Graecia capta

di Octave
(/viewuser.php?uid=1172416)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Graecia capta ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo sesto ***



Capitolo 1
*** Graecia capta ***


Graecia capta
 
Quella sera, ritirandosi nei suoi appartamenti, il Conte Hans Axel di Fersen non aveva le idee del tutto chiare su cosa fosse accaduto e su quale fosse stato il suo ruolo in tali accadimenti.
Essere sensibili alla bellezza muliebre non sarà un merito, ragionava tra sé, ma certo nemmeno una colpa. Ogni donna è bella a modo suo e quelle che non esibiscono sfacciatamente le loro grazie, ma lasciano che un occhio esperto del mondo le scopra a poco a poco, sono certamente le più affascinanti. Poi ci sono donne che ci lasciano senza parole perché stravolgono tutti i nostri  precedenti termini di paragone e non si possono confrontare con nessuna.
Così gli era apparsa quella creatura - ma dove l’aveva vista?- che aveva incontrato quella sera. Non era riuscito a toglierle gli occhi di dosso  neanche per un istante e  ancora non riusciva  a smettere di pensare a lei. Perché era come se la sua  bellezza perfetta  - ed era perfetta, sul serio!- fosse solo la promessa,  timidamente offerta,  di una terra inesplorata, di una felicità incognita.
Il suo modo di incedere, i suoi gesti, i suoi sguardi, stregavano perché erano pieni della meraviglia, cauta ed  intatta di chi assaggia per la prima volta, di chi guarda per la prima volta, e vuole riempirsi gli occhi e i sensi. Come resistere?
Questo stupore incontaminato si legava e si fondeva, tuttavia, allo struggimento di chi avverte che la prima volta  è anche l’ultima, e non ci saranno altre  occasioni. Da togliere il fiato.
Ogni più sublime piacere vive dell’attimo fuggevole in cui ci si dona, per sottrarsi a noi un momento dopo e il segreto è nell’assaporarlo fino all’ultima goccia. E non è  questo, dopotutto,  il motivo per cui gli dei, annoiati dalla loro esistenza, fatta di  momenti che si somigliano tutti e si confondono in un’eternità sempre uguale, invidiano i comuni mortali, che possono vivere l’ebbrezza di un istante unico ed irripetibile? Quegli occhi sgranati per non perdersi niente, quelle labbra dischiuse in un rapimento senza nome, erano esattamente questo: la perfezione di un momento.
E questo, che avrebbe costretto qualsiasi uomo alla resa senza condizioni,  non era ancora tutto. Era, infatti, come se quel candore inviolato, quel delizioso smarrimento, non fossero  tuttavia scissi,  nella profondità del suo sguardo, dal dolore della rinuncia, dal rigore di un severo autocontrollo, dall’esperienza, non recente e non effimera, ma antica e persistente ...dell’amore? Possibile?
E  dove e quando,  ne era certo ormai,  l’aveva vista?
Lo sapeva bene, lui cosa vuol dire nascondere un sentimento e reprimerlo fino ad illudersi di averlo cancellato, fino a fingere che non sia mai esistito. Ed era come guardarsi in uno specchio. Certo se non fosse stato impossibile avrebbe quasi giurato che quei capelli e quegli occhi e il suo profumo...ma no, forse si era sentito un po’ confuso, ma il suo ruolo, la sua intransigenza,  la sua specchiata lealtà...lei, il suo più caro e più prezioso  amico.
Ed era stato in quel preciso momento che lo sguardo di lei lo aveva attraversato da parte a parte e lui si era sentito come se non esistesse. E  lo sapeva bene, lui, cosa significa cercare negli occhi di una donna, nella sua bocca, sulla sua pelle, una traccia, un ricordo, un miraggio e non trovarlo. Ed era come guardarsi in uno specchio.
Si era sentito  improvvisamente fragile, vulnerabile. Si era sentito abbandonato, dopo essere stato sedotto. Questo, dunque, era il sentimento di una donna quando lui guardava oltre i suoi occhi ed oltre la sua bocca  ed oltre i suoi gesti, pur attraenti ed amabili?  
Gli fu chiaro improvvisamente, nella sua carne viva, cosa sente una donna quando cerca un chiarimento, una spiegazione. Che può assumere la forma di una pietosa bugia o di  una sgradevole constatazione dell’ovvio, ma insomma, è comunque una volontà, cieca ed ostinata, di farsi del male con la consapevolezza di farsi del male. Comprese il bisogno, perverso, di sentirsi schiaffeggiare da una verità crudele, la necessità, insana ed irrefrenabile di sapere, quando invece sarebbe stato infinitamente più semplice, più indolore, più saggio, più opportuno, lasciar perdere e conservare almeno la propria dignità. Comprese che veramente non è possibile, forse, a volte, resistere all’impulso di perdersi e di farsi del male,  perché  se non è possibile e non è concesso condividere l’amore, ci sia consentito almeno condividere il dolore e tentare di dare così sollievo all’anima.
A meno che non avesse interpretato male.  Che pensiero banale, constatò un po’ contrariato dal fatto che tante volte aveva letto in altri sguardi, persi nel suo, la speranza di aver frainteso e che ci fosse qualcos’altro da comprendere. Avrebbe avuto la forza sufficiente a lasciar perdere, senza cercare chiarimenti? Si sentì improvvisamente frustrato. Ma che pensieri erano quelli?  Provò una velata compassione per se stesso e subito dopo una fastidiosa indulgenza. Un chiarimento, ma non subito, naturalmente, non subito.
Si rabbuiò, poi si versò da bere, quindi provò a sorridere ma il sorriso si tramutò in una smorfia. Lo sapeva il Cielo se lui era nella posizione di poter esprimere giudizi. E alla fine, probabilmente se lo era meritato.
Diverse cose non erano chiare, quella sera al Conte Hans Axel di Fersen, e, tra queste, quali occhi oltre i suoi e quale bocca e quali gesti avesse cercato quella creatura così difficile da dimenticare.
Vuotò il bicchiere d’un fiato. Forse se l’era veramente meritato.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


Le idee di Oscar François de Jarjayes sugli avvenimenti di quella sera, mentre, in lacrime davanti alla fontana, rabbrividiva di freddo e di collera, erano chiare da far male. Una catastrofe. E, come se non bastasse, una catastrofe annunciata. Se il suo fosse stato, almeno, un comportamento irrazionale o un gesto avventato, avrebbe potuto, forse, trovare qualche attenuante per giustificare una momentanea perdita dell’autocontrollo. Della lucidità. Invece la strategia era stata pianificata nei minimi dettagli, con rigore e precisione. Ma qualcosa era andato storto. E lei, che era l’unica responsabile, adesso doveva risponderne. A se stessa, un giudice dal quale non si aspettava clemenza.
Il processo era già iniziato quando, non senza sollievo, aveva messo piede in carrozza.
L’imputato si alzi.
Oscar François de Jarjayes, giuri di dire tutta la verità?
Lo giuro.
Cosa poteva dire in sua discolpa?
Che aveva voluto guardare le cose da una prospettiva diversa, per una volta.
Aveva voluto comprendere. No, non comprendere. Aveva voluto sentire cosa vuol dire essere una donna tra le braccia di un uomo. Un’esperienza dei sensi, che è possibile quando la ragione tace e che lei, dal suo punto di osservazione, non avrebbe mai potuto permettersi di vivere. Ma se fosse stata, per una sera, una persona diversa? Senza passato, senza doveri, senza responsabilità. Una donna che può concedersi un abbandono senza riserve. Ad un uomo. Abbassare la guardia, smettere di combattere. Smettere di pensare.
Questo lei aveva voluto provare, per una sera, ma non come un osservatore esterno, che, col cuore gonfio di struggimento, cerca di figurarsi cosa provano due che si amano l’un l’altro. Sentire cosa si prova a sentirsi perduti e a non curarsene, a cedere ad una forza più potente della volontà e della ragione, dirompente, irrefrenabile, sprezzante di ogni rischio, dimentica di ogni divieto, incurante di ogni ruolo. Per una sera i suoi occhi, le sue braccia, le sue mani, la sua pelle avrebbero sentito quello a cui la sua testa aveva deciso di rinunciare. E lei avrebbe trovato la pace.
Cosa dunque non aveva funzionato?
Ti ha tenuta tra le braccia e ti ha accarezzata con lo sguardo. Il nemico è ai tuoi piedi. Preso alla sprovvista, non ha avuto neanche il tempo di schierare le truppe e si è arreso. Hai vinto.  Abbandoni il campo da vincitore. Un trionfo.
Le sue labbra hanno parlato di te, solo di te, e non aveva occhi che per te, in quel momento.
Che non dovesse riconoscerti faceva parte della strategia, te lo ricordi? Perché nessuno si facesse male. Che non potesse riconoscere te - il suo migliore amico - in quella donna, che, intanto, si mangiava con gli occhi, l’hai pianificato tu, Oscar, e nessun altro.
Per questo hai scelto una fortezza, che non puoi espugnare.
Per questo hai scelto una fortezza che non vuoi espugnare.
Una prova sul campo. Per testare l’efficacia delle tue armi. Ed è chiaro ed evidente, dunque, signori - ed è dimostrato dai fatti- che Oscar François de Jarjayes potrebbe, se volesse. E adesso quindi può rassegnarsi. Può lasciar perdere.
Così è deciso, la Corte si ritira.
Cosa c’è, dunque, da piangere?
Hai giurato. Ricordati che hai giurato.
C’è che nel momento decisivo, i tuoi sensi, i tuoi occhi, le tue mani, la tua pelle hanno avvertito che non era così che avrebbe dovuto essere.
Un tuffo al cuore. Ma che cosa ne vuoi sapere tu, Oscar, di come dovrebbe essere? Lo sanno i tuoi occhi, le tue braccia, le tue mani, la tua pelle - e non sai neanche tu come - non è così che dovrebbe essere! E quella scena, che era finta - perché nessuno, nessuno doveva farsi male! - ti parlava di gesti veri e di sguardi veri e di uno smarrimento che non sei riuscita a dominare. Perché era come se i tuoi sensi lo sapessero cosa significa perdersi, che non era quello. Come se sapessero cosa vuol dire sentirsi sopraffare dal desiderio, che non era quello. E sentirsi venir meno dalla dolcezza, che non era quello. Come se conoscessero l’amore. Che non era quello.
E hai sentito che quella fortezza - inespugnabile? - ha confini più vasti e contorni diversi da quelli che immaginavi. Incredibili, insondabili.  E non è lì che avesti voluto essere e questo esperimento è stato un errore. Che non ti darà la pace e che ti ha aperto le porte di stanze che non immaginavi, di sensazioni e di suggestioni che ti risuonano dentro e che riconosci così bene da avvertirne il suono e l’odore. Che non era quello. Per questo sei dovuta fuggire via da lì, immediatamente.
E’ un’abitudine antica, che con il tempo è diventata istinto di sopravvivenza, quella di afferrare subito quando devi fermarti e cercare di razionalizzare. E in questo non hai davvero rivali.
Silenzio in aula.
Non era ancora l’alba e Oscar François de Jarjayes aveva ricomposto le sue idee in un quadro chiaro e coerente e aveva pianificato le mosse successive. Si poteva ancora rimediare al disastro. Non era successo niente di irreparabile. E per fortuna non c’erano testimoni.
La nonna l’aveva aiutata a spogliarsi in silenzio, scrutando la sua espressione con un’apprensione partecipe e con la tenerezza un po’ spiccia che riservava solo a lei. Non avrebbe fatto domande. Né adesso né in futuro.  E sarebbe stata una tomba. Adesso e in futuro.
Bisognava evitare di incontrare Fersen, per un po’. Ma questo faceva già parte del piano iniziale e in ogni caso Fersen non poteva essere certo di niente.
Non era accaduto niente di irreparabile si ripeté. E non c’era nessun testimone.
Fu nel momento esatto in cui stava per cedere al sonno che un’immagine della giornata trascorsa, vivida e insolente, le attraversò la mente. Smise per un attimo di respirare. Nessun testimone? 
Rinunciando definitivamente all’idea di dormire, rimase ad aspettare l’alba con gli occhi spalancati e i sensi all’erta per impedire che altri pensieri venissero a ad assediare la sua mente, finché la luce del giorno non avesse ridato alla realtà contorni più precisi e netti e le sue idee non fossero tornate chiare.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***


André Grandier, quella sera, mentre, con una tranquillità del tutto apparente, si occupava delle sue mansioni abituali, non poteva in alcun modo impedire che certe idee prendessero forma nella sua testa.
-Sto diventando pazzo- aveva anche pensato.
Invece, era, piuttosto, come se tra tutti i sentimenti, disordinati e confusi, che, spintonandosi tra loro, gli si affollavano dentro, una felicità, violenta ed inopinata, sgomitasse per venir fuori.
Aveva avvertito immediatamente un’atmosfera strana, quando era rientrato a casa, eccezionalmente, da solo. Oscar gli aveva detto soltanto - testualmente - di riferire a Girodelle che doveva assumere il comando, perché lei tornava a casa. Ed era corsa via prima che lui potesse aggiungere altro.  Il che non prometteva nulla di buono. Il cavallo di Oscar era al suo posto nelle scuderie, quando era rientrato, ma lei non si vedeva in giro e la nonna andava su e giù come una trottola.
Cos’era tutta quella agitazione?
Un abito?
Un ballo?
Ci siamo - pensò - si alzi il sipario e lo spettacolo abbia inizio.
Fingere stupore, innanzi tutto, come se non avesse neanche capito - come un maledetto imbecille -  per prendere tempo e provare così a placare il tumulto del cuore. Senza destare sospetti.
-Oscar con un abito da sera? Oh, ma non è possibile! E andrà ad un ballo? Ma dico, è uno scherzo? -
No, non è uno scherzo. Meglio provare a buttarla sul ridere, allora. Magari funziona.
-Ma sembrerà uno spaventapasseri, figuriamoci! -
E assumere un’aria svagata - un’aria da imbecille, non c’è un altro modo per definirla - sforzandosi anche di apparire divertito, col cuore stretto in una morsa, mentre fantasie voluttuosamente crudeli si materializzano davanti ai suoi occhi.
Infine, e questo lo uccide, fare come se non gliene importasse niente.
-Vieni a vedere, André! -
- Ma sì, certo, certo…-
Sdrammatizzare, dissimulare, minimizzare. Un’esperienza lunga e consolidata.
Ma quella sera non ce la fa. Quella sera la minaccia ha un nome e un volto e la sola idea lo rende folle di gelosia, tanto più che, nelle brume dell’immaginazione, ogni dettaglio assume contorni più spaventosi, più intollerabili, più devastanti di qualsiasi cosa possa accadere nella realtà.
E questo non è ancora niente, in confronto allo strazio per il dolore che lei ha scelto di infliggersi. Quel dolore lui se lo sente addosso. A qualunque cosa avrebbe potuto rassegnarsi nella vita, ma veder soffrire Oscar, senza poter intervenire, è un inferno ogni singola, dannata volta. La consapevolezza che tutti i possibili - orribili - scenari, che quella sera avrebbero potuto delinearsi, avrebbero finito comunque per annientarla, lo fa smaniare, come se fosse per uscire di sentimento.
- André! Vieni qui! Vieni a vedere! -
Così alla fine aveva sollevato lo sguardo, ma ciò che lo aveva trafitto non era stata la bellezza, singolare e radiosa, della quale ogni singolo istante, con qualsiasi abito, i suoi sensi si inebriano con una gratitudine mai sazia, che lo tiene avvinto a sé, illuminando i suoi giorni e tormentando le sue notti, che gli fa, qualche volta, venir voglia di piangere, sopraffatto da tanto splendore. Ciò che lo aveva trafitto, quella sera, era stato il modo in cui Oscar lo guardava. Perché Oscar - non riesce ancora a crederci - lo stava guardando. Senza distogliere lo sguardo per paura di tradirsi, senza voltargli le spalle per paura di non riuscire a nascondere l’emozione, senza fuggire via, sentendo che non avrebbe potuto sostenere i suoi occhi un attimo di più.
Al riparo del vestito e del ventaglio Oscar lo guardava. Al riparo della maschera di una sera, Oscar gli sorrideva. Al riparo di una zona franca, che non esisteva in nessun posto del mondo, Oscar lo seduceva.
E lui, senza più riparo, ricambiava il suo sguardo.
Una porta chiusa è una porta chiusa, se non ne possiedi la chiave. Se non sei neanche certo che esista una chiave. E la si può contemplare dall’esterno, si può fantasticare su cosa può esserci oltre la porta, si può sbirciare dalle finestre, si può fare il giro dell’edificio o guardarlo da angolazioni diverse e si può coltivare la speranza folle di trovare, un giorno, quella chiave, di girarla nella serratura e avere, così, accesso alla completa felicità che quel luogo, certamente, custodisce.
Quella sera Oscar gli aveva aperto quella porta dall’interno. Facendo saltare tutti gli equilibri, tutte le strategie. Palizzate, torri, bastioni, fossati, terrapieni e l’intero quartier generale. Sbaragliando in un attimo tutte le sue difese. Che non erano difese di fortuna, ma mura ciclopiche, tirate su negli anni a fatica, con il cemento di un rigore che a volte gli faceva persino paura ed era lo stesso con cui Oscar aveva rifinito le mura dalla sua parte, con rinzaffi precisi, energici ed irosi. Sempre più energici ed irosi.  Sempre più disperati.
Fino a quando non aveva più potuto. Si era trovata in scacco, la sua Oscar, e aveva dovuto fare una mossa.
-Stai attento André: ci sono tre modi per uscire da una situazione di scacco. Si può sottrarre il re allo scacco togliendolo dalla sua posizione, ma questo solo se il re può muoversi; oppure si può eliminare il pezzo che lo tiene sotto scacco, se sei capace di farlo; oppure, se non è possibile fare le prime due cose, si può frapporre un altro pezzo tra quello che lo tiene sotto scacco e il re. Hai capito, André?” -
Si sentì mancare dall’emozione e dalla dolcezza.
-Ho capito, Oscar -
Una sola volta, in vita sua, André aveva dubitato dei sentimenti di Oscar, e se ne vergognava ancora. Era stato solo per un attimo, prima che lei, bella e terribile, implacabile come una divinità alla quale persino i sovrani della Terra si devono piegare, gli mostrasse - di fronte al mondo! - che lui era il centro del suo universo, per sempre, a costo della sua stessa vita.
Si sentì travolgere, come in uno schianto, dalla piena di un amore purissimo, senza riuscire, come allora, a trattenere le lacrime.
André Grandier, quella sera, in trepidante attesa per cogliere, nel silenzio della notte, il più piccolo rumore, che annunciasse il suo ritorno, pensava che forse stava diventando pazzo sul serio, ma non gli importava del vestito e non gli importava del ballo. Non gli importava cosa stesse accadendo o fosse già accaduto. E non gli importava neanche di chi, quella sera, non avrebbe capito.
Voleva solo che lei non soffrisse. Voleva che tornasse a casa presto.
E, qualunque fosse il prezzo da pagare, voleva che lo guardasse ancora in quel modo.
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo quarto ***


La sala da ballo era sfavillante di luci e Oscar, trasportata dalla musica, volteggiava tra le braccia del Cavaliere Nero. Una stretta sicura, ma gentile. E lei sapeva bene che doveva andare via da lì, ma prima voleva strappargli la maschera e guardarlo in faccia. E intanto - che strano! - si chiedeva se lui, potesse, a sua volta, riconoscerla. Improvvisamente le luci si abbassavano e anche la musica diventava più ovattata, mentre continuavano a danzare, ed erano rimasti loro soltanto in quella sala immensa.
Ma il Cavaliere Nero somigliava così tanto ad André adesso, anzi, era André, vestito come il Cavaliere Nero, con il volto coperto dalla maschera, che danzava con lei e le sorrideva, e all’improvviso a lei non sembrava più così importante andare via da lì, e neanche così necessario, mentre stava cercando di capire se aveva addosso l'uniforme o se invece indossava l'abito della sera del ballo, e solo allora, con il cuore in gola, si rendeva conto di non avere affatto vestiti addosso.
Subito dopo si trovava per terra, in un ambiente che non le sembrava di avere mai visto, e il Cavaliere Nero la sovrastava. Ma no, era di nuovo André -  per questo le aveva risparmiato la vita - vestito di nuovo come il Cavaliere Nero, la guardava e rideva. Rideva di come potesse, ancora, non essere evidente, per lei, una cosa così ovvia. E quando lei gli chiedeva di farsi riconoscere, André, senza staccare gli occhi dai suoi, si toglieva la maschera, e il suo sguardo intenso ed insolente la confondeva, mentre rideva, rideva ancora. Subito dopo, impietrita dall’angoscia, senza riuscire a fermarlo, Oscar lo vedeva lanciarsi contro la vetrata della sala da ballo e precipitare nel vuoto.
Si era svegliata di soprassalto, con il nome di André sulle labbra, in un letto sconosciuto, in una stanza sconosciuta, mentre una sconosciuta la fissava con sollecitudine.
 
Era iniziato tutto dopo il ballo. L’alba era arrivata, alla fine, ma non aveva riportato quella chiarezza, che Oscar aveva immaginato. I raggi del primo sole, piuttosto, capricciosi ed impertinenti, giocando ad infilarsi negli spiragli di quelle porte, dalla sera prima soltanto accostate, giungevano adesso ad illuminare gli angoli più nascosti e più segreti di quelle stanze così nuove, ma così familiari. E tutta quella luce e l’aria e il suo profumo le davano una vertigine impossibile da fronteggiare. Razionalizzare non era più possibile, questa volta. Bisognava dimenticare, cancellare.
L’altro capo di quel filo, che Oscar voleva recidere, però, non era più nelle sue mani.  
Quasi non rivolgeva la parola ad André, ma lo cercava, lo cercava continuamente con gli occhi, quando pensava che lui non la guardasse. E sembrava sempre che stesse per dire qualcosa, ma poi restava così, assorta e un po’ incupita. E André, che se ne accorgeva tutte le volte, rimaneva zitto anche lui.
Nei giorni a seguire le cose erano solo peggiorate. Doveva far tacere quella parte di sé che le stava mettendo i bastoni tra le ruote e che insisteva nel volerci veder chiaro, per esempio, su dove diavolo sparisse André, la sera. Cosa faceva? Cosa le nascondeva? E perché aveva quella dannata fretta di augurarle la buonanotte? A cavallo? A quell’ora? Con quel freddo?
Con quella collana, che non si era neanche preoccupato di nascondere meglio, nella sua tasca.
Della collana gliene aveva parlato apertamente lui stesso, il giorno dopo. Non c’era niente di cui preoccuparsi. Doveva solo rimanere calma. E trovare il modo di riprendere nelle sue mani il controllo della situazione.
Era stato per questo, forse, che si era buttata a capofitto in quella storia del Cavaliere Nero, quasi che avere un assillo e un’occupazione potesse placare la sua inquietudine.
Per condividere qualcosa con André. Per averlo complice. Per averlo accanto.
Invece era come se quell’iniziativa avesse aperto una serie di questioni irrisolte. Il vento soffiava furioso mentre André, di fronte alla sua richiesta di prepararle una lista dei balli organizzati in quei giorni, aveva voluto sapere perché dovesse occuparsene proprio lei. Che domande! Doveva occuparsene perché quello era un ladro. Perché voleva vederlo in faccia.
E perché doveva essere certa che non fosse…  sì, insomma, che lui non avesse niente a che fare con quella storia.
Quella mattina, poi, sul terrazzo le aveva anche chiesto, nel suo solito modo, diretto e disarmante, se fosse proprio necessario catturare il Cavaliere Nero, che alla fine non faceva male a nessuno e ciò che rubava lo dava a chi non aveva di che mangiare. E lei a quelle parole aveva alzato lo sguardo, per rispondere, ma poi era rimasta a guardarlo, mentre si stirava pigramente. Era davvero insolito che André le desse le spalle. Si era accorta, improvvisamente, che era una bella giornata, benché fosse inverno, e le era venuta voglia di affacciarsi anche lei alla ringhiera del terrazzo inondato di sole. Invece era rimasta seduta e gli aveva risposto con un’ovvietà. Certo che era necessario, perché era un ladro. Non aveva avuto il coraggio di dare una vera risposta a quella di André, che era una vera domanda. E non aveva potuto fare a meno di chiedersi quanto ci fosse di provocatorio, in quel quieto assenso di André, mentre, tornando dentro, si era sentita addosso il calore del sole, nell’istante in cui lui le era passato accanto, quasi sfiorandola.
Ma intanto André, quella sera, era uscito. Lasciando detto di aspettarlo, certo, ma era uscito comunque. E lei, non potendo ammettere che si sentiva mancare il terreno da sotto i piedi, era andata al ballo da sola. E proprio quella sera - coincidenza? - per la prima volta, il Cavaliere Nero si era fatto vedere e lei era stata aggredita e ferita, mentre lo inseguiva.
 
Si era svegliata in quella casa, dove una Rosalie felice e commossa le si era gettata tra le braccia.  E adesso le confessava che aveva lasciato la casa dei Polignac, perché non poteva accettare di essere uno strumento nelle mani di quegli aristocratici che lei odiava - Oh, scusatemi, vi prego! - il cui unico interesse era preservare lignaggio e potere. Ma non sarebbe tornata dai Jarjayes, perché Parigi era la sua casa. Anche se doveva lavorare duramente. Anche se, quel giorno, non avevano niente da mangiare da offrirle. Anche se non avevano, in realtà, mai niente da mangiare.
Si era sentita travolgere dalla nostalgia e dalla tenerezza, dalla sensazione del sole sul viso, in riva al mare e dal rumore delle onde e dai profumi e dai colori di una vita che era perfetta, forse, solo nel ricordo, ma di cui lei adesso riusciva a rammentare solo la meraviglia di stare insieme e di condividere la gioia e il dolore, con la certezza incrollabile che tutto l’orrore, di cui, pure, il mondo era pieno, non li avrebbe avuti, fintanto che si fossero protetti ed amati a vicenda.
Tra i sentimenti contrastanti, che agitavano il suo cuore, era stato un orgoglio mai provato prima a piantare, vittorioso, la sua bandiera. Orgoglio per quella giovane che era cresciuta accanto a loro, in qualche modo grazie a loro, e che le stava dicendo, con quello sguardo sereno e determinato, che voleva essere lei a decidere della sua vita. Le sembrava una cosa magnifica. E sentiva anche che, in modo non contingente e non marginale, tutto questo riguardava anche lei. Riguardava anche loro.
Sulla carrozza che l’avrebbe riportata a Veirsalles, Oscar si sentiva un po’ come un maestro che ha appena ricevuto una lezione dal suo allievo più brillante. E considerava che qualunque cosa lei le avesse insegnato sul coraggio, Rosalie glielo aveva appena restituito con gli interessi.
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo quinto ***


Sul fatto che la sentenza non si potesse ritenere definitiva Oscar non si faceva illusioni. Quello che non si aspettava era che il processo dovesse riaprirsi proprio in quel modo e in quel momento e alla presenza - come si dice? - di tutte le parti coinvolte.
Esiste un momento giusto per veder crollare il mondo che ti sei costruito intorno?
Rientrando a casa aveva già pronte le parole per rintuzzare la costernazione di André, che sarebbe stato certamente sconvolto dall’aggressione da lei subita la sera prima, della quale, anzi, si sarebbe sentito responsabile anche più del dovuto.
Invece non l’aveva nemmeno trovato, a casa, André, e quando era tornato, senza scomporsi - sono contento che la ferita non sia tanto grave - aveva rigirato la frittata, sottolineando il fatto che lui lo aveva ben lasciato detto di aspettarlo finché non fosse tornato.
Ma a che diavolo di gioco stava giocando, André?  Ci mancava solo che le dicesse cosa doveva fare, adesso. E perché, oltretutto, non sembrava sorpreso riguardo a ciò che era accaduto?
Come se già sapesse.
-Il controllo è tutto, Oscar, ricordatelo! In battaglia e nella vita -
André aveva il controllo, adesso, mentre lei lo aveva perso e, in preda ad una crisi - una crisi isterica, non ci poteva credere, sul serio! - gli stava chiedendo di dirle la verità.
Ma neanche allora André aveva perso la calma e, come se non aspettasse che questo, per fare la sua mossa - quante altre sorprese intendeva riservarle, André, quante altre, ancora? - l’aveva portata a vedere con i suoi occhi dove lui trascorresse il suo tempo, la sera.
E lei avrebbe dovuto sentirsi sollevata, adesso.
Ma sollevata da cosa? Dal fatto che era arrivata a pensare che André potesse vestire i panni del Cavaliere Nero? Dal fatto che André aveva una vita e pensieri e progetti di cui lei non era a conoscenza? Oppure dal fatto che si stavano preparando cambiamenti - sconvolgimenti! -  per il paese e per le loro vite e che se anche André non era il Cavaliere Nero, questo non significava affatto che non avesse proprio niente a che fare con il Cavaliere Nero?
Soffiava un vento gelido, sulla strada del ritorno, mentre André - esplicito e schietto come sempre -le spiegava che immaginare un cambiamento del genere, fino a poco tempo prima, gli sembrava da ingenui, anzi, no, da pazzi; adesso invece poteva sentire l’approssimarsi della nuova era, lento ma inesorabile, come l’eco di un tuono in lontananza. Lui era cresciuto in casa di nobili e ci lavorava tutt’ora, ma non era un nobile e pensava di avere il diritto di sapere cosa questa nuova era avesse in serbo. E lei, a cui le cose non erano mai apparse così lontane dalla possibilità di tornare come un tempo, lo ascoltava senza riuscire ad arginare la piena di quello stesso, fierissimo, orgoglio, che poche ore prima l’aveva travolta, dirompente, impetuoso, violento, tanto da trascinare via con sé anche quel retrogusto di malinconia, annidato da qualche parte, nel suo cuore.
André voleva conoscere ciò che si stava preparando e che sarebbe, presto, esploso, perché voleva essere padrone della sua vita. Voleva essere lui a decidere. Una cosa veramente magnifica. Che di necessità, in modo viscerale ed inevitabile la riguardava.
Esiste un momento giusto per far crollare il mondo che ti hanno costruito intorno?
Il resto era avvenuto così in fretta che ad Oscar era mancato il tempo per un arrocco.
André era venuto a cercarla, mentre lei, davanti allo specchio, valutava quanto potesse essere credibile, con quel travestimento. Glielo aveva detto poco prima, davanti alla finestra, che lo lasciava libero di fare come voleva. Ma André - il cuore le scoppia - non ha bisogno che qualcuno lo lasci libero di fare come vuole.
Adesso è lì e le sorride. Ha usato altre parole, ma che significano che la trova troppo bella, per quel ruolo, e lei non dice niente, tanto è rapita da ciò che sta accadendo, sotto i suoi occhi: le mani di André e i suoi capelli - quante altre sorprese intendi ancora riservarmi, André, quante altre? - e le sue labbra, intanto, le stanno dicendo qualcosa, mentre indossa la maschera. Ma è piuttosto come se André se la fosse tolta, la maschera, mentre la guarda e la seduce e a lei non importa affatto di non avere il controllo.
In un limbo fuori dal tempo e dallo spazio sono insieme, incoscienti come una volta, complici come sempre, liberi come mai prima.
Tutte quelle notti insieme, a rubare nelle case dei ricchi - non può trattenere l’ilarità - con quella strana euforia addosso, come in un mondo al contrario, che non credeva potesse essere a tal punto inebriante - perché ridi? - le ha chiesto in un sussurro, e lei glielo dice, sottovoce, facendoglisi un po’ più vicina, e forse è arrossita, ma è buio e possono ridere insieme, mentre i contorni delle cose diventano sempre più vaghi ed incerti, e tutto, improvvisamente, sembra avere un senso. Nell’oscurità della notte percorrono in punta di piedi quelle stanze le cui porte non è più possibile richiudere, e lei spera che non lo prendano, che non lo prendano mai, il Cavaliere Nero e se davvero fosse André, potrebbero continuare a cercarlo per sempre, per sempre così, come in questo momento. E di nuovo le scoppia il cuore.  
 
La realtà era piombata loro addosso un pomeriggio al tramonto. Non stavano facendo sul serio, anche se avevano le spade in mano e lei quasi gli era finita addosso mentre lui si era lasciato cadere, seduto, sul bordo della fontana.
Fersen si era materializzato davanti a loro - e non se ne erano neanche accorti - mentre lei, con un sorriso, gli allungava la mano per aiutarlo a rialzarsi.
E lei davvero non vuole vederlo.
Ma sono già tutti in piedi, in aula. E sta entrando la Corte.
Sapeva che questo momento sarebbe arrivato. E non teme certo le accuse di Fersen, che era presente ai fatti, e che ne è parte in causa.
Ogni suo pensiero è per chi non era presente ai fatti, ma è sempre parte in causa e non l’accuserà di niente.
Quello che Fersen sta dicendo a lei non importa sentirlo, non è essenziale, non è importante.
Soprattutto, non vuole che lui lo senta.
-Vi somigliava in modo straordinario-
Non mi importa
-Non sono più riuscito ad incontrarla, da quella sera -
Non mi importa
-Eravate voi -
Il mondo crolla.
-La vostra reazione vi ha tradito-
Il mondo le crolla addosso.
Non sopporta di essere toccata. Non davanti a lui.
Alzarsi e fuggire era stato un attimo.
-Se avessi saputo prima…-
Non aggiungete altro
-Se avessi saputo fin dall’inizio-
Questi sentimenti non sono più nel mio cuore - e non lo sono mai stati -
Fersen è disorientato adesso. Ma la volontà di farsi del male e di suggere lo strazio fino all’ultima goccia - se altro non ci è concesso - è cieca ed irrazionale e pretende di arrivare fino alla fine.
Eppure lo sapeva ancor prima di arrivare lì che era un errore, che non ci sarebbe stato alcun chiarimento e che il suo dolore - può crogiolarcisi ed esaltarsene - è solo suo. Ma potersi perdere mentre tutto intorno a noi si perde, ha una sua perversa, diabolica dolcezza. Per questo indugia ad ordinare la ritirata, come se non fosse mai stato in guerra e non avesse mai trattato faccende d’amore.
-Vi prego, Madamigella, non vorrei mai che fraintendeste le mie parole… quello che cercavo di dire, in modo così maldestro, è che chiunque ella fosse…non ero certamente io la persona che lei stava cercando –
Il massimo della pena.
Oscar François de Jarjayes è riconosciuta colpevole di avere ingannato se stessa, senza preoccuparsi delle conseguenze ed è condannata a riprendere, con ogni mezzo e prima che sia troppo tardi, il controllo della sua vita.  
Si sente morire.
Allontanarsi da Fersen e da Veirsalles non sarebbe servito a niente. E’ un’altra la persona che deve riuscire ad allontanare da sé e non ha idea di come potrà fare.
Era tornata dentro e si era chinata a raccogliere i cocci dei bicchieri che si erano infranti al suolo quando lei, nel fuggire via, aveva rovesciato il tavolino.
Era stato in quel momento che, silenzioso come un’ombra, André era entrato nella stanza e, senza dire una parola, si era chinato per terra accanto a lei e si era messo a raccogliere i vetri.
Non si guardano. E lei non dice niente, ma lascia che lui raccolga i cocci insieme a lei.
 
 
*********************************
 
Questo è il penultimo capitolo della storia, che si concluderà quindi a breve.
Condividere con voi tutto questo è per me un’esperienza sorprendente, davvero superiore a qualsiasi aspettativa.
Grazie di cuore a chi legge, a chi recensisce, a chi mi scrive.
Octave
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo sesto ***


Quella notte, Oscar se lo sentiva, era quella giusta. Quella notte il Cavaliere Nero si sarebbe fatto vivo e l’avrebbero preso. L’ultimo, doveroso, atto, dal momento che a volte bisogna farsi del male fino in fondo, prima di poter chiudere un capitolo e girare pagina. Le decisioni erano tutte prese. Non restava che dar loro seguito.
La sera prima - in un tacito accordo - non erano usciti, come ormai d’abitudine, per cercare di attirarlo in trappola.
Raccolti i vetri e risistemato il tavolino e le poltroncine, André ne aveva accostata una al fuoco, nella posizione che sapeva essere la sua preferita, e lei, come al solito, si era seduta, distendendo la schiena e allungando le gambe davanti a sé. E le sarebbe piaciuto bere qualcosa, non per dovere, non per circostanza, non per cortesia, insieme a lui, che lo sapeva bene, ma considerato che questo lo avrebbe costretto ad allontanarsi, anche se per breve tempo, aveva rinunciato a proporlo e per lo stesso motivo lei non l’aveva chiesto. Un accordo tacito anche questo. Così anche lui si era avvicinato al fuoco ed erano rimasti lì.
Che aveva deciso di lasciare le Guardie di Sua Maestà glielo aveva detto mentre lui era girato di spalle per ravvivare il fuoco. André non aveva commentato in nessun modo. Era chiaro che stava studiando il modo più adatto ed il momento più opportuno per dire la sua. Quindi bisognava chiudere la questione prima che questo accadesse. Ma intanto erano rimasti ancora lì, come incapaci di muoversi. Cioè di separarsi.
Si erano dati la buonanotte per tutta una vita, ma quella sera non riusciva loro di farlo. Intuire l’uno i pensieri dell’altra non era mai stato così pericoloso e, proprio per questo, così irresistibile.
Si era assopita prima dell’alba e quando aveva aperto gli occhi lui era ancora sulla poltroncina accanto alla sua e la guardava nel suo solito modo, senza dar l’impressione di guardarla. E lei si era sentita incredibilmente in pace.
Era come se il sollievo della decisione presa fosse tale da permetterle di concedersi gli ultimi momenti di debolezza. E di assaporarli fino alla fine.
Perché la decisione era presa.
Restava solo da dirgli che, una volta lasciato il vecchio incarico e assunto il nuovo, quale che fosse, non avrebbe più avuto bisogno del suo aiuto.
Bisognava trovare le parole giuste, questo sì.
-Non posso continuare ad appoggiarmi a te, André-
-Se voglio vivere come un uomo, innanzitutto devo imparare a contare solo sulle mie forze, André-
Il problema, André, è che con te io non posso essere nient’altro che quello che sono, perché quello che io sono è nei tuoi occhi, nelle tue mani, nelle tue braccia, sulla tua pelle, sulle tue labbra. Nel tuo sorriso, nella tua voce, nel tuo odore. Anche quando non parli, anche se non mi guardi, anche quando non fai assolutamente niente, io lo vedo e lo sento. Io non riesco più a farmi obbedire dalle mie mani, dalle mie braccia, dalle mie labbra, dalla mia pelle, se tu sei accanto a me. Non riesco a farmi obbedire dal mio cuore. Il punto, André, non è che io non posso dimenticare di essere una donna, il punto è che, accanto a te, io lo sono comunque. Ho provato ad ingannarmi - ad ingannarti! - in tutti i modi possibili e adesso non funziona più. Per questo cercherò di evitare di vederti. E spero che questo basti.
Un’ultima notte insieme, per prendere il Cavaliere Nero.
Poi lei avrebbe riacquistato il controllo della sua vita. E lui la sua libertà.
Di ritorno dal colloquio con Sua Maestà, per pregarla di essere trasferita ad altro incarico, Oscar aveva chiesto ad André di uscire a cavallo.
Doveva dirglielo, pensava inquieta, mentre spingeva il cavallo al galoppo, costringendolo poi bruscamente ad arrestarsi. Aspettare avrebbe solo peggiorato le cose. Perché per quanto scrutasse il suo volto vi leggeva solo la ferocia e la dolcezza di una determinazione irremovibile.
- Se fosse così facile fuggire io sarei potuto fuggire da te tanto tempo fa, Oscar!
Io non fuggirò mai, Oscar. E non farlo neanche tu -
Per questo poco dopo, nelle scuderie, davanti ai segni che misuravano la loro altezza, da bambini - quando tutto era semplice - si era lanciata in quella appassionata apologia della vita militare e delle mansioni da uomini, che l’avrebbero affrancata da qualunque debolezza? Da qualsiasi forma di dipendenza e di bisogno? Era lo scotto da pagare per quel sorriso che le aveva illuminato il volto guardando i loro nomi vicini? Era lo scotto da pagare per la notte precedente? Per quelle ancora prima? Per il ballo? E perché si accaniva tanto a persuadere di tutto questo André, che - era già deciso - tra poco non avrebbe più fatto parte della sua vita?
Le si fermò il cuore.
Quello che stava facendo era spaventoso. Stava cercando di provocare in lui una reazione.
Perché la fermasse.
Perché non la lasciasse mai.
Adesso basta. Doveva risolversi a fare ciò che doveva.
Dopo anche André sarebbe stato libero di vivere nel modo che preferiva.
Ma la china era ormai imboccata e lei commetteva un errore dietro l’altro. Mentre prendevano la cioccolata, girata di spalle verso la finestra, gli aveva detto - con un tono leggero - che una volta catturato il Cavaliere Nero avrebbe potuto partecipare alle sue riunioni tutte le sere. Si era resa conto immediatamente di avere scoperto il fianco un’altra volta. André aspettava solo che lei aprisse quell’argomento per dirle - e il suo tono era grave - che la nuova era non sarebbe stata una buona cosa per i nobili.
E le sue parole - ignobili!- come avevano potuto venir fuori dalle sue labbra così inequivocabilmente provocatorie?
-Non vedo di cosa dovresti preoccuparti, quando verrà il momento. Tu non sei un nobile -
Come se il tormento di André non fosse il suo stesso tormento, mentre cercavano un modo per stornare, l’uno dal capo dell’altra, la rovina e il dolore.
Nonostante la considerasse una cosa evitabile, anzi, no, una cosa iniqua, nonostante la sua ammirazione per il Cavaliere Nero, nonostante il rischio di rimanere ferito - o forse ucciso - quella notte André avrebbe dato la caccia, insieme a lei, ad un uomo che non voleva catturare! Senza rimpianti, senza esitazioni e con quel sorriso di sfida sulle labbra. Audace e sprezzante del pericolo, nobile d’animo e puro di cuore come un Cavaliere, come quelli che non esistevano più. Come, forse, non erano mai esistiti.
“Si sta facendo buio, André, è meglio prepararci”
“Sì, certo, Oscar” aveva detto semplicemente, indossando la maschera.
E mentre cercava di rimanere calma, pensando con sollievo che tra poco il buio della notte li avrebbe inghiottiti, rendendoli liberi - per l’ultima volta - senza che avesse avuto il tempo di capire da che parte fosse arrivato, un corvo nerissimo le era volato così vicino da farle cadere di mano la tazza, che si era infranta al suolo con uno schianto.
Lo schianto le era risuonato dentro. Un brutto presentimento. Avrebbe perso qualcosa di importante quella notte.
Si era chinata per raccogliere i cocci, confusa, tanto da non accorgersi subito che anche André era inginocchiato per terra e raccoglieva i cocci insieme a lei.
E lo vide. Vide quello che sarebbe stato sempre.
Una volontà diversa dalla sua, che mai in nessun modo lei avrebbe potuto controllare.
Le fu chiaro che le circostanze avrebbero anche potuto essere diverse, tutto sarebbe potuto cambiare, e sarebbe cambiato senz’altro, ma non quello che loro erano. Avrebbero perso molte cose importanti, ma non quello che loro erano. Avrebbe potuto spingere André ad odiarla, avrebbe potuto chiedergli di dimenticarla, avrebbe potuto imporgli di starle lontano, lui non l’avrebbe fatto. Avrebbero potuto ferirsi, scontrarsi, farsi del male, fraintendersi o strapparsi l’uno all’altra, ma neanche allora quello che erano sarebbe cambiato.
Le fu chiaro che non sempre abbassare la guardia è una sconfitta.
Le fu chiaro che a quella volontà lei non poteva contrapporsi. Cioè, non voleva.
Le fu chiaro che smettere di razionalizzare, come perdere il controllo, è una scelta, e che la possiamo fare solo quando abbiamo un complice che ci guarda le spalle. E che, al momento opportuno, è disposto a perdere il controllo insieme a noi.
Oscar François de Jarjayes è riconosciuta colpevole di tutti i capi di imputazione, e, adesso, è libera.
Ancora in ginocchio accanto a lui gli ha tolto la maschera, indugiando con le dita tra i suoi capelli, in una carezza, e le loro mani, le loro braccia, la loro pelle, le loro labbra e i loro occhi, i loro cuori sono loro grati, davvero, perché adesso è esattamente come dovrebbe essere.
Ha messo via la maschera, insieme ai cocci da buttare, quindi gli ha preso le mani tra le sue e l’ha guardato negli occhi, come mai aveva fatto prima. E anche lui, che per tutta la vita non ha avuto occhi che per lei, in questo modo non l’ha guardata mai.
Le sue mani tremano un po’, ma la sua voce è ferma:
“Ci prendiamo da bere, André?”
“Certo, Oscar”
Niente di tutto questo - lo sanno - avrebbe tenuto lontano l’orrore, né il dolore e forse nemmeno la rovina.
E avrebbero forse perso tutto ciò che di più prezioso avevano, ma non sarebbe accaduto quella notte. E se fossero rimasti insieme, non avrebbero forse, in realtà, mai perso niente.
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4014264