recuperato da una ciurma rivale.

Anche nella cattura si era rivelato un uomo scaltro, intelligente, dalla parlantina vivace e velenosa.

Troppo vivace e velenosa.

Un valido elemento, certo, ma gli aveva dato una scelta all’epoca: poteva morire, come tutti gli altri prigionieri, gettato nelle acque dell’oceano, oppure poteva diventare parte della sua squadra. Ma ad un prezzo.

Inaspettatamente aveva accettato di buon grado.

Lucas, così si chiamava all’epoca della cattura.

Ma era più semplice chiamarlo Il Muto adesso, per praticità.

 

«Lo so che non puoi parlare. Mi credi stupido? Te l’ho tagliata io stesso».

 

Uno sguardo di puro terrore percorse gli occhi dell’uomo, insieme a una domanda silenziosa: “E allora come faccio?”

«Mimalo».

 

Lucas si congelò sul posto e lanciò un rapido sguardo ad Izzy, cercando supporto, ma non ne trovò. Edward stesso andò a cercare il suo braccio destro ma lo vide intento a dar fondo a un bicchiere di rum quasi come se nulla stesse accadendo intorno a lui.

 

Il Muto, senza grazia alcuna, cominciò a gesticolare.

Che ne cavasse fuori qualcosa o meno, era divertente vederlo così disperato nel tentativo di interpretare un messaggio.

 

«Onda. Mare? No, no. Oceano. Nave! Hai visto una nave – trovato una nave. Una nave…olandese? Spagnola? Inglese?»

 

Il muto si mise una mano sull’occhio e piegò l’indice della mano destra.

 

«Va bene, una nave pirata. Sai che novità, siamo a Tortuga. Qui ci son solo puttane e pirati».

 

L’uomo continuò la sua interpretazione. Parte della locanda, seguendo da vicino la situazione, cominciò a tentare di indovinare.

 

«Una nave pirata piena di donne?»

 

«No, di oche! Vedi il movimento? Sta imitando un’oca».

 

«Chi mai porterebbe delle oche qui?!»

 

Ed si concentrò, un sorso di birra in bocca che passava fra una guancia e l’altra come se avesse avuto mal di denti.

Izzy stava aspettando qualcuno?

Un carico particolare? Un messaggio?

Le movenze del Muto si fecero sempre più accentuate, sempre più familiari.

Sembrava stesse prendendo in giro qualcuno di alto lignaggio.

 

«Un nobile?», azzardò.

 

Il Muto si fermò, indicandolo veementemente mentre tutto intorno a loro cominciavano ad alzarsi voci sguaiate nel tentativo di indovinare.

La mano di Izzy si strinse con ancora più forza intorno al bicchiere.

 

«Un pirata…nobile?»

 

Lucas fece capire che c’era quasi.

La sua espressione divenne compunta e con una mano andò a cercare un bicchiere. Nella foga dell’interpretazione rubò quello di Izzy, che mentalmente si segnò di impiccarlo all’albero maestro al primo momento utile.

Il Muto bevve dal bicchiere con delicatezza, alzando il mignolino.

Una volta finito lo posò e con un inchino maldestro ringraziò il proprio capitano.

 

Non solo nobile.

Gentiluomo.

 

Barbanera non dovette parlare.

Ed Izzy non dovette alzare lo sguardo per capire che il suo capo aveva capito benissimo chi stesse per arrivare sull’isola.

 

 


 

 

Tre anni.

Tre anni di scorribande, violenza, ubriacature e voglia di dimenticare.

Tre anni dove anche l’Oceano sembrava essere diventato troppo piccolo per il celeberrimo Barbanera, tanto da spingerlo all’avventura in angoli remoti, alla ricerca di qualcosa, qualunque cosa.

Vendetta o morte era ormai indifferente.

Poi era giunto a Tortuga.

Un viaggio stancante, fatto di inseguimenti con mercantili stracolmi di merci e schiavi, che si era concluso con una nave quasi sull’orlo del collasso e una ciurma provata.

Tortuga all’epoca del suo arrivo era uno sputo nel mare, un paradiso dove nascondersi ma un incubo per chi volesse bere qualcosa di decente. Era abitata da qualche sbandato senza la benché minima idea di cosa fare della propria vita, che passava le giornate a bere e a fare a cazzotti con chi passava di lì per caso o di proposito.

Barbanera l’aveva trasformata.

Nel giro di pochi mesi l’aveva resa un punto di riferimento per ogni pirata che avesse bisogno di una base per nascondersi o per liberarsi della merce, schiavi o spezie che fossero.

Avrebbe dovuto essere fiero di ciò che aveva ottenuto ma si era trattato di un mero intrattenimento e lo sapeva bene.

Aveva fatto tutto ciò per distrarsi, per dimenticare quell’uomo di cui non sapeva ormai più nulla, certo che avesse abbandonato la vita da pirata per tornare fra le calde braccia della moglie, in barba a tutti i propri sogni, alle parole pronunciata, agli sguardi eloquenti che si erano scambiati.

Più volte aveva pensato di stanarlo, di trovare la sua villa da riccone e dare fuoco a lui, alla moglie, ai figli e a tutto ciò che glielo aveva portato via. Ma poi si era detto che non gli importava davvero.

Quella che l’altro aveva preso era stata la decisione di un codardo e per lui i codardi erano già morti, dimenticati.

Ne erano la prova i suoi beneamati libri.

In futuro tutti si sarebbero ricordati di Barbanera.

Nessuno invece sarebbe stato sfiorato anche solo dal pensiero di Stede Bonnet.

 

Ma per quanto continuasse a ripetersi da solo queste parole, il pensiero di Stede lo tormentava costantemente, un fantasma nascosto dalla bruma mattutina.

Cercava di annegarlo in ogni modo possibile ma restava lì, imperterrito.

Era così ridicolo sentirsi braccati dal ricordo di un uomo che nella sua vita non aveva fatto altro che scappare.

 

Eppure adesso era così vicino alla sua isola.

A lui.

Era dunque davvero tornato ad essere un pirata?

Se pirata era mai stato, si disse con perfidia senza crederci davvero.

 

Aveva recuperato un’altra ciurma? Qualche folle disposto a seguirlo?

I soldi per farlo li aveva, ma con che nave?

La Revenge era nelle sue mani adesso. Completamente cambiata, strappata via da ogni singolo oggetto che potesse riportare all’ex-proprietario.

Tranne che per una singola stanza, nascosta, di cui neanche Izzy conosceva l’accesso.

Barbanera non ci entrava mai – o quasi – perché quando lo faceva veniva travolto dal profumo di lavanda che proveniva da un piccolo cestello di canapa ricolmo di saponette.

Avrebbe dovuto gettarle in mare tempo addietro, ma non ci era riuscito.

Erano così delicate e pulite e quando aveva bisogno di farsi del male da solo si nascondeva all’interno del bugigattolo, chiudeva gli occhi e affondava la testa nel cesto, inspirando a pieni polmoni, alla ricerca di brandelli di ricordi che non facessero male.

 

E in quell’istante si era rinchiuso proprio lì dentro, lontano dagli occhi della sua ciurma, la testa piena di domande e di rabbia.

 

Lo voleva morto.

Voleva che provasse in pochi minuti il dolore che lui stesso aveva subito dal momento in cui si era reso conto di essere stato abbandonato come un cane su quel maledetto molo.

Ecco cosa avrebbe fatto.

Lo avrebbe mandato a prendere, lui e tutti i suoi uomini.

Lo avrebbe legato all’albero maestro della sua dannata nave e gli avrebbe levato gli abiti di dosso a suon di frustate. Un bavaglio in bocca ne avrebbe soffocato le grida e una volta fatto lo avrebbe buttato a mare legato ad una corda, per far bruciare la carne viva. E via di nuovo, avrebbe continuato così, costringendolo a guardarlo negli occhi per tutto il tempo. Se fosse stato costretto gli avrebbe cucito le palpebre di modo che non potesse più chiuderle, per far sì che l’ultima immagine impressa nella sua mente fosse la rabbia dell’uomo che aveva osato ingannare.

 

Ma al tempo stesso aveva così tanta, tanta paura di rivederlo.

Tre anni cambiano un uomo e Stede si era rivelato essere sempre pieno di sorprese.

Non riusciva ad immaginare chi o cosa avrebbe dovuto affrontare.

 

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Capitolo 2
*** II ***


Quando gli uomini di Bonnet gettarono l’ancora, finalmente giunti in un porto sicuro, il capitano tirò un profondo sospiro di sollievo.

Non pensava che ce l’avrebbero fatta, non dopo l’ultima incursione – quasi vittoriosa, certo, ma che aveva procurato una falla nella chiglia particolarmente grande e per la quale non era così sicuro sarebbero riusciti a non perdere nave e bottino.

Quando venne gettata la passerella si mostrò sorridente ai suoi uomini e questi lo ignorarono bellamente, riversandosi a terra in modo caotico.

Solo Lucius gli rimase accanto.

 

«Tortuga», sussurrò Stede.

 

«Già».

 

«Pensi che riusciremo a farci aggiustare la chiglia?»

 

«Quanto basta per arrivare in un porto un po’ più fornito».

 

Si voltò verso il ragazzo, osservando la cicatrice profonda che attraversava il suo volto.

Non se ne lamentava mai, nonostante fosse stato lui stesso la causa della mutilazione. Diceva che gli dava un’aria più vissuta, piratesca.

Aveva scoperto dagli altri membri che andava in giro a raccontare che fosse stato un dono di Barbanera stesso, inferto in un sanguinoso scontro prima di essere gettato in acqua.

Ma non l’aveva mai raccontata così al proprio capitano, e per due motivi.

Il primo era che il taglio in realtà gli era stato procurato da una remata in faccia che Stede stesso gli aveva inferto quando per caso lo aveva trovato intento a galleggiare vicino all’isola dove gli altri erano stati abbandonati.

Il secondo era che sulla nave era vietato fare alcun cenno a Barbanera, ordini del capitano.

 

«Scendiamo. Ho proprio voglia di sgranchirmi le gambe e vedere un po’ questa fantomatica Tortuga. Come sto?»

 

Stede sentì su di sé lo sguardo critico dell’attendente, che lo scrutò alla ricerca di note fuori posto. Dopo il furto della Ravange e conseguentemente la perdita di tutto il proprio armadio, a causa anche delle ristrettezze economiche che implicava l’aver scelto – ancora una volta – una vita da fuorilegge, la scelta del vestiario del capitano si era particolarmente ristretta e con l’acquisto di una nuova nave – la Revenge II – aveva dovuto tagliare notevolmente le spese.

Pochi abiti, debitamente scelti, ma dai tessuti pregiati.

Era pur sempre il pirata gentiluomo, non un barbaro qualunque.

 

«Incantevole».

 

«La barba non è troppo incolta, vero?»

 

«Della giusta lunghezza. Ben curata. Approvo».

 

«Allora siamo pronti a presentarci al mondo».

 

 

Stede scese dalla nave con passo sicuro, sentendo subito su di sé lo sguardo dei marinai presenti sul molo.

Sapeva di far sempre effetto e in quel caso sembrava che tutti lo stessero ammirando.

Forse che le sue ultime imprese fossero già arrivate sull’isola?

Non uno, non due ma ben tre vascelli in due mesi!

Certo, il primo alla fine si era rivelato essere un peschereccio privo di alcunché di utile – a parte dell’ottimo pesce che li aveva sfamati per diversi giorni – e il terzo li aveva quasi affondati con una cannonata ben assestata, ma con il secondo avevano fatto davvero faville.

Ormai quella vita gli andava a pennello, come un paio di babbucce confortevoli, e non aveva più alcun disagio neanche in un posto come Tortuga.

 

«Hai visto, Lucius? Sembra quasi ci conoscano tutti».

 

Lucius parve sorpreso, effettivamente, dell’accoglienza.

Ogni singolo pirata o marinaio presente sul molo si voltò a guardarli mentre passavano e notò addirittura alcuni di loro indicare la bandiera, gomitandosi.

Stede, da parte sua, si crogiolava nella presunta fama e procedeva diligentemente verso il centro abitato.

Neanche si accorse della nave tre banchine alla sua destra che svettava un vessillo ben noto e che indubbiamente avrebbe dovuto riconoscere.

Lucius, invece, la notò presto e dovette bloccarsi sul posto per non cadere.

 

«Capitano, credo che dovremmo andarcene».

 

«Sciocchezze. Perché mai?», disse l’altro, continuando a camminare imperterrito.

 

Prima ancora che l’altro potesse rispondere un muro umano, composto da quattro uomini, si frappose fra Stede e il termine del molo.

 

«Ah, buongiorno signori. Posso fare qualcosa per v--»

 

Preso di peso, come un sacco, Bonnet non riuscì neanche a terminare la frase che venne trascinato via urlante, mentre Lucius tentava di nascondersi – invano – dietro a dei barili.

 

 


 

 

Stede non amava essere rinchiuso.

In particolare, non amava essere rinchiuso senza sapere il motivo.

Aveva provato a chiedere con gentilezza e ciò che aveva ottenuto era stato uno sputo per terra seguito da una bestemmia.

 

Sapeva per certo che anche Lucius era stato catturato ma non si trovava con lui in quell’istante.

Che si trattasse degli inglesi?

Forse lo avevano trovato, dopo tutto quel tempo. Ma a Tortuga? Non aveva visto alcun vessillo governativo e certo il re non poteva aver mobilitato un’intera isola di pirati solo e unicamente per lui.

Certo, stava cominciando a farsi una nomea, ma così gli sembrava un po’ eccessivo.

 

Giaceva in un angolo su di uno sgabello sgangherato, domandandosi il perché di quel trattamento. Sentiva qualcuno cantare da qualche cella lontana, forse qualche ubriaco molesto – e per esserlo per un gruppo di pirati doveva esserlo in modo peculiare – ma a parte ciò nulla. Un fetore di chiuso ed umido permeava l’area, rendendola difficile da respirare e da una grata situata all’altezza della sua testa ogni tanto vedeva i piedi di qualche passante.

Dopo quelle che gli sembravano ore l’altro prigioniero si zittì all’improvviso.

Forse era svenuto, si disse, ma era bello non dover sentire più le stesse quattro strofe cantate all’infinito.

Ma dopo pochi istanti di silenzio alle orecchie gli giunse un suono di passi mal cadenzati. Qualcuno con una lieve zoppia, lento ma stabile.

Stede alzò lo sguardo e non riuscì a nascondere un’espressione di pura sorpresa.

 

«Izzy!»

 

L’espressione disgustata dell’uomo era intuibile anche nella semi-oscurità del luogo e Stede era convinto che riuscisse a renderla ancora più disgustata quando posava gli occhi su di lui, anche dopo ben tre anni di distanza.

Si alzò, avvicinandosi alla grata per vederlo meglio.

 

«Tu che--»

 

L’uomo lo afferrò per il bavero, spingendolo contro il metallo, facendogli sbattere il volto.

 

«Tre anni, Bonnet. Sono tre anni che aspetto questo momento».

 

«Che non vedi l’ora di rivedermi?», provò a scherzare.

 

«Che aspetto di vederti appeso sull’albero maestro della tua stupida nave».

 

«Oh, beh. Un po’ maleducato dopo tutto questo tempo, non trovi?»

 

Un ghigno sardonico comparve sul volto dell’altro ma durò poco.

 

«Peccato solo che non possa dare io stesso l’ordine».

 

Un nodo strinse lo stomaco di Stede mentre con lo sguardo cercava gli occhi dell’uomo che lo aveva venduto agli inglesi e che alla fin fine era stato la vera causa di ogni disastro – oltre alla propria codardia.

 

«Lui è qui?», si lasciò scappare.

 

«Se pensi che possa essere tuo diritto anche solo pensare a lui ti sbagli di grosso».

 

«È stato Edward ad ordinare la mia cattura?»

 

La morsa dell’altro si fece ancora più ferrea e Stede provò ad allontanarsi facendo forza sulle sbarre, invano.

 

«Non. Chiamarlo. Edward».

 

«Mi odia, vero?»

 

Israel lo guardò come se si stesse trovando di fronte ad un completo imbecille e lo mollò, spingendolo indietro, facendolo cadere nel lordume della cella.

 

«Farò in modo», continuò, «che di te non resti neanche un brandello di carne».

 

E come era giunto Izzy se ne andò, lasciando Stade solo.

 

 


 

 

Lo aveva cercato.

In lungo e in largo, seguendo le dicerie delle sue scorribande.

Lo aveva fatto nonostante tutta la sua ciurma fosse contraria, visto ciò che era accaduto.

Aveva tentato di uccidere ognuno di loro e Lucius stesso con le proprie mani, nonostante tutto ciò che si erano detti sul togliere personalmente la vita ad un'altra persona.

E Jim. E Frenchie.

Nessuno sapeva se fossero ancora vivi o cosa potesse averne fatto.

Eppure aveva provato a raggiungerlo, a lasciargli dei messaggi nei porti comuni, ad aspettarlo.

Tutti coloro a cui chiedeva informazioni lo snobbavano o gliele davano sbagliate.

E dopo un anno e mezzo di ricerca infruttuosa aveva ceduto. Aveva smesso di cercare.

L’oceano era troppo grande e se qualcuno voleva nascondersi poteva farlo senza alcuna difficoltà. Per uno come Barbanera, poi, sarebbe stato un gioco da ragazzi.

 

Pensava spesso al dolore che doveva avergli provocato.

Al fatto che fosse riuscito a ferire il più grande pirata della loro epoca e forse di tutti i tempi.

Lui, un misero ragazzotto ricco con un sogno e una spada giocattolo.

E se ne vergognava così tanto.

 

Seduto nel fango e nella paglia della cella, Stede si ritrovò a pensare a quel tramonto sulla spiaggia ormai così lontano, come spesso gli capitava quando era sovrappensiero o solo.

Chissà, si domandò, se ci pensava anche Edward.

O se aveva eliminato quel ricordo dalla propria mente, sostituendolo con il rancore.

 

Doveva vederlo, si disse.

Doveva parlargli, anche solo chiedergli scusa.

 

Forse lo avrebbe ucciso.

Magari con le proprie mani, con un coltello piantato nell’addome o stringendogli le mani intorno al collo gracile.

Il pensiero lo terrorizzava ma al tempo stesso era consolatorio.

In un oceano ricco di pericoli, il pensiero di portar sollievo all’unica persona di cui davvero gli importava un poco lo tranquillizzava.

Ma era presto per pensarci.

Ancora non sapeva se lo avrebbe mai voluto incontrare di nuovo.

 

Poteva solo sperare.

 

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Capitolo 3
*** III ***


«Spiegami per quale motivo non dovrei ucciderti con le mie stesse mani».

 

«Perché sono l’unica persona che si muove in anticipo tanto quanto te. E su Bonnet sono sicuramente molto più accorto».

 

Edward conficcò il coltello con cui stava giocando nel legno della scrivania della sua cabina, sollevando lo sguardo verso il proprio braccio destro.

 

«Accorto? Pensavi davvero che non mi sarei mai reso conto del suo arrivo sull’isola? Lui?! Che profuma di lavanda e violetta e lascia una scia dietro di sé che neanche la più costosa delle puttane?!»

 

Israel digrignò i denti, indeciso su come rispondere, ma – ‘fanculo – optò per essere quanto più schietto possibile.

 

«Bonnet ti ha fottuto il cervello una volta. Se ho fatto quello che ho fatto è stato per risparmiarti di dover perdere tempo con quell’imbecille, vista la tua impossibilità ad ucciderlo. Non potevo permettere che succedesse di nuovo».

 

«Ne parli come se fosse una minaccia», rise Barbanera, buttandosi con la schiena all’indietro sulla sedia.

 

«E non lo è?»

 

«No. Non lo è mai stato, e credo che questi ultimi anni siano la prova che sono rinsavito e se pensi che un omuncolo come quello possa distruggere tutto quello che sono riuscito a creare allora hai meno fiducia in me di quanta ne vai blaterando».

 

Izzy parve perdere la lingua e se ne stette tranquillo, senza aggiungere altro.

 

«Per quando è previsto l’arrivo della sua nave?»

 

L’altro non aprì bocca.

 

«Izzy».

 

«È arrivato questa mattina».

 

Barbanera congelò.

Stede era lì.

Sull’isola.

 

«Dove?»

 

Izzy parve ritrovare il dono della parola e con aria quasi supplicante – quasi – si gettò con le mani sulla scrivania, a pochi centimetri da lui.

 

«Lascia che me ne occupi io. Possiamo cancellare tutto. Basta poco, un ordine. Ci penserò io stesso e tu non dovrai far altro che dimenticare».

 

Edward cercò negli occhi dell’attendente un qualsiasi segno che lo stesse prendendo in giro ma no, era serio, mortalmente serio, e se gli avesse detto di sì non aveva dubbi che si sarebbe presentato presto sulla nave con un paio di scarpe fatte con la pelle di un ben noto nobile decaduto.

Avrebbe potuto permetterglielo.

In questo modo non avrebbe dovuto fare niente, gli sarebbe davvero bastato bere fino a cancellare ogni singolo ricordo dell’altro. Ma ci aveva già provato ed era inutile.

Le sbronze invece di aiutare riportavano a galla memorie, profumi e sapori e la sola idea lo spinse sovrappensiero ad andare a toccarsi le labbra.

 

Sollevò nuovamente lo sguardo verso l’altro, scacciando ogni pensiero di tenerezza che per un attimo lo aveva colto di sorpresa.

 

«Dimmi dove si trova».

 

 


 

 

Dovette impiegare qualche istante perché gli occhi si adeguassero dalla luce esterna all’oscurità della prigione. Passo dopo passo, in modo felpato, cominciò a percorrere il breve corridoio che dava sulle varie celle, per buona parte vuote.

Solo una era occupata da un uomo imbavagliato, ma definitivamente non era chi cercava.

L’unica luce che penetrava veniva dalle poche grate ad altezza testa che davano sulla strada e sarebbe stato difficile per chiunque intuire le fattezze di eventuali prigionieri.

Ma non per lui.

Non gli serviva la luce per capire che l’uomo seduto per terra, a reggersi le ginocchia come un bambino impaurito, fosse Stede.

Lo avrebbe riconosciuto ovunque, nonostante gli anni e la rabbia.

Dovette fermarsi sui propri passi, timoroso di andare avanti.

Cosa aveva da dirgli?

Perché non poteva semplicemente risparmiarsi quel dolore e lasciare che Izzy facesse davvero il lavoro sporco?

Nessuno lo avrebbe biasimato, anzi.

Non aveva senso che il grande Barbanera si sporcasse le mani su una nullità come Stede Bonnet.

 

Eppure si ritrovò nuovamente ad avanzare, le mani in avanti a cercare le sbarre che lo separavano dall’altro.

Lo osservò senza fiatare.

Anzi, si ritrovò a trattenere il respiro mentre fissava la rosa dei capelli biondi e le mani intente a stringere la stoffa delle brache.

Non emise alcun suono ma per qualche ragione Stede parve rendersi conto di non essere solo e sollevò la testa, quasi spaventato.

Nonostante l’assenza di luce non gli ci volle che un istante per capire chi fosse l’uomo di fronte a lui, Ed glielo lesse negli occhi.

 

Eppure non una parola uscì dalle labbra di Stede, nonostante fossero dischiuse in un’espressione di muto stupore.

 

Edward voleva andarsene.

Non sapeva il motivo ma si aspettava che da un istante all’altro sulla bocca di Stede sarebbe comparso un sorriso sardonico e che ne sarebbero scaturite parole di puro veleno, ma così non accadde.

Il prigioniero si alzò, incespicando, e con timore e riverenza di avvicinò alle sbarre senza distogliere per un solo istante gli occhi dai suoi.

Ed avrebbe voluto fare un passo indietro ma si sentiva incatenato a quelle sbarre e a quello sguardo.

Solo quando sentì le dita dell’altro sulle proprie si ridestò da quell’incantesimo.

 

«Edward--»

 

Scostò le mani come se avesse appena toccato una fiamma viva e si allontanò di un passo, leggendo subito negli occhi dell’altro la paura di aver fatto qualcosa di sbagliato.

 

«Ed, ti ho cercato per tutto l’oc--»

 

Barbanera si mosse ancor prima di rendersi conto di ciò che stava facendo e quando vide che stava puntando la canna della pistola direttamente contro la fronte dell’altro quasi si stupì per la propria rapidità.

Le parole di Stede gli morirono in bocca e i suoi occhi per un attimo andarono ad incrociarsi per cercare di vedere il punto in cui la bocca della canna stava premendo contro la sua pelle, ma subito tornarono a cercare i suoi.

 

«Dammi – una sola ragione – per cui non dovrei ucciderti», scandì piano.

 

Stede aprì e richiuse la bocca più e più volte, incapace di articolare un pensiero sensato, e questo fece andare l’altro su tutte le furie.

Tre anni.

Aveva avuto tre anni per trovare qualcosa da dire qualora si fossero rincrociati e adesso quell’idiota non riusciva a dire una singola parola.

 

«Mi dispiace», riuscì infine a sputare.

 

«Ti dispiace?», sputò. «Di cosa ti dispiace, Bonnet?! Di essere finito qui in questa prigione? Di esserti ritrovato di nuovo sulla mia strada? Perché avevi paura che prima o poi sarebbe successo, vero?! Dio solo sa quante volte ho sognato di rivederti per farti pentire di avermi preso in giro».

 

«Dio solo sa quante volte ho sognato di rivederti. E basta», ripeté l’altro con un mezzo sorriso, completamente fuori luogo ed ancora più idiota.

Lo avrebbe ucciso, pensò.

Lì, subito.

 

Sentiva il dito sul grilletto fremere con trepidazione, pronto a quel minimo scatto che lo avrebbe liberato di quell’ennesimo fantasma. Voleva vedere sul volto di Stede l’espressione di puro terrore che tutti – tutti –provavano anche solo a sentire il suo nome.

Ma l’altro non vacillava.

Lo guardava dritto negli occhi non con timore ma con la curiosità e la reverenza di un bambino.

 

Edward abbassò l’arma, sconfitto, voltandogli le spalle, incapace di reggere quello sguardo che sembrava non portare dentro di sé alcun senso di colpa per ciò che aveva fatto.

Si allontanò, seguito dai richiami del proprio prigioniero che lo implorava di restare, sino a che non riuscì a gettarsi in strada, sotto il sole cocente di Tortuga, il fiato corto e le mani tremanti.

Voleva nascondersi ma la sua cabina sembrava lontana miglia e miglia mentre lì, in mezzo a tutta quella gente che gli passava accanto senza dargli troppo peso, si sentiva annegare.

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Capitolo 4
*** IV ***


Buttons era gli occhi della nave.

E le sue orecchie.

E le sue mani.

Ogni tanto, quando era in vena, si sentiva anche un po’ il gomito destro, ma non in quell’istante.

In quell’istante era solo gli occhi, scaltri e pronti a cogliere ogni singola cosa fuori posto in quel porto.

E di cose fuori posto ce ne erano parecchie. In primis il fatto che nessuno lo avesse aspettato per andare a bere. E secondariamente che sia il capitano che Lucius fossero stati portati via di peso dalla banchina, imbavagliati e legati come capretti.

Lo aveva visto lui stesso, dall’alto dell’albero maestro dove era rimasto sino a poco prima.

E non solo: aveva anche visto lo stuolo di uomini che si erano riversati sulla nave per cercare qualcosa –o qualcuno.

Aveva fatto due più due solo nel momento in cui aveva visto il braccio destro di Barbanera camminare sul ponte, guardandosi intorno con aria vittoriosa.

Olivia aveva addirittura proposto di lanciarglisi addosso in picchiata, ma no, non era ancora il momento: era evidente che ci fosse un qualcosa di losco sotto e non poteva permettersi di farsi scoprire.

 

Attendere per lui non era mai stato un problema: finché aveva il cielo sulla testa e in mare sotto i piedi andava tutto bene e se voleva che nessuno lo vedesse allora nessuno lo avrebbe fatto.

E così accadde.

Si concentrò e divenne sale, scoglio, onda.

Si calò così tanto nel suo essere tutt’uno con il suo mondo che si dimenticò del suo essere nello stesso e del fatto che fosse lì per un motivo.

Difatti tornò in sé solo dopo ore e ore, nel cuore della notte, quando ormai la luna era alta e la nave era vuota se non per un unico individuo, posto sul ponto a fare da guardia. Definitivamente nessuno dei suoi.

Bloccava la via per la banchina ma non era certo l’unica via possibile per la terraferma.

 

Buttons percorse la crocetta con passo delicato, come se stesse passeggiando sulla spiaggia, e quando fu al suo estremo, senza scomporsi, si tuffò.

 

 


 

 

«Hanno il capitano».

 

Wee John alzò lo sguardò verso Buttons ma non si scompose neanche di fronte al fatto che la vedetta stesse grondando acqua.

In tutta sincerità non aveva davvero capito chi gli stesse parlando dei tre che aveva davanti, anche perché continuavano a muoversi e ad oscillare, cosa che lo stava non poco nauseando.

Oluwande, giunto in quel momento con due pinte in mano, osservò lo scambio con curiosità.

 

«Chi ha il capitano?», chiese.

 

«Shhh», sbottò Buttons. «Bisogna uscire di qui. I muri hanno le orecchie».

 

La locanda era gremita di pirati che ciarlavano, urlando e cantando. Nessuno stava prestando loro la benché minima attenzione.

 

«Buttons, sei sicuro di aver visto bene?»

 

«Pensi che i miei occhi non funzionino bene?», chiese la vedetta, indicandosi le pupille chiare con due dita.

 

Oulwande posò le due pinte sul tavolo facendone traboccare un poco il contenuto. Si passò la mano bagnata sulla casacca.

 

«Ha preso anche Lucius».

 

Black Pete - la testa affondata nelle proprie braccia per cercare di scacciare la sbornia che pian piano cominciava a salire - si sollevò di scatto rovesciando ulteriore birra. Oulwande roteò gli occhi al cielo e optò per riprendere in mano le pinte.

 

«Lucius?! Cosa?! Chi?!»

 

«Barbanera», disse con tono solenne Buttons, gli occhi persi verso un orizzonte immaginario.

La scena avrebbe fatto accapponare a chiunque la pelle se fosse stata ripetuta in un ambiente adatto, ma il pathos era definitivamente contenuto anche per via del tizio che si era messo a vomitare a pochi metri di distanza dal tavolo.

L’intera ciurma tuttavia si congelò sul posto.

 

Il pensiero del destino infelice che li avrebbe colti se il Capitano non li avesse recuperati da quell’isola deserta ancora si infiltrava nei loro incubi.

Per colpa di quel demonio avevano perso non solo la nave ma anche dei compagni.

Lo sguardo annebbiato di Black Pete si posò su Oulwande.

 

Il ragazzo era bloccato, lo sguardo a terra fisso su di un unico pensiero.

 

Jim.

 

Jim, di cui non sapeva nulla da tre anni, che gli era stato strappato via dalle braccia dopo aver assaporato un breve attimo assieme.

Lo sognava ancora, quasi ogni notte.

Spesso incubi in cui lo vedeva affondare fra le onde, come gravato da un peso, e lui provava ad afferrarlo con le mani ma non riusciva, gli sfuggiva non appena lo sfiorava con la punta delle dita.

Non sapeva se fosse vivo o morto, ma visto ciò che aveva fatto loro Barbanera aveva pochi dubbi sulla risposta.

 

Oulwande non era tipo da portar rancore.

Era logico, razionale.

Eppure per quell’uomo che gli aveva tolto tutto provava solo un cieco odio.

 

«Dobbiamo andarcene», disse Roach, alzandosi e guardandosi intorno circospetto, una mano subito alla cintola, sulla fedele mannaia.

 

«Non possiamo andarcene», sbottò Black Pete alzandosi a sua volta, tenendosi tuttavia al tavolo per cercare stabilità. «Hanno Lucius!»

 

«Non ci lascerà in vita questa volta se ci scopre qui», continuò Roach.

 

«Non sei tu a decidere!»

 

«E nemmeno tu!»

 

Lo Svedese, che fino a quell’istante era rimasto immobile - perso nei propri pensieri, intento a giocare con una ciocca di capelli – si risvegliò all’improvviso, lanciando un piccolo urlo di sorpresa.

Ma non se ne accorse nessuno.

 

Oulwande si risvegliò, disturbato dal litigio che si era innestato fra i suoi compagni, e scrollò il capo per scrollarsi di dosso certi pensieri.

 

«Basta. Dobbiamo tornare alla nave, subito. Lì penseremo a come recuperare il Capitano e Lucius, ma dobbiamo andare. Adesso».

 

«Non credo di potervelo permettere».

 

Oulwande avrebbe potuto notare lo sguardo dei propri compagni, attonito, ma neanche lo notò. La sua attenzione venne subito attirata dalla voce proveniente alle sue spalle, lontana e familiare.

Si voltò lentamente, sicuro che avrebbe trovato di fronte a sé un fantasma.

Ma non era uno spirito né tantomeno immaginazione.

Era Jim, in carne ed ossa, circondato da uno stuolo di pirati che osservavano il gruppo come cani con una bistecca.

 

Oulwande, incapace parlare, fece l’unica cosa che potesse venirgli naturale in quell’istante.

 

Lanciò il contenuto dei boccali che aveva in mano su Jim e lo osservò inebetito mentre questo – grondante – imprecava guardando le condizioni in cui era stato ridotto.

Jim sollevò nuovamente lo sguardo su di lui, contrariato.

 

«Prendeteli».

 

 

 

 

 

 

NOTE:

 

Mi scuso tantissimo per la lentezza con cui posto ma non ho un attimo libero per scrivere e sono abbastanza detonata.

Spero di riuscire ad aggiornare ASAP in settimana. Ma non disperate, lemme lemme avanzo.

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