Uno e Due

di Glenda
(/viewuser.php?uid=27907)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nato con le ali ***
Capitolo 2: *** Fuori dall’ombra ***
Capitolo 3: *** Rischiare il dolore degli altri ***
Capitolo 4: *** "Scusami"? ***
Capitolo 5: *** A proposito di Villain ***
Capitolo 6: *** L’uomo che non sapeva rassicurare ***
Capitolo 7: *** Team up ***



Capitolo 1
*** Nato con le ali ***


Sono nato con le ali, letteralmente, e non perché io sia un grande sognatore.

Un po' lo sono, in verità, ma solo se la vita me ne lascia il tempo: ero sincero quando ho detto ad Endeavor che sogno un mondo in cui gli eroi abbiano un sacco di tempo libero.

Se volessi farne una questione politica, tutti quanti dovrebbero avere tempo libero: tempo per divertirsi, scherzare, mangiare o anche solo stare seduti a guardare il cielo (quello lo faccio spesso, io, e dai punti di osservazione migliori: sono un privilegiato!)

Se volessi farne una questione politica (e, ohimè, giunti a questo punto e molto più e molto peggio di questo) dovrei dire che ho scoperto di trovarmi a lottare proprio con quel tipo di persone che divorano il tempo della gente: politici, industriali, finanziatori occulti... Preferivo dover avere a che fare solo con Shigaraki e i suoi, giuro! Ma quando si va a rimestare nel torbido non si sa cosa ne viene fuori e di questo avrei dovuto essere consapevole.

È andata nel peggiore dei modi, speriamo finisca nel migliore.

 

***

 

Sono nato con le ali, e questo significa almeno due cose: poter guardare il mondo dall’alto ed abituarsi alla solitudine. Faccende che vanno insieme, perché quando guardi il mondo dall’alto acquisisci una forma di libertà che ti rende distante, sufficiente a te stesso, e allo stesso tempo ti offre una visuale sull’umanità che non può che rimpicciolirla, facendoti sentire superiore agli altri: superbo e solo.

Specularmente, gli altri guardano me allo stesso modo: dal basso verso l’alto; io, l’eroe numero due, la giovane promessa, quello che a 22 anni ha già aperto un’agenzia, quello che porta la borsa alle vecchiette, fa impazzire le ragazze, provoca impunemente, si fa amare e odiare, e – tra parentesi – a volte salva pure la vita a qualcuno, ma questo – detto tra noi – non è così rilevante.

Perché se lo fosse - se fosse rilevante come deve essere - Endeavor sarebbe sempre stato l’eroe numero uno. Ma sul podio non c’era lui, c’era sempre All Might, perché Endeavor, sì, salva la gente, ma lo fa senza sorriso. E come si deve fare se uno il sorriso non ce l’ha? Il sorriso non è qualcosa che ti puoi dare da solo: sono gli altri che te lo insegnano. Oppure te ne costruisci uno, magari che renda bene davanti alle telecamere, come il mio. E non è lo stesso sorriso di All Might, perché è finto, l’hai creato tu: lo senti sulla tua faccia che non è reale, che lo stai inventando e modellando ad hoc fino nel più piccolo movimento delle labbra.

Dunque, dicevo: a me il sorriso non lo hanno insegnato, me lo sono fabbricato da me, su misura, adattabile ad ogni situazione, ad essere adorabile e rassicurante, impertinente, solare, sbruffone, candido, aggressivo, onesto, insomma, tutto ciò che mi pare.

E, grazie a questo, sono finito qui.

Avrei preferito non esserci? Ovviamente.

Potevo rifiutare? No.

Volevo rifiutare? Nemmeno.

Io non ho, checché se ne pensi, un’unicità straordinaria, ma possiedo una dote che altri eroi non hanno: sono capace di farmi voler bene o disprezzare a comando, sono capace di capire cosa ci si aspetta da me e mi so guadagnare la fiducia della gente.

La. Fiducia. Di. Questa. Gente.

Una folla di esaltati pericolosi.

Un esercito di traditori. Tanti, troppi.

È un po’ diverso da quello che mi ero aspettato: mi ero preparato a costruire una relazione con un gruppo di disturbati, per lo più giovani.

Con risorse di cui non conosciamo l’origine, ok.

Sotto la leadership dell’allievo di All for One, ok.

Matti e fuori controllo, ok.

Ma comunque uno stretto drappello di individui, tenuti unito da legami di personali complicati che avevo tutta l’intenzione di comprendere.

Non mi facevano realmente paura.

Questa gente sì, mi fa paura, e mi fa paura il legame che si è creato tra loro ed il gruppo di Shigaraki. Potenzialmente devastante: risorse economiche illimitate a disposizione di desiderio distruttivo allo stato puro.

E mi fa paura la mia solitudine, per una volta.

Perché quello che ho scoperto è che il numero di eroi coinvolti in questa faccenda è inquantificabile, che chiunque può essere un traditore e qualunque mia forma di comunicazione potrebbe essere intercettata dalla persona sbagliata. Non mi posso fidare di nessuno, nemmeno delle stesse persone che mi hanno voluto qui.

 

***

 

Mi fido solo di Endeavor.

Mi fido di Endeavor perché sa fare il suo lavoro, e lo fa senza la paura del disprezzo altrui. Endeavor non ha bisogno di applausi e dunque non cede alle lusinghe della gente: per questo è affidabile e per questo ho cercato il suo aiuto.

Mi dispiace averlo trascinato dentro questa faccenda, ma tanto, prima o dopo, lo sarebbe stato comunque. Mi dispiace non essere in grado di pianificare tutto, mi dispiace che le cose mi siano sfuggite di mano, e tuttavia Endeavor resta per me il solo punto fermo che ho.

Coinvolgerlo non era parte del piano: l’ho fatto perché tutto era incerto e lui era una certezza. Se solo avessi potuto parlargli apertamente, è con lui che avrei voluto concordare un piano, è a lui che avrei riferito tutti i dettagli, è a lui che avrei rivelato con chi abbiamo a che fare e cosa dobbiamo temere. È a lui che avrei chiesto consiglio…

Ma non mi era permesso, così gli ho lasciato un messaggio in codice. Miseria, un messaggio in codice! Come mi sono ridotto a parlare? Sono entrato fin troppo bene nel ruolo della spia.

Maledizione.

Che senso ha mandare un “messaggio in codice” ad una persona che non conosce la chiave di decifrazione di quel codice?

È impossibile che Endeavor capisca il mio messaggio.

...

Endeavor, ti prego, capisci il mio messaggio!

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Fuori dall’ombra ***


La visita a sorpresa di Hawks mi ha lasciato di pessimo umore.

Possibile che tutti facciano del loro meglio per costringermi ad indovinare cosa gli passa per la testa? Ora ci si mette persino lui. Come se non bastasse mio figlio.

Mio figlio, che fatica!

Solo l’anno scorso ero io a desiderare di poter seguire i suoi progressi (e lui mi rivolgeva a stento la parola), mentre, adesso che posso farlo, il solo gestire la sua presenza qui mi causa uno sforzo che va oltre lo sprigionare fiamme. Sento una profonda stanchezza nella mente e nei pensieri, perché non mi capisco e non mi riconosco.

È cambiato qualcosa in me? Certamente.

Ha cominciato a cambiare piano, senza che osassi riconoscerlo, nel momento in cui ho visto Shoto per la prima volta usare il potere che ha ereditato da me, quando l’ho visto uscire dalla mia ombra: quando la rabbia nei miei confronti si è trasformata in indipendenza, ed io ho iniziato a sentirmi meno pesante perché lui ha cominciato a scrollarsi la mia presenza dalla schiena.

Ha continuato a cambiare quando all’improvviso, e non per mio merito, mi sono trovato nel ruolo che ho sempre desiderato avere, quello del numero uno - e non è stato un trionfo, è stata una sostituzione: quando ho capito che vivere nell’ombra di un altro forse era più facile, che l’ambizione è una grande forza se la si rivolge contro qualcuno, ma che lasciata a se stessa è solo un ghigno crudele nel tuo specchio. Che quando la rabbia si sgonfia rischia di spalancare voragini, e dentro quelle voragini vedi te stesso e quello che hai fatto di te, e degli altri.

E poi, all’improvviso, mi sono trovato a guardare la morte in faccia, e dalle ferite di quello scontro è riuscito a passare un solo pensiero: che ho perso un figlio, ma che forse posso ancora fare in modo che gli altri tre si sbarazzino del mio peso. Che insieme al mio sangue, da quelle ferite può scivolare via anche l’ossessione della perfezione. Che i miei figli possono ancora riuscire a lasciarmi andare, a lasciarmi, un poco per volta, sparire. La cicatrice che taglia in due il mio viso è una cicatrice che sono felice di portare.

 

***

 

Ho detto a Shoto che avrei voluto allenare solo lui.

Mentivo.

La presenza dei suoi compagni di classe mi dà sollievo.

Midorya Izuku e Katzuki Bakugo sono due adolescenti esattamente come ci si aspetta che due adolescenti debbano essere: il primo entusiasta, volenteroso, educato, il secondo irruente, aggressivo, con un’ambizione prorompente che però è solo sfida: semplice e comprensibilissimo desiderio di rivaleggiare.

Mio figlio non è così: lui non è né semplice né comprensibile. Mio figlio è come la superficie immobile di un lago… ciò che c’è sotto – se c’è - non si vede. La sua pacatezza non è calma: è come se tutte le emozioni più forti, quelle che nei ragazzi della sua età diventano tempesta, fossero rimaste addormentate. Ed io lo so che la colpa è mia.

Hawks è l’esatto contrario: con lui tutto sembra diventare improvvisamente facile. Lui dice ciò che pensa senza preoccuparsi delle conseguenze, punzecchia, scherza… non è il tipo che prova gusto nello sfidare gli altri a comprendere i suoi sentimenti. È tremendamente irritante, ma non posso nascondere di essermi trovato a trarre beneficio dalla sua leggerezza. Hawks non si diverte a mettere gli altri in difficoltà, al massimo provoca, ma non gioca a rimpiattino: alla fine ti sbatte la verità in faccia. Credo che lavorare in team con lui potrebbe persino piacermi.

Che gli è preso, accidenti?

Dove è finito il ragazzetto col sorriso sfacciato?

C’è qualcosa che avrei dovuto capire ed invece mi è sfuggito?

Non sono un maestro nel leggere le intenzioni, se lo fossi stato forse avrei commesso meno sbagli nella vita, ed ha ragione lui: non sono bravo nemmeno a relazionarmi con la gente, avrei bisogno di un traduttore simultaneo che decodifichi per me le aspettative altrui.

Ma ci sono dettagli che, quando sei un eroe professionista da tutta la vita, non possono sfuggirti, come la prossemica di un uomo che teme di essere osservato o minacciato: la tensione palpabile di chi sta all’erta.

...

Hawks, di cosa hai paura?

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Rischiare il dolore degli altri ***


Mi fido solo di Endeavor, è così. Inutile girarci intorno. Dovrei fidarmi della Commissione di pubblica sicurezza, gli devo la mia posizione e molto altro, ma è proprio avendo avuto a che fare con loro per tutta la vita che ho imparato l’arte della diffidenza. D’altra parte è la mia stessa diffidenza che mi rende l’uomo ideale per questa missione, missione da cui uscirò (uscirò?) più diffidente che mai: un cane che si morde la coda, all’infinito.

Loro invece si fidano di me, sanno che farò le cose per bene, un lavoro pulito in cui sarò l’unico a sporcarsi le mani: un lavoro eccellente come tutti quelli che ho portato a termine, tranne un errore non preventivato, che loro mi hanno già perdonato e che io non mi perdono.

Il mio errore è la cicatrice sul viso di Endeavor.

Volevo evitare conseguenze sui civili e solo la sua presenza poteva garantirmelo, ma non mi aspettavo di trovarmi davanti un noumu come quello… e soprattutto sono un fottutissimo egoista, perché mentre a mente lucida pensavo che grazie ad Endeavor non ci sarebbero state vittime, dentro di me sapevo che mi stavo nascondendo dietro la sua schiena: mi stavo proteggendo dai miei stessi sensi di colpa se qualcosa fosse andato storto.

Quando l’ho soccorso, conciato in quel modo, mi sono sentito uno schifo, e invece lui ha fatto una cosa che mi ha spiazzato: ha risposto alla mia battuta sulla posa di All Might. “Il braccio è diverso” ha detto “lui usa il sinistro”… E, beh, è difficile definire come ci si sente in quei momenti in cui vorresti essere soltanto grato e invece ti senti distrutto, svuotato dentro, una cicca di sigaretta schiacciata sul marciapiede, l’ultimo negli stronzi… Avrei voluto dire mille cose (domandargli, persino, se aveva idea di chi fossi, se aveva idea di cosa lui rappresentasse per me) e invece ho detto Scusami. Che era la parola più fuori posto in quel momento ma era – anche – la verità.

 

***

 

Sono stato a trovare Endeavor in ospedale ogni giorno, dopo la battaglia, per tutto il tempo che è rimasto incosciente.

Lui non lo sa né desidero lo sappia (le vulnerabilità personali è meglio tenersele per sé).

Lo sa suo figlio, però.

Non avevo mai incontrato di persona Shoto Todoroki e incontrare una persona in ospedale non è come incontrarla in un bar: in ospedale le persone acquistano una specie di dolcezza arresa, sembrano tutte più avvicinabili, più solidali tra loro.

L’ho incrociato la prima volta poche ore dopo la battaglia: io aspettavo notizie, lui era venuto a chiederne. Solo, composto e serio: un ragazzino di sedici anni con il viso da adulto. Mi ha riconosciuto e salutato prima lui, educatamente, come se si stesse rivolgendo ad una figura di autorità e non ad un tizio di appena sei anni più di lui, sudicio e sanguinante, con le ossa tutte rotte e un paio di ali spennate sulla schiena.

“Sei Shoto, giusto?”

Domanda retorica, per attaccare bottone.

Lui ha annuito, senza aggiungere altro, e si è seduto accanto a me, ma lasciando una sedia vuota in mezzo.

“Studi alla Yuei con Tokoyami. Mi ha raccontato un sacco di cose di voi…”

Al sentire il nome del suo compagno di classe, ha abbozzato un debole sorriso.

“Tokoyami è davvero un ragazzo in gamba… ha fatto tirocinio alla mia agenzia…”

Parlavo tanto per parlare, come faccio spesso. Parlavo per riempire il disagio che provavo nel trovarmi di fronte il figlio dell’uomo che si era ferito gravemente per colpa mia.

Invece lui ha detto: “Grazie di aver combattuto a suo fianco” e poi, senza alterare affatto quella sua espressione distante e un po’ triste “Siete stati fantastici”.

Fantastici un accidente. Endeavor è stato fantastico, io ho al massimo cercato di mettere una pezza sul casino che ho creato.

Butto là la frase più fatta che mi arriva alle labbra.

“Andrà tutto bene.”

No che non va bene.

Non ci pensiamo mai che gli eroi abbiano dei figli, una famiglia. E gli eroi stessi non pensano mai che, quando rischiano, non rischiano da soli: quando si sfida la morte per mestiere, si rischia – sempre - anche il dolore degli altri. Anche le perdite degli altri.

Ricordo di aver formulato questo pensiero con chiarezza mentre guardavo Shoto Todoroki fissare la porta da cui avrebbe dovuto uscire un medico con una buona o cattiva notizia, e ricordo di essermi detto che quello – quello sì – era un ottimo motivo perché la Commissione di sicurezza avesse affidato quell’incarico proprio a me.

Io non coinvolgevo nessuno: io non stavo mettendo a rischio nessun dolore altrui. Nella peggiore delle ipotesi avrei fatto versare due lacrimucce a qualche ragazzina in preda a infatuazioni adolescenziali. Almeno da questo tipo di sensi di colpa ero libero.

“Hawks, tu lavori spesso con Endeavor?”

Lo chiama col suo nome da eroe. Ammirazione o lontananza?

“No. È stata la prima volta che abbiamo combattuto insieme.”

“Lo immaginavo. Endeavor non è il tipo di persona che ama collaborare.”

“Non è vero. Semplicemente non si fida del fatto che gli altri sappiano fare bene il loro lavoro. Ma io intendo dimostrarglielo.”

Era la verità.

E lo farò, se le cose non finiscono in un disastro. Lo farò.

“Posso chiederti… un favore?”

Sempre la stessa espressione vacua, accentuata dalla discromia dei suoi occhi: ma nella sua voce sento passare un’emozione. Reticenza? Imbarazzo?

“Puoi… non dire a… mio padre” (e pronuncia queste parole quasi con fatica) “che mi hai incontrato qui?”

“Pensi che non gli farebbe piacere?”

Non ho avuto risposta, perché è stato allora che il dottore ci ha interrotti.

Ci ha dato notizie tutto sommato incoraggianti, sufficienti a farci dormire tranquilli.

Poi si è rivolto a me dicendo che anche io avrei avuto bisogno di cure, ed io ho potuto rimettermi addosso la maschera dell’eroe sfrontato che risponde che sta benissimo e si è fatto solo due graffi.

Solito teatrino per idioti.

Che mi ha dato sollievo, però.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** "Scusami"? ***


Ci ho pensato e ripensato, mentre ero in ospedale.

A Hawks.

A Dabi.

A Hawks che si mette in mezzo e dice “Riposa, ci penso io”.

A Dabi che afferma di voler parlare con me. Che sparisce in quella specie di melma nera dicendo qualcosa del tipo “vedi di non morire”. Che mi chiama per nome.

I miei ricordi sono abbastanza lucidi, nonostante non riuscissi più a muovere un muscolo e il sangue negli occhi mi appannasse la vista.

Ma c’è una cosa a cui non avevo dato peso e mi torna in mente solo ora: ora che ho decifrato il messaggio in codice destinato a me riguardo alla minaccia rappresentata dall’Armata di liberazione dei superpoteri.

Subito dopo la fine della battaglia, ad un tratto Hawks mi ha chiesto scusa.

Perché avrebbe dovuto scusarsi? Eravamo stati attaccati, mi ha offerto tutto il supporto che poteva darmi, ha rischiato anche lui… Ci potevano essere mille parole da dire in quel momento. Tranne “scusami”.

Cerco di rimettere a fuoco quel momento.

Mi stava sostenendo, faceva battute sulla posizione del mio braccio, aveva quel solito sorrisetto da schiaffi… Ma “scusami” lo ha detto senza sorridere affatto.

Mi sono sfuggiti dei pezzi, ora ne sono sicuro.

Hawks non è diventato strano all’improvviso: teneva qualcosa nascosto già prima, già quando ci siamo incontrati per il suo stramaledetto “team up”… Mi ha parlato dei noumu, e proprio in quel momento il noumu ci ha attaccato…

E la nostra conversazione quando sono uscito dall’ospedale?

“L’eroe numero uno e numero due che passeggiano insieme è ovvio che attirino l’attenzione”, hai detto. Accidenti a te: ti eri preparato le battute, vero? Avevi già previsto che avrei sospettato e ti eri fatto notare apposta per potermi rispondere così.

Erano tentativi di mettermi al corrente di qualcosa che non potevi dirmi.

Erano tutti messaggi in codice, ben prima di questo stupido libro.

Avrei dovuto capire subito, ma ero troppo preso da me stesso. Come sempre. Ero concentrato sull’immagine che avrei dovuto offrire all’opinione pubblica adesso che per il mondo sono il numero uno, ed ero diffidente nei confronti di Hawks per il modo in cui si era posto, per il suo atteggiamento di perenne sfida: pensavo che volesse servirsi di me per accrescere la sua popolarità, per far vedere in giro quanto fosse socialmente più abile di me.

Ho interpretato il suo comportamento con il filtro del mio eterno egocentrismo: cosa avrebbe fatto Endeavor nei confronti di All Might? Endeavor, l’eterno secondo, nei confronti del simbolo della pace? Avrebbe cercato di dimostrare di valere più di lui, avrebbe sfruttato ogni occasione di confronto, avrebbe attizzato il fuoco della rivalità.

Ma Hawks no. A lui non importa assolutamente niente di superarmi, al contrario: quello che cercava di fare era appoggiarsi a me - e c’era qualche ragione per cui non avrebbe dovuto farlo.

“Scusami” hai detto.

Scusami, perché quel giorno sapevi in anticipo che saremmo stati attaccati e non avevi preventivato le conseguenze.

Scusami, perché mi stavi coinvolgendo in qualcosa in cui sapevi di non dovermi coinvolgere.

Beh, scusami tu, ragazzo, per non aver capito un accidente.

Ma adesso qualcuno me lo spiegherà, quello che non ho capito: sono l’eroe numero uno, dannazione, e se non ho diritto io di essere a parte di questi giochetti, chi ne ha?

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** A proposito di Villain ***


Ultimamente passo troppo tempo qui ed ogni volta che mi allontano vengo sommerso di domande: la mia fama di faccia tosta non regge, l’esigenza di sgranchirsi le ali nemmeno, non funzionano più neppure le battute sul caffè cattivo, è chiaro che, in qualche modo, anche loro stanno sul chi va là.

Anche comunicare con la Commissione di Pubblica Sicurezza degli Eroi è un rischio che cerco il più possibile di evitare: lo correrò solo quando avrò svelato il mistero che sta dietro la parola “ospedale” e scoperto chi è la mente che progetta i noumu.

Perché c’è qualcun altro dietro le quinte, è evidente: Re-destro e Shigaraki non sono i soli burattinai di questo maledetto teatrino.

Intanto passo troppo del mio tempo in questo quartier generale perso in mezzo al niente e mi sento intrappolato: vivo nello sforzo continuo di mantenere la maschera giusta, guadagnarmi sprazzi di fiducia che possano darmi accesso ad informazioni altrimenti precluse, osservare dettagli che mi consentano di avere le idee chiare almeno su chi sono e cosa desiderano le persone che mi stanno attorno.

Comprenderne i desideri è la via d’accesso più diretta per prevedere come il nemico agirà e per mia fortuna alla guida del Fronte non c’è una sola mente, ma, al di là del simbolo che Tomura Shigaraki rappresenta, ce ne sono molte. Ho bisogno di entrare nelle loro teste: ho bisogno di capire come si comporteranno sotto pressione, che priorità daranno, a chi si manterranno fedeli, quali sono i legami che con un po’ di astuzia si possono spezzare.

Spezzare dei legami, che brutta espressione. Ma divide et impera, no? E dunque osservo e studio.

È estenuante.

Troppe volte vorrei avere anche una sola persona con cui parlare, una con cui togliere la maschera. Ma c’è mai stato qualcuno con cui l’abbia fatto? Uno che conosca me, a cui abbia detto il mio nome, uno solo che abbia capito che anche io, in realtà, non salvo le persone con il sorriso?

Un eroe non è mai davvero onesto: ci nascondiamo dietro i nostri costumi, i nostri soprannomi, le frasi fatte, gli slogan, perché la gente ci guardi e si senta tranquilla.

E nemmeno solo per questo.

Lo facciamo perché ci piace essere osannati.

D’altro canto, alla gente piace osannare, perché è più comodo pensare che quando non sai allacciarti le scarpe da solo ci sarà un altro che lo farà per te.

Popolarità da un lato e deresponsabilizzazione dall’altro: giocare a fare il mito da un lato e vivere di miti dall’altro.

Un sistema distorto ma funzionante, che ci siamo costruiti da soli.

Il fronte di liberazione vuole distruggere questo sistema, ma ne è schiavo più degli altri.

Re-destro in primis: è cresciuto nel mito del padre, è ricco da fare schifo ma non sa godersi nulla di ciò che ha… Vorrebbe fare qualcosa di clamoroso per scolpire il nome di Destro (o il proprio?) nella storia, ha fatto dello stress il proprio punto di forza. Che vita di merda, francamente.

Poi c’è quel fantoccio di Trumpet. Anche dietro al suo ideale c’è soltanto il desiderio di sentire il suono degli applausi di una folla in delirio. Disprezza la società fondata sul prestigio degli eroi solo perché si è trovato dalla parte sbagliata: altro che diritti civili e desiderio di autodeterminazione!

Se non fosse per le risorse di cui dispongono non mi preoccuperebbero troppo: a guardarli singolarmente, sono molto prevedibili.

Ma in questa prevedibilità si inserisce il mio buco nero: Tomura Shigaraki.

Cosa vuole lui?

Quando l’ho visto seduto su quella specie di trono per proclamare la nascita dell’Unione per la Liberazione del Paranormale sotto gli occhi esaltati di uno sconfitto e adorante Re-destro, la sensazione che ho percepito è stata terribilmente chiara: stava anche lui recitando. E stava ridendo di noi. Di tutti noi lì, di tutti gli imbecilli che credevano davvero alle sue parole, di tutti i creduloni del mondo, di tutti gli eroi che dormono tranquilli nella loro calda e autocompiacente reputazione. Del mondo, nella sua interezza.

Ho detto che per prevedere come un uomo agirà è necessario capire i suoi desideri, ma lui non ha desideri. Forse non è in grado di formulare un solo desiderio che sconfini nel futuro di oltre cinque minuti, perché, quando desideri, vuoi qualcosa per te, ed hai qualcosa da perdere.

Tomura Shigaraki non vuole niente per sé e non ha assolutamente nulla da perdere.

Ciò che sento quando lo guardo è distruzione allo stato puro. Rabbia, anche, ma non precisamente: una rabbia arrivata ad uno stadio non più umanamente comprensibile. Una rabbia che trova pace solo nell’annullamento. Un buco nero, appunto.

E di Dabi vogliamo parlare?

Dabi è un mistero che cammina. È un po’ come… Beh, come se fosse già morto ma non riuscisse a morire davvero. È stata la persona con cui sono stato più in contatto fino ad ora ma è anche il solo che è riuscito a tenermi ad una distanza tale da non aver potuto cogliere nulla di lui. So che è un atteggiamento studiato, un deliberato sforzo per celarsi agli altri: finge come sto fingendo io, insomma. Ma è più bravo. Lo fa più in grande. Forse sta facendo da tutta una vita quello che io faccio da appena qualche mese (e già ne sono stremato).

Nonostante sia arrivato qui grazie a lui, nonostante sia riuscito ad avvicinarlo e ingannarlo, Dabi è l’uomo da cui sento di dovermi guardare maggiormente le spalle.

So che non ha mai smesso di prendermi le misure: ha sempre un occhio su di me, me ne accorgo. Non ho la sua piena fiducia, non l’ho mai avuta, anzi, a volte temo persino che possa essere lui a star ingannando me.

Ah, dannazione quanto odio questo posto e quanto odio questi pensieri che mi si attorcigliano nel cervello. In questo momento vorrei proprio uscire a fare un volo.

Mi ci vorrebbe un pretesto.

Una bella emergenza, ad esempio, a cui l’eroe numero due non può sottrarsi per non rischiare di perdere la sua copertura.

Nah, che razza di egoista che sono.

Ma devo almeno mettere aria nella testa.

 

***

 

“Dove vai?”

Ecco, come volevasi dimostrare.

Non c’è più modo di andare in giro in santa pace, hanno serrato i ranghi: spero di non essermi tradito in qualche modo, sarebbe un bel guaio trovarsi scoperto prima che la Commissione abbia organizzato la controffensiva. Dubito ne uscirei vivo.

Non ho mai pensato veramente all’idea di morire, e non so se questo sia un bene o un male. Un eroe non dovrebbe temere la morte quando si getta nel pericolo per salvare gli altri, però… un eroe che non dà valore alla sua vita come può davvero trasmettere sicurezza agli altri? A volte mi chiedo quanto valore attribuisco alla vita degli altri. E quanto alla mia. Desidero proteggere le persone, ma sono poche quelle che amo davvero avere vicino. Mi piace mangiare, avere tempo, osservare il mondo dall’alto, insegnare qualcosa di bello a ragazzini gentili come Tokoyami, ma a volte odio tutto, me compreso: odio ciò che appaio, ciò che gli altri mi chiedono di essere, il mio passato e le sue conseguenze. E la rabbia distruttiva che emana dai membri dell’unione dei villain allora forse un poco la capisco. Solo che detesto provarla.

Mentre mi perdo in questi pensieri, la domanda di Dabi è ancora lì, sospesa nell’aria.

Dove vado.

Non lo so, sai? Non lo so.

“Da nessuna parte.” rispondo, sfoderando il mio sorriso migliore “Vedi che non ho nemmeno sbattuto le ali? Se continuo così resteranno atrofizzate, ohi ohi!”

E le distendo lateralmente, colpendolo, con falsa distrazione, quasi in faccia.

“Se ti piace scherzare, trova qualcun altro. È pieno di idioti qua dentro.”

Lo dice con franchezza, anche se dal suo viso non traspare (non succede mai) nessuna forma di espressione.

“Che meraviglia sentirlo da te!”

Ironizzo, esagero, ma tutto sommato sono sincero anche io. L’intelligenza non abbonda qua dentro: c’è qualche bella testa, è indubbio – una di esse mi sta parlando ora - ma anche diversi cervelli cariati. Del resto i rivoltosi di professione spesso basano il proprio potere proprio sulla manipolazione di tante menti piccole - e, ideali o non ideali - nessuno di loro può sfuggire all’appellativo di manipolatore.

Mi faccio più cupo.

“Seriamente, Dabi… Dove stiamo andando? Una volta che avremo rovesciato il sistema, pensi che possiamo continuare a contare sui seguaci di Re-destro per costruire qualcosa?”

“Da quando dobbiamo costruire qualcosa?”

Non capisco se è una domanda retorica o se sta solo ricambiando ironia con ironia.

“Beh, quando si diventa leader di una rivoluzione, lo si fa per rovesciare il vecchio e metterci il nuovo… altrimenti non è una rivoluzione, è solo una rivolta passeggera.”

“Io non sono leader di niente.”

“Shigaraki sì.”

Abbozza un sorriso con un lato della bocca: c’è qualcosa di terribilmente gelido nel modo in cui lo fa.

“Shigaraki non costruisce. Sta lì la sua grandezza. Tutti coloro che hanno la presunzione di costruire prima o poi crollano insieme alle loro stupide torri di sabbia. I tuoi colleghi - anche quelli che bazzicano qui credendo di fare chissà cosa - si sentono al sicuro ciascuno in cima alla propria torretta da due soldi. Tomura è l’onda che li spazzerà via, e sarà un piacere assoluto assistere allo spettacolo.”

“Lo ammiri molto?”

A questo punto sono curioso: è la prima volta che mi pare di cogliere in lui qualcosa che potrebbe essere personale.

“L’ammirazione è un sentimento fuorviante. Gli sono leale.”

C’è disprezzo nel modo in cui pronuncia la parola “ammirazione”. Cerco di sbirciare in quella piccola crepa, insisto.

“Gli sei affezionato?”

Sembra strano, ma mi sono trovato più volte a pensarlo. L’unione dei villain non sembra reggersi solo su legami di fedeltà o reciproco tornaconto; per quanto io non possa approvarli, a volte li vedo prodigarsi in forme di cura reciproca che mi sorprendono: il modo in cui si sono occupati della ragazza ferita, l’entusiasmo per il trionfo del loro capo, che sembrava più sincera contentezza che cieca adulazione…

Dabi non risponde: mi fissa negli occhi e ora sembra che sia lui a cercare di leggere qualcosa dentro di me.

“Perché hai portato ad Endeavor il libro di Destro?”

È una domanda, ma non c’è davvero il punto di domanda. È un’inquisizione, una sentenza. Perché me lo chiede adesso? Cosa sa? Valuto velocemente il pericolo e se sarei in grado di scontrarmi con lui. Immagino di sì. Ma poi.

Ma poi.

No, devo essere solido. Mi ha condotto qui. Gli servo. Non devo – non devo – tradirmi. E per non tradirsi si deve essere disposti ad allentare la corda: le menzogne sono troppo facili da leggere, le mezze verità invece creano confusione e guadagnano tempo. È di tempo che ho bisogno.

“Mi sarebbe piaciuto coinvolgerlo nella causa.” dico “È il migliore degli eroi. Lo ammiro.”

Dabi non toglie gli occhi dai miei nemmeno per un attimo: una sfida a chi li abbassa per primo. Gli tengo testa, non deve capire che dentro di me sto tremando.

D’un tratto scrolla il capo, mi dà le spalle, non capisco se stia ridendo di me.

L’ammirazione è un sentimento fuorviante”.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** L’uomo che non sapeva rassicurare ***


Non dovevo avere un’aria rassicurante quando sono entrato alla sede della Commissione per la Sicurezza degli Eroi.

Forse non ce l’ho mai, l’aria rassicurante.

Non che questo mi pesi sempre (oggi non mi è pesato affatto): mi pesa quando provo a impegnarmi perché non sia così, e non mi riesce. Ma quando ti alleni tutta la vita per mostrarti in un certo modo, e alla fine ce la fai, poi non puoi pretendere di riavvolgere il nastro ed essere diverso, è il prezzo che sapevi in anticipo, un prezzo giusto, te ne devi fare una ragione.

Mi capita di pensarci tutte le volte che guardo Bakugo: il suo bisogno di gridare al mondo di essere invincibile, immune ad ogni forma di vulnerabilità sentimentale, fa così parte di ogni sua fibra che mi chiedo se, quando è solo davanti allo specchio, riesca ancora a vedere di sé qualcos’altro oltre questo. Immagino di no, e immagino anche che, in questa fase della vita, a lui vada benissimo così. Certi auto-condizionamenti si pagano più tardi.

Quando un figlio te li sbatte in faccia, ed esempio.

Mio figlio Shoto.

Il figlio che è riuscito a mettermi di fronte a quel maledetto specchio, non gridandomi contro, nemmeno cercando di ricostruire qualcosa che non c’era mai stato: solo guardandomi come eroe invece che come padre.

Ma io nello specchio non ci ho visto Endeavor l’eroe, né Endeavor il padre.

Ci ho visto l’altro mio figlio, quello da cui non potrò essere perdonato mai. Quello per cui non potrò più imparare a indossare un’espressione rassicurante, quello per cui non potrò mai – nemmeno – compiere la piccola espiazione voglio compiere per gli altri: uscire dalla loro vita, comprare loro una nuova casa, permettergli di ricostruire una famiglia e una quiete domestica che io sarò ben felice di guardare dall’esterno, senza toccarla rischiando di romperla.

Perché le cose sono andate così?

Lo so.

Non lo so.

È così accecante vivere nell’ombra di un altro, che alla fine non riesci a vedere più te stesso, comprese le cazzate che fai. Ma devo finirla di nascondermi dietro l’alibi dell’eterno secondo: All Might non c’entra un accidente, l’ambizione non c’entra un accidente. Sono solo uno stronzo, prendiamone atto. Lo ero prima che l’invidia mi accecasse e lo sono rimasto dopo. Salvare le persone non è mai stata per me una forma di altruismo, non mi sono mai curato di chi fossero davvero i tanti uomini che nella vita ho protetto e sottratto a pericoli mortali: l’ho sempre fatto solo per il mio appagamento personale, per sentirmi migliore degli altri, ed intanto non vedevo appassire accanto a me i più cari.

Sono andato dalla Commissione perché voglio aprire gli occhi.

Sto imparando ad aprirli e a comprendere le richieste d’aiuto degli altri, e quella di Hawks – ora lo so – era una richiesta d’aiuto.

 

***

 

“Adesso mi spiegherete cosa sta succedendo alle mie spalle” (Quelle dell’eroe Numero Uno, diceva chiaramente la mia espressione) “Mi direte quel che ho diritto di sapere!”

La presidente - donna che per qualche ragione mi ha sempre irritato – ha aggirato subito la richiesta con lunghi giri di parole, rispondendo alla domanda con altre domande e insistendo in modo fastidioso (e sospetto) sul tirocinio dei ragazzi della Yuei alla mia agenzia.

Mi ha ricevuto da sola. Insolito: in genere si muovono in gruppetto compatto, come una specie mostro a più teste. Odio mortalmente i burocrati che tirano le fila senza mettersi in gioco.

“Cosa c’entrano i ragazzi?”

Lei ha fatto uno strano gesto con la mano, come a dire che ne avremmo parlato in altro momento.

Non sopporto il modo che ha questa gente di comportarsi come se avesse tutto il tempo del mondo ma mettendo fretta agli altri. E questo sentivo in quel momento: fretta che io me ne andassi.

Quindi sono andato subito al sodo.

“Che razza di missione sta svolgendo Hawks?”

Lei ha ostentato una naturalezza palesemente falsa.

“Ha l’incarico di indagare sulla natura dei noumu. Credevo che te ne avesse parlato.”

Lo aveva fatto, in effetti. Peccato fossimo stati interrotti da un attacco di noumu, appunto. Ma non erano i noumu la preoccupazione di Hawks: era l’Armata di liberazione dei superpoteri, gruppo di cui io non sapevo niente e quella donna invece sì. Era chiaro che sì.

Avrei potuto dirle del libro, ma se Hawks aveva dovuto usare un codice con me, forse non voleva che la commissione sapesse che avevamo comunicato. Perciò presi la strada più diretta, quella che nessuno avrebbe trovato sospetta perché così tanto da me: fuoco e fiamme dagli occhi e un pugno sul tavolo.

“Non sopporto non essere considerato da meno del Numero Due! Indagare sui noumu… perché non avrei potuto farlo io?”

Lei ha mostrato un attimo di turbamento ma poi si è tranquillizzata: mi conosceva, tutti mi conoscono. Enderavor che alza sempre la voce, Endeavor con la coda di paglia, Endeavor eterno incazzato.

“Ci servi sul campo: adesso che non c’è più il simbolo della pace devi farti vedere spesso, far sentire costantemente la tua presenza ai cittadini. Non potevamo permetterci di chiederti di fare altro, e quanto a capacità di deduzione, Hawks è il migliore.”

Sì, Hawks è intelligente. Socialmente abile. Bravo a mettere insieme i pezzi.

Ma quella era solo una mezza verità.

Avrei insistito se solo lei non si fosse alzata come per accompagnarmi alla porta e, nel suo indicarmi gentilmente il corridoio, non mi avesse fatto – per le seconda volta - un cenno che voleva chiaramente dire “Ne parliamo più tardi”.

 

***

 

E quindi eccoci qui, in un luogo anonimo, sulla passerella pedonale di una sopraelevata da cui vediamo il traffico scorrere e la città divenire buia.

Lei si guarda continuamente in giro, come ad accertarsi della nostra solitudine. Io, di rimando, faccio lo stesso.

“Non possiamo darti informazioni simili in via ufficiale.” disse “La sede della commissione è piena di microfoni da cui ogni nostra conversazione può essere ascoltata.”

Questa poi! E perché non li avevano rimossi?

“Se ne siete a conoscenza, ci sono eroi capaci di localizzare qualsiasi tipo di dispositivo, eroi in grado di creare interferenze, che diavolo…?”

“Perché chi ci ascolta non deve sapere che sappiamo. Un’eventualità del genere renderebbe la posizione di Hawks estremamente precaria.”

La guardo senza comprendere, in attesa che prosegua.

“È stato Hawks a posizionare i microfoni. È una contropartita che ha dovuto offrire all’unione dei villain per guadagnarsi la loro fiducia. Da parte nostra, noi offriamo loro qualche informazione di scarso rilievo per tenere in piedi la copertura, ed evitiamo di sbottonarci su piani che non devono essere conosciuti dal nemico.”

Annuisco, stavolta senza collera. Finalmente un po’ di chiarezza.

Ma un istante dopo mi sento assalire da una strana sensazione, una sensazione cattiva, come un brutto presentimento.

“Dov’è Hawks adesso?”

“Al loro quartier generale. Attualmente, è a pieno titolo un membro dell’Unione per la liberazione del paranormale. Non possiamo metterci in contatto con lui: le sue conversazioni sono sorvegliate. È lui che contatta noi, nei modi e nei tempi che gli sono possibili, e che ritiene sicuri.”

 

Certo. L’unico piano utile per scoprire chi produceva i noumu era guadagnarsi la fiducia di chi lo sapeva. Ma poi, nel corso della sua indagine, Hawks aveva scoperto altro: l’esistenza di un movimento pericoloso e ampiamente finanziato da aziende del calibro della Detnerat che intendeva rovesciare l’ordinamento sociale con un’azione di forza, e soprattutto la presenza, al suo interno, di un elevatissimo numero di eroi conniventi.

Per questo non poteva fidarsi di nessuno, non poteva comunicare con altri eroi, e doveva contare solo su se stesso: perché non sapeva chi, tra gli eroi, fosse o meno un traditore.

Però si era fidato di me.

Per qualche ragione che mi era ignota, era stato fin dall’inizio assolutamente certo che io non fossi coinvolto.

Per un breve istante mi scoprii a desiderare di chiedergli il perché. A voler sapere come mai, nonostante la mia incapacità di essere rassicurante, proprio di me si sentisse sicuro.

Ma un altro pensiero, più urgente, si sovrappose a quello.

“Come faremo ad avvertirlo? Se attacchiamo a sorpresa, Hawks si troverà al centro del pericolo. La copertura salterà… ”

“O non salterà se riuscirà a far cadere i sospetti su altri. È bravo in queste cose.”

“Ma se non ci riesce, abbiamo un piano per tirarlo fuori di lì?”

La donna mi guardò come se la mia preoccupazione fosse del tutto fuori luogo.

“È l’eroe numero due.”

“Ha ventidue anni!!!”

Perché le fiamme si erano di nuovo fatte vive attorno ai miei occhi, sopra le mie labbra? Perché, d’un tratto, mi ero trovato a guardare un collega, un eroe, una persona con cui avevo combattuto fianco a fianco come, semplicemente, ciò che era al di là di tutto questo, ovvero un ragazzo?

Appena un ragazzo.

Con appena un anno di meno di quelli che avrebbe avuto lui.

Il figlio che avevo perso.

Il mio Touya.

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Team up ***


Premessa dell’autrice

 

Avrei voluto scrivere un capitolo finale in cui mettere faccia a faccia i due protagonisti di questa fic ma, dopo aver letto i volumi del manga fino al 31, mi è parso proprio inopportuno. Così ho deciso di chiudere sull’inizio della battaglia, coi pensieri dei personaggi in parallelo.

Grazie a tutti quelli che mi hanno seguita fin qui.

 

****

Hawks

 

Ho un pupazzo di Endeavor sul comodino, a casa.

Ha ormai quindici anni di vita, o più.

È l’unico oggetto che fa di quella casa la mia casa.

Per il resto è solo l’edificio in cui passo la piccola parte del tempo che non dedico al lavoro.

Per il resto, è la casa che l’agenzia per la sicurezza mi ha dato.

Quel pupazzo mi manca. Vederlo mi ricorda che, nel mio non essere un uomo libero, in realtà c’è un nocciolo di profonda libertà: volevo diventare come lui.

È una frase che ho detto io, quando l’agenzia mi ha reclutato, ha cancellato il mio nome, il mio passato, e mi ha reso quello che sono adesso. Certo, ero solo un bambino alienato e confuso, ma quel desiderio lo provavo davvero, me lo ricordo con una chiarezza confortante.

Dabi mi ha detto che l’ammirazione è un sentimento fuorviante, e forse ha ragione. È per ammirazione, in fondo, che Re-destro vuole gettare una società intera nel caos. Ma io ho bisogno di ammirare, perché solo così riesco a rimanere saldo in ciò che faccio: riesco a ingannare, manipolare, fare il lavoro sporco solo pensando che in questo modo coloro che ammiro potranno rimanere puliti.

Al mio segnale l’attacco inizierà, e molti si sentiranno traditi.

Ci sono anche delle brave persone, qui.

Il giusto e lo sbagliato non stanno mai da una parte sola.

Che peccato.

 

Endeavor

 

“Tra tutti gli ospedali che ci sono, è stato lui a capire che era quello di Jaku, vero? Dov’è adesso, e che sta facendo?”

Quella specie di galoppino della commissione di sicurezza mi risponde, con fare da finto tonto: “Diciamo che è un’informazione confidenziale”.

Al diavolo.

So benissimo come stanno le cose. Sto benissimo che mentre qui, noi, assaltiamo il luogo in cui vengono creati i noumu, un ragazzo che potrebbe essere mio figlio si trova da solo in mezzo ai nemici ad aspettare l’arrivo degli heroes.

 

Hawks

 

Ho paura.

Paura di come andrà, ma, soprattutto, paura di dover fare del male.

Perché dovrò fare del male. Perché la regola del non poter uccidere nessuno non vale per me. Perché io non posso essere uno hero come il number one.

E però. Però mi sento sicuro. Sicuro di non essere abbandonato, sicuro che Endeavor farà esattamente ciò che va fatto, e che anche i ragazzini lo faranno.

A volte, quando li osservo, li invidio un po’. Mi piacerebbe essere stato un po’ più come loro: fiduciosi, coraggiosi, puliti.

...

Come quando, da bambino, mi chiedevo: “Riuscirò anch’io a illuminare gli altri?”

 

Endeavor

 

E in ogni caso metterò a frutto il tuo lavoro, Hawks. Ho preparato i ragazzi a questo. Puoi contare su di loro. Puoi contare su di me.

Noi sei mai stato solo.

Neanche io lo sono.

Saremo un buon team, anche stavolta.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4014045