Une Saison En Enfer

di Europa91
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I Stagione - Jadis, si je me souviens bien… ***
Capitolo 2: *** II Stagione - Mauvais Sang ***
Capitolo 3: *** III Stagione - Nuit de l’Enfer ***
Capitolo 4: *** IV Stagione - Délires ***
Capitolo 5: *** V Stagione - L’époux infernal ***
Capitolo 6: *** VI Stagione - Alchimie du Verbe ***
Capitolo 7: *** VII Stagione - Impossible ***
Capitolo 8: *** VIII Stagione - Chanson de la plus haute tour ***
Capitolo 9: *** IX Stagione - Saisons ***
Capitolo 10: *** X Stagione - Vierge Folle ***
Capitolo 11: *** XI Stagione - Éternité ***
Capitolo 12: *** XII Stagione - Mon âme éternelle ***
Capitolo 13: *** XIII Stagione - Autres vies ***
Capitolo 14: *** XIV Stagione - Mensogne ***
Capitolo 15: *** XV Stagione - Lumière ***
Capitolo 16: *** XVI Stagione - L'éclair ***
Capitolo 17: *** XVII Stagione - En marche! ***
Capitolo 18: *** XVIII Stagione - Plus de lendemain ***
Capitolo 19: *** XIX Stagione - Dernière innocence ***
Capitolo 20: *** XX Stagione - Changer la vie ***
Capitolo 21: *** XXI Stagione - Chant de guerre parisien ***
Capitolo 22: *** XXII Stagione - Après le déluge ***



Capitolo 1
*** I Stagione - Jadis, si je me souviens bien… ***


Note autrice: Finalmente mi sono decisa a postare il primo capitolo del “famoso” spin off di “In Order To Save You” di cui nessuno aveva bisogno XD. Tutto è partito come sempre dalla seconda lettura di Stormbringer al termine della quale me ne sono uscita con un: per me Dazai e Verlaine hanno parecchio in comune dovrebbero interagire di più.

Nonostante queste premesse è una storia che si può leggere benissimo a sé, visto che è tutta incentrata sul personaggio di Verlaine e ovviamente Rimbaud. Il racconto inizia molti anni prima e almeno per i primi capitoli si concentra sul passato di questi personaggi. Solo verso la fine andrà a intrecciarsi con il sequel di “In Order” (perché si, ha un seguito). Per chi non lo sapesse io adoro il personaggio di Paul Verlaine e attendo il giorno in cui verrà animato così tutto il fandom verrà a conoscenza della sua esistenza XD

P.s. Il titolo viene da un poema di Rimbaud


 


 


 

A Eneri Mess & Ode to Joy

Merci per l’infinita pazienza e sopportazione


 

 


 


 

 

I Stagione - Jadis, si je me souviens bien…


 

«Un soir, j’ai assis la Beauté sur mes genoux. — Et je l’ai trouvée amère. — Et je l’ai injuriée.» Une Saison en Enfer – Jadis, si je me souviens bien






 

 

L’Europa aveva un fascino intrinseco che avrebbe potuto definire solo in un modo, rassicurante. Il vecchio continente era sempre stato prevedibile e questa era una caratteristica che lo aveva sempre in qualche modo confortato. Sebbene fossero al corrente di come l’equilibrio raggiunto al termine della Grande Guerra non fosse destinato a perdurare, le nazioni si crogiolavano nel desiderio di voler mantenere più a lungo possibile quella facciata d’effimera illusione. I fasti dell’epoca passata erano ormai solo un ricordo, memoria di un tempo che non sarebbe più tornato. L’ombra del recente passato era ancora presente nelle menti dei governanti che avevano, invano, cercato di riportare quel mondo a una grandezza ormai sfiorita.

Tra le maggiori Organizzazioni europee, alcune erano uscite vittoriose da quel sanguinoso conflitto, altre meno. Su di un punto però i vari Paesi si erano trovati unanimemente d’accordo: il non voler ripetere gli stessi errori del passato. Si sarebbero impegnati affinché il flagello della guerra rimanesse solo un lontano ricordo, destinato a sbiadire con il passare degli anni.

Con queste poetiche premesse di pace e prosperità era solo questione di tempo prima che una nuova tempesta tornasse ad abbattersi su di loro. Paul Verlaine aveva deciso che si sarebbe seduto e avrebbe atteso quel momento, con la sola compagnia degli echi di un passato che si divertiva a tormentarlo e consumarlo. In fondo oltre alla propria vita non gli restava altro, solo un mare di ricordi di stagioni ormai lontane.


 

 

***

 

 

Francia


- Qualche anno prima -




 

«Davvero non sei mai stato a Parigi?» il moro fissò l’altro bambino per qualche secondo, meditando su quali parole utilizzare per fornire una risposta esaustiva a quella, che più di una domanda, pareva essere un’affermazione e anche abbastanza provocatoria.

Il piccolo abbassò lo sguardo, mettendosi a fissare le punte delle proprie scarpe con rinnovato interesse, mentre ancora cercava un modo con cui ribattere.

Il suo amico aveva ragione, non era mai stato nella capitale, aveva sempre vissuto nelle Ardenne ma presto si sarebbe trasferito. Parigi era il suo sogno, la vita di campagna non faceva per lui. Sapeva di essere destinato ad altro, anche se nell’immediato doveva solo fornire una risposta al proprio compagno di giochi che lo fissava ancora dall’alto in basso, complici quei pochi centimetri d’altezza che li separavano.

«Ci andrò l’anno prossimo Charlie» rispose cercando di fare il possibile per suonare convincente, ma quello che uscì dalle sue labbra su solo un sussurro. Simile al miagolio di un gattino spaventato.

«Paul sappiamo entrambi che non sarà così, frequenterai la mia stessa scuola, come hanno fatto i nostri genitori prima di noi e come faranno anche i nostri fratelli» dopo aver udito quella, che in fondo era solo l’amara verità, il bambino di neanche sette anni gonfiò le guance arrabbiato prima di prendere fiato per poi annunciare solennemente;

«Un giorno io me ne andrò a Parigi e diventerò qualcuno»

Fu in quel momento che la sua Abilità si attivò per la prima volta e un fascio di luce rossa finì con l’avvolgere entrambi, estendendosi fino alla fine dell’isolato. Fu questione di un attimo ma tanto bastò per terrorizzare loro, e altri poveri passanti.

Charles corse fino a casa in lacrime, mentre Paul restò per qualche minuto a fissare incredulo le proprie mani, incapace di fare qualsiasi cosa.

Un anno dopo, del piccolo Paul Verlaine si sarebbero perse le tracce. Nel frattempo, in una rinomata scuola privata alla periferia della capitale francese, il mondo si preparava a fare la conoscenza del giovane Arthur Rimbaud.


 

***


 

Ogni nazione europea poteva vantare al proprio interno varie Organizzazioni in cui si raggruppavano individui che possedevano delle Abilità Speciali. Tra le più famose spiccavano la Torre dell’Orologio inglese e i Poètes Maudits francesi, per non citare la Guild che da oltreoceano, cercava da sempre di estendere la propria influenza sugli affari del vecchio continente.

Il giovane Rimbaud aveva del talento e possedeva un’Abilità unica nel suo genere, tanto da essere entrato a far parte del gruppo elitario dei Trascendentali. Era uno degli uomini di punta dei Maledetti, come amavano definirsi i possessori d’Abilità d’oltralpe; proprio per questo, a soli diciotto anni, gli venne assegnata un’importante missione top secret.

Era diventato un agente della squadra speciale antiterrorismo, o almeno, quello era il nome ufficiale con cui i Maledetti, avevano deciso di mostrarsi agli occhi del mondo. Rimbaud non poteva ancora saperlo, ma quella operazione avrebbe cambiato per sempre la sua vita.

Il Fauno era stato sconfitto, insieme al movimento antigovernativo da lui creato. Era stato assassinato dal proprio orgoglio, ucciso dalla creatura che aveva plasmato. Un essere artificiale denominato Black N. 12; un mostro che controllava la gravità a proprio piacimento e grazie a questo poteva annullare tutti gli attacchi fisici. Rimbaud nella sua breve esistenza non aveva mai visto nulla di simile. Quando Black N.12 venne liberato dall’influsso del proprio creatore non ci pensò due volte a vendicarsi e ucciderlo, prima di perdere conoscenza. Era bastato un semplice ed elegante movimento del palmo della sua mano, perché metà struttura svanisse insieme alla parte superiore del corpo di quel uomo così pazzo da averlo creato.

Fu solo in quel momento che Arthur si prese qualche istante per osservare quell’essere; quando dovette caricarselo sulle proprie spalle per portarlo fuori dalla struttura, o da quello che ne rimaneva.

Era un mostro dall’aspetto così umano, forse troppo. Aveva un viso perfetto, incorniciato da sottili e lunghi capelli biondi. Rimbaud non aveva mai visto una pelle tanto bianca o delle ciglia così lunghe. Quello era un angelo che nascondeva un demone sotto la propria pelle.

Qualcuno dei suoi compagni Maledetti lo aveva preso in giro, definendo bonariamente il prigioniero come il “bel principe addormentato”. Rimbaud non gli aveva dato seguito; all’inizio si era limitato ad osservare quel volto, incapace di dare un ordine o definizione ai suoi stessi pensieri o sentimenti. Black N.12 era una bomba ad orologeria pronta ad esplodere. Era perfettamente consapevole del grado di pericolosità di quell’individuo, eppure in quel frangente, mentre si trovava tra le sue braccia privo di sensi, una parte di lui desiderava proteggerlo da quel mondo che già stava pensando a come sfruttarlo. La mente di Black conteneva codici ed informazioni che i loro nemici avrebbero pagato oro per possedere, così il Governo aveva finito per etichettarlo come risorsa preziosa.

Aveva lasciato il biondo a riposare nella stanza di un hotel economico che avevano messo a loro disposizione. Era stato sedato, per cui la sua assenza non sarebbe certo stata un problema, soprattutto se si trattava di un paio d’ore. La struttura era comunque costantemente monitorata da agenti nelle vicinanze, in modo che la popolazione locale non potesse correre alcun tipo di pericolo.

Rimbaud aveva deciso di concedersi una piccola pausa ordinando un drink nell’unico bar del paese, sperando in questo modo di staccare un po' la mente dall’individuo che aveva lasciato privo di sensi nella propria camera. Per caso aveva finito con l’incontrare un proprio collega. Si erano scambiati solo poche parole ma erano bastate perché capisse di come Black venisse trattato in quella struttura di ricerca. Arthur non ci voleva né poteva credere, ma in fondo sapeva bene come la crudeltà fosse insita nel cuore degli esseri umani. Black però non lo era. Era un essere artificiale. Un mostro che avrebbe consegnato al più presto nelle mani del governo francese. Non doveva lasciarsi coinvolgere. Una spia non poteva avere legami. Non doveva provare sentimenti.

 

«Come ti chiami?» fu una delle prime cose che la bestia gli chiese, guardandolo per la prima volta negli occhi.

Arthur era appena tornato in albergo e con somma sorpresa aveva trovato Black N. 12 completamente sveglio mentre vagava con fare curioso per la stanza. Sembrava un bambino che osservava l’ambiente intorno a lui con uno sguardo ricolmo di attenzione e sorpresa.

«Dove ci troviamo?»

«A cosa serve questo?»

«Perché siamo qui?» aveva iniziato a riempirlo di domande e per un attimo Arthur trovò la cosa talmente fuori luogo da essere quasi divertente.

In fondo Black era davvero come un bambino. Non conosceva nulla del mondo, e a lui sarebbe toccato il compito di insegnarglielo. All’inizio la cosa lo aveva turbato, non sentendosi adatto a quel compito gravoso, ma ora improvvisamente, quella prospettiva lo stuzzicava. Educazione e supervisione, erano queste le parole esatte scritte nero su bianco nel rapporto che gli era stato consegnato qualche minuto prima. Sentì un brivido di eccitazione crescere dentro di lui.

Fece qualche passo in avanti richiudendosi la porta alle proprie spalle, levandosi anche i paraorecchie ed il pesante cappotto di dosso. Fu scosso da un leggero tremore di freddo che però cessò una volta che le sue iridi incrociarono nuovamente quelle del biondo a pochi metri da lui. Quella fu la prima volta in cui notò con chiarezza di che colore fossero. Durante l’assalto al laboratorio del Fauno, gli occhi di Black erano completamente bianchi, come quelli di una bestia priva di raziocinio o controllo. Ora invece il mostro aveva assunto un aspetto umano, scegliendo le fattezze di un bellissimo angelo caduto creato al solo scopo di portare nel mondo caos e distruzione.

«Allora?» riprese ad incalzarlo vedendo come la spia stesse ancora in silenzio, accanto al ciglio della porta.

«Cosa?» Arthur si era incantato senza volerlo ed era certo di essersi perso qualche parola.

«Ti ho fatto diverse domande ma non hai ancora risposto a nessuna. Quindi cominciamo con qualcosa di semplice, come ti chiami?»

Paul

Già, quello un tempo era stato il suo nome. Un nome che da anni non gli tornava alla mente. Il nome che i suoi genitori gli avevano dato, che gli ricordava il proprio passato, quel pezzo della sua vita che voleva solo dimenticare e seppellire in qualche angolo remoto della propria mente. Un nome che gli suonava quasi estraneo in quel momento, come se non gli appartenesse più, come se avesse negli anni, perso ogni diritto di usarlo. Tornò a posare lo sguardo sulla figura davanti a lui.

Paul

Black N.12 doveva avere un nome, anche quello rientrava nel suo incarico. Doveva essere lui ad assegnarne uno a quell'essere artificiale. Era il primo compito che i suoi superiori gli avevano affidato, era indicato nel rapporto, pagina uno, seconda riga.

«Mi chiamo Arthur» fu tutto ciò che rispose dopo qualche minuto di silenzio. Il biondo non fece una piega e non gli staccò mai gli occhi di dosso.

«Io mi chiamo Arthur Rimbaud» ripeté con calma, prima di aggiungere « mentre tu sei Paul» fu in quel momento che finalmente qualcosa sembrò scalfire la corazza dell’essere artificiale, che assunse quanto di più simile ad un’espressione di pura sorpresa.

«Paul?» chiese confuso inclinando leggermente il volto;

«Da oggi in poi ti chiamerai Paul Verlaine. Ti piace?»

«Perché mi stai dando un nome?» quella reazione lo colse del tutto impreparato. Paul sembrava quasi offeso. Iniziò a comprenderne il motivo poco dopo;

«Io non merito di possedere un nome. Io non sono un essere umano, sono solo un ammasso di dati, una serie di codici...»

Gli tirò uno schiaffo.

Il biondo si portò una mano a coprire la guancia lesa. I suoi occhi bramavano delle risposte. Arthur non era sicuro su come procedere. Lo afferrò per un braccio e lo portò davanti allo specchio da parete posto accanto al letto matrimoniale che da solo occupava praticamente metà di quella stanza.

«Ora guarda e dimmi, cosa vedi?» Paul si voltò con uno scatto che il moro non aveva previsto. Sentì i suoi capelli solleticargli il viso ma lo fermò ed obbligò a concentrarsi sul proprio riflesso;

«Noi» fu la risposta annoiata che ottenne.

«Guarda meglio. Siamo uguali vedi? Sei un essere umano esattamente come me»

Verlaine gli regalò un’espressione da prima donna offesa, che in seguito Arthur avrebbe etichettato come suo marchio di fabbrica. Era lo stesso identico sguardo che avrebbe ritrovato anni dopo sul viso di un ragazzino dai capelli rossi.

«Noi non siamo uguali» sottolineò quasi scocciato;

«Non fare il difficile. Hai capito cosa intendevo. Sei stato creato da un pazzo in un laboratorio e hai vissuto come un burattino nelle sue mani ma ora, ora hai la possibilità di vivere la tua vita. Di decidere quale strada percorrere. Sei il solo artefice del tuo destino» non era propriamente vero. Arthur sapeva bene quali fossero i piani del suo Governo per Paul ma non era ancora il momento perché anche l’interessato li conoscesse. Doveva solo conquistarsi la fiducia di quella bestia, che gli sembrava di minuto in minuto, tutto meno che tale.

«Perché dovrei vivere la mia vita? Io non lo capisco»

Arthur prese un lungo respiro. L’ennesimo di quella giornata. In fondo Paul non aveva tutti i torti, non aveva chiesto lui di venire al mondo, di essere creato, ma questo non gli poteva impedire di vivere.

«Da oggi io ti insegnerò ogni cosa. Ti hanno affidato a me. Diventerai una spia francese e saremo compagni» il biondo osservava ancora il proprio riflesso sullo specchio, come se non gli importasse affatto di quelle parole, limitandosi a lasciarsele scivolare addosso.

Arthur fece un paio di passi indietro, offrendogli del tempo per elaborare il tutto. Quando, inaspettatamente, Verlaine riprese a parlare;

«Perché proprio Paul?» lo aveva nuovamente preso in contropiede;

«Mi sembrava un nome adatto a te» si trovò a rispondere senza esitazione.

«Apparteneva a qualcuno importante vero? Forse, qualcuno a cui tenevi?» Arthur si voltò dandogli le spalle.

Non poteva rispondere a quella domanda, ci sarebbero state delle spiacevoli conseguenze se lo avesse fatto. La spia Rimbaud non poteva concedersi il lusso di provare delle emozioni. Vi aveva rinunciato a sette anni, quando gli uomini del Governo avevano bussato alla sua porta e lo avevano strappato ai suoi affetti. Ripensò al volto di Charles e all’ultima volta che lo aveva visto, attraverso le sbarre di una fredda cella in una prigione. Aveva accettato tutto, scelto un nuovo nome in codice, di condurre una vita nell’ombra, solo per inseguire il suo sogno di bambino. Ripetendosi di averlo fatto anche per gli interessi del proprio Paese.

«Non importa» fu tutto ciò che disse, cercando di terminare al più presto quella conversazione. Questa volta però fu Verlaine a fermarlo afferrandolo con forza per un lembo della camicia.

«Non mi puoi ignorare in questo modo» mormorò offeso

«Primo insegnamento, ti sembrerà strano ma sappi che il mondo non gira intorno a te» il biondo mollò la presa come se si fosse ustionato.

«Perché hai accettato questo incarico?» fu la sola cosa cosa che chiese andando a sedersi sul letto, stando ben attento di evitare qualsiasi contatto visivo.

«Perché invece tu non te ne sei ancora andato? Con la tua Abilità sarebbe un gioco da ragazzi» Paul gli regalò un sorriso stanco, ancora acerbo, prova del fatto che non fosse abituato ad aprirsi in quel modo con qualcuno. In effetti era la prima volta che sosteneva una conversazione così a lungo, non ricordava di aver mai parlato tanto.

«E dove dovrei andare? Sono un esperimento»

«Quando la smetterai di vederti in quel modo?»

«Tu come mi vedi?»

Come un bellissimo demone tentatore al quale devo prestare attenzione ma allo stesso tempo insegnare a vivere.

«Sei il mio partner»

Vedendo come il biondo sollevò un sopracciglio confuso provò a spiegarsi meglio;

«Lavoreremo insieme»

Gli occhi di Verlaine tornarono gelidi in quel momento, poteva avvertire il freddo contenuto in quelle iridi sulla propria pelle. Rimbaud giurò a se stesso che avrebbe fatto il possibile per aiutarlo a vivere, o perlomeno a comprendere come anche la sua esistenza potesse avere un qualche valore.


 

***


 

- Quattro anni dopo -




Parigi era meravigliosa, con le sue luci, i colori e le atmosfere da sogno che solo la capitale francese sapeva regalare. La Ville Lumière era un gioiello tanto unico quanto irripetibile, in grado di conservare il proprio fascino in qualsiasi stagione. Erano anni che Rimbaud viveva nella capitale, aveva provato sulla propria pelle, il gelo delle mattine invernali, quando alle prime luci dell’alba una leggera nebbiolina si levava lungo i canali della Senna, conferendole un’aura magica e misteriosa. Odiava la calura delle giornate estive, lungo i sempre affollati Champs Élysées mentre per contro, amava la quiete autunnale, con i suoi tappeti di fogliame multicolore. La sua stagione preferita però rimaneva la primavera. Quando la natura si risvegliava dal proprio sonno, e i fiori tornavano con i propri colori ad ispirare i pittori di Montmatre. La città si riempiva di vita e calore, esattamente come aveva amato dipingerla nelle proprie fantasie infantili.

Ed era proprio in primavera che cadeva il compleanno di Paul. In realtà non era un vero e proprio compleanno, ma il giorno in cui quattro anni prima il compagno aveva ucciso il Fauno liberandosi della sua influenza. Il giorno in cui si erano incontrati.

Non lo avevano mai festeggiato prima, ed era da un po’ che Arthur desiderava fare qualcosa di speciale per il proprio partner. Presto sarebbero dovuti partire per un’importante quanto pericolosa missione, dalla quale non aveva la certezza che sarebbero tornati.

Il loro obiettivo era un soggetto dotato di Abilità che nonostante avesse l’aspetto di un ragazzino, possedeva tutte le caratteristiche per diventare una minaccia a livello globale. Era un essere che nascondeva dentro di sé il potere per distruggere il mondo, in fondo, si trovò involontariamente a pensare Rimbaud, non era tanto dissimile da Paul.

Accantonò quell’idea, decidendo di non dargli troppa importanza. Con il senno del poi fu il suo primo errore.

Rimbaud si era impegnato per rendere quella giornata indimenticabile. I compleanni erano ricorrenze importanti e come tali andavano festeggiati.

Una parte della sua mente lo riportò all’ultimo che aveva trascorso con i propri familiari, in quel piccolo paesino delle Ardenne, che per sette anni era stato la sua casa. Ricordava di come Charles quel giorno gli avesse fatto uno scherzo facendogli credere che tutti se ne fossero dimenticati. Una parte di Rimbaud provava ancora una sorta di nostalgia verso il proprio passato. Nonostante avesse cercato di sotterrare nelle profondità del proprio animo certi sentimenti, questi tornavano alla luce con prepotenza quando meno se lo aspettava, mettendo in discussione tutte le sue convinzioni.

Quel giorno, aveva semplicemente deciso di presentarsi al loro nascondiglio con del vino sottobraccio ed un budino, comprato in una delle migliori pasticcerie della capitale. Sarebbero partiti l’indomani, non aveva saputo trovare di meglio visto il poco tempo a sua disposizione. Verlaine gli aveva aperto la porta e si era limitato a fissarlo, più sospettoso che sorpreso.

Non riusciva a capire perché gli esseri umani volessero tanto festeggiare il giorno in cui erano venuti al mondo.

«Perché?» fu tutto ciò che chiese;

«Vale la pena festeggiare la tua nascita» Arthur come sempre aveva provato a spiegarglielo. Una parte di Paul lo odiava per questo, per il mondo in cui disperatamente cercava di farlo sentire umano.

Rimbaud aveva continuato a sorridere, mentre gli porgeva la bombetta che aveva fatto creare appositamente per lui. Era il suo regalo, un qualcosa che potesse aiutare il biondo a controllare finalmente quella bestia nascosta dentro di lui.

«Indossando questo cappello potrai obbedire solo alla tua volontà» aveva concluso versandogli un bicchiere di vino. Verlaine però non pensava a quello, ma al fatto che in questo modo Arthur non sarebbe più stato indispensabile. Il Governo avrebbe potuto affidargli un altro partner. Non seppe spiegarsi bene il perché ma quella possibilità non gli piaceva.

 

 

***


 

Quel giorno fu la prima volta in cui Paul vide il proprio compagno sotto una luce diversa. Aveva notato il leggero rossore che aveva colorato le guance pallide di Arthur quando le loro mani si erano sfiorate, alla consegna dei regali. Era sempre stato attento a questi dettagli. Nel mondo segreto dell’intelligence per completare una missione una brava spia doveva imparare a mettere da parte le proprie emozioni. Verlaine non aveva prestato particolare attenzione a quella lezione. Il biondo continuava a soffrire il fatto di essere un essere artificiale, non riusciva a definirsi umano e, anche per questo, credeva di essere totalmente immune dal provare sentimenti.

Avrebbe capito in seguito come quel giorno fosse stato semplicemente l’inizio di tutto.

In quella pallida mattina di marzo, Paul aveva allungato una mano, non per afferrare la bottiglia di vino, ma quella del proprio partner. Arthur non si era sottratto a quel tocco gentile. Si era limitato a fissare il compagno cercando di scorgere in quegli occhi di solito gelidi e indifferenti un qualche tipo di risposta. Rimasero così per parecchi secondi, specchiandosi l’uno nelle iridi dell’altro.

In quel momento Verlaine si sentiva completamente tranquillo. Non provava nessuna particolare emozione. Ancora non gli era molto chiara tutta la faccenda riguardante il compleanno o il ricevere regali, sapeva solo quanto la visita, e la compagnia di Arthur gli avessero fatto piacere. Uno strano calore lo aveva raggiunto. Era una sensazione nuova ma non per questo sgradevole, quasi rassicurante. Era la stessa che gli donava il moro con la sua sola presenza.

«Cosa bisogna dire in questi casi?» domandò con una punta d’incertezza, mentre finiva di gustarsi l’ennesimo bicchiere. In fondo era pur sempre il suo primo compleanno. Arthur aveva sorriso prima di abbandonare la presa ma solo per potersi versare dell’altro vino.

«Non c’è una risposta giusta o una sbagliata. Di solito si ringrazia per i regali ricevuti. Ti sono piaciuti almeno?» Era calata nuovamente una patina di silenzio ed erano tornati a fissarsi. Arthur si preparò a ricevere una risposta negativa. Per esperienza sapeva bene che nonostante il tempo trascorso insieme, vi erano ancora troppe barriere che lo separavano da Paul. Dal comprendere i suoi pensieri.

Verlaine aveva solo bisogno di tempo per poter rispondere a quella semplice domanda. Il budino che l’altro gli aveva offerto era buono e pure il cappello sembrava avere una sua utilità.

Arthur interpretò questo silenzio in altro modo.

«Non importa ora sarà meglio che vada, ho ancora dei dettagli da definire prima della missione»

Il biondo tornò a fissarlo più confuso di prima, cercando di capire cosa avesse fatto di sbagliato.

«Resta» quelle parole uscirono dalla sua bocca con una facilità disarmante.

«Non abbiamo ancora finito il vino» aggiunse come se sentisse il dovere di fornire un’ulteriore giustificazione.

Arthur lo fissò di sottecchi ma si rimise a sedere, versando altri due bicchieri.

«Vedo che ti piace » aggiunse dopo un po’, indicando la bottiglia ormai vuota. Verlaine rispose con un’alzata di spalle;

«Sono francese» entrambi risero.

Restarono così per qualche minuto, continuando a bere in silenzio. Fu il biondo ad interrompere quella situazione di stallo;

«Questo compleanno è stato interessante»

«Interessante?»

«Si. Penso che possa essere considerato l’ennesimo passo verso la mia ricerca di umanità»

«Tu sei un essere umano Paul» Arthur ne era certo, doveva solo riuscire a convincere il suo testardo compagno.

Verlaine era il primo a dubitare della sua stessa natura. Era perfettamente consapevole del mostro che nascondeva sotto la propria pelle, come della morte e distruzione che avrebbe potuto provocare. Una parte di lui non poteva fare a meno di odiare quel lato del carattere di Arthur. La spia non aveva mai cercato veramente di capirlo.

«Perché fai tutto questo per me?» fu tutto ciò che riuscì a dire. C’erano delle volte in cui i gesti del compagno sfuggivano alla sua comprensione.

«Non lo so, forse perché desidero solo che tu sia libero»

«Un essere artificiale non ha questo diritto» Arthur gli aveva regalato solo un sorriso stanco, accompagnato dall’ennesimo sospiro. Non si sarebbe arreso, un giorno sarebbe riuscito a fargli cambiare idea.

«Cerca di riposare, domani partiremo per la missione. Verrò a chiamarti alla solita ora» fu tutto ciò che aggiunse, prima di indossare il proprio cappotto e raggiungere la porta.

Se quel giorno, Paul avesse saputo cosa avrebbero trovato in Giappone, avrebbe dato ascolto a quella voce nella propria testa che gli suggeriva di trattenere Arthur, di non lasciarlo andare via così. Quella consapevolezza lo avrebbe raggiunto molti anni dopo, quando ormai ogni cosa aveva finito col perdere d’importanza.



***


 

 

Inghilterra


- Otto anni dopo -



 

Quel giorno Londra si era risvegliata completamente imbiancata. La neve era caduta fitta per tutta la notte, regalando alla città un’atmosfera fiabesca. A Paul Verlaine, la capitale inglese non era mai piaciuta, come del resto i suoi abitanti. Forse perché la sua mente lo portava sempre a fare paragoni con la sua amata Parigi. Erano passati diversi anni da quando aveva scelto di abbandonare la Francia. Più precisamente dopo la missione in Giappone.

Ogni dettaglio di quei giorni era scolpito nella sua mente.

Aveva sparato ad Arthur, poi l’aveva ucciso.

Era tornato in Francia con quella consapevolezza, insieme ad strana sensazione che gli opprimeva il petto e non gli dava un attimo di tregua. Un mostro come lui non sarebbe mai dovuto venire al mondo. Sarebbe dovuto morire quel giorno di tanti anni prima, in quel laboratorio, insieme al proprio creatore. Se l’avesse fatto, Arthur sarebbe stato ancora vivo.

Era stato Paul il primo a tradirlo.

Il peso di quel ricordo lo schiacciava. Rivedeva Arthur correre davanti a lui nella base nemica; se chiudeva gli occhi poteva sentire ancora il peso di un esile corpo sulle proprie spalle. Si trattava della missione che dovevano completare. Arahabaki.

Verlaine ricordava di essersi fermato al centro del corridoio, incapace di proseguire.

«Dobbiamo sbrigarci, le guardie saranno qui tra poco» Arthur lo aveva guardato confuso, non capendo quale fosse il problema. L’aveva odiato, l’aveva odiato perché ancora nonostante tutto, non riusciva a comprenderlo. Non ci provava nemmeno.

«Non posso lasciare alla Francia questo bambino. Non lo voglio consegnare a nessuno, posso crescerlo in campagna, senza che arrivi mai a conoscere la verità sulle sue origini»

Quella fu la prima e unica volta in cui vide un’ombra di delusione comparire sul viso di Arthur.

«Questo ragazzino è come te. Per questo deve venire con noi, solo in questo modo possiamo proteggerlo»

Era inutile. Rimbaud non lo capiva. Per quanto potesse sforzarsi il suo partner non sarebbe mai riuscito a comprendere le ferite del suo animo. E per questo lo odiava.

«Non riesci ad immaginare come il sapere di non essere umano potrebbe influenzare la tua vita? Le tue scelte? Sapere che la propria esistenza non è opera di Dio ma solo il risultato di calcoli e formule matematiche. Che la nostra anima come il nostro corpo è fredda, artificiale. È la stessa sensazione che si può provare a stare sul fondo di un burrone, talmente oscuro che nemmeno la luce della luna riesce ad illuminarlo»

«Sei umano...» Arthur aveva cercato di convincerlo ma Paul era stanco, stanco di sentire quella frase, non ne poteva più.

Hai intenzione di sparare, Paul?

Verlaine ricordava di aver impugnato la pistola, come anche il rumore di un colpo, l’odore della polvere da sparo. Poi le immagini diventavano sempre più confuse e distorte. Era come se un buco nero avesse finito con l’avvolgerlo, facendolo annegare in un oceano fatto d’oscurità.

Una volta ripreso la prima cosa che vide fu il riflesso della luna che si specchiava sul mare della baia di Yokohama. Tutto intorno a lui vi erano solo macerie. Una distruzione provocata da una bestia che non sarebbe mai dovuta venire al mondo.

Non vi era alcuna traccia di Arthur. Per diverso tempo l’aveva creduto morto in quell’esplosione. Fu solo grazie alla propria rete di contatti che un mese dopo scoprì come in un’Organizzazione mafiosa locale, fosse entrato un dotato di Abilità che corrispondeva in tutto e per tutto alla descrizione del proprio partner.

Un flebile barlume di speranza si accese dentro di lui. Se Rimbaud era vivo forse lo era anche il ragazzino possessore di Arahabaki.

Così Verlaine si era limitato ad osservare la nuova vita di Arthur nell’ombra. Una parte di lui non riusciva a comprendere come mai il partner avesse deciso di stabilirsi in Giappone invece che tornare in Francia – da lui.

Trovò la sua risposta solo qualche anno dopo, quando uno dei propri contatti lo informò di come Arthur avesse completamente perso la memoria.

Randou, così si faceva chiamare ora, lavorava per un’Organizzazione chiamata Port Mafia. Era un’occupazione al di sotto delle sue capacità. Più di una volta Verlaine aveva resistito alla tentazione di raggiungerlo. Avrebbe voluto scusarsi per il proprio comportamento, ma sarebbe stato inutile, Arthur aveva perso ogni ricordo del tempo trascorso insieme.

Otto anni dopo l’incidente di Suribachi, Verlaine venne informato della morte di Arthur Rimbaud.

Il Re degli Assassini non ci poteva né voleva credere.

Arthur era stato sconfitto da due ragazzini; Osamu Dazai, il Demone prodigio della Port Mafia, la cui peculiare Abilità di annullamento era conosciuta e temuta anche nel vecchio continente; e Nakahara Chuuya, il Re delle Pecore, manipolatore della Gravità.

«Chuuya» lo aveva trovato. Il ragazzino per il quale aveva perso tutto. L’anima che aveva cercato disperatamente di salvare da un destino di infelicità.

Desiderava incontrarlo, condividere con lui quel fato che li accomunava. La tragedia di due anime artificiali condannate a vivere un’esistenza che sentivano di non meritare. Chuuya era l’unico al mondo che potesse capirlo, e lo avrebbe fatto. Non come Arthur.

Fu in quel momento che Paul Verlaine comprese il reale peso dell’informazione che aveva ottenuto.

Arthur era morto. Il partner che lo aveva salvato dal laboratorio del Fauno e la persona che aveva tradito.

Per la prima volta da quando aveva memoria, Verlaine pianse.

Rimbaud era morto, non avrebbe più avuto modo di parlare con lui, di scusarsi per quanto successo. Non avrebbe più udito la sua voce. Incrociato il suo sguardo.

Si sentì uno stupido ad aver sprecato tutti quegli anni lontano da lui. Cercando di fuggire dai propri errori. Non avrebbe mai ammesso di essersi sbagliato. Nonostante tutto andava fiero della propria decisione. Avrebbe solo desiderato che anche Arthur la condividesse.

Uccise un paio di guardie della Torre dell’Orologio, solo per farsi beffe di loro. Voleva lasciare qualche traccia del proprio passaggio nella capitale inglese. La propria firma. Un regalo d’addio alla vecchia Europa.

Aveva un certo piano in mente, se avesse funzionato avrebbe potuto rimediare al proprio passato.

Non sarebbe stato facile, come non lo era accettare la morte del proprio compagno ma in qualche modo ci sarebbe riuscito. La parola fallimento non era contemplata nel suo vocabolario.

 

***

 

Paul Verlaine aveva deciso di rifiutare la morte di Arthur Rimbaud. Non si trattava di fingere che non fosse successa quanto di porvi rimedio. C’era solo una persona che poteva aiutarlo nel mettere in pratica quel folle piano, che ormai occupava la quasi totalità dei suoi pensieri. Se mai avesse funzionato, avrebbe potuto salvare non solo Arthur ma anche il ragazzino portatore di Arahabaki, Nakahara Chuuya.

Verlaine conosceva l’uomo che avrebbe potuto aiutarlo a riavere Arthur. Non avrebbe voluto fare affidamento su di lui ma non sapeva a chi altri rivolgersi. A mali estremi. Non si sarebbe arreso. Non poteva.

Se fosse stato un buon allievo si sarebbe reso conto di essere completamente in balia delle proprie emozioni. Verlaine però non si era mai considerato una buona spia, ci aveva provato, ma aveva trovato la propria vocazione solo come Re degli Assassini. Lui era stato creato per portare morte e distruzione, quella era la sua natura. Era nato così.

Questo era stato solo uno degli innumerevoli errori di Arthur, il volerlo cambiare. Paul sapeva di non poterlo fare. Lui era un mostro, e i mostri non stanno dalla parte dei buoni. Era questo che veniva da sempre raccontato nelle favole per bambini, nelle storie con cui sicuramente anche Arthur era cresciuto.

Realizzò in quel momento di non conoscere nulla di lui. Non sapeva niente del passato del proprio compagno. Ricordava solo un nome, Charles. L’aveva letto di sfuggita tra i vari appunti sulla scrivania di Arthur. Rimbaud teneva un taccuino su cui annotava ogni cosa, probabilmente aveva scritto pure di lui. Ormai non aveva importanza.

 


 

***


 

Aveva passato ancora una settimana a Londra, concludendo velocemente qualsiasi affare avesse in sospeso nella capitale inglese. Un solo pensiero ad occupargli la mente: Arthur.

Lo avrebbe salvato, avrebbe trovato un modo per riaverlo nella propria vita. Tutto sarebbe tornato come prima dell’incidente di Suribachi, prima del Giappone, di Arahabaki e Nakahara Chuuya.

Prese dalla tasca del proprio completo un cellulare usa e getta che aveva comprato quella mattina. Compose velocemente un numero. Attese il tempo di due squilli.

«Sarò a Parigi tra qualche giorno. Si, al solito posto. Farò quanto in mio potere per riaverlo. No. Non mi importa nulla. Adieu»

Nemmeno la morte avrebbe potuto separarlo da Arthur. Una stagione della sua vita si era appena conclusa e presto una nuova sarebbe iniziata.

Quello non era che l’inizio.



 

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Capitolo 2
*** II Stagione - Mauvais Sang ***


II Stagione - Mauvais Sang





 

«L’ennui n’est plus mon amour. Les rages, les débauches, la folie, dont je sais tous les élans et les désastres, — tout mon fardeau est déposé.»*

Une Saison en Enfer – Mauvais Sang



 



 



 

Francia


 

- Qualche stagione prima -

- In un piccolo paesino delle Ardenne -




 

 

Charles Baudelaire non si era mai interrogato sul proprio futuro. In fondo pensava non sarebbe servito a nulla. La sua famiglia gestiva una piccola bottega da generazioni, sapeva che un giorno quell’attività sarebbe toccata a lui o ad uno dei suoi numerosi fratelli. Era inutile immaginare, anzi sperare in qualcosa di diverso. Non era rassegnazione, ma una realtà dei fatti impossibile da cambiare, soprattutto in un piccolo mondo di provincia come quello in cui si era trovato a vivere. Andava bene così, in fondo gli era toccata una sorte migliore che ad altri.

Paul Verlaine era sempre stato in qualche modo diverso da tutti loro. Charles lo conosceva da una vita, non vi era ricordo nella sua mente che non potesse essere collegato al più piccolo della famiglia Verlaine. Paul era il suo migliore amico. C’era stata una stagione delle loro vite in cui erano stati inseparabili. Nessuno si sarebbe mai immaginato come due bambini, apparentemente tanto diversi potessero andare così d’accordo. Paul era accecante come solo un raggio di sole poteva esserlo, era estroverso tanto quanto Charles era silenzioso. Eppure, gravitavano l’uno intorno all’altro come la terra intorno alla propria stella.

Paul contrariamente a lui, aveva sempre desiderato andarsene da quella piccola realtà di provincia, era come se quella vita gli fosse sempre stata stretta. Charles non aveva saputo comprenderlo, ma in fondo erano solo due bambini come tanti che si divertivano a fantasticare sul proprio futuro.

Verlaine aveva sempre avuto un aspetto minuto, per questo spesso era preso di mira dai coetanei, soprattutto i tratti delicati del viso che per lungo tempo l’avevano portato ad essere scambiato per una bambina, anche da parte degli adulti.

A cinque anni, era stato soprannominato Pauline per via dei suoi capelli, lunghi ormai fino alle spalle, che ostinatamente si rifiutava di tagliare. Era sempre stato un gran testardo.

«Mi piacciono.» Era stata l’unica e semplice spiegazione che aveva fornito a chiunque domandasse qualcosa al riguardo. Alla fine, era stato Charles a convincerlo a legarli in una coda bassa. In questo modo, avrebbe potuto mantenere la lunghezza che preferiva e rispondere a tono ad ogni commento o battuta di scherno.

«Ma non ti dà fastidio il loro comportamento?» Non era riuscito a trattenersi di fronte all’ennesimo episodio di bullismo perpetrato nei confronti dell’amico. Aveva sempre odiato le ingiustizie, soprattutto verso i più deboli. Aveva in un certo senso sviluppato un istinto di protezione nei confronti di Paul, essendo di un poco più grande. Il moro gli aveva sorriso come sempre, prima di dichiarare solennemente;

«Affatto. Io un giorno me ne andrò da questo posto. Loro rimarranno qua per il resto delle loro vite e finiranno con l’essere dimenticati»

Charles era rimasto a bocca aperta. Era per questo che Paul gli piaceva. Lui era in qualche modo diverso da tutti loro. Lo era sempre stato. Il piccolo Verlaine sognava un futuro luminoso ed era intenzionato ad ottenerlo con tutte le proprie forze.

Charles non avrebbe mai dimenticato il giorno in cui l’Abilità dell’amico si era manifestata per la prima volta, né di quanto ne fosse rimasto terrorizzato tanto dal correre in lacrime dalla propria madre. Ricordava anche come Paul fosse rimasto immobile, nella piazza del paese, incredulo come il resto dei presenti per quanto successo.

In quel momento capirono entrambi che le cose non sarebbero più potute tornare come prima. Passò una settimana, poi i gendarmi si presentarono alla porta dei Verlaine per arrestare il figlio minore, con l’accusa di essere un pericolo per la pubblica sicurezza. Paul li seguì senza fiatare.

Charles non volle accettarlo. Non poteva farlo. Conosceva l’amico e sapeva come non fosse una minaccia. Quella notte, quella in cui Paul Verlaine lasciò per sempre il proprio paese natio, Charles Baudelaire pianse tutte le sue lacrime.

Qualche mese dopo ricevette la notizia della sua scomparsa. Durante il trasferimento da un penitenziario all’altro, l’auto su cui viaggiava era stata coinvolta in un incidente. Il bambino di otto anni era morto sul colpo.

Charles semplicemente finì con l’accettare quella verità. Aveva solo nove anni, era ancora troppo piccolo per dubitare del prossimo o delle parole degli adulti. Crescendo avrebbe imparato a non commettere il medesimo errore.

Tutti mentono, alcuni solo meglio di altri.


 

 

***

 

Parigi

- Dieci anni dopo -


 

 

Quando suo padre andò in pensione, la modesta bottega della famiglia Baudelaire venne ereditata da suo fratello maggiore Claude, cosa che lasciò il giovane libero di inseguire la propria vocazione. Dopo quanto successo al piccolo Paul, Charles aveva giurato a se stesso che sarebbe stato lui a portare avanti i sogni dell’amico. Per questo decise di trasferirsi prima a Lione e poi direttamente a Parigi. La prima cosa alla quale pensò fu che a Paul sarebbe piaciuto tanto visitare quella città. Da bambini ripeteva sempre come fosse perfetta.

Con questo pensiero per la mente, durante una delle sue passeggiate pomeridiane lungo gli Champs-Élisées, finì con lo scontrarsi contro un giovane che stava camminando nella direzione opposta. Rovinarono entrambi a terra.

«Scusate Monsieur» ma gli bastò alzare lo sguardo per incrociare due iridi dorate che mai avrebbe potuto dimenticare.

«Paul?»

Non poteva crederci. Non era possibile. Eppure l’adolescente che era davanti ai suoi occhi non era altri che il proprio amico d’infanzia. In quel momento una lieve folata di vento li travolse facendo ondeggiare i lunghi capelli corvini dello sconosciuto. Erano acconciati in una coda bassa. Non aveva alcun dubbio, avrebbe riconosciuto quella chioma fra mille.

Il ragazzo lo fissò allarmato per una manciata di secondi prima di sussurrare, incredulo, con un filo di voce:

«Charles» prima che potesse aggiungere altro si alzò di scatto, afferrandolo per un braccio e tirandolo vicino a sé. Controllò velocemente con il capo che nessuno li stesse osservando.

Il giovane Baudelaire era certo di aver smesso di respirare e se ne stava immobile come se avesse appena visto un fantasma. Fu allora che il moro parlò di nuovo, anticipando qualsiasi sua possibile domanda;

«Zitto. Non qui. Vieni»

Lo trascinò per diversi metri, tenendolo saldamente per la manica della camicia. Charles si trovò a seguirlo senza batter ciglio, incapace di pensare a qualsiasi cosa che avesse un minimo senso o logica. Gli pareva di essere finito in un sogno o in una delle sue tante fantasie.

Perché il proprio amico d’infanzia che credeva essere morto dieci anni prima, si trovava a Parigi? E se era vivo, come mai non era tornato a casa? A queste seguivano altre domande sulle quali preferiva non soffermarsi troppo. Paul era sempre stato così alto? Quando erano piccoli Charles troneggiava su di lui mentre ora sembrava essere il contrario. Non gli aveva rivolto che un’occhiata ma non aveva potuto fare a meno di notare quanto il viso dell’amico fosse cambiato in quegli anni, i suoi tratti si erano fatti meno delicati eppure aveva mantenuto qualche guizzo infantile; come l’espressione sorpresa che aveva assunto non appena l’aveva riconosciuto. Erano stati gli occhi di Paul a tradirlo, ancora prima dei capelli. Charles non aveva mai visto nessuno con iridi di quel colore. A prima vista potevano sembrare ambrati ma la sfumatura cambiava a seconda di come l’iride veniva colpita dalla luce.

Si fermarono solo dopo un paio di isolati. Fu in quel momento che il moro lasciò la presa. Si guardò velocemente intorno per sincerarsi non ci fosse nessun altro, riprendendo fiato.

«Charles cosa diavolo sei venuto a fare a Parigi?» c’era un tono d’accusa in quelle parole, tanto che il ragazzo chiamato in causa ci mise una manciata di secondi prima di riuscire a formulare una risposta, ancora troppo occupato a regolarizzare il proprio respiro.

«Io? Piuttosto Paul tu, cioè insomma tu sei morto!» Non voleva ma finì con l’alzare istericamente il tono della voce, tanto che il moro fu costretto ad alzare entrambe le mani per coprirgli la bocca.

«Sei rimasto il solito idiota» sbuffò ad un palmo dal suo naso facendolo arrossire e innervosire. In dieci anni Paul Verlaine non aveva perso la propria aria di superiorità che da sempre lo caratterizzava.

Fece un altro profondo respiro prima di continuare a parlare;

«Quando toglierò le mani mi prometti che non urlerai e resterai in silenzio fino al termine della mia spiegazione» Charles annuì solennemente.

«Bene. Ecco non posso illustrarti nulla nel dettaglio, ma non mi chiamo più Paul. Ti basti sapere questo»

Baudelaire era senza parole. Davvero si aspettava che sarebbe stata una risposta sufficiente, dopo la bellezza di dieci anni?

Fu il suo turno di afferrarlo per un braccio, tirandoselo più vicino di quanto già non fossero.

«Credevamo anzi credevo fossi morto. Almeno la tua famiglia, cioè non pensi che almeno i tuoi genitori abbiano il diritto di conoscere la verità?» Non sapeva il perché ma quel modo di fare gli stava dando sui nervi. Quello che aveva di fronte non sembrava affatto il Paul Verlaine che ricordava. Il suo migliore amico. Al suo posto si trovava uno sconosciuto.

«Charles per il tuo bene credimi non devi sapere altro. Fingi di non avermi mai incontrato. È la soluzione migliore per tutti» Era sconvolto.

«Non puoi chiedermelo»

«Non te lo sto chiedendo te lo sto ordinando. Paul Verlaine è morto dieci anni fa e i morti non possono tornare in vita» Non poteva essere vero, Charles non riusciva a credere a quelle parole, ma soprattutto che fossero uscite proprio dalle labbra di Paul.

«Tu chi sei?» fu l’unica cosa che chiese, cercando di trattenere la marea di emozioni che si stavano agitando nel proprio animo;

«Mi chiamo Arthur Rimbaud e sono un Poète Maudit»

Fu solo in quel momento che Baudelaire mollò la presa, allontanandosi da quello che ormai era solo un estraneo. A Paul non sfuggì l’espressione ferita del suo volto. Avrebbe voluto spiegare ogni cosa, raccontare la verità a Charles, ma sapeva di non poterlo fare o lo avrebbe messo in pericolo. Era più semplice farsi odiare.

L’altro però lo sorprese, come era solito fare quando erano bambini;

«Non ho la minima idea di cosa significhi, ma sono comunque contento che tu sia vivo» rispose con il più sincero dei sorrisi, prima di continuare «e sei a Parigi. È sempre stato il tuo sogno, lo ricordo bene»

Arthur aveva voglia di piangere. Charles era rimasto lo stesso ragazzino che aveva lasciato dieci anni prima in quel paesino sperduto nelle Ardenne. Era trascorso del tempo e naturalmente era cambiato, eppure il modo in cui si rivolgeva a lui incredibilmente era rimasto lo stesso. C’era stato un tempo in cui quel giovane uomo era stato il suo migliore amico, forse il loro incontro era stato opera del destino. Prese un profondo respiro per calmare i suoi nervi prima di sussurrare con un filo di voce;

«Domani. Café les deux Magots. Incontriamoci lì»

Corse via prima di ottenere una risposta. Baudelaire passò il resto di quella giornata a domandarsi se quell’incontro fosse stato solo un sogno. Sapere che Paul era vivo lo aveva riempito di una gioia incontenibile. Passato il momentaneo senso di smarrimento e stupore, era giunto alla conclusione che dovesse esserci per forza un motivo dietro al comportamento dell’amico, come anche per la segretezza che aveva dimostrato. Prima di parlare con lui, Paul si era premurato di allontanarlo dalla folla, scegliendo un vicolo poco illuminato e dove potessero essere soli, lontani da occhi indiscreti. Dietro la finta morte di Verlaine doveva esserci una spiegazione e lui non vedeva l’ora di ascoltarla.

Café les deux Magots si trovava nello storico quartiere di Saint-German les Prés nel pieno centro culturale della capitale francese. Era famoso per essere frequentato da giovani intellettuali. Charles non vi era mai stato ma lo conosceva dalla fama. Paul non aveva specificato l’orario del loro rendez-vous così, dopo aver terminato le lezioni in università vi si era recato subito, occupando uno dei tavoli disposti all’aperto. Aspettò un paio di ore prima di scorgere la figura dell’amico in lontananza. Quel giorno, Paul aveva sciolto i propri capelli, che in quegli anni si erano fatti sempre più lunghi e aveva optato per un look informale. Sembrava un normale diciassettenne in un pomeriggio di svago. Quell’immagine era così diversa da quella del bambino che ricordava. Senza dire una parola, Verlaine si sedette al tavolo accanto al suo, fingendo di non conoscerlo. Charles rimase deluso e sorpreso da tale comportamento.

Paul consumò una bevanda calda e se ne andò dopo pochi minuti senza averlo degnato d'uno sguardo. Charles stava già andando su tutte le furie quando un cameriere gli si avvicinò consegnandogli un messaggio scritto su di un tovagliolo. Era un semplice indirizzo.

Si stava stancando di quella caccia al tesoro. Non capiva il perché di tanta segretezza.

Raggiunse l’amico al domicilio indicato. Era un’anonima pensione.

«Mi dispiace ma la prudenza di questi tempi non è mai troppa» furono le parole che lo accolsero al suo arrivo.

«Il mondo si sta preparando ad una guerra e ci sono spie nemiche ovunque, soprattutto in città. Non ti hanno seguito vero?» Charles non sapeva da dove iniziare, tutta quella situazione gli sembrava ancora troppo assurda per essere vera; come del resto il comportamento del ragazzo davanti a lui, che stava chiudendo tutte le finestre avvolgendo così l’ambiente nella completa oscurità.

«Che sta succedendo Paul?» Il moro lo fissò con aria scocciata;

«Ti ho detto che mi chiamo Arthur»

«Ok, allora, che sta succedendo Arthur?»

«Faccio parte dei Poètes Maudits»

«Questo me l’hai detto anche ieri, ma non ho la minima idea di cosa significhi» esclamò esasperato,

«Giusto, un semplice ragazzo di campagna non può conoscere un’organizzazione governativa»

«Era forse un insulto?» Arthur lo fissò per una frazione secondo,

«No. Scusami non era mia intenzione offenderti Charlie» in quel momento il cuore di Baudelaire perse un battito, erano dieci anni che non sentiva più quel nomignolo. Gli era mancato.

«Sono cambiate così tante cose. Non sono più il bambino che ha lasciato il nostro villaggio»

«Ti vuoi decidere a raccontarmi cosa ti è successo o devo provare ad indovinare? Ricordo chiaramente i gendarmi che ti portavano via e la notizia della tua morte» il moro si sedette su di una poltrona, invitando l’amico a fare altrettanto;

«Sono stato posto di fronte ad una scelta. Sono il possessore di un’Abilità Speciale. Ricordi i fasci di luce che erano scaturiti dalle mie mani? Erano la prima manifestazione del mio potere Illuminations.» Charles trattenne il fiato; finalmente stava ricevendo una spiegazione agli avvenimenti di quel giorno. Era sicuro di non esserseli immaginato, quei fasci rossi erano reali. Ora ne aveva avuto conferma.

«Ho deciso di mettere le mie capacità al servizio della nostra Nazione»

«Lavori per il governo?» azzardò. Arthur sorrise;

«Sono una spia si, un agente segreto. Per questo motivo ho dovuto abbandonare il mio nome, il mio passato» fece una pausa solo per poterlo guardare negli occhi «e anche te. Una buona spia non prova sentimenti, non ha legami, punti deboli»

«Perché l’hai fatto Paul?»

«Per proteggervi. Ora so controllare questo potere ma non è sempre stato così. I primi tempi ero davvero spaventato, ho persino ferito un paio dei miei istruttori durante l’addestramento» ammise grattandosi nervosamente il collo.

«Ma arrivare a fingere la propria morte»

«Quella non è stata una mia decisione, però era l’unico modo»

«Ti sei sempre sentito superiore a noi, deve essere stato un sollievo per te quando hai scoperto che lo eri per davvero»

«Charles»

«Hai realizzato il tuo sogno. Sei nella capitale e scommetto che quei vestiti sono di marca, hanno l’aria costosa, quella è seta vero?» urlò indicando la camicia.

«Charles»

«Buon per te, sono contento, davvero»

«Ho ucciso delle persone» dopo quell’affermazione nella stanza tornò il silenzio.

«Il lavoro di una spia non è fatto solo dal raccogliere informazioni ma è ben più complesso. Nel mio campo sono uno dei migliori. Ho concluso il mio addestramento con anni d’anticipo. Ho del talento, anche senza la mia Abilità»

Charles era senza parole, non era rimasto più nulla del ragazzino sognatore che ricordava, davanti a lui in quel momento si trovava una persona completamente diversa. Paul si era trasformato in uno sconosciuto. Non poteva crederci.

«Sei un assassino quindi» non riuscì ad evitare di manifestare tutta la propria delusione.

«Non avrei mai voluto che lo scoprissi così. Sarebbe stato meglio se non ci fossimo mai incontrati»

«Ma che stai dicendo?» Non si era accorto di averlo afferrato di nuovo e di star stringendo le esili mani dell’amico tra le sue; erano sottili e affusolate come quelle di un artista, non sembravano le mani di un assassino.

«Saperti vivo è stata la cosa migliore che mi sia mai capitata. Non sai come sono felice di sapere che tu stia bene»

«Sono un assassino l’hai detto tu stesso»

«E io sono uno studente squattrinato. Sei il mio migliore amico Paul, lo sei sempre stato»

«Arthur» lo corresse per l’ennesima volta. Nella penombra della stanza Charles gli sorrise;

«Rassegnati, per me sarai sempre Paul»


 

***


 

I mesi che seguirono quell'incontro furono strani per entrambi. Charles aveva iniziato un lavoro come apprendista in una libreria e appena poteva, non mancava di incontrarsi con Paul. La spia però era sempre impegnata in missioni più o meno complesse che spesso lo portavano all’estero. Fu in una calda giornata estiva che Baudelaire finalmente comprese la natura del sentimento che l’aveva sempre legato al proprio amico d’infanzia. Paul anzi Arthur, come continuava a ripetergli di chiamarlo, era appoggiato all’ingresso della libreria. Stava attendendo che terminasse il proprio turno di lavoro. Aveva incrociato le braccia al petto mentre lo osservava in completo silenzio. Indossava dei pantaloni neri e una camicia bianca che grazie al riflesso della luce del sole a tratti appariva trasparente. A seconda dell’angolazione in cui si trovava, Charles poteva intravedere la pelle pallida dell’amico, brillare come se fosse fatta di porcellana. Sentiva la gola secca. In quel momento, Paul era una visione. Troppo bello per essere reale.

«Sai che potresti aiutarmi. Finirei sicuramente prima» aveva sbuffato cercando di darsi un tono, sistemando l’ennesimo tomo nello scaffale. Arthur aveva alzato le spalle con noncuranza.

«Preferisco di no» eccolo, il piccolo principe viziato che ricordava. Un leggero sorriso però aveva accompagnato quelle parole. Stava sicuramente facendo apposta, divertendosi a provocarlo.

«Se finisco prima ne trarremo giovamento entrambi» Gli fece notare. Quelle labbra si incurvarono in una nota contrariata;

«In realtà non ho molta voglia di andare al Café oggi» Charles lo fissò stupito. Quella sì che era una novità.

«Cosa vorresti fare allora?»

«Domani partirò per Londra. Devo trattare con degli esponenti della Torre dell’Orologio» ammise iniziando a fissare il basso. Era lo stesso atteggiamento che aveva da bambino quando era preoccupato per qualcosa.

«Sono dei pezzi grossi?» Sapeva che Paul non poteva svelare troppo del proprio lavoro ma non aveva saputo controllare la propria curiosità; soprattutto in seguito a quella reazione.

«Diciamo di sì. Se la missione andrà a buon fine entrerò nell’Elite dei Trascendentali»

«Ed è una cosa buona?» si sentiva un idiota;

«Chiamiamola una promozione»

«Perché allora non ne sembri felice?»

«La missione mi terrà impegnato per diverso tempo»

«Paul» si stava spazientendo;

«Non so quando ci rivedremo. Potrei tornare tra un mese come un anno»

«Potresti anche non tornare?» indagò cercando di trovare qualche risposta sul viso dell’amico; fu solo in quel momento che Paul alzò lo sguardo;

«C’è questa possibilità» ammise quasi sottovoce;

«Questa è la vita che ho scelto. La vita di una spia. Per il mio Paese, per la mia nazione ho buttato via il mio nome adottandone uno in codice. Ho scelto di abbandonare ogni tipo di sentimento, precludermi qualsiasi relazione. La mia vita e la mia morte non verranno mai tramandate alle generazioni successive. Nel mio futuro mi attende una fredda e grigia lapide»

Chalers gli diede uno schiaffo. Era arrabbiato, come non gli capitava di essere da parecchio tempo.

«Cosa stai dicendo? Ma ti ascolti quando parli? Abbandonare ogni sentimento? Ogni relazione? Allora cosa sono io per te?!»

In quel momento non era pronto ad affrontare quel discorso. Avrebbe tanto desiderato confessare ciò che provava per Paul durante uno dei loro pomeriggi insieme. Magari passeggiando lungo la Senna alle prime luci del tramonto o mentre sorseggiavano vino seduti in qualche locale. Invece aveva finito per urlargli contro. Il moro sgranò gli occhi sorpreso;

«Sei il mio migliore amico» confessò;

«Sono davvero solo questo per te, Paul?»

Rimasero a fissarsi per qualche minuto. Ormai sapevano di aver raggiunto il punto di non ritorno. Da quel momento in poi le cose tra loro sarebbero inevitabilmente cambiate. Non potevano tornare indietro. Non era possibile.

«Io» iniziò con voce tremante la giovane spia «io domani partirò per Londra. Volevo solo trascorrere un’ultima giornata insieme. La verità è che non sopportavo l’idea di andarmene di nuovo. Non voglio lasciarti Charles.»

«Paul io non posso più esserti amico. Lo sai vero?» il moro annuì specchiandosi negli occhi blu del giovane uomo davanti a lui. Aveva sempre amato quel colore, gli ricordava il cielo.

Ora Charles lo stava ponendo di fronte ad una scelta. Cosa avrebbe fatto? Avrebbe seguito il cuore o la ragione?

Quel giorno Arthur Rimbaud scelse di seguire il proprio cuore, scelse la strada dei sentimenti. Aveva solo diciassette anni, non poteva sapere cosa una simile decisione avrebbe comportato. Come una piccola scelta avrebbe finito con l’influenzare più di un destino.


 

 

***


 

Parigi

- Presente -


 

 

Paul Verlaine prese un lungo respiro godendosi appieno l’aria di casa. Erano passati parecchi anni dall’ultima volta che era stato in Francia e in particolare a Parigi. Quella città gli riportava alla mente troppi ricordi, alcuni piacevoli, altri meno. La capitale francese era una meravigliosa visione se paragonata al grigiore di Londra. Il suo aereo era da poco atterrato e già qualcuno lo stava attendendo sulla pista d’arrivo, sbracciandosi per cercare di attirare la sua attenzione. Era un uomo di mezza età, tarchiato, con occhiali dalla montatura spessa, per fortuna si era premurato di non dare troppo nell’occhio.

L’uomo gli si avvicinò emozionato, offrendosi di prendere il suo bagaglio;

«Monsieur Lelian è un onore per me accompagnarvi. Mi è stato detto che sono molti anni che non visitate la nostra capitale» il biondo abbozzò un sorriso, sistemandosi elegantemente una ciocca di capelli ribelle dietro ad un orecchio. Quando viaggiava utilizzava spesso lo pseudonimo di Pauvre Lelian, era un semplice anagramma del proprio nome ma fino a quel momento nessuno lo aveva mai collegato a lui. Era stato Arthur ad insegnarglielo. Era l’abc di una brava spia, muoversi nell’ombra. Mai rivelare il proprio nome o altre informazioni personali. Lui, come sempre, aveva fatto propri quegli insegnamenti. Ancora stentava credere che il proprio partner fosse morto.

Arthur Rimbaud, l’uomo a cui doveva ogni cosa, la spia migliore che avesse mai avuto la fortuna di incontrare e con cui aveva collaborato. Sconfitto da due ragazzini e giustiziato da un’Organizzazione giapponese. Era assurdo. Verlaine semplicemente si rifiutava di crederlo. Non era possibile.

«Monsieur ho ricevuto precise istruzioni per accompagnarvi a questo indirizzo» si intromise lo chaperon, riportandolo con la mente al presente. Si era di nuovo distratto pensando al proprio partner. Stava uscendo di senno, doveva risolvere quella situazione il prima possibile. Il Re degli Assassini, guardò verso il basso; l’uomo, che non gli arrivava nemmeno alle spalle, stava aprendo la portiera di un elegante limousine nera in cui lo invitava ad accomodarsi.

Fu un viaggio relativamente breve, che trascorse fissando il paesaggio al di fuori del finestrino.

Come aveva previsto, il luogo scelto per quell’incontro era un Cafè della capitale. Dopo aver congedato il proprio accompagnatore si sedette su di uno dei tavoli all’aperto, osservando i piccioni combattere per contendersi le attenzioni dei turisti o un semplice pezzo di pane.

«Bonjour mon ami» lo salutò un uomo sulla trentina sedendosi al tavolo accanto a quello del biondo; accennando ad un sorriso di finta ma studiata cordialità;

«Mi dev'essere sfuggito il momento in cui io e te siamo diventati amici» fu la risposta monocorde dell’ex spia.

«Abbiamo un interesse comune. Com’era quel detto? Il nemico del mio nemico è mio amico?» Verlaine fece per alzarsi;

«Non sono venuto fin qui per perdere tempo con simili giochetti» sbottò.

«Hai ragione. Scusa»

«Ti avevo detto di essere discreto»

«E lo sono stato»

«Uno chaperon chiacchierone e una limousine» gli fece notare calcando volutamente l’ultima parola;

«Somigli davvero molto a Paul» si lasciò scappare, prima di correggersi «cioè Arthur. Avete lo stesso, identico, modo di fare» il biondo si mise ad osservare un punto imprecisato davanti a sé.

«È stato Arthur a scegliere il mio nome. Solo di recente ho scoperto fosse il suo» ammise. L’uomo sorrise con una nota di nostalgia,

«Continuava a riprendermi come quel nome non gli appartenesse più. Invece ha scelto di donartelo»

«Tu sei stato importante per Arthur» fu la sola risposta del biondo intrisa di una leggera punta di disprezzo che non sfuggì al francese;

«Sono semplicemente un fantasma del suo passato» ammise scrollando le spalle;

«Il miglior profeta del futuro è il passato» gli fece notare, riprendendo una citazione che aveva letto in un libro diverso tempo prima;

«Per lui io ero morto. Non ha mai saputo la verità.»

«Verità?»

«Sono anche io un possessore di Abilità»

«Per questo sei ancora vivo» concluse con voce piatta, senza staccare gli occhi dal proprio bicchiere di vino, ormai quasi vuoto.

«L’ultima volta che l’ho visto è stato da dietro le sbarre di una prigione. Ci avevano scoperto. Sapevano cosa eravamo e quale sorte mi sarebbe toccata»

«E cosa eravate?» Verlaine sapeva che quella risposta non gli sarebbe piaciuta ma aveva ugualmente il bisogno di sentirla ad alta voce. Aveva tenuto fra le mani il taccuino del proprio compagno, lo aveva letto, strappandone qualche pagina in un moto di rabbia. Il nome di Charles Baudelaire compariva tra quelle intime confessioni, più volte di quante avesse mai pensato. Ora quell’uomo, che per lungo tempo non era stato altro che un nome scritto, era lì davanti ai suoi occhi.

Una parte di Paul, quella più bestiale, avrebbe voluto ammazzarlo solo per il fatto di esistere, mentre il suo lato più razionale e umano gli ricordava come potesse essere un valido alleato. Avere una spia tra i Poètes Maudits poteva essere vantaggioso Non doveva sprecare una simile occasione.

«Eravamo amanti» Verlaine colse benissimo il tono di sfida sottinteso - ma neanche troppo - in quelle parole. Quel bastardo lo stava apertamente sfidando. Cercò di mantenere il controllo. Sapeva che avrebbe potuto ammazzarlo in pochi secondi, ma non poteva permettersi di sprecare l’opportunità che Baudelaire gli stava offrendo.

«Hai detto di poter contattare questo Carroll» rispose tranquillamente nascondendo il proprio turbamento. Sapeva di essere un ottimo attore.

«L’ho detto. È rinchiuso nel carcere di Meursault» a quel punto Verlaine alzò un sopracciglio scettico;

«Il carcere di massima sicurezza per dotati? Come pensi di raggiungerlo di grazia?» Baudelaire sorrise;

«Con la mia Abilità ovvio»


 

 

***


 

Parigi

- di nuovo qualche stagione prima -


 

Fecero appena in tempo a raggiungere l’appartamento di Charles, che Arthur lo spinse contro al muro baciandolo con passione. Il moro si staccò solo per poterlo guardare negli occhi, perdendosi in quel blu che tanto amava. Si diede mentalmente dello stupido per avere aspettato tanto. Quanto tempo avevano sprecato inutilmente, camminando sul filo del rasoio e giocando a quel teatrino di amici d’infanzia quando era chiaro ad entrambi che non avrebbero più potuto esserlo. Avevano preferito vivere in un’illusione che guardare in faccia la realtà.

La giovane spia dai lunghi capelli corvini aveva fatto la propria scelta. Sarebbe partito per Londra all’alba, ma quella notte, ancora per qualche ora, avrebbe potuto togliersi la maschera che da ormai dieci anni indossava e tornare ad essere semplicemente Paul Verlaine.

Charles continuava a chiamarlo ostinatamente con quel nome che era sicuro di aver abbandonato. Ogni volta che l’amico si rivolgeva a lui però, il suo cuore mancava di un battito. Non credeva avrebbe mai provato un’emozione simile. Rinunciare ai sentimenti e ad ogni tipo di legame gli era sembrato un esiguo prezzo da pagare. Quando aveva preso quella decisione però non era che un bambino.

Per una notte, solo per qualche ora, Paul Verlaine sarebbe tornato. Avrebbe lasciato Arthur Rimbaud al di fuori da quell’appartamento per poi ritrovarlo al mattino successivo.

«Ho sempre amato i tuoi capelli» disse Charles accarezzandogli dolcemente la lunga chioma e sistemando una ciocca ribelle dietro ad un orecchio solo per poterlo osservare meglio in volto. Paul era diventato molto bello. I tratti femminei che aveva nell’infanzia si erano evoluti in modo armonioso, la sua pelle era pallida come porcellana, liscia, senza imperfezioni. Baudelare non ricordava di preciso quando avesse iniziato a desiderare l’amico in quel modo, solo che era successo.

Paul era sempre stato un pezzo importante della sua vita. Anche quando credeva fosse morto. Si era recato nella capitale cercando di inseguire lo stesso sogno dell’amico, voleva che fosse orgoglioso di lui e, in questo modo, avevano finito con il ritrovarsi. Dieci anni erano davvero tanti ma non troppi, potevano ancora costruirsi un futuro insieme.

C’erano tante cose che avrebbe voluto confessare a Paul, come la natura dei propri sentimenti. Una parte di Charles però sapeva di non poterlo fare. Il moro aveva un lavoro da svolgere, non vivevano nel mondo dei sogni, la realtà sarebbe venuta presto a bussare alla loro porta per strapparli in quella dimensione onirica in cui si erano rifugiati. Il suo era un desiderio dettato dal semplice egoismo, non voleva lasciarlo.

Si stava comportando come il ragazzino immaturo che era, lo sapeva benissimo eppure non riusciva a smettere di pensare a quella possibilità. Se mai glielo avesse chiesto, Paul sarebbe rimasto per lui?

L’ennesimo bacio ebbe il potere di azzerare ogni altro pensiero.


 

Il sole era sorto da poco quando un leggero movimento delle coperte avvisò Baudelaire del fatto che il suo compagno si fosse svegliato e stesse provando a cercare i propri vestiti sparsi ovunque per il piccolo appartamento.

«Paul, non è ancora l’alba, puoi restare per qualche minuto» tentò. Ricevette in risposta solo uno sguardo che non riuscì a decifrare;

«Charles. Non sono pentito per questa notte. È stata la più bella della la mia vita. Però non posso rimanere lo sai, ho un volo che mi aspetta». Concluse allacciandosi gli ultimi bottoni della camicia.

Baudelaire lo sapeva benissimo, si diede dello sciocco solo per averlo in qualche modo sperato. Prima di lasciare la stanza il moro tornò a rivolgersi a lui;

«Aspettami. Perché tornerò da te. Questa è la promessa più sincera che posso farti»

Charles aprì e richiuse la bocca per la sorpresa, prima di riuscire a trovare la forza di articolare un pensiero coerente ed esprimerlo a parole.

«Davvero? E tutta la storia sul fatto che una spia non deve provare sentimenti? Il non avere legami?» Paul sorrise, con la stessa aria di sfida e superiorità che ricordava dalla loro infanzia;

«Basta che nessuno ci scopra. Saremo discreti. Faremo attenzione. Non penso che i Poètes Maudits abbiano il tempo di controllare le mie frequentazioni»

Charles sorrise, prima di raggiungerlo per poterlo baciare un’ultima volta.

Quello non era un addio ma solo un arrivederci.


 

Rimbaud aveva diciassette anni, Charles uno in più ed era stato il suo primo amore.

La giovane spia aveva creduto che quel sentimento potesse durare per sempre, come anche il suo segreto.

Quando Arthur Rimbaud tornò da Londra tre mesi dopo, Charles Baudelaire era stato arrestato ed era in attesa di processo.





 


 


 


 

*«La noia non è più il mio amore. Le rabbie, le dissolutezze, la follia, di cui conosco tutti gli impulsi e i disastri, - ho depositato tutto il mio fardello»


 

Note autrice: Sono viva e sono tornata (non è una minaccia ^_^) Questa storia inizialmente era nata come uno spin off di “In Order” ma già dopo un paio di capitoli avevo capito che sarebbe andata per la sua strada. In questo capitolo abbiamo modo di capire meglio il passato di Rimbaud e Baudelaire, che sarà importante ai fini della storia. Cercherò di essere puntuale negli aggiornamenti ma non assicuro niente (anche perché a ottobre c’è il writober e se io non mi complico da sola la vita non sono contenta XD). Ringrazio chiunque abbia iniziato a leggere questa storia e soprattutto la mia Eneri_mess che ha creato delle grafiche bellissime (le trovate su IG). Consiglio: se non lo avete fatto leggete anche le sue di storie e quelle di Ode to Joy e ringraziatele perché se non ci fossero state loro probabilmente io non avrei mai pubblicato XD

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Capitolo 3
*** III Stagione - Nuit de l’Enfer ***


III Stagione - Nuit de l’Enfer


 




 

«Et pensons à moi. Ceci me fait peu regretter le monde. J’ai de la chance de ne pas souffrir plus. Ma vie ne fut que folies douces, c’est regrettable. »*

 

Une Saison en Enfer – Nuit de l’Enfer


 


 


 


 

Francia


- Parigi -




 

Aveva appena smesso di piovere ma il cielo sopra la capitale francese era ancora ricoperto da nubi. L’uomo al comando della sezione interrogatori della squadra speciale antiterrorismo aveva appena finito di visionare i numerosi documenti sulla propria scrivania. Si era fermato in particolar modo sull’ultimo verbale ricevuto dal proprio braccio destro. Conteneva poche righe ma sufficienti a rovinargli la giornata:

Protocollo 08051 soggetto Black No.12. Preso contatto

Si passò stancamente una mano sul volto maledicendo il giorno in cui Charles Baudelaire era comparso nella sua vita.



 

- Qualche stagione prima -


 

Henry Stendhal era entrato a far parte dei Poètes Maudits da poco più di un paio di anni, quando per la prima volta, la sua strada andò a incrociarsi con quella del giovane Arthur Rimbaud. Entrambi utilizzavano dei nomi in codice, il vero nome di Stendhal era Marie Henri Beyle. Sua madre lo aveva sempre accusato di essere un gran sentimentale, infatti aveva scelto di adottare il nome della cittadina tedesca nella quale era stato reclutato a soli sedici anni.

Scegliere una nuova identità era una sorta di rito di passaggio che avveniva subito dopo l’entrata nell’Organizzazione. Simboleggiava la volontà di tagliare i ponti con il passato per dedicarsi completamente al proprio Paese.

La cosa che maggiormente colpì il giovane Stendhal fu però l’età di Rimbaud.

Sette anni.

Ne compirò otto il prossimo mese”

Ricordò il viso paffuto di quel ragazzino, che per un breve istante aveva scambiato per una bambina, mentre lo sfidava guardandolo dal basso verso l’alto. Moro, occhi dorati, nasino leggermente all’insù e una divisa decisamente troppo grande per lui.

Quella fu solo la prima volta che Stendhal dubitò dei propri superiori e del loro operato. Rimbaud era giovane, troppo, per il loro mondo. Aveva scelto una strada complicata, una vita fatta di rinunce. Si domandò se ne fosse consapevole.

Ogni altro dubbio o incertezza venne spazzato via poco dopo, quando Arthur mostrò a lui e pochi altri la propria Abilità. Un simile potere nelle mani sbagliate avrebbe potuto causare gravi problemi ed era l’ultima cosa di cui in quel momento i Poètes avevano bisogno.

Venti di guerra stavano soffiando sull’Europa. Le nazioni si preparavano ad una possibile escalation. I rapporti tra potenze diventavano sempre più tesi e nell’intelligence si iniziava a pensare a come affrontare lo scenario peggiore. La Francia aveva bisogno di uomini. Soggetti dotati di Abilità in grado di fare la differenza. Tutto si sarebbe deciso da quello. Arthur era solo un bambino ma Stendhal non aveva dubbi, lo avrebbero reso una spia perfetta. Una pedina da sfruttare per il bene della nazione. La posta in gioco era troppo alta per porsi degli scrupoli.

Il capo della sezione interrogatori sorrise tra sé mentre fissava l’ormai diciottenne Rimbaud uscire all’alba da un anonimo appartamento della capitale. Buttò la sigaretta che teneva tra le labbra a terra e la spense con un piede prima di dare l’ordine di intervenire. Arthur era intelligente, scaltro, e in quegli anni aveva imparato a padroneggiare la propria Abilità. Tra poco sarebbe entrato a far parte del corpo d’Elité dei Trascendentali, era solo questione di tempo, eppure aveva appena disobbedito ad una delle loro regole più importanti quanto basilari.

Una spia non deve avere legami, provare sentimenti.

Stendhal non aveva smesso per un secondo di sorridere.

Fu in quel giorno che la sua vita prese una piega inaspettata. Quando un paio di occhi blu incrociarono per la prima volta i suoi.


 

***


 

La prima impressione che Henry Stendhal ebbe di Charles Baudelaire fu che gli ricordò un gatto selvatico. Quando lo arrestarono, in quel piccolo appartamento della capitale, quel ragazzo non aveva smesso per un secondo di gridare e dimenarsi. Erano serviti tre uomini e ben due Abilità per immobilizzarlo.

«State commettendo un grave errore» riuscì a dire prima di essere imbavagliato, non smettendo di scalciare.

Stendhal, che intanto si era acceso l’ennesima sigaretta della giornata, si era fatto più vicino.

Con il senno del poi, quello era stato il suo primo e più grande errore.

Fu in quel momento che Charles alzò lo sguardo per incrociare quello del uomo davanti a lui. Era furente, deluso ma non spaventato, forse solo preoccupato per le sorti del proprio amico. Henry ne rimase sorpreso.

«Arthur Rimbaud ha commesso un errore. Noi siamo qui per porvi rimedio» fu tutto ciò che riuscì a dire prendendo una lunga boccata, per poi sputargli del fumo in faccia.

«Siete i Poètes Maudits?» l’uomo che nel frattempo si era allontanato, tornò ad avvicinarsi a lui, tirandogli un pugno in pieno stomaco.

«Più parli e più la posizione del tuo amico si complica» Charles capì di essere stato uno stupido. Se quelli erano veramente degli agenti segreti, stava mettendo in pericolo anche l’incolumità di Paul.

Non avrebbe mai permesso a nessuno di fargli del male, non ora che si erano ritrovati. Non dopo la notte che avevano trascorso, la promessa che si erano scambiati.

Aspettami perché tornerò da te

Doveva farlo.

Stendhal non aveva smesso per un secondo di sorridere, divertito dalle espressioni di quel ragazzino capace di passare dalla sorpresa alla rabbia in poco tempo. Non avrebbe saputo dire se per distrazione o per altro, forse erano stati quei dannati occhi blu a fargli abbassare la guardia, ma si trovò scaraventato contro una porta, mentre uno dei propri uomini utilizzava la sua Abilità contro di lui.

La sigaretta o quello che ne rimaneva gli cadde dalle labbra finendo sul pavimento ora ricoperto da petali.

 

 

***

 

- Presente -

- Parigi - Cafè les deux Magots -


 

«Se ciò che mi hai raccontato corrisponde al vero, la tua Abilità sembrerebbe essere molto utile» fu il solo commento di Verlaine intento a giocare distrattamente con il bicchiere di vino, ormai vuoto, che teneva tra le mani.

«È utile per l’intelligence. Solo per questo sono ancora vivo» ammise l’uomo seduto al tavolo accanto, mentre con studiata eleganza riempiva nuovamente i bicchieri di entrambi.

«Sei diverso da Arthur» fu l’unico commento del Re degli Assassini.

Era da quando lo aveva incontrato che lo pensava.

Verlaine aveva fantasticato spesso su che tipo di persona fosse il famoso Charles Baudelaire. Aveva cercato di dipingere un’immagine di quel uomo così importante per Arthur, ma nessuna delle sue ipotesi si era anche solo lontanamente avvicinata alla realtà.

Per tutto il tempo in cui avevano vissuto insieme, Charles era stato solo il nome di un fantasma appartenente al passato. Ad una stagione della vita di Arthur di cui Paul non avrebbe mai potuto fare parte.

Baudelaire aveva conosciuto Paul Verlaine. Quello vero. L’uomo che un giorno sarebbe finito con il donargli il proprio nome. Aveva amato quella parte di Arthur che a lui non era mai stata data possibilità di comprendere e conoscere.

Ora, quello spettro si trovava davanti ai suoi occhi, reale e tangibile come non lo era mai stato, mentre con sfacciataggine gli suggeriva un piano per riportare Rimbaud nella sua vita.

Verlaine non era uno stupido né tanto meno un ingenuo. Prima di essere il Re degli Assassini era stato lui stesso una spia. Ed era stato addestrato dal migliore. Il suo partner gli aveva insegnato ogni cosa e lui lo aveva tradito. Più volte si era domandato come sarebbero state le loro vite se quel litigio non avesse avuto luogo. Se non avessero mai accettato quella missione in Giappone. Se non avesse mai tentato di salvare quell’anima così simile a lui.

Baudelaire e la sua faccia da schiaffi lo riportarono alla realtà.

«Siamo sempre stati diversi, sin da bambini. Sei tu che per certi versi sei fin troppo simile a lui. Ma in fondo non dovrei esserne sorpreso, Paul è stato una sorta di genitore per te. Ti ha cresciuto»

Verlaine storse il naso. Non seppe dire cosa gli diede maggiormente fastidio, se il tono utilizzato dalla spia o la verità nascosta dietro quelle poche parole. Non aveva mai visto Arthur come un genitore, lui era un essere artificiale, un mostro. Il suo partner era stato solo il primo a credere che potesse essere umano e si era battuto per quello. Paul l’aveva odiato per quello. L’aveva fatto con ogni fibra del proprio essere.

«Non fingere di sapere tutto Charlie» calcò volutamente il tono su quel nomignolo sperando di irritarlo. L’altro sorrise. Gli venne solo una gran voglia di ucciderlo ma sapeva di non poterlo fare.

Per ora.

«Ma io so tutto. Come so che non rifiuterai l’aiuto che ti sto così generosamente offrendo»

Era vero. Verlaine era disposto a qualsiasi cosa, anche a stringere un patto con quel diavolo e i Poètes Maudits pur di riavere Arthur nella propria vita. Fu in quel momento che gli venne un dubbio.

«Cosa ne pensano i tuoi superiori di questa storia?»

Per la prima volta da quando si erano incontrati, un’ombra di incertezza attraversò gli occhi blu della spia, facendogli perdere un po' della sicurezza ostentata fino a quel momento. Verlaine non si lasciò sfuggire un simile dettaglio.

Aveva avuto il sospetto che quel incontro fosse stato solo una mossa isolata di Baudelaire. Una sua decisione. L’intelligence francese non sembrava essere coinvolta. Sarebbe stato un punto a suo favore. Una volta ottenuto ciò che desiderava, nulla avrebbe potuto impedirgli di eliminare quel bastardo una volta per tutte. Incurvò le labbra, pregustandosi quel momento.

«Come hai detto tu stesso, io sono diverso da Paul»

«Arthur» lo corresse quasi senza pensare. Odiava che si riferisse a Rimbaud in quel modo. Era come voler rimarcare quel passato dal quale lui sarebbe sempre rimasto escluso.

Fu il turno di Charles di sorridere. L’essere artificiale che aveva davanti era quanto di più simile e allo stesso tempo diverso ci fosse da quel ragazzino moro che gli aveva rubato il cuore. Quel Verlaine però ne aveva ereditato inconsapevolmente i tratti, tanto che il solo guardarlo faceva male. Era una lenta agonia. Il biondo aveva lo stesso modo di fissarlo dall’alto in basso. Per non parlare dei movimenti. Era incredibile come un perfetto sconosciuto potesse ricordargli così tanto il proprio amico d’infanzia, eppure era così.

Baudelaire era certo che anche in un bar gremito di persone sarebbe stato in grado di riconoscere quella presenza. Per assurdo, quel mostro teneva il bicchiere di vino tra le mani nello stesso modo in cui lo faceva Paul. Era una copia sbiadita del suo primo amore ma anche una prova vivente del fatto che l’amico fosse andato avanti senza di lui.

Charles apparteneva al passato di Rimbaud, Verlaine era stato il suo presente fino al giorno in cui l’aveva tradito e quasi ucciso, negando così ad entrambi un futuro.

«È incredibile quanto me lo ricordi» disse in un sussurro «Non so se tu te ne renda conto o meno, ma sei in qualche modo tutto ciò che è rimasto di lui»

Paul storse il naso. Non gli importava. Lui rivoleva Arthur nella sua vita. Aveva lasciato troppe cose in sospeso. Non avrebbe mai accettato quel destino. Non poteva.

«Anche in questo momento, quell’espressione. È la sua testardaggine quella che vedo riflessa nei tuoi occhi. Non vuoi arrenderti vero?»

Verlaine iniziava ad essere stanco di tutti quei giochetti. Era ora di iniziare a scoprire le carte in tavola. Capire cosa il Poète volesse da lui.

«Perché sembri così ben disposto ad aiutarmi? Sei una spia»

«Come te, non posso accettare la sua morte o per essere più precisi non accetto che sia andata a finire in quel modo» Verlaine sapeva che stava mentendo. Era ovvio.

«Stai tradendo il tuo Paese, aiutando un criminale internazionale» gli fece notare. Lo avrebbe assecondato per un po'.

«Paul è sempre stato più importante. Dopotutto ho accettato di unirmi ai Poètes Maudits solo per lui»

 

 

***


- Qualche stagione prima -



 

«Ora mi spieghi cosa diavolo è successo poco fa ragazzino»

Henry Stendhal non amava perdere la pazienza, se non in occasioni eccezionali. Le volte che era successo si potevano contare sulle dita di una mano. Erano da poco tornati alla base, in seguito a quella che a prima vista non doveva essere altro che un’operazione di routine. Spaventare il giovane amante di Rimabud, capire quanto ne sapesse e in caso, ridurlo al silenzio. Erano stati questi gli ordini che aveva ricevuto.

«Hai ferito cinque agenti di cui due dotati di Abilità Speciali. Ora voglio sapere che cazzo è successo»

Charles non parlava. Era ancora terrorizzato da quanto avvenuto solo un’ora prima, tanto che non avrebbe saputo descriverlo a parole. Ricordava solo la propria rabbia mista a preoccupazione. Dopo che i Poètes erano comparsi in quell’appartamento aveva desiderato solo una cosa: fuggire. Avvertire Paul del pericolo e scappare insieme a lui.

Era un sogno irrealizzabile sotto ogni punto di vista e ne era consapevole.

Non c’erano vie di fuga. Quegli uomini in confronto a lui erano veri professionisti. Inoltre, una parte di Baudelaire sapeva di come Paul non avrebbe mai abbandonato il proprio lavoro. Amava quella nuova vita. Non vi avrebbe mai rinunciato, nemmeno per lui. Nemmeno quel loro che forse non era mai esistito.

Poi, all’improvviso, una pioggia di petali era caduta sopra le loro teste e il tutto si era svolto troppo velocemente perché Charles potesse ricordarlo.

«Non ne ho idea» fu l’unica spiegazione che uscì dalle sue labbra. A quel punto, Stendhal afferrò una sedia, prendendo posto davanti a lui.

L’uomo decise di cambiare strategia.

«E io non credevo che un moccioso come te potesse avere un’Abilità così potente e utile»

Charles sgranò gli occhi.

«Un’Abilità? Non capisco di cosa tu stia parlando e non sono affatto un moccioso. Sono io quello che dovrebbe chiedere cosa sta succedendo. Mi state trattenendo contro la mia volontà»

«Quei petali» iniziò a spiegare la spia «Sei stato tu a evocarli e in qualche modo li hai usati per mettere KO i miei uomini. Ora, vorrei solo sapere come hai fatto»

«Non ne ho idea» Stendhal scoppiò a ridere, accendendosi una sigaretta.

«Per tua fortuna il sottoscritto ha molto tempo libero. Non temere moccioso, in poco tempo imparerai a controllare il tuo potere»

Baudelaire storse il naso. Quell’uomo in pochi minuti aveva cambiato atteggiamento e la cosa non gli piaceva. Era un uomo dell’intelligence francese, uno dei superiori di Paul. Non doveva sottovalutarlo.

«Cosa volete da me?» rispose con strafottenza. L'altro gli sorrise compiaciuto.

«Allora non hai solo un bel faccino. Dritto al sodo. Mi piaci»

«Voglio solo capire cosa avete intenzione di fare, visto che avete scoperto che anche io possiedo un’Abilità i vostri ordini sono cambiati o mi sbaglio?»

«Direi che ci sei andato piuttosto vicino. I miei ordini erano di eliminarti dalla vita del giovane Rimbaud. Sei intelligente abbastanza da capire da solo il perché»

«Sarei il suo punto debole oltre che una distrazione. Non potete permetterlo»

«Esatto. Quelli come noi non devono avere nessun tipo di legame. I legami sono pericolosi»

«Quando si è unito a voi Paul era un bambino, non sapeva a cosa andava incontro, gli avete mentito, lo avete usato»

«Nessuno ha mai obbligato nessuno. Arthur ha fatto la sua scelta, ora è tempo che tu faccia la tua. Non siamo noi i cattivi in questa storia. Non darci delle colpe che non abbiamo. Sei davvero ancora un ragazzino se credi che il mondo funzioni in maniera così semplice»

Fu in quel preciso istante che Baudelaire capì che nulla sarebbe mai più tornato come prima.

Ogni sua speranza in quel loro terminò in quel momento, quando incrociò nuovamente lo sguardo di Stendhal.

Paul sarebbe tornato dalla missione a Londra ma non lo avrebbe trovato. Non si sarebbero rivisti. Mai più.

Con questa certezza Charles Pierre Baudelaire accettò e firmò la propria condanna.

Lo stava facendo per Paul, ma ciò non significava che avrebbe rinunciato a lui.

 

 

***

 

 

«Les Fleurs du Mal? Spero tu stia scherzando» Charles gli rivolse l’espressione più offesa presente nel proprio repertorio mentre il suo superiore rideva di gusto dietro la propria scrivania, strozzandosi con il fumo della sigaretta che teneva tra le labbra.

«Grazie alla mia Abilità posso controllare a piacimento ogni cosa che entra a contatto con i petali dei miei fiori. È un nome perfetto» Stendhal continuò a scuotere il capo.

«No, è stupido»

«Vogliamo parlare del nome che hai scelto per la tua di Abilità?»

«Io le ho dato un nome poetico. Dovresti iniziare a portare rispetto verso il tuo diretto superiore» Charles dimostrò la propria maturità rispondendo con una linguaccia.

«Ho accettato di unirmi a voi per il bene di Paul. Avete inscenato la mia morte. Mi avete reso un fantasma e ciliegina sulla torta, sono finito proprio sotto il tuo comando. Ho finalmente imparato a padroneggiare questa mia Abilità, e ora le ho trovato persino un bellissimo nome. Dammi tregua Henri sono stati mesi difficili»

«Punto primo, sei sotto il mio comando solo perché sono a capo della sezione interrogatori e la tua Abilità è perfetta per questo»

«L’ho sempre trovata una strana coincidenza» sbuffò incrociando le braccia.

«Non mi interessa. Punto secondo, devi chiamarmi Henry non Henri. Ho rinunciato da tempo a quel nome»

«Anche Paul mi ripeteva sempre di usare il suo nome da spia»

«Vedi? Anche il tuo ex amante pensava fossi uno stupido»

«Non sono stupido, semplicemente non riesco a capire questa cosa dei nomi. Perché per voi è così importante?» Stendhal si fece più vicino scompigliandogli i capelli con una mano, abitudine che aveva di recente appreso e della quale non si era ancora stancato.

«Quando si entra nell’Organizzazione si abbandona la propria identità. Un nuovo nome simboleggia un nuovo inizio» Charles storse il naso.

«Io sono ancora Charles Baudelaire» ammise gonfiando il petto con orgoglio.

«Le circostanze del tuo reclutamento sono state particolari»

«Come il fatto che pochi dei tuoi amici sanno della mia esistenza?»

«Arthur deve credere che tu sia morto. È uno dei nostri agenti migliori. Non possiamo permetterci di perderlo. Non ora con una guerra alle porte» Baudelaire rimase in silenzio. Aveva capito dal tono del superiore come la faccenda fosse grave e che non stessero più scherzando.

«Ciò che si legge dai giornali allora corrisponde al vero?» Stendhal prese una lunga boccata prima di rispondere.

«Diciamo che c’è un fondo di verità. Basta un niente perché il vecchio continente si trasformi in una polveriera. La nostra nazione parte con un grande svantaggio. Abbiamo pochi uomini tra i Trascendentali e pochi dotati di Abilità in generale»

«Trascendentali?» Non era la prima volta che Charles udiva quel nome, ma ancora non aveva capito bene a chi o cosa si riferisse.

«Sono una sorta di corpo d’élite. I possessori di Abilità più potenti del continente. Comprendono circa una dozzina d’individui»

«Arthur è uno di loro, vero?» non riuscì a frenare la propria curiosità, anche se dentro di sé Baudelaire conosceva già la risposta. Lo sguardo che gli rivolse Stendhal parlava da solo.

«Lo abbiamo addestrato per questo. Lui e Victor Hugo sono i nostri agenti migliori»

«Ecco perché il giovane amante segreto doveva sparire. Per far brillare il vostro prezioso diamante» concluse imbronciandosi.

«Se ti avessimo reclutato prima avresti potuto ambire anche tu ad una posizione simile. Hai un potere particolare Charles, le Abilità che riguardano il controllo della mente sono insidiose oltre che pericolose ed estremamente rare»

«Hai dimenticato di aggiungere difficili da controllare. Ci ho messo un mese solo per evocare la prima pioggia di petali» entrambi sorrisero al ricordo.

«Pensa invece a quante vite potrai salvare proprio grazie al tuo potere»

«È per questo Henri che ti sei unito a loro?» Prima di allora, Baudelaire non si era mai interrogato sui motivi che potessero aver spinto un uomo come Stendhal a lavorare per i Poètes Maudits. Nei mesi successivi al proprio reclutamento aveva avuto modo di scoprire come Stendhal fosse un uomo brillante, intelligente, per questo non riusciva a comprendere come potesse accettare tutte quelle inutili regole e imposizioni. Henry non era come i suoi colleghi, come non lo era Paul. Rappresentavano due eccezioni a quel mondo freddo e distaccato che era l’intelligence.

Aveva sempre pensato che quell’uomo fosse stato arruolato con l’inganno, forse complice la giovane età come era accaduto con Verlaine, ma Stendhal gli aveva confessato di essere diventato una spia a sedici anni. Significava che aveva accettato volontariamente quella vita, insieme ad ogni suo pregio o difetto. La sua era stata una scelta consapevole. Charles non se lo sarebbe mai aspettato.

«Ho sempre pensato che il compito di chi possiede un’Abilità Speciale fosse di utilizzarla per aiutare gli altri. Tutto qui.» gli aveva spiegato alzando le spalle

«E quel assurda regola che una spia non deve avere legami? Non hai mai desiderato sposarti o creare una famiglia?» in quel momento Stendhal era scoppiato a ridere, prima di spegnere la propria sigaretta;

«Mia madre è morta quando ero piccolo e diciamo che non sono mai andato particolarmente d’accordo con mio padre. Non ho mai desiderato una famiglia, sicuramente non nel modo in cui la intendi tu»

«Mi dispiace ho parlato senza riflettere» ammise abbassando lo sguardo. Era incredibile come quell’uomo riuscisse a farlo sentire sempre in difetto.

«Tu cosa desideri Charles? Qual’ era il tuo sogno di bambino? Mi hai sempre parlato solo di Paul e del suo sogno, ma mai del tuo» Baudelaire parve ravvivarsi dopo quella domanda così personale.

«I miei possedevano una semplice bottega, che ha finito con l’ereditare mio fratello Claude. Ora che me lo fai notare, non ho mai avuto un vero e proprio sogno. Ho perso il mio solo e unico amico quando avevo nove anni. Ho vissuto i restanti dieci tentando di renderlo in qualche modo orgoglioso di me. Sono andato a Parigi per questo e proprio lì l’ho ritrovato. Il mio sogno successivo era di rimanere al fianco di Paul per sempre ma a dirlo ad alta voce mi rendo conto da solo di quanto possa suonare come un’utopia.»

L’espressione comparsa sul viso di Stendhal in quel momento era indecifrabile. Charles temette di aver detto qualcosa di sbagliato. Per un attimo si era dimenticato con chi stesse parlando. Lui ed Henry non erano amici. Stendhal era un suo superiore oltre che tutore. Qualsiasi passo falso di Baudelaire sarebbe stato reso noto ai piani alti. I Poètes non si fidavano ancora di lui.

«Devi dimenticarti di Arthur Rimbaud» fu tutto ciò che disse cercando di evitare il suo sguardo.

Charles però non era ancora disposto a farlo.


 

***


 

«Cosa significa questa storia di Black No.12?»

Quel pomeriggio d’autunno, Baudelaire si era recato come una furia nell’ufficio del proprio superiore. Aveva sentito certe voci e non gli piacevano per niente.

«È semplicemente la nostra nuova carta vincente. Con lui dalla nostra parte, la guerra in Europa finirà prima del previsto»

«Stiamo parlando dell’esperimento di un pazzo»

«Sarà pure un esperimento ma possiede un potere spaventoso»

«L’hanno affidato a Paul»

Stendhal incrociò il suo sguardo per la prima volta da quando era entrato come nella stanza. Era solo questione di tempo prima che Baudelaire venisse a conoscenza anche di quel dettaglio. Era sempre stato un ragazzo fin troppo sveglio. Per questo, e per mille altri motivi, aveva catturato il suo interesse. Stendhal sapeva come fosse impossibile tentare di nascondere qualcosa al proprio sottoposto; soprattutto se riguardava il giovane Rimbaud.

«È il solo che abbia trovato il modo di controllarlo» si trovò ad ammettere. Non era un’informazione riservata, in più era probabile che Baudelaire conoscesse già ogni particolare sulla vicenda e si fosse recato da lui solo per averne la conferma.

«Non è umano. Non sappiamo di cosa possa essere capace» continuò. L’uomo al comando della sezione interrogatori si limitò ad alzare gli occhi al cielo. Aveva previsto una reazione simile.

«Questo vale per tutti noi. Pure io domani potrei impazzire e compiere una strage» quella battuta non piacque per niente al ragazzo davanti a lui. Poteva notare la preoccupazione trasparire da quegli occhi blu. Da un mare calmo quelle iridi si erano trasformate in una vera e propria tempesta.

«Tranquillo, Arthur lo sta addestrando. Diventerà uno di noi. Ora levati quell’espressione dalla faccia e torna a svolgere il tuo lavoro» sperò con quelle parole di averlo indotto a desistere.

Era sempre stato fin troppo ottimista.

Charles Baudelaire era una delle persone più testarde che avesse mai incontrato e il tempo gliene avrebbe dato conferma.


 

***

 

«Come sarebbe a dire deceduto?» Charles si dovette appoggiare ad una parete per evitare di svenire. Lo sguardo di Stendhal però era serio. Non era uno scherzo ma nemmeno un sogno. Era la realtà.

«Nell’ultimo rapporto avevi detto che lavorava per un’Organizzazione giapponese. Sembrava aver perso la memoria ma era vivo. Al sicuro» l’uomo davanti a lui annuì. Baudelaire invece si sentì mancare.

«Non conosciamo ancora tutti i dettagli. I responsabili, secondo questo rapporto, sono un certo Demone Prodigio e Arahabaki» l’attenzione di Charles si focalizzò sul secondo nome.

«Arahabaki?» Stendhal annuì.

«Prenota subito un volo per il Giappone» il superiore lo afferrò per un braccio.

«Non ci pensare nemmeno. Non ti permetterò di scatenare una guerra solo perché dopo dieci anni non sei stato in grado di dimenticare il tuo primo amore» la sua voce uscì più dura del previsto. Era un ordine.

«Paul è morto. Nulla ha importanza. Pure voi Poètes non mi fate più paura» a quelle parole, Stendhal si vide costretto a mollare la presa. Osservò Charles uscire dalla stanza. Non fece nulla per trattenerlo.

Una spia non deve provare sentimenti, coltivare dei legami. Lo sapeva bene Henry Stendhal tuttavia non avrebbe permesso al Baudelaire i commettere quella pazzia. Affrontare l’intera Port Mafia equivaleva ad un suicidio.

Così quel pomeriggio, dopo interminabili minuti di riflessione, decise di inoltrargli una mail codificata.

Era un vecchio rapporto della Torre dell’Orologio inglese riguardante l’arresto di un loro connazionale che aveva attentato alla vita della Regina.

Non sapeva nemmeno lui cosa stesse facendo, ma vedere Charles, dopo tutto quel tempo, ancora così profondamente innamorato era troppo da sopportare.

Stendhal non aveva mai provato sentimenti. Aveva accettato quella vita di assoluti con lucidità e freddezza. Eppure da quando quel ragazzino impertinente dagli occhi blu era entrato nella sua vita, ogni cosa era cambiata.

Lui era cambiato.

Quel giorno era arrivato persino a tradire il suo Paese per aiutarlo. Fu allora che comprese che avrebbe fatto ogni cosa per Baudelaire. Persino seguirlo all’inferno se si fosse reso necessario. Forse per la prima volta, si sentì simile a lui.

 

***

 

-Presente-


 

«Tu non hai idea dei rischi che sto correndo solo per essere qui, oggi, con te» Verlaine sorrise divertito.

«Sei tu che mi hai contattato per primo» gli fece notare, facendo oscillare con eleganza il bicchiere ormai vuoto che teneva tra le mani.

«Questo perché sapevo che mi avresti aiutato» il biondo resistette all’impulso di ucciderlo seduta stante.

«Non fraintendere, ma ho diversi conti in sospeso con il mio ex partner per questo non accetto la sua morte» rispose ostentando una facciata di tranquillità solo apparente. Fu nuovamente il turno di Baudelaire di sorridere;

«Non sai mentire»

«Non sto mentendo»

«Allora non sei credibile»

«Me ne farò una ragione. Alors mi vuoi dire come intendi far evadere quell’uomo da Meursault?»

«Mi sembrava di avertelo già detto, grazie alla mia Abilità»

«È che non capisco perché tu abbia bisogno di me. Sembri perfettamente in grado di cavartela da solo» il sorriso sul volto della spia si fece più tirato.

«Oh lo capirai non appena Carroll sarà con noi. Ho bisogno anche del tuo potere mon ami»

«Abbiamo solo un interesse comune, questo non fa di noi amici»

«Come sei freddo»

«Sono un mostro senz’anima»

Credo invece che tu sia molto umano

Pensò la spia prima di domandare il conto del Café. Stava per andarsene quando Verlaine riprese a parlare.

«Questo posto» fece una pausa «ha un qualche significato per te e Rimbaud?» Charles si limitò ad un’alzata di spalle.

«Ci venivo spesso insieme a lui» Verlaine strinse i pugni infastidito.

«Anche io»

Baudelaire gli regalò l’ennesima occhiata. Mai come in quel momento quel mostro gli aveva ricordato se stesso.

 


 

Rientrò nel proprio appartamento solo un’ora dopo. Aveva deciso di allungare il viaggio di ritorno passando per gli Champs-Élysées, pieni come sempre di vita e colori.

Non fu sorpreso di trovare Stendahl accomodato al tavolo del soggiorno. Aveva previsto uno scenario simile. Era stato lui anni prima ad affidargli le chiavi di quella casa, che fungeva da rifugio durante i propri soggiorni nella capitale.

«Così l’hai incontrato» Charles annuì abbassando lo sguardo.

Non serviva specificare il soggetto della conversazione. Era pronto a subire le conseguenze delle proprie azioni.

«Prima che tu possa dire qualsiasi cosa Henri…»

«Perché cazzo mi hai dovuto mandare quel messaggio? Vuoi avere tutta la sezione col fiato sul collo? Possibile che tu debba sempre essere così avventato!»

Baudelaire ci mise qualche secondo per capire a cosa il proprio superiore si riferisse.

«Sapevo che non mi avresti denunciato» concluse accennando ad un sorriso. Stendhal scosse il capo, prima di accendersi nervosamente una sigaretta.

«Aspetta non voglio avere la tua cenere in giro per tutta casa» raccolse in fretta un piattino e glielo pose in modo che potesse utilizzarlo come posacenere;

«Odio questo tuo vizio. Avresti anche potuto domandarmi prima il permesso» sbottò fingendosi infastidito;

«Non giocare al buon padrone di casa e non sviare dalla conversazione. Hai preso contatto con Black. Allora, cosa hai in mente?»

«Se te lo dicessi diventeresti mio complice e non posso permettere che il capo della sezione interrogatori venga accusato di tradimento»

«Sono preoccupato per te Charles»

«Sto bene. Ho un piano per farla pagare a Black e anche per riavere Paul»

«Quell’essere è pericoloso. Una mina vagante. Un paio di giorni fa ha ucciso degli agenti inglesi»

«Non ti sono mai piaciuti quelli della Torre dell’Orologio» Stendhal alzò gli occhi al cielo.

«È un arma. Un mostro privo di sentimenti. Non puoi fidarti di lui»

«Non intendo farlo»

«Senti, non ti chiederò i dettagli di questo piano ma voglio farti una domanda. Mettiamo il caso che tu riesca davvero a riportare indietro Rimbaud e ottenere la tua vendetta. E dopo?» Charles sorrise tristemente

«Credi che non lo abbia messo in conto? So che c’è la possibilità che Paul preferisca restare con lui. Per questo intendo eliminare la minaccia prima che un’ipotesi del genere possa verificarsi»

«Non penso tu abbia riflettuto abbastanza sulle conseguenze delle tue azioni. Black è al momento il dotato più forte presente in Europa. Non hai alcuna speranza di batterlo»

«Chi ha mai parlato di batterlo? Intendo imprigionarlo in modo che non possa più fare ritorno» fu il turno di Stendhal di alzare gli occhi al cielo.

«Charles stiamo veramente rasentando i limiti dell’assurdo. È una follia»

«Non posso accettare la morte di Paul. Non chiedermi di farlo Herni. Ho pianto dieci anni su una tomba vuota, non voglio rivivere un tale dolore. Non credo di poterlo affrontare di nuovo»

«Sei innamorato di un fantasma Charles. Il Paul che conoscevi non esiste più. Ti stai aggrappando ad un ricordo. Un qualcosa che forse non è mai esistito»

«Questo non puoi saperlo. Nessuno lo conosceva davvero. Nessuno sapeva davvero chi fosse Paul Verlaine. Nemmeno quella bestia. Sai gli ha persino donato il suo nome» Stendhal spense la sigaretta prima di alzare lo sguardo per incontrare quello del proprio sottoposto inondato di lacrime. Anche nella penombra della stanza il blu di quegli occhi gli ricordava il cielo. Era uno sguardo troppo limpido per appartenere ad una spia.

«Ho letto il rapporto» ammise. Stendhal sapeva ogni cosa sul conto di Rimbaud. Aveva sfruttato la propria posizione per tenerlo d’occhio e di riflesso controllare i possibili colpi di testa di Baudelaire. Non era sorpreso della scelta del nome, come del legame che sembrava essersi creato tra quella creatura e il trascendentale. Charles lo riportò alla realtà scrollandolo dai suoi stessi pensieri.

«Si muoveva come lui. Come Paul. Aveva la stessa aria di superiorità, la stessa intelligenza. Teneva pure i capelli acconciati con una coda bassa. Esattamente come lui»

«Charles perché stai facendo tutto questo?» non fece nulla per nascondere il fastidio che provava e che andava aumentando ad ogni frase.

«Forse perché mi sento in colpa per come sono andate le cose. Se io e Paul non ci fossimo mai incontrati...» prima che potesse continuare Stendhal si alzò di scatto dalla propria sedia afferrandolo per le spalle, tirandoselo addosso. Entrambi non erano avvezzi ad atteggiamenti simili.

«Tu non hai nessuna colpa. Nessuno poteva prevedere un epilogo simile. Se proprio vogliamo trovare un colpevole può essere solo quel mostro che lo ha tradito» ancora tra le sue braccia Baudelaire smise finalmente di tremare;

«Hai ragione è tutta colpa sua. Mi ha portato via Paul» Stendhal lo strinse più forte. Odiava quel sentimento che ancora legava Charles a Rimbaud. Allo stesso tempo odiava se stesso per aver scelto di essere lì, al fianco di quel testardo ragazzino. Per quanto ci avesse provato non era riuscito a fingere che quella situazione non gli importasse. Baudelaire stava rischiando la propria vita. Mettersi contro i Poètes poteva rivelarsi pericoloso.

«Ora, non appena ti sarai calmato mi spiegherai per filo e per segno il tuo piano. Ormai sono diventato a tutti gli effetti tuo complice. Sto solo cercando di limitare i danni e impedirti di andare incontro ad un suicidio annunciato» malgrado tutto Charles accennò ad un sorriso grato.

Restò ancora qualche minuto tra le braccia del proprio superiore prima di separarsi ed iniziare a spiegare con calma;

«Lewis Carroll»

Stendhal incrociò nuovamente quegli occhi blu che gli avevano cambiato la vita. Stava iniziando a grandi linee a comprendere il piano di Charles. Era bastato un semplice nome per chiarire parte dei suoi dubbi.

«Hai pensato a cosa fare in caso Black perda il controllo e liberi la bestia nascosta dentro di lui?» voleva accertarsi che Baudelaire avesse preso in considerazione ogni rischio.

«Ho preparato un paio di contromisure. Non sottovalutarmi Henri, tempo fa l’avevi ammesso anche tu, sono alla stregua di un Trascendentale» l’uomo sorrise.

Baudelaire non era più il ragazzino che aveva raccolto in un piccolo appartamento della capitale francese. I sentimenti che provava verso Rimabaud però erano rimasti gli stessi. Era per quell’uomo che Charles stava combattendo e rischiando la vita. Stendhal fu il primo a sorprendersi per il proprio comportamento;

«Ti coprirò per quanto possibile» concluse dopo qualche minuto. Gli occhi di Baudelaire erano ancora fissi sui suoi.

«Non devi sentirti obbligato a farlo. Mi sembra di avertelo detto che non voglio coinvolgerti»

«Smettila di fare il ragazzino e accetta i consigli e l’aiuto di un adulto»

«Henri non so cosa dire» mormorò asciugandosi il volto con la manica della camicia. Stendhal sorrise rivedendo finalmente il ragazzino ingenuo di tanti anni prima. Charles non era cambiato.

«Potresti finalmente iniziare a chiamarmi Herny»

«Non ti darò mai questa soddisfazione»

Henry Stendhal era un vero masochista. Aveva deciso che sarebbe rimasto a fianco del proprio sottosto e lo avrebbe aiutato con quel folle piano. Quello che il giovane Baudelaire non poteva ancora sapere era che i morti non possono tornare. Nessuno può cambiare il corso del destino. Nemmeno le Abilità possono farlo.

Ogni azione comporta delle conseguenze e c’è sempre un prezzo da pagare. Stendhal decise di tenere per sé quell’informazione. Non era ancora il momento di infrangere i sogni di Baudelaire.

Una spia non deve provare sentimenti, avere alcun tipo di legame.

Arrivato alla soglia dei quarant’anni Henry Stendhal capì il perché di una simile regola. Lo comprese mentre lasciava l’abitazione di Charles e l’unica cosa alla quale riusciva a pensare erano quei dannati occhi blu pieni di lacrime.






 



 

*«E pensiamo a me. Tutto ciò non mi fa rimpiangere il mondo. Sono fortunato a non soffrire di più. La mia vita non fu che una dolce follia, è deplorevole.»

 

 

Note Autrice: questo sarà ultimo capitolo per un po’, mi prendo un mese di pausa e tornerò a pubblicare a novembre (sempre se ci arrivo viva). Questo perché, per chi non lo sapesse, tra un paio di giorni inizia il Writober ed preferisco dedicarmi solo a quello (già sono in ansia e sto ansiolizzando l’universo intorno a me). Ora, parlando della storia, finalmente è comparso anche Stendhal e si inizia un po' a capire che cavolo sta succedendo. Piano piano scopriremo anche cosa ha veramente in mente Baudelaire. Ringrazio chi ha messo la storia nelle seguite/preferite, tra qualche capitolo arriveranno anche personaggi più conosciuti di Bungou (fisso Chuuya) abbiate pazienza ^_^

Mi trovate su IG sempre come @europa91_
 

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Capitolo 4
*** IV Stagione - Délires ***


IV Stagione - Délires








 

«Ah! Je souffre, je crie. Je souffre vraiment. Tout pourtant m’est permis, changée du mépris des plus méprisables cœur.»*


 

Une Saison en Enfer – Délires








 

Francia


 

- poco fuori dal confine parigino -




 

L’alba sarebbe sorta solo di lì a qualche ora e Paul Verlaine non aveva chiuso occhio. Non che avesse mai dormito molto o sentito la necessità. Quello era solo uno dei tanti vantaggi di essere un’anima artificiale. Cullato dalla quiete e dal silenzio che solo la notte poteva regalare, era rimasto solo con i propri pensieri e quella era una sorte peggiore di qualsiasi incubo.

La sua realtà si era completamente trasformata nell’istante in cui la notizia della morte di Rimbaud lo aveva raggiunto. Da quando si erano separati, le giornate sembravano tutte uguali, monotone e intrise una strana malinconia. Londra era diventata ancora più grigia e inospitale. Il clima si era fatto più freddo e anche i suoi incarichi come assassino gli apparivano all'improvviso noiosi.

Tornare in Francia era stato come ricevere la ventata d’aria fresca di cui aveva bisogno. Parigi era il solo luogo al mondo che avesse mai considerato “casa”. A quella città erano legati i suoi ricordi più cari, tutti collegati al proprio partner.

Verlaine si era sempre mostrato insensibile a tutto ciò che lo circondava ma non lo riguardava direttamente. La curiosità iniziale provata per quel mondo a lui sconosciuto, era stata colmata dalla presenza e vicinanza di Arthur.

Doveva a quell'uomo ogni cosa. Era stato per anni il suo punto di riferimento. Il Fauno poteva anche averlo creato, ma era stato Rimbaud a plasmarlo. A renderlo ciò che era.

«Come siamo mattinieri»

La voce di Baudelaire lo raggiunse, facendo incurvare le sue labbra perfette in una smorfia. Contrariamente a lui la spia sorrideva, anzi, sembrava quasi trarre un certo divertimento dall’avere interrotto le sue fantasie. Il Re degli Assassini avrebbe tanto desiderato ucciderlo ma sapeva di non poterlo fare. Non ancora. Ripensò alle pagine del taccuino di Arthur e al numero di volte che il nome di Charles Baudelaire vi compariva. Troppe per i suoi gusti. Cercò di ignorare l’ormai familiare sensazione di gelosia alla bocca dello stomaco. Baudelaire era una stagione ormai passata e tale sarebbe rimasta.

«I mostri non dormono mai» rispose tranquillamente, sfoggiando la sua migliore maschera inespressiva.

A quelle parole Baudelaire storse il naso. L’antipatia era reciproca e palese, ma avevano un obiettivo comune. Per quanto odiassero farlo, sapevano entrambi di dover collaborare.

«Allora dove stiamo andando?» domandò Verlaine distrattamente. Si era limitato a seguire la spia ritrovandosi a passeggiare lungo le rive della Senna. Charles gli aveva indicato una piccola imbarcazione;

«A Meursault. Il piano prevedeva l’evasione di Carroll, ricordi?»

«Già, per quello te l’ho chiesto. A cosa ci serve una barca?» Baudelaire gli sorrise prima di iniziare a spiegare.

«Meursault è un carcere di massima sicurezza per individui dotati di Abilità Speciali, in pochi ne conoscono l’esatta ubicazione ma grazie al mio potere sono riuscito ad avere tutte le informazioni necessarie» fu il turno del biondo di accennare ad un sorriso di scherno, mentre l’altro prendeva posto sull’imbarcazione.

«Se non le conoscevi già vuol dire che eri davvero una spia di infimo livello» ogni volta che quel mostro apriva bocca, Baudelaire desiderava solo prenderlo a schiaffi. Il biondo era irritante, altezzoso, per non parlare di quei modi di fare troppo simili a quelli del suo Paul.

«La struttura si raggiunge anche via mare, noi passeremo molto probabilmente dal condotto fognario ma in ogni caso questa barca ci servirà» si limitò a rispondere prima di iniziare ad accennare al proprio piano.

In realtà, era stato solo grazie all’aiuto di Stendhal se aveva ottenuto una pianta completa dell’edificio. La prima strategia di Charles consisteva nello sfruttare il potere di Verlaine per entrare dall’ingresso principale ma era stato il proprio superiore a convincerlo a desistere, fornendogli le informazioni di cui aveva bisogno per evitare un assalto suicida.

«Devo ancora capire quali siano le tue vere intenzioni» mormorò il biondo prima di raggiungerlo sull’imbarcazione. Il sorriso che non aveva lasciato per un istante il volto della spia si allargò;

«Desidero solo rimediare ai nostri errori» concluse.

Baudelaire avvertì un brivido quando le iridi di ghiaccio dell’assassino si posarono su di lui. Tuttavia sostenne il peso di quello sguardo.

Sapeva a cosa andava incontro quando aveva deciso di contattare Black. A coglierlo di sorpresa erano solo state le similitudini con Rimbaud, atteggiamenti o espressioni che inavvertitamente gli avevano ricordato il suo primo, perduto, amore.

Quel Verlaine era tutto ciò che rimaneva del proprio amico e lui non riusciva ad accettarlo.

«Hai ragione ho commesso degli errori, ma anche Rimbaud. Non era perfetto come credi» Charles si astenne dal replicare. Odiava quell'essere e il modo in cui parlava del suo Paul. Come se lo conoscesse meglio di lui. Prese un lungo respiro.

«Senti, così non può continuare. Stabiliamo una tregua almeno fino alla liberazione di Carroll» doveva farlo o sentiva che sarebbe impazzito. Contro ogni previsione, Verlaine si trovò ad annuire.

«Ora però pretendo di conoscere tutti i dettagli del tuo piano»




 

***




 

- Il giorno dopo -




 

Le prime luci dell’alba accolsero tre uomini mentre raggiungevano un edificio abbandonato, che secondo Baudelaire sarebbe stato un perfetto nascondiglio.

«È una vecchia base che utilizzavano i Poètes durante la guerra. Lì non ci troverà nessuno» aveva spiegato prima di condurli verso l’abitazione.

Quella notte era letteralmente successo di tutto. Verlaine aveva trovato delle falle nel piano d’evasione proposto dalla spia e aveva finito con l’agire di testa propria gettando nel caos l’intera struttura. Era un miracolo che ne fossero usciti vivi e nessuno li avesse catturati. Ma per quello dovevano solo ringraziare l’Abilità del biondo.

Charles non aveva ancora assistito alla manifestazione del potere di Verlaine e ne era rimasto sconvolto. I verbali che aveva letto non rendevano affatto giustizia alla distruzione portata da quel mostro. Era una vera e propria bestia.

Quello però non era che l’inizio.


 

«Quello che mi chiedi è impossibile. Non puoi salvarlo»

Le parole pronunciate da Lewis Carroll furono come una doccia fredda per i due uomini che lo avevano salvato. Nemmeno una frazione di secondo dopo, Verlaine era scattato, allungando entrambe le braccia con il chiaro intento di soffocare l’ex prigioniero e successivamente anche il proprio complice.

Il Re degli Assassini aveva odiato Baudelaire sin dal loro primo incontro, ma si era sempre sforzato di fare buon viso a cattivo gioco. Dopotutto quel bastardo sembrava intenzionato ad aiutarlo a riavere Rimbaud e questo era l’unico motivo che lo aveva mantenuto in vita fino a quel momento.

Ora però si era stancato. Tanto da non aver seguito il piano. Aveva preferito agire di testa propria liberando a modo suo Carroll, l’uomo che secondo Baudelaire, era il solo con un’Abilità tale da potergli ridare Rimbaud.

«Non ti ho mentito» furono le uniche parole che lasciarono le labbra di Charles «Carroll può riportarti da Arthur»

Quella fu la prima volta in cui udì la spia fare intenzionalmente il nome di Rimbaud. Sin dal loro primo incontro Baudelaire aveva sempre chiamato il suo partner Paul. Quel bastardo sapeva fin troppo bene quali tasti toccare, infatti bastarono quelle parole per calmare la rabbia di Verlaine. Il desiderio di riavere nuovamente il compagno nella propria vita era più forte di qualsiasi altro sentimento. Aveva odiato profondamente Rimbaud ma l’idea di averlo perso gli era ancora più insopportabile. Il biondo si prese il volto tra le mani allontanandosi per qualche minuto. Doveva mettere ordine tra i propri pensieri, che mai gli erano sembrati tanto confusi.

Baudelaire lo lasciò fare, preoccupandosi piuttosto dell’incolumità del prigioniero. Carroll era ancora abbastanza scosso per l’aggressione, così gli offrì una delle sigarette di Stendhal. Ne teneva sempre un pacchetto con sé, per ogni evenienza.

«Si può sapere cosa ha che non va il tuo amico?» gli domandò l’inglese accettando timidamente il regalo. Charles alzò gli occhi al cielo.

«È una persona complicata, penso non sappia cosa siano le buone maniere» non avrebbe saputo che altro dire, ai suoi occhi Verlaine anzi Black, rimaneva solo un mostro dall’aspetto umano. Anche se lo scatto d’ira di qualche istante prima lo aveva preoccupato.

Si prese qualche minuto per osservare la longilinea figura a qualche metro da loro. Quel essere possedeva un’Abilità spaventosa e Rimbaud era stato l’unico a saperlo controllare. Finalmente Charles Baudelaire aveva compreso a cosa fosse dovuta l’apprensione di Stendhal e dei propri superiori. L’Europa intera temeva il Re degli Assassini. Il biondo era sì imprevedibile ma anche manovrabile, non dubitava del fatto che Rimbaud avesse saputo quali tasti toccare per domare una simile bestia.

Accanto a lui, Carroll sembrava ancora scosso per l’improvvisa aggressione ma anche lieto di assaporare la ritrovata libertà. Fumò avidamente la sigaretta mentre osservava il sole fare capolino da dietro l’orizzonte. Rimasero in silenzio per qualche minuto, fino a quando il biondo non si decise a tornare verso di loro.

«Sorry» fu tutto ciò che disse chinando il capo. Aveva un accento terribile che fece sorridere entrambi ma contribuì a sciogliere la tensione.

Verlaine aveva capito di essere nel torto. Sapeva che non avrebbe risolto nulla sfogando la propria rabbia.

Si era ricordato anche di come Arthur fosse solito rimproverarlo per questo suo comportamento.


 

«Dovresti imparare ad essere più collaborativo» a quelle parole aveva alzato un sopracciglio confuso;

«Collaborativo? Ti ricordo che io non sono umano. Non vedo a cosa mi possa servire»

Il sorriso di Arthur in quel momento era intriso di una strana malinconia. Lo ricordava nitidamente. Era un’espressione che Verlaine aveva imparato a conoscere a memoria, e che il moro era solito riservare solo a lui;

«Non si tratta della tua umanità. Non devi ridurre tutto sempre a questo. Un giorno ti troverai di fronte a delle situazioni in cui avrai bisogno dell’aiuto di qualcuno. Devi imparare a fidarti del tuo prossimo Paul. Sai, a volte le persone possono sorprenderti»

«Io mi fido di te. Siamo compagni» aveva risposto cercando il suo sguardo. Rimbaud non aveva smesso di sorridere e lui lo aveva odiato,

«Ma io non sarò per sempre al tuo fianco»

Ripensare ora a quelle parole faceva male. Era come se Arthur avesse sempre saputo a quale sorte sarebbero andati incontro. Come se non ci fosse mai stato nessun futuro in serbo per loro. Aveva odiato profondamente quel lato di Rimbaud, il suo essere ligio al dovere dove lo aveva condotto? A morire in un Paese straniero senza ricordi del proprio passato. O forse, banalmente, Verlaine odiava solo se stesso per non essere riuscito ad impedirlo.

La risata di Baudelaire lo costrinse a voltarsi. Quella era una delle altre cose che non sopportava.

Il Poète lo superò con un sorriso prima di iniziare a dialogare con Carroll facendo sfoggio di un inglese perfetto. Il biondo cercò per quanto possibile di ignorare quelle chiacchiere, come di soffocare il proprio istinto omicida che la sola vicinanza alla spia gli provocava.

Anche Rimbaud era portato per le lingue avendole studiate sin da bambino. Tutto ciò che Paul aveva appreso lo doveva a lui. Gli tornarono alla mente i ricordi della Guerra, alcune missioni in Germania o Inghilterra per non parlare dell’incidente in Giappone. Furono le parole di Carroll questa volta a riportarlo con la mente al presente. Rifugiarsi in quei ricordi era ormai diventata un’abitudine;

«La mia Ability non mi permette di riportare in vita i morti. Per quello che ne so, niente può farlo» aveva spiegato l’uomo alzando le braccia e fissando entrambi. Verlaine aveva stretto i pugni cercando di fare il possibile per contenere la propria ira. Baudelaire fu il primo a parlare, avvicinandosi al prigioniero e mettendogli una mano sulla spalla;

«Oh questo lo so benissimo Lewis ma puoi sempre aggirare il problema, giusto?»

«Spiegati meglio» gli intimò l’ex spia cercando di capire a cosa si stesse riferendo.

Charles sorrise divertito. Ormai aveva Verlaine in pugno, la possibilità di riportare indietro il compagno lo aveva reso debole, umano, e lui non si sarebbe lasciato sfuggire una simile occasione. Come aveva accennato ad Henry, avrebbe consegnato il famoso assassino al Governo, ma solo dopo aver ottenuto la propria vendetta. Quella bestia prima doveva pagare per ciò che aveva fatto. Aveva tradito Paul e lo aveva costretto ad una vita al di sotto delle sue capacità. Abbandonandolo in Giappone era come se avesse lui stesso firmato la sua condanna.

L’intenzione ultima di Baudelaire sarebbe però stata quella di barattare la vita di quel mostro con una pagina del Libro.

Dopo la guerra, ciascuna nazione europea ne era entrata in possesso. Era stato una sorta di deterrente per il mantenimento della pace. Il Libro era la sola cosa al mondo con un potere tale da riportare in vita i morti. Charles sapeva come quello fosse l’unico modo per riavere Arthur nella propria vita. Se avesse ottenuto una pagina tra le mani non solo avrebbe riavuto il proprio amico d’infanzia ma avrebbe riscritto la realtà in modo che la loro storia potesse andare diversamente. Avrebbe creato un nuovo epilogo. Era un piano perfetto, avrebbe scambiato quel mostro con la propria libertà.

Charles Baudelaire era diventato suo malgrado un Poète Maudit, una spia, e ora stava solo facendo ciò che gli avevano insegnato, ingannare il prossimo e utilizzarlo per raggiungere i propri obiettivi. La morte di Arthur Rimbaud aveva scosso più di una esistenza e Charles stava semplicemente cercando un modo per sopravvivere a quel dolore. Ne aveva abbastanza.

Per lui, Paul Verlaine sarebbe sempre rimasto quel ragazzino delle Ardenne che sognava un radioso futuro nella capitale. Non l’assassino etereo privo di anima che aveva davanti agli occhi e al quale era stato proprio l’amico a dare un nome.

«L’Abilità di Carroll si chiama Wonderland. Grazie a questa può realizzare qualsiasi fantasia, creando una sorta di realtà fittizia» iniziò a spiegare. Verlaine come sempre storse il naso con supponenza;

«E quanto durerebbe l’effetto di questa Abilità?» domandò sempre più scettico.

Questa volta, fu direttamente Lewis a rispondere;

«Posso impostare la durata a mio piacimento. Ho ancora parecchia gente a Londra abbandonata nelle proprie fantasie. Uno spettacolo meraviglioso» ammise divertito;

«Hai un potere pericoloso» l’inglese alzò le spalle con noncuranza;

«Un tempo lavoravo per la Torre dell’Orologio. So che hai ucciso un paio di miei ex colleghi. Tranquillo non sono tipo da portare rancore. Quegli idioti credevano che questa Abilità mi avesse dato alla testa e che vivessi io stesso in una delle mie fantasie, solo perché avevo proposto durante il tè delle cinque di tagliare la testa alla regina» Verlaine osservò Baudelaire che gli fece segno di tacere.

«L’Inghilterra non ha bisogno di un sovrano. Tutto qui. Ho tentato un regicidio e mi hanno fermato. È stata quella dannata donna. Se mai un giorno tornerò a Londra sarà per avere la sua di testa»

«Agatha Christie» spiegò Baudelaire. Non che ve ne fosse bisogno, Verlaine conosceva bene la fama dell’unica donna ai vertici dell’Organizzazione inglese, quanto della sua pericolosità. Non si era mai scontrato direttamente con lei, ma qualcosa gli suggeriva come fosse meglio evitare qualsiasi coinvolgimento. Rimbaud l’aveva conosciuta e aveva sempre speso parole di rispetto nei suoi confronti.

«Quindi» iniziò il biondo dopo qualche secondo speso in silenzio «Potresti condurmi in un mondo dove Arthur sia ancora vivo?» l’uomo annuì sorridendo;

«Posso creare il tuo mondo ideale sì»

C’era qualcosa che però ancora non convinceva l’ex spia francese;

«Come potrei fare ritorno alla realtà? Nel caso qualcosa vada storto» Fu il turno di Baudelaire di storcere il naso. Non sarebbe stato facile sbarazzarsi di quel dannato mostro. Lewis però non sembrò preoccuparsi di nulla. Probabilmente non si rendeva nemmeno conto di quanto la sua stessa vita potesse essere in pericolo in quel momento.

«Per rompere l’incanto basta che ti svegli» spiegò semplicemente;

«La mia Abilità ti farà cadere in un sonno profondo. Quando vorrai tornare in questo mondo basterà solo che tu apra gli occhi»

«Non è facile uscire dai propri sogni» ammise Verlaine. Lewis sorrise come un predatore intento ad osservare la propria vittima prima di passare all’attacco. Al biondo quell’atteggiamento non piacque per nulla, era un’espressione che conosceva fin troppo bene.

«Finire in una realtà dove anche il più assurdo desiderio possa essere realizzato e voler andarsene. Non è mai successo. Gli esseri umani vogliono scappare da questo mondo, ed è ciò che mi limito ad offrire loro, una via di fuga. Un posto sicuro nel quale rifugiarsi. Chi mai vorrebbe continuare a vivere nella sofferenza, nel dolore, quando posso regalare loro dei bellissimi sogni»

Verlaine era combattuto. Aveva la possibilità di riavere Arthur. Anche se si trattava di un semplice sogno avrebbe potuto rivedere il compagno, scusarsi con lui. Riprendere da dove si erano interrotti.

«Attento a ciò che desideri» furono le successive parole di Carroll che lo strapparono nuovamente dai propri pensieri;

«Gli uomini spesso finiscono con il diventare schiavi dei propri desideri» fu il turno di Verlaine di sorridere;

«Io non sono un essere umano»

Baudelaire trasalì. A volte si dimenticava della bestia che aveva davanti agli occhi.

Come aveva potuto un simile mostro arrivare a possedere il cuore di Arthur?


 

***


 

C’erano state delle volte in cui gli era capitato di sognare. All’inizio era stata una sensazione strana, Verlaine non sapeva nemmeno di essere in grado di fare una cosa simile. Ricordava di essersi svegliato nel cuore della notte ed aver urlato, spaventando il compagno che dormiva nella stanza a fianco, che si era subito precipitato in suo aiuto.

«Hai semplicemente fatto un brutto sogno Paul» Era stata la semplice spiegazione di Arthur mentre con una mano gli massaggiava la schiena cercando di calmarlo;

«Un incubo» il biondo lo aveva guardato spaesato per una frazione di secondo interrogandosi sul significato di quelle parole. Lui era un’anima artificiale, come poteva sognare? Era una cosa propria degli esseri umani.

Arthur gli aveva sorriso, come sempre, e lo aveva guardato come un genitore fa con il proprio figlio. Aveva odiato così tanto questo suo atteggiamento, eppure, ora gli mancava. Dopo aver provato sulla propria pelle la sensazione data dalla perdita di una persona cara, aveva dovuto rivedere molte delle proprie convinzioni. Quanto avrebbe desiderato in quei giorni avere la presenza del moro accanto. Rivedere quello sguardo paziente, sentire le sue parole, i suoi incoraggiamenti, ma anche i rimproveri e le critiche.

I mostri non sognano. Non hanno incubi.

Non sapeva se fossero i suoi pensieri o il risultato dato dal codice scritto nella propria coscienza a parlare.

Dopo la morte di Rimbaud però questi episodi erano aumentati. Per questo l’Abilità di Carroll non gli piaceva. Una parte di Verlaine sospettava che il proprio subconscio avrebbe finito con il tramutare anche quel mondo ideale in un incubo.

Ma esattamente, quale sarebbe stato il suo mondo ideale? Ovviamente uno nel quale Arthur sopravviveva, ma a quale prezzo? Non era importante, avrebbe sacrificato ogni cosa per riavere il proprio compagno.




 

***




 

Paris est toujours Paris

La capitale francese era bellissima in qualsiasi periodo dell’anno e stagione. Verlaine ricordava come ad Arthur piacesse in particolare la primavera. Il compagno non aveva mai amato il gelo e il grigiore che caratterizzavano le giornate invernali. Paul non avrebbe saputo dire quale fosse la propria stagione preferita. Ogni mese portava in sé grandi e piccoli cambiamenti che gli facevano apprezzare questo o quel dettaglio della città.

Aver passato i primi anni della propria esistenza in un laboratorio gli aveva permesso di ammirare e amare ogni più piccolo dettaglio della vita all’aria aperta. Dal semplice passeggiare per gli Champs Élysées, al sorseggiare un bicchiere di vino in uno dei numerosi Café della capitale.

Aveva scoperto quel mondo grazie ad Arthur, era stato lui a mostrarglielo. Rimbaud aveva tentato con tutte le sue forze di renderlo umano, di fargli apprezzare quell’esistenza che Paul non credeva di meritare.

C’era il sole quella mattina. L’aria era primaverile. I primi fiori avevano iniziato a sbocciare colorando la collina di Montmartre. Gli artisti erano tornati a popolare le strade regalando ai turisti lo spettacolo dei propri disegni.

Parigi era il cuore della Francia e Paul Verlaine ne era assolutamente d’accordo.

Non ricordava perché stesse camminando per le vie della capitale, probabilmente aveva un appuntamento con Arthur. Dovevano vedersi e parlare dell’ennesimo incarico che i loro superiori gli avrebbero affidato.

Prese posto ad uno dei tavoli del solito Cafè. In quei mesi era diventato un cliente abituale tanto che persino i camerieri si ricordavano di lui. Aveva ricevuto pure un tovagliolo profumato con un numero di cellulare. Ricordava di come Arthur gli avesse sorriso, mentre gli spiegava di come quello fosse un modo della cameriera per provarci con lui.

«Io non sono umano. Perché dovrei piacerle?»

Rimbaud aveva scosso la testa prima di regalargli l’ennesima occhiata comprensiva; un leggero velo di malinconia ad attraversagli lo sguardo.

«Perché sei bellissimo» poi aveva chinato il capo, «Il Fauno ti ha reso un bellissimo demone tentatore» fece una pausa prima di aggiungere «Per gli standard umani sei molto attraente»

«Anche tu» aveva risposto e il moro si era quasi strozzato con il vino;

«Paul» aveva iniziato con il solito tono pacato «Non sei ancora in grado di capire queste cose» e lui come sempre lo aveva odiato.

Aveva sempre trovato Arthur bello o comunque diverso dal resto degli umani con i quali aveva avuto a che fare da quando era stato liberato. Perché il compagno non lo capiva? Era inutile, per quanto Rimbaud avesse cercato di occuparsi di lui non avrebbe mai compreso la solitudine che si celava all’interno del suo animo.

Arthur era un essere umano, lui no. Quella realtà non sarebbe mai cambiata.

Nel frattempo era arrivato al Cafè. Per quanto cercasse di combattere contro i suoi stessi pensieri ogni cosa lo portava con la mente a Rimbaud. Attese un paio di minuti prima di riconoscere la sua figura comparire all’orizzonte. Il suo partner era sempre stato un tipo puntuale.

La spia non disse nulla accomodandosi nel tavolo accanto ed ordinando a sua volta del vino;

«Allora come è andata la riunione?» aveva domandato. Rimbaud si era levato sciarpa e cappotto, per poi massaggiarsi stancamente le tempie;

«L’Europa è sull’orlo di una guerra» aveva ammesso, incrociando le braccia al petto e osservando il bicchiere davanti a lui.

«Quale sarà il nostro compito?»

«Servire il Paese» a quella risposta, Paul aveva arricciato il naso;

«Io sono un’arma creata per situazioni come questa. Dimmi cosa mi chiedono di fare»

«Non dovrai fare nulla. Non possono permettersi che un dotato potente come te scenda sul campo di battaglia»

«Mi state proteggendo o forse dovrei dire nascondendo?» chiese stizzito. Rimbaud gli rifilò un’occhiata stanca ma eloquente.

«Entrambi. Qualcuno ti aveva proposto per la prima linea ma mi sono fermamente opposto. Siamo spie, agiamo nell’ombra. Combattere è compito dei soldati»

«Hai paura che non sappia controllare la bestia dentro di me?»

Arthur aveva osservato a lungo la figura del proprio partner prima di rispondere. Aveva un profilo perfetto, nonostante il volto leggermente imbronciato. Per lui, quell’essere non era mai stato un mostro. L’unica cosa che avesse mai trovato inquietante era la sua assoluta perfezione.

«Ho la massima fiducia in te Paul. Sono i miei superiori a preoccuparmi. Per non parlare del fatto che non sappiamo ancora il numero delle nazioni coinvolte in un possibile scontro»

«Possiamo vincere?» Arthur aveva scosso la testa;

«Dopo questa guerra niente sarà più come prima»

«Che altro c’è?» Perché Verlaine lo sapeva, non poteva trattarsi solo quello, l’espressione sul viso di Rimbaud parlava per lui. Gli stava nascondendo qualcosa e Paul era diventato troppo abile nel smascherarlo.

«Parto domani mattina per la Germania» il biondo non comprese subito il significato di quelle parole. Fissò l’uomo davanti a lui bere l’ennesimo sorso di vino.

«Io» iniziò a dire ma venne subito fermato dal proprio partner,

«Tu devi restare qui. Parigi è ancora una città sicura»

«Come puoi andare in guerra e lasciarmi qui?»

«Da quando ho bisogno del tuo permesso per fare qualcosa? È una missione, Paul non fare il bambino. Siamo uomini dell’intelligence, eseguiamo gli ordini che ci vengono dati che ci piaccia o meno»

«Come quando hai rinunciato al tuo nome o a Charles?» era un colpo basso ma le parole di Arthur lo avevano ferito. Quello era il solo modo che conosceva per vendicarsi.

Rimbaud non si scompose, rimanendo in silenzio. Verlaine però non aveva nessuna intenzione di arrendersi. Avevano la stessa testardaggine.

«Portami con te. Sono una tua responsabilità»

«Hai un incarico da svolgere» gli fece notare, allungando un braccio per sistemargli meglio una ciocca ribelle di capelli intorno all’orecchio.

Verlaine si scostò da quel tocco infastidito. Era inutile, Arthur non poteva comprenderlo. Nessuno avrebbe mai potuto. Era solo al mondo.

Finirono di consumare le proprie bevande in silenzio e lasciarono il Café.

Rimbaud partì la mattina seguente per Berlino. Verlaine rimase nella capitale francese.

Inaspettatamente la guerra giunse anche a Parigi. Della città che Paul tanto aveva amato ora restava solo un pallido ricordo. Era come se la capitale fosse stata privata della propria forza e calore.

Erano mesi che Verlaine non riceveva notizie da parte di Rimbaud. Non sapeva nemmeno se fosse ancora vivo. Una parte del suo animo si rifiutava fermamente di credere il contrario. Era una spia in gamba, l’uomo che gli aveva insegnato tutto ciò che sapeva. Era impensabile che fosse morto così, su un anonimo campo di battaglia. Arthur Rimbaud era il migliore.


 

Si rividero nel bel mezzo dell’ennesimo bombardamento, come se si fosse trattato di una scena di un film. Arthur stava cercando di utilizzare la propria Abilità per mettere al riparo dei civili. Verlaine occupato a fare altrettanto aveva notato in lontananza dei raggi rossi. Li avrebbe riconosciuti fra mille, come il loro possessore.

Rimbaud era esattamente come ricordava, i capelli corvini sempre più lunghi e mossi da una leggera brezza, l’immancabile cappotto sulle spalle. Gli era mancato. Fra tutti gli esseri umani che Paul avrebbe volentieri ucciso ne avrebbe salvato solo uno ed era l’uomo a qualche metro da lui.

Al momento non seppe che fare. Troppe emozioni si stavano agitando nel suo animo.

«Invece di startene lì impalato potresti anche aiutarmi» il biondo aveva sorriso per poi fare quanto detto, rianimandosi da quel torpore che la visione di Arthur gli aveva causato.

Finalmente erano di nuovo insieme. Parigi sarebbe anche potuta bruciare che non gli sarebbe importato.

«Perché sei tornato? Anzi quando?» gli chiese non appena furono soli e al riparo. Aveva bisogno di risposte, doveva mettere a tacere quel turbinio di emozioni che lo stavano portando sull’orlo della pazzia.

«Da un paio di giorni» ammise Arthur pulendosi la camicia dalla polvere che ormai la ricopriva, dopo essersi sfilato il cappotto.

«Perché non hai risposto ai miei messaggi?»

«Siamo in guerra, potevano trovarmi. Non ti ho insegnato nulla?» Verlaine però non voleva sentire ragioni. Era arrabbiato. Non era il momento di essere ragionevoli.

«Pensavo fossi morto» confessò.

«Credi che basti così poco ad uccidermi? Mi ferisci» e gli accarezzò il capo; l’altro non si scostò preferendo rimanere in silenzio e godendosi quel tocco gentile.

«Ti sono cresciuti i capelli» gli fece notare Rimbaud, passandosi quei fili biondi tra le dita;

«Non ho avuto modo di tagliarli» rispose cercando di evitare il suo sguardo.

Arthur era tornato. Era vivo. Tutto il resto non aveva alcuna importanza.

«Ti stanno bene» aggiunse la spia, prima di iniziare a intrecciare tra loro quelle ciocche dorate.

«Che stai facendo?»

«Zitto e vieni più vicino» Il biondo fece come detto.

«Voilà» disse poco dopo Arthur portando il proprio partner davanti ad uno specchio perché ammirasse il risultato del proprio operato. Gli aveva semplicemente spostato i capelli dal volto acconciandoli in una treccia che ricadeva di lato, legando il tutto in una coda bassa.

«Così quando combatti non avrai nulla davanti agli occhi» rispose mettendogli entrambe le mani sulle spalle. Paul stava per dire qualcosa quando l’ennesima esplosione spezzò quell’idillo.

La scena cambiò nuovamente prima che Verlaine potesse rendersene conto.

Di colpo era calata la notte o era l’ambiente intorno a lui ad essere privo di qualsiasi forma di luce. Paul mosse una mano a tentoni cercando di capire dove fosse e cosa stesse accadendo. Era forse finito in una trappola del nemico? Lo avevano drogato? Non se lo ricordava. Sentiva che c’era qualcosa di sbagliato ma non riusciva a comprendere cosa. Dove era finito Arthur?

«Così questo è il famoso Black No. 12» una voce sconosciuta lo aveva obbligato ad alzare il capo. Non conosceva l’uomo davanti a lui, aveva il viso semi nascosto da quell’oscurità che permaneva attorno a loro. Possedeva un accento difficile da collocare.

«Ho un’offerta da proporti» il biondo non aveva fiatato, rimanendo in attesa della prossima mossa;

L’uomo misterioso schioccò le dita prima di mostragli il corpo di Arthur trapassato da molti fori di proiettile.

Non era possibile. Doveva trattarsi di un’illusione.

«È ancora vivo» confermò l’uomo come se avesse letto nei suoi pensieri; Paul provò a fare un passo in avanti.

«Non così in fretta. Abbiamo bisogno di una cosa da te, Black. Il tuo codice. Vogliamo sapere come replicare la bestia del Fauno. Purtroppo i suoi appunti sono andati perduti. Gira voce che siano finiti da qualche parte in Asia, forse Cina o Giappone ma non abbiamo tempo per indagare. È più facile trovare il soggetto originale.»

«E come vorreste ottenere questo codice?» l’uomo sorrise;

«Semplice, ti smonteremo pezzo per pezzo»

«Bastardo»

«Scappa Paul. Non puoi batterlo» la voce di Arthur ormai ridotta ad un sussurro lo aveva raggiunto, bloccando ogni suo movimento.

«Certo che posso. Sconfiggerò questo essere che non merita di definirsi umano e poi torneremo insieme a Parigi. Lì ti cureranno»

Il moro si sforzò di regalargli l’ennesimo sorriso.

«Non puoi più salvarmi»

Non puoi salvarlo. Non importa cosa tu faccia. Arthur Rimbaud è già morto.

No. Non poteva essere vero. Ma la voce nella sua testa non la smetteva di tormentarlo.

Abbassò il capo. Le sue mani erano sporche di sangue. Come lo era il pavimento ai suoi piedi. Stava impazzendo. Era un incubo.

Arthur Rimbaud è morto in Giappone. Ha tradito la Port Mafia.

No. Si trovavano in Europa, erano ancora in guerra. Non erano mai partiti per quella missione che avrebbe finito con il dividerli. E Verlaine non aveva mai tradito il proprio partner.

Lanciò un urlo prima di prendersi il volto tra le mani.


 

Era nel suo letto. Era stato tutto un sogno. La porta della stanza si spalancò di colpo e le figure di Carroll e Baudelaire fecero la loro comparsa sulla soglia.

«Che succede?» indagò il francese,

«Nulla» si affrettò a rispondere il biondo, spostando la frangia di lato. Non avrebbe mai permesso a quel idiota di godere di fronte a quel suo momento di debolezza.

«Avete forse avuto un incubo Mr Verlaine?» si intromise l’altro inglese irritante.

«I mostri non hanno mai incubi. La loro semplice esistenza lo è, un lungo tormento senza fine» e regalò loro l’ennesimo sguardo di ghiaccio.

Dopo qualche istante, i due decisero di tornare nelle proprie stanze lasciando il Re degli Assassini solo con i propri pensieri.

Verlaine si passò una mano sul volto, dopo aver giocato distrattamente con i propri capelli. Quella parte del sogno era vera, come quella conversazione al Café. Erano dei ricordi, risalenti a qualche anno prima della partenza per il Giappone, quando lo spettro della guerra aveva invaso il vecchio continente. Paul aveva preso l’abitudine di intrecciarsi i capelli dopo quel giorno. Era solo un’altra delle tante cose che Arthur gli aveva insegnato.

Ricordava anche quell’uomo tedesco che aveva provato a fare del male al proprio compagno. In quell’occasione Paul aveva perso il controllo, ammazzandolo prima che Rimbaud potesse intervenire per fermarlo.

Erano tornati nella capitale per curare le ferite del moro che erano meno gravi di quanto inizialmente avesse ipotizzato. Quella era stata la prima volta in cui il pensiero di perdere Arthur gli aveva attraversato la mente.

Fino ad allora Verlaine non ci aveva mai dato peso.

In fondo il compagno era umano e in quanto tale, prima o poi sarebbe inevitabilmente andato incontro alla propria morte. La cosa che maggiormente lo aveva scosso però era stata la sensazione che aveva visto nascere all’interno del proprio petto. Si era sentito mancare, come se all’improvviso gli avessero tolto l’aria dai polmoni.

Era successo di nuovo il giorno in cui aveva scoperto della morte di Arthur. Il partner che aveva tradito, che aveva creduto di aver ucciso, era morto. Da solo. In un continente così lontano.

Verlaine non era là e la cosa lo aveva turbato. Aveva passato anni nella convinzione di aver ucciso il proprio partner per poi scoprire che non solo era sopravvissuto ma in tutto quel tempo, in cui era stato privato della propria memoria, aveva condotto una vita diversa. Una dalla quale lui era stato escluso.

Non lo accettava. Non avrebbe mai accettato la morte di Arthur.

Non puoi salvarlo.

La voce nella sua testa, quella macabra melodia che faceva da sfondo ai suoi pensieri non sembrava volergli dare tregua.

Non importa quante volte tu ci possa provare il destino è ineluttabile. Non puoi vincere contro di lui.

No. Paul Verlaine non credeva nel destino, era l’ennesima creazione umana. Chiuse gli occhi. Le immagini del corpo senza vita del proprio partner gli tornarono alla mente. Chissà come doveva essere stata la sua morte. Il corpo di Arthur sarebbe stato coperto di sangue come continuava a rivederlo nei propri incubi?

Qualcosa gli suggeriva di come Rimbaud fosse stato perfetto anche nella morte. Provò a riaddormentarsi cullato dai ricordi di un passato che mai come in quel momento gli sembrava lontano, distante.

Sapeva che i morti non potevano tornare in vita. Non era un bambino, non era un pazzo e non era un ingenuo. Rivoleva solo l’unica persona importante della sua vita e per questo sarebbe stato disposto ad attraversare anche l’inferno, o a scatenarlo.

Avrei voluto farti un altro regalo di compleanno, il primo mi dispiace che non ti sia piaciuto.

In quel momento, Verlaine finalmente riconobbe la voce nella propria testa. Era Arthur, era lui che continuava ad affollare i suoi pensieri.

Di riflesso osservò la propria bombetta abbandonata accanto al cappotto. Non lo aveva mai ringraziato per quel regalo. C’erano tante, troppe cose che non era mai riuscito a dire ad Arthur. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per rimediare.

Io sono morto. Non sono altro che un fantasma. Mi dispiace Paul ma dovrai imparare a vivere senza di me.

L’essere artificiale scoppiò a ridere. Non sarebbe certo stata la prima volta in cui avrebbe disobbedito ad un ordine del proprio compagno.

Come aveva detto qualche istante prima, i mostri non hanno mai incubi.

Non possiamo avere un lieto fine Paul, accettalo.

Avrebbe utilizzato l’Abilità di Carroll.

Aveva preso la propria decisione.














 

*«Ah! Io soffro, grido. Soffro veramente. Ma tutto mi è lecito, oppresso dal disprezzo dei più spregevoli cuori.»


 

Note: eccoci all’ultimo aggiornamento dell’anno. Diciamo che con questo capitolo si conclude l’introduzione e dal prossimo la Saison entrerà nel vivo. La storia è quasi finita (se la smettono di venirmi in mente scene d’aggiungere XD) e da gennaio dovrei riuscire a postare un capitolo al mese, vita permettendo. Ringrazio chi sta seguendo questa storia, chi ha lasciato una recensione e chi l’ha messa nelle preferite/seguite/ricordate. Buone feste alla prossima XD



 

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Capitolo 5
*** V Stagione - L’époux infernal ***


V Stagione - L’époux infernal








 

«Quand il me semblait avoir l'esprit inerte, je le suivais, moi, dans des actions étranges et compliquées, loin, bonnes ou mauvaises: j’étais sûre de ne jamais entrer dans son monde. À côté de son cher corps endormi, que d’heures des nuits j’ai veillé, cherchant pourquoi il voulait tant s’évader de la réalité.»*


 

Une Saison en Enfer – L’époux infernal








 

Francia


 

- Il giorno dopo -


 

Verlaine non aveva chiuso occhio. Aveva passato il resto della nottata a rimuginare sul proprio sogno, interrogandosi sul passato, ma principalmente su Rimbaud. Da quando aveva maturato la decisione di utilizzare l’Abilità di Carroll, l’essere artificiale si era domandato spesso quale potesse essere il proprio “mondo ideale”. Non era stata una scelta facile, ma ponderata. Non si fidava di quell’inglese ma, soprattutto, non aveva idea di quale fosse il piano di Baudelaire. Il suo fine ultimo. Ci doveva essere qualcosa che nonostante tutto ancora gli sfuggiva. Da quando aveva ricevuto la prima telefonata della spia, Verlaine aveva sospettato potesse trattarsi di una trappola, tuttavia era stato al gioco.

All’inizio, si era trattato di semplice curiosità. Una parte di lui, aveva sempre desiderato conoscere quell’uomo, che per lungo tempo non era stato altro che un nome sugli appunti del proprio compagno. Un nome che era rimasto sospeso tra loro. Rimbaud non aveva mai rivelato troppo sul proprio amico d’infanzia, così Verlaine si era limitato a trarre da solo le proprie conclusioni. Dopo aver conosciuto di persona Charles Baudelaire la sua opinione in merito non era cambiata.

Non poteva fidarsi di lui. Non poteva confidare in nessuno. Rimbaud era stata una pericolosa eccezione e non serviva ricordare come fossero andate a finire le cose tra loro.

Questa volta però aveva la possibilità di rivedere Arthur, anche se si trattava solo di un’illusione.

Verlaine si sarebbe addormentato grazie all’Abilità di Carroll e a quel punto, il suo corpo sarebbe rimasto indifeso, alla mercé dei propri nemici. Forse il Poète stava solo aspettando un’occasione simile per farlo fuori o più banalmente, voleva vendicarsi per quanto successo ad Arthur.

Paul non era uno stupido, sapeva che agli occhi della spia lui era il solo responsabile per la morte di Rimbaud. Che gli assassini materiali fossero stati dei giapponesi dall’altra parte del mondo poco importava, Charles Baudelaire lo aveva investito del ruolo di nemico e come tale lo avrebbe trattato. Quello gli era fin troppo chiaro. Lo era stato sin dal loro primo incontro al Café, quando Baudelaire aveva candidamente ammesso che desiderava rimediare ai suoi errori.

La cosa che ancora sfuggiva al Re degli Assassini, era il perché Charles lo avesse coinvolto in quel assurdo piano.

C’erano un milione di modi in cui avrebbe potuto sbarazzarsi di lui, alcuni decisamente meno impegnativi che prendere d’assalto una prigione di massima sicurezza. Sicuramente un agente di quel calibro conosceva i suoi punti deboli, eppure aveva optato per un piano arzigogolato e impossibile. Fino a quel momento Baudelaire si era limitato a giocare con lui, donandogli una flebile speranza. Forse era stato proprio quello a indurlo ad accettare.

Devi vagliare attentamente ogni informazione in tuo possesso e non escludere nulla. A volte la realtà si può nascondere proprio dietro al particolare più banale.

Gli insegnamenti di Rimbaud gli tornarono alla mente. Era più forte di lui. Una parte di Arthur sarebbe sempre rimasta radicata all’interno della sua psiche. Forse quello era solo uno dei tanti motivi che impedivano al biondo di accettarne la morte.

Pensare al proprio compagno portava solo alla nascita di nuovi interrogativi che andavano a sommarsi ai già numerosi turbamenti che agitavano il suo animo. Una parte di Verlaine aveva accettato da tempo di provare qualcosa per Rimbaud, per quell’uomo che gli aveva donato oltre che un nome, anche una nuova esistenza. Tuttavia, aveva preferito soffocare quel tipo di sentimento, relegandolo in un angolo remoto della propria mente. Dopotutto lui era una bestia priva di emozioni, un’anima artificiale, pallida imitazione di un essere umano. Non poteva permettersi di provare qualcosa di simile.

Sicuramente, anche Carroll e Baudelaire la pensavano in quel modo. Dal loro sguardo traspariva quel tipo di sentimento. In fondo, per il resto il mondo Black No.12 era solo un mostro portatore di distruzione. Un’arma, un esperimento, un oggetto.

Solo Arthur Rimbaud aveva provato a convincerlo del contrario. E ora lui era morto.

Verlaine era ancora perso nei propri pensieri che non fece caso al leggero bussare che proveniva dalla porta della stanza, o almeno fino a quando non vide spuntare il volto sorridente di Baudelaire.

«Bonjour mon ami. Hai avuto un altro incubo?» il biondo preferì ignorarlo, iniziando a prepararsi per la colazione. Avrebbe tanto desiderato uccidere Baudelaire. Levargli dal viso quell’espressione così falsa. Riconosceva però di avere ancora bisogno di lui.

Una volta esaurita quella utilità se ne sarebbe sbarazzato con piacere. Sorrise pregustandosi il momento.


 

***


 

Lewis Carroll non avrebbe mai pensato di evadere dal carcere di massima sicurezza di Meursault. Come non si sarebbe mai immaginato di finirvi rinchiuso. I suoi colleghi della Torre dell’Orologio non erano mai stati in grado di capirlo, ma in fondo non ci avevano neppure provato. Era stato più semplice etichettare Lewis come un traditore, un pazzo, e seppellirlo nell’oscurità di una prigione.

Era così che a Londra si affrontavano i problemi, insabbiandoli. Come se il nascondere una cosa servisse a cancellarne per sempre l’esistenza. L’intelligence inglese non era altro che un corpo d'élite al servizio della corona. Il suo unico errore era stato quello di sfidarne l’autorità e tentare una rivoluzione. Gli anni di guerra avevano messo a dura prova tutti loro. Carroll aveva pensato che un cambiamento fosse necessario.

Aveva seriamente rischiato di impazzire, rinchiuso tra quelle mura, senza alcuna possibilità di avere contatti con il mondo esterno. Dopo quasi quattro anni di prigionia, Baudelaire e il proprio amico erano comparsi dal nulla e lo avevano salvato. Una parte di lui ancora stentava a crederlo.

Lewis Carroll aveva udito spesso il nome di Charles Baudelaire. Era un giovane francese con un’Abilità di controllo mentale potentissima.

Era stato nelle fasi finali della Grande Guerra che Baudelaire aveva iniziato a farsi notare, soprattutto sul fronte tedesco.

Quando il conflitto era scoppiato, a Lewis e ai propri colleghi inglesi, era stato fornito un elenco completo dei Trascendentali, ovvero degli individui dotati di Abilità Speciali più pericolosi sul continente, ai quali dovevano prestare attenzione.

La nazione francese non aveva mai rappresentato una grande minaccia, ma con la perdita di Parigi la situazione era cambiata.

Era stato in quel periodo che Charles Baudelaire aveva fatto la propria comparsa, conquistando in poco tempo la scena internazionale.

Carroll ricordava come nelle fasi finali del conflitto, avesse iniziato a girare una voce tra gli ambienti dell’intelligence europeo. Secondo diverse fonti, la nazione francese aveva acquisito un’arma potentissima, in grado di porre fine alla guerra, ma che per qualche ragione si rifiutava di usare.

Con il termine dello scontro, ogni segreto era venuto alla luce.

I francesi avevano recuperato un essere artificiale, un certo Black No.12. Una creatura nata in un laboratorio, risultato di anni di esperimenti sulle Abilità Speciali. Come potenza e pericolosità era da considerarsi di pari livello a un Trascendentale, se non addirittura superiore.

Lewis Carroll non era uno stupido. Aveva riconosciuto subito Verlaine, ancora prima di vederlo all’opera.

La Torre dell’Orologio era a conoscenza di ogni mossa della bête e negli anni, ne aveva monitorato ogni movimento. Dopo essersi liberato dal controllo dei Poètes, quel mostro aveva iniziato a lavorare come assassino su commissione, facendosi ben presto un nome nell’ambiente. In seguito Carroll era stato arrestato e fino a pochi giorni prima non aveva idea di cosa fosse successo al resto del mondo intorno a lui.

Era stato Baudelaire ad istruirlo su quanto avvenuto durante la sua assenza, mentre si allontanavano dalla devastazione provocata da quel mostro privo di umanità.

Carroll aveva avuto modo di osservare Black da vicino mentre scatenava il proprio potere, distruggendo indiscriminatamente ogni cosa fosse entrata nel proprio raggio d’azione. Non aveva mai assistito a niente di simile. Per un attimo, pensò che se a quel tempo la Francia avesse liberato una tale furia, la guerra in Europa si sarebbe risolta nel giro di pochi giorni e forse, il destino di molti sarebbe stato diverso.

Gli erano bastate nemmeno ventiquattr’ore in sua compagnia per capire però quanto il soggetto in questione fosse instabile. Paul Verlaine rappresentava una lama a doppio taglio, era troppo difficile da controllare o prevedere.

Fu in quel momento che Charles Baudelaire nominò per la prima volta Arthur Rimbaud.

Anche quel nome non gli era nuovo. Carroll ricordava di aver letto spesso di lui nei rapporti dei servizi segreti inglesi, come anche del fatto che fosse un vecchio amico di Dame Agatha Christie.

Il famoso Arthur Rimbaud, la spia della quale si erano perse le tracce al termine della guerra. In quei giorni, Baudelaire gli aveva rivelato di come fosse finito in Giappone, dove poi era morto, rimanendo coinvolto nelle dispute di un’Organizzazione locale. Lewis stentava a crederlo. Ma più di ogni altra cosa, era stata la reazione di Verlaine ad averlo lasciato senza parole.

«È come un cucciolo al quale hanno ucciso la mamma» aveva frettolosamente liquidato la questione Charles. Carroll aveva sospettato ci fosse dell’altro, ma aveva preferito non fare domande.

Baudelaire disprezzava Verlaine, non serviva essere un genio per capirlo, eppure avevano progettato insieme la sua fuga. Lui era solo una pedina in un gioco più ampio di cui non era certo di voler conoscere tutti i dettagli.

Lewis aveva compreso come Verlaine desiderasse semplicemente riavere Rimbaud, ma non aveva ancora intuito quali fossero i desideri che muovevano Baudelaire. C’era qualcosa di misterioso nel comportamento della spia francese che non riusciva ad interpretare o afferrare.

Quella notte, il biondo aveva svegliato tutti in preda ad un incubo e per la prima volta, Carroll aveva intravisto un briciolo di umanità in quell’essere portatore di morte e distruzione. Per una frazione di secondo, Verlaine gli era sembrato un normale essere umano, alle prese con le proprie paure ed insicurezze.

Era chiaro che quel mostro stesse soffrendo. Perché era dolore, il sentimento che aveva potuto scorgere in quelle iridi apparentemente fredde come il ghiaccio.

«Non credevo che un simile essere fosse in grado di sognare» era stato il solo commento di Baudelaire una volta rimasto solo con Lewis.

Dopo quell’episodio, i due uomini si erano recati nella piccola cucina al piano di inferiore di quel rifugio improvvisato, con l’intento di bere qualcosa di caldo. Carroll aveva fissato il Poète a lungo non sapendo come replicare a quell’affermazione. Era stata una sorpresa anche per lui.

«Credo che tutti possano farlo» si era limitato a rispondere, versando l’infuso di tè bollente, e porgendo a Charles una tazza «Ecco perché la mia Ability è così temuta. Perché io posso rendere quelle fantasie reali»

«Tu doni alla gente la possibilità di vivere nel proprio mondo ideale» fu l’unico commento della spia.

«Anche il più bello dei sogni può sempre trasformarsi in un incubo»

Charles prese un lungo sorso prima di rispondere, alzando il capo per incrociare finalmente lo sguardo dell’altro;

«È esattamente quello che voglio. Rinchiudere Black in un mondo di sofferenza senza fine. Voglio che paghi per i propri peccati. Per ciò che ha fatto a Paul»

Per la prima volta Lewis Carroll si domandò chi fosse il vero mostro.


 

***


 

Charles Baudelaire non era pentito della propria decisione. Aveva scelto di rivelare il proprio intento a Carroll perché sapeva che non lo avrebbe tradito. Nella situazione nella quale si trovavano, Verlaine era il meno affidabile. Ma quella non era certo una novità, era una variabile che la spia aveva preso in considerazione sin dal principio.

Avevano finito di consumare il tè in silenzio per poi tornare ognuno nelle proprie stanze. A lui era toccata la più piccola, a sole due porte di distanza da quella del biondo essere artificiale. Charles era rimasto sinceramente sorpreso nell’udire quel urlo. Come dall’espressione sconvolta comparsa sul viso di Verlaine.

Sapeva di non doversi fidare. Quello era un mostro. Poteva avere l’aspetto di un essere umano ma Black non era come loro. Non lo sarebbe mai stato.

Questa era l’unica verità che avrebbe mai accettato. Era più facile in quel modo. Odiare un mostro non era la stessa cosa che odiare un essere umano.

In quel momento, il proprio cerca persone abbandonato sul letto, prese a suonare con insistenza. Riconobbe immediatamente il numero sul display. Si affrettò a recuperare un cellulare usa e getta dal proprio bagaglio.

«Complimenti. Siete finiti in prima pagina» furono le prime parole di Stendhal. Gli angoli della bocca di Baudelaire si incurvarono in un sorriso spontaneo. Qualsiasi preoccupazione riguardo a Verlaine era passata in secondo piano, al solo udire la voce del proprio superiore.

«Quanto sono furiosi ai piani alti?» domandò divertito, non facendo nulla per mascherare il proprio stato d’animo.

«Per ora nessuno ti ha ancora collegato all’incidente e sai che farò quanto possibile per coprirti Charles, ma non scherzare col fuoco» il Poète si lasciò cadere sul proprio letto, abbandonandosi ad un sospiro stanco;

«So quello che faccio. Non sono un bambino» mormorò nascondendo il volto contro un cuscino;

«Hai visto di cosa è capace quell’essere» si, lo aveva visto, ma non avrebbe mai dato al proprio superiore una tale soddisfazione;

«Sai che anche i mostri possono sognare?» decise di cambiare argomento per alleggerire la tensione che si era venuta a creare tra di loro.

«Charles» Non poteva vederlo, ma era sicuro che Henry avesse alzato gli occhi al cielo;

«Poco fa, Black si è svegliato in preda ad un incubo. Spero si tratti solo del suo senso di colpa»

«La vendetta non ti riporterà indietro Arthur»

Ma lo farà una pagina del Libro.

Concluse nella propria mente.

Quando aveva scelto di rivelare il proprio piano a Stendhal, aveva omesso quel piccolo particolare. Baudelaire sapeva come il superiore non sarebbe mai stato d’accordo con quell’idea.

In quegli anni il loro rapporto era mutato. L’odio che inizialmente provava nei confronti di Henry si era pian piano trasformato in rispetto ma c’erano ancora tante cose su di lui, troppe, che Charles faticava a comprendere.

Aveva solo una certezza alla quale aggrapparsi, Henry Stendhal sarebbe sempre rimasto fedele al proprio lavoro. A quei Poètes che continuavano ad usarli come pedine. I loro superiori avevano giostrato la guerra da dietro le quinte, scegliendo e preparando con cura ogni mossa sulla scacchiera internazionale. Baudelaire si era stancato di essere un cagnolino fedele. O forse, non lo era mai stato. Aveva scelto quella vita per Paul, e ora che non c’era più non aveva motivo di continuare con quella recita.

La nazione che per più di dieci anni aveva servito, non si era fatta problemi a ignorare Rimbaud. A dimenticarlo. Una volta finita la guerra non avevano più bisogno di lui. I Poètes avevano preferito abbandonare Paul al proprio destino, lasciandolo morire in una terra straniera, senza alcun ricordo del proprio passato.

Anche loro un giorno, avrebbero dovuto pagare per quella colpa.

«Charles» la voce di Stendhal lo costrinse ad interrompere qualsiasi altro pensiero o proposito bellicoso;

«Non dico che sia facile, ma prima o poi dovrai accettare la scomparsa di Rimbaud» odiava quando il proprio superiore utilizzava quel tono di voce. Quando tentava di essere una persona ragionevole.

«Tu sai cosa provavo per lui. Sei l’unico che conosce tutta la storia. Quindi come puoi chiedermi di fare una cosa simile?»

«Sono passati quanti anni? Sette, forse otto da quando Arthur ha lasciato l’Europa»

«La guerra si era appena conclusa.» si trovò ad ammettere «Non potevo raggiungerlo. Allora non sapevo nemmeno dove fosse finito. Non lo sapeva nessuno, era una missione top secret.»

«Non è colpa tua, Charles» Baudelaire strinse i pugni.

«Lo so. La colpa è di quel mostro che riposa nella stanza accanto. Dovresti vedere quanto gli somiglia Henri, ha i suoi stessi modi di fare. È irritante»

«Pensavo che sareste andati d’accordo. Dovreste avere parecchie cose in comune» Baudelaire affondò nuovamente il viso nei cuscini.

«È un essere artificiale»

«Che come te ha perso qualcuno di importante»

«Secondo i rapporti sull’incidente di Suribachi che abbiamo visionato, è stato Verlaine a ribellarsi alla sua autorità. Quel mostro ha tradito il proprio partner, il proprio Paese»

«Tu per primo dovresti sapere che ciò che compare sui documenti ufficiali e la realtà dei fatti non sempre coincidono»

«Non perdonerò mai quel mostro e non ho intenzione di cambiare il mio piano» fu allora che Stendhal scelse di dichiarare la propria resa. Sapeva quanto Charles potesse rivelarsi testardo e non aveva voglia di iniziare uno scontro con lui.

Non sarebbe servito a nulla.

Avrebbe continuato ad osservare quella situazione da lontano, come un mero spettatore, intervenendo solo in caso di bisogno. Non dubitava di Baudelaire, ma conosceva fin troppo bene i sentimenti che lo tenevano ancorato a Rimbaud, o meglio, al suo ricordo.

Anche lui aveva la propria parte di colpa di quella storia. Non era stato in grado di addestrare a dovere Charles. Non era riuscito a fargli dimenticare quel suo primo e sfortunato amore. Stendhal aveva fallito. Lo aveva fatto nel momento in cui aveva incrociato per la prima volta quegli occhi blu.

«Ti concedo una settimana, anzi cinque giorni. È il massimo che posso offrirti» rispose dopo una lunga pausa servita solo per accendersi una sigaretta;

«Andrà tutto bene, Henri»

«Henry» entrambi sorrisero prima di riagganciare.

Baudelaire passò il resto della nottata diviso tra i ricordi di un passato che si faceva sempre più lontano e le aspettative per un futuro radioso. Forse Stendhal aveva ragione, in quegli anni non aveva fatto altro che idealizzare Paul. Avevano trascorso solo una notte insieme. La loro relazione si era conclusa ancora prima di iniziare.

Si, lui e quel mostro erano davvero simili, anche se non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce. Entrambi erano rimasti incatenati al passato, ad una stagione delle loro vite ormai sfiorita che non sarebbe più tornata. Baudelaire era incapace di fermarsi, e accettare quella realtà. La vendetta rappresentava solo la via più semplice attraverso la quale affrontare il proprio dolore e senso di colpa.

Quando in quella mattina di tanti anni prima era stato preso in consegna dai Poètes non era stato in grado di fare nulla.

Era stato posto di fronte ad una scelta. Come Rimbaud, aveva intravisto un’opportunità e l’aveva colta. Scegliendo di rinunciare per sempre ai propri sentimenti insieme a quell’amore appena sbocciato.

Charles si era ripetuto più volte di averlo fatto solo per Paul. Per proteggerlo. Come sempre era stato più facile cullarsi con una bugia piuttosto che affrontare la realtà.

All’inizio, una parte di lui era stata felice di entrare a far parte dell’intelligence. In questo modo, Baudelaire aveva potuto finalmente comprendere i sentimenti dell’amico. Per la prima volta anche lui si era sentito parte di un qualcosa di grande. Si era solo illuso.

La guerra avrebbe presto distrutto ogni sua fantasia adolescenziale e gli avrebbe mostrato il mondo per quello che era.

Solo i più forti sopravvivono, i deboli vengono schiacciati.


 

***


 

«Bonjour mon ami. Hai avuto un altro incubo?»

Poco prima dell’alba, Baudelaire aveva sentito dei rumori provenire dal corridoio e aveva intuito che Verlaine si fosse svegliato. Doveva controllarlo, ma soprattutto voleva sincerarsi delle sue condizioni. In seguito allo spettacolo di quella notte sapeva di potersi aspettare di tutto. Dopo aver bussato, non ricevendo alcuna risposta il Poète era entrato nella stanza, sorprendendo il biondo intento a vestirsi.

Nessuna traccia di turbamento distorceva i tratti di quel viso angelico. Baudelaire odiò quella perfezione.

Verlaine si limitò ad ignorarlo senza degnarlo di una risposta. Si chiese come potesse il proprio amico controllare un mostro simile.

Solo quando furono tutti e tre seduti intorno al tavolo della cucina il biondo si decise a parlare;

«Mi scuso per lo spettacolo increscioso al quale avete assistito» Charles nascose il proprio sorriso di scherno dietro una tazza di caffè. Non si aspettava un comportamento simile.

«Almeno ora sappiamo che anche tu puoi sognare» il commento di Carroll però, rischiò di fargli andare la bevanda di traverso.

«Non ho avuto un incubo. Era solo il ricordo di una stagione ormai passata» contro ogni aspettativa la spia francese dall’altro capo del tavolo annuì.

«Quando il passato decide di tornare a farci visita non è mai facile» concesse, abbassando la propria tazza.

«Prima che mi imprigionassero, molta gente ricorreva al mio aiuto» esordì Carroll, facendo voltare entrambi i francesi verso di lui;

«Erano persone per lo più tormentate dagli incubi della guerra. Gente comune, uomini, donne, ma anche personalità di spicco della politica e altri dotati di Abilità che avevano combattuto al fronte e rivedevano nei propri sogni i volti dei loro nemici. Grazie al mio potere gli fornivo una via di fuga. Alleviavo le loro sofferenze regalandogli una realtà ideale nella quale potersi rifugiare»

«Ho già accettato la vostra proposta, non devi fare nulla per convincermi, risparmiati questi discorsi » concluse Verlaine andandosene lasciando i presenti senza parole.

«Che significa?» si affrettò a domandare Baudelaire, alzandosi di scatto con l’intento di affrontarlo. Il biondo si fermò a qualche metro dalla porta,

«Semplicemente che Carroll utilizzerà la sua Abilità su di me. Voglio vedere questo mio mondo ideale e incontrare nuovamente Rimbaud. Sia ben chiaro, non mi fido ancora delle tue intenzioni Charlie ma voglio tentare. In qualsiasi caso basterà svegliarmi per rompere l’incanto, giusto?»

Lewis si limitò ad annuire mentre osservava il biondo lasciare la stanza. Il francese invece si rimise a sedere, imprecando sottovoce per quel soprannome e per la somiglianza tra i modi di fare di Verlaine e quelli del proprio defunto amico.

«Non credevo avrebbe mai accettato» esordì dopo qualche secondo Carroll, versandosi dell’altro tè «è stato fin troppo collaborativo»

«L’incubo di questa notte deve avergli fatto cambiare idea» ipotizzò Baudelaire.

«Pensate che il vostro piano possa funzionare?»

«Non ho il minimo dubbio. Paul è stato la persona più importante della sua vita, farebbe di tutto per riaverlo»

Quelle parole valevano anche per lui.


 

***


 

Forse aveva accettato con troppa facilità, ma il desiderio di rivedere Arthur era più forte di qualsiasi cosa. Erano passati otto anni da quel giorno in Giappone. Dal loro litigio, dal suo tradimento. Verlaine non aveva il minimo dubbio su cosa avrebbe chiesto a Carroll.

«Vorrei non aver mai tradito Rimbaud. Vorrei che quella missione fosse andata diversamente»

Baudelaire storse il naso. Non aveva bisogno di conoscere tutti i dettagli. Sarebbe stato come gettare del sale su una ferita ancora fresca. L’uomo accanto a lui invece, non sembrava essere della stessa opinione;

«Riesci ad essere più preciso?» domandò Carroll facendo un paio di passi in avanti;

«Io e Rimbaud dovevamo infiltrarci in una base nemica e recuperare un essere artificiale simile a me. Questa era la nostra missione» a quelle parole, Charles si fece più attento. Aveva letto più e più volte il rapporto sull’incidente di Suribachi ma il racconto di Verlaine gli avrebbe fornito una nuova versione dei fatti;

«Scoprimmo che quell’essere era solo un bambino. Arthur voleva consegnarlo al governo francese ma io sono opposto. Questo è stato il motivo del nostro litigio. Ho cercato di dare un futuro migliore a quella creatura. Non volevo che diventasse come me, che crescesse sapendo di non possedere un’anima»

Per la seconda volta nel giro di ventiquattr’ore Baudelaire pensò a quanto lui e quel mostro fossero simili. Probabilmente anche lui avrebbe tentato di far ragionare il proprio compagno. Arthur era stato cresciuto dai Poètes Maudits, allevato per essere una spia, come poteva permettere a quella storia di ripetersi? Al suo posto, anche Charles si sarebbe rifiutato di consegnare quel ragazzino alla Francia.

«Allora ti mostrerò una realtà in cui il tuo partner ha accolto questo tuo desiderio»

Verlaine annuì prima di chiudere gli occhi e cadere in un sonno profondo.

Baudelaire osservò Carroll attivare la propria Abilità. Non vi era nulla di eclatante o scenografico, erano dei semplici fasci di luce viola che raggiungevano la mente del biondo avvolgendola. Fece un paio di passi in avanti.

«Ha funzionato?» domandò incerto, non staccando lo sguardo dal volto addormentato di Verlaine. Anche in quelle condizioni, l’essere artificiale era bellissimo, etereo.

«Perché non verifichi tu stesso?» il francese annuì richiamando un paio di petali tra le proprie mani. Di fronte all’espressione interrogativa di Carroll si trovò a spiegare;

«Les Fleurs du Mal. La mia Abilità. Posso controllare la mente di chiunque entri in contatto con i petali di questi fiori»

«Lo so, avevi accennato ad una cosa simile e penso di averti visto all’opera durante l’evasione» Charles si sporse quel tanto che bastava per poggiare un paio di petali sulla fronte di Verlaine

«In questo modo posso entrare nella sua mente. Vedere cosa sogna. Il suo mondo ideale»

«Non puoi interferire con la mia Abilità» si affrettò a fargli notare l’inglese

«Lo immaginavo. Mi limiterò ad essere un mero spettatore»

«Mi hanno dato del pazzo ma a quanto pare non sono l’unico» Charles gli regalò un sorriso stanco.

«Che cos’è l’amore se non il bisogno di uscire da se stessi»

«Sei un vero poeta» fece una pausa, prima di aggiungere «È una ben povera memoria quella che funziona solo all’indietro»

«Cosa vorresti dire?»

«Prendilo come un consiglio, non puoi vivere costantemente nel ricordo del passato. Di ciò che è stato. Tu e questo mostro siete più simili di quanto entrambi vogliate ammettere. Ma non siete gli unici che hanno perso qualcuno di caro»

«Tu?»

«C’è stato un tempo in cui anche io avevo una vita, una famiglia.» Baudelaire scelse di rimanere in silenzio;

«La guerra mi ha portato via ogni cosa. Grazie alla mia Abilità riesco a condurre gli altri in un mondo ideale, ma non posso utilizzarla su me stesso. Ci ho provato così tanto che forse sono davvero finito con l’impazzire.»

La guerra in Europa aveva cambiato l’esistenza di molti, anche quella di Charles. Lo scontro che per anni aveva dilaniato il vecchio continente si era concluso, ma le ferite che si era lasciato dietro sanguinavano ancora.

Senza rendersene conto, Baudelaire si era trovato a combattere in prima linea, per difendere quella nazione che tanto aveva odiato. Era stato per lungo tempo in Germania, facendo ritorno in patria solo in seguito alla caduta di Parigi. Aveva sentito delle voci secondo le quali Paul e il suo mostro fossero presenti durante quella battaglia, ma aveva scelto di non approfondirle. Aveva sofferto per dieci anni, piangendo l’amico su di una tomba vuota, non avrebbe retto di nuovo un tale dolore.

Alla fine lo aveva perso comunque e la vendetta era la sola cosa che gli era rimasta. Fu allora che Lewis riprese con il proprio racconto;

«È stata una delle mie figlie a scegliere il nome della mia Abilità, mi disse che sarebbe tanto voluta andare in quel Paese delle Meraviglie che tanto decantavo nelle mie storie. Cercavo di regalare loro una realtà migliore, nascondendogli per quanto possibile la crudeltà di questo mondo. Ogni sera, prima di metterle a letto raccontavo loro delle favole. Alla fine l’ho accontentata. Quando ho ritrovato la mia piccola Alice, sepolta tra le macerie della nostra abitazione era in fin di vita. Ho usato il mio potere su di lei, per farle vivere i suoi ultimi istanti in pace. È spirata tra le mie braccia» Charles chinò il capo in segno di rispetto, mentre l’inglese si asciugava le lacrime che avevano iniziato a rigargli le guance.

«Mi dispiace Lewis»

«Aveva sette anni e mezzo, se fosse ancora viva ora ne avrebbe quasi sedici»

«Non so davvero cosa dire»

«Non devi dire nulla. Era semplicemente il suo destino. Come me, anche voi dovete accettare la realtà, ovvero che non si possono riportare in vita i morti» guardò prima Charles poi Verlaine addormentato a qualche metro da loro.

L’inglese sapeva che quelle parole si sarebbero perse nel vento. Lo aveva capito osservando gli sguardi di quei due uomini pronti a tutto, tranne che ad affrontare la realtà.

Baudelaire sapeva che Carroll aveva ragione, tuttavia l’esistenza stessa del Libro gli forniva una speranza. Grazie ad una pagina avrebbe potuto riscrivere completamente la realtà insieme alla loro storia.

Doveva solo consegnare Verlaine ai propri superiori, ma prima si sarebbe divertito nel vederlo soffrire.


 

***


 

- Qualche stagione prima -



 

«Ogni giorno andiamo all’inferno, un passo alla volta»

Arthur aveva alzato gli occhi dal taccuino sul quale stava scrivendo solo per osservare meglio la figura di Charles, in piedi a qualche metro da lui. Era uno dei loro pomeriggi insieme e si trovavano in un piccolo parco parigino.

«Si può sapere di cosa stai parlando?» domandò il moro.

«Riflettevo sulla guerra. Ogni giorno sembra che il suo scoppio sia imminente ma alla fine non succede nulla. Sembra una lenta discesa verso gli inferi. Un’agonia»

«Charlie» lo rimproverò, decidendo di mettere via il proprio taccuino.

«Cosa ho fatto di male ora?»

«Nulla. Ma non parlare in questo modo, sembra quasi che tu voglia la guerra» fu il turno di Baudelaire di sbuffare;

«Ora non iniziare a fare i tuoi soliti discorsi»

«Questo non è un gioco Charles. Ci sono un sacco di cose in ballo. Questo scontro, se mai ci sarà, cambierà le sorti dell’intero continente, come le vite di milioni di persone»

«In questo momento sto parlando con Paul o con Arthur?» il moro alzò gli occhi al cielo, odiava quando il proprio amico lo trattava in quel modo. Aveva scelto di essere una spia, perché Charles non perdeva mai l’occasione di fargliene una colpa? Non capiva perché non potesse essere felice per lui.

«Stai parlando con me» si limitò a rispondere.

«Se dovessimo entrare in guerra tu cosa farai?» Rimbaud lo fissò per qualche secondo confuso,

«Mi limiterò a seguire gli ordini come ho sempre fatto» gli sembrava una risposta ovvia ma come sempre l’amico non era d’accordo;

«E da quale parte starai Paul?»

«Servirò il mio Paese»

«E se ti chiedessero di fare qualcosa di orribile?»

«Mi sembra di avertelo detto. Io sono un assassino. Ho già tolto delle vite. Non sono più il ragazzino che conoscevi Charlie» Baudelaire si zittì;

«E se io dovessi combattere al fronte?» a quello Arthur non aveva pensato;

«Ho prestato un regolare servizio militare, possono chiamarmi in qualsiasi momento e spedirmi in prima linea»

«La guerra non scoppierà. Farò il possibile per evitare che accada» Charles sorrise. In tanti anni le espressioni di Paul non erano cambiate, sotto quel pesante cappotto c’era ancora il ragazzino gentile che ricordava.

«Se proprio andremo all’inferno mi piacerebbe farlo insieme» ma lo disse talmente piano che Rimbaud non riuscì a sentirlo.

Avrebbe tanto desiderato condividere quell’entusiasmo e quella fiducia, ma qualcosa in Baudelaire gli suggeriva di non fidarsi di quei Poètes che già una volta gli avevano portato via quanto di più caro avesse al mondo.

Una settimana dopo, Arthur Rimbaud partì per Londra. In contemporanea Charles Baudelaire iniziò la propria discesa verso gli inferi entrando nell’intelligence.















 

*«Quando mi sembrava che avesse lo spirito inerte, io lo seguivo, lontano, in azioni strane e complicate, buone o cattive: ero sicuro di non poter mai entrare nel suo mondo. Quante ore ho vegliato vicino al suo corpo addormentato, cercando di capire perché volesse tanto evadere dalla realtà.»


 



 

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Capitolo 6
*** VI Stagione - Alchimie du Verbe ***



 

VI Stagione - Alchimie du Verbe


 






 

«À moi. L’histoire d’une de mes folies.»*

 

Une Saison en Enfer – Alchimie du verbe


 


 


 

Francia

- Da qualche parte in campagna -


 

«Vorrei non aver mai tradito Rimbaud. Vorrei che quella missione fosse andata diversamente»

Era stato questo il primo pensiero che aveva attraversato la mente di Paul Verlaine, quando Lewis Carroll gli aveva domandato quale potesse essere la sua idea di mondo ideale.

Semplicemente, una realtà in cui Arthur avesse accolto la sua richiesta. In cui il compagno avesse capito la sofferenza che lo dilaniava di fronte alla prospettiva che un essere simile a lui potesse andare incontro alla stessa sorte.

Rimbaud non era mai riuscito a comprendere quali turbamenti si agitassero nelle profondità dell'animo di Verlaine. La spia gli aveva ripetuto un milione di volte che anche lui era umano, che erano uguali, eppure non aveva battuto ciglio quando gli avevano ordinato di consegnare il progetto Arahabaki al Governo.

Il più grande difetto di Arthur era sempre stato la lealtà verso i propri superiori.

Quello che a quel tempo Verlaine non poteva sapere, erano le motivazioni che si celavano dietro un simile comportamento. L’unica e ultima volta in cui Arthur Rimbaud aveva disobbedito alle regole della propria organizzazione aveva perso la persona per lui più importante. Non avrebbe rischiato di commettere il medesimo errore.

Non ne aveva mai parlato con Paul. Era una questione che apparteneva al passato. Rimbaud, aveva preferito custodire quella storia nel proprio cuore. Da questa decisione erano nati i primi fraintendimenti tra loro, che sarebbero sfociati nel litigio avvenuto al laboratorio di Suribachi. Quella fu la classica goccia che fece traboccare il vaso.

«Allora ti mostrerò una realtà in cui il tuo partner ha ascoltato questo tuo desiderio»

La voce di Carroll fu l’ultima cosa che Verlaine udì prima di chiudere gli occhi.

Questa volta le cose sarebbero andate diversamente.


 

***


 

Wonderland


 

Yokohama

- Distretto di Suribachi – laboratorio di ricerca – qualche anno prima


 

Sapevano entrambi che quella non sarebbe stata una missione semplice. Lo avevano intuito ancor prima di partire per il Giappone. Anni e anni di esperienza avevano insegnato ad Arthur Rimbaud come giudicare un’operazione dopo solo un’occhiata. Alla spia francese era sufficiente leggere una pagina di rapporto per riuscirne a stabilire il grado di pericolosità. Quella volta, lui e Paul avrebbero dovuto infiltrarsi in una base militare di un Paese straniero. Era una missione in cui non avrebbero goduto di nessun supporto logistico. In parole povere, non avrebbero avuto collaboratori interni, nessun backup. Questo perché quell’operazione non doveva figurare in nessun documento ufficiale. In caso di fallimento non ci sarebbe stata nessuna prova dell’intromissione del loro Governo. Erano questi i giochi di potere delle grandi potenze. Le sorti delle persone comuni venivano sempre decisi in eleganti salotti, lontani dal resto del mondo e dalla vera realtà delle cose. Era successo lo stesso con la guerra che aveva dilaniato il vecchio continente.

Arthur aveva sempre odiato quell'atteggiamento. Aveva perso la propria famiglia, Charles, ogni cosa per servire il proprio Paese, inseguendo sogni e promesse infantili. I Poètes lo avevano fatto sentire per la prima volta speciale, importante, diverso da tutti. Era stato ammaliato dal suono di dolci promesse, ma era bastato che giungesse all’età adulta per capire come lo avessero solo usato, di essere una delle tante pedine sacrificabili su di una scacchiera più ampia. L’aveva scoperto nel peggiore dei modi, quando aveva perso il suo primo amore per colpa della propria ingenuità. Per questo si era impegnato ad essere il migliore, a non sgarrare. Era diventato un Trascendentale, era entrato nell’Élite, aveva fatto ogni cosa gli avessero ordinato. Il freddo che provava si era intensificato e solo da qualche anno quella sensazione si era affievolita.

Fissò intensamente l’uomo biondo seduto su di un sedile accanto a lui. In cambio di quella fedeltà aveva ricevuto in dono più di quanto si sarebbe mai aspettato. Se solo Paul avesse capito la propria importanza, se fosse riuscito ad andare oltre al fatto di essere un essere artificiale, si sarebbe accorto di quanto preziosa fosse la propria vita. Arthur avrebbe conquistato volentieri l’inferno per il bene del proprio compagno. Si sarebbe battuto fino all’ultimo respiro per lui.

L'obiettivo di quella missione era un dotato, una nuova anima artificiale creata sulla base degli appunti del Fauno. Se tutto fosse andato secondo i piani si sarebbero trovati di fronte ad un'imitazione di Verlaine. Nel verbale che Rimbaud aveva ricevuto poco prima della partenza, veniva descritto come un’arma in grado di distruggere il mondo, dalle sembianze di un ragazzino.

In realtà quell’essere sembrava più che altro un bambino. Arthur non ebbe modo di soffermarsi troppo sui dettagli ma a prima vista quello scricciolo non dimostrava nemmeno dieci anni. Lo liberarono dalla teca di vetro in cui era imprigionato. Non notò subito lo sguardo di Paul, ma poteva benissimo immaginare i pensieri che si agitavano nell’animo del proprio partner. In fondo, per la prima volta si trovava di fronte a qualcuno di simile a lui. Un essere che poteva condividere i suoi sentimenti, la sua visione del mondo. Arthur non era uno stupido, sapeva che non sarebbe mai stato in grado di comprendere a fondo ciò che turbava l’animo del biondo. C’era una sorta di muro tra di loro che Verlaine aveva creato, decidendo arbitrariamente di rifugiarsi dietro di esso. Lui lo aveva lasciato fare preferendo non forzarlo, nella convinzione che prima o poi quelle difese sarebbero crollate.

Rimbaud si limitò ad afferrare quello scricciolo tra le braccia porgendolo al proprio compagno dopo averlo avvolto in una coperta. Quel bambino era l’incarnazione di Arahabaki, una divinità portatrice di distruzione ma ad Arthur sembrò tutto all’infuori di quello. Se non fosse stato certo delle proprie fonti avrebbe pensato di trovarsi nel posto sbagliato.

«Che stai facendo?» Alzò la testa per incontrare lo sguardo allarmato di Paul di fronte al proprio gesto. Non aveva fatto nulla, solo estratto una siringa dalla tasca del proprio cappotto;

«Devo sedarlo. Non possiamo correre il rischio che si svegli. Non conosciamo ancora la portata del suo potere» solo in quel momento Verlaine sembrò capire e tranquillizzarsi.

«Pensi che possa scatenare una bestia come quella nascosta dentro di me?» chiese con una punta di malinconia che il suo compagno non poté fare a meno di notare.

«Non possiamo escluderlo. Dobbiamo essere pronti ad ogni evenienza» concluse afferrando una delle braccia del bambino. Era davvero esile, gli sarebbe bastato utilizzare un minimo di forza ed era certo che avrebbe potuto spezzarlo. Come poteva una simile creatura essere il contenitore di una calamità come Arahabaki?

Tornò a fissare il proprio compagno. Paul era totalmente assorbito da quel ragazzino, tanto da non sembrare capace di staccargli gli occhi di dosso, anche lui era un essere di straordinaria bellezza che nascondeva dentro di sé una belva. Non poteva permettersi di dimenticarlo o evitare di pensarlo.

«Va tutto bene?» provò a domandare incerto.

Un’esplosione poco distante li costrinse ad interrompere sul nascere quella conversazione.


 

La loro infiltrazione nella base nemica era proseguita senza intoppi, dovevano solo trovare una via di fuga e la missione poteva dirsi conclusa. Stavano percorrendo per l’ennesimo asettico corridoio quando improvvisamente Verlaine arrestò i propri passi. Arthur lo osservò confuso e allo stesso tempo preoccupato, non capendo quale fosse il problema.

«Dobbiamo sbrigarci, le guardie saranno qui tra poco» furono le sole parole che riuscì a dire cercando di trovare una risposta ai propri interrogativi sul viso inespressivo di Paul.

«Non posso lasciare alla Francia questo bambino. Non lo voglio consegnare a nessuno, posso crescerlo in campagna, senza che arrivi mai a conoscere la verità sulle proprie origini»

Arthur rimase interdetto per qualche secondo, anche se si era preparato ad una simile eventualità. Paul aveva trovato un essere simile a lui. Quel bambino condivideva lo stesso codice genetico del biondo, si poteva tranquillamente definire la versione della bête de Guive successiva a Verlaine. Rimbaud provò ad essere il più comprensivo possibile, ma non era né il momento né il luogo per assecondare i capricci del proprio partner.

«Questo ragazzino è come te. Per questo deve venire con noi, solo in questo modo possiamo proteggerlo» sperò di essere stato abbastanza convincente ma dall’espressione comparsa sul viso di Paul comprese come non avesse funzionato. Il biondo sembrò ferito da quelle parole.

«Non riesci ad immaginare come il sapere di non essere umano potrebbe influenzare la tua vita? Le tue scelte? Sapere che la propria esistenza non è opera di Dio ma solo il risultato di calcoli e formule matematiche. Che la nostra anima come il nostro corpo è fredda, artificiale. È la stessa sensazione che si può provare a stare sul fondo di un burrone, talmente oscuro che nemmeno la luce della luna riesce ad illuminarlo»

No. Arthur non lo sapeva, non avrebbe mai potuto capire come ci si sentiva. Era il suo limite, non sarebbe mai riuscito a comprendere i più intimi pensieri dell’animo di Paul.

«Tu sei umano…» Non sapeva che altro dire. Lui credeva veramente a quelle parole. Quando osservava il proprio partner vedeva solo il suo bellissimo viso, quei capelli lunghi e setosi, lo sguardo magnetico. Non la bestia portatrice di distruzione che aveva calpestato il proprio creatore e che il governo gli aveva affidato. Lo vide alzare un braccio ed impugnare una pistola. Doveva averla rubata durante l’incursione. Non se ne era accorto.

Hai intenzione di sparare, Paul?

Restò in silenzio ad attendere il rumore di un colpo che non arrivò mai. Quando aprì gli occhi, che non si era nemmeno accorto di aver chiuso, trovò il proprio partner inginocchiato a terra con entrambe le mani a coprirsi il volto.

«Non posso farlo» furono le sue uniche parole;

«Io ti odio Arthur ma non posso spararti» continuò. La spia dai lunghi capelli corvini si avvicinò a lui, chinandosi per cercare di vedere quel volto di solito sempre freddo e impassibile distorto per la prima volta da emozioni umane.

«Va tutto bene» tentò di calmarlo, controllando nel frattempo che il suo potere restasse sotto controllo. Cercò anche di prendere il bambino dalle spalle del biondo, ma l’occhiata che ricevette lo fece desistere; in quel momento Verlaine sembrava una leonessa pronta a sbranare chiunque si fosse avvicinato troppo al proprio cucciolo.

«Non ho intenzione di fargli nulla» cercò di giustificarsi.

«Vuoi consegnarlo alla Francia. Vuoi che cresca come me. Farne un’arma»

«Mon Dieu. Paul, sto cercando di aiutarti. Cosa vuoi che faccia? Che tradisca il mio Paese? Va bene lo farò se servirà a qualcosa. Scapperemo con questo bambino e lo cresceremo in campagna esattamente come vuoi tu. Ti domando solo una cosa: hai pensato alle conseguenze?» bastò che Verlaine incrociasse il suo sguardo per capire che no, non lo aveva fatto, ma anche che non sarebbe riuscito a fargli cambiare idea. Rimbaud si abbandonò ad un sospiro stanco appoggiandosi ad una delle pareti del corridoio.

Dovevano andarsene, presto li avrebbero raggiunti.

«Va bene Paul. Hai vinto» esclamò alzando per l’ennesima volta lo sguardo verso l’alto. Solo in quel momento il biondo sembrò rilassarsi. Prese il bambino tra le braccia sistemandogli una ciocca di capelli ramati dietro ad un orecchio. Esattamente come Arthur faceva con lui.

«Grazie» fu tutto ciò che disse.


 

***


 

Erano appena usciti dall’edificio. Una nuova alba stava sorgendo su Yohokama. La città si stava risvegliando completamente ignara che in una base militare segreta, quella notte, fosse stata trafugata un’arma di distruzione di massa. Paul osservò nuovamente l’arma in questione, placidamente addormentata tra le proprie braccia. Fu il compagno il primo a parlare, dopo essersi perso a contemplare quell’immagine forse più del dovuto, con un’aria sognante. Quei due insieme erano una meraviglia, tanto belli quanto pericolosi. Arthur si chiese se sarebbe mai riuscito a proteggere quelle creature anche da loro stesse, dalla distruzione che caratterizzava le profondità del loro animo. Sperò che quel bambino non avesse ereditato troppo da Paul, che potesse vivere serenamente. Si sarebbe impegnato per renderlo possibile.

«Dovremmo dargli un nome non credi?» Fu la prima cosa che riuscì a dire continuando a contemplare l’orizzonte e i giochi di colore che il sole creava sulla superficie dell’oceano. Era stata la prima cosa a cui Rimbaud aveva pensato. In fondo aveva fatto lo stesso quando gli era stato affidato Paul. Il biondo si voltò ma solo per fissarlo confuso;

«Ok. Pensaci tu» rispose quasi annoiato per poi tornare a prestare tutta la propria attenzione al piccolo ancora addormentato.

«Mi hai dato un nome, puoi trovarne uno anche per lui» aggiunse dopo qualche minuto, intuendo come le proprie parole potessero essere state fraintese. Non era ancora abituato ad esprimersi correttamente ma Rimbaud era sempre riuscito a comprenderlo.

«Charles» nel udire quel nome, Verlaine alzò il capo per cercare il suo sguardo. Arthur sapeva cosa il proprio compagno gli stava domandando, non servivano parole. Anche se non ne avevano mai parlato apertamente era certo che Paul sapesse di Charles, di cosa fosse stato per lui, cosa aveva rappresentato.

Era una stagione della sua vita ormai passata. Charles Baudelaire restava solo un fantasma, un ricordo che conservava ancora, nonostante tutto, il potere di ferirlo.

C’era stato un tempo, in un piccolo paesino delle Ardenne, in cui un giovane Paul Verlaine aveva amato Charles Baudelaire. Ora però non restava più nulla di quel sentimento infantile che li aveva legati. Erano morti entrambi, di loro rimaneva solo l’eco di ricordi sbiaditi tra le pieghe del tempo. E una promessa, che non si era mai realizzata, distrutta dalla realtà del loro mondo.

Forse era stata una scelta dettata dal proprio egoismo, ma di fronte all'insolita richiesta di Paul, solo un nome aveva sfiorato la mente di Arthur.

«Charles» ripeté con voce ferma specchiandosi nel ghiaccio delle iridi del proprio compagno. Verlaine dopo qualche istante d’incertezza gli sorrise;

«Come vuoi» concesse allungando una mano per accarezzare il viso del bambino ancora rannicchiato tra le proprie braccia.

«Ti somiglia» era davvero un’affermazione banale ma Arthur non era riuscito a trattenersi. Vedere Paul e il piccolo Charles insieme gli aveva ricordato il calore di una famiglia. Un’emozione che credeva di aver dimenticato.

«Charles» continuò a sussurrare Verlaine, cullando il bambino;

«Charles Marie Rimbaud Verlaine, non suona male»

Entrambi sorrisero tornando a contemplare l’alba. Le loro mani si sfiorarono per poi andare ad intrecciarsi.

Era un nuovo inizio.


 

***


 

Un anno dopo

Dintorni di Parigi


 

«Quando torna Paul?» Arthur intento a cucinare, aveva osservato il piccolo Charles per qualche minuto prima di alzare gli occhi al cielo.

Aveva accolto, seppur con qualche riserva, il desiderio del proprio compagno. Stavano crescendo Charles in campagna. A Rimbaud quel posto ricordava molto il luogo che aveva abbandonato per inseguire i propri sogni di gloria. Per servire quello stesso Paese che lo aveva solo sfruttato e che ora lo reputava un traditore. Ad uno sguardo distratto potevano sembrare una famiglia come tante. Per il mondo, Charles “Charlie” Marie Verlaine era il fratello minore di Paul, che entrambi avevano deciso di crescere dopo la scomparsa improvvisa dei genitori.

Nonostante tutto, Rimbaud e Verlaine avevano continuato a lavorare come assassini su commissione. Paul sosteneva che uccidere fosse in qualche modo il proprio unico talento e lui, come sempre, lo aveva assecondato.

Non capiva come mai non riuscisse a negare nulla al biondo. Era stato così sin dal primo momento in cui se l’era caricato sulle proprie spalle. Quando aveva visto per la prima volta quel mostro da vicino, era stato allora che aveva firmato letteralmente la propria condanna. C’era qualcosa di invisibile che lo legava a quell’essere e nemmeno lui riusciva a spiegarsi a parole cosa fosse. Era impossibile da definire, come lo era l’affetto che aveva in poco tempo, sviluppato per quel bambino.

«Sta lavorando» rispose tranquillamente iniziando ad affettare della verdura. Il piccolo incrociò le braccia al petto e lo fissò con lo stesso sguardo di sfida che era solito riservargli il biondo. Era in quei momenti che dimostravano di essere fatti della stessa pasta. Due gocce d’acqua.

«Sta sempre lavorando» si lamentò puntando i piedi.

«Se vogliamo sopravvivere dobbiamo lavorare. Il cibo non cresce sugli alberi e le bollette non si pagano da sole» Arthur sapeva che era inutile intavolare quel tipo di conversazione con un bambino di otto anni, ma non sapeva che altro fare. Charles sapeva essere testardo. Preferì non chiedersi da chi mai avesse preso, visto che sia lui che Verlaine avevano caratteri difficili.

«Paul dice che una volta non avevate tutti questi problemi» Arthur si appuntò mentalmente di fare un discorso al proprio compagno. Soprattutto su cosa fosse giusto dire e cosa meno al bambino. Vedendo che non stava ricevendo alcuna risposta Charlie continuò;

«È forse per causa mia?» Rimbaud smise immediatamente di respirare, voltandosi per la prima volta a fissare il figlio;

«Questo non devi pensarlo mai più» disse abbassandosi quel tanto che bastava per poterlo guardare negli occhi. Si specchiò in quelle iridi identiche a quelle dell'uomo per il quale era giunto a tradire il proprio Paese.

«Non so cosa ti abbia detto Paul ma non devi più pensare ad una cosa simile va bene?»

«Mi ha detto che siete diventati dei criminali per colpa mia» il moro imprecò sottovoce.

«Non mi sembra di aver usato quelle parole» Entrambi si voltarono verso quella voce. Verlaine era tornato e si trovava sulla soglia di casa. Il piccolo Charlie gli corse incontro saltandogli letteralmente tra le braccia. Arthur invece mantenne un’espressione seria e leggermente irritata; restando in attesa di una spiegazione che non tardò ad arrivare,

«Gli ho solo raccontato di come la nostra vita fosse diversa prima del suo arrivo» si scambiarono l’ennesima occhiata prima che l’attenzione del Re degli Assassini venisse richiesta dal figlio.


 

Quella stessa sera, quando furono finalmente soli, Rimbaud decise di riprendere il discorso. Non voleva turbare il bambino, stava facendo l’impossibile perché dimenticasse il proprio passato, anche se gli incubi ogni tanto tornavano a tormentarlo.

«Devi fare attenzione a ciò che racconti al piccolo» lo ammonì prima di raggiungerlo in soggiorno. Paul lo fissò confuso.

«Perché?»

«Hai voluto a tutti i costi salvarlo dal Governo per crescerlo come un normale essere umano. Non puoi svelare troppo sul nostro passato, come sui dettagli della sua ehm nascita» non era certo di aver trovato le parole adatte per esprimere al meglio le proprie preoccupazioni. La pace che si erano ritagliati era effimera, bastava solo un passo falso per far svanire l'illusione nella quale si erano rifugiati. Rimbaud avrebbe difeso Paul e Charles fino al suo ultimo respiro. Era la sola certezza della quale al momento disponeva.

«Inizia a fare domande» Arthur non poté evitare di sorridere, ripensando ai primi mesi trascorsi con il biondo

«È un bambino, è normale che sia curioso» Verlaine storse il naso;

«Non è un bambino è un’anima artificiale esattamente come il sottoscritto» Rimbaud gli tirò un cuscino;

«Se non la smetti con questi discorsi questa notte dormirai sul divano, e non sto affatto scherzando»

«Era da tanto che non mi minacciavi» gli fece notare dopo essersi avvicinato

«Disse quello che mi puntò addosso una pistola»

«Non ti avrei mai sparato» rispose offeso

«Ma se lo avessi fatto? Pensi mai a cosa sarebbe successo?»

«Avremmo combattuto. Io ti avrei ucciso e sarei fuggito con Charlie» Arthur lo spinse via, facendo leva con entrambe le braccia;

«Sei veramente sicuro che le cose sarebbero andate in questo modo?» Non aveva mai voluto soffermarsi troppo sull’idea di dover affrontare il proprio compagno, ma era certo che non sarebbe stato così semplice, gli avrebbe dato del filo da torcere.

«Per fortuna non dovremo mai scoprirlo» concluse Verlaine dirigendosi verso la cucina per poi afferrare una bottiglia di vino e un paio di bicchieri. Arthur lo fissò confuso per qualche secondo;

«Cosa si festeggia?» Paul scoppiò a ridere;

«Esattamente un anno fa, ti sei presentato nel nostro nascondiglio con un budino e del vino sostenendo di voler festeggiare la mia nascita e ora manco te la ricordi» Rimbaud si diede mentalmente dello stupido, si era dimenticato il compleanno del proprio compagno. Verlaine non si lasciò scappare l’occasione;

«Quali erano state le tue parole? Ah sì: vale la pena festeggiare la tua nascita» annunciò con fare solenne porgendogli del vino.

«Perdonami. Non so davvero dove io abbia la testa» ammise accettando il bicchiere.

«Passi le giornate a destreggiarti tra il lavoro, me e Charlie» Arthur si stupì di quanto in poco tempo il biondo fosse maturato. Il piccolo Charles aveva fatto crescere entrambi, ma quelle parole lo avevano sorpreso.

«Grazie» fu tutto ciò che riuscì a dire.

Paul intanto si era fatto più vicino. L’ex spia chiuse gli occhi aspettando un bacio che non arrivò mai.


 

***


 

Realtà originale


 

Charles Baudelaire decise di prendersi qualche minuto di pausa da quella visione.

Aveva pensato di utilizzare la propria Abilità per osservare Verlaine e la sua idea di mondo ideale, ma quello che aveva visto era decisamente troppo. Non si sarebbe mai aspettato una cosa del genere.

Per prima cosa, aveva rivisto la missione Arahabaki e l’esatto momento in cui Rimbaud aveva deciso di assecondare il proprio compagno.

Poi era comparso il famoso Nakahara Chuuya, l’essere così simile a Black, che in quella fantasia le due spie avevano ribattezzato Charles.

Quella era un’altra delle cose che non si sarebbe mai aspettato di vedere. Era un’ulteriore prova del fatto, che nonostante tutto, Paul lo amasse ancora.

Forse, la cosa più difficile da sopportare, era stato vedere quei due così affiatati. Se Rimbaud avesse assecondato il desiderio di quel mostro avrebbero potuto vivere come una famiglia felice.

L’Abilità di Carroll era spaventosa. Permetteva davvero di vedere i propri sogni realizzati.

«C’è qualche possibilità che si trasformi in un incubo?» domandò dopo essere andato a sciacquarsi il volto. Non voleva mostrare il proprio turbamento di fronte a quanto aveva visto. Carroll gli sorrise, tornando a fissare Verlaine ancora profondamente addormentato a qualche metro da loro.

«Arthur Rimbaud è morto. Ciò significa che prima o poi anche in quel sogno accadrà lo stesso. È il destino»

«Ne sei sicuro? Non hai forse detto che in Inghilterra hai ancora gente abbandonata alle proprie fantasie?»

«Ci sono delle persone che preferiscono vivere in un incubo piuttosto che affrontare la realtà. Perché non mi hai mai chiesto di utilizzare la mia Abilità su di te, Charles?» erano giorni che quella domanda lo tormentava.

Baudelaire e Verlaine erano molto simili, allora perché la spia non aveva mai menzionato una simile possibilità?

«Contrariamente a questo essere io so che i morti non possono tornare in vita. Nessuna Abilità può restituire ciò che è stato perso. Perché quindi ferirsi con un’illusione? Non ha senso»

«Hai forse visto qualcosa di terribile?» Baudelaire scosse il capo senza rispondere.

Aveva visto lo sguardo innamorato del suo Paul, le sue mani intrecciate con quelle di quel mostro senz’anima. Faceva male, ma sapeva che un simile scenario non era destinato a durare.

Attivò nuovamente la propria Abilità.


 

***


 

Wonderland



 

«Tu e Arthur avete combattuto durante la guerra, vero?» Paul Verlaine aveva pigramente alzato gli occhi dal quotidiano che stava leggendo per osservare meglio il figlio. Charlie stava facendo i compiti seduto alla propria scrivania, quando all’improvviso, se ne era uscito con una simile domanda.

«Eravamo due spie» si limitò a rispondere. Non sapeva perché, ma non amava ripensare a quella particolare stagione della propria vita. Gli appariva così lontana, distante. Quasi si fosse trattato di un sogno.

«Eravate dei Poètes Maudits» il biondo storse il naso nell’udire quel termine.

«Se lo sai allora perché lo chiedi?»

«I genitori di Clarisse lavoravano in banca, ma dopo la guerra sono diventati semplici operai. Quelli di Jacques invece hanno sempre fatto i dottori» Verlaine stava iniziando a comprendere cosa avesse scatenato la curiosità del bambino e dove volesse andare a parare con tutte quelle domande;

«State forse studiando gli anni della guerra?» domandò ripiegando il quotidiano

«Si. La nostra insegnante ha detto che anche se si è conclusa da poco è importante che le nuove generazioni imparino dagli errori del passato per non poterli commettere di nuovo in futuro. Io trovo che abbia senso» il Re degli Assassini abbozzò un sorriso;

«Si, ne ha. La tua insegnante è molto saggia»

«Quindi cosa facevate come spie durante la guerra? Dove eravate quando è scoppiata? Stavate già insieme?» Verlaine ci mise qualche secondo prima di rispondere, soprattutto all’ultima domanda.

Era vero che il suo rapporto con Rimbaud era cambiato dal giorno in cui avevano deciso di allevare Charlie, ma non riusciva a comprendere cosa il bambino intendesse con quel “stare insieme”.

Lui e Arthur erano sempre stati insieme.

Decise di rispondere con ordine ad ogni domanda sperando che la curiosità di quella piccola furia rossa si placasse.

«Lavoravamo per l’intelligence francese. Arthur era uno degli agenti migliori. Aveva svolto con successo molte missioni anche all’estero. Ricordo che andava spesso a Londra e conosceva molti esponenti della Torre dell’Orologio, un’altra organizzazione inglese»

«Tu invece che facevi?» lo incalzò il bambino, sempre più curioso.

Ero un’arma da tenere sotto controllo. Un pericoloso essere artificiale. Un mostro. Ero la sua missione.

«Facevo ciò che mi veniva ordinato.» Charlie non parve soddisfatto della risposta.

«Mi avevano affidato a Rimbaud. È stato lui ad insegnarmi ogni cosa» a quelle parole, il bambino parve illuminarsi;

«Come tu stai facendo con me, mostrandomi come utilizzare la mia Abilità?»

«Qualcosa del genere» concesse il biondo, ripensando a quel periodo. Sembrava essere passata un’eternità da quei giorni.

«E quando è scoppiata la guerra invece dove eravate?» nemmeno il tempo di prendere fiato che il piccolo era tornato all’attacco. Paul soffocò una risata. Sebbene non avessero legami di sangue quel bambino somigliava sempre più a loro. Era un fatto innegabile, come lo sguardo che in quel momento gli stava rivolgendo.

Un’imitazione perfetta dell’espressione di Arthur.

«Ricordo che eravamo a Parigi. C’era un Cafè dove eravamo soliti a darci appuntamento»

«Vorrei tanto visitare quella città. Ne parlate sempre» Verlaine storse il naso. Erano ancora ricercati dal Governo. Andare nella capitale era fuori discussione, ma come poteva farlo capire al figlio?

«Un giorno ti prometto che ci andremo tutti insieme» sperò di essere stato abbastanza convincente. Mentire a Charlie gli risultava sempre difficile.

«Quindi era scoppiata la guerra?»

«Già e il giorno dopo Arthur mi disse che sarebbe partito per la Germania»

«Ma non potevi andare con lui?»

«Non era possibile»

«Il lavoro di spia non mi piace» decretò incrociando le braccia. Il sorriso sul viso di Verlaine si allargò,

«Per questo l’abbiamo cambiato» non serviva che Charlie conoscesse altri dettagli.

«Allora tu sei rimasto a Parigi e Arthur in Germania e poi?» la curiosità dei bambini era senza freni. L’ex spia si arrese, posando il quotidiano sul tavolo per poi avvicinarsi al figlio.

«Ci siamo rivisti durante la Battaglia di Parigi» il rosso sgranò gli occhi per la sorpresa.


 

***


 

Qualche stagione prima


 

- Battaglia di Parigi -


 

Dopo mesi di lontananza aveva rivisto Rimbaud nel bel mezzo dello scontro, mentre entrambi stavano utilizzando le proprie Abilità Speciali per evacuare i feriti. Verlaine era arrabbiato con il compagno per non averlo mai contattato in quei mesi ma anche felice di saperlo vivo.

«Allora, come era il clima a Berlino?» Arthur gli aveva rivolto uno sguardo assassino, dopo averlo raggiunto dall’altra parte della strada. Dopo mesi, quelle erano le prime parole che il biondo gli rivolgeva. Non riuscì a nascondere la propria delusione.

«Non mi sembrava di averti insegnato il sarcasmo»

«Ma io sono davvero curioso di saperlo, in fondo non ho mai lasciato questo Paese» Rimbaud alzò gli occhi al cielo, nonostante la lontananza il partner non era affatto cambiato.

«Se avessi potuto sarei rimasto, ma dovevo obbedire agli ordini. Lo sai»

«E allora l’ordine di badare a me?»

«Non fare il bambino capriccioso Paul. L’intero continente è in guerra, la mia presenza era richiesta altrove»

«Ora anche io sono diventato un Trascendentale» ammise abbassando il capo. Rimbaud sorrise.

«Lo sei sempre stato fin dalla tua creazione. A quanto pare la Francia ha un disperato bisogno di uomini» concluse affondando il viso nella propria sciarpa, scosso dall’ennesimo brivido di freddo.

«Come pensi che andrà a finire?» Avevano già affrontato un discorso simile, era stato il giorno in cui quel conflitto era iniziato.

«Perderemo la guerra. Se ancora non te ne fossi accorto, Parigi è caduta»

«Perché non posso usare la mia Abilità?» si lamentò Verlaine calciando via una delle macerie ai propri piedi;

«Non conosciamo ancora la portata del tuo potere. È vero, io so come controllarlo, ma se oltrepassassi il limite? C’è la possibilità che tu ti auto-distrugga e io non voglio rischiare, non posso permetterlo» Non appena si accorse di quanto detto, Rimbaud si affrettò a nascondere nuovamente il viso dentro la propria sciarpa; il biondo fece ancora qualche passo in avanti.

«Hai freddo?» il moro annuì cercando di evitare quello sguardo di ghiaccio che non sembrava intenzionato a lasciarlo. C’era però ancora una cosa che Verlaine non gli aveva domandato;

«Perché sei tornato? Anzi quando?» Tutto era racchiuso in quelle due frasi. Arthur se le aspettava dal momento stesso in cui si erano rivisti. Conosceva il proprio partner meglio di chiunque altro.

«Da un paio di giorni» si trovò ad ammettere. Non aveva senso mentire.

«Perché non hai mai risposto ai miei messaggi?»

«Siamo in guerra, potevano trovarmi. Non ti ho insegnato nulla?» il moro stava iniziando ad averne abbastanza di quel comportamento infantile;

«Pensavo fossi morto» Arthur finalmente si decise ad alzare il capo per poter incontrare gli occhi del biondo.

Era stato uno stupido.

Paul si era sentito abbandonato. Rimbaud era così abituato a pensare solo a sé stesso che non aveva realizzato quanto il suo comportamento avesse potuto ferire il partner.

«Credi che basti così poco per uccidermi? Mi ferisci» tentò di scherzare, allungando una mano accarezzandogli il capo. Di colpo, era come se non fosse mai partito.

«Ti sono cresciuti i capelli» gli fece notare, passandosi quei fili biondi tra le dita; erano setosi come li ricordava.

«Non ho avuto modo di tagliarli» si giustificò, strappandogli un sorriso. C’erano delle volte in cui Verlaine sembrava davvero un bambino.

«Ti stanno bene» aggiunse, prima di iniziare a intrecciare tra loro quelle ciocche dorate.

«Che stai facendo?»

«Zitto e vieni più vicino» l’essere artificiale fece quanto detto.

«Voilà» Arthur gli aveva semplicemente spostato i capelli dal volto acconciandoli in una treccia che ricadeva di lato, legandoli in una coda bassa.

«Così quando combatti non avrai nulla davanti agli occhi» rispose mettendogli entrambe le mani sulle spalle. Paul non si mosse, fissando la propria figura e quella di Rimbaud riflesse in uno vetro rotto.

«Alla prossima missione verrò con te. Non mi importa di cosa diranno i nostri superiori» Arthur sorrise, il freddo che provava aveva lasciato il posto ad un’altra sensazione che solo la presenza del proprio partner sapeva donargli.

Non poteva dire se fosse un caso o meno, ma Verlaine aveva ereditato anche la sua testardaggine. A volte gli ricordava se stesso. Il vecchio Paul, l’uomo che aveva finito con il condannare a morte il proprio migliore amico.

Scosse la testa. Non era il momento per lasciarsi andare a simili pensieri.

«Hai un posto dove passare la notte?» Arthur venne riportato alla realtà dalle parole del biondo.

«Penso che il mio nascondiglio sia stato distrutto questo pomeriggio» si trovò ad ammettere. Verlaine accennò ad un sorriso;

«Credo che il nostro vecchio appartamento esista ancora»

«Allora non ci resta che andare a controllare non credi?»


 

***


 

Wonderland


 

«Secondo questo libro, la Battaglia di Parigi è durata ben tre giorni»

Verlaine annuì alle parole del figlio.

«Gran parte della città era stata distrutta» continuò il bambino;

«Diciamo che i nostri nemici non si erano risparmiati. Quasi tutta la rive gauche era irriconoscibile» proseguì l’uomo, accavallando le gambe pensieroso. Sembrava passata un’eternità da quei giorni, eppure poteva ancora udire il suono delle sirene, le urla della popolazione mentre fuggiva tra le macerie dei palazzi. Il volto addormentato di Arthur illuminato dalle prime luci del mattino.

«Stavate già insieme durante la guerra?» Come tutti i bambini anche Charles era solito passare da un argomento all’altro. A quella domanda però Verlaine non sapeva davvero come rispondere;

«Io e Arthur siamo sempre stati insieme mi sembra di avertelo già detto» il rosso scosse il capo;

«Insieme insieme come ora» finalmente Paul sembrò afferrare il concetto.

«Dopo che sei arrivato tu» ammise.

Era vero. Dopo che Arthur aveva acconsentito a crescere Charlie qualcosa nel loro rapporto era mutato. Non erano stati che tanti piccoli cambiamenti, avvenuti in modo graduale e spontaneo. Un primo avvicinamento era avvenuto prima della partenza per il Giappone, quando Rimbaud aveva insistito per celebrare il suo compleanno, ma era stato solo dopo il ritorno in patria che qualcosa era scattato.

Dopo Suribachi erano tornati a Parigi. Nonostante entrambi sapessero come la capitale non fosse affatto un luogo sicuro, avevano deciso di ricostruire le loro vite proprio da lì. Arthur doveva recuperare armi e documenti che li avrebbero aiutati a crearsi delle nuove identità.

In quei giorni caotici, Verlaine non aveva mai abbandonato il bambino. Il piccolo Charlie aveva dormito per quarantotto ore dopo la fuga dal laboratorio. Dopo il suo risveglio non aveva detto una parola. Rimbaud aveva provato a rivolgersi a lui in giapponese ma il rosso aveva scelto di barricarsi dietro ad un muro fatto di silenzio.

«Tu sei il mio fratellino» Aveva esordito il biondo parlando in francese. Charlie lo aveva guardato confuso.

«Arthur sta preparando i nostri nuovi documenti. Secondo quei pezzi di carta tu ora sei mio fratello. Se ci pensi noi siamo simili, anche io sono nato in un laboratorio come quello in cui ti abbiamo trovato» vedendo che non stava ottenendo nessuna risposta proseguì.

«È stato Arthur a trovarmi. Quattro anni fa. Mi ha dato un nome esattamente come ha fatto con te. Mi ha anche insegnato ad utilizzare il mio potere» il bambino sembrò confuso.

«Noi siamo speciali Charlie» aggiunse utilizzando la gravità per far volare dei piccoli oggetti nella stanza. Il più piccolo, dopo il timore iniziale prese ad osservarli emozionato.

«Ti porteremo al sicuro, in campagna e una volta lì ti insegnerò come fare. Non tornerai mai più in quel posto»

«Non mi riporterete al laboratorio?» Per un secondo Verlaine pensò di esserselo immaginato. Charlie non solo aveva parlato ma si era espresso in un francese perfetto.

«No, resterai con noi» rispose. Fu allora che il piccolo si sporse in avanti per abbracciarlo.

Quando Rimbaud tornò nel piccolo appartamento che utilizzavano come rifugio, trovò Charlie addormentato tra le braccia del biondo che lo guardava incantato.

«Ha parlato» lo informò sottovoce. Arthur sorrise;

«Non ne avevo dubbi. Aveva solo bisogno di tempo. Andrà tutto bene»

«Abbiamo solo il Governo sulle nostre tracce e un’accusa di tradimento che pende sulle nostre teste» gli fece notare il biondo con sarcasmo.

«Finché saremo insieme andrà tutto bene. Non permetterò che vi facciano del male»

«Senza offesa, ma tu sei umano. Sarò io a proteggerti»

Rimbaud gli scoppiò a ridere in faccia prima di chinarsi quel tanto che bastava per far collidere le loro labbra. Si guardarlo negli occhi per poi sorridere entrambi mentre le loro mani andavano ad intrecciarsi.

Da quel momento in poi niente sarebbe più stato come prima.
















 

*«A me. La storia di una delle mie follie»

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Capitolo 7
*** VII Stagione - Impossible ***


VII Stagione - Impossible






 

 

«Mes deux sous de raison sont finis»*


Une Saison en Enfer – Impossible








 

Wonderland



 

Arthur Rimbaud gli aveva insegnato molto, ma era stato solo grazie al piccolo Charlie se Verlaine aveva appreso per la prima volta cosa volesse dire avere una famiglia.

Dopo quel bacio, il rapporto tra le due spie aveva iniziato gradualmente a cambiare.

Il primo passo, fu iniziare a dormire insieme.

In passato, era già capitato che dovessero condividere un giaciglio, soprattutto durante qualche missione, ma adesso vi era una consapevolezza diversa.

Dopo aver lasciato Parigi con delle nuove identità, i tre avevano trovato rifugio in un piccolo paese di campagna vicino a Beauvais. Rimbaud aveva scelto per loro un’abitazione semplice, per non dare troppo nell’occhio. Una villetta con un giardino, cucina, soggiorno, due bagni e due camere da letto, in una delle quali spiccava un bellissimo letto matrimoniale. Arthur ricordava di essere rimasto per una manciata di minuti ad osservare l’oggetto incriminato, temendo da un momento all’altro una reazione da parte del compagno. Contro ogni previsione, Verlaine non aveva detto nulla, limitandosi a sistemare i propri vestiti nell’armadio come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Dopo quel primo bacio ne erano seguiti altri, ma era sempre stato Rimbaud a prendere l’iniziativa.

Verlaine sembrava completamente assorbito dalla cura del bambino e il moro non voleva turbarlo con le proprie paranoie. Desiderava solo ricevere una qualche conferma da parte sua. A volte il compagno riusciva ad essere davvero impenetrabile. Arthur si rendeva perfettamente conto della situazione delicata nella quale si trovavano. Erano in fuga, avendo rubato al Governo un’arma potentissima, non era il caso di sommare altri problemi a quelli già esistenti.

Tuttavia non poteva fare a meno di interrogarsi sul comportamento di Paul. Avrebbe potuto rifiutarlo ma non lo aveva fatto. Si ripromise di affrontare quel discorso con lui una volta che la tempesta fosse passata.

L’ex spia sospettava che i Poètes non si sarebbero arresi ma non era pentito della propria scelta. Aveva preso quella decisione per il proprio partner ma anche per Charlie. Dopo quanto accaduto a Baudelaire, Rimbaud si era impegnato per diventare una spia perfetta, ma ancora una volta non era stato in grado di abbandonare i propri sentimenti.

Le emozioni non consentono di agire lucidamente per questo un agente segreto deve imparare a controllarle.

Quante regole avevano condizionato la sua vita.

Ritornò con la mente a Suribachi, quel giorno avrebbe davvero avuto il coraggio di combattere contro Verlaine? Non voleva scoprirlo anche se una parte di lui conosceva già la risposta. A volte il biondo lo faceva davvero arrabbiare e non dubitava che in situazioni estreme entrambi avrebbero finito con il perdere il controllo. Osservò il piccolo Charles vagare curioso per la nuova abitazione e ringraziò ogni divinità esistente per aver preso una simile decisione.

Scoprì con il tempo come crescere un bambino non fosse facile come se lo era immaginato, soprattutto se si trattava di un ex esperimento governativo.

Rimbaud poteva vantare una discreta dose di esperienza grazie a Paul, ma Charlie era un altro paio di maniche. Sin dalla prima notte nella nuova casa, vennero svegliati dal suono delle sue urla.

«Incubi o forse farei meglio a dire ricordi dolorosi» fu il solo commento di Verlaine dopo essere tornato dalla stanza del bambino.

Quando il proprio partner era accorso al capezzale del piccolo, Arthur non lo aveva fermato. Rimbaud sapeva come Paul fosse l’unico in grado di calmare Charlie quando aveva delle crisi. Quei due si capivano anche senza bisogno di parlare. Se inizialmente era stato geloso di quel legame ora ne era felice. Verlaine aveva finalmente trovato qualcuno in grado di capirlo. Non aveva mai desiderato altro per il proprio compagno.

Quando questi episodi si fecero più frequenti fu Arthur a proporre di far dormire Charlie nel loro letto.

«È una soluzione momentanea. Fino quando gli incubi non cesseranno. Ha bisogno di te Paul. Io me ne starò nell’altra stanza» Verlaine lo aveva osservato poco convinto, per poi annuire.

Adorava prendersi cura di Charlie ma allo stesso tempo sentiva che si stava allontanando da Arthur. Capitava di rado che rimanessero soli, così presi dal piccolo e dal costruirsi una nuova vita lontano dalla minaccia dei Poètes.

Una sera, dopo aver messo a letto il bambino, Verlaine raggiunse il proprio compagno in soggiorno. Rimbaud aveva l’aria stanca e una pesante coperta sulle spalle.

«Dorme?» domandò, alzando il viso da una pila di documenti che reggeva tra le mani;

«Si, spero che almeno per un paio d’ore non si svegli. Cosa stai facendo?» chiese avvicinandosi curioso;

«Ho accettato un nuovo incarico come sicario. Stavo studiando le informazioni sul caso»

«Tu? Un sicario?» non fece nulla per mascherare la propria sorpresa;

«Abbiamo bisogno di soldi e ho un discreto talento nell'uccidere. So come muovermi nell’ombra, inoltre posso vantare una serie di contatti sparsi per l’Europa, quindi perché no?» Verlaine sbatté le palpebre;

«Ho solo pensato che sarebbe un lavoro più adatto ad un mostro come me» Rimbaud alzò gli occhi al cielo, era da tempo che il biondo non se ne usciva con quel discorso;

«Te lo ripeterò un milione di volte se necessario. Tu sei umano. Charlie è umano» non gli diede tempo di replicare che con un movimento fulmineo lo tirò a sé per baciarlo. Verlaine lo assecondò come sempre, allungando le mani dietro la sua schiena, desiderando maggior contatto.

Si staccarono qualche istante dopo.

«Non ti bacerei in questo modo se pensassi che tu fossi un mostro» Paul lo fissò sorpreso;

«Allora perché lo fai?»

«Perché voglio farlo. A te sta bene?» sapeva che poteva sembrare un discorso da adolescenti in piena crisi ormonale, ma aveva bisogno di ricevere una qualche conferma da parte del proprio compagno;

«A volte mi chiedo perché tu non l’abbia fatto prima» Rimbaud scoppiò a ridere sollevato;

«Potresti prendere l’iniziativa anche tu» non aveva terminato la frase che il biondo si era chinato per far collidere nuovamente le loro labbra.

Vennero interrotti solo dalle grida di Charlie. Si guardarono negli occhi.

«Va da lui» concesse Rimbaud. Il biondo annuì dirigendosi come un fulmine verso la camera dove riposava.

Arthur non era geloso del bambino, anzi adorava vedere il proprio partner occuparsi di lui, ma c’erano delle volte in cui non sopportava di doverlo condividere con qualcuno. Era un pensiero egoistico oltre che infantile ma Paul era sempre stato in un certo senso suo. Scosse la testa ridendo tra sé per l’assurdità dei suoi stessi pensieri.

Una volta cessate le urla, decise di raggiungere la camera da letto. Trovò il proprio compagno intento a cullare Charlie. Verlaine teneva il bambino stretto tra le braccia, esattamente come il giorno in cui erano fuggiti da quel laboratorio di ricerca. Osservava quella creatura come se fosse la cosa più preziosa al mondo.

«Si è addormentato?» domandò con un filo di voce;

«Quasi. Continuava a ripetere il nome di un certo professor N o dottor N, non ricordo»

Rimbaud prese posto accanto a loro, appoggiando il mento sulla spalla del compagno.

«Tu cosa ricordi del tuo passato col Fauno?» in tanti anni che si conoscevano, non avevano mai sfiorato quell’argomento. Paul abbozzò un sorriso stanco; sistemando meglio il bambino sotto le coperte.

«Quasi nulla. Ero sotto il suo controllo. Avevo la mente costantemente annebbiata. La prima cosa che ricordo con chiarezza è stato il suono della tua voce» si baciarono di nuovo. Fu un contatto breve ma molto più intimo del precedente.

«Vi proteggerò» promise Rimbaud, facendo intrecciare le loro mani.

«Devo ricordarti che so badare a me stesso? E poi non vedo l’ora di vedere l’Abilità di questo ragazzino, qualcosa mi dice che sarà simile alla mia» entrambi si voltarono verso il piccolo ormai addormentato;

«Lo hanno creato prendendo te come modello, quindi credo sia probabile che anche le vostre Abilità si somiglino»

Arthur fece per andarsene ma il biondo lo fermò afferrandolo per la manica della camicia;

«Ora cosa c’è?»

«Resta qui questa notte»

«Non credo ci sia abbastanza spazio» gli fece notare, alzando lievemente un sopracciglio indicando il letto.

«Se lascio Charlie riposare su questo lato, l’altro resta a noi» spiegò spostando leggermente il bambino.

«Staremo stretti»

«Posso sempre abbracciarti» Rimbaud scoppiò improvvisamente a ridere lasciando il compagno confuso;

«Non capisco se tu sia serio o ci stai provando con me» ammise

«Entrambe?»

Quella notte finirono con il dormire abbracciati accanto a Charlie. La scena si ripeté per una settimana poi il bambino annunciò orgogliosamente ai genitori di poter dormire da solo.


 

***


 

Erano trascorsi un paio d’anni dall’incidente di Suribachi e dal loro tradimento. Charles frequentava regolarmente la scuola, si era fatto degli amici e nessuno aveva mai sospettato della sua vera natura. Arthur si era illuso di aver toccato la felicità. Era accaduta la stessa cosa tanto tempo prima, in quella stagione parigina che aveva condiviso con Baudelaire. Era fin troppo bello perché potesse durare. Eppure in qualche modo ci aveva sperato.

«Ho visto Stendhal» furono le prime parole di Rimbaud una volta rincasato. Si era chiuso la porta alle spalle e aveva abbandonato il pesante cappotto. Verlaine, in soggiorno lo aveva fissato a lungo, confuso;

«Chi?»

«Il capo della sezione interrogatori della squadra speciale antiterrorismo» spiegò mesto

«Dovrei conoscerlo?»

«È l’uomo che ha arrestato Charles» finalmente il biondo parve capire.

«Baudelaire» sibilò tra i denti, non facendo nulla per celare il fastidio che provava al solo pronunciare quel nome. Arthur annuì, abbassando il capo.

«Beh cosa pensi ci faccia un pezzo grosso come lui nel nostro piccolo paesino di campagna?»

«Non ne ho idea Paul, ma so che Stendhal è pericoloso. Molto»

«Basterà mantenere un basso profilo, come sempre»

«Se dovesse incontrare Charlie...»

«Non credo che uno stupido Poète conosca l’aspetto di Arahabaki. Charlie è al sicuro»

«Non sono mai stati tanto vicini a noi Paul» gli fece notare,

Verlaine corse ad abbracciare il compagno, la vista di quell'uomo lo aveva terrorizzato, ma forse era più la prospettiva di perdere il bambino. Non aveva mai visto Rimbaud in quello stato. Sembrava davvero preoccupato.

«Devono solo provare a portarcelo via» dichiarò sprezzante,

«Spero sia solo una coincidenza» sospirò il moro nascondendo il volto in quell’abbraccio.

«Sarà sicuramente così. Probabilmente è solo una sosta per qualche missione. In caso contrario ricordati che ora mi chiamano Re degli Assassini» suo malgrado Arthur si trovò a sorridere.

Era stato addestrato fin dalla più tenera età ad essere un agente perfetto. Per Rimbaud era normale di fronte ad una situazione critica, valutare ogni possibile scenario, anche se l’esperienza gli suggeriva come la maggior parte delle volte fosse sempre il peggiore a verificarsi. Cercò di incrociare lo sguardo di Verlaine. Vide la sua determinazione.

Preferì illudersi che sarebbe andato tutto bene.


 

***


 

Henry Stendhal si accese l’ennesima sigaretta della giornata. Secondo le proprie fonti, i traditori Verlaine e Rimbaud erano stati avvistati in quella zona. Erano ormai un paio d’anni che inseguiva le tracce dei due Trascendentali, anche se dubitava di poterli scovare in uno sperduto paesino di campagna.

C’era stato un tempo in cui Arthur Rimbaud era stato uno dei loro uomini migliori. Ricordava di averlo incontrato da bambino, appena arruolato tra le fila dei Poètes e poi adolescente, quando per la prima volta aveva disobbedito alle regole, sfidando la loro autorità. Non aveva idea di che tipo di uomo fosse diventato, anche se una parte di lui non era rimasta sorpresa nell'apprendere di quel tradimento.

Su Verlaine conosceva solo le informazioni di pubblico dominio, ovvero che era un essere artificiale creato in laboratorio e che Rimbaud sembrava essere il solo in grado di controllarlo, avendo decifrato una qualche poesia.

In quel momento il cerca persone nella tasca dei suoi pantaloni si mise a vibrare. Raggiunse la prima cabina telefonica e compose un numero che ormai conosceva a memoria. Solo una persona aveva il vizio di disturbarlo a qualsiasi ora del giorno e della notte incurante del fatto che stesse o meno lavorando.

«Allora, l’hai trovato?» nemmeno il tempo di rispondere che la voce squillante di Baudelaire gli perforò i timpani.

«Sono arrivato solo ieri sera, Charles»

«Pensi che questa volta possa essere una pista attendibile?»

«Non ne ho idea. Mi limiterò come sempre a seguire la procedura, anche se dubito che il tuo amico possa trovarsi in un luogo simile»

«Ti avrei accompagnato volentieri» Stendhal alzò gli occhi al cielo prima di levarsi la sigaretta ormai spenta dalle labbra;

«Ne abbiamo già parlato Charles. Sei troppo coinvolto»

«Conosco bene i miei ordini»

«Allora sai anche perché non ti è stato affidato questo caso»

«Lo ucciderai?» domandò il più giovane in un sussurro;

«Farò ciò che devo»

Riagganciò il telefono, passandosi una mano sul volto. Nonostante fossero passati anni Charles Baudelaire era ancora innamorato del proprio amico d’infanzia e ora a lui era toccato il compito di guidare la squadra incaricata di ritrovarlo. Stendhal imprecò sottovoce ripensando al proprio sottoposto.

In quei casi il loro statuto parlava chiaro: i traditori andavano soppressi per il bene dell’Organizzazione.

Una volta catturato, Arthur Rimbaud sarebbe stato giustiziato con l’accusa di tradimento. Mentre i due soggetti insieme a lui sarebbero stati presi in custodia dalla propria unità. In caso di pericolo, aveva ottenuto il permesso di sopprimere Verlaine, ma non doveva assolutamente toccare il bambino.

Era in momenti come quelli, che Henry Stendhal iniziava a porsi delle domande sul proprio lavoro.

Rimbaud era arrivato a tradire la propria nazione per quel ragazzino, Arahabaki, un essere artificiale simile a Black, creato partendo dagli appunti del Fauno. O forse lo aveva fatto per amore del proprio compagno.

Stendhal aveva conosciuto Arthur Rimbaud solo tramite i racconti di Baudelaire, ma non gli era stato difficile immaginare il perché dietro quel tradimento. Già una volta quel ragazzo aveva sfidato l’autorità dei Poètes, cedendo ai propri sentimenti.

Era in una posizione difficile ma avrebbe svolto il proprio lavoro, come sempre.

Uscendo dalla cabina telefonica, finì con l’imbattersi in un gruppo di ragazzini all’uscita da scuola. Avevano circa dieci anni, la stessa età del soggetto Arahabaki.

«Non correre, Charlie» nel sentire quel nome, la spia si bloccò di colpo. Scosse la testa, sorridendo tra sé. Charles era un nome piuttosto comune, anche se la sua mente non tardò nel proporgli l’immagine del proprio sottoposto. Stendhal aveva accettato quell'incarico anche per Baudelaire. Doveva catturare Rimbaud e liberare Charles dal ricordo di quel primo, sfortunato amore.

Si limitò ad osservare i bambini e ascoltare i loro discorsi; mantenendosi a debita distanza.

«Oggi il compito di matematica è stato orribile»

«Meno male che avevamo un’ora di educazione fisica»

«Oggi ci vediamo a casa di Louise per i compiti di francese? La grammatica è così difficile»

«Io non posso, mio fratello vuole che torni subito a casa»

«Andiamo Charlie» Stendhal si fece più attento;

«L’ho promesso a mio fratello, ci vediamo domani a scuola ragazzi» e detto questo il piccolo Charles, abbandonò il gruppo.

La spia si prese qualche istante per osservarlo. Era un bambino normale, ma a prima vista anche Black sembrava umano. Aveva visto quel mostro in un paio di fotografie e aveva compreso l’origine dei timori di Baudelaire. Black era un essere esteticamente bellissimo e perfetto. Del piccolo Charlie aveva scorto solo i capelli rossi. Non lo aveva visto in volto ma dubitava potesse somigliare in qualche modo a Verlaine. Si domandò come potesse fare per verificare la propria ipotesi, limitandosi a seguirlo da lontano.

Era davvero caduto in basso se era finito con il pedinare un ragazzino. Quante probabilità aveva di incontrare i due Trascendentali in un paesino di campagna? Fece ancora qualche metro arrivando poco distante da un’anonima villetta. Charles doveva essere arrivato a casa.

Stendhal stentò a credere ai propri occhi quando vide la figura di Rimbaud aprire la porta per andare incontro al bambino, trascinandolo in casa sotto la supervisione di Black.

Li aveva trovati.


 

***


 

«Oggi sarei dovuto andare a casa di Louise a fare i compiti» si lamentò Charlie non appena mise piede nell’abitazione. Le due spie si scambiarono un’occhiata;

«Charles» provò Arthur, prima di essere interrotto dalla loro piccola furia rossa;

«Continui a ripetermi che sono un bambino come tutti gli altri, ma quando provo a fare le stesse cose che fanno i miei compagni improvvisamente non posso»

«Siamo in pericolo» le parole di Verlaine fecero calare il silenzio nella stanza;

«Cosa vuol dire?»

«Dannazione Paul, lo stai spaventando»

«Sai che non era mia intenzione, volevo solo fargli comprendere la situazione nella quale ci troviamo. Charlie, i Poètes sono arrivati in paese. Per questo dobbiamo fare attenzione e tenere un basso profilo»

Il bambino fissò entrambi confuso;

«Non parlare con gli estranei e se si avvicina qualcuno di sospetto scappa. E non attivare la tua Abilità per nessun motivo» proseguì Verlaine

«Dovremo trasferirci?» chiese il bambino dopo qualche minuto, cercando di trovare delle conferme sui volti dei genitori.

«Andrà tutto bene Charlie. Non ti accadrà niente di male» esordì Rimbaud abbassandosi quel tanto che bastava per essere al suo livello.

«Ho degli amici qui non voglio andarmene» Verlaine gli accarezzò la testa;

«Non ce ne andremo, se servirà farò fuori tutti i Poètes che si presenteranno alla nostra porta» Charles finalmente sorrise;

«Paul non dire queste cose. Qui nessuno ammazzerà nessuno»

«Posso andare a fare i compiti?» entrambe le spie sorrisero;

«Certo ma non ti muovere dalla tua stanza»

Verlaine soffocò una risata;

«Sembri davvero un papà»

«Così stai implicitamente affermando che tu sei sua madre»

Non era servita una battuta per alleggerire la tensione e lo sapevano entrambi.

«Cosa pensi di fare? Trasferirsi non sembra una cattiva opzione» sottolineò il biondo;

«Charlie si è fatto degli amici. Non possiamo strapparlo dalla sua quotidianità in questo modo. Non è giusto o salutare»

«Lo facciamo per il suo bene. Meglio saperlo triste che cavia da laboratorio»

«Perché devi sempre essere così tragico»

«Detto da quello che, cito testualmente: la mia vita e la mia morte non sarebbero mai state tramandate alle generazioni successive

«Ricordami Paul, perché ti ho fatto leggere quel taccuino?» domandò leggermente irritato;

«Stavo arrivando al pezzo migliore, quello della fredda lapide senza nome. Era solo per ricordarti chi è il più melodrammatico tra noi. Quanto tempo abbiamo?»

«Non mi stupirei di trovare Stendhal già fuori dalla nostra porta»

«È così bravo?»

«Sta nella sezione interrogatori per via della sua Abilità, è molto pericoloso, non devi sottovalutarlo»

«Che tipo di Abilità possiede?»

«Una di controllo mentale»


 

***


 

Parigi

- Sezione interrogatori squadra speciale antiterrorismo -


 

Charles Baudelaire aveva appena concluso l’ennesima telefonata con il proprio superiore. Il cielo sopra la capitale si era fatto improvvisamente nuvoloso, e pensò che sarebbe stata davvero una scocciatura se si fosse messo a piovere. Nemmeno fissare fuori dalla finestra però sarebbe servito a distrarlo dai propri pensieri.

Henri aveva trovato Paul.

Dopo due anni finalmente aveva delle notizie. Quando Baudelaire era stato informato di quanto accaduto in Giappone non voleva né poteva crederci. Rimbaud aveva disertato, abbandonando quella che per quasi vent’anni era stata la sua vita. Aveva scelto di tradire il proprio Paese, fuggendo insieme al proprio partner e sottraendo un’altra importante arma di distruzione di massa. Solo in un secondo momento, Stendhal gli aveva comunicato quale fosse la vera natura del progetto Arahabaki, mostrandogli dei documenti top secret.

«Impossibile. Secondo queste informazioni Paul avrebbe rapito un bambino?» Henry si era acceso l’ennesima sigaretta dopo avergli rivolto un’occhiata stanca ma abbastanza eloquente;

«Il Progetto Arahabaki è proprio questo. Un’equipe di scienziati francesi e giapponesi guidati da un fantomatico dottor N sono riusciti ad impossessarsi di appunti appartenuti al Fauno. Puoi considerare quel ragazzino come una sorta di secondo Black. In fondo quei due condividono una parte dello stesso codice»

«Ora Paul ha due mostri a cui badare» sibilò tra i denti non riuscendo ancora a credere alle proprie orecchie e soffocando la propria irritazione.

C’era stato un tempo, in cui aveva immaginato di poter fuggire insieme all’amico d’infanzia. Scappare dai Poètes, rifarsi una vita. Era stata l’ennesima fantasia partorita dalla sua mente infantile, dopo quell’unica notte di passione che avevano condiviso. Poi la realtà aveva letteralmente bussato alla sua porta, obbligandolo a pagare il prezzo del proprio peccato. Baudelaire era diventato una spia solo per proteggere l’amico. Aveva abbracciato quel mondo per potersi in qualche modo avvicinare a lui, nella speranza, un giorno, di riportarlo indietro. Aveva finto la propria morte solo per questo. Non si era mai arreso alla speranza di costruire un futuro insieme. Un’utopia che si faceva di anno in anno sempre più irrealizzabile ma alla quale non era stato capace di rinunciare.

Charles credeva di conoscere Arthur Rimbaud, evidentemente si sbagliava. L’uomo che ricordava non avrebbe mai tradito il proprio Paese. La colpa di tutto non poteva essere che di Black. Quell’essere doveva avergli fatto il lavaggio del cervello, e i fatti di Suribachi lo dimostravano.

Aprì un cassetto della propria scrivania rivelando il dossier su quell'essere artificiale. Prese una delle fotografie tra le mani. Ritraeva quel mostro a Parigi, insieme al suo Paul. Lo odiava. Odiava ogni cosa di quell'essere, dal viso perfetto, al potere che poteva scatenare. E allo stesso tempo lo invidiava, perché non aveva faticato ad ottenere ogni cosa. Black aveva l’amore di Paul. Un sentimento al quale lui era stato obbligato a rinunciare.

Se Stendhal aveva realmente trovato i due traditori l’epilogo di quella storia era già stato scritto. Richiuse il cassetto, alzandosi di scatto per afferrare il proprio cappotto.

Doveva raggiungerli.

 

***


Le Rouge et le Noir, era questo il nome della sua Abilità. Da quando Henry Stendhal era stato messo a capo della sezione interrogatori, si potevano contare sulla punta delle dita il numero di volte in cui era dovuto ricorrere al proprio potere.

«Possiedi un’Abilità di controllo mentale. Sono abilità rare ma estremamente potenti» era stata la prima, sommaria spiegazione che aveva ricevuto una volta entrato a far parte dell’intelligence. Stendhal aveva scelto di abbracciare quel mondo oscuro, nella speranza che il proprio potere potesse essere usato a fin di bene. Aveva ferito troppe persone care per colpa di una capacità che non aveva mai chiesto di possedere.

«Perché finisco sempre col far soffrire la gente?» era questa la domanda alla quale aveva da sempre cercato di dare una risposta.

«È il destino delle persone come noi» ricordava di aver fissato il proprio superiore con stupore ed ammirazione;

«Ricorda Henry, dobbiamo utilizzare queste Abilità per aiutare» aveva concluso l’uomo prima di offrirgli una sigaretta. Henry lo aveva osservato a lungo indeciso se accettare o meno;

«Credete davvero che un giorno il mio potere potrà in qualche modo fare la differenza?» domandò allungando una mano.

«Certamente»


 

Qualche stagione dopo


 

«Posso sapere il significato di quel nome?» Henry aveva alzato lo sguardo dalla pila di documenti che occupava la propria scrivania, solo per poter osservare il giovane sottoposto negli occhi.

«Charles» lo aveva ammonito, prima di alzare le braccia per massaggiarsi entrambe le tempie;

«L’altro giorno mi hai detto che les Fleurs du Mal è un nome stupido, quindi ora ti chiedo, da dove viene le Rouge et le Noir?» Stendhal recuperò ed accese l’ennesima sigaretta. Sapeva per esperienza che quando quel ragazzino iniziava con le domande poteva continuare ad infastidirlo per ore. Tanto valeva soddisfare subito quella richiesta così da poter tornare al lavoro.

«È stata una scelta simbolica» ammise. Era la prima volta che si trovava a doverlo spiegare a qualcuno. D’altro canto, nessuno gli aveva mai domandato una cosa simile. Osservò il viso di Baudelaire e la curiosità di quello sguardo ancora fisso su di lui.

«Ti sembrerà una cosa banale, ma rosso è un richiamo non solo al sangue ma anche alla passione» l’espressione sul viso di Charles si fece ancora più confusa;

«Mentre il nero rappresenta semplicemente la disperazione, la morte» concluse.

«Credi davvero che mi accontenti una spiegazione simile? Non hai detto nulla» Stendhal sorrise abbassando il capo.

«Avrei potuto raccontarti di come a sedici anni attivai per sbaglio questa mia Abilità e di come la mia fidanzatina di allora si uccise. Si chiamava Mathilde e aveva due occhi blu davvero simili ai tuoi» Baudelaire rimase in silenzio.

«Era una banale discussione, non ne ricordo nemmeno l’argomento. So solo che ad un tratto la sua mente era sotto il mio controllo. Gli dissi parole orribili e di come non sopportassi il suo viso. Trovarono il suo cadavere due giorni dopo. Se chiudo gli occhi, riesco ancora vedere le sue vesti imbrattate di sangue, come posso sentire le urla di sua madre mentre maledice il mio nome. Per questo ho scelto quei colori, come monito. Da quel momento, giurai a me stesso che avrei utilizzato questo potere per aiutare il prossimo»

«I Poètes vennero anche per te. Come per Paul» concluse Baudelaire

«Devo a loro, anzi a Victor, la mia vita. Mi sarei ucciso se non lo avessi incontrato. Mi diede uno scopo, una ragione per continuare a esistere nonostante il peso della colpa che mi opprimeva il petto.»

«Henri mi dispiace, io non...»

«Non potevi saperlo»


 

Era da diverso tempo che Stendhal non ripensava al proprio passato, al giorno in cui aveva deciso di seguire i Poètes e dedicare la propria vita ad un qualcosa di più grande. Erano passati quasi vent’anni da allora e finalmente aveva compreso le parole che quel giorno, Victor Hugo gli aveva rivolto. Grazie alla propria Abilità, avrebbe catturato quei traditori e recuperato Arahabaki. Non aveva bisogno di attendere l’arrivo di una squadra di supporto, doveva agire subito e sfruttare l’effetto sorpresa.

Una finestra, al piano superiore era leggermente aperta.

Era la sua occasione.

Le Rouge et le Noir


 

***


 

Successe tutto in una frazione di secondo. Erano ancora in soggiorno quando si accorsero del pericolo. Arthur riuscì ad attivare la propria Abilità inglobando se stesso e il partner. I due Trascendentali di scambiarono una rapida occhiata per poi mormorare quasi all’uniscono: «Charlie»

«Vado io» aggiunse Verlaine raggiungendo per primo il piano superiore. Era preoccupato per il bambino. Se mai gli fosse successo qualcosa non se lo sarebbe perdonato. La scena che si trovò davanti fu surreale.

Charlie se ne stava in piedi al centro della propria stanza, e teneva per mano un uomo. Non appena si accorse della sua presenza gli sorrise allungando un braccio indicandolo,

«Ecco, lui è Paul»

«Che diavolo significa? Charles vieni immediatamente qui. Quell’uomo è pericoloso» il bambino assunse un’espressione perplessa, voltandosi quel tanto che bastava per osservare il proprio assalitore.

«Non capisco» ammise

«Va tutto bene, piccolo Charles. Tuo padre è solo un po' confuso» rispose Stendhal sfidando il biondo con lo sguardo.

«È un piacere fare la tua conoscenza Black o forse dovrei chiamarti Paul?»

«Presumo che tu sia Stendhal» tagliò corto Verlaine preparandosi ad attaccarlo.

«Sei intelligente ma non abbastanza se pensi di potermi affrontare da solo»

«Herny allontanati subito da mio figlio» a parlare questa volta era stato Arthur. Che in pochi passi aveva raggiunto il fianco del compagno.

«Rimbaud è sempre un piacere. Quanti anni sono trascorsi dal nostro ultimo incontro? Non sei invecchiato di un giorno»

«Mi hai già portato via qualcuno d’importante, non ti permetterò di farlo di nuovo. Charlie vieni subito qui» ma il bambino non si mosse.

«È davvero un ragazzino sveglio, ma ormai è sotto al mio controllo. Vi conviene arrendervi. Non costringetemi ad usarlo contro di voi»

«Che Abilità possiede questo bastardo?» chiese Verlaine;

«Non conosco i dettagli, ma una di controllo mentale»

«Non posso attaccarlo vero?»

«Potresti far del male a Charlie»

«Merde»

«Dovreste arrendervi. Non ci sono altre alternative»

«Usare un bambino come ostaggio. Non credevo che l’intelligence potesse cadere tanto in basso» fu la sprezzante risposta di Rimbaud.

«Sappiamo entrambi come questo non sia realmente un bambino, ma un’arma esattamente come il tuo compagno» lo sguardo di Verlaine si oscurò per una frazione di secondo. Agì così velocemente che Arthur non riuscì a fermarlo.

«Bastardo. Rimangiati quello che hai detto»

Paul si era gettato sul Poète attivando il proprio potere. Stendhal però aveva risposto utilizzando Charlie come scudo.

«Sei un vigliacco» mormorò Rimbaud cercando lo sguardo di quell’uomo che già una volta lo aveva privato di una persona importante. Paul intanto si era visto costretto ad interrompere l’attacco, per non ferire il bambino.

«Mi sembrava di essere stato abbastanza chiaro. Arrendetevi e nessuno si farà male»

«E una volta che lo avremo fatto?»

«Mi assicurerò che l’esecuzione di Rimbaud sia rapida e indolore, mentre i soggetti Arahabaki e Black verranno presi in custodia dal Governo, come previsto dai piani iniziali»

«Se ora mi consegno loro saranno salvi?» chiese il moro. Verlaine lo fissò sconvolto;

«Che stai dicendo Arthur? Non puoi farlo. Non puoi neanche pensarlo»

«Una spia non deve avere legami o provare sentimenti. Non ho mai rispettato questo giuramento. Ho tradito la mia patria per te e per Charlie. Vi ho messo io in questa situazione. Stendhal sta usando nostro figlio come scudo, controlla la sua mente. Devo proteggervi e questo è l’unico modo»

Il ragionamento di Rimbaud aveva senso, eppure Verlaine non riusciva ad accettarlo. Era una situazione di stallo simile a quella che avevano affrontato nel laboratorio di Suribachi. Se erano arrivati a quel punto però, era solo colpa sua. Era stato Paul a calcare la mano ed obbligare il proprio partner a tradire i Poètes. Era stato lui a desiderare di crescere Charles in campagna, risparmiandogli il dolore sulle sue vere origini e sulla propria natura di anima artificiale. L’unica colpa di Rimbaud era stata quella di assecondarlo in quella sciocca fantasia. Sapevano entrambi che quell’utopia non sarebbe potuta durare, ma ci avevano sperato.

Verlaine non poteva accettare un finale simile. Non sarebbe mai tornato ad essere una cavia da laboratorio e non avrebbe permesso che Charlie subisse la stessa sorte. Il suo corpo agì da solo, prima che la propria mente potesse anche solo formulare un qualche pensiero coerente. Si gettò su Stendhal cogliendolo totalmente di sorpresa, facendolo cadere a terra.

Con il venire meno del contatto visivo, anche il controllo mentale sul piccolo Charles sembrò svanire. Verlaine decise di approfittarne, scatenando il proprio potere.

Arthur intanto era corso dal figlio, afferrandolo prima che potesse toccare il suolo. Era svenuto ma sembrava stare bene. Tirò un sospiro di sollievo prima di venire travolto dall’onda d’urto scatenata dal proprio compagno. Utilizzò Illuminations per riparare se stesso e Charlie.

Fu allora che la vide. La lama di un coltello che Stendhal aveva recuperato dalla fondina del proprio stivale. Ovviamente il Poète conosceva l’unico punto debole della Bêtes, il veleno. Sarebbe bastato un graffio o poco più per rendere Paul inoffensivo. Controllò un’ultima volta Charles prima di gettarsi anche lui nella mischia. Non c’era tempo per pensare, doveva semplicemente agire per salvare la persona per lui più importante.

Riuscì ad arrivare in tempo, frapponendosi tra quella lama e Verlaine.

«Arthur» bastò la sola vista del proprio partner ferito per riportare il biondo alla realtà. Rimbaud lo aveva protetto, per l’ennesima volta.

Stendhal osservò immobile la scena, con il braccio ancora fermo a mezz’aria.

«Dannazione Arthur» Verlaine lo prese tra le braccia. Il moro era sempre più pallido mentre il sangue continuava a sgorgare dalla ferita sul suo petto.

«Ora ti porterò in ospedale e lì troveranno un modo per curarti» non aveva mai provato una simile disperazione. Era un sentimento nuovo che gli impediva di ragionare con lucidità.

«Stai bene?» furono le uniche parole che uscirono dalle labbra di Rimbaud.

«Si, sto bene» rispose sull’orlo delle lacrime, mentre cercava di fermare tutto il sangue che stava imbrattando le vesti di entrambi.

«Meno male» il moro abbozzò ad un sorriso

«Arthur perché lo hai fatto?»

«Lo sai benissimo» Verlaine stava piangendo, completamente sconvolto dalla situazione. Continuava a cullare il proprio partner, ad accarezzargli i capelli, scostandoli da quel viso che si faceva di minuto in minuto sempre più pallido.

«Paul, perdonami»

«Perché ti stai scusando? È tutta colpa mia. Mi dispiace Arthur, mi dispiace»

«Proteggi Charles»

«Perché stai sorridendo? Perché Rimbaud?» dentro di sé conosceva già la risposta. Semplicemente non voleva capire.

Arthur Rimbaud, l’uomo che lo aveva salvato dal Fauno e gli aveva donato la libertà di vivere, anzi glielo aveva insegnato. L’uomo che lo aveva reso una spia e aveva affrontato numerose missioni con lui. L’uomo che timidamente gli aveva regalato un cappello per regalo di compleanno. L’uomo con cui aveva provato a crescere un bambino e che per lui era arrivato a tradire il proprio Paese.

«Perché hai sorriso?» domandò a quello che ormai non era che il cadavere dell’uomo che più di ogni altro aveva amato. Arthur aveva ragione, dentro di sé conosceva la risposta a quella domanda ma avrebbe tanto voluto udirla dalle sue labbra. Adagiò il corpo del compagno sul pavimento prima di tornare a rivolgere la propria attenzione a Stendhal. Il Poète se ne stava in silenzio, conscio delle proprie colpe. Non avrebbe mai voluto uccidere Rimbaud ma quel idiota si era messo in mezzo volendo proteggere quella bestia che ora lo fissava con tutto l’odio di cui disponeva.

«Non doveva andare in questo modo. Vi avevo avvisato» ruggì preparandosi al peggio

«Taci. Mi avete etichettato come mostro e non nego di esserlo, ma anche voi Poètes non siete degli esseri umani. Usare un bambino come scudo, uccidere a sangue freddo»

Charlie scelse quel momento per aprire gli occhi;

«Cosa succede papà?» aveva domandato innocentemente cercando il suo sguardo. Bastò un istante perché notasse il sangue che macchiava i suoi vestiti e il suo viso.

«Perché papà Arthur è a terra?»

Verlaine non sapeva come rispondere. Era totalmente impreparato ad affrontare una situazione simile. La sua mente ancora rifiutava di accettare la scomparsa di Rimbaud.

«Tuo padre è morto. L’ho ucciso io» a parlare era stato Stendhal.

«Non è vero» Charlie si mise ad urlare e piangere finendo con lo scatenare la propria Abilità. Era la prima volta in cui Paul assisteva alla manifestazione completa di Arahabaki. Era un mostro di straordinaria bellezza così simile a lui, anche nel dolore. Fiamme nere avevano iniziato ad avvolgere il corpo del bambino. Fu allora che decise di allungare un braccio per tramortirlo.

Aveva fatto una promessa ad Arthur. Si sarebbe occupato di Charles, lo avrebbe protetto.

«Perdonami ma almeno tu devi sopravvivere» disse cercando di calmare i battiti impazziti del proprio cuore.

Erano anni che non liberava il proprio potere. Il mostro dentro di lui però bramava di uscire, per vendicare la morte dell’uomo che per primo aveva creduto nella sua umanità. Osservò un’ultima volta il corpo di Rimbaud e poi quello di Charlie svenuto poco distante. Lo stava facendo per loro;

I tuoi odi, i tuoi torpori fissi, i tuoi mancamenti,

E le brutalità un tempo sofferte,

Tu ci rendi tutto, o Notte, ma senza cattiveria,

Come un eccesso di sangue versato ogni mese.*


 

Verlaine venne completamente inghiottito dall’oscurità.


Quando qualche ora dopo Charles Baudelaire raggiunse l’abitazione non trovò quasi nulla. Non c’era traccia di Black ma nemmeno di Stendhal o di Rimbaud.

«Tu chi sei?» a parlare era stato un bambino. Baudelaire lo osservò confuso per interminabili minuti. Aveva i vestiti strappati ed era sporco di polvere e sangue ma non sembrava essere ferito, se non per qualche lieve escoriazione superficiale.

«Sai cosa è successo qui?» il piccolo scosse la testa.

«Quando mi sono svegliato non c’era nessuno» il Poète annuì.

«Come ti chiami?»

«Charles» Baudelaire sorrise;

«Che coincidenza, anche io» disse allungandogli una mano

«Dove sono i miei genitori?» insistette il piccolo prima di decidersi ad afferrarla

«Non lo so. Qual è l’ultima cosa che ricordi?»

«Il Poète malvagio aveva ferito Arthur. Paul piangeva. Poi si è fatto tutto buio»

Baudelaire si mise in ginocchio nascondendo il volto tra le mani. La sola idea di aver perso per sempre Rimbaud gli era inconcepibile. Aveva già sperimentato quel tipo di dolore, non era pronto a riviverlo. Il bambino prese posto accanto a lui.

«Sono rimasto solo?» domandò con una punta d’incertezza.

Baudelaire si trovò di fronte ad un bivio. Quel ragazzino era senza ombra di dubbio Arahabaki. Sapeva ciò che doveva fare, consegnarlo al proprio Governo. In quel momento ripensò ad Arthur, al bambino che era stato e che i Poètes avevano trasformato. Tornò ad osservare il piccolo Charlie. Rimbaud aveva desiderato un futuro diverso per quella creatura. Era stato per lui (e per Black) che era arrivato a tradire il proprio Paese.

Fece la propria scelta.

«Non sei solo. Ci sono io»


***

 

Realtà originale



Quando Baudelaire aprì gli occhi si accorse di stare piangendo. Carroll accanto a lui non si era mosso, in attesa di ricevere un qualche ordine. Il francese si prese qualche istante per osservare l’ambiente circostante, facendo mente locale su dove si trovasse. Lui e Verlaine avevano liberato un prigioniero dal carcere di Meursault. Lo stesso uomo che si trovava a pochi metri da lui e con la sua Abilità aveva permesso a entrambi di rivedere Rimbaud.

«Dove si trova Black?» si affrettò a domandare, notando come il biondo non fosse più sul divano dove ricordava di averlo lasciato. Grazie ai Fiori del male, Baudelaire si era addentrato dentro la psiche di quel mostro, rimanendo suo malgrado intrappolato in quel sogno. Era la prima volta che utilizzava la propria Abilità così a lungo. Non credeva nemmeno che potesse essere usata in quel modo.

«Si è svegliato circa un’ora fa. Non so nemmeno come abbia fatto...» mormorò l’inglese a metà tra il colpito ed il preoccupato.

«Ha utilizzato la sua Abilità, scatenando quella belva dentro di lui. Lo shock deve essere bastato per riportarlo indietro» concluse Baudelaire afferrando il proprio cappotto.

Verlaine era uscito dall’abitazione. Quando la spia lo raggiunse se ne stava in piedi intento ad osservare l’orizzonte. L’espressione su quel volto dai lineamenti perfetti era indecifrabile.

«È stato come ti aspettavi?» domandò Charles provando ad avvicinarsi. Paul voltò lentamente il capo, abbozzando un sorriso.

«Dimmelo tu. Sei entrato nella mia mente. Hai visto cosa è successo»

Seguirono altri secondi di silenzio.

«Se Paul anzi se Arthur quel giorno ti avesse seguito...»

«Non ti conviene finire quella frase. Rimbaud è morto comunque, anche in questo mondo ideale

«Per un po' siete stati felici»

«Secondo te quella era vera felicità?»

«Hai avuto ciò che io ho sempre sognato, dovresti essere grato anche solo per questo» confessò trattenendosi dall’impulso di prenderlo a pugni.

Verlaine gli regalò un’espressione confusa.

«L’amore di Arthur. L’hai sempre avuto e non te ne sei neppure reso conto» spiegò acido Baudelaire.

«Non è quello che pensi»

«Ha tradito i Poètes per te, e non parlo solo di quella realtà»

«Il mio rapporto con Rimbaud è più complicato di ciò che immagini»

«Puoi negare quanto vuoi ma stavate crescendo quel ragazzino insieme. Ho visto come ti guardava, sai, c’è stata una stagione della sua vita in cui quello sguardo era riservato a me. Questo come ti fa sentire?»

«Ho voglia di ucciderti, nel modo più doloroso possibile, ma so di non poterlo ancora fare»

«Cosa ti trattiene?»

«Rimbaud»

«Non riesco a comprenderti»

«Nessuno può farlo. In fondo a questo mondo esiste solo un individuo simile al sottoscritto»

«Stai parlando di Arahabaki?»

«Nakahara Chuuya»

«Non ti capisco, davvero»

«Ho intenzione di utilizzare di nuovo l’Abilità di Carroll» Baudelaire era completamente senza parole. Era l’ultima cosa che si sarebbe aspettato di sentire.

«Perché?»

«Non sono tenuto a darti una spiegazione»

«Tuttavia desidererei ascoltarla. Ho visto quanto successo. Arthur è morto tra le tue braccia»

«Tu al mio posto cosa faresti?» Baudelaire gli rivolse un’occhiata confusa prima di rispondere;

«Io ho accettato la sua morte»

Preferisco vedere il mio Paul morto piuttosto che felice insieme a te.

«Non sai davvero mentire. Il che non è il massimo per una spia»

Charles imprecò sottovoce. Quell’arroganza e superiorità non facevano altro che ricordagli l’amico scomparso.

«Eppure sono entrato nella tua mente» gli fece notare divertito.

«L’Abilità del tuo amico...» iniziò Verlaine, come colto da un’illuminazione;

«Il mio amico, ti riferisci forse a Stendhal?»

«Anche la sua Abilità prevede il controllo mentale giusto?»

«Cosa vuoi sapere? Non ti svelerò il suo funzionamento. Ricordati che siamo nemici»

«Questo Stendhal sa che mi stai aiutando?» Charles distolse lo sguardo, ma bastò questo per far comprendere a Verlaine di aver fatto centro,

«Io me ne torno in casa»

«Charles»

«Si?»

«Se hai accettato la morte di Arthur perché mi stai aiutando? Cosa ci guadagni da tutta questa storia?»

Quando abbasserai la guardia ti catturerò ed otterrò una pagina del Libro. Carroll e Rimbaud erano solo esche. Riscriverò la realtà.

Sorrise.

«Ogni cosa a tempo debito mon ami»











 


 

*I miei due grammi di ragione sono terminati


*Poesia “Le suore di carità” di A. Rimbaud. Nella Novel Stormbringer sono i versi per risvegliare l’Abilità di Verlaine.

 

 

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Capitolo 8
*** VIII Stagione - Chanson de la plus haute tour ***


VIII Stagione - Chanson de la plus haute tour





 

«Qu’il vienne, qu’il vienne,

Le temps dont on s’éprenne»*


 

Une Saison en Enfer – Chanson de la plus haute tour






 

Francia

- da qualche parte in campagna -


 

Baudelaire era tornato al rifugio da solo. Carroll non aveva detto nulla al riguardo, si era limitato ad osservare il Poète in silenzio, preparando l’ennesimo tè per calmare i propri nervi. Le provviste stavano iniziando a scarseggiare e per la prima volta l’inglese arrivò a domandarsi per quanto ancora quella situazione sarebbe potuta durare. Sapeva che presto o tardi qualcuno li avrebbe trovati. Era solo questione di tempo. Nessuno era mai evaso da Meursault ed era sopravvissuto tanto da poterlo raccontare. Ad un certo punto la spia francese comparve davanti ai suoi occhi facendogli prendere letteralmente un colpo;

«Ha intenzione di tentare di nuovo» fu tutto ciò che disse. Carroll non faticò a comprendere il senso di quelle parole, né a chi fossero rivolte.

«È possibile una cosa simile?» proseguì Baudelaire appoggiandosi ad uno dei mobili della cucina.

«In pochi hanno scelto di risvegliarsi da Wonderland e in tutta sincerità, nessuno mi ha mai domandato di ripetere l’esperienza» si trovò ad ammettere l’inglese fissando la tazza fumante che teneva fra le mani.

«Quel mostro non vuole arrendersi»

«E non è forse meglio per il tuo piano?» Carroll si morse la lingua per la propria impudenza. Nonostante l’atteggiamento amichevole, Charles Baudelaire poteva rivelarsi pericoloso al pari di Verlaine. La spia scelse di non rispondere mentre armeggiava tra gli scaffali della cucina alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti.

Grazie ai Fleurs du Mal, aveva potuto osservare quella fantasia, entrare nella mente di quel mostro. Vedere il suo Paul felice però aveva scosso Baudelaire più del previsto. Quello era il lieto fine che tanti anni prima si era immaginato per loro e che aveva intenzione di ricreare grazie ad una pagina del Libro. Sorrise al pensiero.

Avrebbe cancellato per sempre l’esistenza di quel Paul Verlaine. Del mostro che aveva ottenuto il cuore di Arthur. Forse era quello ciò che maggiormente lo infastidiva, vedere quanto Rimbaud amasse quell'essere artificiale, tanto da arrivare a sacrificarsi per lui. Verlaine non sembrava nemmeno accorgersi di quei sentimenti. La risposta che gli aveva dato nel bosco era stata parecchio eloquente e non faceva altro che confermare ciò che Baudelaire aveva sempre sospettato: una bestia simile non poteva amare. Per quanto Verlaine avesse l’aspetto di un essere umano non lo era, era una macchina portatrice di morte e distruzione, nient’altro. Rimbaud si era innamorato di un qualcosa che non esisteva.

Fu allora che il cerca persone nella tasca dei suoi pantaloni prese a vibrare. Baudelaire si allontanò, prima che Carroll continuasse a fare domande scomode o esporre le proprie preoccupazioni.

Bada al senso, e i suoni baderanno a se stessi

Pensò l’inglese lanciandogli un’ultima occhiata prima di tornare a versarsi del tè. Baudelaire sembrava sconvolto da ciò che aveva visto nella mente di Verlaine, tuttavia era intenzionato a proseguire con il proprio piano.

Una volta solo, Lewis Carroll non poté fare a meno di interrogarsi sulla figura di Arthur Rimbaud. Un uomo che anche da morto aveva il potere di sconvolgere così tante esistenze.


 

***


 

«Si può sapere dov'eri finito?» Era da parecchio tempo che Stendhal non utilizzava un tono di voce simile, per Baudelaire fu una sorta di deja-vu, di ritorno al passato. Il superiore sembrava agitato ma lui non ne capiva il motivo.

«Stavo facendo colazione» rispose pacato, nonostante il suo cuore avesse preso ad accelerare di colpo.

«Sto provando a contattarti da ieri, Charles mi vuoi dire cosa sta succedendo?» Baudelaire prese un lungo respiro. Mentire a quell’uomo era inutile, lo aveva imparato a proprie spese nel corso degli anni.

«Ho utilizzato la mia Abilità…»

Gli raccontò tutto, dal desiderio espresso da Verlaine a quel mondo ideale, generato dall’Abilità di Carroll.

«In quella fantasia io ho ucciso Rimbaud» furono le prime parole che lasciarono le labbra di Stendhal. Charles non ne fu sorpreso, si era aspettato una reazione simile, 

«Non eravamo davvero noi» si sentì in dovere di specificare, anche se poteva immaginare fin troppo bene l’espressione che in quel momento era comparsa sul volto del proprio superiore, come la sigaretta che si stava sicuramente consumando tra le sue labbra. Henry si stava addossando la colpa per un qualcosa che nel loro mondo non era mai avvenuto.

«Non puoi affermarlo con certezza Charles. Come pensi che avremmo reagito di fronte ad uno scenario simile? Se veramente Rimbaud avesse tradito il nostro Paese e rubato un’arma come Arahabaki, tu cosa avresti fatto?» Baudelaire prese l’ennesimo lungo respiro, erano tutti interrogativi sui quali aveva già riflettuto e che continuavano a vorticargli per la mente,

«Non avresti mai utilizzato un bambino come scudo» sentenziò con sicurezza. Dall’altro capo della linea, Stendhal sorrise,

«Ho fatto cose ben peggiori»

«Non è vero Henri»

«Ricordi di quando parlammo della mia Abilità? Ti raccontai di come la morte della mia fidanzata mi portò ad abbracciare questa vita. Tutti noi possediamo qualcosa di oscuro Charlie. Ogni essere umano ha i propri scheletri nell’armadio o dei peccati per i quali desidererebbe ricevere un’assoluzione. Il potere di Carroll è eccezionale, proprio perché fornisce questa possibilità. Ci mostra come avremmo vissuto se avessimo potuto rimediare a nostri errori. Per questo devi fare attenzione»

Baudelaire scosse la testa prima di riprendere a parlare.

«Black vuole riprovarci. Quel mostro non intende arrendersi. A quanto pare non teme di cadere in tentazione» il sorriso sulle labbra di Stendhal si fece più dolce

«L’ho sempre detto che voi due siete simili» ammise, come se stesse parlando ad un bambino capriccioso.

«Io ho accettato la morte di Paul»

Non era vero e lo sapevano entrambi. Baudelaire non aveva mai dimenticato il proprio amico d’infanzia. Il suo primo amore. Rimbaud avrebbe anche potuto tradire la propria nazione per Verlaine ma Charles non era da meno. Se qualcuno dei Poètes avesse scoperto del suo coinvolgimento nella fuga di Carroll ci sarebbero state delle conseguenze.

«Non ti resta molto tempo. Non so per quanto ancora riuscirò a nascondere la tua assenza. I piani alti hanno affidato il caso dell’evasione a Victor, conoscendolo non mi stupirei se si trovasse già sul posto.» Un brivido di terrore percorse la schiena di Baudelaire.

Utilizzare Black e la sua Abilità era come scoperchiare il vaso di Pandora. Lo sapeva sin dall’inizio. I Poètes avevano risposto alla minaccia mettendo in campo la loro arma migliore. Victor Hugo era probabilmente il solo Trascendentale in grado di rivaleggiare alla pari con quel mostro. Hugo, l’uomo che aveva addestrato sia Stendhal che Rimbaud e che Baudelaire non avrebbe mai voluto come nemico.

«Grazie Henri» mormorò in un sussurro. Avrebbe desiderato aggiungere altro ma le parole gli morirono in gola. Non si sarebbe arreso, avrebbe ottenuto la propria vendetta e consegnato il Re degli Assassini al Governo,

«Fa attenzione»

Baudelaire riagganciò ignorando una strana sensazione all’altezza del petto. Si passò una mano sul volto maledicendo il proprio superiore. Solo Henry Stendhal riusciva a farlo vacillare in quel modo.


 

***


 

Verlaine rientrò dopo qualche ora, dirigendosi direttamente nella propria stanza facendo attenzione a non fare rumore. Aveva riflettuto a lungo su quanto accaduto in quella fantasia creata dal potere di Carroll. Se Rimbaud tanti anni prima avesse assecondato il suo desiderio avrebbero cresciuto insieme Arahabaki, Nakaraha Chuuya. Grazie a quell’Abilità, Verlaine aveva potuto toccare per la prima volta il concetto di felicità, accarezzarlo attraverso gli sguardi di Arthur e Chuuya.

Si prese qualche istante per ripensare a quel bambino, da loro ribattezzato Charles. Nakahara Chuuya, l’unico essere al mondo che potesse realmente comprenderlo, un'anima artificiale simile a lui. Per anni, aveva creduto che quel ragazzino fosse morto a Suribachi, invece non solo era sopravvissuto ma si era rivelato essere uno dei responsabili della morte di Arthur. Si trovò a sorridere, anche Chuuya in fondo era un mostro portatore di morte e distruzione, esattamente come lui.

Dopo aver ricevuto un assaggio di ciò che poteva essere, tornare alla realtà non era semplice. Ogni volta che provava a chiudere gli occhi Verlaine rivedeva il sorriso di Rimbaud o lo sguardo del piccolo Charles. Aveva compreso la pericolosità del potere di Carroll e del perché quell’uomo fosse rinchiuso a Meursault, tuttavia aveva scelto di riprovarci.

I morti non possono tornare in vita. Paul Verlaine lo sapeva fin troppo bene, eppure desiderava abbandonarsi a quelle fantasie. Non avrebbe mai immaginato di poter parlare di nuovo con Rimbaud, abbracciarlo.

Ripensò all’insolita evoluzione del loro rapporto. Conosceva bene la risposta ai diversi interrogativi che in quel momento affollavano la sua mente ma non voleva afferrarla. Accettare di provare qualcosa per Rimbaud sarebbe stato difficile quasi quanto il dover prendere atto della sua morte. Lui era un’anima artificiale, non poteva conoscere un sentimento complesso come l’amore.

Sono così felice che tu sia nato

Rimbaud gli aveva sussurrato quelle parole poco prima di partire per la missione in Giappone, la sera in cui aveva insistito per festeggiare il suo compleanno. Era stato allora che qualcosa dentro Verlaine era scattato. Arthur lo aveva sempre trattato come un essere umano, nonostante sapesse quale mostro nascondesse sotto la propria pelle.

In più vi era la questione di Baudelaire. Quali motivazioni avevano spinto il Poète ad aiutarlo? Perché gli aveva permesso di rivedere Rimbaud? Quando sarebbe scattata la trappola e finalmente quel bastardo avrebbe gettato la maschera, rivelando i propri intenti?

Fissò a lungo la propria immagine riflessa nello specchio accanto al letto.

Noi siamo uguali.

Il Re degli Assassini scosse il capo. Anche in quella realtà, Arthur non era riuscito a comprenderlo eppure si era battuto per lui. Era morto per lui.

Verlaine aveva sempre odiato l’umanità e più di una volta aveva pensato concretamente al suo sterminio. Vi era sempre stata una sola eccezione a questo pensiero, una sola persona che con la propria esistenza bastava a salvare il genere umano dalla distruzione scatenata dalla belva dentro di lui, ed era Rimbaud. Ora però lui era morto.

Lo sguardo della bête andò a posarsi sul taccuino di Arthur, appoggiato sulla scrivania. Cosa avrebbe chiesto a Carroll? Quale altra domanda avrebbe potuto salvare la vita del proprio partner? Ripensò all’incubo della sera prima, alla Battaglia di Parigi ma anche al giorno in cui quello stupido conflitto era scoppiato.

E se quel giorno Rimbaud non fosse partito per la Germania?


 

***


 

Qualche stagione prima

-Berlino-


 

Arthur Rimbaud si avvolse meglio nella propria sciarpa mentre osservava fuori dalla finestra del rifugio i primi plotoni marciare verso il fronte. Quello stupido conflitto era iniziato solo da pochi giorni e lui si trovava già oltre le linee nemiche. Non sarebbe voluto partire, non così di fretta ma era l’ennesimo incarico che sapeva di non poter rifiutare. Hugo in persona glielo aveva affidato, come era stato con la missione che gli aveva permesso di incontrare il proprio partner. Inevitabilmente ogni suo pensiero tornò a Paul. Non voleva lasciarlo ma Victor era stato categorico al riguardo. Black rappresentava un’arma preziosa, la Francia si trovava già in una situazione precaria e non poteva permettersi di correre altri rischi. Ovviamente il biondo si era sentito tradito e offeso per quella decisione. Certe volte, Arthur non sapeva davvero come prenderlo. Avrebbe desiderato poter fare di più per lui, comprendere le ombre che ancora si agitavano dentro al suo animo.

Un leggero bussare lo costrinse ad interrompere qualsiasi altro pensiero;

«C’è un telegramma per lei Herr Rimbaud» a parlare era stato un ragazzino appena maggiorenne, la cui testa biondo cenere faceva capolino oltre la porta. La divisa che indossava era troppo grande per la sua età, anche maniche della camicia erano state rimboccate più e più volte. Arthur lo studiò a lungo prima di accettare la missiva dalle sue mani, rabbrividendo per il freddo di quel contatto. Era da tanto che non provava una sensazione simile. Da quando Paul era entrato nella sua vita il gelo che attanagliava il suo animo si era un poco affievolito. Prese l’ennesimo respiro prima di leggere il contenuto di quel messaggio.

La Germania era un’alleata della nazione francese, motivo per il quale lui si trovava nella capitale tedesca. L’Inghilterra per ora si manteneva neutrale mentre osservava l’evolversi della situazione pronta a scendere in campo con tutte le proprie forze. Il conflitto vero e proprio non era ancora iniziato ma le grandi potenze iniziavano a tessere alleanze, disponendo le proprie pedine sulla scacchiera in attesa di una mossa o passo falso del nemico.

«Dove si trova Herr Goethe?» domandò distrattamente dopo aver distrutto il messaggio con l’ausilio della propria Abilità. Hugo lo aveva messo in guardia sul leader tedesco, per questo si era aspettato di incontrarlo.

«In questo momento è diretto a Londra»

«Non penserà di sfidare da solo la Torre dell’Orologio

«Gli inglesi sembrano interessati ad una certa arma in possesso del vostro governo, non è la Germania che i paesi europei guardano con sospetto» di fronte a quell’affermazione Rimbaud alzò un sopracciglio,

«Mi perdoni, lei sarebbe?» il ragazzino sorrise tendendogli la mano,

«Friedrich Schiller, non credo ci abbiano mai presentato ufficialmente» rispose,

«Siete un Trascendentale?»

«Mi spiace deludervi, sono un semplice tenente. Posseggo un’Abilità Speciale ma nulla di paragonabile alla vostra o a quella di Herr Goethe»

«Come fate a sapere dell’arma in possesso del mio governo?» il ragazzino alzò le spalle, accompagnando quel gesto con un sorriso appena accennato,

«Non è un segreto che tre anni fa vi siete appropriati della ricerca del Fauno, o come lo chiamiamo noi, Pan»

«Era un’operazione coadiuvata dall’intelligence di entrambi i paesi» si sentì in dovere di specificare. Rimbaud non si era mai interrogato sul perché Black fosse stato affidato ai Poètes. Sin dal primo momento in cui aveva incrociato quello sguardo di ghiaccio sapeva di aver firmato la propria condanna. Poco importava del resto.

«Io so solo che alla fine l’avete spuntata e quell’arma è andata a voi» aggiunse il tedesco alzando le braccia

«Non è un’arma» si trovò a replicare quasi con rabbia,

«Perdonatemi. Ho detto forse qualcosa di inopportuno?»

«No, semplicemente non è un’arma ciò che abbiamo recuperato dal laboratorio del Fauno» a quelle parole Schiller sorrise

«Il nostro governo ha trovato dei documenti. Sembra intenzionato a finanziare un nuovo progetto in collaborazione col Giappone…»

«Schiller giusto? Come fate a sapere tutte queste cose?» il ragazzo arrossì di colpo, colto in flagrante.

«Per la mia Abilità, an die Freude, è come un siero della verità. Il mio compito è fornire supporto durante gli interrogatori.»

«Per questo sei qui? Per estorcermi informazioni?» Era caduto in trappola come un principiante, si era lasciato ingannare dall’aspetto e dalla giovane età di quel moccioso. Avrebbe dovuto prevedere una mossa simile. I tedeschi potevano rivelarsi peggio degli inglesi, non doveva abbassare la guardia.

«La Germania vuole solo sapere se può affidarsi o meno alle parole di Victor Hugo»

«Perchè non chiedere direttamente a lui?»

«Credi che accetterebbe un nostro invito o di vedere Goethe? Ha preferito mandare il suo adorato figlio come prova delle proprie buone intenzioni» Rimbaud si appuntò mentalmente di farla pagare al superiore, anche se conoscendo Victor probabilmente aveva previsto ogni mossa. Ripensò al proprio partner. Non avrebbe mai voluto lasciare Verlaine a Parigi, anche se la capitale francese rimaneva il luogo più sicuro.

«Siete davvero caduti in basso se avete bisogno di utilizzare certi trucchetti per fidarvi dei vostri alleati» rispose con tono sprezzante.

«E voi allora? Cosa aspettate a mettere in campo la vostra arma migliore? Potreste risolvere questo conflitto in una settimana» Rimbaud sapeva che quella era solo l’ennesima provocazione ma non riuscì a controllarsi, arrivando ad afferrare il giovane Schiller per il collo. Contro ogni previsione il ragazzino non smise di sorridere.

«La mia Abilità si attiva tramite contatto. Stavo solo aspettando questo momento. An die Freude. Ora, Arthur Rimbaud parlami di quest’arma…»


 

***


 

Sempre qualche stagione prima

-Parigi-


 

Era quasi trascorsa una settimana dalla partenza di Rimbaud e Verlaine stava iniziando a diventare sempre più insofferente per l’assenza del proprio partner. Prima di partire verso il fronte tedesco, Arthur gli aveva raccomandato di rimanere nel loro rifugio, seguire gli ordini dei superiori e non creare problemi. Il biondo aveva incrociato le braccia contrariato ma alla fine, come sempre, aveva obbedito. In fondo era un’arma, non possedeva una volontà propria, doveva solo attendere il momento in cui qualcuno avrebbe deciso di premere il grilletto e liberare la belva dentro di lui. Per questo motivo non capiva la decisione di separarlo da Rimbaud. Non lo avevano liberato dal laboratorio del Fauno per quello? Per usare la sua Abilità in quel conflitto che da anni l’Europa attendeva e che avrebbe cambiato le sorti dell’intero continente?

Arthur si era limitato come sempre a seguire gli ordini di Hugo ed era partito senza salutarlo. Paul l’aveva odiato. Non vedeva l’ora di rivedere il proprio partner per riprendere il loro litigio da dove si era interrotto. Quando Rimbaud gli aveva comunicato della missione in Germania si era sentito in qualche modo tradito, così era finito con il pronunciare un nome che da qualche mese, non riusciva a togliersi dalla mente.

Charles

A quel tempo, Verlaine non sapeva ancora a chi appartenesse, aveva semplicemente origliato una conversazione tra Arthur e Hugo. Non erano state che poche frasi ma sufficienti per comprendere come questo individuo fosse stato una persona importante per Rimbaud. Paul non aveva fatto domande ma si era appuntato quel nome, utilizzandolo per ferire il proprio compagno. Era stato un colpo basso ma aveva sortito l’effetto sperato. Arthur lo aveva guardato in un modo che non avrebbe saputo descrivere, prima di allungare un braccio per sistemargli una ciocca di capelli dietro all’orecchio. Anche allora lo odiò, perché come sempre non era riuscito a comprendere il suo stato d’animo.

Rimbaud avrebbe dovuto rispondergli a tono ma non lo aveva fatto, gli aveva regalato l’ennesimo gesto di dolcezza che sentiva di non meritare.

«Hai un incarico da svolgere» erano state le uniche parole che avevano lasciato le sue labbra, prima che Verlaine si scostasse da quel tocco gentile.

La mattina successiva se ne era andato.

Da quel giorno, il biondo si recava al solito Cafè e cercava tra le notizie dei quotidiani locali un qualche accenno alla situazione tedesca o europea in generale. Sapeva di non potersi fidare della verità riportata dai media ma era sempre meglio che il silenzio mantenuto dai Poètes. Da quando Rimbaud era partito non aveva avuto contatti con l’Intelligence francese. Si era aspettato una qualche missione invece nessuno era venuto a bussare alla sua porta. Lo avevano semplicemente ignorato.

Le giornate trascorrevano in apatia e malinconia mentre gli echi di una guerra così vicina ma allo stesso tempo troppo lontana, arrivavano alle sue orecchie come note di una melodia sbiadita dal tempo. Parigi si era rinchiusa in una bolla di effimera felicità, crogiolandosi nella convinzione che quel conflitto non l’avrebbe mai raggiunta e per un pò quell’incantesimo sembrò funzionare.

Erano trascorse un paio di settimane dalla partenza di Arthur quando, riordinando il proprio appartamento, Paul aveva trovato per puro caso il taccuino del partner. Lo aveva osservato a lungo, indeciso se aprirlo o meno. Dopo qualche giorno la curiosità aveva vinto sul buonsenso.

Giorno XX dell’anno XX

Diario di un agente..”

Aveva finito col leggere quelle pagine che in qualche modo riassumevano la vita di Rimbaud. La maggior parte non erano altro che appunti sulle varie missioni completate per conto dell’intelligence o menzioni sullo stesso Paul. Sembrava quasi una sorta di diario che raccoglieva i pensieri del proprio partner, i suoi dubbi, timori, tutte quelle sensazioni che Verlaine sapeva non sarebbe mai riuscito a comprendere appieno.

Fra tutte, fu una semplice frase a catturare l’attenzione dell’essere artificiale:

Questo lavoro non ci permette di avere relazioni con le altre persone. Amici e amanti possono diventare i punti deboli per una spia. I miei genitori e il mio ex amante…”*

Era sempre il solito discorso, un bravo agente segreto non doveva provare sentimenti o emozioni. Vista sotto quest’ottica lui era la spia perfetta. Un mostro senz’anima, un’arma. Ma era stato un’altro particolare a fargli venire voglia di strappare ognuna di quelle pagine.

Rimbaud aveva menzionato un amante e Verlaine sapeva di come una sola persona potesse essere candidata a ricoprire quel ruolo.

Arthur era entrato nel mondo dell’Intelligence da bambino, fingendo la propria morte e abbandonando il suo stesso nome. Quel nome che Paul aveva appena scoperto di aver ereditato.

Se la maggior parte del taccuino raccontava di Verlaine e delle loro missioni insieme le prime pagine narravano di un Rimbaud inedito. Qualche dettaglio strascicato sulla sua infanzia e dell’addestramento con Hugo e Dumas, unito al rimpianto e al senso di colpa per non essere riuscito a salvare un certo Charles.

Charles

Verlaine non ci mise molto a raccogliere informazioni anche su di lui.

Charles Pierre Baudelaire. Secondo le proprie fonti era morto a vent’anni, undici mesi dopo essere arrivato nella capitale francese. Probabilmente erano stati gli stessi Poètes a farlo sparire, poco prima del suo incontro con Arthur.

La sola idea che ci fosse stato qualcuno di così importante per il proprio partner gli provocava una strana morsa all’altezza dello stomaco. Rimbaud non gli aveva mai parlato di Baudelaire, non lo aveva mai nominato in sua presenza, eppure quel nome tornava frequentemente tra le pagine del suo taccuino.

Non vi era nulla di più spaventoso di un ricordo. Charles era un fantasma del passato di Arthur che puntualmente tornava a tormentarlo. Paul a volte lo dimenticava. Rimbaud aveva avuto una vita prima di incontrarlo, era lui che aveva iniziato la propria esistenza nel momento in cui era stato liberato da quel laboratorio.

Paul Verlaine era nato il giorno in cui Arthur Rimbaud lo aveva preso con sé.

Per la prima volta dovette scontrarsi con quella realtà. Arthur aveva avuto un passato del quale lui non avrebbe mai potuto fare parte. Charles Baudelaire aveva conosciuto un altro Rimbaud e gli era stato accanto ancor prima che diventasse un Poètes. Preferì ignorare la parola amante e le implicazioni che essa comportava. La sola idea di dividere Arthur con qualcuno gli era inconcepibile.

Fu in una calda giornata estiva che Paul Verlaine sperimentò per la prima volta il sentimento della gelosia.


 

***


 

Presente


 

Verlaine era sempre stato un tipo possessivo, soprattutto nei confronti del proprio partner e lo stesso si poteva dire di Arthur. Nonostante l’epilogo della loro storia si erano sempre presi cura l’uno dell’altro. Anche quando vi era un intero continente a separarli, i pensieri di Paul erano rivolti a quel compagno che privo di ricordi si era ricostruito una vita in Giappone.

La morte di Rimbaud era stata un suo errore. Aveva permesso che accadesse. Strinse i pugni mentre osservava quel taccuino ancora sulla scrivania prima di decidersi ad allungare una mano ed afferrarlo.

Lesse più volte quelle pagine che ormai conosceva a memoria. Ricordi indelebili di un passato che mai come in quel momento gli appariva sfocato e distante. Cercò in particolare le pagine risalenti allo scoppio della Guerra e quelle successive al periodo a Berlino.

Quei mesi in Germania furono una prova difficile da superare. Un sorriso spontaneo nacque sulle labbra del biondo al pensiero di quanto avvenuto a Suribachi o degli ultimi anni.

C’era stato un tempo in cui la sola idea di essere separato da Arthur gli appariva insopportabile, mentre ora il suo partner era morto.

Anche la fantasia ideale creata dall’Abilità di Carroll aveva prodotto lo stesso epilogo. Verlaine però non era ancora disposto a rinunciare. Oltre al desiderio di rivedere il proprio compagno era spinto dalla curiosità verso il comportamento di Baudelaire. Quel fantasma del passato di Arthur sembrava essere tornato al solo scopo di tormentarlo.

Charles gli aveva offerto su un piatto d’argento la possibilità di riavere Rimbaud ma cosa ci avrebbe guadagnato? Tutta quella vicenda era fin troppo sospetta ma Verlaine non si sarebbe tirato indietro, non dopo aver ricevuto un assaggio del potere di Carroll.

Se quel giorno di tanti anni prima Arthur non fosse partito per la Germania le loro vite sarebbero state diverse? Rimbaud sarebbe sopravvissuto? Voleva saperlo. Ne aveva bisogno per riuscire a voltare pagina e andare avanti.

Verlaine aveva sempre vissuto nella convinzione di essere solo al mondo. In fondo non era altro che un insieme di codici, un’anima artificiale. Questa opinione era leggermente mutata in seguito alla scoperta dell’esistenza di Arahabaki. Quel ragazzino così simile a lui, il solo in grado di comprendere il suo dolore.

Abbassò lo sguardo, osservando quella grafia che negli anni aveva finito con l’odiare.

Paul, il giorno in cui leggerai questo diario sarà il giorno in cui conoscerai il tuo segreto. Prego che quel momento ti porti la vera felicità”

Richiuse il taccuino che teneva ancora tra le mani, dopo averne strappato un paio di pagine mosso dalla rabbia del momento.

Arthur era sempre stato tipo da nascondersi dietro delle belle parole e questo Paul non glielo avrebbe perdonato. Era inutile affermare di voler attraversare l’inferno per lui e desiderare la sua felicità quando nel momento del bisogno non ci aveva pensato due volte a voltargli le spalle.

Sia a Suribachi che nella missione in Germania, Rimbaud aveva scelto di assecondare i Poètes. Si era comportato da brava spia e aveva messo il proprio lavoro davanti ad ogni cosa. Anche a lui. Arthur non si era mai ribellato a un ordine nemmeno di fronte alla prospettiva di perderlo.

Per Charles Baudelaire però lo aveva fatto. Era stata questa scoperta a ferirlo.

L’idea che Rimbaud considerasse Baudelaire più importante di lui gli faceva ribollire il sangue nelle vene. In quella realtà ideale Arthur aveva affidato ad Arahabaki il nome di Charles. Era un’ulteriore prova di come il moro non avesse mai dimenticato quella stagione della propria vita.

Se Baudelaire avesse scelto prima di tornare nelle loro vite forse Rimbaud lo avrebbe preferito a lui. Charles in fondo era un essere umano oltre che un dotato d’Abilità parecchio potente. Poteva rivaleggiare al pari di un Trascendentale. Verlaine preferì non soffermarsi troppo su quell’ipotesi. Aveva deciso di sfruttare Baudelaire, qualsiasi piano il Poète avesse in mente lo avrebbe scoperto ed affrontato al momento opportuno.

Con questa convinzione si affrettò a raggiungere i due uomini ancora intenti a conversare nel soggiorno. Prima però decise di nascondere il taccuino di Rimbaud in uno dei cassetti della scrivania.

«Hai davvero intenzione di riprovare?» Carroll aveva tentato come sempre un approccio pacato, a differenza del francese al suo fianco che non aveva smesso di fissarlo con astio.

«Rimbaud è già morto. Qualsiasi realtà tu possa mostrarmi non sarà peggio di quella in cui sono costretto a vivere» Baudelaire strinse i pugni, faticando a rimanere in silenzio. Odiava quell’arroganza, quel senso di superiorità che accompagnava ogni parola del biondo essere artificiale. Verlaine però aveva ragione. Non avrebbe riavuto Arthur ma solo assistito alla sua scomparsa.

Charles avrebbe pazientemente atteso il momento in cui l’animo di quel mostro si sarebbe piegato. Solo allora avrebbe fatto la propria mossa.

La rovina di Rimbaud era stata quella di incontrare Black e innamorarsi di lui. Per questo motivo Baudelaire avrebbe riscritto la realtà, per salvarlo da quella sorte.

«Allora hai pensato a cosa vorresti vedere?» domandò Carroll invitando Verlaine a prendere posto sul sofà del soggiorno.

«Il giorno in cui la Grande Guerra scoppiò in Europa ad Arthur venne chiesto di partire per il fronte tedesco. Io rimasi a Parigi. Erano gli ordini. Vorrei sapere cosa sarebbe successo se quel giorno non fosse partito, se avesse disobbedito ai Poètes»

Le labbra di Baudelaire si tesero fino ad assumere un'espressione di puro disgusto. Quel mostro non conosceva affatto il suo Paul. Non poteva sapere come anni prima si fosse già ribellato all’Organizzazione.

Ai suoi occhi Black non era altro che un moccioso viziato, cresciuto nella convinzione che il mondo girasse intorno a lui. Indubbiamente teneva a Rimbaud ma rimaneva molto critico e severo nei suoi confronti. Non poteva dimenticare quella realtà in cui quei due vivevano felici insieme ad Arahabaki, come il fatto che quel ragazzino avesse ereditato il suo nome.

«Allora ti mostrerò una realtà dove il tuo partner non è partito per la Germania»

Baudelaire si limitò ad osservare quel mostro perdere i sensi, sperando che il nuovo sogno si trasformasse in un incubo.




 

*Venga, venga il tempo in cui ci si innamora

*Tratto dalla novel Stormbringer




 


 


 


 


 

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Capitolo 9
*** IX Stagione - Saisons ***


IX Stagione – Saisons



 







 

«Le Bonheur était ma fatalité, mon remords, mon ver:

ma vie serait toujours trop immense

pour être dévouée à la force et à la beauté »*

Une Saison en Enfer – Saisons



 



 



 



 

Francia

 

-Parigi-




 

Stendhal aveva perso il conto delle sigarette fumate in quella mattina. Le parole di Baudelaire lo avevano scosso più del previsto lasciandolo in una fase di apparente apatia. Sarebbe davvero arrivato a utilizzare un bambino come scudo? Anche se i suoi avversari erano soggetti del calibro di Black e Rimbaud stentava a crederlo.

La sua mente continuava a suggerirgli di come in realtà quel ragazzino non fosse altro che un esperimento, una mera imitazione di un essere umano. Saperlo però non bastava a giustificare le sue azioni. Fu in quel momento che Victor Hugo comparve all’altro capo del corridoio. Era dal giorno in cui aveva ricevuto la notizia della morte di Rimbaud che non incrociava la propria strada con quella del leader del Poètes.

«Victor» lo salutò educatamente con un lieve cenno del capo. L’uomo gli sorrise,

«Oh Henry sei proprio la persona che stavo cercando. Avrei bisogno di contattare Charles, potresti aiutarmi?» Il capo della sezione interrogatori rimase come pietrificato nell’udire quelle parole. Hugo sapeva. Era stato un illuso ad aver sperato nel contrario.

«Sta avendo dei problemi col proprio cerca persone» mentì. L’uomo dai capelli argentei si passò una mano sul mento pensieroso.

«C’è stata un’evasione da Meursault» concluse con tono ovvio.

«Ne sono al corrente. Ho mandato una squadra sul posto» si limitò ad informarlo Stendhal. 

«Bene. Il mio desiderio è sapere se anche il nostro caro Baudelaire sia in qualche modo coinvolto nella faccenda»

«Non ne so nulla» gli angoli della bocca di Hugo si piegarono in un sorriso paziente.

«Non pensavo che sarebbe mai arrivato questo giorno Henry. Sono sorpreso. Prima apprendo la notizia della prematura scomparsa di Arthur e ora tu. Stai mentendo per coprire Charles. Incredibile»

«Ha coinvolto anche Black» si sentì in dovere di specificare. Improvvisamente si sentiva come un bambino che si trovava a dover confessare la propria marachella al genitore.

Hugo probabilmente ne era già al corrente. Quella conversazione non era che una farsa. Stava solo cercando di metterlo alla prova. Victor era fatto così. Non vi era nulla che il leader dei Poètes Maudits non sapesse. Era questo a renderlo tanto pericoloso, la sua rete di informatori che trascendeva i confini nazionali per estendersi fino all’altro capo del mondo.

«Il Re degli Assassini è tornato sul suolo francese circa una settimana fa» Lo informò con il solito tono monocorde. Stendhal ne approfittò per dare voce ai propri pensieri,

«La morte di Rimbaud sembra aver sconvolto tutti» di fronte a quell’affermazione però Victor scosse la testa

«Il più grande difetto di Baudelaire è sempre stato quello di non accettare la realtà. Arthur non è mai stato suo. Quel sentimento non era altro che il prodotto di un’effimera illusione. Amare sostituisce quasi il pensare »

«Charles possiede quella memoria stupefacente che molto spesso va unita alla stupidità» si trovò ad ammettere fra i denti,

«Non è una scusa. Tutti noi abbiamo amato e perso qualcuno, ma abbiamo saputo accettarlo, siamo andati avanti. Charles si sta comportando come un bambino e tu non solo glielo stai permettendo ma anche proteggendo»

«Ha un piano» Stendhal non sapeva nemmeno perché cercasse con tutte le proprie forze di difenderlo. Il comportamento di Baudelaire poteva essere letto come un tradimento. 

«Non stento a crederlo, quel ragazzino è sempre stato pieno di risorse. Arrivare a collaborare con Black, in tutta sincerità non pensavo sarebbe giunto a tanto»

«Si farà uccidere» concluse Stendhal mesto, abbassando il capo.

«Non credo. Conoscendo quel mostro prima vorrà giocare un pò con lui»

«E dopo che succederà Victor?»

«Prima di tutto dobbiamo trovarli» il leader dei Poète fece una breve pausa cercando il suo sguardo «dopotutto per formulare una qualsiasi condanna devo accertare il grado di coinvolgimento del tuo sottoposto…» suggerì mellifluo

«Baudelaire può essere stato obbligato a tradire i Poètes» concluse Stendhal 

«Vedo che hai compreso»

«Perchè vuoi aiutarlo?» 

«Il nostro Paese ha bisogno di agenti del calibro di Charles. La guerra ci ha privato di molto. Troppo» lo sguardo di Hugo venne attraversato da ricordi lontani. Stagioni di una vita che aveva disperatamente cercato di dimenticare ogni tanto riaffioravano con prepotenza.

«Hai sempre saputo che Arthur si trovava in Giappone» la voce di Stendhal lo riportò alla realtà. Il leader dei Poètes si avvicinò ad una delle finestre, appoggiando il palmo della propria mano sul vetro,

«Pensavo sarebbe stato più felice lontano da Black e dalla sua influenza. Quella creatura lo ha quasi ucciso» si trovò ad ammettere osservando distrattamente il panorama

«Se non ricordo male, l’idea di affidare a Rimbaud e a quel mostro la missione di Suribachi era stata tua» Hugo alzò le braccia a mò di resa,

«Volevo Arahabaki e sono finito col perdere sia Arthur che Black» era stata la prima volta che qualcosa non era andato secondo i suoi piani e ne aveva pagato lo scotto.

«E ora cosa vuoi?» il viso di Hugo non tradì nessuna emozione.

«Possibilmente evitare di scatenare una guerra con il Giappone anzi contro la Port Mafia. Io e Mori-sensei abbiamo dei trascorsi interessanti. Inoltre so che anche gli inglesi stanno monitorando i movimenti di Black, sicuramente invieranno qualcuno per fermarlo»

«Ha pur sempre ucciso degli esponenti della Torre dell’Orologio»

«Lo ha fatto solo per divertimento. La notizia della morte di Rimbaud deve averlo colto di sorpresa anche se non riesco a immaginarmelo andare d’accordo con Charles»

«Quei due hanno parecchio in comune» si limitò a rispondere Stendhal

«Presto si salteranno alla gola. La suprema felicità della vita è essere amati per quello che si è, o meglio, a dispetto di quello che si è» non serviva aggiungere altro. 

Entrambi erano a conoscenza del sentimento che aveva legato Baudelaire a Rimbaud. Black rimaneva un’incognita pericolosa in quell’equazione ma Hugo sembrava averlo calcolato. In fondo era stato lui a crescere quel ragazzino di campagna, trasformandolo in uno dei propri agenti migliori.

«Voglio concedere a Charles mezza giornata di vantaggio» 

Stendhal fissò incredulo il proprio superiore.

«Credo di aver intuito il suo piano. Puoi stare tranquillo Henry interverrò prima che si faccia ammazzare» Victor sorrise un’ultima volta prima di congedarsi e tornare nel proprio ufficio.

Una volta solo, il leader dei Poètes aprì un cassetto della scrivania prendendosi qualche secondo per osservane il contenuto. Una pagina del Libro era conservata in una teca di vetro al riparo da ogni possibile contaminazione o minaccia. Era stato lui ad offrirsi volontario per custodirla e nessuno all’interno dell'Organizzazione aveva obiettato. Se la passò tra le mani.

C’erano così tante cose che avrebbe potuto scrivervi. Ultima ma solo in ordine di tempo la morte di Rimbaud. Tuttavia non lo avrebbe fatto. Aveva già assistito al potere scaturito da quelle pagine e l’esperienza gli era bastata.

In quel momento il cellulare nella tasca dei suoi pantaloni prese a vibrare. Rispose senza esitazione, in fondo solo una persona era in possesso di quel numero,

«Ho concesso loro qualche ora in più» fu tutto ciò che disse. Il suo interlocutore scoppiò in una fragorosa risata prima di aggiungere,

«Gli inglesi sono passati al contrattacco, l’Europole entrerà presto in azione» Hugo non si dimostrò particolarmente sorpreso. In fondo il Re degli Assassini si era preso gioco di tutti loro. Non poteva divertirsi con la Torre dell’Orologio e sperare di rimanere impunito.

«Una volta che avrà finito con Charles, Black si dirigerà in Giappone» concluse quasi annoiato

«Da Arahabaki»

«Esatto»

«Quindi la nostra prossima mossa?»

«Per ora ci concentreremo sul limitare i danni. Spero che nel frattempo quella testa calda di Baudelaire non si faccia uccidere»

«Se dovesse succedere qualcosa a Charles perderemmo anche Henry»

«Perchè credi voglia salvarlo? Non mi è mai piaciuto quel ragazzino ma abbiamo bisogno di Stendhal»

«Ed ecco il solito Vic»

«Non scherzare. Oggi non sono dell’umore»

«Hai letto i documenti sul progetto Arahabaki?»

«Si, insieme a quelli che mi hai inviato. La Port Mafia sembra essere un’Organizzazione meno noiosa del previsto»

«Mori-sensei ne ha fatta di strada»

«Ho pensato la stessa cosa»

«Ora sarà meglio che vada. Non provare a contattarmi. Mi farò vivo io»

«Hai idea di quanto queste parole possano suonare ridicole se a pronunciarle è un uomo che per il mondo risulta morto da quasi vent’anni?»

«E di chi pensi sia la colpa?» Hugo scoppiò a ridere

«Touchè»

«Buonanotte Vic»

«Buonanotte Lex»

 

***

 

Qualche stagione prima

-alcune settimane dopo la Battaglia di Parigi-

 

Mancavano pochi minuti allo scoccare della mezzanotte, le strade della capitale francese un tempo piene di vita, erano cosparse di macerie e detriti. La città stava scivolando nel sonno, cullata dalla calma e quiete che solo l’abbraccio della notte sapeva donare. Per qualche ora Parigi poteva concedersi un po’ di riposo dal proprio splendore. Anche se in ginocchio, la città dell’amore manteneva il proprio allure e un’eleganza unica.  Era in questi momenti che Rimbaud riusciva a prendere una pausa dai propri doveri, smetteva i panni di spia, e tornava ad indossare quelli di Arthur. Stava diventando sempre più complicato farlo. Ritagliarsi del tempo per se stesso, per annotare i propri pensieri su quel taccuino che negli ultimi mesi si era trasformato in un fedele compagno di viaggio.

Era reduce da un periodo difficile, in cui aveva pensato più volte di non farcela, eppure era riuscito a compiere il proprio dovere. Come sempre. Durante quei mesi la guerra aveva imperversato nel vecchio continente chiedendo sforzi considerevoli da parte delle nazioni e dei Governi coinvolti, forse presto si sarebbe giunti ad una tregua. O così auspicava. Troppo sangue era stato versato e vite spezzate. 

Rimbaud aveva provato sulla propria pelle l’Abilità di Schiller. Di quelle settimane trascorse nella capitale tedesca non ricordava quasi nulla. Una volta tornato in patria aveva informato Victor dell’accaduto ed era stato lui a suggerirgli di tenere un diario. Mettere nero su bianco i propri ricordi al fine di conservarli per un futuro. Avrebbe evitato di commettere gli stessi errori e allo stesso tempo lasciato una traccia della propria esistenza. Così aveva ripreso il proprio taccuino aggiungendovi nuove informazioni. In fondo aveva sempre avuto quell’abitudine anche se con poca costanza aveva già annotato parecchie cose sul proprio passato. Durante la missione a Berlino aveva portato pochissimi bagagli, motivo per il quale il quaderno era rimasto nella capitale francese. Al proprio ritorno, Rimbaud non fu sorpreso di trovarlo esattamente dove l'aveva lasciato.

Quando appuntò la data venne colto da un’illuminazione. Era il 29 marzo, anzi ormai solo una manciata di minuti lo separavano dal 30. Era stato proprio in quel giorno in cui aveva fatto irruzione nel laboratorio del Fauno. Lì aveva trovato Black No.12. Paul.

Era incredibile come il tempo fosse letteralmente volato e di come per poco non se ne fosse dimenticato. Avrebbe dovuto festeggiare insieme al proprio compagno. Era una ricorrenza che in qualche modo andava celebrata. Paul sembrava ancora indispettito per la missione in Germania e Rimbaud sapeva che non gliela avrebbe perdonata facilmente. Non poteva biasimarlo. Lo aveva in un certo senso abbandonato, partendo per il fronte non appena quell’assurdo conflitto era scoppiato.

Arthur non temeva la morte. Non la propria almeno, ma aveva finito con l’affezionarsi al proprio partner. A quell’essere artificiale che i Poètes gli avevano affidato e a cui aveva insegnato ogni cosa. 

Era l’idea di perderlo ad essergli inconcepibile. Lasciare Paul nella capitale francese era stata solo la scelta più saggia e sicura, soprattutto dopo aver scoperto di come i governi di mezza Europa bramassero il suo potere. Il biondo non era uno strumento, non lo era mai stato. 

Paul. 

Quel nome si perse in un sussurro, mentre una lieve brezza minacciò la fiamma della candela accesa sul tavolo. Arthur la riparò con la propria mano pensando a come il compagno fosse in qualche modo simile al fuoco. Poteva diventare potente, distruttivo, letale, se lasciato libero di agire incontrollato, ma allo stesso tempo era capace di riscaldare con il proprio calore, illuminare l’ambiente circostante. 

La sua vita prima di quell'incontro era monotona, grigia, fredda. 

La morte di Charles lo aveva cambiato. Arthur Rimbaud esisteva solo per eseguire degli ordini, si era trasformato in uno strumento nelle mani del proprio Paese e come tale veniva trattato. Gli era stata affidata quella fiamma, sarebbe toccato a lui prendersene cura. Arthur avrebbe potuto decidere se appiccare un incendio o utilizzare quel calore per aiutare il prossimo. Paul però non era solo fuoco, era impetuoso come una tempesta e come tale aveva finito col travolgerlo.

Aveva con la sua sola presenza dato un senso ai suoi giorni. Gli aveva fatto riscoprire un lato umano al quale Rimbaud credeva di aver per sempre rinunciato. Lo aveva riscaldato dal freddo costante che lo accompagnava. Era stato la sua ancora di salvezza. Tornò ad osservare quella fiamma ignorando l’ennesimo brivido che quel venticello gli aveva provocato. Si strinse la pesante coperta sulle proprie spalle concedendosi ancora qualche istante prima di coricarsi a letto. La luna era stata nascosta da alcune nubi e sulla città era calata di colpo l’oscurità. Appoggiò il calamaio sul tavolo.

Quando pensava a Paul la sua mente si sentiva libera di vagare. Arthur sapeva benissimo quanto quei pensieri potessero rivelarsi pericolosi, per questo soppesava con cura ogni parola prima di riportarla sul proprio taccuino, in mani sbagliate certe informazioni avrebbero potuto rivelarsi fatali.

Le spie non provano sentimenti, non possono avere affetti, legami. Rimbaud aveva rinunciato ad ogni cosa per inseguire quel sogno che da bambino lo aveva spinto a diventare uno strumento del Governo.

Ripensò per un breve istante alla propria famiglia, a Charles, a tutto ciò che si era lasciato alle spalle. Quella però era una vita che apparteneva a Paul Verlaine e quel bambino era morto tanti anni prima. C’era il suo nome su quella tomba in un piccolo paesino sperduto nella campagna francese. Nessuno avrebbe mai potuto collegarlo a lui, solo Charles non si era rassegnato alla sua scomparsa, lo aveva cercato, trovandolo, solo per perderlo di nuovo.

Arthur riprese il calamaio in mano.

Quella notte, decise che avrebbe raccontato del suo primo incontro con Paul, le particolari circostanze che li avevano portati a diventare partner. La loro storia. Si trovò ad arrossire per quel pensiero tanto che si affrettò a scacciarlo. Essere una spia lo aveva portato a perdere molto ma aveva saputo offrirgli altrettanto.

Non si sarebbe mai aspettato nulla di simile. Quando si erano incontrati Arthur era diventato l’ombra di se stesso. Si sentiva semplicemente vuoto, attanagliato da un freddo che lo stava consumando dall’interno e a cui non sembrava esserci rimedio. Aveva cercato disperatamente di rivivere un passato che ormai non gli apparteneva.

I suoi superiori avevano scoperto di Charles, del sentimento che lo legava al proprio amico d’infanzia come della notte d’amore che avevano consumato prima della sua partenza per Londra. A quel tempo Arthur era stato fin troppo ingenuo. Sperare che quella relazione rimanesse un segreto era stata solo l’ennesima fantasia adolescenziale nella quale aveva tentato invano di rifugiarsi. Una spia non poteva avere alcun tipo di legame, era stato uno dei primi insegnamenti che aveva ricevuto e a cui non aveva mai dato troppo peso, o almeno fino al giorno in cui aveva perso Charles. Lo avevano arrestato e imprigionato solo per il crimine di averlo amato.

Victor Hugo era arrivato a definire Charles Baudelaire il suo punto debole e una spia non può averne. 

Una parte di Arthur non riusciva a darsi pace. Per colpa del proprio egoismo aveva perso l'unica persona che avesse mai amato. Sapeva che avrebbe dovuto soffocare quei sentimenti, nasconderli nelle profondità del proprio animo ma non ne era stato capace e per questo motivo Baudelaire era morto.

Per qualche tempo aveva desiderato raggiungerlo, straziato dal dolore e dalla colpa per quell’emozione che non era stato in grado di controllare. Il gelo che avvertiva nel proprio animo si era intensificato. Rimbaud però non possedeva il coraggio necessario per togliersi la vita così si era limitato a sopravvivere, giorno dopo giorno. Quella sarebbe stata la sua punizione, vivere in un modo senza amore.

Poco dopo Hugo gli affidò l’ennesima missione. Nome in codice Fauno. Arthur non si era ancora ripreso da quel dolore ma sembrava essere l’unico Trascendentale in grado di tenere testa alla creatura che quella sorta di scienziato pazzo aveva creato. 

Non conosceva i dettagli, si era limitato a leggere il rapporto che i servizi di intelligence gli avevano fornito. Si trattava di un essere artificiale che manipolava la gravità a proprio piacimento, risultato di una serie di esperimenti sulle Abilità Speciali.

Quando Rimbaud vide per la prima volta il potere nascosto in quell’essere chiamato Black No.12 non poteva credere ai propri occhi. Era un mostro certo, ma di straordinaria bellezza. Non aveva mai visto niente di simile.

Arthur provò pietà per quella bellissima creatura. Era completamente alla mercé del proprio creatore, sembrava una bambola priva di volontà.

Grazie alle informazioni in suo possesso distrusse lo strumento con il quale il Fauno controllava la sua mente. Fu questione di un istante. Una volta liberato da quell'influsso il mostro si scagliò contro il proprio creatore eliminandolo con una sola mano. Fu uno spettacolo agghiacciante eppure una parte di Rimbaud ne fu sollevata. Finalmente quell'essere era libero di seguire la propria volontà. Si trovò quasi ad invidiarlo, a lui un simile lusso non sarebbe mai stato concesso.

La candela aveva quasi esaurito la propria fiamma e il camino non gli era mai sembrato tanto distante. Ricordare il passato era importante, in qualche modo avrebbe lasciato una traccia di loro. Di ciò che erano stati.

Lo stai facendo veramente solo per questo?

Arthur alzò lo sguardo dal proprio taccuino. Stava ancora descrivendo la sua incursione in quel sotterraneo quando una voce conosciuta lo obbligò ad alzare il capo.

Il fantasma di Charles gli sorrideva, in piedi a qualche metro da lui. Una mano appoggiata contro la finestra dalla quale poco prima si era incantato a fissare la luna e da cui entrava una leggera brezza che gli scompigliava i capelli. Era bello come ricordava e non poteva che essere altrimenti. In fondo era solo un’illusione creata dalla propria mente.

Pensi possa servire a qualcosa?

Lo incalzò nuovamente indicando la sua sessione di scrittura. Rimbaud sapeva a cosa si stesse riferendo con quelle parole, ma non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce. Sarebbe stato come rendere il tutto solo più reale. Non lo avrebbe permesso, aveva già fornito delle importanti informazioni al nemico e manco lo ricordava.

Tornò ai propri appunti ignorando quella figura frutto della propria mente che ora lo osservava divertito, in attesa della prossima mossa.

Arthur era arrivato con il descrivere il momento in cui Paul era stato catalogato dal Governo come risorsa preziosa e come fosse stato affidato proprio a lui l’incarico di occuparsene. Sorrise. Non si era mai ritenuto un insegnante adatto a quel ruolo. La prima cosa che fece quando gli affidarono quel mostro fu donargli un nome, il proprio.

Per il mondo Paul Verlaine era morto tanti anni prima, il giorno in cui Arthur Rimbaud era entrato ufficialmente nell’intelligence francese. Non vi poteva essere scelta migliore per quel bellissimo mostro che lo fissava con iridi fredde come il ghiaccio, anelando risposte che lui non possedeva.

Paul.

A volte mi domando ancora perché tu abbia scelto fra tutti proprio quel nome

Arthur aveva alzato nuovamente lo sguardo, il fantasma era ancora dove lo aveva lasciato, pronto a metterlo in difficoltà, anzi pareva quasi si stesse divertendo nel farlo.

«Era il nome che mi avevano affidato i miei genitori. Mi piaceva. Non c’è un motivo preciso» si limitò a sussurrare. Stava parlando con se stesso, doveva essere più stanco del previsto o forse stava già sognando e si era addormentato senza accorgersene.

Il fantasma però non parve soddisfatto da quella risposta.

TU sei Paul Verlaine. Non quel mostro. Sei il mio Paul. Questa verità non cambierà mai

«Adesso stai esagerando Charles. Sei morto. Queste sono cose che non ti riguardano. Non più almeno»

Lo spettro tornò a sorridere e Arthur sentì una lieve ondata di calore riscardagli le ossa. Era tutta un’illusione creata dalla propria mente, lo sapeva bene. Eppure il sorriso di Baudelaire gli era mancato, come il suono del proprio nome pronunciato da quelle labbra. Era l’unico che lo chiamava in quel modo.

Lo ami davvero a tal punto?

Gli chiese. Rimbaud abbassò lo sguardo. Sapeva bene a cosa si stesse riferendo.

«È complicato»

A me invece sembra abbastanza semplice, cristallino oserei dire, basta leggere quegli appunti e chiunque potrebbe capire la natura del sentimento che vi lega

«Per quanto ancora desideri torturarmi Charles?» domandò passandosi una mano sul volto.

Non sei mai stato discreto

Si limitò a fargli notare. Arthur sorrise, anche Hugo gli aveva rivolto parole simili.

«Abbiamo sprecato tanto di quel tempo cercando di ignorare i nostri sentimenti. Ho finito col perderti solo dopo averti ritrovato» ammise la spia stringendosi di più nella coperta che teneva ancora sulle proprie spalle. Cercava di evitare di incrociare lo sguardo dell’altro. Nonostante tutto, il ricordo di ciò che erano stati faceva ancora male.

Stai commettendo di nuovo lo stesso errore. Dovresti dire a quella creatura quello che provi. Prima che sia tardi

«Non chiamarlo in quel modo, Paul è un essere umano» il fantasma storse il naso avvicinandosi a lui ma senza sfiorarlo. Finalmente si guardarono negli occhi. Anche quelle iridi erano blu come Arthur ricordava. Gli era mancato quello sguardo come il potere che aveva sempre esercitato su di lui.

Se lo accettasse sarebbe tutto più semplice

«Che vorresti dire?»

Che lui per primo non si considera in quel modo, non importa cosa tu faccia, la realtà dei fatti non cambia. È il tuo amato Paul che per primo non accetta la propria natura. Sa di non essere umano

Arthur sbuffò. Lo spettro aveva ragione. Il suo più grande rimpianto era quello di non riuscire a comprendere i pensieri più reconditi che agitavano l’animo del proprio partner. Avvertiva quella sofferenza, quel disperato bisogno di sentirsi accettato, parte del loro mondo.

Paul aveva eretto una barriera che aveva provato in tutti i modi ad abbattere. Quanto avrebbe desiderato che il proprio compagno capisse la propria importanza. Per Rimbaud, Verlaine non era solo un’arma, era qualcosa di più. Non sapeva dare una definizione al sentimento che lo legava al biondo, chiamarlo amore come sosteneva Charles avrebbe messo entrambi in pericolo. Però era un qualcosa di altrettanto potente.

Verrà il giorno in cui sarai costretto a lasciarlo andare. 

Il fantasma aveva ragione ma in fondo quello era solo l’ennesimo prodotto della sua mente. Arthur aveva bisogno di sentire quelle parole direttamente dalle labbra di Charles Baudelaire per poterle accettare. Stava davvero andando fuori di testa.

Sta per mettersi a piovere

Lo informò la figura tornata nuovamente alla propria postazione accanto alla finestra. In quel momento era un dettaglio di poco conto.

«Voglio festeggiare il suo compleanno» esordì senza una particolare ragione.

Hai sempre amato celebrare queste ricorrenze.

Arthur tornò a sorridere, piegando leggermente gli angoli della bocca; «Non lo abbiamo mai fatto. So che tecnicamente non ha un compleanno ma è da un po di tempo che desidero fare qualcosa per lui. Domani sarà l’anniversario del giorno in cui ha sconfitto il Fauno e ottenuto la propria libertà» Charles sorrise,

E ancora sostieni di non amarlo. Quando imparerai ad essere sincero con te stesso. Verso i tuoi sentimenti.

«Quando lo sono stato hai visto cosa ho ottenuto. Tu sei morto e io vivrò il resto della mia vita con quel peso sulla coscienza»

Ciò che hai provato per me era lo stesso?

Arthur tornò a fissare le pagine bianche davanti a lui. Preferiva non rispondere a quella domanda. Non si era mai interrogato sulla natura dei propri sentimenti. Indubbiamente quello che provava per Paul era diverso da ciò che lo aveva legato a Charles. Erano individui diversi che aveva incontrato in periodi differenti della propria vita. Stagioni diverse.

Charles Baudelaire era stato il suo più caro e vecchio amico. Erano cresciuti insieme in quel paesino sperduto tra le Ardenne. Gli aveva confidato i suoi sogni, le proprie speranze verso il futuro. Charlie era presente quando la sua Abilità si era manifestata per la prima volta. Ricordava il suo volto in lacrime quando i gendarmi lo avevano allontanato da casa. Il loro incontro, avvenuto una decina di anni dopo a Parigi. In quell’occasione quel sentimento che li aveva sempre legati era mutato evolvendosi in qualcosa di più profondo, sfuggendo al controllo di entrambi. Charles aveva amato Paul Verlaine. Aveva amato un individuo che ormai non esisteva più. Arthur aveva seppellito il vecchio se stesso anni prima quando aveva abbracciato quella nuova vita.

Poi aveva conosciuto Paul. Non sapeva definire il sentimento che aveva sviluppato verso quella creatura. All’inizio gli aveva ricordato un bambino al quale avrebbe dovuto insegnare i misteri e i pericoli del mondo. Verlaine però non era innocente né ingenuo. Dentro di sé combatteva contro una bestia che lui aveva saputo in qualche modo domare.

Fu in quel momento che venne colto da un’illuminazione. Aveva trovato il regalo perfetto. Gli avrebbe donato qualcosa che lo aiutasse a controllare il proprio potere. Così, se un giorno si fossero trovati divisi, Paul avrebbe represso i propri istinti. 

Pensi che lui sappia cosa sia un compleanno?

Charles era tornato a tormentarlo.

«Non importa. Se dovesse servire glielo spiegherò. In fondo gli ho insegnato ogni cosa»

Tranne che amare

«Paul sa amare. Deve solo imparare a mostrarlo»

Provo pietà per quella creatura. Non vi è nessuno al mondo in grado di comprenderlo. Nessuno simile a lui

«Ti sbagli» sussurrò la spia chiudendo finalmente il proprio taccuino.

«La ricerca giapponese» spiegò ricordando quanto appreso in Germania. Charles si fece nuovamente più vicino.

Lo so benissimo ricordi? Non sono altro che un frutto della tua mente. 

«Allora perché ti diverti a tormentarmi?»

Perché non riesci a prendere una decisione. Una parte di te teme il giorno in cui Paul arriverà a ribellarsi, a rompere le catene con le quali lo tieni ancorato. Sai che non potrai controllare quella creatura in eterno, come anche il fatto che nessun Governo potrà mai farlo.

«Voglio solo renderlo umano. Desidero comprenda l’importanza della propria esistenza. Dovrebbe essere grato di essere al mondo»

Sono tutte scuse. Vuoi riavere lo stesso legame di cui ti hanno privato

«No. Paul non è te. Non lo sarà mai e va bene così. Non cambierei nulla di lui»

Tranne la sua testardaggine e orgoglio

«Di quelli mi reputo in parte responsabile»

Sei cambiato Paul

«Mi chiamo Arthur»

«Con chi stai parlando?»

Rimbaud si voltò di scatto al suono di quella voce. Verlaine lo fissava curioso appoggiato allo stipite della porta. Ignorò il brivido di freddo che quelle iridi di ghiaccio gli avevano provocato. Eppure sostenne il suo sguardo.

«Stavo per coricarmi quando ti ho sentito parlare» spiegò incrociando le braccia quasi con disappunto. A modo suo il biondo era geloso del proprio compagno anche se cercava in tutti i modi di nasconderlo. Sembrava particolarmente infastidito dall’idea che potesse esserci qualcuno nelle sue stanze a quell’ora. Arthur abbozzò un sorriso riprendendo fiato.

«Stavo scrivendo, parlavo tra me» spiegò indicando il taccuino e la candela ormai spenta sulla propria scrivania;

«Presto ci sarà un temporale» il moro annuì guardando il cielo ormai ricoperto di nubi;

«Se vuoi puoi restare qui questa notte» propose studiando ogni espressione comparsa sul viso del biondo;

«Non ho paura» rispose stizzito

«Lo so benissimo ma la tua stanza si trova al lato opposto di questo edificio fatiscente e guarda, ha già iniziato a piovere. Non vorrei mai che ti prendessi un raffreddore»

«Non so nemmeno se posso ammalarmi. Io non sono umano» Rimbaud alzò gli occhi al cielo alzandosi dalla propria sedia solo per raggiungerlo, la coperta ancora avvolta sulle spalle come un mantello.

«Ancora con questo ritornello. Sei un’anima artificiale ma esteriormente sei umano»

«Io però conosco la verità, non posso fingere»

«Paul vorrei tanto aiutarti»

«Non ti ho mai chiesto di farlo» Arthur non rispose. Come poteva rivelare i propri sentimenti mentre Verlaine ostinatamente continuava con l’erigere muri per tenerlo a distanza.

«Questa notte dormirai qui e non si discute» non voleva suonare autoritario ma era arrabbiato. Il comportamento di Paul non facilitava le cose e in qualsiasi caso, non avrebbe lasciato cadere in quel modo quella conversazione.

«Se lo desideri, però ti avviso che sono stanco, quindi smettila di scrivere e vieni a letto»

In quel momento si accorsero entrambi che ve ne era solo uno al centro della stanza. Tornarono a fissarsi. Fu Rimbaud a rompere il silenzio imbarazzante sceso tra loro. Si stavano comportando come dei bambini. Erano rimasti separati per un breve periodo e non era facile riprendere con la propria quotidianità, riacquistare le vecchie abitudini.

«Non è la prima volta che dormiamo insieme» gli fece notare. Verlaine annuì iniziando a sbottonarsi la camicia.

«Cosa scrivevi?» domandò in seguito, tornando a fissare il moro con la solita curiosità.

Arthur fu tentato di offrirgli il taccuino invitandolo a leggere ma l’eco della voce di Baudelaire ancora fastidiosamente presente nelle proprie orecchie lo portò a desistere. Non era ancora arrivato il momento. Un giorno avrebbe aperto il proprio cuore ma non quella sera.

«Ho descritto del nostro primo incontro» fu tutto ciò che disse. Verlaine ne sembrò quasi deluso.

«Non hai nulla di più interessante da raccontare?»

«Tu sei un soggetto decisamente interessante»

«Mi stai dicendo che hai scritto solo su di me? Non ci credo. Sono diventato oggetto di una qualche ricerca?»

«Non intendevo questo Paul» andava sempre a finire in quel modo. Provò ad accarezzargli un braccio per tranquillizzarlo. Rimbaud sapeva di dover fare attenzione, non voleva ferirlo o provocare scatti d’ira incontrollati. Quando si arrabbiava Verlaine diventava imprevedibile.

«Non ho bisogno della tua pietà»

«Non è pietà»

«Allora perché stavi scrivendo su di me?» ora anche lui si stava innervosendo

«Perché la mia vita gravita intorno alla tua. Perché sei il mio partner su chi altro potrei mai scrivere?»

«Charles» quel nome aveva sempre pesato come un macigno sopra di loro. Era davvero il fantasma di un passato che Rimbaud non riusciva a scrollare dal proprio presente e tornava con prepotenza ad insinuarsi nelle loro vite.

Arthur si era interrogato spesso su quanto fosse giusto rivelare a Paul ma qualcosa lo aveva sempre trattenuto dal raccontare al biondo tutta la verità. Soprattutto riguardo a Baudelaire e quella particolare stagione della propria vita.

«Non devi più pronunciare quel nome» sapeva che così facendo avrebbe solo finito con l’alimentare quella fiamma che già stava ardendo con forza nell’animo del proprio compagno ma non aveva potuto evitarlo. Charles apparteneva ad un passato al quale non avrebbe permesso di riaffiorare. Paul non doveva conoscere quei dettagli della sua vita. Non poteva. Era una ferita ancora aperta che ogni tanto tornava a sanguinare.

«Charles Baudelaire giusto?»

«Non sono affari tuoi. Charles è morto anni fa» detto questo si mise sotto le coperte dandogli la schiena.

Verlaine rimase seduto sul bordo del letto non sapendo come comportarsi. Era arrabbiato ma anche confuso.

«Un giorno ti permetterò di leggere questo taccuino» la voce di Arthur lo riportò alla realtà.

«Anzi potrei anche decidermi a regalartelo» il biondo si limitò a fissarlo completamente senza parole. Avrebbe tanto voluto dirgli la verità. Aveva già letto quel taccuino, era così che aveva appreso di Baudelaire e del sentimento che lo aveva unito a Rimbaud.  

Non lo fece.

«L’hai detto tu stesso, parla di te quindi è giusto che prima o poi tu lo legga. Vorrei solo finirlo prima» continuò Rimbaud.

E nel frattempo comprendere i tuoi sentimenti verso di lui

La voce di Charles era tornata a tormentarlo ma Arthur aveva deciso di ignorarla. Si strinse maggiormente la coperta addosso finendo in questo modo con l’urtare il fianco del proprio partner che nel frattempo si era steso all’altro lato del letto. Aveva di nuovo freddo ma quel semplice tocco bastò a scaldarlo. Il corpo di Verlaine era caldo. Lo era sempre stato.

«Hai i piedi ghiacciati» gli fece notare il biondo essere artificiale.

«Sto congelando»

«Arthur sei nascosto sotto tre strati di coperte e siamo in primavera» gli fece notare

«Fuori sta piovendo»

«Chi è ora che si comporta come un moccioso?» e detto questo si voltò verso di lui per abbracciarlo. 

«Così va meglio?» gli chiese vedendo come il proprio partner si era fatto improvvisamente rigido tra le sue braccia.

«Si grazie»

«Non capisco come tu possa sentire tutto questo freddo»

«Lo avverto da sempre. Ancor prima di iniziare con questa vita» ammise lasciandosi cullare da quelle braccia portatrici di distruzione ma che in quel momento gli stavano donando solo pace e calore. Come potevano definire una simile creatura un mostro? Non lo avrebbe mai compreso. 

Sotto certi aspetti Verlaine lo aveva salvato. Grazie a lui, aveva lentamente potuto guarire da quelle ferite provocate dalla scomparsa di Charles. Quella stupida guerra li aveva divisi ma una volta ritornato in patria Rimbaud era stato categorico, non avrebbe più accettato una missione senza Paul. Hugo aveva sorriso anche se come sempre aveva posto le proprie condizioni. 

Dopo la Battaglia di Parigi il suo rapporto con Verlaine era diventato sempre più ambiguo. Rimbaud voleva solo che le cose potessero tornare ad essere come erano prima della missione in Germania, o della guerra.

«Hai mai voluto fare qualcosa di diverso?» Tornò a domandargli Paul tra uno sbadiglio e una carezza, riportandolo con la mente al presente.

«Non mi è stato concesso di scegliere, come a te non è stata data la possibilità di essere umano. Qualcuno ha deciso per noi e siamo il risultato di questo»

«Tradiresti mai il tuo Paese?»

«Già il fatto di pormi una domanda simile può essere considerato come un atto di tradimento» Verlaine sorrise,

«Tu però non mi hai risposto»

«Non ho mai preso in considerazione una simile opzione. Non ho nulla al di fuori di questo lavoro. Sono nato per essere una spia, un agente segreto. Sono bravo, ho un’Abilità potente» erano le parole che Hugo soleva ripetergli ogni giorno. Rimbaud disponeva di un’Abilità notevole, avrebbe dovuto usarla per servire il proprio Paese. 

«Secondo questo tuo ragionamento io esisto solo per uccidere»

«Touchè. L’allievo sta superando il maestro»

«Ascolto ogni tuo insegnamento»

«E sei un ottimo allievo Paul. Ah quasi dimenticavo. Hai qualcosa da fare domani?» il biondo ci pensò per qualche istante colto alla sprovvista da quella domanda.

«Resta al rifugio. Devo alzarmi presto per sbrigare delle cose in città ma poi ho intenzione di tornare»

«Perché suona tutto molto sospetto? Mi stai forse nascondendo qualcosa? Una nuova missione di Hugo? Devi forse tornare in Germania?» Arthur scoppiò a ridere.

«Sono una spia. È ovvio che io nasconda qualcosa»

L’abbraccio si fece più stretto. Tanto che il moro riuscì a sentire il fiato del compagno contro il proprio collo. Un tuono ruppe il silenzio e Arthur si trovò ancora di più immerso in quel calore. Stava impazzendo per tutte quelle emozioni che stavano nascendo nel proprio animo. Doveva trattenersi in qualche modo. Bastava davvero poco per fargli commettere una follia.

«Scusa» si affrettò ad aggiungere Verlaine temendo di aver fatto qualcosa di sbagliato. Nonostante odiasse con tutto il cuore il comportamento di Rimbaud non riusciva a restargli indifferente. Durante quei mesi di lontananza gli era mancato. Arthur però era tornato da lui. 

«Non preoccuparti. Sono io che dovrei scusarmi. Se vuoi puoi anche smetterla di abbracciarmi» anche se era l’ultima cosa che in quel momento Rimbaud avrebbe desiderato.

«Ti sto solo scaldando» e non si mosse di un millimetro.

Dopo qualche minuto, Arthur si accorse che il respiro del biondo si era fatto improvvisamente più regolare. Paul si era addormentato di colpo, come un bambino.

Si concesse qualche istante. Era da tanto che non lo osservava dormire. Era davvero un bellissimo diavolo tentatore.

Pensò alla giornata che l’attendeva. Si sarebbe svegliato all’alba, avrebbe presenziato all’ennesima riunione insieme a Hugo e poi avrebbe avuto il pomeriggio libero per festeggiare il compleanno di Paul. 

Una nuova stagione sarebbe iniziata per tutti loro. L’immagine di Charles sarebbe rimasta per sempre un ricordo del passato, Paul rappresentava il suo presente e futuro. Avrebbe sacrificato ogni cosa per lui e per la sua felicità.

A quel tempo Rimbaud non poteva ancora sapere di come il destino avesse in serbo altri piani. Avrebbero festeggiato quel compleanno solo l'anno seguente, prima di partire per una missione all’altro capo del mondo. Un’operazione che avrebbe cambiato completamente le sorti delle loro esistenze.

 



 

 

*«La felicità era la mia fatalità, il mio rimorso, il mio tarlo: la mia vita sarebbe stata sempre tutto immensa per essere consacrata alla forza e alla bellezza»
 

Note autrice: era da un pò che non spendevo due parole su questa storia, che continuo a scrivere e amare come il primo giorno XD In questo capitolo ho voluto dar voce per una volta ai pensieri di Rimbaud, visto che tutti i personaggi della Saison, nel bene o nel male, ruotano intorno a lui. Da qui la necessità di mostrare anche il suo punto di vista per comprendere meglio i sentimenti che lo legano a Paul (e anche a Baudelaire, ma su di lui ci torneremo in seguito). Se non fosse chiaro, questa scena è ambientata un anno prima del famoso compleanno descritto in Stormbringer. Arthur voleva già allora festeggiare la nascita di Verlaine ma poi succedono cose XD. Mi intrigava semplicemente l’idea di mostrare l’evoluzione del loro rapporto con la guerra sullo sfondo, da qui i continui rimandi al passato e alle loro scene insieme, anche per spiegare meglio i vari cambiamenti che avverranno nelle realtà di Wonderland. Nei piani iniziali (di un anno fa) questa storia doveva contare solo 10 capitoli ma ovviamente io non riesco mai ad essere breve e concisa. Al momento non so dire a quanti capitoli arriveremo (ma lì ho già scritti e pronti fino al 14 XD). Il prossimo arriverà comunque verso fine agosto. Da settembre, spettatevi aggiornamenti ogni due/tre settimane circa, come sempre real life permettendo!!! (io sono bravissima a farmi piani e scalette che poi non rispetto, chi mi conosce lo sa e mi scuso). Ringrazio davvero chi continua a seguire questa storia e commentarla XD 

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Capitolo 10
*** X Stagione - Vierge Folle ***


X Stagione - Vierge Folle







«J’ai oublié tout mon devoir humain pour le suivre.
Quelle vie. La vraie vie est absente. Nous ne sommes pas au monde.
Je vais où il va, il le faut. Et souvent il s’emporte contre moi, moi la pauvre âme.
Le Démon – c’est un Démon, vous savez, ce n’est pas un homme »*

Une Saison en Enfer – Vierge folle

 



 



 

 

Francia

- da qualche parte in campagna -

 


«Allora ti mostrerò una realtà dove il tuo partner non è partito per la Germania»

 

Charles Baudelaire si limitò ad osservare sia Carroll che Verlaine. Fino a quel momento, il Poète aveva preferito rimanere in silenzio, concentrando la propria attenzione su ogni parola che aveva abbandonato le labbra di quel mostro. Baudelaire era stato in grado di leggere tra le righe di quell’assurda richiesta, traendone le proprie conclusioni. 

Black non conosceva affatto il suo Paul e presto anche lui avrebbe preso coscienza di questa verità. Cercò di mostrarsi indifferente mentre scrutava quel volto perfetto scivolare nell’oblio regalatogli da Wonderland. 

In quel frangente, odiò il biondo con ogni fibra del proprio corpo.

«Intendi seguirlo?» domandò l’inglese con una punta d’ironia, notando solo in quel momento l’espressione comparsa sul viso del Poète.

«Preferirei evitarlo» a Carroll sfuggì l’ennesimo sorriso di fronte a quella risposta così diretta e sincera,

«Se così è stato, così ha potuto essere; se così sarà, così potrebbe essere, ma siccome non è, non è. Questa è logica» si limitò ad aggiungere versandosi altro tè

«Cosa dovrebbe significare?»

«Solo che in cuor tuo speri che Verlaine si arrenda. Desideri assistere alla sua distruzione continuando a mostrargli la morte di Rimbaud. Eppure ti sottoponi alla stessa tortura. Questo perché non sopporti che in qualche mondo ideale possa aver trovato la felicità senza di te»

«L’hai detto tu stesso, Wonderland non è altro che un’effimera illusione»

«Non è forse questo l’amore? Anche quel sentimento è privo di logica. Tu e Black non state forse rincorrendo un fantasma?»

«Terribile è il gioco dell'amore, dove è necessario che uno dei due giocatori perda la padronanza di sé stesso. Ho inseguito Paul per tutta una vita e non sono mai stato in grado di raggiungerlo. Ho accettato di diventare una spia solo per lui. Vederlo felice insieme a Black è un qualcosa che non posso sopportare»

«Anche in questa fantasia è condannato»

«Lo so benissimo. In fondo, l’immaginazione è la regina del vero, come il possibile è una delle province della verità. Non mi importa se la tua Abilità mi mostrerà solo l’ennesima illusione. Vedere queste parentesi di ciò che poteva essere mi aiuta ad andare avanti. Il sapere che dei due non avrebbero mai potuto avere un futuro in qualche modo mi consola»

«Accettare la morte della persona amata non è mai cosa facile»

Non mi serve accettarla perché tanto riscriverò questa realtà

«Les Fleurs du mal»

 

***

 

Wonderland

 

-qualche stagione prima -

- Parigi - Cafè les Deux Magots

 

«Allora come è andata la riunione?» Paul aveva cercato di incrociare lo sguardo del proprio compagno mentre gli poneva quella semplice domanda. Rimbaud si era liberato dall’ingombro di sciarpa e cappotto, prima di sedersi nel tavolo accanto prendendo a massaggiarsi le tempie. Verlaine lo conosceva fin troppo bene, quello era il suo modo di tergiversare.

«L’Europa è sull’orlo di una guerra» si limitò a rispondere il moro, incrociando le braccia al petto, dirigendo la propria attenzione sul bicchiere che una delle cameriere aveva appena posto di fronte a lui.

«Quale sarà il nostro compito?»

«Servire il Paese» al biondo non piacque affatto quella risposta. Era così fredda. Impostata. Gli sembrava di trovarsi di fronte ad Hugo. Era il leader dei Poètes che si esprimeva in quel modo impersonale.

«Io sono un’arma creata per situazioni come questa. Dimmi cosa mi chiedono di fare» non intendeva starsene con le mani in mano.

«Non dovrai fare nulla. Non possiamo permettere che un dotato potente come te scenda sul campo di battaglia»

«Mi state proteggendo o forse dovrei dire nascondendo?» domandò stizzito. Rimbaud gli rifilò un’occhiata stanca ma eloquente.

«Entrambe. Qualcuno ti aveva proposto per la prima linea ma mi sono fermamente opposto. Siamo spie, agiamo nell’ombra. Combattere è compito dei soldati»

«Hai paura che non sappia controllare la bestia dentro di me?»

Arthur aveva osservato a lungo la figura del proprio partner prima di rispondere. Aveva un profilo perfetto, nonostante il volto leggermente imbronciato. Per lui, quell’essere non era mai stato un mostro. L’unica cosa che avesse mai trovato inquietante era la sua assoluta perfezione.

«Ho la massima fiducia in te, Paul. Sono i miei superiori a preoccuparmi. Per non parlare del fatto che non sappiamo ancora il numero delle nazioni coinvolte in un possibile scontro»

«Possiamo vincere?» Rimbaud aveva scosso la testa;

«Dopo questa guerra niente sarà più come prima» ripensò alla conversazione avuta con Hugo, come al breve litigio intercorso fra loro.

«Che altro c’è?» Perché Verlaine lo sapeva, non poteva trattarsi solo di quello, l’espressione apparsa sul viso di Arthur parlava per lui. Gli stava nascondendo qualcosa e in quegli anni, Paul era diventato fin troppo abile nel smascherarlo.

«Parto domani mattina per la Germania» il biondo non comprese subito il significato di quelle parole. Fissò l’uomo davanti a lui intento a bere l’ennesimo sorso di vino.

«Io» iniziò col dire ma venne subito fermato dal proprio partner,

«Tu devi restare qui. Parigi è ancora una città sicura»

«Come puoi andare in guerra e lasciarmi qui?»

«Da quando ho bisogno del tuo permesso per fare qualcosa? È una missione, Paul non fare il bambino. Siamo uomini dell’intelligence, eseguiamo gli ordini che ci vengono dati che ci piaccia o meno»

«Come quando hai rinunciato al tuo nome o a Charles?» era un colpo basso ma le parole di Arthur lo avevano ferito. Quello era il solo modo che conosceva per vendicarsi.

«Portami con te. Sono una tua responsabilità»

«Hai un incarico da svolgere» gli fece notare, allungando un braccio per sistemargli meglio una ciocca ribelle di capelli intorno all’orecchio.

Verlaine si scostò da quel tocco, infastidito. Era inutile, Arthur non poteva comprenderlo. Nessuno avrebbe mai potuto. Era solo al mondo. Un dubbio gli attraversò la mente.

«Hai incontrato Hugo vero? Prima di recarti qui»

«Non vedo come questa informazione possa cambiare le cose»

«Vuole separarci»

«Paul, sai che non amo ripetermi. Smettila di comportarti come un moccioso viziato. Ci sono troppe cose in gioco. Siamo in guerra»

«Non partire»

«Sai cosa mi stai chiedendo? Non posso disobbedire agli ordini di un superiore soprattutto a quelli di Vic» Paul arricciò il naso di fronte a quel soprannome. Una parte di lui aveva sempre odiato il leader dei Poètes, soprattutto per il tono confidenziale con cui si rivolgeva a Rimbaud o per come lo trattava.

«Non fare quella faccia» lo ammonì intuendone i pensieri.

«Sai cosa ne penso di Hugo»

«Victor mi ha cresciuto, mi ha insegnato tutto quello che so. Non dimenticare che è stato grazie a lui se ti hanno affidato a me»

«Per questo allora dovrei ringraziarlo ed eseguire i suoi ordini senza protestare?» Rimbaud prese un lungo respiro. Delle volte Paul gli ricordava se stesso, o meglio, la persona che era stata prima della morte di Charles.

«Non possiamo inimicarcelo» provò a spiegare con calma, come se avesse di fronte a sé un bambino capriccioso 

«Anche tu credi che la Germania sia una pessima idea»

«Ciò che penso io è irrilevante. Siamo spie, eseguiamo gli ordini»

«Cosa è successo a Charles?» Arthur si bloccò all’improvviso, passandosi una mano sul volto. 

Aveva sperato di rimandare il più possibile quel discorso. Paul non aveva niente a che fare con Baudelaire. Erano stagioni diverse della sua vita che sarebbero dovute rimanere separate.

«Non sono…»

«Non dire che non sono affari miei. L’altro giorno ho origliato per sbaglio una tua conversazione con Hugo»

«E sentiamo, cosa avresti capito Paul?»

«Che una volta hai disobbedito agli ordini per lui. Se ti sei ribellato ai Poètes per questo Charles puoi farlo anche ora» per me. 

Quelle parole lo gelarono sul posto.

Verlaine non gli stava chiedendo di rinunciare alla Germania per puro capriccio, come inizialmente aveva pensato ma vi era una motivazione più profonda. Paul era bravissimo nel dubitare di se stesso e nella propria natura. Nonostante le apparenze l’essere artificiale sapeva essere parecchio insicuro, e questo comportamento si rifletteva anche nelle cose più banali. Rimbaud gli aveva ripetuto fino alla nausea di come fossero simili ma Paul non ci aveva mai veramente creduto. Per fare un esempio, neppure gli sguardi sognanti delle cameriere al Cafè lo avevano convinto della propria avvenenza. Quando Verlaine si intestardiva su qualcosa era difficile da smuovere. A quel pensiero il moro non poté evitare di sorridere, era un tratto caratteriale che condividevano e di cui in parte si sentiva responsabile. 

In quel frangete Paul gli stava implicitamente domandando se lui fosse meno importante di Charles. Di quel passato che nel corso degli anni aveva disperatamente cercato di dimenticare. Baudelaire era morto a causa sua, per un suo errore. Per questo Rimbaud aveva giurato che non si sarebbe più ribellato alle decisioni dei Poètes. Alzò il capo solo per incontrare lo sguardo del compagno. Bastò questo a farlo capitolare definitivamente.

«Hai vinto» sospirò rassegnato.

«Non capisco»

«Non partirò per la Germania» spiegò muovendo elegantemente un polso. Verlaine non credeva alle proprie orecchie.

«Puoi farlo?» Arthur accennò ad un sorriso, 

«Di norma no, ma come tu stesso mi hai appena ricordato, non sarebbe la prima volta che finisco con l’infrangere le regole»

«Cosa è successo a quel Charles?» Paul sapeva che la risposta a quella domanda non gli sarebbe piaciuta ma la curiosità aveva preso il sopravvento,

«Non è una bella storia»

«Devo saperlo» e come sempre Arthur Rimbaud non poté fare a meno di assecondare la richiesta del proprio partner.

Quando terminò con il proprio racconto rimase in attesa. Inaspettatamente il biondo gli afferrò una mano fra le sue,

«Non hai fatto nulla di male. Baudelaire non è morto per causa tua. Sono quelle stupide regole ad essere sbagliate» il moro sorrise,

«Una volta Victor mi disse di averle create perchè nessuno potesse ripetere i suoi stessi errori»

«Che vuoi dire?»

«Ti ho mai parlato di Alexandre Dumas?» Paul scosse il capo,

«Era il migliore amico di Hugo, un agente incredibile. Svolgeva missioni sotto copertura e possedeva un’Abilità eccezionale»

«Perché allora non ne ho mai sentito parlare?»

«Forse perchè è morto più di dieci anni fa»

«E cosa c’entra quest’uomo con le regole di Hugo?» Rimbaud sorrise, c’erano delle volte, come quella, in cui invidiava l’innocenza di Verlaine. Il proprio partner poteva essere una spietata macchina portatrice di morte e distruzione ma sotto certi aspetti rimaneva simile ad un bambino.

«Erano amanti» concluse malinconico.

«Ne sei sicuro?» il moro annuì, studiando l’espressione comparsa sul viso del biondo

«Ne ho ricevuto la conferma solo poco prima della morte di Charles. All’inizio non lo avevo capito, erano molto discreti»

«Hugo quindi ha perso il proprio compagno ed è impazzito iniziando a dare regole assurde?»

«Non scherzare. Non è impazzito. Ha semplicemente compreso come l’amore potesse diventare il punto debole di una spia. Anche i migliori agenti posti di fronte a quel sentimento finiscono col vacillare»

«Io sono un’anima artificiale» le loro mani erano ancora intrecciate. Arthur si limitò a stringere la presa,

«Anche tu puoi provare dei sentimenti, non ne sei immune»

«Come fai ad esserne tanto sicuro?»

«Poco fa mi sei sembrato geloso di Charles» gli fece notare divertito,

«Che assurdità»

«Eri adorabile» si accorse solo dopo averle pronunciate del significato nascosto dietro a quelle parole,

«Adorabile?» ripeté Verlaine confuso, «io sono un mostro, un’arma..» ma prima che potesse terminare la frase Rimbaud si sporse in avanti facendo collidere le loro labbra. Non durò che pochi secondi ma furono sufficienti per lasciare il biondo completamente senza parole. 

«Cosa?» fu tutto ciò che riuscì a dire. Arthur però era già corso ad afferrare il proprio cappotto.

«Vieni» mormorò porgendogli la mano. Più che un invito sembrava quasi un ordine.

La confusione sul viso di Paul durò il tempo di un istante. 

Afferrò la mano del moro e si lasciò condurre lungo le vie della capitale.

 

***

 

Realtà originale

 

Baudelaire aveva deciso di darsi un tempo limite, disattivando la propria Abilità ogni mezz’ora per fare ritorno alla realtà. Era stata una decisione presa con cognizione di causa, data la natura imprevedibile di Verlaine, non voleva correre il rischio di rimanere intrappolato in Wonderland. Inoltre, l’attivazione prolungata dei Fleurs du mal richiedeva un dispendio non indifferente di energie. Baudelaire sapeva di non potersi permettersi troppe distrazioni. Stendhal gli aveva concesso qualche giorno ma visto il coinvolgimento di Hugo dubitava di disporre di tanta fortuna. Ogni minuto era prezioso e non andava sprecato.

«Allora come sta andando?» domandò Carroll porgendogli l’ennesima tazza fumante di quella brodaglia che si ostinava a voler definire tè.

«Non è successo nulla» si affrettò a rispondere. Certo, se si escludeva quel bacio al Café, ma non era un dettaglio di fondamentale importanza.

«Perchè continuare a inseguire un passato che ormai non si può cambiare?» 

Nonostante tutto, Lewis Carroll non poteva negare di essere rimasto affascinato dalla figura di Charles Baudelaire. Se Verlaine lo aveva sorpreso accettando per la seconda volta di cadere sotto l’influsso di Wonderland, il francese lo aveva fatto seguendolo in quella fantasia.

«Perché quel passato ci è stato rubato. I Poètes ci hanno privato della possibilità di essere felici»

«Non mi hai mai chiesto di usare Wonderland su di te» gli fece notare.

«Questo perché so già cosa vedrei. Ho immaginato mille possibilità, scenari, anche se credo che la migliore possa essere una realtà dove io e Paul non ci siamo mai incontrati»

«Ne sei sicuro?» domandò alzando un sopracciglio. Era un errore comune, in tanti erano arrivati alla medesima conclusione, sottrarsi dall’equazione però non era una soluzione. Solo l’ennesimo tentativo di rimandare un qualcosa di inevitabile.

«L’hai detto anche tu. Non possiamo salvarlo, questo mostro sarà pure disposto a vederlo morire in continuazione ma io no. Ho pianto dieci anni su di una tomba vuota. Ho ritrovato Paul solo per perderlo di nuovo. Capisci cosa significa? Non trovi che sia ingiusto?»

«La vita non è mai giusta o equa. Pensa a quanto successo alle mie figlie, o ai numerosi orfani che questo conflitto ci ha lasciato. Ci sono delle volte in cui penso che l’immaginazione sia l’unica arma nella guerra contro la realtà

«Mi dispiace per la tua famiglia» era sincero. Carroll gli rivolse un sorriso grato.

«Ho accettato la loro morte. Dovresti farlo anche tu. Dove credi che ti condurrà questo sentiero?»

«Non mi importa»

«La Torre dell’Orologio si sarà già messa in moto, è solo questione di tempo prima che…»

«Anche Victor Hugo è sulle nostre tracce» ammise ad alta voce. Fu allora che un particolare gli tornò alla mente, una conversazione che aveva origliato tra le due spie in Wonderland,

«Lewis, hai mai sentito parlare di un certo Alexandre Dumas?»

 

***

 

Wonderland

-Parigi-

 

Mancavano solo pochi minuti al tramonto e Rimbaud era finito col trascinare il proprio partner fino all’entrata dell’appartamento che condividevano. Entrambi avevano scelto di rimanere in silenzio per tutta la durata del percorso. Era come se ogni parola pronunciata in quel particolare frangente potesse rovinare quella strana atmosfera che di colpo, si era venuta a creare fra loro.

«Disobbedire a Hugo equivale a tradire l’Organizzazione» esordì Rimbaud dopo essersi chiuso la porta alle proprie spalle. Aveva iniziato il discorso partendo da una logica inoppugnabile e questo tipo di approccio non piacque al biondo.

«Hai forse cambiato idea?» per la prima volta, un velo di incertezza attraversò lo sguardo di Verlaine. Arthur trovò quell’espressione bellissima e umana. Nonostante l’oscurità di quell’ambiente aveva intuito perfettamente quale fosse stato d’animo del proprio partner.

«No» pronunciò quella parola con un sussurro, abbassando il capo, per poi levarsi sciarpa e paraorecchie.

«Allora non capisco, perchè mi hai trascinato fin qui?» la curva delle labbra di Rimbaud si piegò in un sorriso malinconico. 

«Dopo questa notte nulla sarà più come prima» 

«Continuo a non capire»

«Verremo considerati come dei traditori» Verlaine fece un passo in avanti, cogliendolo di sorpresa,

«Hai così tanta paura di contraddire Hugo?» domandò passandogli una mano sul volto. Era la prima volta che il biondo lo accarezzava in quel modo. 

Rimbaud, stupito dalla delicatezza di quel gesto, afferrò quella mano portandosela alle labbra. Lo guardò negli occhi, prima di iniziare a depositarvi dei piccoli baci partendo dal palmo fino a raggiungere il polso. Con la coda dell’occhio, studiò ogni cambiamento d’espressione comparso sul viso dell’altro. Verlaine non sembrava turbato dal suo comportamento, forse solo sorpreso.

«Hai ragione. Temo la reazione di Victor e dei Poètes ma perché so di cosa possono essere capaci. Ho già perso qualcuno di caro. Non posso perdere anche te Paul» non potrei sopportarlo. Non di nuovo.

«Io sono solo un essere artificiale»

«Dannazione. Non sei solo questo. Sei il mio partner» mormorò prima di baciarlo.

Questa volta fu diversa dalla precedente, era un bacio profondo che ebbe il potere di lasciare entrambe le spie senza fiato.

«Vieni» mormorò Rimbaud afferrando una mano del biondo guidandolo fino al letto. 

Verlaine non disse nulla, non oppose resistenza, confuso dalla miriade di emozioni che stava provando. Seguì Arthur assecondando ogni suo movimento. Si spogliò e aiutò il proprio compagno a fare lo stesso. 

Sapeva cosa stava succedendo, cosa stavano per fare, per questo non riusciva a ribellarsi. Rimbaud era il solo al quale avrebbe mai concesso una cosa simile, l’unico che poteva permettersi di giocare in quel modo con il suo corpo. Odiò se stesso per quei pensieri che non sarebbe mai stato in grado di tradurre in parole. 

«Paul» ogni tanto Arthur si interrompeva e pronunciava il suo nome con voce tremante, come se avesse bisogno di ricevere una qualche conferma per proseguire. Verlaine rispondeva semplicemente con un bacio, sorpreso da tanta premura. 

Il biondo credeva che se avesse parlato sarebbero finiti con il litigare ed era l’ultima cosa che in quel momento desiderava. Per Rimbaud lui era importante, questo lo aveva sempre saputo in un angolo remoto della propria mente. Anche se odiava vederlo preoccuparsi per lui. Non serviva che Rimbaud lo trattasse con i guanti o come un qualcosa di prezioso. Non lo meritava.

Verlaine sapeva di non essere degno dell’amore di Arthur. 

Aveva chiesto al compagno di tradire il proprio Paese per un capriccio, condannandolo ad una vita da fuggitivo. Tuttavia non riusciva a sentirsi in colpa mentre veniva abbracciato da quelle braccia, stretto contro quel corpo caldo. Allungò gli arti per stringerlo a sua volta non riuscendo a bloccare un gemito, che finì con l’abbandonare le sue labbra.

Quel suono stupì entrambi.

«Non trattenerti» sussurrò Rimbaud contro il suo orecchio prima di tornare a baciarlo con passione, scostandogli dolcemente i capelli.

Ad un certo punto, Verlaine smise di pensare. Chiuse gli occhi abbandonandosi a quelle nuove e sconosciute sensazioni che avevano preso possesso del suo corpo.

Lui era un essere artificiale, un ammasso di codici che aveva solo assunto un aspetto umano. Il modo in cui Arthur lo guardava o come lo stava facendo sentire in quel momento, andavano contro questa logica. Perché il proprio partner si comportava in quel modo? Perché si prodigava tanto per lui?

Verlaine sapeva che non sarebbe mai riuscito a trovare una risposta a quegli interrogativi, anzi era meglio non possederla. Se avesse accettato di provare qualcosa di diverso dall’odio verso il proprio partner, avrebbe dovuto rivedere tutte le proprie convinzioni. Paul non era ancora pronto ad abbracciare la propria umanità. Continuare a definirsi un'arma priva di sentimenti era solo la via più facile, il solo meccanismo di difesa che avesse trovato.

Incrociò brevemente lo sguardo di Arthur. Odiò entrambi chiedendosi per quanto ancora sarebbe riuscito a fingere in quel modo. 

Un bacio e ogni altro pensiero venne sostituito dal piacere.

Amami, perché, senza te, niente posso, niente sono.

 

***

 

Arthur Rimbaud non era riuscito a trattenersi. Quando il biondo attaccava con i propri discorsi sull’essere un’anima artificiale, iniziava a perdere il controllo. In quei frangenti odiava Paul perché non riusciva a comprendere una verità tanto semplice quanto banale. 

Nonostante le circostanze della sua nascita, lui era umano. Avrebbe dato qualsiasi cosa perché Verlaine riuscisse a vedersi in quel modo. A guardarsi attraverso i suoi occhi. 

Il corpo di Arthur si era mosso da solo non riuscendo a resistere all’impulso di baciarlo. Era stato un contatto veloce, effimero, tanto da lasciare entrambi confusi.

Rimbaud conosceva i sentimenti che ormai lo legavano a Verlaine. Era inutile continuare a nasconderli mentendo a se stesso. Il fantasma di Baudelaire aveva ragione. Stava per commettere una follia, ribellandosi ad Hugo e ai Poètes ma per Paul sarebbe stato capace di ogni cosa. Era quella consapevolezza a spaventarlo.

Non aveva mai combattuto per Charles. Quella volta si era arreso di fronte alle prime difficoltà. Rassegnandosi all’idea di non poter cambiare le cose. 

Paul però era diverso. Avrebbe lottato per restare al suo fianco. Per questo non poteva abbandonarlo. Verlaine era una sua responsabilità e Rimbaud sapeva bene di essere il solo in grado di controllare quella belva nascosta dentro di lui. 

Si affrettò a recuperare le proprie cose. Dovevano andarsene da quel Cafè. Gli bastò incrociare lo sguardo confuso del compagno per capitolare definitivamente,

«Vieni» sussurrò tendendogli la mano. 

Ogni fibra del suo corpo gli suggeriva di come quello fosse un errore. Verlaine non poteva ricambiare i suoi sentimenti.

Eppure non mi sembra che il bacio gli sia dispiaciuto

La voce di Baudelaire nella sua mente si divertì ancora a tormentarlo. 

Raggiunsero il loro rifugio in pochi minuti. Arthur avrebbe voluto dire così tante cose ma esordì con un banale:

«Disobbedire a Hugo equivale a tradire l’Organizzazione» era stato un pessimo inizio, se ne rendeva conto,

«Hai forse cambiato idea?» ovviamente il biondo aveva frainteso le sue parole. Nonostante l’incertezza che leggeva in quelle iridi di ghiaccio Arthur non poté fare a meno di trovarlo bellissimo.

«No» si affrettò ad aggiungere chinando il capo. Perché doveva essere tanto difficile? Verlaine però non gli lasciò il tempo di pensare,

«..perché mi hai trascinato fin qui?» era una domanda legittima, anche se si era aspettato un banale: perché mi hai baciato?

Sorrise.

«Dopo questa notte nulla sarà più come prima» spero che tu te ne renda conto Paul.

Rimbaud era convinto che non ci fosse più nulla al mondo che ormai potesse sorprenderlo. Quando Verlaine allungò un braccio per accarezzargli il volto questa certezza crollò come un castello di carte mosso dal vento. 

«Hai così tanta paura di contraddire Hugo?»

No, la sua paura più grande era quella di perderlo come aveva fatto con Charles.

Quasi senza accorgersene afferrò quella mano portandosela alle labbra. Aveva bisogno di dimostrare a Paul quanto fossero serie le proprie intenzioni. Non era facile esprimere a parole quelle emozioni, non per una spia abituata a reprimere i propri sentimenti.

«...Non posso perdere anche te Paul» in qualche modo era riuscito a dirglielo.

«Io sono solo un essere artificiale» Rimbaud alzò gli occhi al cielo. 

Erano entrambi due casi disperati.

«Non sei solo questo. Sei il mio partner» il bacio in cui lo coinvolse fu decisamente più profondo del precedente e carico di tutti quei sentimenti che non sarebbe mai riuscito a tradurre in parole. 

«Vieni» disse prima di condurlo verso il letto. 

Non era certo che Paul capisse cosa gli stava chiedendo. Rimbaud temeva di compiere un passo falso e rovinare tutto, per questo studiava ogni minimo mutamento d’espressione sul viso del proprio compagno. Una volta appurato che i baci andassero bene, il moro tentò altro, iniziando a sbottonargli la camicia. Andò meglio del previsto, Verlaine rispondeva ad ogni tocco cercando di replicarlo e assecondarlo.

Non gli sembrava vero. Era come trovarsi in un sogno, un’illusione. Si liberò della camicia e il biondo si affrettò a fare altrettanto con i propri pantaloni. Per la prima volta Rimbaud si sentì accaldato. Il freddo che da sempre accompagnava ogni suo passo sembrava svanito, sostituito da tutto quel calore che il solo contatto con la pelle nivea dell’altro gli provocava. Fece stendere Verlaine sotto di sé. Era bellissimo. I biondi capelli spettinati creavano un contrasto perfetto con il colore delle lenzuola. Paul era un’opera d’arte e in quel momento era come creta tra le sue mani. 

Rimbaud non avrebbe mai pensato ad un capovolgimento simile. Si era imposto di non amare nessuno così da non ricadere negli stessi errori del passato. In quel momento però Verlaine gli regalò l’ennesima occhiata facendo in modo che ogni suo dubbio si dissolvesse come neve al sole. In quell'istante esisteva solo Paul disteso tra le sue braccia. Il proprio partner non gli era mai parso tanto vulnerabile. Gioì al pensiero che nessun altro avrebbe mai avuto un simile privilegio. Gli baciò la fronte in uno slancio di tenerezza.

«Paul» domandò cercando qualche conferma su quel viso perfetto. Non era certo che oltrepassare quel confine fra loro fosse saggio. Stava succedendo tutto troppo velocemente. Verlaine però non sembrava condividere le sue preoccupazioni. Si avvicinò maggiormente a lui in un tacito invito a continuare. 

Rimbaud non si fece pregare iniziando a baciargli il collo e l’addome.

Quando un gemito incontrollato abbandonò le labbra del biondo si bloccò. 

«Non trattenerti» gli sussurrò all’orecchio, aggiustandogli una ciocca di capelli. Paul era bellissimo. Non riusciva a pensare ad altro. Lo baciò di nuovo godendosi quel calore che solo il proprio partner sapeva donargli. 

«Arthur» 

Quella notte Arthur Rimbaud riscoprì un sentimento al quale credeva di aver rinunciato.

Voglio sperimentare ogni formula d’amore, di sofferenza, di follia.

 

***

 

Realtà originale

 

Baudelaire aveva preferito attendere qualche minuto prima di riattivare la propria Abilità. Una parte di lui poteva benissimo immaginare cosa sarebbe successo di lì a poco nella dimensione onirica creata da Carroll. Semplicemente, non voleva assistere ad altre manifestazioni d’affetto tra il suo Paul e quel mostro senz’anima.

«Rilassati» lo ammonì l’inglese avvicinandosi, notando il suo stato d’animo.

«Tu riesci a vedere ciò che sta succedendo?» Carroll annuì prima di aggiungere,

«Come te non sono che un mero spettatore, non posso interferire in alcun modo»

«Che stanno facendo?»

«Se ci tieni tanto perché non osservi tu stesso?» propose facendo un cenno in direzione di Verlaine ancora profondamente addormentato.

Perchè non potrei sopportarlo

«Devo recuperare le forze» mentì dandogli le spalle, facendo per andarsene

«Prima mi hai chiesto di Dumas» bastarono quelle poche parole per catturare l’attenzione del francese

«Esatto. Cosa puoi dirmi su di lui?» domandò bloccandosi sulla soglia.

Baudelaire non aveva mai incontrato Alexandre Dumas. In fondo quell’uomo era morto in una missione di spionaggio diversi anni prima che lui si unisse ai Poètes. Le uniche informazioni che possedeva erano frammenti di conversazioni che aveva origliato tra Stendhal e Hugo. Insufficienti comunque per farsi un’idea dell’uomo che era stato. 

Dalle parole di Arthur, Baudelaire aveva compreso di come questo Alexandre fosse l’amante di Hugo o comunque una persona importante per lui. La curva delle sue labbra si piegò in un sorriso. Forse poteva utilizzare quell’informazione per il proprio tornaconto.

«Solo che è un amico di Dame Agatha Christie, esattamente come Victor Hugo» fu la pacata risposta dell’inglese

«Perchè hai usato il presente?» forse era semplicemente un errore di traduzione dettato dalla stanchezza, eppure gli era parso che Carroll avesse usato proprio quel tempo verbale,

«Come scusa?»

«Alexandre Dumas è morto più di dieci anni fa» di fronte a quelle parole l’inglese sorrise,

«Beh sono rimasto in carcere a lungo» Baudelaire storse il naso

«La Torre dell’Orologio possiede un elenco di tutti i dotati di Abilità presenti sul continente. Ogni suo membro conosce quella lista a memoria. Non può esserti sfuggito un simile dettaglio»

«Mah! Il più grande segreto della vita è la morte, finché non arriva sei vivo!»

«Non ricominciare con i tuoi soliti deliri senza senso. Non sono dell’umore»

«Se dici che è morto da anni sarà sicuramente così. Non sono mai stato un membro di spicco e come ben sai ci sono diversi livelli di segretezza all’interno delle nostre Organizzazioni» Charles non sembrò del tutto convinto, ma finì con l’accettare quella risposta.

«Hugo non sarà il peggiore dei nostri problemi» continuò l’inglese 

«Che vorresti dire?»

«Ci stavo riflettendo poco fa. Il nostro amico Re degli Assassini è un criminale internazionale» Baudelaire ci mise poco a comprendere,

«Pensi che abbiano allertato l’Europole?»

«Sarebbe strano il contrario»

L’Europole era l’ennesima Organizzazione creata al termine della Grande Guerra allo scopo di catturare i criminali internazionali. La sua forza risiedeva nel suo status di organismo al di sopra dei confini e degli interessi nazionali. Verlaine si era macchiato di numerosi crimini in diversi paesi, questo lo rendeva un caso di loro competenza.

«Bene ci siamo inimicati qualcun altro?» concluse stancamente il Poète massaggiandosi le tempie.

«Sapevi a cosa andavi incontro quando lo hai coinvolto»

Baudelaire sorrise. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per vendicarsi di quel mostro. Un Organizzazione in più o in meno non faceva differenza, una volta messe le mani sulla pagina del Libro avrebbe riscritto la realtà a proprio piacimento. Lanciò una rapida occhiata al biondo,

«Credo di essermi riposato abbastanza. Ci rivediamo tra una mezz’ora»

Carroll non obiettò. 

 

***

 

Wonderland

 

Verlaine si trovava stretto tra le braccia di Rimbaud distratto solo dai rumori provocati dai battiti del suo cuore. Si lasciò cullare da quel suono che gli donava un inaspettato senso di pace. 

«Domani lasceremo Parigi» esordì il moro spezzando quella bolla di serenità, guadagnandosi un’occhiata sorpresa.

«Quanto tempo abbiamo?» Arthur finse di pensarci, mentre accarezzava distrattamente il fianco del compagno.

«Il mio treno per Berlino partirà alle 7.55 dalla Gare du Nord» Verlaine annuì,

«Quindi cinque ore» calcolò osservando la sveglia sul proprio comodino e facendo per alzarsi. Rimbaud lo trattenne.

«Non avrai cambiato idea?» di fronte a quella domanda il moro si trovò a sorridere,

«Voglio solo restare ancora per un pò così» si lamentò afferrandolo per i fianchi. Verlaine sbuffò ma non fece nulla per allontanarlo. In fondo anche a lui non dispiaceva quel contatto.

«Dobbiamo allontanarci dalla capitale» si limitò a fargli notare,

«Non sarà una mezz’ora a fare la differenza»

«Mezz’ora?»

«Posso baciarti ancora?»

«L’altra volta non hai chiesto il mio permesso» Arthur sorrise,

«Ho agito d’impulso» 

«Una brava spia valuta sempre i pro e i contro prima di prendere una decisione»

«Non prendermi in giro»

«Non lo sto facendo, ti sto solo ricordando i tuoi stessi insegnamenti»

«Sono regole di Hugo. Quelle direttive hanno condizionato fin troppo la mia vita»

«Credi che si arrabbierà molto?» Arthur non voleva pensarci. Incorrere nelle ire di Victor poteva rivelarsi fatale. Lui e Paul avevano scelto di percorrere un sentiero pericoloso. Ribellarsi a un ordine del leader dei Poètes non era cosa da poco. Aveva già assistito alla furia di Hugo e sapeva a cosa stavano andando incontro.

Fu in quel momento che Verlaine lo baciò, cogliendolo di sorpresa e lasciandolo confuso. 

«Eri tu che volevi baciarmi» furono le sole parole che gli rivolse.

Arthur scoppiò a ridere. Forse si stava preoccupando troppo. Afferrò il mento di Paul facendo collidere nuovamente le loro labbra.

«Hai ragione. Concedimi ancora mezz’ora poi lasceremo Parigi, e la Francia»

«E dove vorresti andare?»

«Nell’unico posto in cui Victor non potrà raggiungerci» il biondo gli regalò un sorriso complice prima di tornare a baciarlo.

«Non sono mai stato a Londra» ammise,

«C’è sempre una prima volta»





 

*Ho dimenticato ogni mio dovere umano per seguirlo. Che vita. La vera vita è assente. Noi non siamo al mondo. Vado dove va lui è inevitabile. Spesso si arrabbia contro di me, contro di me povera anima. Quel demonio – è un demonio sapete, non è un uomo.

 

Note autrice: Bonjour, so che avevo detto che non avrei aggiornato fin dopo ferragosto ma sono stata graziata con un paio di giornate di riposo e ovviamente ne ho approfittato per scrivere XD Visto che non so davvero fare una previsione di come andranno le prossime settimane ho pensato di regalarvi almeno questo capitolo 10 ovvero l’inizio della seconda Wonderland XD Anticipo che questo what if sarà decisamente più lungo e complesso del precedente perché a me le cose semplici non sono mai piaciute XD Spero che la storia vi continui ad entusiasmare e come sempre ringrazio per i commenti e le recensioni che mi fanno letteralmente sciogliere!!! <3

 

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Capitolo 11
*** XI Stagione - Éternité ***


XI Stagione - Éternité



 


 

 

«Elle est retrouvée.
Quoi? – L’Éternité.
C’est la mer allée
Avec le soleil. »*

Une Saison en Enfer – poesia Éternité




 

 

Wonderland

-Londra-


In questo mondo vi erano molte cose che andavano contro ogni logica, raziocinio o previsione. La creatura che stava urlando nella stanza accanto ne era la prova vivente. Arthur Rimbaud non avrebbe mai pensato che sarebbe andata a finire in quel modo, nessuno avrebbe potuto. La sua unica colpa era quella di essersi innamorato. Di nuovo. Per questo sentimento aveva lasciato i Poètes e la Francia fuggendo in Inghilterra poco dopo lo scoppio di quel conflitto che avrebbe cambiato per sempre le vite di tutti loro. Un altro grido squarciò l’aria, seguito da colorite imprecazioni in varie lingue. Il moro strinse i pugni fino ad arrivare a farsi sbiancare le nocche, soffocando una bestemmia tra le labbra.

Nessuno conosceva la vera natura del soggetto chiamato Black No. 12, solo il suo creatore, che l’essere artificiale aveva massacrato con le proprie mani quasi quattro anni prima. Arthur si era occupato di quella creatura, era la sua missione dopotutto. Gli aveva dato un nome, il suo nome. Lo aveva addestrato, tentando disperatamente di renderlo umano. Rimbaud non aveva previsto di innamorarsi di quel mostro dalle fattezze angeliche né tantomeno di essere ricambiato. Era stato il Poète ad insegnargli cosa fosse l’amore, o almeno così gli piaceva pensarlo.

L’ennesimo grido interruppe il flusso dei suoi pensieri. Il moro fece per alzarsi dalla propria sedia quando dall’altro capo della stanza intravide Alexandre Dumas scuotere il capo;

«Resta qui» gli intimò con fermezza

«Paul ha bisogno di me» si sentì in dovere di replicare,

«Considerando che si trova in questa situazione per causa tua»

«Lex ti prego. Devo andare da lui»

«Lo sto facendo per il bene di tutti noi ma soprattutto per il suo. Vederti potrebbe fargli perdere quel poco di raziocinio che gli è rimasto. Preferirei non rischiare la vita e nemmeno svelare la nostra posizione al nemico»

Rimbaud annuì sconfitto. Ogni parola pronunciata da quell’uomo era una stilettata al petto. Alexandre Dumas però aveva ragione. Come sempre. 

Incontrarlo a Londra era stata una piacevole quanto inaspettata sorpresa. Una parte di Arthur aveva sempre sospettato che l’ex spia fosse sopravvissuta all’incidente che lo vedeva coinvolto. Dumas non era cambiato, era esattamente come il moro lo ricordava. 

Un uomo che come lui, nascondeva più di un segreto. 


***


Inghilterra 

Londra - sette mesi prima


«Victor sa che sei vivo?» era stata la prima domanda che Rimbaud aveva posto all’ex Trascendentale, mentre sorseggiavano un té nei salotti dell’intelligence inglese.

Alexandre Dumas era davvero l’ultima persona che si sarebbe aspettato di incontrare nella capitale britannica.

L’uomo aveva preferito abbassare lo sguardo prendendosi del tempo prima di formulare una risposta,

«No e prima che tu me lo chieda, non ho intenzione di dirglielo»

«Ma perchè?» 

«Non vuole metterlo in pericolo» Verlaine si era intromesso in quella conversazione, facendo voltare entrambe le spie verso di lui.

«Paul» lo ammonì ma Dumas abbozzò un sorriso accompagnato da un elegante cenno con la mano,

«Non preoccuparti, il tuo amico ha ragione Arthur. Victor ha la sua guerra da combattere e vincere»

«Io però continuo a non capire» l’uomo non smise un secondo di sorridere, giocando distrattamente con il cucchiaio della tazzina che teneva tra le mani

«Penso invece che tu abbia compreso ormai da tempo quale sentimento mi leghi a quel testone arrogante» a quelle parole Rimbaud si trovò ad arrossire per poi voltarsi inconsciamente verso Verlaine,

«Posso sapere perché sei fuggito, Arthur?»

«Per me» ancora una volta il biondo era intervenuto, rubandogli le parole di bocca. Dumas però non ne parve turbato, come non sembrò sorpreso dalla risposta ricevuta.

«Immaginavo. Sei davvero simile a Victor. Ricordi la regola: una spia non deve avere legami o provare sentimenti? Penso l’abbia creata a causa mia» il Poète annuì

«Perché te ne sei andato?»

«Sarei stato la sua unica debolezza. Già una volta la mia esistenza lo ha messo in pericolo e fatto vacillare le sue convinzioni. Ora, con una guerra da combattere io sarei solo un ostacolo»

«Ma se lo ami» Dumas abbassò il capo

«A volte non basta. L’amore è quel sentimento che si nutre di agi e si ingigantisce attraverso la corruzione. Dovreste saperlo anche voi» concluse fissando entrambi.

«Victor ha la sua guerra. Sono anni che si prepara a questo scontro e non intendo intralciarlo in alcun modo» non era solo questo, ma Rimbaud non meritava di venire coinvolto in quella storia.

«Sei fuggito in Inghilterra e hai chiesto aiuto alla Torre dell’Orologio» gli fece notare Verlaine prendendo un sorso di tè e storcendo il naso. Non si sarebbe mai abituato al sapore di quella bevanda, preferiva decisamente un buon bicchiere di vino.

«Anche voi avete fatto lo stesso» gli fece notare l’ex Poète.

«Dame Agatha Christie è una mia vecchia conoscenza» spiegò Arthur. 

Semplicemente non aveva molti alleati sui quali contare e la donna a capo dei servizi segreti inglesi gli era parsa la soluzione migliore. La decisione di lasciare il Paese era maturata all’improvviso, non c’era stato tempo di formulare un vero e proprio piano.

«Presumo che i Poètes ti abbiano chiesto di fare qualcosa che non ritenevi giusto vero? Hai sempre avuto un animo ribelle sin da bambino, forse la colpa è nostra per averti viziato troppo» ammise Dumas passandosi una mano sul volto. Ripensare al passato fu inevitabile. Arthur era cresciuto ma una parte di lui continuava a vederlo come il ragazzino che lui e Victor avevano allevato. 

«Sarei dovuto partire per il fronte tedesco» iniziò a spiegare Rimbaud distogliendolo dai propri pensieri.

«Non avrei potuto seguirlo» aggiunse il biondo. Fu allora che Alexandre Dumas incrociò per una frazione di secondo lo sguardo di Verlaine. Ancora una volta, l’essere artificiale era intervenuto nella conversazione. Non poté impedirsi di sorridere entrambi con fare paterno.

«Ho sentito così tanto parlare di te, Black. Ti hanno definito un’arma, un mostro portatore di morte e distruzione, invece ti trovo più simile ad un essere umano di quanto possa mai esserlo io»

«Come sai..?»

«Suvvia Arthur, ero il numero due dell’intelligence francese. Anche la Torre dell’Orologio possiede molte informazioni sul tuo Paul. Sanno ogni cosa. Dal giorno in cui lo hai trovato ad ogni missione che avete completato insieme. Non mi aspettavo che voi due aveste una relazione ma…»

«Relazione?» per la prima volta il biondo assunse un’espressione sorpresa tanto dal voltarsi per cercare nello sguardo di Arthur una qualche risposta o chiarimento,

«Non siete forse fuggiti per quello?» domandò Dumas grattandosi la testa confuso.

«È complicato» concesse Rimbaud prima di aggiungere «non potevo lasciare Paul solo a Parigi»

La notte di passione che avevano trascorso dopo quella decisione non bastava a definire il loro rapporto. Arthur avrebbe fatto qualsiasi cosa per il proprio partner, anche finire all’inferno. Paul però era schiavo delle proprie convinzioni, continuava a definire se stesso un’arma senza accorgersi di quanto nel frattempo fosse diventato simile ad un essere umano. Rimbaud aveva tentato di rassicurarlo, amandolo come non aveva mai fatto con nessuno. Nemmeno con Charles aveva provato un sentimento simile. Ricordava ancora il volto di Paul stravolto dal piacere, mentre la luce della luna ne illuminava i tratti perfetti. I suoi occhi di ghiaccio contornati di lacrime. Era l’essere più bello che avesse mai visto, forte ma allo stesso tempo fragile. Come un cristallo tra le sue mani. Per Arthur quell’essere non era mai stato un mostro. Avrebbe fatto il possibile per proteggerlo, non avrebbe commesso due volte lo stesso errore.

La mattina seguente erano partiti per Londra. Verlaine non aveva più menzionato quella notte. Non che ne avessero avuto il tempo. C'erano stati ancora molti baci e qualche tocco fugace ma poco altro. Rimbaud non avrebbe forzato il partner in alcun modo, anzi viveva nel costante timore che per il biondo, quella notte fosse stata solo un errore. Fu il suono della voce di Dumas a riportarlo alla realtà,

«Pardon, pensavo che andaste a letto insieme»

«Ma ci siamo andati» la risposta schietta e sincera di Paul fece andare il tè di traverso a entrambi.

«Come dicevo è complicato» si intromise Arthur cercando di salvare il salvabile.

«Siete uno spasso. Non preoccupatevi qui sarete al sicuro. Victor sicuramente sospetterà qualcosa ma la guerra lo terrà occupato per un pò. Prendetevi tutto il tempo che vi occorre»

Fecero per andarsene quando Dumas si avvicinò a Rimbaud, sussurrandogli all’orecchio,

«Sei esattamente come lui, faresti di tutto per salvare chi ami ma fa attenzione Arthur, hai scelto un sentiero complicato» Rimbaud gli sorrise,

«Ho già perso qualcuno di importante. Non commetterò due volte lo stesso errore»

Sarebbe stato il destino a decidere per loro.


***


Due mesi dopo



 

«È impossibile. Sono un mostro, un essere artificiale. Non posseggo un’anima» Paul si prese il volto con entrambe le mani correndo nervosamente avanti e indietro per la stanza che condivideva con il proprio partner. Dumas aveva messo a loro disposizione la propria villa, situata nella periferia londinese. Era stato un rifugio perfetto, almeno fino a quel giorno.

Rimbaud non versava in condizioni migliori. Se ne stava immobile, seduto sul proprio letto intento ad osservare quelle due linee che mostravano una verità per quanto assurda, inequivocabile. 

«Paul» fu tutto ciò che disse dopo diversi minuti, alzando il capo per incontrare lo sguardo spaventato del compagno. Non lo aveva mai visto in quello stato.

«Andrà tutto bene» tentò di rassicurarlo. Peccato che non ci credesse manco lui. In quel momento però la sua priorità era Verlaine. Doveva calmarlo, prima che arrivasse a commettere una qualche pazzia, come attivare la propria Abilità.

«La fai facile. Tu non hai un parassita che cresce all’interno del tuo corpo. Lo sento muoversi è disgustoso. Sono disgustoso. Un mostro, un’aberrazione» A quelle parole il cuore di Arthur perse un battito.

«Muoversi, di già?» non era un esperto ma forse era troppo presto per avvertire un qualche movimento fetale. Verlaine corse verso di lui, prendendogli una mano e portandosela al ventre. Rimbaud si sorprese di trovarlo già così arrotondato, ma d’altronde erano passati mesi dall’ultima volta che si erano sfiorati in quel modo o che avesse visto il proprio partner senza camicia.

«Da quando ho fatto quel test non ha mai smesso» concluse. Arthur non parlò per svariati minuti. Lo sentiva. C’era davvero qualcosa all’interno del ventre del biondo. Una vita che aveva contribuito a creare. 

«Lo abbiamo concepito prima di partire per Londra. Sono passati quattro no cinque mesi da quella notte» le parole pronunciate da Paul furono sufficienti per riportarlo alla realtà.

«Mi sembra tutto così assurdo»

«A te sembra assurdo»

«Scusami, Paul io non volevo»

«Ok come ce ne sbarazziamo?» quella domanda lo colse del tutto impreparato.

«Penso che ormai sia tardi per valutare quell’opzione» Verlaine imprecò prima di tornare a sedersi sul proprio letto, accanto al compagno.

«Quindi?»

«Devo parlarne subito con Dumas. Se la Torre dell’Orologio o peggio se i Poètes venissero a saperlo…»

«Cosa che mi hai messo incinto?» domandò con astio prima di aggiungere,

«Quanto ti fidi di quell'uomo?» 

«Abbastanza da affidargli le nostre vite. Non ci consegnerebbe mai ai Poètes, nasconderci è anche nel suo interesse»

«Era l’amante di Victor Hugo»

«Un amante ferito può diventare il migliore degli alleati»

«Dovrebbe essere l’ennesima lezione? Perchè non sono dell’umore» Rimbaud a malincuore sorrise notando come il compagno si fosse inconsciamente passato la mano sul ventre.

«Lex mi ha cresciuto. Non ci tradirà. Per qualche ragione vuole che Victor continui a crederlo morto»

«Non mi interessano i loro problemi»

«Non potremo nascondere la tua gravidanza ancora lungo» Verlaine annuì sconfitto dall’evidenza,

«Certo che il Fauno aveva pensato proprio a tutto. Non solo ha creato un mostro artificiale in grado di possedere un’Abilità ma gli ha anche fornito la capacità di riprodursi. Sono disgustoso»

«Paul»

«Me ne voglio liberare. Al più presto. Devo solo trovare il modo»

«Stai scherzando spero? È un bambino. Nostro figlio» Verlaine gli rivolse uno sguardo omicida. Rimbaud quasi stentò a riconoscerlo. Per un istante gli sembrò di essere tornato in quel laboratorio di ricerca, quando per la prima volta aveva potuto osservare la distruzione provocata dal proprio partner.

«Arthur, non sappiamo se questo essere sia veramente un bambino, potrebbe anche rivelarsi un mostro come il sottoscritto» il moro lo abbracciò. Non lo faceva da quella notte a Parigi, quando avevano inconsciamente concepito quell’esserino che stava stravolgendo le loro vite. 

«Anche se fosse lo amerei comunque esattamente come amo te» non era la prima volta che glielo confessava ma Verlaine sembrò ignorare quelle parole. Come sempre. 

«Io non sono umano. Sono raccapricciante» Arthur sorrise prima di azzardarsi a posare una mano sul ventre del biondo,

«Ai miei occhi resti sempre bellissimo e mi stai dando la più grande delle gioie» Paul cercò il suo sguardo

«Non credevo che volessi dei figli» ammise stupito

«Una spia non può avere legami, provare sentimenti. Sono cresciuto con questa convinzione. Non avrei mai pensato di averne. Ci sono stati solo due uomini nella mia vita e lo sai»

«Credi che in qualche appunto del Fauno possa esserci qualcosa su questa mia capacità?» tornarono di colpo seri.

«Non permetterò a nessuno di farti del male» fu Rimbaud il primo a parlare andando ad intrecciare le loro dita. Aveva letto ogni rapporto riguardante Black e non aveva trovato nessuna menzione al fatto che l’essere artificiale potesse riprodursi o avrebbe preso le dovute precauzioni.

«Non potremo nascondere la cosa per molto» ammise il biondo fissandosi il ventre con disagio e disappunto.

«Troveremo un modo» Verlaine prese un lungo respiro, prima di abbandonare il capo contro la spalla del compagno.

«Penso di non aver scelta» concluse osservando il cielo grigio fuori dalla finestra. Rimbaud lo baciò. Solo allora il piccolo parassita all’interno del suo corpo sembrò calmarsi.

«Grazie»


***


Dopo lo stupore iniziale Alexandre Dumas si rivelò un alleato prezioso. La gravidanza di Verlaine era trascorsa in un battito di ciglia di pari passo alla guerra che dilaniava il continente europeo. A Rimbaud sembrava di star combattendo una corsa contro il tempo. Da un lato la preoccupazione per la salute del proprio compagno e del bambino, che avevano scoperto essere un maschio, dall’altra l’escalation militare. 

Londra non era più un luogo sicuro ma fuggire era fuori discussione.

Era una di quelle rare, splendide giornate d’inverno nelle quali anche l’Inghilterra si ricordava che c’era il sole o così era come l’aveva definita Dumas. Ai primi di marzo iniziò quello che sarebbe stato in seguito definito come l’assedio di Londra. La capitale inglese si così trovò isolata dal resto della nazione. Nessuno vi poteva entrare o uscire. Era l’ennesima mossa preparata a tavolino sullo scacchiere internazionale. Il conflitto intanto si era esteso fino al Giappone, segno che ormai non era più una questione europea quanto globale. Era la prima guerra in cui individui dotati di Abilità Speciali scendevano in campo, ciò non faceva altro che contribuire a renderne l’esito incerto. 

Il primo pensiero di Rimbaud sarebbe stato quello di fuggire in campagna. Un’utopia. Verlaine non poteva viaggiare per lunghe distanze, in più la data del parto si faceva sempre più vicina.

Si sentiva impotente. Aveva messo la propria famiglia in pericolo. Da rifugio sicuro Londra si era ben presto trasformata in una trappola dorata.

«Smettila di arrovellarti» Dumas come sempre era intervenuto, pronto a fornire il proprio supporto.

«So che poco fa ho detto che questa situazione è colpa tua. In parte è vero, ma non posso biasimarti. Non potevi sapere della sua capacità»

«Pensi che andrà bene? Sono tre ore che sta urlando»

Quello fu l’ennesimo evento inaspettato. Mancava ancora un mese alla data prevista per il parto ma il loro bambino sembrava aver fretta di nascere. Nel cuore della notte Verlaine si era messo ad urlare in preda a forti dolori. Nemmeno il tempo di avvisare Dumas che le acque si erano rotte accelerando i tempi. Di pari passo le sirene avevano avvisato la capitale inglese dell’imminente attacco aereo nemico.

«Sarà una lunga notte per Londra ma anche per Black»

«Ho paura e mi sento impotente» confessò Rimbaud. Non aveva mai provato qualcosa di simile. Neppure quando aveva perso Baudelaire si era sentito in quel modo.

«Vorrei solo essere al suo fianco» confessò portandosi entrambe le mani al volto. Dumas sorrise scompigliandogli i lunghi capelli.

«Ho un’altra importante missione per te. Userai la tua Abilità per proteggere quest’edificio. Tra poco ci sarà un attacco aereo. Se non ricordo male puoi creare un subspazio e controllarlo» dopo quelle parole, Arthur parve ritornare in sé.

«Era il tuo piano fin dall’inizio» l’ex spia sorrise

«Certo, anche se penso veramente che in questo momento Paul non ti voglia tra i piedi. Sono mesi che non ammazza nessuno e non voglio correre rischi inutili»

«Non so come ringraziarti Lex, per tutto»


***


Charles Alexandre Marie Rimbaud Verlaine venne alla luce all’alba del ventinove aprile. 

L’attacco aereo che aveva distrutto mezza città si era concluso da qualche ora quando finalmente Arthur Rimbaud poté correre al capezzale del proprio compagno.

Lo trovò in compagnia di numerose infermiere, tutte soggiogate da un’Abilità. Fu una di queste a porgere al neo genitore un involucro di coperte dal quale spuntavano solo una manina paffuta e un paio di piedini.

«È perfetto» furono le sole parole che pronunciò, osservando innamorato il volto del figlio.

«Te lo concedo ha l’aspetto di un essere umano» fu l’apatica risposta del biondo rannicchiato tra le coperte. Verlaine non aveva ancora preso in braccio il neonato e non sembrava intenzionato a farlo.

«Ti somiglia» mormorò Arthur tracciando con un dito il profilo del bambino. Era impossibile da stabilire con certezza a poche ore dal parto ma non poteva evitare di pensarlo. In quel momento suo figlio condivideva la stessa espressione corrucciata del compagno.

«Allora congratulazioni, ora hai due mostri a cui badare»

«Paul»

«Sono stanco, non ho chiuso occhio. Ora voglio dormire. Portalo via» 

Rimbaud non disse nulla. Temeva qualcosa di simile. Affrontare una gravidanza non era stato facile per Verlaine. Il primo istinto del proprio partner sarebbe stato quello di sbarazzarsi del bambino, se non lo aveva fatto era solo perché sarebbe stato troppo tardi. Si sistemò meglio il figlio tra le braccia prima di uscire dalla camera. Non era così che si era immaginato quel momento. Aveva fantasticato su quella nascita per mesi, nella speranza che Verlaine potesse finire con l’accettare la loro creatura.

Trovò Dumas ad attenderlo nel corridoio.

«Lex ti presento Charles» disse con orgoglio mostrandogli il neonato.

«Charles eh? Congratulazioni. Gli somiglia»

«Ho pensato la stessa cosa. Charles Alexandre Marie Rimbaud Verlaine. Porta come secondo nome quello dell’uomo che ha permesso la sua nascita»

«Arthur non dovevi, cosa ne pensa Paul?» lo sguardo del moro si rabbuiò

«A lui non importa. Ora sta riposando. Non lo ha nemmeno degnato di un’occhiata»

«Sarà solo la stanchezza, vedrai che domani andrà meglio»

«Non credo» in quel momento il piccolo prese ad agitarsi e urlare tra le braccia del neo genitore.

«Penso abbia fame, dobbiamo trovare al più presto una nutrice» Dumas annuì. 

Una settimana dopo l’assedio di Londra terminò. Paul Verlaine approfittò di quei giorni caotici per fuggire.


***


«Se n'è andato» 

Arthur non voleva né poteva crederci. Aveva cercato ovunque il proprio compagno senza successo, correndo in lungo e in largo per la villa di Dumas.

Erano trascorse diverse ore dall’ultima volta in cui si erano parlati e come sempre avevano finito con il discutere.

Rimbaud aveva tentato di mostrargli per l’ennesima volta il piccolo Charles ma Paul aveva ignorato il figlio.

«Quel bambino è solo un prodotto della mia mostruosità. Non sarò mai un essere umano Arthur, è inutile, non potrai mai convincermi del contrario»

«Abbiamo un figlio ora»

«Sai che non lo volevo» quelle parole ferirono profondamente l’ex Trascendentale, più di un colpo di pistola ricevuto in pieno petto.

«Non parlare come se la colpa fosse mia»

«Era troppo tardi per sbarazzarsene e tu volevi giocare alla famiglia. Se proprio vogliamo puntualizzare sei tu che mi hai messo incinto» Rimbaud alzò gli occhi al cielo.

«Charles è anche tuo figlio, l’hai portato in grembo per nove mesi»

«Charles eh, alla fine gli hai dato il suo nome»

«Non cambiare argomento Paul»

«Otto mesi»

«Come?»

«L’ho portato in grembo per otto mesi e tu hai osato comunque dargli il nome di quel bastardo»

«Ora non fingere che te ne importi e non fare il geloso. Baudelaire è morto cinque anni fa»

«Ma tu non hai mai smesso di amarlo»

«A volte sei davvero uno stupido Paul»

Come sempre era più facile ferirsi a vicenda che affrontare la realtà. Rimbaud amava il proprio partner, non lo aveva mai considerato un mostro. Tornò a fissare il profilo del bambino addormentato a qualche metro da lui. Era tornato nelle loro stanze dove aveva trovato l’armadio di Paul completamente vuoto. 

Arthur si era aspettato una mossa simile ma non così presto. Charles non aveva nemmeno un mese di vita. Aveva sperato fino all’ultimo che Verlaine cambiasse idea. 

«Ha il tuo naso» la voce di Dumas lo riportò alla realtà.

«Come?»

«Charles. Ha il naso all’insù come il tuo e anche la bocca ma lo sguardo proviene tutto dalla madre» Rimbaud si trovò a sorridere malinconico.

«Più lo osservo e più fatico a credere che sia davvero nostro»

«Non temere Black tornerà, ha solo bisogno di tempo per schiarirsi le idee»

«Abbiamo fatto l’amore solo quella sera, prima di partire per Londra. Non immaginavo che lui potesse… Insomma è successo tutto così in fretta»

«Lo ami davvero» Rimbaud si abbandonò ad un sospiro stanco, rassegnato. Era sempre stato un libro aperto per Dumas e Hugo, in tanti anni certe cose non erano cambiate. Quando stava in presenza di uno dei due si sentiva ancora come un ragazzino spaventato, alla disperata ricerca di attenzioni.

«Dopo aver perso Charles avevo deciso che sarei diventato una brava spia e avrei rinunciato ad ogni sentimento. Poi ho trovato Paul»

Dumas rimase in silenzio. Scelse di non pensare a Victor e al passato che si era lasciato alle spalle. Era tardi per avere dei rimpianti. Rimbaud riprese a parlare,

«Era come un bambino, non conosceva nulla del mondo. Mi sono innamorato prima di rendermene conto. Per me non è mai stato un mostro, tuttavia non sono mai riuscito a comprenderlo»

«Per quel poco che ho visto in questi mesi è Black il primo a non considerarsi umano e non lo biasimo, cioè ha partorito un bambino. Non deve essere stato facile da accettare, ti sei chiesto come avresti reagito al suo posto?»

«Lex»

«Sarebbe stato uno shock per chiunque ma lui è rimasto al tuo fianco e ha portato a termine la gravidanza. Questo vorrà pur dire qualcosa»

«Mi ha detto chiaramente che non lo voleva. Mi ha fatto sentire come se lo avessi obbligato»

«Concorderai con me sul fatto che non abbia mai tentato di compiere gesti estremi» era vero, Paul non aveva mai cercato di fare del male a sé stesso o al bambino. 

Rimbaud chiuse gli occhi abbandonandosi ai ricordi di quei mesi trascorsi nella capitale inglese. Era passata poco più di una stagione eppure ad Arthur sembrava un’eternità.

Una sera, rientrando dall’ennesimo incontro tenutosi nella villa di Agatha Christie, Rimbaud aveva sorpreso Verlaine di fronte ad una delle vetrate. Era da poco trascorsa la mezzanotte. Il biondo se ne stava immobile, in piedi, intento a fissare la volta celeste, illuminato solo dalla fioca luce di una candela. Arthur rimase ad osservare quella scena in silenzio. Il primo dettaglio che catturò la sua attenzione fu il ventre ormai prominente del compagno. Ai suoi occhi Paul non era mai stato tanto bello. Fu allora che l’essere artificiale fece l’ultima cosa che il moro si sarebbe aspettato. Prese ad accarezzarsi la pancia sussurrando una poesia al bambino. 

Rimbaud conosceva quei versi a memoria, li aveva scritti lui stesso. Fece un paio di passi in avanti, facendo così in modo che Verlaine potesse notare la propria presenza.

«Siete tornati presto» commentò con tono annoiato il biondo, la mano ancora posata sul grembo.

«I discorsi sulla guerra sono sempre noiosi. Non vedevo l’ora di tornare qui» da te, da voi

«Ho sentito alla radio che si teme un attacco aereo sulla capitale per i prossimi mesi. Non dovresti sottovalutare i nostri nemici»

«Non credere a tutto ciò che senti dai notiziari»

«Mi vuoi forse far credere che tu ti fidi delle parole di questi inglesi?»

«Mi fido di Lex»

«Un uomo che ha finto la propria morte e tradito il proprio compagno»

«Non fare così Paul»

«Io non ti tradirei mai» ammise con la solita calma che lo caratterizzava anche se alle orecchie di Rimbaud quella suonò come la più bella delle dichiarazioni. Lo abbracciò. Quel contatto stupì entrambi. Verlaine non si ritrasse, rimase immobile in attesa di un bacio che non tardò ad arrivare. Rimasero in quella posizione per parecchi minuti prima che il bambino decidesse di scalciare con forza interrompendo di fatto le effusioni dei genitori. Rimbaud gli passò una mano sul ventre, cercando inutilmente di calmarlo. Paul alzò gli occhi al cielo

«Ora andrà avanti per delle ore. Sa essere testardo»

«Non mi prenderò tutta la responsabilità per questo. Ha preso da entrambi» Verlaine sbuffò

«Gli stavi sussurrando la nostra poesia» le parole di Arthur lo riportarono al presente

«La mia voce sembra abbia il potere di calmarlo, quasi quanto la tua di agitarlo»

«Anche a me piace il suono della tua voce»

«E a me irrita la tua»

«Bugiardo»

«Inizia a diventare pesante» confessò Verlaine dopo qualche minuto, scostandosi da quell’abbraccio per andare a sedersi su una delle poltrone del soggiorno

«Tra poco entrerai nel terzo trimestre»

«Non vedo l’ora che questa tortura sia finita. Sono diventato enorme e anche i miei movimenti iniziano a risentirne»

«Devi solo pensare a riposare Paul»

«In caso te ne fossi scordato c’è una guerra in corso, siamo due ricercati internazionali e io sono un’arma sulla cui testa pende più di una taglia» 

«Non me ne sono dimenticato ma aspetti un bambino» Verlaine imprecò.

«Pensi davvero che lo sia?» Rimbaud sorrise, anche quello era un discorso che avevano già affrontato.

«E cosa mai potrebbe essere?»

«Un’anima artificiale simile a me» confessò. Arthur lo raggiunse.

«L’ho sognato sai? Me lo sono immaginato identico a te, possedeva anche la tua Abilità» mormorò prima di accarezzargli il volto, Paul lo lasciò fare, godendosi quelle carezze,

«Se davvero sarà identico a me la sua vita sarà un inferno»

«Non lo permetteremo»

«Per questo volevo sbarazzarmene, per evitargli di provare la mia stessa sofferenza»

«Paul»

«Non posso amare questo bambino» Arthur lo sapeva, eppure qualche istante prima si era illuso del contrario.

E cosa provi per me, Paul?

Avrebbe voluto domandarglielo ma non ne ebbe il coraggio. Aveva troppa paura di conoscere quella risposta.


***


Wonderland

 

Parigi 



 

«Secondo il rapporto del nostro infiltrato nell’Intelligence inglese, Black è scomparso» Victor Hugo non ne sembrò sorpreso, aveva già ricevuto una missiva che indicava di come un soggetto simile fosse stato avvistato nei pressi del porto di Calais.

«Arthur?» domandò fingendo disinteresse

«Lui e il bambino sono ospiti di un amico di Dame Agatha Christie»

«Un amico eh?» Un'ipotesi aveva iniziato a farsi largo nella mente del leader dei Poètes, era assurda ma verosimile.

Stendhal rimase in attesa del prossimo ordine. Aveva dovuto leggere più volte il rapporto per essere sicuro che non vi fossero errori di traduzione. Quel mostro di Black aveva partorito un bambino. La preoccupazione principale del capo della sezione interrogatori della squadra speciale antiterrorismo al momento era solo una, come avrebbe reagito Baudelaire di fronte a quella notizia. Nel rapporto non era indicata l’identità del padre di quella creatura ma non potevano esserci molti dubbi al riguardo.

«Tu e Baudelaire partirete domani per Londra» la voce di Hugo lo scosse da quei pensieri

«Come?»

«Andrete a Londra e riporterete a casa Arthur e il suo bambino»

«Ma Charles…»

«Potrebbe essere l’unico in grado di convincere Arthur a tornare» Victor aveva ragione. Come sempre. 

«Cosa ne pensate del bambino?» domandò prima di accendersi una sigaretta,

«Il Fauno era uno scienziato geniale. Black è un capolavoro di assoluta perfezione, quel bambino non sarà da meno. In più è figlio di Rimbaud»

Aveva di nuovo la possibilità di creare la spia perfetta. Sorrise.

«Forse, possiamo ancora sperare di vincere questa guerra»











 

*«È ritrovata.

Cosa? – L’Eternità.

È il mare andato via

Col sole.» 

 

Inizio della poesia Éternité che si trova all’interno dell'opera “Une Saison en Enfer” di A. Rimbaud




 

Note autrice: Questo è uno dei capitoli che mi preoccupava di più per una lunga serie di motivi (che potete ben immaginare). Lo scrissi nel lontano mese di aprile per il compleanno del mio neurone Holie, a lei si deve l’idea di base di questa seconda Wonderland e della gravidanza di Paul (che comunque ho adorato perché andiamo solo ad aggiungere traumi a un pg che già è complicato di suo). So che il comportamento di Verlaine per ora è discutibile ma non temete alla fine tra un colpo di scena e l’altro spiegherò tutto. Passiamo invece alle cose belle, Dumas è entrato finalmente in campo (almeno in Wonderland) Per chi non lo sapesse è il mio OC preferito (ed il primo che ho creato), ma anche su di lui non mi esprimo troppo.

Alcune info di servizio: questa realtà sarà lunga. Dovrei riuscire a pubblicare ogni due settimane circa e i cap fino al 20 ci sono quindi sono fiduciosa. Critiche, commenti, lanci di pomodori sono sempre ben accetti. Grazie per l’attenzione ora fuggo in Siberia XD

 

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Capitolo 12
*** XII Stagione - Mon âme éternelle ***


XII Stagione - Mon âme éternelle



 



 

«Mon âme éternelle, 

Observe ton vœu

Malgré la nuit seule

Et le jour en feu»*


Une Saison en Enfer - poesia Éternité 



 



 

 


Wonderland

Francia - Calais

 

Nonostante fossero gli ultimi giorni di maggio il clima della Manica non era dei migliori. Un temporale improvviso aveva creato parecchi ritardi nei trasporti, obbligando molte imbarcazioni a rimanere ormeggiate per motivi di sicurezza, nel porto di Calais.

«Si può sapere tra quanto salperà questa stra maledetta nave?!»

«Dovresti darti una calmata Charles» il Poète lo fissò per una manciata di secondi, tanto che Baudelaire dovette fare appello a tutto il proprio autocontrollo per impedirsi di prendere a pugni il superiore. Anche se fu solo un pensiero fugace, venne sfiorato dall’idea di gettarlo in mare.

«Paul è a Londra» iniziò a spiegare con fare ovvio, mentre Stendhal si accendeva la prima sigaretta di quella che si stava trasformando nell’ennesima lunga giornata.

«Mentre quel mostro è tornato in Francia» proseguì iniziando a gesticolare. Il superiore alzò un sopracciglio. Era inutile tentare di fare ragionare quella testa calda, quando si trattava di Arthur Rimbaud, Baudelaire perdeva completamente il senno, accecato dai propri sentimenti.

«Ho letto il rapporto, esattamente come dovresti aver fatto anche tu» si limitò ad aggiungere, osservando annoiato le onde che s'infrangevano contro la banchina.

«Dobbiamo riportare Paul a Parigi» fu la sola risposta che ottenne.

Stendhal alzò gli occhi al cielo, maledicendo Hugo e la decisione di inviarli a Londra. L’assedio della capitale inglese si era da poco concluso, era stato in quel momento, approfittando del caos e della confusione, che Black era fuggito, abbandonando il proprio compagno e quel bambino di poche settimane, che lui stesso aveva partorito. Tornò a fissare Baudelaire ancora perso nei propri deliri da innamorato. Fino ad allora, Stendhal aveva evitato di affrontare quel discorso, forse perché non era certo di come il partner più giovane avesse reagito alla notizia.

L’idea che Rimbaud avesse avuto un figlio dall’essere artificiale aveva colto di sorpresa il capo della sezione interrogatori ma per Baudelaire quella notizia doveva essere stata difficile da digerire.

Anche questa volta però Charles era stato in grado di stupirlo. Non aveva detto nulla, preferendo concentrarsi solo sulla possibilità di rivedere Rimbaud. Era come se la sua mente avesse arbitrariamente deciso di ignorare l’esistenza di quel bambino o le circostanze che avessero portato al suo concepimento. Stendhal sapeva che quella fantasia non sarebbe potuta durare, prima o poi Baudelaire si sarebbe scontrato con la realtà, era inutile rimandare l’inevitabile. Il partner più giovane aveva sempre faticato ad accettare i cambiamenti, soprattutto quelli inerenti Rimbaud. 

Charles Baudelaire aveva acconsentito di unirsi ai Poètes Maudits solo per lui. Henry Stendhal non era uno stolto, aveva sempre saputo a cosa mirasse il proprio sottoposto. Baudelaire era sempre stato fin troppo trasparente nel manifestare le proprie emozioni. Anche lui aveva la sua parte di colpa in quella storia. Aveva sperato che con il tempo i sentimenti di Charles si affievolissero invece era avvenuto l’opposto.

«E sentiamo come pensi di convincerlo a tornare? Anzi come credi che reagirà al solo vederti?» non voleva essere troppo duro, ma doveva porre un freno a quel comportamento. 

La situazione internazionale era ancora piuttosto caotica, dopo la Battaglia di Parigi era toccato a Londra, provata da un lungo assedio e distrutta da numerose incursioni aeree. Baudelaire doveva comprendere l’importanza di quella missione. Rimbaud non si trovava da solo, qualcuno lo stava sicuramente aiutando, proteggendolo anche dagli esponenti della Torre dell’Orologio che per primi gli avevano fornito asilo. 

Era un miracolo che Black fosse riuscito a nascondere la gravidanza e a partorire in tranquillità. Victor Hugo possedeva una rete di spionaggio invidiabile, per questo era al corrente di ogni mossa del proprio pupillo. Fuggire dal controllo del leader dei Poètes era pressoché impossibile. Rimbaud doveva saperlo eppure non aveva esitato a infrangere le regole e tradire l’Organizzazione. Qualche volta Stendhal si era trovato ad invidiare quel tipo di coraggio, lui non avrebbe mai potuto fare niente di simile. Aveva abbracciato consapevolmente quella vita fatta di rinunce, sperando di impiegare la propria Abilità per aiutare il prossimo. Dopo quasi vent’anni di attività poteva dire di aver fallito nel proprio intento. Aveva distrutto più vite di quante ne avesse salvate. 

«Probabilmente Paul mi odierà» aveva sussurrato Baudelaire distogliendolo da quei pensieri. Si perse ad osservarlo per qualche istante trovandosi inconsapevolmente a sorridere.

«Ma ora siamo pari, per dieci anni l’ho creduto morto» dopo quell’uscita Stendhal scosse la testa, rassegnato.

«Non sappiamo ancora chi lo stia aiutando, anzi chi lo stia nascondendo e proteggendo. Non è un caso che questa missione sia stata affidata a noi» gli fece notare,

«Credevo si trattasse di un qualche esponente della Torre dell’Orologio» ammise il più giovane prendendo a camminare nervosamente avanti e indietro 

«Prova a riflettere per un momento. Se sapessero del bambino o di Black credi che avrebbero lasciato fuggire quel mostro così facilmente?»

«Quel essere possiede un’Abilità spaventosa»

«Non lo metto in dubbio, tuttavia non penso che i membri della Torre siano coinvolti. Non direttamente. Arthur conosce Agatha Christie ma non così bene da arrivare ad affidargli la vita di suo figlio o la sicurezza di Black» a quelle parole Baudelaire storse il naso, come sempre, l’idea che quella creatura occupasse una posizione di rilievo nel cuore di Rimbaud gli era inconcepibile. Come poteva il suo Paul provare dei sentimenti per un mostro simile?

«Siamo alla ricerca di qualcuno tanto potente da aver aiutato e ospitato Paul per tutti questi mesi? Non credo possa esistere un individuo simile. Se così fosse Hugo lo saprebbe» concluse con fare ovvio

In quel momento solo un nome attraversò la mente di Stendhal, ma era un’ipotesi talmente assurda che non volle prenderla in considerazione. Se veramente quell’uomo era coinvolto, la guerra in Europa sarebbe stata l’ultimo dei loro problemi. 

Gettò la propria sigaretta in mare, incurante dell’occhiata di rimprovero che ricevette sia dal sottoposto che da diversi ufficiali. Sicuramente anche Victor doveva essere giunto alle medesime conclusioni, per questo li aveva scelti per quella missione. Sperò di sbagliarsi e che le sue fossero solo paranoie inutili.

 

***

 

Wonderland

Inghilterra - Londra 

-In quello stesso momento-

 

Arthur Rimbaud entrò nelle proprie stanze a passo di marcia inveendo in diverse lingue. Dumas seduto accanto al camino lo scrutò per una manciata di minuti indeciso se intervenire o meno. Alla fine la curiosità ebbe la meglio. Posò delicatamente la copia del Times che reggeva tra le mani prima di domandare,

«Posso sapere cosa è successo?»

«É a Parigi» non serviva specificare il soggetto della conversazione. Vi era un solo essere al mondo in grado di scatenare una tale reazione di Rimbaud, si trattava di un'anima artificiale dai lunghi capelli biondi e occhi di ghiaccio.

«Oltre a questo, Goethe è arrivato nel primo pomeriggio. Mi è stato riferito che stava sorseggiando un tè nell’ufficio di Agatha»

«Ti ha visto?» domandò con una punta di preoccupazione che non sfuggì all’orecchio attento del moro.

«No, ma non credo conosca il mio aspetto o sappia il mio nome. Dopotutto non sono mai stato in Germania» si domandò cosa sarebbe successo se un anno prima avesse seguito quell’ordine. Scosse la testa di fronte a quel pensiero tanto futile quanto inutile

«Arthur, sei praticamente il figlio di Victor e suo agente migliore, mezza Europa conosce il tuo nome»

«Grazie, ora mi sento meglio. Il piccolo Charles?» chiese con urgenza, stringendosi nel proprio cappotto.

«Sta dormendo nelle sue stanze» solo allora Rimbaud parve rilassarsi

«Intendi seguirlo vero?» era incredibile come entrambi evitassero di pronunciare quel nome. Paul Verlaine si era trasformato in un fantasma tra quelle mura. Non era trascorsa nemmeno una settimana dalla sua fuga e Dumas ancora faticava a crederci.

Aveva osservato attentamente quei due, sin dal loro primo incontro, quando li aveva ingenuamente scambiati per amanti. Paul era un individuo complesso e dalle molteplici sfaccettature, indubbiamente la notizia della gravidanza lo aveva portato a mettersi in discussione, ma quello sarebbe potuto capitare a chiunque. Tuttavia era rimasto al fianco di Rimbaud. Era stato quello ad averlo sorpreso più di ogni altra cosa.

Dumas non lo aveva fatto. Aveva abbandonato Hugo quando aveva più bisogno di lui. In quell’occasione si era convinto di aver agito per il bene di entrambi, mentre in realtà era stato mosso principalmente dal proprio egoismo. Era solo merito della propria Abilità se era riuscito a nascondersi così a lungo dalla sua rete di informatori. Sapeva che la propria latitanza non sarebbe potuta durare per sempre e che presto sarebbe tornato al fianco dell’uomo al quale aveva giurato di dedicare la propria esistenza.

«Tu cosa faresti Lex?» eccola la domanda che Dumas aveva temuto e a cui sapeva di dover dare una risposta sincera. Arthur non si sarebbe accontentato di una menzogna cucita per indorare la pillola, avrebbe preteso la verità.

«Non sono la persona più adatta a cui rivolgere una simile domanda. Ho abbandonato Victor e finto la mia morte per più di dieci anni»

«Chi di noi non lo ha fatto?» rispose sprezzante abbozzando un sorriso,

«Arthur non scherzare»

«Non lo sto facendo, voglio conoscere la tua opinione al riguardo, ricevere un consiglio da parte di un uomo che per me è stato come un padre, un fratello maggiore. Sarei disposto ad attraversare la manica a nuoto pur di riprendermi Paul. Poi penso a Charlie e al fatto che ci sia ancora una guerra in corso. Al mio ruolo come traditore e a tutte le complicazioni che esso comporta»

Fece una pausa, sistemandosi meglio i capelli dietro alla schiena.

«Ho riflettuto a lungo e penso che dare il bambino in adozione sia la scelta migliore» 

«Arthur» la delusione sul viso di Dumas nell’udire quelle parole era palese

«Prima che tu possa aggiungere altro, sono un ricercato internazionale. Per il momento la Torre dell’Orologio mi sta dando asilo ma conosci gli inglesi Lex, oggi sono nostri amici ma potremmo dire lo stesso di domani? Charles è il figlio di Paul. Se lo scoprissero cosa pensi accadrebbe? Tu non hai visto il laboratorio del Fauno, le condizioni in cui versava quando l’abbiamo trovato, gli esperimenti ai quali veniva sottoposto»

Rimbaud chiuse gli occhi, rivivendo quell’orrore nella propria mente.

Gli sembrò trascorsa un’eternità. Era incredibile come la propria vita fosse cambiata così tanto in poco tempo. 

«Saresti davvero disposto a privartene?» i loro sguardi si incrociarono per pochi secondi,

«Se fosse per il suo bene, si»

«Io ti conosco Arthur. Non hai ancora completamente dimenticato il tuo primo amore, come pensi di lasciare tuo figlio?»

Per quanto gli costasse ammetterlo, Dumas aveva ragione. Baudelaire era ancora un fantasma fastidioso che sussurrava al suo orecchio, facendo le veci della propria coscienza. Rimbaud aveva dato a suo figlio quel nome, semplicemente perché non era stato in grado di trovarne uno migliore. La fine di Charles gravava sulla sua coscienza, pesante come un macigno. 

Nel corso di quegli anni, Arthur aveva tolto così tante vite ma non gli era mai veramente importato di nessuna di esse. 

La morte di Baudelaire gli aveva fatto strappare un biglietto d’ingresso per l’inferno, era stato allora che aveva firmato la propria condanna. Quando era sopravvissuto alle spese del proprio amante. Da quel giorno Rimbaud si era imposto di non provare sentimenti o avere legami. Erano bastati un paio di occhi di ghiaccio per farlo ricredere.

Ripensò a suo figlio e a come per uno strano scherzo del destino avesse finito con l’ereditare quello stesso sguardo.

«Sarebbe molto più facile se non gli somigliasse così tanto» si trovò ad ammettere passandosi una mano sul volto. 

«Ha preso da entrambi»

«Ogni volta che osservo il suo viso non posso fare a meno di rivedere Paul. Charlie è semplicemente perfetto, come lui. Per questo non posso arrendermi. Mio figlio merita di crescere circondato dall’amore e dall’affetto di una famiglia»

«Famiglia» si trovò a ripetere Dumas tra sé. Sebbene fossero trascorsi molti anni, sussurrare quella parola gli risultava ancora difficile. Cercò lo sguardo del moro, immobile a qualche metro da lui,

«Victor ti ha mai raccontato di suo padre?» Arthur lo fissò confuso per una manciata di secondi, leggermente sorpreso dalla piega che stava assumendo quella conversazione. Conosceva poco sul passato di Hugo, il leader dei Poètes non era mai stato un tipo loquace ma dopo la scomparsa di Lex si era chiuso ancora di più in se stesso. Rimbaud aveva scoperto solo da adulto della sua relazione con Dumas e di come questa avesse generato quelle regole ferree che gli erano state imposte. 

«Se non sbaglio era il precedente leader dei Poètes» era un’informazione di pubblico dominio. Ricordava distrattamente come i piani alti dell’Organizzazione avessero visto la sua promozione come nepotismo. Hugo però aveva subito messo a tacere quelle voci con le proprie azioni, riportando in auge l’intelligence francese.

«Conosci anche il suo nome?»

Arthur scosse la testa. Vi erano molte informazioni top secret nel loro mondo, solo avanzando di grado i vari segreti venivano rivelati. Non conosceva nemmeno il nome dell’Abilità di Victor.

«Alexandre Dumas. Era mio padre. Vic è sempre stato il figlio che non ha mai avuto e che ha finito con lo scegliere come proprio erede»

«Non ne avevo idea»

«Vic non ama parlare di questa storia. È solo l’ennesima cicatrice di una stagione passata, come una foglia d’autunno destinata a perire con l’arrivo dell’inverno» sussurrò con malinconia.

Arthur abbassò il capo. Lui ormai non rammentava il volto di suo padre o il suono della voce di sua madre. L’unico ricordo vivido che conservava del proprio passato rimaneva il viso di un piccolo Charles Baudelaire in lacrime, mentre veniva trascinato verso una nuova esistenza fatta di sacrifici e rinunce. Di nuovo il fantasma di Charles e del loro passato tornò ad avvolgerlo, provocandogli un brivido di freddo lungo la schiena.

«Nessuno di noi ha mai avuto una famiglia» mormorò,

Dumas chinò il capo.

Arthur aveva ragione, tenere con sé il piccolo Charlie avrebbe comportato troppi rischi. Che vita avrebbe mai potuto offrirgli? Dumas aveva quasi scordato la sensazione generata dal preoccuparsi sinceramente per qualcuno. L’ultima volta che lo aveva fatto, era stato per Victor. Le cose però gli erano sfuggite di mano tanto da dover fingere la propria morte.

A tutti i mali ci sono due rimedi, il tempo e il silenzio.

Era una delle massime preferite di suo padre e che ovviamente Victor aveva fatto propria. Hugo era sempre stato intelligente, brillante e abbagliante come un raggio di sole. Non si poteva fare a meno di apprezzarlo o rimanere incantati dal suo charme. Quando però quel moderno Icaro aveva provato ad avvicinarsi troppo al sole era toccato a lui proteggerlo prima che potesse scottarsi e finire con il bruciarsi le ali. Avevano giocato entrambi una partita pericolosa. Era stato allora che Alexandre aveva deciso di scomparire, fungendo da capro espiatorio per i loro peccati e preparando la propria vendetta.

Il tempo avrebbe guarito ogni cosa. Hugo era risorto dalle proprie ceneri prendendo in mano l’Organizzazione di suo padre, donandole uno scopo e infondendole nuova linfa vitale. Sebbene la minaccia di una guerra fosse sempre più concreta all’orizzonte, Victor non si era arreso ma aveva proseguito per la propria strada. 

Lex lo aveva osservato in silenzio dall’altro capo della Manica, pronto a coprirgli le spalle, mentre si preparava a pareggiare i conti con i loro nemici.

Aveva scoperto per puro caso come gli assassini di suo padre stessero mirando anche a Hugo. Non aveva avuto tempo per domandarsi se quella fosse la scelta giusta o meno. Aveva agito d’istinto solo per salvare Victor, mosso da quel sentimento malato che li aveva legati indissolubilmente e resi l’uno il punto debole dell’altro.

Gli uomini veramente generosi sono sempre pronti a diventare misericordiosi, quando la disgrazia del loro nemico oltrepassa la loro collera.

Fu in quel momento che gli tornò alla mente un episodio di qualche mese prima, una conversazione avvenuta tra lui e Verlaine. Quella sera, aveva scorto nelle parole del biondo essere artificiale, l’ombra dello stesso sentimento che lo aveva unito al leader dei Poètes. 

Aveva rivisto in Verlaine e Rimbaud un riflesso sbiadito di ciò che erano stati o che sarebbero potuti essere. 

 

***

 

Londra

-Quattro mesi prima-

 

Quando Rimbaud partecipava a degli incontri con vari esponenti della Torre dell’Orologio in quell’abitazione calava il silenzio. Per motivi diversi Verlaine e Dumas si trovavano a dover convivere tra quelle mura, mal tollerando l’uno la presenza dell’altro. 

Sin dall’inizio il rapporto tra i due non era stato dei migliori. 

Paul non si fidava dell'ex Poète, continuava a vederlo come una versione alternativa di Hugo, odiandolo di riflesso. A nulla erano serviti i tentativi di mediazione da parte di Arthur o il fatto che l’uomo avesse offerto la propria villa come rifugio. Quando Verlaine si intestardiva su qualcosa non c’era verso di smuoverlo. Nella sua mente Alexandre Dumas sarebbe sempre rimasto un individuo pericoloso del quale non poteva fidarsi.

«Quando fai così mi ricordi Arthur» fu il semplice commento di Dumas, che diede il via a quella conversazione.

Avevano da poco finito di cenare e le cameriere si stavano affrettando per sparecchiare anche l’ultima portata. In quella posizione, nessuno avrebbe potuto intuire lo stato interessante dell’essere artificiale. Verlaine aveva appoggiato distrattamente il bicchiere sul tavolo, osservando con una punta d’invidia il calice di vino del padrone di casa. L’uomo se ne accorse e gli sorrise.

«Hai davvero molti dei suoi modi» anche l’aria di superiorità che emanavano era la stessa. Arthur l’aveva ereditata a sua volta da Victor ma Alexandre aveva badato bene dal farlo notare a entrambi. 

«Rimbaud mi ha insegnato ogni cosa» di fronte a quella semplice ammissione Dumas non riuscì ad impedirsi di sorridere,

«Posso farti una domanda? Per te lui cosa rappresenta?» Erano mesi che osservava quei due eppure non era ancora riuscito a comprendere la natura del loro rapporto. Se i sentimenti di Arthur gli apparivano abbastanza chiari, quelli del biondo rimanevano un mistero.

«Non capisco, cosa intendi?» L’ex Poète indicò il suo ventre seminascosto dal tavolo,

«Non credo che questo bambino sia totalmente frutto del caso» Verlaine contrasse le labbra perfette in una smorfia, 

«Non sapevamo di questa mia capacità o saremmo stati più attenti»

Era una frase che nella sua mente aveva continuato a ripetersi sin dal giorno della scoperta. C’erano dei momenti in cui gli sembrava ancora tutto così assurdo, poi il piccolo parassita all’interno del suo corpo iniziava a muoversi, ricordandogli la dura realtà. Nonostante le lamentele da parte del compagno, Verlaine ancora si rifiutava di definire quell’essere “bambino”. Era solo un parassita che occupava abusivamente il suo corpo e che non vedeva l’ora di espellere. Per colpa sua, era relegato in quella villa vittoriana, costretto a trascorrere le proprie giornate insieme a Dumas. Non era così che si era immaginato la vita da fuggitivo. Rimbaud grazie alle simpatie di Agatha Christie, veniva invitato nei salotti dell’intelligence inglese mentre a lui toccava quella gabbia dorata.

Lo sto facendo per il nostro bene

Era stata l’unica risposta che aveva lasciato le labbra di Arthur. Verlaine comprendeva le sue ragioni ma non poteva evitare di sentirsi frustrato per l’intera situazione. 

Abbassò il capo fissando quel rigonfiamento causa principale di tutti i suoi problemi. La sua attenzione però venne richiamata dalla voce Dumas,

«Quello che vorrei sapere è: come ti senti al riguardo?» Paul non riuscì ad afferrare completamente il senso di quelle parole, così come dell’intera conversazione. 

«Non capisco. Sono un mostro, un ammasso di dati e codici. Non farti ingannare da questo aspetto gradevole» l’uomo scoppiò a ridere all’improvviso, non riuscendo a trattenersi;

«Gradevole? Sei bellissimo, chiunque cadrebbe ai tuoi piedi» Verlaine assunse per la prima volta un’espressione disgustata,

«Anche Rimbaud una volta ha detto qualcosa di simile. Quando se ne esce con certe frasi fatico a comprenderlo» 

«Non puoi semplicemente accettare i suoi sentimenti?» il biondo alzò un sopracciglio

«Come si può amare una bestia senz’anima?»

«Dovresti smetterla di vederti in questo modo»

Verlaine riprese ad osservarsi il ventre,

«Ora più che mai mi sento un’aberrazione, un qualcosa che non dovrebbe esistere in natura, la mia sola esistenza sfida le leggi del creato»

«Pensi questo anche del bambino?»

«Come fate ad essere tanto sicuri che non sia un mostro deforme?»

«Perchè mai dovrebbe esserlo? Tu stesso hai visto il suo profilo nell’ecografia, è un maschietto sanissimo e perfettamente umano»

«Rimbaud desidera questo bambino» mormorò quasi dispiaciuto. Ricordava quel giorno, l’espressione radiosa del compagno nel vedere per la prima volta quell’essere. Non poteva privarlo di una simile felicità. Arthur si era sempre preso cura di lui, in qualche modo glielo doveva. 

«E tu?»

«Lo odio quando fa così. Quando mi mette all’angolo senza possibilità di fuga» Dumas annuì, anche Hugo delle volte si era comportato in modo simile.

«Parlami un po’ di quella notte» Verlaine gli regalò un’occhiata al vetriolo,

«Aiutami a capire Paul, dici di odiarlo ma dai tuoi comportamenti si evince l’opposto»

Il biondo sbuffò prendendo a massaggiarsi il ventre. Il bambino si era svegliato e desiderava comunicarglielo nel solo modo che conosceva, prendendolo a calci.

«È complicato. Non volevo che Rimbaud partisse, che mi abbandonasse. Ho odiato l’umanità intera e desiderato più volte la sua estinzione, fra tutti avrei salvato solo Rimbaud. Per me lui è la cosa più importante. È il mio partner. Per questo motivo lo detesto, perché non riesce a comprendere la solitudine che alberga nel mio cuore. Nonostante i suoi sforzi lui resterà per sempre un essere umano e io una bestia» odiava anche se stesso per l’aver formulato quel pensiero. Per aver permesso ad Arthur di amarlo. Per aver creduto che una simile fortuna gli fosse concessa.

«State per avere un bambino»

«Non mi importa. Non cambierà ciò che sono, anzi è l’ennesima prova della mia mostruosità»

«Non credo che Arthur la pensi in questo modo» Verlaine arricciò il naso, passandosi una mano sul ventre, questa volta in una carezza gentile,

«Questo bambino lo rende felice»

«Non vedo cosa ci sia di strano o di sbagliato»

«Rimbaud desidera una famiglia, forse vuole semplicemente ricreare ciò che aveva un tempo e di cui è stato privato. Per contro la mia esistenza non è stata benedetta da alcun Dio. Non sono nato da genitori, sono stato generato dal nulla»

Dumas stava iniziando a comprendere i timori di Black come anche il significato dietro a molti comportamenti di Arthur. Verlaine era una bomba ad orologeria sempre pronta ad esplodere, bastava un nulla per alimentare quella spirale negativa di cui si era circondato. Tentò con un approcciò differente,

«Ne avete mai parlato?» si fece bastare l’occhiataccia che ricevette come risposta

«Rimbaud aveva un amante. Charles Baudelaire. I Poètes li hanno scoperti, lo hanno arrestato ed è stato condannato a morte. Anche se penso che in fondo lui lo ami ancora» furono le successive parole del biondo

Dumas non poteva credere alle proprie orecchie, per quanto cinico potesse essere, Hugo non avrebbe mai potuto fare una cosa simile. Soprattutto ad Arthur. Quella storia era decisamente sospetta ma in quel momento era altro che gli premeva sapere,

«E come lo sai?» provocare il biondo era divertente, così come studiare le sue reazioni

«Me lo ha raccontato lui. Quella notte» era stato in quell'istante che Dumas aveva visto l’ombra di un’emozione attraversare lo sguardo di Paul. 

«Dovresti aprire gli occhi. Basta vedere il modo in cui ti guarda» Rimbaud era sempre stato un libro aperto, forse perché era stato lui ad insegnargli l’arte di fingere. Riusciva sempre a scovare la menzogna nascosta in quelle iridi dorate così come leggere lo sconfinato affetto che il moro provava verso quell’arma che gli era stata affidata.

«Non sono degno dei suoi sentimenti» la testardaggine del biondo non lo aiutava. Era quasi esasperante.

«Non mi hai ancora detto cosa provi»

«Lo odio»

«Non è vero» la sicurezza con cui Lex pronunciò quelle parole gli diede sui nervi

«Parliamo un pò di Hugo. Raccontami di te e Victor» se Dumas voleva giocare non si sarebbe tirato indietro, lo avrebbe obbligato a svelare le proprie carte,

«Lo amavo. Ho dedicato la mia vita a lui»

«Però te ne sei andato» Verlaine non conosceva tutta la storia. Rimbaud gli aveva solo accennato di come ufficialmente Dumas risultasse morto da oltre dieci anni. 

«Delle volte per proteggere chi amiamo, dei sacrifici sono necessari. Vedila in questo modo, cosa saresti disposto a fare per Arthur?»

«Porto in grembo suo figlio, ti basta come risposta?»

«Oltre a questo?»

«Distruggerei i Poètes se me lo chiedesse»

«Vorresti farlo?»

«Ammetto di averci pensato»

«E cosa ti ha fermato?»

«Rimbaud. Detesto litigare con lui anche se accade spesso»

«Vi ho sentiti» Paul sorrise

«Ora è per il bambino, prima era per la guerra, ci sarà sempre qualcosa su cui saremo in disaccordo»

«Anche noi litigavamo spesso, l’importante è chiarirsi»

«Forse è questo il nostro problema. Siamo diversi e vogliamo cose diverse»

«La decisione di tradire i Poètes l’avete presa insieme» Verlaine annuì.

Anche la notte che ne era seguita lo era stata. Non aveva mai incolpato Rimbaud per il suo stato. Avevano concepito insieme quel bambino. Lo aveva voluto. Così come aveva desiderato ogni bacio o carezza.

«Arthur continua a ripetere che conquisterebbe l’inferno per me ma non sa che anche io sarei disposto a fare lo stesso per lui»

Dumas non se lo aspettava. Era la cosa più simile ad una dichiarazione che avrebbe mai ottenuto. Paul Verlaine continuava a sorprenderlo. Capì perchè quella creatura avesse suscitato l’interesse di Victor e di Rimbaud.

«Dovresti dirglielo»

«Non posso»

«Non riesco davvero a comprenderti»

«Nessuno può farlo. Ogni mia emozione che sia gioia o disperazione è stata progettata da qualcuno. Sono solo il risultato di un’equazione. Quando mi interrogo su Rimbaud arrivo a questa conclusione. Lui ama un qualcosa che non è reale»

«Ma vostro figlio lo è»

«É un errore come lo sono io. Non sarei mai dovuto nascere. Rimbaud sarebbe stato sicuramente più felice»

«Sei uno stolto»

«L’ho portato a tradire i Victor, i Poètes e guarda cosa abbiamo ottenuto»

«Ad Arthur basta essere al tuo fianco»

«Allora è uno stolto anche lui»

In quel momento Rimbaud fece la sua comparsa nella sala. Verlaine si alzò dal tavolo per andargli incontro.

«State bene?» domandò il moro intercettando lo sguardo freddo del proprio compagno, passandogli una mano sul ventre in una carezza gentile e possessiva.

«Non ti azzardare a lasciarmi di nuovo solo con lui» minacciò prima di scostarsi da quel tocco per dirigersi verso le proprie stanze.

Dumas ancora seduto si limitò ad un’alzata di spalle. Rimbaud lo raggiunse dopo essersi tolto sciarpa e cappotto, per poi versarsi un bicchiere di vino,

«Paul non ama chiacchierare» sussurrò a mo di scusa,

«La colpa è mia, volevo capire i suoi sentimenti…»

«Immagino non sia andata bene»

«É convinto di non essere degno di amore» Rimbaud si abbandonò ad un sospiro stanco, di chi si era scontrato più volte sull’argomento

«Sin dal giorno in cui ci siamo incontrati lotto contro quest’idea. Paul si crede un mostro, un’arma. La gravidanza non ha aiutato anzi forse ha solo peggiorato le cose»

«Ti sei scelto un amante difficile» Arthur sorrise appoggiando le labbra contro il bicchiere,

«Prima o poi riuscirò a fargli apprezzare la propria umanità. Desidero solo che Paul capisca l’importanza della sua esistenza»

«Spero davvero che tu possa riuscirci»

 

***

 

Realtà originale

 

Quando Baudelaire riemerse da quella fantasia fu accompagnato da un senso di vertigine. Si aggrappò alla prima sedia disponibile mentre con la coda dell’occhio osservava il viso pallido e perfetto di Black ancora profondamente addormentato. Scivolò sul pavimento mettendosi a sedere e prendendosi il volto con entrambe le mani.

Quel sogno era assurdo. Una follia. Non solo quel mostro possedeva la capacità di riprodursi ma aveva dato alla luce il figlio del suo Paul. Imprecò tra i denti, ripensando a quel bambino a cui Rimbaud aveva dato il suo nome.

Una volta calmatosi dallo shock, Charles ripensò alle nuove informazioni che aveva acquisito. Alexandre Dumas era vivo. Si chiese se fosse così anche nel loro mondo e se nel frattempo Hugo ne fosse venuto a conoscenza. 

Aveva compreso di come l’ex Poète avesse finto la propria morte per proteggere l’amante ma c’erano ancora parecchie zone d’ombra intorno al suo operato, come la scelta di recarsi a Londra o i legami con gli esponenti della Torre dell’Orologio. Doveva recuperare in fretta le energie e tornare in quella realtà. Voleva assistere al proprio incontro con Paul, vedere la sua reazione.

Fu in quel momento che Carroll entrò nella stanza facendogli prendere un colpo. Per un istante si era completamente dimenticato della sua esistenza.

«Stai bene?» domandò l’inglese incerto, notando il viso pallido di Baudelaire

«Tu cosa credi? Hai visto ciò che sta succedendo»

«Ammetto che la gravidanza mi ha colto di sorpresa ma in fondo viviamo in un mondo in cui esistono individui dotati di Abilità Speciali. Vedere Black dare alla luce un bambino non è così assurdo come il mio Wonderland o i tuoi Fleurs du Mal»

«Anche questa realtà finirà con la morte di Paul?» domandò Baudelaire dopo qualche istante di silenzio. Carroll annuì con un cenno del capo,

«Presto o tardi ogni sogno si trasforma in un incubo. Non si può sfuggire da questa regola»

«Come pensi che reagirà al suo risveglio?» mormorò indicando il biondo

«Sempre ammesso che voglia farlo» il Poète gli regalò uno sguardo confuso, 

«Ha abbandonato Paul e suo figlio. Perché dovrebbe rimanere in un mondo simile?»

«Penso che quella decisione nasconda altro» Baudelaire odiava ammetterlo ma Carroll aveva ragione.

Verlaine era incapace di accettare la morte di Rimbaud, tanto da averlo seguito in quella follia. Era impensabile che avesse rinunciato al proprio partner, così su due piedi.

«Lo scenario di questa realtà è ancora più complesso del precedente»

«Una singola decisione ha prodotto simili cambiamenti»

«La mia Abilità è temuta proprio per questo, immagina cosa potrebbe succedere se qualcuno dovesse rendere reali quelle fantasie»

«Un potere simile si trova solo nelle pagine del Libro»

«Riscrivere la realtà» mormorò l’inglese con fare pensieroso

«Cosa ne pensa la tua Organizzazione?»

«Non ne so molto, credo che come la Francia o la Germania dispongano di una pagina, come stabilito dallo statuto di Standard Island al termine della Guerra»

Baudelaire annuì.

«Penso di essermi riposato abbastanza»

«Non vedi l’ora di tornare eh?»

Charles sorrise, prevedendo la mossa successiva del proprio alter ego. Che si trattasse di una fantasia o meno poco importava. Voleva assistere alla reazione di Rimbaud al loro incontro. Aveva immaginato per anni quel momento, non se la sarebbe perso per nulla al mondo.











 

«*Eterna anima mia,

mantieni il tuo voto

malgrado la notte di solitudine 

e il giorno di fuoco»

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Capitolo 13
*** XIII Stagione - Autres vies ***


XIII Stagione - Autres vies

 


 


«Je devins un opéra fabuleux; je vis que tous les êtres ont une fatalité de bonheur: l’action n’est pas la vie, mais une façon de gâcher quelque force, un énervement. La morale est la faiblesse de la cervelle»*

Une Saison en Enfer – Autres vies



 



 




 

Wonderland 

Londra


«Odio questo clima. La pioggia, l’umidità» si lamentò Baudelaire dopo l’ennesimo starnuto. Stendhal non riuscì a trattenere un sorriso mentre osservava con la coda dell’occhio il proprio sottoposto,

«Non eri tu quello che non vedeva l’ora di arrivare?» lo punzecchiò divertito

«Prima una dannata tempesta, ora questo clima autunnale, non ti ci mettere anche tu Henri»

«Penso che a Rimbaud questo ambiente si addica, ricordo che è sempre stato un tipo freddoloso» Charles annuì distrattamente. Era una delle caratteristiche peculiari di Paul, quel costante senso di gelo che lo accompagnava sin dall’infanzia. Baudelaire si era più volte interrogato sull’origine di tale sensazione ma il moro aveva sempre alzato le spalle con noncuranza, minimizzando il problema.

«Allora come intendi procedere?» domandò al superiore prima di affrettarsi a recuperare i loro pochi bagagli.

«Mi recherò alla sede principale della Torre dell’Orologio sia per porre i miei omaggi a Dame Agatha Christie che per indagare su Rimbaud. Cercherò anche di capire il loro grado di coinvolgimento in questa storia»

«Ok io allora andrò a ispezionare la villa menzionata nel rapporto»

«Charles?»

«Si?»

«Mi raccomando fa attenzione e niente colpi di testa»

«Per chi mi hai preso?»

Stendhal fissò a lungo la figura del giovane allontanarsi. Era stato un azzardo coinvolgere Baudelaire in quell’operazione ma Victor aveva le sue ragioni, vi era una sola persona che Rimbaud avrebbe ascoltato e quella non poteva essere altri che Charles Baudelaire. 

C’erano delle volte, in cui Hugo sapeva essere davvero spietato. Avevano impedito per un soffio la caduta di Parigi, ma il conflitto non stava volgendo a loro favore. Rimbaud faceva parte dell'élite dei Trascendentali, i Poètes non potevano privarsi di una risorsa tanto preziosa. Oltre a questo, si sommava il problema di Black che vagava a briglia sciolta nel continente europeo.

Era inutile lasciarsi prendere dallo sconforto, dovevano procedere per gradi, iniziando col completare con successo quella missione.

Stendhal raggiunse in una mezz’ora l’edificio che fungeva da Quartier Generale dell’intelligence inglese. Fu appena varcato l’ingresso che un profilo familiare attirò la sua attenzione. Erano trascorsi diversi anni da quando aveva incrociato la propria strada con quell’individuo che non sembrava essere invecchiato di un giorno dal loro ultimo incontro,

«Sei davvero tu Edmond?» lo chiamò confuso

L’uomo si fece improvvisamente immobile, per poi voltarsi nella sua direzione,

«Henry?»

 

***

 

Quella mattina Rimbaud aveva preferito rimanere nella villa di Dumas, c’erano parecchi incartamenti che avrebbe dovuto sistemare ma più di tutto, desiderava trascorrere del tempo con il piccolo Charlie. Sapeva di aver trascurato il figlio ma dalla fuga di Verlaine le giornate si erano susseguite in modo confuso e frenetico.

Arthur non riusciva ad accettare il fatto che il biondo li avesse abbandonati, che fosse scomparso nel cuore della notte senza nemmeno lasciare un messaggio. Se da un lato poteva dire di esserselo aspettato, dall'altro aveva sperato fino all’ultimo nel contrario. Si prese qualche istante per osservare Charles che tra le sue braccia lo scrutava con occhi curiosi ancora dal colore indefinito. Il Poète non aveva il minimo dubbio sulla tonalità che avrebbero assunto, erano identici a quelli del compagno. Una copia perfetta di quelle iridi che avevano sempre avuto lo straordinario potere di calpestare ogni sua certezza.

Terminò di dare il biberon al figlio, prendendo a cullarlo dolcemente. Rimbaud non aveva alcun genere di esperienza con i neonati ma la nutrice assunta da Dumas gli aveva insegnato un paio di trucchi utili per ogni evenienza. Charles era un bambino tutto sommato tranquillo, ma se provocato o trascurato era capace di piangere per ore intere. Per il momento non aveva manifestato nessuna Abilità Speciale ma era davvero ancora troppo piccolo per poterne essere sicuri. A tempo perso Arthur aveva iniziato a stilare una lista dei possibili orfanotrofi nei dintorni della capitale inglese, molti dei quali già allo stremo per la numerosa quantità di bambini ritrovatisi improvvisamente senza genitori. Quella non era altro che l’ennesima conseguenza di quel conflitto, era la popolazione civile a pagare il prezzo più alto di quei giochi di potere.

Dopo l’ennesimo sbadiglio, decise di affidare il piccolo alla balia per potersi dedicare al proprio lavoro. Agatha Christie lo aveva prontamente aggiornato sull’arrivo di Paul a Parigi. Erano trascorse diverse ore da quando aveva ricevuto quell’informazione, quindi era altamente probabile che Hugo lo avesse già raggiunto. Tremò al solo pensiero di un possibile incontro fra quei due.

«Paul»

Rimbaud si voltò di scatto, avrebbe riconosciuto il suono di quella voce tra mille. Solo una persona si rivolgeva a lui in quel modo, un fantasma che mai come in quel momento gli era sembrato tanto reale.

«Sono così contento di vederti» prima che potesse realizzare cosa stesse succedendo Baudelaire lo abbracciò. 

Fu allora che Arthur comprese come quel Charles fosse tangibile e non l’ennesima fantasia partorita dalla propria mente.

«Charles» mormorò confuso prima di ricambiare quella stretta impacciato.

«Perdonami» Rimbaud lo osservò smarrito, afferrando solo in un secondo momento il senso di quelle parole. Gli tirò uno schiaffo per poi allontanarsi di un paio di passi. Baudelaire era esattamente come lo ricordava, forse solo i capelli erano leggermente più corti. I riccioli ribelli che tanto aveva amato erano scomparsi, lasciando il posto ad un taglio militare.

«Ti credevo morto» fu tutto ciò che riuscì ad articolare. Baudelaire prese a massaggiarsi la guancia lesa. Se lo era aspettato. Era una reazione legittima.

«Mi dispiace»

«Cinque anni, Charles»

«Io ne ho passati dieci a piangere sulla tua tomba, possiamo dire di essere pari» 

Rimbaud si prese il volto fra le mani.

«Eri in prigione. Stendhal ti aveva catturato. Mi hai detto addio. Ho letto il rapporto di Victor sulla tua esecuzione» aveva solo una gran confusione in mente. Doveva sedersi, fare il punto della situazione. 

Charles Baudelaire era vivo. Quella era l’ultima cosa che si sarebbe aspettato. Rimbaud non aveva mai preso in considerazione quella possibilità, forse perché sapeva che affidarsi ad un’illusione non avrebbe portato a nulla di buono. 

I morti non possono tornare in vita e solo gli stolti credono il contrario.

Era l’ennesimo insegnamento di Hugo. Si domandò come avrebbe reagito Victor di fronte a Dumas, se quelle regole avessero mai avuto un qualche significato per lui. 

Ancora una volta tutte le sue certezze erano crollate come un castello di carte. Arrivato a questo punto c’era solo una cosa che Rimbaud poteva fare, mescolare il mazzo e ricominciare. 

All’improvviso, la balia fece il proprio ingresso nella stanza. Il piccolo Charlie tra le sue braccia stava piangendo disperato,

«Perdonatemi Sir ma non riesco a calmarlo, sono venuta a prendere il biberon. Non volevo interrompervi» ammise con un inchino notando Baudelaire. Arthur si passò una mano sulla tempia, invitandola con un cenno ad avvicinarsi.

«Faccio io» si limitò ad aggiungere prima di recuperare il figlio tra le braccia della donna, per poi congedarla. Riconosciuto il padre, il piccolo smise immediatamente di piangere.

«Incredibile sei tale e quale a lui» mormorò innamorato in direzione della creatura stretta contro il proprio petto.

Baudelaire non aveva fiatato. Si era limitato ad osservare l’intera scena trattenendo inconsciamente il respiro. Sapeva di quel bambino. Aveva letto della sua esistenza nel rapporto di Hugo. Vederlo però era diverso. Per la prima volta il suo cervello realizzò il peso di quell’informazione. Il suo Paul aveva avuto un figlio da quel mostro. Quel neonato che ora si trovava tra le braccia di Rimbaud.

«Scusami ma è viziato esattamente come suo padre» furono le successive parole di Arthur che lo riportarono alla realtà.

Charles annuì sporgendosi quel tanto che bastava per osservare meglio l’essere rannicchiato tra le braccia del proprio ex amante. Aveva in tutto e per tutto un aspetto umano, non che si fosse aspettato il contrario. Di Black conosceva le fattezze solo per averlo visto ritratto in qualche fotografia. Ricordò di aver maledetto la perfezione di quel volto. Quella bellezza così innaturale.

«Ti somiglia» disse la prima cosa che gli passò per la mente. Non era molto pratico di neonati o bambini in generale. Dopo una prima occhiata però non poté fare a meno di notare come il nasino del piccolo fosse una perfetta copia di quello del suo Paul. Baudelaire ricordò di come ne avesse tracciato più volte i contorni in quell’unica notte d’amore. 

«Lo dici solo perchè non hai mai incontrato Paul, credimi è la sua copia»

«Paul» mormorò tra i denti «Gli hai dato il tuo nome» Rimbaud lo fissò sbigottito, prima di aggiungere con un sorriso,

«Perchè non conosci ancora il nome di questo giovanotto, Charles ti presento Charles»

«L’hai chiamato davvero…» non ci poteva credere.

«Il suo nome completo è Charles Alexandre Marie Rimbaud Verlaine. Ti piace? Quando mi sono trovato a dover decidere, il tuo era il solo nome che avessi in mente» confessò guardandolo negli occhi non smettendo di sorridere dolcemente. Baudelaire non lo aveva mai visto assumere un’espressione simile. Sembrava così felice.

«E immagino che il tuo mostro non abbia avuto voce in capitolo» a quelle parole le labbra di Rimbaud si contrassero lievemente. Baudelaire si accorse dell’errore,

«Scusa» si affrettò ad aggiungere «forse ho detto qualcosa di inopportuno»

«A Paul non importa di nostro figlio, anche se devo ammettere che si è arrabbiato parecchio quando ha saputo che gli avevo dato proprio il tuo nome»

«Gli hai raccontato di noi?» questo Baudelaire non se lo aspettava. Arthur abbassò il capo tornando a dedicare tutta la propria attenzione al figlio,

«Non ho potuto evitarlo» il Poète odiò quell’espressione, il sentimento che trasmetteva, di amore puro. Si rese conto in quel momento di avere un nuovo rivale per il cuore di Paul, uno che non sarebbe mai riuscito a superare.

«Io non ti avrei mai lasciato» affermò con sicurezza cercando di riprendersi da quella scoperta.

«Charles»

«Aspetta, lasciami finire. Mi sono unito ai Poètes in attesa di questo giorno. Solo per poterti incontrare e parlare di nuovo come tuo pari. Quando Henri cioè Stendhal mi ha arrestato, ho scoperto di possedere un’Abilità Speciale. Per questo mi hanno risparmiato. Sono diventato un membro dell’intelligence solo per poterti rivedere» Rimbaud scosse il capo,

«Charles avevi un futuro, una vita intera davanti, perché lo hai fatto? Sei un idiota»

«Non lo sai? Eppure mi sembrava di avertelo confessato anche tra le sbarre di quella prigione, io ti amo Paul. L’unico futuro che voglio è insieme a te» il silenzio che aveva seguito quella dichiarazione venne rotto dall’ennesimo urlo del piccolo tra le braccia di Rimbaud. 

«Charles mi dispiace, non posso» fu la sola risposta del moro, mentre cercava disperatamente di calmare il neonato

«Hai un figlio. Va bene. Possiamo crescerlo insieme»

«Non capisci Charles. Paul. Lui. Ecco devo trovarlo» sapeva che non era tenuto a dargli spiegazioni ma lo sguardo che gli rivolse lo fece sentire quasi in errore.

«Come puoi amare quel mostro?» 

«Non è un mostro, ed è suo padre» 

«Semmai sua madre» sbuffò acido il Poète guadagnandosi l’ennesimo schiaffo. 

«Perché sei qui Charles?» domandò dopo parecchi minuti di silenzio. Il piccolo aveva finalmente smesso di piangere e sembrava in procinto di addormentarsi. Teneva stretta tra le mani una ciocca di capelli di Rimbaud. Era un’immagine così dolce che quasi non riuscì a sopportarne la vista.

«Lo sai» mormorò il Baudelaire incrociando il suo sguardo con tono di sfida.

«Puoi riferire a Victor che non ho intenzione di tornare. Non gli permetterò di mettere le mani su mio figlio»

«Black è tornato a Parigi»

«So anche questo» rispose con quell’aria di superiorità che Baudelaire ricordava e che nonostante tutto gli era mancata. Sarebbero potuti trascorrere altri cinque, dieci, anche vent’anni ma i suoi sentimenti per Rimbaud non sarebbero mai mutati.

«Stiamo perdendo la guerra Paul, abbiamo bisogno di tutti i nostri agenti e tu sei uno dei migliori» Arthur sorrise tristemente,

«Vi servo solo perché avete paura di Paul. Temete di non riuscire a controllare il suo potere e avete ragione, sono il solo ad aver decifrato il “Segreto della Foresta Gentile”»

«Hugo è preoccupato per te e lo sono anche io. Come puoi fidarti di questi inglesi?»

«A Vic interessa solo di se stesso. Non sono altro che una delle sue numerose pedine. Lo sono sempre stato»

«Non è vero e lo sai»

«É lo stesso individuo che mi ha consegnato un verbale sulla tua morte, che mi ha consolato. Come puoi pretendere che possa ancora fidarmi delle sue parole?»

«Hai ragione però..»

«Darò il bambino in adozione e mi riprenderò Paul»

«Stai scherzando?» era l’ultima cosa che Baudelaire si sarebbe aspettato di sentire

«Non sono mai stato tanto serio. Nel caso non te ne fossi accorto Charles siamo in guerra, Londra ha subito un attacco aereo la notte in cui è nato» aggiunse con un filo di voce, il ricordo di quelle ore era ancora troppo vivido nella sua mente. Le urla di Verlaine, la rabbia per non poter essere accanto al proprio compagno in un momento tanto importante.

«Come?»

«Ho protetto questa casa con la mia Abilità ma non è questo il punto. Sono una spia, avere una famiglia è un lusso che posso permettermi» Charles scosse la testa contrariato,

«Se quel mostro fosse qui le cose sarebbero diverse?»

«Non lo so» ammise alzando le spalle e regalando l’ennesimo sguardo innamorato al figlio ormai profondamente addormentato.

«Sei cambiato Paul»

«Quante volte ti ho detto di chiamarmi Arthur? Quello per me ormai è il suo nome»

«Come puoi amarlo dopo quello che ti ha fatto? Se ne è andato, ti ha abbandonato e ha fatto lo stesso con vostro figlio» pronunciò quelle ultime parole con disprezzo, quasi con rabbia. Black aveva ricevuto tutto ciò che a lui era sempre stato negato. L’amore di Rimbaud, la possibilità di una famiglia con lui.

«Non lo conosci» la freddezza di quel tono di voce lo colpì. Quell’Arthur era così diverso dal Paul che ricordava.

«Non mi serve conoscerlo per odiarlo. Aveva il tuo amore e l’ha gettato al vento. Non potrò mai perdonarlo per una cosa simile. Cosa avrà mai di tanto speciale?» Arthur chinò il capo, non era facile da spiegare. Nemmeno lui comprendeva a fondo il legame che lo univa al biondo. Charles e Paul non potevano essere più diversi ma a modo suo aveva amato entrambi. Erano semplicemente stagioni diverse della propria vita. Baudelaire rappresentava la sua infanzia, giovinezza, la spensieratezza e la gioia che avevano accompagnato quel primo e sfortunato amore. Verlaine era un sentimento più maturo, consapevole, coltivato giorno dopo giorno attraverso le difficoltà attraversate insieme.

«Dopo la tua morte avevo deciso di rinunciare ai sentimenti. Volevo concentrarmi sul lavoro e diventare la spia perfetta che Victor sognava. Poi ho incontrato Paul. Mi è stato affidato. Era come un bambino al quale dovevo insegnare ogni cosa.»

«Ti sei lasciato abbindolare da un bel faccino»

«Non essere crudele»

«Quello che provo per te non è cambiato Paul. Sono ancora lo stesso ragazzo che hai lasciato in quel appartamento parigino. Possiamo ricominciare da dove ci siamo interrotti»

«Ciò che mi chiedi è impossibile» mormorò. Il piccolo Charles continuava a dormire sereno, aggrappato contro il suo petto. Ignaro di ciò che accadeva intorno a lui.

«Sono disposto anche ad accettare tuo figlio e crescerlo come se fosse mio»

«Charlie ha già un padre»

«Che alla prima occasione vi ha abbandonato»

«Lui non è come credi» Rimbaud per primo voleva convincersi di quelle parole. Era certo che in qualche angolo recondito della propria mente Verlaine amasse suo figlio, doveva solo imparare ad accettarlo. Il biondo aveva sempre sofferto per la propria natura di essere artificiale e affrontare una gravidanza non lo aveva certo aiutato. Eppure c’erano stati dei momenti in cui Arthur aveva intravisto una briciola di umanità attraversare quelle iridi di ghiaccio. Paul si era convinto di non provare sentimenti e lui aveva fatto l’impossibile per persuaderlo del contrario. I loro litigi spesso vertevano proprio su questo. Rimbaud desiderava solo che Verlaine potesse accettare la propria umanità e che capisse quanto la sua esistenza fosse importante, preziosa.

«Come puoi difenderlo, è un mostro, un insieme di codici, un esperimento»

«Paul è molto più umano di me, anche io sono un assassino Charles. Non scordarlo»

Baudelaire dimenticava fin troppo spesso quale fosse il vero volto dell’intelligence o dei Poète Maudits. Lui stesso non era un santo, anche se non aveva mai ucciso direttamente qualcuno aveva provocato la morte di parecchie persone utilizzando la propria Abilità.

«Vedo che hai compreso» continuò Rimbaud 

«Sei ancora il mio Paul»

«Quel ragazzino è morto Charles, devi accettarlo»

«Come puoi chiedermi di farlo? Se non ci avessero separato, ti sei mai chiesto come sarebbe andata a finire tra di noi?» Arthur gli regalò un sorriso stanco, nostalgico,

«Eri morto per un mio errore»

«Ora però sono qui, sono vivo» tentò prendendogli la mano

«Ormai è tardi» mormorò scostandosi dalla sua presa

«Torniamo a Parigi insieme» 

«Non chiedermelo più Charles»

«Paul»

«Mi chiamo Arthur»

Baudelaire avrebbe voluto replicare ma vennero nuovamente interrotti dall’arrivo di Stendhal e di un uomo che Charles era certo di non aver mai incontrato.

«Lex ma cosa?» mormorò Rimbaud allarmato,

«É una lunga storia, che ne dite se ne parliamo di fronte ad una tazza di tè?» propose Dumas

«Henri chi è quell’uomo?» domandò Baudelaire una volta raggiunto il proprio superiore,

«Scusa se non mi sono ancora presentato, sono Edmond Dantes, o almeno questo è il nome e aspetto che ho assunto per infiltrarmi nella Torre dell’Orologio» concluse sorridente prima di disattivare la propria Abilità,

«ma tu puoi chiamarmi Alexandre Dumas»

Baudelaire era senza parole.

«Allora che ne dite, vi va una tazza di tè?» 

Rimbaud alzò gli occhi al cielo, quella giornata si sarebbe rivelata più lunga del previsto.

 

***

 

Wonderland

Londra 

- qualche ora prima-


«Sei davvero tu Edmond?» 

«Henry?»

Edmond Dantes non era altro che uno dei numerosi alter ego di Alexandre Dumas. La sua Abilità Speciale, “Un pour tous, tous pour un” (uno per tutti, tutti per uno) consisteva nel modificare a piacimento il proprio aspetto. Era un’Abilità preziosa per una spia, grazie ad essa aveva potuto completare moltissime missioni sotto copertura. In pochi potevano dire di conoscere il vero aspetto di Dumas. Il Diavolo Nero, così veniva soprannominato nei salotti dell’intelligence, per la propria pericolosità e bravura.

Stendhal non aveva faticato a distinguere Edmond tra la folla, anche se per qualche secondo aveva creduto di esserselo immaginato. Ultimamente aveva pensato spesso a lui, a quell’uomo morto più di dieci anni prima, chiedendosi se la sua presenza avrebbe potuto influire o meno sul comportamento e le decisioni prese da Hugo durante la guerra.

«Sei vivo» fu tutto ciò che riuscì a dire una volta che si trovò a pochi metri da lui

«Abbassa la voce Henry» lo ammonì guardandosi intorno con sospetto

«Victor lo sa?» Dumas alzò gli occhi al cielo in un’espressione fin troppo simile a quella di Rimbaud

«Perchè tutti mi domandate la stessa cosa? Se Vic lo sapesse credi che mi troverei qui?» Stendhal si trovò ad annuire ancora sotto shock,

«Ma come hai fatto?»

Una parte di lui aveva sempre sospettato che dietro la scomparsa di Dumas si celasse altro. In fondo se c’era qualcuno in grado di sfuggire ad Hugo quello poteva essere solo Alexandre Dumas, numero due dell’intelligence francese.

«Non qui» disse l’uomo trascinandolo verso un luogo più appartato.

«Se cerchi Agatha è partita per l’Irlanda» mormorò dopo qualche minuto osservandolo da capo a piedi. Stendhal non ne fu particolarmente sorpreso, c’era solo un motivo per il quale si era recato alla Torre dell’Orologio.

«Sono passato solo per porgerle i miei saluti» Dumas gli sorrise

«Che pensiero premuroso. Andiamo Henry so perché sei qui, non perdiamo tempo in inutili convenevoli»

Stendhal aveva quasi dimenticato che uomo fosse Dumas. A prima vista Lex poteva sembrare una persona solare, simpatica e affabile, in realtà celava la propria personalità. Aveva di fronte il solo uomo che fosse mai riuscito a tenere sotto scacco Hugo, oltre che a sfuggire per una decade dal suo controllo. Non doveva sottovalutarlo. Dumas poteva rivelarsi un nemico insidioso, doveva giocare bene le proprie carte. 

«Va bene mi hai scoperto sono qui per Arthur, tu invece? Cosa ci fai insieme agli inglesi?»

«É una lunga storia»

«Sono tutto orecchi» Dumas gli sorrise

«Lo sto facendo per Victor»

«Chissà perché non ne avevo il minimo dubbio» si era aspettato una risposta simile. 

La loro relazione era sempre stata sotto gli occhi di tutti, anche se i diretti interessati non avevano mai ufficializzato o smentito la cosa, quel legame era palese. Stendhal non ricordava di aver mai visto Hugo sorridere se non in presenza di Dumas. Quei due avevano addestrato insieme il piccolo Rimbaud, ricordandogli cosa fosse il calore di una famiglia. Quando Stendhal era entrato nel mondo segreto dell’Intelligence, Victor gli era parso come un uomo severo, spaventoso, circondato da un’aria di autorità e dotato di un’incredibile intelligenza strategica. Vederlo occuparsi di Arthur, crescerlo, gli aveva dato modo di intravedere un lato più umano che mai si sarebbe aspettato dal proprio superiore. Solo in seguito alla morte di Dumas, Hugo era tornato ad essere freddo e impenetrabile.

«Non fare troppo lo spiritoso» 

«Quando Victor scoprirà la verità diventerà una furia» Dumas rispose con una scrollata di spalle,

«Nulla che non abbia già previsto o che non possa gestire. Vic non ha mai realmente creduto alla mia morte»

«Non ha versato una lacrima»

«Non ci provare Henry. Conosco Vic da molto più tempo di te e non è il solo a disporre di una fitta rete di informatori» aveva pronunciato quelle parole con un sorriso cordiale ma Stendhal aveva intuito il messaggio. Non avrebbe iniziato una guerra con l’ex numero due dell’intelligence, soprattutto se l’argomento centrale era Hugo. Decise di cambiare strategia,

«Allora sei tu il misterioso amico di Agatha Christie che ha aiutato Rimbaud e Black a nascondersi»

«Cosa te lo fa pensare?»

«Provi affetto per Arthur, in fondo tu e Hugo lo avete cresciuto»

«Solo per qualche anno poi sono morto»

«Lo stai proteggendo. Lui e il bambino»

«Vic è incredibile» Dumas sapeva che non si poteva nascondere nulla al leader dei Poètes ma vi erano delle volte che Hugo aveva ancora la forza di sorprenderlo.

«Al tuo posto probabilmente avrei fatto lo stesso» confessò inaspettatamente Stendhal. Dumas sbuffò,

«Arthur ha sempre avuto un animo ribelle sin dall’infanzia, non mi ha sorpreso venire a conoscenza del suo ex amante, come nel vederlo disobbedire così apertamente agli ordini di Victor»

«Ti ha raccontato di Charles?» questo non se lo aspettava,

«Ha chiamato suo figlio con quel nome» fece una breve pausa «Non è morto vero?»

Il capo della sezione interrogatori annuì.

«Ne ero sicuro. Vic ha sempre avuto un cuore tenero» Stendhal storse il naso. Lui non avrebbe mai utilizzato un simile aggettivo per descrivere Hugo. Nessuno sano di mente lo avrebbe fatto. 

«É un mio sottoposto e mi ha accompagnato in questa missione. Possiede un’Abilità Speciale di controllo mentale» si limitò a spiegare. Dumas non parve sorpreso. 

«Fammi indovinare, ora si trova insieme a Rimbaud?»

«Probabilmente»

«Arthur non rinuncerà mai a Black» si sentì in dovere di informarlo.

«Quel mostro è pericoloso, non possiamo lasciarlo libero di vagare per il continente. Solo Rimbaud sa come fermarlo»

«Credimi è molto più simile ad un essere umano di quanto tu creda»

«Ha davvero avuto un bambino?» quella era la notizia che più lo aveva colpito e che gli aveva fatto accapponare la pelle. 

«Ammetto che all’inizio non volevo crederci. Quella notizia è stata uno shock per tutti»

«Il suo aspetto?»

«Oh è umano ed è un perfetto mix di entrambi ma penso che a Victor interessi più sapere se abbia o meno una qualche Abilità»

«Come sei riuscito a nasconderli agli inglesi?»

«Vic non è il solo a possedere una vasta rete di informatori e alleati. Ti ricordo inoltre che posso assumere l’aspetto di chiunque»

A volte Stendhal si dimenticava della pericolosità di Dumas. Grazie alla propria Abilità l’ex numero due dell’intelligence francese avrebbe potuto anche spacciarsi per la Regina, l’unico limite di quel potere consisteva nella sua durata, un’ora o poco più.

«Avresti potuto impersonare Black e ingannare Rimbaud»

«L’unica volta che ci ho provato mi ha smascherato e aggredito. Non sottovalutare mai l’amore Henry» Stendhal non si lasciò abbindolare da quelle parole, né dal sorriso cordiale dell'ex spia 

«Credi che Baudelaire possa convincerlo a tornare?» domandò incerto

«Arthur è sempre stato imprevedibile, l’unica cosa di cui posso essere sicuro è che non si arrenderà. Vuole riprendersi Black»

Stendhal annuì pensieroso. Provò ad immaginarsi un possibile incontro tra Baudelaire e Rimbaud. Pregò solo che il proprio sottoposto non arrivasse a commettere l'ennesima follia.

«Vieni, andiamo a casa mia. Li potremmo parlarne con calma»

«Perchè li hai aiutati?» Dumas si fermò al centro della strada,

«Non avrei dovuto? Arthur è come un fratello minore per me, è stato divertente vederlo ribellarsi a Victor e a quelle sciocche regole»

Il Poète chinò il capo. Qualcosa gli suggeriva di non fidarsi delle parole di Dumas. Tuttavia, decise di seguirlo lungo le fredde vie della capitale inglese. 

 

***

 

Parigi

 

Era passato quasi un anno dall’ultima volta in cui Verlaine aveva varcato la soglia del rifugio che condivideva con Rimbaud e non fu affatto sorpreso di trovare quel posto esattamente come lo aveva lasciato. Anche la città non era cambiata. Parigi era quasi caduta ma il suo popolo aveva saputo resistere, respingendo il nemico prima che arrivasse a deturpare la bellezza della propria capitale.

Dopo aver ispezionato velocemente l’abitacolo, il biondo rimase per qualche secondo immobile, al centro della stanza, completamente assorto nell’osservarne il letto matrimoniale. Le lenzuola erano ancora sfatte e ricoperte da un leggero strato di polvere. 

L’ultima notte che avevano trascorso tra quelle mura avevano concepito Charles. 

Quel piccolo parassita che Paul aveva ospitato per mesi all’interno del proprio corpo e che aveva abbandonato a Londra insieme a Rimbaud. Si passò inconsciamente una mano sul ventre, ormai completamente piatto. Anche quella era un’ulteriore riprova della propria mostruosità. In un paio di giorni dal parto, Verlaine aveva recuperato non solo le forze ma anche tutta la propria energia e vigore.

Tornare in Francia era stata l’unica soluzione possibile anche se parecchio sofferta. Non avrebbe mai voluto separarsi da Arthur. Paul l'aveva fatto solo per il bene del proprio compagno e per estensione del bambino, per proteggerli.

Ripensò alla conversazione avuta con Dumas il giorno dopo il parto e a come fosse arrivato a maturare tale decisione.

 

Rimbaud aveva appena lasciato le sue stanze portandosi dietro il bambino. Paul non aveva voluto prenderlo in braccio. Non si sentiva ancora pronto ad accettare il fatto di aver dato alla luce quella creatura. Aveva scrutato quell’essere, resistendo all’impulso di strapparlo dalle braccia del compagno solo per stringerlo contro il proprio petto. In quell’occasione aveva preferito fuggire, nascondendosi sotto strati di coperte per evitare di cedere a quell’istinto così debole e umano. Diede la colpa di tutto agli ormoni impazziti che circolavano nel proprio corpo.

«Come ti senti?» Alexandre Dumas aveva interrotto il filo dei suoi pensieri con un tono di voce talmente affabile da suonare falso, costruito. Verlaine aveva sempre guardato quell’uomo con timore misto a sospetto. Nessuno così legato a Hugo poteva vantare delle buone intenzioni o aiutarli senza riceverne un qualche tornaconto. Verlaine aveva accettato quella situazione solo per Rimbaud. Il compagno si fidava dell’ex Poète, così tanto da arrivare ad affidargli le loro vite.

«Tu che dici?» rispose riemergendo dal proprio nascondiglio solo per poterlo guardare negli occhi. Più volte si era interrogato su quale fosse il vero colore di quelle iridi, se mai lo avesse intravisto fra tutte quelle maschere.

«C’è stato un attacco aereo durante la notte» si limitò ad informarlo il padrone di casa scrutando i suoi lineamenti perfetti. Dumas lo trovò semplicemente bellissimo. Nonostante tutto, Black non aveva perso un briciolo del proprio fascino, anche con i capelli scompigliati e delle leggere borse sotto gli occhi restava una visione quasi eterea. Non poteva biasimare Arthur per aver perso la testa.

«Scusa ma ero leggermente impegnato, tanto da non essermene proprio reso conto» rispose con leggero sarcasmo

«Rimbaud ha protetto questo edificio e salvato le vite tutti noi» il biondo non sembrò particolarmente sorpreso da quella confessione,

«La sua Abilità» concluse con fare ovvio

«Voleva correre al tuo capezzale ma gliel'ho impedito» quell’ammissione stupì l’essere artificiale che tuttavia non si scompose,

«Non sarebbe cambiato nulla» non era vero. Verlaine ricordava di aver più volte urlato il nome di Arthur, di averlo maledetto e insultato, ma di aver anche desiderato con tutte le proprie forze di vederlo comparire al proprio fianco. Una strana sensazione di calore si fece largo nel suo petto. Solo Rimbaud poteva farlo vacillare in quel modo. Lo odiò ma detestò di più se stesso per la natura di quei pensieri così umani.

«Cosa conti di fare ora?» le parole di Dumas lo portarono alla realtà,

«Non credo di capire»

«Se le Organizzazioni europee scoprissero di questo bambino…» lasciò volutamente la frase in sospeso, era un discorso che lui e Arthur avevano più volte rimandato ma che prima o poi sapeva avrebbero dovuto affrontare

«É mio figlio, saprà difendersi»

«Un giorno forse ma per ora è solo un neonato»

«Rimbaud non permetterà che gli accada nulla» era una delle poche cose di cui aveva la certezza. Arthur aveva amato quella creatura ancora prima di conoscerla, esattamente come anni prima aveva fatto con lui.

«E tu?» Verlaine parve confuso dall’ennesima domanda,

«Sarò al suo fianco» Avevano tradito i Poètes per poter rimanere insieme, bambino o meno le cose tra loro non sarebbero cambiate,

«Credi che riuscirà a proteggere entrambi?»

«Cosa mi stai suggerendo?» perché Dumas doveva sempre parlare per enigmi? Verlaine resistette all’impulso di ucciderlo, anche se dubitava che nelle sue attuali condizioni vi sarebbe riuscito. In quel momento non era nemmeno certo di poter stare in piedi sulle proprie gambe.

«Siamo in guerra Paul. Gli eserciti di metà continente farebbero i salti mortali per averti dalla loro parte»

«Non intendo combattere per nessuno di loro» era la promessa che Rimbaud gli aveva strappato, la notte in cui tutto era iniziato.

Non sei un’arma

Arthur glielo aveva ripetuto fino alla nausea, tanto che Paul aveva quasi finito col crederci. La realtà però era sempre stata un’altra.

«Prima o poi Victor cercherà di prendersi questo bambino» concluse Dumas cercando di incontrare nuovamente il suo sguardo.

«Dovrà solo provarci» l’ex Poète sorrise, nonostante l’apparenza Verlaine amava suo figlio, così come il proprio compagno. Non aveva bisogno di prove o dichiarazioni, i fatti degli ultimi mesi parlavano chiaro.

«Sei un bersaglio, dovresti rendertene conto da solo»

«Che vuoi dire?»

«La Germania sta conducendo una ricerca insieme al Giappone. A quanto pare sono venuti in possesso di qualche appunto del Fauno» a quelle parole il biondo trasalì,

«Come è possibile?»

«Pensiamo vogliano replicare il tuo esperimento»

«Assurdo»

«Potrebbero creare un altro essere artificiale simile a te o averlo già fatto»

L’intervento di Dumas lo aveva spiazzato, fornendogli solo una nuova serie di interrogativi. 

Verlaine aveva sempre saputo di come la sua presenza avrebbe finito col mettere in pericolo Arthur. Il compagno non era debole ma non lo avrebbe trascinato in uno scontro che sapeva di non poter vincere.

Aveva trascorso quei mesi maledicendo la gravidanza e la propria condizione quando invece proprio grazie ad essa era rimasto nell’ombra, celato agli occhi di quel mondo che non aveva mai smesso di cercarlo. 

Hugo o la Torre dell’Orologio avrebbero fatto la propria mossa, era solo questione di tempo. Verlaine preferì non soffermarsi troppo sull’idea degli esperimenti tedeschi o sulla possibilità dell’esistenza di un’altra anima artificiale.

Rimbaud non aveva fatto altro che prendersi cura di lui. Era sempre stato così sin dal giorno in cui lo aveva liberato dal laboratorio del Fauno, in cui gli aveva donato un nome e una nuova vita. Arthur però non aveva mai compreso l’errore insito nella sua stessa esistenza. 

«Sono un mostro che non sarebbe mai dovuto nascere esattamente come quel bambino. Non permetterò che sia Arthur a pagare per i miei peccati»

La mia nascita è solo il risultato di un insieme di equazioni non un’opera di Dio

Dumas sorrise. «E come pensi di fare?»

«Tornerò a Parigi. Mi consegnerò ad Hugo. Se la Francia tornerà ad avere la sua arma, Arthur non sarà più costretto a combattere e a nessuno importerà del bambino»

Paul era sempre stato egoista, una bestia addomesticata e viziata dal proprio compagno. Quella era la prima volta che prendeva una decisione per il bene di qualcun altro. 

«Non te lo permetterà»

«Non serve che lo sappia»

«Lo lascerai davvero così? Senza una parola? Abbandoneresti persino la creatura che hai appena partorito?» Verlaine non si lasciò commuovere da quelle parole. Era stanco di sottostare al gioco dell’ex Poète. Erano tutti uguali, Dumas, Hugo, non faceva alcuna differenza. Non lo avrebbero mai lasciato in pace.

«Io odio Rimbaud, mi sembrava di avertelo già detto, sono un’anima artificiale che non prova emozioni»

«Puoi raccontarti questa storia all’infinito ma la realtà dei fatti non cambierà. Sei disposto a sacrificarti per loro. Se non è questa una massima espressione d’amore non so davvero cosa sia »

Verlaine assunse un’espressione disgustata. Non avrebbe mai potuto associare quella parola a ciò che provava per Arthur o per il loro bambino. Sarebbe semplicemente stato troppo.

Vennero interrotti da un leggero bussare.

«Scusami, credo che sia arrivata la nutrice che avevo richiesto per tuo figlio, o per caso desideri sfamarlo tu stesso?» il biondo sembrò non comprendere immediatamente il senso di quelle parole. 

Dumas allora indicò il suo petto facendolo arrossire. Uscì dalla stanza prima di venir colpito da un paio di cuscini e altri suppellettili. 

 

Paul aveva riflettuto a lungo sul da farsi e su quale fosse la strada migliore. Lui era stato creato per essere un’arma, non per giocare alla famiglia felice. Tornare al servizio dei Poètes avrebbe liberato Rimbaud dalla propria ingombrante presenza. Arthur avrebbe potuto prendere il figlio e crescerlo in un paese di campagna come in quello in cui lui stesso era cresciuto. Grazie a Verlaine la guerra si sarebbe conclusa in poco tempo. Era ancora assorto nei propri ragionamenti da non essersi reso conto di aver raggiunto la stanza del compagno. Entrò senza fare rumore muovendosi con passo felpato. 

Arthur riposava abbracciato ad un cuscino. Sembrava esausto. Probabilmente era crollato per la stanchezza. Quelle ultime ore non erano state facili per nessuno di loro. Si sorprese nel trovare il figlio ancora sveglio. Il neonato, disteso nella propria culla si limitava a fissare il genitore che lo aveva messo al mondo.

Verlaine resistette all'impulso di allungare una mano per sfiorarlo. Se lo avesse fatto, non sarebbe stato in grado di lasciarlo.

«Devo andarmene» disse con un filo di voce. Dubitava che un essere tanto piccolo potesse comprendere il senso di quelle parole. Charles però prese ad agitarsi iniziando istintivamente a muovere braccia e gambe.

«Mi hai riconosciuto?» domandò accennando ad un sorriso. In quei mesi più volte si era trovato a parlare da solo quel piccolo parassita che occupava abusivamente il suo ventre.

«Vincerò la guerra e tornerò da Arthur» fece una pausa «Fino ad allora, occupati di tuo padre. In fondo è solo un essere umano. Te lo affido »

Fu solo per un istante ma a Paul sembrò di percepire una variazione nella gravità della stanza. 

«Sarai anche mio figlio ma sei ancora troppo piccolo per utilizzare un’Abilità Speciale» concluse prima di voltagli le spalle.

 

***

 

Seduto su di un letto, a chilometri di distanza, Verlaine continuava a pensare al proprio compagno. Forse aveva commesso un errore a non coinvolgerlo in quel piano ma se lo avesse fatto era certo che Rimbaud avrebbe insistito per accompagnarlo.

«Sapevo che ti avrei trovato qui» una voce conosciuta lo strappò dai propri ricordi

«Voglio combattere per voi, intendo aiutarti a vincere questa guerra» Hugo sorrise incrociando le braccia al petto,

«Non lo credevo possibile ma la maternità ti ha reso in qualche modo più docile»

«Ho una condizione»

«Lo immaginavo»

«Lascia fuori Rimbaud e il bambino da questa storia» il sorriso del Poète si fece più largo, gli ricordò quello di una vecchia volpe,

«Non mi serve un agente perfetto se posso avere l’arma perfetta»



 

  

*Diventai un melodramma favoloso; vidi che tutti gli esseri hanno un destino di felicità: l’azione non è la vita, ma un modo di sciupare l’energia, uno snervamento. La morale è la debolezza del cervello.

 



 



 



 



 



 



 

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Capitolo 14
*** XIV Stagione - Mensogne ***


Stagione XIV - Mensonge








 

«Suis-je trompé? La charité serait-elle sœur de la mort, pour moi?

Enfin, je demanderai pardon pour m'être nourri de mensonge.»*

 

Une Saison en Enfer - Mensonge









 

Wonderland

-Londra- Villa di Dumas



 

Charles Baudelaire era rimasto in silenzio mentre ascoltava Alexandre Dumas narrare nei minimi particolari le circostanze del proprio incontro con Verlaine e Rimbaud. L’ex numero due dell'intelligence francese era un fiume di parole mentre raccontava della gravidanza del biondo o della sua successiva fuga.

«Quando sono arrivati con quel test tra le mani ho rischiato l’infarto. Non me lo sarei mai aspettato. Pensavo fosse uno scherzo. Ma dallo sguardo di Black ho capito quanto fossero seri. Immagino che anche a Victor sia venuto un colpo» concluse lanciando un’occhiata in direzione di Stendhal.

Il capo della sezione interrogatori ci pensò per una manciata di secondi,

«In realtà mi sembrava più adirato per il fatto che Black fosse tornato a Parigi lasciando Arthur e il bambino»

Dumas scoppiò a ridere mentre Rimbaud alzava per l’ennesima volta gli occhi al cielo. Era una situazione surreale, gli sembrava di trovarsi all’interno di un sogno o di una barzelletta di pessimo gusto. Incrociò per una frazione di secondo lo sguardo di Charles. Aveva dimenticato quanto quelle iridi fossero blu e come un tempo avesse amato quella particolare sfumatura di colore, così diversa dal ghiaccio che caratterizzava Paul. Prese un lungo respiro,

«Vado a preparare altro tè» propose prima di alzarsi di colpo. La vicinanza a Baudelaire lo metteva a disagio. Si sentiva come uno scolaretto di fronte alla prima cotta. Non era un comportamento da lui ma erano successe così tante cose che aveva bisogno di tempo per poter processare tutto con calma,

«Aspetta vengo con te» il comportamento di Charles non aiutava. Il giovane Poète si era alzato a sua volta e non aveva esitato a raggiungerlo in cucina.

Dumas e Stendhal si scambiarono una lunga occhiata che da sola valeva più di mille parole.

«Penso che Arthur lo abbia respinto» commentò il biondo con sicurezza, afferrando uno dei pasticcini e portandoselo elegantemente alle labbra,

«Charles non è un tipo che si arrende facilmente» l’ex Poète gli sorrise

«Lo intuivo o non lo avrebbe aspettato per tutti questi anni»

«Pensavo che la notizia del bambino lo avrebbe in qualche modo scoraggiato» ammise con sincerità il capo della sezione interrogatori

«Dagli tempo, è ancora giovane»

Stendhal preferì ignorare il senso di fastidio che aveva provato nel vedere Baudelaire gettarsi all’inseguimento di Rimbaud. 

Charles era solo un suo sottoposto. Un ragazzino ribelle che Hugo gli aveva affidato perché ne facesse in un agente. Un moccioso che ironia della sorte, possedeva lo stesso sguardo di Mathilde. Si accese una sigaretta.

«Lui come sta?» ovviamente anche Dumas doveva infierire sui propri poveri nervi già allo stremo,

«Non fingere di non saperlo o che te ne importi» forse aveva risposto troppo bruscamente, ma l’ex numero due dell’intelligence francese non sembrò farci troppo caso,

«Conosco solo le informazioni di pubblico dominio, quello che voglio sapere è come sta realmente» Stendhal giocherellò per qualche minuto con la sigaretta che teneva tra le mani prima di decidersi a rispondere,

«Perché te ne sei andato Alexandre?» era la prima volta che lo chiamava per nome ma una parte di lui era curiosa di sapere cosa l’avesse spinto a lasciare Hugo.

Il biondo gli sorrise tristemente, «cosa ricordi della guerra?» Stendhal lo fissò confuso,

«Di che guerra stai parlando? La stiamo ancora combattendo e perdendo»

Il sorriso sul volto di Dumas si incrinò. In fondo il Poète non poteva ricordare qualcosa che nel suo mondo non era mai avvenuto. Il potere del Libro era spaventoso, era una delle poche cose su cui lui e Vic si erano sempre trovati d’accordo. 

Se ne era andato perché Hugo potesse realizzare il suo sogno, perché nessuno arrivasse a mettere nuovamente le mani su un tale potere. Ma quella era un’altra storia, un passato che apparteneva a loro soltanto e che non poteva influire su quel presente o futuro. 

«Quando tornerete a Parigi, Victor scoprirà tutto. Forse mi perdonerà o forse no, deciderà in base alle informazioni che gli consegnerete» si limitò a mormorare, 

«Quali informazioni?» in fondo c’era voluto poco per ottenere l’attenzione di Stendhal. Era un uomo semplice e un agente eccezionale. Victor lo aveva addestrato bene e riponeva in lui la massima fiducia, contrariamente non gli avrebbe affidato quell’incarico.

«In questi anni ho assunto l’aspetto di Edmond per lavorare insieme alla Torre dell’Orologio, ma non è il solo alter ego di cui mi sono servito» spiegò mellifluo

Stendhal trattenne il fiato. Dei numerosi alias di Dumas, Dantes era il più famoso ma ovviamente ne esistevano altri.

«Posseggo molte informazioni utili ai Poètes che potrebbero aiutare Vic nei suoi giochi di potere»

«Aiutare?» domandò sospettoso. C’era un qualcosa nell’atteggiamento di Dumas che non lo convinceva. Il Diavolo Nero intuendo i suoi dubbi gli sorrise. A Stendhal ricordò un predatore.

«Hai mai sentito parlare del Progetto Arahabaki? O di esperimenti top secret condotti al largo di una certa Tokoyami Island?»

 

***

 

Rimbaud non aveva potuto evitare che Baudelaire lo seguisse fino alle cucine. Se avesse reagito in qualche modo avrebbe palesato il proprio disagio o comunque scoperto le proprie carte. Si limitò a versare dell’acqua nel bollitore provando ad accendere la fiamma, litigando per qualche minuto con il fornello.

«Che siano dannati questi piani di cottura inglesi» mormorò esasperato dopo un paio di tentativi fallimentari.

«Aspetta ti aiuto» prima che potesse replicare, Charles si era avvicinato, portandosi dietro di lui, sottraendogli l’accendino dalle mani. A quel contatto Arthur fece immediatamente un passo indietro finendo con l’urtare contro il suo petto.

«Scusa non volevo ecco» Baudelaire sembrava terrorizzato dall’aver fatto qualcosa di sbagliato

«No, è stata la mia reazione ad essere esagerata e fuori luogo. Devo ancora abituarmi alla tua presenza. In fondo sei stato per così tanti anni un fantasma»

«Fantasma?» Per la prima volta da quando si erano rincontrati Arthur gli sorrise spontaneamente. A quella vista il cuore di Charles perse un battito. 

«Si eri davvero fastidioso, ti divertivi a fare le veci della mia coscienza. Continuavi a punzecchiarmi obbligandomi a fare i conti con i miei sentimenti»

«Ahah sono contento che tu mi veda in questo modo» significava che Arthur pensava a lui,

«Malgrado tutto sono così felice che tu sia vivo Charlie, anche se non perdonerò mai Victor per avermi fatto credere il contrario»

«Bè puoi sempre giocare la carta di Dumas per ferirlo, in fondo anche lui ha finto la propria morte» gli angoli delle labbra di Rimbaud si contrassero leggermente

«Sei diventato una vera spia. Utilizzare le proprie debolezze come arma contro il nemico» mormorò non facendo nulla per celare il proprio dispiacere,

«Hugo è uno stronzo» 

«Resta comunque l’uomo che mi ha cresciuto. Non parlare di lui in questi termini»

«Non capisco perchè tu lo difenda»

«Faresti mai un torto a Stendhal?» di fronte a quelle parole Baudelaire arrossì

«Che c’entra Henri?» Arthur non poté evitare di scoppiare a ridere. L’espressione comparsa in quel momento sul viso del Poète era impagabile,

«Vedo che non hai perso l’abitudine di storpiare i nomi altrui» Charles gonfiò le guance fingendosi offeso. Al moro ricordò tanto quel ragazzino di dieci anni che aveva abbandonato nelle Ardenne. Sotto molti aspetti non era cresciuto. 

Contrariamente a lui, Baudelaire era sempre rimasto fedele a se stesso. Era uno dei suoi più grandi pregi.

«Il vero nome di Stendhal è Henri, esattamente come il tuo è Paul. Io mi limito a ricordarvelo»

«Giusto, perchè tu non hai scelto un nuovo nome?» gli era sembrato che pure Stendhal si rivolgesse a lui come Charles,

«Le circostanze del mio reclutamento sono state particolari, come il fatto di non aver seguito un addestramento regolare»

«Lo immaginavo» fece una pausa «Scusami Charlie per averti condotto in questo mondo»

«Ma che stai dicendo?»

«Saresti stato più felice se non mi avessi mai incontrato. Non posso evitare di pensarlo»

Baudelaire afferrò le sue mani. Rimbaud rimase immobile. Era stato talmente rapido che non aveva potuto fare nulla per evitarlo.

«Ricordi la nostra infanzia? Siamo sempre stati insieme. Non riesco davvero a immaginare una vita senza di te al mio fianco» Arthur cercò di evitare quello sguardo

«Non possiamo tornare a quei giorni. Appartengono al passato» si limitò a fargli notare abbassando leggermente il capo per sfuggire da quelle iridi dal colore impossibile.

«E perchè no? Tu in fondo sei già un traditore. Scapperemo insieme a tuo figlio e lo cresceremo in campagna» Rimbaud trovò finalmente la forza di sottrarsi dalla sua presa.

«Proprio perchè ho un figlio non posso fuggire» ammise incrociando finalmente il suo sguardo,

«Non capisco»

«Devo trovare Paul» scandì con calma

«Dimenticati di lui. Non hai bisogno di quel mostro»

«Non posso farlo»

«Potremmo essere felici. Mi avevi detto di aspettarti perché saresti tornato da me. Te ne sei forse dimenticato?» Rimbaud abbassò il capo, colpevole.

No. Non l’aveva scordato. Era stata la promessa con cui aveva lasciato Charles quella mattina, prima di partire per Londra. Prima che la realtà si abbattesse su di loro con una scure, distruggendo quella fantasia adolescenziale.

Arthur aveva faticato ad accettare la morte di Baudelaire, vivendo nel costante senso di colpa per la sorte toccata all’amante. Aveva deciso di trasformarsi in un una spia perfetta, immune ai sentimenti, ma due occhi di ghiaccio avevano distrutto tutti questi propositi. Fu in quel momento che il bollitore prese a fischiare distogliendolo dai propri ricordi.

«Lascia lo prendo io» Charles si era sporto per spegnere il gas, finendo con l’urtagli una spalla. A quel contatto Arthur rabbrividì. Se il tocco di Verlaine era come fuoco, Baudelaire era ghiaccio.

«Mi dispiace» fu tutto ciò che Rimbaud riuscì a dire.

«Ti ho amato davvero ma ora…» iniziò incerto,

«Ami quel mostro» concluse per lui il Poète. Arthur annuì

«Devo trovarlo» non poteva fare altro.

«Mi stai facendo arrabbiare Paul. Quell'essere non ti merita. Ti ha abbandonato qui, a Londra insieme a un bambino di pochi giorni. Chissà cosa diavolo gli è passato per la testa. Ha solo giocato con te» lo schiaffo con cui Rimbaud lo colpì fu talmente forte da far cadere il bollitore per terra. 

«Paul è umano e io lo riporterò indietro anche a costo di farlo a pezzi» Baudelaire gli sorrise mentre con una mano andava a coprirsi la guancia lesa

«Ti rendi conto a cosa stai rinunciando?» questa volta Arthur sostenne il suo sguardo senza timore

«Non potrei vivere serenamente sapendolo abbandonato a se stesso»

«Non sei la sua balia»

«Lui è una mia responsabilità»

«A quest’ora Hugo lo avrà già trovato» a quelle parole, Rimbaud si fece immobile. 

«Lo so» non voleva immaginare uno scenario simile per quanto probabile. Sperò solo che Verlaine controllasse la bestia dentro di lui e non scatenasse la propria furia contro il leader dei Poètes. Anche se probabilmente non si era ancora ripreso dalla gravidanza. Era troppo facile ipotizzare lo scenario peggiore.

«State tutti bene? Abbiamo sentito dei rumori» Dumas era comparso nella stanza, interrompendo la loro conversazione così come il flusso dei suoi pensieri. 

«Si scusa, il bollitore mi è sfuggito di mano» mormorò Rimbaud prima di aggiungere «odio questi utensili inglesi»

«Sei sempre stato una frana in cucina» fu la pacata risposta di Dumas. Ovviamente non aveva creduto a nessuna delle parole del moro. Si era limitato ad intervenire prima che la situazione potesse degenerare. Per quanto fosse divertente stuzzicare Stendhal l’assenza prolungata di Rimbaud e Baudelaire lo aveva impensierito. 

«Non preoccuparti manderò una delle cameriere a pulire. Torniamo in soggiorno dai nostri ospiti» 

«Se non vi dispiace, vado un momento a controllare il piccolo Charlie poi vi raggiungo»

Dumas sorrise appoggiando una mano sulla spalla di Baudelaire.

«Su Charles torniamocene da quel brontolone del tuo capo»


***

 

-Parigi-


«Tra una settimana partirai per Berlino» Hugo non aveva mai amato perdersi in inutili giri di parole, soprattutto con Verlaine. Agli occhi del leader dei Poètes il biondo non era altro che un’arma che aveva in qualche modo corrotto la mente di Rimbaud, distogliendolo dal futuro perfetto che si era immaginato per lui

«Posso partire già ora»

«Non dire assurdità. Per questa missione ho bisogno che tu sia al massimo della forma»

«E cosa ti fa credere che ora non lo sia?»

«Penso che allo stato attuale tu non abbia il potere di combattermi o il nostro incontro dell’altro giorno non si sarebbe svolto in maniera tanto tranquilla»

«Non attacco indiscriminatamente. Il Fauno mi ha dotato di raziocinio» sbottò quasi offeso,

«E il resto te lo ha insegnato Arthur» concluse mellifluo Hugo, studiando ogni suo cambiamento d’espressione.

«Non nominarlo»

«E perchè mai?»

«Mi innervosisce sentirti pronunciare il suo nome» confessò tra i denti,

«Dovresti essere un mostro privo di sentimenti»

«E lo sono» Victor sorrise,

«Inizio a comprendere perché tu gli piaccia così tanto»

«Smettila di confondermi le idee, dimmi piuttosto in cosa consiste questa missione»

«Riceverai le istruzioni in giornata, te le porterà il tuo nuovo partner» a quelle parole Verlaine si fece improvvisamente immobile.

«Nuovo partner?»

«Credevi davvero che ti avrei lasciato partire per il fronte tedesco da solo? Siamo in guerra e tu sei la nostra arma migliore» 

«Non ho bisogno di un nuovo compagno» nonostante stesse iniziando a perdere la pazienza Hugo si sforzò di sorridere. In questi atteggiamenti non poteva evitare di rivedere Rimbaud, la sua arroganza e prepotenza, doti che lui stesso aveva coltivato.

«Non mi interessa. Appena avrai letto il rapporto vieni nel mio ufficio» Paul non riuscì ad obiettare.

Hugo era pericoloso e non doveva provocarlo. Gli insegnamenti di Arthur gli tornarono alla mente. Una volta solo, si concesse qualche istante per ripensare al proprio partner e al loro bambino. Londra era tornata ad essere un luogo sicuro, lo scontro si era spostato verso est. In quel momento era l’esercito giapponese che stava avendo la peggio. Un leggero bussare lo riportò alla realtà.

«Permesso, mi scusi non volevo disturbare. Monsieur Hugo mi ha mandato per consegnarle questi documenti»

«Tu sei il mio nuovo partner?» domandò il biondo scrutando il nuovo arrivato da capo a piedi. Il ragazzo davanti alla porta sembrava avere circa la stessa età di Rimbaud. Aveva un aspetto anonimo, capelli e occhi neri. Chissà perché i Poètes ai suoi occhi apparivano tutti uguali, solo Arthur aveva sempre rappresentato un’eccezione. Il nuovo partner si limitò a sorridere tendendogli la mano,

«Piacere sono Stéphane Mallarmé»

«Non mi interessa»

Verlaine prese i documenti dalle mani del ragazzo e utilizzò la propria Abilità per sbattergli la porta in faccia.

 

***

 

Londra

 

Rimbaud avrebbe solo voluto prendere il figlio e fuggire il più lontano possibile da quella follia che era ormai diventata la propria vita. In una settimana aveva non solo perso Paul ma anche ritrovato Charles. Era come se il fato si stesse divertendo a distruggere e rimescolare ad una ad una tutte le sue certezze. 

La priorità restava trovare Verlaine, capire cosa avesse spinto il proprio partner a prendere quella stupida decisione. Arthur conosceva il biondo come le proprie tasche, sapeva che non avrebbe mai lasciato lui o il bambino. Qualcuno doveva averlo provocato. Era assurdo pensare ad un coinvolgimento di Dumas in quella faccenda ma obiettivamente era il solo sospettato possibile. Ad Arthur però sfuggiva ancora un movente. Se solo avesse voluto, Lex avrebbe potuto consegnarli mesi prima all’intelligence inglese insieme al loro bambino non ancora nato. Invece li aveva aiutati, arrivando persino a ospitarli in casa propria. Aveva teso loro la mano quando erano più vulnerabili, forse anche quello faceva parte della sua strategia? Ripensò alle parole di Verlaine quando gli aveva ricordato che il compagno di Hugo doveva essere fatto della stessa pasta. Allora non aveva voluto crederci.

Troppe cose non tornavano in quella storia. Il moro non poteva permettersi di abbassare la guardia. Doveva raccogliere delle prove concrete prima di poter accusare direttamente qualcuno.

Mentre formulava questi pensieri si trovò ad osservare il viso paffuto del figlio. Quando dormiva, il piccolo Charles somigliava ancora di più a Paul. Pregò che il proprio compagno stesse bene. 

«Mi riprenderò tuo padre» gli promise prima di tornare in soggiorno.

«Ho deciso di tornare a Parigi» annunciò.

Dumas lo fissò sorpreso così come Stendhal. Il più felice per la notizia fu Baudelaire che nonostante tutto non si era ancora rassegnato ad un suo rifiuto.

«Speri di riportarlo indietro vero?» gli sussurrò il biondo ex Poète all’orecchio. Rimbaud annuì. 

«Voglio che mio figlio cresca con suo padre»

«Quindi lo porterai con te?»

«Si. Lo proteggerò da Victor, non gli permetterò di averlo. Sono pronto a diventare il soldato perfetto, a combattere la sua guerra»

Dumas annuì stancamente «Se fossi in te mi preoccuperei più di Baudelaire che di Vic» Arthur lo fissò confuso,

«Con Charles ho già messo le cose in chiaro, ma i sentimenti non si possono spegnere come un interruttore, ci vorrà del tempo ma sono sicuro che finirà con l’accettare la mia decisione»

«Sarei curioso di vedere Paul insieme a Baudelaire»

«Oddio prega che non accada» Rimbaud scosse la testa preferendo non immaginarsi un possibile incontro tra i due,

«Secondo me andrebbero d’accordo» Dumas non sembrava condividere la sua opinione,

«L’unica cosa sulla quale potrebbero essere d’accordo sono io, ma non ne sono tanto sicuro. Paul potrebbe anche arrivare ad ucciderlo»

«Oh su questo concordo. Ricordo di come fosse geloso del nome del piccolo»

«Paul ha sempre odiato Charles anche senza conoscerlo. La colpa è mia. Forse se gliene avessi parlato chiaramente»

«Non puoi raccontare al tuo compagno del tuo amante, anche se lo credevi morto da anni»

«Io e Paul non abbiamo quel tipo di rapporto, cioè è completamente diverso»

«Solo perchè Baudelaire lo urla al mondo e Verlaine non lo ammetterebbe manco sotto tortura non significa che non ti amino» Rimbaud arrossì.

«Ti ricordo che Black ha partorito tuo figlio» rincarò la dose Dumas,

«Non significa nulla» il biondo alzò gli occhi al cielo

«Odio questa testardaggine, sei tale e quale a Vic. Quel mostro ti ama anche se è troppo cocciuto per ammetterlo.»

«Avrei voluto che fosse più semplice»

«Non è vero»

«Come fai a dirlo?»

«Perchè se fosse così avresti accettato la proposta di Baudelaire e saresti fuggito con lui.» Arthur sbuffò, si sentiva esausto. Dumas aveva ragione su tutta la linea. Come sempre.

«Non so cosa mi aspettassi. Quando abbiamo scoperto del bambino ero terrorizzato ma felice. Finalmente ci sarebbe stato qualcosa di tangibile che mi avrebbe legato a Paul. Stupidamente credevo che lo avrebbe aiutato a comprendere e abbracciare la propria umanità»

«Perchè per te è così importante?»

«Non sopporto che si sminuisca in quel modo, mi fa arrabbiare. Il più grande nemico di Paul è sempre stato se stesso»

«Non puoi cambiare il suo carattere»

«A volte penso che sia diventato così per causa mia. Forse era l’ennesimo piano di Victor» Dumas scosse il capo,

«Credimi per quanto intelligente, nemmeno lui avrebbe previsto il bambino» sorrisero entrambi,

«Se davvero hai intenzione di tornare non ti fermerò.»

«Perchè non vieni con noi?» lo sguardo del biondo si rabbuiò per una frazione di secondo

«Ho ancora degli affari in sospeso»

«É così importante la vendetta?»

«Non è solo quello. Tu sei giovane Arthur, i tuoi più amari ricordi hanno ancora il tempo di trasformarsi nelle più tenere memorie. Per me e Vic ormai è tardi, siamo schiavi di scelte passate che continuano ad influire sulle decisioni del nostro presente»

«Eravate così affiatati sono certo che…» Dumas scosse il capo,

«Va bene così. Pensa a riprenderti il tuo compagno, a crescere vostro figlio, c’è ancora un futuro per voi»

«Lex»

«Sono stato felice di vedere l’uomo che sei diventato Arthur»

Quelle parole suonarono alle orecchie di Rimbaud come un addio. Dumas però non gli era mai parso tanto imperscrutabile. 

Dopo la scomparsa di Verlaine aveva iniziato a studiare il comportamento dell’ex spia cercando qualsiasi indizio che potesse tradire le sue vere intenzioni. Alexandre Dumas rimaneva il più grande degli enigmi o forse era semplicemente il migliore dei doppiogiochisti. 

 

***

 

-qualche ora dopo-


Rimbaud si trovava nelle proprie stanze intento a preparare tutto l’occorrente per il proprio rientro a Parigi. Aveva solo un bagaglio per se stesso, diverso era per il piccolo Charlie. Era incredibile la quantità di cose che servissero ad un neonato. Prima di avere un figlio, Arthur non lo sospettava.

«Hai preso la decisione migliore» Baudelaire appoggiato allo stipite della porta gli sorrise, braccia incrociate al petto. Il moro non si era minimamente accorto della sua presenza, intento com'era a sistemare i bagagli.

«Se sei qui per gongolare puoi anche andartene» lo liquidò senza alzare gli occhi dalla propria valigia.

«Andiamo Paul»

«Arthur»

«Va bene Arthur, per quanto ancora intendi tenermi il muso?»

«Non ho nulla contro di te, Charles»

«A me non sembra»

«Ho molte cose per la testa» confessò sedendosi sul proprio letto, teneva ancora tra le mani uno dei bavaglini del figlio. Ricordò il giorno in cui Dumas glielo aveva regalato, l’espressione corrucciata che incorniciava il viso di Paul mentre gli domandava con una mano sul ventre: sono davvero così piccoli? 

«Stai pensando a lui vero?» Rimbaud annuì, specchiandosi in quelle iridi blu un tempo così familiari ma che ora gli apparivano estranee,

«Lo riporterò indietro. Non mi arrenderò mai» 

Baudelaire odiò quel mostro con tutte le proprie forze. 

«Pensi che lui farebbe lo stesso?» Arthur sostenne il suo sguardo,

«Si, ne sono convinto» rispose senza esitazione.

 

***

 

Realtà Originale


Quando riemerse da quella dimensione onirica la prima cosa che Charles Baudelaire fece fu incrociare lo sguardo di Lewis Carroll.

Il Poète era furente. Paul gli aveva appena mostrato quanto tenesse a quel mostro dai capelli dorati che riposava ancora a qualche metro da lui. Il moro sembrava disposto a fare qualsiasi cosa pur di riavere il proprio partner nella sua vita esattamente come Black stava facendo per lui nel loro mondo. Imprecò tra i denti, guadagnandosi un’occhiata di biasimo dall’inglese al proprio fianco.

«Non hai nulla da dire?» lo sfidò. Carroll scosse la testa,

«Avrebbero meritato un finale diverso» fu il solo commento che abbandonò le sue labbra.

«Cosa c’è, ora fai il tifo per loro?»

«Tenevano molto l’uno all’altro ma non sono mai stati in grado di comprendersi, parlare apertamente dei propri sentimenti. Lo trovo molto triste»

«Sapevo che sarei finito con il proporre a Paul di crescere insieme il bambino» si trovò ad ammettere il francese,

«E una parte di te sapeva già che lui non avrebbe mai accettato» Baudelaire si passò una mano sul volto, improvvisamente si sentiva esausto,

«Hai ragione. Speravo che mi amasse ancora. Che il sentimento che un tempo ci aveva unito non fosse mutato o svanito con il passare del tempo. Io non ci riesco Lewis. Non posso accettare che il mio Paul sia morto da solo in un paese straniero, abbandonato da quegli stessi Poètes che bramavano il suo potere e che per questo lo hanno strappato alla sua vita, alla sua famiglia»

«Rimbaud non avrebbe mai voluto tutto questo» da quello che Carroll aveva compreso osservando il moro attraverso le realtà create da Wonderland, Arthur Rimbaud non avrebbe mai approvato il comportamento di Verlaine e Baudelaire. Probabilmente li avrebbe schiaffeggiati entrambi per aver anche solo pensato ad un piano assurdo come la sua evasione da Meursault.

«Paul è cambiato dopo aver incontrato quel mostro» fu la pacata risposta del francese. Carroll sorrise, Charles Baudelaire sapeva darsi degli ottimi consigli, peccato che li seguisse raramente. Il Poète era conscio della follia nella quale si era imbarcato, tuttavia sembrava incapace di rinunciarvi.

«Perchè ti sei fissato tanto su Rimbaud?» Charles lo guardò stranito,

«Siamo sempre stati insieme era il mio migliore amico» l’inglese si allontanò di un paio di passi, prima di iniziare con il raccontare,

«Mia moglie è morta di parto, poco dopo la nascita dell’ultima delle mie figlie. Non ho mai pensato a risposarmi ma alle bambine serviva una madre. Ovviamente la guerra ha finito con il cambiare le nostre vite per sempre» Baudelaire rimase in silenzio, in attesa di udire il resto.

«Avevo assunto una governante, tramite alcuni contatti della Torre dell’Orologio. I figli di individui dotati di Abilità Speciali in fondo posseggono un’alta percentuale di aver ereditato qualche potere. Per questo le mie figlie andavano tenute sotto controllo» Charles storse il naso, certe volte le loro Organizzazioni avevano delle regole così assurde o antiquate. Non vi era ancora la certezza che le Abilità fossero ereditarie, si stavano ancora compiendo degli studi al riguardo. 

«Non posso credere che tu glielo abbia permesso» Carroll sorrise,

«Fu così che incontrai Emily» Baudelaire iniziò solo allora a comprendere il senso di quel discorso,

«Era una ragazza così mite e le bambine l’adoravano. Sono morte insieme. Mentre stringevo la mia Alice tra le braccia, vedevo Emily tenere per mano la piccola Edith»

«L’avresti sposata?» domandò il Poète non riuscendo a frenare la propria curiosità, Carroll alzò le spalle,

«Te l’ho detto, Wonderland non ha effetto su di me. Ho provato così tante volte a immaginarmi uno scenario simile, sarebbe stato davvero un bel sogno. Alla fine sono semplicemente impazzito, al punto da venire rinchiuso a Meursault.»

«Mi dispiace»

«Sarò ripetitivo ma lascia che ti dia un consiglio Charles: devi accettare i cambiamenti, restare così ancorato al passato non è salutare»

«Sono diventato un Poète solo per Paul»

«Hai passato metà della tua vita a rincorrerlo solo per poi perderlo di nuovo. Non sei stanco?»

«Se mi arrendessi ora significherebbe che quel sentimento non era abbastanza forte» Carroll alzò gli occhi al cielo. Quei francesi sapevano essere dannatamente cocciuti oltre che melodrammatici.

Baudelaire si prese qualche secondo per osservare meglio il volto di Verlaine. 

Razionalmente Lewis aveva ragione, ad ogni Wonderland vedeva il suo sogno d’amore con Rimbaud incrinarsi, di fronte al sentimento che sembrava unirlo a quell’essere artificiale. Nonostante questo non poteva arrendersi. Presto Hugo, l’Europole o chiunque altro fosse sulle loro tracce li avrebbe raggiunti. Doveva solo pazientare, stancare quel mostro. Una volta messo alle strette, avrebbe consegnato Black al governo e ricevuto la propria ricompensa.

Non aveva bisogno di un futuro radioso, gli sarebbe bastato riscrivere il passato.

Si avvicinò di nuovo a Verlaine facendo comparire un petalo tra le proprie mani,

«Intendi tornare?»

«Sono curioso di vedere come andrà a finire, per ora non vedo alcuna minaccia per Paul»

«I sogni creati da Wonderland sono imprevedibili» Baudelaire annuì.

«Così come la realtà»

«Les fleurs du mal»


***


Wonderland 

-Londra- Porto di Dover



 

«Sei davvero sicuro di ciò che stai facendo?» domandò per l’ennesima volta Dumas mentre aiutava Rimbaud a trasportare i propri bagagli.

«Ho ripetuto più volte che sarei disposto a scendere all’inferno per Paul, affrontare Vic in confronto sarà una passeggiata» l’ex Poète si trovò involontariamente a sorridere, prima di affidargli un telefono usa e getta facendolo scivolare con nonchalance nella tasca del suo cappotto.

«Se dovessero esserci problemi non esitare a chiamare»

«Ti ringrazio per la premura»

«Conosciamo entrambi Victor. Non si può mai sapere cosa gli passi per la testa»

«Paul ha accettato di lavorare per lui e io farò lo stesso. Se questo è il solo modo che abbiamo per stare insieme va bene. Se servirà anche a concludere in fretta questo conflitto sarà ancora meglio»

«E a te va bene così? Non siete fuggiti forse perché eravate entrambi stanchi di seguire quella vita fatta di regole e imposizioni?» Rimbaud gli sorrise,

«Rivedere Charles, parlare con lui, mi ha fatto comprendere una cosa. Da quando Paul è entrato nella mia vita sono cambiato. Non sono più la spia perfetta che Victor ha addestrato o forse non lo sono mai stato» Dumas annuì

«Fa attenzione anche a quei due» mormorò indicando Stendhal e Baudelaire. Il primo come al solito si stava gustando una sigaretta mentre il più giovane continuava a spostare i loro bagagli su e giù per la banchina. Il piccolo Charlie invece dormiva tra le braccia della nutrice che li avrebbe accompagnati fino al ritorno della vera madre.

«Mi mancherà questo piccolo demonietto urlatore» commentò Dumas accarezzandone la testolina ricoperta da radi capelli dorati. 

«Non so davvero come ringraziarti Lex. Per tutto. Charlie non sarebbe qui se non fosse stato per te» lo pensava davvero.

«Non preoccuparti Arthur, ora sali su quella nave e va a riprenderti il tuo compagno»

 

***

 

Wonderland

Francia

-Parigi- quartier generale dei Poètes Maudits


«Sapevo che mi avresti contattato» mormorò Victor Hugo dopo aver risposto con aria annoiata ad uno dei propri cellulari,

«Nemmeno questa volta sono riuscito a sorprenderti?» il leader dei Poètes si trovò suo malgrado a sorridere

«Hai finito di giocare alla vendetta?»

«Mi sei mancato anche tu»

«Allora a cosa devo l’onore di questa chiamata?»

«Arthur sta tornando»

«Lo so. Sei arrivato tardi, Stendhal mi ha informato della loro partenza circa un’ora fa»

«In realtà volevo sapere di Black»

«Partirà domani per il fronte tedesco»

«Perché separarli?»

«Dividi et impera»

«Credevo stessi puntando al bambino»

«Sai qual è sempre stata la differenza tra di noi, Lex? I miei piani comprendono sempre una visione più ampia, sul lungo periodo»

«Stai già pensando al mondo che nascerà dopo questo conflitto» concluse

«Su questo non sono il solo»

«Cosa sai?»

«So che punti a creare un organismo sovranazionale che si occupi di prevenire il terrorismo o qualche sciocchezza simile»

«Il tuo problema invece è sempre stato quello di deridere i miei piani. In questo sei identico a mio padre»

«La tua Agenzia non potrà mai disporre del potere necessario a fermare una bestia come Black»

«Non sfidarmi Vic»

«Non intendo farlo, piuttosto voglio renderti partecipe di una proposta migliore…»

Dumas ascoltò in silenzio.

«Riunire questi criminali sotto un’unica bandiera? Sembra azzardato» commentò dopo qualche minuto.

«Fammi capire, la tua Europole va bene ma i miei Traditori** no?»

«La mia organizzazione avrebbe uno scopo»

«Lo so, la useresti per indagare sugli assassini di tuo padre ma anche i miei uomini farebbero lo stesso»

«Come sempre siamo d’accordo»

«Non ho mai trovato un avversario di scacchi migliore di te Lex e nessuno mi ha mai fatto incazzare tanto» all’altro capo della linea il biondo sorrise.

«Tornando a Black e Rimbaud dove intendi posizionarli sulla scacchiera?» Hugo prese fiato

«Ti prenoto un volo privato per Parigi» Dumas non se lo aspettava.

«Hai parecchie cose da farti perdonare» aggiunse il leader dei Poètes notando il suo silenzio e anticipando qualsiasi protesta

«Vic»

«A dopo e si Lex mi sei mancato anche tu»









 

*«Sono stato ingannato? La carità sarebbe sorella della morte, per me?

Infine, chiederò perdono per essermi nutrito di menzogna.»


**The Seven Traitors in originale, vengono menzionati nella novel 55 Minutes e per ora come membro conosciuto abbiamo solo Jules Verne. Questo mi ha portato a ipotizzare il mio caro Hugo come loro possibile fondatore. 

Per contro, in questo universo l’Europole è stata fondata da Dumas.

Entrambe le Organizzazioni sono canonicamente nate al termine della Guerra e come al solito le notizie su di loro vengono distribuite col contagocce. 

 

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Capitolo 15
*** XV Stagione - Lumière ***


Stagione XV - Lumière






 

 «Enfin, o bonheur, o raison, j’écartai du ciel l’azur, qui est du noir, et je vécus, étincelle d’or de la lumière nature»*

Une Saison en Enfer - Lumière


 





 

Wonderland

Germania - 10 km dalla prima linea del fronte



 

«Monsieur Verlaine potrebbe aspettarmi per favore?» il biondo soffocò un’imprecazione tra i denti prima di arrestare i propri passi, attendendo che il nuovo partner lo raggiungesse. Come aveva previsto, Mallarmé si stava rivelando solo una seccatura.

«Sei lento» si limitò a fargli notare.

«Non mi è mai stata affidata una missione simile, di solito mi occupo di stilare rapporti o rendicontazioni. Sono più un uomo d’ufficio che d’azione» si lamentò il giovane Poète facendo un paio di passi in avanti, rischiando di incespicare nei propri piedi. Di fronte a quella scena Verlaine alzò gli occhi al cielo.

Dovevano raggiungere al più presto la prima linea del fronte tedesco per consegnare importanti documenti e fornire con le rispettive Abilità supporto alle truppe impegnate in combattimento. Proprio per via della segretezza della missione, Verlaine aveva optato per un sentiero secondario, che si districava tra la fitta boscaglia di quella regione. Dovevano agire con rapidità per non farsi scoprire dal nemico. Peccato che il nuovo partner che gli era stato affidato si fosse rivelato solo una palla al piede. Mallarmé non era altro che un goffo impiegato estraneo all’azione.

«Se sei qui dovrai pur possedere un'Abilità utile» si limitò a fargli notare. Il Poète scrollò le spalle dopo essersi appoggiato all’ennesimo albero per riprendere fiato,

«Nulla di eccezionale. Non sono neanche lontanamente paragonabile al vostro partner precedente, Monsieur Rimbaud lui si che è un agente fantastico»

Quelle parole ebbero l’effetto di fare innervosire ancora di più l’essere artificiale,

«Fantastico?» mormorò con sarcasmo. Cercò qualche altro aggettivo che potesse descrivere Arthur ma non gli venne in mente nulla. Rimbaud era semplicemente un folle perché non si era mai arreso di fronte ad un mostro come lui.

«Beh dicono che sia il nostro agente migliore, dopo Monsieur Hugo ovviamente»

«Ovviamente» concesse incrociando le braccia al petto.

«E poi è stato in grado di addestrare voi» di fronte a quell’esclamazione Verlaine non si scompose. Era abituato a ricevere quel tipo di commenti e in fondo Rimbaud era piuttosto famoso per quello. 

«Certo, Arthur ha addomesticato la bestia dentro di me» concluse con un sorriso ironico e allo stesso tempo terrificante. Mallarmé si accorse troppo tardi della pessima scelta di parole utilizzata. Chiuse gli occhi, preparandosi a subire le conseguenze per la propria loquacità. Era certo che il biondo lo avrebbe fatto fuori. Dalla sua espressione non poteva che essere altrimenti. Hugo lo aveva avvertito di non fare nulla che potesse provocarlo, invece era finito con il parlare a sproposito. 

Bastava la sola presenza di Black a renderlo nervoso. 

Era un essere artificiale creato in laboratorio, eppure aveva un aspetto talmente umano da arrivare a farglielo scordare. Stéphane aveva letto un centinaio di rapporti sulle missioni che Black aveva concluso insieme a Rimbaud, per questo sapeva quanto il compagno potesse risultare incredibile ma allo stesso tempo spaventoso.

«E ora che stai facendo?» quando riaprì gli occhi si trovò il volto di Verlaine ad una spanna dal proprio. Si specchiò in quelle iridi fredde come il ghiaccio che lo fissavano curiose. Istintivamente fece un passo indietro. Black era bellissimo, possedeva un fascino letale.

«Credevo che, niente lasciamo perdere» mormorò cercando di regolarizzare i battiti impazziti del proprio cuore mentre il biondo continuava a studiarlo con sospetto.

Il vecchio se stesso avrebbe ucciso quel inutile, fastidioso Poète su due piedi ma Paul sapeva bene di non potersi inimicare Hugo. Aveva accettato di diventare la sua arma e lo aveva fatto solo per proteggere Rimbaud e il loro bambino. Doveva trattenersi, non era ancora nelle condizioni per poter sfidare apertamente il leader dei Poètes.

Quel pensiero fu subito accompagnato da altro. Fece un paio di calcoli nella propria mente, ormai Charlie doveva avere circa tre forse quattro mesi. Immaginò Arthur prendersi cura di lui. Cullarlo dolcemente. Stringerlo contro il proprio petto.

«Dove si trova ora Monsieur Rimbaud?» le parole di Mallarmé lo costrinsero ad abbandonare fin troppo presto quella fantasia,

«A Londra» rispose senza alcuna particolare intonazione. Arthur e Charlie erano nella capitale inglese, al sicuro, lontano da quella follia. Era l'unica certezza alla quale poteva aggrapparsi. Probabilmente il moro non lo aveva ancora perdonato per averli abbandonati ma a Verlaine non importava. Quello era il suo posto, era stato creato solo per quello, essere un’arma al servizio della nazione più forte. 

«Dicono che sia molto amico di Dame Agatha Christie è vero?»

«Rimbaud è molto più socievole di me» era la verità, anche se la maggior parte delle volte i modi affabili di Arthur nascondevano un secondo fine. Paul aveva creduto che stesse fingendo anche con Dumas ed era rimasto deluso quando il proprio partner gli aveva confidato di fidarsi davvero dell’ex numero due dell’intelligence francese. Anche in quell’occasione avevano finito con il litigare. 

«Rimbaud è stato addestrato personalmente da Victor Hugo» Mallarmé sembrava avere una grande considerazione di Arthur. Di fronte a quella scoperta, una strana sensazione iniziò a farsi largo nel petto di Verlaine. Era simile alla gelosia che aveva provato nei confronti del fantasma di Baudelaire anche se non così totalizzante. 

«Smettila di parlare di lui» il Poète lo fissò confuso.

«Di Hugo o Rimbaud?» 

«Di entrambi. Sto cercando di non pensare ad Arthur ma tu continui a ricordarmelo» Mallarmé sgranò gli occhi. Non se lo aspettava. Black non sembrava affatto quella creatura fredda e priva di emozioni di cui gli avevano raccontato. Gli era bastato trascorrere un paio giorni in sua compagnia per comprenderlo.

«Avete forse litigato?» l'occhiata assassina che ricevette in risposta lo fece indietreggiare di un paio di passi. Sentì l’aria appesantirsi ma forse fu solamente frutto della propria immaginazione.

«Non abbiamo litigato» confessò dopo qualche minuto il biondo. «Me ne sono semplicemente andato e l’ho lasciato a Londra» Mallarmé assunse un’espressione confusa,

«Però continuate a pensare a lui»

«Ci siamo recati lì solo perchè volevamo fuggire dalle regole di Hugo. Sono stato io a proporlo e sono stato il primo a tornare indietro. L’ho tradito»

Era la prima volta che lo ammetteva ad alta voce. Qualche mese prima, nel grigiore della capitale inglese, aveva promesso a Rimbaud il contrario. Non erano state parole dette con leggerezza, in quel momento Verlaine ci aveva creduto davvero. Ricordò il calore della mano di Arthur contro il suo ventre, come il bacio che ne era seguito. 

Scosse la testa. Aveva preso quella decisione per proteggere il proprio partner. 

«Non credo che Monsieur Rimbaud la pensi in questo modo»

«E tu che ne puoi sapere»

«Ho letto tutti i rapporti che ha scritto su di voi» ammise il Poète con una punta di imbarazzo.

Verlaine sgranò gli occhi per la sorpresa. Sapeva dell’esistenza di quei documenti ma non aveva mai pensato di consultarli.

«Vi teneva in grande considerazione, non siete mai stato solo una missione. Eravate il suo partner»

Il biondo si domandò quanto Mallarmé sapesse di quella faccenda. Non aveva mai menzionato Charles quindi probabilmente il Poète era stato tenuto all’oscuro dell’esistenza del bambino. Anzi ne aveva la certezza o le domande sarebbero state tutte su di lui o sulla propria capacità.

«Basta perdere tempo, dobbiamo raggiungere la nostra destinazione prima di mezzogiorno»

Mallarmé sbuffò. Quella era stata la loro prima vera conversazione. Verlaine aveva una personalità insolita ma proprio per questo lo affascinava. A prima vista il biondo poteva sembrare freddo e distaccato. Aveva quell’aria di superiorità che caratterizzava anche Hugo e Rimbaud. In realtà Black si era mostrato in grado di provare emozioni, soprattutto quando gli veniva menzionato il partner precedente.

Hugo lo aveva informato sulla fuga di Rimbaud. Questa era avvenuta proprio su ordine del leader del Poète. Black non era autorizzato a parlarne quindi era per questo che aveva reagito in quel modo alle sue domande. Mallarmé si diede dello stupido per averlo nuovamente provocato e per non averci pensato.

Verlaine e Rimbaud erano due Trascendentali, erano dotati d’Abilità di alto livello. Sicuramente le loro missioni erano ancora più top secret e pericolose di quelle a cui lui era abituato. Era ovvio che il biondo non potesse discuterne apertamente.

«Sono convinto che grazie al vostro aiuto questa guerra si risolverà in un lampo» esordì con rinnovata convinzione.

A quelle parole Verlaine scosse la testa. Mallarmé era un ingenuo. Sarebbe morto in fretta. Probabilmente alla prima occasione. 

Quella guerra era stata orchestrata da anni. Lui stesso era giunto alla conclusione di essere stato creato per quello scopo. Non era un caso che la Francia avesse trovato l’ubicazione del laboratorio del Fauno come non era stata una coincidenza essere affidato alle cure di Rimbaud. Probabilmente solo l’esistenza di Charlie era l’unica variante sfuggita a quel piano.

Strinse i pugni cercando di tenere sotto controllo il proprio potere. Alzò lo sguardo, l’alba era trascorsa da qualche ora e un pallido sole faceva capolino oltre le chiome degli alberi. Si portò una mano davanti agli occhi, colpiti da quel chiarore.

Rimbaud gli aveva sempre ricordato le stelle, la quiete della notte. Senza di lui al proprio fianco anche la luce del sole gli appariva fastidiosa. 

«Vediamo di concludere al più presto questa missione» concesse prima di incamminarsi nella fitta boscaglia. Mallarmé lo seguì.


***


Francia

Parigi - quartier generale dei Poètes Maudits



 

«Il figliol prodigo è finalmente tornato» 

Rimbaud storse il naso iniziando a rimpiangere la propria decisione. Era a Parigi da nemmeno un’ora e già desiderava fuggire il più lontano possibile da quel luogo che un tempo aveva considerato come la propria casa.

«Smettila Vic non sono dell’umore» il leader dei Poètes ignorò completamente quel commento, preferendo dedicare tutta la propria attenzione al bambino che Arthur teneva tra le proprie braccia. 

«Complimenti, è una meraviglia e somiglia a entrambi»

Era vero. Charles aveva ereditato lo sguardo e molte espressioni di Paul ma la forma del volto e soprattutto il naso erano sue. I capelli erano ancora radi ma di una chiara sfumatura dorata. Stava iniziando a prestare attenzione al mondo che lo circondava ed elargire sorrisi. Alla vista di Hugo però si imbronciò di colpo, nascondendo il visetto paffuto contro il petto del genitore.

«É davvero vostro figlio. Come hai detto che si chiama?»

«Non l’ho detto e si chiama Charles. Charles Alexandre Marie» Rimbaud cercò di scorgere una qualche emozione nello sguardo di Hugo ma non riuscì a trovare nulla, nemmeno il riferimento a Dumas sembrava averlo scalfito. Quell’uomo era incredibile. Non poteva evitare di pensarlo.

«Vedo che gli hai dato quel nome. Black ne sarà stato contento» Arthur ne approfittò per contrattaccare,

«Mi hai detto che era morto» lo accusò senza mezzi termini

«Sai perchè l’ho fatto»

«Lo amavo»

«Una brava spia deve imparare a controllare le proprie emozioni»

«Come hai fatto tu?»

«Cosa vorresti dire?»

«Non hai mai pianto per Lex»

«Cosa diavolo c’entra Lex?»

«Hai accettato la sua morte così da un giorno all’altro. Io fatico persino a respirare sapendo che Paul è a combattere chissà dove mentre tu…» Victor Hugo fece un paio di passi in avanti, alzando il capo solo per guardarlo meglio negli occhi,

«Vedi? Le emozioni ci rendono deboli. Quando prendono il sopravvento non siamo più in noi. Non avrei mai pensato che ti saresti potuto innamorare di un mostro»

«Paul non è un mostro»

«Ha partorito quel bambino» si limitò a fargli notare indicando il piccolo tra le sue braccia. Arthur rimase per qualche secondo ad osservare il proprio figlio. Se qualche anno prima gli avessero detto che avrebbe provato un simile amore per un altro essere umano non ci avrebbe mai creduto. Gli era bastato stringere quell’esserino tra le proprie braccia per amarlo incondizionatamente. Lo avrebbe difeso ad ogni costo, così come avrebbe fatto con il proprio compagno. Proprio per questo era tornato a Parigi ed era pronto ad accettare quel patto con il diavolo.

«Dimmi cosa posso fare ma lascia Charlie fuori da questa storia»

«Tuo figlio possiede un’Abilità?» indagò il leader dei Poètes

«Non lo so, è ancora troppo piccolo»

«Il controllo della gravità unito alla manipolazione dello spazio, quel moccioso può essere pericoloso»

«Se mai avrà qualche potere gli insegneremo ad usarlo e tenerlo sotto controllo»

«Gli?» domandò divertito portandosi elegantemente una mano alla bocca per nascondere un accenno di sorriso,

«Io e Paul» Victor scoppiò a ridere,

«Vi ha abbandonato su due piedi, alla prima occasione» gli fece notare

«Deve esserci un motivo» la decisione che lesse nello sguardo di Rimbaud lo sorprese, ma in fondo suo figlio era sempre stato un gran testardo,

«É un insieme di codici e formule matematiche. Non ragiona come noi»

«Paul è molto più umano sia di me che di te. Non osare parlare di lui in quel modo o te ne farò pentire»

«Sei sempre stato un ragazzino ribelle Arthur, ma proprio grazie a questo sei potuto diventare un Trascendentale.»

«Voglio la tua parola che non toccherai mio figlio»

«Ok nessuno farà del male alla tua piccola copia di Black, qualcos altro?»

«Dimmi dove si trova, sta bene?» Hugo prese un lungo respiro, nessuno si era mai permesso di parlargli in quel modo ma Rimbaud era sempre stato un’eccezione a molte cose. Forse la colpa era sua per averlo viziato troppo.

«L’ho mandato sul fronte tedesco, tranquillo è insieme a Mallarmé» si limitò a spiegare. La cosa non lo rincuorò per nulla.

«Stéphane?» Rimbaud conosceva l’impiegato, lo aveva aiutato più volte a completare i verbali delle proprie missioni. Era un uomo mite decisamente poco adatto all’azione.

«Siamo a corto di personale e la sua Abilità può esserci utile» Arthur annuì. Non era per quello. Mallarmé era un gran chiacchierone. Non poteva esserci coppia peggio assortita. 

«Paul lo ammazzerà prima di arrivare a destinazione» mormorò affranto,

«Non essere melodrammatico. Il tuo mostro non farà nulla per indispettirmi»

«Cosa gli hai promesso?» faticava a credere che Hugo avesse trovato un modo per addomesticare Verlaine ma non poteva metterci la mano sul fuoco. Il leader dei Poètes era pieno di risorse.

«Non ci arrivi da solo? Mi ha fatto giurare che non ti avrei coinvolto in questa guerra. Ha barattato se stesso per proteggere te e il bambino. Davvero ammirevole»

Rimbaud sperò di aver capito male. Poteva trattarsi dell’ennesimo scherzo di Hugo, anche se questa spiegazione avrebbe dato un senso al comportamento di Paul e alla sua fuga improvvisa.

«Non lo farebbe mai» Victor si limitò a sorridergli,

«Dopo quattro anni insieme credevo che avessi imparato a conoscerlo. Black perde la testa quando si tratta di te. Sei il suo punto debole» Arthur non potè che annuire, sconfitto da quella verità tanto semplice quanto complessa.

In fondo Rimbaud lo aveva sempre saputo. Sin dal primo momento in cui si erano incontrati. Era stato allora che erano diventati l’uno la più grande minaccia per l’altro.

Paul era fin troppo possessivo nei suoi confronti anche se non lo aveva mai dimostrato tanto apertamente. A quel pensiero uno strano calore si fece largo nel proprio petto. Verlaine aveva mostrato non solo di tenere a lui ma anche al loro bambino. Accarezzò la testolina di Charlie cercando di contenere la propria gioia. Non voleva dare una simile soddisfazione a Victor.

«Dovreste imparare a comunicare di più» fu il solo commento di Hugo,

«Tu e Lex» iniziò con fare incerto il moro cercando di raggiungere lo sguardo del superiore, «Hai mai confessato a Lex quello che provavi?» le labbra di Victor si incurvarono leggermente, 

«Tra di noi non servivano parole inutili. Sapevamo sempre cosa passasse per la mente dell’altro» confessò con tranquillità. Arthur annuì, ricordava perfettamente la propria infanzia trascorsa insieme ai due Poètes. I loro sguardi di intesa, frecciatine e quel leggero sfiorarsi che allora non aveva compreso.

«Non hai risposto» Hugo alzò gli occhi al cielo,

«No, non gli ho mai detto che lo amavo. Non ne avevo motivo»

«Ma Vic» con un cenno l’uomo gli intimò di tacere

«Alexandre è sempre stato il mio punto debole. Lo avevo reso il bersaglio perfetto per i miei nemici. A cosa sarebbe servito dire quelle parole? Tu mi hai odiato per aver creato quelle regole ma seguirle ti ha salvato»

«Ho perso Charles e per poco ho rischiato di perdere anche Paul»

«Perdere Baudelaire ti ha solo reso più forte»

«Non volevo essere forte ma felice»

Hugo si voltò, preferendo osservare il panorama al di fuori della finestra del proprio ufficio piuttosto che le iridi ambrate del figlio. Il piccolo Charlie stava iniziando a mostrare i primi segni di stanchezza così Rimbaud si trovò costretto a cullarlo. Era stato fin troppo tranquillo durante quel breve ma intenso scambio di battute,

«Felice, eh» c’era stato un tempo in cui Victor aveva desiderato lo stesso. Una stagione passata in cui aveva creduto che fosse possibile.

«Ti sei mai chiesto perchè mi sono ribellato alle tue regole? Quando io e Paul siamo fuggiti era perchè non sopportavamo l’idea di essere separati»

«Siete stati felici?»

«Si, per un pò lo siamo stati» ammise sostenendo lo sguardo del superiore. Fu in quel momento che Charles scoppiò a piangere.

«Mandami le coordinate del fronte tedesco e i dettagli sulla missione di Paul» concluse Rimbaud prima di allontanarsi,

«Non mi sembra di averti dato l’autorizzazione a partire»

«Non mi serve papà. Quando hai inviato Verlaine in Germania sapevi che sarei giunto in suo supporto. Mallarmé non può controllare la bestia nascosta dentro Paul, se dovesse perdere il controllo sarebbe la fine. Non resterebbe nulla per cui combattere»

«Ti farò avere i documenti entro sera»

«Grazie»

«Voglio solo che tu sappia Arthur che tutto ciò che ho fatto, ogni mia decisione, era per il tuo bene»

«Il mio bene o quello dell’Organizzazione?» domandò chiudendo la porta alle proprie spalle.

Victor Hugo si abbandonò ad un sospiro stanco, lasciandosi cadere sulla poltrona della propria scrivania. Fu in quel momento che una figura fece capolino alle sue spalle iniziando lentamente a massaggiargliele,

«Vedo che ha imparato a tenerti testa» mormorò contro il suo orecchio facendolo rabbrividire,

«Sei arrivato presto» 

«Hai mandato un jet privato»

«Avevo bisogno di averti al mio fianco» concluse prima di afferrarlo quel tanto che bastava per indurlo a chinarsi e poter raggiungere le sue labbra. Era da più di dieci anni che Hugo bramava quel contatto. Fu come se il tempo si fosse fermato.

«Hai visto il bambino?» domandò Dumas dopo un altro paio di baci appassionati, trovando la forza necessaria per sottrarsi da tutte quelle attenzioni. Il leader dei Poètes annuì fissandolo con le proprie iridi smeraldine, prima di accomodarsi meglio tra le sue braccia.

«Dicono che non abbia ancora sviluppato un’Abilità»

«Ma tu non ci credi»

«Io non ci credo. Voglio quel moccioso, Lex» confessò con un tono che non ammetteva repliche

«Hai intenzione di crescere un altro piccolo agente perfetto?»

«Con Arthur non è andata così male» 

Sorrisero entrambi

«E la tua guerra?»

«Ormai siamo quasi alle battute finali. Stiamo già preparando il terreno per cosa avverrà dopo» Dumas sorrise prima di chinarsi per baciargli la fronte.

«Sono al corrente dei vostri piani»

«Non ne avevo il minimo dubbio. Allora, mi aiuterai?»

«Hai davvero bisogno di chiederlo?»

«Non ci vediamo da anni»

«Eppure sono ancora al tuo fianco»

«Fingere la tua morte è stata una mossa geniale ma non credere che ti abbia perdonato»

«Hai sempre saputo che ero vivo vero?»

«Diciamo che ci ho sperato. In fondo sei sempre stato il solo in grado di sfuggire al mio controllo»

«Questo perché ti conosco come le mie tasche. Ho sempre coperto i tuoi punti ciechi, le tue mancanze, se non l’avessi fatto non sarei stato un buon partner»

«Partner eh» Dumas notò la leggera delusione nel tono di voce dell’altro. Di solito Victor non abbassava mai le proprie difese, in quel momento però erano soli. Lex non ricordava davvero l’ultima volta in cui avevano potuto godere di un tale momento di intimità. Fece intrecciare le loro mani attento a non sciogliere l’abbraccio in cui l’aveva avvolto.

«Compagno, amante, fidanzato, marito, scegli il termine che più ti aggrada Vic»

«Marito?» il leggero rossore che in quel momento imporporò le guance del leader dei Poètes lo fece sorridere. Amava quel lato di Hugo, forse poiché era il solo a cui era dato conoscerlo.

«Si beh ci conosciamo da oltre quarant’anni, un pò è come se fossimo sposati no?»

«Non avevo mai pensato a te in questi termini» confessò il leader dei Poètes

«Io invece sì, ho sempre saputo che nonostante tutto saremmo rimasti insieme»

«Te ne sei andato a Londra» gli fece notare. Non vi era rabbia o accusa nel suo tono di voce. Era solo l’ennesima constatazione.

«Sai perchè l’ho fatto» Hugo storse il naso,

«A volte mi chiedo quanto sia importante la tua sete di vendetta»

«Tu avevi la tua guerra, io la mia vendetta. Sono state queste cose a tenerci separati oltre che in vita»

«Insieme al nostro orgoglio»

«Quello era sottinteso»

«Sapevo che avresti dato asilo ad Arthur, come anche che sarebbe fuggito a Londra. Quel ragazzo a volte è così prevedibile»

«Ti confesso che inizialmente ero incuriosito da Black, oltre che preoccupato per lui. Aveva disobbedito ad un tuo ordine ma non sembrava temerne le conseguenze»

«Arthur è sempre stato un ragazzino ribelle»

«Lo manderai davvero al fronte?»

«Vuole riprendersi il suo mostro, non posso fermarlo»

«E come pensi di avvicinarti al bambino?» Hugo tornò a sorridergli prima di voltarsi quel tanto che bastava per far collidere nuovamente le loro labbra,

«Intanto pensiamo a come allontanarlo dai genitori»

«Sei un vero bastardo, subdolo e manipolatore»

«Tu sei peggio di me. Grazie alla tua Abilità quanta gente hai ingannato o pugnalato alle spalle?» 

«Forse è per questo che siamo ancora insieme» sussurrò a qualche centimetro dalle sue labbra.

«Siamo fatti l’uno per l’altro. Lo diceva sempre anche tuo padre»

«Ti manca?»

«Sai che lo odiavo»

«Il confine tra odio e amore è sottile»

«Non roviniamo questo momento parlando di lui» il sorriso sul voltò di Hugo si fece improvvisamente più ampio.

«E sentiamo, avresti qualche proposta migliore per impiegare il tempo?» domandò Dumas prima di avventarsi sulle sue labbra.

Victor aveva ragione. Tra di loro non erano mai servite dichiarazioni o promesse. Il legame che li univa era qualcosa di radicato e profondo. Nonostante tutti quegli anni di silenzio e lontananza erano stati in grado di recuperare immediatamente l’intesa e la complicità passata.

Dumas sapeva che non avrebbe mai amato nessun altro semplicemente perché non  vi era nessuno al mondo in grado di rivaleggiare con Victor Hugo. Quell’uomo era stato il solo ad aver conosciuto il suo vero io, ed averlo accettato. Prese il leader dei Poètes tra le braccia e si diresse verso quella che ricordava essere la sua camera,

«Sempre la porta in fondo a destra?» domandò per sicurezza, Victor gli sorrise prima di riprendere a baciarlo,

«Muoviti Lex, è un ordine»


***


Parigi 

-qualche ora dopo-


Charles Baudelaire stava passeggiando distrattamente lungo gli Champs-Élysées affollati come al solito. 

Nonostante si trovassero nel pieno di un conflitto e la città fossa stata sull’orlo di essere conquistata dal nemico, i parigini non sembravano aver perso il proprio buonumore e gioia di vivere. Un pò li invidiava. Se in quel giorno di sei anni prima non avesse incontrato Paul probabilmente sarebbe stato come loro, oppure, più realisticamente, avrebbe finito con il combattere al fronte.

Trovò Stendhal ad attenderlo, sotto uno dei semafori che lo separavano dal raggiungere place de l’Étoile e l’arco di Trionfo. Era uno dei loro punti di ritrovo preferiti.

«Sei in ritardo» furono le prime parole con le quali Henry lo accolse, prima di spegnersi una sigaretta

«Scusa ho pensato di fermarmi a comprare qualcosa»

«Non dirmi che sono altre cianfrusaglie per il bambino» esclamò per nulla sorpreso il capo della sezione interrogatori della squadra speciale antiterrorismo. 

Superato lo stupore iniziale Baudelaire si era innamorato di quella creatura che portava il suo stesso nome. Stendhal sapeva che dietro quel comportamento si nascondeva altro, l’inconscio desiderio di crescere quel piccolo come proprio. 

Charles non aveva rinunciato a Rimbaud, aveva solo momentaneamente  accantonato l’idea. Conosceva il sottoposto come le proprie tasche, Baudelaire stava solo fingendo, attendendo il momento opportuno per fare la propria mossa. 

«Non ho resistito, ho visto questo trenino in vetrina e…»

«Questo pomeriggio Rimbaud ha avuto un colloquio con Hugo» lo informò interrompendo il suo entusiasmo,

«E Charlie?»

«Lo ha portato con sé»

«Quindi?»

«Partirà domani per il fronte tedesco»

«Ok preparo le valigie»

«Charles»

«Andrò con lui e nulla di ciò che mi dirai potrà farmi cambiare idea»

«Qualcuno deve restare a Parigi ad occuparsi di Charlie, qualcuno di fidato, che lo tenga al sicuro, lontano da Hugo fino al ritorno di Arthur e di Black»

«Henry?»

«Rimbaud ha chiesto espressamente di te. Mi ha chiamato poco fa e vuole che sia tu ad occuparti di suo figlio durante la sua assenza» Baudelaire stentava a credere alle proprie orecchie,

«Mi sono preso la libertà di accettare, aggiungendo che opererai sotto la mia supervisione e controllo» il più giovane lo abbracciò con slancio

«Grazie. Oh sono così felice.» Stendhal rimase immobile. Aveva previsto un simile entusiasmo tuttavia non si aspettava quella reazione. Non ricordava di aver mai visto Charles tanto felice. Persino i suoi occhi sembravano illuminarsi di una nuova sfumatura di colore che fino a quel momento non era mai stato in grado di scorgere. Questo era il potere del sentimento che lo legava a Rimbaud.

«Non vedo l’ora di andare da Paul» confessò regalandogli l’ennesimo sorriso radioso che lo fece solo irritare. 

Stendhal non sapeva a cosa fosse dovuto ma ogni volta che il sottoposto nominava Rimbaud il suo stomaco si contorceva. Erano pensieri assurdi. Il moro sembrava completamente assorto da Black e dal volerlo ritrovare. Rimbaud aveva già rifiutato Baudelaire e i suoi sentimenti, eppure una parte di lui non riusciva a mantenere la calma. Sarebbe bastato solo un cenno da parte sua perché Charles tornasse da lui.

Dopo la morte di Mathilde, Stendhal aveva provato a chiudere il proprio cuore ma non era servito. Quando si era accorto di provare qualcosa per Baudelaire era già troppo tardi. Quel ragazzino cocciuto era diventato il centro dei suoi pensieri e preoccupazioni.

«Su muoviamoci allora. Sono sicuro che apprezzerà molto il tuo regalo»

Non serviva però che Charles lo sapesse. Stendhal avrebbe celato i propri sentimenti, come un perfetto agente segreto.

Si accese l’ennesima sigaretta prima di seguirlo tra la folla.


***

 

Germania

-prima linea del fronte tedesco-


Mallarmé si stava ancora massaggiando i piedi ricoperti di vesciche quando Verlaine entrò a passo di marcia nella tenda che condividevano, facendolo sobbalzare per lo spavento,

«Quel Goethe o come si chiama è uno stronzo peggio di Hugo» esordì senza mezzi termini

«Non dirmi che hai fatto arrabbiare il comandante in capo dell’esercito tedesco» lo pregò il francese sull’orlo dell’infarto,

«Semmai è lui ad aver mancato di rispetto a me» Mallarmé avvertì l’improvviso bisogno di sedersi

«Cosa è successo?» domandò, anche se non era del tutto sicuro di volerlo sapere.

Verlaine afferrò a sua volta una sedia mettendosi comodo di fronte a lui.

«Ha insultato Rimbaud» iniziò con lo spiegare con fare ovvio.

Mallarmé fu certo di essersi perso qualcosa,

«Hai litigato con Johann Wolfgang Von Goethe per questo

«Lo ha definito un inutile pupazzo nelle mani di Hugo. Gli ho detto che Arthur non è nulla di tutto ciò, che odia Victor e si è ribellato a lui»

Mallarmé si sentì mancare. Si chiese mentalmente perchè avessero affidato una missione così delicata ad una simile bomba ad orologeria. Black era pericoloso non solo per la propria Abilità. Era completamente fuori di testa.

«E come ha reagito?»

«Sembrava divertito dal fatto che qualcuno avesse tenuto testa a Hugo. Poi mi ha chiesto altri dettagli ma non ho risposto. Gli ho detto che sono un’arma e sono qui per combattere, se vuole può usarmi ma non deve permettersi di nominare ancora Arthur»

Stéphane riprese a respirare. Poteva andare peggio, almeno Black non aveva fatto ricorso alla propria Abilità.

«Gli hai consegnato i documenti?»

«Sì è stata la prima cosa che ho fatto. Guarda che so riconoscere l’importanza di una missione»

«Sei stato addestrato dal nostro uomo migliore» ancora una volta sentire Mallarmé tessere le lodi di Rimbaud gli provocò una fitta all’altezza dello stomaco. Si avviò verso il bagno senza degnarlo di risposta.

Dopo essersi tolto i vestiti e sciolto i capelli, Verlaine si gettò sotto il getto d’acqua leggermente tiepida. Non si era aspettato nulla di diverso. Era già un lusso poter disporre di un bagno privato e non dover dormire con il resto delle truppe. Si insaponò lentamente ripensando alle parole di Goethe. Aveva desiderato uccidere quell’uomo con le proprie mani ma la voce di Rimbaud nella sua mente lo aveva convinto a desistere. 

Il suo pensiero tornò ad Arthur e al loro bambino. Si appuntò mentalmente di cercare notizie sulla situazione a Londra. Era sufficiente che fossero al sicuro. Non aveva bisogno di sapere altro.

Afferrò un asciugamano osservando la propria immagine riflessa nello specchio. Chiuse gli occhi immaginandosi le dita di Rimbaud mentre gli intrecciavano i capelli. Era diventato piuttosto abile nell’acconciarseli ma le trecce di Arthur erano sempre state migliori delle sue.

Una volta aveva proposto al partner di tagliarli. Non avrebbe mai dimenticato lo sguardo allarmato che gli aveva rivolto Rimbaud. Era simile a quello del giorno in cui avevano scoperto della gravidanza. 

«Adoro i tuoi capelli» gli aveva confessato in quell’occasione, passandosi una ciocca tra le mani. Paul lo aveva lasciato fare, abituato al suo tocco gentile.

«Chissà a chi si è ispirato il Fauno per il mio aspetto» era stato il commento successivo che aveva abbandonato le labbra del biondo. Arthur lo aveva fissato per una manciata di secondi, incapace di replicare,

«Insomma, dovrà pur aver seguito un modello per crearmi»

Rimbaud annuì continuando a giocherellare con quei fili dorati e setosi.

«Da ciò che ricordo di aver letto sul rapporto della missione, tu sei un essere completamente artificiale. Uno dei tuoi predecessori, Black N.10 era a base umana ma si rivelò un insuccesso»

«Cosa gli accadde?»

«Non ne sono sicuro ma credo che i ricordi umani si sovrapposero a quelli artificiali e finì con l’impazzire»

«Forse sarà questo il mio destino»

«Paul non ricominciare»

«Non sto cominciando nulla. Mi limito ad esporre i fatti»

«Se fossi stato umano, avresti avuto una famiglia e forse avresti voluto tornare da loro»

«Sei tu la mia famiglia»

Allora Verlaine aveva pronunciato quelle parole senza comprenderne il pieno significato. 

A quel tempo, Rimbaud rappresentava tutto il suo mondo. I suoi primi ricordi iniziavano con quell’uomo. Era stato Arthur a dargli un nome, un'identità, a renderlo ciò che era. Aveva fatto di lui una spia, passandogli il proprio sapere. Lo aveva addestrato e amato. Credendolo migliore di quanto non fosse.

Era per un uomo simile che ora si trovava a combattere quella guerra non sua. Per proteggere Rimbaud e quel bambino che aveva visto crescere nel proprio ventre. 

Si rivestì in fretta per poi uscire a prendere una boccata d’aria. Osservò la volta celeste riconoscendo un paio di costellazioni.

Chissà se anche a Londra, Rimbaud stava osservando il suo stesso cielo.

 

***

 

Parigi 

-in quello stesso momento-



 

Il piccolo Charlie si era appena svegliato dal proprio sonnellino pomeridiano. Arthur lo aveva preso tra le braccia per poi recuperare una bottiglia di latte preparata dalla nutrice. La spia cullò il figlio dolcemente prima di iniziare a sfamarlo. Fu in quel momento che si mise ad osservare il panorama fuori dalla finestra. L’estate stava volgendo al termine e le giornate avevano iniziato ad accorciarsi. Le prime stelle erano comparse all’orizzonte, facendo capolino da dietro le sagome dei palazzi.

«Tuo padre adorava osservare il cielo» mormorò con un filo di voce.

«Io invece mi perdevo nel guardare lui» confessò divertito.

«Te lo riporterò presto a casa così finalmente potrai conoscerlo. Devi avere molta pazienza con lui Charles, non ha un carattere facile. Ti ripeterà fino alla nausea che non è un essere umano degno di amore ma non devi credergli nemmeno per un secondo.» il bambino sgranò gli occhi cullato dal suono della sua voce.

«Spero che ovunque si trovi stia bene e magari chissà, starà guardando il nostro stesso cielo»







 

*«infine, o felicità o ragione, separai dal cielo l’azzurro, che è nero, e vissi, scintilla d’oro nella luce naturale.»


 

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Capitolo 16
*** XVI Stagione - L'éclair ***


XVI Stagione - L’éclair




 

«Alors, – oh – chère pauvre âme, l’éternité serait-elle pas perdue pour nous?»*

Une Saison en Enfer - L’éclair








 

Wonderland


Parigi


-qualche giorno dopo-



 

Quella sera, Rimbaud aveva deciso di invitare Baudelaire e Stendhal a cena. Il treno che lo avrebbe condotto verso la capitale tedesca sarebbe partito solo l’indomani alle prime luci dell’alba. Avrebbe approfittato di quella serata informale per affidare il figlio alle cure dei due Poètes. Era la decisione migliore, sebbene non conoscesse a fondo il capo della sezione interrogatori, Arthur poneva la massima fiducia in Charles. In quasi trent’anni l’amico non era cambiato, era rimasto lo stesso ragazzino che aveva incontrato nelle Ardenne e di cui in un’altra vita, si era innamorato.

Sarebbe stato tutto più facile se fosse riuscito a ricambiare i sentimenti di Baudelaire ma non era possibile. Fuggire insieme a lui e crescere il piccolo Charlie si sarebbe rivelata l’ennesima utopia e nessuno di loro meritava una vita di menzogne.

Paul era il padre di suo figlio, questa verità non sarebbe mai potuta cambiare.

Proprio per questo Rimbaud non avrebbe abbandonato l’essere artificiale al proprio destino. Se erano arrivati fino a quel punto era solo colpa sua. Era lui ad aver infranto per l’ennesima volta le regole, cedendo ai propri sentimenti e finendo con il coinvolgere il proprio partner.

Per contro, Verlaine era stato abilmente manipolato da Hugo che lo aveva reso una pedina sulla propria scacchiera. Arthur si era sentito un tale stupido per non aver compreso prima quel piano o per averlo impedito. Si passò una mano sul volto, scostandosi una ciocca di capelli. Erano diventati parecchio lunghi ma non aveva avuto tempo per acconciarli o tagliarli. Lanciò un’ultima occhiata al figlio, che nel proprio lettino, stava finendo l’ennesimo biberon. Charlie stava crescendo a vista d’occhio e Paul se lo stava perdendo. Quel pensiero gli provocò una fitta al cuore.

Doveva riprendersi il proprio partner, anche a costo di scatenare un nuovo conflitto o inimicarsi l’intera Organizzazione.

Rimbaud sapeva che tornare nella capitale francese sarebbe stato un azzardo, così come lo era stato accettare di incontrare Hugo. Aveva scelto di giocare quella partita conscio dei rischi nei quali sarebbe incappato. Era davvero troppo tardi per farsi assalire da dubbi o ripensamenti.

Affidare suo figlio a Baudelaire era la scelta migliore. In quei giorni, Arthur aveva potuto osservare il Poète giocare con il bambino. Charles adorava il suo piccolo omonimo e lo viziava con mille regali e attenzioni. Era ad un futuro simile che aveva rinunciato. I sentimenti che ancora provava per Baudelaire lo avevano spinto a rifiutare la sua proposta. Charles meritava qualcuno che lo amasse davvero. Un tipo di sentimento che lui non avrebbe mai potuto offrirgli.

Fu allora che le parole di Hugo gli tornarono alla mente:

Baudelaire non è altro che un amore adolescenziale, una cotta passeggera. Quando incontrerai il vero amore, solo allora capirai la differenza, sarai disposto anche a scendere all’inferno per lui”

Victor aveva ragione. Per riavere Paul nella sua vita, Arthur sarebbe stato pronto a tutto, anche raggiungerlo al fronte. Non vi era stato alcun tentennamento da parte sua nel prendere quella decisione.

Rimbaud aveva finto per troppo tempo. Quando aveva afferrato la mano di Verlaine aveva capito che non sarebbe più stato in grado di lasciarla. Il ricordo di quell’unica notte di passione gli tornò alla mente, così come i mesi successivi trascorsi nella capitale inglese. Qualcosa gli suggeriva che anche se non avessero avuto quel bambino le cose tra loro sarebbero andate a finire in quel modo. Rimbaud aveva cercato di essere un buon agente segreto ma per l’ennesima volta aveva fallito. Era bastato uno sguardo di ghiaccio incorniciato da un volto angelico per farlo capitolare. Il carattere di Paul era un altro paio di maniche ma Arthur non avrebbe cambiato una virgola di lui. Era perfetto, lo era sempre stato.

L’unico problema di Verlaine risiedeva nella sua totale incapacità di mostrare apertamente i propri sentimenti. Per questo motivo i suoi comportamenti spesso venivano fraintesi. Rimbaud non aveva mai avuto il minimo dubbio sul fatto che Paul amasse il figlio. Dopo lo stupore e la paura iniziali, l’essere artificiale aveva iniziato a preoccuparsi per quella creatura non facendo nulla che potesse metterla in pericolo, rifiutandosi persino di utilizzare la propria Abilità durante la gravidanza.

Se le parole di Hugo avevano un qualche fondo di verità quell’idiota stava rischiando la propria vita per proteggerli e lui non lo avrebbe mai permesso. Rimbaud avrebbe voluto che Verlaine si confidasse con lui ma sapeva che se l’avesse fatto avrebbero finito con il litigare. Arthur non avrebbe mai lasciato che il proprio compagno partisse per il fronte. Era ancora perso nei propri ragionamenti che non si accorse di Baudelaire fino a quando questi non fu di fronte a lui. Il Poète gli sorrise porgendogli un bicchiere di vino. Si specchiò in quegli occhi blu che un tempo tanto aveva amato,

«Stai pensando ancora al tuo mostro vero?»

«Charles» lo ammonì stancamente accettando l’offerta,

«Scusa a volte so essere stronzo» Arthur annuì prendendo un primo sorso

«Non posso arrendermi senza aver lottato. Per colpa delle regole dei Poètes ho già perso qualcuno di importante» confessò preferendo fissare l’orizzonte.

«Non mi hai perso, Paul»

«Sai cosa voglio dire. Allora ero giovane, avevo troppa paura per ribellarmi a Vic» finalmente si guardarono negli occhi.

«Penso che non sarebbe cambiato nulla. Sarei comunque diventato una spia. Avrei fatto qualsiasi cosa pur di rimanere al tuo fianco» Rimbaud lo sapeva. Conosceva bene la testardaggine di Baudelaire, era peggio della propria ma era proprio grazie ad essa se si erano incontrati dopo dieci anni.

«A volte vorrei che Paul fosse più simile a te. Non hai mai nascosto i tuoi sentimenti, hai sempre detto ciò che provavi o che ti passava per la mente» mormorò prendendo l’ennesimo sorso di vino. I ricordi di quella stagione parigina riaffiorarono con forza. Erano passati solo sei anni eppure sembrava trascorsa un’eternità. Erano stati giorni felici in cui Arthur Rimbaud aveva creduto ad un futuro radioso. Ci aveva sperato per davvero.

«Ciò che provo per te non è mai cambiato. L’offerta che ti feci a Londra è ancora valida. Dimenticati di quel mostro, fuggi con me»

«Charles per favore» fu allora che Baudelaire si chinò verso di lui facendo collidere le loro labbra. Rimbaud rimase immobile per la sorpresa. Dopo qualche secondo trovò la forza di reagire allontanando il Poète.

«Paul» il moro lo guardò con astio,

«Il mio nome è Arthur Rimbaud e per l’ultima volta tra di noi è finita. Se la nostra amicizia ha ancora valore ti prego di accettare la mia decisione. Sei una persona importante per me Charles, sei il solo al quale potrei mai affidare mio figlio»

«Anche tu sai essere un mostro crudele Arthur. Prima mi spezzi il cuore e poi mi chiedi di badare a quel bambino che somiglia così tanto a Black»

«Forse hai ragione»

«Lo farò» disse prima di abbassare il capo. Non poteva fare altrimenti, in nome di quel sentimento che continuava a dilaniare il suo animo. Rimbaud gli sorrise grato anche se un leggero brivido di freddo lo fece sussultare.

«Sei il solo di cui mi fidi Charles» forse si stava davvero approfittando dei suoi sentimenti, ma l’unica certezza alla quale al momento poteva aggrapparsi era che Baudelaire non lo avrebbe mai tradito, ed era sufficiente.

«Hugo non si avvicinerà al bambino lo proteggerò a qualsiasi costo»

«Grazie»

In un’altra vita avrebbero potuto essere felici. Rimbaud però aveva fatto la propria scelta. Avrebbe riportato Paul a casa, non avrebbe perso nuovamente la propria famiglia.


***
 

Germania

-una settimana dopo-




«E tu chi diavolo saresti?»

Nonostante le continue raccomandazioni di Mallarmé, Verlaine sembrava intenzionato ad agire per conto proprio. Già durante il suo primo incontro con Goethe, l’essere artificiale aveva messo in chiaro le proprie posizioni, avrebbe aiutato la Germania ma non si sarebbe piegato ai loro ordini. L’unica cosa che lo tratteneva era la certezza che Rimbaud e il bambino fossero al sicuro. Il guinzaglio con cui Hugo lo teneva vincolato a sé era sempre più sottile, bastava un niente per spezzarlo.

Quel pomeriggio Verlaine aveva utilizzato la propria Abilità per annientare la prima linea dell’esercito nemico finendo con l’ottenere l’ennesima vittoria. Un volta tornato nella propria tenda però aveva trovato un ragazzino ad attenderlo.

«Sono Friedrich Schiller, Herr Goethe mi ha mandato qui per…”»

«Non mi interessa, vattene» Era ricoperto di fango e sangue, desiderava solo potersi fare un bagno. La guerra era diversa da come se l’era immaginata ma non avrebbe mai dato a Rimbaud la soddisfazione di aver avuto ragione anche su quello. Il campo di battaglia era un vero inferno e lui era fatto per governarlo. Avrebbe danzato fra quelle fiamme e lo avrebbe fatto solo per lui.

«Scusate se insisto Herr Verlaine ma sono gli ordini» il biondo alzò gli occhi al cielo facendogli segno di accomodarsi. Prima avrebbe risolto quella seccatura e prima avrebbe potuto rilassarsi. In fondo Arthur gli aveva insegnato le buone maniere, anche se non credeva che gli sarebbero mai servite,

«Allora cosa vuole Goethe?» domandò senza mezzi termini

«Solo sapere il motivo per cui siete qui» sussurrò mellifluo il tedesco,

«Che diavolo significa? Sono qui su ordine di Hugo per aiutare con la prima linea»

«Vedo che non siete molto sveglio. Partiamo dall’inizio, Herr Goethe non si fida del vostro caro Hugo, soprattutto dei suoi contatti con gli inglesi» Verlaine storse il naso, iniziando a comprendere,

«Anche il tuo capo ha rapporti con la Torre dell’Orologio» Rimbaud aveva accennato spesso a lui durante il loro soggiorno a Londra. Gli inglesi erano entrati solo di recente nel conflitto, c’era voluto l’assedio e il bombardamento della loro capitale per obbligarli a scendere in campo, ma lo avevano fatto al massimo delle forze.

«Vero, ed è proprio grazie a questi rapporti sappiamo dell’esistenza di vostro figlio»

«Non so di cosa tu stia parlando»

«Hai avuto un bambino»

«É assurdo»

«Io non credo» concluse mostrandogli un vecchio quaderno. Verlaine riconobbe subito quella grafia, non avrebbe mai potuto dimenticarla,

«Sono…»

«Appunti del tuo creatore, intorno alla decima pagina viene fatta menzione sulla tua capacità di riprodurti. Nemmeno Pan credeva che potesse funzionare ma in fondo non ha avuto abbastanza tempo per testarlo» concluse facendogli l’occhiolino.

Verlaine stava iniziando a perdere il controllo, ad ogni parola di Schiller sentiva la propria coscienza farsi sempre più debole.

«Mi chiedo chi possa essere il padre di quella creatura, anche se guardandoti più da vicino non deve essere stato questo grande sacrificio scoparti»

«Sta zitto» gli intimò iniziando con l’alterare la gravità presente nella tenda,

«Ti ha ingravidato su ordine di Hugo o avete fatto tutto da soli? Chissà magari è proprio lui il padre»

Verlaine esplose. All’ennesima provocazione smise semplicemente di pensare finendo con lo scatenare la propria furia.

Quando riprese conoscenza si trovò di fronte le iridi ambrate di Rimbaud che lo fissavano preoccupate. Per un attimo gli sembrò una visione, troppo bello ed etereo per essere vero.

«Arthur?» domandò confuso portandosi una mano sulla fronte. Stava sognando, il partner non poteva trovarsi lì.

«Vieni dobbiamo andarcene, appena scopriranno cosa hai fatto…» disse il moro afferrandolo per una spalla aiutandolo ad alzarsi,

«Perché cosa ho fatto?» Domandò prima di notare i resti della propria tenda e il corpo sembrato di Schiller,

«Hai liberato la tua Abilità e ucciso un soldato tedesco»

«Mi ha provocato»

«Immaginavo»

«Dico davvero, ha insinuato che Hugo potesse essere il padre di Charlie» a quelle parole si bloccarono entrambi. Rimbaud gli rivolse uno sguardo allarmato,

«Come fanno i tedeschi a sapere di lui?» domandò il possessore di Illuminations

«Non ne ho idea ma Londra non è più un luogo sicuro» fece una pausa prima di aggiungere «Arthur dove è il bambino? Dove hai lasciato nostro figlio?»

Rimbaud non se lo aspettava. Vedere Paul così preoccupato era una novità alla quale non era preparato,

«A Parigi» confessò dopo qualche minuto, non appena raggiunsero la boscaglia.

«Parigi?»

«L’ho affidato ad una persona fidata» lo sguardo che Verlaine gli rivolse in quel momento fu così freddo da fargli venire la pelle d’oca.

«Victor?»

«No. Sta con Charles»

«Chi?»

«Baudelaire»

«Penso che tu mi debba parecchie spiegazioni» mormorò il biondo afferrandolo per una mano,

«Senti da che pulpito. Te ne sei andato nel cuore della notte»

«Dannazione Arthur»

«Sapevi che ti avrei seguito»

«Ho sperato fino all’ultimo nel tuo buonsenso»

«Hai appena ucciso un soldato tedesco Paul, dio solo sa cosa sarebbe potuto succedere se non fossi intervenuto in tempo»

«Questa è la prima volta che mi trasformo dalla nascita del bambino» confessò il biondo abbassando il capo.

«Significa solo che hai riacquistato completamente il tuo potere»

«Ora posso uccidere Hugo» Rimbaud alzò gli occhi al cielo.

«Cerchiamo di tornare in Francia senza farci ammazzare prima» ma non aveva terminato la frase che vennero intercettati da alcuni soldati. Il moro non riuscì a scorgere il colore delle loro divise, amici o nemici non avevano molta scelta,

«Scappiamo» urlò al proprio partner trascinandolo al riparo, dopo aver attivato la propria Abilità per distrarli.

«Perché? Posso combattere» si lamentò il biondo

«Per oggi hai fatto abbastanza» sussurrò prima di tirarlo più vicino a sé. Anche ricoperto di fango e sangue, Verlaine rimaneva la creatura più bella sulla quale avesse mai posato lo sguardo. Paul non disse nulla. Rimbaud gli era mancato ma non lo avrebbe mai confessato ad alta voce. Erano passati mesi dall’ultima volta in cui si erano trovati tanto vicini. Stavano per baciarsi quando vennero interrotti.

«Comandate, li abbiamo trovati»

Un uomo dai capelli bianchi e penetranti occhi rossi gli si parò davanti.

«Arthur Rimbaud?» domandò facendo un cenno al moro. Verlaine si sciolse dall’abbraccio per frapporsi tra i due.

«Chi diavolo sei?» domandò pronto ad attaccare,

«Tu invece devi essere Black. Potete star tranquilli, non sono vostro nemico. Il mio nome è André Gide e sono qui su ordine di Victor Hugo»

 

***


Parigi

-quella mattina-



Victor Hugo impeccabile come al solito si stava preparando per la riunione d’emergenza che di lì a pochi minuti si sarebbe tenuta con gli altri alti esponenti dei Poètes. Stava per uscire dal proprio appartamento quando Dumas scelse di riemergere da una delle camere con solo una camicia addosso.

«Dovresti vestirti» si limitò a sussurrare il leader dei maledetti, porgendogli una tazza fumante di caffé che il biondo non rifiutò,

«Pensavo saresti rimasto a letto ancora qualche minuto» Hugo lo fulminò con lo sguardo,

«Ci sono problemi sul fronte tedesco. Devo presenziare ad un incontro importante con gli altri dirigenti» si limitò a spiegare

«Ma se li hai creati tu quei problemi»

«Loro però non lo sanno» Il biondo non riuscì a trattenere una risata.

«Come non sanno della mia presenza?» Hugo alzò le spalle preferendo non rispondere

«Ho mandato un manipolo di uomini in aiuto di Arthur» sussurrò per distrarlo, Dumas sorrise,

«Non sarebbe più semplice lasciare che se ne occupi Goethe?» Victor scosse il capo, appoggiando la propria tazza ormai vuota sul tavolo della cucina,

«Johann ha altro per la testa»

«Il fronte giapponese?» tirò ad indovinare,

«Non so in che rapporti sia con quel Paese, tuttavia non vorrei mai averlo come nemico»

«Cosa hai in mente Vic?»

«Gide e i suoi uomini aiuteranno Arthur e il suo mostro a fuggire dalla Germania attraverso la strada più lunga. Per quando torneranno in patria noi saremo già lontani con il bambino»

«Pensavo che gli sarebbe capitato uno spiacevole incidente lungo il percorso» suggerì Dumas,

«Sei sempre stato molto più spietato di me»

«Beh siamo in tempo di guerra, gli agguati possono capitare»

«Sono due Trascendentali, uno dei quali è stato addestrato da noi» si limitò a fargli notare Hugo rubandogli l’ennesimo bacio come se fosse la cosa più naturale e spontanea del mondo,

«Gide hai detto?»

«Già, possiede un’Abilità di precognizione, molto utile in combattimento. Inoltre è un uomo semplice, uno di quelli che non si pone troppe domande ma si limita ad eseguire gli ordini»

Dumas sorrise.

«Sei davvero incredibile»

Il bacio in cui lo coinvolse ebbe l’effetto di lasciare entrambi senza fiato.

 

***

 

Germania


 

Rimbaud non aveva esitato nell’accettare l’aiuto di Gide e delle sue truppe. Nonostante le perplessità di Verlaine il piccolo esercito mandato da Hugo li stava guidando attraverso le linee nemiche. Era tutto fin troppo sospetto.

«Ti fidi di questi uomini?» aveva domandato il biondo al compagno. Arthur aveva risposto con un’alzata di spalle,

«Non mi fido di nessuno. Dumas, Hugo, dei Poètes»

«Di Baudelaire però ti fidi» gli fece notare con la solita punta di gelosia.

«A Londra mi ha proposto di fuggire con lui» confessò Rimbaud ma prima che Verlaine potesse ribattere aggiunse

«Era disposto anche a crescere Charlie»

«Perchè non hai accettato?» Arthur non poteva credere alle proprie orecchie, aveva sperato in una reazione diversa,

«Charlie ha già un padre» ammise facendo appello a tutto il proprio autocontrollo

«Sei un idiota»

«Non potevo accettare una vita fatta di menzogne. Non provo nulla per Baudelaire, è come un ricordo di una vecchia stagione della mia vita. Charles rappresenta il passato, tu sei il mio presente Paul, e sei anche il solo futuro che voglio»

«Ho accettato di aiutare Hugo per salvarvi. Sono tornato a Parigi per questo dannazione»

«Credevi veramente che avrebbe mantenuto la parola? Dobbiamo tornare subito in Francia, temo che Victor possa approfittare di questa situazione»

«Ti fidi davvero di questo Baudelaire? Non era morto?»

«É una lunga storia»

Verlaine però non aveva voglia di sentirla. Solo l’idea che quel Charles potesse essere ancora vivo lo irritava.

«Come sta Charlie?» chiese cogliendo il compagno di sorpresa. Rimbaud si limitò a sorridergli prima di passargli un braccio dietro la schiena, facendo avvicinare maggiormente i loro corpi,

«Ora ha quasi cinque mesi» rispose mostrandogli una fotografia scattata la sera prima della propria partenza. Paul la prese tra le mani osservandola con interesse.

«Mi somiglia davvero» si trovò ad ammettere il biondo scrutando ogni minimo particolare. Quando aveva lasciato la capitale inglese, suo figlio aveva solo poche settimane. Il bambino sorridente tra le braccia di Rimbaud ritratto in quella fotografia gli sembrava quasi un estraneo. Aveva i suoi occhi e i capelli chiari, anche se quell’espressione allegra era tutta di Arthur. Lui non sarebbe mai stato in grado di sorridere in quel modo.

«Ti manca?» domandò il moro poggiando il capo contro la sua spalla.

«Mi mancavi tu e sì forse anche lui» concesse Verlaine dopo qualche secondo. Odiava mostrarsi così debole ma riavere Arthur al proprio fianco gli provocava una serie di emozioni contrastanti. Era l’unico al quale avrebbe mai mostrato quel lato di sé. Voleva baciarlo, prenderlo a pugni, tutto nello stesso istante tanto da non riuscire a decidersi. Fu allora che Rimbaud corse in suo aiuto facendo intrecciare le loro mani.

«Anche a Charlie mancava suo padre» ammise baciandogli una tempia,

«Non volevo lasciarvi ma ho pensato fosse la scelta migliore»

«Lo so»

«Non credevo che mi sarei sentito così» Arthur sorrise prima di avvicinarsi coinvolgendo il compagno in un bacio che da troppo tempo aveva agognato. A quel contatto Paul si limitò a rispondere con trasporto. Anche lui lo aveva desiderato. Durante la permanenza a Londra si era abituato a ricevere quelle effusioni, tanto che in quei mesi di lontananza ne aveva sentito la mancanza.

«Va tutto bene Paul» sussurrò il moro non appena si staccarono. Avvertiva i battiti del proprio cuore e di quello del compagno. Se non si fossero trovati in mezzo al nulla e nel pieno di un conflitto non avrebbe esitato a continuare.

«Ti odio» Rimbaud non riuscì ad impedirsi di sorridere,

«Lo so, in questo momento vorresti uccidermi»

«Strozzarti sarebbe un termine più appropriato»

«Io vorrei…» ma non riuscì a terminare la frase che Gide si parò davanti a loro.

«Scusate non volevo interrompere qualsiasi cosa stiate facendo, ma tra poco ci muoveremo. Ancora 20 km in direzione ovest, poi monteremo le tende e ci accamperemo per la notte»

«Ovest?» domandò Rimbaud scettico,

«Si, direzione ovest»

«Secondo questa cartina ci stiamo solo allontanando dalla nostra destinazione»

«Ascolta principino, conosco questa zona come le mie tasche, se dico ovest ci sarà un motivo» a Verlaine non piacque quel tono di voce ne come Gide si fosse riferito al compagno.

«Sta calmo Paul» lo ammonì Arthur prima che potesse alzarsi.

«Gide giusto? Possiamo fare due chiacchiere?» Propose con un tono conciliante.

Il comandante annuì e nonostante lo sguardo sospettoso di Verlaine acconsentì a seguirlo nella boscaglia.


***


Realtà originale


 

Carroll osservò Baudelaire alzarsi in silenzio dalla poltrona sulla quale si era accomodato. Il Poète non parlava ma bastava uno sguardo per comprendere lo stato d’animo nel quale versava.

«Ho sempre pensato che Hugo fosse un bastardo» furono le prime parole che lasciarono le sue labbra,

«Perchè non hai mai incontrato Agatha o William»

«Shakespeare?» Carroll annuì

«Era ovvio che sarebbero arrivati al bambino» proseguì l’inglese. Baudelaire chinò il capo.

Una creatura nata da un essere artificiale e un Trascendentale, quel piccolo poteva rivelarsi pericoloso come Arahabaki.

«Non sembra possedere un’Abilità» concluse in sua difesa. Non capiva nemmeno lui perché avesse tanto a cuore la sorte di quel bambino. In fondo era solo il prodotto di una fantasia. Non era reale, eppure continuava a rivedere quel sorriso innocente nella propria mente. Il potere di Carroll era veramente pericoloso, all’improvviso Baudelaire comprese il perché molti uomini preferissero rimanere bloccati in quelle utopie. Sarebbe stato troppo bello sperare lo stesso per Black.

«Ciò non toglie che la sua sola esistenza sia vista come una minaccia alla stabilità del continente» proseguì l’inglese,

«Le grandi potenze avevano preparato quella guerra nei minimi particolari, per questo motivo non possono permettere che una simile anomalia sfugga al loro controllo» era un ragionamento che filava perfettamente, in linea con il pensiero di Dumas e Hugo.

Baudelaire lanciò l’ennesima occhiata a Verlaine. Ormai riusciva a prevedere il corso che avrebbero preso gli eventi. Una parte di lui avrebbe evitato di assistere all'epilogo di quella storia.

«Ti avevo avvertito» mormorò Carroll notando la sua espressione combattuta,

«Sono passate un paio d’ore» si limitò a sussurrare.

«Quando pensi ci raggiungeranno?»

Istintivamente mise una mano in tasca per afferrare il proprio cerca persone. Stendhal non aveva più provato a contattarlo, già quello era sospetto. Il superiore avrebbe provato a fargli guadagnare del tempo ma di fronte ad Hugo dubitava sarebbe servito.

Non avrebbe mai voluto coinvolgere Stendhal in quella storia. Baudelaire aveva sempre saputo che provocare Black sarebbe stato pericoloso. Il suo era un piano azzardato al quale però non era stato capace di rinunciare. Ormai si era spinto troppo oltre, se ne rendeva conto da solo. La possibilità di riscrivere la realtà però era un’attrattiva troppo allettante.

Se il suo piano avesse funzionato, avrebbe potuto regalare un finale diverso a tutti loro. 

Charles continuò ad osservare il volto del biondo bel addormentato. Per l’ennesima volta a quel mostro era stata data la possibilità di avere tutto e non l’aveva colta. Questo suo lato lo faceva incazzare quasi quanto il vederlo giocare con i sentimenti del suo Paul.

Strinse i pugni fino ad arrivare a farsi sbiancare le nocche.

«Non ci resta molto tempo» concluse evocando la propria Abilità. Un fiore rosato comparve tra le sue mani

«Sai che siamo vicini alla fine?» tentò Carroll prima di incrociare il suo sguardo.

Baudelaire annuì. Ancora una volta i propri sentimenti lo spingevano a lottare per inseguire quell’impossibile sogno d’amore.

«Voglio vederlo» non riusciva a figurarsi chi avrebbe potuto mettere fine alla vita di Rimbaud. Gide, Hugo, un attacco nemico, la lista dei possibili candidati era lunga. 

«E voglio vedere come lo proteggerai» sussurrò a Verlaine prima di posare quel fiore sul suo capo.


***


Realtà originale

Parigi

- quello stesso momento-



«Dove credi di andare Henry?» il capo della sezione interrogatori si fermò di colpo al centro del corridoio. Mezz’ora prima aveva origliato una strana conversazione avvenuta tra Hugo e qualcuno che con ogni probabilità poteva essere solo Alexandre Dumas.

«Ho dimenticato dei documenti sull’evasione di Meursault» mentì

«Cosa hai sentito?» diretto, letale, come solo il leader dei Poètes Maudits sapeva essere.

«Progetto Arahabaki» furono le sole parole che uscirono dalle sue labbra. Victor gli sorrise,

«Voglio davvero aiutare Baudelaire ma collaborando con Black si è cacciato proprio in un bel guaio, dobbiamo arrivare a lui prima dell’Europole»

«Chi era all’altro capo del telefono?»

«Non dirmi che non lo hai capito, sei sempre stato uno dei miei agenti migliori»

«Credevo che Dumas fosse morto» non riuscì a nascondere la propria sorpresa,

«Ho sempre sospettato il contrario ma ne ho avuto la conferma solo al termine della Guerra quando me lo sono trovato seduto al tavolo delle trattative di pace a Standard Island» confessò con il solito sorriso tagliente. Poteva essere la verità come l’ennesima bugia.

«Incredibile» si limitò a sussurrare, preferendo rimanere al gioco,

«Ho pensato la stessa cosa. Lex è sempre stato il mio avversario migliore. L’unico che non vorrei mai avere come nemico»

«Perchè non è tornato tra i Poètes?» lo sguardo di Hugo si fece improvvisamente serio,

«Semplicemente perchè ora è il comandante dell’Europole, ci sarebbe un leggero conflitto di interessi»

Stendhal non riusciva a credere alle proprie orecchie.

«Capisci perché non possiamo permettere che arrivino a Black prima di noi?» l’uomo annuì prima di accendersi una sigaretta.

«Posso partire anche subito» Victor gli regalò l’ennesimo sorriso,

Tutto stava procedendo secondo i piani. Stendhal era davvero troppo facile da manipolare.

 

***


Wonderland

Parigi



«Finalmente si è addormentato» concluse Charles Baudelaire lasciandosi cadere a peso morto su una delle poltrone del soggiorno.

«Non credevo che occuparsi di un bambino fosse così impegnativo» aggiunse abbracciando uno dei cuscini. Stendhal, in piedi a pochi metri da lui, fece per accendersi una sigaretta,

«No. Fermo. Se vuoi fumare vai fuori in terrazza. Ora abbiamo un neonato» il capo della sezione interrogatori lo fissò confuso,

«Certo che ti sei calato perfettamente nel ruolo della madre apprensiva» lo prese in giro facendo però quanto detto. Charles arrossì.

In realtà adorava occuparsi del suo piccolo omonimo. Nonostante la somiglianza fin troppo palese con quel mostro, Charlie gli ricordava molto anche Arthur, il bambino che era stato.

«Gli ho proposto di fuggire insieme» mormorò con un tono di voce sommesso che tuttavia giunse alle orecchie di Stendhal. Il superiore annuì. Se lo era aspettato.

«Dovresti ringraziare Rimbaud per aver rifiutato. Era un piano folle. Ti saresti inimicato Hugo e i governi di mezza Europa»

«Paul è innamorato di quel mostro» era forse la prima volta che arrivava ad ammetterlo ad alta voce.

«Perché mi sembri così sorpreso? Cioè da dove credi sia venuto il bambino che dorme nella stanza a fianco?» non voleva essere troppo severo ma era giunto il momento che Baudelaire aprisse gli occhi. Stendhal era stanco di assecondare i suoi vaneggiamenti. Arthur Rimbaud era partito per la Germania con l’intento di riprendersi il compagno, lo stesso con il quale aveva avuto un figlio. Charles doveva crescere ed accettare quella realtà che per quanto dolorosa, non sarebbe potuta cambiare.

«Se dovessi rinunciare così facilmente sarebbe come ammettere che quel sentimento non abbia mai avuto un valore» Stendhal spense la propria sigaretta. Quel moccioso era una causa persa.

«Hai sofferto abbastanza per quell’amore» sentenziò con tono grave

«Senza Paul cosa mi resta?»

«Hai ancora il tuo lavoro» Baudelaire gli rivolse un sorriso sprezzante,

«Non sono come te Henri, io sono diverso. Sai perchè mi sono unito ai Poètes. Sai che l’ho fatto solo per lui»

«Forse è arrivato il momento che tu faccia qualcosa per te stesso»

«Come sei andato avanti, dopo la morte della tua fidanzata intendo?» Lo sguardo che Charles gli rivolse in quel momento mise a dura prova l’autocontrollo di Stendhal.

«Hugo mi ha dato uno nuovo scopo. Utilizzare il mio potere per aiutare gli altri»

«E quanta gente hai aiutato?» Charles sapeva bene dove colpire e non si stava certo risparmiando,

«Ti rende davvero felice occuparti di quel bambino o lo stai facendo solo per un desiderio malato?»

«Che vorresti insinuare?»

«Vorresti fosse tuo» Baudelaire era senza parole.

«Somiglia troppo a quel mostro» ammise sconfitto, raccogliendo da terra uno dei sonaglini con cui aveva giocato qualche ora prima.

«Ho desiderato una famiglia con Paul. Non penso ci sia nulla di sbagliato in questo. Quando ho scoperto del bambino l’ho semplicemente aggiunto all’equazione»

«Saresti stato disposto ad amare il figlio di un altro?»

«Per lui lo avrei fatto, anche se ogni volta che incrocio lo sguardo di Charlie non posso fare a meno di pensare al mostro che lo ha generato. Black aveva ogni cosa e vi ha rinunciato, è questo che non sopporto. Non ho mai visto quell’essere ma lo odio con ogni fibra del mio corpo» Stendhal gli posò una mano sulla spalla,

«Saresti disposto a proteggere questo bambino con la tua stessa vita?»

«Perché questa domanda?» il superiore gli intimò di abbassare la voce.

«Ho visto una figura sospetta entrare nell’edificio» confessò,

«Sapevo che Hugo non avrebbe mantenuto la parola»

«Io mi preoccupavo di più per Dumas» Baudelaire lo guardò confuso,

«Lex mi sembrava una brava persona»

«Sei ancora troppo ingenuo. Credi davvero che un uomo in grado di rivaleggiare con Hugo e prendere in giro la Torre dell’Orologio possa essere una brava persona?»

«Ha aiutato Paul»

«Sicuramente aveva qualcosa in mente»

In quel momento un’esplosione fece saltare la porta dell’appartamento.

«Prendi il bambino io penserò a trattenerli»

«Henri»

«Fa come ho detto è un ordine»










 

*«Allora – oh – povera anima cara, l’eternità non sarebbe forse perduta per noi?»


 

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Capitolo 17
*** XVII Stagione - En marche! ***


XVII Stagione - En marche!




 

«Assez! Voici la punition. - En marche!

Ah! Les poumons brûlent, les temps grondent!

La nuit roule dans mes yeux, par ce soleil! Le cœur…les membres…

Où va-t-on? Au combat?»*

Une Saison en Enfer

 




 

Wonderland


Germania

- circa a 50 km dal confine francese-

 

 

André Gide si limitò a seguire Arthur Rimbaud nella fitta boscaglia. I suoi ordini erano pochi, semplici e chiari: doveva scortare i due Trascendentali al sicuro fino alla capitale francese utilizzando però la strada più lunga. Hugo gli aveva spiegato come quella fosse la strategia migliore per tenere i propri agenti al sicuro e lui non aveva obiettato.

Gide era un buon soldato, non era abituato a mettere in discussione gli ordini dei propri superiori soprattutto se provenivano da qualcuno di tanto importante come il leader di una delle maggiori organizzazioni europee.

La prima impressione era quella che contava e quella che il mercenario ebbe di Verlaine fu pessima. Gli era bastata una sola occhiata per capire di come il biondo fosse una pericolosa quanto imprevedibile testa calda. L’Abilità di Gide, la Porte Étroite, si era attivata più volte, mettendo in guardia il soldato e salvandogli la vita da quegli scatti d’ira incontrollati.

L’uomo dai lunghi capelli neri, Arthur Rimbaud, sembrava decisamente più pacato o comunque una persona ragionevole con la quale si potesse intavolare una conversazione. Gide aveva sentito parecchie voci sul suo conto, era considerato il migliore tra i Poètes oltre che l’erede dello stesso Hugo. Rimbaud era una sorta di leggenda vivente anche se dall’inizio della guerra si erano perse le tracce su di lui.

Vederlo in atteggiamenti così amichevoli con il compagno lo aveva sorpreso ma in fondo non erano affari che lo riguardavano. Ognuno poteva fare ciò che voleva della propria vita. Una missione era una missione e lui non si sarebbe tirato indietro. Avrebbe scortato i due Trascendentali fino alla capitale francese, una volta lì avrebbe atteso gli ordini successivi.

«Penso che qui possa andar bene» mormorò il comandante arrestando i propri passi. Il moro davanti a lui fece lo stesso.

«Preferirei avanzare ancora di qualche metro, voglio essere sicuro che Paul non ci senta» spiegò con una scrollata di spalle e un’occhiata severa.

«Non ti fidi del tuo compagno?». Gide non si aspettava una risposta simile. Rimbaud gli sorrise iniziando a sistemarsi meglio la sciarpa intorno al collo.

«Al contrario, temo per la vostra vita. Sapete, Paul tende ed essere piuttosto geloso nei miei confronti» l’uomo dai capelli bianchi non si lasciò intimorire da quella velata minaccia né dal tono presuntuoso con cui gli era stata rivolta.

«Allora, di cosa volevate parlarmi principino?» lo provocò divertito, incrociando le braccia al petto

«Per favore smettetela di appellarmi in quel modo»

«Non siete forse il prezioso erede di Hugo?» Rimbaud alzò gli occhi al cielo. Non importava dove andasse o cosa facesse, per il resto del mondo lui sarebbe sempre rimasto l’agente eccezionale che Victor aveva allevato. Non avrebbe mai potuto sottrarsi a quell’immagine che per tanti anni gli era stata cucita addosso. Forse solo dall’altro capo del mondo poteva sperare di non essere riconosciuto.

«Un anno fa sono fuggito a Londra, con Paul. Ho disobbedito ad un ordine diretto di Victor che invece mi voleva impegnato sul fronte tedesco. Nel frattempo ho avuto un figlio» iniziò sommariamente a spiegare.

«Poi il mio compagno ha avuto la brillante idea di tornare in patria, sono corso da lui ed eccoci qui. Non amo perdere tempo Gide, su questo penso di essere simile a Hugo. So che ci state guidando a Parigi attraverso la strada più lunga e immagino anche di sapere il perché» il comandante indietreggiò di un paio di passi.

Rimbaud non sembrava avere cattive intenzioni, la sua Abilità in fondo non si era attivata. Tuttavia qualcosa nello sguardo del moro gli suggeriva di non abbassare la guardia,

«Ho degli ordini precisi, è per garantire la vostra sicurezza» Arthur creò un piccolo cubo dal colore rossastro e prese a giocarci,

«Mio figlio ora si trova nella capitale francese» spiegò senza mezzi termini

«Non mi fido di Victor, per questo desidero tornare a casa il prima possibile» Gide annuì. Lui non aveva una famiglia da cui tornare. Il Poète al contrario sembrava disposto a tutto pur di rivedere il figlio.

«Che ne è stato della madre?» riuscì a domandare. Arthur inizialmente non comprese.

«Come?»

«La madre del bambino è rimasta a Londra?»

«È morta» prima che potesse replicare, la voce di Verlaine lo colse di sorpresa, così come quella risposta o il tono deciso con cui era stata pronunciata.

«Mi dispiace» rispose il comandante prima di congedarsi.

«Tra poco ci metteremo in marcia, direzione nord est» il moro sorrise per quella piccola vittoria.

Raggiunse in pochi passi il compagno.

«Non aveva detto ovest?» domandò il biondo leggermente confuso,

«Hugo lo aveva pagato per farci prendere la strada più lunga, non ti preoccupare, ci aiuterà a tornare da Charlie il prima possibile»

«Lo hai forse minacciato?»

«Qualcosa del genere»

«Ho voglia di baciarti» Arthur lo fissò sorpreso. Non si aspettava di udire quelle parole. Non in quel momento.

«E allora fallo» lo sfidò. Verlaine non se lo fece ripetere. Prese il viso del compagno tra le mani avvicinandolo al proprio. Erano passati mesi dall’ultima volta che si erano baciati in quel modo. Per entrambi fu come essere tornati a respirare dopo un lungo periodo in apnea.

Rimasero per diversi minuti in quella posizione, l’uno tra le braccia dell’altro prima che Gide tornasse ad interrompere l’idillio nel quale si erano rifugiati,

«Muovetevi o la mia unità vi lascerà indietro» sbottò fingendosi irritato

Arthur sorrise mentre Verlaine gli regalò la migliore delle proprie espressioni infastidite.

«Stasera dormiremo nella stessa tenda» gli fece notare Rimbaud.

Bastarono quelle semplici parole a calmarlo e farlo avvampare.

 

***

 

Francia

-Parigi-


 

Victor Hugo cullava dolcemente il bambino tra le proprie braccia scrutando il tramonto mentre Dumas osservava quella scena innamorato.

«So cosa stai pensando» esordì il leader dei Poètes non appena avvertì quello sguardo fisso su di sé.

«Io non credo» il biondo lo raggiunse coinvolgendolo in un abbraccio. Charlie si lamentò qualche minuto prima di scivolare completamente nel sonno.

«É davvero un bel bambino» Hugo annuì,

«Somiglia molto a Black anche se sembra decisamente più tranquillo»

«Ti devo ricordare mon cher chi sono i genitori? Anche Arthur da bambino sembrava docile e abbiamo visto entrambi come ti si è ribellato»

«Per l’ennesima volta, ho creato quelle regole per proteggerlo. Ricordi cosa è successo a noi?»

«Non potrei mai dimenticarlo» concluse prima di baciarlo.

«Non sono il mostro che crede»

«Sei un leader Vic, hai semplicemente iniziato a comportarti come tale»

«Ho fatto risorgere l’Organizzazione di nostro padre»

«Questo perché eri l’unico in grado di farlo»

«Se solo fossi rimasto al mio fianco Lex, questa guerra si sarebbe risolta in pochi mesi»

«Tu hai sempre sostenuto che questo conflitto fosse inevitabile»

«Perché lo era» e lo sapevano entrambi

«Vic»

«Quando avrai ottenuto la tua vendetta cosa farai Lex, mi lascerai di nuovo?»

«Non l’ho mai fatto veramente e lo sai» nell’ombra aveva sempre aiutato più o meno direttamente il compagno. Hugo lo aveva sempre sospettato ma solo di recente ne aveva ricevuto la conferma.

«Ho creato quelle regole perché nessuno dovesse soffrire quanto noi. Volevo proteggere Arthur ma non me lo ha permesso»

«Volevi davvero farlo o stavi solo cercando di far pace con la tua coscienza?»

Mentre pronunciava quelle parole, Dumas lasciò un’ultima breve carezza sul volto del compagno per poi osservare il bambino addormentato tra le sue braccia.

«Ora hai un’altra occasione» gli fece notare,

«Sai, ho pensato così tante volte di riscrivere la realtà e cambiare il passato»

«Sai dove si trova il Libro, no?» Victor annuì

«Al termine di questa guerra ogni nazione ne otterrà una pagina, come deterrente per il mantenimento della pace. Verrà sorteggiato a sorte un Paese che invece si occuperà di nasconderlo»

«Di chi è stata quest’idea?» domandò Dumas aggrottando leggermente le sopracciglia,

«Mia e di Agatha» avrebbe dovuto immaginarlo

«Johann che ne pensa?»

«Lui è d’accordo»

«Il tizio giapponese?»

«Anche lui»

«Solo a me sembra che questo piano sia stupido?»

«Cosa proporresti Lex?»

«Concordo sul lasciare una pagina ad ogni nazione ma il Libro»

«Ne abbiamo discusso parecchio e questa ci è sembrata la soluzione migliore»

«Forse lo avrei nascosto insieme agli altri artefatti pericolosi in Antartide»

«Si è parlato anche di questo ma con una votazione l’idea è stata bocciata»

«Quel Libro è pericoloso»

«Lo so» Hugo sembrava irremovibile. «Lo sappiamo bene»

Dumas sciolse il proprio abbraccio tornando ad osservare il piccolo Charlie

«In quanti sanno del bambino?»

«Dimmelo tu, mio caro doppiogiochista» entrambi sorrisero,

«Germania e Inghilterra» ammise con un rapido calcolo,

«E in quanti credi che ce lo lasceranno tenere?» continuò Hugo pensieroso,

«Prima forse dovresti pensare a come neutralizzare i suoi genitori. A proposito, gli altri due come stanno? Sono ancora vivi?» il leader dei Poètes si imbronciò,

«Stendhal abbastanza bene. Ha una gamba e un paio di costole rotte ma si riprenderà. Non appena i miei agenti avranno finito di cancellargli la memoria sarà come nuovo»

«E Baudelaire?»

«In coma dopo aver ricevuto un contraccolpo della sua Abilità. Sinceramente penso sia meglio così, è sempre stato un moccioso problematico»

«Come credi che reagirà Arthur?» Victor gli regalò l’ennesimo sorriso

«Ho già un piano per il suo ritorno in patria e non fingere di non averne uno anche tu»

Dumas sorrise. Hugo aveva ragione, anche lui aveva preparato una strategia ma più che per Rimbaud la sua si concentrava su come neutralizzare Black. La loro unica speranza risiedeva nel fatto che quel mostro non si fosse ancora ripreso dalla gravidanza ma era talmente flebile da non poter essere presa in considerazione.

Affidarsi alla buona sorte non era da lui. Quando scendeva in campo, Alexandre Dumas lo faceva solo dopo aver valutato ogni rischio e possibilità. Era sempre stato uno stratega, al contrario di Hugo che preferiva combattere in prima linea.

Con il tempo le cose erano cambiate. Loro erano cambiati. Victor aveva assunto il ruolo di leader dei Poètes mentre lui aveva continuato ad agire nell’ombra, alla disperata ricerca di una vendetta che avrebbe solo appagato la propria coscienza.

Sebbene avessero lo stesso scopo, avevano scelto di percorrere sentieri differenti.

In quel momento Charlie si svegliò, riconoscendo immediatamente Dumas si mise a sorridere allungando le braccia verso di lui.

«Guarda, già ti adora»

«É molto sveglio per la sua età»

«Dovresti tenerlo» manco il tempo di finire la frase che Hugo gli aveva messo il bambino tra le braccia,

«Io ora devo presenziare ad una riunione, divertitevi. Non aspettarmi alzato» concluse regalandogli un veloce bacio a stampo.

Dumas rimase immobile al centro del soggiorno. Era passato decisamente troppo tempo dall’ultima volta in cui si era occupato di un bambino. Fissò il figlio dei due Trascendentali rassegnato.

In quel momento però il piccolo lo sorprese facendo lievitare un biberon e diversi giocattoli verso di loro.

«Lo sapevo che avevi ereditato i loro poteri. Quando Vic tornerà a casa gli faremo una bella sorpresa»

Charlie lo guardò confuso per poi regalargli l’ennesimo sorriso sdentato.

 

***

 

Germania

-30 km dal confine francese-


 

Avevano camminato per diverse ore e Verlaine si sentiva esausto. Desiderava solo farsi un bagno e levarsi quei vestiti sporchi e impregnati di sudore. Peccato che si trovasse a chilometri di distanza da qualsiasi comodità. Osservò distrattamente Rimbaud intento a montare la propria tenda. In quei mesi non era cambiato, i suoi capelli erano ancora lunghissimi anche se durante quella missione li teneva legati in una semplice quanto elegante coda di cavallo.

«Sai, avresti anche potuto aiutarmi» lo ammonì il moro una volta che ebbe finito. Aveva avvertito lo sguardo di ghiaccio del biondo su di sé per tutto il tempo. Non vedeva l’ora che fossero soli. Dovevano recuperare il tempo perso oltre che chiarire le rispettive posizioni. Arthur non riusciva davvero a comprendere cosa fosse passato per la mente del compagno, accettare le condizioni di Hugo e partire per la prima linea del fronte era stata una decisione assurda.

«Io ho acceso il fuoco e poi non credo di essere stato progettato per scopi come questo» Rimbaud stava per rispondere a tono per poi comprendere il sarcasmo nascosto dietro a quelle parole,

«Non è affatto divertente» lo ammonì prendendo posto accanto a lui e avvicinando le proprie mani alla fiamma.

Si erano allontanati di qualche metro dal resto della compagnia di Gide, cercando di ritagliarsi un po ' di intimità.

«Stavi per arrabbiarti» gli fece notare il biondo, iniziando a giocherellare con la sua sciarpa

«Ci sono diversi modi per farmi arrabbiare Paul» lo sfidò

«Quando metto in dubbio la mia natura però sembri particolarmente furioso»

«Hai ragione. Odio quando lo fai, quando dubiti di te stesso, di ciò che sei»

«E allora io odio quando ti preoccupi tanto per me»

Sorrisero entrambi, prima di far intrecciare le loro mani.

Era passato troppo tempo dall’ultima volta in cui avevano trascorso qualche ora insieme.

«Prima della nascita di Charles» mormorò il biondo all’improvviso.

«Come?»

«É da prima della sua nascita che non stiamo così» cercò di spiegare. Arthur lo trovò adorabile, ma si trattenne dal farglielo notare.

«Vuoi restare ancora un po o ci spostiamo nella tenda?» domandò con una punta d’incertezza

«Dimmelo tu, hai freddo?» Rimbaud sorrise, come sempre il partner doveva aver frainteso le sue intenzioni

«Non ho mai freddo quando sono con te» confessò divertito.

Dopo qualche secondo Paul si alzò in piedi, trascinando il compagno con se;

«Non voglio avere altri figli» decretò con tono grave. Arthur ci mise qualche secondo per comprendere, si era aspettato una reazione diversa.

Verlaine aveva dato per scontato che avrebbero concluso la serata in quel modo e sembrava terrorizzato dall’idea di rimanere incinto. Allungò una mano per accarezzargli il volto,

«Non preoccuparti faremo attenzione» nemmeno lui desiderava altri figli. Le loro vite erano già abbastanza complicate.

«Se tra qualche mese scopro il contrario ti ammazzo»

«Possiamo sempre limitarci ai baci» propose. Il biondo sbuffò contrariato.

«Sai essere davvero irritante. Detesto quando usi questo tono accondiscendente»

«Solo perchè a volte ti comporti come un bambino capriccioso»

«Scommetto che Baudelaire invece è un uomo maturo e un agente perfetto» Rimbaud soffocò una risata.

«Credimi è quanto di più lontano ci sia da questa definizione»

«Che tipo è? Pensi che Charles starà bene?»

«É l’unico al quale avrei mai potuto affidare nostro figlio. Te l’ho detto, sarebbe anche stato disposto a crescerlo come proprio»

«Ti deve aver amato molto»

«Ho sfruttato i sentimenti che provava nei miei confronti per proteggere Charlie. Per un attimo mi sono comportato come l’agente privo di scrupoli in cui Victor avrebbe voluto trasformarmi.»

«Anche Baudelaire possiede un’Abilità?»

«Una di controllo mentale o così mi è stato riferito. Per quello i Poètes l’hanno risparmiato»

«Se era ancora vivo, perché non ti ha cercato?»

«Non poteva»

«Altre stupide regole?»

«Immagino di sì»

«Tu sei stato disposto ad infrangerle per lui, se ti amava così tanto poteva fare lo stesso» decretò il biondo incrociando le braccia al petto. Arthur scosse la testa,

«Non è sempre tutto così semplice Paul»

«Per me lo è. Bianco, nero, buono, cattivo, guerra, pace in fondo sono solo parole, definizioni ai quali siamo noi a dare un significato. Non ha lottato per te»

«Nemmeno io l’ho fatto per lui. Ho accettato la realtà che Victor mi ha offerto senza metterla in discussione o pormi delle domande»

«Avrebbe davvero cresciuto Charlie?»

Rimbaud rimase in silenzio, vi era un’ultima confessione che ancora doveva a Paul. Era il primo passo per ricominciare, andare avanti.

Tutti mentono, alcuni solo meglio di altri.

Nonostante tutto gli insegnamenti di Victor gli tornarono alla mente. Era stato quell’uomo il primo a mentirgli, a prendersi gioco di lui, facendolo crescere in una realtà fatta di menzogne.

In quella favola incasinata che erano state le loro vite, si erano susseguite troppe bugie travestite e abbellite da mezze verità. Lui e Paul dovevano imparare ad essere sinceri, almeno fra loro. Prese un lungo respiro prima di confessare,

«Mi ha baciato»

«Ma chi?»

«Charles»

«Baudelaire?»

«Si» Verlaine incrociò finalmente il suo sguardo,

«Ok. Appena arriviamo a Parigi lo ammazzo, subito dopo aver sistemato Hugo»

«Paul ti prego» era andata più o meno come Arthur se l’era immaginata. Cercò di trattenere il biondo per un braccio, tirandolo verso di sé e facendolo finire contro il proprio petto.

«Ti ha baciato» sbuffò con quel tono lamentoso che lo caratterizzava appoggiando il capo appena sotto il suo collo. Rimbaud incurvò le labbra, paziente.

«Si ma l’ho rifiutato esattamente come ho fatto con la sua offerta. Il giorno dopo sono corso in Germania, da te. Questo perché tu sei il padre di Charlie, oltre che il mio solo compagno»

«Voglio rivedere mio figlio»

«Lo so»

Un lungo bacio decretò la fine di quella e di ogni altra conversazione.


***

 

-il mattino seguente-


 

Rimbaud aveva dormito solo per poche ore. Alla fine dopo qualche carezza leggermente più spinta e una serie infinita di baci, Paul era crollato tra le sue braccia tanto che non aveva avuto la forza di svegliarlo. Ci sarebbe stato tempo per tutto una volta tornati a Parigi e dopo aver recuperato Charlie. Suo figlio gli mancava terribilmente e saperlo così vicino a Hugo e ai suoi giochi di potere non aiutava. Arthur si fidava ciecamente di Baudelaire e Stendhal, anche se di fronte al potere del leader dei Poètes le loro Abilità Speciali erano inutili. Sperò solo che non gli fosse successo nulla. Mise una mano in tasca, trovandovi il cellulare usa e getta di Dumas.

Era stato proprio il biondo a suggerire a Verlaine di tornare a Parigi. L’ipotesi che fosse in combutta con Hugo non era da escludere.

In quel momento venne distratto da un paio di passi. Gide si avvicinò prima di sedersi accanto a lui, porgendogli una tazza fumante di caffé.

«Sei mattiniero»

«Sono solo preoccupato per mio figlio»

«Cosa ti ha spinto a lasciarlo?» Il comandante non riusciva a spiegarsi il comportamento di Rimbaud,

«Paul» ammise serenamente,

«Lasciatelo dire il tuo amico ha un pessimo carattere»

«Lo so»

«Tuttavia sei corso a riprendertelo»

«La nostra relazione è complicata» confessò prendendo un lungo sorso,

«Lo avevo immaginato»

«Non potevo abbandonarlo. Può essere pericoloso per se stesso e gli altri»

«L’ho visto» Arthur lo fissò senza capire,

«La mia Abilità Speciale. Mi permette di vedere qualche secondo nel futuro. Si attiva da sola quando qualcosa mi minaccia»

«Molto utile»

«Mi ha permesso di servire il mio Paese come soldato» Arthur prese a giocare con la tazza tra le proprie mani

«Quindi avete visto il potere di Paul» si azzardò a domandare,

«L’ho visto uccidermi almeno una decina di volte»

«Mi dispiace può essere impulsivo»

«Un paio di volte mi ha fatto esplodere la testa, in una mi ha sparato, poi soffocato…»

«Però grazie alla vostra Abilità non è successo» non faticò ad immaginarsi quegli scenari

«Come riesci a controllare un mostro simile?»

«Non è un mostro o almeno io non l’ho mai visto in quel modo»

«Ha ucciso lui la madre di tuo figlio?»

«No assolutamente no» come poteva spiegare a quell’uomo che era Paul stesso ad aver dato alla luce quel bambino. Non tutti avrebbero accettato quella verità.

Verlaine restava un’eccezione anche tra gli individui dotati di Abilità Speciali.

«Non volevo farmi gli affari tuoi scusa» si affrettò ad aggiungere il comandante notando il suo silenzio. Arthur accennò ad un sorriso,

«La nostra storia è complicata»

«La vita è complicata e questa guerra ha fatto il resto» Gide aveva ragione, ma anche se quel conflitto non fosse mai scoppiato Arthur dubitava che la sua vita e quella di Paul sarebbero potute trascorrere serenamente.

Ricordò un episodio di diversi mesi prima. Si trovavano ancora a Londra, qualche giorno dopo la scoperta della gravidanza. Dirlo a Dumas era stato il primo scoglio da superare ma l’ex numero due dell’intelligence francese li aveva sorpresi, accettando quella notizia con entusiasmo misto a curiosità.

«Quindi ci ha dato una casa» aveva concluso in quel momento Paul intento a sistemare il proprio bagaglio.

«Oltre a questa abitazione possiede una villa fuori città, è un posto tranquillo dove nessuno farà caso alla tua condizione»

«La mia condizione» Verlaine ancora faticava a crederlo. Si portò una mano sul ventre, in un movimento che negli ultimi giorni aveva iniziato a diventare automatico,

«Paul» mormorò Rimbaud prima di raggiungerlo.

«Quando pensi che crescerà ancora?»

«Contando che sei circa al quinto mese direi parecchio. Chiederò a Lex di procurarci qualche libro sulla gravidanza così potrai farti un’idea»

«Io sono un essere artificiale, cosa ti fa credere che la mia gravidanza sia simile a quella di un comune essere umano?» non aveva tutti i torti.

«Quel bambino è mio figlio quindi almeno per metà è umano. Su questo non si discute»

«Ammiro la tua sicurezza» mormorò con fare annoiato,

«Perchè sei forse andato a letto con qualcun altro?» Verlaine lo guardò stranito

«Per chi m'hai preso? Non mi sarei mai fatto toccare in quel modo dal nessuno»

Arthur rimase per qualche secondo senza parole, colpito da quella confessione

«Non abbiamo mai parlato di quella notte» tentò, cercando di non palesare troppo la gioia che aveva provato nell’udire quelle parole che alle proprie orecchie erano giunte come la più bella delle dichiarazioni.

«Forse perchè non c’è nulla da dire»

«Paul per favore»

«Tu non hai un parassita che sta crescendo all’interno del tuo corpo»

«Non esagerare» il biondo allora prese a sbottonarsi la camicia rivelando per la prima volta la lieve curva del suo ventre. Arthur lo trovò semplicemente bellissimo.

«Vedi? Sono un mostro rivoltante»

«Sei tutto l’opposto»

«Smettila di guardarmi in quel modo»

«Perchè?»

Verlaine non credeva di meritare tutto quell’amore che il proprio partner continuava a riversargli. Lui non sarebbe mai stato in grado di ricambiare i sentimenti di Rimbaud, non avrebbe mai potuto farlo.

«Mi metti a disagio ecco perché»

«Scusami è che ai miei occhi resti sempre bellissimo» sapeva che Paul odiava sentirselo dire ma non era riuscito a trattenersi.

«Quando sarò enorme per colpa del tuo parassita ne riparleremo. Ora aiutami con questa valigia non riesco a chiuderla»

«Hai provato a usare la tua Abilità?» il biondo si era zittito di colpo.

«Non voglio farlo» ammise

«Cosa?»

«Usare il mio potere, cioè potrebbe andare fuori controllo» Rimbaud annuì.

Era una situazione completamente nuova ma la stavano affrontando al meglio delle loro capacità.

«Andrà tutto bene» e nonostante tutto non aveva mai smesso di pensarlo.

Finché esisteva un dio in cielo e un legame tra i loro cuori il futuro non lo spaventava.

Sorrise in direzione di Gide.

«Siete credente?» domandò notando una copia del vangelo spuntare dalla sua sacca. Il soldato scosse la testa.

«L’ho trovato l’altro giorno tra i resti di un villaggio carbonizzato. I sopravvissuti parlavano dell’attacco di una bestia demoniaca o qualcosa di simile»

«Bestia demoniaca eh» un leggero brivido gli pervase ma schiena ma decise di non darci troppo peso,

«Ho pensato di leggerlo a tempo perso anche se con le nostre azioni penso di essermi guadagnato un biglietto di sola andata per l’inferno e non meritare alcuna salvezza»

«Non preoccupatevi sarete in buona compagnia. Tutti noi abbiamo commesso azioni disdicevoli»

«Sono un soldato»

«E io un agente segreto, ma in realtà siamo entrambi degli assassini. Anche se cambia il modo in cui ci definiamo non si può dire lo stesso per le nostre azioni»

«Siete davvero una persona interessante Arthur Rimbaud»

«Non sono il principino che vi aspettavate?»

«Credevo che foste più simile a Hugo»

«Un tempo Victor non era così. Sorrideva di più e non aveva quell’aria di superiorità» iniziò a cambiare dopo la scomparsa di Lex. Da quel momento anche la sua vita si era fatta improvvisamente più grigia e lo sarebbe rimasta fino all’incontro con Baudelaire.

«Immagino che essere il leader di un’organizzazione come la vostra comporti molte responsabilità» Rimbaud annuì

«E lo scoppio della guerra non ha aiutato»

«Questo scontro passerà alla storia come il primo nel quale siano state utilizzate le Abilità Speciali»

«O per il numero di vittime tra la popolazione civile» Gide ne rimase sorpreso, Arthur Rimbaud sembrava davvero una brava persona, comprese perché fosse tanto famoso nel mondo dell’intelligence.

«Arthur» la voce di Verlaine arrivò alle orecchie di entrambi seguita poco dopo dalla figura del biondo,

«Perchè non mi hai svegliato?» domandò con un leggero tono d’accusa

«Ho solo pensato che avessi bisogno di riposo»

«I mostri non dormono»

«Si si lo so, come non hanno mai incubi, non piangono, soffrono o provano sentimenti» Gide osservò in silenzio quel curioso scambio di battute fra i due, interessato soprattutto ai metodi utilizzati da Rimbaud per tenere a bada il biondo.

«Ho fame» se ne uscì Verlaine all’improvviso

«Gide ha appena preparato del caffè, su vieni» disse facendogli spazio accanto a lui.

Fu allora che Paul sembrò notare per la prima volta il soldato, seduto a pochi metri dal compagno,

«Tu che vuoi?» domandò annoiato,

«Nulla, torno dal resto della truppa. Partiremo tra una mezz’ora vi va bene?»

Rimbaud gli sorrise «Si sarà più che sufficiente»

«Non mi piace quell’uomo» mormorò il biondo dopo che si fu allontanato, appoggiando il capo sulla spalla del compagno.

«A te non piace nessuno»

«Mi piaci tu» Arthur per poco non rovesciò il caffè tra le sue mani. Ogni tanto il partner se ne usciva con quelle dichiarazioni che davvero non sapeva come interpretare. Nonostante tutto il dubbio che Verlaine non capisse realmente i suoi sentimenti continuava ad attraversargli la mente. Rimasero in silenzio finendo di consumare la colazione.

«Tra poco raggiungeremo il confine e da lì in un’ora saremo a Parigi» furono le prime parole che lasciarono le labbra di Rimbaud. Non vedeva l’ora di riabbracciare il figlio. Ancora una volta Alexandre Dumas aveva avuto ragione, non sarebbe mai riuscito ad affidarlo ad un orfanotrofio, già stava impazzendo dopo una settimana di lontananza.

«Charlie starà bene» ora però era diverso, aveva il compagno al proprio fianco. Cercò di sorridergli.

«Vi proteggerò» Paul scoppiò a ridere,

«Semmai il contrario» ci sarebbero state così tante cose da dire ma in quel momento la priorità era solo una, raggiungere la capitale francese.

Rimbaud sapeva cosa li attendeva, l’ennesimo confronto con Hugo dal quale per una volta voleva uscire vincitore.

Verlaine al suo fianco gli prese la mano.

«Andrà tutto bene» volle credergli con tutte le proprie forze.






 

*Basta! Ecco la punizione. - In marcia!

Ah i polmoni mi bruciano, le tempie rintronano! La notte rotola nei miei occhi, con questo sole! Il cuore…le membra

Dove si va? Al combattimento?


 

 

 

Note autrice: Bonjour, avevo deciso di rimandare l’aggiornamento di questa storia a gennaio ma a quanto pare io senza scrivere sui miei amati francesi non so stare quindi mi sono messa a correggere e postare questo capitolo a tempo record. A fine mese vedrà la sua conclusione “In Order to Save you” la storia dalla quale la Saison è nata e suo possiamo definirlo sequel (anche se sarebbe più corretto dire che sono parte dello stesso macro universo visti i continui riferimenti tra l’una e l’altra). Dicembre è sempre un mese caotico ma conto di rifarmi a gennaio, anche perchè tornerò per qualche giorno a Parigi e ne approfitterò per continuare a scrivere questa storia. Intanto inizio con l’augurarvi buone feste!!!! Grazie a tutti quelli che continuano a leggere e commentare!!! Mi trovate pure su IG sempre come Europa91_ Se volete chiacchierare mi trovate là XD



 

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Capitolo 18
*** XVIII Stagione - Plus de lendemain ***


XVIII Stagione - Plus de lendemain




 

«Plus de lendemain,

Braises de satin.

Votre ardeur

Est le devoir»*

Une Saison en Enfer - poesia Éternité






 

Wonderland

-confine fraco-tedesco-


«Ti ringrazio Gide. Non dimenticherò quello che hai fatto per noi» mormorò Rimbaud stringendo la mano del comandante. Paul dietro di lui si limitò ad osservare la scena incrociando le braccia al petto e storcendo il naso. Non capiva il motivo dietro a tutta quella cortesia. Quei soldati avevano semplicemente ricevuto l’ordine di accompagnarli fino al confine, evitandogli di finire in imboscate o di incontrare gli eserciti nemici. Nulla di eccezionale. Quell’uomo dai capelli bianchi, di cui aveva già dimenticato il nome, si stava prendendo un po' troppe libertà nei confronti di Rimbaud e la cosa stava iniziando ad infastidirlo.

«Spero che presto tu possa ricongiungerti con tuo figlio» sussurrò il militare all’orecchio del moro ma abbastanza forte perchè anche Paul potesse sentirlo,

«Andiamo Arthur» si intromise, prendendo il proprio partner per un braccio, allontanandolo da André Gide e dal resto della sua compagnia.

«Ed ecco che ricominci a fare il geloso» fu l’unico commento del moro seguito da un sospiro divertito,

«Non sto facendo il geloso. Semplicemente non sopporto il modo in cui quell’ammasso di muscoli ti guarda» 

«Quale pensi che sia la definizione di gelosia?»

«Al momento non mi importa, piuttosto, sai dirmi quando partirà il prossimo treno per Parigi?» Rimbaud controllò il proprio orologio

«Venti minuti, facciamo giusto il tempo per raggiungere la stazione»

«Se Hugo dovesse aver solo sfiorato quel bambino» iniziò col dire, stringendo i pugni. Arthur mise una mano sulla sua.

«Ti darò il permesso di ucciderlo» Verlaine quasi stentò a credere alle proprie orecchie. Fissò il compagno, cercando di scorgere una qualche spiegazione sul suo volto. Quel comportamento non era da lui.

«Davvero?» domandò giusto per esserne sicuro

«Se Victor dovesse anche solo aver tolto un capello a nostro figlio sarò ben lieto di pronunciare la sua condanna a morte»

In risposta Paul lo baciò. Il moro ne fu sorpreso, tanto da rimanere per qualche secondo immobile al centro della strada, incurante degli sguardi dei passanti come di tutto il resto.

«Mi hai detto tu di non chiederti sempre il permesso ma di farlo» si giustificò il biondo essere artificiale, confuso da quella reazione. Solo allora Rimbaud sembrò trovare la forza per annuire. In effetti ricordava di avergli rivolto parole simili ma era il contesto ad essere leggermente differente. Spesso il moro scordava di come Verlaine prendesse fin troppo alla lettera i suoi insegnamenti.

«Muoviamoci» tagliò corto cercando di regolarizzare i battiti impazziti del proprio cuore. Dopo essersi ricongiunto con Paul si sentiva imbattibile, quando erano insieme nessuno poteva sperare di competere con loro. 

Il partner lo prese per mano,

«Andiamo a riprenderci nostro figlio»

«Si»

 

***

 

Parigi

-una sala privata dell’ospedale Saint Louis-

 

Non avrebbe mai pensato che sarebbe andata a finire in quel modo. Henry Stendhal osservò per diversi minuti il volto tumefatto e irriconoscibile di Baudelaire, attaccato ad una serie di tubi e macchinari che lo mantenevano in vita.

Aveva fallito. La sua intera esistenza si era rivelata un completo fallimento.

Charles lo aveva protetto, facendogli scudo con il proprio corpo e subendo il contraccolpo scaturito dal rilascio di entrambe le loro Abilità. Stendhal non era un esperto ma i medici interrogati gli avevano spiegato come si fosse verificata una sorta di singolarità e quello ne era il risultato.

Dopo lo scontro, Charles non aveva più ripreso conoscenza rimanendo come sospeso in quella condizione simile al coma. Mai come in quel momento Stendhal si era sentito tanto inutile ed impotente. Si era unito ai Poètes per difendere le persone e aveva solo finito con l’ottenere l’effetto contrario. Baudelaire era sempre stato un moccioso avventato ed impulsivo ma i suoi gesti lo avevano salvato. Era stato solo grazie a lui se era sopravvissuto a quell’attacco.

Non conservava molti ricordi di quel giorno. Aveva urlato a Baudelaire di prendere il bambino e fuggire ma quando il sottoposto era giunto nella cameretta del neonato il piccolo era già sparito. Avevano così ingaggiato un combattimento con gli uomini di Hugo ma da quel momento le sue memorie si facevano via via sempre più confuse. L’ultimo ricordo nitido che possedeva raffigurava Charles privo di sensi tra le sue braccia, il pavimento cosparso di petali e sangue.

Degli uomini glielo avevano strappato dalle braccia e condotto in ospedale. Avevano insistito per medicare anche lui. Stendhal si era ribellato ma qualcuno aveva usato il proprio potere per calmarlo. Aveva una gamba rotta ma non era nulla in confronto alle condizioni in cui versava Charles.

Aveva fallito come superiore, mentore, così come aveva fallito nella missione di proteggere il figlio di Rimbaud. Si prese il volto fra le mani.

Gli uomini di Hugo lo avevano raggiunto quella mattina e avevano tentato di riscrivere i suoi ricordi. Se si era salvato, lo doveva ancora una volta ai poteri di Baudelaire. Aveva stretto uno dei petali di Charles tra le mani e aveva recitato il proprio copione. Solo così era stato in grado di mantenere intatta la propria coscienza e non appena ne aveva avuto la possibilità, era corso al capezzale del sottoposto. 

Aveva bisogno di vederlo. Solo di questo.

«Mi dispiace Charles» sapeva che quelle parole non potevano raggiungerlo ma non era riuscito a trattenersi,

«Mi dispiace per tutto» non era stato un buon maestro, aveva chiuso un occhio sui suoi sentimenti per Rimbaud, gli aveva sempre lasciato una libertà e autonomia che ad altri non avrebbe mai concesso. Lo aveva viziato sin dal primo giorno, quasi senza rendersene conto.

«Avrei voluto fare di più per te» per quel ragazzino che possedeva lo stesso sguardo dell’unica donna che avesse mai amato. Il destino sapeva essere davvero spietato.

I sentimenti non sono concessi. 

Una buona spia non può permettersi di avere punti deboli.

Non lasciare che le emozioni influiscano sui tuoi doveri.

Forse per la prima volta, Stendhal arrivò a comprendere le regole di Hugo. Era stato il suo amore per Charles a portarlo su quel letto d’ospedale, così come i sentimenti che il sottoposto, in quegli anni, non aveva mai smesso di provare per Rimbaud.

Era incredibile come tutti loro fossero finiti con l’essere schiavi delle proprie emozioni.

«Sapevo che un banale controllo mentale non avrebbe funzionato contro di te» la voce di Dumas raggiunse le sue orecchie dolce come un veleno.

Era l’ultima persona che si sarebbe aspettato di incontrare.

«Il merito è di Charles» ammise, non smettendo per istante di osservare il volto del sottoposto. Avrebbe solo desiderato rivedere un’ultima volta quegli occhi blu.

«Contrariamente a Vic, l’ho sempre trovato un moccioso interessante. Non ha mai avuto paura di urlare i propri sentimenti»

«Non aveva più nulla da perdere. Gli abbiamo portato via ogni cosa. L’amore che provava per Rimbaud era ciò che lo spingeva a lottare, andare avanti»

«E a morire» Stendhal abbozzò un sorriso,

«Vedo che nonostante tutto anche tu sei tornato al fianco di Hugo»

«Esistono diversi tipi di amore» ammise serafico l’ex numero due dell’intelligence francese,

«Non lo hai mai realmente lasciato» concluse, dandosi dello stupido per non averlo compreso prima. Alexandre Dumas aveva molte facce, come avevano potuto essere tanto ciechi da non accorgersene?

«Anni fa, con le mani ancora imbrattate dal sangue di mio padre feci un giuramento. Promisi che avrei dedicato la mia intera esistenza a proteggere Victor e il suo sogno. Oltre che vendicarmi dei responsabili»

Stendhal si accorse solo in quel momento di non avere la minima idea di quale sorte fosse toccata al precedente leader dei Poètes. Rammentava solo che fosse il padre di Dumas e avesse adottato il giovane Hugo per renderlo il proprio erede.

«Non so davvero di cosa tu stia parlando» Lex gli regalò un sorriso stanco, tirato,

«Lo so. Solo io e Vic conserviamo il ricordo di quella storia» la spia non comprese

«C’entra qualcosa con il motivo per il quale sei arrivato a fingere la tua morte?»

«L’amore è davvero un sentimento complesso, non trovi?» Dumas aveva eluso la domanda e con eleganza si era avvicinato al letto dove riposava Baudelaire

«Se vuoi uccidermi ti conviene farlo subito»

«Sarebbe un vero spreco. Vic tiene molto alla tua Abilità e ne ha bisogno per la sua guerra ma soprattutto per ciò che verrà dopo»

«Quindi?» 

«Devo solo assicurarmi che questa volta il lavaggio del cervello funzioni e che tu possa tornare ad essere uno dei nostri agenti più fedeli»

L’Abilità di Dumas non rappresentava una minaccia. Nonostante le doti in combattimento quell’uomo non avrebbe mai potuto competere con il controllo mentale di Stendhal e lo sapevano entrambi.

«Le Rouge et le Noir»

Non accadde nulla.

«Scusa ma ti confesso che ho preso delle piccole contromisure per la tua Abilità» un paio di agenti comparvero alle sue spalle. Uno di loro teneva tra le mani uno strano dispositivo.

«Ora cosa ne dici Henry se facciamo anche noi un piccolo tentativo?»

«Che diavolo significa?»

«Questo è solo un regalo da parte dei miei amici inglesi. Sono così avanzati e posseggono scienziati fantastici come il Dr Wollstonecraft»

Stendhal fissò quella specie di pistola che uno degli agenti stava consegnando a Dumas

«Mi dimenticherò di lui?» domandò lanciando una rapida occhiata a Baudelaire

«Molto probabilmente si. Secondo quanto mi è stato riferito chi viene colpito da questo aggeggio dimentica gli ultimi cinque anni della propria vita»

Stendhal indietreggiò.

«Spero davvero che Black vi ammazzi entrambi» sentenziò con rabbia. Non aveva via di scampo, era arrivato al capolinea.

«Addio Henry, spero che tu non la prenda troppo sul personale ma lo sto facendo solo per il bene di Victor»

«Verrà il giorno in cui non avrà più bisogno di te. Quando questa guerra sarà finita ti getterà via, come un giocattolo usato»

«Ne dubito»

Nessuno avrebbe mai potuto comprendere il legame che lo univa a Victor Hugo. Era trascorsa più di una decade ma in pochi giorni erano stati in grado di recuperare la loro solita intesa. Erano semplicemente due facce della stessa medaglia. Complementari, come il giorno e la notte.

Solo un diamante può lucidarne un altro

Era una delle frasi preferite di suo padre, risalente a un passato che nonostante gli sforzi non sarebbe mai riuscito a dimenticare. L’unica cosa che ormai gli rimaneva era la vendetta, insieme a quel sentimento malato che lo legava indissolubilmente al leader dei Poètes. Dumas aveva provato davvero a lasciarlo ma poi era tornato, preoccupato per il suo futuro.

Lanciò un’ultima occhiata a Stendhal. Prima di premere il grilletto.

Il capo della sezione interrogatori avrebbe dimenticato il suo rapporto con Baudelaire, tornando ad essere il cane fedele che Hugo aveva addestrato. Lo osservò cadere per terra, privo di sensi. Non provò nulla, nemmeno pietà. Una parte di lui arrivò quasi ad invidiarlo per la propria fortuna.

«Qui abbiamo finito. Riportatelo nelle sue stanze» ordinò prima di andarsene.

 

***

 

Quando Verlaine e Rimbaud raggiunsero il proprio appartamento trovarono ad attenderli solo macerie. L’intero stabile sembrava inagibile. Le entrate erano sprangate con del nastro adesivo impedendo qualsiasi accesso esterno.

«C’è stata una fuga di gas» li avvisò uno dei vicini per poi aggiungere, 

«Fortunatamente non ci sono state vittime ma molti degli inquilini presenti al momento dello scoppio sono finiti in ospedale»

Le due spie si scambiarono un’occhiata che da sola valeva più di mille parole. Dovevano recarsi al quartier generale, da Hugo. Solo lui poteva essere il responsabile di quella follia.

 

***

 

«Tra meno di un’ora saranno qui»

Furono le uniche parole che accolsero Dumas al ritorno. Il biondo si tolse elegantemente la giacca, sciogliendo la propria Abilità che gli aveva permesso di assumere l’aspetto di Edmond Dantes, mentre passeggiava per i Boulevard della capitale.

«In ospedale è andato tutto come previsto. Il tuo caro Stendhal sta dormendo mentre Baudelaire resta un vegetale. Grazie per avermelo chiesto» Victor gli sorrise alzando il volto dai propri documenti. 

«Non avevo dubbi sul fatto che avresti svolto con successo la missione. Per questo te l’ho affidata»

«Dov è il bambino?» Si era accorto solo in quel momento che il piccolo Charlie mancava all’appello.

«In un luogo sicuro, non volevo certo che restasse coinvolto in qualche scontro»

«Hai davvero intenzione di combattere? Qui? Contro Arthur?»

«Saranno loro a fare la prima mossa e noi ci limiteremo a contrattaccare» ammise con un cenno della mano

«Giusto. Non sia mai che il grande Victor Hugo scateni una guerra» lo provocò. Lo sguardo smeraldino di Hugo però tradiva tutt’altra emozione,

«Quel bambino ha ereditato la gravità di Black, e potrebbe avere anche i poteri di Arthur. Non possiamo lasciare che un essere così potente giri indisturbato per il continente»

«Così come il progetto giapponese»

«Se mai quei fanatici riuscissero a replicare l’esperimento del Fauno organizzerò una missione ad hoc per recuperarlo»

«Hai così paura di Black e del suo potere?»

C’era sempre stato un sospetto nella mente di Dumas, che mai era arrivato ad esprimere a parole, fino a quel giorno, quel momento.

«Tuo padre è morto per inseguire quel tipo di potere»

«Tu non sei lui»

«Il mio destino però è di diventarlo. L’ha visto, ricordi? Ha scorto il futuro di entrambi»

Il biondo non poté fare a meno che annuire. Poco prima di andarsene, suo padre aveva raccontato loro di ciò che aveva visto, grazie alla propria Abilità. Quella predizione però aveva gravato sulle loro esistenze come una condanna.

Victor Hugo sarebbe diventato il suo degno erede, avrebbe portato l’Organizzazione ad un livello che Dumas padre non si sarebbe mai potuto immaginare. La rovina di Hugo, la sua personale Waterloo, sarebbe sopraggiunta in seguito all’incontro con un ragazzo che controllava la gravità. Un Dio della distruzione.

Dal momento in cui aveva udito quella profezia, Victor era cambiato, diventando ancora più sospettoso. Quando lo avevano informato di aver trovato un ragazzino nelle Ardenne con un’Abilità Speciale distruttiva, aveva avuto paura. Arthur però non era il moccioso citato in quella sorta di profezia, gli era bastato poco per capirlo. 

Lo aveva preso con sé, allo scopo di farne un agente perfetto, uno scudo da usare contro quella e ogni altra possibile minaccia.

Il pericolo negli ultimi anni aveva assunto l’aspetto di Black. Doveva essere quel bellissimo mostro il Dio della Distruzione profetizzato da suo padre. Ne aveva tutti i requisiti.

Quell'essere non solo controllava la gravità ma non sembrava possedere un’anima. Lo aveva affidato alle cure di Rimbaud per tenerlo sotto controllo, non avrebbe potuto immaginare che quella decisione gli si sarebbe rivoltata contro. Dopo la scomparsa di Baudelaire, Arthur sembrava intenzionato a diventare l’agente perfetto. Nonostante quel carattere ribelle che Hugo lo sapeva, non sarebbe mai riuscito completamente a domare, si era impegnato per compiacerlo, diventando uno dei suoi uomini migliori.

Si ricordò all’improvviso di un loro litigio avvenuto poco tempo prima dello scoppio di quel conflitto. In quell’occasione, Rimbaud aveva mostrato tutta la propria faccia tosta e arroganza, sfidandolo apertamente.

Sorrise, ripercorrendo quella scena nella propria mente. 

 

***

 

Parigi

-qualche stagione prima-

 

«Le visite di Johann a Londra sono aumentate nell'ultimo mese» fu il solo commento di Hugo mentre gettava l’ennesima pila di documenti sulla propria scrivania. Il povero Mallarmé al suo fianco si limitò a chinare il capo, tentando inutilmente di riordinarli.

«Secondo le nostre fonti la Germania spera che gli inglesi si decidano a fare la prima mossa» mormorò affranto l’impiegato, intuendo lo stato d’animo del leader dei Poètes

«Ne state tutti parlando come se la guerra fosse già scoppiata» li interruppe Rimbaud alzandosi in piedi e guadagnandosi occhiate sorprese per il proprio intervento.

«É solo questione di giorni» lo ammonì Hugo

«Hai sempre visto questo conflitto come un qualcosa di inevitabile» protestò

«Perchè lo è» quando Arthur si esprimeva in quel modo i pensieri di Victor tornavano sempre su Dumas, anche lui un tempo gli aveva rivolto parole simili e con lo stesso tono di voce. Il tempo per i sogni o gli ideali infantili però era terminato. 

Era vero, Victor Hugo aveva aspettato quel conflitto e agito di conseguenza, addestrando una nuova generazione di agenti dotati di Abilità Speciali. Rimbaud rappresentava il suo orgoglio, lo era sempre stato. Era la spia perfetta, lo aveva cresciuto solo per quello, per farne il proprio erede.

«Hai ancora molto da imparare» si limitò a rispondere con la solita freddezza che gli riservava in pubblico. 

«Invece che preparare strategie per un’Europa in tempo di guerra non potremo trovare una soluzione pacifica ai problemi che affliggono il nostro continente?»

«Da dove viene tutto questo idealismo?»

«Victor ti prego»

«Devi imparare ad essere più realista. Ormai è tardi per qualsiasi trattativa diplomatica o negoziato. L’Europa è una polveriera, basta poco perché tutto intorno a noi scoppi. Io non voglio che il mio Paese si riduca in cenere» lo aveva già visto accadere. Non avrebbe permesso ad una simile catastrofe di consumarsi di nuovo davanti ai suoi occhi. Non ora che aveva il potere e i mezzi per impedirlo.

«Il tuo piano consiste forse nell’usare il potere di Paul?» Hugo alzò gli occhi al cielo. Quel ragazzino doveva imparare a rimanere al proprio posto.

«Il tuo partner è un’arma notevole, un prezioso asso nella manica. Hai decifrato il codice per controllarlo giusto?»

«Paul ha una sua volontà» mormorò a denti stretti

«Non lo metto in dubbio ma ricorda, una brava spia sa quando è il momento di mettere da parte le proprie emozioni per garantire il successo di una missione»

«Non ho bisogno dell’ennesima lezione. Cosa credi che abbia fatto per Charles? Ho rinunciato a lui, proprio come volevi»

«Hai solo dimostrato di essere il mio agente migliore» Rimbaud storse il naso ma non poteva contraddirlo

«Quando la guerra verrà dichiarata partirai per il fronte tedesco. Ho bisogno che qualcuno tenga d’occhio Goethe, e al momento, nessun agente gode della mia fiducia più di te, Arthur»

«E Paul?»

«Lui resterà qui a Parigi. È la nostra arma migliore, non intendo consegnarlo così presto al nemico. Quando i tempi saranno maturi scenderà in campo»

«Non vorrà rimanere. Si ribellerà a questa decisione»

«Sono gli ordini Arthur, avrà poco di che lamentarsi» il moro abbassò il capo. Mallarmé era ancora nella stanza, non poteva contraddire apertamente Hugo o la sua autorità.

«Quanto dovrò rimanere?» si limitò a domandare accettando quella sconfitta.

«Tutto il tempo necessario»

Forse con il senno del poi Victor avrebbe potuto prevedere il loro tradimento. Black aveva sempre esercitato un fascino pericoloso su Rimbaud. Quei due erano diventati inseparabili anche se nulla l’avrebbe mai preparato alla notizia di un bambino nato dall’essere artificiale.

Quando aveva letto quel rapporto dei servizi segreti inglesi non ci poteva né voleva credere. Arthur era sempre stato capace di superare le sue aspettative ma quello andava decisamente oltre ogni previsione.

La possibilità di un altro essere in grado di controllare la gravità e quindi minacciare il suo futuro era comparsa all’orizzonte. Per questo aveva fatto quanto possibile per ottenere quel bambino. Non era per studiarlo ma per proteggersi da quel destino che, come una spada di Damocle, continuava a incidere su di lui.

«Non sarà Charlie a decretare la tua fine» gli aveva sussurrato Lex durante la notte di passione che aveva seguito il suo ritorno.

Quello era sempre stato uno dei più grandi difetti di Dumas, oltre che una delle sue debolezze. Era facile da ingannare. Anche suo padre lo sapeva, per questo gli aveva preferito Victor come erede. Lex sapeva essere più crudele di lui ma non sarebbe mai arrivato ad uccidere un bambino innocente, nemmeno per la propria vendetta. Dumas possedeva un cuore che lui invece aveva offerto in sacrificio per il bene della propria Organizzazione.

Lex era destinato ad avere un futuro diverso. Suo padre lo aveva messo in guardia. Il più grande nemico per Dumas risiedeva nella sua ambizione e desiderio di rivalsa.

Avrebbe impiegato vent’anni ma sarebbe riuscito ad ottenere la propria vendetta. Era questa consapevolezza a muovere i suoi passi, guidare le sue azioni e Hugo lo sapeva, ad averlo spinto a tornare da lui.

L’amore aveva molte forme o sfaccettature e tra loro forse non esisteva nemmeno.

Era più un rapporto di mutua dipendenza, che nonostante tutto li aveva uniti per quasi quarant’anni.

Si alzò dalla scrivania solo per raggiungere il compagno e coinvolgerlo nell’ennesimo bacio appassionato. Era da sempre il modo migliore per zittirlo o per evitare situazioni spiacevoli.

«E questo a cosa lo devo?» domandò Lex divertito,

«Diciamo che è una ricompensa per il lavoro fatto con Stendhal» sorrisero entrambi.

«Se avessimo tempo ora ti porterei in camera» confessò il biondo

«Se non ti perdi in chiacchiere possiamo usare la scrivania»

Dumas non se lo fece ripetere.

 

***

 

-Mezz’ora dopo-

 

Quando Rimbaud e Verlaine giunsero al quartier generale trovarono il leader dei Poètes comodamente seduto alla propria scrivania. Li stava aspettando.

«Che cosa hai fatto, Victor?» iniziò Arthur, prima che il proprio partner esplodesse,

«Dove si trova mio figlio?» ruggì iniziando ad attivare la propria Abilità

Hugo si limitò a sorridere a entrambi, per nulla intimidito da quei modi o sorpreso dalla situazione.

«Ti riferisci allo stesso bambino che hai abbandonato dopo averlo messo al mondo, Black?»

Rimbaud sapeva che quella era l’ennesima trappola, aveva pregato Verlaine di non cedere a quelle provocazioni ma fu tutto inutile, prima che potesse rendersene conto il partner era già partito all’attacco.

Verlaine però non riuscì nemmeno a sfiorare Hugo. Arthur lo vide accasciarsi al suolo, apparentemente privo di sensi. Fu in quel momento che Dumas fece la propria comparsa, ponendosi al fianco di Victor e mettendogli una mano sulla spalla.

«Ho sempre sospettato ci fosse il tuo zampino» confessò il moro incrociando il suo sguardo. 

«Tuttavia sei stato al gioco come un bravo soldatino» fu la risposta dell’ex Poètes

«Ho dato a mio figlio il tuo nome. Ci hai aiutato solo per consegnarci a lui? Eravate in combutta fin dall’inizio?» Dumas sbuffò annoiato,

«La mia lealtà è sempre stata verso Vic come la tua verso questo mostro» si limitò a rispondere con una scrollata di spalle. Lo sguardo di Rimbaud tornò sul compagno.

«Cosa gli avete fatto?» Paul era ancora a terra ma muoversi per controllare le sue condizioni poteva essere rischioso,

«Veleno. L’unica debolezza di quest’arma perfetta. Non preoccuparti è un semplice narcotico tra qualche ora tornerà come prima»

«Ridatemi mio figlio»

«Arthur, hai sempre saputo che questo bambino sarebbe stato una minaccia per gli equilibri europei. Esattamente come sua madre»

«Non siamo nemmeno sicuri che…»

«Possiede la sua Abilità» lo interruppe Dumas indicando Verlaine,

«Controlla la gravità quindi non possiamo escludere che abbia ereditato anche il tuo di potere. Sempre che tu sia davvero suo padre» Rimbaud sorrise,

«Non hai niente di meglio per provocarmi Vic?» il leader dei Poètes ricambiò con un ghigno,

«A volte dimentico che ti abbiamo addestrato noi. Sei il nostro orgoglio Arthur, lo sei sempre stato. Potresti ancora salvarti. Uccidi Black e ti permetteremo di crescere tuo figlio. Ovviamente all’interno dell’intelligence»

«Sei completamente pazzo. Lo siete entrambi»

«La vita del tuo compagno per quella di tuo figlio, mi sembra una proposta ragionevole»

«Lex fa qualcosa» ma il biondo si limitò ad un’alzata di spalle

«Ho ideato io questo piano, perché dovrei fermarlo?»

Rimbaud aveva dimenticato come quei due fossero complementari. Per anni Hugo e Dumas avevano tenuto sotto scacco mezza Europa con le loro trame e giochi di potere. Poi Lex era morto e Victor aveva iniziato a preparare la propria guerra.

«Io mi fidavo di voi» in quelle parole vi era espressa tutta la propria delusione. In fondo quei due erano le persone che più di ogni altro gli avevano ricordato una famiglia,

«E noi ci fidavamo di te. Hai disubbidito agli ordini e avuto un figlio da quel mostro, credevi davvero Arthur che le cose sarebbero potute finire in modo diverso?» Hugo aveva ragione.

«Anche se avessi ascoltato quello sciocco di Baudelaire non sarebbe cambiato nulla» rincarò la dose Dumas,

«Dove si trova ora Charles? E Stendhal? Che ne è stato di loro?» per un attimo Rimbaud si era scordato di quei due,

«Dimenticati di loro» fu la sola risposta di Hugo

«Baudelaire è in coma e Stendhal ha perso i suoi ricordi» specificò invece Dumas quasi divertito

«In coma?»

Rimbaud non potè evitare di sentirsi in colpa. Aveva sfruttato i sentimenti che Charles provava per lui e gli aveva affidato suo figlio. Era conscio dei rischi, come della possibilità che Victor non rispettasse i loro accordi. Mai però si sarebbe immaginato uno scenario simile. Ancora una volta erano state le sue azioni a condannare Baudelaire. 

«Non fingere che ti importi qualcosa di lui» lo ammonì Hugo

«Sta zitto. Tu non sai nulla»

«So che non lo hai mai amato, o almeno non quanto questo mostro»

«Che ne vuoi sapere tu dell’amore. Tu e le tue fottute regole»

«Sei tu che non sai nulla ragazzino. Non sai cosa mi abbia spinto a diventare ciò che sono»

«Non hai mai pianto per Lex» lo accusò

«Questo perché immaginavo fosse vivo»

«Ma non lo hai mai cercato. Se avessi davvero voluto lo avresti trovato» i due uomini sorrisero scambiandosi un’occhiata

«Se Lex voleva allontanarsi da me probabilmente aveva le sue ragioni. Ho sempre avuto la massima fiducia in lui e i fatti mi hanno dato ragione, è tornato da me e mi ha servito su un piatto il vostro bambino»

«Siete entrambi dei folli»

«La vita non è che una lunga perdita di ciò che si ama. Sei ancora così ingenuo Arthur»

«Sono qui solo per mio figlio»

«Quel bambino è pericoloso»

«Chi lo ha stabilito? Voi?»

«Smettila di ribellarti Arthur, puoi ancora schierarti al nostro fianco, devi solo uccidere quel mostro. Non abbiamo più bisogno di lui. La Germania ha richiesto la sua testa con un mandato internazionale. Black è condannato in ogni caso. Anche sconfiggendo noi non potreste mai avere un futuro.»

«Un tempo tu stesso mi hai definito la spia più potente d’Europa. Non sottovalutarmi Victor»

«Non l’ho mai fatto ma sai meglio di me che non puoi vincere contro di noi.»

Rimbaud attivò la propria Abilità inglobando i Poètes nel proprio subspazio.

«Ora siete nel mio mondo» Hugo non sembrò turbato, ovviamente aveva previsto anche una mossa del genere.

«Lascio tutto nelle tue mani Lex» mormorò mettendosi seduto.

Arthur odiò quel modo di fare arrogante e borioso, senza pensarci due volte si lanciò all’attacco.

 

***

 

Quando Verlaine riprese conoscenza si trovò di fronte allo sguardo di Hugo. Dumas, a qualche metro da loro, teneva tra le braccia il piccolo Charlie. 

Si guardò intorno. Non vi era alcuna traccia di Rimbaud

«Vedo che ti sei svegliato bell’addormentato»

«Che cosa mi avete fatto?» iniziò a domandare prima di attivare la propria Abilità aumentando la gravità presente nella stanza

«Vorresti davvero scatenare l’inferno con tuo figlio presente?» Verlaine soffocò una bestemmia incrociando le iridi smeraldine di Hugo.

La sua attenzione venne catturata dal piccolo Charles che tra le braccia di Dumas sembrava perfettamente a proprio agio. Era ovvio, suo figlio non conservava alcun ricordo di lui, in fondo lo aveva abbandonato.

«Dove si trova Rimbaud?» entrambi i Poètes rimasero in silenzio

«Vi ho chiesto dov’è» urlò, spaventando il piccolo Charlie che scoppiò a piangere

«Sai Black, c’è un modo solo di rifiutare il domani, è morire. Arthur ha semplicemente declinato la nostra offerta»

«Non può essere morto. Impossibile»

«Credevi davvero che mi sarei fatto qualche scrupolo anche verso il mio stesso figlio?» non poteva né voleva credere alle parole di Hugo. Doveva trattarsi dell’ennesima trappola.

«Sei un mostro»

«Morire non è nulla; non vivere è spaventoso.» concluse facendo un paio di passi nella sua direzione

«Non avreste mai potuto essere felici. Tu non sei in grado di amare, lo hai solo illuso. Ti sei illuso. Avete creduto entrambi a un’utopia. Il nostro compito è stato quello di ricordarvi la realtà. Sei un’arma Black, lo sei sempre stato.»

Una parte di Verlaine non poteva che dargli ragione. Non era mai stato degno dell’amore di Arthur, tuttavia non aveva represso quel sentimento che aveva continuato a crescere dentro di lui. 

Rimbaud era stato il primo e l’unico per molte cose. Nessuno avrebbe mai potuto prendere il suo posto. Era stato l’uomo che lo aveva salvato dal laboratorio del Fauno, consegnandogli la libertà di vivere. L’uomo che lo aveva addestrato rendendolo una spia, un agente segreto, combattendo al suo fianco. Lo stesso uomo che aveva tradito il proprio Paese per lui, che lo aveva accarezzato e amato come nessun altro. Il padre del bambino che aveva messo al mondo e che poi aveva abbandonato.

Arthur Rimbaud era semplicemente tutto.

«Hai ragione, avrebbe dovuto odiarmi. Tutta questa situazione è a causa mia. Sono io che l’ho sviato dal cammino che avevate preparato per lui»

«Le sue ultime parole erano rivolte a te» confessò Dumas 

«Incontrarti è stata la sua rovina» concluse invece Hugo

Verlaine si prese il volto fra le mani. Non ricordava di aver mai pianto o provato una simile tristezza. Perdere Rimbaud era un qualcosa di inconcepibile per lui.

«Cosa volete?» domandò ai Poètes.

«Continuerai a lavorare per noi e ci aiuterai ad addestrare tuo figlio» 

No. Charlie non meritava un futuro simile.

«Non vi permetterò di crescerlo come un mostro»

«Non lo sarà. Charles diventerà un agente segreto, prenderà il posto di Arthur e un giorno guiderà questa Organizzazione» concluse Hugo prima di prenderlo tra le braccia.

Verlaine non si era mai trovato tanto vicino al figlio. Gli sarebbe bastato allungare un braccio per poterlo sfiorare.

«Charles» nel udire il proprio nome il piccolo si voltò verso di lui. Lo osservò per una manciata di minuti prima di sorridergli.

«Mi dispiace, non sono stato in grado di proteggere tuo padre» fece una pausa «ma posso ancora salvarti»

I tuoi odi, i tuoi torpori fissi, i tuoi mancamenti,

Verlaine aveva aperto la porta, liberando la bestia nascosta dentro di lui, lanciandosi contro Hugo.

Il pianto di Charlie fu l’ultima cosa che udì prima che la sua mente venisse inghiottita dall’oblio.









 

*Non c’è più domani,

brace di raso,

il vostro ardore 

è il dovere

 

Sono i versi finali della poesia Éternité che ho scelto per rappresentare questa seconda Wonderland. 

 

Nei piani iniziali questa realtà non doveva essere così lunga ma ho voluto dare il giusto spazio a tutti i pg (soprattutto a Dumas e Hugo). In questo capitolo compaiono i primi riferimenti al loro spin off che inizierò a scrivere non appena la Saison sarà terminata. Altra info utile e non richiesta ma che tengo a precisare: i Dumas e Hugo che troviamo in questo capitolo sono quelli della seconda Wonderland, non quelli della realtà originale. Ovviamente hanno parecchi tratti in comune con le loro controparti ma si trovano in situazioni diverse e prendono anche decisioni differenti (non sono così cattivi come sembrano, diciamo che hanno le loro ragioni per fare quello che fanno e in realtà, a modo loro, vogliono bene ad Arthur XD)

 

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Capitolo 19
*** XIX Stagione - Dernière innocence ***


XIX Stagione - Dernière innocence



 

«La dernière innocence et la dernière timidité. C’est dit.

Ne pas porter au monde mes dégoûts et mes trahisons. Allons!»*

 

Une Saison en Enfer 






 

Realtà originale

 

Quando il biondo aprì gli occhi si trovò di fronte il volto spaventato di Carroll. Non disse nulla, provando a rialzarsi ma finì solo con il barcollare durante il processo.

«Mr. Verlaine?» tentò l’inglese avvicinatosi per aiutarlo. Il Re degli Assassini non rispose, ancora leggermente scosso dalla recente esperienza. Si guardò intorno cercando di mettere a fuoco l’ambiente circostante e prendere contatto con la propria realtà. Quando la testa smise di girare si ricordò dove fosse e cosa stesse facendo.

Quel secondo Wonderland si era rivelata un’esperienza ancora più assurda e scioccante della precedente. Si passò inconsapevolmente una mano sul ventre, chinando il capo. Aveva scoperto di possedere la capacità di riprodursi. Era un mostro, un abominio, non potevano esserci altri aggettivi per descriverlo. La sua esistenza sfidava semplicemente le leggi di Dio e di tutto il creato.

Quel pensiero venne subito sostituito dal ricordo del corpo di Rimbaud contro il proprio, il calore di quei baci, delle sue mani mentre lo accarezzavano. Arrossì. Come avevano potuto le loro vite prendere una direzione simile? Era bastata una semplice decisione per cambiare completamente il corso del destino.

«Ti sei svegliato» la voce di Baudelaire raggiunse le sue orecchie forte come un colpo di cannone, distogliendolo da qualsiasi altro ricordo o pensiero.

«Sei un bastardo» 

«Oh sei di buon umore» all’ennesima provocazione Verlaine scattò in piedi, 

«Lo hai baciato»

«Tu ci hai fatto un figlio»

«Che ha chiamato di nuovo come te» il Poète imprecò. Non poteva credere che Black fosse tanto stupido da essere geloso di lui. Non dopo ciò a cui aveva assistito. Doveva trattarsi di uno scherzo.

«Gli ho chiesto di fuggire insieme e crescere quel bambino. Ha rifiutato solo per poter correre da te» Baudelaire aveva ricevuto una prova dei sentimenti di Rimbaud verso quell’essere artificiale, come poteva il biondo nutrire ancora dei dubbi?

«Non significa nulla. Voleva solo scoprire quale ragione mi avesse spinto ad abbandonarlo»

«Non ci posso credere» in quel momento il poeta aveva solo una gran voglia di prenderlo a pugni, anche se probabilmente sarebbe morto al primo tentativo. Sebbene delle volte finisse col dimenticarlo, Black non era altri che il famoso Re degli Assassini, uno dei criminali più ricercati e famosi d’Europa. Non poteva permettersi di sottovalutarlo.

«Hai visto tu stesso quanto accaduto» fu l’apatica risposta del biondo, che si stava trattenendo dall’ammazzarlo,

Ho visto solo il suo amore per te

«Penso che dovremmo calmarci tutti quanti» l’intervento di Carroll servì a riportare l’ordine e impedì a Charles di rispondere e aggravare ulteriormente la situazione.

Si guardarono in cagnesco per qualche minuto.

«Vi avevo avvertito sulla pericolosità della mia Abilità e di come questi mondi ideali si possano trasformare in incubi»

Verlaine fece per andarsene ma Baudelaire lo fermò, afferrando una manica della sua camicia. Quel gesto stupì entrambi

«Dovresti essere più onesto con te stesso e verso i tuoi sentimenti» non sapeva nemmeno perché gli stesse dando quel consiglio, forse aveva iniziato a provare pietà per Black. Quel mostro era il solo fautore della propria solitudine.

«Sono un essere artificiale. Non provo emozioni»

«Hai fatto un patto con Hugo per proteggerlo» quella decisione lo aveva sorpreso, ma probabilmente, nelle medesime condizioni anche lui avrebbe fatto lo stesso.

«Rimbaud era il mio partner»

«Hai accettato di aiutarmi nel far evadere Carroll solo per poterlo rivedere»

«Tu credi di potermi capire ma in realtà nessuno può farlo» nemmeno Arthur aveva mai compreso i turbamenti che si agitavano nel suo animo. Vi era solo un essere al mondo in grado di provare la sua stessa sofferenza e in quel momento si trovava dall’altra parte del mondo, in Giappone. 

Nakahara Chuuya, Arahabaki, uno dei responsabili per la morte di Rimbaud. Quel bambino che aveva tentato disperatamente di salvare e che gli era costato quanto di più caro avesse. Doveva trovarlo. Era il solo a poter alleviare quel senso di solitudine che lo dilaniava sin dal giorno in cui era sfuggito al controllo del Fauno. Era una sorta di fratello, legato a lui dalla stessa sventura.

«La storia della bestia senz’anima poteva funzionare con Paul ma con il sottoscritto non attacca. Dovresti smetterla di commiserarti e accettare il fatto di averlo amato»

«Io non sono come te» Baudelaire sorrise, mentre Carroll si preparava all’ennesima sfuriata, 

«Tu sei solo un misero essere umano oltre che un fantasma proveniente dal passato di Rimbaud» nonostante si fosse aspettato qualcosa di simile, Charles incassò il colpo che fece più male del previsto.

Black aveva ragione. Posto di fronte ad una scelta Arthur gli aveva preferito il biondo. Bambino o meno non aveva esitato a raggiungerlo, sfidando Hugo, Dumas e la loro intera Organizzazione. Charles Baudelaire era arrabbiato e deluso. Per cosa stava lottando? Per un amore a senso unico al quale, nonostante tutto, non riusciva a rinunciare.

«Invece tu sarai sempre la causa della sua morte» 

Verlaine si liberò dalla presa del Poète. Per quanto detestasse ammetterlo il francese aveva ragione. Nel loro mondo era stato lui ad aver tradito per primo il compagno, sparandogli alle spalle, per poi abbandonarlo in un paese straniero. Nel primo Wonderland la sua decisione di salvare il giovane Arahabaki li aveva portati ad essere dei traditori e per questo inseguiti dall’intelligence. In quest’ultima realtà Arthur era morto per difendere la sua umanità e quel figlio che non avrebbe mai potuto stringere tra le proprie braccia. Quello sarebbe rimasto il suo più grande rimpianto.

Tornò nella propria stanza e si lasciò cadere sul letto. Era esausto. Quella seconda fantasia lo aveva posto di fronte a molti dubbi o interrogativi. Da un lato vi era il sentimento che lo legava al proprio partner. Verlaine non avrebbe mai potuto definirlo amore solo perché la propria mente artificiale non lo credeva capace di provare un sentimento simile. Si passò una mano sul volto ripensando agli avvenimenti di quella realtà. 

Il calore delle braccia di Arthur, il suo sorriso, quei baci prima timidi e poi sempre più appassionati.

Si trovò a desiderare nuovamente quel tipo di contatto. Sebbene fossero state solo frutto di un’Abilità quelle sensazioni gli erano parse fin troppo reali. Così come i sentimenti che agitavano il proprio petto, facendo accelerare i battiti del suo cuore.

Paul ricordò il proprio compleanno così come le loro mani intrecciate. In quel momento aveva iniziato a vedere Rimbaud sotto un’altra luce. Baudelaire non si era sbagliato, era il suo amore a ferire Arthur e condurlo verso la morte. Era stato Verlaine a spingerlo a tradire i Poètes per assecondare il proprio egoismo. Non era dissimile da quanto accaduto nel loro mondo. Aveva tradito Rimbaud perché non aveva compreso il suo dolore, i suoi timori, perché aveva preferito le regole di Hugo a lui.

Verlaine non ricordava nemmeno cosa lo avesse spinto ad accettare la proposta di Baudelaire, forse semplicemente il desiderio di rivedere Arthur e parlare con lui. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per ascoltare di nuovo la sua voce, i suoi rimproveri. 

Allungò un braccio per recuperare dal cassetto della scrivania il taccuino del partner. Quel quaderno era tutto ciò che gli rimaneva di lui, di ciò che erano stati, una prova tangibile di ciò che avevano vissuto. 

“La mia vita e la mia morte non sarebbero mai state tramandate alle generazioni successive”

Leggere quelle parole gli diede il voltastomaco. Era come se Rimbaud avesse sempre saputo quale triste destino lo attendeva. Le immagini di quell’ultima realtà continuavano a vorticargli per la mente, come una favola senza lieto fine.

Aveva l’amaro sapore del rimpianto. Il pensiero di ciò che avrebbero potuto essere. Nonostante il triste epilogo di quella storia per un pò avevano potuto sfiorare quel concetto astratto ed effimero che gli esseri umani definivano felicità.

Chiuse gli occhi ripercorrendo quella fugace stagione londinese, non potendo evitare di compararla con il proprio passato.

 

***

 

Wonderland

 

Londra 

-ricordo di Verlaine-

 

La capitale inglese stretta nella morsa dell’inverno appariva solo più grigia e fredda del solito. Quel giorno si era verificato un evento insolito per Verlaine, Rimbaud aveva acconsentito a fare una passeggiata insieme. Erano settimane che il biondo non metteva il naso fuori dalla villa di Dumas, ne aveva bisogno o sentiva che prima o poi sarebbe impazzito.

«Se vuoi possiamo rientrare» aveva proposto l’essere artificiale dopo l’ennesimo brivido che aveva attraversato il corpo del compagno, seguito da uno starnuto. Rimbaud si sforzò di sorridergli,

«Sei tu quello che dovrebbe riguardarsi» Verlaine inizialmente non comprese,

«Sei abbastanza caldo?» continuò il moro sistemandogli meglio la sciarpa attorno al collo. 

«Sto bene, la mia temperatura corporea è sempre stabile»

«Ora però non hai solo la tua di cui preoccuparti» finalmente Paul intuì il motivo dietro tanta apprensione. Si appoggiò una mano sul ventre, nascosto dall’ampio cappotto.

«Il parassita sta bene. Penso stia dormendo è insolitamente tranquillo» si limitò ad aggiungere con una scrollata di spalle.

«Però in effetti hai ragione, se ha preso da te soffrirà per tutto questo freddo» Rimbaud scoppiò a ridere. Non capitava spesso ma quando Paul parlava di quel bambino come loro il suo cuore mancava di qualche battito. Forse stava diventando troppo sentimentale ma la colpa era tutta del bellissimo demone biondo accanto a lui.

Un paio di aerei sfrecciarono sopra le loro teste. Non si erano allontanati di molto dalla villa di Dumas. Paul aveva insistito per sgranchirsi un pò le gambe così Arthur non aveva potuto fare altro che assecondarlo. Sapeva quanto quella vita da recluso non facesse per il compagno ma non poteva scordare quanto la loro situazione fosse precaria e pericolosa. Lui e Paul erano ricercati internazionali oltre che traditori. Quella pace non era altro che un’effimera illusione. Una bolla di felicità che lo sapevano entrambi, presto sarebbe scoppiata.

Erano all’inizio del mese di febbraio e nonostante la gravidanza di Paul avesse iniziato ad essere palese, il cappotto riusciva a nascondere alla perfezione quel rigonfiamento all’altezza del suo ventre.

«Pensi che la città subirà un attacco aereo?» Verlaine continuava ad osservare il cielo con aria preoccupata. Rimbaud si limitò a passargli un braccio intorno alle spalle.

«Andrà tutto bene. Vogliono solo che l’Inghilterra scenda in guerra, non sanno però di quanto questa nazione possa rivelarsi pericolosa»

«La situazione oltreoceano? La Guild?»

«Anche gli americani per il momento tentennano ma non ho dubbi sul fatto che stiano solo attendendo una mossa da parte degli alleati inglesi»

«Questo conflitto potrebbe allargarsi al resto del mondo» Rimbaud annuì con un cenno del capo

«Per quanto questo sia il peggior scenario possibile non mi sento di escluderlo, anche Agatha e Will ieri ne sembravano preoccupati»

«Will?» il biondo storse il naso mentre scandiva piano ogni lettera di quel nome. 

Non conosceva nessun Will, forse era un amico di Dumas. Arthur gli accarezzò il volto con un tocco gentile, intuendo come sempre i suoi pensieri. La sua mano però era gelida, come quella di un cadavere.

«William Shakespeare, uno dei Trascendentali. Non devi preoccuparti, è molto più vecchio di Hugo e decisamente più brutto» spiegò trattenendosi dal ridere di fronte alla reazione del partner.

«Non sono preoccupato» Rimbaud annuì. In quel momento Paul ne approfittò per afferrare una delle sue mani e mettersela in tasca.

«Rientriamo stai congelando» si limitò a sbuffare contro il suo orecchio, facendolo arrossire.

Era in quei momenti che Rimbaud non rimpiangeva nessuna delle proprie scelte, anche se quella non era altro che una stagione all’inferno, ogni decisione che aveva intrapreso lo aveva portato a vivere quel preciso istante, insieme a Paul.

Ti amo

Avrebbe voluto dirglielo ma ancora una volta gli mancò il coraggio.

Gli venne un’idea. Una fantasia che spesso aveva attraversato la sua mente ma che per un motivo e per l’altro non era mai riuscito ad attuare. Già da tempo voleva poter fare qualcosa di concreto per il proprio compagno. Sarebbe servito a distrarlo dalla gravidanza e dalla situazione politica internazionale.

Avrebbe festeggiato il suo compleanno. Rimbaud sapeva di come Verlaine tecnicamente non ne avesse uno ma pensò di usare come data quella del giorno della sua liberazione dal laboratorio del Fauno. Era riuscito a recuperare il proprio taccuino sul quale aveva appuntato ogni dettaglio di quell’operazione.

Mancava ancora un mese a quel giorno, il 30 marzo.

«A cosa stai pensando? Stai sorridendo»

«Sono solo felice»

«Perchè ti sto riportando al caldo?» Paul sapeva essere davvero un ingenuo. Come potevano definirlo mostro? Quello sarebbe stato l’ultimo aggettivo che Rimbaud avrebbe accostato al proprio compagno.

«No, sono semplicemente felice che tu sia nato»

«Che assurdità è mai questa?» ma prima che potesse aggiungere altro Arthur si chinò per baciarlo. 

Quel sogno non sarebbe durato. Paul lo sapeva fin dall’inizio ma quel sentimento, quella felicità non gli era mai sembrata tanto tangibile, a portata di mano.

Le settimane successive trascorsero in un battito di ciglia di pari passo all’aggravarsi del conflitto.

Londra finì sotto assedio e loro rinchiusi in una trappola dorata. 

«Come ti senti?»

Si era appena concluso l’ennesimo controllo medico e Paul si stava rivestendo. Grazie ai contatti di Dumas, anzi di Edmond Dantes, avevano potuto contare su molti specialisti discreti che avrebbero aiutato Verlaine seguendo l’avanzamento della gravidanza.

«Sei tu quello che hai un aspetto orribile. Non hai dormito?» Rimbaud si passò una mano sul volto. Aveva trascorso l’ennesima notte in bianco al quartier generale dell’Intelligence inglese.

«Sono rientrato all’alba» ammise sedendosi sul letto.

«Lo so, ti ho sentito»

«Non volevo svegliarti. Cosa ha detto il medico?» Paul finì di abbottonarsi la camicia,

«Sembra procedere tutto bene, mancano un paio di mesi e la prossima volta controllerà che il parassita sia nella giusta posizione» poi gli venne un dubbio,

«Arthur quando intende la giusta posizione..» Rimbaud era troppo stanco per affrontare una conversazione simile,

«Non hai letto i libri di Dumas?»

«Si ma parlano di donne, un caso come il mio non è mai stato documentato» Rimbaud annuì, comprendeva i timori di Verlaine. Doveva rassicurarlo in qualche modo.

«Penso che il tuo corpo sia progettato anche per quello e se così non fosse esiste il cesareo»

«Non vedo l’ora che tutto questo finisca» mormorò lasciandosi cadere al suo fianco, appoggiando il capo contro la sua spalla. Arthur chiuse gli occhi, facendo tesoro di ogni istante. Inalò l’odore dei capelli di Paul e si beò del suo calore.

«L’altra sera stavi recitando la nostra poesia» aggiunse prima di accarezzargli il ventre. Le prime volte, Verlaine si ritraeva da quel tocco ma con il passare del tempo era diventato un gesto naturale e intimo. Un momento solo loro, che amavano ritagliarsi lontani dal resto del mondo.

«Mon rêve familier» sussurrò Verlaine. Il moro annuì,

«Ho una sorpresa per te» gli confidò all’orecchio, dopo avergli sistemato una ciocca di capelli. Paul gli regalò un’occhiata interrogativa.

«Sei libero domani?»

«Stai scherzando? Dove pensi che possa andare?»

«Lo so, scusa»

«Se sei qui solo per burlarti di me puoi anche tornare ai tuoi salotti inglesi»

«Se potessi resterei con te ogni istante e lo sai. Soprattutto ora» continuò accarezzandogli il ventre. Verlaine sbuffò.

«Le tue parole non corrispondono alle tue azioni. Non sopporto quando fai così, un attimo prima mi fai sentire importante e quello poi te ne vai» Rimbaud gli sorrise. 

Paul era un bambino possessivo e viziato ma questa volta aveva ragione. Non faceva altro che ripetergli quanto lo amasse per poi abbandonarlo per colpa delle riunioni della Torre dell’Orologio. Arthur non poteva insospettire gli inglesi che gli stavano fornendo asilo ma questo discorso al partner sembrava non importare.

«Domani festeggeremo il tuo compleanno» annunciò con fare solenne. La reazione di Verlaine fu abbastanza strana. Non sembrò né felice né sorpreso, forse solo curioso.

«Cosa significa?»

«I compleanni sono ricorrenze importanti e come tali vanno festeggiati. Ho scelto per te il giorno in cui ti ho liberato da quel laboratorio, quando ci siamo conosciuti»

«Sono passati quasi quattro anni» ammise sovrappensiero.

«Già, ho contato ogni singolo giorno»

«Perchè?»

«Sei il mio solo e unico compagno, la persona per me più importante e voglio che tu possa accettare la tua umanità» Paul gli sorrise,

«Sei davvero uno stolto, anche se lo accettassi non cambierebbe nulla» non poteva cambiare la natura del suo corpo. Ciò che era.

«Il modo in cui sei nato non cambia ciò che sei e non qualifica le tue azioni»

«Tu non potrai mai comprendermi»

«Forse hai ragione ma non smetterò mai di tentare. Sei il mio partner oltre che padre di mio figlio»

Ogni possibile risposta morì sulle labbra di Verlaine. Arthur amava un qualcosa che non esisteva, l’idea che si era fatto di lui. Non poteva che essere altrimenti. Non avrebbe mai potuto amare il mostro che era.

«Se fossi stato un essere umano…»

 

***

 

Realtà originale

 

Verlaine non aveva smesso di fissare le pagine di quel taccuino. Era incredibile come alcune cose rimassero immutate in ogni realtà o fantasia. Come la testardaggine di Rimbaud nel voler celebrare la sua nascita. Ricordò una situazione simile anche nella prima Wonderland, quando il partner aveva insistito per festeggiare insieme il compleanno del giovane Arahabaki. 

Chiuse gli occhi, lasciandosi cullare da quelle memorie.

 

***

 

Wonderland

 

Dintorni di Parigi

-ricordo di Verlaine-

 

Paul era rientrato all’alba dall’ennesima missione. Lavorare come assassino su commissione gli era sembrata sul momento un’idea geniale ma il dover prestare attenzione ai Poètes lo obbligava a dover faticare il doppio per nascondere le proprie tracce. Rimbaud inizialmente si era opposto a quella decisione, sostenendo che avrebbe agito da solo. La prospettiva di un doppio stipendio però era troppo allettante e vista la situazione, Arthur aveva finito col cedere sotto l’insistenza di quegli occhi di ghiaccio.

Avevano stabilito poche regole, prima fra tutte che non avrebbero lavorato insieme. Uno di loro sarebbe sempre dovuto rimanere a casa per vegliare e proteggere Charles, il giovane Arahabaki che Paul aveva tanto insistito per salvare e crescere come un figlio.

«Sei tornato presto» furono le parole che lo accolsero non appena varcò la soglia della cucina. 

Sebbene fossero le cinque del mattino, Rimbaud era già ai fornelli. Verlaine si lasciò cadere su una delle sedie, versandosi un’abbondante tazza di caffè.

«Hai la manica della camicia sporca di sangue» gli fece notare il compagno, avvicinandosi per abbracciarlo. Paul non si mosse, abbandonandosi al tepore di quel contatto.

«Scusa, so che è difficile da lavare» Arthur gli depositò un piccolo bacio sulla fronte,

«Non preoccuparti. L’importante è che tu non sia ferito»

«Per chi mi hai preso? Dovresti saperlo che sono uno spietato assassino» Rimbaud soffocò una risata,

«Che l’altra sera leggeva favole della buonanotte al figlio» Paul arrossì abbassando il capo.

«Tu piuttosto, cosa ci fai sveglio a quest’ora?»

«Domani Charlie partirà per la gita scolastica, stavo preparando tutto l’occorrente»

«Quanti giorni starà via?» domandò prendendo un lungo sorso dalla tazza che teneva ancora tra le mani

«Un paio»

«Sei davvero bravo a prenderti cura dei mostri» Arthur gli lanciò una forchetta, che venne tempestivamente bloccata dall’Abilità del biondo. Erano episodi di routine per loro,

«Ho avuto la mia dose d’esperienza con un certo Black, Arahabaki in confronto è un agnellino»

«Ha dormito questa notte?» Rimbaud scosse il capo. Nonostante fossero passati mesi dalla sua liberazione dal laboratorio, spesso Charles si svegliava nel cuore della notte, urlando e attivando inconsapevolmente la propria Abilità. Solo Paul sembrava calmarlo quando avvenivano questi episodi. Un’ulteriore prova del legame che condividevano.

«E se dovesse capitare durante il viaggio d’istruzione?» domandò Verlaine sovrappensiero con una punta di preoccupazione che non sfuggì al compagno

«Ho pensato di seguirli per intervenire in caso di bisogno»

«E hai avuto il coraggio di definire me genitore apprensivo» concluse il biondo alzando un sopracciglio.

«Ho la mia dose di responsabilità in questa storia. Charlie si merita una vita normale. Non potevamo privarlo di quest’esperienza» Verlaine annuì.

Arthur aveva assecondato un suo desiderio, fuggendo insieme per crescere quel bambino in campagna, lontano dai Poètes e da quel passato che nonostante gli sforzi continuava a minacciarli.

«C’è un’altra questione della quale desideravo parlarti» esordì il moro con un tono improvvisamente serio.

«Hugo ci ha trovati?»

«No nulla del genere, per quanto ne so è da poco tornato dalla conferenza di pace di Standard Island»

«Allora che succede?»

«Tra un paio di settimane cadrà il tuo compleanno e tra un mese avremo quello di Charles» Verlaine sgranò gli occhi per la sorpresa.

Ricordava perfettamente il proprio primo compleanno, festeggiato poco prima della partenza per il Giappone.

«Quello di Charles?» fu tutto ciò che riuscì a dire, perso in quel mare di ricordi. 

«Ci siamo infiltrati nella base di ricerca di Suribachi la notte del 29 aprile, ho scelto quel giorno come data di nascita per Charlie, compare anche su tutti i suoi documenti» esclamò con orgoglio.

«Non capirò mai questo tuo entusiasmo nel celebrare queste ricorrenze» Rimbaud gli sorrise.

«Quando ero piccolo mia madre organizzava sempre una grande festa. Invitava tutti, amici, parenti, vicini di casa. Mi sentivo così felice perchè per un giorno ero al centro dell’attenzione»

«Anche quel Charles partecipava?» ovviamente Verlaine non riusciva a trattenere la propria gelosia di fronte a quel passato del quale non avrebbe mai potuto fare parte.

«Ovvio era il mio migliore amico. Il mio unico amico»

«Avrei voluto conoscerti allora» Rimbaud lo fissò, sorpreso da quell’affermazione.

«Ero solo un ragazzino di campagna che sognava di conquistare Parigi e diventare qualcuno, quando in realtà venivo bullizzato per il mio aspetto femminile»

«Non hai nulla di femminile»

«I miei capelli»

«Che hanno?»

«Di solito non si portano così lunghi»

«A me piacciono i tuoi capelli»

«Ti ringrazio» mormorò avvicinandosi per baciarlo, questa volta in modo più appassionato. Paul non si rendeva conto dell’effetto che quelle semplici frasi avevano sul partner. 

«Avrei ucciso ad uno ad uno quei mocciosi» proseguì il biondo a pochi centimetri dalle sue labbra

«Non sarebbe servito a nulla. I bambini possono essere crudeli. Ma stiamo parlando di un’altra vita, una che quasi non ricordo di aver vissuto»

«Di cui però parli con nostalgia»

«Era una stagione felice. La mia infanzia. Voglio questo per Charlie, desidero che un giorno, quando ripenserà a questi momenti, li veda come una parentesi serena. Ha sofferto così tanto» 

«Per questo volevo salvarlo da un destino simile al mio»

«Sono contento di averti dato ascolto» lo era davvero. Troppo spesso il pensiero di ciò che sarebbe potuto accadere se avesse preso un’altra decisione tornava a tormentarlo. Avevano salvato Charles da un destino simile al loro. Anche Rimbaud era stato strappato dai propri affetti finendo con l’inseguire una fantasia che avrebbe determinato la sua intera esistenza.

«Allora cosa hai intenzione di fare per festeggiare?» come sempre bastò il suono della voce di Paul per portarlo alla realtà

«Pensavo di approfittare di questi giorni senza Charlie per stare un pò insieme. Non hai altre missioni, vero?» Verlaine ci pensò per qualche secondo, finendo con l’annuire

«La prossima è tra una settimana quindi per il mio compleanno dovrei essere a casa»

In quel momento il piccolo Charlie comparve sulla soglia della cucina. Fissò entrambi ma solo alla vista del biondo sembrò illuminarsi.

«Sei tornato» gridò prima di correre fra le sue braccia. Rimbaud sorrise. Avrebbe combattuto per difendere quella felicità.

 

Per il compleanno di Verlaine non avevano fatto nulla di eccezionale. Il biondo era rientrato dall’ennesima missione così avevano potuto trascorrere la serata in famiglia. Paul si era già scordato del proprio compleanno ma Rimbaud glielo aveva ricordato offrendogli un bicchiere di vino. Le urla di Charlie erano bastate per distoglierli da qualsiasi altro proposito. Il giorno dopo però l’essere artificiale era tornato sull’argomento,

«Come si festeggia il compleanno un bambino?»

Erano appena tornati a casa, dopo aver accompagnato il figlio a scuola. Arthur si limitò a sorridergli pazientemente, c’erano ancora così tante cose nuove per il proprio partner, ma anche per lui. Era da troppo che non si beava di una simile quotidianità, la vita di un agente segreto era solitaria e fatta di rinunce. Aveva scordato il calore di una famiglia o semplicemente la gioia data dal fare qualcosa insieme.

«Pensavo di invitare qualche suo compagno di classe per una merenda»

«Conosci i suoi compagni?»

«Se mi avessi accompagnato ad un qualche incontro scolastico li conosceresti anche tu» Paul si era sentito in colpa.

Era stata una sua decisione. Lasciare ad Arthur il compito di gestire le pratiche sull’adozione di Charlie e recitare il ruolo del genitore perfetto. Sulla carta il bambino figurava come suo fratello minore ma sugli stessi documenti lui e Rimbaud risultavano legalmente sposati.

«Molti insegnanti vorrebbero conoscerti»

«Credi davvero che sarebbe una buona idea? Sono un’arma»

«Un’altra parola e davvero questa sera dormirai sul divano» bastava quella semplice minaccia a zittire il biondo. Verlaine si era abituato alla presenza di Arthur al proprio fianco e faticava a prendere il sonno quando per via di qualche missione gli capitava di dormire solo.

«Sei crudele»

«Accompagnami alla prossima riunione. Conoscerai gli amici di tuo figlio, i suoi insegnanti e lo faresti felice»

«E che mi dici di te?»

«Sarei lieto di mostrare ai nostri vicini il mio compagno» mormorò in tono solenne.

«Una volta Charlie mi ha chiesto del nostro matrimonio» Rimbaud fece cadere il proprio cappotto in terra, colto di sorpresa,

«Matrimonio?»

«Per i nostri vicini siamo sposati» Arthur annuì, a volte lo scordava.

Non aveva riflettuto molto quando aveva preso la decisione di falsificare tutti i documenti necessari per l’iscrizione di Charles in quell’istituto. Data la somiglianza con Paul l’idea di presentarli al mondo come fratelli era quasi scontata, era lui il solo che avrebbe dovuto in qualche modo legittimare la propria presenza in quella famiglia. Così era apparso un certificato di matrimonio. 

Quando Rimbaud ci ripensava tornava a sorridere. A quei tempi lui e Verlaine non si erano nemmeno baciati, il loro rapporto era ancora in sospeso, avvolto da una patina di ambiguità che solo la presenza di Charlie avrebbe contribuito pian piano a dissolvere.

«E cosa desiderava sapere?» chiese fingendo disinteresse,

«Qualcosa su una proposta e di quando me lo avessi chiesto» Arthur scoppiò a ridere guadagnandosi un’occhiataccia da parte del compagno.

«Perchè avresti dovuto chiedermelo tu?» domandò serio

«Visto che non sembri sapere nulla di matrimoni avrà pensato che io fossi il più indicato» si limitò a rispondere.

«So di cosa si tratta, è un rapporto di convivenza e supporto» il moro si zittì, sorpreso da quelle parole.

«Non nego di essere rimasto confuso all’inizio ma in fondo noi non siamo sempre stati sposati?» Arthur non riuscì a trattenersi. Afferrò il partner per un braccio e se lo tirò a sé intrappolando il suo corpo contro al muro per poi baciarlo con passione.

«Sei incredibile» fu la sola cosa che disse prima di tornare ad avventarsi su quelle labbra. Verlaine come sempre si limitò ad assecondarlo. Gli erano sempre piaciute quelle attenzioni da parte di Rimbaud. Quando si staccarono un leggero capogiro lo colse impreparato. Furono le braccia del moro ad afferrarlo impedendogli di rovinare a terra. 

«Paul tutto bene?» il biondo sembrò spaesato quanto lui

«Credo di si. Per un istante mi era parso di perdere le forze»

«Non credevo che i miei baci facessero questo effetto»

«Ho baciato solo te per cui non ho altri termini di paragone» nemmeno il tempo di bearsi di quelle parole che il biondo si affrettò ad aggiungere,

«Scommetto che anche a Baudelaire piacevano»

«Paul»

«Lo odio» Rimbaud alzò gli occhi al cielo

«Sei incredibile. Charles è morto. La tua gelosia è infondata» in risposta Verlaine si strinse maggiormente alle sue braccia, nascondendo il volto nell’incavo della sua spalla. 

«Io sono tuo marito» Arthur sorrise accarezzandogli i capelli,

«E io il tuo» sussurrò dolcemente prima di baciarlo. Rimasero per diversi minuti in quella posizione, assaporando ogni minuto trascorso insieme.

«Dovresti stenderti un pò sei pallido» gli fece notare Rimbaud poco dopo, accarezzandogli il volto. Paul si ritrasse da quel tocco gentile,

«Sono un essere artificiale, non posso ammalarmi»

«Può darsi si tratti semplicemente di stanchezza, quante missioni hai completato nell’ultimo mese? Forse ti serve una pausa»

«Tu ne hai svolte un paio in più di me» sbuffò imbronciandosi, cercando di sciogliere l’abbraccio che ancora lo teneva ancorato al partner

«Sono solo preoccupato» confessò Arthur contro al suo orecchio, facendolo rabbrividire.

«Pensa piuttosto ad organizzare la festa per nostro figlio» il moro si arrese, lasciandogli un ultimo bacio a fior di labbra.

Quel compleanno fu una giornata da ricordare. Verlaine e Rimbaud non avevano mai visto Charles tanto felice. 

Quella realtà però non sembrava destinata a durare, nonostante le due spie ci avessero sperato qualche mese dopo Stendhal li raggiunse, portandosi via ogni cosa insieme al loro futuro.

 

***

 

Realtà originale

 

Una volta riemerso da quel sonno ad occhi aperti, Verlaine si accorse della propria mano ancora appoggiata al suo grembo. Forse anche in quella prima Wonderland era incinto del figlio di Arthur. Sarebbe stato possibile data la sua natura mostruosa.

Sorrise per l’assurdità delle proprie fantasie. Era inutile perdersi in simili fesserie. Ormai Rimbaud era morto e nulla avrebbe potuto riportarlo in vita. Il biondo però non sembrava ancora in grado di separarsi da lui e forse non lo sarebbe mai stato. Un leggero bussare richiamò la sua attenzione. 

«Avanti» rispose annoiato. Solo Lewis Carroll avrebbe potuto usare una tale accortezza data la situazione nella quale si trovavano, inoltre dubitava che Baudelaire avesse voglia di scambiare una qualche parola con lui. Quel bastardo doveva solo ringraziare la propria pazienza che tuttavia presto sarebbe esaurita.

«Non volevo disturbarti ma solo sapere come stavi»

Carroll ovviamente aveva assistito a quanto successo in quella seconda Wonderland, dopotutto era un prodotto della sua Abilità.

«Mi concederesti un ultimo tentativo?» l’inglese accennò ad un sorriso, in fondo se lo era aspettato. Afferrò una delle sedie mettendosi davanti a lui.

«Hugo e l’Europole sono sulle nostre tracce, secondo le stime di Baudelaire abbiamo poche ore prima che ci trovino» lo informò

«L’Europole» a quanto pare anche Alexandre Dumas sembrava essere sceso in campo. Il ricordo di come lui e Victor Hugo fossero i responsabili della morte di Rimbaud era ancora vivido nella sua mente. Strinse i pugni cercando di mantenere la calma.

«Nella peggiore delle ipotesi io e te verremmo rinchiusi a Meursault» il biondo annuì,

«La peggiore sarebbe morire ma forse hai ragione, vivere può essere un destino ancora più crudele» Carroll scosse il capo,

«Dopo averti visto insieme a Rimbaud ho compreso cosa ti abbia spinto a fare tutto questo» Verlaine lo guardò confuso

«E sentiamo, cosa avresti capito?»

«Se vorrai tentare ancora non mi opporrò»

«Cosa ne pensi di Baudelaire?» quella domanda colse l’inglese di sorpresa,

«Lui non si fida di te e tu di lui, ma avete un obiettivo comune. Per questo state inseguendo un’utopia irrealizzabile»

«Ogni mia decisione ha finito con il condannare Rimbaud.»

«Il tuo partner ha pagato il conto per le proprie scelte»

«Gli ho forzato la mano»

«Gli esseri umani sono dotati di libero arbitrio»

«Come anche i mostri»

«Arriverai mai ad accettare di essere diventato uno di noi?»

«Forse dopo aver incontrato Arahabaki»

«Rimbaud era solo preoccupato per la vostra sicurezza, per questo non ti ha assecondato durante la missione in Giappone» provò a fargli notare

«Mi ha tradito»

«E tu hai fatto lo stesso con lui. Cosa avete ottenuto?»

«Lui ha perso la memoria e io mi sono divertito a seminare il panico nel Vecchio continente»

«Avreste meritato un lieto fine» lo pensava davvero

«Lo avremmo meritato anche noi» Charles Baudelaire era intervenuto nella conversazione riversandoci il peso del proprio rimpianto,

«Arthur ti ha rifiutato» rispose il biondo senza degnarlo di uno sguardo

«Lo so»

«Intendo fare un ultimo tentativo» lo informò rivolgendo la propria attenzione a Carroll

«Come ti pare»

Sei quasi allo stremo, e quando avverrà, quando le forze ti abbandoneranno, ti catturerò,

«Come pensi di giustificare il tuo coinvolgimento in questa vicenda? Non mi sembra che Hugo ti abbia in simpatia»

«Accetterò qualsiasi punizione»

Baratterò la tua testa per una pagina. La offrirò a Victor come segno di pace.

Verlaine gli regalò un’occhiata dubbiosa.

«Se non ti ucciderà lui lo farò io» era una promessa,

«Credimi ho anche io con conto in sospeso con quella vecchia volpe, in questo mondo mi ha ridotto ad un vegetale»

Verlaine lo aveva scordato. In realtà non gli era importato molto della sorte toccata a Baudelaire o Stendhal. I suoi pensieri erano tutti rivolti ad Arthur e il loro bambino.

Per la prima volta colse il senso dietro ad una delle regole di Hugo. 

I legami rendono deboli. 

I suoi sentimenti lo avevano reso cieco di fronte a ciò che lo circondava. Quelle norme contenevano un fondo di verità ma mai lo avrebbe ammesso ad alta voce. 

«Hai pensato alla prossima domanda?» intervenne Carroll. Verlaine annuì.

Lanciò un’ultima occhiata al taccuino di Arthur accanto al proprio letto. 

«Se io fossi stato un semplice essere umano utilizzato come cavia per gli esperimenti del Fauno? Un uomo normale dotato di un’Abilità Speciale come voi?» 

Forse in una realtà simile Rimbaud non sarebbe morto. 

Intercettò lo sguardo carico d’odio di Baudelaire mentre pronunciava quelle parole. 

Era l’ultima sfida fra loro e lo sapevano entrambi, ma questa volta avrebbero giocato ad armi pari.

Lewis Carroll cercò come sempre di placare gli animi, leggendo l’atmosfera.

«Penso sia una domanda interessante, se hai intenzione di riposare…»

«Non intendo sprecare un secondo di più. Attiva la tua Abilità»

Fece appena in tempo ad afferrare il taccuino di Rimbaud e stringerselo al petto prima di perdere i sensi.




 

*”L’ultima innocenza e l’ultima debolezza. É stato detto. Non portare nel mondo il mio disgusto e i miei tradimenti. Andiamo! 










 

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Capitolo 20
*** XX Stagione - Changer la vie ***


XX Stagione - Changer la vie




 

«Il a peut-être des secrets pour changer la vie?

Non, il ne fait qu’en chercher, me répliquai-je.»*

Une Saison en Enfer 





 

Realtà originale


Charles Baudelaire rimase per qualche secondo ad osservare la figura del biondo essere artificiale steso sul letto, a pochi metri da lui. Dopo l’esperienza di quella seconda Wonderland provava sentimenti contrastanti verso il rivale. Indubbiamente lo odiava, anche se quello che detestava maggiormente era se stesso. 

Nonostante le parole di Rimbaud, Baudelaire non riusciva a rassegnarsi.

Avrebbe riscritto la realtà a proprio favore, regalandosi quel lieto fine che lui e Paul meritavano.

Fu in quel preciso istante che sembrò notare per la prima volta, il taccuino tra le braccia di Black.

«Cosa hai intenzione di fare?» domandò Carroll intercettando la direzione del suo sguardo,

«Sembra essere un oggetto importante per lui» si limitò a rispondere, sfilandoglielo dalle mani. 

L’inglese non si oppose. Se Baudelaire desiderava proseguire su quel sentiero non era affar suo. L’aveva messo in guardia più di una volta ma il Poète non sembrava intenzionato ad ascoltarlo. Neppure la prospettiva dell’Europole o di Hugo pareva spaventarlo. Quella testardaggine poteva rivelarsi pericolosa. Per tutti loro. 

In quel momento, Charles gli ricordava un bambino ferito, non ragionava con lucidità ma per capriccio.

Durante quella seconda fantasia Arthur Rimbaud lo aveva respinto, preferendogli quel demone tentatore dall’aspetto angelico. Il Poète aveva mostrato di essere andato avanti, solo Baudelaire sembrava ancora legato a quel passato lontano.

Le parole e le espressioni di Rimbaud gli tornarono alla mente, come le immagini di un vecchio film. Era insopportabile, una lenta agonia. Vedere quanto il moro amasse l’essere artificiale e di come questi non sembrava accorgersene lo faceva impazzire.

Osservò Black per una manciata di minuti prima di decidersi a sfogliare quel quaderno. Riconobbe immediatamente la calligrafia ordinata e composta. Poteva appartenere solo ad una persona.

Paul

Quello doveva essere suo. Prese a leggerne qualche riga.

“La natura del mio lavoro mi impedisce di avere delle relazioni” [...]

“Una persona come me può davvero guidare qualcuno? Non posseggo una risposta a questa domanda. Ma se potessi farlo? Io, che utilizzo un nome in codice dopo aver gettato via il mio passato e la mia vecchia identità. Poter fare qualcosa per un'altra persona, per una nazione, per un amico. Questo pensiero da solo è sorprendentemente esilarante” […]

“Paul, il giorno in cui leggerai questo diario sarà il giorno in cui conoscerai il tuo segreto. Prego che quel momento ti porti la vera felicità”**

Charles Baudelaire soffocò un’imprecazione tra le labbra. Era incredibile come poche righe riuscissero a trasmettere perfettamente i sentimenti che Rimbaud provava verso quel mostro. Non era nulla di esplicito ma ogni parola rivelava la natura del legame che lo univa a quella bestia.

Dopo la seconda Wonderland, Charles aveva iniziato ad accettare l’affetto che l’ex amante provava verso Black. Non era uno stolto, anche un bambino avrebbe compreso quanto il suo Paul tenesse a quella creatura. Per questo ogni riga di quel taccuino era l’equivalente di una pugnalata al petto.

«Va tutto bene?» domandò Carroll avvicinandosi a lui. Charles gli pose il quaderno, invitandolo a leggere,

«Il mio francese è pessimo, che c’è scritto?»

«Nulla, è solo l’ennesima prova dei sentimenti di Paul per Black»

«Forse in questa realtà sarà diverso» tentò, anche se sembrava il primo a non credere alle proprie parole

«Non mi serve la tua pietà» L’inglese in fondo aveva mostrato più di una volta di simpatizzare per la causa di quel mostro,

«Abbiamo un ultimo tentativo» Baudelaire annuì

«Ho bisogno di un po' di tempo» ammise, andando ad isolarsi in un angolo della stanza. La tentazione di chiamare Stendhal non era mai stata tanto forte, in quel momento Baudelaire avrebbe solo desiderato avere il superiore al proprio fianco. Henri sicuramente non si sarebbe risparmiato, rimproverandolo per le proprie azioni ma una parte di Charles era certa che lo avrebbe anche incoraggiato ed esortato a non gettare la spugna. Non ora che era così vicino ad ottenere ciò che si era prefissato.

Aveva provocato lui quella serie di eventi, era stato Baudelaire a cercare Verlaine e richiedere il suo aiuto. Il desiderio di ottenere quella pagina e salvare Rimbaud però aveva avuto la precedenza su tutto, anche sul proprio buonsenso. Charles avrebbe mercanteggiato per la propria libertà anche se il recente coinvolgimento dell’Europole poteva rappresentare un problema così come cambiare le carte in tavola.

Quell’Organizzazione era guidata da Dumas e quell'individuo pareva decisamente più pericoloso e scaltro di Hugo. Charles aveva scoperto solo grazie al potere di Carroll come l’ex numero due dell’intelligence francese fosse sopravvissuto e avesse creato quell’Agenzia come facciata per perseguire i propri scopi. 

Alexandre Dumas restava una figura sibillina in quella storia. Nella seconda Wonderland si era presentato come un amico, un benefattore, guadagnandosi la fiducia di Verlaine e Rimbaud, per poi tradirli e uccidere quest’ultimo senza esitazione. Baudelaire non riusciva ancora a comprendere i suoi scopi né la natura del legame che condivideva con il leader dei Poètes. Victor Hugo era stato stranamente comprensivo verso il biondo e lo aveva coinvolto nei propri piani senza alcun dubbio o tentennamento, dopo oltre dieci anni di lontananza. Era quest’aspetto a turbarlo maggiormente. L’Europole poteva essere una spina nel fianco ancor più della Torre dell’Orologio ma il coinvolgimento di Dumas ribaltava la situazione.

Sicuramente il Diavolo Nero (come era stato soprannominato in gioventù) aveva molti assi nella manica che non aveva ancora mostrato. Ciò a cui Baudelaire aveva assistito in fondo non era altro che una fantasia, ciò che sarebbe potuto essere.

Strinse il cercapersone nella tasca dei propri pantaloni, ripensando al triste epilogo di quella storia. Anche in quella realtà Stendhal era rimasto al proprio fianco, pronto a supportarlo. Lui invece era finito in coma dopo aver cercato di proteggerlo.

Sperò di non aver coinvolto il proprio superiore nell’ennesima follia. Non se lo sarebbe mai perdonato.

 

***

 

Wonderland

 

-qualche stagione prima-

-luogo non specificato- confine franco-tedesco



 

“Se io fossi stato un semplice essere umano utilizzato come cavia per gli esperimenti del Fauno? Un uomo normale dotato di un’Abilità Speciale come voi?” 

 

Arthur Rimbaud utilizzò la propria Abilità per illuminare l'infinito corridoio che stava percorrendo. Non aveva faticato a raggiungere il sotterraneo dell’edificio che fungeva da base all’ennesimo movimento antigovernativo che minacciava l’ordine della propria nazione. Avrebbe tanto voluto che gli scopi dei Poètes fossero così patriottici, in realtà dietro quell’operazione vi erano state numerose pressioni economiche. Il Vecchio Continente sembrava sul piede di guerra e ogni nazione stava cercando di prepararsi meglio ad un conflitto che appariva inevitabile.

Victor si era limitato ad affidargli quel caso, sfoderando il proprio miglior sorriso e utilizzando la solita scusa:

Sei il solo in grado di completare questo incarico

Rimbaud si era sistemato meglio la sciarpa intorno al collo e aveva accettato quei documenti senza battere ciglio. Dopo la morte di Charles Baudelaire aveva giurato a se stesso che si sarebbe impegnato per diventare il migliore. I sentimenti, le emozioni, non portavano a nulla, erano solo d’intralcio. Ripensò a come avesse ridotto il cadavere di una delle guardie poste all’ingresso del sotterraneo. Lo aveva reso un burattino grazie alla propria Abilità e ci aveva giocato utilizzandolo come scudo. In fondo quello era il vero volto dell’intelligence. Rimbaud era solo un assassino al servizio dei potenti. Dopo aver eliminato altri due individui raggiunse quello che aveva tutta l’aria di essere un laboratorio. 

Fece un paio di passi in avanti notando solo in un secondo momento come il pavimento fosse interamente ricoperto di sangue.

Maledisse Hugo e le informazioni ricevute.

«Aiutami» fu allora che l’udì. Una voce giunse raggiunse le sue orecchie debole come un sussurro. Doveva ignorarlo. Non poteva lasciarsi distrarre, aveva una missione da completare. Liberare un civile sarebbe stato controproducente oltre che una perdita di tempo.

«Mi dispiace ma devo eseguire gli ordini» si limitò a rispondere con tono monocorde

«E questi ordini ti impediscono forse di salvare delle vite?» Rimbaud prese un lungo respiro prima di replicare,

«Sono una spia, per il bene del mio Paese sono disposto a tutto»

Seguirono alcuni secondi di silenzio, 

«Se cerchi il Fauno stai andando nella direzione sbagliata» 

«Fauno?»

«L’uomo che ha permesso tutto questo»

«Tu chi sei?» domandò il moro, avvicinandosi ad una delle celle completamente avvolte dall’oscurità, seguendo il suono di quella voce

«Un semplice esperimento, il prodotto della sua follia» Rimbaud fece un passo in avanti.

Nulla lo avrebbe mai potuto preparare ad una simile visione. Il prigioniero era incatenato al muro con numerosi tubi e flebo che entravano ed uscivano dal corpo. Pareva una bambola.

Aveva lunghi capelli biondi e occhi di ghiaccio. Era bellissimo.

Il moro si sorprese per i suoi stessi pensieri, accostandosi alle sbarre che li dividevano, prendendole tra le mani.

«Fermerò questo Fauno» promise, cercando di regolare i battiti del proprio cuore. Sembravano impazziti dopo quella visione. 

Rimbaud stava provando una serie di emozioni contrastanti. Rabbia, verso l’uomo che aveva permesso quello scempio, empatia per il prigioniero ma anche il desiderio di salvarlo, di stringerlo tra le proprie braccia, proteggerlo da quel mondo crudele. Per una frazione di secondo si dimenticò persino della propria missione, ma le parole del biondo lo riportarono bruscamente alla realtà.

«Questo posto è un labirinto, potresti perderti. Liberami e ti prometto che ti aiuterò» Rimbaud storse il naso, cercando di mascherare la propria sorpresa.

«Anche volendo non saprei come fare. Potrei ucciderti» l’esperimento gli sorrise,

«Non morirò per così poco. Ho sopportato di peggio» Rimbaud fece per andarsene. 

Non era una buona idea. La voce di Baudelaire nelle sue orecchie continuava a sussurrarglielo.

Hugo non gli aveva fornito nessuna informazione su di un possibile prigioniero. Sapeva solo che in quella struttura si svolgevano ricerche sulle Abilità Speciali.

«Mostrami il tuo potere» esordì all’improvviso, lasciando il biondo di stucco.

«Sei una cavia giusto? Che Abilità possiedi?»

«Controllo la gravità» il moro non sembrò troppo convinto ma aveva bisogno di una scusa qualsiasi per giustificare le proprie azioni.

«Dentro di me alberga un mostro in grado di distruggere ogni cosa» Rimbaud scoppiò a ridere prima di utilizzare il proprio potere per liberarlo. Il biondo cadde a terra non riuscendo a reggersi sulle proprie gambe. 

Arthur aveva previsto tutto. Si tolse il pesante cappotto, appoggiandolo sulle spalle magre del biondo che si fece immobile, quasi spaventato da quel gesto.

«Non sei abituato al contatto umano vero?» domandò la spia. Il prigioniero scosse la testa. Fu allora che Rimbaud lesse per la prima volta la targa posta accanto l’ingresso della cella.

Black No.12

Impossibile.

Quel ragazzo era l’arma che il suo Paese stava cercando. Imprecò.

“Non è una missione impegnativa, ma sei l’unico al quale possa affidarla. Il solo che gode della mia piena fiducia. Black No. 12. Devi recuperarlo, è un’arma incredibile che potrebbe impedire lo scoppio della Guerra o persino ribaltarne le sorti a nostro favore”

Le parole di Victor gli tornarono alla mente insieme a quel sorriso scaltro che da sempre contraddistingueva la pragmatica figura del leader dei Poètes Maudits. Rimbaud fissò il biondo ancora seduto a terra, tremante e insanguinato. Si strappò le maniche della camicia, utilizzando quel tessuto per medicare le ferite all’apparenza più gravi, facendo ricorso anche alla propria Abilità per bloccare possibili emorragie.

«Che stai facendo?» domandò Black, regalandogli l’ennesimo sguardo terrorizzato e confuso dato dalla vista di Illuminations.

«Cerco solo di impedire che tu muoia dissanguato»

«No, intendevo perchè lo fai?» 

«Non volevi aiutarmi a sconfiggere il tuo aguzzino?» il prigioniero abbozzò un sorriso

In realtà Rimbaud non sapeva perché avesse agito in quel modo. Una brava spia avrebbe dovuto ignorare quella richiesta di aiuto, proseguire verso il proprio obiettivo e lasciare ad altri il compito di salvare i civili. 

Il suo primo errore era stato quello di incrociare lo sguardo di Black. 

«Non credo di riuscire a camminare» le parole del biondo lo riportarono nuovamente al presente.

«Come?»

«Ho detto che non riesco a reggermi in piedi»

«E che ti aspetti che faccia, vuoi forse che ti porti in braccio?» Black gli sorrise,

«Pensavo a spalle, ma non preoccuparti. Al prossimo incrocio gira per tre volte a sinistra poi due a destra, troverai il laboratorio principale. Io me ne starò qui ad attendere i rinforzi. Sempre che prima non muoia dissanguato»

Rimbaud alzò gli occhi al cielo. Non sarebbe arrivato nessuno. Lo sapevano entrambi.

«Non dire assurdità» si limitò a rispondere prima di chinarsi e caricarselo sulle spalle. Black era ancora più leggero di quello che pensava. Di nuovo il suo cuore perse qualche battito al contatto con la sua pelle. Era così freddo. Come una statua di marmo.

«Grazie» mormorò contro al suo orecchio. Una sensazione di calore immediatamente pervase il corpo della spia facendolo avvampare. Era la prima volta che accadeva. Tutto il gelo avvertito qualche istante prima sembrava scomparso.

«Non mi hai ancora detto il tuo nome» proseguì il biondo, stringendosi maggiormente contro di lui,

«Arthur Rimbaud»

«Grazie Arthur» La spia non rispose. In quella missione nulla stava andando come previsto.

Dopo qualche minuto, finirono con il raggiungere il laboratorio principale. Una volta riconosciuto il proprio esperimento il Fauno sorrise iniziando a recitare una strana poesia.

Rimbaud ebbe la prontezza di allontanarsi prima che il biondo iniziasse a perdere il controllo. Capì di dover eliminare lo scienziato. Non aveva tempo da perdere, l’intera struttura minacciava di cedere sotto gli attacchi di Black. Quel mostro sembrava aver perso ogni contatto con la realtà. Il suo sguardo era vitreo e inespressivo, come se il Fauno stesse controllando la sua volontà. Fu allora che la spia comprese le parole di Victor e del perché lo avesse definito un’arma.

Utilizzò la propria Abilità per ripararsi dalla distruzione provocata dal biondo, riuscendo in qualche modo a colpirlo, arrivando a fargli perdere i sensi. A quel punto doveva solo sbarazzarsi del Fauno, l’uomo che aveva reso possibile una tale follia.

«Se mi uccidi nessuno potrà mai controllarlo» Arthur arricciò il naso, regalandogli un’espressione di puro disgusto,

«Non ha bisogno che qualcuno lo controlli, Black è un essere umano e come tale dotato di libero arbitrio»

«Non lasciarti ingannare dal suo aspetto, Black No.12 è una bestia. Un Dio della Distruzione in grado di distruggere ogni cosa.»

«Io vedo un solo mostro in questa stanza e non è lui»

Bastò un colpo di pistola per mettere fine a quella discussione. 

Rimbaud si avvicinò al biondo ancora profondamente addormentato. Recuperò delle garze, cercando di tamponare il resto delle sue ferite. Da qualsiasi angolazione, Black appariva bellissimo e indifeso. Ai suoi occhi non era altro che una vittima di quella follia. Rubò diversi appunti della ricerca del Fauno, sia cartacei che digitali e si affrettò a lasciare la struttura.

 

***

 

Qualche ora dopo

 

«Sapevo di poter contare su di te. Sei il mio agente migliore» le parole di Victor non gli erano di alcun conforto. Terminò in fretta quella telefonata, concentrando la propria attenzione sul viso di Black ancora profondamente addormentato. 

Aveva prenotato una camera in un albergo di un paese vicino, in attesa di ricevere altre disposizioni.

«Cosa ne sarà di lui?» aveva domandato al proprio superiore, non riuscendo a celare una punta di preoccupazione. 

«Dovrai occupartene tu. Black è una risorsa preziosa, devi insegnargli a come essere una spia» Arthur stentava a credere alle proprie orecchie,

«Non sono tagliato per essere un insegnante, non saprei nemmeno da dove iniziare»

«Non lo ero neppure io eppure ti ho reso la spia più potente d’Europa» Rimbaud avrebbe voluto obiettare ma Hugo non gliene lasciò il tempo,

«Grazie alla tua Abilità dovresti riuscire a tenerlo sotto controllo» proseguì con un tono fin troppo entusiasta

«Ma Vic»

«Potresti iniziare con il dargli un nome. Ad una spia serve un nome in codice e Black è orribile non credi?»

Come sempre Hugo non gli aveva lasciato possibilità di scelta. Forse era la punizione per averlo salvato, per aver infranto per l’ennesima volta le regole. 

No. Black era un’arma pericolosa. Arthur aveva assistito in prima persona al rilascio della sua Abilità e per poco non era stato travolto da quel potere. Qualche giorno prima aveva avuto un diverbio con Hugo, ma nonostante questo aveva accettato di partire per quella missione. Non avrebbe permesso ai propri sentimenti di interferire con il lavoro.

Quel ragazzo era diventato una sua responsabilità.

Doveva pensare a un nome, peccato che non gliene venisse in mente nessuno. Si perse ad osservare i lineamenti di quel viso perfetto.

Paul

La voce della propria coscienza, fin troppo simile a quella di Baudelaire, lo fece sorridere.

Paul

Un tempo, quello era stato il suo nome. Erano anni che quell’appellativo non gli tornava alla mente.

Paul era il nome che i suoi genitori gli avevano dato. Rappresentava il proprio passato, una stagione della sua vita che avrebbe tanto voluto dimenticare e seppellire in un angolo remoto della propria mente. Era un vocabolo che in quel momento gli suonava estraneo. Negli anni era come se Arthur avesse perso ogni diritto di usarlo. Paul Verlaine era morto oltre dieci anni prima in un piccolo paesino delle Ardenne.

Tornò a posare lo sguardo sulla figura addormentata davanti a lui.

Paul

Black doveva avere un nome e per un istante gli parve che quello fosse perfetto.

Fu allora che il biondo si svegliò. 

«Buongiorno» lo salutò la spia cercando di non spaventarlo.

«Fa attenzione, ti ho medicato ma le ferite potrebbero comunque riaprirsi e tornare a sanguinare» Paul lo osservò confuso.

«Dove ci troviamo? Che ne è stato del Fauno?» 

«Siamo al sicuro, quell’uomo è morto, non ti farà più del male»

«Avrei voluto ucciderlo con le mie mani»

«Ricordi cosa è successo?» il biondo scosse la testa,

«Ho perso il controllo vero?» Rimbaud annuì, anche se non poté fare a meno di notare l’espressione affranta comparsa sul viso dell’altro.

«Non conservo alcun ricordo del mio passato. Ho sempre vissuto in quel laboratorio. Sono un mostro» iniziò prendendosi il volto fra le mani.

«Ho letto gli appunti del Fauno. Ti ha rapito da un orfanotrofio quando non avevi che pochi mesi e ti ha usato come cavia per i suoi esperimenti, insieme ad altri innocenti» fece una breve pausa «Apparentemente sei il solo che abbia raggiunto l’età adulta, dovresti avere circa vent’anni» si scambiarono l’ennesima occhiata,

«Paul» iniziò Rimbaud dopo qualche secondo, sussurrando quel nome quasi con timore

«Come?» la spia prese un lungo respiro,

«Ho deciso che da oggi il tuo nome sarà Paul. Paul Marie Verlaine, ti piace?»

«Perché mi stai dando un nome?» quella reazione lo colse del tutto impreparato. Paul sembrava quasi offeso. La spiegazione di tale comportamento non tardò ad arrivare.

«Io non merito di possedere un nome. Io non sono un essere umano, sono un esperimento, un mostro»

Rimbaud gli tirò uno schiaffo. Non poteva rischiare un attacco di panico o peggio, che perdesse il controllo della propria Abilità. 

Verlaine si portò una mano a coprire la guancia lesa. I suoi occhi bramavano delle risposte. Arthur però non era sicuro su come procedere. Aveva agito d'impulso, senza riflettere. Come non capitava da tempo.

Lo afferrò per un braccio, portandolo davanti ad uno specchio posto accanto al letto matrimoniale sul quale il biondo era stato messo a riposo. Paul era ancora debole, riusciva a stento a reggersi sulle proprie gambe.

«Ora guarda e dimmi, cosa vedi?» il biondo si voltò con uno scatto che Arthur non aveva previsto. Sentì i suoi capelli solleticargli il viso ma il moro lo fermò ed obbligò a concentrarsi sul proprio riflesso;

«Noi» fu la risposta annoiata che ottenne mentre con una mano cercava il suo supporto. Rimbaud non si fece pregare, lo strinse maggiormente a sé, zittendo i pensieri molesti partoriti dal proprio subconscio.

«Guarda meglio. Siamo uguali. Sei un essere umano esattamente come lo sono io»

Verlaine gli regalò un’espressione da prima donna offesa che lo fece solo sorridere. Era bellissimo anche così imbronciato. Non riusciva a smettere di pensarlo.

«Noi non siamo uguali» sottolineò. Arthur si limitò a posargli una mano sul capo, ricordando un episodio della propria infanzia. C’era stato un tempo in Dumas aveva fatto lo stesso con lui, per tranquillizzarlo dopo una marachella, quando disperato attendeva di ricevere una punizione da parte di Hugo. 

«Non fare lo stupido. Sei stato allevato da un pazzo in un laboratorio e hai vissuto come un burattino nelle sue mani ma ora, ora hai la possibilità di vivere la tua vita. Di decidere quale strada percorrere. Sei il solo artefice del tuo destino» non era propriamente vero. Arthur aveva intuito quali fossero i piani di Hugo, ma per il momento non era necessario che anche il biondo li conoscesse.

Doveva solo conquistare la sua fiducia.

«Perché dovrei vivere la mia vita? Io non sono nemmeno certo di sapere cosa significhi»

Rimbaud prese un lungo respiro. L’ennesimo di quella giornata. In fondo aveva ragione. Paul non conosceva nulla del mondo esterno. Era come un bambino, che lui avrebbe dovuto istruire.

«Te lo insegnerò. Ti hanno affidato a me. Diventerai una spia al servizio del Governo francese e saremo compagni» il biondo rimase per qualche secondo ad osservare il proprio riflesso, incurante di quelle parole. Avvicinò una mano alla sua in cerca di maggiore stabilità.

A quel contatto il cuore di Rimbaud perse un battito, esattamente come era accaduto al laboratorio. Ogni volta che Paul lo sfiorava in quel modo, il suo cervello smetteva di funzionare. Erano troppo vicini. Allontanarsi però non era un’opzione. Black era ancora debole, doveva lasciargli del tempo per riposare, come per elaborare tutte quelle nuove informazioni ed accettare la situazione. 

Fu allora che il biondo riprese a parlare,

«Perché proprio Paul?» quella domanda lo prese in contropiede, ma cercò di non darlo a vedere

«Mi sembrava un nome adatto a te» rispose senza esitazione, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Paul seguì ogni suo movimento come ipnotizzato.

«Apparteneva a qualcuno importante vero? Forse, qualcuno a cui tenevi?» Arthur abbassò il capo preferendo rimanere in silenzio.

Non poteva rispondere a quella domanda. Dopo la morte di Charles, Rimbaud aveva deciso di rinunciare a qualsiasi sentimento, anche all’amore. 

«Ho solo pensato che fosse perfetto per te» mentì. Non era necessario che Verlaine conoscesse quella storia, Baudelaire apparteneva ad una stagione passata della sua vita, una parentesi che aveva cercato di dimenticare con tutte le proprie forze.

Il biondo però non parve accontentarsi di quelle parole. Strinse maggiormente la presa sulla sua camicia, avvicinandosi ulteriormente. Rimbaud aveva provato a fuggire da quelle iridi dal colore impossibile che in quel momento non sembravano intenzionate a volergli dare una tregua. Paul era testardo, lo aveva compreso sin dall’inizio, forse per questo era sopravvissuto tanto a lungo.

«Non provare ad ignorarmi in questo modo» mormorò offeso

«Primo insegnamento, forse ti sembrerà strano ma sappi che il mondo non gira intorno a te» il biondo non si arrese, ma rispose facendo avvicinare maggiormente i loro visi. 

«Perché hai accettato questo incarico? Anzi perché mi hai liberato?» domandò con rabbia a pochi centimetri dalle sue labbra.

La verità era che neppure Rimbaud lo sapeva. Quando aveva visto quella figura incatenata a quella parete, una parte di lui lo aveva esortato a distogliere lo sguardo, erano stati quegli occhi di ghiaccio ad abbattere ogni sua difesa. 

Per una frazione di secondo, Black gli aveva ricordato Charles. Allora Arthur non aveva potuto far nulla per salvare il proprio migliore amico ed amante. Il peso di quella colpa ancora accompagnava i suoi passi ma allo stesso tempo lo spronava a non ripetere il medesimo errore. Rimbaud non poteva sapere come proprio Paul fosse l’arma tanto desiderata da Hugo, né quali piani il leader dei Poètes avesse in serbo per loro.

«Un anno fa ho perso una persona cara. L’ultima volta che ci siamo visti fu proprio attraverso le sbarre di una prigione, simile a quella dove eri incatenato. In quell’occasione ne sono andato, mi sono voltato e l’ho abbandonato al suo destino» confessò tentando di sfuggire al peso di quello sguardo bramoso di risposte.

Paul gli regalò un sorriso stanco, ancora acerbo, prova del fatto che non fosse abituato ad aprirsi in quel modo con qualcuno. Quella era una delle conversazioni più lunghe che avesse mai avuto.

«Non sono nessuno, solo un esperimento»

«Quando la smetterai di vederti in questo modo?»

«Perchè tu come mi vedi?»

Rimbaud trattenne il fiato. Ancora una volta si trovò a corto di parole mentre osservava la testa bionda di Paul appoggiata contro la propria spalla. Doveva essere esausto, la baldanza di qualche minuto prima sembrava essersi dissolta.

«Sei il mio partner» concesse, accarezzandogli i capelli dorati trovandoli inaspettatamente morbidi al tatto. 

Il biondo si limitò ad alzare un sopracciglio confuso, in un tacito invito a spiegarsi meglio;

«Da oggi lavoreremo insieme» spiegò con un filo di voce, cercando di mettere a tacere qualsiasi altro pensiero. Paul chinò il capo cercando nuovamente il suo sguardo.

Arthur non avrebbe mai dimenticato quel sorriso. Fu il primo che Verlaine gli rivolse. Giurò a se stesso che da quel momento avrebbe fatto il possibile per occuparsi di quel ragazzo, perché potesse accettarsi come essere umano. Paul meritava di vivere un’esistenza serena, quella vita che gli era stata rubata. Non era un’arma o un mostro senza cuore come il Fauno o Victor sostenevano.

Il pensiero di aver ucciso un individuo simile lo fece sorridere a sua volta. Erano insieme da nemmeno ventiquattro ore e il freddo che da sempre attanagliava il suo animo era scomparso. 

Allungò la mano volendo accarezzare quella del compagno ma si ritrasse all’ultimo. Quella per Paul non poteva essere altro che un’infatuazione passeggera. Non doveva lasciarsi coinvolgere. Il ricordo di Charles bastò a frenare qualsiasi altra fantasia.

 

***

 

Parigi

 

Victor Hugo aveva appena congedato il proprio segretario personale quando il cellulare nella tasca dei suoi pantaloni prese a suonare. La missione che aveva affidato a Rimbaud si era conclusa con successo, il Fauno e il suo gruppo di fanatici erano stati sconfitti e lui aveva potuto mettere le mani sulla loro ricerca. Tutto stava procedendo secondo i piani.

«Ho appena ricevuto i documenti di Arthur» esordì, continuando ad osservare distrattamente il paesaggio al di fuori della finestra del proprio studio. L’autunno era alle porte e le prime foglie avevano iniziato a cadere dagli alberi. Quella visione aveva un che di nostalgico, gli portò alla mente ricordi di un passato lontano, che il leader dei Poètes credeva di aver dimenticato.

«Esperimenti sulle Abilità Speciali» concluse il suo interlocutore, riportandolo alla dura realtà.

«Sembra che l’umanità non impari mai dai propri errori» concesse appoggiando una mano sul vetro della propria finestra,

«A cosa devo questo tono?» era incredibile che l’altro se ne fosse accorto, ma in fondo era la persona che meglio lo conosceva al mondo. 

«Non manca molto. Presto una nuova guerra si abbatterà su questo continente»

«Non era quello che volevi? Ciò che stavi aspettando?» Hugo prese un lungo respiro

«Tu più di tutti dovresti sapere di come io non abbia mai desiderato la guerra»

«Allora dovresti smetterla di provare a recitare la parte del cattivo, sai che non ti si addice, Vic»

«Voglio solo impedire che quella tragedia si ripeta» 

Un sospiro, seguito da qualche istante di silenzio.

«Dimmi piuttosto, come sta Arthur?» Hugo tornò a sorridere

«Gli ho affidato il compito di controllare Black. Nell’ultimo periodo si è gettato a capofitto sul lavoro ma penso che ce l’abbia ancora con me per la storia di Baudelaire»

«Non capisco perchè tu abbia inscenato la sua morte»

«Vuoi davvero affrontare un simile discorso, Lex? Proprio tu?» 

«Sai cosa intendo. Capisco che tu abbia voluto proteggerlo ma…»

«Mi ha ricordato noi» Dumas non rispose, comprendendo perfettamente dove l’altro volesse andare a parare

«Tu eri il mio punto debole e io il tuo. I nostri nemici lo hanno scoperto e tu sei dovuto morire»

«Sai che non è stata la sola ragione che mi ha spinto a prendere una simile decisione» aveva provato a farlo per il bene di entrambi, senza successo. 

«Volevo proteggerlo» era la risposta più semplice, la sola che Victor Hugo poteva offrirgli. 

«Mentendogli? Facendo credere ad Arthur di aver ucciso il suo amante quando invece lo hai arruolato tra i Poètes?» Dumas come al solito non si risparmiava. Era il solo che fosse mai riuscito a far sentire Victor Hugo in errore. Nonostante fossero trascorsi molti anni, il diavolo nero sapeva sempre dove colpire.

«Non credevo possedesse un’Abilità Speciale» si trovò ad ammettere il Leader dei Poètes con un’alzata di spalle,

«Mentre ora gli hai affidato quell’esperimento»

«Badare a Black servirà a distrarlo»

«Oppure potrebbe innamorarsi anche di lui»

«Lex ti prego»

«Stavo scherzando» Hugo fece una pausa, continuando ad osservare le foglie mosse dal vento

«Un paio d’anni. Questo è il lasso di tempo che ci separa dallo scoppio del conflitto. Prendila come una previsione basata sulla mera statistica. Questa volta non intendo perdere»

«Non perderai. Ti stai preparando per questo scontro da tutta una vita»

«E tu sei ancora al mio fianco»

«Non è vero. Sono fuggito dall’altro capo della manica» Hugo sorrise. Dumas poteva anche aver finto la propria morte ma la loro relazione non si era mai veramente conclusa. In pochi conoscevano la verità su quel rapporto, sulla natura di quel sentimento che li univa e il cui filo sembrava impossibile da recidere.

«Il mese prossimo si terrà una conferenza a Ginevra»

Non serviva aggiungere altro. Quella città aveva significato molto per entrambi. 

Bastava solo nominarla perché i ricordi di quei giorni felici raffiorassero nelle loro menti.

«Aspettami» sussurrò Dumas prima di riagganciare. 

Hugo si lasciò cadere sulla poltrona della propria scrivania completamente sconfitto. Ancora una volta aveva finito col cedere di fronte ai propri sentimenti. 

In quella realtà Victor Hugo aveva sempre conosciuto il piano di Dumas, anzi lo aveva aiutato nel fingere la propria morte. Era stata una scelta che al momento aveva condiviso ma del quale presto si era pentito.

Alexandre Dumas aveva deciso di dedicare la propria vita alla vendetta, voleva scoprire i mandanti dell’assassinio di suo padre, gli stessi che in seguito avevano attentato anche alla vita di Hugo. 

Victor non si era opposto. In fondo anche lui aveva un proprio obiettivo. Dumas padre gli aveva affidato la guida di un’organizzazione. I Poètes Maudits erano deboli, schiacciati dalle altre potenze e ridotti al ruolo di gregari sulla scena internazionale. C’erano voluti anni prima che potesse riportarli agli antichi splendori. Hugo aveva tessuto le proprie alleanze con i vicini inglesi della Torre dell’Orologio, con i tedeschi capitanati da Goethe, aveva preso contatto con la Guild oltreoceano e con le organizzazioni di Cina e Giappone. Aveva creato una solida rete di informatori che agivano nell’ombra, preparandosi a quel conflitto che tanti anni prima gli era stato profetizzato. 

Dumas non lo aveva abbandonato. Avevano continuato a scambiarsi informazioni, sostenendosi a vicenda. Delle volte però il peso di quella lontananza forzata si faceva sentire. Victor era il primo a cedere, obligando l’amante a raggiungerlo in questa o quella città europea.

Ginevra era la meta preferita, essendo stata la culla del loro amore.

Hugo ricordava quel periodo come il più felice della propria vita.

Un leggero bussare lo riportò alla realtà. Mallarmé comparve sulla soglia del suo ufficio con una serie di documenti tra le mani.

«Perdonatemi Monsieur, questi provengono dal nostro contatto sui Pirenei, mentre questi dal fronte tedesco, necessitano della vostra firma»

«Oh giusto, come se la passa Stendhal?»

«Il comandante della sezione interrogatori non è ancora rientrato dalla missione nel sud ovest della Germania»

«La foresta nera non è un luogo piacevole. Rimbaud invece ha preso contatto?» domandò con finto disinteresse,

«Ripartirà fra un paio di giorni, è preoccupato per la salute di Black e non vuole sottoporlo a sforzi inutili» Hugo alzò gli occhi al cielo. In questo Arthur somigliava a Lex, possedevano un cuore a differenza sua.

«Prepara il mio jet privato, voglio essere a Ginevra entro l’ora di cena»







 

*Ha forse dei segreti per cambiare vita? No, non fa che cercarne mi rispondevo 

**pezzi tratti dalla Novel Stombringer e tradotti da me. Non mi sono inventata nulla è davvero Rimbaud che scrive

 

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Capitolo 21
*** XXI Stagione - Chant de guerre parisien ***


XXI Stagione - Chant de guerre parisien




 

«Ils ont schako, sabre et tam-tam,

Non la vieille boîte à bougies,

Et des yoles qui n’ont jam, jam…

Fendent le lac aux eaux rougies! »*

Poésie - Chant de guerre parisien  A.Rimbaud






 

Wonderland 

-Parigi-

qualche tempo dopo


Non fu facile per Black adattarsi a quella nuova vita ma Rimbaud era intenzionato a fare quanto possibile per aiutarlo. Desiderava solo che il compagno potesse vivere quell’esistenza che in qualche modo gli era stata rubata, conoscere il mondo al di fuori di quel freddo e asettico laboratorio di ricerca. Paul, così lo aveva ribattezzato solo qualche mese prima, sarebbe diventato una spia, un agente segreto al servizio dell’intelligence francese, era comunque un destino migliore di quello che lo avrebbe atteso rimanendo al fianco del Fauno.

Arthur aveva letto a lungo gli appunti di quel folle, tanto da arrivare a conoscerne diversi passaggi a memoria. Era un vero mostro che giustificava le proprie nefandezze nascondendosi dietro la scusa del progresso scientifico. Paul era il suo dodicesimo esperimento. Prima del compagno, undici esseri umani erano morti, molti dei quali poco più che bambini. Il solo pensiero gli fece accapponare la pelle e un brivido percorse la sua spina dorsale.

«Che stai facendo?» Paul lo aveva strappato da quei pensieri infelici semplicemente sedendosi accanto a lui. Si erano dati appuntamento in uno dei tanti Café della capitale, durante un raro pomeriggio di riposo.

Erano trascorsi diversi mesi dal loro primo incontro. Inizialmente il biondo sembrava infastidito anche solo dalla presenza di altre persone. C’era voluta tutta la pazienza di Rimbaud per convincerlo ad uscire dall’appartamento che Hugo aveva messo a loro disposizione. Arthur non si era arreso, gli era rimasto accanto giorno dopo giorno, aiutandolo a superare quei traumi che avevano finito col condizionare la sua psiche e comportamenti.

Nel frattempo, Paul aveva ripreso peso e colore, diventando se possibile ancora più attraente. Erano le lacerazioni presenti nella sua mente a impensierire Rimbaud, come il fatto che continuasse a celare i propri malesseri dietro ad un falso sorriso cordiale. Non gliene faceva una colpa, era stato lui stesso a istruirlo. 

Una brava spia sa controllare le proprie emozioni.

Nonostante questo Arthur non riusciva ad evitare di preoccuparsi per l’avvenenza del compagno, intercettando l’ennesima occhiata adorante di una cameriera. Odiò quella perfezione che lo poneva suo malgrado sempre sotto i riflettori.

Una spia deve sapersi muovere nell’ombra, rendersi invisibile

Ripensò alle regole di Hugo e come alcune risultassero impossibili da applicare a Paul. Scosse il capo. 

«Nulla stavo riflettendo, scambiamoci di posto» il biondo lo osservò confuso per poi fare quanto detto.

«Mi piace molto questo locale» esordì dopo qualche minuto guardandosi intorno. Non si trovavano in un luogo affollato, a quell’ora, subito dopo pranzo, vi erano solo una manciata di persone. Rimbaud si limitò ad annuire.

«Ci venivo spesso con Charles» si lasciò scappare, assorto com’era nei propri pensieri. 

Dalle ultime riunioni con Victor aveva compreso come la guerra ormai sembrasse una questione imminente, chissà per quanto tempo ancora avrebbero potuto godersi pomeriggi di svago come quello. 

Non era altro che una stagione effimera, presto sarebbe terminata e la realtà avrebbe distrutto qualsiasi fantasia, sogno o progetto. Poco distante da loro dei bambini stavano inseguendo un pallone mentre alcune donne chiacchieravano su di una panchina. Arthur si trovò inconsciamente ad invidiarli, avrebbe preferito non sapere nulla riguardo la situazione politica del continente. A volte l'ignoranza poteva rivelarsi una vera e propria benedizione. 

Per anni aveva preferito rincorrere i propri sogni di gloria quando un’esistenza serena nelle Ardenne lo avrebbe liberato da quella follia. Forse anche Baudelaire si sarebbe risparmiato quell’infausto destino. Sarebbero stati felici? Non poteva saperlo ma il solo immaginarlo gli provocò una fitta al petto, abbastanza forte da spezzargli il respiro. 

«E chi sarebbe questo Charles?» ancora una volta, bastò il tono insolitamente caldo della voce di Verlaine per ripotarlo con la mente al presente. Chinò il capo, divertito da quell’accenno di gelosia misto a curiosità che lesse nello sguardo del proprio compagno. Era una domanda innocente del tutto priva di malizia. Eppure i battiti del suo cuore accelerarono. Rimbaud si trovò a sorridere senza volerlo, sapendo di non dover fraintendere il significato di quelle parole. Non poteva permetterselo, non dopo quanto successo con Baudelaire. Quella era una ferita ancora aperta che non cessava di sanguinare.

Aveva deciso di chiudere il proprio cuore, rinunciando a qualsiasi sentimento o emozione ma il calore che la sola presenza di Paul gli regalava stava diventando sempre più difficile da ignorare.

«Era il mio migliore amico» confessò. Avrebbe risparmiato al compagno altri dettagli su quella storia anche se sapeva come quella risposta non avrebbe mai soddisfatto la curiosità del biondo e infatti finì con il provocare l’effetto opposto.

«Dove si trova ora?»

«È morto circa un anno fa» pronunciare quelle parole ad alta voce faceva ancora un certo effetto, rendeva il tutto solo più reale e allo stesso tempo doloroso. 

«Era un Poètes?» Rimbaud scosse il capo,

«Era un ragazzo di campagna, che se non mi avesse incontrato avrebbe potuto condurre una vita felice» lo aveva pensato pochi minuti prima, quando aveva immaginato per loro un’esistenza diversa nel cuore delle Ardenne, lontani da quel mondo fatto di guerre, inganni, segreti e tradimenti.

«Io sono lieto di averti incontrato»

Verlaine era fin troppo schietto. Per un istante Rimbaud odiò quella sincerità. Così come detestò se stesso per il proprio comportamento.

«Non è così semplice Paul, Charles è morto a causa mia» tentò di spiegare,

«Mi hai liberato da quel laboratorio. Sei il mio salvatore. Non è forse una delle prime cose che mi hai insegnato? I Poètes non sono eroi e a volte per un bene più grande bisogna saper scavalcare gli interessi del singolo. Tu hai ucciso il mio creatore, donandomi una nuova vita»

Arthur Rimbaud non seppe come replicare. Verlaine era una continua sorpresa. Non si sarebbe mai immaginato di udire simili parole, non dal proprio compagno. Lo stava ringraziando. Era assurdo.

«Stai diventando davvero bravo ad esprimerti» concesse, cercando di assumere un tono distaccato, quando in realtà desiderava solo abbracciarlo. Era da molto che non provava un simile calore. Paul gli ricordava la propria famiglia, l’infanzia.

«Ho avuto un ottimo insegnante» ogni buon proposito si scontrò contro due iridi di ghiaccio fisse sulle proprie. Rimbaud abbassò il capo, sentendosi avvampare. Nonostante cercasse in ogni modo di controllare le proprie emozioni queste continuavano a tradirlo. Era arrossito, tanto da sentire le gote in fiamme.

«Presto sarai pronto per partecipare ad una missione» mormorò dopo qualche minuto cercando di darsi un tono, anche se tornare freddo e distaccato si rivelò più complicato del previsto.

«Da solo?» la confusione sul viso del partner era palese. Paul poteva sembrare un enigma ma il più delle volte non era che un libro aperto, un mistero che solo lui aveva imparato a decifrare.

«Questo dipenderà da te»

«É vero che presto ci sarà una guerra in Europa?» Rimbaud lo fissò sorpreso, non si aspettava che Verlaine fosse a conoscenza della situazione politica nella quale versava il Vecchio Continente. Stava imparando più velocemente di quanto si sarebbe mai aspettato. Il gioco delle alleanze non era cosa semplice ma una partita infinita le cui regole erano in continuo mutamento. Paul si era rivelato era un allievo attento oltre che dotato di un fine intelletto. 

«E questa dove l’hai sentita?» non poteva esserci stata una fuga d’informazioni. Ne sarebbe stato a conoscenza. Con Victor la situazione non era ancora del tutto risolta ma quello era un argomento di primaria importanza. Era impossibile gli fosse sfuggito.

«Hugo. Ieri stava urlando al telefono per i corridoi» il moro si abbandonò ad un sospiro stanco, riuscendo perfettamente ad immaginarsi la scena. Era da diverso tempo che non accadeva. Gli venne quasi da ridere per essersi preoccupato tanto.

«Probabilmente stava discutendo con Lex. Solo quei due possono litigare in quel modo assurdo» utilizzando segreti di stato per punzecchiarsi

«Lex?» domandò confuso il biondo, anche se Arthur notò una punta di irritazione nel suo tono di voce. Si lasciò scappare un ulteriore sorriso. Non si sarebbe mai stancato di quella gelosia.

«Oh giusto tu non lo hai mai incontrato, Alexandre Dumas è il secondo al comando dopo Victor oltre che uno dei nostri migliori agenti» spiegò sommariamente.

«Credevo che fossi tu il migliore» Rimbaud scosse il capo, lusingato dalle parole del compagno

«Ti ringrazio ma non potrei mai competere con quei due. Sono di tutt’altro livello, fanno parte del gruppo elitario dei Trascendentali» Verlaine si imbronciò di colpo, arricciando il naso come un bambino.

«Dove si trova ora questo Dumas?» se era tanto potente come mai in quei mesi nessuno glielo aveva menzionato? Il mondo dell’intelligence era più complicato di quanto si fosse immaginato, anche se in realtà lo era ogni cosa al di fuori del laboratorio in cui era stato cresciuto. Era solo grazie a Rimbaud se aveva imparato le regole di quel nuovo ambiente. Si perse qualche secondo di troppo a contemplare la figura del partner ancora assorto nei propri pensieri. Arthur non si era nemmeno levato sciarpa o paraorecchie ma solo un guanto. Quell’uomo lo aveva incuriosito sin dal primo istante. Sentì l’impulso di sfiorarlo.

«Non ne ho idea. Ufficialmente risulta morto da oltre dieci anni» ammise il moro con una scrollata di spalle, interrompendo bruscamente il flusso dei suoi pensieri. Verlaine ritrasse la mano che inconsciamente aveva allungato verso di lui.

«E di cosa si occupa?» la confusione sul suo viso era palese, anche se Rimbaud trovò quel senso di smarrimento adorabile.

«Diciamo che possiede un’Abilità perfetta per lavoro di intelligence e svolge spesso incarichi sotto copertura. Si mormora che nessuno conosca il suo vero volto» ad eccezione di Hugo, ma tenne questo pensiero per sé. La curiosità del biondo però era difficile da soddisfare,

«Tu lo hai mai incontrato?» Arthur non potè fare altro che annuire, 

«Sono stato addestrato personalmente da lui e Victor. Quando sono entrato a far parte dei Poètes ero poco più che un bambino» non serviva aggiungere altro. 

Non avrebbe permesso al proprio passato di influire sul presente. 

Era una decisione che aveva imparato a proprie spese. 

Fammi un’altra promessa, diventerai l’agente segreto migliore del mondo

Erano state alcune delle ultime parole di Baudelaire. Pronunciate oltre le fredde sbarre di una prigione. Charles era morto per un suo errore, per il proprio egoismo. Non avrebbe mai potuto dimenticarlo. Aveva odiato Victor e le sue regole ma ancora di più se stesso per essere stato tanto stupido da infrangerle. 

Tornò ad osservare il viso perfetto di Paul, perdendosi nella curiosità del suo sguardo, così carico di aspettative.

«Quindi per te quei due sono una sorta di genitori?» Rimbaud scoppiò a ridere, divertito da quella prospettiva,

«Più o meno, piuttosto dimmi cosa hai sentito riguardo alla guerra?» tornarono seri, scambiandosi una lunga occhiata.

«Hugo continuava a sostenere come il conflitto fosse inevitabile poi ha nominato gli inglesi, e qualcosa su come la Francia non se ne starà buona ad attendere i loro comodi» Rimbaud si massaggiò le tempie scostandosi una ciocca di capelli di lato. Stava iniziando ad avere freddo o forse era semplicemente stanchezza.

«Il problema di Victor è sempre stato la sua diffidenza verso la Torre dell’Orologio o chiunque non sia francese. Se potesse farlo non esiterebbe a combatterebbe da solo contro il mondo»

«Ha forse qualche conto in sospeso con gli inglesi?»

«Non che io sappia, in pubblico si è sempre mostrato cordiale nei loro confronti»

«Magari quel Dumas si trova a Londra»

«Non mi stupirebbe, tieniti stretti gli amici ma ancora di più i nemici»

Era uno dei suoi insegnamenti preferiti, ricevuto anni prima da uno degli amici di Hugo e che descriveva perfettamente il modus operandi dell’intelligence. 

«Tu cosa ne pensi Arthur? Ci sarà davvero una guerra?» per la prima volta un velo di incertezza attraversò lo sguardo del biondo. 

«Sono convinto che gli ingranaggi di questa storia si siano messi in moto già da tempo e allo stato attuale sia quasi impossibile fermarli. Probabilmente anche l’intera ricerca svolta dal Fauno è parte di un piano molto più ampio» era un’idea che aveva iniziato a prendere forma nella sua mente anche se Rimbaud stava ancora cercando di comprendere il quadro generale degli eventi. Erano le tempistiche con le quali si erano svolti quei fatti a risultargli sospette. Non poteva trattarsi di semplici coincidenze. 

Ripensò al salvataggio di Black da quel laboratorio di ricerca. Se l’intelligence francese lo aveva trovato era perché qualcuno l’aveva reso possibile. Vivere al fianco di Hugo aveva preparato Rimbaud a vagliare ogni ipotesi, anche la più assurda.

«Io sarei stato creato per combattere questa guerra? Cioè gli esperimenti sulla mia Abilità servivano a quello scopo?» si interrogò Verlaine cercando nuovamente d’incontrare lo sguardo ambrato del proprio compagno.

«É una possibilità che non mi sento di escludere»

Le circostanze in cui Hugo gli aveva affidato quella missione erano sospette, così come tutto il resto. Victor aveva in mente qualcosa. Ogni sua decisione era guidata da un secondo fine. Rimbaud conosceva quell’uomo troppo bene, per anni aveva assistito ai suoi giochi di potere. Faceva parte del proprio addestramento come futuro leader dei Poètes. 

Aveva rinunciato a Baudelaire e ogni altra cosa per poter essere una spia degna di tale nome. Eppure Hugo non lo riteneva ancora degno della propria fiducia.

In sua presenza non aveva mai accennato ai propri progetti per Black, si era limitato ad affidargli l’incarico di addestrarlo.

«Se ci sarà da combattere lo farò» Verlaine però non si era rivelato un docile agnellino. Era testardo e caparbio, esattamente come lui. Sarebbe stata una pedina difficile da collocare su di una qualsiasi scacchiera.

«La guerra non è un gioco Paul»

«E io non sono un uomo comune, sono un esperimento, un’arma» Arthur alzò gli occhi al cielo, come ogni volta che il biondo tornava sull’argomento,

«Sei un essere umano come il sottoscritto, sei dotato di carne e sangue, puoi essere ferito o venire ucciso»

«Perché devi essere sempre così tragico?» Rimbaud fece appello a tutta la propria pazienza. Non aveva voglia di litigare. 

«Cerco di essere realista Paul, fino ad un paio di mesi fa non avevi mai visto un Cafè o un bicchiere di vino, mentre ora parli di combattere una guerra come di una passeggiata»

«Sei preoccupato» quella scoperta sembrò sorprenderlo,

«Certo che sono preoccupato»

«Perchè?»

«Come perché? Sei il mio partner»

«Me lo sono sempre chiesto, cosa significa essere partner? Cosa sono io per te?»

Per l’ennesima volta Rimbaud non seppe come rispondere.

«Siamo colleghi, compagni. Sei la mia missione, ti hanno affidato a me» Verlaine ne sembrò deluso,

«Ti senti solo responsabile, per questo hai speso tutte quelle belle parole sulla guerra, sulla sua pericolosità. Tu combatterai vero? Parteciperai allo scontro direttamente o meno, non te ne starai seduto in panchina» concluse sorridendo

«Paul non fare così» tentò di afferrarlo per un polso ma il biondo si ritrasse,

«Sai per un istante mi avevi quasi convinto, sembravi davvero preoccupato per la mia incolumità, invece era solo l’ennesima recita. Dopotutto per te sono solo una missione»

«Paul»

«A volte dimentico che siamo spie, avrò ancora molto da imparare ma non sono uno stupido quindi non trattarmi come tale» stava iniziando a spazientirsi, Arthur poteva notarlo dalla piega assunta dalle sue labbra. Detestava quel comportamento ma ancora di più se stesso per non aver potuto evitare quella situazione,

«Cosa avrei dovuto risponderti?»

Qualsiasi altra sentenza avrebbe potuto condannare entrambi e in passato Rimbaud aveva già perso qualcuno di importante. 

Verlaine non era Baudelaire, non lo sarebbe mai stato. Non potevano essere più diversi come la natura di quel sentimento che il moro continuava a nutrire nei loro confronti. 

Doveva proteggere Paul, non era ancora pronto per quel mondo e soprattutto per la crudeltà della guerra. Era una pedina importante sulla scacchiera di Hugo anche se Rimbaud avrebbe fatto quanto possibile per salvarlo anche da quella follia. 

In tutta quella storia, Verlaine non era altro che una vittima. Il Fauno lo aveva reso una cavia per i propri esperimenti, era arrivato col privarlo di ogni cosa tranne la vita stessa. Rimbaud ricordava ancora quel corpo martoriato, pieno di flebo ed ecchimosi, il pallore del suo incarnato e quei bellissimi occhi privi di ogni luce. 

Non avrebbe mai potuto voltarsi né abbandonarlo. Il destino di entrambi si era deciso nell’istante in cui aveva incrociato per la prima volta quello sguardo.

Il pensiero tornò inevitabilmente su Baudelaire ma le parole di Verlaine lo strapparono anche da quel ricordo.

«Mi sarebbe bastata la verità Arthur»

Non sei ancora pronto per quella

Rimbaud lo pensò ma non riuscì ad articolare una risposta. La delusione che lesse nello sguardo del biondo era palese ma preferiva il suo odio al resto. I sentimenti erano come veleno per una spia, la uccidevano dall’interno, lentamente. 

Col tempo Paul sarebbe arrivato a comprendere le sue ragioni, così come lui avrebbe cercato di trovare la forza necessaria per perdonare Hugo.

Il biondo rimase immobile per qualche minuto poi se ne andò senza aggiungere una parola. Rimbaud non fece nulla per fermarlo. 

Era meglio così. Tentò di convincersi mentre osservava la sua figura allontanarsi tra la folla.

La vita è una farsa dove tutti noi abbiamo una parte

Arthur Rimbaud era una spia e il suo destino sarebbe stato quello di diventare il prossimo leader dei Poètes Maudits.

Paul Verlaine un ex cavia da laboratorio, un essere umano dotato di Abilità Speciali amplificate dalla follia di un pazzo. Un’arma che li avrebbe aiutati a vincere un conflitto non ancora scoppiato.

 

***

 

Realtà originale

Francia

 

«Non fare quella faccia Henry. Se veramente Baudelaire si rivelerà complice di Black verrà arrestato» Stendhal scelse di rimanere in silenzio mentre studiava ogni più piccolo cambio di espressione comparso sul volto dell’attuale leader dei Poètes.

Aveva accettato quella missione nella speranza di raggiungere Charles prima dell’Europole o degli inglesi ma non aveva messo in conto la possibilità che Hugo si potesse aggregare alla propria squadra.

Il coinvolgimento di Dumas aveva sicuramente influito sulla decisione e ora entrambi si trovavano su un treno ad alta velocità diretto nell’entroterra francese.

«Pensiamo allo scenario peggiore, chi pensi sia l’avversario più temibile: la Torre dell’Orologio o l’Europole?» aveva esordito il superiore accavallando le gambe con fare divertito.

«Charles e Black si sono introdotti nel carcere di massima sicurezza di Meursault e hanno contribuito alla fuga di Lewis Carroll, un ex esponente della Torre»

«Per una corretta analisi della situazione andrebbe aggiunto anche il numero di vittime, che ammontano ad una cinquantina di guardie e sette detenuti appartenenti a vari livelli» Stendhal strinse i pugni. Era sicuramente opera di Verlaine, era quel mostro ad essere uno spietato assassino. Hugo gli stava solo suggerendo di agire con logica e di non tralasciare nessuna informazione. I suoi sentimenti personali non dovevano intromettersi in quell’analisi. Tuttavia gli era difficile pensare a Baudelaire come un sospettato in fuga.

«Carroll era un ex cavaliere inglese. Prima di tornare a Parigi, Black ha assassinato diversi membri di quell’organizzazione»

«Molto bene invece cosa sai dirmi riguardo l’Europole?»

«É un’Organizzazione di recente formazione creata per combattere la criminalità e il terrorismo internazionale. Trattandosi di un organismo sovranazionale non può minare con i propri interventi i diritti e egemonia degli Stati membri, se non quando sia strettamente necessario»

«Bravissimo una risposta impeccabile ma non è ciò che volevo» Stendhal prese un lungo respiro,

«L’Europole lotta per prevenire escalation o scandali che possano minare la sicurezza nazionale dei paesi coinvolti ma segue regole ben precise per occuparsene. Nel caso specifico di Black ad esempio, trattandosi di un agente francese non chiederanno mai intervento dei Poètes quanto piuttosto degli inglesi»

«Continua»

«C’è dunque la concreta possibilità che si siano alleati contro di noi» non ci aveva riflettuto ma dal sorriso comparso sul volto di Hugo, Stendhal capì di aver fatto centro. Era quello lo scenario peggiore.

«Conoscendo bene i soggetti coinvolti direi che siamo in netto svantaggio»

Stendhal annuì. 

«Ecco perché dobbiamo arrivare per primi. Tra il sottoscritto, Lex e Dame Agatha Christie, io sono il più indulgente» concluse Hugo.

Il capo della sezione interrogatori si accese una sigaretta.

Avrebbe fatto volentieri a meno di quell’informazione.

 

***

 

Wonderland

-Parigi-


Arthur Rimbaud si trovava ancora seduto ad uno dei numerosi tavolini del Café che aveva fatto da sfondo alla discussione avvenuta con il proprio partner. Fissava distrattamente i passanti mentre ripensava alle parole di Verlaine. Per l’ennesima volta aveva permesso che dei sentimenti influissero sulle proprie azioni. Solo Paul era in grado di fargli perdere la pazienza in quel modo. Si abbandonò ad un sospiro stanco prima di ordinare un calice di vino. Ormai aveva perso il conto di quanti bicchieri aveva terminato, probabilmente mezza bottiglia.

«Posso sedermi?» la voce di Stendhal lo colse di sorpresa. Era una delle ultime persone che si sarebbe mai aspettato di incontrare.

«Siete rientrato dalla Germania» esclamò facendogli spazio e invitandolo ad accomodarsi sostando il proprio cappotto.

«A sentire Hugo la guerra sembra una questione imminente» non serviva aggiungere altro. L’occhiata che si scambiarono fu abbastanza eloquente.

«Sono stanco di parlare di questo conflitto» esordì il più giovane massaggiandosi le tempie.

«Ma se non è manco iniziato» Rimbaud incrociò le braccia al petto scuotendo il capo rassegnato,

«Cosa è successo? Avete nuovamente litigato con Victor?» indagò il capo della sezione interrogatori. L’espressione comparsa sul viso del moro era di per sé abbastanza eloquente

«Ho discusso con Paul» Stendhal ci mise qualche secondo per associare quel nome alla longilinea figura di Black.

«Oh il biondino» Arthur alzò un sopracciglio. Non gli piaceva affatto quel tono allusivo e fin troppo amichevole.

«Il mio partner» si sentì in dovere di specificare prima di terminare il proprio bicchiere,

«Devo ancora capire perché Hugo te l’abbia affidato, possiede un’Abilità potente ma non mi sembra mentalmente stabile o affidabile. È un'arma a doppio taglio da cui dovremmo diffidare»

«Ti posso assicurare che Paul non ha nulla che non vada» Stendhal evitò di sorridere. Lui e Rimbaud avevano lavorato insieme per diverso tempo, lo conosceva abbastanza bene da intuire il suo attuale stato d’animo. Anche se era l’attaccamento che sembrava provare per il biondo ad impensierirlo,

«Ok non scaldarti. Posso almeno sapere per quale motivo avete discusso? C’entra forse la guerra?» Arthur annuì 

«Quell’idiota non vede l’ora di combattere» confessò con una punta d’irritazione che non si premurò di nascondere

«Non potrai proteggerlo per sempre. Nonostante quel bel faccino il tuo compagno è un’arma di distruzione di massa»

«Paul non è un’arma»

«Ma nemmeno un bambino indifeso» Arthur si morse un labbro.

«Ha imparato a controllare la propria Abilità e si sta impegnando per diventare uno di noi però ecco…» non riuscì a terminare quella frase. Ancora una volta si stava abbandonando alle proprie emozioni, facendo l’opposto di quanto richiesto ad una spia del suo calibro.

«Temi che una volta che avrà spiccato il volo si possa allontanare da te» concluse per lui Stendhal. Rimbaud annuì anche se le questione era più complicata di così,

«Non è solo questo» si trovò ad ammettere 

«Ripeto ha un bel faccino» proseguì il capo della sezione interrogatori con un tono velato,

«Cosa vorresti insinuare?»

«Nulla» anche se dalla sua espressione, Rimbaud non faticò ad intuire dove volesse andare a parare

«Sai bene che una spia non può permettersi di avere legami» ribatté leggermente irritato per essere stato colto in flagrante.

«Quanto successo a Baudelaire non è stata colpa tua» Stendhal aveva ragione, Arthur però non avrebbe mai cessato di sentirsi responsabile per la sorte capitata all’amante.

«Charles sarebbe stato più felice se non mi avesse incontrato» 

Se quel giorno a Parigi le nostre strade non si fossero incrociate di nuovo

«Non lo pensi davvero»

«Era il mio migliore amico, anzi era più di questo» non aveva motivo di nasconderlo.

Stendhal annuì.

Charles Baudelaire era morto un anno prima. Al rientro dalla propria missione a Londra, Rimbaud era stato informato dell’arresto del proprio giovane amante e della condanna emessa sulla sua testa. In realtà faceva tutto parte di un piano orchestrato da Victor, per allontanare Arthur da quella cotta adolescenziale così da renderlo la spia più potente d’Europa e prossimo leader dei Poètes. 

Baudelaire però aveva manifestato la propria Abilità e per questo motivo era stato obbligato ad entrare nel mondo segreto dell’intelligence. 

Rimbaud ne era venuto a conoscenza solo qualche mese dopo, in seguito al ritrovamento del suo cadavere. 

In quei mesi, Charles era stato affidato alla guida di Stendhal e lo aveva seguito in una missione sul fronte tedesco. 

Solo uno dei due però aveva fatto ritorno in patria. Era accaduto poco prima che Paul entrasse nella sua vita.

Solo grazie alla presenza del biondo, Arthur non era impazzito. Occuparsi di Verlaine gli era servito per distrarsi ed accettare la prematura scomparsa dell'amico.

«Era un mio sottoposto, dovevo prendermene cura, ma Charles è sempre stato una tale testa calda» di fronte alle parole di Stendhal, Rimbaud si trovò suo malgrado a sorridere,

«Era testardo, molto più di me» ammise passandosi una mano sul volto,

«Avrebbe solo voluto che tu fossi felice»

«Io avrei voluto lo stesso, se solo quel giorno non ci fossimo incontrati»

«Non si può cambiare il corso del destino. Allo stesso modo mi rendo conto di come sia difficile se non impossibile accendere o spegnere i sentimenti. Sarebbe tutto molto più semplice se fosse così. Non hai nulla da rimproverarti Arthur»

«Forse ho solo paura di perdere Paul» si trovò ad ammettere per la prima volta ad alta voce. 

«Senza offesa ma non somiglia per nulla a Charles» non capisco cosa ci trovi in lui 

Arthur accennò ad un sorriso

«Si, non potrebbero essere più diversi»

«Sai, Baudelaire possedeva gli stessi occhi di Mathilde, la mia fidanzata. L’ho pensato sin dal primo momento in cui l’ho visto. Era il moccioso più arrogante e insopportabile del mondo ma non riuscivo a distogliere lo sguardo dal suo» 

Rimbaud ne rimase sorpreso. Si ricordava della fidanzata di Stendhal, della sua scomparsa e di come Henry avesse scelto consapevolmente di abbracciare quella vita fatta di rinunce. Gliene aveva parlato Hugo, come sempre informato su ogni cosa che accadeva intorno a lui.

«Una volta ho chiesto a Victor di quelle regole. Il perché della loro esistenza»

«Ti ha risposto?»

«Penso che Vic sia il primo che non riesca a rispettarle» Stendhal scosse il capo, prima di accendersi l’ennesima sigaretta di quella giornata,

«L’altro giorno stava litigando con Dumas al telefono» Arthur tornò a sorridere

«Si, penso che mezza intelligence abbia origliato quella conversazione»

«E poi siamo noi quelli che dovrebbero muoversi e agire con discrezione»

«Sai bene di come Victor predichi bene ma razzoli male» Rimbaud non gli avrebbe mai perdonato quanto successo a Baudelaire, quella menzogna con cui lo aveva allontanato dal proprio amico/amante. Strinse i pugni, cercando di darsi un contegno. Non doveva fare altro che recitare la propria parte, quella della spia più potente d’Europa.

«So solo che Hugo perde la ragione quando si tratta di Dumas. È sempre stato così» proseguì Stendhal ripensando al giorno in cui le loro strade si erano incrociate. 

«Forse voleva solo proteggermi dai miei stessi sentimenti» era la sola spiegazione che aveva trovato per giustificare un simile comportamento; il capo della sezione interrogatori gli sorrise, sotto certi aspetti Rimbaud era ancora così giovane, forse troppo;

«Hai troppa stima di Hugo, questo offusca la tua capacità di giudizio»

«Mi ha insegnato ogni cosa»

«Solo perché ha deciso che un giorno tu sarai il nostro leader»

«Ancora con questa storia» odiava quel ruolo che gli era stato cucito addosso, quello del perfetto erede di Hugo. Rimbaud era quanto più lontano potesse esserci dall’essere una spia ideale ma solo lui sembrava rendersene conto.

«Vedila sotto un’altra prospettiva Arthur, quando guiderai i Poètes potrai tenere il tuo Paul al sicuro»

«Se fosse così semplice controllarlo» si lasciò scappare. Se possibile il sorriso sul volto di Stendhal si allargò.

«Non dirmi che ha preso la tua testardaggine?» Arthur annuì mesto,

«Abbiamo entrambi delle forti personalità che inevitabilmente finiscono col collidere»

«Come avvenuto poco fa, giusto?»

«A volte penso che dovrei parlargli di Charles, raccontargli la sua storia»

«Sarebbe sicuramente la via più semplice»

«Però non posso farlo» non voleva che Verlaine si facesse un’idea sbagliata. 

Aveva abbandonato Baudelaire, preferendo seguire le regole dei Poètes. Non aveva combattuto per quel sentimento, finendo con il condannare l’amico/amante.

Quello sarebbe rimasto uno dei suoi più grandi rimpianti. Il peccato con il quale avrebbe dovuto convivere per il resto della propria vita.

«Arthur?»

«Paul è il mio partner»

«Sicuro che sia solo questo?»

Rimbaud preferì non rispondere. Si stava comportando come un codardo, scappando dai propri sentimenti. Sin dal primo istante aveva compreso di come Verlaine non fosse come gli altri. Il tempo trascorso insieme aveva solo peggiorato le cose. Discutevano di continuo, la lite di quel pomeriggio era l’ultima di una lunga serie, eppure Arthur sarebbe sceso fino all’inferno per il biondo. 

L’amore è come la febbre. Nasce e si spegne senza che la volontà ne abbia una minima parte

Stendhal spense la sigaretta che teneva ancora tra le labbra.

«Dovresti andare da lui»

«Meglio lasciarlo sbollire per qualche ora o potrei solo finire con il peggiorare la situazione»

«Sai, ci sono dei rari momenti in cui mi ricordi Victor» 

«Suppongo sia inevitabile è pur sempre l’uomo che mi ha cresciuto»

«Fa attenzione Arthur»

«Non capisco»

«Sarà anche tuo padre ma ricordati che per Hugo rimani una delle tante pedine sacrificabili sulla scacchiera»

«Lo so, l’ho capito molto tempo fa» il giorno in cui aveva dovuto salutare Baudelaire attraverso le fredde sbarre di una prigione. 

Riviveva ancora quell’addio nei propri incubi, così come l’istante in cui aveva appreso la verità. 

Arthur Rimbaud aveva smesso da tempo di considerare Victor come un modello virtuoso, si era abituato a fingere in sua presenza, così come gli era stato insegnato. 

In fondo lui non era altro che una spia. La migliore d’Europa.

 

***

 

Wonderland

Circa un anno prima


«Voglio parlare con Victor» in quasi quindici anni di onorato servizio Stéphane Mallarmé poteva giurare di non aver mai visto Rimbaud tanto furioso. Il futuro leader dei Poètes era entrato a passo di marcia nell’ufficio di Hugo ma vi aveva trovato solo il povero impiegato intento a riordinare alcuni documenti.

«Monsieur Hugo non è qui»

«Questo lo vedo, potresti cortesemente dirmi dove si trova?» 

«Cosa sta succedendo qui?»

Alexandre Dumas era l’ultima persona che in quel momento Rimbaud desiderava vedere. Doveva essere da poco rientrato dall’ennesima missione top secret visto che si presentava con le fattezze di Edmond Dantes, uno dei suoi numerosi alias.

«Allora Arthur mi vuoi dire qualcosa o devo tirare a indovinare?» lo provocò divertito giocando ad impostare il proprio tono di voce,

«Voglio solo parlare con Victor» Dumas fece un cenno con la mano, congedando il povero Mallarmé che sembrava sul punto di svenire.

Gli era bastato intercettare le iridi dorate di Rimbaud per comprendere il livello della sua rabbia. Probabilmente non sarebbe riuscito a placarlo ma avrebbe evitato altre urla per i corridoi. Nonostante l’apparenza sapeva di come Victor odiasse dare spettacolo. 

«É per quanto successo in Germania?» si azzardò a domandare

Hugo gliene aveva parlato poche ore prima, quando con una telefonata gli aveva chiesto di rientrare urgentemente a Parigi. Come sempre Victor era riuscito a prevedere ogni cosa. Era solo uno dei suoi numerosi talenti. Molte stagioni prima, quando il futuro sembrava qualcosa di incerto e meraviglioso, una tela bianca da dipingere con mille e più colori, Lex aveva invidiato tutte quelle qualità che facevano di Vic un astro più brillante dello stesso sole. 

Di quella stella ormai non era rimasto che un vago ricordo, Hugo si stava consumando per colpa del proprio calore. Era così vicino dall’esplodere e diventare una supernova.

Arthur aveva ragione, Dumas comprendeva il motivo di quella rabbia. Hugo gli aveva mentito inscenando la morte di Baudelaire per poi arruolarlo tra le fila dei Poètes. Ciò che però non aveva saputo prevedere era stata la sua prematura scomparsa e come Rimbaud ne sarebbe comunque venuto a conoscenza.

«Se sai tutto Lex portami da lui»

«Non posso farlo, nello stato in cui ti trovi ora finiresti col dire o fare cose di cui potresti pentirti»

«Quanta premura»

«Arthur cerca di capire»

«Quando la smetterai di difenderlo?”

«Comprendo la tua rabbia, così come il tuo dolore» aveva avuto modo di provarlo sulla propria pelle, quando anni prima aveva creduto di aver perso Victor. Erano stati i minuti più lunghi della sua vita.

«Mi ha mentito, lo avete fatto entrambi»

«Vic ha agito in quel modo solo per il tuo bene»

«É solo un ipocrita»

«Arthur»

«Perché lui può avere un amante mentre agli altri è proibito? Perchè ho dovuto separarmi da Charles?»

«Non sai di cosa stai parlando»

«Vuoi forse negare?»

«Il rapporto tra me e Victor è più complicato di ciò che credi, quelle regole sono nate anche per proteggerti e per evitare che qualcuno potesse commettere i nostri stessi sbagli»

«Quale tremendo errore fuggire a Ginevra ogni volta che se ne presenta l’occasione» lo schiaffo con cui Hugo lo colpì stupì entrambi.

Nessuno si era accorto della sua presenza fino a quel momento, presi come erano dal proprio diverbio.

«Victor» persino Dumas sembrava a corto di parole

«Bada a come parli ragazzino» lo ammoní. Rimbaud gli rivolse un’occhiata carica d’odio. 

Erano soli, potevano permettersi entrambi di parlare apertamente. 

«Mi hai mentito. Charles era vivo, dannazione Vic come hai potuto?» non voleva piangere ma la rabbia che provava in quel momento era davvero incontenibile.

«Non era amore ma solo una sciocca infatuazione»

«Non stava a te deciderlo»

«Arthur, l’ho fatto per il tuo bene»

«Non mi interessa. Ormai Charles è morto»

«Arthur»

«Mi è concesso di vederlo o avete già provveduto a nascondere il suo cadavere?»

«Stanno ricomponendo ora i suoi resti» Rimbaud fece per andarsene,

«Aspetta ti accompagno» mormorò Hugo tentando di afferrarlo per un polso,

«Smettila di giocare a fare il padre. È un ruolo che non ti si addice»

Dumas stava per intervenire ma il compagno gli fece cenno di tacere.

«Puoi odiarmi, non mi interessa. Baudelaire non era adatto a restare al tuo fianco, una spia non può permettersi di avere dei punti deboli e lui sarebbe stato solo una zavorra per le tue ambizioni»

«Non preoccuparti diventerò l’agente perfetto che tanto desideri. Quando ti ritirerai guiderò i tuoi preziosi Poètes»

Se ne andò sbattendo la porta, lasciando i due Trascendentali soli.

Hugo si abbandonò ad un sospiro stanco lasciandosi scivolare contro la propria scrivania.

«Sai, io non ti capisco…» iniziò Dumas avvicinandosi,

«Non è stato possibile risalire all’identità del cadavere anche se con ogni probabilità appartiene al giovane Baudelaire, cioè dalle tracce di dna si tratta di lui»

«Quindi nemmeno tu pensi sia morto?»

«Ciò che penso io è irrilevante anche se credo che quel moccioso sia vivo e quello solo un tentativo di depistarci. In qualsiasi caso non abbiamo nulla di che preoccuparci, se tornerà lo farà per Arthur»

«Forse dovremmo raccontargli tutto» Hugo scosse il capo,

«Non possiamo»

«Vuoi proteggerlo, lo capisco»

«Quando questa storia sarà finita, gli affiderò i Poètes»

«Vuoi davvero realizzare il desiderio di nostro padre?»

«Arthur diventerà la spia più forte d’Europa»

«E cosa ne sarà di noi?»

Il silenzio che seguì quella domanda forní di per sé una risposta.

«Non ammetterò mai di aver sbagliato Lex. Non è nel mio carattere. Arthur ha sempre rappresentato il nostro futuro, l’eredità che avremo lasciato al mondo»

«Hai scelto tu di investirlo di quel ruolo»

«Volevo che lui potesse avere ciò che a noi non è stato concesso»

«Hai arrestato il suo primo amore e inscenato la sua morte, per poi arruolarlo nell’intelligence» si limitò a fargli notare alzando un sopracciglio 

«Tu che avresti fatto? Anzi non credo di volerlo sapere»

«Avrei lasciato correre. Se era una cotta passeggera avrebbe fatto il suo corso»

«Baudelaire sarebbe stato solo un peso, un mezzo per ferirlo»

«Ha sofferto ugualmente»

«Sai cosa intendo Lex. Arthur è diverso da noi» lo era sempre stato, sin da bambino.

«Non te la perdonerà facilmente»

«Prima o poi quel moccioso irritante tornerà e ci dimenticheremo di questa storia. L’erba cattiva non muore mai»

«E se Baudelaire fosse morto?»

«Un problema in meno»

«Sei proprio un bastardo»

«Lo so e mi ami per questo»

Un bacio decretò la fine di quella conversazione.







 

*Hanno ceppi, sciabole e tam tam,

non una vecchia scatola di candele,

e yole che non han gian gian

Solcano un lago dalle acque arrossate!

 

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Capitolo 22
*** XXII Stagione - Après le déluge ***


XXII Stagione - Après le déluge




 

«Aussitôt que l’idée du Déluge se fut rassise,

un lièvre s'arrêta dans les sainfoins et les clochettes mouvantes

et dit sa prière à l’arc-en-ciel à travers la toile de l’araignée »*

Illuminations - A.Rimbaud





 

Wonderland 

-Parigi-


Dal giorno del litigio Arthur si era incontrato raramente Hugo e solo attraverso canali ufficiali. Aveva accettato di prendere parte alla missione riguardante il Fauno così come l’onere di addestrare Black. Il prigioniero salvato da quel laboratorio di ricerca, l’asso nella manica che Victor sperava di utilizzare per ribaltare le sorti di una guerra nei suoi pensieri sempre più incombente.

Arthur Rimbaud non sarebbe venuto meno ai propri doveri, la sua era una questione puramente personale. Hugo non aveva fatto altro che mentirgli, si era preso gioco di lui. Sapeva ciò che provava per Baudelaire eppure lo aveva punito per aver trasgredito alle proprie regole. Tutta quella farsa alla fine si era poi conclusa nel peggiore dei modi ovvero con la morte di Charles. 

Nonostante i numerosi tentativi di riappacificazione effettuati dal leader dei Poètes, in quei mesi Rimbaud aveva continuato ad ignorarlo. Le loro conversazioni si erano limitate all’ambito lavorativo, mutando di colpo e assumendo toni sempre più freddi e impersonali. In molti avevano notato questo cambio d’atteggiamento, primo fra tutti Mallarmé anche se il povero impiegato si era guardato bene dal commentare. Il rapporto tra Hugo e il figlio adottivo era sempre stato abbastanza burrascoso soprattutto dopo il volontario allontanamento di Dumas, l’unico in grado di divincolarsi tra i due fuochi e uscirne illeso.

Solitamente i loro diverbi si risolvevano nel giro di qualche settimana, questa volta però Arthur non sembrava intenzionato a cedere. Erano mesi che quella situazione perdurava ma nessuna delle due parti pareva disposta ad arrendersi o capitolare.

All’improvviso un rumore catturò l’attenzione del futuro leader dei Poètes.

Osservò con fare annoiato il proprio cellulare prima di decidersi a rispondere. 

Alexandre Dumas

Era l’ambasciatore migliore del quale Victor poteva servirsi in quella loro personale guerra fredda. Si scambiò una veloce occhiata con Stendhal, seduto al tavolo accanto.

«Vic vuole invitarti a cena» furono le prime parole che lo raggiunsero, accompagnate da un sospiro «domani sera» aggiunse dopo una manciata di secondi. Probabilmente anche Lex era stanco di quella situazione o della testardaggine perpetrata dai due uomini.

«Non sono dell’umore» tagliò corto il più giovane, iniziando a giocherellare distrattamente con la propria sciarpa.

«Hai forse litigato anche con Black?» il silenzio che seguì quella domanda fornì già di per sé una risposta.

«Andiamo Arthur, per quanto ancora intendi punirlo?» fu allora che Rimbaud esplose,

«Come prego? Ti ricordo che Victor non mi ha nemmeno chiesto scusa. Non ha fatto nulla. Charles è morto, capisci quanto sia grave?! Sono state proprio le decisioni di Victor a determinare la sua sorte»

«Voleva accompagnarti a vedere il suo corpo» Rimbaud stentava a credere alle proprie orecchie. Era incredibile come Dumas cercasse sempre di giustificare i comportamenti di Hugo, anche quando si trovava palesemente nel torto, come in quell’occasione.

«Quei resti carbonizzati potrebbero appartenere a chiunque ma penso che tu lo sappia meglio di me, è fin troppo semplice con le nostre Abilità manomettere delle prove o un DNA» fece una pausa prima di aggiungere «Non intendo abbandonarmi ad altre sciocche fantasie, per quanto mi riguarda Charles Baudelaire è morto»

Deve esserlo

Preferiva pensarla in quel modo piuttosto che illudersi del contrario. Arthur Rimbaud non avrebbe ceduto ad una simile utopia. Era un convinto realista.

Qualche stagione prima, anche Dumas aveva finto la propria morte per poi tornare sui propri passi. Era una sorta di cliché nel loro mondo, l’ennesima strategia da adoperare per confondere il nemico. Hugo gli aveva insegnato a dubitare di tutto e tutti, a non prendere certe informazioni troppo sul serio. Ed era stato proprio quell’uomo il primo a tradirlo. Per un solo istante, Rimbaud era stato sfiorato dall’idea che quella non fosse altro che l’ennesima lezione della quale però avrebbe fatto volentieri a meno. 

Si era innamorato di Charles, era stato quello il suo primo ed unico errore. 

Baudelaire si era trasformato in un punto debole e una spia non può averne. I suoi sentimenti lo avevano reso cieco, tanto da aver creduto ad ogni parola che aveva abbandonato le labbra di Hugo. 

«Un motivo in più per accettare l’invito di Victor» la voce di Dumas dall’altro capo del telefono lo riportò bruscamente alla realtà «Ha detto che puoi portare anche Black» aggiunse dopo una breve pausa.

Rimbaud sospirò rassegnato. Molto probabilmente Hugo stava ascoltando l’intera conversazione. 

Riusciva quasi a immaginarselo, seduto accanto a Dumas mentre gli suggeriva quali parole adottare, con un sorriso machiavellico a dipingergli il volto.

«Sembra disperato» si lasciò scappare con una punta d’ironia 

«Arthur» lo ammonì stancamente il numero due dell’intelligence francese,

«Ok. Verrò a questa cena e porterò anche Paul»

Sempre che per allora sia tornato a parlarmi

Concluse nella propria mente, per poi riagganciare.

Stendhal gli regalò un’occhiata confusa, poco prima di accendersi l’ennesima sigaretta.

«Fine delle ostilità?» si azzardò a domandare. Rimbaud scosse leggermente il capo,

«Diciamo che abbiamo stabilito una tregua. Era Lex. A quanto pare Hugo mi ha invitato per cena. Domani sera»

«E porterai anche il biondino?» 

«A Paul non piace Victor»

«Mi domando il perchè»

«Se non ti dispiace Henry ora me ne torno a casa, sperando che almeno a lui sia passata» il capo della sezione interrogatori si limitò ad annuire, spegnendo la sigaretta che teneva tra le mani.

«Le faccende familiari sono sempre complicate» fu il suo unico commento.

Per un istante il suo pensiero tornò su Mathilde, ma il suo volto venne presto sostituito da quello sorridente di Charles.

«Dannato moccioso impertinente» sussurrò tra sé.

 

***

 

Quello stesso momento

-Quartier Generale dei Poètes Maudits-

-stanze private di Victor Hugo-


«Ha accettato» rispose tranquillamente Dumas appoggiando il proprio cellulare sul comodino. Hugo sbuffò contro il suo petto, prima di iniziare ad accarezzarlo. Non era previsto che andassero a letto insieme, avevano avuto un piccolo diverbio, l’ennesimo, riguardo quella famosa guerra che presto avrebbe coinvolto il continente europeo.

Le loro posizioni erano sempre state agli antipodi ed era difficile trovare un punto d’incontro. Col passare delle stagioni, Lex aveva imparato come il sesso fosse un ottimo espediente per calmare Victor o farsi ascoltare da lui. Era quel tipo di compromesso che sembrava soddisfare entrambe le parti. Quando la tensione si faceva insostenibile veniva sostituita dalla passione, consumata sulla prima superficie disponibile ma anche nei luoghi più disparati. 

Quello che c’era tra loro non era un gioco, non lo era mai stato. Era un legame consolidato nel tempo e che durava da quasi quarant’anni. Come tutte le coppie avevano affrontato i loro alti e bassi, rimanendo insieme a dispetto delle avversità. Dumas aveva finto la propria morte preferendo agire nell’ombra, ma bastava una sola parola o un cenno di Hugo perché tornasse al suo fianco. Avevano commesso entrambi degli errori, di cui avrebbero pagato lo scotto per il resto delle proprie esistenze, eppure quando erano insieme nulla sembrava avere importanza. 

Le dita di Hugo percorsero lentamente il fianco di Dumas soffermandosi su una cicatrice. Quel tocco freddo fece sussultare entrambi, anche se per motivi differenti.

«Quindi porterà anche Black?» domandò distrattamente il leader dei Poètes accoccolandosi meglio contro la sua spalla e interrompendo quel contatto.

«Non avrei dovuto invitarlo?» Victor gli sorrise serafico

«A volte tendo a dimenticarmi di come tu sia un abile manipolatore, usare quell’arma per ottenere l’attenzione di Arthur, così da arrivare a fargli abbassare la guardia»

«Sarà merito della tua influenza» mormorò con fare lascivo prima di afferrarlo per la vita. L’espressione sul viso di Hugo non mutò, si era preparato ad una mossa simile, l’aveva prevista. Alzò le braccia cingendogli le spalle e facendo avvicinare maggiormente i loro visi.

«Ti ricordo che sei l’unico a non esserti mai piegato alla mia influenza» sussurrò contro il suo orecchio

«Questo perchè ho sempre saputo come prenderti» sorrisero entrambi

«Allora fallo Alexandre»

Quando Victor Hugo pronunciava il suo nome per intero non era mai un buon segno.

 

***

 

Sempre in quel momento

-Champs Élysées-

 

Paul Verlaine aveva continuato a divincolarsi tra la folla raggiungendo una delle vie principali della capitale. Era ancora furente per la discussione avvenuta pochi istanti prima con Rimbaud e per quella sua non risposta. Sentirlo parlare di Baudelaire lo aveva innervosito, così come il successivo discorso sulla guerra e il volerlo proteggere da un ipotetico conflitto. 

Era un essere umano geneticamente modificato, un’arma creata per situazioni simili. Avrebbe dato la vita per proteggere Arthur ma quello stolto come sempre era arrivato a fraintendere le sue parole o intenzioni.

Nemmeno Verlaine riusciva a definire ciò che provava verso il partner. Era un sentimento ancora acerbo, immaturo, difficile da spiegare.

Rimbaud lo aveva liberato da quel laboratorio, gli aveva dato una nuova ragione per vivere, uno scopo. Arthur gli era rimasto accanto per tutti quei mesi insegnandogli ogni cosa. Dal prendere la metro ad allacciarsi le scarpe.

Verlaine però era un'arma potenziata al solo scopo di uccidere. Aveva del talento nel farlo, per questo il mondo dell’intelligence lo aveva accolto a braccia aperte. Rimbaud era il solo a credere nella sua umanità e per un istante era arrivato ad odiarlo. 

Arthur lo riteneva una persona migliore di quanto non fosse. Si era sforzato di comprendere quel senso di solitudine che da sempre albergava all’interno del suo animo. Verlaine era arrivato al punto di detestare quello sguardo tranquillo, così come il tono della sua voce. Sentiva di non meritare tutte quelle attenzioni con le quali il partner lo viziava e avvolgeva. Era un abominio, un essere la cui esistenza semplicemente sfidava le leggi di Dio e dell’intero creato.

Paul stava facendo del proprio meglio nel provare a gestire quella miriade di nuove emozioni. Non era facile, soprattutto perché una parte di lui non riusciva a scrollarsi di dosso l’immagine del mostro senza anima con la quale fin troppo spesso era stato identificato.

Le parole del Fauno gli tornarono alla mente, insieme al ricordo dei suoi esperimenti. Non appena socchiudeva gli occhi, Verlaine rivedeva se stesso in quel laboratorio. Le notti trascorse in una cella umida e buia. La fioca luce della luna come unico conforto o compagnia. Poi, all’improvviso, una speranza riflessa nello sguardo ambrato di Arthur. Le sue braccia che lo afferravano e liberavano da quella prigione insieme alla promessa di una vita migliore. 

Per Verlaine, Rimbaud rappresentava semplicemente tutto. Per questo motivo le sue parole lo avevano ferito. Non riusciva a comprendere i suoi comportamenti ed era facile che venissero fraintesi. Avevano già discusso in passato ma mai su di un argomento tanto delicato come i rispettivi sentimenti.

Fu in quel momento che il cellulare nelle sue tasche prese a vibrare. Rispose senza esitazione. Non più che un paio di persone conoscevano quel numero ma solo di una desiderava sentire la voce.

«Perdonami» non capitava spesso che fosse Rimbaud a fare il primo passo. Anche se le loro discussioni non duravano mai per più di qualche ora, entrambi erano uomini profondamente orgogliosi. 

«Hai solo questo da dire?» Paul non voleva essere brusco ma nemmeno cedere troppo facilmente. Si stava comportando per l’ennesima volta come un moccioso capriccioso ma poco importava, Rimbaud lo aveva ferito e per questo doveva pagare. Era bravo nel portare rancore.

«Ho esagerato» proseguì il partner abbassando leggermente il proprio tono di voce,

«Prima, non mi hai risposto. Cosa sono io per te Arthur?» Dimmelo 

«Vorresti davvero saperlo attraverso un telefono?» lo provocò. Verlaine però non si scompose. 

«Quello che vorrei è avere una risposta» così da mettermi l’animo in pace

Dall’altro capo della linea Rimbaud annuì.

«Le regole di Hugo. Sono dei precetti che hanno finito per influenzare molte decisioni che ho preso nel corso della mia vita. Una su tutte: una spia non deve avere legami o provare sentimenti» sperò con tutto il cuore che Paul capisse il suo ragionamento e che lo assecondasse,

«È stato Victor Hugo ad affidarmi alle tue cure» si limitò a fargli notare. Rimbaud prese un lungo respiro, imponendosi di mantenere la calma.

«Dobbiamo parlare, devo spiegarti molte cose» era meglio discuterne di persona e non attraverso un telefono.

«Non ho bisogno di sentire le tue scuse» ma come sempre Verlaine aveva frainteso le sue intenzioni

«Paul, desidero raccontarti di Charles. Di come la sua morte abbia cambiato ogni cosa»

«Non voglio saperne nulla di quella storia» il solo udire quel nome lo innervosiva, così come il tono con cui Arthur lo pronunciava. 

Non avrebbe sopportato il racconto di Rimbaud e di un altro uomo. Già scoprire dell’esistenza di Baudelaire si era rivelato un colpo difficile da digerire. Verlaine aveva sempre saputo che Arthur possedeva un passato, una vita prima del loro incontro. Era perfettamente normale eppure ogni volta che vi si faceva un qualche riferimento, una dolorosa sensazione attraversava il suo petto, privandolo del respiro.

«Ti stai facendo un'idea sbagliata» lo ammonì il partner, intuendo quali pensieri avessero iniziato ad agitarsi nella sua mente.

«Amavi quel Baudelaire?»

Non voleva essere tanto diretto ma non era riuscito a trattenersi, quelle parole avevano abbandonato le sue labbra prima che potesse rendersene conto. 

Rimbaud esitò ma alla fine rispose.

«Si»

A quel punto Verlaine riagganció. Non aveva bisogno di sentire altro. 

Provò un dolore acuto all’altezza del petto, diverso da ogni tipo di tortura che avesse mai sperimentato fino a quel momento.

Raggiunse l’arco di Trionfo decidendo di recarsi fino alla sua sommità. Aveva bisogno di riflettere, schiarirsi le idee. 

Forse doveva prendere spunto dalle famose regole di Hugo e soffocare quell’attrazione che aveva iniziato a provare nei confronti di Rimbaud. 

Verlaine non avrebbe mai pensato di sperimentare un simile sentimento, Arthur però aveva da sempre rappresentato un’eccezione. Sin da quel giorno in laboratorio, quando i loro destini avevano finito con l’intersecarsi, aveva compreso come il moro non fosse una persona qualunque.

Il cellulare riprese a vibrare. Questa volta era un messaggio:

Dove sei?

Venne sfiorato dall’idea di ignorarlo. 

Paul ho bisogno di vederti. Dobbiamo parlare. Ti prego rispondi

Un sorriso nacque spontaneamente sulle sue labbra. Era quasi divertente. Vedere come Arthur Rimbaud, il futuro leader dei Poètes Maudits, potesse arrivare a perdere tutta la propria compostezza era uno spettacolo al quale mai avrebbe pensato di potere assistere.

Cosa devo fare per farmi perdonare?

Alla fine si arrese. 

Arco di Trionfo. Sarò a casa tra una decina di minuti. Porta una bottiglia di Merlot.

Rimbaud era il solo capace di farlo vacillare o sentire in quel modo. Un istante prima era convinto di odiarlo mentre quello dopo, eccolo correre da lui. Osservò per un’ultima volta le auto sfrecciare lungo l’etoile così come i passanti intenti a scattare fotografie al monumento. L’ipotesi di una guerra imminente lo raggiunse facendolo rabbrividire. Quella quotidianità si sarebbe presto trasformata in un ricordo dai contorni sbiaditi. Imprecò sottovoce prima di incamminarsi verso la propria abitazione. L’appartamento che condivideva con Arthur. Il primo e unico luogo che avesse mai chiamato “casa”.

Avrebbe combattuto ma solo per Rimbaud. Per lui e per quella vita che gli aveva donato, quella quotidianità alla quale non si sentiva disposto a rinunciare.

 

***

 

Realtà originale

-Londra-

 

Alexandre Dumas stava osservando distrattamente lo schermo del proprio pc. Ripensava alla conversazione avuta con Hugo ma anche alle mosse di Black. Sia lui che il leader dei Poètes avevano sottovalutato il legame che univa il Re degli Assassini a Rimbaud. Si interrogò su quando fossero diventati tanto ciechi da non accorgersi di ciò che accadeva davanti ai loro occhi. Ogni altro pensiero venne sostituito da una voce femminile, seguita da un profumo inconfondibile.

«Che espressione malinconica my dear, non ti si addice» Agatha Christie gli sorrise prima di accomodarsi accanto a lui. Non aveva bisogno di essere annunciata, si trovavano pur sempre nella capitale inglese, nel suo territorio.

«Cosa vuoi Mary*?» rispose cercando di mantenere la calma. La donna a capo della Torre dell’Orologio non mostrò alcun segno di turbamento. Si era aspettata una reazione simile, conosceva Dumas ormai da molti anni, così come anche il leader dell’intelligence francese.

«Sappiamo che sei in contatto con Hugo» sussurrò tra il divertito e il malizioso.

«La vostra rete di spionaggio è davvero incredibile» fu l’unico commento del ex Poète

«Non sono qui per scherzare Alex ma per avvisarti» i toni si fecero improvvisamente più seri

«Black formalmente è ancora un agente francese» gli fece notare seccato

«Che però ha ucciso alcuni membri della mia Organizzazione, oltre ad aver contribuito alla fuga di un nostro ex cavaliere dal carcere di massima sicurezza di Meursault»

«Per questo il suo è un caso di competenza dell’Europole» ma la donna non lo lasciò terminare,

«Sappiamo entrambi che quell’Agenzia è solo una facciata e che al minimo cenno da parte di Victor tornerai da lui»

«Allora non capisco il senso di questa conversazione né il motivo della tua visita»

«Volevo solo ricordarti che posseggo i mezzi per ferirti e che posso usarli anche contro il tuo caro Hugo» aveva lei il coltello dalla parte del manico. Era quella consapevolezza che negli ultimi quindici anni aveva guidato le sue azioni e che gli aveva impedito di tornare a Parigi, da Victor.

«Intendo inviare Adam Frankenstein, l’androide del Dr. Wollstonecraft. Ho già dato disposizioni al riguardo» si limitò a rispondere il francese

«Credevo volessi recarti di persona»

«Ufficialmente Alexandre Dumas è morto»

«Mi chiedo se qualcuno ci abbia mai davvero creduto. Sei sempre stato bravo a raccontarti delle favole Alex, così come a ferire Victor»

«Tu non sai nulla»

«So quanto basta»

L’amore è la più egoistica delle passioni

Ed era stato per via del proprio egoismo che ora si trovava in quella situazione.

«Sono il leader dell’Europole, non sono più un Poète Maudit» la donna gli sorrise,

«Ma sei ancora il marito di Victor Hugo» non avrebbe mai potuto scordarlo, era stato uno dei giorni più belli della sua vita. Victor era splendido, qualsiasi altro aggettivo sarebbe stato riduttivo. In quel momento il sorriso del leader dei Poètes era talmente luminoso da arrivare ad oscurare persino la luce del sole. 

Quasi tutte le promesse che si erano scambiati in quella mattina autunnale erano state infrante si trovò a pensare con una punta di amarezza. 

«É una vecchia storia che appartiene ad una stagione ormai passata» si limitò a commentare nonostante la sua mente si fosse persa in quel mare di ricordi. 

«Non mentirmi, ci conosciamo da così tanti anni, sei il solo che Hugo abbia mai ascoltato» e amato

«Per questo me ne sono andato, ero il suo punto debole»

«Ma non l’unico» aggiunse con fare malizioso «Ho appreso della morte di suo figlio. Arthur Rimbaud»

«Le notizie viaggiano veloci nel nostro mondo» la donna rispose con una scrollata di spalle.

«Conoscevo Arthur, era davvero in gamba, non posso credere che qualcuno l’abbia sconfitto»

Dumas chinò il capo, ripensando ai file su Arahabaki che Victor gli aveva inoltrato. Era stato quel ragazzino, Nakahara Chuuya, il Dio della Distruzione che per anni avevano cercato. Lui e un altro moccioso giapponese avevano sconfitto l’ex spia più potente d’Europa. Una storia difficile da credere, anche nel loro ambiente.

«Sai, un buon consiglio viene sicuramente sempre ignorato, ma non c’è ragione per non darlo, resta fuori da questa storia Alex» proseguì la donna a capo dell’intelligence inglese.

«Non posso farlo»

«Sapevo che avresti risposto così»

«Il mio destino è legato a quello di Victor»

«Hugo sta andando incontro alla propria rovina. Non possiamo impedirlo. Inoltre, sappiamo entrambi cosa è nascosto in Giappone» si guardarono negli occhi, 

«Il Libro» non serviva aggiungere altro,

«La sua protezione è ciò che ha permesso la formazione del nostro gruppo»

«Lo rammento molto bene»

«Allora fa in modo di ricordarlo anche a lui» sussurrò prima di allontanarsi.

Dumas strinse i pugni, prima di prendere la propria decisione:

«Devo recarmi in Francia. Immediatamente»

 

***

 

Wonderland

-Parigi-

 

Rimbaud continuava ad osservare il proprio cellulare, leggendo e rileggendo il messaggio di Verlaine. Poche righe che tuttavia erano in grado di riassumere lo stato d’animo in cui versavano entrambi.

Arthur aveva maturato la propria decisione, avrebbe raccontato al partner di Charles. Era l’unico modo per risolvere quel diverbio, spiegare a Paul le ragioni che lo avevano portato a reagire in quel modo, ad evitare di rispondere ad una domanda troppo pericolosa per due agenti segreti.

Venne invaso dall’ennesimo brivido di freddo trovandosi a ripensare a quei mesi trascorsi in compagnia del biondo. Tante piccole parentesi di quotidianità che avevano ben presto trasformato la natura del loro rapporto portandoli in quella situazione.

 

***

 

Ricordo di Rimbaud

 

Rammentò la prima notte trascorsa in compagnia di Black. 

Dopo quel primo burrascoso risveglio, il biondo si era affrettato a tornare nel proprio letto per poi infilarsi sotto le coperte senza dire una parola. Arthur ne aveva studiato ogni movimento, pronto a soccorrerlo in caso di bisogno. Paul, così aveva deciso di ribattezzare il suo nuovo amico, era ridotto pelle ed ossa, se ne era accorto quando aveva mediato le numerose ferite che ne percorrevano il corpo. In quell’occasione, Rimbaud aveva tracciato con cura i contorni di ciascuna, odiando il Fauno per la sua follia. Gli risultava incredibile credere che Black fosse sopravvisuto ad una tale tortura. Sin dal primo istante, Paul gli parso come un essere dotato di una bellezza eterea, quasi ultraterrena. Era al pari di un angelo al quale Dio, invidioso, aveva strappato le ali, condannandolo ad un’esistenza mortale.

Non fu che una sensazione passeggera ma Rimbaud si sentì sollevato nel sapere di avere ucciso quello scienziato anche se forse la morte era stata una punizione troppo clemente per i peccati perpetrati da quel mostro. Arthur avrebbe dovuto torturarlo di più, farlo soffrire almeno la metà di quanto lui avesse fatto con Paul, ma nemmeno allora sentiva che sarebbe stato soddisfatto. 

Hugo gli aveva concesso carta bianca e lui aveva agito di conseguenza. Quell’uomo era un mostro e non gli avrebbe accordato il lusso di vivere un secondo di più. Arthur era riuscito a recuperarne la ricerca ed era a quella che l’intelligence e il Governo francese erano interessati. 

Osservò le scartoffie abbandonate alla rinfusa sulla scrivania. Aveva già provveduto ad inviare al Quartier Generale i file in formato digitale, mancavano solo pochi documenti da scansionare e inoltrare. Qualcosa gli suggeriva che quella notte non sarebbe riuscito a prendere sonno. Gli capitava spesso al termine di una missione, soprattutto quando finiva con l’utilizzare per troppo tempo Illuminations. 

O quando uccideva qualcuno.

Alle spie è concesso di uccidere legalmente. Quando prendiamo una vita lo facciamo nell’interesse del nostro Paese.

La voce di Hugo risuonò nella propria testa. Era incredibile come quegli insegnamenti fossero così radicati in lui, tanto da non potervisi opporre.

Ripensò per un istante a Black e al potere distruttivo racchiuso in quel fragile corpo. A come la sua Abilità fosse cresciuta, in seguito a quegli esperimenti disumani.

Avrebbe dovuto domare quella forza, partendo dal suo utilizzatore, quello stesso ragazzo che dormiva nella stanza accanto. Finì di sistemare quei documenti per poi tornare al suo capezzale. Rimase a fissarlo per diversi minuti non riuscendo ad impedirsi di sorridere.

In quel frangente Paul appariva così tranquillo e per nulla minaccioso. Gli sistemò meglio le coperte, controllando che il suo respiro continuasse a rimanere calmo e regolare. Ancora una volta, Arthur si sorprese del proprio comportamento così come di tutte quelle premure.

Rammentò di come Hugo avesse fatto lo stesso con lui tanti anni prima. Allora Rimbaud non era altro che un bambino con la testa piena di sogni e promesse di gloria. Era stato grazie a quelle fantasie che aveva finito col trasformarsi nello specchio dei sogni infranti del proprio superiore. Arthur Rimbaud avrebbe ereditato lo scettro del comando ma a quale prezzo? Aveva condannato Charles per un trono che non aveva mai realmente desiderato. Erano stati i suoi sentimenti a condurre l’amico alla morte. Hugo non era il solo responsabile, le scelte di entrambi avevano deciso il fato di Baudelaire. Rimbaud lo sapeva perfettamente, per questo si sarebbe impegnato a non fallire mai più, a diventare la spia che Victor aveva sempre sognato.

Fu in quel momento che si sentì afferrare per la vita e si trovò con il volto premuto contro un cuscino. Avvenne tutto fin troppo rapidamente perché potesse impedirlo.

«Paul, che stai facendo?» riuscì a mormorare incredulo. Non si era accorto di nulla. Non aveva avvertito nessun movimento sospetto. Black possedeva dei riflessi spaventosi.

«Dove mi trovo? Arthur?»

Si guardarono negli occhi. Paul appariva confuso e spaventato, come durante il loro primo incontro. Rimbaud si trovò a sorridere paragonandolo nella propria mente ad un bambino fin troppo cresciuto,

«Va tutto bene, sono qui» rispose afferrando una delle sue mani, in un impacciato quanto maldestro tentativo di conforto

«Mi dispiace, ho aperto gli occhi e ti ho scambiato per quell’uomo»

«Ti ripeto che va tutto bene, non è successo nulla» Verlaine però stava tremando.

Rimbaud non ci pensò troppo, lo strinse maggiormente a sé coinvolgendolo in un abbraccio scomposto. La resistenza del biondo non durò che qualche secondo. Dopo l’incredulità e lo stupore si lasciò cullare da quel calore. Era una sensazione completamente nuova, che non aveva mai sperimentato. 

Rimasero in quella posizione per diversi minuti.

«Va meglio?» domandò il moro, accarezzandogli la schiena.

«Sei caldo» fu la sola risposta che ottenne e che faticò ad interpretare

«Ed è un male? indagò giusto per esserene sicuro,

«No è piacevole, credo» Rimbaud tornò a sorridergli dolcemente

«Non devi avere fretta» sussurrò contro il suo orecchio

A quelle parole però Paul si imbronciò,

«Hai detto tu che mi renderai una spia»

«Si ma prima di quello ti insegnerò a comportarti come un essere umano, hai una vita intera da recuperare»

«Credi veramente che io possa diventare umano?»

«Lo sei già, non devi fare nulla» sperò con tutto il cuore che quelle parole potessero servire, che Black le accettasse. Il biondo abbassò lo sguardo.

«Mi dispiace per prima, ecco io non so davvero come comportarmi in questi casi»

Per un istante Arthur venne sfiorato dal desiderio di baciarlo. Quel pensiero lo investì come un fulmine a ciel sereno.

«È stata tutta colpa mia» furono le prime parole che riuscì ad articolare «Ti ho praticamente imposto un nome e preteso che tu accettassi le mie condizioni, anzi quelle del mio Governo. Non ne avevo il diritto. Ho sbagliato, non sono tagliato per il compito che mi è stato affidato»

Lo aveva pensato sin dal principio. Non sarebbe mai stato un buon insegnante per Black. Nel corso della propria vita non aveva fatto altro che infrangere i preziosi comandamenti di Hugo.

«Non voglio nessun altro» quella risposta lo spiazzò

«Non credo che tu sia nella posizione per avanzare una qualche richiesta» si divertì a fargli notare, immaginando Paul mentre sfidava i dettami di Hugo.

«E nemmeno tu in quella di rifiutare, o forse mi sbaglio?» Arthur scoppiò a ridere. Quel suono riempí l’aria sciogliendo ogni tensione.

In effetti Paul aveva ragione. Non sarebbe mai potuto andare contro un ordine diretto di Victor. Non lo aveva fatto nemmeno per Charles.

«A volte per accettare i cambiamenti ci vuole del tempo e io tendo a dimenticarlo» il suo pensiero tornò inevitabilmente su Baudelaire ma anche sulla propria lite con Hugo,

«Sai, in fondo mi piace Paul, cioè penso sia migliore di Black» le successive parole del biondo, così come il suo volto sorridente, lo strapparono da qualsiasi altro pensiero, 

«Era il mio nome» si trovò a confessare quasi senza accorgersene sistemandosi una ciocca di capelli dietro ad un orecchio 

«Non credo di aver capito» Arthur gli accarezzò distrattamente una guancia,

«Un tempo io mi chiamavo Paul Verlaine»

«Continuo a non comprendere»

«Quando ho scelto questa vita ho dovuto abbandonare il mio passato, compresa la mia vecchia identità. Come da oggi tu farai con Black»

«E chi ti ha dato il nome di Arthur?» la curiosità di Paul era simile a quella di un bambino e parecchio contagiosa. La cosa stupì anche Rimbaud. Era da così tanto che non si concedeva una conversazione così leggera, spontanea.

Per una volta non vi erano trappole, parole in codice o segreti di Stato ma solo una sfilza di domande in attesa di risposta.

«L’uomo che mi ha cresciuto, Victor Hugo» non riuscì ad evitare di storcere il naso al solo pronunciarne il nome e ovviamente Verlaine se ne accorse.

«Che tipo è?»

«Ѐ il leader dei Poètes Maudits, l’uomo che comanda l’intelligence francese. Lo conoscerai molto presto, scommetto che non appena rientreremo a Parigi lo troveremo a bussare alla nostra porta» fece una pausa, ricordandosi all’improvviso un dettaglio che fino a quel momento aveva trascurato.

«Dovrai vivere da me» sussurrò 

«Immagino di si, è forse un problema?» Rimbaud scosse la testa,

«Certo che no ma temo di avere solo un letto»

«Possiamo dormire insieme» Arthur rimase senza parole non riuscendo a capire se quella fosse una domanda o una soluzione al problema. Vedendo la confusione attraversare quelle iridi ambrate Paul si affrettò ad aggiungere,

«Ad essere sincero, vorrei che tu dormissi accanto a me anche questa notte»

Rimbaud annuì. Verlaine poteva avere di nuovo qualche incubo, attivare la propria Abilità. Sapeva che non erano altro che scuse. Non sarebbe mai riuscito ad abbandonare il compagno, non in quel momento. Black era vulnerabile, necessitava della sua supervisione.

Quanto sei diventato bravo a mentire a te stesso

La voce di Baudelaire lo raggiunse provocandogli l’ennesimo brivido di freddo, Paul però se ne accorse, scostò di poco le coperte in un chiaro invito ad accomodarsi.

«Tanto hai finito con quei documenti» si limitò a fargli notare,

Rimbaud annuì iniziando a togliersi gli stivali.

«Non ho mai dormito con qualcuno» la sincerità di Verlaine era un’arma a doppio taglio, fin troppo pericolosa per la situazione nella quale si trovavano. Il moro non smise si sorridergli,

«Quando ero piccolo fuggivo nel cuore della notte e mi intrufolavo nel letto di Victor» ricordò con una punta di nostalgia,

«Fu solo per un periodo, i primi tempi all’intelligence» si affrettò ad aggiungere, anche se probabilmente il compagno non ci avrebbe trovato nulla di imbarazzante,

«Quanti anni avevi quando sei diventato un Poète?»

«Sette, no otto anni»

«Eri solo un bambino»

«Volevo diventare qualcuno e possedevo un’Abilità, con il mio potere avrei potuto realizzare tutti i miei sogni»

«E lo hai fatto?» 

No e ho finito col perdere l’amico più caro che avessi

«Non ancora» non avrebbe mai potuto rivelare a Paul la verità sul proprio passato. Una parte di Rimbaud si vergognava delle proprie azioni, della propria codardia e di come non avesse lottato per difendere l’uomo che amava. Aveva anteposto i suoi doveri di spia ai sentimenti, come gli era stato insegnato.

«Prego che un giorno tu possa riuscirci, anzi ti aiuterò nel farlo» per un attimo fu certo di essersersi immaginato quella risposta, ma gli bastò incrociare lo sguardo di Paul per ricredersi,

«Fino a ventiquattro ore fa te ne stavi rinchiuso in un laboratorio» gli fece notare ma senza cattiveria

«Ora però sono il tuo partner e se non erro il mio compito è di supportarti» Arthur sorrise, Paul gli regalava una leggerezza che credeva di aver dimenticato. Terminò di spogliarsi per poi coricarsi accanto al biondo.

Inizialmente Verlaine studiò ogni movimento con sospetto ma poi sembrò accettare la sua presenza. Andò ad accoccolarsi contro la sua spalla come un cucciolo indifeso. Rimbaud dovette fare appello a tutto il proprio autocontrollo. Paul non era Charles e non lo conosceva che da poche ore eppure la sua sola presenza era in grado di affievolire quella sensazione di gelo che da sempre accompagnava il suo animo. 

Si mosse leggermente ma in questo modo la testa di Black finì pericolosamente vicino alla propria. Il biondo aprì un occhio,

«Tu non dormi?» domandò con fare assonnato,

«Tra poco»

«I mostri non hanno mai incubi. Erano le parole di quell’uomo. Se gli esseri umani sono i soli in grado di sognare allora significa che io lo sono?»

«Ѐ questo che ti tormenta?»

«Riesci a pensare Rimbaud, a come il fatto di non essere umano possa influenzare qualcuno? Sapere che la propria nascita non è opera di Dio ma solo il risultato di una serie di calcoli. Ѐ come trovarsi in un burrone oscuro, più della notte stessa ed essere incapaci di vedere la luce della luna. Nessuna speranza o capacità di salvezza. Io mi sentivo così prima di incontrarti»

«Tu sei umano, perché dubiti così tanto di te stesso?»

«Perché non sono mai stato trattato come tale ma come un esperimento. Tu sei il primo e il solo a non avermi considerato un mostro senz’anima»

«Dici davvero un mare di sciocchezze» sbottò prima di abbracciarlo,

«Arthur»

«Ora dormi, devi essere in forze. Domani inizieremo il tuo addestramento»

 

***

 

Rimbaud sorrise riemergendo da quel ricordo risalente ormai ad un anno prima. Da quel giorno molte cose erano cambiate ma non il sentimento che provava verso il biondo. Paul aveva dimostrato un carattere e una testardaggine simili ai suoi, per questo finivano inevitabilmente con lo scontrarsi. Arthur avrebbe preferito continuare a celare il proprio passato così come la storia con Charles. Era stata la prospettiva di perdere Verlaine che lo aveva portato a cedere. 

Sentì un leggero bussare ma non fece in tempo ad aprire che la porta si spalancò davanti ai suoi occhi. Paul non disse nulla ma si precipitò fra le sue braccia.

Si guardarono negli occhi prima di scambiarsi un lungo bacio che da troppo tempo entrambi avevano finto di non desiderare.





 

*Mary. Il vero nome di Agatha Christie è “Agatha Mary Clarissa Christie, Lady Mallowan” c’è un motivo se Dumas la chiama Mary ma si scoprirà non so quando, probabilmente nello spin off sul loro passato. Questo dettaglio era già uscito nella “Mort des Amants” e ci tenevo a spiegarlo. 

 

*Non appena l’idea di diluvio si fu placata, una lepre si fermò fra il trifoglio e le campanule ondeggianti e disse la sua preghiera all’arcobaleno attraverso la tela del ragno.

 

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