Buck

di jakefan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Buck ***
Capitolo 2: *** Pancake a colazione ***
Capitolo 3: *** (Cheer?)leader ***
Capitolo 4: *** L'ultima estate ***
Capitolo 5: *** Rivkah ***
Capitolo 6: *** Un sacco d'ossa cucito male ***
Capitolo 7: *** Se fissi il telefono non suonerà mai ***
Capitolo 8: *** Prendi il numero e mettiti in fila ***
Capitolo 9: *** Cheryl, o forse no ***
Capitolo 10: *** I went in the woods ***
Capitolo 11: *** Tutto è bene quel che... Ehm, no ***



Capitolo 1
*** Buck ***


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Il racconto "Buck" è diventato un romanzo completo.
Lo trovate qui, in ebook,
ma se preferite la carta c'è anche quella.
Un bacione!




«E io sono Raksha, la Diavola, che ti risponde.

Il Cucciolo d’Uomo è mio, Lungri, e non sarà ucciso.

Vivrà e caccerà col Branco e stai attento,

cacciatore di cuccioli nudi,

mangiatore di ranocchi, ammazzapesci,

perché alla fine egli darà la caccia anche a te.

Adesso vattene, bestia bruciata della Giungla,

altrimenti per il cervo che ho ucciso

— io non mangio le bestie morte di fame —

tornerai da tua madre più zoppo

di quando venisti al mondo!»

Rudyard Kipling, Il Libro della Jungla

I fratelli di Mowgli


1.

Era caduta la neve durante la notte.

L’alba era ancora solo un pallido annuncio nel cielo dell’est, e una luna tardiva tramontava dietro la Cresta dell’Orso. Tutto, là fuori, era blu scuro e silenzioso e freddo.
Avvolta nella sua coperta preferita, la donna accanto alla finestra cercava i primi segni del sole che ritornava. Sarebbe stato un giorno limpido e senza vento, un giorno perfetto per la caccia.

Purtroppo.

– Non abbiamo bisogno della carne di quel cervo.

– E dai, moglie. Me lo dici ogni volta.

– Non serve a niente, a quanto pare.
Neena dal sangue nativo, figlia e nipote di sciamani, avrebbe tenuto il muso agli uomini per tutto il giorno; sia che i due tornassero umiliati a mani vuote, sia — a maggior ragione — che comparissero trascinando la carcassa dalle corna gloriose. Avrebbe pianto per il cervo, si sarebbe graffiata le braccia per lui. Si sarebbe rifiutata di vederlo e toccarlo; cucinarlo, poi, nemmeno a parlarne. La sera avrebbe spedito Isaias a dormire sul divano e non l’avrebbe svegliato, il giorno dopo, con il profumo del caffè caldo. Al figlio, invece, che in quel momento caricava il Weatherby, avrebbe perdonato tutto molto velocemente. Come al solito.

Isaias osservava le mani abili del ragazzo, le sue mosse già sapienti.

– Ah-ha, figlio. Solo due pallottole.

– Una per la caccia, una per difenderci, no? Lo dici sempre.

– Appunto: due. Una tu, una io.

– Due tu, due io. Se succedesse qualcosa? Se fossimo divisi?

L’occhiata feroce di Neena costrinse Isaias ad accettare. La foresta d’inverno non era un parco giochi.

– D’accordo, due a testa. Ma una sola in canna. E se sbagliamo…
– …torniamo a mani vuote, lo so. Come al solito.

– Non è vero. L’anno scorso ne abbiamo preso uno.
La canna del Weatherby Magnum 257 scintillava, lucida e pulita, pronta per sua la prima caccia. Il ragazzo sbuffò. Chiuse la giubba e alzò il bavero attorno al collo, poi si chinò per legare il fucile allo zaino. L’aveva strofinato con olio la sera prima, anche se l’arma era nuova di zecca.
Era il regalo per il suo sedicesimo compleanno.
Il guardacaccia si chinò per baciare la moglie, ma lei girò il viso dall’altra parte.

– Non capisco il senso.

– Perché non sei un cacciatore.
Le dita nervose tra i fili ribelli della treccia, Neena rimase dietro la finestra, a guardarli mentre si allontanavano tra gli alberi. I suoi due uomini avevano gambe forti come giovani alberi, ma arrancavano nella neve appena caduta. Le racchette li avrebbero aiutati, certo, ma sarebbero comunque tornati da lei esausti.
Avrebbe preparato un bagno caldo per il suo ragazzo. Quanto a Isaias il guardacaccia, l’uomo che aveva scelto perché amava i boschi quanto lei, gli avrebbe fatto trovare cuscino e coperta già pronti sul divano. L’avrebbe perdonato solo la notte successiva, nel loro letto. Come ogni volta.

Sotto gli alberi la neve era più bassa. Il padre stabilì che sarebbero avanzati meglio senza racchette, così si fermarono per toglierle. Il figlio legò le sue allo zaino, accanto al fucile, e slacciò il primo bottone della giubba. I capelli neri, corti sulla nuca, erano umidi di sudore.
Proseguirono senza parlare, in salita. Il respiro era regolare ma più rapido e frequente; non c’era spazio per le parole, ma non ve n’era la necessità. I due camminavano e il figlio pensava solo ai suoi passi, uno dopo l’altro, al modo in cui gli scarponi lasciavano tracce azzurre sulla neve e ai versi dei corvi nel cielo sopra di loro. Onorato dal peso del Whetherby, il miglior fucile da caccia al mondo, lo zaino era leggero come i suoi pensieri. Più tardi, nel corso della giornata, avrebbero scelto un posto a picco sulla valle, e si sarebbero fermati per mangiare i tramezzini preparati dalla madre.
Il sole saliva con loro.

Presto si sarebbe mostrato oltre la Cresta dell’Orso e i due sarebbero stati pronti. C’era un solo posto da quella parte del parco dove l’acqua non ghiacciava in inverno: là tutti gli abitanti della foresta prima o poi dovevano passare, e là loro due avrebbero aspettato il cervo.
Quando le urla feroci li raggiunsero, un volo di corvi salì come fumo da un’esplosione; il silenzio della foresta invernale andò in frantumi, e le teste nere di padre e figlio scattarono in direzione della lotta.

– Un orso. Resta qui. Colpo in canna.

– È pericoloso. Non dovremmo allontanarci?

– Potrebbe esserci qualche idiota di escursionista, in mezzo.
Isaias tolse lo zaino, slacciò il suo fucile e lo caricò. Quando si avviò, sapeva già che i passi crepitanti dietro di lui erano quelli di un figlio disobbediente che lo seguiva nella caccia.


Arrivarono sottovento e restarono a distanza, ma sulla schiena del figlio scorreva sudore gelato. I capelli gli si rizzarono in testa e il respiro accelerato suo e di suo padre gli ferì le orecchie. Il sangue pulsava forte. Sopraffatto dal terrore, il giovane cacciatore si riparò dietro al tronco di un grosso larice. Il padre lo tenne saldo, una mano sulla spalla, e lo raggiunse dietro al riparo.
Un lupo dal pelo rossiccio, magro e spelacchiato, affrontava un grizzly altrettanto magro, sparuto per la stessa fame e furioso. L’enorme bestia grigia sovrastava l’altra bestia, torreggiava su di lei con la statura spaventosa, ma il lupo piantato sulle quattro zampe non cedeva, non si spostava, non fuggiva la morte imminente. L’orso urlava e soffiava e menava colpi con le unghie affilate, ma il lupo resisteva e latrava e ringhiava più forte; spiccava il balzo puntando – inutilmente – alla gola, ricadeva indietro e intanto la neve si tingeva di rosso.
Il ragazzo impallidì.

– Lo fa a pezzi. Aiutalo. Aiutalo, pa’ – soffiò fra i denti, stretto alla mano del padre.

– Non si interferisce, lo sai.
Ma il ragazzo tremava e il lupo sputò un fiotto di sangue, e il grizzly gridò più forte. Allora Isaias imbracciò il fucile e sparò in alto. L’orso si girò verso di loro, non vide niente ma ricordò il significato di quel tuono troppo vicino; torse la schiena possente e corse via, e in pochi secondi scomparve in mezzo agli alberi.
In terra, incoronato del suo sangue, accanto ai suoi intestini giaceva il lupo rosso.
Gli esseri umani non fiatarono.
Al loro respiro, unica voce nella foresta, si aggiunse il rantolo del lupo agonizzante.

Il braccio di Isaias ancora tratteneva il figlio e il suono della morte si fece debole, ormai solo un sibilo. Un refolo di vento portò loro l’odore fetido degli intestini squarciati. Il ragazzo asciugò gli occhi nella manica della giubba.

– Dobbiamo fare qualcosa. Lo prendiamo, lo portiamo dal veterinario. Lo metto nella mia giubba – e le lacrime scendevano, giù per le guance, dentro al collo della giubba da caccia.

– Non si può. Vieni, non credo sia più in grado di muoversi.
Sporche di sangue e materia del corpo morente, le mammelle gonfie ormai inutili pendevano tristi nella neve. Isaias sospirò. Si chinò sulla lupa ma non osò toccarla; lei emise un ringhio così debole che il guardaparco fece un passo indietro, in onore della morte imminente.

– Possiamo fare una sola cosa, per lei.
– Dobbiamo portarla dal veterinario, giù in città. Dobbiamo andare subito.
Isaias non aveva più colpi nella canna del suo fucile. Una sola pallottola, questo era il patto, e la sua si era dispersa nell’aria.

– Devi farlo tu.

– Co… cosa?

– Devi farlo tu.

– La portiamo dal veterinario!

– Dici che non vuoi studiare. Dici che vuoi fare il mio lavoro, il mio lavoro è anche questo. Prendi il fucile e sparale, figlio. Sta soffrendo.

– No.
Il sibilo si faceva più sottile ma all’improvviso riprese forza e diventò un guaito delicato, e davanti a loro un altro guaito rispose, più debole ma vivo. Gli occhi della lupa si dilatarono e la testa si mosse lieve in direzione del richiamo; la bava rosso sangue lasciò una traccia sulla neve e indicò agli uomini il luogo dove la madre aveva nascosto il figlio.

Da una fessura nelle rocce, alle spalle dell’animale, spuntarono un piccolo muso focato e due occhietti neri e lucidi come bottoni nuovi. Il cucciolo ruzzolò fuori, rotolò nella neve, sprofondò in un avvallamento e lì rimase a guaire.

– Ah, mio dio, ecco perché. Non ho mai visto una battaglia del genere. Ecco perché.
La voce del guardaparco era rotta dal pianto, ma gli occhi erano asciutti. La lupa guaì più forte, il cuore spezzato dalla sua morte inutile.

– Va fatto adesso. Se non ce la fai lo faccio io. Dammi il fucile.
Non c’era più tempo. Il ragazzo tentò di pensare in fretta, non c’era più tempo, non per controbattere alle ragioni inevitabili e mortali del padre. Strinse la mani sulla canna del fucile; tutto ciò che egli sapeva della foresta scorse davanti ai suoi occhi, e nel gelo della mattina d’inverno vide l'estate, le acque e le nuvole, la primavera di germogli e cuccioli. Vide l’amore di un’altra madre, la sua. Cosa avrebbe detto, cosa avrebbe fatto Neena?

Veloce posò lo zaino e imbracciò il fucile. Gli sfuggì un grido e la lupa si volse a lui e restarono così, occhi negli occhi. Il ragazzo prese la mira e prima di respirare ancora sparò.
Il sibilo cessò del tutto.
Il cucciolo si era appiattito sul fondo della sua buca nella neve e uggiolava.
Il ragazzo lasciò cadere il fucile. Nascose la faccia tra le braccia, nelle maniche della giubba, e lasciò andare il pianto.

Isaias avrebbe voluto abbracciare il figlio ma invece restò immobile, il fucile scarico abbandonato nella neve. Il ragazzo gli diede le spalle e si soffiò il naso, poi si chinò sulla carcassa della lupa. La testa era un macello di sangue e cose innominabili, ma questo non gli impedì di chiudere gli occhi alla bestia coraggiosa.
Il cucciolo uggiolava ancora.
Isaias si avvicinò; il piccolo si schiacciò per terra. Non taceva. Il guardaparco lo afferrò per la collottola e lo sollevò.

– Mezzo cane, mezzo lupo. Guarda le zampe.
L’estate precedente, un enorme esemplare di pastore del Caucaso si era perso nei boschi sopra Highwood. Forse non si era davvero perso, dopotutto; più probabile che il cane, un giovane maschio di nome Yuma, avesse seguito la lupa in calore. I padroni, una coppia di turisti dell’Ohio, si erano fermati al campeggio due settimane oltre il previsto; avevano pagato il guardaparco e due guide per essere accompagnati lungo le piste dei lupi a cercare l’animale. Il corpo non era stato mai ritrovato, nel parco, nemmeno un ciuffo della pelliccia, niente di niente. Forse ciò che Isaias reggeva in quel momento era tutto quel che restava di Yuma.

– È mio.

– Come, scusa?

– Ho detto che è mio.
Il figlio fissava ora l’uomo ora il cucciolo, pallido, la mascella dura.

– Devo portarlo al centro di raccolta. È un animale selvatico e la legge prevede…
Il ragazzo fece i passi che lo separavano dal padre. Stese le mani. Aveva mani grandi quanto quelle di Isaias, ormai, e forse sarebbero diventate anche più grandi. Gli avevano sempre raccontato che il bisnonno di sua madre era stato un grande guerriero, più alto di una testa di tutti gli altri. Lui già poteva guardare suo padre negli occhi.

– Ho ucciso sua madre. È mio – e così dicendo prese il cucciolo. Lo prese come si fa con i bambini piccoli quando li si solleva, sotto le ascelle.
Il padre lo lasciò andare.
Il ragazzo aprì la giubba e poi la camicia, ci infilò il piccolo, richiuse i bottoni e la cerniera. Il cucciolo cominciò a succhiargli il lobo dell’orecchio.

– Ha fame.

– Dobbiamo rientrare. Niente cervo, per oggi.

– Come al solito.
Cominciarono la discesa verso la radura dove avevano lasciato gli zaini. Il cucciolo uggiolava ancora di tanto in tanto; il ragazzo affrettò il passo.
Il padre camminava dietro di lui in silenzio.

– Ti chiami Buck – sentì dire al figlio, a bassa voce.


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EFP link Amazon Bu E niente, questa cosa qui sopra potrebbe essere uno spin-off del romanzo che sto scrivendo oppure proprio un capitolo. Ad ogni modo, era tanto che non mi prudevano le mani così dalla voglia di scrivere. Magari sono arrugginita, quindi portate pazienza.
Comunque se si tratta di lupi e di cani e di foreste io ci sono sempre.
Il titolo della storia è per due ragioni: perché il cucciolo si chiamerà poi così e perché sono innamorata del Richiamo della Foresta di Jack London.
Dedicato a Aniasolary che sa chi è il ragazzo, e poi lei sa perché.
E anche a Kukiness, che anche lei sa perché.
Grazie.
Buck da piccolo



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Capitolo 2
*** Pancake a colazione ***


Parco Nazionale della Contea di Northland, U.S.
Due anni dopo


Neena allungò il braccio nell’altra metà del letto, sotto al piumone, e trovò solo una tenue ombra di tepore. Suo marito, l’uomo degli imprevisti e dei turni impossibili, era già uscito. La donna si concesse qualche secondo di nostalgia, per il braccio forte che pesava sui suoi fianchi e per il respiro pacifico che l’aveva accarezzata durante la notte; poi si convinse ad alzarsi.
Spalancò la finestra e salutò la montagna; dal colore delle nubi, dal modo in cui la roccia rifletteva la prima luce, Neena avrebbe saputo dire se sarebbe stata una buona giornata.
Come ogni mattina e ogni sera, rivolse un saluto a Cervo-Che-Chiama. Nella cornice di legno dipinto, suo padre aveva capelli bianchissimi che contrastavano con il completo scuro; il nodo della cravatta color ferro era un po’ storto, ma era chiaro che la fotografia era stata scattata in un giorno di festa. Il vecchio l’osservava sereno, gli occhi stretti come fessure, come incisi nel legno di una maschera cerimoniale. In certi giorni dalle ombre mutevoli quegli occhi le sorridevano, e l’aria e l’eco dei sogni le portavano la carezza che tanto le mancava.
Sul comò, accanto alla cornice di legno, c’era anche quella in filigrana d’argento con la foto di Jenna. Il rettangolo di cristallo che immobilizzava il viso della ragazza sprigionava arcobaleni quando veniva colpito dalla luce.
Neena aveva voluto una cornice preziosa, per sua sorella, perché a lei sarebbe piaciuto così.
Erano così diverse; tanto lei era brusca nei modi, fino a rasentare la scortesia, così la piccola Jenna era delicata come i fiori selvatici gualciti dalla pioggia d’estate. Neena avrebbe dato un piede o una mano per avere solo la metà della pazienza della sorella, e qualcosa dei suoi modi gentili.
Nella foto Jenna aveva liquidi occhi di cervo, e Neena sapeva chi stava guardando in quel momento; ma aveva avuto occhi pieni di sogni ogni giorno della sua vita, come le bambine quando si travestono da principesse. Erano le due facce della luna, le ali della stessa rondine: guardare la foto della sorella era come guardare in uno specchio, solo che qualche magia pietosa la rendeva in qualche modo più bella.
Era mai stata gelosa di Jenna? Neena esaminò i battiti del suo cuore e vi trovò solo amore e rimpianto.
Anche se non era sempre stato così.
Raccolse i capelli per arrotolarli in una crocchia. I capelli bianchi erano aumentati? Forse doveva decidersi a smettere di tingerli, come minacciava da anni. Doveva solo trovare il coraggio. Isaias non l’approvava, le dava della visionaria, i capelli bianchi e certe rughe erano tutte nella sua testa, era bellissima, diceva. Ma quelli erano capelli bianchi. Capelli. Bianchi. E parlavano chiaro.
Jenna non sarebbe mai invecchiata. Lei, sì. Forse era già vecchia.
Si chinò per posare le labbra sul vetro; con la punta delle dita sfiorò le guance e gli zigomi alti e le mancò il fiato. Era come ricevere ad ogni risveglio – ancora e ancora – la notizia della morte di Jen. Si chiese quanti anni ci sarebbero voluti perché ci si abituasse. Probabilmente troppi; sarebbe morta di quello, forse, dell’ennesimo scatto del suo cuore agonizzante di nostalgia.
In quel momento vide la busta sul cuscino; doveva avergliela portata su Isaias.
– Che ne dici, Jen? Che deve aprirla Heath? Hai ragione, è giusto.
Il sole spuntò in quel momento e brillò sulla cornice d'argento; i raggi si rifransero sul sorriso e sui capelli lucidi della giovane donna bella per sempre. Il viso immobile ebbe un fremito, i capelli ondeggiarono in un sospiro di luce e d’ombra.
Certo che Jenna era d’accordo: la busta era per Heath, doveva aprirla lui stesso. Si doveva pazientare fino a quando si fosse svegliato. Neena indossò la vestaglia e si infilò la busta in tasca; l’avrebbe messe a fianco del piatto di suo figlio e lui l’avrebbe letta a colazione.


L’avevano fatto di nuovo.
Non era il caso che Neena si preoccupasse di non far cigolare il parquet mentre scendeva: dalla stanza di Heath proveniva un russare bitonale che copriva anche il suono della pendola della cucina. Quei due non se lo meritavano ma, visto che era una giornata importante, avrebbe comunque preparato qualcosa di speciale per colazione. E avrebbe concesso ai colpevoli ancora qualche minuto di pace.
Non si svegliò nessuno, nemmeno dopo che l’odore della torta aveva risalito le scale fino alla camera di Heath. Prima di spalancare la porta strillando, Neena si accertò di avere indovinato, anche se gli uggiolii che si erano aggiunti al russare non lasciavano spazio a dubbi; chissà quante volte era successo a sua insaputa, nonostante i divieti.
Spinse piano la porta e mise dentro la testa.E infatti nel letto diventato troppo corto suo figlio non era solo.
Una lunga forma ricoperta di pelliccia, grigio chiaro sul ventre, focata su collo e schiena, occupava metà del materasso, infossato sotto tutto quel peso. Buck da solo doveva pesare una sessantina di chili.
L’enorme lupo – che non le raccontassero quella scemenza del cane – giaceva tutto allungato contro l’altro animale selvatico di casa, suo figlio, che lo stringeva attorno al collo come fosse stato un peluche.
Il muso coperto da una zampa, Buck russava peggio di Isaias; forse sognava e, se era così, di sicuro nel sogno c’era anche Heath, e i due giocavano.
Bene, era ora di dare la sveglia.
– Fuori di qui! Ho detto fuori. Fu-o-ri!
– Ma’?
– Mi avete preso in giro ancora! Fuori di qui, subito! Quante volte lo devo dire che non lo voglio in casa?
L’ultima volta che Heath l'aveva convinta  a far entrare Buck – l’ultima che lei sapesse, almeno – il bestione aveva puntato direttamente alla cucina e poi, scodinzolando per la gioia, aveva spazzato dal tavolo due tazze di caffè e un vassoio di biscotti appena sfornati. Era riuscito a ingoiarne almeno un terzo prima che Neena, armata di scopa, lo buttasse fuori assieme al suo complice. Buck era fuggito con uno scarpone di Isaias tra i denti, e Heath l’aveva seguito con le guance coperte di lacrime. Per le troppe risate.
Il cane mugolò stizzito, l’umano passò da sdraiato a seduto in mezzo secondo. Si tolse i capelli dal viso e sbirciò la madre da sotto in su.
– Dai che gli vuoi bene anche tu, ma’. Qua, bello, vieni.
Il colpevole numero uno buttò le gambe giù dal letto, si trascinò alla finestra e la spalancò; il colpevole numero due sbadigliò a tutta mascella, scivolò giù dal materasso e, pancia a terra, si trascinò al davanzale della finestra. Poi con un balzo lo superò e si lanciò in corsa; l’aria fresca che dissipava l’odore del sonno vibrava di tracce odorose. Perfino Neena si sorprese a respirare gli odori dell’estate e invidiò per un attimo il giovane lupo. Tentò – con poco successo – di restare seria mentre Heath, strofinandosi gli occhi, le passava davanti a testa bassa.
– Me l’ha chiesto lui di entrare. Stanotte o uscivo io o entrava lui.
Neena allungò uno scappellotto a suo figlio ma ormai rideva. Avrebbe dovuto controllare le gambe del letto, forse era ora di comprarne uno più robusto? Poi ricordò che non era necessario, perché presto Heath se ne sarebbe andato. Come facevano tutti, o almeno tutti quelli che potevano.
– Sciacquati la faccia, ti voglio bello sveglio. È arrivata una busta da Pasadena.

– Non la apri?
– Afpetta ugnattimmo – bofonchiò Heath.
In jeans e maglietta, i lunghi capelli neri raccolti approssimativamente con un elastico — rubato a lei — si era infilato in bocca un pancake intero. Lo sciroppo d’acero gli sgocciolava dalle dita sul bordo del piatto e poi giù fin sui pantaloni. Il ragazzo si alzò per lavarsi le mani e afferrò uno strofinaccio per ripulirsi, poi si risedette con calma e riprese a mangiare.
Neena soffocò l’impulso di prenderlo a schiaffi e spinse la busta più vicino al piatto. Non doveva mostrarsi troppo impaziente, altrimenti lui avrebbe rallentato ancora, giusto per farle un dispetto.
E poi lo aveva già tormentato abbastanza perché inviasse tutti quei moduli d’iscrizione e le lettere di presentazione; gliele aveva revisionate una per una, scatenando più di una ribellione. I voti di Heath erano ottimi, soprattutto nelle materie scientifiche, e c’era più che una speranza che la busta contenesse una risposta positiva.
Una risposta che avrebbe cambiato la sua vita.
Che diamine, come faceva la testa di rapa a stare calmo? Pasadena. La busta veniva dall’Università della California. Pasadena. Un sogno.
Se fosse stato un sì Neena, come era vero il suo sangue Lakota, avrebbe venduto l’auto e la casa intera con tutti gli spiriti degli antenati per pagare la retta universitaria, fuori dalla loro portata. Perché suo figlio se lo meritava.
E se fosse stato un no?
Sarebbe stato solo normale. Era la cosa più probabile, cose come l’ammissione a Pasadena capitavano solo nei film e comunque non agli indiani delle riserve, nemmeno a quelli dello stato di Northland che facevano i guardaparco, vivevano sulle montagne e cavalcavano i mustang come nei documentari del Bureau.
Fosse bastata la forza del desiderio a mandare il figlio di Neena al college, ci si sarebbe trovato subito, trasportato da un tappeto magico. Se lei fosse riuscita a non strangolarlo prima.
– Perché non la apri? Dio, Heath, ma lo fai apposta?
– Merda, ho appuntamento con Rivkah! Merda merda merda, mi ucciderà, madre, questa è la volta che mi uccide davvero. Devo scappare. Devo…
Heath scattò in piedi, si pulì le mani su jeans e si fiondò verso la porta dopo essersi infilato in bocca un altro pancake. Quasi rovesciò una sedia, lasciò la porta aperta e, dalla soglia di casa, Neena lo vide infilarsi nella rimessa come una freccia, seguito dal lupo.
– Questa me la paghi, hai sentito? Ho detto che me la paghi!
– Aprila tu, ma’!
Un attimo dopo i due schizzarono fuori, Heath in sella all’Harley e Buck dietro di corsa che abbaiava tutto il suo disappunto.
Il ragazzo diede gas, la moto scattò in avanti e seminò il cane e allora rimasero lì entrambi, il cane e la donna, a brontolare.
Il vento della nuova stagione portò il suono del motore, che si affievoliva in lontananza.

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Capitolo 3
*** (Cheer?)leader ***


3.

 
 
 
Il sedere che si trovava circa all’altezza degli occhi di Heath era… notevole, ed era sempre come vederlo per la prima volta. I pantaloncini di raso rosa delle cheerleaders erano tipo l’incarto perfetto per un regalo di Natale, anche se il rosa non era esattamente il colore preferito del ragazzo.
La proprietaria del sedere, in cima a una scala di legno, sollevò le braccia per agganciare un festone all’applique. Si alzò sulla punta delle sneakers; le natiche si contrassero e la maglietta si sollevò scoprendo l’ombelico, dove un piercing con brillantino diede il colpo di grazia all’autocontrollo di Heath.
Ahia, gli faceva perfino male contro la cerniera dei jeans.
E se lei se ne fosse accorta?
Preso dal panico, Heath piazzò uno scapaccione a mano aperta su quelle natiche ipnotiche e, meno di un secondo più tardi, sbatteva il naso contro la scala. Faceva malissimo, davvero. Meglio così.
Heath tirò un sospiro di sollievo mentre riguadagnava il controllo della situazione; la proprietaria del sedere, che di notevole aveva anche un destro da peso massimo, scese un paio di scalini e lo guardò in cagnesco.
Rivkah, la sua… Rivkah.
– Lo sai che sei un cretino, vero?
– Lo sai che sei bellissima? Vieni giù e fatti stringere.
– Non adesso, devo finire con questo festone.
Lo stramaledetto ballo di fine anno.
– Lo odio. Quanto tempo è che noi due non…
– Non è colpa mia se tu sei un sociopatico maniaco sessuale. Sei l’unico in tutta la scuola a cui non frega niente del ballo.
– Non è vero. Tu ti stai occupando del ballo, anzi direi che ultimamente non pensi ad altro, e io non faccio che pensare a te, quindi…
La piega della bocca di Rivkah non assomigliava neanche lontanamente a un sorriso.
Donne.
Che cavolo c’era che non andava? Heath non sapeva da quando era cominciata la faccenda, ma sembrava che in tutta quella frenesia della fine della scuola Rivkah avesse perso il senso dell’umorismo. Tra loro era sempre filato tutto liscio, da sembrare un sogno, fin da quando erano piccoli.
Le previsioni del tempo davano temporale. Che diavolo, Rivkah era diventata meteopatica?
 
Prima ancora che Rivkah se ne rendesse conto, il suo piede destro si era spostato sullo scalino inferiore e lei si trovava un po’ più vicino a Heath, anzi, leggermente sbilanciata verso di lui.
Perché non riusciva ad essere come sua madre?
E già le girava la testa per via di quel suo odore di foresta, e sudore fresco ma pulito, e sapone. E nei capelli c’era ancora il profumo della colazione, pancakes probabilmente. Neena lo viziava troppo, lo dicevano tutti.
Rivkah scese un altro scalino.
Perché non aveva ereditato almeno questo, da sua madre? Dopo la morte di papà ci avevano provato in tanti e qualcuno c’era anche riuscito. Ma quando per una qualsiasi ragione non le andavano più bene, Deanna li lasciava sul pianerottolo a bocca asciutta, senza battere ciglio, i capelli perfetti e il sorriso di ghiaccio.
Perché non ci riusciva anche lei? Tutti le dicevano che era il ritratto di sua madre; invece dello stesso naso importante, avrebbe preferito avere un po’ della sua forza. L’energia che l’aveva fatta decidere, un giorno, di lasciare la camera da letto con le persiane chiuse dove si era rinchiusa dopo il funerale di papà.
Heath le posò una mano sulla vita e Rivkah l’allontanò con uno schiaffo, e poi si pentì e si morse l’interno della bocca, e lo odiò ancora di più.
Lei lo aveva sempre visto bello. Le piaceva anche quando era piccolo e aveva le spalle mingherline e gli occhi neri troppo grandi nella faccia minuta; era così bellino che sembrava una femmina. Poi un giorno si era svegliata e s’era accorta che lui assomigliava ai ragazzi di cui appendeva le foto nell’armadio, solo che dal vivo era molto più bello. Era cresciuto di quattro spanne in un’estate, gli era spuntata un’ombra di barba tra un brufolo e l’altro e le spalle si erano allargate, così che da lontano si poteva scambiarlo per suo padre. Così non si vergognava più di farsi vedere in giro con lui e neanche di raccontare a Debbie che si baciavano tutti i giorni. E poi lo stronzo si era fatto crescere i capelli, che erano scuri come tutti quelli della sua gente, ma avevano un riflesso ramato sotto il sole; li portava sciolti sulle spalle oppure legati in una coda, e così sembrava anche un po’ stronzo e un po’ ribelle e lei adesso era proprio fottuta.
Perché non riusciva a lasciarlo su qualche pianerottolo o magari anche in mezzo alla strada o lì sotto alla scala con il braccio teso come un cretino? Sua madre l’avrebbe fatto senza problemi.
Solo che lei non era sua madre.
 
A Heath faceva proprio strano che Rivkah lo trattasse così. Lei e quel rompicoglioni di Jaime erano una sorella e un fratello, gli unici che avesse mai avuto.
Rivkah una sorella?
Una specie, ecco. C’era questo dettaglio che facevano sesso, un sesso fantastico, ma prima di tutto erano amici del tipo come-fratelli-amici, cresciuti-insieme-amici, e a loro andava bene così. Perché la gente si lascia, si promette amore eterno e poi si sfancula, ma a loro questo non sarebbe successo mai, perché prima di tutto erano amici.
E gli amici non si lasciano mai.
Rivkah scese dalla scala e gli piantò in faccia gli occhi nerissimi. Aveva i capelli sciolti sulle spalle come un fiume d’acqua nera. La vide sotto di lui, le lunghe ciocche sparse attorno alla testa come una lucida corona d’inchiostro, la bocca rossa e dolce come le grosse ciliegie che maturavano nel loro giardino. Semiaperta, in un gemito.
Rivkah era scura e ardente. Ovunque.
Maledizione, si metteva male davvero. Heath arrossì e sistemò la cerniera dei jeans e desiderò intensamente che lei non lo conoscesse così bene.
Si beccò un altro ceffone, ma non troppo forte.
– Torna tra noi. Guarda che lo so a cosa stavi pensando.
– Io non…
– Sei un maiale.
– Dammi un bacio.
Rivkah fece una linguaccia, ma gli occhi non ridevano.
– Ti frega più della tua moto che di me. E anche del lupo ti frega più che di me. Anzi, quella bestiaccia è prima in classifica, tre metri sopra a tutti gli altri.
– Giuro che tra me e Buck non c’è niente, siamo solo amici.
La faccia da impunito gli veniva sempre bene, e sapeva che se fosse riuscito a farla ridere tutto si sarebbe sistemato. E infatti lei scoppiò a ridere, ma non era la solita risata a gola piena, coi capelli gettati all’indietro, la risata dei film stupidi o di quando loro due si alleavano e sfottevano Jaime. C’era una nota stonata nella canzone della risata di Rivkah, ma Heath non avrebbe saputo spiegare dov’era, la sentiva e basta. Afferrò la vita stretta della ragazza – poteva circondarla tutta con la mano sulla schiena liscia – e vi si aggrappò per tirarla a sé. Poi la baciò sulla bocca pulita; Rivkah non portava rossetto e sapeva solo di se stessa.
Anche baciarla funzionava sempre. O almeno, aveva sempre funzionato.
– Vengo a prenderti questa sera?
– No, vengo con le ragazze. E poi tu non devi occuparti della brace?
– Appunto. Mi daresti una scusa per sfuggire a Isaias, Il Re del Barbecue.
– Mh, no. Un po’ di lavoro non può farti che bene, sei troppo viziato.
– Ehi, si può sapere cosa ti ho fatto?
Era serio, questa volta, e un po’ stufo di essere preso a pesci in faccia per niente.
Rivkah sistemò i capelli dietro le orecchie.
– Niente. Non hai fatto niente. Sono arrivate due risposte per il college e sono un po’ nervosa, non ho ancora trovato il coraggio di aprire le buste.
– Anch’io ne ho una che mi aspetta ma non mi va di parlarne. Ti porto a casa?
– C’è Betty che mi aspetta. Ci vediamo stasera dai tuoi.
Heath riuscì a prenderle un braccio prima che fosse troppo lontana, così veloce era stato il movimento con cui si allontanava e lo lasciava lì come un cretino.
– Ehi. Un bacio o non ti mollo.
Il labbro inferiore di Rivkah tremò, come quando stava per entrare in classe e non aveva studiato niente, perché aveva passato il giorno prima nella rimessa con lui. Ma lo baciò, leggera e veloce, e poi se ne andò davvero.

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Capitolo 4
*** L'ultima estate ***


4.

 
 
 
 
 
– Porta una coperta a Howakhan.
– Pa’. Ci sono trenta gradi.
– Vuoi per favore portare una coperta al nonno?
Heath posò il forchettone e si avviò sbuffando verso la casa. Buck, accoccolato ai suoi piedi, si alzò e lo seguì ciondolando.
Sono cresciuti ancora. Tutti e due.
L’orgoglio percorse Isaias come una corrente.
Certo, quel suo ragazzo non era sempre facile. Da qualche mese, ogni volta che gli parlava, Isaias avvertiva attorno al figlio come un muro invisibile, contro il quale le sue parole rimbalzavano. E pensare che una volta Heath lo disegnava con la S di Superman sulla divisa da guardaparco.
È giusto così.
Certo che era giusto. Heath stava diventando un uomo e quella era l’ultima estate prima che... Che prendesse la sua strada, qualunque cosa decidesse di fare.
L’ultima estate.
Dovevano trovare il tempo per andare a caccia prima che partisse, una volta ancora, e doveva essere una giornata da ricordare. Dovevano prendere il cervo e doveva essere Heath a farlo; doveva assolutamente avere quel ricordo.
Isaias sentì come un pugno colpirlo forte al centro del petto, restò per un attimo paralizzato dalla paura e poi si rese conto che no, non stava avendo un infarto. Dopo le ultime analisi il dottore gli aveva intimato di smettere di fumare. Neena lo aveva messo alle strette e lui si era spaventato, quindi aveva obbedito senza discutere; e da allora ascoltava i propri sintomi con l’attenzione che riservava al bollettino meteo della mattina. Comunque, non era il cuore. Il dolore veniva da dentro, molto più dentro.
 
Heath e Buck riapparvero portando una coperta di cotone e intanto altre due auto avevano parcheggiato nel vialetto davanti al cottage. I Riley festeggiavano l’arrivo dell’estate con un barbecue; ci veniva praticamente tutta Highwood, più qualche collega di Isaias e qualche parente da lontano. Neena saliva personalmente al villaggio più sperduto della riserva, su in montagna, a prendere nonno Howakhan; lo sistemava sotto il portico sulla sua sedia preferita e il vecchio non si muoveva più di lì. Gli portavano la carne ben cotta tagliata a pezzi piccoli e una birra; lui di tanto in tanto apriva gli occhi e sorrideva, mangiava qualcosa e poi riprendeva a russare.
Isaias avvolse la coperta attorno alle gambe del vecchio.
– Va bene così, nonno?
Howakhan era un nome Lakota e il vecchio sosteneva di non averne altri. John Smith, recitava il tesserino della previdenza sociale, ma era solo un nome inventato decenni prima, quando qualcuno si era accorto che, per l’anagrafe, quell'umano di sesso maschile non esisteva.
Ma lui rispondeva sempre e solo quando lo chiamavano Howakhan.
Aprì gli occhi.
– Bene. Bene. Tuo figlio cresce, Isaias.
Heath era corso incontro agli altri ragazzi; si battevano gran pacche sulle spalle l’uno con l’altro, Jaime, i fratelli Beckwith. C’erano anche delle facce nuove; il ragazzo ci metteva poco a fare amicizia con chiunque. E dai Riley non c’era bisogno di inviti. Chiunque portasse qualcosa da bere o da mangiare — e si comportasse bene — era ben accetto.
Da un’auto scese un gruppo di ragazze colorate come farfalle. Isaias osservò il figlio abbracciare Rivkah e il nonno ridacchiò. Buck saltò addosso alla ragazza e lei lo scacciò con una pedata, ma il cane — che non era affatto permaloso — la gettò a terra e le leccò il viso, scatenando un diluvio di strilli. Heath si gettò sopra di loro, Jaime lo seguì e finì tutto in una pasticcio di risate, polvere e parolacce di Rivkah.
– Dicevi che sta crescendo? Ti dirò, nonno: a me sembra il solito testone.
Neena apparve sulla porta in quel momento, con la lettera da Pasadena in mano. Era ancora chiusa.
– Tu! Vieni, ho bisogno di parlarti.
La testa nera di Heath emerse dal mucchio ed entrambi — lui e Buck — si girarono verso la madre.
– Ti aspetto in casa.
Neena girò i tacchi e rientrò in cucina; Isaias e il nonno si scambiarono un’occhiata.
– Senti anche tu puzza di guai?
Hau – rispose il vecchio. Un attimo dopo russava, la bocca appena socchiusa. Ad Isaias parve che ridesse; oppure sognava qualcosa che gli piaceva molto.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                      
Dio, fammi stare calma. Dieci… nove… otto…
Neena si chiuse alle spalle la porta della cucina, lasciando fuori la luce calda del sole al tramonto e i rumori della festa.
– Dobbiamo proprio farlo adesso? Gli altri…
– Sono stufa. Stufa marcia e non me ne frega niente degli altri. È tutto il giorno che scantoni. Adesso apri questa cavolo di lettera.
– Perché non l’hai aperta tu?
– Perché è tua, dannazione! Riguarda te e il tuo futuro, casomai non te ne fossi accorto!
– E io non la voglio aprire adesso, va bene?
 Neena batté le mani sul tavolo e si fece male, dio che male che faceva. Si guardò i palmi che si arrossavano ma fu distratta dal sapore metallico del sangue in bocca. Si era morsicata la lingua: meglio così.  Realizzò che stava per colpire Heath, stava per colpirlo davvero. Si sforzò di aprire le mani strette a pugno e le lasciò cadere lungo i fianchi.
Quando si era arrabbiata così, l’ultima volta?
– Apri quella lettera. Adesso.
Heath sbuffò.
– Manco ci dovessi andare tu, al college. Va bene, la apro. La apro.
 
La carta era color crema, elegante, e ricordava un po’ quella delle partecipazioni di nozze. Neena si sforzò di concentrarsi sui dettagli: i particolari della filigrana, il bordo frastagliato, la sfumatura color burro della tinta, mentre suo figlio leggeva, il viso come congelato, e non diceva niente. Si impose di restare calma, di non strappare di mano al ragazzo quel foglio che – forse – stava per cambiargli la vita; si morse di nuovo, stavolta apposta, l’interno della bocca, per distrarsi. Per sentire dolore da qualche altra parte.
Manco ci dovessi andare io, dice. Oh, Jen, perché non capisce? Perché?
Heath alzò gli occhi; sembrava più pallido. Neena boccheggiò come un pesce.
– E parla, accidenti!
Heath posò la lettera e si alzò con calma, le mascelle strette.
– Mi hanno preso – bisbigliò – posso tornare fuori, adesso?
Poi voltò le spalle a sua madre.
Fuori, i ragazzi si lanciavano una palla e gli adulti sfottevano Isaias attorno al barbecue; l’odore di bruciato nell’aria denunciava la prematura dipartita di una bella bistecca. Rivkah si staccò dal gruppetto delle ragazze per andare incontro a Heath e Buck le tagliò la strada, festoso.
Si avvicinava il tramonto. Correndo via, Heath aveva dimenticato la porta aperta. Neena si alzò per chiuderla.
L’ombra della casa era fresca mentre fuori, sul prato, si annunciava la calma afosa che precede il temporale.
 
C’era qualcosa di confortante nel corpo di Rivkah, rifletté Heath. C'era sempre. Quella sera, di più.
Per il barbecue si era messa un paio di infradito luccicanti e bassissime e gli arrivava a malapena sotto il mento. Sembrava più piccola, più fragile. Più… accessibile. Heath le passò il braccio attorno alla vita e fece aderire il corpo di lei al suo, fianco contro fianco.
– Mi fai cadere la birra!
– Te ne prendo un’altra. Vieni qui.
– Era per te, testone.
Rivkah lo squadrò dal basso e Heath arrossì.
– Che faccia scura. Hai litigato con lei?
– Quello non sarebbe una novità. No, è arrivata una risposta per il college. Da Pasadena.
– Non sapevo avessi scritto a Pasadena. Non che faccia differenza, intendo…
Rivkah reggeva in una mano un piatto con due costine e, nell’altra, il boccale con la birra gelata, che si copriva di piccole gocce. La schiuma bianca ebbe come un fremito.
Le mani della ragazza tremavano.
– C’è qualcosa che non va?
Rivkah esitò.
– Hanno risposto anche a me.
Certo. Normale. Anche Rivkah se la cavava bene con i libri. Probabilmente – anzi, di sicuro – era più intelligente di lui  e studiava molto di più. Poteva aspirare ai college più prestigiosi, niente di strano che avesse inviato delle domande in giro. Solo che lui non aveva realizzato che l’aveva fatto davvero. Troppo impegnato a tenere a bada i suoi, doveva essere quello.
– E?
– E mi hanno preso a Auckland.
– Auckland?  California, giusto? Ma lì non…
– Auckland in Nuova Zelanda.
Le ombre erano più lunghe. Il prato si tinse di rosso e violetto mentre il sole si avvicinava alla cresta delle montagne. Era in corso una partita di football che, a giudicare dagli schiamazzi, era entrata nel vivo. Jaime, il fratello minore di Rivkah, si girò a guardarli con il pallone in mano e gli gridò di muoversi  che stavano perdendo. Un ragazzo più forte lo placcò e lo lasciò per terra a dire parolacce.
Heath prese il boccale dalle mani di Rivkah, bevve un sorso e glielo rimise in mano. Si sentiva gli occhi di lei addosso. E la sensazione di un fastidio non bene localizzato, quando nella bocca qualcosa fa male ma non sai ancora dire dove, è più un dolore diffuso, niente di grave, non ancora, prima che il dente cominci a fare male sul serio.
Ne aveva quasi avuto abbastanza, per la giornata.
– Così lontano – disse, tanto per dire qualcosa – io non potrei mai.
Qualcosa brillò negli occhi di lei.
– Perché no?
– Che ne farei di Buck? Non so neanche se andrò a Pasadena, Riv. Non me la sento di lasciarlo.
Le pose le mani sui fianchi.
– Vieni in rimessa. Vai avanti tu e io tra un attimo ti seguo – bisbigliò nei suoi capelli.
I capelli di lei, lunghi e nerissimi, sparsi sulle lenzuole bianche. La bocca semiaperta. Ecco di cosa avevano bisogno, tutti e due. Adesso.
Rivkah gli aprì le mani strette sulla seta del vestito e le allontanò dai suoi fianchi di donna, già morbidi.
Cosa diavolo aveva sbagliato con lei?
Perché aveva sbagliato, si vedeva dal piccolo tremito del labbro inferiore, che smise subito ma c’era stato e lui l’aveva visto bene. Rivkah faceva così quando lui sbagliava qualcosa. Lo faceva stare male, e ultimamente sbagliava tutto.
Cosa aveva sbagliato stavolta, cazzo. Cosa.
– Finisci la birra, Riv. Vado a salvare tuo fratello da una figura di merda.
E scappò via da tutti quegli errori.
 
Più tardi le ragazze erano volate via come erano venute.
Con Rivkah alla fine si erano salutati in fretta ed era stato meglio così. Quanto agli  altri era stata una bella festa, dicevano, mentre andavano via mezzi brilli. Avevano mangiato da scoppiare, bevuto il giusto, giocato a football.
Heath non ne poteva più
Si infilò nella rimessa. In cucina sua madre ancora si dava da fare sulle pentole sporche e le sciacquava, e Isaias al suo fianco le asciugava e le posava sul tavolo. Li poteva vedere dalla finestra aperta: sembravano felici. Erano state accese le luci notturne e, in giardino, gli ultimi chiacchieroni tiravano tardi seduti sulle coperte, sotto il pino.
Quanto a lui, forse quella sera sarebbe stato meglio in rimessa. Era il suo regno, un capanno di legno grande abbastanza per la Jeep della Forestale e la vecchia’utilitaria di Neena, e restava ancora spazio per l’Harley. C’erano anche un banco da lavoro, due altoparlanti, un mobiletto con l’impianto stereo e un divano. Un divano letto. Heath ci aveva portato una coperta di pile morbida e calda, e su quel divano aveva passato dei gran bei momenti n compagna di Rivkha.
Voleva stare da solo, e chi avrebbe osato seguirlo in rimessa?
Jaime, ecco chi.
Piccolo rompicoglioni, ma non se ne era andato a casa con sua madre?
Heath prese uno straccio e una bomboletta dal banco degli attrezzi, si inchinò di fianco all’Harley e cominciò a darci dentro sulle cromature.
Il ragazzino prese un altro straccio, si inginocchiò all’altro lato della moto e lo imitò. Lo imitava un po’ troppo, ultimamente. Si era anche fatto crescere i capelli. Lavorarono in silenzio per un po’, panno morbido e olio di gomito.
La testa troppo ricciuta del ragazzino emerse da dietro la sella. Cazzo, aveva gli stessi occhi di Rivkah.
– Dovresti darci un taglio, con mia sorella.
Al suono della voce di Jaime, Buck mugolò e la pesante coda grigia sbatté per terra più volte. Jaime gli piaceva; piaceva a tutti, il rompiscatole, cosa che sorprendeva Heath e qualche volta gli provocava un po’ d’invidia. C’era qualcosa nel modo di fare di Jaime che lo salvava sempre dall’essere preso a schiaffi.
Anche quando diceva cose… cose come quella che aveva appena detto.
Forse non erano gli occhi di Rivkah, no. Erano più come quelli di Howakahn.
Heath riprese a lucidare la parte di piantone immediatamente sotto il manubrio.
– Dare un taglio a cosa?
– Non mi prendere per il culo.
Heath alzò gli occhi. Jaime lo fissava e non abbassava gli occhi.
– A chiunque altro avrei risposto di farsi i cazzi suoi – e riprese a lucidare.
– Come fai tu, giusto?
Heath lasciò cadere lo straccio e si alzò.
– È stata lei a mandarti?
Si alzò anche Jaime e si guardarono negli occhi.
– Stai scherzando? Se lo viene a sapere mi sgozza. No, io volevo solo…
Bene, forse doveva andare a dormire e far finire quella giornata di merda.
Heath recuperò il telo per coprire la moto e Jaime si precipitò ad aiutarlo. L’Harley si sarebbe conciata da buttar via sui sentieri non asfaltati di Highwood ma Heath l’avrebbe ripulita, un’altra volta, da capo. Doveva essere perfetta. Come tutto il resto nella sua vita.
– Ehi, non volevo farti incazzare. Lascia perdere, ok? Come se non avessi detto niente.
Heath si mosse verso la porta della rimessa; Buck lo anticipò e si tuffò nella notte profumata.
– Vado a fare una corsa con lui, non gli ho dato retta tutto il giorno. Vero, amico? E poi ce ne andiamo a dormire.
Al suono della voce di Heath, Buck tornò indietro e scodinzolò, poi corse di nuovo avanti e si fermò ad aspettare vicino alla palizzata. Il muso puntava come una freccia nella loro direzione, le orecchie dritte tese. Un refolo di vento caldo accarezzò i ragazzi e scompigliò loro i capelli. Dei lampi accesero le nubi, annunciando il temporale.
Buck aveva voglia di correre.
Jaime posò una mano sulla spalla di Heath, che non si ritrasse.
– Scusa, non volevo… Lei non mi ha detto niente. Non c’è niente da dire, in effetti, ma…
– Ma?
– Ma a volte si deve essere più giusti delle cose giuste. Qualcosa del genere.
Buck latrò, impaziente, e qualcosa si svegliò nelle vene di Heath.
Era ora di correre.
– Ci penserò su. Dì a miei che torno presto. Se te lo chiedono.
Si mise a correre verso il grande lupo grigio, che piegò le zampe anteriori e scartò di lato e latrò ancora, divorato dall’aspettativa. Heath si tolse la maglietta e la gettò per terra, poi scattò e raggiunse il lupo. I due si lanciarono sul sentiero che portava alla foresta, scesero a rotta di collo il primo tratto e poi risalirono verso i tronchi scuri degli alberi.
Si era alzata la luna e, sotto lo sguardo di Jaime, le due sagome si fecero indistinte e scomparvero, ultima a dileguarsi la schiena argentata di Buck, tradita dal riflesso lunare.
 
Dall’ombra davanti a casa, lontano dalla luce della finestra, venne il cigolio della sedia a dondolo e una piccola, calda stella arancione si accese, splendette e si spense di nuovo. Il profumo del tabacco da pipa raggiunse Jaime, portato dalla brezza estiva.
Jaime salì i tre gradini del porticato.
– Nonno! Si sono dimenticati di te?
Un grido vittorioso e un ululato raggiunsero la vecchia casa dalla foresta che lambiva l’abitato. Il vecchio non rispose e si mise più comodo contro lo schienale.
Tirò un’altra boccata dalla pipa. Poi chiuse gli occhi e sorrise al vento e alla luna.

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Capitolo 5
*** Rivkah ***


5.
 


– Questa vale come i fiori, Riv. Come cinque mazzi di fiori.
– Si chiama bouquet, animale. Cioè che cosa, esattamente, varrebbe come il bouquet?
– Che non sono ancora scappato.
Due passi oltre la soglia della palestra, dove era stata allestita la festa, Heath aveva già una gran voglia di darsela a gambe. Un’occhiataccia di Rivkah lo inchiodò sul posto: dopo la faccenda del bouquet era già abbastanza incavolata. Avrebbe dovuto portarle dei fiori, così sembrava, ma Neena non gliel’aveva ricordato, come faceva di solito con questo genere di cose. Così la scena da film, quella in cui lei scende dalla scala con l’abito da sera e lui l’aspetta con gli occhi a stella, era finita malissimo. Con un “Muoviti, cretino” e una porta quasi sbattuta sul naso.
– Howakhan è molto più dinamico di te, Heath. Sei preoccupante.
– Io? Io non sono dinamico? Sono salito tre volte alla Cresta dell’Orso, la settimana scorsa!
Rivkah era già scomparsa, fagocitata dalla folla. Il suo vestito rosso non si vedeva più e poi comunque, sotto le luci strobo, chissà di che colore sarebbe diventato. Heath si appoggiò al muro esterno, proprio accanto all’ingresso, e allentò la cravatta. Qualcuno aveva ricoperto di alluminio la doppia porta della palestra. Completamente ricoperta. Di alluminio. Quanti rotoli ce n’erano voluti? Ma soprattutto: chi si era messo a fare quel lavoro? Qualcuno che non aveva un cazzo da fare, ovvio.
Dentro, la musica non era male ma era troppo alta. C’era proprio tutto: al posto del campo da basket, delle pertiche e dell’altra roba da ginnastica era sorta una discoteca all’ultimo grido, con tanto di palle girevoli, casse gigantesche, cubi e un palco. Che apparivano di tanto in tanto dietro al groviglio di corpi neri e argento, che si contorcevano ad ogni botta dei bassi.
Non ti sai divertire.
Rivkah gliel’aveva ripetuto un giorno sì e l’altro anche, negli ultimi tre mesi. Non era vero. Lui si divertiva un sacco e la sua vita gli stava molto bene così com’era. Che poi era la ragione per cui, fosse dipeso da lui, non avrebbe mai mandato tutti quei moduli e quelle lettere ai college; l’aveva fatto solo perché sua madre non gli dava pace e perché gli dispiaceva per lei e papà. Perché, per qualche ragione, doveva farlo e basta. Perché oltre a lui non c’erano molti altri, da quelle parti, che avrebbero potuto permettersi l’università.
Era nei guai. Le creature sulla pista gli ricordavano un groviglio di serpenti, come quelli che aveva fatto fuori un giorno assieme a suo padre. Heath si guardò attorno preoccupato: ci mancava solo che qualcuno intuisse i suoi pensieri.
Rivkha. Rivkha, accidenti. Lei lo leggeva come avesse avuto un display sulla fronte.
Una mano fresca lo toccò proprio dove scorrevano i pensieri fastidiosi e Rivkah si materializzò accanto a lui, il vestito più rosso che mai, la bocca in tinta. Era stato perdonato?
– Che faccia disgustata. Non stai bene?
– Sto benissimo. Solo mi sento…
Difficile spiegarsi senza sembrare antipatico. Anti-sociale. Anti…
– Ehi, Riley!
Ecco, appunto. Adesso la serata era perfetta.
– Ti diverti, Donovan?
Heath Riley e Mick Donovan avrebbero potuto detestarsi, perché – a parte la pelle rossa – non avevano praticamente niente in comune. Oppure avrebbero potuto essere grandi amici esattamente per lo stesso motivo, perché non si sarebbero mai pestati i piedi a vicenda. Da quando Heath era in grado di ricordarlo, a quel grosso cretino piacevano tutte le cose di cui a lui non fregava niente.Tranne una. Che poi era la ragione per cui avevano finito per odiarsi senza mezze misure: Rivkah.
Donovan era rosso in viso, gli occhi lucidi, le pupille larghe come piattini da caffè. Si fece sotto e una zaffata di alito alcolico investì l’olfatto di Heath. Dietro di lui, due tizi mai visti prima si godevano la scena. Non avrebbero dovuto essere lì, ma il capitano della squadra di football si portava dietro chi voleva e nessuno gli diceva niente.
– Mi diverto, Riley. Mi divertirei di più se… Senti, non mi fai fare un giro con la tua ragazza? Tanto lo sanno tutti che voi due non siete davvero…
Non finì nemmeno la frase e non cadde a terra, perché i due coglioni che gli guardavano le spalle lo tennero su. Cominciò solo a sanguinare vistosamente dal labbro superiore. Rivkah gli si parò davanti e Heath realizzò che un paio di tizi lo tenevano fermo; qualcuno ridacchiava e alcune ragazze, intorno, si coprivano la bocca con le mani. Poi la musica coprì tutto. Quando Rivkah lo trascinò fuori, Heath non fece resistenza.
I primi ubriachi vomitavano sul prato dietro alla palestra, appena fuori dalla bolla di luci stroboscopiche e hunz hunz hunz. Qualche coppia era già avvinghiata negli angoli bui. Heath immaginò le lingue, le gonne che si alzavano, le mani dappertutto e gli venne voglia di scappare. Dio, ma che gli stava succedendo?
La mano gli faceva male. Qualcuno diceva che faceva paura, a volte, così alto, con i capelli lunghi e la faccia incazzosa, ma Heath non aveva mai fatto a botte con nessuno. Era anche vero che nessuno aveva mai detto quelle cose di lui e Rivkah.
Non così chiaramente.
– Non ci sarai rimasta male per quell’idiota, vero?
– Donovan cerca di uscire con me da… Non so, da quando eravamo all’asilo? Piuttosto che dargliela me la cucio.
– Riv! Ma come cavolo parli?
– Cosa ci posso fare, è la verità.
La mano peggiorava. Una nocca era spellata e sanguinante; doveva aver centrato uno degli incisivi dello scimmione. Rivkah gli tamponava il sangue con un Kleenex, ed era così vicina che, chinandosi su di lei, Heath vedeva bene tutto. Non si toccavano, in quel momento, ma era anche peggio. Il calore di lei bruciava più della ferita. La sua ragazza aveva scelto un abito corto, con un intreccio di bretelle sulla schiena, casto a sufficienza per il ballo di fine anno ma non abbastanza perché lui riuscisse a starsene buono. A quella distanza, l’odore di lei gli entrava nei pori e non si trattava del profumo, dello shampoo al cocco o della crema sulla pelle morbida delle mani. Era lei. Era Rivkah.
Nessuno badava a loro, sul prato della palestra. Heath spinse Rivkah verso un angolo d’ombra, la chiuse tra il muro e il proprio corpo e le infilò una mano sotto la spallina, che fece scorrere veloce giù, fino al braccio. Un seno si scoprì e lui vi accostò la bocca; voleva il capezzolo ma non ci arrivava e allora si accontentò di mordere piano, e di prendere con le labbra tutto quel che poteva. Rivkah gemette.
Basta con le stronzate. Fine della festa.
Si staccò da lei, le raddrizzò la spallina, poi la prese per mano e si avviarono al parcheggio. Si infilarono in macchina ma, separati per un attimo, si ritrovarono subito e Heath guidò con una mano sola. Avevano qualcosa di meglio dei sedili posteriori, per quel che stava per accadere.
Non c’era niente che non avessero provato. Giocavano, come cuccioli che si mordono e rotolano nella polvere o nell’erba, in una pozza d’acqua o nel sole, dimentichi dell’universo intero esclusi la pelle e la bocca dell’altro. Mordevano, succhiavano, assaggiavano come fossero soli sul pianeta, dopo la fine del mondo; non c’era ieri né domani, e niente sarebbe più venuto dopo di loro.
Nella rimessa, con le luci spente, ora guardavano il tetto di travi che si stendeva come un cielo nero sopra di loro. Le pelli sudate si raffreddavano; Heath allungò il braccio, pesante come nel sonno profondo, raccolse la coperta e coprì entrambi. Poi, le spalle distese, si preparò per accogliervi l’amica.
Rivkah non si mosse.
Il ragazzo pensò che fosse inerzia, il corpo che rimaneva sprofondato in sé, completamente sazio. L’attirò con le braccia ma la sentì resistere all’invito, come una porta chiusa o una finestra che, inesorabile, si oppone al vento.
– Non sei comoda?
– Sto bene qui. Grazie.
Heath si ritrasse. Avere lei addosso, sentire dove gli aderiva, dopo, con la pelle liscia delle gambe o quella umida del sesso, era parte di quello che loro due erano. Della lotta di poco prima restava solo cenere, e il sudore sapeva di una lunga stanchezza.
– Ti ho fatto qualcosa? Forse sono stato troppo…
– Sei stato perfetto. Anche meglio del solito.
Heath si mise a sedere. La coperta scivolò e lo lasciònudo.
– Che cavolo c’è? Dillo e basta.
Avevano cominciato un giorno per caso, con una risata. Avevano dodici anni, forse tredici ma non più di così. “Devo baciare Michael Donovan domani dopo la scuola e non so come si fa, sai, quella cosa della lingua”. “Puoi provare con me.” “Perché, tu lo sai?” Sì che lo sapeva. Gliel’aveva spiegato un’amica di Neena, così “non avrebbe fatto brutta figura con la sua prima ragazza”. Solo teoria, niente pratica. Perché lui era scappato via, e l’idea gli aveva fatto anche un po’ schifo. Ma con Rivkah era un’altra cosa: era sua amica e la sorella di Jaime e non è che fossero proprio cresciuti insieme ma ci mancava poco, e non poteva lasciarla nei guai. Per dirla tutta si sentiva un po’ strano quando la guardava, soprattutto da quando le erano cresciute le tette, ma Riv faceva parte della vita di Heath come la madre e il padre, la casa, la sua stanza e altre cose belle. E allora per tutte quelle ragioni insieme l’avrebbe aiutata volentieri.
Doveva essere stato bravo, perché poi il giorno dopo lei aveva baciato Donovan ma non le era piaciuto per niente, anzi gli aveva detto che faceva schifo. Era molto più bello con lui, gli aveva detto. Poteva baciarlo ancora? Heath non aveva avuto niente in contrario. Solo non voleva saperne di avere una ragazza: gli sembrava troppo presto, troppo strano, troppo tutto. Ma questo non c’entrava e l’avrebbe baciata ogni volta che voleva, se lei voleva. Così le aveva detto.
Un giorno — non ricordava bene quanto tempo dopo —lei glielo aveva preso in mano. Lui si era sentito tipo morire di vergogna ma mica poteva tirarsi indietro e l’aveva lasciata fare. Poi era esploso e si vergognava come un pazzo, lì con il pisello di fuori e i pantaloni sporchi, che se si fosse aperta la terra e fosse sprofondato avrebbe gridato per la gioia e invece era rimasto lì come un cretino, la faccia rossa e non sapeva più dove guardare. Ma lei non l’aveva lasciato solo in quel modo: l’aveva baciato come gli piaceva, come ormai sapeva, e un attimo dopo gli aveva preso la mano e se l’era messa in mezzo alle gambe ed era successa un’altra cosa spaventosa e dopo Rivkah stava esattamente come lui: in quell’angolo buio, con tutto quanto esposto all’aria e i pantaloni bagnati di non si sapeva bene cosa. E così erano pari.
Insomma, avevano fatto sesso. Si chiamava così. Era molto meglio di come lo spiegavano a scuola, anche se era imbarazzante. Imbarazzante da morire. Meno male che era Rivkah, e che ormai erano pari.
Da quel giorno era stato sempre meglio.
Tutto il resto l’avevano imparato insieme. Non l’avevano detto a nessuno, per un po’. Non si erano nemmeno messi d’accordo, era stato istinto. La sensazione di qualcosa che non andava ma che volevano lo stesso, e col cavolo che avrebbero rinunciato, e quindi stavano zitti e lo facevano di nascosto perché Neena e Deanna Hamilton, la madre di Rivkah, sarebbero state troppo da affrontare tutt’e due insieme. E poi era passato il tempo e non c’era stato più bisogno di dire niente, erano diventati grandi, e lo sapevano tutti quello che facevano. Alcuni dicevano anche che erano una bella coppia. Heath si sentiva fortunato perché se ne poteva fregare di tutte quelle stronzate tipo cosafaidomani vuoiuscireconme primobacio ribaltaisedili, perché lui aveva Rivkah, per quelle cose.
Tutto era perfetto, così perfetto da non crederci. Per questo, aveva concluso, sarebbe durato in eterno. Perché era perfetto.
– Riv. Tra un’ora sarà l’alba. Dovremmo…
Forse non l’aveva sentito; temeva si fosse riaddormentata, perché non aveva risposto alla sua domanda, né aveva più parlato. Il respiro era costante, solo lievemente più rapido di quando si dorme un sonno tranquillo. Le sfiorò la punta di un seno scuro; nella notte lui lo vedeva, lo sentiva, attratto dal calore come certi insetti dalle ali lucide, che entrano in casa alla fine dell’estate, per non morire. Un fremito percorse entrambi; allora Heath le girò il viso verso di sé, per baciarla. La agganciò con le gambe e si sollevò su di lei, per ricominciare.
Ma le sue dita sfiorarono le guance, ed erano bagnate.
– Heath. Heath.
– Perché piangi? Ehi, stai male?
– Sei davvero un idiota.
– Sono…
Rivkah si sollevò su un gomito.
– Questa era l’ultima volta.
– Cosa, era l’ultima volta?
Rivkah non rispose.
– Ma che diavolo… Possiamo farlo ogni volta che vogliamo. Quando tornerai qui per le vacanze, da Auckland. Ci rifaremo, vedrai.
La risata di Rivkah era amara e non copriva il suono desolato, sfacciato, delle lacrime che ancora scorrevano; lui le sentiva come esplodessero, un fragore nel buio. Anche se lei, ora di spalle, si rivestiva, infilava le scarpe, cercava qualcosa in terra e, abile come in pieno giorno, chiudeva da sola la lampo del vestito rosso. I capelli scuri e rigogliosi scendevano fino al sedere rotondo, e ondeggiavano sulle gambe snelle e forti di ragazza sana cresciuta in montagna.
La sua amica, la sua dea. La prima donna della sua vita. Ogni uomo ha la sua dea, diceva il vecchio Howakhan. Aveva ragione. Rivkah era la sua.
– Non cercarmi più.
– Eh? Che cavolo stai dicendo?
Erano venuti con l’auto della madre di lei, così Heath non osò fare niente. La lasciò andare. Ma si infilò di corsa i pantaloni e uscì davanti alla rimessa. Buck alzò la testa, prima verso la ragazza e poi verso di lui, e i suoi occhi fedeli lanciarono una domanda. Entrambi guardarono l’amica andare via, quieti e disperati e, dopo, Heath rimase a fissare il punto della strada dove si erano dileguate le luci posteriori.
La notte diventava alba e il giovane uomo spiò il sorgere del sole in piedi, in attesa, incerto sul da farsi.

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Capitolo 6
*** Un sacco d'ossa cucito male ***


Carissimi,
aggiorno con grande ritardo causa vacanze al mare e, subito dopo, periodo pesante al lavoro.
C'è stata un'epoca in cui ero molto attiva su EFP, parlo ormai di qualche anno fa. Dopo varie riflessioni ho concluso che ciò che mi manca di più di quei tempi è l'interazione con chi leggeva. Quindi, per farla breve, se leggete (so che leggete, lo vedo dalle visite :-) lasciate due parole, sarà un piacere per me rispondere e inziare uno scambio.
"Buck" è una storia completa che sto rivedendo e, anche se ha avuto altrove un discreto successo, attualmente la trovo un po' lenta. Se la riscrivessi ora, cercherei di aumentare il ritmo. Se ne avete il tempo e la voglia, fatemi sapere qual è il vostro parere.

Se tutto va bene, questa settimana aggiornerò anche mercoledì.
Un grazie ad Ale, che fino ad ora non ha mai mancato di lasciare due parole.
Buona lettura. 



6.
 
 
 
 
 
 
– Hai risposto?
– Risposto a chi?
Argh. Pasadena.
A Heath si rizzarono i peli del collo. Va bene che riusciva a pensare solo ai casini con Rivkah, ma come aveva potuto essere così idiota? Tanto da cancellare completamente la lettera da Pasadena? Quella in cui, oh dei, gli dicevano che lo avevano accettato?
– No. Non ho risposto.
– Ma devi farlo entro il… quando scade?
– Il 25?
– Il 25.
Non era necessario che si girasse per controllare il calendario.
Le guance brune di Neena si accesero di rosso come i segnali di pericolo sulla ferrovia; Heath si ritrasse, la testa incassata nelle spalle come una tartaruga nel guscio.
Tre.
Due.
Uno.
Il clang della padella sulla griglia del fornello lo fece saltare sulla sedia; un bel po’ di uova strapazzate rimbalzarono e si sparpagliarono sui fuochi, mentre altre finirono sull’acciaio lucido del lavello. Neena mollò il manico della pentola per acchiappare le uova che volavano e rovesciò tutto quello che restava sul pavimento.
L’imprecazione che seguì era particolarmente originale: Heath ne prese nota mentalmente, magari prima o poi gli sarebbe venuta buona. Sua madre era particolarmente creativa, quando era furibonda.
– Mi prendi per scema?
– Ma cosa dici, ma’? Secondo te io…
– Secondo me mi prendi per scema.
– Non è vero!
– Allora dì che non ci vuoi andare e basta, senza prendermi per il culo.
– Madre!
– Madre un –
– Ok, va bene! Va bene, basta!
Il piatto della colazione era ancora immacolato e vuoto, non c’era niente che Heath potesse cincischiare mentre cercava le parole giuste. Meglio così, sarebbe andato dritto al punto.
– Non lo sapevo neanch’io cosa volevo fare, l’ho capito in questo momento. Non ci voglio andare. Non è che siccome sono fortunato e voi potete mandarmici allora devo andare per forza al college. Non ci vado. Voglio restare qui e fare il lavoro di papà. Punto.
Heath si alzò e la sedia strisciò sul pavimento, e il rumore del legno sul legno e della forchetta che cadeva, e le parole graffianti e sconnesse di sua madre — che dimenticava l’inglese per il Lakota quando era veramente arrabbiata — lo seguirono oltre la soglia.
 
Avere qualcosa da pulire a fondo non era necessariamente un male. Neena si chinò a terra e cominciò a strofinare furiosamente le piastrelle.
– Dove ho sbagliato, Jen? Ci tenevo a fare un buon lavoro, ci tenevo sul serio. Perché è così…
Ma lo hai fatto un buon lavoro, sei stata bravissima con lui. Di cosa hai paura?
– Proprio tu me lo chiedi?
Neena rimase seduta per terra con lo straccio in mano.
– Se non fosse fortunato come noi? Se buttasse via la sua vita? Ma non lo capisce, è come se non gli importasse davvero di niente. Nemmeno di se stesso, alla fine.
La voce di Jenna, confusa nel canto degli uccelli, non rispose più.
 
Heath si tolse la maglietta e la adoperò per asciugarsi la faccia, il collo e le braccia nude. La lunga corsa nel bosco con Buck gli aveva fatto bene, ma non poteva di certo passare tutto il giorno a correre. E poi restava da affrontare Isaias. Inoltre, se davvero voleva entrare nei ranger e diventare guardaparco era meglio che si desse da fare per la domanda, il test o quello che era; non aveva idea di dove si cominciasse.
Appena lasciata l’ombra verde degli alberi notò la novità.
Una vecchia Ford Focus era parcheggiata davanti al cottage, coperta di polvere come se avesse fatto la Parigi–Dakar. Il cofano era ammaccato in più punti e un Arbre Magique rosa shocking era appeso allo specchietto retrovisore. Una cosa di gran classe.
I turisti di solito si fermavano al campeggio e nessuno dei suoi amici aveva un’auto propria, nemmeno un rottame come quello. Concluso che in ogni caso non gliene fregava niente, Heath si infilò nella rimessa, seguito da Buck.
Controllò il cellulare.
Niente, né messaggi né email né una foto né un accidente di niente, neanche un vaffanculo. Rivkah era sparita nel nulla. Zero assoluto dalla sera del ballo.
Quelle cazzo di lacrime.
È l’ultima volta.
Non si può essere lasciati da qualcuno se non ci sei mai stato insieme, giusto? Lui su questo era stato molto chiaro. Tutto molto semplice e pulito, tra loro. Massima libertà, reciproca, s'intende.
E in ogni caso gli amici non si lasciano mai.
Heath scrollò le spalle e sollevò il telo che copriva l’Harley; Buck uggiolò e gli diede una musata, spingendolo indietro. Era geloso della moto; Heath era sicuro che la riempisse di parolacce lupesche ogni volta che lo lasciava indietro, quando correvano sulla strada.
Era davvero fantastica.
Heath era sicuro che la sua moto fosse femmina, lo sapeva e basta, ma per fortuna non assomigliava a nessuna delle altre donne della sua vita. Magari avesse potuto convincere Rivkah a perdonarlo – di che cosa, poi? – con un colpetto alla manopola del gas.
Solo a sfiorarla questa vecchia signora, questa bellezza nera e cromata, scattava in avanti in tutto il suo splendore selvaggio. Niente lacrime, cavolo, solo il suono sexy del motore che reagiva, come il mugolio basso di Buck quando lo grattava dietro alle orecchie.
I mille dollari meglio spesi della sua vita. Quando era tornato a casa con la moto, Neena si era arrabbiata da morire – tanto per cambiare – perché quei soldi dovevano servire per l’università. Ma al cuore non si comanda, giusto?
– Dovresti venire un attimo in casa, per favore.
La voce gelida di Neena gli scivolò giù per la schiena come un cubetto di ghiaccio.
– Ma’, per favore. Non voglio…
– Devo presentarti qualcuno, un mio compagno di università. E forse c’è bisogno di te.
Heath imprecò tra i denti. Doveva davvero farsi insegnare qualche imprecazione Lakota, prima o poi.
A dopo, tesoro. Non farò molto tardi.
Ridistese il telo sulle cromature scintillanti e seguì la madre verso la casa, sbuffando.
 
– Eccoli qua. Questo è il nostro Heath, te lo ricordi? Tirava le treccine a tua figlia. Heath, questo è il professor Charmaine.
Isaias sedeva in salotto in compagnia di un ometto magro con una chierica di capelli rossi, il volto coperto di lentiggini e l’espressione vagamente bovina.
Professore? E di cosa?
– Piacere di conoscerti, Heath. Sono Donald Charmaine e lei è Anna, mia figlia.
Di chi diavolo stava parlando?
Al tavolo con loro non c’era nessun altro. E poi eccola lì: seminascosta dietro la porta aperta della cucina, che le faceva ombra, c’era una ragazzetta con i capelli neri e la stessa pelle lentigginosa dell’ometto, ma ancora più chiara. Se ne stava lì in piedi a braccia incrociate, strette contro la pancia come per parare un colpo.
Portava jeans a pelle e una maglietta bianca a maniche lunghe, aderente alle braccia magre. Un sacchetto di tela troppo sottile con dentro un mucchietto d’ossa.
Tutti adesso guardavano verso Sacco d’Ossa, che fece un passo indietro e sparì dietro la porta. Nessuno parlava.
– Ahia! Che cavolo…
Heath si massaggiò il punto tra le costole dove Neena l’aveva colpito con il gomito e si schiarì la voce.
– Ok, uhm. Ciao. Sono Heath.
– Ciao.
La voce della ragazzina era sottile come un filo di fumo e si perse nel ronzio del frigorifero. Sulle teste degli adulti campeggiava il fumetto Qualcuno dica qualcosa, per favore!
Intanto la tipa guardava ostinatamente per terra e suo padre, Donald, arrossì fino alla radice dei capelli. Heath si beccò un’altra gomitata da Neena. Ma che diavolo voleva da lui? Se quella era muta lui non ci poteva fare niente.
– Ahem. Vi… vi fermate molto?
Traduco: quando vi levate dalle scatole?
Ahia, sbagliato di nuovo. Le orecchie di Neena fumavano.
– Donald vuole fermarsi solo due settimane ma tutti noi vorremmo che restasse almeno fino al Sundance Festival, vero, caro?
Isaias sorrise, il suo sorriso largo e sincero. Heath si sforzò di imitarlo.
– E siccome non se ne parla neanche che vadano a stare giù al campeggio, si fermano qui da noi. Tu cederai ad Anna la tua stanza.
 
Venti minuti dopo Heath scendeva le scale con una pila di abiti, libri e lenzuola tra le braccia. In salita veniva sua madre che si trascinava dietro per mano Sacco d’Ossa. La quale guardava per terra, così per fare qualcosa di diverso.
Nell’altra mano Neena reggeva un trolley rosa.
– Lo mollo qui, dopo lo porti tu di sopra.
Le due si appiattirono contro la ringhiera quando lo incrociarono, e il gorgoglio sommesso di un mi dispiace – ancora quella voce sottile – seguì Heath mentre scendeva gli ultimi scalini. Sua madre si schiarì la voce; allora Heath si girò verso le due femmine ormai in cima alle scale.
– Fai come fossi a casa tua – sibilò. Aprì la porta con un gomito e la roba rischiò di cadergli tutta sui piedi; la rimise insieme in qualche modo e si avviò verso la rimessa.
Decisamente una giornata di merda, quella.
 
Buck dormiva al sole.
Davanti alla rimessa c’era uno spiazzo in terra battuta che d’estate diventava polveroso; nelle ore più calde il lupo ci si rotolava voluttuosamente e poi si sdraiava sul fianco, impolverato e felice.
Così addormentato emetteva una specie di brontolio profondo, simile alle fusa di un gatto, sommesso come la corrente di un corso d’acqua sotterraneo. Gli occhi erano una sottile fessura nera, la bocca semiaperta e, tra le zanne spaventose, si intravedeva la lingua rosata. Ronfava come un cucciolo, Buck. Aveva sempre dormito in quel modo beato, fin da piccolo.
Heath si sedette all’ombra della rimessa e rimase ad ascoltarlo.
Avrebbe voluto entrare nei suoi sogni. Certo, loro due si capivano: bastava che si guardassero negli occhi. Ma i sogni, quelli erano suoi e basta.
Buck aveva segreti?
Hai mai ucciso qualcuno, vecchio mio?
Buck non aveva mai avuto bisogno di cacciare. Non aveva mai dovuto preoccuparsi di niente.

Ho ucciso sua madre. È mio.
Heath si era sempre occupato di lui, in tutto per tutto. Gli preparava il cibo, lo spazzolava e di tanto in tanto – quando il mezzo lupo glielo permetteva – gli faceva anche il bagno. E dormivano insieme. Andava bene, così? Gli bastava? Ogni tanto Heath se lo chiedeva.
Un giorno Buck era tornato con la pelliccia insanguinata. A Heath era preso un colpo; poi si era accorto che non c’era nessuna ferita, solo un graffio su un orecchio, e il sangue che imbrattava la pelliccia del collo, la splendida criniera focata, al novantanove per cento non poteva essere suo. Qualcuno doveva essersi messo sulla strada di Buck. Una preda? Un altro lupo?
Un rivale in amore?
Ecco, adesso Buck sognava.
Heath si chiese se nel sogno c’era anche lui.

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Capitolo 7
*** Se fissi il telefono non suonerà mai ***


In camera di Heath, Anna non aveva potuto utilizzare l’armadio, che era troppo piccolo e per di più strapieno. Il piccolo trolley rosa era appoggiato sulla cassapanca, aperto.
Neena raccolse da terra una maglietta. La strinse un attimo tra le mani e l’appoggiò sulla spalliera della sedia.
Con Isaias ne parlavano già da qualche tempo: quando Heath fosse andato al college, loro due si sarebbero trasferiti in questa stanza da letto, più piccola, e avrebbero affittato la camera matrimoniale ai turisti in visita nel parco. Isaias forse avrebbe potuto fare qualche extra come guida, e i soldi in più avrebbero fatto decisamente comodo.
La retta universitaria di Heath, per cominciare. C’era un piccolo tesoro da parte per lui ma non sarebbe comunque bastato, e Neena si sarebbe tagliata una mano piuttosto che privare il figlio della possibilità di studiare.
La casa non era pagata. L’assicurazione medica costava, oh se costava, e loro erano tra i pochissimi fortunati, nella riserva, che se ne potevano permettere una decente.
C’erano molte cose che i turisti WASP non vedevano, quando venivano a respirare la loro annuale boccata d’ossigeno al Parco. Non si rendevano conto di quello che avevano, nelle loro città stressanti e piene di smog. «Siete fortunati, voi, qui» cantilenavano, guardando le montagne con la faccia dolente. La nenia cominciava tre giorni prima della partenza e finiva al momento di rimettere in macchina le loro costosissime valigie; a quel punto gli smartphone già suonavano e ciao, tutto dimenticato. Vedevano il verde degli alberi secolari del parco, il cielo terso, le divise carismatiche di Isaias e dei suoi uomini. I colori e i tamburi della Sundance e le autentiche perline cinesi dei bracciali tradizionali Lakota. L’alcolismo, il lavoro scarso o inesistente, il diabete, le roulottes con il pergolato di lamiera recuperato in qualche cantiere dei bianchi, quelli non erano visibili nei dintorni dell’area sacra del pow-wow.
Di sicuro i turisti non si mettevano a contare le persone che incontravano per le poche strade di Highwood. Quanti giovani oltre i diciassette anni, quanti vecchi oltre i settanta.
Tutti quelli che potevano, alla riserva, si accaparravano uno dei pochi posti di lavoro legati al Parco oppure se ne andavano. Quelli che restavano si arrangiavano come potevano. Non sempre legalmente.
Nessuno si faceva un giro su Wikipedia, in vacanza, per controllare quanto vivevano in media i gloriosi ex guerrieri delle Grandi Pianure. Pochi ricordavano che l’aspettativa di vita dei nativi americani era di una decina d’anni più bassa rispetto a quella dei bianchi nella stessa zona. Parole come «suicidio», «metanfetamina», «razzismo» non si dovevano pronunciare, durante le due disperate settimane di libertà della classe media delle grandi città.
I Riley erano stati molto, molto fortunati e lei, Neena – «la forte» – era una donna nata con la camicia. Figlia e nipote di sciamani, era la prediletta di suo nonno, l’unica che avesse qualche speranza, diceva il vecchio, senza specificare di che speranza si trattasse. L’uomo aveva venduto ai bianchi un pezzo di foresta perché lei potesse studiare. Dopo, Neena aveva potuto scegliere liberamente di vivere nel Parco, a fianco del suo uomo: un testardo orgoglioso arrivato da Mayaguez, Portorico, che al posto del sangue aveva nelle vene una gran voglia di riscatto, come tutta la sua famiglia.
Se la cavavano abbastanza bene, ma di quei soldi in più adesso avevano davvero bisogno. Heath avrebbe fatto il salto: avrebbe avuto più di loro. Sarebbe andato avanti. Non sarebbero stati loro due a fermarlo, e gli avrebbero impedito di fare scelte autolesionistiche.
– Devo cominciare a buttare via roba.
– Non è urgente.
Non l’aveva sentito arrivare, Neena: quel suo enorme marito poteva essere delicato e silenzioso come un soffio di vento.
Isaias si sedette accanto alla moglie, sul letto, e la guardò dolcemente. Aveva già visto la scatola di cartone azzurro che lei teneva tra le mani. La trovava sempre, dannazione. Una volta Isaias l’aveva chiusa nel cassettone dei suoi maglioni, coperta da un pile, ma Neena l’aveva trovata lo stesso e l’aveva riportata nell’armadio in camera di Heath. Era lì che doveva stare, diceva. L’armadio era stato comprato per quello, e ora scoppiava di ciarpame e di ricordi.
– Non sai nemmeno se andrà al college. E non devi buttare niente, se non te la senti. C’è ancora posto nella rimessa.
Neena non rispose.
La scatola era di cartone pesante, a piccoli fiori azzuri e blu su uno sfondo grigio chiaro.
– Io devo andare. Non pensarci adesso, non c’è fretta.
Isaias le posò un bacio sui capelli, incerto se alzarsi e lasciarla sola o restare a dividere un po’ di dolore con lei.
– Vai. Ti bevi il caffè con gli altri, prima del giro.
Isaias si alzò piano e la baciò di nuovo, stavolta sulle labbra. Poi la lasciò sola coi fantasmi che gridavano per uscire dalle vecchie scatole.
 
 
Butto via tutto.
Quante volte l’aveva detto?
Peccato che poi non avesse mai avuto il coraggio di farlo.C’erano due cartelline, una con l’ecografia che si era potuta permettere grazie all’assicurazione, l’altra con i biglietti di congratulazioni che aveva ricevuto quando, alla fine del terzo mese, aveva detto a tutti che era incinta. Perché da quel momento in poi era impossibile che qualcosa andasse male, giusto?
C’era il completo di lana azzurra che aveva sferruzzato durante l’attesa; non che fosse un’esperta di lavori femminili, ma il coprifasce le era venuto bene perché aveva una forma semplice e squadrata. Le scarpine invece erano piene di buchi e Isaias l’aveva presa in giro tantissimo per quello. Due sgorbi, davvero, ma ne era fiera: le aveva fatte e disfatte almeno quattro volte, e alla fine sembravano davvero scarpe in miniatura.
Poi c’era un ciuccio azzurro e delle bavette ricamate a punto croce, non da lei. Quelle le aveva fatte Jenna. E le aveva regalato anche il cappellino con le orecchie d’orso che ora accarezzava. Sembrava nuovo.
Lo strinse al petto, e le due piccole protuberanze rotonde le fecere solletico al collo.
Tenere in braccio un bambino così piccolo, così piccolo da indossare quella roba, era come stringere il niente, l’aria. I residui dei sogni.
– Ma’? Perché quella faccia?
Il cuore fece un salto doloroso; Neena sentì le guance incendiarsi e le ci volle un attimo per essere in grado di rispondere. Come fosse stata colta in flagrante, a rubare.
Che pensiero assurdo.
– Oh, sei qui. Niente, ricordavo.
– Hai nostalgia di quando ero piccolo?
Neena avvampò di nuovo. Sedeva sul bordo del letto, le gambe raccolte da una parte, il contenuto della scatola in bella vista, in parte disposto secondo un ordine misterioso – che parlava solo a lei – sul copriletto colorato.
– Ero davvero così piccolo? Incredibile.
– No, tu…
– Delle volte vorrei potermi sedere ancora in braccio a te. Non mi è piaciuto quando sono diventato troppo grosso per farlo.
E Heath si sedette sulle sue gambe e lei l’abbracciò e protestò per il peso, e rise nella sua maglietta che puzzava di sudore, ma resistette.
Anche a lei mancava prenderlo in braccio.
Allora tutto sembrava più semplice. E lo era.
– Ehi, adesso basta. Mi stanno venendo i crampi.
– Ancora un minuto.
– Heath!
Allora lui rise, fece un paio di versi da bambino piccolo e si attaccò al bordo della scollatura, e chissà se l’aveva fatto consapevolmente o se era stato un ricordo inconscio, una vecchia abitudine scritta dentro di lui.
Avevo ancora il latte.
– Questa roba però non l’avevo mai vista. Credevo fosse tutto nel cassettone in camera mia.
– Ora scendi, ragazzo. Mi stai bloccando la circolazione.
– Delle volte vorrei essere ancora piccolo.
– Se non scendi lo racconto a tutti i tuoi amici.
Neena lo strinse e restarono così, ma le gambe le dolevano e da qualche parte, nello stomaco, qualcosa premeva. Era come cibo avariato, che doveva uscirsene di lì per non farla più stare male.
– Vado a farmi una doccia.
– Non far fuori tutta l’acqua, devo farmela anch’io.
Quando la porta dietro a suo figlio si richiuse Neena lasciò scendere le lacrime.
Poi raccolse uno ad uno i frammenti della sua memoria e li ripose dove dovevano stare, nella scatola con i fiorellini azzurri e blu; il coprifasce sotto e poi le scarpine e le bavette e il ciuccio, la busta dell’eco e il cappellino con le orecchie d’orso. Li coprì con la velina bianca che doveva proteggerli dalla polvere.
Infine rimise il coperchio e ripose la scatola al suo posto, in un angolo buio.
 
– …E siamo in vacanza per davvero, cazzo!
I Pearl Jam bucavano l’aria dalle casse e Tony, il più grande dei due Beckwith, si dimenava con una birra in mano. Julian, il fratello piccolo, si lasciò cadere sul divano letto accanto a Heath e rovesciò un po’ di Coca Cola sulla fodera.
– Fai attenzione, animale. Poi mia madre lo fa lavare a me.
Heath non aveva voglia di ridere e a dire il vero anche la musica gli dava fastidio. Guardava un po’ nel vuoto e un po’ sul display del telefono.
Essere impegnati con la scuola aveva i suoi lati positivi, dopotutto. Le giornate adesso erano fin troppo lunghe. Avrebbe dovuto pensarci prima e trovarsi un lavoretto, ma con la faccenda degli esami finali era arrivato un po’ in ritardo; i soliti posti giù al campeggio e in hotel erano tutti presi.
– Nessuno di voi cazzoni mi darebbe una mano? È più semplice se non devo saltare continuamente da un lato all’altro.
Jaime era l’unico che faceva qualcosa. Si dava da fare sulla moto. Avevano deciso di montarci delle sacche laterali, così una parte del bagaglio per la gita a Grand Creek, che avevano in programma la settimana dopo, l’avrebbe trasportato Heath.
Il quale si stava stufando persino dell’Harley.
E non provava più nessun tipo di attrazione per la gita a Grand Creek, dove era stato tipo almeno una volta al mese negli ultimi dieci anni. E il suo telefono doveva avere una maledizione perché aveva smesso di suonare o bippare o vibrare o a dare un qualsiasi segno di vita. Il mondo si era dimenticato di lui.
Ma a chi vuoi darla a bere, cretino?
Rivkah. Era Rivkah che si era scordata di lui.
Heath lanciò lo smartphone nella cassetta degli attrezzi che aveva vicino ai piedi, per tenerlo d’occhio. Il lupo stampigliato sulla custodia teneva d’occhio lui.
Allora non scherzava.
Tutte quelle stronzate della sera del ballo Rivkah le pensava veramente.
Heath non ci capiva più niente. Non è che avesse molta esperienza di donne; anzi, non ne aveva proprio. C’era stata sempre e solo Rivkah e un paio di storielle senza importanza durante una delle loro pause, cose dimenticate prima del giorno dopo, forse anche subito. Niente che valesse come esperienza.
Roba da farsi venire il mal di testa.
 
Il telefono vibrò e Heath sbirciò il display. Gli altri tre ragazzi sbirciavano lui. Si riappoggiò allo schienale, e comunque non era niente di niente. Solo una vignetta scema su uno che era appena stato mollato dalla ragazza e si faceva... Gliel’aveva mandata Julian Beckwith.
Che era seduto accanto a lui col telefono in mano e se la rideva a quattro ganasce.
– Sei un coglione.
– E tu sembri Romeo, un po’ più sfigato però. Ma ti sei visto? Con tutte le ragazze che ti potresti fare!
Tony alzò al massimo i Pearl Jam e Buck, che fino a quel momento era rimasto buono buono sdraiato sulle scarpe di Heath, uggiolò, si coprì le orecchie con le zampe, poi si tirò su e si trascinò fuori. Heath lo vide lasciarsi cadere a terra nel suo posto preferito al sole.
– Fanculo, Julian. Anche da parte di Buck.
Heath si alzò, spense la musica e, ancora più pesante e svogliato del lupo, lo seguì fuori e si sedette accanto a lui, per terra. Mentre procedeva con le solite grattate dietro le orecchie, le risate dei due Beckwith gli ricordarono quant’era ridicolo.
Doveva assolutamente trovarsi qualcosa da fare.
Almeno finché non fossero finite la guerra fredda con Neena e questa stupida situazione con Rivkah.
Perché sarebbe finita, vero?
 
– Posso… toccarlo?
Heath alzò gli occhi e si ritrovò davanti al naso le ginocchie ossute di Sacco d’Ossa; la ragazzina portava una maglietta ridicola di Lady Oscar e un paio di pantaloncini corti. Semivuoti. Heath pensò alle cosce di Rivkah.
Dalla rimessa arrivò una serie di latrati così sguaiati che perfino Buck tirò su la testa, seccato.
– Ma sì, Heath, faglielo toccare!
– Vuoi toccare il mio, piccola? Non fare complimenti!
– Silenzio, coglioni!
Questo era Jaime.
Sacco d’Ossa – Anna, doveva sforzarsi di chiamarla Anna – si fece più rossa di un semaforo. Le vennero gli occhi lucidi.
Si era fatta le trecce. Non era troppo grande, per le treccine?
Non le aveva ancora perdonato la faccenda della camera da letto, però loro erano proprio una manica di idioti, lui compreso. Forse era il caso di scusarsi. Anche perché, se lei si fosse lamentata con Neena, Heath avrebbe passato un guaio. Un altro. Non ne aveva proprio bisogno.
Troppo tardi. Sacco d’Ossa era già scappata via.
Heath si lasciò cadere a terra di fianco a Buck, che gli posò il testone sulla pancia e sbadigliò.
Sarebbe stata una lunga, lunghissima estate.
 
Perfino Sacco d’Ossa aveva un lato positivo, a quanto pareva. Le cene erano diventate territorio franco: con i Charmaine a tavola, Neena evitava di toccare argomenti caldi.
Sacco d’Ossa guardava nel piatto, suo padre pendeva dalle labbra di Isaias, che raccontava qualcosa di epico sulla sua vita di guardaparco, e Neena si sforzava di fare conversazione.
– Allora, sei pronta per la gita? Hai tutto quello che ti serve?
A Heath andò per traverso il boccone. Si mise a tossire, sputacchiò e si trovò gli occhi di tutti puntati addosso. Arrossì come una ragazzina, e anche Anna arrossì.
– Vie… viene anche lei a Grand Creek?
– Di cosa stai parlando? Io dicevo di venerdì prossimo. Arriva tuo cugino William, non è magnifico? Andiamo tutti alla Cresta dell’Orso, papà si è preso il weekend libero.
– William Spina Nel Culo?
– Heath!
– Non conosco un altro Spina Nel Culo. Volevo dire, non conosco un altro William. L’hai invitato tu, vero?
Neena diventò rossa come un gambero. Ma perché, perché sua madre doveva sempre impicciarsi delle vite di tutti? Chiaro che aveva invitato William per un motivo. Forse sperava che facesse ragionare lui, lo sciagurato che non voleva andare al college. O magari voleva presentarlo alla ragazzina sociopatica?
Donald e Isaias osservavano con attenzione l’uno gli avanzi di purè, l’altro le decorazioni del lampadario. Heath fronteggiò lo sguardo di fuoco di sua madre e, dall’altro capo del tavolo, giunse una risatina soffocata.
Beh, almeno aveva fatto ridere Sacco D’Ossa.
 
Il cugino William aveva pochi anni più di Heath e per fortuna era un pezzo che non si vedevano. Il ricordo più simpatico che aveva di lui era che lo chiamava Spina Nel Culo. William allora diventava rosso dalla rabbia, correva a dirlo a mammina, mammina riferiva a Neena e Heath si beccava una punizione.
Dopo un po’ aveva preso a chiamarlo Spina per comodità.
William aveva camminato a nove mesi, imparato a leggere a tre anni e riassunto per iscritto Le avventure di Tom Sawyer e Huckleberry Finn a sette. Non poteva che finire ad Harvard, e allora i suoi genitori si erano trasferiti nel Massachusetts, nel caso il cucciuolo avesse bisogno di loro. Era stato davvero un grande dolore quando si erano trasferiti, ossì. Certochesssssì.
Cazzo, il Massachusetts era lontanissimo. Cosa cavolo ci veniva a fare Spina a Highwood?
Il telefono emise un bip che risuonò come una fucilata. Poteva essere Rivkah? Memore di quanto era stato sfottuto nel pomeriggio, Heath si trattenne. Contò fino a dieci, si pulì educatamente la bocca con il tovagliolo e chiese il permesso di alzarsi.
Nessuno badò a lui, perché Isaias decantava la bellezza del paesaggio visibile dalla Cresta dell’Orso e le costine che avrebbero cotto su un fuoco acceso da lui.
Heath stabilì che l’Harley aveva bisogno di una bella corsa, e lui pure.
Il messaggio era solo un promemoria della scuola: dovevano passare a ritirare i diplomi.
 
L’aveva seguito.
Poteva essere? Sacco D’Ossa l’aveva seguito. Non era passato molto da quanto Jaime aveva smesso di seguirlo come un’ombra, e adesso ci si metteva lei?
Stava in piedi vicino all’ingresso della rimessa. La porta era spalancata ma lei se ne stava da parte, più fuori che dentro, appoggiata a uno stipite, come fosse indecisa tra nascondersi e mostrarsi. Come avesse paura di ostacolare il sole che, tramontando, entrava obliquo ad ammorbidire il buio e faceva brillare le cromature dell’Harley.
Heath finì di arrotolare il telo, poi fece rientrare il cavalletto e girò la moto verso di lei.
– Hai bisogno di qualcosa?
Lei scosse la testa.
– Bene. Allora io vado, eh?
Lei assentì. Non si muoveva. Lo fissava.
Perché non si levava dai piedi?
Heath aveva appena deciso che doveva parlare con Rivkah e aveva bisogno di rifletterci su. In più non ci stava proprio dentro, non poteva mettersi anche a sopportare una tipa stramba di poche parole.
– Com’è quel… come l’hai chiamato?
– Vuoi dire mio cugino William?
– Non l’hai chiamato così.
Anna Charmaine arrossì e si mise a ridere e poi nascose la faccia tra le mani e senza guardarlo pronunciò «Spina Nel Culo» come se dirlo lo costasse fatica, come fossero parole di una lingua straniera difficili da imparare; tra le dita e i sussulti lievi della risata repressa diventò ancora più rossa e Heath si ritrovò a scoppiare a ridere anche lui. Si stava rincretinendo, i ragazzi avevano ragione. Come dicevano? Chi va con lo zoppo…
Dio quant’era ridicola. Si vergognava per lei.
Adesso penserà che la trovo spiritosa.
– Senti, cancella tutto, non voglio mica influenzarti. Mio cugino è… figo. Vedrai. Ti piacerà tantissimo.
– Lo pensi davvero?
Spalancò gli occhi mentre lo diceva e si coprì la bocca con le mani, e la pelle lentigginosa si chiazzò di rosso sul collo.
– Di… di che colore sono i suoi occhi?
Eee pure questo problema hai, Sacco D’Ossa.
– Non hai mai avuto un ragazzo, vero?
Anna sbarrò gli occhi e assentì.
– Mia madre dice che è pericoloso.
Heath alzò un sopracciglio.
– Chiedi il permesso alla mamma per avere un ragazzo? Non è pericoloso, fidati.
Adesso penserà che me la voglio fare. Complimenti, scemo.
– Mi ha spiegato. Mia madre mi ha spiegato.
Ma perché diavolo raccontava a lui quelle cose?
– Anna? Anna, tesoro, dove sei? Ah, eccoti.
Ecco fatta la frittata. Donald Charmaine non avrebbe dovuto beccarli insieme dentro la rimessa.
– Grazie della chiacchierata. Scusatemi, ci si vede.
– No, Heath, non volevo disturbarvi, non devi andare e…
Certo che doveva andare, e alla svelta anche.
Il tempo di saltare sulla moto e li mollò nella rimessa, e che si accomodassero pure sul divano, se credevano.
 
Le stelle dell’estate si erano accese e la moto scivolava come su velluto blu notte. Buck non si vedeva. A Heath parve che un latrato lo salutasse, ma l’aria era troppo carica di profumi per poter resistere ancora e forse il suo amico aveva trovato qualcuno con cui correre.
Qualcuno che non era lui.

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Capitolo 8
*** Prendi il numero e mettiti in fila ***


8.

 

 

 

– Numero 37, avanti.

Heath spinse la porta del piccolo ufficio e poi se la richiuse alle spalle.

– Sono andato a casa vostra ma non c’era nessuno e così sono venuto qui.

Dietro la scrivania, Deanna Hamilton lo guardava da sopra gli occhiali. Se era sorpresa di trovarlo lì, nel suo ufficio ai servizi sociali, non lo dava a vedere.

– Buongiorno anche a te, Heath. Come posso aiutarti?

Heath non sopportava la madre di Rivkah. Cioè, non è che non gli piacesse come persona; era tosta come Neena e bella come una versione cinquantenne di Rivkah. E possedeva un’invidiabile collezione di vinile anni 80. Peccato per quel vizio di dire sempre la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità, manco fosse sotto giuramento ogni minuto della sua vita.

– Volevo sapere dov’è Rivkah.

– E vieni a chiederlo a me mentre lavoro? Mandale un messaggio.

– Gliene ho mandati una decina. L’ho chiamata. Non mi risponde.

– Non vuole vederti, Heath. Casomai ti fosse sfuggito.

Nella sede dell’assistenza sociale della municipalità di Northland–Highwood, Deanna si occupava delle pratiche di sostegno alle famiglie numerose. Distribuiva soldi ai poveracci, insomma, dopo aver verificato che ne avessero diritto. Indiani della riserva ma anche disperati di tutti i colori e di ogni parte del mondo. La gente pensava che Deanna lo facesse a suo insindacabile giudizio, secondo come si alzava la mattina e forse avevano ragione; quella strega doveva provare un certo piacere nel disporre dei destini delle persone.

Heath sbuffò, alzò gli occhi al cielo e fece per uscire, rimanendo a metà strada sulla soglia. Nella piccola sala d’attesa fuori dall’ufficio, una coppia di sudamericani lo fissava.

– Hai preso il numero, ragazzo?

– Ho preso il numero.

Era vero. Per vedere Deanna aveva aspettato mezz’ora.

– Devi prenderne un altro, se vuoi tornare dentro.

Fece un gestaccio ai due e poi rientrò nell’ufficio. Deanna si era rituffata nelle sue scartoffie.

– Per favore. Voglio solo parlarle. Non andate cianciando tutto il giorno che i conflitti si risolvono con il dialogo, tu e i tuoi colleghi?

Deanna tolse gli occhiali e si asciugò la fronte con un fazzoletto di carta; solo in quel momento Heath si accorse che era stanca. Doveva essere dura stare lì dentro ad ascoltare le lagne di tutti; lui non avrebbe fatto quel lavoro per niente al mondo. Con quel caldo, poi…

L’estate in quei giorni dava il meglio di sé; lui e Rivkah avrebbero potuto essere in qualche bel posto a prendere il sole o a tuffarsi nel fiume. Avrebbero perfino potuto prendere la moto e andare al mare e starci un paio di giorni. Eccheccazzo.

– La proteggete da me come se fossi un… cazzo ne so, uno stalker.

– Se ti può consolare, le ho detto che avrebbe dovuto parlarti.

– Ecco. Dimmi dov’è così ci parliamo.

Toccò a Deanna sbuffare.

– No, non te lo dico. Ti do un indizio: dove andresti tu con questo caldo?

– A fare un bagno nel fiume?

– Mah?

– Che cretino, potevo arrivarci da solo.

– Ci sei arrivato da solo, infatti, io non ti ho detto niente. Levati dalle scatole, ho da fare. Numero trentotto, avanti. Trentotto?

Heath schizzò via e quasi travolse la coppia di messicani cicciotti numero trentotto. I due gli lanciarono un sangre de dios e qualche altra brutta cosa incomprensibile prima di entrare da Deanna.

 

***

 

– Ehi, ragazze, guardate un po’?

Quattro teste di diversi colori e acconciature si girarono contemporaneamente in direzione della strada. Un ragazzo alto scendeva da un’Harley Davidson vintage e la sistemava in una delle piazzole per motociclisti, a pochi metri dalla riva del fiume. Scuro di pelle come avesse passato la vita ad abbronzarsi, portava lunghi capelli neri legati dietro in una coda. I jeans tagliati e la maglietta bianca d’ordinanza nascondevano ben poco delle braccia lunghe e della schiena ampia. Era bello da morire e perfino Julie, la più nerd delle ragazze – quella che se non portavi occhiali spessi tre dita nemmeno ti guardava – si fece scappare un sospiro. I bicipiti del tipo si gonfiarono e la pelle lucida di sudore si tese sui muscoli mentre caricava la moto sul cavalletto; una lode al Creatore si alzò, subito seguita da una preghiera.

– Dio, fai che venga da questa parte – sospirò la biondina con la coda.

– Amen, sorella – rispose devotamente Julie. Nera con una bella ciocca rossa, era la cugina preferita di Rivkah. Si era portata due amiche da Cincinnati, per la settimana di vacanza che avrebbero trascorso nel parco.

– Cazzo, no.

– Lo conosci, Riv? Non dirmi che è…

– Cazzo, sì. Questa sera dovrò strangolare mio fratello.

Julie alzò gli occhi al cielo.

– Smettila con le parolacce. Sei un’egoista, non ci pensi mai a noialtre poverette?

Heath ci sentiva piuttosto bene, anche da lontano.

– Ehi, non devi strangolare nessuno. Fa caldo e mi sono ricordato che venivamo qui quando faceva caldo, l’anno scorso. Perché mi eviti?

La biondina ridacchiò. La rossa si tirò su gli occhiali da sole.

Rivkah si alzò e si tuffò in acqua. In poche bracciate fu al centro del fiume, sulla secca dove altri ragazzi e ragazze prendevano il sole.

Così com’era, Heath si tuffò in acqua e la raggiunse.

 

– Sempre teatrale, tu

– Chi sono, quelle? Perché non mi rispondi? Che cosa ti ho fatto?

Sul greto del fiume le ragazze sedevano in fila, i piedi a mollo, e li guardavano.

– Mr. Maglietta Bagnata! Hai vinto!

Mancavano solo i popcorn.

– Sono una cretina.

– Non sei cretina.

– Sì, invece.

Rivkah passò una mano tra i capelli grondanti di Heath e glieli scostò dal viso. La mano indugiò un attimo di troppo sulla pelle del ragazzo, che la afferrò e se la premette sulla guancia.

Un ululato di approvazione si alzò dalla spiaggetta e Rivkah, stizzita, si ritrasse.

– Testone. Perché devi venire a farti ridere dietro dalle mie amiche? Pensa quanto sono cretina, mi dispiace per te. Stai facendo la figura dell’idiota.

– Non mi interessa.

Heath lasciò andare, riluttante, la mano più piccola e chiara dell’amica. Il mugugno di delusione degli spettatori intristì anche lui.

– Riv. Che cosa ho fatto? A me sembra di non avere fatto niente, ma magari il cretino sono io e non me ne sono accorto e…

Sul viso di Rivkah scorreva acqua; le gocce scintillavano sulle gote lucide e sulla fronte, e rivoli lucenti colavano giù dai capelli, lungo il collo, in mezzo al seno, e il sole ci giocava.  Heath si sedette accanto a lei e se la tirò vicino, e sentì la sua tensione sciogliersi, le spalle diventare più morbide.

– Forse sono stato egoista. Non ti ho chiesto niente di te, dell’università… Dicevi Auckland, giusto? Dovevo congratularmi, sono un asino. Io non vado da nessuna parte, non voglio lasciare Buck. Tua madre come l’ha presa? Dovrebbe essere felice, è una grande cosa per te e…

Rivkah si irrigidì. Heath tolse il braccio e la lasciò libera, e cercò il suo viso sul quale ancora l’acqua scorreva.

– Non capisci un cazzo, Heath. Ma veramente un cazzo. Congratulati e poi sparisci.

– Scusa ma io non…

– Mi hai sentita? Sparisci. Ma stavolta per davvero.

Rivkah lo scostò malamente e si alzò.

– Ascoltami bene, non te lo dirò un’altra volta. Non ti voglio più vedere. Devi uscire dalla mia vita, capito? È questione di poco, parto fra un mese. Fino a quel momento, levati dai coglioni. Non. Cercarmi. Più.

E si rituffò in acqua.

Heath rimase lì seduto per terra, i jeans fradici e la maglietta che non si voleva asciugare e gli lasciava sulla pelle una sensazione di freddo; il sole si era nascosto dietro nuvole nere. Forse era in arrivo un altro temporale estivo, di quelli che ti fregano sempre.

In poche bracciate Rivkah raggiunse le ragazze sul greto del fiume; Julie si alzò, le andò incontro e la abbracciò. Poi tutte quante raccolsero la loro roba e si avviarono verso il parcheggio. Nessuna si girò a guardare Heath. Una giovane coppia – lui grosso e tatuato e lei piena di piercing – che fino a un attimo prima limonava sdraiata sulle pietre calde, aveva slacciato le lingue e lo fissava; la ragazza sembrava particolarmente incavolata. Pure lei.

– Fatevi i fatti vostri.

Lei gli mostrò il dito. Era ora di tornarsene a casa.

Proprio in quel momento cominciò a piovere.

 

Un attimo dopo era come trovarsi sotto una doccia aperta al massimo. Il giubbotto che si portava sempre dietro non servì a molto e Heath si ritrovò di nuovo bagnato fino alle mutande. Letteralmente. Le gocce scorrevano lungo la spina dorsale come fosse stato a pelle nuda, fino alla fessura in mezzo alle chiappe. Era gelato, aveva bisogno di una doccia calda. Neena non l’avrebbe fatto entrare in casa, così fradicio: avrebbe dovuto cambiarsi sotto il porticato.

A proposito di porticato.

Buck se la rideva all’asciutto sullo zerbino. Dalla finestra del salotto Anna, protetta dal vetro, lo studiava a distanza.

Va bene. Forse se faceva una buona azione gli dei avrebbero avuto pietà di lui e i guai sarebbero finiti. Gocciolante, spinse la moto fino alla rimessa. Fece con calma, tanto più bagnato di così non avrebbe potuto essere.

 

Fece di corsa il pezzo di prato tra la rimessa e la casa; si era cambiato e si ribagnò di nuovo. Salì con un salto gli scalini e si piazzò davanti alla finestra.

– Dai, vieni fuori. Se vuoi puoi toccarlo, non ti fa niente.

La porta si aprì piano, cigolando. Dalla cucina arrivarono le voci degli adulti che chiacchieravano. Meglio, così nessuno l’avrebbe visto con Sacco d’Ossa.

Buck si alzò per andare incontro all’amico; la ragazzina con un balzo si nascose dietro la schiena di Heath e gli afferrò la maglietta.

– Dai, mollami. Ho detto che non ti fa niente.

– Ma è un lupo.

– Mezzo cane, mezzo lupo. L’ho trovato nella foresta, sua madre è morta.

Buck si appoggiò a Heath e alzò il muso verso di lui. Lo fissava con gli occhi grandi e dolcissimi; il ragazzo si abbassò un poco e il mezzo lupo gli leccò il viso.

– Ecco, vedi? Lui è… speciale.

– Era tanto piccolo? Quando… quando è arrivato. Quando sua madre è morta, voglio dire.

– Piccolissimo. Non aveva più di un mese, credo.

– Quando ero piccola i miei si sono lasciati.

– Che c’è, vuoi essere adottata anche tu?

Anna si coprì di chiazze rosse. Heath si morse la lingua, come cavolo gli era venuta in mente questa stronzata di adottarla? Lo sapeva solo il Dio degli Idioti, che oggi doveva essere l’unico che se lo filava.

– Uh, scherzavo. Intendevo dire… Se vuoi ti adotto. Per qualche giorno, intendo – bofonchiò Heath – ti porto a fare una passeggiata con Buck, così ti passa la paura.

Anna si strinse nelle piccole spalle magre.

– Lui è contento di stare con te?

Heath si inginocchiò accanto al lupo, che sollevò la grossa testa e gliela posò sulle ginocchia. Brontolò piano, mentre Heath gli passava la mano aperta tra le ciocche di pelo fulvo sul collo, più lunghe e morbide, che formavano una specie di criniera.

– Non gliel’ho mai chiesto. L’ho sempre dato per… scontato, credo. Non lo so. Ehi, sei contento di stare con me?

Buck gli leccò una mano.

– Non è che abbia avuto molta scelta.

– Perché dici questo?

– Quando l’ho preso con me era davvero molto piccolo. Aveva ancora bisogno del latte di sua madre ma lei non poteva più darglielo. Lui mi succhiava le orecchie. Gli ho dato del latte caldo, a casa, con una bottiglia. Non sapevo nemmeno cosa dargli da mangiare, nessuno mi aiutava. Isaias… mio padre non voleva che lo tenessi. Mi sono opposto. Ho cercato in giro, ho studiato e mi sono tipo trasformato in una lupa. Lo volevo.

Buck alzò la testa e fissò il ragazzo negli occhi.

– Lui è mio.

Heath prese il muso tra le mani e posò la fronte su quella del lupo, che chiuse gli occhi e mugolò di piacere.

– Mio. Tu sei mio, vero?

 

Neena chiuse le finestre, soddisfatta. Un temporale era proprio quello che ci voleva; avrebbe rinfrescato l’aria e le avrebbe dato il coraggio di accendere il forno per preparare una torta.

Isaias era tornato con due cesti di lamponi; glieli avevano regalati i bambini della scuola elementare, come ringraziamento per tutto quello che aveva spiegato loro sui lupi. «Niente marmellata, questa volta voglio una torta» le aveva detto.

Neena preparò prima la pasta: fece la fontana con farina e zucchero e, con le dita, cominciò a intriderli con il burro a cubetti. Dopo un po’ poté formare un panetto che mise a riposare coperto con un panno, quindi si occupò dei lamponi. Erano grossi e maturi; i bambini dovevano averli comprati o colti in qualche giardino, perché le siepi lungo le strade battute dai turisti erano già state spogliate.

La donna lavò i frutti e, con un coltello affilato, li tagliò a pezzi, fino a quando nella grande ciotola davanti a sé ne ebbe un bel mucchio, il cui succo rosso cominciava a colare sul fondo. Spremette un limone nella ciotola, cosparse di zucchero e poi, con le mani nude, cominciò a mescolare delicatamente.

Il coltello, appoggiato male sul bordo del tavolo, cadde per terra. Neena scosse rapidamente le mani e si piegò per raccoglierlo.

Era lì, col coltello in mano, quando l’urlo di Heath le trafisse le orecchie.

– Tesoro! Cosa c’è?

Suo figlio era bianco, come se la sua pelle – simile a quella bronzea di Neena – fosse stata candeggiata, o come certe rive sassose che asciugano al sole quando il fiume si ritira; la guardava negli occhi e la donna si toccò il viso, che rimase tinto di rosso. Gli occhi febbricitanti di Heath corsero dal viso di Neena alle mani rosse e grondanti, e poi di nuovo al viso sporco di rosso; il ragazzo boccheggiò e si tenne lo stomaco.

La fronte gli si coprì di sudore; poi corse via lungo il corridoio fino al bagno di servizio.

Neena lo trovò chino sul water.

– Cosa c’è? Hai mangiato qualcosa di strano? Ma… sei bagnato! Avrai preso freddo. Vieni con me.

Gli gettò sulle spalle la sua vecchia vestaglia, lo strinse e gli accarezzò il viso.

Heath tremava.

 

– No-o. Me l’hai chiesto almeno dieci volte. Non ho mangiato niente di strano, ero a stomaco vuoto.

La torta rimasta a metà strada era stata tolta di mezzo, e davanti a Heath fumava una tazza d’acqua calda dove Neena aveva sciolto un po’ di erbe del nonno.

Cosa ci mettesse Howakhan in quel miscuglio di roba secca, lo sapevano solo gli spiriti degli antenati. Comunque funzionava.

– Avrai preso un virus, allora. Bevi la tua tisana.

Sono troppo dura con lui?

– Fa schifo.

– Bevila lo stesso.

Heath strinse le mani attorno alla tazza calda e inalò profondamente.

– Non so cosa mi è preso, mamma.

Mamma.

Da un pezzo era diventata ma’ o perfino madre.

Non la chiamava più così da quando era piccolo, a meno che non stesse davvero molto male.

 

Il mare di sangue. Il mare di sangue.

Il sole filtrava appena dalle finestre sbarrate, ma qualcuno – che non poteva essere che lui stesso – aveva dimenticato di chiudere bene la porta della rimessa; così Buck l’aveva spalancata e adesso Heath aveva il sole in faccia. Dio, si era addormentato tipo mezz’ora prima – o così gli pareva – ed era già l’alba.

Buck saltò sul divano letto e gli si sdraiò sulla pancia, poi decise che era ora di alzarsi. Gli leccò il naso, poi passò alla bocca e Heath schizzò a sedere come una molla.

– Maccheschifo! Via, bestione!

Buck abbaiò e continuò a leccarlo e Heath lo allontanò piantandogli un piede nelle costole. Scoppiò una zuffa che finì con il ragazzo per terra e il cane sdraiato sopra di lui.

– Ok, mi arrendo.

Buck diede ancora una leccata, poi gli posò il testone sullo sterno; era davvero pesante. Come avere un’anguria giusto al centro del petto. Il cane si allungò di nuovo, si sistemò e Heath lo grattò dietro alle orecchie. Poi rimase fermo a fissare il soffitto a travi della rimessa.

Non solo aveva di nuovo dormito di merda, ma c’era anche stato l’incubo.

Doveva essere colpa del divano letto. Da quando l’avevano obbligato a cedere il suo letto a Sacco d’Ossa, aveva scoperto che quel cavolo di divano poteva andare molto bene per… per lui e Rivkah, ma dormirci tutta la notte era un’altra faccenda.

Un letto scomodo poteva far fare brutti sogni, su questo non c’era dubbio. Non avrebbe dovuto farne un dramma. Peccato che poi non riuscisse a riaddormentarsi, era quella la vera seccatura.

Buck si era lasciato cadere al suo fianco e si era riaddormentato profondamente. Russava in quel suo modo pacifico e così anche Heath si rilassò, contro il pelo caldo e morbido. Buck sapeva di cane, sì, ma era un odore buono come tutti gli odori che erano casa: quello della cucina e del cibo che si cuoceva, della sua stanza e dell’aria della foresta, che restava nei capelli e nei vestiti.  Buck sapeva anche di bosco, resina e aghi di pino, di erba e fiori senza nome; gli ricordava luoghi sicuri e sonni tranquilli. Meglio per terra vicino a Buck che su quello stupido materasso di gommapiuma.

Il corpo del ragazzo si appesantì fino al dormiveglia, ma il ricordo dell’incubo gli impedì di lasciarsi andare.

Doveva essere normale che ci pensasse ancora. Non era stata una scena di quelle che si vedono tutti i giorni: era più strano che negli ultimi tre anni non l’avesse mai sognata.

La lupa. La madre di Buck.

Con la pancia aperta e gli intestini sparsi sulla neve.

Perfino Isaias aveva accusato il colpo, quel giorno; Heath si ricordava bene suo padre bianco come uno straccio. Dopo, mentre tornavano a casa, non aveva parlato per ore.

– Sua madre è morta. Ha lottato con un orso – era stato il breve racconto del guardacaccia alla moglie, appena arrivati a casa. Allora Neena li aveva abbracciati entrambi. Non aveva nemmeno brontolato quando Heath aveva portato in casa il piccolo.

Neena aveva parlottato a lungo col nonno, quel giorno. Era rimasta con lui sotto il portico, perché il vecchio non rinunciava alla sua sedia a dondolo e alla vista delle montagne, nemmeno nelle giornate più fredde. Accoccolata ai piedi del vecchio, sua madre aveva parlato e ascoltato le rare parole dell’uomo anziano. Forse aveva anche pianto.

La sera, a Heath era stato permesso di tenere il cucciolo con sé nel letto. Era così che avevano cominciato a dormire assieme, almeno fino a quando non era diventato il bestione che era.

Quando Isaias, più tardi, aveva aperto piano la porta, Heath aveva fatto finta di dormire; il piccolo invece si era agitato. Isaias gli aveva accarezzato la testa fino a quando Buck non aveva infilato la testa sotto l’ascella del ragazzo e si era calmato. Poi il guardaparco aveva rimboccato loro le coperte – non riusciva a farne a meno, anche se il figlio era ormai grande – e se ne era andato in punta di piedi.

 

Tutto quel sangue.

Gli venne di nuovo da vomitare.

Si scrollò di dosso il cane e uscì così com’era, in boxer e maglietta. Girò attorno alla rimessa e, sul retro, cercò di tirare su in fretta e senza fare troppo casino. Poi tolse la maglia e andò a sciacquarsi il viso alla vecchia fontana a pompa, dove rimase un istante a specchiarsi nell’acqua della vasca.

La vedeva ancora. Sempre la lupa.

Gli occhi glieli aveva chiusi lui. Sembrava che dormisse, sul serio. Aveva solo dovuto concentrarsi sugli occhi, ricordarsi di non guardare più in giù così gli sarebbe sembrato che dormisse, che l’orso non l’avesse...

Tutto quel sangue. Sparso sulla neve.

– Stai… stai bene?

La voce avrebbe potuto disperdersi al primo soffio di vento, ma le parole erano chiare.

Cosa cazzo ci faceva Sacco d’Ossa sveglia, a quell’ora?

Avrebbe fatto bene a evitare gli short, la ragazzina. Si vedevano troppo le gambe da scheletro in libera uscita. E la solita maglietta di un cartone animato giapponese era ridicola, infantile, e lei non solo era sveglia poco dopo l’alba, ma aveva già in mano un libro.

Un libro illustrato, tipo un libro per bambini. Storie di Dei ed Eroi, una cosa del genere. Ma non si vergognava?

– Stai… stai vomitando?

Heath si asciugò la bocca sul braccio e si ricordò che era in mutande.

– Senti, fatti i cazzi tuoi, eh?

Le diede le spalle, poi con pochi passi furiosi rientrò nella rimessa e sbatté la porta dietro di sé.

Sentiva da dentro la presenza della rompiscatole. Come riusciva a essere tanto irritante? Al confronto, Spina nel Culo era un dilettante.

Spiò da dietro la finestra. Sacco D’Ossa non era andata via: era ferma in piedi, gli avambracci a riparare lo stomaco, le mani strette sui gomiti.

Forse voleva solo, tipo, essere gentile?

D’accordo, era stato brusco. Forse.

Forse avevano ragione tutti quanti e lui stava diventando una persona orribile.

 

– Dove sono gli altri? – chiese più tardi Heath alla madre che si preparava a uscire in macchina.

– Hanno già fatto colazione. Donald è andato con papà a fare il giro del mattino e Anna ha detto che sarebbe tornata in camera sua. Deve scrivere una lettera.

– In camera sua?

– Che noia che sei, figlio.

Tutti avevano qualcosa da fare. Tutti davano un senso alle loro giornate. Perfino Buck, probabilmente, aveva le sue Cose Molto Importanti da fare. L’unica cosa che faceva lui, invece, era controllare i messaggi sul telefono (e incazzarsi perché non arrivava mai niente. Non quello che sperava, in ogni caso).

Era ora di darci un taglio. Che andasse al diavolo anche Rivkah, era ora di darsi da fare: per Buck, e anche perché rischiava di diventare matto. Di fondere il cervello continuando a chiedersi il perché di tutto, senza arrivare da nessuna parte.

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Capitolo 9
*** Cheryl, o forse no ***


Faceva così caldo che, in moto, era come puntarsi un phon in faccia.

 Il calore saliva dall’asfalto della strada che scendeva verso il centro di Highwood; il riverbero rendeva tutto un po’ irreale, tanto da fargli credere di vedere qualcuno che, a piedi, camminava lungo il bordo della strada. Heath strizzò gli occhi.

Qualcuno c’era veramente: le ginocchia ossute e gli short pieni di niente erano inconfondibili.

Heath si affiancò ad Anna con la moto e la ragazzina continuò a camminare guardandosi i piedi.

– Cosa ci fai qui? È pericoloso camminare a bordo strada.

– Vado in paese.

Ancora quella voce leggera che si dileguava nell’aria come fumo. Heath si vergognò ricordando come le aveva risposto quella stessa mattina, molto presto.

– Sono quattro chilometri, come minimo. Se avevi bisogno di qualcosa bastava dirlo, qualcuno ti avrebbe accompagnata.

– Non volevo disturbare nessuno ma devo imbucare la lettera per Cheryl.

– Chi è Cheryl?

– Una mia compagna di scuola.

– Non ha un telefono, Cheryl?

– Le piacciono un sacco le lettere.

Cristo, io ci provo a essere gentile.

– Se vuoi puoi dare la lettera a me, te la imbuco io. Così puoi tornare a casa.

– Mi piace camminare. Davvero. Scusami.

E accelerò il passo.

– Come preferisci.

Heath diede gas e si lasciò alle spalle tutto quell’imbarazzo.

 

L’edificio della Forestale si trovava nella zona nuova di Highwood, ma si sforzava di imitare, nei materiali e nello stile, un vecchio cottage di montagna. Sul retro c’erano i recinti degli animali; Isaias ce lo portava da bambino, una volta aveva visto perfino un orsacchiotto. In mezzo alle guardie forestali, Heath si sentiva a casa sua.

La segretaria del signor Delaney, il responsabile amministrativo della sezione locale, non lo fece aspettare troppo.

– Non dirmi che sei dei nostri, giovanotto?

– Non lo so, Rita. Mi piacerebbe tanto. Mi sto informando.

– Tuo padre ha detto che saresti andato al college.

– Ehm. Non lo so. Ora vediamo.

 

Anche lo studio di Delaney tentava di imitare un cottage e forse ci riusciva un po’ meglio. Era rivestito di legno fino a metà altezza delle pareti e due teste impagliate, un cervo e un orso, da anni fissavano con i loro occhi di vetro i visitatori che si fermavano sulla soglia.

Heath si sentì osservato. La porta era aperta, ma il ragazzo bussò lo stesso.

– Signor Delaney? Posso?

– Oh, Heath. Dimmi tutto, ti serve qualcosa?

– Voglio diventare una guardia forestale.

– Tuo padre lo sa che sei qui?

– Cosa c’entra mio padre?

Delaney si alzò e chiuse la porta. Il cervo e l’orso non perdevano d’occhio Heath così, quando Delaney tornò alla scrivania e inforcò gli occhiali, al ragazzo sembrò che fossero in tre a studiarlo con molta attenzione.

 

– Come sarebbe a dire serve un titolo di studio? Io ce l’ho, un titolo di studio.

– Il diploma non basta. Non vedo il problema, comunque. I tuoi vogliono che tu vada al college, tu vai al college e poi torni da me. Ne riparliamo.

– Mio padre non è andato al college.

– Tuo padre è entrato nella forestale trentacinque anni fa. Non funziona più così: prendiamo stagionali per i lavori pesanti, ma le guardie in forza al dipartimento hanno tutte un titolo di studio superiore. Tutte le facoltà scientifiche vanno bene, praticamente, anche se biologia va per la maggiore.

– Allora farò lo stagionale.

– Un sacco di padri di famiglia ne hanno più diritto di te.

– Gliel’ha detto mio padre di raccontarmi queste cose?

Delaney si alzò e piantò le mani sulla scrivania.

– Sentimi bene, Heath. So delle tue beghe con i tuoi e sono d’accordo con loro: se tu fossi mio figlio vorrei esattamente la stessa cosa. Ma faccio seriamente il mio lavoro e le cose stanno così: se vuoi fare il ranger ti serve un titolo di studio. Questo è un lavoro: niente favole, niente romanticherie, niente spiriti dei boschi eccetera. È un lavoro come un altro e ti serve un titolo di studio. Punto.

Si alzò anche Heath, ma rimase a testa bassa.

– Non volevo essere… maleducato. Le chiedo scusa. Ok, un titolo di studio.

– Scusa, non per farmi gli affari tuoi. Non vuoi lasciare quel lupo, vero? È questo il motivo?

– È un cane. Perché pensate tutti solo a quello?

– Non puoi farti condizionare da lui. Tutti vanno via da qui, prima o poi. Che futuro avresti, qui?

– Buck non c’entra niente. Grazie, signor Delaney.

 

Fuori dall’ufficio Heath salutò Rita e si allontanò, le mani in tasca. Lo sguardo compassionevole della vecchia segretaria gli bucava la schiena.

Ma una cazzo di buona notizia ogni tanto, no?

Il sellino della moto scottava e un po’ anche le manopole, ma fu un sollievo lanciare l’Harley sulla strada in salita.

E al secondo tornante la rivide, ancora di spalle; anche lei tornava a casa.

Accostò, i giri del motore bassi come fusa di gatto, ma Anna continuò a camminare. Posava meticolosamente i piedi sulla striscia bianca della corsia di destra.

– Hai spedito la tua lettera?

Nessuna risposta. La ragazzina teneva gli occhi bassi, il mento sul petto. I piccoli passi veloci e dritti si fecero più frequenti.

– Ehi! Ce l’hai con me? Non volevo essere scortese, stamattina. Ti chiedo scusa.

Sacco d’Ossa non si fermò.

– Ehi, stavo vomitando!

La ragazzina si fermò e gli piantò gli occhi in faccia. Aveva occhi azzurri sproporzionati al resto del viso; Heath non ci aveva mai fatto caso prima.

– Non voglio darti fastidio. Mi va di camminare.

Il ragazzo sospirò. Ok, era stato davvero insopportabile. Non era colpa di Sacco d’Ossa se il mondo ultimamente girava al contrario.

– Non mi dai fastidio. Senti, se tu adesso ti fai dare un passaggio, un giorno di questi ti faccio conoscere Buck.

– Lo conosco già.

– Voglio dire, ti porto a fare una passeggiata. Visto che la gita con mio cugino è saltata, andiamo noi a fare un giro, una cosa facile facile, e Buck viene con noi.

Gli occhi azzurri si illuminarono nel visetto magro e sì, era un solletico alla base dello stomaco che Heath sentiva. Una specie di tenerezza, simile a quella che provava quando Buck era piccolo e faceva una cosa stupida e buffa. Tipo, cadere faccia in avanti nella ciotola del suo latte.

– Allora va bene. Cosa…

– Devi salire sulla moto.

Anna rimase impalata, ferma dov’era. Bene, non era mai salita su una moto.

– Metti un piede lì e poi lì e attaccati alla maniglia dietro. Giuro che vado piano.

La ragazzina si decise. Un piede e poi l’altro, e poi le mani sulla maglietta, tiepide.

– Devi stringerti, se no voli per terra.

Le prese le mani e se le appoggiò sul ventre, belle strette, e ci batté sopra come a dirle ferma così.

La moto si mosse leggera, come non avesse portato niente in più, solo delle piume o qualcosa d’inconsistente.

Beh, almeno Neena sarebbe stata contenta. Era stato gentile, no? E senza secondi fini: Sacco d’Ossa non era il suo tipo. Non era il tipo di nessuno che lui conoscesse, garantito.

Partirono e il vento caldo li investì, ombre tremolanti come miraggi nella vampata dell’asfalto liquefatto.

 

Neena sedeva al suo PC, gli occhiali sul naso, il browser aperto sulle notizie locali.

– Sei andato all’ufficio dei ranger, oggi.

Non era una domanda. Sua madre sapeva sempre quello che succedeva in giro e, soprattutto, quello che faceva lui. In effetti, cambiare aria poteva essere una buona idea.

– Ci sono andato.

– E?

– E niente, non mi va di parlarne.

In accappatoio, i capelli grondanti e i piedi bagnati, Heath aprì il frigo. D’accordo che adesso dormiva in rimessa, ma quella era ancora casa sua, no?

Non c’era niente di interessante, in quel frigo.

– Ho visto che hai riportato a casa Anna. Fai bene a essere carino con lei, non ha molti amici.

– Non è vero. Scrive tutti i giorni delle lettere a questa Cheryl e oggi è andata a imbucarne una. È una sua compagna di scuola.

Neena si tolse gli occhiali e li posò vicino alla tastiera del PC. Con un gesto, invitò Heath a sedersi e il ragazzo obbedì, con il barattolo dei biscotti in mano.

– Sei abbastanza grande e intelligente da tenere per te le cose che sto per dirti?

– No. Buck le verrà a sapere.

Neena gli lanciò una penna, ma non era arrabbiata. Non in quel momento. Le piaceva, in fondo, quando faceva lo scemo così.

Poi si fece seria.

– Anna non va a scuola da anni.

 

Heath arrossì, manco fosse stato lui quello che raccontava delle bugie. Oddio, se c’era qualche storia strana e tragica dietro a Sacco d’Ossa lui non voleva saperne niente, non era tagliato per quelle cose. Se lo sentiva che era troppo strana e che c’era dietro una storia patetica, accidenti a lui che le aveva dato confidenza.

– Come sarebbe, non è mai andata a scuola?

– Sua madre non ce la voleva mandare. Le ha insegnato lei, in casa. Non la faceva mai uscire. L’accompagnava ovunque, mai in autobus da sola, mai una festa dai vicini se non poteva accompagnarla lei stessa. È per questo che Donald l’ha lasciata: quando Anna sta con lui, ha una vita quasi normale. Quasi.

No, grazie, vado da sola. Devo imbucare la lettera per Cheryl.

– Non mi piacciono le storie patetiche.

– Il mondo è pieno di storie… patetiche, come dici tu.

Era quasi sera; il sole era abbastanza alto per ricordare a Heath che era ancora estate. E che quella avrebbe potuto – avrebbe dovuto – essere una splendida estate.

Gli vennero in mente Rivkah e Delaney e la cazzo di lettera di Pasadena; era ancora in tempo per rispondere. Avrebbe voluto che fosse già troppo tardi.

– Vado a sistemarmi per la cena.

E magari avrebbe anche trovato qualcosa da fare coi ragazzi, e quella sera a cena non ci sarebbe nemmeno andato.

Buonasera a tutti. Grazie a chi legge, ancora di più a chi recensisce ^^. Alla prossima! J.

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Capitolo 10
*** I went in the woods ***


Jaime lanciò e fece canestro, poi toccò a Heath. Tre tiri, tre cilecche.
– A casa è uno schifo. Una pazza mi ha rubato la camera e anche mia madre sta dando i numeri.
– La mia li dà tutti i giorni. La pazza sarebbe la ragazzina con i capelli neri? Non sembra male.
– L’ho sempre saputo che hai dei gusti di merda.
– Infatti gioco a basket con te e in più sono tuo amico. Comunque ti sbagli, lei è carina.
– Lasciala perdere, fidati.
Heath si asciugò il sudore nella maglietta e corse a recuperare la palla. Dovette chinarsi e strisciare sotto a un cespuglio di rovi per arrivarci, ma quello era il regolamento: chi sbagliava il tiro andava a recuperare la palla, ovunque fosse. Heath riemerse dai rovi graffiato, impolverato e avvilito. Non che gli dispiacesse stare con Jaime, ma fino a un mesetto prima non sarebbe stato lì con il moccioso a sfogarsi su una palla da basket. Sarebbe stato con Rivkah su una coperta a guardare il cielo, a parlare delle loro madri isteriche mentre le infilava una mano sotto la minigonna e poi…
E poi Riv gli avrebbe dato uno schiaffo. Avrebbe preteso di sapere cosa era successo, come stava lui, come andavano le cose. Dovevano parlare, loro, comunicare. Ma dopo… Beh, almeno dopo ci sarebbe stato il dopo.
Meno male che non aveva davvero un display acceso sulla fronte: a Jaime non sarebbe piaciuto il filmino che scorreva in quel momento sul suo schermo personale, in dolby surround.
– Sei messo male, una volta un centro ogni tanto lo facevi.
– Ma sentilo, Michael Jordan dei poveri. Ti batto quando voglio.
Invece di rilanciare la palla a Jaime per il suo turno, Heath fece un paio di palleggi, schivò un avversario immaginario, piroettò su se stesso e lanciò.
Cilecca di nuovo, ovviamente. Ma Jaime andò a recuperare la palla per lui.
– Che stavi dicendo di tua madre?
Luglio avanzava ed era passato il mezzogiorno; era un anno insolitamente caldo e l’aria soffocante comprimeva i polmoni.
– Heath? Sei con me?
Il ragazzino si era avvicinato con la palla in una mano e la bottiglia dell’acqua nell’altra. Gli stava offrendo da bere.
– Scusami, sono un pacco.
Il prato brulicava di gente che prendeva il sole. Passò un drappello di ragazzine di seconda, le coperte sotto braccio, che li squadrò per bene. Qualcuna nella combriccola fischiò e un’altra rise forte girandosi verso un’amica.
Heath non se ne accorse nemmeno.
– Guardavano te. Forse dovresti…
– Magari guardavano te, invece. Io di donne non voglio più saperne niente.
Non era da lui farsi beccare così… ferito? No, la parola giusta era un’altra. Il termine tecnico era «sfigato».
Vabbè, che altro aveva da perdere?
– Come sta Rivkah?
Nessuna risposta.
– Dov’è andata tua sorella, oggi? Ancora al fiume?
Jaime alzò gli occhi al cielo.
– Ma che cazzo, Jaime! Ho solo chiesto dov’è!
– Non è vero, mi hai chiesto anche come sta ma non fa differenza, tanto non te lo posso dire. Non posso neanche nominarla davanti a te, se vuoi saperlo. Ci tengo alla pelle, io.
Heath, in pantaloncini da basket, si lasciò cadere sulla scalinata di cemento ma schizzò subito in piedi come una molla.
– Scottato il culo, Riley? Forse non sei stato una gran perdita per la squadra, dopo tutto.
Mick Donovan e il suo codazzo di cretini sghignazzavano senza ritegno. Si disposero sul campo e cominciarono a passarsi una palla da basket. Mick palleggiò e lanciò la palla in faccia a Heath, che la fermò con le mani a un centimetro dal naso.
– Non esci più con sua sorella – latrò Donovan indicando Jaime – si è stancata di fare beneficienza? Potrei mettermi in lista io, magari. Forse è maturata e ha dei gusti migliori.
Ci pensarono Jaime da una parte e gli scagnozzi dall’altra, che erano venuti per giocare e non per una rissa, a tenerli fermi tutti e due. Portarono Mick Donovan lontano, verso il centro del campo, e fecero segno a Heath e Jaime di levarsi dai coglioni.

Jaime stese l’asciugamano sul prato e i due si sistemarono l’uno accanto all’altro.
– Stammi lontano, non voglio che pensino che mi sono fidanzato con te.
– Non prendo mai gli avanzi di mia sorella. Ehi, va tanto da schifo?
Heath era stufo di fare il duro.
– Tua sorella non mi vuole. Mia madre mi massacra, non mi perdona di non voler andare al college. Non avevo idea che per lei fosse così importante. Non so, pare che se non ci vado si scatenerà la fine del mondo.
– E tuo padre?
– È come se avesse delegato la faccenda a lei… Sta zitto e guarda cosa succede.
– E tu?
– Io cosa?
– E tu, tu che cosa vuoi fare?
Heath non ci dovette pensare molto.
– Io voglio che non cambi niente.
Non era vero. Voleva che cambiasse almeno una cosa: che Rivkah tornasse sua amica. Che si desse una calmata e tutto tornasse come prima.

Le luci di casa Riley erano ancora spente, quando Heath rientrò quella sera; tutte, tranne quella della cucina. Il tramonto lanciava lunghe ombre rosso scuro ai piedi dei pini, ombre che ai bordi diventavano viola e presto avrebbero annunciato la notte.
La porta d’ingresso non era mai chiusa a chiave, perché nessuno avrebbe violato la casa del guardaparco. Heath spinse la porta ed entrò per la doccia della sera.
Dalla cucina arrivarono le voci di sua madre e di suo padre.

–  Non ho mai capito perché non vuoi dirgli la verità. Avremmo dovuto dirgliela subito. Ci sono cose che sembrano grosse e invece non lo sono, ma se aspetti poi crescono come bombe di merda.
– Isaias!
– Isaias un accidente. Avremmo dovuto dirglielo fin da piccolo, così si sarebbe abituato, non ci sarebbe stato niente di strano, no? Adesso invece…
Neena si chiuse le orecchie con le mani.
– Non gliel’abbiamo detto perché non c’era niente da sapere.
In due passi Isaias la raggiunse e Neena notò, curiosamente – i dettagli più stupidi nei momenti più assurdi – che le gambe del marito erano lunghe, e che se fosse stata lei a dover fare quei passi non ne avrebbe fatti due, ma all’incirca quattro.
– Ascoltami. Ehi, guarda me. Io ti adoro, sei l’amore della mia vita. Queste cose te le dico perché ti amo e perché devi andare avanti. Come fai a dire che non c’era niente da sapere? Ci credi davvero, a questa stronzata?
– Non c’è niente da sapere!
– Neena, cazzo!
La donna si tolse le mani di lui dalle spalle. Cercò con gli occhi una via di fuga. Raggiunse la porta, ma prima di uscire parlò ancora.
– Il sangue è sangue, Isaias. Non c’è niente da sapere. Punto.

– Cosa ci sarebbe, da sapere?
Per poco Neena non sbatté contro il petto di suo figlio, e sbiancò.
Da quanto tempo era lì?
– Sono cose che non ti riguardano, roba tra me e tuo padre. Giusto, Isaias?
Isaias strinse le labbra.
– Isaias!
Erano tutti e tre attorno al tavolo della cucina, adesso, il ronzio del freezer a sottolineare il vuoto delle parole, che attendeva di essere riempito. Neena e Isaias restarono in piedi uno di fronte all’altra a sfidarsi.
– Cosa sta succedendo, qui?
Neena si irrigidì. Le pupille nere divennero due puntini nel volto pallido.
– Isaias.
Il guardaparco curvò le spalle.
– Non sta succedendo niente, ragazzo. Non sta succedendo proprio niente. Cose nostre che non ti riguardano.
Neena li lasciò. Dopo neanche mezzo minuto, l’uomo e il ragazzo sentirono la sua auto mettersi in moto e partire. Il motore fu inghiottito nel silenzio della notte imminente.

Nella cucina aleggiavano ancora gli odori della colazione. Heath avrebbe volentieri ricominciato da capo, dai pancakes magari, ma Sacco d’Ossa fece il suo ingresso silenzioso. Gesù, aveva davvero bisogno di mettere su un po’ di carne. Sembrava malata, forse lo era davvero. Magari aveva una malattia seria.
Doveva dirle qualcosa di carino?
– Allora, sei pronta?
Anna lo fissò, tremante.
Ma cosa cavolo ho detto di sbagliato?
– Ehi, tutto ok? Ti senti… Vuoi che rimandiamo?
– No, no, tutto bene – rispose Donald per lei, arrossendo – è solo emozionata. Sei emozionata, vero, tesoro?
Ancora nessuna risposta.
– È la sua prima gita in montagna.
– Su, cara, dovete partire. Non si va in montagna così tardi, il tempo può cambiare in fretta – disse Neena per tutti. Heath si pulì la bocca e raccolse da terra lo zaino. Buck, ammesso in cucina per l’occasione, grattò la porta.
– Allora noi andiamo. Ma’, torniamo prima di cena. Avremo molta, molta, fame.
– Hai mangiato come quattro orsi, stamattina. Va’ a fare un po’ di movimento, va’.
Così Heath si avviò e dovette girarsi due volte per essere sicuro che la ragazzina lo stesse seguendo. Buck li precedette sul sentiero che entrava nella foresta, sulla pista lungo la quale loro due correvano quasi ogni giorno.

Heath aveva scelto un percorso semplice, una passeggiata abbastanza lunga ma tutta in costa: niente salite ripide e una bella alternanza di prato e bosco con qualche punto panoramico. Avrebbe potuto farla a occhi chiusi, non era il giro che avrebbe scelto per se stesso e Buck, ma così sarebbe andato sul sicuro. Non era certo che la tipa fosse in grado di reggere una camminata seria.
«È più forte di quello che sembra» aveva insistito Donald. L’uomo dalla barbetta rossa l’aveva ringraziato quasi piangendo e Heath avrebbe voluto sprofondare. Dovevano essere messi proprio male, quei due.
I passi di Anna erano dei leggeri pof pof alle sue spalle, perché la ragazzina non aveva scarponi e Neena gliene aveva prestato un paio dei suoi, troppo larghi. Il ritmo non era sempre regolare; di tanto in tanto Sacco d’Ossa doveva accelerare per non perderlo, e allora Heath si sforzava di rallentare, sbuffando. A quel ritmo non sarebbero arrivati mai più.
Anna non gli andava mai troppo vicino, restava sempre qualche passo indietro.
A Bellevue Point, una terrazza di pietra sospesa su un burrone, fecero la prima sosta. C’erano un paio di panchine a una ragionevole distanza dalle protezioni, ma si poteva anche salire poco più su, fino a una seconda terrazza più piccola dove ci si sentiva davvero sospesi nel vuoto.
– Guarda. Se facciamo ancora quei dieci metri, vedremo la valle come se stessimo volando.
Si era raccolta i capelli in una treccia. Le lentiggini non erano molte, sembravano di più perché lei arrossiva in continuazione. Forse era anche colpa del sole. La prima volta che l’aveva vista, nella loro cucina, era bianca come un tovagliolo.
Lei non disse niente, si limitò ad assentire dopo uno sguardo veloce al punto indicato da Heath.
In cima alla rupe il ragazzo tolse lo zaino e si sedette, poi batté con la mano sulla roccia coperta di licheni di fianco a sé.
– Siediti, questo posto merita una sosta.
Anna si sistemò dove Heath le aveva indicato – il più lontano possibile. Il ragazzo osservava il suo viso mentre, poco a poco, lei si rendeva conto di ciò che stavano guardando.
Davanti a loro si stendeva la valle dell’Eden.
Adamo ed Eva dovevano aver visto qualcosa del genere, se nel Paradiso Terrestre c’erano state delle montagne. Heath se ne stupiva ogni volta e di paesaggi ne aveva visti parecchi, seguendo Isaias sulle piste del parco. Nella direzione in cui si sarebbe dovuto scorgere qualche segno di presenza umana, non si vedeva niente che fosse stato creato dall’uomo. C’erano solo rilievi più bassi e alberi, moltissimi alberi, un mare d’alberi a perdita d’occhio, soprattutto foreste di conifere. Qua e là spiccavano irregolari macchie verdi più chiare, che si tingevano di viola sfumando in lontananza. Niente costruzioni, tralicci, sentieri, niente di niente: solo la magia dell’inizio del mondo.
Gli occhi della ragazzina si spalancarono, le labbra si aprirono leggermente – la sua bocca un giorno sarebbe stata bella, forse. Heath fu certo che lei aveva capito.
Poi Buck si materializzò nel loro campo visivo.
– Oh, Dio. Zitta, non chiamarlo. Non parlare.
Dieci metri più a destra sulla parete di roccia, un altro spuntone si sporgeva nel vuoto e su quello Buck, in piedi, immergeva il muso nelle folate di vento che risalivano la montagna. Il pelo lungo e morbido attorno al collo ondeggiava, come le chiome degli alberi nella valle sotto le raffiche più forti. Le orecchie puntate all’indietro, il muso in alto, Buck sembrava cercare qualcosa nel cielo. Sotto di lui, trecento metri di strapiombo.
– Devo andare a prenderlo.
– Dovevi legarlo.
Heath riprese la pista, che in quel punto si tuffava tra gli alberi.
– Come dici, scusa?
– Che devi legarlo. Se c’è pericolo devi legarlo.
– Tu sei matta, non gli farei mai una cosa del genere.
Ormai correva e non gli importava più che Sacco d’Ossa gli tenesse dietro. Trovò sulla sinistra un sentiero meno battuto, dove l’erba piegata denunciava un passaggio recente, e poi gli alberi si aprirono ancora e ad un paio di metri ora Buck lo guardava, la vastità della vallata alle spalle.
– Vieni, amico. Piano piano. Vieni da me.
La grossa testa si abbassò, gli occhi buoni a cercare quelli del ragazzo. Buck girò su se stesso; ora aveva le spalle allo strapiombo, le zampe posteriori a pochi centimetri dal vuoto.
– Bravo. Adesso vieni da me.
La ragazzina trattenne il fiato e il suo terrore gelava l’aria. Heath si rese conto che anche lui aveva smesso di respirare. Arretrò piano, una mano tesa verso il muso di Buck, e in pochi secondi la lingua di roccia si allargò, e fu di nuovo prato e terra sotto i loro piedi.
Si inginocchiò e cinse il collo del lupo.
– Senti, lo so che sei in gamba ma è meglio se non lo fai più, capito? Lì il vento è forte, io…
Heath nascose la faccia nel pelo del collo di Buck. Poi si riscosse; Anna lo fissava, imbarazzata.
– Andiamo o non arriveremo più.
– Secondo me dovevi legarlo.
Buck uggiolò.
Heath guardò malissimo tutti e due e si rimise in cammino.

Si accorse del balletto tra i due su un pianoro, dopo che gli alberi si erano aperti e, poco a poco, il bosco si era trasformato in prato.
Buck si era fermato ad annusare qualcosa; Anna partì trotterellando sotto il peso del suo zaino e si fermò qualche metro più avanti. Poi un piccolo stormo di towhee si alzò in volo a fianco della pista e Buck si lanciò verso di loro; Anna allora scattò indietro. Alla fine, Heath si ritrovava sempre nel mezzo.
– Ok. Che state facendo, voi due?
Uno non poteva parlare e all’altra si dovevano etrarre le parole con la tenaglia, così nessuno dei due gli rispose.
– Hai paura di Buck? Gli stai lontana?
Anna batté gli occhi e assentì.
– Nah, non ci credo.
Gli occhi azzurri si dilatarono; la ragazzina se la cavava meglio con quelli che con le parole.
Heath osservò prima uno, poi l’altra.
Buck pesava una volta e mezza Anna, libbra più, libbra meno. E aveva le zanne. Va bene, forse a qualcuno poteva incutere un po’ di timore. Non tutti lo avevano visto… come l’aveva visto lui. Piccolo. Indifeso.
In balia di un mostro.
Aveva allattato Buck con un biberon: poteva crescere finché voleva, per lui sarebbe rimasto sempre un cucciolo.
– Vieni qui.
Le tese la mano.
– Dai, avvicinati. Va tutto bene, te lo prometto.
Anna non si mosse.
– Lo so che ce la puoi fare. Dai, vieni. Non volevi toccarlo, l’altro giorno?
Anna arrossì come i gigli rossi che punteggiavano l’erba alta, poi finalmente fece un passo e poi un altro mentre Heath stendeva una mano verso di lei; quando fu abbastanza vicina, il ragazzo credette di prendere la mano di lei, dalle lunghe dita magre, ma Anna se la ficcò in tasca.
Beh, almeno si era avvicinata.
– Mettiti dietro di me, così sei più tranquilla – e se la spinse dietro le spalle. Poi lanciò un fischio, con due dita in bocca.
Buck partì come un bolide e Anna piantò le unghie negli avambracci di Heath.
– Ahia, così mi fai male! Qua, bello. Guarda che bella pancia pelosa che hai.
Il lupo si rotolava sulla schiena, prima da una parte e poi dall’altra, la lingua di fuori; Heath in ginocchio gli grattava la pancia dove la pelliccia era meno folta e più chiara, quasi bianca in certi punti. A tradimento prese una mano di Anna e la posò dove il pelo era chiaro e morbido. Buck mugolò di piacere, Anna si irrigidì ma Heath non mollò, le tenne ferma la mano e la portò sul testone di Buck, dietro le orecchie; e allora lei si rassegnò. Si lasciò andare. Buck si mise a pancia in giù, come una specie di sfinge lupesca con un curioso sorriso sul volto.
In quel momento suonò il cellulare di Heath.

– Riv. Riv, ti ho chiamato un milione di… Cazzo significa non sono mia sorella sono Jaime? Perché mi chiami col suo telefono, idiota?
Anna e Buck lo fissavano. Bene, che perfetta figura da sfigato. Diede loro le spalle e si allontanò a lato del sentiero fin dove cominciava lo strapiombo. E meglio che Jaime avesse un’ottima ragione per fargli fare la parte del povero illuso, altrimenti l’avrebbe ridotto in polpette, tenere polpette da mettere nel pappone di Buck.


La ragazzina l’accarezzava ancora, le mani leggere, come avesse paura di fargli male.
– Ehi. Vuoi dirmi qualcosa?
Buck era felice di tutte queste attenzioni. Lei gli piaceva, aveva una voce gentile. Doveva farglielo capire; non aveva mai avuto intenzione di spaventarla. Le leccò una guancia.
– Un bacio? Questo è un bacio?
Doveva ripulirla dalla paura, perciò la leccò ancora; poi si alzò e lei lo imitò e allora le posò le zampe anteriori sulle spalle. La piccola femmina d’uomo ruzzolò a terra e rise. La fece rialzare aiutandola col muso, e dovette indicarle dove sarebbero andati, dove qualcuno li aspettava.
– Vuoi che venga con te?
Si strinse alle sue gambe e la guidò spingendola un poco: con certi umani si doveva essere molto chiari.
– Mi fido di te. Certo che mi fido.
Buck annusò l’aria: l’odore era forte, la direzione precisa. Guardò Anna e attese che lei avesse capito, che lo seguisse. Faceva molto rumore e non sapeva camminare nella foresta, ma con lui non aveva nulla da temere.
Lui l’avrebbe protetta, sempre, come faceva con il Ragazzo Lupo.


Anna vedeva solo la coda grigia e la schiena d’argento. Passò trasognata tra i fiori selvatici, nella luce verde del sottobosco; macchie di sole chiazzavano il verde scuro degli arbusti, come le macchie sul dorso di un cerbiatto.

***

– Quindi adesso non vuole vedere nemmeno te? Tua sorella ha un caratteraccio. Non ti invidio, J. E comprati un telefono.
Heath chiuse la chiamata. Lì per lì ci era rimasto talmente male, quando aveva capito che non era Rivkah, che non aveva nemmeno ringraziato Jaime per le notizie.
Pareva che Riv avesse litigato con tutti nel raggio di tre miglia e si fosse rifugiata a casa di Debbie, dimenticando il cellulare a casa per non farsi rintracciare. E Jaime, che si era fatto di nuovo sbriciolare il telefono da Donovan, aveva usato quello della sorella per avvertirlo.
Un’altra figuraccia. Per come aveva reagito, Jaime avrebbe pensato che era innamorato di Rivkah.
Era innamorato di Rivkah?
In quel momento Heath si accorse che era solo.
Anna e Buck erano scomparsi.

Il sole scendeva rapido; la neve caduta in alta montagna nei giorni precedenti divenne arancio e poi rosso sangue e poi violetto, e nel blu che si faceva via via più intenso si accese come un diamante la Stella del Lupo, la sorella estiva della luminosa Sirio.
Le ombre si fecero più lunghe, il giorno fu vinto dal crepuscolo; quando l’ultimo raggio di sole trafisse l’oscurità del sottobosco, tra due grossi larici qualcosa sfavillò, qualcosa che somigliava alla prima stella.
Due gemme scintillanti.
Anna trasalì e si nascose dietro a Buck, che abbaiò festoso.
Dal buio avanzò una forma indefinita, come di fumo grigio, poi i contorni si fecero precisi; le due gemme erano incastonate in una testa dal profilo delicato, che terminava in un musetto nero e appuntito. Le orecchie della taglia sbagliata – troppo grosse – fremevano di preoccupazione.
La creatura avanzò tremando, fatata e indifesa, attraverso un raggio dell’ultima luce.
Il nuovo lupo era di taglia piccola e costituzione leggera, forse i due terzi di Buck, o addirittura la metà; aveva zampe secche e, all’altezza delle giunture, nocche nodose sotto la pelle tesa.
Dovrei avere paura di te? No, non ci riesco.
La ragazzina non capiva niente di cani né tantomeno di lupi, ma quello doveva essere un esemplare giovane o una femmina. Una piccola femmina, e aveva più paura di lei. Anna si sentì invadere dalla tenerezza.
Buck chiamò, ancora; il lupo più piccolo fece un passo e si piegò sulle zampe anteriori. Sospettoso, allungò una zampa e poi la ritrasse, tenendola sospesa a mezz’aria.
Buck, impaziente, l’invitò di nuovo.
– Voi vi conoscete! È un tuo amico, Buck?
Il mezzo lupo confermò. Saltò da Anna all’altra creatura, abbaiando, e allora il lupo nero si decise; si avvicinò, ancora e ancora. Apparvero le mammelle sulla pancia spelacchiata.
– È una tua amica! È la tua… fidanzata?
Anna allungò la mano. La lupetta nera si ritrasse e con un paio di salti tornò al limitare della foresta, il petto tremante.
– Non le farò del male, come potrei? Diglielo.
Buck si fece capire; la lupa fece finta di niente e girò la testa verso il cielo. Dietro le rocce frastagliate, un chiarore bianco annunciava il sorgere della luna.
– È bellissima, una vera bellezza. Come questa notte. Ehi, credo che ti chiamerò Notte.
Buck raggiunse Notte. Era ora di andare.
I due si avviarono, Notte davanti, Buck alle sue calcagna ma, proprio prima di scomparire nel buio, ritornò ai piedi di Anna.
Posso fidarmi di te?

Gli occhi di Buck erano ormai familiari ad Anna, ma non fu quello a convincerla: in quel momento la ragazzina ci vide la luce delle stelle, che si accendevano sempre più numerose.
Il primo passo fu esitante, il secondo più leggero.
Dimentica di tutto, Anna si inoltrò nella foresta con i lupi.




Ma buonasera :) Solo due parole per ringraziare chi legge e ancora di più chi recensisce. Spero che questa storia possa farvi compagnia sotto l'ombrellone. Un caro abbraccio!
J.

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Capitolo 11
*** Tutto è bene quel che... Ehm, no ***


11.

 

 

Il primo a vederla, il mattino dopo, fu Donald: era una forma chiara rannicchiata sull’erba. Gridò ai soccorritori che battevano il bosco a raggiera, a una cinquantina di metri l’uno dall’altro, un grido che veniva come da un taglio nella carne. Uno dei ranger sparò in aria.

La piccola sagoma non si mosse.

Isaias accorse e affiancò il professor Charmaine, che correva e incespicò e cadde e non voleva rialzarsi.

– Dimmi che non è vero. Dimmi che è viva. Dimmi che non…

– Stiamo andando a vedere, Donald. Vuoi che vada avanti io?

L’uomo si aggrappò al braccio di Isaias e puntò deciso verso la forma per terra.

Era Anna, non c’erano dubbi.

Heath, che aveva setacciato il greto del torrente, udito lo sparo li raggiunse e corse su per la riva e poi verso la sagoma chiara, con altri due ranger.

E il fagotto di vestiti si mosse, si allungò e si sollevò a sedere. Spettinata, confusa, qualche filo d’erba nei capelli, Anna alzò i grandi occhi azzurri, vacui, verso gli uomini che la circondavano con i fucili in mano. I ranger non osavano toccarla.

– Perché mi guardate così?

  Anna! Anna, amore, stai bene?

Donald si lanciò sulla figlia. Tutti guardarono Isaias.

– Ahem. Tutto è bene quello che finisce bene, no? Avanti, lasciamoli soli un momento. Qualcuno dia il cessato allarme.

Dan, uno dei più vecchi, alzò un sopracciglio.

– Però dovremmo…

– Daniel. Ho detto che va bene così.

In piedi davanti a Sacco d’Ossa, Heath fumava di rabbia.

– Senti, cosa ti dice il cervello? Abbiamo frugato nella foresta tutta la…

– Heath! Finiscila, – sbottò Isaias.

– Stai bene? Oddio, sta bene – farfugliò Donald.

Le orecchie di Buck sbucarono da dietro un dosso, in lontananza.

– Sono stata con lui – disse Anna indicando il lupo – l’ho seguito e dopo lui mi ha scaldata.

Heath non credeva ai suoi occhi né alle sue orecchie, ma un’occhiataccia di Isaias gli tappò la bocca. Buck si avvicinava, tranquillo, e allora gli corse incontro.

Con quella cretina avrebbe fatto i conti più tardi.

 

***

 

L’infermiera che ricevette Anna, Donald, Isaias e Heath in Pronto Soccorso guardò tutti male.

– Vieni, cara. Che è successo? Non devi più avere paura di niente.

Mentre si allontanavano lungo il corridoio, Heath sentì la donna, una nera di una cinquantina d’anni, chiedere cosa ti hanno fatto, tesorino? all’orecchio della cretina.

– Ma l’hai sentita? Quella pensa che…

– Scusate, io davvero non volevo distur –

– Donald, è tutto a posto, davvero. Non è successo niente.

Heath schizzò dalla poltroncina della sala d’aspetto.

– Scusa, non è successo niente? Niente, dici. Quella è sparita tutta la notte. Col mio cane. È partita tutta Highwood per andare a cercarla! Come minimo doveva slogarsi una caviglia!

Neena apparve dietro ai vetri delle porte girevoli. Ecco, ci voleva giusto lei.

Heath alzò le braccia e uscì, in cerca di un caffè o qualsiasi altra cosa. Non aveva nemmeno la moto, così avrebbe dovuto aspettare assieme agli altri che la cretina venisse dimessa.

 

***

La sera a cena nessuno parlava. Nessuno tranne il notiziario delle 20 e Neena, che commentava ogni notizia, compreso il prezzo del petrolio. Isaias si gustava gli spaghetti con le polpette, Donald mangiucchiava a piccoli bocconi. Heath allungò il piatto per farsi servire la seconda porzione, ma cambiò idea e si servì da solo.

Anna, con la punta della forchetta, faceva rotolare una polpetta avanti e indietro, da un bordo del piatto all’altro passando per il centro. Non aveva toccato nulla.

– Allora, tesoro, quando andate alla Cresta dell’Orso? Forse Anna potrebbe…

Heath fulminò sua madre, lanciò il tovagliolo sul tavolo e si alzò. Il rumore della sedia coprì la voce della tizia delle previsioni del tempo.

Anna lasciò andare la forchetta e, le mani in grembo, cominciò a strapparsi coscienziosamente le pellicine intorno alle unghie.

Heath uscì sbattendo la porta.

– Lo so che ce l’hai con me.

No, eh. No. Per favore, no.

Sdraiato sull’erba in fondo al giardino, Heath si sentì fortunato che il fumo gli facesse schifo, perché se no si sarebbe sparato un intero pacchetto di sigarette. In compenso aveva passato in rassegna tra il pollice e l’indice ogni singola ciocca di pelo sulla schiena di Buck, che di tanto in tanto mugolava di disapprovazione.

Quando la voce di Sacco d’Ossa li raggiunse alle spalle – a tradimento, come la sfiga – il mezzo lupo si alzò per andarle incontro. Il traditore.

Un fruscio gli disse che lei si era seduta.

– Ce l’hai con me.

– Sei perspicace.

Heath fissava ostinatamente il cielo. Non si girò. Non disse altro. Eccheccazzo.

– Non ho mai preso l’autobus.

E poi gli dicevano poverina, devi trattarla bene. Dio, quanto era suonata!

– Non ho mai… La mamma non mi fa uscire.

– Senti, non mi devi spiegare niente, va bene così. L’hai sentito mio padre, tutto è bene quello che…

– Cheryl non… Io non ho amiche – sputò fuori Anna in un soffio. - Cheryl era la mia migliore amica fino alla terza. Poi non potevo più andare a scuola e allora le ho scritto delle lettere, ma la sua mamma le diceva che non poteva essere mia amica. Io ho continuato a scriverle. Non so dove sono finite le lettere.

Heath non sapeva più dove guardare. Dove si era cacciato Buck? Alla fine si decise a guardare verso Anna. Giuda Iscariota in forma di lupo si era accoccolato vicino a Sacco d’Ossa, il testone sulle cosce magre della ragazzina.

Neena gliel’aveva detto, che Anna non andava a scuola. Succedeva. Alcuni studiavano con la madre o il padre, a casa propria. Cosa c’era di strano?

– Mamma dice… Una volta mi ha detto che sono in pericolo. Per via dei sogni, sai. Mi ha detto che lei gliel’avrebbe impedito in tutti i modi, che non sarebbe riuscito. Dopo ha divorziato da papà e abbiamo anche cambiato città. L’abbiamo cambiata tre volte.

– Chi ha impedito cosa a chi, scusa?

– L’uomo con gli occhi azzurri. Mamma ha detto che lui non sarebbe riuscito a portarmi via, mai.

Heath ebbe un brivido: l’erba si faceva fredda sotto la sua schiena. Anna non sarebbe uscita così bene da quella bravata, se Buck non l’avesse tenuta al caldo durante la notte.

Niente ferite, avevano detto al Pronto Soccorso. Neanche una contusione, niente di niente, e niente ipotermia.

Mi ha scaldato Buck.

 – Senti. Se c’è qualcuno che spaventa te e tua madre dovreste andare alla polizia, credo, dovreste…

– Non l’abbiamo mai visto, è per questo che hanno litigato. Lei e papà, intendo. Papà le ha detto che è pazza e che mi sta rovinando la vita.

Che doveva fare, lui, adesso? Dirlo a Neena e Isaias? Lo sapevano. Dirlo a Donald?

Era proprio per quello che avevano divorziato, aveva detto Neena. Perché Anna avrebbe avuto una vita normale, almeno quando stava con lui.

– Non avevo mai… Sai, dormito fuori. Non ero mai andata da sola da qualche parte. Da nessuna parte. E c’era Buck, me l’ha chiesto lui. E c’era Notte.

Heath la guardò negli occhi.

Erano accesi da un’emozione che li rendeva lucidi, quasi febbrili, e l’azzurro si era tinto di blu scuro. Era… tenera. Se non fosse stata così strana, forse un giorno sarebbe stata carina.

Buck le leccò il viso e lei sorrise.

– È stato bellissimo, la cosa più bella di sempre!

– La cosa più bella? Per te, forse. Tuo padre per poco non ci ha lasciato la pelle, avevamo paura che gli prendesse un infarto. Stava per chiamare tua madre quando ti abbiamo trovata – rispose Heath torvo – e, francamente, se quella per te è una figata vuol dire che non hai combinato un granché fino ad ora.

– Non faccio mai niente. Mai quello che voglio, intendo.

Anna si tirò su e si pulì i calzoncini con le mani. Buck, seccato per avere perso il suo cuscino, mugolò dispiaciuto.

– Ora vado. Scusami.

Si allontanò come un refolo di vento, e poi la maglietta chiara riapparve.

– Sei fortunato.

– Io? Io sono fortunato?

– Tu fai quello che vuoi. Vai dove vuoi. Nessuno ti dice cosa devi fare e tu fai quello che vuoi.

Heath lasciò che quelle parole gli facessero compagnia, come il lupo accoccolato sul prato, come i sogni che riempivano la notte.

Tu fai quello che vuoi.

Forse la ragazzina aveva ragione.

 *** 

Heath attese che Donald e Sacco d’Ossa se ne andassero a dormire – non dovette aspettare molto – e che Isaias rientrasse dopo aver parcheggiato la Jeep per la notte. Buck sedeva sul prato, il collo dritto, le orecchie tese; qualcosa attirava la sua attenzione sulla montagna. Dalla finestra Heath vedeva solo il profilo scuro e nobile. Avrebbe voluto correre da lui.

– Posso parlarvi un attimo? Ho preso le mie decisioni.

Neena si lasciò andare su una sedia. Isaias rimase in piedi, alto e tranquillo, le mani sulle spalle della moglie.

I suoi genitori.

Ferirli non era semplice.

– Non andrò all’università. Mi dispiace. Volevo fare il lavoro di papà ma se per farlo devo andare via da qui ci rinuncio. Non risponderò a Pasadena, o se preferite risponderò che non mi interessa più. Nero su bianco.

Le mani di Neena si strinsero fino a quando le nocche sbiancarono.

– Ti rovini la vita. Questa è la riserva, Heath. Non so se ti rendi conto…

– Rendermi conto di che cosa? Papà qui è felice e tu anche, lo dici sempre. Spiegami perché io no. Perché non dovrebbe funzionare, per me?

Neena fissava il piano del tavolo. Isaias le posò la mano grande e calda su una spalla.

– Sono stanco di dirtelo, ma qui non ci sono molte possibilità. Ci sono il parco e la forestale e la tavola calda al campeggio. Finito. Noi siamo stati fortunati, lo sai. Tu sei il primo che… Hai ottimi voti, hai una possibilità. Perché sprecarla così? Insomma, saresti sprecato, tu, per una vita qui.

– Tu sei sprecato? Fai un lavoro utile, lo dici sempre.

– Io vengo da Puerto Rico.

– Sei razzista al contrario? Devo andare al college per forza perché sono figlio di un portoricano?

Neena si alzò e Isaias la trattenne.

– Non sapete cosa dire, eh? Perché ho ragione. E non mi potete obbligare. Resto qui. Non so ancora bene cosa fare, ma resto e mi trovo un lavoro. Fatemi sapere se posso continuare a vivere con voi o se devo cercarmi un posto da qualche parte. Prima o poi me ne vado in ogni caso, lo sapete.

 

***

 

Quella notte sarebbe stata tiepida, forse, a causa dello chinook che soffiava tra le cime degli alberi. La luna era ormai piena e illuminava a giorno i sentieri, quello che portava alla strada per la città e l’altro, tortuoso, che saliva verso il bosco.

Heath aprì la porta e Buck si alzò; il ragazzo scelse senza esitare il sentiero della montagna e partì di corsa. Il lupo lo seguì.

Il vento caldo accarezzava la pelle di uomini e animali, delle coppie sdraiate sull’erba, e disperdeva nuvole bianche e grigie attorno al volto della luna.

Non ti lascerò mai, gridò il cuore di Heath che pulsava troppo forte per la corsa, un tamburo, un rombo ardente nelle orecchie.

Il lupo lanciò il suo richiamo.




Buonasera! Grazie, come sempre, a chiunque legga e ancora di più a chi lascia qualche parola. Credo che il dialogo con i lettori sia la parte più bella dello scrivere, quello che manca alla pubblicazione tradizionale. Ditemi pure cosa pensate anche se si tratta di cose bruttine, e soprattutto se la storia è "lenta" oppure no, perché io, rileggendo mentre pubblico, credo abbia bisogno di tagli. Fatemi sapere. Un abbraccio! J.

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