Heartstopper.

di JohnHWatsonxx
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno Qualsiasi ***
Capitolo 2: *** Solo una prova ***



Capitolo 1
*** Uno Qualsiasi ***


Quando era piccolo, gli veniva sempre detto che il suo futuro era già stato scritto. A volte erano le braccia, che avevano i segni della muscolatura, altre volte il collo lungo e robusto, altre ancora le gambe già sviluppate capaci di reggere lunghi periodi di sforzo. Tutto per dire che John Watson apparteneva al campo da rugby, che avrebbe avuto una borsa di studio per lo sport e avrebbe lasciato la tranquilla provincia per vivere nei quartieri più lussuosi di Londra. La sua unica responsabilità giaceva nel seguire quella strada.

Quando si svegliò, quella mattina, pioveva. Sentiva chiaramente il vento e la pioggia inveire come cento uomini sulla serranda della sua camera, sulle cui pareti erano appesi scomposti una serie di poster di band inglesi e giocatori famosi. Davanti al suo letto, più grande di tutti gli altri e subito sopra la sua scrivania, riposava indisturbata da anni la gigantografia della squadra inglese al Torneo Sei Nazioni: tutti i giocatori, come dei dell’Olimpo con i dadi del destino in mano, lo fissavano, sempre e non solo la mattina. John si sedette sul letto, gli occhi ancora semichiusi e i capelli simili a spighe di grano scompigliate dal vento, e sospirò. Odiava il rientro a scuola e odiava la scuola. Odiava le persone che lo salutavano con un sorriso e poi si voltavano a parlargli dietro. Il Natale appena passato ha lasciato poco o niente dietro, solo una manciata di banconote dai suoi parenti, un paio di calzini nuovi e della carta rossa buttata sul pavimento, proprio vicino al secchio.

Sospirò aprendo gli occhi. Sulla sua sedia, tra vari abiti stropicciati, trovò un pantalone e un maglioncino beige che sembravano abbastanza puliti da poter essere indossati, e al loro posto lasciò il pigiama vecchio e con una varia collezione di macchie vecchie e nuove su tutto il tessuto. Da qualche parte sotto al letto recuperò due scarpe uguali e le indossò. Al piano di sotto sua madre e suo padre parlavano sussurrando vicino al lavello, mentre Harriet mangiava lentamente da un piattino di ceramica tutto scheggiato.

“Buongiorno” mormorò ancora assonnato John, e prese un paio di fette di pane, accartocciandosele in bocca come ogni mattina. Il resto della famiglia gli rispose calorosamente, e Jane Watson lo avvicinò baciandogli la nuca.

“Questa mattina mi ha chiamato il tuo allenatore, John” esordì invece il padre David, accomodandosi rumorosamente sulla sedia accanto a lui. “Questo semestre frequenterai matematica con i ragazzi di seconda e dovrai mantenere una media alta per continuare a giocare e sperare per la borsa di studio l’anno prossimo”. John annuì come un cadetto al suo comandante. Pensando a una divisa militare un brivido d’eccitazione gli attraversò la spina dorsale. Parlare con suo padre era come parlare al proprio allenatore personale: era tutta una questione di successo e di vittorie, e se c’era una cosa che amava più di tutte, John del rugby, era la sensazione totalizzante del fischio di fine partita, a vittoria conquistata, quando il suo intero corpo si rilassava e per un minuto o due tutto diventava leggero e sopportabile, e quella brutta sensazione giornaliera scompariva. John ascoltava e annuiva, prendeva appunti ed eseguiva, come un perfetto burattino.

Prese il suo ombrello giallo ed uscì di casa, camminando mesto sotto la pioggia di gennaio e cercando di immaginare il vuoto, così come il suo coach gli aveva suggerito per calmare l’ansia. Camminò lentamente, godendosi il freddo che gli entrava nelle ossa e la pioggia che gli inumidiva i vestiti, e se notava di star accelerando il passo si fermava di colpo e riprendeva a camminare dopo pochi minuti. Non voleva andare a scuola quella mattina, John Watson, ma anche gli ultimi arrivano alla linea di arrivo. La linea era un grosso cancello in ferro battuto, arrugginito e pericolante, e l’arrivo era il grosso edificio che si innalzava subito dietro, tutto in mattoni rossi e finestre tonde e bianche. John si mimetizzò con il resto dei suoi compagni, tutti con la stessa triste faccia, tutti con il segno del cuscino stampato sulla guancia.

Nonostante la lunga e lenta passeggiata, non riuscì ad arrivare in ritardo. Entrò a scuola e raggiunse il suo armadietto, nell’ala sinistra dell’edificio, quella riservata agli studenti del terzo e quarto anno. La sua prima classe, invece, si trovava dalla parte opposta, ma lui non aveva alcuna intenzione di correre, nessuna intenzione di arrivare lì, nessuna intenzione di fare qualsiasi cosa, quel giorno. Sembrava che il poco di pioggia che aveva preso nel tragitto pesasse come mercurio sulle sue scarpe e lui fosse bloccato lì, in quel corridoio quasi del tutto deserto. Nessuno gli parlò, nessuno lo disturbò, e forse questo lo spinse a camminare verso la sua aula, quella di matematica. Le facce che vide lì dentro gli facevano paura: era di un anno più grande eppure si sentiva più piccolo, schiacciato da sguardi giudicanti di coloro che sanno di più e sono convinti di saperne di più del mondo. John incrociò lo sguardo con l’insegnante, un burbero vecchio col naso aquilino, su cui si poggiava un paio di piccolo occhiali tondi, fin troppo piccoli per la sua faccia cadente.

“In perfetto orario, Watson. –lo schernì sarcasticamente- Qui i posti li scelgo io. Lei condividerà il banco con Holmes, nella speranza che ti aiuti a passare questo corso” disse telegraficamente il vecchio, e John annuì come fece col padre la mattina. Mancava solo lui nell’aula e tutti i posti erano occupati tranne un banco doppio, di cui occupò la parte più vicina alla finestra. Subito dopo un altro ragazzo ruzzolò nella stanza, con i panni e i capelli completamente bagnati e il fiatone. I ricci scuri gli ricadevano pesantemente sulla fronte e si muovevano placidi mentre parlava con il professore. Quando il ragazzino alzò gli occhi e li incrociò con i suoi, John Watson smise di essere John Watson.

Holmes- Sherlock- aprì gli occhi quella mattina circondato dal nulla se non le coperte del suo stesso letto. Aveva sempre odiato il fatto di non poter personalizzare la sua camera e di lasciarla asettica, come fosse appena uscita da un catalogo di mobili. Anche l’ordine era dovuto a quello, e nella sua stanza niente era e doveva essere fuori posto. Sherlock, d’altro canto, poteva permettersi di essere sciatto quanto voleva, ma adorava nascondere il proprio disordine dentro di sé, incanalarla nel suo essere e tenerla segreta. Così, all’apparenza pacato, Sherlock Holmes era un vero disastro. Non aveva dormito neanche quella notte e le occhiaie cominciavano ad essere pericolosamente pronunciate, tanto che, quando scese le scale, la madre glie le fece notare con una nota di preoccupazione. Lui, in tutta risposta, alzò le spalle ed uscì di casa senza fare colazione, e senza prendere un ombrello. Era sovrappensiero riguardo ad alcuni spartiti di Tchaikovsky che gli stavano dando del filo da torcere e su un esperimento che aveva lasciato incustodito nel laboratorio di chimica.

Da quando era piccolo è stato il figlio di nessuno, specie quando Violet e Siger erano impegnati con l’educazione e il successo del loro primogenito Mycroft che era al termine del suo ultimo anno di college. E quando non erano appresso a lui, erano preoccupati per sua sorella minore che aveva difficoltà ad essere “normale”. Sherlock amava essere invisibile, amava essere abbandonato, perché gli concedeva la possibilità di essere libero e di poter scegliere qualsiasi strada lui avesse voluto: anche senza quella libertà gratuita, probabilmente avrebbe fatto lo stesso. Dalle passate vacanze e dal suo compleanno aveva ricevuto diversi libri concernenti diversi ambiti di studio, due tra tutti la chimica e la musica.

Arrivò a scuola in netto anticipo e corse nel laboratorio dove il professor Dornan lo stava aspettando.

“Ciao Sherlock, non ho avuto il coraggio di toccare il casino che hai lasciato prima delle vacanze” scherzò lui dalla sua scrivania. Anche a lui Sherlock non rispose, ma anzi corse verso la sua coltura di batteri, che in quei venti giorni era egregiamente proliferata. Sorrise, il ragazzo riccio, mentre sistemava gli appunti empirici del suo esperimento sotto lo sguardo attento del professore. Harry Dornan non era seriamente preoccupato per Sherlock, non lo era dall’inizio dell’anno, da quando poteva controllarlo concedendogli di usare liberamente il suo laboratorio. Quel ragazzino sembrava avere la spiccata capacità di passare inosservato agli occhi di tutti gli adulti, orfano con i genitori e una famiglia. Harry lo teneva d’occhio da quando lo aveva scoperto in un angolo della scuola, rannicchiato su sé stesso per nascondersi dai bulli. A quanto pareva qualcuno aveva sparso la voce che lui fosse gay: Sherlock non aveva negato (e avrebbe successivamente confessato al professore di esserlo davvero) e da quel momento erano iniziate le prese in giro e le occhiatacce dai più grandi, ora ex studenti della scuola. Sherlock, però, non aveva smesso di rifugiarsi nel laboratorio, anche solo per staccare la mente dalla tortura scolastica.

Mentre sistemava alcune piastrine il cellulare trillò: sullo schermo apparve un messaggio breve da parte di Jim, che gli chiedeva di incontrarlo subito dopo matematica in biblioteca. Sospirò, contemporaneamente allo squillo della campanella.

“Sono in ritardo” si disse, raccattando velocemente le sue cose. Salutò di fretta il professor Dornan, che gli concesse un piccolo sorriso, e affrettò il passo verso l’aula di matematica. Dentro era già pieno: aveva scordato la brutta abitudine del professor Smith di scegliere lui i posti, e inoltre il suo ritardo non gli aveva permesso di ribattere alle sue parole.

Per il resto del semestre avrebbe condiviso il banco con un ragazzo di un anno più grande, un tale John Watson. Lo notò subito, al terzo banco, vicino alla finestra: i capelli biondo grezzo gli cadevano sul viso ogni tanto, e lui se li spostava con un gesto lento e calcolato; gli occhi sembravano grigi perché riflettevano il colore delle nuvole, ma al di sotto erano azzurri. Sherlock si fermò per un attimo, indeciso se effettivamente raggiungerlo o starsene lì impalato in mezzo alla classe. Poi camminò verso di lui e vi si sedette accanto, senza dire niente.

“Ehi” sussurrò John Watson.
“Ehi” rispose Sherlock Holmes.

Quando la campanella suonò, Sherlock fu il primo ad alzarsi e correre via. Non era stupido, sapeva perfettamente che Jim non voleva altro che il suo corpo, ma non poteva fare a meno di quelle attenzioni finte che gli riservava nel privato di un corridoio o di una biblioteca. Semplicemente adorava essere visto, adorava essere apprezzato, anche solo per essere usato. Inoltre, Jim era l’unico che lo riuscisse a vedere. Non dovette aspettare molto, nella zona dei libri di archeologia in biblioteca prima che lui arrivasse da dietro, circondandogli i fianchi e baciandogli il collo.

“Buongiorno, bellezza” gli sussurrò dolcemente all’orecchio, baciando la linea della mascella per giungere alla bocca. Sherlock rispose al bacio girandosi tra le sue braccia, aggrappandovisi come fosse l’unica cosa reale della stanza. Jim Moriarty era un anno più grande ed era particolarmente affascinante: aveva i capelli neri e gli occhi ancora più scuri; era l’alunno più bravo del suo anno e non c’era niente che non andasse nella sua vita. Parlava poco con Sherlock e tanto con gli altri ragazzi, ma questo lui non lo vedeva. Adorava baciarlo contro il muro, schiacciando il più piccolo come a volerlo ingabbiare e adorava il brivido di eccitazione di quando qualcuno era in procinto di scoprirli. I suoi genitori erano due bravi cristiani, che andavano in chiesa ogni domenica e pregavano prima di ogni pasto. Non c’era niente che andasse nella sua vita, ma la prigionia che percepiva la sfogava tutta sulle labbra di Sherlock, l’unico segreto che possedeva gelosamente tra le mura asettiche della scuola, lontano da occhi indiscreti. Sherlock amava farsi baciare in quel modo da lui, e anzi era convinto fosse l’unico modo esistente, quello in cui si lasciava comandare da altri e vi si abbandonava.

Non parlavano mai se non all’inizio e alla fine delle loro sessioni di baci e Jim tra la folla neanche lo salutava: Sherlock voleva evitare di pensare che stessero insieme, ma non riusciva a levarsi quel tarlo dalla mente che gli suggeriva che forse quello era l’unico modo per due ragazzi gay di frequentarsi, quindi dissipava ogni suo dubbio dalla mente e continuava a baciarlo. Lo salutava alla fine di ogni pausa con un sorriso che Jim non ricambiava mai: il tempo di uscire dalla biblioteca e Moriarty era diventata tutt’altra persona. Sherlock non ci fece troppo caso e corse alla sua lezione successiva.

Faceva ancora molto freddo fuori, ma questo non impedì a lui e a Molly Hooper di pranzare al solito tavolino. Non c’era nessuno nel cortile tranne che per alcuni ragazzi che si stavano lanciando la palla ovale: tra di loro Sherlock ne riconobbe uno.

“John Watson!” esclamò nello stesso momento la sua amica, guardandolo stralunata.
“Sì, ci siamo solo salutati. A quanto pare già mi conosceva” rispose lui giocando con la sua uva, sovrappensiero.

“Sherlock Holmes?” chiese in quello stesso istante Gregory Lestrade al suo migliore amico. “il ragazzino strambo del secondo anno che l’anno scorso veniva ripetutamente preso di mira da quelli più grandi?” John annuì mentre gli ripassava la palla.
“Non ci siamo praticamente parlati. Spero in realtà che mi dia una mano con matematica, perché sono proprio scarso, ma ho un po’ di paura a parlargli” ricevette la palla dal suo amico e se la rigirò per alcuni istanti tra le mani, la pelle rovinata della palla gli faceva prudere la pelle.
“Beh è molto piccolo di statura, e tu giochi a rugby da quando hai imparato a camminare, quanta paura ti potrà mai fare?” chiese Greg, e John non rispose: non poteva di certo dirgli che era stata la sensazione strana che aveva avuto guardandolo negli occhi ad averlo spaventato.

In quel momento sembrava che il suo cuore si fosse fermato per un secondo.

“Sherlock? Sherlock!” chiamò Molly, e il ragazzo si ridestò dai suoi pensieri. “Non farti strane idee su John Watson: è possibilmente più etero dell’eterosessualità stessa” ridacchiò.
Sherlock accennò un sorriso ma non la stava davvero ascoltando: dall’altra parte del cortile Jim Moriarty stava baciandosi con una ragazza. Il riccio abbassò lo sguardo sul suo pranzo intatto e poi si alzò di scatto.

“Farò tardi a educazione fisica” sussurrò prima di correre via. Non si accorse dello sguardo di John Watson su di lui.

Harry Dornan sembrò preoccupato nel vederlo lì all’ora di pranzo. L’ultima volta che Sherlock si era seduto nell’angolo in fondo al laboratorio di chimica era rannicchiato su sé stesso, il viso tra le gambe e le mani tra i capelli mentre lui, poggiatosi sulla cattedra, gli chiedeva incessantemente cosa fosse successo fino a spingerlo a confessare tutti gli episodi di bullismo.

“Tutto okay, Sherlock?” chiese, subito dopo averlo visto entrare di fretta. Il ragazzo sembrò confuso all’inizio, ma poi annuì tranquillamente.
“È da parecchio tempo che non venivi a nasconderti qui”

“Non mi sto nascondendo!” reagì seccato il ragazzo, sedendosi per terra e consumando lentamente il suo pranzo.

Il professore finì di sistemare alcuni compiti mentre l’alunno mangiava in silenzio. Era un’abitudine creatasi tra di loro, stranamente confrontante per entrambi anche se il ragazzo non sarebbe dovuto essere lì e l’adulto non avrebbe dovuto incoraggiarlo a farlo: ma Sherlock era un ragazzo particolare, si diceva Harry Dornan, tanto intelligente quanto impacciato con le basi della vita; inoltre aveva paura che si potessero ripetere le stesse cose dell’anno precedente e non aveva assolutamente voglia di ripercorrere quella strada.

“Professore?” richiamò la sua attenzione lui.

“Dimmi, Sherlock”

“Cosa vuol dire quando qualcuno si comporta in un modo solo con te ma poi davanti alle altre persone si comporta in maniera totalmente diversa?” chiese ingenuamente. Harry gli sorrise, un po’ addolcito dalla sua ingenuità, un po’ per pietà (doveva ammetterlo) per quel ragazzo fin troppo intelligente.

“Parliamo di un amico? O, forse, di qualcun altro?” alluse il professore.

“Beh…ci frequentiamo, più o meno” confessò il ragazzo, ma la sua voce era macchiata da un tono di dubbio palpabile.

“Sherlock –sospirò l’adulto- non devi stare con qualcuno solo perché è la prima persona che ti dà attenzioni, ma perché ti tratta bene sempre, sia da soli che davanti agli altri. Mi sembra che questo ragazzo non ti rispetti molto”

Sherlock non rispose subito, intento a finire il suo pranzo. “L’ho visto baciarsi con una ragazza, poco fa” confessò poi. Il professore non ci mise molto a collegare i puntini. Sospirò nuovamente ed ebbe l’impulso di avvicinarsi e abbracciare il suo alunno, ma si trattenne.

“Vuoi che ti dica cosa fare? Non posso farlo. Devi sapere tu cosa fare”

“Vorrei che qualcuno comandasse quella parte del mio cervello che mi spinge ad avere interazioni sociali. Sono inutili eppure ne sento il bisogno quasi fisico. Anzi, non vorrei proprio provare niente come…come…”

“Una macchina” concluse per lui Harry “Ma tu non sei una macchina, sei un ragazzo, un adolescente. E come tutti i giovani ragazzi anche tu devi passare questo terribile periodo. Ti assicuro che durerà poco” riuscì a dire solo questo prima che la campanella cominciasse a suonare. Sherlock si tirò in piedi.

“Lo spero” concluse, prima di uscire dall’aula senza salutare.

Il corridoio era già pieno di persone che correvano verso le loro lezioni. Sherlock doveva raggiungere velocemente il campo esterno, prima che la professoressa Halley decidesse di mettergli una nota per il ritardo. Sandra Halley aveva la fissa per la puntualità e la precisione: nella sua ora tutti dovevano indossare la stessa divisa. Il corridoio era attraversato da non molte persone, così che lui potesse correre liberamente. Poco avanti a lui un’altra persona stava correndo: era John Watson.

Non ci mise molto a raggiungerlo, avendo le gambe più lunghe delle sue presto si ritrovarono a correre spalla a spalla.

“Ehi” disse John Watson.
“Ehi” rispose Sherlock Holmes, che da lontano intravide Jim e decise di alzare la mano e salutare anche lui.

Moriarty lo guardò dall’alto al basso velocemente, e poi rise. Sherlock rallentò immediatamente la corsa. Se era vero ciò che il professor Dornan gli aveva detto, doveva assolutamente chiudere con lui, per il bene anche del suo petto, che all’occhiata di Jim aveva preso a bruciare forte, come se si volesse consumare per sempre.

John non seppe dire cosa, ma la faccia di Sherlock si era stranamente trasfigurata mentre correvano l’uno di fianco all’altro, prima che il più piccolo rallentasse e rimanesse indietro. John rallentò con lui e seguì il suo passo.

“Tutto okay?” chiese, e Sherlock alzò lo sguardo, sorpreso dal fatto che il re del rugby lo avesse visto. Lui annuì, continuando a correre.

“Dove stai correndo?” chiese ancora John.

“Educazione fisica” rispose con un mezzo sorriso Sherlock.

“Io ad allenamento di rugby” aggiunse il biondo. Il più alto non rispose, ma anzi lo superò nel corridoio, staccandosi di diversi metri, sempre più veloce, lasciando John Watson indietro, a guardarlo scheggiare via: il giocatore non aveva mai visto qualcuno così veloce.

Né lui, né nessun altro che fosse passato in quella scuola: Sherlock Holmes era estremamente veloce, e nessuno aveva ancora battuto il suo record. La Halley era clemente con lui proprio per quello, se no, fosse stato per lei, Sherlock non avrebbe mai lasciato l’aula punizioni, per i suoi continui ritardi. Era di almeno 20 metri avanti alla sua classe e continuava ad accelerare: aveva sempre amato correre, specie quando da piccolo aveva Barbarossa che correva accanto a lui. Dopo la sua morte aveva mantenuto quell’abitudine, arrivando a correre anche venti chilometri in una sola mattina. Correva per pensare, per non pensare, per evitare i problemi o affrontarli con più lucidità: ogni sua emozione poteva trasformarsi in energia per la corsa.

John Watson era appena arrivato sul campo da rugby, e lì ad aspettarlo c’erano Greg e il resto della squadra. La coach Higgs stava già urlando comandi ed esercizi, e lui si mimetizzò tra i compagni a fare riscaldamento. Alla sua destra Lestrade gli sorrideva, alla sua sinistra Anderson non lo degnò neanche di uno sguardo. Eccezion fatta per Greg, sotto sotto John odiava la sua squadra, odiava il modo in cui tutti si sentivano superiori e il modo in cui trattavano gli altri. Ma nonostante questo rancore perenne verso i suoi compagni, essi erano anche le uniche persone con cui si incontrava regolarmente e con cui era intrappolato ogni mattina all’ingresso della scuola. Almeno, tra di loro, c’era Greg, l’unico con cui passava del tempo anche fuori dalle mura domestiche. Con lui fece coppia (come sempre) per fare dei lanci di riscaldamento.

“Hai sentito quello che ha detto la Higgs prima?” chiese Greg. John scosse la testa:  “sono arrivato tardi, dovevo passare all’armadietto a prendere la divisa”
“Dobbiamo trovare una riserva per poter giocare, uno qualsiasi perché siamo senza un uomo. McCarter si è rotto una gamba queste vacanze, sulla pista di pattinaggio”

“Uno qualsiasi?” chiese il biondo.

In quel momento le urla di un insegnante nel campo accanto al loro attirò la sua attenzione. Al di là della ringhiera un gruppo di ragazzi del secondo anno stava correndo. A comando della fila, con uno stacco di almeno trenta metri, vi era Sherlock Holmes.

‘Uno qualsiasi…’



NdA: ciao a tutti! Sono tornata su questi schermi dopo parecchio tempo, ma fortunatamente è uscita la serie tv Netflix di Heartstopper e ho pensato che sarebbe stato bello scrivere una Johnlock, una teenlock, in quelle corde. Se avete visto la serie più o meno sapete cosa aspettarvi: niente drammi pesanti o cose troppo dark. Tutta la storia sarà un enorme fluff in cui vi verrà voglia di stritolare le guance a tutti i personaggi. Inoltre questa storia mi serve per dimostrare che Alice Oseman è una johnlocker perchè Nick e Charlie sono letteralmente John e Sherlock scritti in un altro font. Spero vi sia piaciuto questo primo capitolo, a presto con il prossimo :)
-A

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Capitolo 2
*** Solo una prova ***


Quella giornata era stata un vero inferno, per Sherlock, ed era stato solo il primo giorno di rientro: aveva ancora il resto della settimana da affrontare. Steso nel suo letto, sotto il morbido piumone, parlava al telefono con Molly dei suoi esperimenti. Molly Hooper era a tutti gli effetti la sua migliore amica, e anche l’unica, ma non lo avrebbe mai detto ad alta voce. Si conoscevano da praticamente tutta la vita e aveva condiviso con lei ogni singola cosa. Per Sherlock era sempre stato difficile fare amicizia, ma con lei era diverso, con lei era normale parlare ed essere sé stesso: Molly aveva l’esclusiva nell’averlo visto piangere, cosa che neanche sua madre aveva mai visto.

Avevano passato però un brutto periodo l’anno prima, arrivati al liceo: Molly nella pausa estiva si era fatta una bellissima ragazza, ma Sherlock non riusciva a guardarla e a provare qualcosa che andasse al di fuori dell’amicizia, né verso di lei, né verso qualsiasi altra ragazza. Nella stessa pausa estiva lui aveva capito un paio di cose su sé stesso: la prima era che avrebbe fatto chimica al college, la seconda era la sua omosessualità. Fu la seconda a complicare le cose. Sherlock ripensava spesso a quelle settimane in cui non si erano parlati, e le trovava tuttora tediose e grigie. Quando, una sera di luglio, aveva deciso di fare coming out con lei, il caso volle che lei dall’altro lato avesse deciso lo stesso giorno per confessare i suoi sentimenti per lui. Era stato imbarazzante per Sherlock dover rifiutare la sua migliore amica, ferirla inevitabilmente con il suo essere semplicemente sé stesso.

Non ricordava molto come fossero andate le cose, ma aveva in mente il viso umido di lei a pochi centimetri dal suo, e il suo continuo scusarsi per essere gay. Forse era partito tutto da lì, quella sensazione di doversi meritare il peggio solo per essere sé stesso, la stessa sensazione che aveva provato quando aveva parlato ai suoi genitori, la stessa su cui i bulli continuavano a fare leva, la stessa che lui stava sfruttando in quel momento per giustificare la sua stupidità.

Sapeva che Jim lo voleva solo sfruttare; sapeva che non avrebbe dovuto affezionarvici; sapeva che non sarebbe andata a finire bene, ma si era anche convinto che l’unico modo che avrebbe avuto per poter provare qualsiasi cosa sarebbe stata necessariamente filtrata attraverso il dolore.

Si rannicchiò ancor di più sotto le coperte e sospirò, aprendo la chat con Jim (lo spettro del loro ultimo incontro impresso in quell’ultimo messaggio lo fece rabbrividire). Ripensò a ciò che gli aveva detto il professor Dornan, e pensò che forse avrebbe dovuto seguire per una volta il consiglio di qualcun altro.

Non voglio più vederti

Digitò furiosamente il messaggio e lo inviò senza pensarci due volte. La risposta arrivò inaspettatamente presto, ma Sherlock non se ne curò, preferendo buttare il telefono sul comodino e cercare di dormire: anche quella notte, però, non riuscì a chiudere occhio.

John si svegliò tardi. Avrebbe voluto andare a correre, ma non avrebbe fatto in tempo. Era dal giorno prima che non faceva altro che pensare al modo più carino per chiedere a un ragazzo di unirsi alla squadra di rugby, senza sembrare come i suoi compagni di squadra, come un arrogante pomposo pezzo di merda. Quel ragazzo –Sherlock- sembrava davvero l’unico adatto a fare la riserva, l’unico che potesse per lo meno reggere fisicamente un’intera partita di rugby senza collassare a terra. Greg, la sera prima, lo aveva preso in giro: per lui era troppo magro per poter placcare qualcuno e troppo delicato per poter far male a qualcuno. In effetti Sherlock sembrava magrolino, ma avevano davvero altra scelta? A fine allenamento ne aveva anche parlato con la coach, e lei lo aveva appoggiato entusiasta. Se quel ragazzo avesse accettato non avrebbero avuto problemi con la prima partita dell’anno, che ci sarebbe stata due settimane dopo.

Il professor Dornan stava spiegando cose che già sapeva, quindi stava recuperando del sonno perduto quella notte quando la campanella suonò, facendolo sobbalzare.

“Sherlock” lo chiamò il più grande. “Il fatto che tu riesca in qualche modo a saperne più di me sulla mia stessa materia non ti consente di dormire durante le mie lezioni” lo rimproverò.
“Non riesco a dormire” rispose solamente lui, prendendo le sue cose.
“Qualcosa ti affligge?” chiese il professore. Harry Dornan oltre ad essere un ottimo professore sapeva essere molto empatico, specie nei confronti di quel ragazzo che l’anno prima ne aveva passate di tutti i colori. All’inizio Sherlock negò, ma quando il suo cellulare prese a vibrare costantemente all’arrivo di almeno una ventina di messaggi a pressione, tutti da parte di Jim Moriarty per l’inciso, sospirò.

“Ho rotto con il mio ragazzo ieri, sempre se si può chiamarlo così”
Harry gli si sedette accanto. “Quello che ti trattava male?”
“Non mi trattava male!” fece una pausa “Non quando eravamo da soli”.

Sherlock si passò una mano sul viso, per cercare di scacciare l’ultima traccia di sonno dai suoi occhi. Era quello che lo aveva tenuto sveglio tutta la notte: aveva rotto con Jim e sapeva che era la cosa giusta da fare, ma nonostante questo aveva paura di rimanere solo per sempre, perché lui era stato l’unico a volergli stare vicino quando tutti gli altri non facevano altro che fargli del male. Odiava le emozioni, odiava essere così sentimentale e odiava il fatto che il suo cuore riusciva a comandare le sue azioni. Avrebbe voluto essere più come suo fratello Mycroft, in quel momento.

“Una persona si giudica dal modo in cui ti tratta in mezzo alle persone, Sherlock. Tutti possono dire di fare del bene, quando sono da soli” disse il professore, cercando inutilmente di risollevare il morale del ragazzo. Sherlock, agli occhi del più grande, era la persona più intelligente che avesse mai incontrato: la sua conoscenza della chimica era nettamente superiore alla sua, e gli ci erano voluti mesi per ammetterlo senza neanche una punta di gelosia. Ma quel giorno per la prima volta si era ritrovato a pensare che forse la sua intelligenza era un qualcosa per colmare altre mancanze, come l’assenza di amici, eccezion fatta per Molly Hooper.

“Non parli di queste cose con la tua amica?” chiese quindi il professore, e Sherlock alzò il viso solo per lanciargli uno sguardo di confusione.
“Lei non può capire”
“Perché?”
“Perché lei non è gay”. Il professore sospirò.

“Non serve che qualcuno sia gay per poterti aiutare, e di certo non ti posso aiutare io che sono un professore che ha di gran lunga passato la fase dei problemi adolescenziali” Sherlock non rispose, ma finì di prendere le sue cose e uscì di corsa dall’aula, lasciando Harry Dornan da solo a ringraziare il cielo per non avere dei figli.

John si era appena seduto al suo banco quando Sherlock spalancò violentemente la porta. Si scusò con un sussurro rivolto al professore e poi incrociò gli occhi con lui. John sorrise.

“Ehi” salutò Sherlock
“Ehi” rispose John.

E non si dissero altro, esattamente come il giorno prima, esattamente come il resto della settimana. Non sapeva, John, perché parlare con quel ragazzo si stava rivelando più difficile del previsto, eppure ogni volta che lo vedeva si sentiva strano e non capiva il perché. Avevano matematica solo i primi due giorni della settimana, quindi non lo avrebbe visto da nessun’altra parte. Greg continuava a pressarlo per convincerlo a parlare con Sherlock anche al di fuori di quelle poche parole di cortesia che si erano scambiati e al di fuori della classe di matematica, ma non gli sembrava… giusto.

“Ti stai facendo problemi a parlare con un ragazzino del secondo anno, John Watson?” scherzò l’amico, mentre sistemavano i libri nell’armadietto. John posò la fronte sul metallo e sbuffò. “Oggi glie lo chiedo” rispose scocciato. In quel momento passò Jim Moriarty, che sorrise sfacciatamente ad entrambi mentre al suo lato, a tenergli la mano, una ragazza lo seguiva sorridente.

“Vorrei sapere cosa ci trova di affascinante Irene Adler in quel viscido di Jim” sussurrò Greg. John alzò le spalle, recuperò il borsone da rugby e si diresse verso il blocco di chimica. La prima settimana da dopo la fine delle vacanze sarebbe finito con due estenuanti ore di chimica, materia che John amava e odiava allo stesso tempo. Quasi invidiava Greg per aver scelto arte, ma se voleva entrare a medicina aveva bisogno di solide basi scientifiche.

Di solito l’ala di chimica era frequentata da poche persone, e John si sorprese nello scoprire che una di quelle era proprio Sherlock Holmes, che sedeva da solo nel laboratorio di chimica, tecnicamente riservato al professor Dornan. Eppure, lui vi si muoveva come se conoscesse il luogo ad occhi chiusi. John pensò fosse destino, ed entrò.
“Ehi!” esclamò John. L’altro ragazzo sobbalzò.

“Ehi” rispose Sherlock, dopo essersi ripreso dallo spavento. “Pensavo fossi il professor Dornan, odia che io usi le sue cose” sorrise debolmente. Quel John Watson era strano: era una classe indietro a matematica ma frequentava chimica avanzata; era popolare ma gli rivolgeva la parola come se fosse stato un ragazzo normale e non lo strano che veniva preso di mira dai bulli; giocava a rugby, ma era gentile con tutti. Strano ragazzo, quel John Watson.

“Senti, volevo chiederti una cosa” cominciò il biondo, un po’ impacciato.

Volevo dirti che anche io sono gay, e sono innamorato di te. Vuoi uscire con me?” Sherlock rimase di stucco.
“Vorresti unirti alla squadra di rugby?” Sherlock si riprese, alla vera domanda di John.
“Cosa?” chiese quindi.

John si passò una mano sul retro del collo, in imbarazzo. “So che è un po’ campato per l’aria, non ci siamo mai veramente parlati, ma… abbiamo abbastanza giocatori per la squadra ma non possiamo effettivamente giocare senza una riserva e… sai, ti ho visto correre a educazione fisica e sei velocissimo e quindi ho pensato… sì, che magari ti piacerebbe unirti alla squadra ecco”

Sherlock sbatté gli occhi un paio di volte. Di certo mai si sarebbe aspettato che John Watson sarebbe venuto nel laboratorio di chimica a chiedergli di giocare a rugby.

“Ma io non so giocare” puntualizzò il moro.
“Fa niente, ti insegno io!” esclamò contento John. Sherlock sorrise di conseguenza.
“Non sono un po’… piccolo e debole, per giocare a rugby?” chiese ancora Sherlock.
John lo guardò per un attimo. “Siamo solo una squadra scolastica non è niente di serio”
Sherlock socchiuse gli occhi e sorrise furbo. “Quindi stai dicendo che sono debole!”

“NO! No, non era… non intendevo, non…” John balbettò qualcosa di indecifrabile prima di vedere che Sherlock stava ridendo. Si incantò, nel vedere che sulle guance dell’altro si erano formate due piccole fossette, e per un attimo pensò fossero adorabili, poi scosse la testa e accennò anche lui a una risata. “Quindi?” chiese ancora.
“Ti faccio sapere lunedì, okay?” rispose Sherlock e il biondo annuì contento.

Quando John lasciò il laboratorio notò, tra le borse di Sherlock, un violino. Che sapesse anche suonare? C’era qualcosa che quel ragazzino non sapesse fare?

Sherlock rimase per un altro paio di ore nel laboratorio, fino a che non rimase praticamente solo nell’intera scuola. Non stava più continuando i suoi esperimenti, era semplicemente rimasto lì, seduto tra le sue provette e i suoi batteri, a chiedersi cosa ci fosse dietro quella richiesta di John Watson. Che volesse prenderlo in giro? Era un modo per umiliarlo, per ridicolizzarlo di fronte alla squadra? O era davvero una richiesta genuina? Per tutta la settimana non sembrava che lo volesse prendere in giro: lo aveva spesso salutato per i corridoi ed era sempre stato gentile; quindi, non riusciva davvero a vedere una traccia di malvagità nella sua proposta. Forse avrebbe dovuto parlarne con Molly. Forse.

Ed effettivamente le parlò quella sera, a casa sua mentre facevano i compiti insieme.

“John Watson? Il re del rugby John Watson?!”
“Si Molly, lui. Mi ha chiesto di unirmi alla loro squadra perché manca un giocatore e a quanto pare mi ha visto correre a inizio settimana e ha detto che sono veloce” rispose Sherlock mentre completava un esercizio.
“Tu sei veloce” Molly si girò verso di lui. “Cosa hai risposto tu?”
“Gli ho detto che lunedì gli avrei fatto sapere, ma per la prima volta non so cosa fare. E se fosse un modo per prendermi in giro? Anderson e gli altri della squadra lo fanno costantemente”
“Ma lui no, non ti ha mai rivolto la parola prima di lunedì” fece notare lei.

Aveva ragione, Molly. E se fosse andata male avrebbe tranquillamente potuto mollare.
Il lunedì successivo, quando entrò nella classe di matematica, John non c’era, ma la sua borsa e la sua giacca sì. Sherlock se lo ritrovò davanti, in piedi vicino al banco, le mani coperte di inchiostro blu tenute in aria per evitare di toccare qualsiasi cosa.

“Ciao Sherlock, non avresti… un fazzoletto?” chiese imbarazzato.
Il professore arrivò in quel momento. “Santo cielo John, che casino hai combinato! Sherlock accompagnalo in bagno a lavarsi”.
Così i due uscirono in corridoio, uno accanto all’altro in silenzio fino in bagno. Il biondo buttò le mani sotto il getto di acqua fredda, ma l’inchiostro sembrava non levarsi. Sherlock lo guardava come si guardano gli alieni.

“Ma come hai fatto?” gli chiese.
“Uso la penna stilografica, fa sembrare la mia scrittura più bella. A volte però… esplodono” si giustificò John, mentre cominciava a strofinare energicamente la pelle.

“Non si leva!” esclamò divertito, alzando le braccia verso l’altro, che si spostò accennando una risata.
“Rimarrai blu per sempre, John”
“Farò finta che sia un tatuaggio!” rise il biondo guardando Sherlock ridere. Aveva un bellissimo sorriso, e John arrossì al suo stesso pensiero. Si schiarì la gola. “Allora… hai pensato alla mia proposta?”

“Si” rispose solo Sherlock, mentre gli passava un mucchietto di carta igienica. “Farò una prova” aggiunse poi, e John annuì entusiasta.

“Vedrai ti piacerà, ne sono convinto!” esclamò il biondo soddisfatto. Sherlock sorrise ma dentro di sé aveva una terribile ansia. E se gli altri lo avessero deriso, trattato male come i ragazzi dello scorso anno? Ammise tra sé e sé di avere un po’ di paura, ma decise di lasciarsela scivolare di dosso mentre tornavano in classe.

Il giorno dopo, al suono dell’ultima campanella, Sherlock si avviò agli spogliatoi. Quel corridoio gli faceva paura, così buio e asettico e impregnato di brutti ricordi com’era. Sembrava quasi che gli insulti che aveva ricevuto l’anno precedente fossero stati scritti con una bomboletta spray per tutte le pareti, a ricordargli quanto aveva sofferto e quanto -forse- avrebbe sofferto, se solo avesse varcato quella porta. Sentì delle voci, qualcuno che da dentro la stanza parlava con John (riconobbe subito la sua voce).

“Sherlock Holmes?”
“Non è, tipo, una matricola?”
“Sta al secondo anno” la voce di John.
“Sì, ma è piccolo, gracile. Sei sicuro?”
“E poi lo sanno tutti che è gay!”

Sherlock entrò, e John si alzò subito in piedi.
“Ehi” salutò.
“Ehi” rispose l’altro, avvicinandosi.

Dopo essersi cambiati immersi in un silenzio imbarazzante uscirono tutti in campo, dove la professoressa Higgs li stava aspettando.

“Watson!” lo chiamò. John si girò verso Sherlock e gli fece cenno di seguirlo.
“Tu devi essere Sherlock Holmes, John mi ha parlato di te”
John mi ha parlato di te, Sherlock avrebbe voluto arrossire, ma si sforzò di non farlo vedere e annuì.

“Hai mai giocato a rugby?” chiese lei.
“No” rispose il moro. La Higgs volse per un attimo lo sguardo a John, che alzò le spalle. Sherlock non capì le dinamiche di quel gesto ma non si fece troppe domande.
“Allora per le prime lezioni John ti insegnerà le basi, ok?” propose la professoressa, ed entrambi annuirono.

C’era da dire che Sherlock sapeva sì, correre, ma non era affatto capace di coordinare tutti e quattro gli arti: era per questo che faceva violino e correva, perché le due attività richiedevano il controllo di due parti del corpo a volta. Il rugby era molto più difficile, a suo parere. Suonare la più difficile composizione di Bach sarebbe stato più semplice. Inoltre, John non era d’aiuto. Sorrideva, prima di tutto, e da sudato era più bello che in camicia, e questo Sherlock non riusciva a spiegarselo. I suoi capelli biondi piano piano si ribellavano al suo controllo, finendogli davanti agli occhi, e a quel punto lui si passava una mano tra le ciocche per sistemarli. Sherlock non riusciva ad essere troppo concentrato mentre John lo guardava in quel modo, e lo rincorreva, e gli sistemava le parti del corpo gentilmente per fargli assumere la postura corretta.

Davvero Sherlock non sapeva come fosse possibile che in una settimana (neanche, un paio di lezioni forse?), si sia preso una cotta per niente di meno che John Watson. Molly l’avrebbe ucciso. Ma niente di ciò che era appena accaduto lo avrebbe potuto preparare a quello che sarebbe successo poco dopo.

“Prova a placcarmi!” propose John, sorridente, bello, sudato. Sherlock si voltò dove c’era il resto della squadra che simulava una partita, e percepì con i suoi occhi il dolore di quell’azione, vedendola svolta dagli altri. John notò la sua preoccupazione.

“Ti giuro che non mi muovo, dai” lo pregò, allargando le braccia. Il moro si guardò e poi guardò l’altro e calcolò che la sua massa poteva arrivare a massimo la metà di quella di John. Poi prese un respiro, e si buttò su di lui. Caddero entrambi a terra, Sherlock su di lui, quasi ad abbracciarlo.

“Bravo!” esclamò John, mentre si rialzava e porgeva la mano all’altro. “Ora rifacciamolo mentre mi muovo”.
Sherlock avrebbe voluto dire che aveva deciso di unirsi alla squadra di rugby perché è un bello sport, ma sapeva anche lui quanto era falsa quest’affermazione. Odiava il rugby, avrebbe continuato a odiarlo, ma niente era paragonabile alla sensazione di stare vicino a John, giocare con lui, farsi insegnare le tecniche e i trucchetti, vederlo felice quando riusciva a fare qualcosa di nuovo. E questo non ha niente a che fare con il rugby.

Mentre si cambiavano ricevette un messaggio da Jim. Ne aveva ricevuti parecchi in quei giorni ma li aveva ignorati. Nell’ultimo lui gli chiedeva di vedersi nell’aula di musica. Dove si erano incontrati la prima volta, pensò subito dopo. Aveva deciso di chiudere definitivamente con lui, e per farlo doveva vederlo di persona, anche se questo gli costava parecchio. Non parlò molto dopo aver letto il messaggio, e John se ne accorse, ma decise di non intervenire. Anche se sembrava essere passato molto più tempo da quando si erano parlati la prima volta, si conoscevano da una settimana. Davvero, non sembrava, era così semplice stare con lui. Decise però di seguirlo, anche se non sapeva perché.

Sherlock lo trovò appoggiato al muro, con la sua aria da strafottente, affascinante come sempre- no, non più.
Jim si avvicinò, posandogli una mano sul braccio.

“Non toccarmi” sibilò il più piccolo.
“Dai, non fare il prezioso” sussurrò lui al suo orecchio.
“Ho detto di non volerti più vedere”
“Ed io non ti credo”

Sherlock si allontanò di scatto, guardandolo con gli occhi spalancati.
“Su Sherlock, io ti piaccio, tu mi piaci. Perché non dovrei baciarti in questo momento?” e Jim cercò di avvicinarsi, ma l’altro lo scansò via con entrambe le mani.

“Non mi guardi neanche in faccia quando ci sono le altre persone, ed io non sono solo un ragazzo che puoi baciare quando ne hai voglia. Ho dei sentimenti anche io. Inoltre, ti ho visto, con Irene Adler. Grazie per avermelo detto” sputò fuori furioso, e avrebbe voluto andarsene in quel preciso istante, ma Jim lo bloccò di nuovo, trattenendolo per il braccio.

“Perché vuoi farmi fare pressione per fare coming out?” urlò quasi.
“No- non sto facendo questo. Se stai cercando di capire te stesso va bene, lo apprezzo, ma non puoi trattarmi come hai sempre fatto. Io sono un essere umano!”
“Ne sei così sicuro?” sussurrò Jim, e quel tono lussurioso e saccente, sicuro di sé, lo spaventarono, tanto che non riuscì a rispondergli.

Cosa voleva dire? Tutti lo consideravano una macchina, certo. Passava le ore nel laboratorio di chimica, o a correre o a studiare violino, e il suo cervello era come un database, ma di certo era un essere umano, fatto di carne ed ossa e desideri e sentimenti. Gli stessi sentimenti che Jim teneva nel pugno stretto insieme al suo braccio, e che decise di frantumare nel momento in cui la stretta si fece più feroce.

Jim Moriarty non era solo un anno più grande di Sherlock, ma anche più forte, e Sherlock non riuscì a fare niente quando lui si buttò sulle sue labbra, schiacciandolo tra sé e il muro. L’unica cosa che poteva cercare di fare per evitare il bacio era spostare la testa a destra e a sinistra.

Aveva paura di Jim, del suo comportamento spesso irascibile e del fatto che non riuscisse a staccarsi dalla sua morsa, che diventava sempre più stretta. La cosa peggiore fu sentire le sue stesse lacrime sulla sua pelle e la sua voce, diventata sottile, implorarlo di fermarsi. Le mani di Jim si andarono a stringere sul suo giacchetto. Sherlock chiuse gli occhi.

D’un tratto non sentì più niente, nessuna pressione, nessuna bocca sulla sua, nessuna mano. Jim era lontano da lui e davanti a lui c’era John. “Ti ha detto di fermarti” sbottò rabbioso John. La sua rabbia era la cosa più rassicurante che Sherlock avesse mai percepito, non si sentiva minacciato ma protetto. Velocemente si asciugò le lacrime, mentre lui cacciava via Jim e si girava verso di lui.

“Tutto okay?” chiese, e Sherlock annuì senza proferire parola, per evitare che la sua voce tradisse la paura e la vergogna di quanto appena accaduto.
Poi prese un respiro. “Come facevi a sapere che ero qui?”
“Io… ti ho seguito. Mi sembravi preoccupato e volevo sapere come stessi”
Sherlock alzò il viso, rivelando gli occhi lucidi. “Scusa” sussurrò.
“Non è colpa tua” rispose confuso John.
“Ma sento di doverlo dire”
“Non farlo! No, non aprire bocca!” rise John. Poi gli mise un braccio intorno al collo. “Andiamo via, se no ci chiuderanno qui” disse, e Sherlock gli sorrise.

Si separarono all’uscita da scuola. Mentre Sherlock aspettava l’autobus prese il cellulare e aprì la chat vuota con John. Non era riuscito a ringraziarlo come si deve, voleva farlo ma ogni volta gli veniva da chiedere scusa. Urlò frustrato in mezzo alla strada vuota, per poi scrivere di fretta un “Grazie” e mandarlo senza pensarci due volte.

In macchina con sua madre John guardava fuori dal finestrino. La donna provava a parlargli ma lui era nel suo mondo. Poi guardò il telefono e, quando vide il messaggio di Sherlock, sorrise.

“John?” chiese la madre, e John rispose con un suono gutturale. “Come sono andati gli allenamenti?”

“Bene, sono andati bene”.
 
 
 
 NdA. Davvero. Ho pubblicato e di certo non so quando sarà la prossima volta che lo rifarò, ma giuro che questa storia avrà una sua fine, e spero che l'attesa ne valga la pena. 
Grazie a chiunque sia arrivato fin qui, ci vediamo al prossimo capitolo!
-A

 
 
 

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