Against the Odds

di andromedashepard
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Sweetest Kill ***
Capitolo 2: *** Acceptance ***
Capitolo 3: *** The Way It Ends ***
Capitolo 4: *** Eyes ***
Capitolo 5: *** The Hardest Part ***
Capitolo 6: *** Only If For a Night ***
Capitolo 7: *** Denial ***
Capitolo 8: *** Together Alone ***
Capitolo 9: *** All I Need ***
Capitolo 10: *** Heaven and Hell ***
Capitolo 11: *** A Falling Star ***
Capitolo 12: *** Revelations ***
Capitolo 13: *** The Shadow Upon Us ***
Capitolo 14: *** Riptide ***
Capitolo 15: *** Fearful Odds ***
Capitolo 16: *** Chances and Forgiveness ***
Capitolo 17: *** Now and Forever ***
Capitolo 18: *** Time Is What We Need ***
Capitolo 19: *** The Burden of the Past ***
Capitolo 20: *** In The Middle of This Nowhere ***
Capitolo 21: *** We'll Be Here When You're Gone ***
Capitolo 22: *** We Burn Like Stars That Never Die ***
Capitolo 23: *** Undying Love ***



Capitolo 1
*** The Sweetest Kill ***


 “I work in the dead of night
 
When the roads are quiet, no one is around
 
To track my moves, racing the yellow lights
 
To find the gate is open, she's waiting in the room
 
I just step on through”

(John Mayer, “Assassin")


 [x]


Capì che lui era fuori dal comune dal primo momento in cui incontrò i suoi grandi occhi neri all’ultimo piano delle Torri Dantius. Lo vide muoversi con la grazia e la precisione tipiche di un felino dietro alle sue vittime, togliendo loro la vita prima che potessero sentirlo arrivare. Un colpo di M-3 Predator e Nassana Dantius fu ad un passo dalla morte, gli occhi blu che cercavano disperatamente aiuto mentre il suo corpo veniva adagiato delicatamente alla scrivania dalle mani gentili dell’assassino, lo stesso che un attimo prima non aveva esitato a premere il grilletto contro il suo stomaco.
Il Drell riunì le mani in preghiera e chiuse gli occhi, ignorando i tre umani che aveva di fronte, impressionati da una simile entrata in scena.
Shepard abbassò la sua Phalanx, lanciando un’occhiata interrogatoria a Miranda che invece continuava a tenere puntata la sua pistola. Jacob cercò lo sguardo del Comandante, ma lei aveva già fatto un passo in avanti, incrociando le braccia.
“Possiamo parlare?” chiese semplicemente, rompendo il silenzio che si era creato quando anche l'Asari aveva esalato l’ultimo respiro. Thane si mosse appena, esitando prima di rispondere. Poi riaprì gli occhi e finalmente incontrò quelli verdi dell’umana che stava di fronte a lui.
“Chiedo scusa, ma non bisogna dimenticare le preghiere per i malvagi.”
Shepard sollevò un sopracciglio, scettica. “Credi che le meriti davvero?”, gesticolò in direzione del cadavere.
“Non per lei, per me.” Fu la risposta risoluta dell’assassino. Ripose la Predator nella fondina della sua giacca di pelle, facendo il giro della grande scrivania per incontrare Shepard. La sua figura snella si stagliava contro la luce rossastra di Illium. Un tramonto infuocato si insinuava attraverso le tapparelle simulate del grande finestrone, rivelando ben poco del Drell, se non i suoi contorni. Solo quando si trovarono faccia a faccia, Shepard poté osservare i lineamenti del suo volto mentre lui, con aria estremamente sicura di sè, spiegava le sue motivazioni.
“Non si può giudicare un individuo solo in base alle sue azioni. Prendi te per esempio, tutta questa distruzione, tutto questo caos… Mi chiedevo fin dove ti saresti spinta per trovarmi.”
“Sapevi che ti stavo cercando?” incalzò Shepard, seguendolo con lo sguardo mentre lui la superava con una breve falcata.
“No, non finché non hai fatto irruzione dall’ingresso principale iniziando a sparare,” rispose lui, voltandogli le spalle. Intrecciò le mani dietro alla schiena, fissando con gli occhi un punto indefinito davanti a sé. C’era qualcosa in lui di estremamente elegante e pericoloso che traspariva da ogni suo impercettibile movimento.
“Sei stata un utile diversivo,” sentenziò lui.
“Un diversivo? A me sembra che tu abbia scelto di lanciarti intenzionalmente in una missione suicida…” rispose Shepard, curvando le labbra in un sorriso ironico, “…e a proposito di questo… Il motivo per cui sono qui è per chiederti di unirti alla mia squadra. Conosci i Collettori?”
L’assassino si volse a guardarla, poi continuò a camminare dandole nuovamente le spalle. “Solo di fama.”
“Stanno rapendo intere colonie umane e noi gli stiamo dando la caccia,” spiegò Shepard, facendo un passo verso di lui. Thane si voltò, gli archi sopraccigliari curvati in un espressione perplessa.
“Dare la caccia ai Collettori vuol dire attraversare il portale di Omega 4. Nessuna nave ne ha mai fatto ritorno,” argomentò.
“Non a caso parlavamo di missioni suicide…”
Thane sospirò, rivolgendo gli occhi al tramonto di Nos Astra. “Una missione suicida andrà più che bene,” disse, “Io sto morendo.”
Miranda e Jacob si scambiarono un’ occhiata eloquente, Shepard aggrottò le sopracciglia, sorpresa. “Sei malato?” chiese, cercando il suo sguardo.
“Sì, ma non sono contagioso e credo di poter affermare che prima che possa peggiorare saremo già vincitori o… morti.”
“C’è qualcosa che posso fare, una volta a bordo?” la domanda di Shepard arrivò spontanea e sentita alle orecchie del Drell, che si costrinse a voltarsi verso di lei.
“No, l’opportunità che mi stai offrendo è già abbastanza. Questo doveva essere il mio ultimo lavoro. Sto cercando di rendere l’Universo un posto migliore, prima di lasciarlo.”
Le andò incontro, tendendole una mano. “Lavorerò per te, gratis,” affermò, mentre Shepard gli porgeva la sua. Sotto il guanto pesante, sentì la pelle pizzicarle, sudata, mentre lui stringeva delicatamente la sua mano.
Shepard aveva incontrato tante persone fuori dal comune, ma poche erano riuscite a farle la stessa impressione.
 
 
Le luci artificiali di Nos Astra subentrarono alla luce solare dopo il tramonto, illuminando di colori accesi le strade della popolosa capitale Asari. Insegne sgargianti nella lingua del posto indicavano la presenza di ogni tipo di attività commerciale, mentre le strutture cilindriche poste ad ogni angolo, proiettavano incessantemente decine e decine di slogan pubblicitari rivolti a tutte le specie. Era una vista piacevole, soprattutto dall’ultimo piano delle Torri.
I quattro chiamarono un taxi per ritornare alla Normandy dopo essersi ripuliti sommariamente. Erano visibilmente stanchi, la missione era stata più faticosa del previsto e Shepard non vedeva l’ora di togliersi l’armatura di dosso e concedersi la doccia più lunga che le fosse permessa dai sistemi di razionamento dell'acqua.
 
"Saremo in rotta per la Cittadella domattina", comunicò Shepard all'assassino, mentre il taxi si accostava al marciapiede. "Sarebbe gradito se riuscissi ad essere a bordo per le 7."
"Posso raggiungervi stasera stessa. Ho solo bisogno di passare a prendere le mie cose."
Shepard rifletté brevemente. "Tutto tuo", annuì, indicando il taxi con un cenno del capo. "Noi prenderemo il prossimo."
"In realtà mi chiedevo se volessi accompagnarmi. Vorrei sapere qualche dettaglio in più sulla missione, se non è di troppo disturbo. Ci vorranno al massimo quaranta minuti per raggiungere il mio appartamento," disse, dando una breve occhiata al suo factotum.
"Non vedo perchè no," rispose tranquillamente Shepard, voltandosi verso Miranda e Jacob. "Vi dispiace?"
"Niente affatto, Shepard," disse la donna.
"Potrei scortarvi, Comandante," propose Jacob.
"Non sarà necessario," affermò Shepard, prima di prendere posto sul sedile posteriore del taxi.
 
Il tassista, un'Asari piuttosto taciturna, intonava di tanto in tanto un ritornello al ritmo di qualunque cosa stesse ascoltando attraverso i suoi auricolari. Shepard si appoggiò al finestrino mentre il mezzo si alzava da terra per incanalarsi nel traffico aereo. Sospirò silenziosamente, prendendo coscienza di quanto fosse tesa e cercò di rilassare le spalle, appoggiandosi al sedile.
"Pensavo fossi morta."
Le parole improvvise del Drell la costrinsero a voltarsi verso di lui.
"Lo ero," rispose lei, "tecnicamente."
"Per chi lavori, adesso?"
"Cerberus."
"Perchè mai un'organizzazione paramilitare pro-umani vorrebbe reclutare qualcuno come me?"
"Il tuo dossier parla chiaro, Krios."
"Perchè hai lasciato l'Alleanza?", incalzò lui, evidentemente avido di informazioni.
"Non ho... lasciato l'Alleanza. E' una lunga storia," minimizzò lei. Non aveva la minima voglia di parlarne. Non con uno sconosciuto.
"Hai detto che intere colonie umane stanno scomparendo. Perchè non se ne occupano direttamente loro?"
"L'Alleanza è troppo impegnata a cercare di mantenere una facciata, dopo quello che è successo due anni fa. In più, sospettano che ci sia Cerberus dietro le sparizioni."
"E tu cosa ne pensi?"
"Io penso che quando si renderanno conto della vera minaccia, sarà troppo tardi", confessò lei, passandosi una mano fra i capelli ramati. "Ho visto con i miei occhi cosa è successo su Horizon. L'Alleanza cercherà di insabbiare anche questo."
"Sembra che in un modo o in un altro, ricada tutto su di te."
Shepard non riuscì a rispondere.
"Il tuo nome era su tutti i notiziari," continuò lui, "Il fatto che fossi... scomparsa ha reso la stampa più disinvolta nei tuoi confronti. Si è speculato a lungo sul tuo ruolo."
"Perchè un assassino come te dovrebbe prestare attenzione a certi dettagli? La tua specie non ha neppure un seggio al Consiglio."
"Vero. Ma ho sempre preferito farmi una mia idea a proposito di quello che accade nella galassia, specialmente se di tale portata."
L'abitacolo ripiombò nuovamente nel silenzio. Shepard non aveva intenzione di sapere che idea lui si fosse fatto, e neppure che idea il resto della galassia si fosse fatto sul suo conto. Aveva evitato accuratamente di digitare il suo nome sui motori di ricerca e utilizzava il suo factotum solo per lo stretto necessario. Non era ancora pronta a rivangare il passato.
 
 
Dopo una quantità di tempo che a Shepard sembrò interminabile, l’astroauto finalmente atterrò al primo livello, accanto ad una palazzina di costruzione moderna. “Fanno 50,” annunciò il tassista. Thane fece per pagare, ma Shepard interruppe l’azione sul nascere, addebitando l’esatta somma all’Asari tramite factotum.
 
“Ti ringrazio, ma non era necessario,” disse il Drell, quando si trovarono entrambi fuori dalla vettura.
“Lavorerai per me, è il minimo che possa fare,” rispose Shepard mentre lui faceva strada verso l'ingresso della palazzina.
“Non vieni?” le domandò, notando che era rimasta in attesa sulla soglia del portone. Lei annuì e lo seguì, guardandosi attorno. Entrarono in ascensore, l’uno accanto all’altra appoggiati alla parete frontale. Shepard non ebbe il coraggio di voltarsi ad incontrare il proprio riflesso sullo specchio, eppure con la coda dell’occhio colse un bagliore negli occhi dell’assassino e si sentì osservata. Abbassò lo sguardo e restò a fissarsi i piedi finché l’ascensore non si fermò, poi si affrettò fuori, accorgendosi di aver trattenuto il respiro. Thane fece strada verso il suo appartamento, un bilocale arredato con minimalismo, collegato all'esterno da una grande vetrata che si affacciava su Nos Astra. Una volta accese le luci, Shepard notò che l’ambiente era praticamente spoglio, nessun quadro, nessun soprammobile o pianta abbelliva la stanza.
“Gradisci dell’acqua?” domandò lui, avvicinandosi al dispenser.
“Sì, grazie,” rispose lei, avvicinandosi al bancone della cucina. Sembrava una casa disabitata in tutto e per tutto. “Non vieni qui spesso, deduco,” osservò, raccogliendo il bicchiere dalle sue mani.
“Solo per dormire, di solito,” rispose lui, versandosi un altro bicchiere d'acqua. “Hai fame?”
Shepard annuì, deglutendo l'ultimo sorso. Quella domanda l'aveva appena resa dolorosamente consapevole dei crampi che le stringevano lo stomaco.
“Ucciderei per una bistecca.”
“Bistecca? E' una specialità delle tue parti?”
“Non proprio...”, sorrise lei, “Io sono originaria di Mindoir”.
“Ne ho sentito parlare.” Il Drell si voltò a porgerle l’altro bicchiere, poi prese posto su uno sgabello di fronte e si strofinò gli occhi con una mano. "Perdonami se ti sto facendo perdere tempo, ma ho bisogno di riposare un attimo.”
“Non c’è fretta.”
“C’è un ristorante Asari a cinquanta metri da qui, se vuoi prendere qualcosa da mangiare.”
Shepard agitò una mano davanti a sé, sorridendo. “No, posso aspettare. Gardner avrà preparato di sicuro una delle sue imperdibili zuppe stasera”.
“Avete un cuoco di bordo?”
“Sì, ma non dico sul serio a proposito delle zuppe… Ti consiglio di approfittarne adesso finché puoi, per fare l’ultimo pasto decente.”
Thane rispose con un sorriso appena accennato, poi appoggiò i gomiti sul bancone, intrecciando le mani sotto il mento. “Quel ristorante prepara anche da asporto, se vuoi ordinare qualcosa mentre io sistemo le mie cose.”
“Posso aspettare, davvero”, rispose lei, estraendo da una tasca una barretta proteica. “Per le emergenze,” spiegò, sventolandola a mezz’aria.
“Quel marchio non si occupa principalmente di alimenti per biotici?”
“Precisamente.”
“Che addestramento hai ricevuto?”
“Ricognitore. Anche tu sei un biotico… era sul dossier…”
“Sono stato addestrato per diventare più versatile possibile. Il potenziale biotico non è da sottovalutare.”
“Sono d’accordo,” rispose Shepard annuendo. “Ne vuoi una?” domandò poi, frugando nelle tasche del suo borsone.
Thane fece per alzarsi, sgranchendosi i muscoli del collo. “No, ti ringrazio, ma l'offerta resta. Ti farò compagnia, se vuoi ordinare qualcosa.” Attivò il factotum e in una manciata di secondi poté mostrare il menù del locale Asari a Shepard. Lei osservò attentamente, poi scelse un piatto che aveva sentito nominare una volta da Liara. Thane inoltrò la richiesta e poi chiese gentilmente il permesso di allontanarsi per continuare a fare i bagagli, nell’attesa.
 
Shepard si avvicinò al grande finestrone della sala e prese a sganciarsi gli spallacci e a depositare le armi sul tavolino d’acciaio lì a fianco. Le luci fredde della città le accarezzarono il volto, facendosi strada nei solchi delle sue cicatrici come serpenti variopinti. La sua armatura metallica, pesante e robusta, risplendeva nella penombra, colorandosi dell’atmosfera notturna di Illium.
Si era parlato tanto di lei, di questo ne era consapevole, ma sentirlo dire dalle labbra di uno sconosciuto le aveva fatto un altro effetto. Era come se esistesse un'altra Shepard, diversa da lei, ma che le assomigliava in tutto e per tutto. Una lei creata dalla massa, che viveva in un'altra dimensione e che non aveva nulla da spartire con la vera lei.
Si appoggiò al finestrone con la fronte, rincorrendo con lo sguardo le astroauto che sfrecciavano in un turbinio confuso di luci e colori, poi diede un sospiro, cercando di scacciare quei pensieri con i quali non era ancora pronta a fare i conti. Diede poi le spalle a Nos Astra, concentrandosi sull'interno dell'appartamento, scansionando con gli occhi ogni angolo in cerca di qualcosa che potesse parlarle di lui. Non trovò nulla.
 
 
Passò poco tempo che sentì suonare alla porta e istintivamente guardò l’orologio. Erano le 23.40.
''Hanno fatto presto…,' pensò, avviandosi ad aprire.
Un’Asari dai lineamenti delicati, probabilmente molto giovane, le porse un vassoio sorridendo timidamente. “Sono 15 crediti,” disse, mentre Shepard addebitava la somma tramite factotum.
“Non è giusto, Comandante,” Thane arrivò alle sue spalle liberandola dall’ingombro del vassoio, “Offrire la cena toccava a me.”
“Pagherai il taxi di ritorno”, rispose Shepard accennando un sorriso. Poi salutò gentilmente l’Asari richiudendo la porta e raggiunse Thane al bancone della cucina.
 
Il Comandante divorò la sua porzione con avidità, nel silenzio di quell’appartamento spoglio, rotto solo occasionalmente dal rumore delle posate che sbattevano sui piatti. Thane mangiava con una grazia fuori dal comune, tanto che lei iniziò a sentirsi quasi in imbarazzo. Avrebbe preferito un'altra delle sue domande inopportune a quel silenzio. Shepard non riusciva a smettere di porsi domande, mentre ogni tanto, con la coda dell’occhio coglieva un bagliore nei suoi occhi neri e si forzava di guardare da un’altra parte.
 
Quando ebbero finito, Thane fece ritorno di nuovo in camera e dopo poco tornò con un bagaglio di medie dimensioni, mentre lei, nel frattempo, si era presa la libertà di lavare i due piatti che avevano usato.
“Sono pronto,” le disse lui, dopo averla ringraziata. Shepard andò a recuperare armi e spallacci e si affrettò ad uscire, mentre Thane lanciava un’ultima, malinconica occhiata all’appartamento, prima di chiudersi la porta alle spalle. Lei si chiese se quello, per lui, fosse stato una sorta di addio, perché questo le era sembrato. Si avviarono finalmente a prendere il taxi di ritorno e nella metà del tempo che avevano impiegato all’andata, giunsero all’area d’attracco.
Quella notte, sulla Normandy, entrambi avrebbero avuto molto a cui pensare.


 
Questa storia è nata inizalmente come revisione della mia prima fiction "Siha", ma poi col tempo si è allontanata talmente tanto dall'idea originale che oramai la considero una storia a parte. E' semplicemente il mio tentativo più maturo di approfondire questa romance. Mi sono decisa a pubblicarla anche qui dandole un nuovo titolo perchè è decisamente questa la storia a cui tengo di più, mentre l'altra la considero solo un'esperimento. In effetti è con quella che ho iniziato a scrivere dopo anni e sebbene mi riporti alla memoria tanti momenti felici, è questa la storia per cui vorrei essere ricordata.
Non posso non ringraziare Johnee, Altariah e shadow_sea per avermi seguita sin dall'inizio anche dall'altra parte. Le vostre recensioni sono state preziosissime, più di quanto possiate immaginare.

06-2017
Sono passati quattro anni, il che - mi rendo conto - è un sacco di tempo. Ma ho comunque voglia di revisionare questa storia e di finirla (incrociate le dita per me, please). Questo capitolo è leggermente diverso dalla versione iniziale.

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Capitolo 2
*** Acceptance ***


 “Can you see that I am needing, 
 Begging for so much more 
 
Than you could ever give 
 
And I don't want you to adore me, 
 
Don't want you to ignore me 
 
When it pleases you”

 (Muse, “Muscle Museum”)

 [x]

 

 




L’acqua scorreva lentamente sul suo corpo, incuneandosi nelle cicatrici più profonde, riscaldando i suoi muscoli stanchi. Si appoggiò alla parete del bagno con un braccio, lasciando che il getto d’acqua traboccasse come una cascata sui suoi capelli decisamente troppo lunghi. Davanti agli occhi semichiusi, piccole gocce cadevano ritmicamente e ciocche ramate si stagliavano sulla sua pelle chiara. Aveva atteso a lungo quel momento, ma togliersi di dosso l’armatura era ogni volta una liberazione e una condanna… perché allora, e solo allora, si rendeva conto di ritornare ad essere una persona come tutte le altre, senza una corazza protettiva a farle da scudo. Ecco cosa simboleggiavano per lei quelle piastre in ceramica piene di graffi targate N7, erano la sua forza e la sua debolezza. Si trovò a domandarsi cosa ne sarebbe stato di lei se molti anni prima l’Alleanza non l’avesse salvata su Mindoir. Non lo sapeva, non riusciva a vedersi in nessun altro posto se non a combattere per gli ideali in cui credeva, con o senza un fucile in mano.
Il dossier di Thane Krios, che giaceva in disordine sulla sua scrivania insieme a un mucchio di altri datapads, riportava che lui era stato addestrato a diventare un assassino sin dall’età di sei anni. Sei anni… qualcosa che per lei non era neppure concepibile. E lui, se lo chiedeva mai cosa ne sarebbe stato della propria vita, se non fosse stato indirizzato a quello?
Shepard, la schiena premuta contro il metallo freddo del bagno, iniziò a constatare che si sentiva spiazzata da quel Drell più di quanto avesse potuto immaginare. In tutta onestà, quello che aveva pensato di trovarsi davanti in base alle informazioni del suo dossier, era un individuo cinico e spietato, magari anche un po’ sarcastico, il tipo che avrebbe sicuramente opposto resistenza e cercato di sfoggiare le sue abilità alla prima occasione, soprattutto quando non richieste. E lei, di solito, non sbagliava mai in quanto a prime impressioni.
Girò la manopola dell’acqua, interrompendo il getto, e afferrò l’accappatoio, indossandolo in fretta prima che potesse avvertire i brividi di freddo. Lo specchio era completamente appannato e questo la confortava. L’ultima cosa che voleva vedere, prima di andare a letto, era il suo viso stanco e scavato dalle occhiaie. Asciugò sommariamente i capelli e poi indossò una morbida tuta, un attimo prima di raggomitolarsi fra le lenzuola ruvide.
Gli occhi, automaticamente, cercarono l’infinito sopra di lei, sporcato solo dalle emanazioni bluastre delle barriere cinetiche della Normandy. Il ronzio onnipresente del Drive Core la cullava sempre fino a farla addormentare, ma non quella notte… Quella notte avrebbe passato le ore a fissare le stelle, lontane, immersa in pensieri che sfuggivano totalmente al suo controllo.






Il bip della sveglia fece alzare Shepard di soprassalto. Aveva dormito forse due ore in tutto e sentiva la testa pesare più del solito, ma i suoi doveri da Comandante la chiamavano. Avrebbe dovuto stilare un rapporto completo sulla missione del giorno prima e, mentre di solito non aveva problemi nel delegare le scartoffie a Miranda, stavolta voleva essere sicura di occuparsene in prima persona, non prima di essersi fiondata in una tazza di caffè giù in sala mensa. Si vestì in fretta, indossando l’uniforme di Cerberus con una punta di disprezzo, legò i capelli in una coda e si diresse verso il CIC. Passò a trovare Joker sul ponte di comando come ogni mattina, anche se l’aveva visto solo poche ore prima, quando avevano impostato la rotta per la Cittadella. Lo trovò a discutere animosamente con l’IA di bordo e lei non poté fare a meno di sorridere, mentre prendeva posto sul sedile accanto al suo.
“Ehi, Comandante,” la salutò il pilota, ignorando momentaneamente EDI. “Sembri stanca… mi sa che devi cambiare passatempo.”
“Quale passatempo?” Shepard inarcò le sopracciglia.
“Collezionare alieni pericolosi da tutta la Galassia… Ti invito a cambiare soggetto per il futuro, magari modellini di navi militari, eh?”
Shepard allungò una mano quanto bastava per abbassargli la falda del cappello sugli occhi, sbuffando divertita.
“Sai, ho sentito dire che l'ultimo non ama particolarmente i tipi come te… L’ultima volta che ha viaggiato a bordo di una nave ha fatto fuori il pilota di bordo e si è messo alla guida,” mentì Shepard. Joker la gratificò guardandola con un’espressione terrorizzata, prima di capire che si trattava di uno scherzo e allora scosse la testa, sconsolato. Lei gli diede una pacca amichevole sulla spalla e poi si diresse verso il ponte equipaggio.


La sala mensa era relativamente tranquilla, il silenzio rotto solo dalle chiacchiere di Patel e Rolston che avevano l’ennesima cosa di cui lamentarsi con Gardner che, pazientemente, rispondeva alle accuse con il solito umorismo. Shepard mormorò un rapido 'buongiorno' in risposta al saluto militare, poi andò a reclamare la tazza di caffè tanto agognata. Aggiunse due cucchiaini di zucchero, come d’abitudine, poi mescolò accuratamente e si sedette al tavolo, pronta a gustarsi lentamente l’iniezione quotidiana di caffeina. Quel giorno, più che mai, ne avrebbe avuto un disperato bisogno. I due soldati semplici si allontanarono, probabilmente intimiditi dalla presenza del Comandante, e lei restò sola a contemplare le paratie della Normandy.
La sera precedente, prima di andare a dormire, Shepard e Jacob avevano illustrato brevemente al nuovo arrivato la struttura della nave, spiegando la disposizione delle varie aree con l’ausilio di EDI. L’IA aveva consigliato a Thane di alloggiare nella piccola cabina adibita al controllo del Supporto Vitale, accanto all’Osservatorio. Quella risultava essere l’area meno umida della Normandy e, a quanto pare, la particolare richiesta dell’assassino era legata alla patologia a cui aveva accennato. Gardner gli aveva procurato una branda e due sedie, oltre a una scrivania di medie dimensioni. Nel complesso, la piccola cabina, non risultava molto diversa dal suo appartamento: spoglia e anonima.
Shepard era curiosa di sapere cos’avrebbe dedotto Kelly Chambers dal colloquio con Thane; era sicura che almeno lei avrebbe capito qualcosa di più di quel singolare individuo. Nel frattempo, lei si sarebbe limitata ad assicurarsi che lui prendesse adeguatamente parte al resto dell’equipaggio. La missione ultima che avevano da compiere richiedeva una coesione ed una sintonia particolarmente forti, se volevano avere speranze di vittoria. La socializzazione, a bordo di una nave di Cerberus, era molto meno limitata rispetto al rigido sistema militare dell’Alleanza e questo aveva dato modo a Shepard di constatare alcune cose… se, da un lato, aveva contribuito a rafforzare alcuni legami, dall’altro lato poteva potenzialmente spingere situazioni di conflitto a livelli inimmaginabili per una nave militare. Shepard, d’altra parte, preferiva uno scontro diretto alle questioni irrisolte e silenziate dai regolamenti per cui non se ne lamentava più di tanto, continuando a pretendere, tuttavia, il rispetto dovuto da ogni membro del suo equipaggio. Per il momento, questa condotta sembrava funzionare a gonfie vele e non di rado era capitato, nell’ultimo mese che lei, ed altri compagni si erano ritrovati a concedersi una serata di svago davanti al minibar dell’Osservatorio, senza che ciò minasse la natura del loro lavoro.
Un po’ le mancavano i tempi dell’Alleanza, dove poteva sempre contare su una guida che la indirizzasse, qualcuno come Anderson, ma iniziava ad abituarsi al nuovo modus operandi, considerando che dava i suoi risultati. Sul campo si erano ritrovati sempre in sintonia, uniti, vincitori, e non vedeva l’ora di scoprire come avrebbe reagito l’assassino a lavorare in gruppo, data la sua decennale esperienza in solitaria.




Shepard dedicò l’intera mattinata compilare il rapporto su Thane e poi lo inviò a Miranda per inoltrarlo all’Uomo Misterioso.
“Complimenti Shepard, fai progressi. Inizi a mostrare discrete doti narrative…” le aveva detto la sua seconda in comando scherzosamente, tramite factotum. Shepard sorrise tra sé e sé, resistendo all’impulso di mandarla al diavolo come faceva, d’altronde, il 90% delle volte che si trovava a discutere con lei. Miranda non suscitava esattamente le sue simpatie, ma col tempo era riuscita ad ottenere la sua stima, nonostante le comprensibili riserve nei suoi confronti.
Per ora di pranzo, Shepard raggiunse nuovamente la sala mensa, almeno mezz’ora dopo l’orario consueto, perché amava particolarmente la tranquillità che seguiva al frastuono del pranzo in comune. Ormai era diventata quasi un abitudine; sapeva che avrebbe trovato Garrus, Tali e la Chakwas, e come ogni volta, avrebbero finito per prendere il caffè insieme e concedersi una partita a poker, prima di tornare ai rispettivi doveri. Quel giorno, come ci si poteva aspettare, il tema principale della conversazione fu Thane Krios.
“No, non si è visto in giro,” rispose Garrus a una domanda buttata lì da Tali.
Shepard, le gambe incrociate sotto il tavolo e una mano sotto il mento, li ascoltò pazientemente mentre facevano supposizioni, prima di esclamare un sonoro 'Se siete così curiosi il Supporto Vitale è da quella parte!', seguito da un gesto teatrale e una mezza torsione del busto in direzione della cabina di Thane.


Dietro di lei, l’assassino stava in piedi, con un lieve sorriso stampato sul volto. Shepard arrossì violentemente per l’imbarazzo e pretese di far finta di nulla, mentre i suoi compagni cercavano in ogni modo di trattenere le risate.
“Comandante,” salutò lui, “scusate, non ero stato avvisato degli orari dei pasti,” si giustificò.
Shepard restò in silenzio, tuffandosi in quello che restava del suo caffè.
“Non siamo così fiscali… C’è sempre qualcosa che resta in dispensa e poi credo che Gardner sia più che disposto a preparare dei pasti fuori orario, in casi straordinari, dico bene?” le venne incontro Garrus, rivolgendosi al cuoco di bordo che annuì prontamente.
“Non sarà necessario,” sorrise Thane prima di avvicinarsi a Gardner e chiedergli gentilmente un vassoio.
Shepard sentì lo sguardo di Tali fisso su di lei e giurò che sotto quella maschera stesse trattenendo a forza le risate, ma lei si limitò a lanciarle uno sguardo fulminante per intimarla a tenere la bocca chiusa. La Chakwas sorrideva bonariamente e sorseggiava il suo caffè in tranquillità, rivolgendo uno sguardo al Drell di tanto in tanto. Nessuno di loro, in fin dei conti, era abituato a ritrovarsi un individuo di quella specie intorno.
Inaspettatamente, lui non prese posto accanto a loro, preferendo tornare nella sua cabina a consumare il pranzo. Si allontanò silenziosamente, lasciando gli altri a guardarsi con circospezione, prima di sentire il portellone del Supporto Vitale richiudersi con uno sbuffo.
“Shepard… stavolta ti sei superata,” sbottò Garrus, scuotendo il capo con un’espressione divertita. Lei afferrò la prima cosa che gli capitò a tiro e gliela lanciò contro senza pensarci due volte.
“Potevate avvisarmi! Che so, darmi un calcio!” protestò Shepard a bassa voce, incrociando le braccia.
“E perderci la tua espressione? Nah…”
Stavolta fu il piede di Shepard a raggiungere lo stinco del Turian.
“Maledizione, tu e il tuo carapace,” furono le ultime parole del Comandante, prima di ritornarsene in cabina, dicendo definitivamente addio alla sessione di poker del giorno.




L’orologio di bordo segnava le 23:07 quando Shepard decise di prendersi una pausa dal suo lavoro e concedersi una cioccolata calda prima di andare a letto. Aveva passato le ultime due ore a revisionare i rapporti di Daniels e Donnelly; mai che quei due andassero d’accordo su qualcosa, neanche nel compilare dei semplici rapporti tecnici.
La sala mensa era deserta, ad eccezione di Gardner che faceva avanti e indietro dal bagno maschile con un mucchio d’attrezzi in mano. “Grunt. Si intasano le tubature ed è sempre colpa sua, Comandante!” aveva detto sbuffando. Lei aveva risposto con una risata sommessa e poi era tornata a preparare la sua cioccolata.
Andò a consumarla all’Osservatorio, come d'abitudine. Pensava di trovarlo vuoto, e invece dovette ricredersi quando vide che Garrus e Thane stavano chiacchierando davanti ad un’anonima bottiglia semivuota e una tazza di thè, sul divano della spaziosa cabina.
“Non preoccuparti, Shep, niente di alcolico,” aveva detto il Turian agitando la bottiglia, mentre Thane si alzava per salutarla. Lei gli fece cenno di sedersi, poi prese posto su una poltrona poco distante, iniziando a sorseggiare la sua bevanda.
“Dunque capisci perché preferisco un buon Mantis a un Viper… Col Mantis non c'è margine di errore. Un colpo, un morto.”
“Lungi da me voler negare la potenza del Mantis, ma non si può dire che abbia la stessa versatilità di un Viper.”
“A che mi serve la versatilità se posso contare su colpi precisi e uccisioni istantanee?”
“In quanto a precisione non ha niente da invidiare ad un Viper…”
“Sì, ma non ci metti lo stesso tempo. Col Viper ti serve sicuramente più di un colpo per far fuori un nemico.”
“Non è detto. Col Mantis se sbagli un colpo ti serve più tempo per ricaricare…”
“Non se sei abbastanza bravo da non sprecare colpi.”
“Una bella carica biotica e un colpo di Crusader in pieno stomaco no, invece?” esordì Shepard.
Garrus e Thane si volsero a guardarla, entrambi con gli occhi leggermente sgranati e le labbra dischiuse. Lei aprì le braccia, perplessa.
“Shepard…” fece Garrus, cercando di spiegarle che non era quello il punto della loro discussione.
“No, ho capito. Ma sono solo chiacchiere… Un fucile non vale niente se preso singolarmente. Si possono mettere a confronto tutte le armi della Galassia, ma se non vengono messe in relazione a chi le utilizza, beh, dubito che potrà venir fuori un discorso produttivo. So come usare un Mantis e le mie statistiche confermano che lo so usare dannatamente bene, ma sarei capace di sfruttare appieno le sue potenzialità come fai tu? No. E tu ci riesci con un Claymore? Ne dubito…”
“Mi sfugge il punto…”
“Il punto è che ogni arma è solo il prolungamento del braccio di chi la usa e se tu sai come far danzare un Mantis, probabilmente Krios sa come far danzare un Viper.”
I due si scambiarono uno sguardo fugace, poi tornarono a posare gli occhi su Shepard. Lei, in risposta, diede un altro sorso alla sua cioccolata, compiaciuta di averli zittiti entrambi e sorrise, le labbra nascoste dal bordo della tazza.
Garrus si alzò, stiracchiandosi, e dopo aver riposto la bottiglia, decise che era arrivato il momento di tornare al suo Thanix. “A domani,” salutò. Thane esitò per un istante, poi fece per alzarsi a ruota. “Tolgo il disturbo anche io, Shepard,” disse con deliberata lentezza.
“No, resta pure, anzi… In realtà volevo proprio fare due chiacchiere con te,” rispose Shepard.
Thane si rimise a sedere, appoggiando i gomiti sulle ginocchia.
“Riguardo a ciò che hai detto su Illium…”
“Sì, mi rendo conto che avrei dovuto parlartene subito,” la interruppe lui senza perdere tempo. “La mia patologia si chiama sindrome di Kepral, non è trasmissibile, e solo alcuni individui della mia specie ne sono affetti.”
Shepard aderì allo schienale della poltrona, dopo aver poggiato la tazza ormai vuota sul tavolinetto di fronte, e lo guardò in attesa.
“Il nostro pianeta natale, Rakhana, ha un clima molto arido, e quando gli Hanar ci hanno offerto ospitalità su Kahje, alcuni di noi hanno iniziato a sviluppare questa patologia in conseguenza all’estrema umidità del pianeta. La Kepral non ha nessuna cura attualmente… Ci stanno lavorando, ma molti di noi diventano immuni ai farmaci. Non c’è modo di fermarla, e alla fine si muore soffocando.”
Shepard abbassò lo sguardo, tentando di trovare qualcosa di sensato da dire. I ricordi legati all'attacco alla Normandy di due anni prima affiorarono prepotenti, facendola rabbrividire.
“Non preoccuparti. Come ti ho già detto, questo problema non influenzerà la missione. Il medico mi ha dato dagli 8 ai 12 mesi di vita e…”
“Hai già incontrato il nostro medico di bordo, la Chakwas? Forse lei può fare qualcosa per te.”
“Se gli scienziati della Primazia Illuminata non ci sono riusciti, dubito che il medico di bordo di una nave militare possa. Sto già prendendo dei farmaci, comunque.”
“Capisco,” Shepard si schiarì la voce, “Senti, non è mia intenzione entrare nelle tue questioni personali, ma non posso fare a meno di notare la tua tranquillità a proposito…”
“Sono venuto a conoscenza della mia malattia molto tempo fa e col tempo ho imparato ad accettarla.”
“Hai anche detto che quello di ieri sarebbe stato il tuo ultimo lavoro…”
“L’idea di passare gli ultimi istanti della mia vita confinato in un letto d’ospedale non mi ha mai allettato, Shepard. Ma tu mi hai offerto quest’opportunità e sono più che onorato di rimandare il momento in cui dovrò abbandonare il mio corpo.”
Shepard si alzò dalla sua poltrona, una mano sotto il mento, pensierosa. Si avvicinò al grande finestrone che si apriva come uno squarcio nel vuoto cosmico e guardò una nebula brillare in lontananza.
“Hai molto autocontrollo,” constatò poi, appoggiandosi con la schiena al vetro freddo.
Thane si voltò verso di lei, studiando la sua figura slanciata. C’era qualcosa, in lei, che sapeva di malinconia.
“Ho dovuto lavorarci parecchio,” rispose, raggiungendola davanti al finestrone.
“Temo, tuttavia, che questo non sia un bene.”
“Come?”
I loro occhi si incontrarono per un breve istante. “La paura è una cosa buona. La paura ti impedisce di commettere errori, ti aiuta a riconoscere i tuoi limiti. Se tu non hai paura di morire, questo potrebbe essere un problema per te e per la mia squadra.” L’espressione di lei si fece più dura. “Se l’avessi saputo prima…” Shepard si passò una mano sulla fronte, scuotendo lievemente la testa, “…ma visto che ormai sei qui, Krios, ricordati che ho bisogno di un soldato su cui poter contare, non di un kamikaze.”
Lui avrebbe voluto rispondere, ma le sue parole lo lasciarono interdetto e quando finalmente trovò le risposte, lei era già andata via, lasciandolo da solo a guardare l’immensità dell’Universo. 

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Capitolo 3
*** The Way It Ends ***


 “This is the way it ends
 Don't tell me it's meaningless
 There'll be no compromise
 We fall and we too shall rise
 You held me and taught me how
 I think I am ready now

 (Landon Pigg, "The Way it Ends")

 [x]
 

 



 

Non chiuse occhio tutta la notte, incapace di resistere a quell’oblio fatto di memorie che lo trascinava sempre più a fondo in un abisso popolato da volti, parole, posti sbiaditi ma ancora stranamente vibranti di vita. Dolce condanna, quella della sua specie. Ricordare ogni singolo dettaglio della propria vita era doloroso, ma a volte rischiava di diventare la droga peggiore. Perdersi nei ricordi felici, pretendere che le sensazioni scaturite da un pensiero possano essere reali… Respingeva con forza quei richiami tentatori, di solito, ma gli fu impossibile quel giorno. Continuava a tornare indietro nel tempo, a rivivere ogni singola uccisione compiuta sulle Torri Dantius, a rivedere gli occhi di Shepard che si posavano su di lui quando anche l’ultima vittima era stata finita. “Possiamo parlare?” La sua morbida voce da Umana risuonava nella sua mente come il canto di una sirena. Chi era lei e perché gli stava chiedendo di vivere? Perché, adesso, lui si ritrovava a mettere in discussione tutto quello che aveva costruito in dieci anni… l’accettazione del suo destino, la pace acquisita con fatica, la tranquillità interiore?
Thane si alzò dalla sua branda, consapevole che non sarebbe più riuscito a dormire, e si sedette alla sua scrivania per smontare, pulire, e riassemblare il Viper. Il ronzio incessante del Drive Core lo aiutava a stare lontano dai ricordi, fintanto che lui si fosse concentrato sul suo fucile.




Aveva fatto il suo dovere lei, aveva parlato per il bene della squadra e non doveva sentirsi in colpa per questo, Shepard lo sapeva bene. Tuttavia, avrebbe voluto usare parole migliori, parole che non l’avrebbero marchiata a fuoco come un’insensibile, aggettivo così lontano dalla sua natura. Aveva chiesto a qualcuno che stava per morire di attaccarsi alla vita per il bene della missione. Era giusto, questo?
L’Uomo Misterioso, ancora una volta, l’aveva tenuta all’oscuro di importanti dettagli e questo le faceva venire voglia di prendere a pugni qualsiasi cosa. Non poteva fare a meno di sentirsi usata, di chiedersi se il suo unico scopo fosse quello di metterla al servizio dell’Umanità o se c’era dell’altro. Cosa sarebbe stato disposto a sacrificare per raggiungere i suoi obiettivi e quanto c’era di personale nel progetto Lazarus?
Shepard si accarezzò la fronte, mentre ancora una volta, rivolgeva lo sguardo all’infinito sopra di sé. Era la seconda nottata in bianco e i pensieri si affollavano nella sua mente come cavallette, in un vortice confuso e disordinato che le impediva di razionalizzare. Si coprì la testa con un cuscino, come se avesse potuto attutire il caos nella sua mente e colpì forte il materasso con un pugno. Avrebbe voluto avere più controllo su tutto, soprattutto su se stessa e sulle sue dannate emozioni.




Fece un’abbondante colazione, quando ancora nessuno si aggirava per i corridoi della Normandy, ad un’ora a metà tra la notte e il mattino. Quel giorno, in serata, sarebbero giunti alla Cittadella e bisognava discutere delle ultime cose con Garrus, il vero motivo di quella sosta anticipata. Ne avrebbero approfittato per concedere una breve licenza ai membri dell’equipaggio, fatta eccezione per quelli di turno, e avrebbero fatto rifornimenti e controlli di routine. Shepard tendeva a spingere sempre al massimo le possibilità della Normandy e ogni tanto EDI doveva ricordarle che era necessaria una sosta, per cui quel giorno decise di approfittarne.
Con una tazza colma di una strana brodaglia turian, si avviò verso la Batteria Primaria dove, era sicura, avrebbe trovato Garrus intento a lavorare.
“Shepard,” la salutò il Turian, emergendo da una delle passerelle che fiancheggiavano le batterie missilistiche. “Non hai dormito?”
Shepard fece spallucce, poi gli porse la tazza. “Come al solito.”
“Grazie,” disse lui, storcendo il naso subito dopo. “Spiriti, Shepard, vuoi avvelenarmi?” esclamò.
“Oh, scusami. E' levo? Devo aver sbagliato bustina.”
“No, la bustina è quella giusta, solo che a quanto pare Gardner non si intende molto di alimentazione turian e finisce sempre per ordinare schifezze.”
“Gliene parlerò,” sorrise lei.
“Allora… cos’è ti tiene sveglia?” chiese poi Garrus, appoggiandosi alla parete accanto all’hub a braccia conserte.
Shepard si mise a sedere sulla ringhiera di protezione delle batterie e lo guardò con aria sconsolata. “Non lo so bene neanche io, a dirla tutta.”
“Sei preoccupata per la Missione Suicida?”
“No, no… voglio dire… con quella ho imparato a conviverci,” rispose lei con un sospiro, passandosi una mano fra i capelli.
“Senti Shep, se non te la senti di aiutarmi posso capire. Mi basta solo che tu mi dia il pomeriggio libero…” Garrus cambiò tono di voce, buttando giù tutto d’un fiato quel che restava della sua insipida colazione.
“Ma no, la tua missione non c'entra niente. Dovresti conoscermi, una volta che offro il mio aiuto a qualcuno non mi tiro indietro,” ribatté lei.
“E allora?”
“E’ quell’assassino…” confessò alla fine.
“Ah… Avrei dovuto immaginarlo.”
“In che senso?” Shepard rizzò la schiena, osservandolo con attenzione.
“E’, per così dire, piuttosto singolare. Immagino tu ti aspettassi qualcuno completamente diverso…”
Shepard annuì. “Più o meno… forse. Non so.”
“Cos’è che ti turba?”
“Il suo atteggiamento. Non ho idea di come possa reagire lavorando in gruppo… Per quanto ne so non l’ha mai fatto. Non voglio che ci faccia affondare, Garrus. Ci tengo alla mia squadra, sono contenta di come lavoriamo, non voglio perdere quello che abbiamo costruito.”
Garrus diede un lungo sospirò e la guardò negli occhi. “Ti propongo una cosa… Portiamolo con noi stasera. Avrai modo di valutarlo senza che ciò possa causare problemi all’intera squadra,” spiegò. “Ieri sera ho discusso con lui a proposito del mio 'problema' e lui mi ha confessato un paio di cose riguardo al suo passato.”
“Il suo passato?” Shepard corrugò la fronte.
“Abbiamo parlato di vendetta… Non eravamo d’accordo su tutta la linea, ma ha capito le mie motivazioni. Su chi possiamo fare affidamento, altrimenti? Miranda, Jacob?” ridacchiò ironicamente, “Grunt? Fuori discussione. Mordin? Non ho minimamente voglia di stare a sentirlo tutto il tempo… E a Tali risparmierei volentieri lo spettacolo. Non mi dispiacerebbe avere solo la tua compagna, Shep, ma se qualcun’altro può guardarti le spalle… meglio così.”
“Sei sicuro? Voglio dire… so quanto ci tieni a questa missione, so quanto sia importante per te sbarazzarti di Sidonis e non voglio procurarti ulteriori ansie. Hai bisogno di qualcuno di cui poterti fidare.”
“Shepard, io mi fido di te. Questo conta. So che qualunque cosa deciderai mi andrà bene. La mia unica priorità per il momento è sbarazzarmi di quel…”
Shepard lo interruppe, andandogli incontro per poggiare una mano sul suo avambraccio, nel tentativo di rassicurarlo “Avrai la tua rivincita, Garrus”, disse con fermezza, poi lasciò la Batteria Primaria sentendosi un grammo più leggera.




Quando la Normandy attraccò alla Cittadella era già buio. Un buio artificiale che abbracciava l’intera stazione, dando ai suoi visitatori l’illusione di trovarsi su un vero pianeta, sotto un vero cielo stellato. Shepard aveva comunicato a Thane che l’avrebbe portato in missione e lui si era presentato in sala tattiche con largo anticipo, trovandola ad accarezzare il Crusader in sovrappensiero.
“Comandante,” salutò, appoggiando il Viper sul tavolo. Lei rispose con un cenno del capo e si avvicinò, imbracciando il suo fucile con un gesto automatico. “Personalmente,” disse, mentre guardava nel mirino, “io preferisco il Viper al Mantis, ma non dirlo a Garrus… La prenderebbe troppo sul personale,” rise, restituendo poi il fucile al proprietario. Lui rispose con un sorriso d’intesa.
“Cosa ti piace del Viper?” domandò lui, curioso.
“La seconda chance,” rispose lei risoluta, suscitando in Thane uno sguardo interessato. “So che se sbaglio, la seconda volta ho l’opportunità di rimediare, senza perdere troppo tempo.”
“Non preferiresti avere la sicurezza che il colpo vada a segno al primo tentativo?”
“Questa mi sembra tanto una domanda retorica,” commentò lei, sollevando lo sguardo per incontrare il suo. “Certo che preferirei avere quel tipo di sicurezza, ma non è così che vanno le cose… E ognuno dovrebbe avere l’opportunità di poter fare un secondo tentativo senza pagarne le conseguenze.”
“Anche se è un bel modo di vederla, ci sarà sempre quel tiro di vitale importanza che non ammette margine d’errore e bisogna essere pronti anche a quest’eventualità.”
“Per non parlare del fatto che a volte resti senza clip termiche e non c’è niente che tu possa fare tranne che affidarti al fato.”
“Stiamo ancora parlando di fucili, Comandante?” Thane interruppe quel misterioso flusso di parole.
“Non lo so, dimmelo tu,” rispose Shepard, la frase seguita immediatamente dal rumore del portellone che si apriva dietro di loro.
“Shepard, Krios,” fece Garrus, interrompendo definitivamente il discorso. Shepard lo salutò inviandolo ad avvicinarsi. Non sapeva bene neanche lei dove volesse andare a parare, ma fu grata di essere stata salvata da una strana conversazione.
A quel punto, senza perdere ulteriore tempo, iniziò a studiare un piano con entrambi per la missione che stavano per affrontare.




Il contatto di Garrus li aveva indirizzati su una pista ben precisa: per avere notizie di Sidonis, era necessario trovare prima Fade, un noto falsario che lavorava da tempo sulla Cittadella e che sfuggiva puntualmente al C-Sec. Era così che Sidonis aveva deciso di proteggere se stesso, facendo sparire le proprie tracce di volta in volta.
Scoprirono che Fade, nome in codice per Harkin, una vecchia conoscenza, si trovava in una vecchia fonderia prefabbricata, nel distretto industriale. Noleggiarono un astroauto e partirono immediatamente. La tensione era palpabile. Garrus guidava con eccessiva prudenza, quasi come se quella fosse la corsa più importante della sua vita e non volesse rischiare di compiere il minimo errore. Thane, seduto sul sedile posteriore, non aveva detto una parola da quando avevano messo piede sulla Cittadella, tranne per un breve commento sulle nuove misure di sicurezza, che secondo la sua opinione non erano ancora sufficienti per proteggere una stazione di quel calibro. Shepard si volse a guardare brevemente il Turian, le sue mani erano salde sul volante, una presa eccessiva che sottolineava uno stato d’animo troppo teso. Non ebbe il coraggio di pronunciarsi, sapeva che finchè non avesse trovato Sidonis in persona qualunque parola o frase di conforto sarebbe stata vana. L’unica cosa di cui aveva bisogno quel Turian, adesso, era il suo braccio e il suo fucile, nulla più.
Quando parcheggiarono, in una zona poco distante dalla fonderia, Garrus scese dal mezzo e restò fermo per un istante a guardare di fronte a sè, come a voler raccogliere tutte le emozioni e concentrarle unicamente sull’obiettivo. Imbracciò il Mantis e si mise in testa, assumendo la sua solita andatura scanzonata. Non si aspettavano di trovare Fade e suoi scagnozzi davanti alla fonderia. Il fuoco partì quasi immediatamente, costringendoli a prendere posizione dove possibile. “Corri quanto vuoi, codardo!” esclamò Garrus con rabbia, alla vista di Fade che si rifugiava all’interno della struttura, lasciando quattro Sole Blu a difenderla. Ne fecero fuori uno a testa, Garrus e Thane, con i loro fucili di precisione, mentre Shepard lanciava un’onda d’urto agli altri due, prima di trapassarli con due precisi colpi di Crusader. Si accertarono che l’ingresso fosse sgombro, poi collegarono i loro factotum per restare in contatto e s’infiltrarono nella struttura.
Si presentava come un enorme hangar pullulante di mercenari, casse e container, dove ogni copertura poteva rivelarsi un’arma a doppio taglio. EDI passò a Shepard la scansione della planimetria, ma Shepard non ebbe il tempo di consultarla che partì la seconda raffica di colpi nella loro direzione. I suoi scudi si trovavano già a metà, trovo riparò dietro una grossa cassa e, sporgendosi, controllò la posizione degli altri due. Ben presto la strategia d’attacco prese forma, Shepard era quasi sempre in testa, quasi a voler fare da diversivo, mentre i due cecchini, ai lati opposti, si occupavano dei nemici più pericolosi. Thane e Shepard si ritrovarono a combinare i loro poteri biotici senza neanche accorgersene, facendo letteralmente esplodere i mercenari in faccia a Garrus. “Spiriti, Shepard… mi avete ricoperto il visore di materia organica umana, un'altra volta!”, si lamentò lui attraverso il comm. Lei riuscì a captare una flebile risata che di sicuro non apparteneva al Turian, ma stentava a credere che fosse stato l’assassino.
In un breve momento di tregua, Shepard diede un’occhiata alla planimetria e capì che Fade doveva trovarsi in una sorta di bunker sopraelevato nella parte opposta della struttura. Fu proprio quando giunse a quella conclusione che una serie di nastri trasportatori dall’alto cominciarono a scaricare mech a terra, con la precisa intenzione di indirizzarli verso di loro. “Questi robot del cazzo sbucano dai container, occhio!” avvisò lei, lanciandosi in una carica biotica verso un paio di loro. “Shepard, vedi di restare intera” rispose Garrus, la frase spezzata dallo sparo del Mantis.
“Ti risulta che io abbia altri piani, Vakarian?” fece lei ansimando, dando un balzo all’indietro per evitare l’esplosione dei sintetici.
Continuarono a farsi strada attraverso quel labirinto fatto di casse e bancali, spazzando via i nemici con poche difficoltà. Shepard teneva costantemente d’occhio Thane, e anche se lui non riusciva ancora a prevedere le sue mosse allo stesso livello di Garrus, non restò delusa dalla sua strategia di combattimento. Garrus aveva ormai imparato la tattica offensiva del Comandante, e sapeva sempre quando era il momento giusto di lanciare un colpo stordente o un sovraccarico, ma Thane sembrava imparare in fretta.
Si ritrovarono a prendere fiato accanto ai comandi d’apertura del ponte che li avrebbe condotti da Harkin. Shepard fece una scorta di clip termiche e addentò una barretta proteica per evitare di restare a corto d’energie. Ne lanciò una a Thane, distrattamente. Lui l’afferrò al volo, nonostante stesse guardando da un’altra parte, e questo le strappò un sorriso compiaciuto. “Non mi offendo, Shep, solo perché so che non ti porti roba dextro dietro” commentò Garrus, attirandosi una smorfia.
Al di là del ponte si ripresentò lo stesso scenario, solo che i nemici sembravano raddoppiati e, in più, a dare loro il benvenuto, arrivarono anche due mech pesanti. Secondo EDI mancava poco al bunker, ma togliere di mezzo quei robot corazzati non era roba da poco. Alla fine, Shepard decise di optare per una granata, e il frastuono dell’esplosione sovrastò per un momento tutti gli altri rumori. “Ero a tanto così dal fargli esplodere i circuiti interni, Shepard” borbottò Garrus.
“Diamine Vakarian, hai finito di lamentarti? Ti chiamerò Brontolo d’ora in poi…” Il Turian scosse la testa e fece cenno agli altri di proseguire, fino ad arrivare sotto al nascondiglio di Fade. “Quel maledetto si è rintanato come un codardo…” disse Garrus, osservando il finestrone del bunker attraverso il suo mirino.
“E’ comprensibile, abbiamo fatto fuori tutta la sua squadra” rispose Thane. Shepard si voltò a guardarlo, come se si fosse appena accorta della sua presenza. “Non ci sei abituato?” lo provocò. “Al contrario, Comandante” rispose lui con tranquillità.
“Allora, vogliamo andare prima che… oh, merda!” l’esclamazione di Garrus arrivò puntuale prima che altri due mech pesanti calassero dai nastri trasportatori. Ognuno di loro equipaggiava un cannone e un lanciarazzi; trovarsi nella traiettoria sbagliata significava lasciarci le penne. Garrus trovò copertura a sinistra, dietro un contenitore abbastanza alto per la sua stazza, Thane e Shepard si ritrovarono a condividere come riparo una serie di bancali di medie dimensioni, all’apparenza molto fragili.
“Granate?” domandò lei oltre il frastuono del primo sparo.
“Negativo,” rispose Garrus scuotendo il capo, mentre si apprestava a prendere la mira.
“Maledizione…”
Thane elaborò in fretta una strategia e creò una sorta di scudo biotico che avrebbe, almeno per il momento, deviato il grosso di eventuali colpi. La cosa richiedeva una quantità d’energia notevole, la stessa Shepard, che disponeva di impianti L5, preferiva lasciarla come ultima opzione. Estrasse in fretta il suo ml-77 e mirò ad uno dei due mech, colpendolo in pieno. Quello esplose, danneggiando gravemente anche l’altro che fu repentinamente messo KO da Garrus.
EDI comunicò che non rilevava la presenza di altri nemici, così lasciarono la copertura e si avviarono verso il bunker.




Era la prima volta che Shepard vedeva Garrus così. Aveva preso Harkin per il colletto della maglia, dopo averlo colpito sul naso col calcio del Mantis, e l’aveva sbattuto al muro con una violenza di cui non lo credeva capace in situazioni simili. Il suo tono di voce, mentre tentava di estorcergli informazioni, era spaventosamente calmo.. Shepard osservò la scena da lontano, mentre intimava a se stessa di lasciargli spazio, perché quella era la sua missione, dopotutto. Harkin sembrava non voler collaborare, si sforzava, tremando, di rimanere impassibile di fronte alla presa salda del Turian, quasi come se anche lui non lo ritenesse capace di tale violenza. Il Garrus che aveva conosciuto quasi due anni prima era diverso e lo era anche per lei. Quel tempo passato in solitudine, a dare la caccia ai criminali e a fuggire da chi lo voleva morto, l’aveva temprato e l’aveva reso più forte, più deciso. Non era più il Turian sprovveduto, carico di ideali, che aveva bisogno di una guida. Quel Turian, adesso, era il frutto di un percorso interiore che l’aveva trasformato in un individuo in grado di sapere esattamente come ottenere ciò che voleva, avesse dovuto farlo con la forza. Garrus lasciò spazio a Fade, giusto il tempo di voltargli le spalle e rilassare i nervi, mentre gli spiegava che era sulle tracce di Sidonis e aveva bisogno di sapere dove trovarlo.
“Beh, sembra che entrambi abbiamo qualcosa che l’altro vuole” rispose Harkin, con un sorriso irritante. Shepard, stavolta, non si fece problemi ad intervenire. “Non siamo qui per contrattare. Dicci quello che vogliamo sapere e facciamola finita.”
“Fottiti. Non vi dirò nulla, non rivelo mai informazioni sui miei clienti, nuocerebbe agli affari.”
A quelle parole, Garrus si fece avanti e senza pensarci due volte lo colpì con una ginocchiata allo stomaco. Shepard fece una smorfia in risposta e lo vide accasciarsi al suolo. Garrus lo teneva fermo con un piede nell’incavo tra il collo e la clavicola, mentre il malcapitato si lamentava. “Sai cos’altro nuocerebbe agli affari?” gli domandò con disinvoltura, “Un collo spezzato...”
A quella minaccia Fade lo pregò di lasciarlo stare, e si dimostrò finalmente pronto a collaborare. Si convinse ad organizzare un incontro con Sidonis, incontro in cui Shepard avrebbe dovuto fare da esca. Si sarebbero visti al Salone Orbitale, con la scusa di dovergli recapitare un messaggio importante, e una volta avuto in tiro, Garrus l’avrebbe finito.


“Occhio, per occhio, dente per dente” aveva spiegato a Shepard quasi una settimana prima, quando le aveva confessato ciò che il suo ex compagno di squadra gli aveva causato con il suo tradimento. A ricordo di ciò, portava incisi sul suo visore tutti i nomi dei suoi compagni di squadra, morti a causa di Sidonis. Solo lui era riuscito a salvarsi e per questo motivo adesso sentiva che vendicarli era il suo preciso dovere.
Risparmiarono la vita ad Harkin, che comunque si sarebbe ritrovato preso lo C-Sec alle calcagna e tornarono all’astroauto, silenziosamente. Questa volta la guida fu meno prudente, impaziente. Era giunto il momento di dire addio ai fantasmi del passato. Si scambiarono un’occhiata d’intesa prima di lasciarsi. Garrus avrebbe preso posto in una delle passerelle in alto, ben nascosto e pronto a fare la sua mossa, Shepard e Thane avrebbero avvicinato Sidonis giusto il tempo di fargli prendere la mira.
Sidonis sedeva su una delle panchine della sala, il viso riportava caratteristici marchi colonici viola e sembrava parecchio nervoso. Shepard gli fece cenno d’avvicinarsi e quello obbedì immediatamente.
Shepard, sei sulla linea di tiro, spostati di lato.
Qualcosa le impedì di agire come avrebbe voluto, qualcosa che, scoprì, era insito nella sua natura.
“Sidonis” pronunciò lei lentamente, incerta su cosa dire.
Shepard, che diavolo stai facendo?” la voce del Turian nel suo orecchio era carica di rabbia.
“Non pronunciare mai più quel nome” sibilò Sidonis, visibilmente terrorizzato. “Cosa vuoi da me?”
Shepard, spostati” incalzò Garrus, impaziente.
La sua mente fu attraversata da mille pensieri… Vedere quel Turian, indifeso, ad un passo dalla morte le fece provare qualcosa simile alla compassione. Solo lei lo separava da una pallottola in testa, e la sua natura sembrava volerla tenere incollata con i piedi a terra, incapace di muoversi.
Durò tutto una manciata di secondi; Shepard sentì la stretta delicata di una mano sul suo braccio, quel tanto che bastava per farla spostare un passo di lato, poi il rumore di uno sparo e Sidonis che stramazzava al suolo, privo di vita. Thane, nel lasciare la presa, le rivolse uno sguardo carico di significato e lei non ebbe il coraggio di dire una parola.






Più tardi, molto più tardi, Shepard si trovava ad un tavolo del Flux, con un drink in mano e lo sguardo vuoto, fisso davanti a sé. Non aveva detto una parola, neppure quando Garrus l’aveva guardata prima di mettere in moto e le aveva detto “Grazie comunque” con un tono di voce che lei non era riuscita a decifrare. Avrebbe voluto mandare giù il contenuto del suo bicchiere in una sola volta, lasciare che l’alcol facesse l’effetto desiderato e la trascinasse in una dimensione in cui ogni cosa perdeva significato e avrebbe volentieri fatto un brindisi con un Collettore, senza fare troppe domande. Ma neppure questo le riusciva, adesso che sentiva di aver perso il contatto con se stessa.
Sin da piccola, aveva sempre creduto di sapere quale fosse la linea di confine tra giusto e sbagliato. Neppure gli episodi drammatici della sua adolescenza l’avevano fatta dubitare per un attimo di cosa fosse il bene. Crescendo, aveva capito che molte cose vanno sacrificate e che spesso vale il detto 'il fine giustifica i mezzi', anche se ciò significava dover fare costantemente i conti con la propria coscienza.
Non smetteva di chiedersi perché avesse esitato di fronte a Sidonis, perché non avesse fatto subito quello che andava fatto senza mettere in questione qualcosa che non le competeva. Soprattutto, continuava a domandarsi perché Thane fosse intervenuto, con quale autorità e con quali intenzioni. Era un vortice di emozioni contrastanti quello che riempiva la sua testa, mentre dava una sorsata a quel drink troppo forte e troppo amaro. Si guardò intorno e qualcosa simile a una smorfia di disgusto si dipinse sul suo volto. C’erano individui di tutte le specie che si scatenavano in pista, al ritmo di una musica che la snervava, gente che rideva sguaiatamente in un angolo, coppie che si lasciavano andare ad effusioni troppo spinte dove le luci del locale si affievolivano.


Probabilmente aveva trovato una scusa per odiarsi ancora più di quanto non si odiasse già, dopo quella sera. Non si sentiva fiera dell’incertezza che aveva preso il sopravvento su di lei, mettendola in una posizione in cui altri avevano dovuto guidarla. Se non riusciva a prendere una decisione autonomamente, come poteva sperare di essere al comando di una nave come la Normandy, con una missione così difficile da compiere?
Si prese la testa fra le mani, il naso ad un palmo dal bicchiere mezzo vuoto, e sospirò silenziosamente, ricacciando indietro la voglia di tirare un calcio al piede del tavolo. Era finita, la missione era andata a buon fine, avevano fatto ciò che Garrus voleva e non aveva senso continuare a rimuginare sulle mille variabili che ci giravano intorno. Si augurò solamente che Garrus potesse ritrovare la tranquillità sperata, poi diede un ultimo sorso al cocktail e fece per andarsene.


Non avrebbe mai pensato di trovare Thane a bloccarle la strada, appena alzata dalla sedia.
“Che diavolo…” esclamò istintivamente, facendo un passo indietro col rischio di inciampare. Lui la trattenne prontamente per un braccio, poi la lasciò andare. “Comandante,” disse, senza l’ombra di un sorriso.
“Che ci fai qui?” rispose lei rimettendosi a sedere. Lui seguì il suo esempio, prendendo posto sulla sedia accanto.
“La Chambers mi ha suggerito dove avrei potuto trovarti, probabilmente ha estorto l’informazione ad EDI” rispose lui.
“Volevi vedermi? E’ successo qualcosa?” il suo tono di voce divenne preoccupato.
“No, no, niente del genere,” rispose lui gesticolando lievemente. “Mi è sembrato di vederti turbata dopo la missione e volevo assicurarmi che non fosse a causa mia.”
Shepard restò in silenzio per un paio di secondi, poi si lasciò andare.
“Non siamo in servizio, e dunque non avrebbe senso appellarmi ad un richiamo, ma sappi che la prossima volta non tollererò che qualcuno si metta in mezzo tra me e le mie azioni.”
Il Drell era tranquillo, come se si aspettasse di ricevere una risposta del genere, se non peggio.
“Non succederà più,” disse semplicemente.
Seguì un'altra lunga pausa, Shepard prese a torcersi le mani nervosamente, poi sbottò. “Perché l’hai fatto?”
“Quando mi hai chiesto di unirmi a voi in missione,” rispose lui prontamente, “la prima cosa che hai detto è stata che si trattava della missione personale di Garrus. Hai detto che lui aveva bisogno di avere accanto persone di cui potersi fidare, che non aveva altro desiderio se non quello di eliminare Sidonis, colui che aveva fatto uccidere la sua squadra. Ne avevo parlato con lui la sera prima, e… in tutta sincerità, Shepard, non pensavo che avresti esitato. Avevo capito che avessi a cuore quella missione tanto quanto lui. Ho visto… una debolezza.”
“Sai che c’è, Krios? Non me ne starò qui a farmi psicanalizzare da te. Sono consapevole delle mie azioni e non cambierei una virgola. Se ho fatto un errore, è stato quello di permetterti di venire in missione. E sia ben chiaro, non deve succedere mai più che tu intervenga senza il mio consenso, altrimenti puoi continuare per la tua strada, fuori dalla mia nave.” Detto questo, Shepard si allontanò lasciando una manciata di monete sul tavolo, e la voglia incontenibile di prendersi a schiaffi. 

 



Un pensiero va a Johnee per questo capitolo, e alle nostre serate passate a ruolare a caso su Skype 

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Capitolo 4
*** Eyes ***



 “For a moment your eyes open and you know 
 
All the things I ever wanted you to know 
 
I don't know you, and I don't want to 
 
Till the moment your eyes open and you know”
 
(Keane, "Your Eyes Open")

[x]

 




Quel pomeriggio, a pranzo, solo Tali e la Chakwas si ritrovarono a consumare il pasto al solito tavolo. L’assenza di Garrus e Shepard aveva insospettito parecchio la Quarian, che mangiò talmente in fretta da rischiare di strozzarsi, decisa a scoprire prima possibile il motivo di quell’inusuale circostanza. Aveva controllato, ed erano tutti di turno quella mattina, quindi era improbabile che quei due se ne fossero andati a zonzo sulla Cittadella. Lasciò la dottoressa a finire da sola il pranzo e si catapultò verso la Batteria Primaria.
Garrus era intento a lavorare, come al solito, e lei fu sollevata di vedere che almeno quello non fosse cambiato.
“Tali, che succede?”, esclamò lui, vedendola arrivare.
“L’ora di pranzo è passata già da un po’, non ti unisci a noi?”
“No, grazie… Non ho fame”.
Lei lo raggiunse accanto ad una delle batterie a cui stava lavorando e prese un datapad a caso, dandogli un’occhiata.
“Pignolo come sempre, eh?”
“Mi conosci”.
Tali decise che avrebbe colto la palla al balzo, ora o mai più. “Proprio perché ti conosco”, asserì, “so che c’è qualcosa che non va. Vuoi parlarne?”
Garrus si aggiustò il visore sopra l’occhio sinistro, poi la squadrò, incerto su cosa rispondere.
“Non c’è davvero niente da dire”.
“Mi aspettavo di trovarti sollevato dopo la faccenda Sidonis. So che hai fatto quello che volevi”.
“Non l’ho fatto per quello, Tali. Della tranquillità interiore m’importa ben poco, ciò che volevo era vendicare i miei compagni e togliere di mezzo un criminale, nulla più…”
“Allora perché ti vedo più cupo di prima?”
Garrus inarcò la schiena, passandosi una mano sulla fronte, poi si sedette su uno scalino e la guardò con aria sconsolata, parlando come se ogni parola pesasse una tonnellata. “Ho paura che Shepard non avesse intenzione di aiutarmi fino in fondo. Mi fidavo di lei”.
“Che vuoi dire? Non l’avete tolto di mezzo?”
“Sì, ma… se non ci fosse stato Krios… Non lo so.”
“Krios? Chebosh’tet c’entra l’assassino?”
“Shepard ha esitato di fronte a Sidonis. L’avevo in tiro e lei non si spostava, nonostante le stessi ordinando di farlo. Poi lui l’ha tirata via per un braccio lasciandomi libero di sparare”.
Tali si portò una mano sulla maschera, in direzione della fronte. “Keelah’… E lei come l’ha presa?”
“Non lo so, non ci siamo più parlati”.
La Quarian sgranò gli occhi da dietro il visore e gli si avvicinò, posandogli una mano sulla spalla. “Perché non fai uno sforzo e tenti di chiarire?”
“Sono combattuto, Tali. Ho cercato di fare del bene in questi due anni, potendo contare solo su me stesso, perché credo di sapere qual è la differenza tra bene e male, e Shepard è stata una delle persone che più mi hanno aiutato a crescere in questo senso. Ma il gesto che ha fatto, la sua esitazione… sono stati uno schiaffo morale per me. Era il suo modo di dirmi che stavo sbagliando… E forse aveva ragione, forse dovevo lasciare Sidonis in vita, dovevo dimostrare di essere superiore a lui”.
“Prima di tutto, stiamo parlando di un criminale, poi non conosci le vere ragioni di Shepard. E’ bene che chiariate, prima che quest’ammasso di cose non dette vi travolga completamente”.
Tali aveva ragione e Garrus lo sapeva, ma non riusciva a convincersi di andarle a parlare, un po’ per orgoglio, un po’ per paura del confronto con una persona che stimava così tanto, fino a quel giorno. Per il momento, tutto ciò che lo teneva distratto erano le sue calibrazioni.
 
 
 
La mattinata per Shepard era stata piuttosto faticosa, ma almeno l’aveva tenuta lontano da ciò che la tormentava dalla sera prima. Approfittando della sosta alla Cittadella, Miranda le aveva chiesto una mano per ritrovare sua sorella e tutto era andato a buon fine. Un paio di graffi in più sulla corazza e niente più, come al solito.
Aveva fatto una doccia e aveva atteso pazientemente l’arrivo di Kelly in cabina. L’aveva esortata a interrogare Thane al più presto e adesso era impaziente di sapere cosa era venuto fuori dal colloquio. Qualcosa, dentro di lei, sperava fortemente che Kelly le portasse cattive notizie. Si sarebbe sbarazzata di lui in un batter d’occhio, lasciandolo sulla Cittadella senza pensarci due volte. Perché? Non lo sapeva neppure lei. E’ solo che non riusciva a non farsi travolgere da un ondata di rabbia quando pensava alla sua mano, stretta delicatamente al suo braccio. E al suo sguardo, che l’aveva trapassata da parte a parte come se, d’un tratto, fosse sparita la sua corazza, fossero spariti i suoi vestiti e persino la sua pelle. Si appiattì alla parete della sua cabina, mentre EDI le comunicava che Kelly stava per arrivare. Chiuse gli occhi e si passò una mano fra i capelli, ripetendo a se stessa che c’erano altri modi di andare in fondo alla faccenda, diversi dallo sperare che la Chambers le desse qualcosa a cui appigliarsi per sbarazzarsi dell’assassino. Era il suo orgoglio a parlare? Probabile, e il fatto di non averne discusso con nessuno non poteva che peggiorare le cose.
Pochi minuti dopo, Kelly bussò al portellone della cabina, con un datapad in mano.
“Comandante”, fece, l’espressione del suo viso solare come sempre.
“Allora… hai quello di cui avevo bisogno?”, Shepard non perse tempo e le fece cenno d’accomodarsi sul divanetto.
La specialista si sedette e le porse il datapad, un file compilato con accuratezza, ma non più lungo d’una pagina. Shepard gli diede uno sguardo fugace, ma ciò che voleva era un confronto a parole, non un mucchio di pixel.
“Fammi un riassunto, Kelly. Si è dimostrato disponibile?”
“Molto. Ha risposto con precisione a tutte le mie domande, anche se il suo modo di fare denotava una certa riservatezza”.
“Credi che abbia qualcosa da nascondere?”
“No, no… Probabilmente è solo il suo carattere. Vivere da soli per dieci anni, sai…”
“Dieci anni?”
“Sì, è questo quello che mi ha detto”, sorrise. “Ma, Comandante, perdona l’invadenza, non hai mai parlato con lui direttamente?”
“Non ne ho avuto modo finora”.
Kelly la osservò, pensierosa, come se volesse leggere dentro di lei. Era sicuramente arrivata ad una delle sue conclusioni da strizzacervelli, ma si guardava bene dal dirglielo.
“Avanti Kelly, sputa il rospo. Che c’è?” Shepard l’aveva capito dal suo sguardo che fremeva dalla voglia di parlare.
“Non è da te. Voglio dire… la Shepard che conosco io preferisce fare tutto da sé quando si tratta del proprio equipaggio. Perché non gli chiedi le cose che vuoi sapere apertamente? Poi, se hai dubbi, possiamo parlarne”, rispose lei.
“Non credi che possa semplicemente non importarmi nulla del suo passato o della sua vita? Ho chiesto il tuo parere solo perché voglio sapere se c’è qualcosa di importante che devo conoscere. Qualcosa per cui la mia squadra potrebbe essere in pericolo…” Subito dopo aver pronunciato quelle parole si rese conto di quanto doveva essere suonata paranoica, paranoica a livelli ridicoli.
Kelly non poté fare a meno di sorridere.
“Abbiamo in squadra elementi potenzialmente mille volte più pericolosi di lui, Comandante”, disse gesticolando, “Una sola parola: Grunt. Perlomeno Thane è un individuo equilibrato”.
“Bene. Quindi non c’è nulla che…”, tentò nuovamente lei.
“Shepard, qual è il problema? Non sarà che la sua aura misteriosa ti rende paranoica più del dovuto, con tutto il rispetto?”
“Aura misteriosa?”, Shepard sgranò gli occhi, scettica.
Kelly fece per alzarsi, con un sorriso divertito stampato sulle labbra. “Io la trovo sexy”, concluse, avviandosi verso il portellone.
“Se hai altre domande, sono sempre a tua disposizione, ma non c’è davvero nulla di cui doverti preoccupare”.
 
Shepard restò inebetita a fissare distrattamente il datapad, dopo che Kelly ebbe lasciato la cabina. Era vero, non aveva mai dimostrato particolari preoccupazioni nei confronti degli altri membri dell’equipaggio, neanche quando si era trattato di un grosso Krogan artificiale predisposto alla bellicosità. Soprattutto, non si era fatta mai problemi a fare quattro chiacchiere con loro, in tutta calma, qualora l’avesse ritenuto necessario. Realizzò che non si era mai sentita così delusa da se stessa come in quel momento, mentre sentiva di perdere il controllo su tutto.
 
 
 
Il bip dell’elettrocardiogramma era l’unico suono a malapena udibile all’interno dell’infermeria, insieme ai passi lenti della dottoressa che camminava con una mano sotto al mento, pensierosa. Quando il tracciato fu completo, Thane si rimise a sedere sul lettino.
“Può rivestirsi”, fece la Chakwas, esaminando con attenzione i dati dell’esame sul factotum. Il Drell recuperò la sua maglia leggera e la indossò in un unico, elegante movimento. Era abituato a quei controlli di routine, ma quella mattina si sentiva particolarmente teso, quasi come se gl’importasse davvero di conoscere il responso.
“Le notizie non sono buone, ma neanche pessime. Lo sa meglio di me che avendo rifiutato di entrare in lista per il trapianto le possibilità di sopravvivere si riducono di molto”, disse la dottoressa schiettamente, guardandolo da sopra gli occhiali. Lui annuì. “Il cuore sta bene, abbiamo una leggera aritmia, ma potrebbe non significare nulla. Mi dica solo se spesso si sente affaticato o presenta altri sintomi…”, continuò lei.
“Sto bene”, fu la risposta secca del Drell.
La Chakwas lo osservò per una manciata di secondi, per nulla convinta della sua affermazione, pronunciata con una fretta eccessiva. “Continui a prendere i farmaci che le ha prescritto il suo medico precedente e faccia costante attività fisica. Deve tenersi in allenamento”, disse infine, mentre Thane era già in procinto di lasciare l’infermeria. “E soprattutto… eviti l’isolamento. Non sono esperta di biologia Drell come il professor Mordin, ma ne so abbastanza da sapere che nelle sue condizioni è bene tenersi alla larga dai ricordi”. Thane si volse brevemente a quella frase e le sorrise, salutandola con un inchino del capo appena accennato.
 
Tornò al Supporto Vitale dopo aver preparato una tazza di thè in sala mensa, fortunatamente vuota e silenziosa. Si sedette alla scrivania e iniziò a sorseggiare lentamente la bevanda calda, cercando di respingere i pensieri negativi che sembrava l’avessero seguito dall’infermeria e che adesso si accalcavano tutti dietro alle sue spalle, in attesa che lui permettesse loro di sopraffarlo. Anni ed anni di pratica nell’arte della meditazione sembravano essere improvvisamente svaniti da quando aveva messo piede su quella nave. Aveva dimenticato cosa significasse avere accanto delle persone, siano esse familiari, o conoscenti, o semplici colleghi di lavoro. Aveva dimenticato quanto le azioni degli altri potessero incidere sulla psiche di un individuo, fino a farla cambiare totalmente.
La conversazione avuta con Vakarian, due sere prima, gli aveva riportato alla mente tanti ricordi, memorie che non aveva mai condiviso con nessuno e che, probabilmente, non avrebbe mai condiviso in futuro. Si era rivisto nelle parole del Turian, così cariche di rabbia e allo stesso tempo di tristezza, di smarrimento. Quello che Garrus cercava era giustizia, anche se continuava a chiamarla vendetta. La stessa giustizia che lui aveva rincorso dieci anni fa, quando era stato privato di una delle cose più preziose della sua vita. Togliere di mezzo i responsabili l’aveva fatto sentire meglio, ma l’aveva anche privato della sua integrità morale. Si chiese se, col senno di poi, l’avrebbe rifatto e la risposta fu “mille altre volte”.
E poi lei, invece, aveva esitato. Riuscì quasi a sentirlo, il laser del mirino del Mantis puntato su di lei, che faceva da scudo a Sidonis.
 
Non si sposta. Perché? Occhi verdi indugiano sul viso del Turian, la voce di Garrus è impaziente. Shepard, spostati! Lei resta fissa a guardare Sidonis, le mandibole del Turian si muovono nel panico. L’afferro per un braccio, delicatamente. Cos’ho fatto? Garrus ha sparato, lei mi guarda, è smarrita.
 
Era scivolato in una delle sue memorie. Era come perdere il contatto con la realtà ed essere catapultati in un universo parallelo fatto solo di sensazioni identiche in tutto a quelle reali. Aveva sentito il braccio di Shepard sotto la sua mano, aveva percepito il suo sguardo, era stato investito nuovamente da quella sensazione di sorpresa che aveva provato in risposta al suo stesso gesto. E poi, la consapevolezza.
“Lei…”, sussurrò, quasi come se le parole gli fossero sfuggite dalle labbra. “No, non può essere…”
Si alzò e andò a stendersi sulla branda, coprendosi il viso con le mani.
Una chiamata improvvisa sul suo factotum lo fece tornare alla realtà, una chiamata che avrebbe cambiato tutto.
 
 
 
Quella sera Shepard avrebbe avuto la libera uscita. In una normale circostanza avrebbe deciso di spenderla in compagnia del suo equipaggio, avrebbe convinto Joker a seguirli al Purgatory e avrebbero passato tutta la serata a scherzare di fronte a un drink e un paio di birre, lontano dalla Normandy e dalle preoccupazioni, almeno per un po’. Quella sera, però, Shepard avrebbe di gran lunga preferito uscire a fare una passeggiata in solitudine, sedersi su una delle panchine del Presidium a cercare di schiarirsi la mente. Aveva appena fatto una doccia e si stava rivestendo quando EDI la informò che Thane Krios desiderava parlare con lei.
Lei si fermò per un istante, con la maglietta ancora in mano, per cercare di indovinare quale fosse il problema stavolta. Non aveva intenzione di discutere ancora su ciò che era successo, non finchè non avesse fatto chiarezza sulle sue azioni. Tuttavia, non poteva semplicemente ignorare la sua richiesta, così diede un lungo sospiro e mormorò all’IA di comunicare al Drell che l’avrebbe raggiunto subito nella sua cabina, di malavoglia.
Continuò a rivestirsi lentamente, quasi come se volesse ritardare il più possibile il momento dell’incontro; perse tempo davanti allo specchio del bagno legando i capelli in una coda, poi in uno chignon, poi in una treccia. Sbuffò innervosita e si arrese a lasciarli liberi sulle spalle, una cascata di boccoli color rame che le davano un’aria giovane, quasi fanciullesca. Poi lasciò la sua cabina e prese l’ascensore, col cuore che per qualche motivo le martellava in petto. Si lasciò andare sulla parete fredda, reclinando la testa all’indietro.
Diamine, perché…
La porta dell’ascensore si aprì di fronte a lei con un suono metallico e lei ricacciò indietro l’impulso di fare dietro front. Andò dritta verso il Supporto Vitale, ribadendo a se stessa di essere il fottuto Comandante Shepard e che non c’era nessun motivo per sentirsi in ansia. Avrebbe affrontato qualunque discussione con diplomazia e calma, com’era solita fare, a differenza della sera prima.
 
Shepard aprì il portellone della cabina senza bussare, percorse il piccolo corridoio affiancato dalle taniche d’acqua d’emergenza e i tubi per la diffusione dell’ossigeno e si fermò, in piedi dietro di lui che stava seduto alla scrivania.
“Qualche problema?”, domandò.
Thane si voltò verso di lei per un breve istante, poi abbassò il capo.
“Si”, disse mestamente, mentre Shepard avanzava per fronteggiarlo. “Ma adesso che sei qui, mi viene difficile parlarne”.
La sua sincerità la spiazzava ogni volta. “Di che si tratta? Riguarda la tua malattia?”
“No”, rispose lui, alzandosi. Si avvicinò alla vetrina dove teneva le sue armi, allineate precisamente l’una accanto all’altra. Un Viper, una Predator, una Tempest e una Suppressor, lucidate tanto da sembrare nuove. Parlò senza neppure girarsi ad incontrare il suo sguardo.
“Avevo una famiglia, una volta”.
Shepard non se lo aspettava e, in fondo, conosceva ancora così poco di lui. Gli si avvicinò lentamente, appoggiandosi alla vetrina.
“Ho ancora un figlio, si chiama Kolyat… non lo vedo da molto tempo”.
“Non ne avevo idea”, disse lei debolmente. No, questo non se lo sarebbe proprio mai aspettato.
“Non ne abbiamo mai parlato”, rispose lui quasi a volerla giustificare, guardandola per un breve istante.
“Cos’è successo?”, la domanda le venne spontanea.
“Li ho abbandonati. Beh, non all’improvviso. Il mio allontanamento è stato graduale. Stavo via per lavoro, all’inizio una volta al mese, poi sempre più spesso… L’ultimo ricordo che ho di mio figlio risale a dieci anni fa”.
 
Sento una melodia antica, lui corre intorno per la stanza e grida “ehi papà fammi girare”, lo prendo in braccio, poi il terminale chiama, “papà” mi dice, io rispondo, devo leggere il contratto, lo metto giù, continua a chiamarmi, io lo ignoro, devo andare.
 
Shepard restò basita ad osservarlo, mentre lui sembrava caduto in una sorta di trance, la sua mente posseduta da quella memoria. Era una sorta di manifestazione violenta e incontrollabile, ipnotica.
“Cos’era quello?”, gli chiese, quando lui sembrò tornare alla realtà.
“Scusami. Avrai sicuramente sentito parlare della memoria eiedetica dei Drell. A volte sfugge al nostro controllo”, disse lui, con una leggera sfumatura d’imbarazzo nella voce.
Lei increspò appena le labbra in quello che doveva essere un sorriso rassicurante. Non aveva ancora capito quale fosse il nocciolo del problema e perché lui le stesse parlando di questo.
“Da quant’è che non vedi tuo figlio?”
“Dieci anni”, lui si voltò, appoggiandosi di schiena alla vetrina di fianco a lei. “Stamattina ho ricevuto una chiamata. Un mio vecchio contatto sulla Cittadella mi ha informato che Kolyat potrebbe essere stato assunto come mercenario e io…”, esitò per un istante.
“…tu vuoi fermarlo”, concluse Shepard.
“Esattamente”, sospirò, voltandosi ad incontrare i suoi occhi.
Lei abbassò istintivamente lo sguardo, portando una mano ad accarezzarsi una ciocca di capelli che le ricadeva sul viso. “Se vuoi puoi andare, sei in libera uscita anche tu”.
“Non ti ho chiesto di venire qui per avere il permesso, Shepard. Vorrei il tuo aiuto”.
Il mio aiuto?
“Perché? Voglio dire… Hai lavorato da solo per così tanto tempo e non mi sembri il tipo di persona che ha bisogno di una mano per una questione simile. Hai fatto fuori più persone tu su Omega in un’ora che io in dieci missioni di fila, probabilmente”.
“Ah… hai sentito di quella storia”.
“Era tutto nel dossier”, disse lei.
“Comunque no, non ho bisogno del tuo aiuto. Lo voglio”.
Lei restò in silenzio, dandogli l’opportunità di spiegarsi per evitare un possibile fraintendimento.
“Non lo pretendo, ma trattandosi di una missione così delicata vorrei avere a fianco qualcuno di cui potermi fidare”.
“E ti fidi di me? Solo ieri sera hai messo in dubbio il mio giudizio”. Stavolta lei non riuscì a trattenersi.
“Mi fido delle tue capacità. Non era mia intenzione giudicarti, ho commesso un errore anche io e ribadisco che non succederà più. Vorrei potessimo dimenticare questa storia”.
“Lo vorrei anche io…” Fu quasi più una confessione, la sua, che una frase di circostanza.
“Sono sicuro che Garrus capirà le tue motivazioni”.
“Perché, tu le hai capite?”, gli domandò lei in un tono di sfida.
“Più di quanto immagini”. I suoi occhi, ancora una volta, si posarono su quelli di lei come lame affilate capaci di trapassare la carne.
“Preparati, andiamo subito”, disse Shepard, intenzionata a scrollarsi al più di dosso quella sensazione di completo e totale smarrimento che provava al suo cospetto.
Lasciò il Supporto Vitale e andò a prepararsi anche lei, concentrandosi solo su ciò che andava fatto. Avrebbe lasciato tutte le dovute riflessioni per dopo.

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Capitolo 5
*** The Hardest Part ***


“Things aren't the way they were before 
 
You wouldn't even recognize me anymore 
 
Not that you knew me back then 
 
But it all comes back to me 
 
In the end”

 (Linkin Park, "In The End")

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Lasciarono la Normandy appena dopo il tramonto, che sembrava così reale da investire ogni cosa con la sua luce calda e ambrata. Sembrava che ogni superficie della Cittadella brillasse di luce propria, avvolta in un’aura mistica. L’ufficio dogana era stracolmo, c’era un via vai impressionante di alieni di tutte le specie, ma a Shepard bastò fare una telefonata a Bailey per evitare la fila. S’incamminarono subito verso il C-Sec, dove avrebbe trovato il Capitano alla sua solita scrivania, intento a lavorare sulle scartoffie quotidiane.
“Comandante”, esordì Bailey vedendola arrivare. “Immagino tu stia per chiedermi un favore… dico bene?”, domandò sorridendo lievemente.
“Puoi scommetterci, Bailey”, rispose Shepard, appoggiando le mani sulla scrivania. “Io e il mio collega stiamo cercando un Drell, suo figlio. Abbiamo modo di pensare che sia stato assunto come mercenario”.
“Mercenario? Si tratta di una faccenda seria?”
“Sì, ma vorremmo occuparcene noi. Massima discrezione, come sempre”.
“Ma certo. Beh, non dev’essere difficile trovarlo. Non si vedono molti Drell qui”, rispose lui, iniziando a trafficare al suo terminale. “Come pensavo… Un Drell è arrivato sulla Cittadella qualche giorno fa. E’ stato avvistato mentre chiacchierava con Mouse… il che rende la faccenda interessante”, aggiunse poco dopo arcuando le sopracciglia.
“Mouse?”, domandò Thane, sembrando improvvisamente allarmato.
“Un piccolo criminale. Topi di fogna, li chiamiamo… Vendono informazioni, cose da poco. Di solito sono orfani che tentano di racimolare qualche spicciolo e vivono nei condotti dell’aria. Mouse è un ragazzo cresciuto ormai e si occupa di affari più grossi, se vogliamo”.
“Bene, quindi possiamo iniziare la nostra indagine da lui, immagino”, commentò Shepard, trovando l’approvazione silenziosa di Thane. “Hai idea di dove trovarlo?”
“Di solito vagabonda dalle parti del Dark Star”.
“Grazie Bailey. Ti devo un caffè”, rispose Shepard facendo per andarsene.
“Solo uno?”
Shepard sorrise tra sé e sé e iniziò a fare strada. Thane l’affiancò immediatamente.
“Allora… che ne pensi?”, gli domandò lei.
“Sono preoccupato. Ho sempre pensato che lasciandolo con i suoi zii l’avrei aiutato a stare fuori da questo ambiente. L’ultima cosa che volevo era che seguisse i miei passi”.
“Pensaci, magari sta solo cercando un modo per avvicinarti. Se qualcuno l’ha assoldato per commettere un omicidio avrà pensato che abbia ereditato le tue capacità e lui magari è arrivato alla conclusione che in questo modo tu l’avresti trovato”.
Lui si voltò a guardarla, uno sguardo carico di apprensione, e lei capì immediatamente perché avesse chiesto il suo aiuto. Per un attimo, quello che vide davanti a sé non era più l’assassino solitario, sicuro di sé, posato. Era un padre preoccupato per il figlio, sicuro delle sue capacità ma insicuro su tutto il resto. Il motivo per cui le aveva chiesto di farle da spalla era palese: non avrebbe voluto restare da solo qualora avesse fallito. Era la richiesta genuina di un individuo che ha bisogno di qualcuno per affrontare una situazione difficile. Quella consapevolezza, brutale nella sua semplicità, la portò a sentire una grande empatia e a dimenticare per un attimo il risentimento che aveva provato fino a quella mattina nei suoi confronti. La priorità di Thane diventò improvvisamente anche la sua.
“Questa eventualità mi perseguita, Shepard”, disse lui, mentre acceleravano entrambi il passo.
“Facciamo uno step alla volta”, rispose lei con un tono di voce che voleva essere rassicurante.

 
Una grande insegna luminosa svettava sull’entrata del Dark Star. Non c’era nessuno che facesse pensare a uno di quei delinquentelli nei dintorni, così decisero di entrare a dare un’occhiata. All’interno dell’ampia sala, suddivisa in piccoli separé, il colore dominante era il blu dei led che percorrevano tutto il perimetro. Al centro si trovava la postazione bar, dove un Turian era intento a miscelare liquori per un’Asari. C’era poca gente, d’altronde era ancora presto per un locale con quel nome. La musica era bassa e le luci più forti del solito. Shepard si guardò intorno, cercando con gli occhi qualcuno che rispondesse alla descrizione di Mouse, poi gli parve d’intravedere un giovane Umano sul fondo della sala. Fece a Thane cenno di seguirla e, non appena il ragazzo si accorse della loro presenza, lo videro fuggire da una porta di servizio. “Dev’essere lui”, commentò Shepard scattando subito dietro verso quella direzione. Appena fuori dal locale, la strada si dipanava in tanti vicoli, trovarlo sarebbe stata solo questione di fortuna, ma non ci volle molto prima che Thane si accorgesse di un’ombra che si proiettava a fianco di un bidone dell’immondizia. Poggiò una mano sullo spallaccio di Shepard, per farla rallentare, e le fece segno di non parlare, poi si avvicinò cautamente.
Il ragazzo era rannicchiato per terra, aveva abiti lerci e un cappello di lana scucito in più punti. Quando si accorse della presenza del Drell, alzò subito le mani in segno di resa. “Io… io ti conosco”, balbettò corrugando la fronte, stupito. “Merda… Krios! Pensavo ti fossi ritirato”, aggiunse poi, sgranando gli occhi. Thane gli si avvicinò e gli tese una mano per aiutarlo ad alzarsi, lui l’afferrò, in un gesto automatico. “Vi conoscete?”, domandò Shepard, incrociando le braccia.
“Era un mio contatto qui sulla Cittadella, quando ero ancora attivo”, rispose Thane mentre quello tentava di scrollarsi di dosso il sudiciume con una mano.
“Cosa volete da me?”, domandò allarmato.
“So che hai avuto contatti con un Drell, qualche giorno fa. Gli hai dato indicazioni per un lavoro. Chi è che l’ha assunto?”, chiese Thane a bruciapelo, avvicinandosi a lui.
“N-non lo so… Non ho chiesto. Le persone per cui lavoro non mi danno certi dettagli”.
Thane lo afferrò per il colletto, portandosi a un palmo dal suo viso. Gli archi sopraccigliari curvati in un'espressione torva che lo rendevano ancora più minaccioso; sapeva che stava mentendo.
“Non posso farmi ammazzare”, gemette Mouse strizzando gli occhi impaurito. Thane lasciò la presa, mantenendo il contatto visivo costante. Shepard capì che quello era il momento di essere diplomatici, in fondo era solo un ragazzo e sapeva che avrebbe ceduto facilmente. Gli si avvicinò, posando una mano rassicurante sulla sua spalla. “Non hai niente da temere, nessuno farà il tuo nome. E’ importante che tu ci dica come sono andate le cose”.
“E va bene, va bene…”, rispose quello, con le mani che tremavano. “E’ venuto da me a chiedermi un lavoro e io ho cercato fra i tuoi vecchi contatti qualcuno che poteva essere interessato. Il tizio che si è offerto di assumerlo si chiama Kelham. Elias Kelham… ma non so altro”, si rivolse a Thane.
“Dimmi di più su Kelham”, insistette Shepard.
“E’ un umano… Dopo l’attacco dei Geth alla Cittadella si è arricchito, adesso fa parte dei pesci grossi. E’ invischiato nella malavita locale, non è una bella persona”, rispose il ragazzo, grattandosi nervosamente il capo. “Se Kelham viene a sapere di questa discussione…”
“Non ti succederà niente, Mouse”, lo rassicurò Thane. “Hai fatto la cosa giusta”.
Il ragazzo si allontanò dai due, ancora tremante, la voce rotta dall’ansia. “Tu hai fatto tanto per me, Krios. Piazza una pallottola in testa a quel bastardo… per il bene di tutti”, disse prima di dileguarsi.
Shepard e Thane non lo fermarono, sapevano già abbastanza. Si scambiarono uno sguardo preoccupato, poi lui parlò.
“Conosco Mouse più di mio figlio”, confessò, abbassando il capo.
 
Mi sorride, ha i denti rotti e le ginocchia sbucciate, i piedi scalzi. Venera i piccoli doni che gli faccio. “Dov’è tuo figlio?”, mi chiede, lo sguardo accigliato.
 
Parlò velocemente, gli occhi persi in un ricordo lontano, la vergogna per il suo passato. Shepard non osò dire una parola, dandogli il tempo di spiegarsi, se avesse voluto.
“Ero l’unica cosa che aveva”, mormorò, senza sollevare lo sguardo da terra. “E ho lasciato lui così come ho lasciato Kolyat”.
“Non… non biasimarti per questo”, fu l’unica cosa che le riuscì di dire.
“Se non lo faccio io, chi lo farà per me? Dobbiamo convivere con il peso delle nostre decisioni, Shepard”, rispose lui incamminandosi. “E tu lo sai meglio di me”, concluse mentre le dava le spalle.

 
Si recarono nuovamente da Bailey, stavolta per saperne di più sul committente. La faccenda si rivelò più complicata del previsto. C’era una sorta di accordo silenzioso tra Kelham e il Capitano, per cui lui si sarebbe impegnato a chiudere un occhio, accontentandosi delle proficue donazioni annuali al C-Sec e della promessa di non combinare troppi guai. Shepard si passò una mano sul capo, innervosita. Non avrebbe rinunciato a trovare il Drell solo per uno stupido accordo tra un criminale e la polizia. Sfoderò tutte le sue armi migliori per convincerlo a indicare loro dove potevano trovarlo, e in cambio promise di tenerlo fuori da quella faccenda. “Fate presto, Kelham ha uno stuolo di avvocati pronto a difenderlo e io sono con le mani legate. Non costringetemi ad intervenire”, furono le parole di Bailey, altrettanto inquieto. “Il massimo che posso fare è mandare un paio di persone fidate a prenderlo e rinchiuderlo in una stanza. Potrete interrogarlo, ma dopo lo lascerete andare”.
Shepard non chiedeva di più. Accettò la proposta e si fece accompagnare ad una vettura d’ordinanza che li avrebbe condotti fino al luogo prefissato per l’incontro, lontano da occhi e orecchie indiscrete.
“Come vogliamo muoverci, Shepard?”, domandò Thane in attesa del via libera.
“Propongo un interrogatorio a due. Convincilo che non ti farai problemi a toglierlo di mezzo, spaventalo abbastanza da confessare subito. Io cercherò di essere diplomatica”.
“D’accordo”, annuì lui. “Non possiamo spingerci troppo oltre comunque, abbiamo bisogno di quelle informazioni più di quanto abbiamo bisogno di un cadavere”.
“Faremo in modo che parli alla svelta. Come te la cavi nel ruolo del poliziotto cattivo?”
Dio… non posso averlo detto sul serio.
Thane si lasciò sfuggire un sorriso sornione. “Non male, devo dire”, disse poi, portandosi compostamente le mani dietro alla schiena. “Ma so sempre quando è il momento di fermarmi”. Shepard decise di non rispondere, restando a fissarsi i piedi e a togliersi un’insolita immagine dalla testa. Fortunatamente, dopo una manciata di secondi, furono interrotti dalla chiamata di Bailey che li invitava ad entrare. Un cenno d’intesa, poi si avviarono verso la piccola stanza adibita per l’occasione. Trovarono Kelham disteso su un lettino parzialmente reclinato, gambe e braccia immobilizzate. “Che razza di scherzo è questo?”, esclamò l’Umano alla vista di quel duo sospetto. “E chi diavolo siete voi due?”
Shepard e Thane non risposero, si divisero andando a posizionarsi ai lati opposti del lettino e poi Thane fece un impercettibile cenno col capo in direzione di lei.
“Hai assunto un assassino. Ci dirai chi è che vuoi morto e poi uscirai da qui, niente ripercussioni”, disse Shepard posatamente, le mani appoggiate al materasso.
“Voglio il mio avvocato”, grugnì Kelham, stringendo i denti mentre tentava inutilmente di divincolarsi dalla morsa delle manette d’acciaio.
Thane gli voltò le spalle, camminando lentamente lungo il perimetro della stanza. “Non siamo dello C-Sec, come avrai potuto notare, e questo non è un processo”.
“E questo dovrebbe spaventarmi?”
Thane gli si avvicinò, sotto la luce fioca della stanza i contorni del suo viso spiccavano nell’ombra. Shepard, scioccamente, si ritrovò a pensare a un cobra che punta la sua preda con garbo ed eleganza, e poi si avventa senza pietà su di essa, in una mossa scaltra e letale.
“Quello no, ma forse questo sì”, disse lui, estraendo la Predator della fondina e portandola direttamente alla sua tempia. Il malcapitato chiuse gli occhi d’istinto e digrignò i denti. “Bailey non ve lo permetterà!”, sibilò con rabbia.
“Vedi per caso qualcuno che si chiama Bailey in questa stanza?”, domandò sarcasticamente Shepard a Thane, portandosi avanti a fronteggiarlo con un ampio gesto del braccio. Adesso si trovavano entrambi su di lui, in una morsa fatale. Un paio di occhi verdi come smeraldi e un paio di occhi neri come l’ossidiana che non lasciavano scampo. “No, non vedo nessuno di nome Bailey qui. Pare che dovrai vedertela solo con noi”, rispose Thane con fare canzonatorio.
“Chi diavolo sei tu, ranocchio? Il suo tirapiedi?”. Un millesimo di secondo dopo, Kelham si ritrovò con il labbro inferiore spaccato dal calcio della Predator, Shepard sussultò in risposta al gesto inaspettato e capì che Thane aveva intenzione di interpretare il suo ruolo fino in fondo. Per quanto lo spettacolo non le dispiacesse, era il momento di farlo ragionare con le buone, adesso.
“Hai mai sentito parlare della divisione Spettri, Kelham?”, chiese, avvicinandosi pericolosamente al suo viso per regalargli uno dei suoi sguardi più penetranti. “Ne hai uno giusto di fronte”.
“Provalo!”, abbaiò quello, incapace di resistere all’istinto naturale di divincolarsi. Thane premette a fondo la pistola sulla sua tempia e gli si avvicinò di rimando. “Gli Spettri sono sopra la legge, non lo sapevi? Non ha nulla da provarti”. Kelham strizzò gli occhi, sotto il dolore pulsante dell’arma premuta contro il cranio. “Dannazione”, imprecò, mentre Shepard e Thane si scambiavano un altro sguardo d’intesa. Avevano capito di esserci riusciti.
“Il nome che state cercando è Joram Talid. Un Turian in corsa per le elezioni sulla Cittadella”.
Thane ripose la Predator e incrociò le braccia sul petto. “Dove possiamo trovarlo?”
“Vive negli 800 blocchi”.
“Ringrazia che non siamo venuti qui per te, razza di imbecille”, concluse Shepard. Poi, lei e Thane lasciarono la stanza lasciandolo inebetito a divincolarsi come un pesce fuori dall’acqua.

 
Appena fuori dalla porta, un agente dello C-Sec fece loro cenno di seguirli. Svoltato l’angolo, Bailey li aspettava irrequieto. “Allora, avete le risposte che cercavate?”, domandò, squadrando i loro volti.
“Conosci un certo Talid, Turian?”, incalzò Shepard.
“Chi non lo conosce… puoi vederlo nei manifesti elettorali di cui è tappezzata la Cittadella. Promette di eliminare il crimine dalle strade ed è apertamente anti-Umano”, rispose, scuotendo il capo.
“Al momento il suo schieramento politico non è la mia priorità. Dobbiamo trovare il figlio di Krios al più presto”.
“Sergente, accompagnali agli 800 blocchi”, ordinò immediatamente Bailey. Shepard gli diede una pacca sulla spalla in segno di ringraziamento e poi si avviarono verso il mezzo.
Era notte ormai e i palazzi illuminati svettavano sulle strade grigie della Cittadella, stagliandosi sotto il cielo scuro. L’astroauto d’ordinanza trasmetteva di continuo le chiamate d’emergenza e gli aggiornamenti sulle altre pattuglie mentre viaggiavano a sirene spente, per non attirare l’attenzione.
“Stai bene?”, quella domanda sorse spontanea a Shepard, che prendeva coscienza del fatto che l’assassino era sempre più lontano dall’idea iniziale che si era fatta di lui.
“Apprezzo l’interessamento Shepard, ma finchè non troverò Kolyat…”, rispose lui, accarezzandosi il mento mentre gli occhi rincorrevano le luci della stazione sotto di loro. “C’è un dettaglio di cui non ti ho parlato… Ho saputo che mio figlio ha ricevuto un pacco, qualcosa che avevo preparato per lui dopo la mia morte. Non so come abbia fatto a riceverlo e non so a quali conclusioni può essere giunto”.
Lei dovette frenarsi dal tendere una mano verso di lui, per cercare la sua e rassicurarlo. Era sempre stata una persona molto fisica, che non teneva a distanza la gente, ma quel gesto, adesso, le sembrava sbagliato. Era un estraneo, eppure il suo istinto la spingeva a cercare una connessione, lo stesso istinto che aveva combattuto sin dal primo momento ponendosi in modo severo nei suoi confronti. Si allontanò, invece, appoggiandosi al portellone della parte opposta e costringendosi a guardare fuori dal finestrino.
“Lo scoprirai presto, non devi pensarci adesso”, rispose piano.
“Immagino sia così”.

 
Una volta giunti al luogo prestabilito si misero sulle tracce di Talid, parlando a stento fra di loro. Erano tesi, consapevoli che ritardare anche solo un paio di minuti avrebbe potuto fare la differenza. Thane sapeva che il momento migliore per muoversi era proprio quell’ora della sera, quando c’è poca gente in strada ma abbastanza da passare inosservati. Ipotizzò che Kolyat potesse essere già sulle sue tracce, proprio nel medesimo istante.
Tirarono un sospiro di sollievo quando finalmente il Turian che cercavano entrò nel loro campo visivo. Stava parlando con un altro Turian ed era in compagnia di un Krogan, probabilmente la sua guardia del corpo. Nessun Drell sembrava essere nei paraggi.
“Quando vuoi”, disse Shepard, incontrando i suoi occhi.
“Seguilo a distanza, dalle passerelle di manutenzione”, rispose Thane indicando dei corridoi sopraelevati che percorrevano tutta la zona.
“Tu dove sarai?”
“Nell’angolo più buio, con la visuale migliore”. Pronunciò quelle ultime parole con un’enfasi particolare, poi riunì le mani in preghiera e mormorò qualcosa in una lingua che non poteva essere tradotta. Shepard teneva un occhio fisso sul Turian e quando si voltò, Thane si era già dileguato nel nulla.
Si mise anche lei sui suoi passi, raggiungendo la prima passerella disponibile e aggirando i controlli con astuzia, poi attivò il factotum e controllò che la comunicazione non desse problemi. Iniziò a sentire l’ansia crescerle dal fondo dello stomaco, mentre percorreva quegli stretti corridoi metallici man mano che Talid avanzava, sotto di lei. Perderlo di vista equivaleva a mandare all’aria l’intera missione e non era una cosa che voleva rischiare. Perché le interessava tanto? Probabilmente perché anche lei aveva a cuore il destino di un figlio abbandonato dal padre, un destino che nessuno al mondo dovrebbe subire, e lei conosceva bene il peso di una tale perdita. Non aveva fatto domande riguardo alla madre, ma non era stato difficile indovinare, visto com’erano state poste le cose. Tuttavia, non riusciva a biasimare Thane come persona; era abbastanza matura da comprendere i motivi di certe scelte e da astenersi dal dare giudizi troppo affrettati, soprattutto perché lui non era Umano. Non conosceva bene gli usi e i costumi dei Drell e, per quanto ne sapesse, l’allontanamento dal nucleo familiare poteva essere visto diversamente per loro, alla luce anche dei rapporti con gli Hanar. Sapeva qualcosa del Contratto, quella sorta di clausola per cui i Drell tentavano di ripagare come possibile i loro salvatori, compiendo mestieri a cui gli Hanar, per via delle loro caratteristiche fisiche, non erano portati. Un giorno, forse, le sarebbe piaciuto affrontare l’argomento, magari di fronte a una tazza di thè. Continuando a pedinare Talid, si sorprese di quell’ultima considerazione spontanea e le venne naturale ripensare a quella mattina, quando aveva sperato fino all’ultimo momento che Kelly le desse un buon motivo per sbarazzarsi di lui. Adesso, quel sentimento, sembrava svanito nel nulla.
 
“Shepard, mi ricevi?”, la voce profonda dell’assassino giunse alle orecchie di lei attraverso il comunicatore, tornandola a far concentrare sull’obiettivo non solo con gli occhi, ma anche con la mente.
“Affermativo”, rispose lei, abbassandosi per evitare un tubo metallico mentre non si arrischiava a distogliere lo sguardo dall’obiettivo, neanche per un secondo.
“Lo hai bene in vista?”
“Non lo perdo, Thane”.
Shepard continuò il pedinamento senza farsi scoraggiare dai numerosi corridoi chiusi che era costretta ad attraversare prima di tornare ad una visuale migliore. L’istinto le venne in aiuto, facendole prendere sempre la strada corretta, aiutata anche dagli aggiornamenti costanti di Thane. Passarono circa quaranta minuti prima che lei, finalmente, si accorse di un movimento sospetto, ad una ventina di metri da Talid. Il suo cuore accelerò i battiti; se aveva visto bene, c’erano quasi. Attivò il comunicatore con un gesto rapido della mano e si mise in contatto con Thane.
“Credo di averlo visto”, disse, “tieniti pronto”.
“Ho visto anche io”.
Non passarono neanche dieci secondi da quell’ultima frase, che un Drell apparve all’improvviso sotto di lei. Puntava una Predator vecchio stampo contro Talid, che non si era ancora accorto della sua presenza. Shepard si sporse dalla passerella all’istante. “Kolyat!”, urlò, senza pensarci due volte, facendolo voltare verso di sé. Quello era il segnale. Il Drell sparò d’istinto un colpo in direzione del Krogan, ferendolo ad una gamba, Talid iniziò a scappare e Kolyat scattò per inseguirlo a ruota. Lo stesso fecero Thane e Shepard, sapendo che quella sarebbe stata la loro personale corsa contro il tempo. Corsero fianco a fianco per qualcosa come un centinaio di metri, poi giunsero all’appartamento del Turian. Trovarono Talid, in ginocchio su un tappeto d’un bianco immacolato, col capo chino, e Kolyat subito dietro di lui, con la pistola puntata alla sua nuca, la mano tremante e incerta. Shepard estrasse la Phalanx dalla fondina, togliendo la sicura e puntandola automaticamente verso Kolyat, una precauzione necessaria. Thane, invece avanzò, incurante di quell’arma che, volendo, avrebbe potuto anche colpire lui. “Kolyat”, disse.
“E’ uno scherzo, vero? E’ adesso che ti presenti? Togliti di mezzo”, esclamò il figlio, trattenendo a stento la rabbia che increspava il suo volto.
“Vi prego, aiutatemi”, gemette il Turian in ostaggio, sull’orlo delle lacrime.
“Figliolo, abbassa quell’arma”, anche Bailey fece irruzione nell’appartamento, accompagnato da un agente. Kolyat adesso aveva tre pistole puntate addosso. Shepard si augurò che non facesse mosse false, in quella posizione ben poco adesso dipendeva da lei.
“Toglietevi tutti di mezzo. Io me ne vado, e lui viene con me”. Kolyat pronunciò quelle parole con la voce che gli si spezzava in gola, senza trovare il coraggio di guardare il padre neanche per un secondo.
“Ci sono dei cecchini qua fuori, fossi in te io ascolterei il Capitano”, intervenne Shepard.
“E tu chi diavolo sei? Lasciatemi in pace!”. La Predator tremò nella sua mano e lei dovette intervenire. Sparò un colpo in direzione di una lampada, talmente preciso da centrarla in pieno. Kolyat sussultò, e l’attimo dopo si ritrovò a massaggiarsi una guancia, colpita duramente da un destro di Shepard che, veloce, gli sottrasse l’arma dalle mani. Non le piacque, ma andava fatto. Si voltò, sapendo che la sua presenza non era più necessaria e raggiunse Bailey, mentre Talid scappava via da qualche parte e Thane affrontava finalmente il figlio.
 
 
 
Quella notte, Shepard si prese del tempo per riflettere, avvolta in una morbida coperta sul divano dell’Osservatorio. Una cioccolata calda in mano e il factotum aperto su Extranet nell’altra. “Thane Krios”, aveva digitato sul motore di ricerca, senza trovare risultati degni di nota. “Drell”, era stata la seconda parola chiave, e le si era aperto un mondo. Aveva passato almeno un paio d’ore a leggere della storia di quella Specie, spaziando dalle origini, alle tradizioni, alla situazione politica dei giorni attuali. Aveva appreso che si trattava di una specie molto interessante, caratterizzata da uno spiritualismo innato e da una profonda sincerità. Quell’elemento, le parve di capire, derivava dal fatto che i loro flash improvvisi di memoria avrebbero potuto causare situazioni imbarazzanti o fraintendimenti, perciò erano nati come un popolo senza peli sulla lingua e senza inutili tabù, al contrario degli Umani che si nascondevano sempre dietro maschere d’ipocrisia. Era bello, pensò, dando un sorso alla cioccolata ormai fredda. Molti strani comportamenti che aveva notato nell’assassino, trovavano finalmente una spiegazione. Stava per cercare “Anatomia Drell”, quando il portellone davanti a lei si aprì e apparve l’oggetto di tanta curiosità. Se avesse potuto lanciare il factotum nel vuoto cosmico attraverso il finestrone, l’avrebbe fatto senza pensarci due volte. Si limitò a chiudere la schermata con un gesto quasi violento e pregò di non essere arrossita troppo vistosamente.
“Shepard”. Thane abbozzò un inchino col capo e fece due passi verso di lei. “Disturbo?”
“No, affatto”, rispose lei mantenendo una certa parvenza di compostezza. “Vuoi parlarne? Di tuo figlio, voglio dire…”
“Prima volevo ringraziarti, dal momento che non l’ho ancora fatto. Il tuo aiuto, oggi, è stato fondamentale”, disse, prendendo posto accanto a lei.
“Nessun problema, sono contenta di aver dato una mano”. Shepard ritrasse i piedi scalzi sotto la coperta, rannicchiandosi maggiormente nell’angolo.
“Hai fatto più di questo, ti sono debitore”.
“Sbagli. Hai accettato di salire su questa nave senza volere niente in cambio, il minimo che potevo fare era questo”.
“Le tue parole mi confortano, Shepard. Se devo essere sincero, non pensavo avresti accettato dopo l’episodio di Sidonis”.
“A proposito di quello”, sorrise lei, deponendo completamente le armi, “avevi ragione. Se c’è una cosa che mi sono sempre ripromessa, è quella di riconoscere i miei sbagli. Mi hai detto che hai visto una debolezza… e c’è stata, da parte mia. Non ti autorizzava ad agire come hai fatto, ma… se quella fosse stata una situazione di vita normale e io non fossi stata il tuo dannato Comandante, credo sarei stata felice di avere a fianco qualcuno in grado di aprirmi gli occhi in un momento così delicato”.
Complimenti, Shepard. Hai toccato il fondo adesso.
Si massaggiò la testa, mordendosi distrattamente le labbra dopo quella confessione. Era troppo stanca, probabilmente, e la cioccolata l’addolciva sempre troppo. Thane sorrise, un sorriso ampio che era l’essenza della sincerità e che non sapeva di soddisfazione. Era il suo modo di dirle che era felice di essere stato compreso, così come lui aveva compreso lei.


 

Ho sempre adorato questa missione, specialmente la parte dell'interrogatorio, e spero di essere riuscita a darle la giustizia che merita senza annoiarvi troppo.
Grazie a tutti coloro che leggono e recensiscono, grazie anche a chi l'ha fatto già tempo fa su DeviantArt <3

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Capitolo 6
*** Only If For a Night ***


 

"And I'm shaken then I'm still
 
When your eyes meet mine
 I lose simple skills
 
Like to tell you all I want is now”

 (Snow Patrol, "Set down your glass")


 [x

 

 

Quella notte non avevano parlato di Kolyat o del passato; si erano stranamente trovati a discutere di libri e di filosofia. “Ho letto molto i vostri filosofi”, aveva detto Thane, “riflettono il pensiero di una specie interessante. Siete curiosi, pieni di domande, e scappate sempre da voi stessi. Perché?”
Quell’interrogativo l’aveva messa in difficoltà, perché riusciva a rispecchiarcisi in pieno. “D’altra parte”, aveva aggiunto lui, “siete molto più simili a noi rispetto alle altre specie della Galassia. Abbiamo un’aspettativa di vita media piuttosto simile, caratteristiche fisiche simili… e questo mi ha facilitato il compito di comprendere alcuni concetti”.
Shepard non aveva mai ponderato su quell’aspetto, anche perché, francamente, non aveva mai avuto modo di dedicare del tempo a certi argomenti. Le sue uniche letture di spessore risalivano ai tempi prima dell’addestramento, quand’era ancora una ragazzina piena di speranze e sogni, quando andava alla ricerca di qualcosa in cui credere e cambiava costantemente modo di vedere la vita a seconda che leggesse questo o quell’altro autore.
“Posso farti una domanda?”, gli chiese improvvisamente, approfittando di un breve momento di silenzio. “Sono qui per questo”, aveva risposto lui, accennando un sorriso.
“Hai detto di aver letto molto, di essere entrato in contatto con tante correnti di pensiero diverse, ma stasera ti ho visto pregare. Perché?”
“Se pensi che la filosofia serva a smettere di credere in qualunque cosa ti sbagli, Shepard”, rispose, distendendo un braccio lungo lo schienale del divano, “Per come la vedo io, essa ti fornisce solo gli strumenti giusti per analizzare il mondo, ma fondamentale poi è il punto di vista di un individuo e il suo passato, ciò che lo circonda”.
Shepard mormorò un “mmm”, mentre si accarezzava il mento pensierosa, portandosi la coperta fin sopra le labbra.
“In cosa credi tu?”, le domandò lui, attirandosi il suo sguardo perplesso.
“Diavolo… non lo so. E forse è peggio, non è così?”
“Penso che forzarsi a trovare delle risposte, anche quando non ce ne sono, è sempre infruttifero. Le troverai solo quando avrai le giuste domande”.
“E quand’è che avrò le giuste domande?”
“Quando saprai di cosa hai davvero bisogno”.
E di cosa ho bisogno, io?
Shepard si strinse nelle spalle, cercando i suoi occhi. Lui citò una frase di Schopenhauer e iniziò a spiegarle il suo punto di vista su quell’argomento, ma per quanto l’affascinassero le sue parole, la mente continuava a portarla verso un’altra direzione. I suoi occhi scivolarono sulle sue labbra, distrattamente, percorrendone i contorni, come rapita. Le sue orecchie si fecero cullare dalla sua voce, captandone le tonalità ma non il significato. Quando lui smise di parlare, lei si riebbe, rendendosi conto che Thane aveva finito la frase con un punto di domanda al quale nei non sapeva assolutamente cosa rispondere. Annuì, tentando di mascherare l’assoluta mancanza di attenzione, ma lui aveva capito e sorrise, rassegnato.
“Forse è ora di andare a dormire”, disse semplicemente mentre si alzava dal divano, con un sorriso che non accennava a scomparire dal suo volto.
“Avessi almeno la forza di raggiungere l’ascensore”, scherzò lei, con gli occhi che le si chiudevano a fessura. “Credo proprio che per stanotte, questo sarà il mio letto”, concluse accarezzando il divano con una mano.
“Buonanotte, Comandante”.
“Buonanotte, Krios”.
 
 
 
L’indomani mattina, prima di ripartire, Shepard decise di invitare Garrus al poligono di tiro. Gli aveva mandato un breve messaggio e lui aveva risposto senza farsi attendere, facendole tirare un sospiro di sollievo. S’incontrarono fuori dalla Normandy e presero un taxi. Il silenzio fu il loro terzo incomodo finchè entrambi non si trovarono con un fucile in mano e due sagome di cartone davanti. Solo allora le parole iniziarono a fluire spontaneamente.
“Io… Shepard, io vorrei solo sapere il motivo della tua esitazione”, si sfogò finalmente Garrus, dopo aver centrato la fronte della sagoma umana.
Shepard caricò un colpo in canna, prendendo la mira con l’occhio destro. “So che probabilmente non è la risposta che vuoi sentire”, disse, premendo il grilletto, “ma io sono quel tipo di persona che si fa scrupoli di fronte ad un uomo disarmato, fosse anche il peggiore bastardo della Galassia”. Il proiettile bucò la sagoma dove ci sarebbe stato un cuore.
“Lui ci ha traditi tutti, ha tradito i suoi amici, li ha fatti ammazzare e per poco non sono morto anche io. Questo non ti bastava per convincerti?”, domandò lui, aumentando la distanza delle sagome di dieci metri.
“A mente lucida, sì, ma in quella situazione… non so, è qualcosa che non so descrivere. Qualcosa dentro di me mi ha fatto provare pietà. Sapevo che avrei visto quell’uomo morire davanti a me, se solo mi fossi spostata, e ho avuto… paura”, confessò, rivolgendogli uno sguardo dietro gli occhiali protettivi.
Garrus imbracciò il Mantis, inserendo un’altra clip termica e si preparò a sparare. “Avrei voluto che ti mettessi nei miei panni e nei panni dei miei amici morti, anziché nei suoi”, disse, facendo partire il colpo in direzione dell’ipotetico setto nasale.
“Ho sbagliato, va bene? Ho sbagliato e me ne pento, ma non posso cambiare quello che sono”, rispose Shepard, trapassando la sagoma dove ci sarebbe stata una gola.
“Che avresti fatto se al posto di Sidonis ci fosse stato uno schiavista Batarian?”, Garrus aumentò ancora la distanza dei bersagli.
Le mani di Shepard si fecero più salde intorno all’arma, i denti stretti. “Questo è ingiusto, Garrus. E lo sai”, sparò centrando la sagoma in mezzo agli occhi. “Dio… non pensavo saresti arrivato a tanto”, gemette, poggiando il fucile e togliendosi le cuffie isolanti. Si allontanò e si prese la testa fra le mani, dandogli le spalle.
Garrus abbassò il fucile e lo poggiò davanti a se, voltandosi a fronteggiarla con uno sguardo dispiaciuto. Shepard aveva fatto così tanto per lui, incoraggiandolo a diventare una persona migliore, riponendo in lui una fiducia quasi cieca, chiedendogli di seguirla come se sapesse esattamente che era l’unica cosa di cui aveva bisogno… E lui la pugnalava così, adesso, accecato dalla delusione di trovarla in disaccordo, di non sentirsi capito.
“Non è la tua esitazione che mi ha fatto male, Shepard. E’ il senso di colpa che è nato da quell’esitazione. E’ il potere che hai su di me, di farmi pentire delle mie stesse scelte quando tu non le condividi”.
L’amicizia, eccola lì, di fronte ad un paio di sagome di cartone bucherellate. E colpiva come un pugno nello stomaco e una carezza delicata. Shepard non seppe cosa rispondere, pietrificata da una simile confessione, ma conscia del fatto che anche per lei fosse lo stesso.
“Se non mi sentissi così anch’io, Vakarian, pensi che staremmo qui a discuterne?”, gli domandò dopo un lungo silenzio, sciogliendosi in un sorriso.
“Lo so, so che ci tieni quanto me. Non voglio perdere la tua amicizia per questa storia, Sidonis mi ha tolto già troppo”.
Shepard gli si avvicinò, guardandolo in modo rassicurante. “Allora lasciamocelo alle spalle, una volta per tutte. E’ andata”.
“E’ andata, sì…”
 
 
La settimane successive furono un percorrere incessante di parsec lungo tutta la Galassia, alla ricerca di risorse utili per la missione finale, compresi nuovi membri dell’equipaggio. Erano tornati su Illium e Shepard aveva convinto una Justicar ad unirsi alla sua missione, non senza sporcarsi un po’ le mani per questo. Aveva incontrato Liara che le aveva chiesto aiuto per una faccenda importante, ma avevano dovuto rimandare a tempi più tranquilli. Era stata su una prigione di massima sicurezza controllata dai Sole Blu per reclutare una potente biotica, ma una volta lì avevano tentato di rapirla e anche quella volta aveva dovuto sporcarsi le mani, e parecchio. Aveva reclutato un mercenario, ex fondatore del Branco Sanguinario, e la ladra più abile dell’intera Galassia… Adesso la sala mensa a pranzo era un vociferare allegro e rumoroso e Shepard aveva imparato ad apprezzare anche la presenza dei nuovi arrivati che si mescolavano ai vecchi.
Erano stati giorni faticosi, in cui le poche ore libere a disposizione le aveva passate a revisionare rapporti, dormire e, saltuariamente, concedersi chiacchierate con l’equipaggio. Tutto quel lavoro era stato una mano santa. Shepard aveva dimenticato l’episodio di Sidonis e Garrus era tornato a pranzare insieme a loro e a prenderla scherzosamente in giro quando lei ne combinava una delle sue, ugualmente Tali si era finalmente tranquillizzata e aveva smesso di ammutolirsi quando si trovava in mezzo a loro. Sembravano essere tornati esattamente come ai vecchi tempi e questo era il motivo per cui adesso Shepard riusciva a dormire la notte, se non fosse per un pensiero che la veniva regolarmente a trovare un attimo prima di chiudere gli occhi… Thane. Non lo vedeva mai in giro per la nave, non lo vedeva mai chiacchierare con nessuno e l’unica volta che gli era capitato di portarselo in missione era stato silenzioso e concentrato come sempre. Più volte aveva provato l’impulso di andare a trovarlo al Supporto Vitale, ma dopo l’ultima volta provava imbarazzo. Non riusciva a togliersi dalle mente i momenti in cui si era persa ad osservare il suo volto, mentre il suo istinto le suggeriva cose che la ragione si ostinava a rifiutare. Chissà che idea doveva essersi fatto di lei, dopo i segnali contraddittori che lei gli aveva inviato, prima trattandolo come l’ultimo dei mercenari, poi ringraziandolo di averle fatto aprire gli occhi. Si era tenuta persino lontano da Extranet, seppellendo con imbarazzo quella strana curiosità che aveva provato nei suoi confronti, continuando a ripetere a se stessa di essere una stupida, quando si trovava a cogliere quell’inconfondibile bagliore nei suoi occhi in sala briefing, prima di una missione. Alla fine faceva finta di niente anche quando si ritrovava a guardarsi allo specchio piena di domande: di cosa ho bisogno, io?
 
 
Erano passati dieci giorni prima che EDI suggerisse a Shepard di fare una sosta per scaricare l’energia oscura accumulata in seguito ai salti iperluce. Si fermarono nei pressi di una stazione sperduta da qualche parte nei Sistemi Terminus, giusto il tempo di fare rifornimento e un po’ di sana manutenzione; sarebbero ripartiti proprio l’indomani.
Shepard si trovava nella propria cabina quando il Drive Core cessò di ronzare e tutto piombò nel silenzio dopo una breve vibrazione, segno che i motori erano stati spenti. Odiava quella sensazione, sembrava che tutto si fermasse all’improvviso e le cose acquistassero un significato diverso. Chiese ad EDI di comunicare all’equipaggio che tutti coloro che non erano di turno sarebbero stati sospesi dalle proprie mansioni per la serata, poi andò a fare una breve doccia.
Dopo essersi rivestita ricevette una strana chiamata da parte di Joker sul factotum. “Comandante, ti aspettiamo in sala mensa”, aveva detto, accompagnato da alcune risate sommesse di sottofondo.
Che diavolo sta succedendo?
Legò i capelli in una coda e prese subito l’ascensore, assumendo una postura severa ancora prima di scoprire chi e cosa avessero architettato. Quando svoltò l’angolo, l’espressione dura del suo volto si sciolse e lei si lasciò andare ad una risata rassegnata alla vista di tutto il suo equipaggio radunato dietro al tavolo degli ufficiali, spumante in mano e uno strano pasticcio pieno di candeline a fissarla minacciosamente. “Buon compleanno Comandante!”, esclamarono in coro, inzuppandola di frizzante dalla testa ai piedi. Lei si prese il volto tra le mani, restando a corto di parole, mentre arrossiva e cercava di sopravvivere all’imbarazzo derivante dalla stupida canzoncina che seguì all’applauso. Poi lo sguardo le cadde automaticamente su Grunt e non riuscì a non piegarsi in due dal ridere, nel vederlo intonare una simile melodia con il suo vocione da Krogan. Non poteva crederci.
Si avvicinò a Joker mentre gli altri iniziavano a versarsi da bere e gli abbassò la falda del cappello sugli occhi, come al solito. “Sei tu il responsabile di questa follia?”
“Se non ci pensavo io, chi l’avrebbe fatto? Dubito che tu abbia il tempo di ricordarti il giorno del tuo compleanno, Comandante”, rispose quello, sistemandosi il cappellino.
“Di questo devo dartene atto”.
“Perché, avevi dubbi?”, intervenne Garrus affiancandoli, rivolgendosi al pilota.
“Un momento… non dirmi che hai persino corrotto EDI per convincermi a sostare!”, Shepard strabuzzò gli occhi, protendendosi verso Joker.
“Anche se fosse, ormai è troppo tardi… e poi la Normandy aveva davvero bisogno di una lucidata”.
“Dannazione Joker, se non fosse che hai le ossa di cristallo adesso te la staresti vedendo con me alla vecchia maniera”.
Kasumi si materializzò improvvisamente davanti a loro, mentre sorseggiava un bicchiere di spumante con aria divertita. “Goditi la festa, Comandante… il compleanno è una cosa che si fa solo una volta l’anno”, sorrise porgendole un pacco rettangolare.
“E questo che sarebbe?”, domando Shepard, ancora più sconvolta.
“Qualcosa che vale intorno ai dieci crediti al millilitro”, sorrise lei prima di scomparire nuovamente.
Shepard sospirò scuotendo il capo e si convinse a prendere anche lei un bicchiere di spumante, appoggiando il regalo di Kasumi sul tavolo. Tali e Kelly la raggiunsero e fecero un brindisi, avvicinate poi da Miranda che sembrava aver momentaneamente perso la sua solita aria di superiorità. Un’ora dopo la situazione era solo peggiorata, almeno otto bottiglie di spumante giacevano vuote in giro per la sala e altrettante erano in procinto di essere consumate. Alcuni giocavano a poker, altri chiacchieravano in un angolo. Persino Jack aveva preso parte ai festeggiamenti, “saranno secoli che non mi faccio una birra”, si era giustificata, attaccandosi alla prima bottiglia disponibile. Mordin dispensava consigli di origine sessuale a chiunque e Tali era praticamente fuggita in seguito a chissà quale tipo di avvertimento. Samara veniva importunata da uno Zaeed piuttosto ubriaco che tentava di raccontarle le imprese eroiche dei suoi giorni migliori e Jacob sorrideva imbarazzato di fronte alle misteriose proposte di Kasumi.
Ad un tratto Shepard si trovò da sola, col regalo della ladra giapponese in mano. Era una bellissima bottiglia blu, decorata finemente, che riportava una scritta in un dialetto per lei incomprensibile. La aprì e inspirò; doveva essere qualcosa di alcolico, ma squisito stando all’odore. Si fermò ad osservare il resto dell’equipaggio e si accorse improvvisamente cos’era che fino a quel momento si era dannata a cercare, senza trovarlo. Incoraggiata dai cinque bicchieri di spumante che aveva bevuto, afferrò un altro bicchiere e si dileguò.
 
 

“It's been minutes, it's been days
It's been all I will remember
I have been lost in your hair
And the cold side of the pillow”
 
(Crack the Shutters – Snow Patrol)

 
 
“Shepard”, Thane si alzò dalla sua branda e le venne incontro, con un’aria stranita.
“Thane”, rispose lei avanzando mentre sorrideva appena, “perché non sei di là con tutti gli altri?”, domandò. Si avvicinarono entrambi alla scrivania e lei poggiò la bottiglia e i due bicchieri sulla superficie metallica.
“Avrei voluto”, sospirò sommessamente, “ma… sono abituato a stare contro una parete, a sorvegliare gli accessi. Sono stato solo per dieci anni e stare con tutta quella gente…”, disse prendendo posto sulla sedia mentre Shepard faceva lo stesso su quella di fronte, “mi serve tempo, ecco…”
Shepard versò il contenuto della bottiglia nei bicchieri e ne spinse uno verso di lui. Thane, anticipando il suo gesto di una frazione di secondo, allungò la mano e si trovò a sfiorare con la punta delle dita quelle di lei. Si guardarono per un breve istante negli occhi, quasi come se una scossa elettrica si fosse irradiata dal quel contatto, poi entrambi si concentrarono sul contenuto del bicchiere, mandandolo giù tutto d’un fiato. Si guardarono di nuovo e risero insieme, tossendo. “Forse avremmo dovuto semplicemente sorseggiarlo”, commentò Shepard battendosi il petto. “Dio, se è forte questa roba…”
Thane sorrise, ricomponendosi, e appoggiò i gomiti sul tavolo. “Allora… cosa si festeggia?”, domandò.
“Oh… niente d’importante. Joker si è ricordato del mio compleanno…”, rispose lei gesticolando imbarazzata. “Credo volessero solo un attimo di pausa, ultimamente abbiamo lavorato sodo”.
“Se avessi saputo sarei venuto di sicuro. Mi dispiace”, si giustificò lui, mortificato.
“No, figurati… è solo che se ti tieni in disparte tutto l’equipaggio perde qualcosa. Non sono così male, quelli là fuori. Credo ti troveresti bene a chiacchierare con Samara”.
“Mi trovo bene a chiacchierare anche con te, Shepard”.
Merda…
Shepard si grattò il capo abbassando lo sguardo, mentre non riusciva a frenare il sorriso che nasceva sulle sue labbra. “Non mi hai più raccontato di Kolyat. Come sta?”, chiese, cambiando discorso.
“Ci sentiamo regolarmente da quel giorno. Brevi messaggi, il più delle volte mi risponde a monosillabi, ma Bailey gli ha trovato un’occupazione presso il C-Sec e sembra entusiasta. Lo devo a te, Shepard. Se non fosse stato per il tuo aiuto, adesso si troverebbe in una cella”.
Lei sorrise e riempì un’altra volta i bicchieri, lentamente. Si rese conto che le mani le tremavano leggermente e la vista era sfocata, poi realizzò che non toccava un vero alcolico da anni e tutti quei bicchieri di spumante stavano iniziando a fare effetto. Thane prese il bicchiere e lo sollevò, facendolo scontrare lievemente con quello di lei. “Buon compleanno”, disse, mentre i bicchieri tintinnavano.
“Grazie”, rispose lei appoggiando le labbra al vetro.
“Quanti anni hai?”
Shepard sorrise. Non gli sembrava il tipo da fare domande inopportune, ma non essendo un Umano, probabilmente quella era per lui una domanda come le altre. Lei si portò una mano al collo ed estrasse la sua dogtag, poi si sporse verso di lui, mostrandogliela. Thane si avvicinò, curioso. Non guardò subito la medaglietta, invece guardò i suoi occhi, e lei fece lo stesso. Poi, imbarazzata, sollevò maggiormente la dogtag e lui fu costretto ad prenderla fra le sue mani abbassando lo sguardo mentre le loro dita si sfioravano nuovamente. “Per avere sulle spalle il destino di un’intera specie, sei giovane”, disse.
Lei fece spallucce sorridendo e ripose nuovamente la medaglietta sotto la maglia. “Lo prendo come un complimento”.
“Lo è”.
Maledizione.
Shepard indugiò sul bicchiere più a lungo possibile, mentre i suoi occhi si stringevano in un sorriso. Quel contatto. Shepard l’aveva sentito, freddo, sotto la sua pelle e avrebbe voluto rifarlo. Sentiva un nodo alla gola ogni volta che incontrava i suoi occhi, scorgendo quel bagliore nelle sue pupille di ossidiana. Deglutì, tentando di trovare qualcos’altro da dire, ma lui la precedette.
“Voi umani… sembrate così fragili.”
Lei si sentì come se avesse appena letto nella sua mente. “Cosa?”
“La vostra pelle…”
 

La mia presa è salda, lui non oppone resistenza, pelle morbida sotto le mie dita, devo agire in fretta, prima che soffra. Un movimento preciso dei polsi e il suo collo si spezza sotto le mie mani. Mi allontano, il cadavere si accascia sul pavimento.

 

Shepard restò a fissarlo con le labbra dischiuse e gli occhi spalancati, mentre un brivido correva lungo la sua spina dorsale.
“Scusami. Non so davvero come…”, provò a dire Thane, visibilmente a disagio.
“No, non preoccuparti. Memoria perfetta”, disse lei, tentando di rassicurarlo con un sorriso. “Come fai a conviverci? Non è doloroso?”, domandò poi, tentando di scrollarsi quella spiacevole sensazione che aveva provato nel sentirlo rivivere quel ricordo.
“A volte può esserlo, ma riesco sempre a ritrovare il contatto con la realtà. Posso ricordare qualunque cosa con estrema precisione… l’odore di erba appena tagliata, il calore di una mano stretta alla mia, il sapore della lingua di una donna nella mia bocca… Non preferiresti perderti in certi ricordi che passare certe notti a fissare muri di plastica e metallo?”
Shepard arrossì violentemente. A volte avrebbe davvero voluto che evitasse di essere così sincero.
“Thane…”, disse, massaggiandosi una tempia, “non ti imbarazza parlare di queste cose?”, domandò d’istinto.
“Scusami, tu sei la prima persona con cui parlo davvero dopo anni e io ultimamente ho passato tanto tempo a riflettere sulla mia vita…”
Lei si strinse nelle spalle, versando ancora di quella bevanda sconosciuta nei bicchieri. “Non scusarti. Piuttosto, noi Umani dovremmo evitare di sentirci a disagio di fronte a… beh, insomma…”
“Siamo fatti così, siamo diversi, perché cambiare la nostra natura?”, sorrise lui, mandando giù un altro sorso.
Mezz’ora dopo, quella bottiglia preziosa come il più raro dei minerali, giaceva vuota sulla scrivania, mentre Shepard e Thane ridevano di gusto come se non avessero mai fatto altro nella vita. Lei si sentiva la testa e i piedi leggeri, i movimenti erano sciolti e le parole fluivano libere, lui aveva dimenticato per un attimo i suoi problemi e si rendeva conto che non rideva così da una vita intera. La guardava, ascoltava la sua risata limpida, dolce, cristallina e aveva voglia di stringerla a sé e continuare a ridere con lei, per chissà quale assurdo motivo.

“E poi Grunt ha urlato IO SONO KROGAAAAAN!, scagliando quel bestione sopra la testa di Tali”, raccontò lei, piegandosi in due al pensiero di quel ricordo. “Dovevi vedere la faccia di Garrus quando gli è cascato praticamente addosso… Comandante! Io quello non ce lo voglio in squadra!, mi ha detto muovendo quelle sue mandibole tutto arrabbiato… E io sono scoppiata a ridergli in faccia, e così tutta la squadra dopo di me”. Shepard aveva le lacrime agli occhi e Thane rideva, deliziato da quel racconto. “Avrei voluto esserci”, disse sinceramente. Lei, d’istinto, allungò un braccio e lo poggiò sul suo. “Vedrai che ci omaggerà ancora con le sue gesta eroiche”, disse, prima di avvertire dei rumori sospetti dietro al portellone. S’interruppe immediatamente, schiarendosi la voce e si alzò per andare a controllare, lottando contro un senso dell’equilibrio fortemente alterato. Quando aprì si ritrovò Joker e Garrus, visibilmente brilli, che a stento si reggevano in piedi. Alla vista del Comandante, subito assunsero una postura composta e fecero il saluto militare, scoppiando a ridere subito dopo. “Imbecilli”, rise Shepard di rimando e si richiuse il portellone alle spalle, decisa ad ignorarli. Era esausta, aveva riso e parlato troppo, e tutto le sembrava girare intorno. Guardò Thane e provò il desiderio incontrollabile di avvicinarsi a lui e lasciarsi cadere nelle sue braccia. Non capiva cosa le stesse succedendo, ma non se ne preoccupava. Era tutto perfetto, in quel momento. Nella sua mente, neppure i Collettori erano una minaccia. Si avvicinò al pannello dei controlli e spense le luci, lasciando che l’unica fonte luminosa fossero le lucine d’emergenza che percorrevano tutta la sala di contenimento del Drive Core, poi si allungò sulla branda di Thane. Inspirò a fondo e per la prima volta sentì il suo odore, impresso nelle lenzuola. Fresco, leggermente fruttato, sapeva d’estate e d’inverno insieme. Sorrise nel buio, la mente vuota e pacifica. Thane si alzò dalla sedia e si sedette sulla branda, sollevando le sue gambe. Neanche lui fece domande, nessun commento. Le mani scivolarono sui suoi stivali, aprendone le fibbie ad una ad una, con deliberata lentezza. C’era silenzio, nessuno di loro osava parlare. Shepard lo lasciò fare, mentre una parte di sé continuava a chiedersi fin dove si sarebbe spinto. Lui le sfilò delicatamente gli stivali e li poggiò a terra senza fare il minimo rumore, poi si sdraiò dietro di lei con la leggerezza d’un felino. A lei mancò il respiro per un attimo, il suo pugno si strinse attorno a un lembo del lenzuolo, i suoi occhi verdi spalancati nel buio, i sensi intenti a captare ogni movimento dietro di lei. Lui le slegò il capelli con delicatezza e affondò il viso in quella matassa color rame, mentre una mano scivolava lungo i suoi fianchi e risaliva a sfiorarle le braccia.
L’ultima cosa che lei avrebbe ricordato, era il suo respiro sul collo e lui che la teneva stretta.

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Capitolo 7
*** Denial ***


 

“Happiness hit her like a bullet in the back
 Struck from a great height
 By someone who should have known better than that”

 (Florence + The Machine, "Dog Days Are Over")

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Si era svegliato nel cuore della notte con un groviglio di minuscoli fili insidiosi a solleticargli viso e aveva fatto per spazzarli via d’istinto, con gli occhi ancora chiusi. Poi, aprendoli, l’aveva vista dormire beatamente nella penombra. Aveva sorriso, notando che nel sonno si era girata verso di lui e si era raggomitolata contro il suo torace, le mani sovrapposte sul cuscino sotto il suo viso. Era bella, in un modo che non avrebbe mai pensato. Persino i suoi strani capelli avevano qualcosa di affascinante ai suoi occhi. La guardò dormire per un’eternità, desiderando di scostarle quella ciocca ramata che ricadeva sul suo volto e che ogni tanto le faceva arricciare il naso. Era la prima volta che poteva guardarla liberamente, senza che lei se ne accorgesse e si voltasse altrove imbarazzata. Studiò a lungo il suo viso, memorizzandone ogni singolo particolare… le lunghe ciglia, le lentiggini appena visibili nella luce azzurrina, le sue labbra piene leggermente dischiuse. Provò lo strano desiderio di sfiorarle, quelle labbra, con le sue, ma era talmente sbagliato… Si sforzò di guardare altrove, senza successo; i suoi occhi indugiarono sulle linee morbide del suo corpo, sulle sue mani piccole, ma forti, ricoperte di vecchie ferite, su quel lembo di pelle scoperto tra la maglia e i pantaloni, sui suoi piedi che si muovevano appena ad indicare che stava sognando.
Ma… era davvero così sbagliato?
Nessun rumore proveniva da fuori, gli altri membri dell’equipaggio avevano finalmente deciso d’interrompere i festeggiamenti per andare a dormire, e lui sarebbe rimasto volentieri sdraiato in quella piccola porzione di letto, se solo non fosse appena diventato così difficile. Faceva male vederla lì e non poterla toccare, faceva male non capire perché desiderasse così tanto allungare una mano per accarezzarle il viso, faceva male adesso che l’effetto dell’alcol era svanito insieme alla sua spensieratezza. Sì alzò lentamente, impegnandosi con ogni muscolo del suo corpo a non farla svegliare e lasciò il Supporto Vitale. Non era nel suo stile, ma non riusciva a non avere paura di un eventuale risveglio in cui lei l’avrebbe guardato inorridita e avrebbe iniziato a urlare di non ricordare nulla della sera prima, sostenendo di aver solo commesso un tremendo errore.
Si guardò intorno e vide il caos. La sala mensa era piena di bottiglie vuote ad ogni angolo, bicchieri di plastica accartocciati e cocci di vetri sul pavimento, una torta che sembrava essere stata divorata e risputata da un Varren e Grunt che ronfava sul divano, facendo da cuscino a una placida dottoressa Chakwas. Se solo non fosse stato così tormentato per Shepard, avrebbe sorriso di sicuro alla vista di quella scena a metà fra il tenero e l’inquietante.
Scese le scale di servizio e giunse nell’hangar delle navette, trovando la quiete e l’ordine che cercava in un piccolo angolo ritagliato appositamente per gli esercizi fisici. Si disfece della maglia e iniziò a stirarsi i muscoli lentamente, preparando il suo corpo all’allenamento. Sentì uno strano fastidio alla mano destra, qualcosa di anomalo. La osservò da vicino e notò che un capello era rimasto intrappolato fra le sue squame. Sorrise e lo guardò a lungo, come se si aspettasse che da un momento all’altro quel minuscolo aggregato di cellule cheratinose potesse parlare e rivelargli qualcosa della sua proprietaria originale. Semplicemente assurdo. Lo lasciò cadere sul pavimento e si avventò su un sacco da boxe, finchè non sentì i motori della Normandy riaccendersi e capì che era già l’indomani.
 
 
 
Una vibrazione diffusa, poi un rumore deciso e l’energia che inizia a fluire dal Drive Core in una serie di scie bluastre attorno al nucleo. Shepard avrebbe riconosciuto quel suono tra mille. Si svegliò di soprassalto, mettendosi a sedere su un letto che non era il suo, gli occhi ancora semichiusi e una mano a reggersi fronte, una smorfia di dolore sulle sue labbra per via del pesante cerchio alla testa. Quando finalmente ebbe il coraggio di aprire completamente le palpebre, provò un forte senso di smarrimento e la sua mente, già provata, fu invasa dai flash della serata precedente. Si concesse un attimo per riprendersi, restando con le gambe a penzoloni sul lettino mentre faceva mente locale. Una bottiglia blu finemente decorata sulla scrivania, due bicchieri, i suoi stivali allineati per terra, a fianco del lettino. Si portò entrambi le mani sul viso e diede un lungo sospiro, scuotendo la testa.
Che cosa diavolo ho fatto…
Poi, l’orrore. Iniziò a grattarsi convulsamente le braccia, mettendo a fuoco la vista nella penombra. Sollevò maggiormente le maniche della maglietta e vide un rossore esteso sugli avambracci, bollicine in rilievo sull’epidermide e una sensazione di prurito che le ricordava le punture di un insetto, ma moltiplicato per dieci. Che fosse una reazione allergica a quella bevanda misteriosa? Ma ciò non avrebbe spiegato l’improvvisa apparizione del rash solo sulle braccia. Shepard deglutì e decise che prima di fare ulteriori speculazioni sarebbe andata da Mordin. Recuperò gli stivali e li indossò velocemente, poi cercò l’elastico e legò i capelli in una coda, lisciandosi la maglietta.
Restò per almeno trenta secondi a fissare il portellone del Supporto Vitale, prima di decidersi ad uscirne velocemente, sperando con tutta se stessa di non imbattersi in nessuno. Si fiondò all’interno dell’ascensore senza neppure dare un’occhiata alla mensa e salì fino al ponte di comando.
 
Mordin sollevò appena la testa quando la vide entrare nel laboratorio con un’aria decisamente stravolta. Prima che potesse anche solo salutarla, lei gli si era parata di fronte, mostrandogli le braccia scoperte.
“Umh”, Mordin attivò il factotum, passandolo brevemente a distanza.
“E’ per via di quello che ho bevuto?”, chiese Shepard, impaziente. Mordin le rifilò uno sguardo scettico. “Ingerimento di sostanza nociva non si manifesta in questo modo. Tuttavia, scanner conferma che tu reduce da sbronza. Alcol tossico per organismo, Comandante”.
“Allora dimmi, che significa?”, tagliò corto lei. Non serviva uno scienziato Salarian per capire che l’alcol non fosse propriamente salutare.
“Trattasi di eruzione cutanea. Infezione? No, non può essere, scanner rileva produzione di globuli bianchi nella norma. Malattia esantematica? No, fuori discussione. Dev’essere dermatite da contatto.”
Shepard rimase a fissarlo, mentre lui girava su se stesso con una mano sotto il mento e le palpebre strette intorno agli occhi. “Shepard, toccato un Drell per caso?”
Colpita e affondata.
“No, cioè… non…”
“Unico Drell su questa nave Thane Krios. Thane Krios non presente ieri sera. Tu sparita all’improvviso. Effetti post-sbornia. Tu e Thane Krios sbronzati insieme. Avuto anche allucinazioni?”
Shepard avrebbe riso se l’imbarazzo non l’avesse fatta pietrificare come una statua. “Allucinazioni? Mordin, di che diavolo stai parlando?”, trovò poi il coraggio di domandare.
Lui iniziò a camminare in tondo trafficando col factotum. “Specie reagiscono in modo diverso allo stress. Attività sessuale normale come valvola di sfogo, tuttavia raccomando cautela con Thane. Contatto orale può causare allucinazioni. Pelle di Drell ricoperta da film idrolipidico velenoso per Umani, simile a veleno di rospo terrestre. Ecco, leggi pagina 340, mio trattato su Xenobiologia, vinto numerosi premi, sezione su Drell. Informazioni interessanti”, disse trasferendo un link al factotum di Shepard.
Lei ascoltò quel discorso delirante con la mascella che toccava ormai terra e la gola secca, incapace di rispondere.
“Consiglio utilizzo di oli o unguenti per ridurre disagio prossima volta. EDI può fornire materiale video dimostrativo per rapp…”
“Mordin, frena!”, Shepard quasi urlò, resistendo all’impulso di tapparsi le orecchie e cantare sopra la voce del Salarian come avrebbe fatto un bambino. “Non è come pensi. Non c’è stato nessun contatto orale e nessun… diamine… Ma come ti è venuto in mente?”
“Abituato a trarre conclusioni, utilizzo di logica ed esperienza”.
“Senti, questa cosa deve restare tra noi, intesi?”, disse, agitando una mano.
“Certamente, Comandante”, sorrise lui, per niente infastidito, “Prendi, usa questo per dermatite”, concluse porgendole un barattolo colmo di una sostanza oleosa dall’odore gradevole. Shepard lo afferrò e corse nella sua cabina, mentre il Salarian ancora mormorava “prossima volta consiglio meno alcol e buona musica”.
 
Non avrebbe potuto pensare ad un risveglio peggiore, quella mattina. Seduta sul bordo del suo letto, si ostinava a fissare in cagnesco quel barattolo e poi le sue braccia, tentando di resistere all’impulso di grattarsi come se potesse far svanire il prurito solo con la forza di volontà. Sarebbe stata paradossalmente più tranquilla se solo avesse dimenticato tutto della notte precedente, e invece ricordava ogni minimo dettaglio con assoluta chiarezza, tanto che se ripensava alle sue braccia che si stringevano intorno alle sue, poteva sentire il suo stomaco fare una capriola all’indietro. Si lasciò cadere sul materasso e sospirò profondamente, meravigliandosi di quel sorriso che, impertinente, si stava formando sulle sue labbra contro la sua forza di volontà. Quand’è che aveva iniziato a sentirsi così, com’era successo? Prima di farsi sopraffare ulteriormente dai pensieri decise di fare una doccia, almeno avrebbe smesso di odorare di spumante.
 
La Normandy, intanto, era in rotta verso il sistema di Xe Chan, dove erano state segnalate un gran numero di risorse utili per la missione. Dopo il lavoro intenso delle scorse settimane, Shepard aveva deciso di dedicarsi ad attività meno faticose per la squadra, adesso che Omega 4 sembrava avvicinarsi sempre di più. Thane era ritornato al ponte equipaggio, fermandosi in sala mensa per preparare un caffè. Era quasi certo che non avrebbe ritrovato Shepard al Supporto Vitale, ma in caso contrario non avrebbe voluto presentarsi a mani vuote. Quando rientrò in cabina si sentì sollevato di trovata vuota, ma dispiaciuto allo stesso tempo. Si chiese dove fosse andata, se quando aveva riaperto gli occhi l’avesse cercato nel buio oppure era stata felice di non trovare nessuno accanto a sè. Fece passare un’altra mezz’ora in questo modo, facendo nient’altro che crogiolarsi nei dubbi, poi si disse che se non voleva rischiare di complicare una situazione già di per sé delicata, era arrivato il momento di affrontare le cose faccia a faccia, almeno per accertarsi che lei stesse bene e non si sentisse a disagio dopo quella serata. Attivò il factotum e le inviò un messaggio per chiederle di essere ricevuto. Scomodare EDI per questo gli sembrava troppo eccessivo.
 
Shepard si stava rivestendo quando il suo factotum emise il tipico bip di un messaggio in entrata. Lo attivò con una mano, mentre con l’altra continuò a grattarsi convulsamente attraverso la manica della felpa che aveva indossato, larga abbastanza da far respirare la pelle arrossata delle braccia. L’e-mail era di Thane e chiedeva di vederla. Deglutì, senza ben sapere cosa rispondere e senza chiedersi il motivo di quel colloquio. Era piuttosto ovvio che volesse parlare della sera prima. Probabilmente si era reso conto dello sbaglio che aveva commesso e voleva accertarsi che le cose cadessero nel dimenticatoio per entrambi, in modo da poter continuare la missione in pace. E a lei andava bene così, non riusciva a pensare ad un altro modo per risolvere le cose. Gli scrisse che lo aspettava nella sua cabina e poi iniziò a riordinare tutto in preda alla frenesia, allineando meticolosamente persino i modellini delle navi mentre tentava di resistere al prurito.
 
“Sorprendente. Non è già il secondo caffè che beve stamattina?”, domandò sorridendo la dottoressa Chakwas, avvicinandosi al bancone della cucina dove Thane stava versando dell’altro caffè in una tazza.
“Mi ha beccato, dottoressa. Ho scoperto di avere un debole per questa bevanda terrestre”, mentì spudoratamente lui, che non l’aveva mai neppure assaggiato. Lei lo guardò dall’alto in basso con una malcelata espressione compiaciuta dipinta sul volto. Thane sapeva che da quella piccola finestra che dava sulla mensa, la Chakwas riusciva sempre a monitorare tutto. “Piuttosto lei, ha dormito bene dopo i festeggiamenti di ieri sera?”, domandò lui, sornione. La Chakwas arrossì e farfugliò di aver dormito a meraviglia, prima di tornare in infermeria a passo spedito.
Thane sorrise compiaciuto e si avviò verso l’ascensore, cercando di trovare le parole più adatte per ciò che avrebbe voluto esprimere a Shepard, benchè non sapesse neppure cos’è che davvero aveva voglia di dirle. Arrivato davanti al portellone della sua cabina, fece un respiro profondo e si ripromise di comportarsi in modo naturale… avrebbe deciso sul momento.
Lei lo accolse con un timido sorriso. Non si aspettava di trovare una cabina così spaziosa, c’era persino un gigantesco acquario da parete. Nessun pesce, notò, mentre le porgeva il caffè.
“Grazie”, disse lei, accettando con piacere quella gentilezza. Gli fece cenno di accomodarsi sul divano di fronte al letto e prese posto accanto a lui. Appoggiò le labbra al bordo della tazza e desiderò di sprofondarci con tutta la faccia, mentre il caffè, zuccherato come piaceva a lei, dava un nuovo sapore a quella giornata. “Come sapevi che lo prendo così zuccherato?”, domandò sorpresa.
“La sera che abbiamo fermato Kolyat, in Osservatorio hai detto che metti due cucchiaini di zucchero a qualsiasi bevanda, anche nel the”. Lei sorrise, ecco un caso in cui la memoria perfetta si rivelava davvero utile, e diede un altro sorso. “Non ti sfugge niente, eh?”
Lui fece per rispondere, ma poi si bloccò, “Shepard, cos’hai alle braccia?”, chiese improvvisamente, cogliendola di sorpresa. Le maniche della felpa avevano lasciato scoperti i suoi avambracci. Non c’era alcun modo di nascondergli la verità, a quel punto. Poi i suoi occhi si spostarono sul barattolo con l’unguento che le aveva dato Mordin. Lei non ci aveva fatto caso, ma l’etichetta presentava una scritta in alfabeto Drell.
“Questa è opera tua”, disse, cercando di sdrammatizzare prima che lui trovasse la conferma in quel piccolo contenitore. I suoi occhi neri, già grandi, si spalancarono increduli, per poi lasciare spazio ad un’espressione corrucciata. “Non avevo idea che… Non avevo mai…”
“Non preoccuparti, non è colpa tua. Nessuno di noi sapeva”, si affrettò a dire lei.
“Quello te l’ha dato il professor Solus?”
“Si”, sorrise lei, “è stato… molto premuroso, a modo suo. Ha anche detto… no, lascia stare”. Shepard si fiondò di nuovo nel suo caffè, desiderando che non finisse mai, invece era rimasto solo un po’ di zucchero sul fondo. Poggiò la tazza sul tavolinetto davanti e iniziò a grattarsi istintivamente, l’autocontrollo ormai al minimo. Lui le si avvicinò e afferrò il barattolo. “Posso?”, le domandò prima di prendere in mano un po’ di quella sostanza oleosa. Lei annuì e gli porse le braccia, avvertendo un brivido ben distinto quando le sue mani sfiorarono la sua pelle. Non osava sollevare lo sguardo per incontrare i suoi occhi, si sentiva pietrificata da quel contatto deciso e delicato allo stesso tempo, dalle sue mani che sfioravano le sue braccia quasi fossero la cosa più fragile del mondo. Desiderò che smettesse subito e che non finisse mai, scontrandosi a forza con la consapevolezza che non si era mai sentita talmente al sicuro come fra le braccia di quell’assassino la notte scorsa.
Dio, perché dev’essere così difficile?
“Sono stata bene ieri sera”, farfugliò, mangiandosi quasi le parole. Il perché, di quella confessione, non lo sapeva neanche lei. Lui sorrise e si rasserenò. “Anche io, Shepard”, rispose interrompendo il contatto. “Va meglio, adesso?”, domandò dolcemente.
“Direi di sì”, rispose lei sorridendo.
Calò il silenzio fra loro due, un silenzio permeato da mille cose che nessuno dei due avrebbe mai detto. Thane pregò di non incappare in una delle sue memorie, soprattutto memorie della notte scorsa. Shepard pregò di non incappare nel suo sguardo e pensò freneticamente a qualcosa da dire per interrompere quel momento imbarazzante. “Oggi a pranzo ci sarà bistecca di manzo”, esclamò stupidamente.
“Ah”, mormorò lui, accennando un sorriso. “Come quella di tre giorni fa?”
“Esatto. Come trovi la cucina di Gardner?”
“Esotica… Ma mi piace”.
“Esotica è un termine appropriato”, rise lei. Non avrebbe potuto trovare un argomento più stupido. Forse questo faceva addirittura concorrenza all’argomento tempo atmosferico. “Ti unisci a noi, oggi?”, domandò.
“Mi sembra il minimo visto che non ho preso parte ai festeggiamenti ieri sera”.
“Non devi sentirti costretto…”
“Affatto. Mi farebbe piacere”.
“Ti avviso però, la situazione potrebbe degenerare… specialmente adesso che c’è Jack le cose tendono a diventare più movimentate del solito”, sorrise lei.
“Me la caverò”, rispose lui.
Un altro lungo silenzio e il desiderio di scolarsi un’altra bottiglia di quel liquore per ritornare nella condizione in cui non c’era nulla che potesse metterla in imbarazzo, prima che Shepard facesse un sospiro, ordinandosi di prendere in mano le redini della situazione. “Non ti ho ancora chiesto il motivo di questo colloquio”, disse determinata, “c’è qualcosa che volevi dirmi? Qualche problema?”
Thane scosse il capo. “No, volevo solo assicurarmi che stessi bene”, rispose gentilmente, “e scusarmi per essere andato via all’improvviso. Non riuscivo a dormire e avevo bisogno di muovermi…”
Shepard fece un gesto della mano ad indicare che era tutto apposto e sorrise brevemente. “Nessun problema. E grazie per il caffè”.
“Era il minimo”.
“Allora…”, i suoi limpidi occhi verdi indugiarono per un breve istante sui suoi, prima che una forza estranea dentro di lei la costrinse ad alzarsi.
“Allora…”, ripeté lui, alzandosi a ruota con un ombra d’imbarazzo sul suo volto. “Ti lascio riposare, Shepard”, si costrinse a dire, avviandosi verso il portellone. Lei lo accompagnò stringendosi nelle spalle come a voler abbracciare se stessa e sorrise appena.
“Se hai bisogno di me sai dove trovarmi”, concluse lui prima di andare via.
 
 
 
Dieci secondi di attesa e Shepard si lanciò sul letto a faccia in giù, scalciando come una bambina capricciosa, quasi a volersi disfare dell’imbarazzo che l’aveva investita pochi attimi prima. Voleva ridere, voleva prendere in mano un fucile e voleva avventarsi su un sacco da boxe, voleva far esplodere l’acquario con un globo d’energia oscura e voleva raggomitolarsi fra le lenzuola per non emergerne mai più, come se improvvisamente la sua integrità e la sua compostezza fossero svanite nel nulla. La situazione le stava decisamente sfuggendo di mano e ogni volta che la sua mente la spingeva a riflettere, a considerare le opzioni, a scandagliare i pochi ricordi e le emozioni, prontamente un’altra parte di sé ergeva un muro e la bloccava, impedendole di compiere quel breve passo.
Concentrati Shepard. La missione è la tua priorità, tutto il resto non esiste, non ha importanza.
Era vero. Dopo la sua ricostruzione, dopo l’abbandono da parte dell’Alleanza, dopo il voltafaccia di Alenko, non le restava altro che quella dannata missione, l’unica ragione di vita, l’unica cosa che giustificasse il suo essere in vita. Avevano recuperato il suo corpo e l’avevano ricostruito con lo scopo preciso di usarlo per sconfiggere i Collettori e lei aveva intenzione di onorare quell’opportunità fino in fondo. Era questo per cui era nata, d’altronde: proteggere chi ne aveva bisogno… lei che aveva la fortuna di essere una donna intelligente, forte, abile, carismatica, lei che aveva sconfitto Saren e i Geth salvando milioni di vite. Non poteva farsi distrarre dall’ultimo arrivato, soprattutto trattandosi di un Drell e, ancora peggio, di un assassino. Decise di archiviare quella serata, si alzò dal letto, nascose il barattolo sotto alla scrivania e iniziò a lavorare alle solite scartoffie. 

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Capitolo 8
*** Together Alone ***


“I took the stars from my eyes, and then I made a map
 
And knew that somehow I could find my way back
 
Then I heard your heart beating, you were in the darkness too
 
So I stayed in the darkness with you”

 (Florence + The Machine, "Cosmic Love")

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L’ora di pranzo era passata già da un po’ quando Shepard finalmente decise di accantonare la pila di datapad alla quale stava lavorando per raggiungere l’equipaggio in sala mensa. Erano state quattro ore di totale disconnessione dal mondo, dove aveva addirittura fatto alcune ricerche di carattere tecnico su Extranet per capire come i nuovi giunti FBA rendessero il lavoro dell’ingegnere Daniels meno macchinoso, argomenti che di solito preferiva lasciare all’attenzione altrui, ma non quel giorno. Quel giorno avrebbe fatto qualunque cosa pur di distrarsi. L’idea di saltare totalmente il pranzo la allettava parecchio, ma il suo stomaco da biotico, abituato alle 4000 calorie giornaliere, aveva dimostrato tramite vari brontolii di non essere affatto d’accordo, e chiedere a qualcuno di portarle da mangiare avrebbe sollevato parecchie domande, per non parlare del fatto che aveva esplicitamente chiesto a Thane di unirsi al resto dell’equipaggio per quell’occasione. Tirò un lungo sospiro e uscì in fretta dalla cabina, prima che potesse anche solo riconsiderare l’idea di fare marcia indietro. Si aspettava una certa tensione nell’aria, ma non era nulla in confronto a quello che sarebbe successo.
 
A volte le cose più spiacevoli capitano per caso, soprattutto nei momenti in cui si abbassa la guardia e si viene colti alla sprovvista, totalmente impreparati. Shepard pensava ancora a quei giunti quando uscì dall’ascensore e si avviò a passo spedito verso la sala mensa, abbassando la schermata del factotum con una mano, accorgendosi troppo tardi che era appena stata affiancata da Thane e che adesso tutto l’equipaggio li guardava come se avessero appena visto due fantasmi. Realizzò in una frazione di secondo che dovevano aver frainteso totalmente la situazione. “No, non siamo stati insieme e non veniamo dalla stessa direzione”, avrebbe voluto urlare in faccia a Garrus che stava per perdere entrambe le mandibole. Jack rischiò di strozzarsi con l’acqua e a Kasumi fu impossibile nascondere un sorrisino compiaciuto sotto il cappuccio. Miranda e Jacob si affrettarono a guardare altrove, come se avessero appena visto qualcosa di indecente, e Mordin tossì un paio di volte mentre la Chakwas si schiariva la voce, attenta a non incrociare lo sguardo di Grunt. Gli unici a mantenere un certo ritegno furono Zaeed, Samara e Tali, ma quest’ultima, Shepard poteva giurarci, solo perché protetta da un casco schermato. Le sembrò di essere rimasta lì ferma e impalata per troppo tempo quando finalmente decise di affrontare l’imbarazzo e si sedette accanto alla ladra, rischiando oltretutto di cadere in malo modo sulla sedia. Quando anche Thane prese posto accanto a Samara, dall’altra parte del tavolo, sembrò che tutto fosse tornato alla normalità e Shepard si accorse che qualcuno aveva già procurato un vassoio anche per lei.
“Non c’era molta scelta oggi”, bisbigliò Kasumi indicando il piatto. “Spero non ti dispiaccia se ho preso da mangiare anche per te”.
“Cos’è tutta questa roba? Neanche fossi un Krogan…”, si lasciò andare lei, sorridendo.
“Ho pensato che dopo la sbronza, sai…”, rispose Kasumi, abbassando la voce di altri due toni. Shepard arrossì e fece finta di nulla, impugnando le posate prima di avventarsi su una delle tre bistecche che troneggiavano sul piatto. Ben presto il solito brusio fu sostituito dalle chiacchiere snervanti di Mordin, dalla risata sguaiata di Jack e dai versi selvaggi di Grunt, e Shepard poté tirare un sospiro di sollievo. “Mai più”, pensò fra sé e sé, scuotendo lievemente il capo.
 
 
 
A quel punto c’era davvero poco da girarci intorno. Shepard ringraziò mentalmente di non trovarsi su una nave dell’Alleanza soggetta a rigidi protocolli formali e si fermò ad osservare il cielo al di là dell’oblò, preparandosi alla notte. Si girava e rigirava tra le lenzuola scandendo il tempo con sospiri regolari che segnalavano una nuova scarica di pensieri e preoccupazioni, ultimo dei quali riguardava proprio la spiacevole situazione che si era venuta a creare. Era stata troppo ingenua, la sera prima, a sperare che nessuno si sarebbe accorto della sua assenza unita a quella di Thane, soprattutto dopo che Joker e Garrus, beh… No, non osava immaginare quale pensiero avesse potuto attraversare le loro menti. Era sicura che Joker avesse tratto le conclusioni più ovvie, senza neanche farsi troppe domande, e Garrus avesse evitato direttamente di pensarci, ripetendosi che non erano affari suoi. Ma perché a lei importava così tanto? Era il dannato Comandante Shepard e per quanto sapesse di doversi preoccupare di mantenere un atteggiamento decoroso e un modello comportamentale impeccabile, quello che era successo non poteva nuocere a nessuno in alcun modo. Eppure lei provava qualcosa di molto simile al senso di colpa, quasi come se avesse commesso un omicidio a sangue freddo. Kelly probabilmente le avrebbe spiegato che si trattava di meccanismo inconscio di rifiuto. Altre volte si era sentita ripetere dalla psicologa di bordo “Shepard, il mio consiglio è uno solo: devi amarti un po’ di più. Tu fai troppo per gli altri e ti privi di troppe cose per te stessa, finirai per autodistruggerti”. Era vero, doveva riconoscerlo. La sera precedente era stata la prima volta, dopo il progetto Lazarus, in cui si era sentita davvero felice; più che felice, semplicemente normale. Una donna normale che trae piacere da una conversazione spensierata, che riesce a ridere senza farsi trascinare a fondo dalle ansie, una donna che si sente protetta dalle braccia di un uomo. Lei, che non aveva mai chiesto a nessuno di prendersi cura della sua persona, si era sentita di nuovo fragile e invincibile per la prima volta dopo tanto, troppo tempo. Le fu inevitabile ripensare a Kaidan, a quella storia che era nata e si era consumata in breve tempo a bordo della prima Normandy, quando una parte di lei credeva ancora al concetto di eternità, quando esisteva ancora una patina d’illusione ad avvolgere le loro vite e la morte era solo una silenziosa compagna sempre troppo ignorata, tanto da non venire mai presa in considerazione.
I primi periodi dopo il brusco risveglio in quella base di Cerberus erano stati i peggiori. Chissà per quale motivo, aveva immaginato, o forse solo sperato, di trovare i vecchi compagni accanto a sé, Kaidan a stringerle le mano ed ad aiutarla ad alzarsi dal lettino, un viso conosciuto pronto a spiegarle perché i suoi ultimi ricordi la vedessero lottare contro l’assenza di ossigeno nel vuoto cosmico e invece adesso sentisse l’aria affluire all’interno dei polmoni, come dopo una lunga apnea. Col tempo, e soprattutto dopo Horizon, aveva imparato a fare i conti con quella realtà nuova che le era stata imposta, e aveva iniziato a cercare un appiglio altrove, ripetendosi che perdere l’affetto di una persona cara non poteva essere la fine del mondo, non adesso che il suo mondo era ricominciato da zero. Ma quello che aveva provato con Thane era un’incognita inspiegabile.
Perché lui? Perché adesso? E’ solo una mia debolezza?
“EDI, mettimi in contatto con Garrus”, disse di botto, quasi senza distinguere la propria voce fisica da quella che aleggiava nella sua mente. Dopo pochi istanti il Turian rispose con una punta di scocciatura nel tono. “Shepard, che succede? Sono le tre di notte…”
“Vuoi che non lo sappia?”, fece lei, “Sapevo di trovarti sveglio”.
“Mi conosci troppo bene… e questo è un punto a mio sfavore”, si lamentò lui.
“Non fare il prezioso con me. Se ogni tanto non ti rompessi le scatole inizieresti a parlare col Thanix”, sorrise lei, “ammesso che tu non lo faccia già”.
Garrus sospirò e decise di stare al gioco. “Mi arrendo. Volevi dirmi qualcosa o semplicemente fare quattro chiacchiere con un altro insonne?”
Shepard realizzò che non aveva minimamente idea di cosa volesse davvero da lui, pur essendo consapevole di ciò che inconsciamente sperasse di ottenere. Comprensione, forse… ma davvero aveva creduto di ottenerla da Garrus? Un Turian, di sesso maschile oltretutto, e impacciato com’era, poi.
Al diavolo…
“Volevo parlarti di…”, si bloccò improvvisamente, ricacciando indietro un flusso di parole che non credeva di stare per pronunciare davvero. “…di quei giunti FBA”, concluse, dandosi dell’imbecille. Seguì una lunga pausa che contribuì solo ad accrescere il suo disagio.
“Shepard, sputa il rospo. Lo so dove vuoi andare a parare… Mi scuso in anticipo, ma eravamo tutti troppo su di giri ieri e…”
“Di che stai parlando?”
“Lo so che vuoi le mie scuse formali, te le invierò in allegato con tanto di firma digitale se è questo quello che desideri”.
“Scuse? Ma per cosa? E poi… mi fai davvero così subdola?”, domandò lei alterata. Aveva appena capito di aver fatto un gigantesco buco nell’acqua.
“Ieri sera, io e Joker”, rispose lui scocciato e rassegnato allo stesso tempo. “Neanche ricordo bene…”
“Vedo che hai una bella opinione di me. Ti ho chiamato solo per fare due chiacchiere, non per estorcerti una confessione”, replicò lei, mantenendo un tono di voce leggero per evitare di sembrare più offesa di quanto non fosse. Garrus cadde ancora una volta nel silenzio e Shepard se lo immaginò a torcersi le mani nel più completo imbarazzo. “No, hai ragione”, disse, “sono partito in quarta come al solito. Ma sai come sono fatto… questi discorsi non fanno per me. Tali però… ecco, parla con lei. Si lamenta sempre di non passare mai del tempo col suo Comandante e poi le farebbe bene distrarsi, dopo la faccenda dell’Alarei…”
Shepard non riuscì a trattenere una piccola risata. Quel Turian sapeva sempre come uscire di scena con stile ed in effetti non aveva tutti i torti riguardo a Tali. Si era assicurata che stesse bene,  avevano parlato, ma poi una missione aveva seguito l’altra e la stanchezza aveva prevalso su tutto. “Ricevuto, Vakarian”, sospirò mestamente. “Torno a dormire, e ti consiglio di fare lo stesso, domani potremmo dover tornare in azione”.
“Agli ordini”, esclamò lui, risollevato. “E… per quanto banale possa suonare, Shepard… io, beh, sono con te”. Shepard sorrise e, per evitare un’altra ondata d’imbarazzo, chiuse la chiamata e dopo poco riuscì miracolosamente ad addormentarsi.
 
 
 
Thane non era mai stato una persona invidiosa. Sin da piccolo, quando i suoi genitori avevano deciso di onorare il Contratto e affidarlo agli Hanar, aveva sviluppato la forte convinzione che ognuno ha ciò che merita e desiderare di più sarebbe stato l’equivalente di oltraggiare gli dei. Le sue credenze religiose, che affondavano le radici nella cultura millenaria del suo popolo, in minima parte gli erano state tramandate dalla famiglia, ma il ruolo più importante nella sua crescita spirituale spettava al suo Maestro. Era un Drell come lui, poco più che quarantenne quando l’aveva conosciuto per la prima volta, e parecchi anni dopo la fine dell’addestramento, era venuto a sapere che aveva contratto la sindrome di Kepral. Qualche settimana dopo, Thane si era ritrovato faccia a faccia col verdetto del suo esame medico e aveva interpretato quel responso come un segno divino. Si era buttato a capofitto sul lavoro, focalizzandosi solo su ciò che sapeva fare meglio, cercando di onorare così gli insegnamenti di quel Maestro a cui sentiva di dovere tutto. Quando apprese della sua scomparsa, si rese conto di non  voler fare la stessa fine; non voleva andarsene così, nel silenzio, senza una famiglia a salutarlo per l’ultima volta… ma era ormai troppo tardi. Qualche giorno dopo, avrebbe detto addio a un’altra delle persone più care della sua vita e, insieme ad Irikah, anche alla speranza di un futuro migliore.
Non era mai stato una persona invidiosa, ma quella notte non poté fare a meno di chiedersi perché gli riuscisse così difficile uscire dalla propria cabina e andare a farsi un drink fra una chiacchierata ed un’altra, come faceva il resto dell’equipaggio nelle serate tranquille come quella. A loro bastava così poco per staccarsi da un pensiero… un dibattito sulle armi appena uscite sul mercato, un mazzo di carte da Poker, l’ultima bravata di Grunt, un commento sui tatuaggi di Jack…
E lui, invece, non riusciva a pensare ad altro che a Shepard. Erano ormai tre ore che guardava il soffitto metallico della sua cabina, senza poter, né voler trovare conforto in nessun ricordo che non avesse come oggetto quell’Umana dall’aspetto così fiero e deciso, eppure così dannatamente dolce e fragile. Aveva capito subito quanto fosse speciale, rifiutandosi tuttavia di cercare la bellezza in quel viso così diverso dal suo, ricamato da sottili cicatrici. Era stata la bellezza a trovarlo, e lui, ormai disarmato, non aveva avuto la forza di opporre resistenza. Gli si era mostrata in tutta la sua sfolgorante essenza al cospetto di Sidonis, quando aveva scorto nei suoi occhi quella purezza che solo molti anni prima aveva intravisto attraverso il mirino del suo fucile. Aveva capito chi fosse, cosa rappresentasse adesso per lui e neanche quella definizione era abbastanza quando si ritrovava a pensare a lei, a quegli occhi verdi come smeraldi, ai suoi lunghi capelli, alle sue labbra…
Era davvero troppo da sopportare, soprattutto quando non riusciva a trovare una ragione, quel dettaglio nel quadro generale che avrebbe giustificato tutto il resto.
Perché ora, perché adesso che stava morendo, perché proprio quando era riuscito a trovare un equilibrio?
E se anche lei gli avesse permesso di entrare nella sua vita, sarebbe stato un terribile errore. Non avrebbe sopportato di vederla soffrire, non poteva caricarla di un peso così grande, non in una situazione estremamente delicata come quella, dove le loro vite erano appese ad un filo e rispondevano ad un disegno più grande, più grande di ogni sentimento. Se davvero sentiva di provare qualcosa per lei, il regalo più grande che avrebbe potuto farle era risparmiarle la sua presenza. Ne era certo ormai; quel pensiero aveva lentamente preso spazio nella sua mente, fagocitando con prepotenza ogni altro desiderio egoistico. Aveva avuto più di un’occasione nella vita per essere felice e l’aveva sprecata stupidamente, convinto di avere tempo, convinto di avere il controllo. Adesso, l’unica cosa che gli restava a dargli conforto, era sapere di poter fare la differenza nella Galassia e l’aver potuto dare una seconda possibilità a Kolyat. Non meritava altro. Si addormentò cullato da quel pensiero crudele, consapevole che fosse la cosa giusta, mentre seppelliva a forza i suoi sentimenti sotto una coltre pesante fatta di rimpianti ed errori.
 
 
 
Shepard fu svegliata dalla voce di EDI che richiedeva la sua presenza sul ponte di comando. Si vestì in fretta e raggiunse Joker alla sua postazione, senza neppure concedersi il solito caffè mattutino. Erano giunti nei pressi di Zada Ban, un pianeta ricco di Eezo, apparentemente ospitabile, ma la cui atmosfera risultava contaminata da letali gas nocivi.
“Comandante, le scansioni preliminari rilevano tracce appartenenti alla genealogia Vorcha. Ritengo che ci siano buone probabilità che si tratti di mercenari appartenenti al Branco Sanguinario, coinvolti nel traffico illegale di armi. Ho individuato la loro base”, disse EDI, confermando i sospetti di Shepard che a quel punto era chiamata a decidere se lasciar perdere o approfittare della situazione nella speranza di trovare risorse utili e togliere di mezzo un po’ di feccia criminale. Dopo aver vagliato attentamente le opzioni e dato un’occhiata sommaria alle scansioni in suo possesso, decise che avrebbero raggiunto la superficie con una piccola squadra. “Un po’ di movimento non ci farà male”, aveva detto, profondamente convinta di aver bisogno di una missione come quella, adesso. “Vakarian e Krios in sala tattiche fra quindici minuti”, annunciò poi, attraverso il canale di comunicazione principale, prima di tornare in cabina a prepararsi. Se ci aveva visto giusto, avrebbe avuto semplicemente bisogno di due fucili a coprirle le spalle e di un po’ di supporto biotico. Accantonò ogni pensiero fuori luogo e si rese conto che probabilmente quella scelta l’avrebbe aiutata a riacquistare il controllo che aveva tanta paura di perdere. “Bisogna affrontarli i propri demoni, non fuggire come conigli al loro cospetto”, si ripetè mentalmente, ricordando il preciso momento in cui, anni fa, il suo istruttore l’aveva scossa per le spalle spingendola a compiere la sua prima carica biotica in campo.
 

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La navetta atterrò in un posto piuttosto lontano dalla base, per ragioni logistiche e strategiche. La base del Branco Sanguinario era scavata nella roccia, collegata alla terra ferma solo tramite formazioni rocciose troppo strette e fragili per sostenere il peso di una vettura. Shepard non aveva mai visto niente del genere. Quella struttura calcarea si trovava al di sotto di una serie di cascate che discendevano a strapiombo per alcune decine di metri. “Hanno trovato un posto molto suggestivo per darsi alla produzione di armi, questo devo concederglielo”, sorrise lei dietro il casco, lasciando la navetta. Garrus si guardò intorno con circospezione, rabbrividendo a solo pensiero di potersi ritrovare ad annaspare nel torrente che gorgogliava sotto di loro. Attraversarono il lungo ponte naturale che collegava la zona di atterraggio con la parete di fronte, prestando attenzione ad ogni passo finchè non si trovarono a costeggiare le pareti rocciose della struttura. A Shepard quel posto ricordò Sur’Kesh, pieno di vegetazione rigogliosa e un’infinità di rivoli d’acqua che si mescolavano a lunghe e robuste liane, conferendo all’ambiente tutto l’aspetto di un posto ideale dove passare le vacanze, atmosfera letale a parte. Si sentiva il frinire degli insetti in lontananza, si vedevano strane specie di uccelli vorticare nel cielo, stagliandosi contro i raggi di una luminosissima stella. C’erano persino fiori, dai colori vividi, quasi saturi… Era quasi difficile credere che togliersi il casco e respirare quell’aria avrebbe potuto ucciderli, difficile persino resistere alla tentazione di farlo.
Camminarono per una ventina di minuti in silenzio, prestando attenzione ad ogni rumore esterno, poi iniziarono a intravedere le prime casse che presentavano il simbolo di un teschio, segno che dovevano essere giunti a destinazione. L’unica pecca era che la struttura iniziava a presentare alcune problematiche per la loro strategia. Oltre che fare attenzione al fuoco nemico, avrebbero dovuto cercare di non fare una fine rovinosa cadendo dalle sottili passerelle che collegavano una zona all’altra. Shepard, che riconosceva di possedere l’agilità di un elefante, decise che non c’era modo più prudente di evitare quel problema che lanciarsi ripetutamente in cariche biotiche da un nemico all’altro, sperando che Garrus e Thane avrebbero anticipato le sue mosse togliendole di mezzo i nemici più pericolosi. Si appostarono dietro a una grossa stalagmite e diedero un’occhiata alle prime scansioni inviate prontamente da EDI. Elaborarono in fretta una strategia e si prepararono ad attaccare nello stesso momento in cui un paio di mercenari emersero dal fondo dell’ampia grotta e iniziarono a sparare. Si trattava effettivamente di Vorcha, equipaggiati con armi piuttosto rudimentali ma potenti, tra cui pericolosi lanciafiamme e fucili ad arpioni. I primi due vennero fatti fuori dai colpi del Mantis e del Viper, mentre Shepard si preparava a caricare un Vorcha al di là di uno stretto corridoio roccioso. Thane, che aveva trovato copertura dietro una cassa, trattenne il respiro quando la  vide lanciarsi contro il nemico, volando letteralmente da una piattaforma all’altra. “Si farà ammazzare”, pensò Garrus, lanciando un colpo stordente verso un altro Vorcha che si avvicinava pericolosamente a lei. Era un pensiero che gli veniva sempre in mente quando la vedeva combattere, costantemente smentito poi dagli esiti della missione. Doveva imparare a fidarsi di più, ma gli veniva difficile di fronte a uno stile di combattimento così diverso dal suo.  Ben presto la situazione diventò più complicata del previsto, i mercenari iniziarono a spuntare anche dall’alto e Shepard costituiva un bersaglio facile, sotto quel fuoco incrociato. Thane e Garrus si concentrarono ad eliminare i cecchini delle file nemiche, mentre lei si destreggiava tra una carica biotica e un lancio, scaraventando i nemici sulle rocce appuntite sottostanti, concedendosi un sorriso divertito di tanto in tanto. Non le capitava spesso di ritrovarsi a combattere in un posto come quello e traeva una certa soddisfazione nel vedere che riusciva ad avere il controllo della situazione anche quando la natura imponeva maggiore attenzione del solito. Fu allora che decise di fare una pazzia, complice una scarica d’adrenalina che le aveva attraversato il corpo dopo l’ennesima carica. Si lanciò verso una liana, afferrandola con entrambe le mani e la usò come appiglio per attraversare una fragile passerella rocciosa. Atterrò direttamente con i piedi sul nemico, strappandogli poi il fucile di mano e conficcandogli il calcio dell’arma sulla fronte, mentre sulla mano aveva già pronto un globo d’energia biotica da indirizzare a un secondo Vorcha alla sua destra. Thane e Garrus si scambiarono uno sguardo preoccupato, nascosto dalle loro protezioni visive, poi corsero in sua direzione, facendo attenzione a non sbilanciarsi troppo sulla passerella. Quando giunsero dall’altra parte, Shepard aveva già sterminato quattro o cinque mercenari, e aveva trovato copertura dietro una cassa. Ansimava, stanca, e stava iniettandosi una dose di stimolanti per sopperire all’eccessivo uso dei biotici. Sentiva già gli amplificatori bruciare leggermente alla base del cranio, ma non erano lontani dalla meta. La cavità rocciosa era pulita e restava solo un rudimentale portellone a separarli dalla sala principale. EDI aveva individuato dei picchi di calore provenire dall’interno, probabilmente c’erano delle cisterne e sarebbe bastato farle saltare in aria per sterminare la base e ciò che restava del branco di mercenari. Si concessero il tempo di riprendere fiato, mentre dall’altra parte i nemici dovevano stare preparando il contrattacco al massimo delle loro possibilità.
“Shepard…”, provò a dire Garrus, accovacciandosi di fianco a lei mentre Thane teneva d’occhio il portellone.
“Non starai per farmi la ramanzina come al solito, vero Vakarian?”, fece lei, inserendo una clip termica alla Phalanx.
“Nah, dico solo che potevi evitare di farci scendere dalla navetta se avevi intenzione di fare tutto tu…”, rispose lui canzonatorio.
“Oh, andiamo… avevo bisogno di muovermi un po’”.
“E ridurti a prendere stimolanti?”
“Mi sto solo preparando per l’attacco finale, voglio essere in forma”.
Thane serrò la mascella, aumentando la presa della mani sul Viper. No, non gli piaceva vederla così avventata, soprattutto dopo che aveva intimato a lui di non fare il kamikaze sul campo. Si accovacciò accanto a lei e Garrus si alzò immediatamente a prendere la sua postazione.
“Non è necessario portarsi al limite delle forze quando abbiamo tutto sotto controllo”, le disse pacatamente. Lei non rispose, limitandosi ad osservarlo dalla fessura del suo casco. Era consapevole che avessero ragione, ma era altrettanto consapevole di aver agito  in modo corretto. Un po’ avventato forse, ma in battaglia anche il comportamento più logico può portarti alla morte. Il rischio è ovunque e lei non aveva intenzione di starli a sentire un momento di più. “Bene”, sospirò, “farò in modo di lasciarvi più spazio là dentro. Andiamo”. Si alzò e guidò la squadra fino al portellone. Quando attraversarono il corridoio, la sala che si parò loro davanti era l’equivalente di un grande bunker scavato nella roccia, pieno zeppo di casse, probabilmente contenenti materiale altamente infiammabile, e due grosse cisterne. C’erano almeno una dozzina di mercenari, fra cui un Krogan ben equipaggiato che vantava una corazza spessa e di ottima fattura. Non c’era modo di farlo fuori semplicemente con una carica biotica, bisognava prima azzerare i suoi scudi. Ci pensò Garrus, sovraccaricandoli, mentre Thane eliminava un paio di mercenari dalle retrovie. Shepard lanciò una deformazione in direzione del Krogan, poi rotolò per non farsi travolgere dalla sua carica e mirò con la Phalanx ai suoi punti più deboli, facendolo vacillare. Thane intervenne con una combo di poteri biotici e quello capitolò all’indietro. Shepard lo finì con un altro paio di colpi e poi si avventò sul primo mercenario disponibile, facendo in modo che i suoi impianti assorbissero parzialmente gli scudi cinetici del nemico andando a rimpolpare i suoi. Garrus tolse di mezzo altri due mercenari, e altri tre di loro fuggirono impauriti in una sala adiacente. Poco male, sarebbero morti in seguito all’esplosione.
“Piazzate le cariche”, ordinò Shepard indicando il punto esatto. Thane e Garrus obbedirono e al suo segnale le attivarono con un dispositivo manuale. Una manciata di secondi e sarebbe saltato tutto in aria. I loro visori iniziarono a lampeggiare, fornendo un allarme acustico che andava via via ad aumentare d’intensità con lo scorrere del tempo. Iniziarono a correre verso l’uscita… In testa c’era Garrus, poi Shepard e subito dietro Thane. “Dobbiamo sigillare il portellone!”, urlò Shepard facendo marcia indietro appena si rese conto che quell’espediente avrebbe potuto attutire in parte la brutalità dell’esplosione. “Ci penso io”, rispose Thane, mentre il segnale acustico era diventato ormai insopportabile. Una fatalità improvvisa. Un lembo della sua giacca si era impigliato all’interno del portellone. Due strattoni, ma niente. Shepard corse immediatamente verso di lui, ignorando quel maledetto bip che era quasi diventato un suono continuo e lo tirò per un braccio con quanta forza aveva in corpo. La giacca si strappò rovinosamente, restando incastrata nel portellone e Thane, ormai libero, prese a correre velocemente in direzione di Garrus. Shepard restò indietro a chiudere il portellone come meglio poteva. Quando l’esplosione arrivò, furono travolti da un’ondata di polvere e un rumore assordante che azzerò per un attimo l’udito, riducendolo a un fischio. Nessuno si era accorto che Shepard era stata sbalzata violentemente su una roccia e che adesso giaceva su quel masso appuntito, coperta parzialmente dalle lamiere del portellone troppo fragile per resistere all’onda d’urto. Thane l’aveva vista dietro di sé l’ultima volta, e adesso la rivedeva dieci metri più avanti, accasciata malamente su quello spuntone. Garrus si voltò e restò inorridito, nello stesso momento in cui realizzò che le esplosioni non cessavano di susseguirsi e che probabilmente sarebbe crollato tutto di lì a poco. Thane liberò Shepard dalle lamiere con una spinta biotica e se la caricò immediatamente sulle spalle iniziando a correre, superando Garrus in breve tempo. “Sta per saltare tutto in aria, abbiamo bisogno di supporto!”, urlò Garrus attraverso il comm. La navetta apparve immediatamente da dietro la montagna e si fermò a mezz’aria, consentendo ai tre di salire a bordo prima che la pedana sulla quale poggiavano i piedi si sgretolasse come il resto della struttura, provocando un’ondata di polvere che investì in pieno la navetta facendola vacillare.
Una volta a bordo, si concentrarono sulle condizioni di Shepard. La adagiarono sul pavimento metallico, togliendole il casco. Sotto di lei, una grossa pozza di sangue che si ingrandiva a vista d’occhio. Aveva il fianco sinistro completamente lacerato, e un’ustione sul braccio destro. I segni vitali erano deboli, ma non sembrava in pericolo di vita. L’armatura aveva attutito gran parte del colpo e il casco le era stato di vitale importanza. Thane si sfilò la maschera e Garrus ebbe giusto il tempo di notare la sua espressione sconvolta, prima di concentrarsi nuovamente su Shepard tentando di tamponarle la ferita con quello che avevano a disposizione. La liberarono del pettorale per far sì che respirasse meglio, poi si concentrarono sul taglio, facendo in modo che non perdesse più sangue di quanto ne avesse già versato. La Chakwas era stata prontamente informata e li attendeva all’hangar, con un kit di pronto soccorso e una barella. A bordo la notizia si era sparsa in fretta e stavano tutti col fiato sospeso, in attesa che la navetta rientrasse.
 
 
 
Neanche un quarto d’ora dopo, Shepard era adagiata su un lettino dell’infermeria, con la Chakwas che preparava gli strumenti di lavoro e Thane che cercava di svegliarla.
“Cos’è successo?”, riuscì a dire lei debolmente dopo una manciata di minuti, con gli occhi appena aperti. Aveva la vista appannata e un fortissimo mal di testa che sovrastava persino il dolore lancinante al fianco.
“L’esplosione”, rispose Thane, mentre la dottoressa le iniettava una dose di medigel.
“Devo ricucirti quella brutta ferita, Shepard”, disse la Chakwas in tono greve. Lei annuì con le poche forze che le restavano, riacquisendo un minimo di lucidità. La dottoressa si avvicinò e la guardò dolcemente. “Non è così brutta come pensavamo. E’ profonda, ma sei stata fortunata, non ci sono danni agli organi interni”. Lei avrebbe voluto sorridere, se solo non fosse stata paralizzata dal dolore.
La Chakwas iniziò a liberarla dagli spallacci e lanciò uno sguardo a Thane e poi di nuovo a Shepard. “Forse è meglio se…”. Shepard scosse lievemente il capo. “Può restare”, disse flebilmente, cercando di collaborare come poteva per farsi togliere l’armatura. Il medigel la aiutò a riprendersi velocemente e a prendere coscienza della situazione. Mentre le toglievano gli stivali e i parastinchi, notò la bruciatura al braccio destro, dove la tuta protettiva formava quasi uno strato unico con la pelle. Anche Thane era ustionato in più parti, ma niente di così preoccupante.
“Sembra che Cerberus sia in debito con te di una nuova giacca”, gemette lei, sorridendo lievemente. Thane la guardò, ma non riuscì a sorriderle di rimando, sentendosi l’unico vero responsabile delle sue attuali condizioni. “Cos’abbiamo qua? Dell’umorismo?”, esclamò la Chakwas, risollevata nel vederla combattiva come sempre. “Riesci a metterti su un fianco?”, le domandò poi, cercando un modo per liberarla dalla tuta protettiva. Shepard ci provò, inutilmente. L’ustione al braccio era insopportabilmente dolorosa. La Chakwas decise di occuparsi prima di quella, lasciando Thane a tamponarle la ferita, in attesa. Nel tentativo di separare il tessuto dalla pelle ustionata, Shepard non riuscì a trattenere un urlo e si aggrappò istintivamente al braccio di Thane, serrando gli occhi a forza. Lui fu scosso da un brivido, incapace di affrontare lucidamente una situazione come quella. Restò silenziosamente al suo fianco, finchè la Chakwas non riuscì a separare il tessuto dalla sua pelle per poi spalmarvi sopra un cospicuo strato di medigel, poi decise di uscire dalla stanza. Non riusciva a vederla così, non quando incolpava solo se stesso per ciò che era accaduto. “Sarò qui in attesa che finisca la medicazione”, disse alla Chakwas, guardando Shepard un’ultima volta prima di andare via.
Lasciarla lì da sola non poteva essere stato più doloroso, adesso che aveva colto una richiesta di aiuto nei suoi occhi arrossati e si era voltato, ignorandola. Si appoggiò al portellone della saletta, concedendosi un lungo sospiro. Garrus lo affiancò immediatamente. “Come va?”, domandò.
“Se la caverà”, rispose lui a fatica, lottando contro il desiderio di stare da solo e in silenzio. Garrus sembrò notarlo e si accontentò di quella risposta, tornando alla Batteria Primaria.
 
Dopo una trentina di dolorosissimi punti e una spessa fasciatura intorno al torace, Shepard poté finalmente provare a sedersi sul lettino, nonostante le lamentele della Chakwas. “Hai la febbre, è meglio che passi la notte qui”, le aveva detto preoccupata, mentre passava lo scanner del factotum sulla sua fronte.
“No. Non voglio che l’equipaggio pensi che la situazione sia più grave di quella che è”.
“Ma…”
“No, uscirò da qui sulle mie gambe e andrò a riposare nella mia cabina. Sto bene”.
“Non stai bene, Shepard. Hai appena perso l’equivalente di due sacche di sangue, hai un braccio completamente ustionato e la febbre a 39°”.
“C’è qualcosa che può farmi guarire prima in infermeria?”
“Beh, no, ma…”
“Allora farò come ho detto. Aiutami a infilarmi questo maledetto camice”. La Chakwas obbedì e la accompagnò fino al portellone, scuotendo la testa nel vederla zoppicare malamente. “Sto bene”, rimarcò Shepard, uscendo dalla saletta.
Thane le rifilò involontariamente uno sguardo carico di apprensione e le si avvicinò, permettendole di appoggiarsi al suo braccio. “Accompagnami”, gli disse lei semplicemente. Non c’era nessuno nei paraggi, a parte un paio di soldati semplici che rispettosamente cambiarono strada prima che potessero incrociarli. Quando giunsero all’interno dell’ascensore, Shepard si allontanò e si appoggiò alla sbarra di ferro. “Non è stata colpa tua”, disse a bassa voce, voltandosi a guardarlo. Thane non ebbe il coraggio di sollevare lo sguardo da terra, fermamente convinto a non rispondere. Qualunque cosa avrebbe potuto dire in quel momento, sarebbe stata sbagliata. Shepard lo pungolò su un braccio; un comportamento inusuale, ma che trovava una sua spiegazione nello stato febbricitante in cui versava, unito alla massiccia dose di medigel assorbita dal suo organismo. “E’ per questo che mi ignori. Pensi che sia stata colpa tua”, insistette, formulando la frase quasi come se fosse un’affermazione, più che una domanda.
“Forse è meglio parlarne quando starai bene”, si costrinse a rispondere lui, mentre le porte dell’ascensore si aprivano di fronte alla cabina di Shepard. Lei si appoggiò di nuovo a lui e si fece accompagnare davanti al portellone, aprendolo con difficoltà. Si sentiva talmente debole che il mondo aveva iniziato a girare intorno a lei, come se fosse stata reduce dalla peggiore delle sbronze. Lui la accompagnò lentamente fino al letto, poi si assicurò che riuscisse ad entrare sotto le coperte e le chiese se avesse bisogno di qualcosa. Lei scosse la testa, sorridendo debolmente mentre cercava una posizione comoda, lottando contro i brividi di freddo.
“Saresti potuta restare in infermeria”, disse lui.
“Smettetela di dirmi cosa devo fare, tutti quanti”, sbottò lei, socchiudendo gli occhi, infastidita.
“Le persone si preoccupano per te, Shepard”.
Lei sbuffò in maniera quasi adolescenziale e lui, stavolta, non riuscì a trattenere un sorriso, seppur appena percettibile.
“Ah!”, esclamò lei, puntandogli un dito contro mentre un largo sorriso si formava sulle sue labbra. Lui scosse il capo, rassegnato. Le era così difficile capire come doveva sentirsi lui, in quel momento?
“Shepard…”, mormorò, visibilmente a disagio, “è meglio se riposi adesso. Se hai bisogno di qualsiasi cosa…”
“Resta”, gli disse lei, sostituendo il sorriso divertito di prima con uno sguardo che non ammetteva repliche.
“Non è una buona idea”.
“Resta”, stavolta suonò quasi come una supplica e lui non fu in grado di opporsi. Lei tirò lentamente un braccio fuori dalle coperte e gli fece cenno di raggiungerla sul letto. Per quanto una parte di lui non desiderasse altro, l’altra parte, quella più razionale, vide tutti i buoni propositi di starle lontano sgretolarsi ad uno ad uno mentre, un passo dopo l’altro, si sdraiava accanto a lei, lasciandola libera di trovare il proprio spazio fra le sue braccia. “Stai tremando”, le disse, sfiorandole piano la fronte. “E’ la febbre”, sorrise lei. Lui la strinse più forte, facendo attenzione a non farle male, e aspettò che si addormentasse, senza smettere di accarezzarle teneramente i capelli… chiedendosi dove tutto ciò li avrebbe portati.





 



Vi lascio con questo capitolo, pubblicato in una rarissima ora buca, prima di tornare dai miei andare ufficialmente in vacanza. Spero tanto di avere il tempo di visitare spesso questa sezione nelle prossime due settimane, perchè già mi manca da morire e ho tante recensioni da lasciare e capitoli da leggere.
Nel frattempo vorrei ringraziare di cuore chi segue la mia storia... davvero non pensavo minimamente che avrei potuto ricevere delle recensioni e ognuna di queste è tanto, troppo preziosa.
E per concludere, grazie ancora ad Altariah per questo e per tutte le altre volte che mi hai regalato una cosa così bella, trasformando in qualcosa di reale e visibile ciò che è stato per tanto tempo solo nella mia mente. 

Liane e scimmie a caso.

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Capitolo 9
*** All I Need ***


"I'm miles from where you are
 I lay down on the cold ground
 And I, I pray that something picks me up
 And sets me down in your warm arms"


 (
Snow Patrol, "Set the Fire to the Third Bar")

 

 



Miranda era in procinto di rispondere ad un’email della sorella, quando sullo schermo del terminale iniziò a lampeggiare l’icona di una chiamata in entrata da parte dell’Uomo Misterioso. Non era inusuale; a dispetto del fatto che fosse solo la seconda in comando, riceveva molte più chiamate di Shepard, principalmente perché il leader di Cerberus voleva assicurarsi che le cose procedessero secondo i suoi piani e che la situazione non sfuggisse al suo controllo. Miranda rispose immediatamente, ravviandosi i capelli per abitudine, nonostante non ci fosse nessun ologramma col quale doversi confrontare.
“Lawson”. La voce dell’Uomo Misterioso giunse roca alle orecchie della donna, e lei se lo immaginò mentre inalava una boccata di fumo, seduto comodamente sulla sua poltrona. “Hai niente da dirmi?”
“Riguardo a cosa, signore?”, Miranda si insospettì, acuendo l’udito.
“Perché non ricevo notizie da Shepard? Non ha risposto a nessuna delle mie chiamate”.
Miranda esitò a rispondere. Non voleva essere lei a comunicare l’esito della missione su Zada Ban, ma non poteva semplicemente interrompere la chiamata o accampare scuse, avrebbe finito per peggiorare le cose.
“Shepard ha riportato una ferita. Niente di grave, ma probabilmente sta ancora riposando. Ha perso del sangue e…”
“Com’è successo?”
“C’è stata un’esplosione”.
“E, di grazia, per quale motivo Shepard è rimasta ferita in seguito ad un esplosione? Non le hanno insegnato come maneggiare gli esplosivi?”
“Signore, io non ero presente. Forse dovrebbe parlarne con lei”.
“Miranda, tu sei i miei occhi e le mie orecchie su quella nave, e di certo saprai tutto”, disse lui, cercando di mantenere il tono di voce più calmo possibile, “e io ho bisogno di sapere se Shepard ha per caso sviluppato manie suicide”, aggiunse con sarcasmo.
“No, signore. Shepard è tornata indietro per dare una mano a Krios e l’esplosione l’ha travolta”.
Al di là del trasmettitore seguì un lungo silenzio e Miranda quasi restò in apnea.
“Devi parlare con lei, Miranda. Assicurati che sia concentrata su quello che deve fare, che non abbia distrazioni. Lei ha il comando della Normandy, ma io posso fidarmi solo di te e so che non mi deluderai”.
“Lo farò, signore”, rispose lei abbassando istintivamente lo sguardo, le mani in grembo. La chiamata si chiuse bruscamente e Miranda poté finalmente tornare a respirare, passandosi una mano attraverso i lunghi capelli corvini. La sua non era una posizione facile, specialmente perché aveva a che fare con una donna risoluta quanto lei, e Shepard non era di certo qualcuno che si poteva manipolare facilmente. Pensò, non senza provare vergogna, che in situazioni come quelle sarebbe stato comodo poter approfittare di un chip di controllo, suggerimento che lei stessa aveva proposto durante la sua ricostruzione. Si ricordò poi delle parole dell’Uomo Misterioso, che si era opposto apertamente a quella proposta. No, avere un robot con l’aspetto di Shepard non sarebbe servito a nulla. Quello che rendeva Shepard così preziosa era la sua personalità unica, i suoi ideali mossi da una passione genuina, non una semplice stringa di comando inviata ad una macchina. Si domandò se il leader di Cerberus parlasse solo per pura mania di controllo o avesse davvero qualcosa di cui preoccuparsi, di cui sospettare. In effetti, anche lei aveva notato dei cambiamenti in Shepard dai primi periodi in cui avevano iniziato a condividere la stessa nave. Si era ammorbidita, man mano che l’equipaggio aveva iniziato a riempirsi di facce conosciute aveva ripreso a sorridere e ultimamente era molto più incline al dialogo e alla socializzazione, limitando anche le usuali frecciatine nei suoi confronti. E poi, l’altra sera, l’aveva vista dileguarsi nel bel mezzo dei festeggiamenti per il suo compleanno e l’indomani raggiungere l’equipaggio in mensa affiancata dall’assassino. Non erano affari suoi e non era sua abitudine saltare a conclusioni affrettate, ma, pensando a tutta quella faccenda, mentre guardava le stelle brillare lontane fuori dall’oblò della sua cabina, si trovò a provare un sentimento stranissimo. Qualcosa che, in un certo senso, per chissà quale motivo, somigliava all’invidia. Possibile che Shepard…? Scosse la testa, sorridendo amaramente, e si rese conto di sentirsi sola, profondamente sola, talmente sola da farsi pena. Chiamò Jacob e lo invitò a bere qualcosa insieme, con la speranza di colmare anche solo per un po’ il vuoto che sentiva alla base di quel suo stomaco geneticamente perfetto.
 
 [x]
 
Quando Shepard si svegliò, era madida di sudore, segno che la febbre era passata. Era ancora avvolta nel piumone e due braccia erano intrecciate sopra le sue, stavolta protette da un lenzuolo. Quando si mosse, Thane si irrigidì e allentò automaticamente la presa, aspettando in silenzio che lei dicesse qualcosa. Non aveva chiuso occhio per tutta la notte, restando ad ascoltare pazientemente il suo respiro, a volte leggero, impercettibile, altre volte pesante, disturbato dai sogni. Si era nutrito di quel contatto, del calore della sua pelle e del profumo dei suoi capelli sciolti sul cuscino, lasciando che il tempo scorresse mentre lui restava in apnea. Aveva appoggiato il mento sulla sua spalla, sfiorando la sua pelle con le labbra, maledicendosi per essere rimasto accanto a lei nonostante tutti i buoni propositi. Era la prima volta che passava tutte quelle ore senza scivolare in uno dei suoi ricordi, come se improvvisamente tutto ciò di cui avesse bisogno si trovasse solo ed unicamente nella realtà, quella fragile realtà che teneva stretta fra le braccia. Si sentì un uomo a metà, diviso fra la voglia di abbandonarsi completamente a quello che provava, e il dovere di restarne totalmente fuori, per il bene di entrambi. Era stata una lunga notte, dove più volte aveva provato il desiderio di andare via e il desiderio opposto di baciarla, di sussurrarle all’orecchio quanto fosse diventata importante per lui. Una notte in cui aveva continuato a fare a pugni con se stesso, con le nozioni di giusto o sbagliato, con la razionalità e con l’istinto, rivolgendo gli occhi al cielo sopra quel letto, senza trovare nuove risposte, senza trovare risposte che non fossero estremamente dolorose.
E lei, invece, sembrava così pacifica. Se solo fosse stato facile spiegarle come si sentiva…
 
Shepard aprì lentamente le palpebre e fece mente locale, ripercorrendo brevemente i momenti che avevano preceduto il suo addormentarsi. Stavolta non era sola, e si sentì immensamente sollevata. Si voltò lentamente verso di lui e appoggiò il viso sul suo torace, dopo aver cercato i contorni del suo volto nel buio. “Grazie”, disse piano, respirando l’odore della sua pelle, senza provare alcun imbarazzo. Era quell’oscurità che li avvolgeva, quell’atmosfera pacata e lenta che segue il risveglio, quel calore di due corpi stretti insieme ad aver cancellato ogni possibile senso di disagio. Il battito del suo cuore, il suo respiro, insieme al mormorio lontano del Drive Core, erano gli unici suoni che riusciva a percepire, gli unici suoni che, realizzò, avesse davvero voluto ascoltare.
 
“Grazie”, le aveva detto, dopo tutto quello che era successo. Per cosa le era grata? Per essere stato la causa delle sue attuali condizioni? Per averla messa in situazioni a dir poco imbarazzanti? Per aver anche solo considerato l’idea di trascinarla a fondo insieme a lui? Il senso di colpa lo colpì con la violenza di un pugno nello stomaco, certo che lei non avesse assolutamente idea del motivo per cui lo stesse ringraziando.
Si sentì smarrito e non riuscì a trovare le parole adatte. Dopo aver passato la notte a vegliare su di lei, accarezzandole la fronte quando si era lamentata nel sonno, misurandole la temperatura, evitando di muoversi anche quando tutti i suoi muscoli formicolavano indolenziti, non poté fare a meno di sentire che niente di tutto ciò fosse abbastanza e che non meritasse affatto di stare accanto a lei, perché non aveva e non avrebbe mai avuto niente da darle.
“Come stai?”, riuscì a chiederle dopo quelli che gli sembrarono interminabili istanti.
Shepard percepì chiaramente quella punta di preoccupazione nella sua voce e provò il desiderio di non essersi mai svegliata. Avrebbe dovuto affrontare un discorso che non voleva affrontare, quando invece avrebbe preferito di gran lunga crogiolarsi in quell’istante lontano dal tempo, pretendendo che per un attimo, tutto il resto non esistesse, esattamente come qualche sera prima.
“Sto bene”, dovette rispondere, curvando le labbra in un triste sorriso che lui non avrebbe visto. Allungò le braccia in avanti, tentando di sgranchirsi i muscoli, e lui si spostò di lato con lentezza, interrompendo definitivamente il contatto. L’attimo era svanito, così come il sorriso di lei, sostituito da una smorfia di dolore e dalla paura che avesse preteso troppo. Gli aveva chiesto di restarle a fianco, gliel’aveva praticamente ordinato senza neanche sapere se lui ne avesse davvero voglia. Si sentì terribilmente in colpa e un altro brivido di freddo le attraversò la spina dorsale, ma stavolta non era febbre. “Mi dispiace”, sussurrò istintivamente, e attese invano una risposta che non sarebbe mai arrivata. Thane si alzò dal letto e lei si mise a sedere, scostandosi i capelli umidi dalla fronte.
“Dovresti andare dalla dottoressa Chakwas”, le disse lui freddamente, e lei desiderò sprofondare nel materasso. L’attimo era davvero svanito e lei era rimasta di nuovo sola. “Ci andrò… tra poco”, rispose piano e lo vide allontanarsi dalla penombra, scorgendo i suoi contorni solo nell’attimo in cui la luce azzurra dell’acquario investì la sua figura.
Shepard non riuscì a capire il motivo di quel comportamento, o piuttosto, ne ebbe paura. Si morse le labbra, coprendosi il viso con le mani quasi a voler mascherare la vergogna. Si concesse qualche istante per ripetere a se stessa che aveva problemi ben più gravi da affrontare, poi si fece finalmente forza e si alzò, tenendosi una mano premuta sul fianco.
L’immagine che le restituì lo specchio, qualche minuto dopo, non fu clemente. Lo zigomo destro esibiva un ematoma piuttosto esteso e la fronte presentava un lungo graffio che la percorreva da parte a parte, ma a preoccuparla non furono i segni della battaglia, a quelli c’era ormai abituata. No, ciò che la turbò maggiormente fu il suo stesso sguardo, velato da una patina di tristezza. Non riuscì a mantenere il contatto visivo con se stessa per più di una dozzina di secondi e allora iniziò a lavarsi, sforzandosi di legare i capelli in una coda nonostante la ferita tirasse, facendole un male cane. Poi tentò di vestirsi, finendo più volte a prendere fiato appoggiata alla parete del bagno. Si chiese quanto ci avrebbero impiegato quelle ferite a rimarginare, perché le sembrò di non essere in grado di resistere un giorno di più in quelle condizioni. Solo la Chakwas avrebbe potuto darle buone notizie.
 
 
 
Shepard fu trattenuta più del previsto dalla dottoressa che, preoccupata, aveva iniziato a farle esami su esami, appurando che, a parte l’ustione e il taglio profondo, guaribili a distanza di qualche giorno con le giuste dosi di medigel, lei godesse di ottime condizioni di salute, anzi, perfino migliori di quelle precedenti alla sua ricostruzione. “Gli impianti sintetici fanno un ottimo lavoro”, le aveva detto, e Shepard aveva inspirato a fondo, incapace, anche a distanza di mesi, di comprendere razionalmente che il suo corpo non fosse più fatto solo di carne. Stava seduta sul lettino con le gambe a penzoloni, osservando la dottoressa inserire alcuni dati in uno dei suoi terminali, quando lei parlò. “Ci hai fatto prendere un bello spavento ieri”, disse senza voltarsi. “Ma a qualcuno più di tutti”, aggiunse, senza aspettare la risposta di Shepard. Poi si girò a guardarla di sottecchi, con un sorriso benevolo sulle labbra.
Ci risiamo.
“Se ti stai riferendo a Krios, ti sbagli. E’ semplicemente convinto di essere stato la causa del mio incidente. E io volevo accertarmi che si togliesse dalla testa quest’idea. Sono stata avventata, sapevo che sarebbe andata a finire male e sono rimasta lo stesso a tentare di sigillare la porta…”, gesticolò. Le parole uscirono dalle sue labbra come un fiume in piena. Involontariamente, aveva trovato qualcuno con cui sfogarsi.
“E a lui questo l’hai detto?”
“N-no… Non abbiamo avuto modo di parlarne, a dire il vero”.
Karin sospirò, preparando una siringa di antibiotici per scongiurare il rischio di infezioni. Dirle che sapeva perfettamente che avessero passato la notte insieme sarebbe stato assolutamente fuori luogo, per cui si limitò ad avvicinarsi e a rivolgerle uno sguardo empatico, preparandosi a iniettarle il farmaco. “Sono sicura che avrete occasione di chiarirvi”, sorrise, e Shepard serrò i denti in risposta alla puntura. “E’ importante che non abbia troppe cose su cui rimuginare, Comandante”.
Lei sgranò gli occhi, insicura su cosa volesse insinuare con quella frase.
“La Kepral, sai…”, continuò la dottoressa. “Se Krios si lasciasse andare dietro ai ricordi, continuando a passare più tempo del dovuto nella solitudine di quello stanzino, di certo la sua salute ne risentirebbe”.
Se quello fosse solo un consiglio professionale, o qualcosa di più, a Shepard non interessò, concentrata piuttosto sull’argomento che aveva appena tirato in ballo. Non ne aveva mai discusso in modo approfondito con Thane e adesso sentì di non voler rinunciare all’occasione.
“Non c’è davvero nulla che si possa fare per lui?”, chiese, massaggiandosi un braccio.
“Attualmente no”, sospirò lei. “Di solito si prende in considerazione l’ipotesi di un trapianto, ma Krios non ha voluto essere messo in lista, anni fa. Adesso dubito che servirebbe davvero a qualcosa. Oltre ai considerevoli danni ai polmoni, ci sono problemi in altri organi che non scomparirebbero in seguito a un trapianto. Potrebbe allungare le aspettative di vita, ma solo di mesi… e dubito che farebbe in tempo a trovare degli organi compatibili, considerando anche quanto pochi numerosi siano i Drell”.
Forse era stata solo un’idiota a pensare, fino a quel momento, che potesse esserci una speranza. Aveva agito come ogni altro essere umano alla notizia che Thane le aveva dato in occasione del loro primo incontro… prima si era sentita spiazzata, poi si era aggrappata a quegli otto, dieci mesi di vita che lui le aveva assicurato, finendo per considerare scioccamente quel poco tempo come se fosse infinito. Ci aveva pensato tanto, sì, soprattutto dopo quella notte passata nel Supporto Vitale, ma ogni volta aveva scacciato via i pensieri con fermezza, fingendo che la preoccupazione derivasse solo dalla missione. Adesso, quella fitta di dolore che sentì dove le sembrava ci fosse il cuore, diceva il contrario. Non le interessava solo delle sue abilità in battaglia, le interessava della sua vita.
“Abbiamo finito qui”, affermò la Chakwas, interrompendo il flusso di pensieri del Comandante.
Ora aveva un nuovo bendaggio e un nuovo strato di medigel sull’ustione, ma lei non si sentiva affatto meglio. Scese dal lettino con un sospiro e si sentì smarrita. In occasioni come quelle, si sarebbe fiondata nell’Hangar delle navette ad esercitarsi oppure si sarebbe lanciata in un’altra missione, lasciando che l’adrenalina sovrastasse l’entità del dolore mentale che si portava dietro, ma in quelle condizioni le restava davvero poco da fare.
 
 
 
Il silenzio momentaneo del ponte secondario della sala macchine fu interrotto da una fragorosa risata di Jack. “L’avevo detto io, che ti avrei fatto il culo a strisce”, disse, mentre gettava su una cassa il suo mazzo di carte. “Quanto mi devi? Cinquanta crediti?”
Tali scosse la testa, mormorando parole poco carine in khelish.
“Aspetta a dire l’ultima”, esclamò Kasumi, rilanciando con una mano vincente. “Me ne devi cento, adesso”.
Jack sfoderò un ghigno. “Figlia di…”
La ladra rise di gusto, mentre si intascava i crediti guadagnati in modo dubbio.
“Con te va sempre a finire così”, mormorò Tali, delusa.
“Dobbiamo approfittarne e organizzare una torneo di poker con i ragazzi per svuotargli le tasche ad uno ad uno”.
“Io le svuoterei volentieri a quella dannata cheerleader di Cerberus, se solo non fosse troppo occupata a cotonarsi i capelli giorno e notte...”
“Ci snobba”, annuì Tali.
“Nah, ha solo paura di perdere…”, disse Jack, estraendo un pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni.
“E quelle?”, domandò Kasumi sgranando gli occhi.
“Zaeed. Sant’uomo. Ecco, lui sì che potrebbe batterti”, sorrise, “ha la stoffa, e l’esperienza non gli manca”.
“Ne dubito. L’ultima volta, per il compleanno di Shep, è rimasto in mutande”.
Tali si portò una mano sul petto. “Che vuoi dire? Che avete fatto?”
Kasumi rise di gusto. “E’ un modo di dire umano… significa che è rimasto al verde”.
“Al verde?”
Jack sbuffò, buttando il fumo in direzione di Tali con un ghigno. La Quarian sventolò la mano davanti a se, infastidita. “Mi stai contaminando i filtri della tuta!”, esclamò, andandosi a sedere su una cassa più lontana.
“Significa che ho svuotato completamente le sue tasche, Tali”, rispose la ladra pacatamente. “Ora che ci penso, non sarebbe male un torneo di strip poker, se partecipasse anche Jacob”, ridacchiò.
Jack sollevò il mento in senso di approvazione. “Prima dovresti costringerlo a togliersi Miranda dalla testa”, la provocò.
“Per quello non c’è problema”, rispose lei, determinata.
“Se lo dici tu…”
“Piuttosto… Shep come se la cava a poker?”
“E’ un mezzo disastro. L’ultima volta ha perso contro Grunt. Grunt, signore mie… quel Krogan non sapeva distinguere nemmeno l’asso dalla regina”.
Le tre ragazze risero divertite, poi calò uno strano silenzio. Jack finì di fumare la sua sigaretta, gli occhi puntati sul pavimento, Tali prese a torcersi nervosamente le mani, come d’abitudine nei momenti di tensione. “L’avete sentita?”, chiese poi, tirando finalmente in ballo l’argomento.
“No”, risposero le altre due in coro.
“E’ strana ultimamente”, mormorò Tali. “Garrus mi è sembrato preoccupato… dopo ieri, dico”.
“Qualcuno qui passa più tempo del dovuto in Batteria Primaria”, sghignazzò Jack.
“Bosh’tet! Io e Garrus siamo solo amici”, si difese subito lei, con una sincerità disarmante.
“Dicono tutti così…”
“Com’è che ultimamente passano tutti del tempo in ottima compagnia e solo io non riesco a fare quattro chiacchiere con Mr. Pettorali?”
“Tutti?”
Jack e Tali si voltarono simultaneamente a guardare Kasumi, che capì immediatamente di averla fatta grossa.
“Era così per dire…”
“E me la dovrei bere, questa? Avanti, sputa il rospo…”
Kasumi non riuscì a trattenere una risata e si portò entrambi le mani a coprirsi la bocca. Ma sì, due pettegolezzi tra ragazze non avrebbero fatto male a nessuno, pensò.
“A proposito di… rospi…”, un’altra risata impossibile da trattenere e Jack e Tali si scambiarono uno sguardo perplesso.
“Aspetta, non vorrai dirmi… Oh, finalmente quella si è decisa a scendere dal suo piedistallo. Che poi… le Justicar non hanno quel cavolo di codice da rispettare…?”
Tali si guardò intorno confusa.
“Samara?”, esclamò Kasumi. “Ma no… Dubito che abbia certi interessi, anche se non si può negare che Thane abbia un certo fascino”.
“Allora di chi diavolo stai parlando?”
La giapponese la guardò fissa negli occhi, ammiccando.
“Kasumi, giuro che se non parli entro due secondi…”
“Keelah!”, esclamò Tali, come se avesse appena avuto un’illuminazione, e si voltò a guardare la ladra in cerca di conferme. “Shepard”, sibilò poi.
L’urlo di stupore di Jack si sentì probabilmente fino a Thessia, mentre Kasumi e Tali le facevano segno di tapparsi la bocca, agitando convulsamente le mani.
“Come dannazione fai a saperlo?”
“Non hai idea di quanti dettagli si scoprono quando nessuno può vederti”, ridacchiò lei.
“Che tipo di dettagli?”
“Jack!”, la rimproverò Tali.
“Tappati le orecchie… se ce le hai”, la zittì lei con un gesto della mano.
“Ma non c’è niente da dire, davvero”, disse Kasumi, addolcendo il tono di voce.
“Oh, andiamo… se fossi rimasta a secco per due anni non ci penserei due volte a sb…”
 
“Jack? Kasumi? Tali?”, Shepard fece il suo ingresso scendendo le scalette del ponte secondario, disorientata. Aveva sentito delle risate provenire da laggiù, ma si sarebbe aspettata di trovare Jack a parlare col muro piuttosto che trovarla insieme ad altri membri dell’equipaggio, avendola creduta fino a quel momento un rabbioso lupo solitario. Evidentemente aver fatto saltare in aria Pragia doveva averla aiutata parecchio.
La biotica si schiarì la voce, ricomponendosi, e assunse un’espressione seria, mentre Tali e Kasumi seguirono il suo esempio.
“Che diavolo sta succedendo qui?”, domandò Shepard, con uno sguardo indagatore a squadrarle una ad una.
“Facevamo due chiacchiere”.
“Questo… questo è fumo?”, fece, annusando l’aria.
“Dev’essere partito un motore…”, esalò Jack con poca convinzione.
“Jack, è assolutamente vietato fumare qua sotto, dannazione!”
“Ricevuto”.
Shepard scosse il capo, rassegnata.
“Shep, c’è qualche problema?”, intervenne Kasumi.
“Sì… cioè… come stai?”, domandò Tali, mortificata.
“Sto bene”, tagliò corto lei. “E la prossima volta che avete in mente di fare un torneo di poker, invitate”, disse, prima di tornare da dov’era venuta senz’aggiungere altro. A dispetto del tono che aveva usato, era contenta che l’equipaggio socializzasse, questo avrebbe contribuito a creare maggiore sintonia in campo. Consapevole di non essere la benvenuta, poi, aveva preferito lasciarle in pace, continuando il suo giro.
Le tre ragazze restarono in silenzio, imbarazzate, dopodiché ognuna di loro trovò una scusa e tornò alla propria occupazione. C’era mancato tanto così…
 
 
 
Shepard non aveva assolutamente idea del perché si fosse messa a vagare a zonzo per la nave. Dopo aver lasciato l’infermeria, aveva iniziato a camminare senza meta e adesso era finita in un minuscolo stanzino adiacente all’hangar navette, pieno di provviste e scatoloni di cui lei non conosceva il contenuto. Aveva attivato un terminale e si era messa a controllare minuziosamente i registri, come se le importasse davvero di sapere quanti litri di detersivo fossero necessari per assicurare divise pulite a tutto l’equipaggio nell’arco di tempo di due mesi. Poi si era appoggiata a uno scaffale, premendosi una mano sul fianco. La Chakwas le aveva raccomandato riposo assoluto e lei, ancora una volta, aveva deciso di non prestare ascolto, di fare di testa sua. Ecco, quello era un suo enorme difetto… credere di avere sempre tutto sotto controllo e decidersi ad ascoltare i consigli altrui solo quando era ormai troppo tardi. Pensò a tutte le volte in cui, per la sua testardaggine, aveva finito per rischiare la pelle. Tante, troppe volte, ma continuava a ripetersi che fosse di gran lunga preferibile sbagliare con la propria testa che con quella degli altri. Un ragionamento opinabile, certo, ma lei era fatta così. Cocciuta e testarda come poche. Si appiattì allo scaffale e lentamente scivolò verso il pavimento, finchè non si sedette completamente a gambe allungate, in modo da tenere la ferita più distesa possibile. “EDI, sigilla il portellone”, disse. Se qualche recluta l’avesse trovata in quelle condizioni, ci avrebbe rimesso la credibilità. L’IA di bordo obbedì e l’ologramma della porta si tinse di rosso.
Shepard si sentì in pace. Aveva trovato un posto nel quale rifugiarsi, che non possedesse un enorme acquario a ricordarle l’Uomo Misterioso, senza una finestra sul vuoto cosmico a ricordarle che fuori c’era un mondo a reclamare il suo aiuto, senza una teca piena di medaglie, di cui solo meno della metà la facevano sentire orgogliosa. C’era silenzio, c’era buio, c’era la volontà e la paura di restare da sola con se stessa e trovarsi a tu per tu con i pensieri. Dischiuse le labbra… avrebbe voluto urlare, ma nessun suono uscì dalla sua bocca. Non era mai stata brava a parlare. E chissà, forse per questo il mondo stentava a crederle quando lei parlava di Razziatori. Lei agiva e basta, era l’unico modo in cui riusciva a imporre davvero la sua personalità agli altri. Richiamò l’energia oscura sul palmo della sua mano, plasmando un globo che ora fluttuava a pochi centimetri dalla sua pelle. Un suo prolungamento, atomi di energia che fluivano dal suo corpo e si concentravano in una piccola sfera blu, trasparente e tremolante. La scagliò violentemente di fronte a sé, restando immobile col resto del corpo. Uno scatolone si riversò a terrà, ancora chiuso. Il fragore momentaneo la placò, solo per un istante. L’attimo successivo, aveva già pronto un altro globo d’energia biotica, più grande, pronto ad essere scagliato su un altro oggetto.
Dieci minuti dopo, lo stanzino era diventato un ammasso di roba ammucchiata senza ordine, senza criterio e Shepard sorrideva, ancora seduta sul pavimento, accanto a un paio di scatoloni che avevano rischiato di finirle addosso. EDI aveva chiesto spiegazioni e lei l’aveva messa a tacere, sostenendo che qualcuno aveva incasinato le spedizioni e che andava risistemato tutto daccapo. Era troppo appagata per pensare alla povera recluta di turno che avrebbe dovuto occuparsi del casino che aveva combinato, dando probabilmente la colpa a Grunt.
Non sarebbe stato più semplice nascere Krogan? Rispondere solo ed esclusivamente ai propri istinti, anzi venire incoraggiati a farlo. Avere centinaia d’anni da vivere con l’unico scopo di procreare e di spaccarsi la testa con i Krogan di altri clan. Invece no, lei non soltanto era nata umana, lei era prima di tutto Shepard, per il resto del mondo. Cosa si aspettavano da lei, tutti quanti? Cosa si era aspettato Anderson quando l’aveva messa a capo della prima Normandy? Cosa si aspettava Cerberus, quando aveva deciso di spendere miliardi di crediti per riportarla in vita e affidarle una nave ancora più potente? Ogni secondo che passava, un colono da qualche parte nella Galassia veniva rapito dai Collettori e lei sentiva il peso di ogni singolo essere umano strappato alla vita sulle spalle. Li avrebbe condotti alla vittoria, i suoi compagni, o li avrebbe mandati a morire oltre il portale di Omega 4? Chi avrebbe sacrificato, stavolta, come Ashley su Virmire?
Si prese la testa fra le mani e il suo corpo si tinse interamente di blu. L’ultima scarica d’adrenalina, l’ultima esplosione d’energia prima di perdere le forze e la voglia di lottare, raggiungendo quella dolorosa consapevolezza che l’unica cosa di cui avesse bisogno in quel momento, anche solo per una dannata volta, fosse di sentirsi di nuovo Andromeda, prima ancora che Shepard.
Senza neanche rendersene conto, lacrime calde avevano iniziato a rigarle le guance e ben presto diventò difficile fermare i singhiozzi che le scuotevano il petto. Sentì che quella fosse la cosa più giusta da fare, lasciare che il pianto diventasse una valvola di sfogo… e iniziò a pensare a tutte le cose che le facevano più male, finchè non si ritrovò riversa per terra, a battere i pugni sul pavimento di metallo. Era la prima volta che piangeva dopo anni, e non si era mai sentita così dolorosamente libera.
 
 
Shepard conosceva bene la Normandy, ma non così bene da sapere che lo stanzino nel quale si era rifugiata si trovasse immediatamente sotto il Supporto Vitale. Dopo aver avvertito l’ultima scarica d’energia biotica come una scossa di terremoto sotto i suoi piedi, Thane aveva deciso di lasciar perdere con la meditazione e si era alzato dal pavimento, rivestendosi. Aveva imparato a convivere col ronzio costante del Drive Core, ma raggiungere uno stato di tranquillità mentale era impossibile quando qualcuno, sotto di te, faceva tremare di continuo il pavimento della tua cabina. Immaginò che si trattasse di Jack. Quando era salita a bordo, l’avevano avvisato che la biotica Umana fosse un tipo piuttosto particolare, ma non credeva che Shepard le avrebbe permesso di demolire la nave pur di tenerla a bada. Decise di andare a controllare, intenzionato a sfoderare tutte le sue buone maniere pur di ottenere un po’ di pace. Normalmente avrebbe cambiato stanza, andando a rifugiarsi in uno dei due osservatori, ma adesso che erano occupati rispettivamente dalla Justicar e dalla ladra, gli restava solo la sua cabina, ed era qualcosa a cui sentiva di non poter rinunciare.
Quando giunse all’hangar non trovò nessuno. Era tutto in ordine come sempre, nessun segno di esplosioni biotiche e nessun rumore sospetto. Stava per ritornare sui suoi passi, quando sentì quello che gli sembrò un lamento provenire da uno stanzino ben nascosto dietro una pila di casse. Senza pensarci due volte, decise di andare a dare un’occhiata. La porta appariva sigillata, ma era chiaro che dovesse esserci qualcuno dentro. Bussò con decisione e non fu affatto sorpreso di non ricevere alcuna risposta.
“EDI, puoi aprire il portellone?”, domandò all’IA.
“Shepard mi ha chiesto espressamente di mantenerlo sigillato”.
Shepard.
Dall’altra parte della porta, il Comandante si asciugò in fretta le lacrime dal viso, rimettendosi a sedere. “Quella dannata IA…”, mormorò. Aveva trattenuto il respiro fino a quel momento, quando le era sembrato di sentire dei passi provenire da fuori, ma sentire la voce di Thane l’aveva fatta trasalire. Ormai era troppo tardi per fingere di non aver sentito. “Apri la porta, EDI”, disse rassegnata. Si sarebbe inventata qualcosa, qualsiasi cosa.
Lui esitò per un istante, notando che l’interno dello stanzino era avvolto nell’oscurità. “Shepard?”
“Entra, ma… per favore, lascia le luci spente”, disse lei, appena prima che Thane potesse attivare l’illuminazione dal pannello di controllo.
Lui passò oltre, facendo attenzione a non inciampare, e la raggiunse, sedendosi accanto a lei sul pavimento freddo.
“Come sapevi… voglio dire, che ci fai qui?”, gli domandò lei, senza sollevare lo sguardo da terra.
“Volevo solo accertarmi che nessuno stesse distruggendo la tua nave”.
Lei tirò su col naso, cercando un fazzoletto di carta nelle sue tasche, senza fortuna. “Dopo questa, credo proprio di aver toccato il fondo con te”, disse, curvando le labbra in un sorriso rassegnato.
“Shepard…”
“No, lascia stare. Non dire una parola. Dimentica tutto…”, sospirò lei. “Anche se, probabilmente, ti sarà impossibile. Memoria perfetta”.
“Shepard…”
“Ne avevo bisogno, ok? Non sono abituata a stare ferma a letto con una dannata ferita che mi impedisce anche i movimenti più elementari. E non è colpa tua, mettitelo in testa… Ho fatto un errore, ieri… Ho ignorato il dannato segnale, pensando che avrei richiuso il portellone in tempo. Sono stata un’incosciente dall’inizio alla fine e ho messo in pericolo sia te che Garrus. Ho ritardato la missione, ogni giorno che passa sempre più coloni verranno rapiti, e tutto solo per colpa mia…”
“Shepard…”
“E poi ti ho anche forzato a restare con me, come una ragazzina egoista e capricciosa, fregandomene di cosa invece volessi tu”, si portò una mano sulla fronte, sorridendo nervosamente, “Dio, come sono arrivata a questo punto? Mi hanno affidato una cazzo di nave, la fottutissima Normandy! Risorse illimitate, un intero equipaggio a disposizione e io… io proprio non… Sono solo un’idiota, una maledettissima idiota…”
“Shepard…”
“Che c’è?!”, stavolta urlò quasi, voltandosi a guardarlo. Non si era resa conto di essere appena diventata una bomba ad orologeria, completamente avvolta in un’aura azzurra.
L’attimo dopo, senza neppure rendersene conto, le labbra di Thane erano premute contro le sue, gli occhi chiusi, l’energia oscura svanita, riassorbita dal suo corpo che aveva trovato improvvisamente la calma. Adesso, come in un’epifania, si rendeva conto di cos’era quello di cui avesse avuto davvero bisogno fino a quel momento, quello che aveva cercato senza sosta, disperatamente. Senza farsi domande, liberò la mente da ogni altro pensiero e si abbandonò a lui, a quel sapore nuovo, alla consistenza sconosciuta delle sue labbra, alle sue mani che le accarezzavano dolcemente il volto… e, finalmente, tornò ad essere di nuovo Andromeda, prima ancora che Shepard.



 


Scusate per l'immenso ritardo con cui mi ritrovo e mi ritroverò a recensire, ma fino al 5/09 purtroppo il mio tempo è limitato. Un grazie di cuore a chi pazientemente continua a seguire le mie storie deliranti. E un grazie immenso anche ad Altariah per questo. Non è meraviglioso?

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Capitolo 10
*** Heaven and Hell ***


“Come la vide legata le braccia a una rigida rupe,
 Perseo l'avrebbe creduta di marmo, se l'aria leggera
 non le moveva le chiome e stillavano lagrime gli occhi,
 inconsapevole n'arde e stupisce. Rapito alla vista
 della bellezza dimentica quasi di battere l'ali.”
 
 (Ovidio, Metamorfosi, IV, 673-677)

 [x]

 

 
Quel primo bacio non era stato esattamente un bacio. Era stato semplicemente un tentativo di zittirla, nel modo che al momento era sembrato il migliore possibile, un maldestro tentativo di mettere a tacere il caos nella sua mente. Il secondo era stato piuttosto una presa di contatto, timida ed incerta, dove lei si era concessa di aprire gli occhi per un secondo, accertandosi che non stesse immaginando tutto. Il terzo era nato dal desiderio impaziente di ripetere il contatto. Più sicuro, consapevole, accompagnato dalle mani di lei, ancora avvolte dall'energia biotica, che andavano a poggiarsi sul torace di lui, esitanti. Il quarto era stato preceduto da un breve sguardo reciproco per ripetersi che, sì, c'erano entrambi e con la stessa intensità. Lui prese il suo volto fra le mani, accarezzandole una guancia, mentre le mani di lei stringevano la presa intorno al suo colletto. Due cuori diversi che battono all’unisono mentre le lingue si sfiorano nel quinto bacio, brividi che corrono lungo le estremità degli arti, la luce azzurra che svanisce per essere bruscamente sostituita da una, altrettanto familiare, di un altro colore, seguita dal suono assordante del factotum di Shepard. L’allontanamento, per quanto odiato, fu inevitabile. Un riflesso arancione nelle loro iridi così diverse e l’estrema frustrazione di chi ha appena ottenuto qualcosa che agognava da tanto tempo e ora deve disfarsene.
“L’Uomo Misterioso…”, mormorò Shepard, dopo aver visionato brevemente il messaggio che la voleva al più presto in sala tattiche. Avrebbe voluto imprecare, ma si trattenne, mordendosi un labbro. “E’ da ieri che lo ignoro e Miranda mi ha detto che deve parlarmi”, aggiunse, forse troppo velocemente, rilassando poi le spalle con un sospiro. Thane sorrise, mostrando comprensione, e si alzò, offrendole una mano. Lei l’afferrò e si rimise in piedi, ritrovandosi a due centimetri dal suo volto. Resistette all’impulso di ricominciare da dove avevano lasciato e si allontanò con un sorriso sconsolato, esitando a lasciare la sua mano. “Devo andare”, disse mestamente. Lui annuì e la accompagnò alla porta, fermandosi a guardarla andare via.
 
Non volle lasciare quello stanzino, non ancora. Così come lei, prima, aveva trovato sollievo nell’oscurità, anche a lui sembrò che al momento non esistesse posto più confortevole. Andò a sedersi esattamente nello stesso posto di prima, la schiena premuta contro lo scaffale metallico, e diede un lungo sospiro che sembrò necessario dopo quanto era successo.
Trovò le risposte che stava cercando in un ricordo che, come un fulmine a ciel sereno, riaffiorò alla memoria con un’intensità incredibile. Qualcosa che, fino a quel momento, era stato sepolto sotto pile di altri ricordi che al momento sembravano inutili, esattamente come il ricordo di una colazione consumata quindici anni prima o un sogno insignificante dell’infanzia.
 
E’ mattina, la luce sembra quella di un pomeriggio spento. Piove, ripenso a Kahje. Il silenzio del bar è rotto solo dal notiziario. Alzano il volume. La giornalista parla, composta. “…Andromeda Shepard, primo Spettro Umano, marine dell’Alleanza…” Do un sorso al mio thè, troppo caldo. Aromi che mi ricordano un viaggio d’infanzia su Rakhana. “…conosciuta per la distruzione della nave Geth sulla Cittadella…” Un Salarian entra dalla porta principale, l’impermeabile bagnato. “…le notizie sono allarmanti, ma l’Alleanza non ha ancora emesso un comunicato ufficiale per confermare la sua morte…”
 
Sentì il bisogno di interrompere quel ricordo tanto vivido. Le sensazioni provate allora, permeate da una certa indifferenza, si mescolarono con quelle che avrebbe provato adesso, a sentire una notizia simile. Ma quel ricordo premeva sulla sua mente, come un’entità a sè stante che chiedeva disperatamente udienza. Socchiuse gli occhi e lo lasciò riaffiorare.
 
Il Salarian si siede, la cameriera sorride. La pioggia batte più forte sul vetro e le chiacchiere fra gli avventori aumentano d’intensità quando la giornalista passa ad un’altra notizia meno interessante. Attivo il factotum su Extranet. “Andromeda”, cerco distrattamente. Quel nome ha il suono della mia lingua, sono curioso.
 
Riemerse dal ricordo e improvvisamente gli fu tutto chiaro. Si era ritrovato a leggere del mito di Andromeda e Perseo, in quella mattina uggiosa su Nos Astra, rapito dalle parole aliene ed evocative di uno scrittore umano, vissuto sulla Terra migliaia di anni fa. Poi, come succede per le cose meno importanti, la cosa era caduta nel dimenticatoio, senza alcun motivo per restare impressa in qualche modo nella memoria. A distanza di un paio d’anni, quel momento sembrò acquistare un nuovo significato, totalmente diverso. Due donne diverse, ma con lo stesso nome, di cui una probabilmente mai esistita… entrambe portavano sulle spalle il peso di un sacrificio, entrambe vittime di un destino che non erano state loro a scegliere. E lui si ritrovò nei panni di Perseo, inconsapevolmente, a slegare Andromeda dalla sua rupe, a salvarla dalla lotta contro i suoi demoni interiori. Quell’eroe greco, così sicuro di sé, non aveva esitato un momento a liberare la fanciulla, rapito da tanta bellezza e innocenza. Ma che ne sarebbe stato di Perseo qualora avesse perso le sue ali?
 
 
 
Shepard si recò in sala tattiche a passo spedito, più di quanto la ferita concedesse, e finì per appoggiarsi esausta sul tavolo, avviando la comunicazione con una mano, mentre l’altra era premuta sul fianco. Una manciata di secondi dopo, l’ologramma dell’Uomo Misterioso la osservava con uno sguardo contrariato.
“Shepard, mi aspetto che tu risponda sempre alle mie chiamate, a meno che tu non abbia più di un buon motivo per farlo”, disse.
Lei sentì un moto di rabbia nascerle nello stomaco. Se a parlarle così fosse stato Anderson, avrebbe immediatamente chinato il capo e chiesto umilmente scusa, ma di fronte a quell’individuo riusciva solo a provare repulsione.
“Sono sicura che Miranda l’ha già informata riguardo alle mie condizioni, per cui ritengo di aver avuto un ottimo motivo per rimandare questo colloquio”, rispose, serrando le mascelle.
“Avrei preferito sentirlo da te. Mi auguro che tu faccia maggiore attenzione la prossima volta, visto quanto mi è costato rimetterti in piedi. Soprattutto, mi auguro che tu rimanga concentrata sulla missione”.
Shepard sollevò un sopracciglio, scettica. “Cosa vuole insinuare?”
“Se pensi che io stia insinuando qualcosa, sei fuori strada, Shepard. Ti ho messo a capo di una nave come questa perché so quali sono le tue capacità. Voglio solo assicurarmi che tu abbia chiare in mente quali sono le priorità”.
“E questo cosa diavolo ha a che fare con la missione di ieri?”. Stavolta non riuscì a trattenersi.
“Assolutamente nulla. Ma sentirselo dire ogni tanto non può che far bene”. Un sorriso per niente sincero stirò le sue labbra sottili.
Shepard indurì lo sguardo, stringendo una mano a pugno sul tavolo. Non le piacevano certi giochetti e non aveva intenzione di continuare un attimo di più. “Se mi ha chiamata per comunicarmi qualcosa d’importante, bene. Altrimenti… io avrei del lavoro da fare”.
“Qualcosa ci sarebbe. Qualcosa di grosso, a dire il vero. Si tratta del relitto di un vecchio Razziatore”.
Shepard sgranò gli occhi.
“Ho mandato una piccola squadra a controllare, ma sfortunatamente non ha mai fatto ritorno. Voglio che tu vada a scoprire perché”.
“Come fa a dire che questo Razziatore è un relitto e non si tratta semplicemente di una trappola?”
“Ti manderò le scansioni e controllerai tu stessa. E’ di vitale importanza, Shepard. Potrebbe significare molto e voglio che tu ci vada al più presto”.
“Ci andrò quando la mia squadra sarà pronta, non prima di aver sottoposto le informazioni ai miei tecnici”, rispose lei, risoluta. “Se la sua squadra è scomparsa, dubito che il Razziatore sia innocuo come dice. Devo accertarmene”.
“Molto bene. Conto su di te”, concluse l’Uomo Misterioso, e terminò la chiamata.
Sorrise fra sé e sé, rigirando nella mano ciò che restava del suo whiskey. Era sicuro di averla messa in difficoltà, compiaciuto che i suoi piani stessero procedendo esattamente come stabilito. Cogliere in Shepard quella certa preoccupazione nello sguardo significava che era riuscito ad ottenere ciò che aveva sempre voluto. Sin dall’inizio era stato consapevole che, al suo risveglio, quella donna avrebbe potuto trasformarsi in tutto il contrario di ciò che era. Sarebbe potuta diventare un robot a tutti gli effetti, privata di due anni della sua vita, privata del suo passato, privata di quelle poche persone che le erano rimaste a fianco fino a quel momento, privata del suo titolo e di uno scopo. Per questo aveva fatto molto attenzione a stilare i dossier per il nuovo equipaggio, assicurandosi che ritrovasse vecchi affetti e che instaurasse nuovi legami. Nessuno, più di lui, era consapevole che un uomo senza qualcosa per cui lottare, si sarebbe rivelato il più inutile degli investimenti. Sicuro che metterla con le spalle al muro non avrebbe fatto altro che spingerla verso la direzione opposta, si accese l’ennesima sigaretta, pronto a gustarsi lo spettacolo di quella che riteneva la sua personale creazione.
 
 
 
Dopo aver consumato il pranzo in solitudine di fronte a una pila di datapads, studiando attentamente gli ultimi files inviati dall’Uomo Misterioso, Shepard si recò in armeria e non fu affatto sorpresa di trovarci Kasumi, appollaiata sul tavolo, che guardava Jacob smontare e pulire accuratamente l’arma che lei gli aveva precedentemente passato.
“Non te ne starai approfittando?”, domandò Shepard, rivolgendo un sorriso alla ladra.
“A che servono gli uomini se non possiamo fargli fare i lavori sporchi?”
Jacob sorrise, guardandole entrambe dal basso verso l’alto. “Potrei offendermi, signorina Goto”.
“Prendilo come un complimento, Taylor”, intervenne Shepard, poggiando brevemente le mani sul tavolo. “Beh… penso che toglierò il disturbo insieme al mio Crusader”, aggiunse poi con un sospiro, avvicinandosi alla griglia delle armi.
“Aspetta, Shep. Dovrei parlarti di una cosa”, incalzò Kasumi, “in privato”, aggiunse.
Si allontanarono, lasciando Jacob a scuotere il capo rassegnato, mentre finiva di oliare l’arma.
 
“Che succede?”, domandò Shepard una volta fuori dall’armeria.
“So che hai tante cose di cui occuparti, ma… ho parlato con Joker e Bekenstein non è molto lontano da qui…”
“Bekenstein?”
“Sì. Io, ecco… Conosco i rischi di questa missione, Shep. E non vorrei lasciare storie in sospeso. Cerberus mi ha garantito che avrei ottenuto il tuo appoggio per questa faccenda, ma non vorrei…”
Shepard posò una mano sulla sua spalla. “Non ho mai negato il mio aiuto a un membro della mia squadra e non lo negherò a te. Andremo su Bekenstein appena sarà possibile, ma prima ho bisogno di sapere che non si tratti dell’ennesimo furto, perché in quel caso potrei esserti poco d’aiuto”.
“Il contrario. Devo recuperare un oggetto che mi appartiene”.
Shepard sollevò un sopracciglio, sorridendo scetticamente.
“Davvero”, rimarcò la ladra.
“Beh, in tal caso vedrò cosa possiamo fare”.
“Grazie, Shep”, sorrise Kasumi. “E… per quello che vale, non pensavo che mi sarei trovata tanto bene a bordo di una nave militare. Mi manca la mia vecchia vita, ma qui mi sento a casa”.
Shepard riuscì a comprenderla perfettamente. In effetti, non immaginava posto migliore per parlare di “casa”. Aveva ancora una proprietà su Mindoir, la piccola villa di campagna nella quale era cresciuta, ma l’ultima volta che ci aveva messo piede risaliva al funerale dei suoi genitori. E senza di loro, quella non era più casa.
“Posso dire lo stesso”, rispose sorridendo, “Mandami un file con i dettagli, nei prossimi giorni ne discuteremo”, concluse, decidendo poi di tornare nella sua cabina. Il Crusader reclamava attenzioni e lei non trovò momento migliore per dedicarsi a quel vecchio compagno di battaglie, soprattutto perché se non avesse trovato immediatamente qualcosa con cui distrarsi, avrebbe finito per cercare un altro stanzino da distruggere.
 
Kasumi non ebbe il coraggio di ritornare in armeria dopo quella breve conversazione. Sentì il bisogno di restare sola con se stessa, per chiedersi come avrebbe reagito una volta ottenuto ciò che le era stato sottratto. Ciò che restava di quella perdita, almeno. Andò a rifugiarsi nell’osservatorio, rannicchiandosi in un angolo del divano. Faceva freddo, più del solito. O forse era solo paura quella che sentiva pungere sotto la pelle, mentre gli occhi lucidi si perdevano nell’infinito al di là del finestrone. Si abbassò il cappuccio, sentendosi improvvisamente a disagio, come se con quel gesto avesse appena esposto tutte le sue paure al mondo esterno. I lunghi capelli neri, legati prima in una treccia, ora incorniciavano il suo viso rotondo. Le parve di vederlo sul riflesso del vetro, dietro di lei. Le mani grandi appoggiate sulle sue spalle, un sorriso che illuminava due bellissimi occhi a mandorla, proprio come i suoi. Si strofinò gli occhi e, col cuore che le martellava nel petto, scivolò sul divano fino a raggomitolarsi su se stessa, incapace di respingere quella singola lacrima dolorosa che premeva per uscire dai suoi occhi. Era uno scenario già visto, già ripetuto mille altre volte. Non passava notte senza che lei chiudesse le palpebre e cercasse di sentire sulla sua pelle il tocco di Keiji, senza che cercasse di ricordare le note esatte del suo profumo, la voce che sussurrava dolci parole al suo orecchio.
Fino a quel momento era stata brava a seppellire il dolore dietro ad un sorriso, o dietro alla soddisfazione che le procurava rubare qualcosa di estremamente prezioso e intoccabile, in memoria dei vecchi tempi, quelli felici… Ma adesso, di fronte a quella nuova possibilità, offertale inaspettatamente da Shepard, si sentì smarrita. Avrebbe dovuto far riaffiorare di nuovo il passato e farci i conti, per l’ultima volta probabilmente. Non sapeva bene se si sentisse davvero pronta, ma ciò di cui era certa, era che avesse paura, un’estrema paura di tornare a provare i sentimenti che aveva cercato di dimenticare in tutto questo tempo.
Nonostante ciò, si sentì sollevata di poter contare su Shepard; avrebbe avuto al suo fianco non solo un ottimo soldato e un ottimo comandante, ma anche una persona che non avrebbe esitato un’istante a offrirle la sua comprensione. Questo le bastava, sapere che qualcuno avrebbe compreso le sue ragioni quando fosse arrivato il momento di compiere una scelta. Allungò una mano oltre al bordo del divano, recuperando il libro che teneva nascosto lì, sul pavimento. Solo vedere la copertina le riportava alla memoria centinaia di sensazioni diverse. Sorrise, tracciando con un dito i contorni delle incisioni nel cuoio. Aprì a pagina 57, trovando una rosa, ormai secca, di un rosso del colore del sangue. La prese e se la rigirò fra le mani, annusando un profumo ormai scomparso, mentre ricordava esattamente il momento in cui l’aveva vista per la prima volta, versando un’altra lacrima dopo tanto tempo.
 
 
 
Nonostante fosse praticamente impossibile distinguere il giorno dalla notte a bordo di una nave che viaggiava sempre nell’oscurità dello spazio, la Normandy tendeva a diventare sempre piuttosto silenziosa dopo cena. Gli unici a restare in piedi erano i soldati e gli specialisti di turno, e molto spesso anche Joker, che preferiva di gran lunga pilotare quando c’era poca gente a ronzargli intorno. La nave era diretta verso Bekenstein, l’ultima tappa prima di impostare le coordinate dove avrebbero trovato il relitto del Razziatore, secondo le ultime indicazioni di Cerberus. Joker sbadigliò sonoramente, stiracchiandosi le braccia sopra alla plancia dei comandi. Jack, sul ponte secondario della sala macchine, ronfava rumorosamente sulla sua branda. Miranda, nella sua cabina sul ponte equipaggio, si struccava davanti a uno specchietto, mentre Kasumi dormiva raggomitolata sul divano dell’osservatorio, stringendo ancora il libro fra le mani. Garrus e Tali dormivano già da un pezzo, dopo aver ricontrollato pazientemente il lavoro svolto rispettivamente alla batteria primaria e al motore. La Chakwas si concedeva l’ultimo bicchiere di vino bianco prima di andare a letto e Jacob aveva appena finito di riordinare le armi, allineate in ordine sullo scaffale. Due piani più giù, Grunt e Zaeed riposavano beatamente, mentre Samara, nell’osservatorio, meditava a gambe incrociate sul pavimento. Gli unici tre a non trovare pace, in quella serata tranquilla, furono Mordin, Thane e Shepard. Il professore, tuttavia, non aveva bisogno di dormire. Era un Salarian, in fin dei conti, e il suo metabolismo gli consentiva di lavorare per ore, prima di avvertire i primi sintomi della stanchezza. Era stato lui stesso a spiegarlo a Shepard qualche settimana prima, quando lei gli aveva consigliato di prendersi una pausa, e lui aveva riso calorosamente. “Questa è pausa per me, Shepard. Studiando riproduzione cellulare, puro passatempo”, le aveva detto, e lei l’aveva invidiato profondamente. Fosse stato così semplice accontentarsi di un paio d’ore di riposo, quando l’insonnia, per lei, era ormai diventata la norma.
 
Era già da un pezzo che faceva avanti e indietro per la sua cabina, non essendo riuscita a chiudere occhio neanche per un istante. La Chakwas le aveva rifatto le medicazioni dopo cena, lasciandole solo un lungo cerotto a coprirle il taglio sul fianco e un bendaggio sottile sull’ustione al braccio. Come previsto, le ferite guarivano in fretta, ma lei si sentiva ugualmente sfinita. Dopotutto, quel giorno aveva praticamente fatto chilometri a piedi in giro per la nave, non trovando altro modo per scaricare la tensione… un altro tipo di tensione, che non aveva niente a che fare con la distruzione del magazzino nell’hangar. Faceva due passi, si fermava davanti all’acquario, poi un lungo sospiro e tornava indietro, portandosi le mani ai capelli, come in preda al tormento.
“Comandante, i miei sensori rilevano un livello di stress nel tuo organismo particolarmente elevato”, eruppe all’improvviso la voce artificiale di EDI, facendola trasalire. Lei si appoggiò alla scrivania, guardando in cagnesco l’ologramma. “EDI, da quand’è che stai monitorando il mio organismo?”, domandò, irritata.
“Ho trovato utile il suggerimento della dottoressa Chakwas. Ha detto che, conoscendoti, avresti saltato spesso le visite e mi ha consigliato di monitorarti a distanza”.
“Dannazione, non sono una cavia da laboratorio e non ho bisogno di essere monitorata!”, esclamò esasperata. Se solo non avesse nutrito un profondo affetto nei confronti della dottoressa, sarebbe andata a svegliarla appositamente per farci quattro chiacchiere, di quelle non proprio piacevoli.
“Ricevuto, Comandante”, rispose l’IA, prima di disconnettersi.
Ora capiva perché Joker non riuscisse a digerirla. Per quanto sentire la sua voce fosse diventato ormai familiare e in qualche modo confortante, era pur sempre come avere un occhio costantemente puntato addosso. Un altro motivo per cui le risultava impossibile fidarsi di Cerberus.
Ripensò inevitabilmente alla breve discussione avuta con l’Uomo Misterioso e non poté fare a meno di sentirsi umiliata e offesa. “Devi restare concentrata”, le aveva detto, come se lei non fosse in grado di comprendere l’importanza di quella missione, come se fin ora non avesse dato tutta se stessa in ogni missione, mettendosi in prima linea invece di delegare semplicemente ad altri. Aveva accettato di mettere la propria vita a disposizione dell’Umanità intera e non era ancora abbastanza? Cosa voleva, che si privasse dell’ultimo briciolo di umanità rimastole? Che spazzasse via le sue debolezze come fossero insetti fastidiosi? Che dimenticasse tutto il resto e vivesse solo in funzione di quella dannata missione?
L’ologramma di EDI tornò a brillare, di fronte a lei, e Shepard stavolta urlò senza aspettare che l’IA parlasse, fuori di sé. “Che diavolo c’è ancora?”
“Comandante, Thane Krios richiede l’accesso per la tua cabina”.
Lei si pietrificò, sentendo improvvisamente la gola prosciugarsi. Era talmente tesa che le ci vollero un paio di secondi prima di formulare una risposta di senso compiuto. “Ci penso io, EDI”. L’ologramma azzurrino scomparve nuovamente e lei percorse quei due metri che la separavano dal portellone come se fossero parsec. I flash di quella mattina la colpirono con un’intensità incredibile, quasi fosse una punizione per aver cercato di non pensarci tutto il giorno, trovando mille altre cose con cui tenersi occupata. Ma adesso lui era lì e non c’era nulla che potesse fare per evitare qualunque cosa sarebbe accaduta, e più di tutto, non c’era nulla che volesse davvero fare.
“Speravo dormissi, almeno tu”, disse Thane quando lei ebbe aperto il portellone. Le sembrò esausto. Coprì con due brevi falcate la distanza che li separava, uno sguardo che lei non seppe interpretare. “Dammi un buon motivo per andarmene”, aggiunse, appoggiando la fronte contro la sua. Lei trattenne il respiro, mentre le sue dita si intrecciavano ai suoi capelli. Se c’era davvero un buon motivo, lei non lo conosceva. Scosse la testa, socchiudendo gli occhi, e poi gli gettò le braccia al collo, in quello che sembrò un abbraccio disperato. Lui rispose a quel gesto, stringendola forte a sé. Senza dire una parola, entrambi capirono immediatamente quanto fosse intenso quel bisogno che avessero l’una dell’altro, per un motivo che apparentemente sfuggiva alla loro comprensione.
“Non riuscivo a dormire… avevo bisogno di vederti”, si giustificò lui, discostandosi quanto bastava per guardarla negli occhi. “Ci si può perdere in un ricordo, lo sai?”, pronunciò quelle parole come se gli procurassero dolore, e la strinse di nuovo forte a sé. Lei aveva il potere di accantonarli, i ricordi, ma come si sarebbe sentita se avesse avuto la sua stessa maledizione?
“Dormi con me”, gli disse lei semplicemente, prendendolo per mano, e lui non ebbe il coraggio di replicare, non stavolta. Lo condusse di fronte al letto, poi iniziò a togliergli la giacca, slacciando lentamente una fibbia dopo l’altra, e lui la lasciò fare, arrendendosi all’idea che giusto o sbagliato ormai non fosse più così importante, non quando riusciva a vedere così chiaramente se stesso nel riflesso dei suoi occhi verdi, non quando sapeva che nessuno sarebbe più riuscito a mettere a tacere la necessità che li legava così saldamente l’uno all’altra. Shepard appoggiò la giacca sulla poltrona accanto al letto e prima che potesse voltarsi per raggiungere l’altra parte del letto, lui l’afferrò dolcemente per un polso e le sganciò il factotum, facendo lo stesso col proprio. A che sarebbero servite, poi, le parole, quando c’erano mani, e occhi, e labbra a parlare?
Shepard si sdraiò tra le lenzuola e lui subito dopo di lei. Il tempo si era come dilatato, ogni movimento era lento, ogni respiro calcolato, ogni battito di cuore risuonava forte e chiaro nel silenzio di quella cabina mentre entrambi si sorridevano come se avessero atteso per troppo tempo quel momento. Thane allungò una mano, scostandole i capelli dal viso e lei si avvicinò con tutto il corpo, poggiando una mano sulla sua per intrecciare le dita con quelle di lui, nell’unico modo in cui la loro fisionomia lo rendeva possibile. Lei chiuse gli occhi e lui fece scivolare la mano sul suo collo, poi sullo sterno, fino a stringere la presa intorno alla zip della sua felpa. Avrebbe visto le ferite, i lividi, le cicatrici, ma a lei non importava… Davanti a lui svaniva il bisogno di sentirsi protetta da una corazza o da un’uniforme. Davanti a lui, lei poteva finalmente essere se stessa, ormai questo lo aveva imparato. La lentezza con la quale lui la spogliò della sua felpa fu quasi dolorosa, mentre lei cercava di restare al suo posto, di resistere dal fiondarsi sulle sue labbra perché sapeva che quel bacio sarebbe stato solo un tentativo di fuga dal lasciarsi guardare, conoscere, esplorare in un modo che non aveva mai riservato a nessuno. Thane scivolò sul materasso, accarezzando la pelle del suo ventre con le labbra. Ogni bacio era un dettaglio impresso a fuoco nella memoria, ogni sua lentiggine, ogni piccola cicatrice… non c’era niente di lei che non avesse voluto ricordare con estrema precisione. Shepard allungò una mano verso la sua guancia, accompagnandolo nella risalita. I suoi movimenti erano calmi, le mani delicate e pazienti, ma gli occhi le dicevano tutt’altro, più neri e profondi di sempre. Lei sospirò in risposta a un brivido quando le sue dita si fermarono sotto all’elastico del suo reggiseno sportivo. Lui la guardò, in cerca di conferme, e lei annuì in maniera quasi impercettibile, reclinando la testa all’indietro sul cuscino, gli occhi chiusi, il respiro troppo veloce. Non era abituata a sentirsi così vulnerabile, a quelle mani che prendevano possesso del suo corpo, le mani di un assassino, di qualcuno che avrebbe potuto approfittarsi delle sue debolezze così facilmente ma che, paradossalmente, la facevano sentire sicura come mai le era capitato di sentirsi nel corso di una vita intera. Lui non volle risparmiare alle sue labbra neanche un centimetro della sua pelle, facendola rabbrividire con ogni tocco delicato delle sue dita. Quando fu talmente vicino al suo viso, trovò spazio nell’incavo del suo collo e respirò a fondo il suo profumo, mentre le sue mani tracciavano il profilo delle sue clavicole. Lei rise piano, estasiata dal contatto, ma concentrata a resistere immobile al solletico. “Se stavi cercando un modo per farmi perdere quel briciolo di sanità mentale che mi è rimasta, l’hai trovato…”, sussurrò, scaricando in minima parte la tensione. Lui sorrise in risposta e le disse qualcosa di incomprensibile. Era la prima volta che lo sentiva parlare nella sua lingua e avrebbe voluto che non smettesse mai. Le sembrò di non averlo mai conosciuto davvero fino a quel momento, quando ogni barriera fra di loro era stata abbattuta e si trovavano l’uno di fronte all’altra, così disarmati da fare male.
Thane si sollevò su un gomito, sovrastandola. Continuò a sorriderle, accarezzandole i capelli, e lei avrebbe voluto solo annegare nei suoi occhi neri. Capì in quel preciso istante che non poteva esserci niente di sbagliato in tutto ciò… il modo in cui la guardava la faceva sentire viva, come se avesse appena iniziato a respirare davvero per la prima volta. E adesso sentiva solo il disperato bisogno di un bacio, di perdersi nel suo sapore nuovo e sconosciuto. Cercò di sollevarsi sui gomiti per raggiungere le sue labbra, ma lui la bloccò appoggiando la fronte contro la sua. Era una sfida, una sfida alla quale lei avrebbe partecipato volentieri. Lo spinse indietro sul materasso e gli bloccò le mani, ignorando il più possibile il dolore al fianco, sempre lì a ricordarle che, per quanto perfetto fosse quel momento, la realtà era là fuori ad attenderli pazientemente. Lui si liberò facilmente dalla presa, lei glielo permise volentieri, e l’afferrò delicatamente per i fianchi, portandola su di sé. “Vedo un netto svantaggio, qui” disse lei, sorridendo maliziosamente mentre cercava di sfilargli la maglietta. Lui l’aiutò nei movimenti e poi la tirò a se, le mani sulla nuca, lungo la spina dorsale, labbra che si sfiorano appena senza toccarsi. Le disse qualcosa, sussurrandola piano al suo orecchio, e lei non s’interrogò minimamente sul significato, scossa dai brividi.
“Amo i tuoi colori”, gli confessò, sollevandosi per guardare il suo corpo. La trama della sua pelle sembrava quella di un bellissimo mosaico, dove linee sinuose di un verde più scuro delineavano perfettamente le curve del suo corpo, e due lingue di fuoco, più morbide, come quelle che fasciavano il suo collo, scendevano verso il basso dai suoi fianchi. Fece scivolare le mani lungo il suo torace, perdendosi nella sensazione delle sue squame che scorrevano sotto alle sue dita, socchiuse gli occhi, si chinò a baciare quelle sottili strisce scarlatte e avvertì chiaramente un tremito nel suo corpo. “Siha”, mormorò lui, e lei continuò, ignorando una parola che per lei non possedeva alcun significato. “Siha…”, le ripetè, prendendole una mano. Lei capì e si lasciò tirare verso di lui, si lasciò stringere dalle sue braccia, mentre lui baciava i suoi capelli. Sapeva che non avrebbe potuto protrarre a lungo quel contatto, ma sentire il calore del suo corpo contro il suo, almeno per un istante, gli sembrò la cosa più bella che avesse mai sentito e glielo disse, in parole che lei non avrebbe compreso. Si guardarono negli occhi, profondamente, e il loro sorriso si trasformò in un bacio. Uno vero, che non avrebbe mai potuto eguagliare mille parole. E subito dopo la consapevolezza condivisa di doversi fermare, perché quello che c’era tra di loro non aveva bisogno di ulteriori conferme, non aveva bisogno di diventare qualcos’altro, non ancora. Quello era già la cosa più simile al paradiso e all’inferno insieme che potessero immaginare.
 
“Mi passi la giacca?”, gli domandò lei dolcemente, indicando la sedia a fianco. Lui la guardò perplesso, tendendogli la sua felpa. “No”, disse lei, “voglio la tua”. Thane sorrise e gliela passò, restando incantato ad osservarla mentre indossava qualcosa che fin ora aveva immaginato solo su di sè. Era buffa in quella giacca troppo larga, buffa in un modo adorabile, e lui decise di stare al gioco e indossare la sua felpa. Poi le passò il factotum e tornò ad attivare il suo. Si abbracciarono, coprendosi con le lenzuola, e chiusero entrambi gli occhi, le mani sovrapposte, le dita intrecciate.
“Devo confessarti una cosa, Siha”, disse lui all’improvviso, facendosi spazio tra i suoi capelli.
Lei fu sorpresa di sentire di nuovo quella parola, a cui probabilmente aveva attribuito un significato sbagliato. “Cosa?”, gli domandò, “Mi dirai cosa significa siha?”, sorrise curiosa.
“No, per quello c’è tempo”.
“Allora cosa?”
“Conosco la tua lingua, anche senza traduttore”.
Lei lo colpì scherzosamente con un gomito, arrossendo come un’adolescente. “Ti odio”.
“Anche io amo i tuoi colori”.
“Sta’ zitto”, rise lei, e lui si sporse a darle un bacio sulla guancia.
Si addormentarono con un enorme sorriso stampato sulle labbra e con l’unico desiderio di risvegliarsi l’indomani, l’uno accanto all’altra, per accertarsi di non aver sognato tutto.




 

Sono tornata alla vita di sempre, per fortuna o per sfortuna, non lo so... ma di sicuro adesso avrò più tempo per dedicarmi alle mie storie.
OMG ancora ricordo perfettamente quanto ho sofferto per questo capitolo. Pomodori everywhere.
Un grazie enorme ad Altariah per questo. Lo amo, lo amo troppo.

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Capitolo 11
*** A Falling Star ***


“Forget this life 
 Come with me
 Don't look back, you're safe now
 Unlock your heart
 Drop your guard
 No one's left to stop you”
 
 (Anywere – Evanescence)

 [x]

 

 
Thane aprì gli occhi nel buio, sfiorando la superficie fresca del materasso con una mano. Non sapeva quanto avesse dormito, ma si sentiva riposato come non gli capitava da tempo. Una notte serena, senza sogni, senza tormenti, la prima dopo tanti anni. Si rigirò, convinto di trovare Shepard ancora addormentata, e invece ciò che vide lo lasciò perplesso. Era appoggiata con i gomiti sul cuscino, la sua giacca che le ricadeva dolcemente lungo i fianchi, lo sguardo perso a guardare l’oblò sul soffitto e un sorriso rilassato sulle labbra. Senza neanche voltarsi verso di lui, iniziò ad indicargli punti invisibili sopra di sè. “Sono milioni e si muovono tutte”, disse, come incantata. Lui corrugò la fronte, incapace di comprendere cosa stesse succedendo. La costrinse dolcemente a voltarsi per guardarlo, ma lei, per tutta risposta, scoppiò a ridergli in faccia.
“Shepard…”
“Le stelle… mi piovono addosso”, disse lei, allungando le braccia di fronte a sé come ad accogliere gocce di pioggia.
“Vado a chiamare la Chakwas”, rispose allora lui senza perdere tempo, facendo per alzarsi. Shepard lo trattenne per la manica della felpa.
“No, no… è tutto sotto controllo”.
“Stai delirando! E’ tornata la febbre?”, le domandò, posandole una mano sulla fronte. Era fresca.
“No, niente affatto”, lei scosse la testa, continuando a sorridere.
“Hai preso qualcosa?”
“Sì”, rise lei.
“Perché ridi? Dimmi cosa sta succedendo, per favore”.
Shepard non poté fare a meno di notare la preoccupazione nel suo sguardo, nonostante le immagini le apparissero distorte e sature di colori, in continua trasformazione. “Promettimi che non ti arrabbierai”, gli disse, ben consapevole di aver omesso dei dettagli che lui avrebbe voluto conoscere.
Lui annuì semplicemente, impaziente di capire il motivo di un simile comportamento.
“Mordin… Lui mi aveva avvisata”, spiegò, portandosi le ginocchia al petto. Nonostante cercasse di restare seria, non riusciva a sbarazzarsi di quell’aria spensierata che la portava a sorridere incontrollabilmente. “Contatto orale può causare allucinazioni”, esclamò, imitando la voce del Salarian. Quell’affermazione, quel tono scherzoso, ebbero tutto l’effetto contrario su Thane, che si rabbuiò immediatamente e si girò brevemente dall’altra parte. “Perché non me lo hai detto?”, le chiese, serrando le mascelle.
“Perché non volevo darti un motivo in più per farti allontanare da me…”
La dolcezza con la quale pronunciò quella frase lo colpì dritto al cuore e lui, dopo un lungo silenzio, si costrinse a voltarsi nuovamente verso di lei, avvicinandosi così che lei potesse trovare spazio fra le sue braccia. Sospirò, gli occhi neri velati da una patina di tristezza e senso di colpa. “Avrei dovuto saperlo, avrei dovuto almeno informarmi”, disse, incrociando le braccia sopra alle sue.
“Non è colpa tua, non avevamo previsto niente di tutto ciò”.
“Questo è vero”. Strofinò una guancia contro i suoi capelli, come avrebbe fatto un gatto in cerca di coccole, e lei si girò a sorridergli. Avrebbe voluto vedere un sorriso anche sulle sue, di labbra, invece di leggere solo tristezza, una tristezza che per un momento le fece riprendere contatto con la realtà.
“Non devi preoccuparti”, gli disse, nel tentativo di rassicurarlo, mentre cercava di ignorare le immagini distorte che, nel frattempo, la sua mente proiettava di fronte a lei.
“Non posso continuare a farti del male”, rispose lui, piano.
“Non dire così… sono sicura che Mordin potrà darmi uno dei suoi rimedi, anche per questo”, sorrise lei, tentando di sdrammatizzare. “E poi non vedo cosa ci sia di male nel fare un modesto uso di sostanze stupefacenti durante il tempo libero”, scherzò.
“Pensi si tratti solo di questo?”, il suo tono di voce cambiò, si fece più duro. Lei non ebbe il coraggio di rispondere, perfettamente consapevole di cosa si celasse dietro alle sue parole.
“Io non ho niente da darti, Siha”.
Quelle parole, che suonarono come una confessione, le fecero male, in un modo che strideva ampiamente con la sua attuale condizione mentale. Era difficile focalizzarsi su un discorso, razionalizzare, in una situazione dove tutto era confuso e fantasia e realtà si mescolavano insieme, regalandole immagini e sensazioni che sfioravano l’assurdo. Si sforzò di concentrarsi, sbattendo le palpebre più volte. “Pensi di non avermi già dato abbastanza? Pensi che questo non sia abbastanza?”, replicò con quel briciolo di lucidità rimastole.
“Un giorno questo non ti basterà. I ricordi non possono sostituire la realtà”.
Lei non volle rispondere. No, sapeva perfettamente che i ricordi sarebbero stati solo una misera consolazione, ma non spettava a lui decidere cosa e quanto le sarebbe bastato. Si voltò verso di lui, nel tentativo di raggiungere le sue labbra e interrompere quel discorso senza senso, ma lui si scostò, l’espressione contrariata.
“Perché?”, gemette.
“Non è giusto. Mi hai dato più di quanto io avessi mai sperato, Shepard… E io ti ho ricambiato solo con il mio egoismo”, rispose lui, accarezzandole lentamente i capelli.
“Sarò pure strafatta come un pyjak imbottito di sabbia rossa, ma so riconoscere quando qualcuno dice una stronzata…”
“Perché ti ostini a non capire?”
“Cosa, cosa vuoi che capisca? Spiegami”.
“Io sto morendo, Shepard”.
 
La prima volta che aveva pronunciato quella frase, l’aveva fatto con lo stesso tono di qualcuno che ti porta distrattamente il conto del caffè al bar. Era stata una frase vuota, priva di spessore, per niente diversa da una qualunque altra frase di circostanza. Adesso, nel permettere che quelle parole lasciassero le sue labbra, gli sembrò di compiere uno sforzo disumano e fu in quel preciso istante che si rese conto di quanto fosse profondamente cambiato nel giro di qualche settimana.
“Lo so, Thane”.
E lei pronunciò quelle parole con lo stesso dolore, con la difficoltà di un imputato che cede all’interrogatorio e presenta la propria, terribile, confessione davanti alla corte marziale.
“E’ la prima cosa che mi hai detto, non l’ho dimenticato”, aggiunse poi, quasi con rabbia.
“Allora perché?”
“Dannazione, Thane… cosa vuoi sentirti dire?”, esclamò, senza riuscire a pensare a qualcosa di più sensato. Calò il silenzio dopo quella domanda. Un silenzio frustrante, forse più frustrante della domanda in sé. E mentre le loro parole avevano tutto il sapore del distacco, le loro mani non smettevano di cercarsi e di stringersi, come se appartenessero a qualcun altro.
Quello che si era lentamente insinuato fra di loro li aveva lasciati inermi e storditi, senza dare loro neppure il tempo di riflettere, di accettare o eventualmente respingere ciò che stava accadendo, come un fiume in piena, pronto a travolgerli completamente… e lei non aveva idea di quando la corrente si sarebbe fermata, non sapeva se li avrebbe gettati da un precipizio o accompagnati dolcemente a riva. E questo faceva paura.
 “Sono stata morta per due anni…”, sussurrò poi lei, quasi a voler parlare con se stessa, “…e tu mi hai fatto sentire viva dopo tanto tempo. Tu mi fai sentire viva”. Questa era l’unica cosa di cui era certa.
Lui la strinse maggiormente fra le sue braccia, scostandole una ciocca di capelli dal viso. “A che prezzo, Siha?”
Ad un prezzo troppo alto…
“Non sono una stupida, dannazione. So cosa posso sopportare”.
“Ma io non posso sopportarlo”, scandì lui lentamente.
“Allora perché sei qui, Thane?”, gli domandò lei irrigidendosi.
Se solo l’avesse saputo... Era stata una forza estranea a condurlo da lei, qualcosa che la razionalità non era riuscita a mettere a tacere. Qualcosa già provato tanti anni prima, quando aveva deciso di far entrare nella sua vita uno spiraglio di luce in grado di illuminare l’oscurità che lo aveva sempre avvolto. E perderlo, quello spiraglio di luce, l’aveva fatto ripiombare nel buio più fitto. Non voleva questo per lei, non voleva rivedere se stesso nei suoi occhi, quel se stesso distrutto e scoraggiato che da qualche giorno non riusciva più a riconoscere, ma che sapeva essere ancora lì da qualche parte.
“C’è una specie di pesci su Kajhe…”, iniziò a raccontarle con calma, “…nessuno sa perché, ma sono terribilmente attratti da una varietà di corallo che emana scariche elettriche al contatto. Alcuni dicono che siano attratti dal colore, un rosso intenso e brillante, capace di essere avvistato a metri di distanza anche nelle profondità dell’oceano. La scarica che producono è sufficiente per uccidere istantaneamente un esemplare adulto, eppure i pesci continuano a cercare il corallo, instancabilmente. Non c’è logicità in tutto questo”, concluse scuotendo lentamente il capo.
“Io non ho bisogno di logicità”.
“Il peso che porti sulle spalle è troppo grande, Shepard… Non hai bisogno di un altro fardello”, disse lui, sfiorando con le mani le sue braccia, risalendo fino alla base del suo collo.
“Va bene…”, sbuffò lei, allontanandosi per interrompere il contatto, “ho capito cosa stai tentando di dirmi e francamente, anche se non condivido, posso capirti. Solo… non provare a dirmi cosa è giusto per me. Tu… tu neanche mi conosci”.
E mentre i muri si scioglievano intorno a lei, come fossero piccole cascate d’acqua, si costrinse ad alzarsi, spogliandosi della sua giacca, e andò a chiudersi in bagno. Non aveva senso continuare una discussione del genere in quelle condizioni, così come non si sarebbe mai lanciata in una missione senza essere perfettamente lucida. La parete alla quale si appoggiò stancamente le sembrò più fredda del solito, quasi ghiacciata. Controllò brevemente la ferita al fianco ed ebbe l’impressione che stesse sanguinando di nuovo, di un sangue viola, poi rosso, poi blu scuro, ma non era reale… niente di tutto quello che stava vedendo era reale… niente, a parte le dolorose parole che lui le aveva detto. Le uniche che avrebbe voluto davvero dimenticare.
 
 
 
 
Perché?
Continuava a ripetersi nel silenzio della sua cabina, chissà quanti minuti dopo. Si era buttata sul letto a pancia in su, con i capelli ancora bagnati, cercando disperatamente di trovare un senso in quello che era successo. Le stelle avevano smesso di pioverle addosso, i muri erano tornati ad avere forma solida e la ferita sembrava perfettamente richiusa come ricordava, ma tutto il resto, tutto quello che si erano detti non era scomparso.
Perché?
 Forse, dopotutto, l’Uomo Misterioso non aveva avuto tutti i torti a ricordarle quale fosse il suo compito e quali fossero le sue priorità. Ricordarle… come se ci fosse stato bisogno. Ma sì, probabilmente sarebbe stato più facile in questo modo… Rispondere agli ordini, vivere alla giornata, mettere a tacere gli incubi con un paio di pillole, non farsi domande, andare avanti senza mai guardarsi indietro, chiudere tutte le emozioni in una cassaforte e buttare via la chiave. Pazienza se due anni della sua vita erano già passati senza che lei ricordasse niente, pazienza se adesso si ritrovava viva per il volere di qualcun altro, pazienza se l’Alleanza le aveva sbattuto la porta in faccia senza pensarci due volte, pazienza se Kaidan l’aveva additata come una traditrice, pazienza se adesso era costretta a lavorare per Cerberus, la stessa dannata Cerberus di Akuze. Pazienza…
Si girò sul fianco, rannicchiandosi fra le lenzuola sgualcite. La sua felpa era piegata con cura, appoggiata accanto al cuscino. Se chiudeva gli occhi, riusciva ancora a sentire chiaramente il suo odore.
Di cosa ho bisogno, io?
Quella domanda l’aveva perseguitata da quando ne aveva parlato con lui una sera di tanti giorni prima. Credeva di aver trovato la risposta, lì, in quello stanzino buio e polveroso che l’aveva vista fare a pugni con il mondo in attesa che qualcuno la salvasse, in attesa che qualcuno le ricordasse che lei è Umana, che anche lei ha il diritto di piangere, il diritto di sbagliare, il diritto soffrire e soprattutto, il diritto di essere felice. Credeva di averla trovata nei suoi occhi, nelle sue labbra, nella curva della sua schiena, nelle sue mani, nella sua voce… E adesso faceva male la paura che quel bisogno sarebbe rimasto per sempre inappagato, anche se ogni atomo del suo corpo la implorava di non arrendersi… perché se lei meritava di essere felice, lui meritava di esserlo di più.
 
 
 
La giornata passò più lentamente del solito, fra medicazioni, scartoffie e rapporti da leggere e inoltrare. Shepard non si era concessa più un solo momento per riflettere in pace su ciò che era successo, avrebbe avuto tempo. Adesso sentiva solo il bisogno di scrollarsi di dosso quella sensazione di impotenza e confusione che la spossava completamente. Voleva solo tornare ad essere il Comandante, con la stessa intensità con la quale, poche ore prima, aveva voluto liberarsi di quel titolo anche solo per un momento. Mancava poco all’arrivo su Bekenstein e nonostante non avesse ancora avuto modo di parlare direttamente con Kasumi della missione, le era bastato il benestare della Chakwas, a patto che non si strapazzasse troppo. Convocò la ladra in sala briefing e aspettò di sentire il suo piano.
“Quello che sto cercando è in mano ad un potente uomo d’affari, Donovan Hock… criminale e assassino nel tempo libero, inarrivabile e intoccabile secondo molti”, iniziò a illustrarle, facendo scorrere diverse immagini sul suo factotum.
“Umh…”, mormorò Shepard, dando un’occhiata alle prime informazioni.
“Non preoccuparti, ho già pensato a tutto. Se saremo fortunate, non ci sarà neppure bisogno di ricorrere alle armi”.
“E io che credevo di tornare subito in azione…”, sorrise.
“Oh, sono sicura che quella non mancherà nei giorni a venire”, rispose Kasumi appollaiandosi sul tavolo ovoidale.
“Allora… spiegami cos’hai in mente”.
“Hock ha organizzato una festa in grande stile in una delle sue proprietà su Telmum. Ci sarà gente ricca, politici, persone con una certa reputazione. Tu dovrai semplicemente infiltrarti”.
“Dovrei infiltrarmi? Kasumi, fra le tante persone temo tu abbia scelto quella sbagliata…”, rise.
“Non preoccuparti, io ti coprirò le spalle e ti guiderò passo passo. Si tratta solo di bypassare la sicurezza e penetrare nel suo caveau”.
“Roba da poco, insomma”, ironizzò. “Non mi hai ancora detto cos’è quello che stai cercando”.
“La greybox del mio partner. E’ un impianto neurale, contiene ricordi, informazioni, dati…”, rispose lei, chinando leggermente il capo.
“Dimmi di più”.
“Io e Keiji lavoravamo ormai insieme da tempo quando lui è venuto a conoscenza di certe informazioni. Non sono mai arrivate in mio possesso, ma so solo che sono molto pericolose e vanno recuperate”, sospirò piano, facendo una breve pausa. “E’ stato ucciso per questo, Shep. Da Hock in persona”.
Dal modo in cui ne parlò, dal suo tono di voce, lei ebbe l’impressione che non si trattasse soltanto di un semplice collega, ma non si azzardò a chiedere di più e aspettò pazientemente che continuasse.
“Ho preso una camera d’hotel a nome di Alison Gunn, un bell’abito da cocktail, un paio di scarpe e mi sono presa la libertà di crearti una reputazione. Sarai proprio il tipo di persona che piace a uno come lui. Solo… non metterti a parlare di affari”, disse, facendo l’occhiolino.
“Un momento… tu vuoi che io faccia l’infiltrata alla festa come ospite?”
“Precisamente”.
Shepard si portò una mano a coprirsi il viso in un gesto di estrema frustrazione.
“Oh, andiamo… si tratta solo di indossare un paio di tacchi e sorseggiare champagne”, la spronò Kasumi.
“E’ proprio questo che mi preoccupa…”
“Andrai benissimo, ne sono sicura”.
Shepard le rivolse un’occhiata scettica mentre lei le porgeva una valigetta di modeste dimensioni. “Qui c’è tutto quello di cui avrai bisogno. Ho anche preparato alcuni argomenti di conversazione, nel caso in cui dovessi restare a corto di idee”.
“Bene”, sbuffò Shepard. Dopodiché si lasciarono e si diedero appuntamento sul ponte di comando per quando la Normandy sarebbe attraccata finalmente su Bekenstein.
 
 
 
“Dannazione”, mormorò Shepard, dopo l’ennesimo tentativo di infilarsi quel vestito troppo stretto e troppo corto che sembrava la ladra avesse scelto per dispetto. Si trovava già nella camera d’albergo che Kasumi aveva prenotato per lei, una stanza al cinquantesimo piano di un edificio a dir poco futuristico che si affacciava sulla città brulicante di persone, astroauto e luci colorate. Passare da una nave militare a una situazione del genere era piuttosto strano e lei non si sentiva affatto a suo agio. Si guardò allo specchio, storcendo il naso, e iniziò a legare i capelli in uno chignon alla meno peggio.
“Shepard… andiamo, se non vuoi dare nell’occhio devi almeno sbarazzarti di quelle cicatrici e di quell’aria da cane bastonato!”, esclamò Kasumi uscendo dalla porta del bagno. “Vieni, ci penso io”, le disse, avvicinandosi minacciosamente con del fondotinta in mano.
Shepard la guardò in cagnesco, strizzando gli occhi come se si stesse preparando a ricevere un pugno in faccia. Kasumi si fermò a guardarla sorridendo mentre incrociava le braccia e aspettava di ricevere collaborazione. “Se preferisci possiamo piazzare una ventina di cariche esplosive e occuparcene alla vecchia maniera”.
“Affare fatto!”, esclamò Shepard con gli occhi che brillavano.
Kasumi sbuffò, scuotendo lievemente il capo. “Avanti… fammiti sistemare, Comandante. Siamo già in ritardo e quella maledetta statua è arrivata prima di noi…”
“Una statua?”
“Il tuo regalo per Hock. Un gigantesco Saren in marmo bianco. Non chiedermi come l’ho avuta”.
“Mi prendi in giro?”
“Affatto. E, per la cronaca… non perderla di vista, ci ho nascosto dentro la tua armatura”.
Shepard sfoderò un sorriso a trentadue denti mentre Kasumi tentava di ricoprire le cicatrici con abbondanti strati di trucco.
“Mi auguro che non ci sarà bisogno di usarla…”
“E’ una brutta cosa che io mi auguri il contrario?”
“Non ti rispondo nemmeno”, sorrise lei, continuando imperterrita nel suo lavoro.
 
Una decina di minuti dopo, Shepard comunicò a Kasumi di essere finalmente pronta, mentre finiva di assicurare saldamente la Predator alla coscia destra. “Qualche problema se la porto?”
“No, tienila pure. Non dovrebbero farti storie finchè la terrai nascosta”.
“Perfetto”.
“Vogliamo andare?”
“Sono pronta”, rispose lei, tirando nevroticamente l’orlo del vestito verso il basso.
“Rilassati Shep, stai benissimo. Dovresti indossare più spesso questo genere di cose”, sorrise Kasumi, richiudendosi la porta alle spalle.
“Ah, si? E quando?”
“Beh, in licenza magari. Non ti mancano quelle piccole cose di una vita normale? Che so, andare fuori a cena, decidere di passare l’intera giornata a letto a mangiare gelato davanti a un olofilm…?”
“Non ce l’ho mai avuta una vita normale, io… e quella che ho non mi dispiace”, sorrise Shepard, chiamando l’ascensore. “Ma devo ammettere che ogni tanto mi chiedo cosa ne sarebbe stato di me se non fossi entrata nell’Alleanza”.
“In un modo o nell’altro saresti arrivata qui… non riesco a immaginarti in nessun’altra veste, Shepard. Hai un grande potere sugli altri, anche se forse non te ne accorgi. Nessun altro avrebbe potuto guidare una missione come quella per cui ci stiamo preparando”.
Shepard sorrise timidamente, mentre l’ascensore continuava la sua discesa verso il basso. “Non è sempre un vantaggio”.
“Beh, fai in modo che lo sia”, ammiccò Kasumi.
Il taxi le aspettava già sotto, al primo piano dell’Hotel, e quando le due donne diedero istruzioni al tassista su dove andare, quello se lo dovette far ripetere tre volte prima di decidersi a mettere il veicolo in moto. “Siete sicure, signore?”, aveva balbettato con la fronte sudata. Kasumi l’aveva rassicurato con un ampio sorriso ed erano partite.
 
 
 
La tenuta di Hock superava ogni aspettativa. Parlare di lusso sarebbe stato riduttivo di fronte ad un simile capolavoro di architettura e Hock stesso ne andava visibilmente fiero, muovendosi con un’andatura spavalda e sicura di sé, quasi fosse stato il padrone dell’intero Bekenstein. Aveva salutato Shepard freddamente, senza neppure sprecarsi a ringraziarla per la maestosa statua che, a quanto pare, era un omaggio dovuto, più che gradito. “Faccia come se fosse a casa sua”, le aveva detto con uno strano accento, e Shepard aveva sentito Kasumi ridacchiare nell’auricolare.
Una volta dentro iniziò a girarsi intorno, destreggiandosi fra camerieri impettiti che insistevano affinchè prendesse da bere e da mangiare, e ospiti che avevano apparentemente una voglia matta di chiacchierare con una sconosciuta. Chissà come, si ritrovò persino a discutere animatamente di economia e politica con una coppia di altezzose Asari, addentando un’insipida tartina al caviale, mentre nell’altra mano reggeva un bicchiere colmo di champagne.
 “Shep, dobbiamo trovare il caveau”, le ricordò Kasumi dopo un’abbondante mezz’ora di chiacchierata, e a quel punto lei dovette congedarsi gentilmente e iniziare il primo giro d’ispezione. “Grazie Kasumi, mi hai salvata”, sussurrò allontanandosi.
“Non dire idiozie, ho sentito che ti stavi divertendo”, bisbigliò la ladra maliziosamente.
“Si, come no”, rispose Shepard coprendosi la bocca con una mano, mentre un Umano sulla sessantina le strizzava l’occhio qualche metro più in là. “Ti prego, facciamola finita. Ne ho abbastanza di questa feccia”, fu l’ultima lamentela prima di riprendere il giro.
Trovare l’entrata del caveau non fu difficile e neanche troppo sospetto. Si trovava sotto una stupenda cascata di cristalli che ostentavano ricchezza da ogni sfaccettatura, come d’altronde ogni angolo di quella tenuta. Una volta giunta davanti all’entrata, Kasumi si materializzò dal nulla, facendola sussultare. “Ok, adesso abbiamo solo bisogno di un’impronta vocale, frammenti di DNA, una password, e un modo per abbattere le barriere cinetiche”, disse sorridendo.
“Solo?”.
 
 
Un’ora dopo, a dispetto di ogni aspettativa, Shepard e Kasumi si ritrovarono all’interno del caveau, equipaggiate di tutto punto.
“Vedi, te l’avevo detto… ci voleva solo un po’ di pazienza”, sorrise la ladra, iniziando a farsi strada fra reperti archeologici e opere d’arte.
“Sì, e intanto si è fatta notte. Dai, cerchiamo questa greybox e andiamo via prima che se ne accorgano”, rispose Shepard, incuriosita dalla gigantesca testa della Statua della Libertà che troneggiava alla fine della sala. “Si trovava sulla Terra questa, vero?”
“Già… Peccato sia troppo ingombrante da portare via, altrimenti ci avrei fatto così tanti soldi da comprare l’intera Normandy e tutto il suo equipaggio”.
“Potresti metterti in affari con Jack, anche a lei è venuta la malsana idea di iniziare a fare la piratessa dello spazio… con la mia nave”.
Kasumi ridacchiò, avvicinandosi con aria circospetta a una delle numerose teche di vetro rinforzato ai margini dell’enorme sala.
“Ci siamo. Eccola”, disse, trattenendo il respiro. Poggiò le mani sulla teca, come per accarezzarla. “Una cosa così piccola può contenere tutti i ricordi di un individuo…”, sussurrò, mentre Shepard la raggiungeva.
“Keiji era più di un semplice socio in affari per te, vero?”, si azzardò a domandarle.
Kasumi si voltò a risponderle, quando improvvisamente apparve un gigantesco ologramma di fronte a loro. Il ghigno di Donovan Hock illuminò la sala in penombra. Le due donne si scambiarono uno sguardo fugace, prima di impugnare le armi.
“Non ti disturbare, Miss Goto. E’ protetta”, disse Hock, mantenendo un tono di voce calmo e piatto. “Avevo la sensazione che ci fossi tu dietro tutto questo, ma non credevo avresti osato fino a questo punto”.
“Se mi conosci davvero, avresti dovuto aspettartelo”.
“Il contenuto della tua greybox mi serve, Miss Goto. E sai che sono più che disposto a ucciderti, se servirà”.
“Sì, le tue qualità sono sorprendenti”, continuò, “ma morirai esattamente come il tuo vecchio amico, se ancora ti ostini a metterti contro di me”.
Shepard diede un cenno d’intesa a Kasumi, e nello stesso momento sparò un colpo alla prima statua che le capitò sottomano. “Non hai idea delle persone che ti sei messo contro, Hock”, disse, roteando la pistola in mano con noncuranza.
“Maledette! Uccidetele!”, furono le ultime parole di Hock prima che una squadra d’assalto Eclipse facesse prontamente irruzione nel caveau dall’entrata posteriore, cogliendole di sorpresa.
“Prendi quello che devi prendere e filiamocela da qui il più presto possibile”, esclamò Shepard attraverso il comunicatore, mentre trovava copertura. “Joker, ci serve una navetta, adesso!”
I mercenari erano numerosi e ben equipaggiati. Sarebbero state solo loro due contro una dozzina di nemici, almeno all’inizio. Shepard cercò di non pensare al dolore pulsante della ferita al fianco che minacciava di riaprirsi da un momento all’altro e cominciò a farsi strada eliminando un mercenario dopo l’altro.
Prima di riuscire a trovare l’uscita per il cortile posteriore passò almeno un’ora, dove inaspettatamente dovettero affrontare anche dei mech pesanti ai quali non erano preparate.
“Quanto cavolo è grande questo posto?”, aveva chiesto alla ladra.
“E’ un trafficante d’armi, Shepard. Ha bisogno di spazio”, aveva risposto Kasumi, indicandole l’uscita. “Ecco, ci siamo… ti copro le spalle”.
Una volta fuori, una scarica di proiettili rischiò di centrarle in pieno, sparata da un piccolo velivolo di fattura militare, pilotato da Hock in persona.
“Si mette male. Joker, non avvicinarti se prima non lo abbiamo tolto di mezzo”, urlò Shepard sopra il rumore assordante del vento, prima di estrarre il lanciamissili, mentre Kasumi teneva a bada la restante parte degli Eclipse.
“Un razzo, dannazione! Scudi a zero… coprimi!”, esclamò, schivando di striscio il colpo.
“Shepard, sono troppi… non resisteremo a lungo”.
“Continua a sparare!”, rispose lei lanciando un altro missile in direzione del velivolo. “Non funziona, continua a ricaricarsi gli scudi!”, constatò poco dopo.
“Ci penso io Shepard”.
“Kasumi, dove vai?”, urlò lei, sporgendosi appena dal riparo. La ladra era scomparsa, per riapparire un’istante dopo sulla balconata sopra di loro, pronta ad avventarsi sul mezzo di Hock a mani nude. Shepard trattenne il fiato, mentre la teneva d’occhio cercando di evitare il fuoco nemico. Se qualcuno gliel’avesse raccontato, lei non ci avrebbe mai creduto… Kasumi era riuscita a mettere KO le barriere cinetiche del mezzo senza farsi ammazzare, ritornando sulla terraferma con un balzo degno di una pantera.
“Potevi restarci secca!”, la rimproverò Shepard attraverso il comm., spazzando via l’ultimo paio di mercenari con una potente onda d’urto.
“So quello che faccio, Shep. Altrimenti non sarei nella tua squadra, ti pare?”, rispose lei ammiccando, mentre trovava nuovamente copertura.
Da lì in poi fu un gioco da ragazzi sbarazzarsi di Hock e i suoi mercenari. Joker le aspettava impaziente nei paraggi e ad un cenno di Shepard si fiondò a raccoglierle.
 
 
 
Una volta salite a bordo, entrambe si diressero spedite verso l’Osservatorio, ignorando chiunque incrociasse il loro cammino. Shepard si liberò di una parte dell’armatura per controllare brevemente la ferita e Kasumi prese a rigirarsi la greybox fra le mani, caduta improvvisamente in un inusuale silenzio. Shepard le si avvicinò, porgendole un dispositivo capace di mettere in funzione l’impianto. Si guardarono brevemente, trattenendo il fiato.
“Ho paura, Shep”, confessò la ladra con voce rotta.
“Tu lo amavi… non è così?”, si decise a chiederle lei, dopo una lunga pausa.
“Io lo amo. E questo e tutto ciò che mi rimane di lui”.
Shepard sentì un brivido correrle lungo la schiena e la guardò con compassione.
“Sai, forse ti sembrerà strano per una come me… abituata a fuggire, a nascondermi, a non avere un volto né un nome, ma sognavo di sposarlo un giorno”, sorrise, volgendosi a guardare attraverso il finestrone che rivelava un bellissimo tramonto. “Avremmo cambiato identità, ci saremmo trasferiti in una pacifica colonia ai margini della galassia… avremmo piantato insieme un albero di ciliegio in un angolo del giardino. Chissà, forse fra vent’anni, mi dicevo, convinta di avere tutto il tempo del mondo… Ci piaceva il rischio, l’ebbrezza di mettere a segno un colpo impossibile, ma col tempo parlavamo sempre più spesso di iniziare a fare cose normali, vivere come la gente comune… Non gli ho mai detto che conservavo questo desiderio nel mio cuore”.
“Io… non so davvero cosa dire…”. Shepard si strinse nelle spalle, avvicinandosi a lei lentamente.
“Non è necessario. So che puoi capirmi”.
Lei annuì, poggiando delicatamente una mano sulla sua spalla.
“Vuoi restare da sola?”, le domandò, porgendole il dispositivo.
“No. Resta, per favore”, rispose lei collegando la greybox.
 
Nei successivi minuti a venire, Shepard restò a guardarla mordendosi nervosamente le labbra, mentre Kasumi faceva i conti con quella scatola piena di ricordi, emozioni, sensazioni e immagini tanto reali nella sua mente, tanto invisibili all’esterno. La vide abbracciare il nulla di fronte a se, versando una lacrima troppo dolorosa da trattenere, la vide parlare… supplicare il fantasma di un uomo morto di restarle a fianco e lei non riuscì a non pensare a Thane. Anche lei avrebbe sofferto così? Anche lei avrebbe finito per nutrirsi dei ricordi, scavando giorno dopo giorno nel vuoto della propria anima?
“Scusami, Shep”, mormorò Kasumi asciugandosi le guance, mentre le riconsegnava il dispositivo. Shepard le fece cenno di non preoccuparsi e si sedette, pronta ad ascoltarla.
“Ha detto che queste informazioni potrebbero minare persino la sicurezza dell’Alleanza se finissero nelle mani sbagliate. Io stessa sarei in pericolo a conservarle. Non… non ho idea di cosa fare. Mi ha chiesto di disfarmene, ma non ci riesco… Questo è tutto ciò che ho di lui”, spiegò con voce incrinata. “Non posso distruggerla, Shepard…”
“Non c’è un modo di conservare i ricordi ed eliminare le informazioni scomode?”
“Purtroppo no…”
“Non ti chiederò di distruggerla, Kasumi. Se vuoi tenerla, sappi che dovrai imparare a vivere con le conseguenze, ma la scelta può spettare solo a te”.
“Tu che faresti al posto mio?”
Shepard sospirò, passandosi una mano fra i capelli scompigliati. “Non lo so…”
“Avresti la forza di disfarti dei ricordi che ti legano alla persona che hai amato, anche se fosse la cosa più giusta da fare?”
“A volte il confine tra giusto e sbagliato non è così netto… a volte è semplicemente il tempo ad indirizzarci verso la decisione migliore”.
Kasumi incrociò le gambe, poggiando i gomiti sulle ginocchia. “La terrò… per adesso, almeno. So che è solo un’illusione, ma anche solo poter rivedere il suo volto, non so…”
“Non devi giustificarti con me. Solo… fai attenzione. Se lui ti ha chiesto di distruggerla sono sicura che ha avuto le sue buone ragioni”.
“Lo so, Shep…”, mormorò Kasumi mentre Shepard era in procinto di alzarsi per lasciare la stanza. “Senti, so che potrà sembrarti una richiesta assurda, ma… non hai idea di quanto sia costosa quella suite che ho prenotato in Hotel ed è ancora tua fino a domani”, continuò, catturando la sua attenzione.
“Cosa stai tentando di dirmi?”, rispose lei, sollevando un sopracciglio.
“Ti va di uscire, stasera? Siamo in libera uscita fino a domattina, no? E poi non hai visto il ristorante al primo piano… si mangia da dio!”
Shepard non riuscì a dire di no a quel sorriso così sincero e alla fine si fece convincere persino ad uscire col vestito elegante che Kasumi le aveva regalato, sicura che una serata tranquilla in compagnia di un’amica non le avrebbe fatto di certo male.
 
 
 
 
Kasumi non aveva avuto tutti i torti a consigliarle quel posto. Avevano mangiato divinamente, a dispetto dell’iniziale pregiudizio di Shepard nei confronti della “cucina molecolare”. Poi si erano dirette al bar, ordinando una coppia di drink estremamente costosi ed estremamente alcolici, serviti da un barista che sembrava uscito da una rivista di moda.
“Non posso credere che mentre noi viaggiamo a bordo di una nave militare per salvare intere colonie umane, in posti come questo l’unica preoccupazione della gente è scegliere il colore della propria cravatta in abbinamento al vestito”, si lamentò Shepard, sorseggiando lentamente il cocktail.
“Oh, ma noi ci divertiamo molto di più”, sorrise Kasumi. “Quanti di loro possono dire di far parte di una squadra composta dagli alieni più pericolosi dell’intera Galassia? E soprattutto, quanti di loro possono dire di essere il loro Comandante?”
“Stai cercando di lusingarmi, Kasumi?”
“Per niente, è solo la verità. E poi so che il tuo cuore appartiene già a qualcun altro”, ammiccò con aria divertita. “A proposito, non mi hai fatto sapere se hai gradito il mio regalo di compleanno”.
Shepard rischiò seriamente di strozzarsi, prima di riuscire a formulare una frase di senso compiuto.
“Da quando la mia vita privata è diventata di dominio pubblico?”, domandò con aria fintamente seccata.
 “E chi ha parlato di dominio pubblico? La mia era solo una domanda innocente”.
Shepard sorrise, scuotendo il capo con rassegnazione.
“Vado un attimo alla toilette, faccio subito”, disse poi Kasumi, lanciando una manciata di crediti sul tavolo. Shepard restò a fissarli, gustando lentamente la bevanda, poi capì. “Dannatissima ladra da quattro soldi…”, sussurrò tra sé e sé. “Scommetto che si è dileguata per uno dei suoi furti”.
Si guardò intorno, sentendosi improvvisamente fuori posto. Non c’era nessuno, in quell’ampia sala, che non si stesse divertendo in compagnia di qualcuno. Le riusciva incredibile credere che fuori imperversavano le guerre, mentre qui era tutto così pacifico e tutti vivevano in una lussureggiante bolla d’oro. Scese dallo sgabello, avvisando il barista che chiunque avesse cercato Alison Gunn l’avrebbe trovata in giardino, e si avviò fuori col suo bicchiere in mano.
 
L’aria era fresca, profumava deliziosamente di agrumi, e una leggera brezza faceva ondeggiare le lunghe palme che si innalzavano dal prato curato fino a toccare le stelle. Tutt’intorno piccoli arbusti potati con cura costeggiavano un percorso scavato nella ghiaia fine, come un fiume che si faceva strada fra le montagne. Sulla sinistra, invece, un piccolo ruscello artificiale s’insinuava negli spazi liberi, ospitando delle bellissime carpe koi che facevano capolino fra le ninfee. L’unica fonte luminosa era quella proveniente da piccole lampade a terreno che sbucavano dai cespugli, facendo risaltare le sfumature delicate dei fiori che sembravano usciti direttamente da un dipinto impressionista. Non c’era mai stata, ma quel giardino le ricordava proprio quel Giappone visto solo in fotografia… ecco perché Kasumi aveva scelto quel posto. Continuò a camminare lungo il sentiero finchè non arrivò su un piccolo ponte di legno, e a quel punto decise di sfilarsi finalmente i tacchi e godere dello stupendo panorama che si apriva di fronte a lei. Il cielo… poche volte le era capitato di vederlo così scuro, così terso e limpido, se non nelle profondità dello spazio. Appoggiò un braccio alla ringhiera e con l’altro continuò a bere il suo drink, mentre gli occhi scrutavano a fondo le meraviglie che quell’orizzonte le stava regalando. Una folata di vento e si ritrovò addosso un bigliettino, uno di quelli pubblicitari, scritto in galattico standard. C’era una rosa blu e un numero di telefono. “Il lavoro ti stressa? Hai bisogno di una vacanza indimenticabile?”, recitava lo slogan. Shepard sorrise sbuffando, lasciandolo di nuovo in balia del vento. Pensare ad una vacanza sarebbe stato assurdo, quando la sua principale preoccupazione era se fossero sopravvissuti alla missione. Rabbrividì, dopo l’ennesima folata di vento, e nello stesso momento sentì qualcosa di freddo e pesante coprire con delicatezza  le sue spalle.
“Alison Gunn?”
Lei si voltò con un sorriso imbarazzato sulle labbra “Ehi… che ci fai qui?”
Thane si appoggiò alla ringhiera, osservando le luci tremolanti della città che coloravano l’orizzonte.
“Kasumi mi ha detto che volevi parlarmi”.
“Kas… cosa? No, non è vero”.
“Suppongo si sia sbagliata, allora”.
“Oh, no… non credo proprio. E’ sparita giusto poco fa, in circostanze sospette”, sorrise lei, giocando con una ciocca di capelli.
Thane rise brevemente, prima di voltarsi a guardarla. “Ti lascio da sola se preferisci”.
Shepard sospirò, sporgendo un piede fino a toccare con la punta delle dita l’acqua del ruscello. “E’ stupendo questo posto, non trovi?”, domandò, ignorando deliberatamente la sua offerta.
Thane annuì, sorridendo lievemente. Era la prima volta che la vedeva in un contesto diverso da quello militare e la trovava semplicemente bellissima. “Mi dispiace per stamattina”, le disse sinceramente.
“Per cosa? Solo perché non la pensiamo alla stessa maniera o non vogliamo le stesse cose? Non hai niente di cui dispiacerti”, rispose lei, ritirando il piede dall’acqua.
“Ho voluto che tu capissi le mie ragioni senza essere stato onesto fino in fondo, e questo non mi fa onore”.
Shepard diede l’ultimo sorso al suo cocktail, prima di poggiare il bicchiere di cristallo sul bordo della ringhiera. “Sono qui, se vuoi parlarne”.
Lui raccolse le sue scarpe da terra e con un rapido movimento la prese in braccio, portandola sulla panchina più vicina. Shepard rise di gusto per quel gesto inaspettato, reggendo saldamente la sua giacca sulle spalle.
“Vuoi ascoltare la mia storia, Siha?”, le domandò.
“Prima però toglimi una curiosità”, gli disse lei, una volta seduti. “Cosa vuol dire Siha?”
Lui sorrise, guardandola dolcemente. “Ci arriverò tra poco”, rispose, passando un braccio intorno alle sue spalle.
“Non ti ho mai parlato della mia vita, Shepard… e tu d’altra parte non mi hai mai forzato a farlo”.
“Credevo che l’avresti fatto al momento opportuno”.
“E ho apprezzato molto la tua pazienza”, rispose lui.
“Avevo una moglie, una volta. Si chiamava Irikah”, le disse, abbassando lo sguardo. Shepard annuì.
Il puntatore laser trema sul suo cranio, spezie nella brezza di primavera, nel mirino, occhi come tramonto”.
“Era lei?”, domandò Shepard alla fine di quel ricordo.
“Sì. Aveva visto il laser del mio fucile puntato sulla vittima e si era gettata tra me e l’obiettivo, senza pensarci due volte… Lei non mi aveva visto, ma io ricordo bene il suo sguardo”.
“Cosa successe poi?”
“Per un momento avevo creduto che si trattasse della dea Arashu in persona. Sentii che dovevo conoscerla. Lei… mi aveva risvegliato. In qualche modo riuscii a trovarla, poi a contattarla. Quando capì chi ero ne fu indignata, ma non mi respinse. Si sforzò di conoscermi, di capirmi… poi, col tempo, riuscì anche a perdonarmi ed infine ad amarmi. Lei mi mostrò una vita completamente diversa da quella che conoscevo”.
“Morì per colpa mia”, continuò. “Ero sempre fuori per lavoro, sicuro che lei e Kolyat non avrebbero corso rischi. Fino a quel giorno… Da quel momento affidai Kolyat alle cure dei suoi zii e io partii alla ricerca degli assassini di Irikah. Lei era morta al posto mio, e io non riuscii a perdonarmelo. Ero stato addestrato a uccidere con velocità e precisione, per arrecare meno sofferenza possibile alle mie vittime, ma quella volta… quella volta fu diverso. Non era l’assassino professionista ad uccidere”.
“Chi furono i responsabili?”
“Batarian. Pagarono l’Ombra per trovarmi e togliermi di mezzo, ma avevano paura di affrontarmi direttamente… così uccisero lei”.
“Mi dispiace. Non riesco a immaginare…”
“Dopo la sua morte sono sprofondato nuovamente nel torpore della battaglia. Era il mio corpo a muoversi, ad uccidere… avevo seppellito la mia anima, accettando il mio destino. Volevo tenere Kolyat lontano dalla mia vita, certo che sarebbe stato solo un bene per lui. Uccidere Nassana sarebbe stata l’ultima missione per me, ma qualcun altro la stava cercando e io dovevo essere più veloce di lei”, sorrise.
“Se non fossi stata lì per cercarti…?”
“Sì, probabilmente sarei morto. Ma ho incontrato un’altra Siha. Pochi sono i privilegiati che possono dire di averne incontrata almeno una nella vita”.
“Non mi hai ancora detto cosa significa…”
“Uno degli angeli guerrieri della dea Arashu. Una fiera combattente e tenace protettrice”.
Shepard sorrise, pensando al profondo significato che lui aveva appena attribuito alla sua persona. Non era certa che meritasse davvero quel titolo, ma in qualche modo, si sentì orgogliosa.
“Non vuoi che io passi quello che hai passato tu…”, disse poi, come riflettendo.
“Sei importante per me, più di quanto immagini. In così poco tempo hai cambiato la mia vita, dandomi l’opportunità di ricongiungermi con mio figlio, dandomi uno scopo per continuare a vivere… ma il mio destino è segnato e non voglio che lo sia anche il tuo”, rispose lui, accarezzandole una mano.
“Ho visto morire i miei genitori, Thane. Ero solo una ragazzina… Me li hanno uccisi davanti agli occhi, e insieme a loro tutte le persone che conoscevo su quella colonia. Per anni ho continuato a chiedermi ‘perché loro e non io?’, per anni mi sono chiesta per quale assurdo motivo era toccato a me. Ma non ho mai rimpianto ogni singolo momento passato insieme a loro… Come se non bastasse, è arrivato Akuze. Mi hanno dato una medaglia… e sai per cosa? Per essere rimasta l’unica sopravvissuta di tutta la mia squadra. Sono un militare, so cosa vuol dire fare i conti con la morte. Dannazione, stiamo per lanciarci in una missione suicida e tu vuoi privarti di questo? Dell’unica cosa che davvero…”
Thane la zittì con un bacio sulle labbra, prendendole il viso fra le mani. “No”, le disse, guardandola negli occhi, “ma, in tutta onestà, non so come gestire questa situazione…”
“Non devi per forza capirlo da solo”, rispose lei, allungando una mano per accarezzargli una guancia. “E’ inaspettato anche per me, tanto quanto lo è per te…”
Lui chiuse gli occhi, premendo il suo viso contro il palmo della sua mano. “Vorrei poterti dare di più del tempo che mi rimane”.
Shepard si sporse verso di lui e lo abbracciò, forzandosi a non pensare al terribile significato di quelle parole. La giacca scivolò dalla sua schiena, ricadendo dolcemente sulla panchina e lei sentì il tocco delle sue dita fredde sulla pelle, rabbrividendo. “Sei stato solo troppo a lungo. Anche tu meriti di essere felice”, gli disse piano.
Una stella cadente, di straordinaria luminosità, squarciò il cielo in due, in quel preciso istante. Entrambi si voltarono a guardarla esplodere in quel cielo nero e sorrisero.
“Noi Umani esprimiamo un desiderio in queste circostanze”.
“Davvero?”
“Magari funziona anche con i Drell”, ridacchiò lei, chiudendo gli occhi per un istante. “Fatto!”
“Cos’hai desiderato, Siha?”
“E’ un segreto. Se te lo dico non si avvera”.



 

Enormi difficoltà nella rilettura per via di quella dannatissima canzone, roba che ancora a distanza di settimane ascolto di continuo perchè boh, FEELS.
Sono sicura che state morendo dalla voglia di scoprire che desiderio ha espresso Ann.
E io ve lo dico, sotto suggerimento di Johnee: pesci immortali. Perchè sono l'unica cosa che conta davvero, in tutto Mass Effect.
(♥‿♥)


 

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Capitolo 12
*** Revelations ***


“But I can feel you
 
Chasing me in the dark
 
Wrapped around me
 
Nothing apart
 
And I wanna come home to you
 
I wanna come home to you”

 (Stainache – Emma Louise)

 [x]

 
 
“Signori, con rammarico devo informarvi che stiamo per chiudere quest’area per ragioni di manutenzione”. La voce mortificata di un custode raggiunse le orecchie di Shepard e Thane, che si voltarono come se avessero visto un mutante in carne ed ossa. Avevano passato ore a chiacchierare su quella panchina, raccontandosi molte cose, sicuramente troppe per la memoria di Shepard, ma non per quella di lui. Entrambi annuirono sorridendo e si decisero a lasciare quel piccolo angolo di tranquillità e pace, accettando loro malgrado di ritornare nel mondo reale.
Giusto un secondo prima che Shepard riconsegnasse il codice della sua camera al receptionist, pronta a lasciare l’Hotel, ricevette un messaggio di Kasumi sul suo terminale. Lo aprì senza sapere cosa aspettarsi, ma giurò a se stessa che se la ladra si fosse messa nei guai le avrebbe fatto una lavata di capo da manuale.

Shep, spero di averti lasciata in buona compagnia /smile sorridente/ Sono già sulla Normandy, e mi sono accorta di aver dimenticato una cosa di vitale importanza in camera. Ti prego di riportarmela

“Il suo nome, signora?”, domandò intanto l’addetto alla reception.
“Oh, no, niente… lasci stare. Credo di aver dimenticato qualcosa”, rispose lei frastornata, tentando di non maledire Kasumi in modo plateale. “Ma guarda un po’ che tempismo”, mormorò fra sé e sé.
“Che succede?”, le domandò Thane, avvicinandosi.
Bella domanda.
Era sicura al 99% che la ladra avesse pianificato solo uno dei suoi ennesimi giochetti e fu tentata di mandarla al diavolo e chiamare immediatamente un taxi, ma…
“Kasumi ha dimenticato qualcosa su in camera. Vado a controllare, vieni con me?”, la domanda sfuggì dalle sue labbra prima che potesse anche solo rifletterci seriamente.
“La stessa Kasumi che mi ha contattato per chiedermi di raggiungerti qui, dove avresti dovuto discutere con me di importanti elementi riguardanti la prossima missione?”, domandò Thane con un sorriso malizioso sulle labbra.
Lei rise, fermandosi davanti alle porte dell’ascensore.
“Shepard, ti facevo più furba”.
Lei gli rifilò un’occhiataccia e subito dopo un sorriso impossibile da trattenere.
“…o pensavi semplicemente di approfittarti della sua richiesta?”
“Sbaglio, o è quello che hai fatto anche tu qualche ora fa?”, rilanciò lei.
“Può darsi. Oppure non volevo correre il rischio di fare arrabbiare il mio Comandante”.
Shepard incrociò le braccia, guardandolo con aria di sfida, mentre le porte dell’ascensore si spalancavano e una coppia di Umani appena arrivati li osservava in attesa che si decidessero ad entrare o a togliersi di mezzo. Lei si scostò appena, facendoli passare, e poi tornò ad osservare Thane.
“Salite anche voi o…?”, domandò l’Uomo, probabilmente sulla quarantina, i capelli brizzolati e l’aria impaziente e curiosa allo stesso tempo. La donna che gli stava a fianco aveva già il dito pronto a premere il pulsante dell’ascensore e un’espressione ancora più impaziente e curiosa, se possibile.
Thane le scostò appena la giacca dalle spalle per trovare la sua mano, poi la trascinò dentro l’ascensore senza dire una parola. Il suo volto non tradiva nessuna emozione, al contrario di quello di Shepard che, invece, sembrava la personificazione di un grande punto interrogativo. Quel gesto non se lo sarebbe mai aspettato francamente, e il silenzio tombale all’interno dell’ascensore amplificò le sue sensazioni, facendola arrossire.
“A che piano andate?”, domandò la donna con un forte accento francese.
Shepard non lo ricordava. “Al vostro”, rispose con finta nonchalance.
Thane si voltò a guardarla. Sebbene avesse potuto ingannare la donna, la sua risposta non aveva ingannato lui. Lei fece spallucce, mordendosi le labbra con nervosismo mentre quella mano stretta alla sua la spingeva a domandarsi che cosa sarebbe successo.
Le porte dell’ascensore si spalancarono nuovamente e i due Umani si dileguarono con un cordiale “buonasera”. Shepard e Thane fecero lo stesso, iniziando a camminare a passo deciso quasi come se sapessero quale fosse la destinazione, poi un bip sul factotum di Shepard li costrinse a fermarsi.

73. Nel caso in cui l’avessi dimenticato.

“Fammi indovinare..”, disse Thane, “…Kasumi?”
Shepard sorrise, arrendendosi all’idea che ormai la ladra non avrebbe potuto ridicolizzarla più di così, e face per tornare all’ascensore, ma Thane la fermò. “Andiamo a piedi, ti va?”
Lei annuì, togliendosi di nuovo le scarpe. Per niente al mondo avrebbe fatto otto piani su quel paio di tacchi.
 
 
 
“Questa non è la stanza che ricordavo”, commentò Shepard con un filo di voce, quando finalmente giunsero a destinazione. Abbandonò le scarpe e la giacca in un angolo dell’ingresso, fermandosi ad osservare quella camera sconosciuta. La cosa decisamente più singolare, oltre alla presenza di comfort di tutti i tipi, era il letto. Shepard si domandò perché mai un letto dovesse possedere un’interfaccia elettronica. Si avvicinò curiosa, mentre Thane si guardava intorno, memorizzando ogni singolo dettaglio dell’arredamento, e premette un pulsante. Il letto si sollevò con uno sbuffo e prese a fluttuare sopra un campo protetto di energia oscura.
“Non ci credo…”, rise Shepard, buttandosi sul materasso a stella marina. “Perché non ne ho uno anche nella mia cabina? Cerberus aveva esaurito le risorse?”, esclamò, sprofondando in quello che le sembrò un giaciglio fatto di nuvole.
“Vorrei spezzare una lancia in suo favore, facendoti notare che le ha impiegate per cose migliori”, rispose Thane senza voltarsi. L’attimo fu raggiunto da un cuscino, afferrato prontamente al volo, e poi si voltò verso di lei, raggiungendola sul letto dove sorrideva compiaciuta.
“Devo darti ragione”, aggiunse poi, testando la morbidezza del materasso. “Ma non eravamo qui per recuperare qualcosa?”.
Shepard era perfettamente consapevole che quella fosse una provocazione bella e buona, ma non era intenzionata a dargli l’ennesima soddisfazione. Si alzò, dicendo che avrebbe cercato in giro. Dietro alla parete del letto, un’altra porzione di camera si spalancò davanti a lei, rivelando qualcosa di molto simile a una vasca da bagno e una piscina fuse insieme. La sola vista di una lunga fila di candele allineate lungo il bordo le fece desiderare di sprofondare in quel preciso istante. Era troppo, era davvero troppo, e nulla, in giro, lasciava presagire che Kasumi avesse davvero dimenticato qualcosa. Ma la cosa ironica era che entrambi fossero perfettamente consci della situazione, ma si ostinassero a proseguire con quella farsa.
 
Il senso del dovere prese il sopravvento su di lei come una sferzata di vento gelido. Ripensò alle sue parole di disprezzo nei confronti di una simile realtà, così lontana dagli orrori della Galassia, e si rese conto che lei non poteva entrare a farne parte. Se l’avesse fatto, avrebbe rinnegato gli ideali per i quali combatteva. Qualcuno le avrebbe detto che la vita è breve, che bisogna viverla attimo per attimo, senza privarsi di nulla. Qualcuno le avrebbe detto che lei aveva fatto tanto, e aveva ricevuto così poco in cambio, molto meno di quanto meritasse. Qualcuno le avrebbe detto di accogliere con slancio quell’opportunità, lasciandosi scorrere addosso i problemi, che poi avrebbe avuto tempo per affrontarli e combatterli… Ma una voce nella sua testa continuava a ripeterle con fermezza che Andromeda Shepard non era fatta così.
Ritornò in camera e si sedette stancamente sul bordo del letto, dove Thane la aspettava disteso, forse perso in uno dei suoi ricordi. Lui si mise a sedere, appoggiando le mani sulle sue spalle, e lei ebbe un fremito impercettibile quando le sue dita iniziarono a massaggiare la base del suo collo. Socchiuse gli occhi, abbandonandosi a un sospiro liberatorio.
“Cosa ti preoccupa?”, le domandò lui, percependo chiaramente la sua tensione.
“Riflettevo”, rispose lei, abbassando la testa così da facilitargli i movimenti. “Ti ho chiesto di non rinunciare ad essere felice, di non rinunciare a tutto questo, ma… Non lo so. E’ difficile cambiare se stessi, concedersi cose che pensiamo di non meritare”, confessò con un sorriso sconsolato.
“Cosa pensi di non meritare?”
“Momenti come questo… lontani dal ronzio del motore di una nave e dal rumore delle armi”.
“Perché non inizi a mettere in pratica quello che mi hai detto, allora?”
“Perché non è facile”.
“Provaci. Con me”.
Lei si voltò, le loro bocche troppo vicine, i loro respiri fusi insieme. Se solo avesse permesso alle sue labbra di raggiungere quelle di lui, lo sapeva, non si sarebbe più fermata. Si voltò dall’altra parte, facendo leva sugli ultimi bricioli di determinazione che le erano rimasti, e strinse forte una mano intorno al copriletto, cercando di ignorare le sue mani che, nel frattempo, le davano i brividi.
“Sei stanca…”, constatò lui, scostandole dal collo una ciocca di capelli sfuggita al suo chignon.
“Non abbastanza”.
Thane rise, e lei insieme a lui, per quell’uscita volutamente ambigua. La sua mano scivolò sul suo braccio, poi sopra alla sua, e la costrinse a lasciare la presa sul copriletto, intrecciando le dita con quelle di lei.
“Riesci mai a rilassarti?”, le domandò piano.
“E’ una domanda retorica?”
“No”.
“Allora anche la mia risposta è no. Tu ci riesci?”
“Ultimamente molto poco”.
“Mi dispiace”, disse lei. Sapeva che, in un modo o nell’altro, la colpa fosse anche sua. Ripensandoci, adesso lo vedeva così diverso da quando gli aveva parlato la prima volta. La sua apparente freddezza, il suo distacco verso il resto del mondo, la sua sicurezza… ora erano diventati interesse, dolcezza, calore. Qualcosa che lei non avrebbe mai associato alla figura di un assassino.
“Non devi”, rispose lui. “Ho passato dieci anni della mia vita senza sentire nient’altro che il vuoto. E’ bello poter riuscire a provare sentimenti che esistevano dentro di me ormai solo sotto forma di ricordi”.
Lei sorrise, lottando contro il desiderio sempre più urgente di girarsi e incontrare le sue labbra. Non ci sarebbe stato un momento più perfetto di quello, lo sapeva; erano soli, lontani dal loro solito mondo fatto di metallo, lontani da un mucchio di datapad pieno di numeri e statistiche, lontani da ogni cosa che avesse a che fare con la guerra, con i morti, con le sparizioni. Eppure…
“Fra qualche ora dobbiamo ripartire. Ho chiesto a Tali e ad EDI di fare una ricerca incrociata sugli ultimi dati di Cerberus a proposito del Razziatore. Se mi confermano che effettivamente è come dice l’Uomo Misterioso, dovremo recarci lì immediatamente”, disse, tirando in ballo uno di quei pochi argomenti che avrebbero potuto veramente distrarla.
“Sei sicura? Non ti sei ancora ripresa completamente”, rispose lui, accarezzando con una mano la ferita sul suo fianco. Non voleva provocarla, non voleva essere un gesto malizioso, ma lei si ritrovò a mordersi una guancia per mantenere l’autocontrollo necessario a ignorare quel contatto.
“Un’ultima dose di medigel e sarò a posto”, decretò, serrando le mascelle. “Se poi il Razziatore è davvero morto come dicono, allora non ci saranno problemi”.
“Devi riposare allora”.
Lei annuì, pensando che sarebbe sprofondata volentieri in quel letto, in quel preciso istante. E poi si sarebbe maledetta fino alla fine dei suoi giorni perché no, non poteva permetterselo. Mancava dalla sua nave da troppe ore, e non aveva giustificazioni. Non per gli altri, per se stessa.
“Torniamo alla Normandy”, disse con fermezza, odiandosi nel farlo.
Thane lasciò la presa intorno alla sua mano, il calore della sua pelle svanito nel giro di un istante. Lei non ebbe il coraggio di guardarlo negli occhi. Sarebbe bastato solo un gesto, solo uno sguardo per cambiare tutto, sarebbe bastata una parola, un cenno… ma prima che potessero anche solo trovare il coraggio, avevano già lasciato quella stanza e il vento freddo della notte li aveva investiti in pieno mentre attendevano un taxi, sotto la luce flebile di un lampione.
 
 
 
La lunga passerella della Normandy era ormai l’ultima cosa che li separava dalle loro responsabilità e dai loro doveri; il rumore dei tacchi di Shepard l’unico suono udibile all’interno di quel lungo corridoio provvisorio, tanto che lei decise di sfilarseli nuovamente. L’idillio era durato troppo, fino all’ultimo momento aveva creduto di essere finalmente in salvo. Aveva sconfitto quel nemico alto dodici centimetri ed era pronta a cantare vittoria, quando, nell’atto di sfilare la prima scarpa, qualcosa era andato storto – probabilmente la sua caviglia - e lei era rovinosamente caduta all’indietro. Restò in silenzio per qualche secondo, a fissare il pavimento a due centimetri dalla sua faccia, poi iniziò a ridere a più non posso, e Thane insieme a lei.
Ci aveva provato a non ridere, lui, con tutto l’impegno possibile, ma la scena era stata talmente esilarante che gli bastò sentire la sua risata per non fermarsi più. Il temerario Comandante Shepard che rotola come un Volus ubriaco giù per la passerella! Le si avvicinò, tendendole un braccio, e lei lo afferrò asciugandosi le lacrime. Si ritrovarono stretti, addosso a una parete di metallo, a ridere come due adolescenti, mentre una delle sue scarpe continuava a rotolare verso lo spazioporto e l’altra, ancora indossata, costringeva Shepard a mantenere quell’equilibrio precario. C’era solo il corpo di lui, premuto contro il suo, a impedirle di non cadere nuovamente, e lei si ritrovò a perdere il fiato, non per le risate, ma per quegli occhi che la guardavano in un modo da far tremare le ginocchia.
Mentre le risate sbiadivano, qualcos’altro, di inconscio e primitivo prendeva il loro posto, trasformando una situazione all’apice del ridicolo in qualcosa di completamente diverso. Restarono in silenzio, a guardarsi negli occhi, senza osare neppure respirare, finchè non fu semplicemente troppo difficile.
“Baciami, dannazione”, disse lei, quasi in un sussurro.
E lui non perse assolutamente tempo, fiondandosi sulle sue labbra con prepotenza, come se non avesse aspettato altro fino a quel momento. Le mani sui suoi fianchi, le sue gambe intorno alla vita, le dita intrecciate ai capelli, aggrappate ai bordi dei vestiti, e i loro respiri spezzati… adesso gli unici suoni tra quelle pareti di plastica e metallo. Anche l’altra scarpa cadde, raggiungendo la compagna allo spazioporto, e Shepard sorrise contro le sue labbra. “Me ne sarei sbarazzata comunque”.
Lui la baciò di nuovo, sollevandola maggiormente, e lei intrecciò le gambe dietro alla sua schiena, le braccia intorno al suo collo. Per un attimo le parve di dimenticare persino dove fossero, concentrata solo su di lui, su ogni dettaglio che avrebbe potuto fare suo, sulle sue mani che la stringevano forte, le mani di qualcuno a cui, paradossalmente, avrebbe affidato la sua stessa vita senza esitare. La ragione aveva lasciato completamente spazio all’istinto, arrendendosi di fronte a qualcosa di così bello, di così puro, da risultare, in qualche modo, impossibile da respingere. Si pentì di aver lasciato quella camera, di aver tentato in ogni modo di negare a se stessa attimi come quello; avrebbe dovuto sapere che certi sentimenti, alla fine, finiscono per prevalere su tutto. “Immagino sia troppo tardi per tornare indietro”, disse, il suo collo accarezzato dalle labbra di lui.
“Questo non era previsto”, rispose Thane, e lei poté sentire la sua voce, profonda, vibrare nella sua gola.
“No, non lo era…”, mormorò appena lei, sorridendo, consapevole che non lo era mai stato, sin dall’inizio. Non lo era stato nel buio di quello stanzino, non lo era stato la notte prima e non lo era stato neppure la sera dei suoi trentuno anni…
“Siha…”, disse lui, senza allontanarsi un attimo dalla sua pelle, “dovremmo fermarci…”, aggiunse, con un tono a metà tra una domanda e un’affermazione.
Lei annuì, cercando le sue labbra, il suo volto con le mani. Lo sapeva che sarebbe stato impossibile.
“Questo non aiuta”, rispose lei, notando che neppure lui sembrava avere la minima intenzione di smettere.
Tu non aiuti”.
Shepard rise, sfuggendo per un istante dalle sue labbra. “E tu non eri forse Mr. Autocontrollo, Krios?”
“Non mi conosci abbastanza bene”.
“A quanto pare…”
Risero di nuovo, fra un bacio e un altro, e poi lui finalmente si decise a metterla giù, senza però lasciarla andare. Le accarezzò i capelli, ormai completamente sciolti, con dolcezza, recuperando l’elastico come farebbe un mago con una monetina dietro l’orecchio, e si ritrasse, quando lei provò a prenderlo.
“Cosa vuoi?”, le domandò lei, senza smettere di sorridere.
“Un ultimo bacio”.
Gliel’avrebbe dato volentieri, gliene avrebbe dati altri mille. E lui lo sapeva.
“Non posso assicurarti che sia l’ultimo, però”.
“Me ne farò una ragione”.
 
 
 
Giunsero davanti al portellone ancora uniti in un abbraccio, senz’avere la minima voglia di lasciarsi. Shepard sapeva che il suo veleno avrebbe probabilmente fatto effetto nel giro di una dozzina di minuti al massimo, e nonostante ciò, non riusciva a decidersi ad entrare, facendo scudo alla serratura elettronica col suo corpo. Lui passò una mano dietro alla sua schiena, sbloccando i sigilli contro la sua volontà e lei sorrise, perdendosi ancora una volta nei suoi occhi, mentre entravano nella zona di depressurizzazione.
“Buonanotte”, le disse lui, accarezzandole il mento.
“Buonanotte”, rispose lei con un sorriso d’intesa, qualche secondo prima che il portellone si sbloccasse, consentendo loro l’accesso al ponte di comando.
Si allontanarono, assumendo un’andatura composta, un espressione totalmente neutra sul viso. Shepard attraversò l’ampia sala con l’aria di qualcuno in procinto di attraversare un campo di battaglia, l’incedere fiero, lo sguardo determinato. Nessuna recluta e nessuno specialista avrebbe mai potuto scalfire la sua compostezza, neppure lo sguardo perplesso e sorpreso di Kelly. Una volta giunti all’interno dell’ascensore tornarono a sorridersi. Lui le prese una mano, baciandola delicatamente sul dorso, e lei poggiò una mano sul suo bicipite, mentre lui premeva il quarto pulsante.
Stavolta, la salita dell’ascensore sembrò persino troppo veloce. Shepard si fermò ad osservarlo un’ultima volta, la testa inclinata di lato e un sorriso spontaneo sulle labbra. Non dissero nulla, lasciandosi soltanto con uno sguardo che aveva il sapore di mille promesse, prima che le porte dell’ascensore si chiudessero di nuovo, separandoli a forza.
Adesso, solo una doccia fredda avrebbe potuto salvarla dall’autocombustione.
 
 
 
“Comandante, l’Uomo Misterioso vorrebbe vederla in sala briefing”. Queste furono le parole con cui Shepard iniziò il nuovo giorno, contrariata. Uscì lentamente fuori dalle coperte, sentendo lo stomaco sottosopra. Avrebbe dovuto mangiare un boccone prima di andare a letto, come minimo, ma si era imposta di stare alla larga dal ponte equipaggio, almeno quella sera e adesso doveva fare i conti con una terribile nausea. Si rivestì e stancamente raggiunse il CIC, prima di mettersi in contatto con Cerberus.
“Kelly, hai idea di cosa voglia stavolta l’Uomo Misterioso?”, domandò con fare sbrigativo.
“No, mi dispiace Comandante. Ha solo detto che è urgente”.
Urgente non era mai una bella parola, ma in questo caso poteva significare molte cose. Un’altra colonia scomparsa, notizie dal Razziatore, o chissà che altro. Non perse tempo e avviò immediatamente la chiamata, una volta giunta in sala briefing.
“Shepard, sono lieto di non aver dovuto aspettare, questa volta”.
“Qual è il problema?”, tagliò corto lei.
“Dovrai rinviare la missione. Sono giunto in possesso di parecchie informazioni riguardo l’Ombra e sai quanto sarebbe importante acquisirne il controllo. Sai anche che la tua vecchia amica, Liara T’Soni, la sta cercando da tempo… e sono convinto che incrociando i vostri dati riuscirete a trovarla”.
Shepard si passò una mano tra i capelli, pensierosa. Non le piaceva questa richiesta, non si fidava di Cerberus a tal punto, ma con Liara di mezzo le cose cambiavano.
“E’ sicuro che ne valga la pena? Non vorrei ritrovarmi a perdere tempo mentre spariscono altre colonie, là fuori”.
“Ho ragione di pensare che questi dati possano fare la differenza, ma per esserne sicura devi parlarne con l’Asari”.
“Bene, vorrà dire che imposterò la rotta verso Illium… sperando che ne valga la pena”, rispose lei a denti stretti, prima di chiudere la comunicazione.
Conquistare la base dell’Ombra significava venire in possesso di ogni informazione possibile e immaginabile, oltre a un numero infinito di risorse e denaro. Il perché Cerberus l’avesse indirizzata da Liara, lei non lo sapeva. Forse, approfittando del loro legame, sperava di poterla sfruttare a suo piacimento, ma lei non lo avrebbe permesso.
Si rintanò nuovamente nella sua cabina, studiando i nuovi documenti a proposito della missione. Risultò evidente sin da subito che Cerberus avesse impiegato un gran numero di risorse per ottenere tali informazioni, scoprendo ad una ad una le numerosi basi dell’Ombra, tranne quella più importante: la principale. Un dossier risaltò immediatamente ai suoi occhi, era quello di un Drell di nome Feron. Che ruolo avesse in quella faccenda le era sconosciuto, ma sperava di trovare le risposte da Liara. In serata sarebbero giunti su Illium e finalmente avrebbe potuto fare una chiacchierata con quella che era la sua più cara amica.
 
 
 
Liara fu sorpresa di trovare Shepard fuori dal suo ufficio, appena passato l’orario di lavoro. Come al solito si era trattenuta fino a tardi, persa tra una telefonata e un’altra, sempre alla costante ricerca dell’unica cosa che le premeva di trovare. Se possibile, fu ancora più sorpresa di vedere che Shepard si fosse presentata con quell’assassino che lei aveva aiutato a trovare settimane prima. Pensò immediatamente che non era da lei fidarsi di tipi come quello, ma non aveva dubbi sul fatto che doveva aver avuto i suoi buoni motivi per portarselo dietro. Li fece accomodare all’interno della piccola stanza, cercando di non sembrare troppo emozionata per quella visita inaspettata. Molte cose erano rimaste in sospeso tra lei e Shepard, e ogni volta, vederla, le faceva crollare il pavimento sotto ai piedi. Cercò di apparire calma e posata, mentre dall’altro lato della scrivania si torceva nervosamente le mani, nascoste sotto al tavolo.
“Non mi aspettavo di vederti qui, ma sono contenta che tu non ti sia dimenticata di questa vecchia amica”, sorrise amichevolmente.
“Come potrei, Liara?”, sorrise Shepard di rimando, recuperando il datapad con i dati che avrebbe dovuto mostrarle. “Ma il meglio non è ancora arrivato…”, ammiccò. “Dai un’occhiata”, le disse, porgendoglielo. Missione: Ombra, recitava il titolo in alto.
Liara sgranò gli occhi e iniziò a scorrere le pagine cercando di darsi un contegno. “Che significa?”
“Significa che posso aiutarti adesso”, rispose Shepard.
L’Asari si fermò per un attimo, cercando un contatto visivo. “Io… non so cosa dire. Fammi dare un’ altra occhiata”, continuò, tornando a scandagliare le informazioni. Poi si fermò, improvvisamente, portandosi una mano alla bocca.
“Feron…”, mormorò.
“Chi è? Cosa c’entra con l’Ombra?”
Liara si alzò, ormai incapace di trattenere tutte le sue emozioni. Sapeva che sarebbe dovuto arrivare quel momento, ma sperava non così presto e non così all’improvviso.
“Devo parlarti di una cosa importante”, le disse infine, determinata, mentre sentiva di sgretolarsi dentro.
Thane scambiò una rapida occhiata con Shepard e decise di lasciare la stanza ad un suo cenno d’assenso, lasciandole da sole a raccontarsi cose taciute troppo a lungo.
 
 
Dieci minuti dopo Shepard le dava le spalle, osservando il panorama di Illium con una mano sotto al mento, gli occhi vitrei e inespressivi. Liara la guardava a distanza di sicurezza, provando un misto di vergogna, paura e rimorso. Non aveva ancora detto una parola da quando lei le aveva spiegato di essere la responsabile della sua consegna a Cerberus e, sinceramente, non sapeva più cosa aspettarsi. Forse aveva fatto male a tenerglielo nascosto per tutto quel tempo, ma ogni volta che aveva provato a chiamarla, o a scriverle un’email, aveva finito per prendersi la testa fra le mani, in preda al tormento. Adesso però, riusciva a sentirsi un grammo più leggera, ora che finalmente si era tolta quel macigno dallo stomaco.
“Ann…”, provò a dirle, facendo un passo verso di lei.
Shepard sollevò una mano, intimandole di restare indietro. Aveva bisogno di tempo; tempo era tutto ciò che chiedeva, in quel momento.
Non avrebbe mai pensato che potesse esserci Liara dietro la sua ricostruzione, non l’avrebbe mai ritenuta capace di poterla consegnare a Cerberus, ma sapeva che nei momenti di disperazione, ogni cosa acquista un significato diverso e si è disposti ad accettare più di un compromesso pur di ottenere quello che si è perso. Poteva davvero avercela con lei solo perché aveva desiderato di darle una degna sepoltura o una nuova speranza di vita?
“Perché non me l’hai detto prima?”. Questa fu l’unica cosa che riuscì a domandarle.
“Ci ho provato. Ci ho provato tante volte, ma non ho mai avuto il coraggio”.
“Me lo dovevi, Liara. Era un mio diritto”.
“Lo so, e l’avrei fatto…”
“Quando? Dopo Omega 4? Ammesso che fossi sopravvissuta?”
“Ti prego, Ann… io…”
Shepard scosse la testa, voltandosi finalmente a fronteggiarla.
“Voglio lasciarmi alle spalle anche questa storia. Ho solo bisogno di metabolizzare tutto…”
“Non ti chiedo di perdonarmi”.
“Non ce n’è bisogno”, rispose lei, avvicinandosi. “Io…non so, forse dovrei ringraziarti. Dopotutto, è solo grazie a te che sono ancora qui…” aggiunse, cercando di seppellire l’orgoglio e la rabbia per il prezzo che ciò le era costato.
“Mi dispiace, mi dispiace davvero”, gemette Liara, abbracciandola in uno slancio d’affetto che fu incapace di frenare. E Shepard capì in quel momento che mai e poi mai avrebbe potuto odiarla per quella scelta.
Si diedero appuntamento per quella sera stessa, nell’appartamento dell’Asari. Prima di dirigersi alla base dell’Ombra, bisognava preparare un piano.
 


 

Forse non ringrazio mai abbastanza coloro che trovano il tempo di leggere e recensire questa storia, anche quelli che l'hanno fatto altrove. Beh, colgo adesso l'occasione per farlo... grazie di cuore. Il vostro supporto è qualcosa di veramente importante se non indispensabile.

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Capitolo 13
*** The Shadow Upon Us ***


 
 
“Now and then when I see her face 
 She takes me away to that special place 
 
 And if I stared too long 
 
I'd probably break down and cry”

 
(Guns’n’Roses, "Sweet Child o’ mine")


[x]

 



Uscendo dall’ufficio di Liara, Shepard non disse una parola riguardo a ciò di cui avevano discusso, e Thane volle rispettare il suo silenzio, almeno finchè non arrivarono al taxi che li avrebbe condotti all’appartamento dell’Asari.
“Mi sembri turbata”, azzardò, mantenendo le distanze.
“Ho solo voglia di mangiare qualcosa”, rispose lei con un sospiro, seguendo con gli occhi le astroauto che sfrecciavano fuori dal finestrino. “Conosci un posto tranquillo nei paraggi?”
“Dipende dai tuoi gusti”.
“Voglio solo mettermi al volo qualcosa nello stomaco”.
Si fermarono ad un chiosco di forma ovoidale dove un’Asari presentava con orgoglio una serie di fritture non ben identificate. Shepard osservò la vetrina, scettica, poi si decise a prendere la cosa che le sembrava più umana possibile, consultando il menù olografico che luccicava su una colonna di metallo lì a fianco. Si sedettero a un tavolinetto e lei finalmente sorrise, rivolgendo a Thane uno sguardo curioso, mentre l’Asari si occupava velocemente del loro ordine.
“Non ti facevo un tipo da questo genere di posti”.
“Non lo sono, infatti”, sorrise lui di rimando.
“E che tipo sei?”
“Lo scoprirai un giorno, se accetterai di uscire a cena con me”.
Lei scosse la testa, divertita, chiedendosi se mai ne avrebbero avuto davvero l’occasione. L’Asari li omaggiò con un ampio sorriso, mentre squadrava curiosamente la strana coppia, poggiando troppo lentamente il vassoio col cibo sul tavolo.
Shepard diede un morso a quello che sembrava uno spiedino e annuì compiaciuta. “Non è così male”.
“Lo dici solo perché non sai di cosa si tratta”.
“Tu non farmici pensare”, lo rimproverò, divertita.
Lui sorrise, prendendole una mano. “Sei sicura che vada tutto bene?”
“No, ma passerà”, rispose lei, intrecciando le dita con le sue. “Ho appena scoperto che è stata Liara a recuperare il mio corpo dallo spazio e a consegnarmi a Cerberus, e che i Collettori volevano comprarmi dall’Ombra”, confessò poi, gesticolando come per minimizzare.
“Un motivo in più per combatterli”, disse lui calmo, stringendo maggiormente la sua mano. “Non ti eri mai fatta domande a proposito del progetto Lazarus?”
“Certo, ma forse sono stata un’ingenua a voler credere che dietro tutto questo ci fossero solo buone intenzioni… L’Uomo Misterioso continua a dirmi che l’unico motivo per cui mi ha rimessa in piedi è perché io sono un simbolo, perché devo occuparmi di ciò che l’Alleanza non vuole accettare, non vuole combattere, ma… non lo so… Cosa volevano farne di me i Collettori, cosa volevano farsene di un cadavere?”
“La cosa positiva è che non dovrai mai scoprirlo”.
Lei gli restituì uno sguardo carico di significato, prima di dare un altro morso allo spiedino. Sì, se la fortuna fosse stata dalla sua parte non l’avrebbe mai scoperto, ma fino a quel momento non lo era mai stata.
Due Asari passarono accanto a loro ridendo allegramente, strette nei loro impermeabili. “Odio ritrovarmi con l’acqua in mezzo allo scalpo!”, disse una delle due, coprendosi la testa con le mani mentre iniziavano a scendere le prime gocce di pioggia. Shepard curvò le labbra in un sorriso, vedendole correre in direzione di un taxi come per una corsa all’oro.
“Pare che avremo bisogno di un ombrello”, commentò Thane.
“Mi chiedo com’è che ancora non ne abbiano inventato uno da factotum. Sarebbe l’invenzione del secolo!”
“Da quant’è che non navighi su Extranet, Siha?”
“Un bel po’”.
“Ecco”.
“Vuoi dire che esiste già in commercio? Oh, diamine, dovrei tenermi più aggiornata…”
Thane rise, guardandola con dolcezza. Era felice di sapere che nonostante tutti i problemi e le responsabilità, lei riusciva sempre a trovare il modo per discutere di argomenti frivoli, per sorridere di sciocchezze. Era il suo modo personale di restare grappata a quell’umanità di cui spesso si era sentita privata, spinta da impossibili circostanze esterne.
“Che c’è?”, gli domandò lei, sentendosi osservata, mentre sfoggiava uno di quei sorrisi che tanto gli piacevano.
“Niente”, rispose lui. Avrebbe voluto dirle che la trovava perfetta, che avrebbe voluto che non smettesse mai di ridere, che avrebbe voluto avere la speranza di un vero futuro con lei… ma non è sempre così facile ammettere a se stessi che ci si sta davvero innamorando di qualcuno, e soprattutto, non è sempre così semplice confessarlo. Si limitò a stringere la sua mano, accarezzandone poi il dorso con la sua, mentre la pioggia iniziava a scendere più forte, picchiettando insistentemente sulla tettoia che li riparava. Gli fu impossibile non ripensare a Kahje e al suo passato, e dovette sforzarsi per non cadere in uno dei suoi ricordi, restando ancorato alla realtà solo perché davanti aveva qualcosa di molto più importante. Pian piano, tutto iniziò a tingersi di viola e d’azzurro, ogni pozzanghera che si formava ai bordi delle strade era uno specchio colorato, ogni insegna luminosa ricoperta di minuscole gocce d’acqua rifrangeva i propri colori in tanti, minuscoli cristalli. Non era l’odiosa, grigia, pioggia di Kajhe. Thane curvò le labbra in un sorriso ancora una volta. Non avrebbe mai pensato di poter trovare la pioggia così bella. Anche i suoi occhi ne riflettevano i colori, mescolandosi al verde chiaro delle sue iridi.
Shepard distolse lo sguardo, imbarazzata. Come la prima volta, anche adesso non riusciva a fare a meno di sentirsi totalmente disarmata davanti a lui. Non avrebbe esitato un solo istante a guardare negli occhi un nemico, ma con lui era diverso… era come mettergli in mano le chiavi della propria anima, ogni dannatissima volta.
Si parlarono così, in silenzio, sotto la pioggia che scandiva il tempo coprendo i rumori del traffico e della gente che parlottava agli angoli delle strade. Si dissero mille cose senza aprire bocca, sorridendosi, a tratti perdendosi ad osservare la città intorno a loro, mentre finivano di consumare quel pasto fugace e improvvisato, prima di decidersi finalmente a chiamare un taxi.
 
 
 
Giunsero al palazzo dove abitava Liara che erano bagnati fradici.
“Almeno tu non devi fare i conti con questi”, aveva detto Shepard, indicando i suoi capelli mentre cercava di asciugarseli sfregandoli fra le mani a testa in giù.
“Potresti sempre tagliarli, come Jack”.
Lei si alzò di scatto, rifilandogli un’occhiataccia, prima di imboccare le scale, seguita a ruota da Thane che sembrava a disagio come un gatto appena costretto a fare il bagno.
“Chiederò a Liara di prestarci un phon, va bene?”, gli domandò lei sbuffando, voltandosi appena.
“Mi basta un asciugamano”.
Shepard sorrise, mentre si faceva più vicina all’appartamento di Liara, ma fu accolta da alcuni strani rumori e si mise immediatamente sull’attenti, poco prima di trovare la porta dell’appartamento spalancata e un’intera squadra di agenti a perlustrare la zona, circondata tutt’intorno da nastri olografici che recavano la classica scritta “no trepassing”.
“Che diavolo è successo qui?”, esclamò allarmata, infischiandosene di un’Asari che le intimava di non attraversare la porta principale.
“Lei può passare”, fece una voce ben distinta, proveniente dall’interno. L’Asari che aveva parlato recava sull’armatura rinforzata il simbolo degli Spettri. Shepard oltrepassò il nastro, scongiurando la tragedia, ma ad una prima occhiata, nulla lasciava presagire che fosse accaduto davvero qualcosa di terribile. Non c’era sangue, non c’erano cadaveri, né i segni di un combattimento. Sembrava piuttosto un tentativo di rapina andato male.
“Tela Vasir, dipartimento Tattiche Speciali e Ricognizione”, si presentò la sconosciuta. “E lei dev’essere Shepard. Un peccato che non l’abbiano reintegrata”.
Lei si avvicinò e le tese la mano, ricambiando le presentazioni, guardandola dall’alto in basso come se aspettasse immediatamente delle risposte. Era stranita, che diamine ci faceva lì uno Spettro?
“Pare che la sua amica sia fuggita. Circa venticinque minuti fa qualcuno le ha sparato, i segni della sparatoria sono ben visibili sulla vetrata principale”, spiegò gesticolando, “ma lei è rimasta qui circa quattro minuti prima di lasciare l’edificio. E’ stata fortunata a dotare il suo appartamento di un efficace sistema di difesa…”
Il Comandante si girò intorno con aria smarrita, cercando di fare ordine nella sua mente, poi Thane trasformò in parole quello che la sua mente le aveva appena suggerito.
“Potrebbe aver lasciato qualcosa per te, Shepard”, disse, affiancandola. Lei rispose con un cenno d’assenso. Mai e poi mai Liara avrebbe rischiato di mandare all’aria quella missione, ne era certa.
“Darò un’occhiata in giro”, affermò senza troppi complimenti.
“Faccia pure, lei di sicuro la conosce meglio di me. Mi chiami se ha trovato qualcosa”.
 
Di certo, Shepard avrebbe preferito visitare quell’appartamento in circostanze diverse. Era maestoso, ampio, ricco di reperti archeologici, la maggior parte dei quali Prothean, custoditi dentro teche di vetro infrangibile. Qualunque cosa volessero i suoi aggressori, non erano i suoi soldi, avendo lasciato intatto praticamente tutto. In un angolo, c’era perfino un pezzo di corazza N7. “Questa dev’essere mia”, disse piano, facendo scorrere le dita sul vetro che la proteggeva. Thane restò in silenzio al suo fianco, mentre lei si prendeva un po’ di tempo per riflettere. Per quanto sapesse bene cosa significasse la morte dell’anima, non avrebbe mai potuto comprendere a fondo il significato di una morte fisica e di una conseguente rinascita. Lei, di fronte a lui, appariva come un vero e proprio miracolo, qualcosa di assolutamente incomprensibile, e si sentì, per un momento, partecipe di quell’attimo in cui il ricordo si mescola ad una realtà troppo diversa. Avrebbe voluto stringerla a sé, dirle che un ricordo è solo un ricordo, e chi meglio di lui poteva saperlo? Ma non era né il momento, né l’occasione giusta. La lasciò fare, sapendo che avrebbe solo avuto bisogno di un istante per sé, nulla più.
 
Shepard si allontanò a passo svelto da quella reliquia, aveva già perso troppo tempo. Fece la gradinata fino al piano superiore e le venne da sorridere al pensiero che anche Liara avesse un acquario in bella vista dietro al letto. A differenza del suo però, qui c’erano pesci vivi. Si avvicinò al comodino, prendendo in mano una cornice olografica che proiettava un’immagine della Normandy SR1. Non avrebbe mai pensato che Liara potesse essere così nostalgica, anche se dopotutto non c’era da meravigliarsi. Sapeva bene quanto la loro avventura avesse cambiato la vita di quella che allora era solo un’archeologa. D’un tratto l’immagine cambiò e Tela Vasir, che era giunta prontamente al suo fianco, osservò la cornice con curiosità.
“Interessante. Ha risposto al suo ID. Cosa mostra?”, domandò, perspicace.
“Uno scavo Prothean”.
“Converrebbe cercare in uno dei suoi reperti”, disse Thane, guardandosi intorno. Shepard capì immediatamente che chiedere il suo aiuto per quella missione era stata la migliore decisione possibile. Oltre al fatto che un assassino sa sempre cosa e dove cercare, nessuno conosceva Illium meglio di lui e nessuno avrebbe voluto la morte dell’Ombra più di lui, probabilmente. Si sentì improvvisamente al sicuro, nonostante la scomparsa improvvisa di Liara l’avesse colpita come una coltellata.
Scandagliò ogni dettaglio dell’appartamento da cima a fondo, finchè finalmente non riuscì a trovare quello che cercava. Era una registrazione di una chiamata avuta con un certo Salarian di nome Sekat, che invitava Liara a raggiungerlo nel suo ufficio. Una volta lì, le avrebbe dato tutte le informazioni necessarie per trovare l’Ombra.
“Baria Frontiers”, mugugnò l’Asari, accarezzandosi il mento. “Si trova all’interno degli edifici commerciali Dracon. Possiamo prendere la mia auto”.
“Andiamo allora, non c’è tempo da perdere”, rispose Shepard con un cenno d’assenso. Liara era senza dubbio in pericolo. L’Ombra aveva già cercato di farla fuori una volta, e persino il Salarian l’aveva messa in guardia del rischio. Tutto ciò, combinato con la sua improvvisa sparizione, lasciava davvero poco spazio all’immaginazione.
Lasciarono l’appartamento, stavolta incuranti della pioggia che batteva sempre più forte. Adesso, le luci viola e blu di Illium avevano assunto una sfumatura fin troppo spettrale.
 
 
 
Il grande centro commerciale, che si elevava su un numero indefinibile di piani oltre la spessa cortina di nebbia, appariva avvolto in una strana aura sinistra. Le luci colorate degli slogan pubblicitari si stagliavano prepotentemente contro le ombre nere e spigolose della moderna struttura. Una grande quantità di astroauto era parcheggiata a piano terra, e la gente sembrava ansiosa di tornare a casa dopo una giornata stancante passata a fare compere. S’incamminarono lentamente verso l’ingresso, prima che quel luogo, improvvisamente, diventasse un inferno. Una serie di esplosioni a catena illuminarono a giorno il piazzale circostante, sbalzando i tre aria con violenza. Si scatenò il panico all’istante. Le urla degli avventori seguirono, terribili, al primo momento di assoluto, straziante silenzio che seguì il boato della bomba. Donne, uomini, bambini di tutte le età e di tutte le specie si riversarono fuori dall’edificio in una massa informe e travolgente, che non si curava più di nulla tranne che della propria sopravvivenza.
Shepard, Thane e Tela Vasir si rialzarono storditi, scambiandosi uno sguardo a metà tra l’inorridito e il preoccupato. Furono gli unici a correre in direzione opposta, restando sconcertati alla vista dei primi cadaveri. Alcuni di loro erano stati sbalzati via dall’esplosione dai piani più alti, altri erano stati le vittime sfortunate di quella fuga di massa. Altri ancora gemevano per il dolore riversati in un angolo, altri piangevano, urlavano per la perdita di un caro. Incredibile come, nello spazio di un secondo, la vita fosse cambiata per così tante persone.
Shepard soppresse a forza l’istinto di occuparsi di ogni singolo individuo che chiedeva disperatamente aiuto, limitandosi ad allertare le autorità civili di competenza. Dopotutto, lei non avrebbe potuto fare nulla, senza contare che il motivo di quel violento attacco, doveva essere niente meno che Liara.
“Non si sono fatti problemi a far saltare in aria tre piani di questa struttura per trovare la sua amica, Shepard. Dobbiamo aspettarci di tutto”, commentò lo Spettro sopra il rumore dell’incendio che si era appena scatenato. Shepard ne era ben consapevole, e le bastò questo per sentire un’incredibile rabbia crescere dal fondo del suo stomaco.
“Inizierò dai piani superiori, ci incontreremo all’ufficio di Sekat, con un po’ di fortuna”, aggiunse l’Asari, prima di correre nuovamente in direzione del suo mezzo.
Shepard annuì e subito dopo cercò lo sguardo di Thane. Non voleva assistere ad un’altra tragedia, non quel giorno. I suoi soli occhi le comunicarono quello che lei aveva bisogno di sentire, e lei si fece strada fra le macerie, rinvigorita da quella piccola, minuscola certezza.
 
 
 
All’interno era tutto un cigolare di pannelli che minacciavano di staccarsi dalle pareti, fontane di scintille che piovevano dai cavi elettrici recisi, urla di panico, terrore e sofferenza. C’erano troppi cadaveri, più di quanti avesse sperato di trovare, c’erano troppe persone che avrebbero perso la vita inutilmente solo perché avevano fatto l’errore di trovarsi al posto sbagliato, nel momento sbagliato. E chissà perché, ancora una volta, lei si sentiva in qualche modo responsabile.
“So cosa stai pensando”, le disse Thane, mentre perlustravano uno dei corridoi che li avrebbe condotti ai piani superiori. “Non farlo, Shepard”.
“L’hai detto tu che dobbiamo convivere col peso delle nostre decisioni”, rispose lei, a denti stretti. Le sue dita impugnavano troppo forte la sua Phalanx, il suo cuore non accennava a rallentare il battito.
“Il fatto che la dottoressa T’Soni possa essere in pericolo non deve impedirti di ragionare a mente lucida. Tu non hai nessun ruolo in tutto questo”.
Shepard si costrinse a ricacciare indietro un’ondata di parole rabbiose, imboccando la prima rampa di scale, poi cercò di mettere in ordine i suoi pensieri. “Dovrei pensare che sia una coincidenza quest’attentato, appena dopo aver offerto a Liara il mio aiuto?”
“Liara avrebbe scoperto come arrivare all’Ombra anche da sola, e tu a quel punto non ci saresti stata”.
Era vero, non poteva dargli torto, ma ugualmente non sarebbe mai riuscita a perdonarselo se non fosse riuscita a salvarla, arrivando troppo tardi.
Giunsero silenziosamente al secondo piano, dove i rumori sembravano ovattati, prigionieri di una strana atmosfera che sapeva di morte, che odorava di bruciato. Le insegne dei negozi non si riconoscevano più, i manichini erano sfigurati, mischiati ai corpi senza vita adagiati in modo scomposto sul pavimento pieno di cenere. La pioggia continuava a battere incessante sulle finestre, spegnendo gli ultimi fuochi accesi qua e là, e una voce robotica, a tratti, continuava a recitare le ultime offerte come una spiritosa, sgradevole cantilena.
Shepard si avvicinò ad un angolo buio, notando un corpo che sembrava diverso dagli altri. Aveva una corazza ed era di sicuro un mercenario, apparentemente morto per cause estranee all’esplosione.
“Segni di proiettile”, constatò Thane, inclinandosi appena per osservarlo. “A quanto pare non siamo soli”.
“Già. Sono ben equipaggiati, dobbiamo prestare attenzione”, rispose Shepard. “Vasir, hai sentito?”
“Sì. Starò attenta”.
Proseguirono, stavolta con maggiore cautela, e Shepard provò il desiderio malato e incontrollabile di trovarsi faccia a faccia con uno di quei terroristi, per riempirlo di proiettili allo stesso modo.
Quando arrivarono all’ingresso degli uffici Baria Frontiers, Shepard controllò in fretta il terminale di registro, appurando che Liara aveva effettuato l’ingresso da non più di una dozzina di minuti.
“E’ qui”, disse in un soffio. Thane incrociò per un’istante il suo sguardo, notando che era diverso da tutti quelli a cui era abituato. C’era insicurezza, c’era dolore, c’era un’enorme rabbia che illuminava i suoi occhi di una strana sfumatura rossa.
Avanzarono attraverso il lungo corridoio, squarciato sul soffitto in più punti. Dai pannelli rimasti integri, si aprivano ad intermittenza le bocchette antincendio, formando pozzanghere sul pavimento troppo scivoloso. Non fecero in tempo a svoltare l’angolo, che a Shepard sembrò di avere per un attimo perso i sensi. Né la vista, né l’udito le rispondevano più, solo il tatto le fece percepire di essere stata trascinata via e adagiata lungo una parete. Non perse la lucidità neanche per un’istante, capì immediatamente che si era trattato di una granata stordente e questo portava a due conclusioni: avrebbero dovuto affrontare chissà quanti mercenari e, soprattutto, questi mercenari non erano degli sprovveduti qualunque. Riaprì lentamente gli occhi, lottando contro il fastidioso ronzio nelle orecchie, per trovare quelli di Thane che la guardavano con apprensione. Non riuscì a leggere il suo labiale, ma sembrava oltremodo preoccupato, e senza dubbio ne aveva tutte le ragioni.
Ben presto il mondo intorno a sé ritornò a diventare di nuovo nitido e lei si alzò con risolutezza, scuotendo appena il capo.
“Ti è quasi esplosa addosso”, disse Thane, senza perdere di vista il corridoio. “Stai bene?”
Shepard annuì, impugnando nuovamente l’arma e gli fece cenno di prendere posizione. Lo vide sfrecciare nel buio, superando la parte scoperta con rapidità, in modo da non poter essere agganciato neppure dal migliore dei cecchini, e lei si appiattì alla parete opposta, segnalandogli che, appena possibile, avrebbe dovuto aprire il fuoco.
“Vasir, abbiamo incontrato resistenza”, disse, informando lo Spettro.
“Era ora che l’Ombra facesse sfoggio della sua banda personale di mercenari”.
“Come va da quelle parti?”
“Ci sono quasi, Shepard”.
Lei si sporse con cautela, individuando il primo di una serie di uomini pronti a farla fuori senza esitazione. Aprì per prima il fuoco, seguita immediatamente da Thane e da una scarica di proiettili in loro direzione.
“Neppure le loro armi sono da sottovalutare”, osservò Thane, inserendo una clip termica nel suo Viper. “Senza dubbio, non si tratta di mercenari qualunque”.
“Sì, ma non hanno calcolato questo”, rispose Shepard, estraendo l’ml-77 e facendo piazza pulita dell’intero corridoio. Con un lanciamissili del genere, non c’era pericolo di lasciare sopravvissuti in uno spazio così ristretto.
 
Proseguirono in questo modo non senza fatica, messi alla prova dalle continue granate stordenti, dalle scariche ripetute di proiettili e dai problemi che derivano da uno scontro a fuoco in un contesto diverso dal solito, ma senza ulteriori intoppi, finchè non si trovarono dietro alle porte del piccolo ufficio dove Sekat avrebbe dovuto ricevere Liara. Shepard indugiò per un istante sulla soglia, poi sbloccò i sigilli del portellone ad armi spianate, trovando nient’altro che il cadavere di un Salarian, un mercenario appena ucciso e Tela Vasir, autrice indiscussa di quell’uccisione.
“Peccato. Se fossi arrivata qualche secondo prima, avrei potuto fermarlo”, disse tranquillamente, rivolgendo uno sguardo pietoso a colui che doveva essere Sekat. Shepard si avvicinò al cadavere e ripose le armi, appurando che la sua fisionomia coincideva effettivamente con quella vista nella registrazione, ma non gli trovò nulla addosso che potesse avere in qualche modo a che fare con i dati su cui si era accordato con Liara.
“Ha trovato il corpo della sua amica?”, domandò Vasir, con un tono vagamente sprezzante, mentre le dava la schiena con nonchalance. Shepard si alzò in piedi, aggrottando la fronte. Con quale presunzione dava per scontata la sua morte?
“Intendi questo corpo?”
La voce di Liara sorprese Shepard almeno quanto la domanda fuori luogo dello Spettro e lei si voltò immediatamente, per trovarsi faccia a faccia con la sua amica. Impugnava saldamente una Predator, puntata senza clemenza contro l’altra Asari. Avanzò senza indugio verso di lei, avvolta in un’aura blu.
“Che diavolo sta succedendo?”, esclamò Shepard, attonita. L’improvviso sollievo per averla trovata viva, fu subito sostituito dallo sconcerto per quell’improvviso cambio di rotta.
“Ti presento la donna che ha appena cercato di uccidermi, Shepard”, rispose Liara con rabbia, avvicinandosi maggiormente.
“Oh, andiamo… capisco che tu abbia avuto una giornata pesante, ma perché non lasciamo perdere questa storia? Metti giù quell’arma”, ridacchiò l’Asari con un ghigno, indietreggiando d’istinto.
A quel punto non c’erano davvero più dubbi su chi fosse il nemico, e anche se ce ne fossero stati, Liara li eliminò tutti ad uno ad uno. “Ti ho vista, Vasir, ti ho vista mentre entravi nel mio appartamento”.
“Dunque eri li per cercarla. Ecco perché hai chiesto il mio aiuto per trovare i suoi dati”, le fece eco Shepard, estraendo velocemente la Phalanx dalla fondina. Thane non perse tempo a fare lo stesso con la sua Predator.
“Beh, grazie per l’aiuto”, ammiccò Vasir.
“Poi mi hai trovata e hai allertato le truppe dell’Ombra”, continuò Liara.
“Ed ecco anche il motivo dell’artiglieria inesplosa. Questo è quello che succede quando un attacco di questa portata non viene pianificato in tempo”, confermò Thane, riferendosi ad alcune cariche non innescate trovate poco prima durante il tragitto.
Piano, il quadro iniziava a prendere le forme precise e definite di un’opera in perfetto stile Ombra.
“Dopodiché hai trovato Sekat e l’hai ucciso, rubandogli i suoi dati”, Liara tornò a rivolgersi allo Spettro, ogni muscolo del suo corpo teso e vibrante. “Deve averli con se”, accennò a Shepard.
L’Asari si lasciò sfuggire una risata sdegnosa, portando sospettosamente una mano dietro alla schiena. “Indovinato”, affermò. “Non che avrai mai occasione di vederli, comunque”, aggiunse poi, mentre un’aura blu si espandeva dietro di lei, intaccando la vetrata immediatamente alle sue spalle.
Durò una frazione di secondo. Liara, Shepard e Thane ebbero giusto il tempo di vedere i frammenti di vetro staccarsi e venire scagliati in loro direzione, prima che, istintivamente, ergessero un potente scudo biotico in grado di deviare totalmente le schegge fatali.
“Maledizione!”, esclamò Tela Vasir, il cui volto fu abbandonato improvvisamente da ogni parvenza di soddisfazione. Lasciarono esplodere lo scudo e Shepard corse d’istinto verso di lei, decisa a non permetterle la fuga.
Si sentiva umiliata, tradita, offesa da quell’individuo disgustoso che recava sul petto il simbolo degli Spettri e si era messo al servizio di un’organizzazione criminale, macchiandosi del sangue di centinaia d’innocenti. Era già la seconda volta che si trovava faccia a faccia con qualcuno il cui abuso di potere andava oltre ogni limite possibile e immaginabile e neanche stavolta l’avrebbe tollerato. Le parole di poche ore fa le ritornarono alla mente come lame affilate. E’ un peccato che non sia stata reintegrata. Quella frase, adesso, risuonava nella sua mente come una risata beffarda e lei si sentì in dovere di porre fine al quell’inutile, patetica vita.
In un attimo le fu addosso, rendendosi conto che entrambe avevano iniziato a precipitare fuori dall’edificio, avvolte in un campo di forza necessario quanto bastava per non ridurle in poltiglia una volta atterrate. Cercò di bloccarle i movimenti nelle poche frazioni di secondo a sua disposizione, ma l’Asari fu più veloce di lei, scagliandola prepotentemente verso il basso.
La sua armatura strisciò contro l’asfalto, attutendo solo in parte il violento colpo. Sentì la schiena pulsare di un dolore sordo, bruciante, ma nulla in confronto all’estremo stordimento provocato dall’urto della testa contro il pavimento. Si portò debolmente una mano sullo scalpo, tastando del sangue, pregando che fosse solo una ferita superficiale. Poi, con le poche forze rimaste, si voltò in tempo per vedere che Liara si era librata in aria appena dopo di loro, protetta da un campo biotico, pronta ad avventarsi contro Tela Vasir. Avrebbe voluto alzarsi, darle una mano, inseguirla a ruota, ma nessun muscolo del suo corpo rispondeva ai suoi ordini. In cuor suo, pregò che lei da sola riuscisse a fermarla in tempo. Una volta uscite dal suo campo visivo, si affidò solo ed esclusivamente al suo udito, percependo chiaramente una raffica di proiettili e il suono tipico di un’esplosione biotica, poi più nulla.
Dietro di lei, una serie di passi veloci, leggeri, e Thane fu subito al suo fianco. Si accovacciò accanto a lei, controllando sommariamente se avesse riportato gravi ferite, con un’espressione assolutamente sconvolta sul volto. Lei sbatté un paio di volte le palpebre, aggrappandosi alle sue braccia per rimettersi in piedi, mentre il suo factotum riceveva l’ordine di pompare una discreta quantità di medigel nel suo flusso sanguigno. Si sentì subito meglio, mentre tornava pienamente cosciente e Thane la trascinava dietro un riparo. Il perché fu subito ovvio: una piccola squadra di mercenari aveva fatto ingresso da uno dei portelloni che si affacciavano sul piazzale circostante, iniziando a fare fuoco senza pietà.
“Sto bene”, lo rassicurò, controllando che la pistola non avesse riportato danni. Lui strinse brevemente una mano intorno al suo braccio, poi tornò a concentrarsi sull’obiettivo, lanciando un globo d’energia oscura verso il primo mercenario capitatogli a tiro.
Shepard ebbe giusto il tempo di vedere un movimento sospetto prima di lanciarsi su di lui e creare uno scudo biotico, poi un lampo esplose accanto a loro seguito da uno stridio assordante. Pensò con rabbia che gli avrebbe fatto ingoiare una ad una ognuna di quelle maledette granate stordenti e si preparò a lanciare un’onda d’urto facendo esplodere il campo d’energia oscura, indirizzandola verso il gruppo di mercenari. Furono sbalzati in aria e finiti dalla Predator di Thane in una serie di precise raffiche cadenzate. Ma entrambi sapevano che questo sarebbe stato solo l’inizio.
 
 
 
Quando finalmente riuscirono a farsi strada fra i mercenari, oltrepassando il portellone attraverso il quale Tela Vasir era fuggita, sentirono i suoni inconfondibili di uno scontro a fuoco e cercarono copertura.
“Liara? Mi ricevi?”
“Shepard, sta fuggendo!”, esclamò l’Asari, uscendo inutilmente dal suo riparo. Neanche l’ultimo globo d’energia biotica fu abbastanza da fermare Tela Vasir. La videro lanciarsi letteralmente verso un’astroauto ed entrare nell’abitacolo come se niente fosse. Gli era sfuggita di nuovo, e Shepard imprecò frustrata, mentre si avviava verso l’amica.
“Hai idea di dove sia diretta?”, domandò.
“No, ma dobbiamo inseguirla”, fece Liara, indicando a Shepard una vettura nelle vicinanze. Nei suoi occhi non c’era spazio che per l’enorme desiderio di vendetta. Thane si sedette sul sedile posteriore ad un cenno di Shepard e lei mise in moto senza perdere tempo.
 
 
 
“Dannazione Ann, un camion!”, urlò l’Asari dopo appena trenta secondi dalla partenza. Shepard la vide coprirsi il volto con le mani e non poté fare a meno di curvare un angolo delle sue labbra verso l’alto. Erano lontani i tempi del Mako, ma la sua spericolatezza alla guida era rimasta inalterata. La città si apriva davanti a loro come uno squarcio tra gli enormi grattacieli, mentre la pioggia picchiettava forte sul tettuccio e le nanopolveri idrorepellenti sul parabrezza neutralizzavano all’impatto le gocce d’acqua, rendendo loro possibile mantenere il contatto visivo sull’astroauto di Tela Vasir. “Shepard, per la Dea!”. Liara continuò a sciorinare imprecazioni mentre Shepard si dava all’inseguimento con maggiore foga, passando attraverso cunicoli impossibili, file di astroauto in coda, tunnel sopraelevati pieni zeppi di vetture in transito. Rischiò seriamente di andare a finire contro un mezzo pesante e a quel punto, dopo aver sterzato bruscamente per evitare l’impatto, fu costretta anche a sorbirsi le lamentele di Thane. “Fai più attenzione, Shepard”, le aveva detto, in un tono di voce che alle orecchie di Liara era suonato fin troppo calmo, mentre a lei sembrò assolutamente furioso. Decise di darsi una regolata e si lamentò della mancanza di armi sulla vettura. “E’ un taxi Ann, cosa ti aspettavi?”, esclamò Liara portandosi una mano sulla fronte, mentre Thane si accorgeva di una mina di prossimità lanciata dall’auto di Tela Vasir. “Gira a destra!”, le intimò, aggrappandosi ai sedili anteriori nello stesso momento in cui Shepard si esibiva in un’altra delle sue mosse spericolate. “Merda …”, mormorò lei stringendo le mani sul volante fino a far diventare bianche le nocche. La mina esplose in lontananza, danneggiando probabilmente un paio di autovetture, quel poco che bastava per congestionare ulteriormente il traffico.
“Shepard, dannazione, la stiamo perdendo!”, urlò Liara, sbarrando gli occhi come alla ricerca del più piccolo indizio su dove si stesse dirigendo.
“Tieniti forte”, rispose semplicemente lei, entrando in un cantiere a velocità inaudita.
Liara e Thane trattennero il respiro, pregando di non finire addosso ad un muro. Si concessero di respirare solo a pericolo scampato. “Ti stai divertendo?”, le domandò lui, sarcastico.
“Mi divertirò solo quando sarà morta”, rispose Shepard, mordendosi una guancia per la tensione mentre evitava un’altra mina.
“Sai cosa significa una collisione a questa velocità?”, incalzò Liara.
“Vuoi recuperare o no i tuoi dati?”, la zittì Shepard. “Calma i tuoi nervi, ascolta un po’ di musica”, disse, accendendo l’autoradio. Si sentirono due sospiri rassegnati in sincrono, prima che la musica riempisse l’abitacolo, sovrastando i rumori del traffico e della pioggia.
“Ti sembra davvero il caso?”
“Non ti sento, Liara”, rispose Shepard, alzando per tutta risposta il volume. Concentrazione, aveva bisogno di concentrazione, non di due alieni che le facessero notare ogni secondo di aver superato enormemente il limite di velocità.
Proseguì nella sua folle corsa, prima di affiancare finalmente l’auto di Tela Vasir. Si scambiarono uno sguardo truce al di là dei finestrini, poi lo Spettro si decise a fare la sua mossa, virando bruscamente fino a colpire la fiancata. Shepard restituì l’urto con piacere, poi ancora una volta, finchè un camion non fu in procinto di tagliare loro la strada e a quel punto si gettò con velocità verso l’auto dell’Asari, lanciandola praticamente addosso al mezzo pesante. L’urto fu violento, l’astroauto si girò su se stessa per una decina di volte, prima di schiantarsi bruscamente sul terrazzo un palazzo a qualche centinaio di metri di distanza. Liara e Thane furono sballottati in malo modo all’interno dell’abitacolo, Shepard rischiò seriamente di uscire fuori dal parabrezza anteriore e un acuto particolarmente forte del cantante rincarò la dose di terrore che già si respirava, ma se non altro erano riusciti a fermarla.

 

“I hate to look into those eyes
And see an ounce of pain
Her hair reminds me of a warm safe place
Where as a child I'd hide
And pray for the thunder
And the rain
To quietly pass me by”

[x]

 
 
Della pioggia non restava ormai che l’aria carica di umidità e le nuvole iniziavano a diradarsi in lontananza, inghiottite dalla notte. Parcheggiarono poco lontano dall’auto di Vasir e si concessero soltanto un’istante per riprendersi da quella folle corsa, mentre la musica scemava lasciando posto ad un inusuale silenzio.
“Mai più. Ricordami di non salire mai più su un’auto con te alla guida”, sbuffò Liara, una volta lasciato l’abitacolo. Shepard sorrise, guardandosi intorno con circospezione, e affiancò Liara che si era già messa alla ricerca di Tela Vasir. “Non può essere andata molto lontano”, disse lei in un sussurro, impugnando la Predator per precauzione. Fecero una dozzina di passi in direzione dell’ingresso della struttura, quando si accorsero che stava per essere presidiata da ulteriori rinforzi. Altre truppe dell’Ombra, altri mercenari da affrontare e Tela Vasir scomparsa… per Shepard non poteva esserci uno scenario più odioso. Fortunatamente, in tre riuscirono a cavarsela egregiamente. Combinare i poteri biotici in due poteva essere fatale, combinarli in tre si rivelò decisamente devastante, avendo il vantaggio di poter deviare i colpi con uno scudo tre volte più potente e di poter lanciare onde d’urto tre volte più efficaci. Nei pochi istanti in cui restarono separati, Thane colpì con precisione i biotici da lontano col suo Viper, Shepard caricò i nemici sprovvisti di scudo e Liara intrappolò in singolarità quelli più pericolosi, evitando che scagliassero granate contro di loro. Quando penetrarono all’interno della struttura lo scenario che trovarono di fronte agli occhi sembrò surreale e Shepard giurò di aver visto Liara arrossire per un istante.
“Che diavolo di posto è questo?”, domandò, aggirandosi all’interno di uno dei lussuosi appartamenti che si affacciavano a strapiombo sulla città. Evidentemente i rumori dello scontro avevano allertato la gente che vi abitava, mettendola in fuga. I quadri costosi, le statue ricercate, l’arredamento moderno e raffinato faceva pensare che fosse un luogo riservato solo a pochissimi eletti, eppure sembrava presentasse parecchi segni d’usura.
“E’… un hotel, Shepard”, rispose Liara, riluttante.
Lei avanzò, notando macchie di sangue blu sul pavimento. “Bene, vediamo dove conducono… come in ogni giallo che si rispetti” disse, entrando con circospezione in una stanza da letto. Si voltò e fu costretta ad assistere ad uno scenario a dir poco imbarazzante: un Umano e un’Asari in abiti succinti erano riversi sul pavimento, accucciati come se fossero appena stati vittime di un attentato, mentre, cosa decisamente più grottesca, sulla parete di fronte veniva proiettato un filmato hard. Shepard deglutì e dopo aver rassicurato brevemente i due malcapitati sull’arrivo dei soccorsi, uscì in fretta dalla stanza chiedendo spiegazioni a Liara.
“Non è un hotel qualunque, è l’Azure. Azure, in gergo, sta anche per…”
“Ho afferrato, Liara, ho afferrato”, rispose Shepard sconcertata. “Fammelo segnare sulla lista dei posti più strani dove ho combattuto”, mugugnò, rimettendosi sulle tracce di Vasir.
Fecero l’intero giro dell’immensa struttura, finchè il suo sangue non li portò dritti su un enorme terrazzo con una stupenda vista panoramica, dove parecchia gente era impegnata in un rinfresco in grande stile. Probabilmente la musica troppo alta e la certezza di trovarsi in un luogo sicuro e lontano da occhi indiscreti, aveva impedito loro di captare il minimo segnale di pericolo.
“Shepard”. Thane la affiancò, facendole un cenno per indicare Tela Vasir, qualche decina di metri più avanti, tra la folla. Nessuno sembrava prestarle attenzione, nonostante indossasse un’armatura e stesse copiosamente sanguinando. Solo quando anche lei si accorse della loro presenza ed ebbe la prontezza di afferrare una persona qualunque per tenerla in ostaggio, la gente intorno a lei si rese conto della gravità della situazione e iniziò a correre in tutte le direzioni, urlando e strepitando alla stregua di criceti in gabbia.
“Non vuoi che questa donna muoia per colpa tua, dico bene, Shepard?”, la minacciò Vasir, tenendo la pistola premuta contro la tempia della vittima, che tremava con gli occhi gonfi di lacrime.
“Lasciala. Subito!”, le ordinò Liara, tingendosi di blu.
“Siamo tre contro uno, non ti conviene”, incalzò Shepard.
“Vi prego, aiutatemi!”, li implorò la donna.
“Non ti succederà niente”, tentò di rassicurarla Shepard, curvando le sopracciglia con rabbia.
“Ma certo… Abbassate le armi e la lascerò andare”.
Shepard sapeva che non si sarebbe fatta scrupoli a togliere di mezzo un innocente. Per lei sarebbe stata solo una vittima in più, a conti fatti, ma sapeva altrettanto bene di non poterla sottovalutare. Era uno spettro, era una Ricognitrice come lei e una ferita non l’avrebbe fermata dall’attaccarli. Ma lei aveva pur sempre i biotici su cui contare e decise di utilizzare quella carta, sperando di non sottoporre la sua squadra a un rischio troppo grande.
“Armi a terra”, ordinò a Liara e Thane, depositando per prima la sua pistola e il lanciamissili. Alzò le mani in segno di resa e aspettò che liberasse l’ostaggio.
Tela Vasir spinse la donna con violenza sul pavimento e puntò l’arma verso di loro. Fu in quel preciso istante che Shepard decise di mettere a frutto la sua strategia e dopo aver fatto un breve cenno in direzione di Liara, colpì con un globo biotico l’arma, strappandogliela dalle mani. Voleva uno scontro? Bene, ma non le avrebbe concesso nessun vantaggio.
Lo Spettro si teletrasportò a distanza, lasciando una scia blu elettrico dietro di sé, ed estrasse un Vindicator.
“Thane, coprimi le spalle. Liara, resta in allerta, potrebbero arrivare rinforzi”, ordinò Shepard, prima di lanciarsi in una potente carica biotica. Un’esplosione blu dipinse l’aria intorno a loro, mettendo alla prova la forza dei loro rispettivi poteri che si scontrarono e detonarono, facendole arretrare, come i poli uguali di due calamite che si respingono. Sapeva che non sarebbe stato facile, e le sembrava quasi uno scherzo del destino dover affrontare qualcuno in possesso delle sue stesse capacità, del suo stesso addestramento, del suo stesso titolo… con l’unica differenza che a lei, quel titolo, l’avevano tolto. Ormai era diventata una questione personale, una questione d’orgoglio, e Shepard continuava a ripetersi che era suo dovere toglierla di mezzo, a qualunque costo, mentre i primi rinforzi fecero il loro ingresso ad armi spianate. Adesso erano nettamente in svantaggio e lei era decisa ad usare qualunque mezzo pur di eliminare la sua controparte. Ecco come si sentiva… come l’altro, opposto risvolto della medaglia. Sarebbe potuta trovarsi al posto suo, se solo avesse concesso alla sua moralità di prendere un’altra strada… e il solo pensiero la mandava in bestia.
 
Era da tanto che non combatteva così ferocemente. Durante le ultime missioni aveva sempre avuto a che fare con nemici di calibro nettamente inferiore. Gentaglia, mercenari ben equipaggiati ma con un’evidente carenza di tattiche e prontezza di riflessi. Persino i Collettori le erano parsi un obiettivo più facile da annientare, adesso che le sembrava di stare affrontando se stessa. Le cariche biotiche di Tela Vasir erano potenti come le sue, i suoi riflessi altrettanto pronti, la sua forza ugualmente brutale. Se qualcuno avesse visto quello scontro dall’esterno, senza prendervi parte, avrebbe raccontato di aver visto due fantasmi azzurri volteggiare nell’aria, scontrarsi, cadere, rialzarsi e tornare a sfidarsi con più foga di prima, in un circolo senza fine. Liara e Thane si occuparono principalmente dei droni di supporto e dei mercenari, tenendo d’occhio Shepard senza capire dove iniziava lei e finiva Tela Vasir. Una volta eliminata l’orda di nemici, restarono ad osservarla da dietro ad un riparo, senza trovare il modo di aiutarla. Un colpo delle loro armi o dei loro poteri sarebbe potuto rivelarsi fatale in quelle circostanze.
“E’ forte”, disse Liara, con una punta di scoraggiamento nella voce, mentre un’esplosione biotica illuminava il cielo a qualche metro di distanza.
“Anche Shepard lo è”, rispose Thane con fermezza, senza perderla di vista un solo istante. In cuor suo era sicuro che ce l’avrebbe fatta, ma una parte di sé restava tremendamente consapevole che avrebbe potuto fallire e il solo pensiero non gli dava pace.
 
Per quanto l’Asari fosse stata abile nel respingere gli attacchi di Shepard, per quanto avesse messo  perfettamente a frutto la propria strategia difensiva, per quanto a lungo riuscì a sostenere il combattimento con dignità, alla fine fu costretta ad ammettere la propria sconfitta. La ferita non le aveva lasciato scampo, costringendola inerme e boccheggiante dopo l’ultima onda d’urto subita, ora che non restava più medigel da pompare nel suo organismo. Shepard le si avvicinò con cautela, scontrandosi con due occhi in procinto di abbandonare la vita, ma ancora carichi di rabbia. Liara la raggiunse immediatamente, premurandosi di recuperare ciò per cui erano giunti fin lì, e Thane si fermò ad osservare Shepard a distanza, lasciandole il tempo di chiudere quella faccenda come meglio avrebbe voluto. Osservò la notte calare su Nos Astra, una notte senza stelle, fredda e umida come l’Oceano, e rabbrividì. Quante altre volte avrebbe dovuto vederla lottare per la sua stessa vita, senza poter fare niente per aiutarla? Gli sembrò così lontana la serata precedente, quando entrambi avevano condiviso lo stesso cielo stellato, come due persone assolutamente normali, chiacchierando dolcemente senza che niente e nessuno potesse disturbare la loro quiete. E adesso, ad appena un giorno di distanza, negli occhi di lei non vedeva altro che la rabbia, la frustrazione, un desiderio di giustizia capace di soffocare tutto il resto. Si rese conto, come in una rivelazione, che Irikah doveva aver provato lo stesso identico sentimento di sconforto e impotenza, ogni volta che lui baciava la sua fronte e le diceva “sarò qui tra un paio di giorni, abbi cura di te”. Riusciva a vederla nella penombra di quella cucina allegra e in disordine, mentre osservava tristemente la pioggia appannare i vetri e si chiedeva se anche quella volta lui sarebbe davvero tornato. Riusciva a immaginarla mentre, di notte, stringeva Kolyat a sé, pregando che il suo ritardo fosse solo un ritardo e non l’anticipazione di un’orribile notizia. Aveva avuto molto tempo per riflettere sul suo passato, ma mai, come in quell’istante, il senso di colpa gli era sembrato così forte.
“Thane?”, Shepard sfiorò leggermente il suo avambraccio, facendolo riemergere da quell’ondata inaspettata di ricordi.
“Abbiamo i dati che ci servivano, dobbiamo tornare alla Normandy”, aggiunse perplessa, mentre lui lanciava un’ultima occhiata al cadavere di Tela Vasir, riverso sul pavimento, esattamente come ogni mercenario che aveva varcato quel perimetro. Avrebbe dovuto provare sollievo, e invece fu assalito da un insolito senso d’inquietudine.
 
 
 
“Sei diversa, Liara”. Quelle furono le prime parole che lasciarono le labbra di Shepard, una volta rimaste da sole, nel silenzio della sua cabina, mentre la Normandy era in rotta per la nebulosa Hourglass.
“Le persone crescono, Shepard. E’ un bene, no?”
“Non quando questo ti impedisce di attribuire il giusto valore alle cose”, rispose lei, tirando fuori dal minifrigo una bottiglia di vino bianco. “Mi fai compagnia?”
“No, grazie. Devo restare lucida”.
“Ci vorranno due ore prima di raggiungere Hagalaz, un bicchiere di vino servirà solo per schiarirti le idee…”
“Non ne ho bisogno, Ann”.
“Io credo il contrario, invece”, rispose lei con determinazione, versando due dita di vino in un bicchiere, solo per sé.
“Cosa stai cercando di dirmi?”, Liara finalmente si voltò ad incontrare il suo sguardo, incrociando le braccia sotto al petto. Un evidente segno di chiusura.
Shepard si volse tranquillamente a fronteggiarla, con la sicurezza di chi sa esattamente dove vuole andare a parare.
“Non ti sei neppure degnata di chiedermi come stessi, dopo avermi vista precipitare dal Dracon Center. E questo non è da te…”
Liara abbassò lo sguardo, volgendosi poi ad osservare l’acquario vuoto, sperando che qualunque cosa uscisse dalle sue labbra, assomigliasse anche solo leggermente ad una frase di senso compiuto.
“Dovevo restare concentrata, Shepard. Sapevo che una piccola caduta non ti avrebbe ucciso… ma se mi fossi lasciata distrarre… se solo… Tu non capisci quanto sia importante per me questa missione”, balbettò, gesticolando nervosamente. Adesso non c’era solo vendetta nei suoi occhi, c’era anche paura, l’estrema paura di fallire. “Feron è lì solo per colpa mia”.
Shepard diede un sorso alla sua bevanda, assaporandone lentamente ogni goccia, poi si avvicinò a lei, poggiando una mano sulla sua spalla. “Lo salveremo”, disse semplicemente, consapevole che in fondo, la colpa fosse anche e principalmente sua. E Liara rispose con uno sguardo eloquente, l’essenza della gratitudine e dell’apprensione insieme.
 
 
 
La Normandy entrò nell’atmosfera di Hagalaz, perfettamente occultata. Furono accolti da un’incredibile tempesta elettromagnetica, causata dall’estrema escursione termica del pianeta sottostante. Gli oceani ribollivano di giorno, per poi congelarsi istantaneamente di notte, generando così continue tempeste devastanti. La nave dell’Ombra seguiva perfettamente la luce della stella, restando in questo modo irrintracciabile in mezzo alla bufera, eppure costantemente al sicuro. Era dotata di un efficace sistema antifulmine che la rendeva immune alle scariche elettriche, ma riuscire a penetrare all’interno sarebbe stato impossibile senza doversi confrontare prima con l’esterno della struttura. Non c’era altro modo che quello di cercare un’entrata da fuori, e ciò sembrò a Shepard pura follia.
“Mi stai chiedendo di camminare sul fasciame di una nave in mezzo a una tempesta di questa portata?”, aveva chiesto a Liara, guardando con sconcerto fuori dal finestrino.
“Non abbiamo alternative. Saremo al sicuro, basta seguire il giusto percorso e trovare il boccaporto d’ingresso”.
“Siamo in mezzo al fottuto spazio! Non c’è niente di sicuro!”
“Fidati di me, non metterei mai a rischio la tua vita”.
Shepard sbuffò, maneggiando distrattamente la Phalanx, soppesandola con una mano, poi con un’altra. Aveva deciso di portare Thane con sé, evitandosi la seccatura di dover rifare il punto della situazione ad un altro membro dell’equipaggio, ma le sembrò così distante da rivalutare per un attimo quella decisione. Non aveva detto una parola, non aveva espresso la minima preoccupazione nei confronti di ciò che avrebbero dovuto affrontare, e questo non le piacque. Arrivò per un attimo a pensare che potesse star male e il solo pensiero le fece gelare il sangue. Avrebbe voluto un istante con lui, solo un istante faccia a faccia per chiedergli cosa fosse a turbarlo, ma all’interno della piccola navetta era impossibile ritagliarsi un solo angolo di privacy. Decise che avrebbe messo da parte i suoi sentimenti e avrebbe agito come un qualsiasi superiore nei confronti di un sottoposto, sperando che lui cogliesse il suo rammarico nel farlo.
“Krios, ti vedo distratto. Se c’è qualche problema, dillo immediatamente. Non torneremo indietro una volta atterrati”, disse a denti stretti, e quella frase le sembrò talmente innaturale da risultare quasi ridicola alle sue stesse orecchie.  
“Chiedo scusa Comandante, ero solo sovrappensiero”.
“Non ti è concesso di stare sovrappensiero in missione”, gesticolò lei, imitando le virgolette.
“Ricevuto”, rispose lui in modo glaciale.
Liara si limitò ad osservarli con la coda dell’occhio, sentendosi improvvisamente a disagio.
Cosa le nascondevano quei due? C’era qualcosa di estremamente artificioso nel modo in cui si erano rivolti la parola, nel modo in cui entrambi avevano evitato di guardarsi. Ancora non riusciva a spiegarsi perché avesse portato lui con sé, e non qualcun altro che conosceva da tempo, qualcuno di cui potersi fidare davvero per una missione così delicata da risultare in qualche modo personale.
La navetta atterrò in una zona sicura e lei accantonò immediatamente ogni altro pensiero, adesso che ciò contava era solo riuscire a far fuori l’Ombra.
 
 
 
“La ricezione è pessima, dannazione. Dobbiamo restare uniti”, disse Shepard attraverso il comm. alzando il tono di voce abbastanza da risultare udibile anche attraverso i boati della tempesta.
La sua voce giunse distorta alle orecchie di Liara e Thane, che si mossero per affiancarla e proseguire nell’avanzata. La tempesta infuriava sopra di loro, intorno a loro, tingendo l’atmosfera di giallo, e i venti erano talmente forti che senza dispositivi magnetici sotto agli stivali non ce l’avrebbero fatta.
“Di qua, Shepard”, fece Liara, indicando un corridoio che scendeva a strapiombo lungo uno dei fianchi della nave.
“E’ un suicidio”, commentò lei tra sé e sè, serrando la mascella, mentre si preparava ad affrontare la discesa evitando di prestare troppa attenzione al vuoto immediatamente sotto di lei.
“Droni di manutenzione!”, esclamò poi, cercando riparo.
“Ci vedono come residui della tempesta”, disse Liara, facendo fuoco.
“Ne arrivano a decine, attenzione!”
“Temo che non siano l’unico inconveniente”, esclamò Thane, indicando un gruppo di mercenari sulla sinistra. “Ore due. Ho intravisto un paio di biotici”.
Shepard fece per trovare l’angolo con la visuale migliore, prima di iniziare a far fuoco, ma Liara la fermò momentaneamente.
“Quei condensatori raccolgono l’energia elettrica dei fulmini. Sono come degli enormi contenitori d’energia elettrica, potremmo…”
“Grazie Liara”, rispose lei, colpendone immediatamente uno per testare effettivamente la loro efficacia come armi. Il gruppo di mercenari fu investito all’istante dalla corrente, strappandole un sorriso da sotto il casco.
“Fate attenzione quando passate di lì, potrebbero voler usare lo stesso trucchetto con noi”, aggiunse poi, consapevole oltretutto che se avessero eliminato ogni condensatore, niente li avrebbe più potuti proteggere dai fulmini.
Proseguirono a fatica, incontrando una fitta resistenza nei pressi del boccaporto attraverso il quale avrebbero tentato di penetrare nella struttura. Mentre Shepard e Thane si occupavano dei mercenari, Liara studiò il meccanismo che sigillava il portellone. “Mi mancano i tempi dove riuscivi a fare tutto con l’omnigel”, commentò frustrata. Fece il possibile per velocizzare le operazioni di sblocco, ma in quelle condizioni risultava dieci volte più complicato. Si voltò un istante, mentre il suo factotum faceva il restante lavoro, solo per notare che Thane e Shepard se la stavano vedendo brutta. Un gruppo di mercenari a destra ed uno a sinistra, e loro due semplicemente al centro che cercavano di combinare i loro poteri, ergendo di tanto in tanto barriere biotiche in grado di deviare il grosso dei proiettili. Si sentì in colpa per essere impossibilitata ad aiutarli, ma non poté fare a meno di notare con ammirazione la loro incredibile sinergia. Si muovevano con sicurezza, anticipando uno le mosse dell’altro, ed ebbe come l’impressione che la loro priorità, in campo, fosse quella di pararsi vicendevolmente le spalle, prima ancora che la loro stessa sopravvivenza. Pensò di non aver mai visto niente di simile, mentre il suo factotum lampeggiava recando la scritta 79%. Probabilmente Shepard aveva deciso di portare lui in missione per il semplice fatto che insieme facevano una grande squadra… Il perché le era sconosciuto, d’altra parte. Come poteva un assassino abituato a lavorare in solitaria, giunto solo da pochi mesi sulla Normandy, essere riuscito ad occupare un posto così importante in battaglia? Immersa totalmente in questi pensieri, non si era accorta di essere stata affiancata dai due. I mercenari erano stati eliminati e Shepard la guardava con impazienza, respirando a fatica.
“Quanto manca?”
Liara sussultò. “Cinque percento… ce l’ho quasi fatta”.
Pochi istanti dopo il portellone si era sbloccato e i tre poterono fare il loro ingresso, liberandosi finalmente dei loro caschi.
 
Si mossero abilmente lungo gli stretti corridoi della struttura, difendendosi contro l’arrivo dei mercenari e dei mech, finchè non giunsero alla cella di contenimento di Feron. Liara si precipitò dal Drell, urlando il suo nome, un misto di sentimenti contrastanti sul suo volto. Era felice di vederlo vivo, ma terrorizzata per le sue precarie condizioni di salute. Era ormai due anni che l’Ombra lo teneva prigioniero e il solo pensiero di cosa avesse potuto passare le metteva i brividi. Si appoggiò al vetro di quella che sembrava a tutti gli effetti una stanza delle torture e cercò di rassicurarlo.
“Ti tirerò fuori da qui!”, esclamò, iniziando a digitare dei codici sulla plancia dei comandi.
“No, non farlo!”, gridò il Drell troppo tardi, poco prima di accasciarsi nuovamente sulla sua poltrona, in preda alle convulsioni. Liara spalancò gli occhi ormai lucidi e ritrasse le mani rapidamente, quasi come se si fosse scottata. “Che succede?”, domandò preoccupata.
“Perché diamine lo tengono imprigionato, cosa stanno cercando di fargli?”, chiese Shepard aggrottando le sopracciglia.
“Pare che sia collegato ad un dispositivo di messa a terra neurale”, rispose Thane, indicando sommariamente i dispositivi collegati alla postazione di Feron.
“Se tenti di liberarmi adesso mi friggi il cervello, Liara”, mugugnò il Drell. “Devi raggiungere la sala centrale… troverai… troverai resistenza. Una volta lì, stacca la corrente”.
Liara annuì con determinazione, appoggiando i palmi delle mani sul vetro.
“Sai chi è l’Ombra?”, domandò Shepard.
“So che è molto grosso e le guardie… ne sono… terrificate. Non sarà facile”.
“Un Krogan, forse?”, intervenne Liara.
“Non lo so, ma nessuno… che abbia attraversato quella porta… nessuno… è mai tornato indietro”. Parlava con difficoltà, resistendo alle scariche elettriche che di tanto in tanto lo colpivano con violenza, un costante monito per non pensare neanche di tentare la fuga.
“Resisti, ti prego”, fece Liara, appoggiando la fronte sul vetro, quasi a voler abbattere quell’ultimo ostacolo solo con la forza della mente.
“Cercherò… cercherò di non andare da nessuna parte”, disse Feron, cercando di sorridere. “Fai attenzione”.
Liara annuì ancora una volta, lanciandogli un ultimo sguardo carico di apprensione prima di rimettersi in cammino.
 
 
Giunsero davanti al portellone della sala centrale stremati. Ormai era da diverse ore che combattevano e, a parte quel pasto fugace consumato su Illium e un paio di barrette proteiche sulla Normandy, nessuno di loro aveva davvero avuto il tempo di ricaricare le energie. Il corridoio era un ammasso di corpi riversi uno sull’altro, solo una lamiera di ferro li separava dall’Ombra in carne ed ossa. Liara tremò al pensiero che di lì a qualche istante avrebbe posto fine a tutto, avrebbe guardato in faccia colui che la voleva morta da troppo tempo. Thane strinse le mani in un pugno… anche lui aveva un conto in sospeso con l’Ombra, chiunque essa fosse. Se Irikah era morta, era solo colpa sua. Si scambiarono un cenno d’intesa, poi sbloccarono il portellone e fecero il loro ingresso nell’ampia sala.
Seduto ad un’enorme scrivania di metallo c’era lui, da cui dipendeva in larga parte il destino della Galassia. Un enorme individuo nascosto dalla penombra, che rivelava i contorni alieni e sconosciuti tanto quanto bastava per capire che non si trattava né di un Krogan, né di qualunque altra specie ben conosciuta. Era grande quanto loro tre messi insieme e teneva le mani giunte, quasi fosse sicuro di non correre alcun pericolo, nonostante avesse perso ormai tutte le sue guardie.
“Uno Yahg…”, commentò Thane, tenendo la pistola puntata contro di lui.
“Siete qui per il Drell, immagino. Azzardato. Anche per lei, Comandante Shepard”, tuonò l’Ombra, con una voce che sarebbe potuta appartenere a un mostro degli inferi.
“Che mi dici della bomba su Illium? Quella non è stata azzardata?”, lo provocò Shepard con un ghigno. Il pensiero di tutta quella distruzione le fece tendere i muscoli, aumentando la stretta delle dita intorno alla Phalanx.
“Un provvedimento estremo, ma necessario”.
“No!”, esclamò Liara, furibonda. “Così come non era necessario tenere prigioniero Feron per due anni”.
“Dottoressa T’Soni”, rispose lui, senza scomporsi, “è stata la sua ingerenza a causare tutto questo. E’ lei l’unica responsabile per ciò che è accaduto al Drell, per ciò che è accaduto su Illium e per ciò che accadrà oggi ai suoi amici”.
“Perché volevi vendere il mio corpo ai Collettori?”, domandò Shepard d’istinto, non molto sicura di voler davvero conoscere la risposta.
“Affari. E, in effetti, il suo arrivo qui è prezioso. La loro offerta è ancora valida”, rispose quello, con assoluta pacatezza.
“Pensi di poter uscire vivo da qui, senza più un equipaggio a fare tutto il lavoro sporco?”
“Erano sacrificabili. Lei è solo una mera interruzione”, disse, scivolando con i gomiti sulla scrivania. “Ma basta parlare. Il mio operato è troppo importante per essere compromesso da un misero traditore”.
Si alzò, rivelandosi in tutta la sua imponenza. Un lungo paio di corna svettavano dal suo cranio, la bocca mostruosa era circondata da decine di denti appuntiti e affilati come quelli di uno squalo, ogni cosa di lui trasudava forza e potenza.
“Lei viaggia con una compagnia interessante, dottoressa T’Soni. Scaltro da parte vostra portare con voi l’assassino. Portate al figlio del signor Krios i miei omaggi”, disse, con una punta di soddisfazione nella voce. Thane e Shepard si scambiarono uno sguardo eloquente, lei sentì il sangue ribollire nelle vene, lui dovette frenare l’impulso di dare sfogo a tutta la propria rabbia, come non gli capitava da molto tempo. Caricò l’arma, un gesto quasi violento. Di fronte a lui c’era il responsabile di tutto quanto, di tutte quelle notti passate a desiderare di andarsene per sempre, di tutti quei momenti di dolore assoluto e straziante che avevano accompagnato gli ultimi dieci anni della sua vita. Nelle tasche dell’Ombra, nient’altro che il futuro stroncato di sua moglie, l’infanzia infelice di suo figlio, i sensi di colpa di un uomo che nella vita è stato addestrato ad uccidere e non ha saputo opporsi al suo destino.
Shepard si preparò ad affrontarlo, mentre lui sollevava la scrivania con furia omicida, scagliandola verso di loro. Le lamiere si accartocciarono sul pavimento come fossero fatte di cartapesta, mentre un secondo enorme pezzo di metallo veniva lanciato di nuovo in loro direzione.
E poi, l’inevitabile.
Shepard si gettò alla sua sinistra, facendo scudo a Liara con il suo stesso corpo, e Thane fu scagliato con violenza sul muro, perdendo istantaneamente i sensi. Il factotum di Shepard la informò che era ancora vivo, ma lei non riuscì a trattenere un urlo di estrema rabbia e frustrazione. Sparì tutto il resto, facendo spazio unicamente al desiderio di vendetta. Liara non poté fare a meno di accorgersi del suo repentino cambiamento. La razionalità aveva completamente lasciato il posto all’istinto e la vide lanciarsi con furia contro lo Yahg, incurante della sua stessa vita. Quella creatura era forte come si poteva immaginare, il suo scudo restituiva indietro tutti gli attacchi biotici e le armi non riuscivano a penetrare la spessa armatura. Mentre Liara approfittava delle sue debolezze, rendendogli il combattimento meno facile, a Shepard non era rimasto altro che affrontarlo a mani nude, affidandosi solo ed esclusivamente alla sua forza. In uno slancio si avventò su di lui, fendendo l’aria con una lama factotum, mentre lo Yahg si difendeva strenuamente, muovendosi con la pesantezza di un pachiderma e la forza di un predatore. Fu respinta da un colpo potente del suo scudo e cadde all’indietro. Si rialzò giusto in tempo per lanciarsi in un’altra carica. Lo stordì con un paio di destri, infliggendogli un colpo di lama sul braccio, mentre Liara cercava di distrarlo con il lancio di alcuni globi biotici.
“Così non funziona!”, urlò l’Asari, seriamente preoccupata per l’esito di quello scontro. C’era poco da dire, l’avevano sottovalutato. “Spostati al mio segnale”, aggiunse poi con fermezza, parlando piano attraverso il comm., cosicché potesse sentirlo solo lei. Shepard continuò ad attaccarlo, schivando i suoi colpi con l’utilizzo dei biotici, lo caricò più volte, rialzandosi dopo ogni attacco respinto. Nelle sue vene l’adrenalina pompava con prepotenza, annebbiandole la mente. Voleva vederlo morto, voleva ucciderlo. In quel preciso istante.
“Spostati!”
Shepard schivò un ultimo attacco e fece un balzo all’indietro, avvolta in un aura blu. Liara concentrò tutta la forza dei poteri sul rivestimento di vetro del soffitto, un enorme oblò di contenimento, attraversato da pura elettricità. Uno stupido sfizio, uno stupido rischio che lo Yahg, ottuso e troppo sicuro di sé, non aveva calcolato. Il vetro si frantumò, infilzandolo con ogni minuscola scheggia e l’elettricità fece il resto, friggendolo senza lasciargli alcuno scampo. I suoi scudi esplosero al contatto, creando un’onda d’urto che scaraventò Shepard e Liara sulla parete di fronte, poi il silenzio.
 

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Liara indossava un lungo abito viola, semplice ed accollato, secondo gli standard della moda Asari. Il suo fisico, sotto quel tessuto, non sembrava quello di una combattente… eppure aveva dimostrato il suo valore, anche nell’ultima battaglia. Impacciata e insicura, entrò all’interno dell’ascensore e premette il pulsante numero 4. Aveva avuto poco tempo per perdersi ad osservare i dettagli della nuova Normandy, ma non le era mancato il modo di studiarla molto tempo prima, attraverso le reti informative che controllava. Si ritrovò dietro al portellone della cabina di Shepard, indecisa sul da farsi. Aveva portato con sé una bottiglia di vino, sperando di farsi perdonare per l’ultima volta che aveva rifiutato di fare un brindisi con lei, poche ore prima, ma non era sicura che Shepard volesse la sua compagnia adesso.
Il Comandante la precedette, avvisata da EDI poco prima, e aprì il portellone con un sorriso stampato sulle labbra.
“Ann…”, sussurrò lei debolmente, porgendole i due bicchieri che teneva in mano.
“Avanti entra, di che hai paura?”, la invitò lei, notando la sua esitazione.
“Non ero sicura che avessi voglia di vedermi”.
“Non dire sciocchezze, ti ho invitato io. Perché mai avrei dovuto cambiare idea?”
Liara si avvicinò alla scrivania, cercando maldestramente di aprire la bottiglia. “Non hai detto una parola sulla navetta. Ti ho… ti ho messa in una brutta situazione. Hai rischiato la vita per me, hai rischiato la vita del tuo equipaggio”. Si riferiva a Thane, questo Shepard lo sapeva perfettamente.
“Rischiare la vita è il mio lavoro, Liara. L’avrei fatto comunque, ma farlo per un’amica è decisamente più gratificante”.
“A noi due”, sorrise l’Asari dopo aver versato un po’ di vino. Fecero scontrare i loro bicchieri, dando un piccolo sorso prima di accomodarsi sul divanetto.
“Come sta Feron?”, domandò Shepard, percorrendo distrattamente con un dito il bordo superiore del bicchiere.
“Sta meglio. E’ parecchio debilitato, ma si riprenderà. Ha deciso di voler restare per un po’ a bordo della nave, finchè non avrò finito il lavoro di backup. Poi tornerà su Omega, probabilmente...”, rispose incerta.
“Eri molto legata a lui?”
Liara si volse verso di lei, colta alla sprovvista da quella domanda. “Io… no… cioè. E’ complicato”.
Shepard sorrise, portandosi un’altra volta il bicchiere alle labbra.
“Se non vuoi parlarne non è un problema”, la rassicurò.
“No, non è questo… è che non lo so neanche io. Sin dall’inizio il nostro rapporto è stato fuori dal comune. Mi ha tradita più di una volta, poi si è sacrificato per me. E adesso non so… Ne ha passate tante, e so di essere solo io la causa. Stanotte l’ho sentito urlare nel sonno, è stato straziante. Ho paura che i ricordi possano prendere il sopravvento su di lui, ho paura di non riuscire ad aiutarlo…”
“Stargli lontano non lo aiuterà di certo. Devi fare in modo che si distragga, che non abbia modo di scivolare nelle sue memorie”.
Liara la osservò con attenzione. Quelle parole non erano semplici frasi di circostanza, e neppure aveva tirato ad indovinare.
“Come lo sai?”, le chiese a bruciapelo.
Shepard si rese conto del problema al quale si era appena esposta e tornò sulla difensiva, fiondandosi nel suo bicchiere. “E’ un Drell, immagino funzioni così…”
“Te l’ha detto l’assassino?”
“Thane”, puntualizzò lei.
“Te l’ha spiegato lui?”
“Condividiamo questa nave da mesi ormai, Liara. Non posso affermare che ognuno di noi sa tutto di tutti, ma…
“Ann”.
“Che c’è?”
“Con me puoi parlare. Non fare finta di niente… vi ho visti, chiunque si sarebbe accorto che voi due non siete solo semplici colleghi. La vostra sinergia in campo è qualcosa di spettacolare”.
Shepard dischiuse le labbra, per serrarle l’attimo dopo. Non era pronta ad affrontare quel discorso, non ci aveva mai neppure pensato. Mantenne gli occhi fissi sul pavimento, finchè il silenzio non fu troppo difficile da sopportare.
“Ne vuoi ancora?”, domandò, prendendo fra le mani la bottiglia.
Liara sorrise, annuendo. Quand’è che i sentimenti fossero diventati un argomento così spinoso, lei non lo sapeva, eppure non aveva mai visto Shepard così in difficoltà come in quel momento.
“Hai più sentito Kaidan dopo Horizon?”, si azzardò a domandarle, per tastare il terreno.
“Un’e-mail è tutto ciò che ho ricevuto. Un misero tentativo di conservare quel briciolo di rapporto rimasto, immagino…”
“Mi dispiace”.
“A me no. Ha scelto da che parte stare e lo stesso io. Non mi pento, perché so di averlo fatto per un buon motivo, ma a volte mi chiedo perché… perché mi ha salvata Cerberus e non l’Alleanza”.
“Sei stata salvata dall’Alleanza già una volta, Ann. Sei diventata ciò che sei grazie a loro. Adesso non ti serve più per continuare a fare del bene”.
Shepard sorrise amaramente, scolandosi in fretta anche l’altro bicchiere.
“A volte mi mancano quei tempi, mi manca la nostra vecchia nave. Non ho mai avuto il coraggio di tornare su Alchera, non so se riuscirei ad affrontare i ricordi con lucidità”.
Liara poggiò una mano sulla sua, ritraendola poco dopo. “Ma sono felice di avere i miei vecchi amici al mio fianco”, continuò lei. Stavolta fu la sua mano a raggiungere quella di Liara. Avevano condiviso tante, troppe cose insieme, e l’impresa del giorno prima sarebbe sicuramente rimasta nella storia, ma la loro amicizia andava ben oltre. Si fidavano ciecamente l’una dell’altra e se Shepard aveva un solo rimpianto nei confronti di Liara, quello era di non essere riuscita a  convincerla a tornare sulla Normandy.
“Ann… io ti devo le mie scuse”, eruppe improvvisamente l’Asari. “Dopo il tuo risveglio non abbiamo avuto modo di fare una vera chiacchierata, non ti ho mai neppure chiesto come avessi preso tutta la situazione…”, spiegò, seriamente mortificata.
“Non posso dirti che sia stato facile, ma… diciamo pure che me ne sono fatta una ragione. Sono viva e questo mi basta”.
“Sì, ma dove trovi la forza… dove trovi la forza di combattere anche quando conosci i rischi di questa missione?”
“Lo faccio per la mia gente, per la galassia”, disse semplicemente.
“E’ questo quello che racconti al tuo equipaggio?”
“Cos’altro potrei dire a qualcuno che parla del nostro obiettivo in termini di “missione suicida”?”
“Ma tu perché lo fai? Quali sono le vere ragioni?”, insistette Liara, seriamente convinta di voler comprendere qualcosa che le risultava incomprensibile.
Shepard si voltò dall’altra parte, cercando inutili risposte sul muro di metallo di fronte a sé. Aveva accettato perché non aveva nient’altro da perdere, all’inizio… adesso sapeva di farlo perché aveva fin troppo da perdere. Come spiegarlo, come tradurre in parole quello strano sentimento che si era insinuato dentro di lei senza neppure chiederle il permesso?
“Perché credo in una speranza, Liara. Voglio credere in un futuro migliore”.
“La prima volta che ci siamo incontrate, dopo la tua ricostruzione, era la vendetta a muoverti…”
“Le cose cambiano”.
“Cos’è cambiato?”
Shepard si alzò di scatto, accarezzandosi nervosamente i capelli con una mano. Si sentì come attraversata da una scarica elettrica, una voglia sempre più urgente di urlare al mondo tutto quello che provava e che cercava di seppellire costantemente.
“Ti sei appena lanciata in una missione estremamente rischiosa, avendo come primo obiettivo quello di salvare Feron… e hai il coraggio di pormi simili domande?”, sbottò. Non voleva attaccarla, voleva semplicemente che comprendesse le sue ragioni senza per forza doverla costringere ad attaccare i manifesti.
“Ti sei innamorata…”, osservò Liara mestamente, abbassando lo sguardo.
“Oh, dannazione!” Shepard si portò una mano sugli occhi, frustrata. “Io questo non l’ho mai detto”.
“Non ce n’era bisogno”.
Shepard si lasciò cadere di nuovo sul divano, sentendosi improvvisamente come svuotata. Piombò nel silenzio, sprofondata in un vortice confuso di pensieri ed emozioni che non lasciava scampo.
“Sta morendo, Liara… io non so davvero come fare…”, confessò poco dopo, prendendosi la testa fra le mani.
L’Asari le si avvicinò, passando un braccio intorno alle sue spalle. “Stai affrontando quello che affronta ogni Asari che abbia un compagno meno longevo. Non è la quantità di tempo a fare la differenza, ma il modo in cui se ne fa uso”, cercò di incoraggiarla.
“La missione è l’unica cosa che m’impedisce di pensarci. Il fatto che potremmo non farcela, in qualche strano e perverso modo, mi consola”.
“Non sentirti in colpa per ciò che provi. Sei un essere umano, per la Dea… avrai pur diritto a provare ciò che prova ogni organico. Paura, amore, odio, vendetta, speranza… non lasciare che questi sentimenti ti abbattano. Fanne il tuo punto di forza”.
“Ci sto provando”.
“Non ci riuscirai cercando di combatterli. Se ciò che provi per lui è davvero così forte, lanciati. Non hai le ossa di vetro, puoi scontrarti con la vita. E anche con la morte, se è necessario”.
“Ho già sentito questa frase…”
“Durante la mia gioventù ho passato molto tempo davanti alla televisione”.
Shepard sorrise, volgendosi verso di lei, e l’abbracciò. “Mi sei mancata, Liara”.
“Anche tu, Ann”.



 

Mi rendo conto di aver appena pubblicato un mattone, ma non sono riuscita a impedirmi di scrivere così tanto per questa missione. Adoro questo DLC, dopo Citadel è sicuramente il mio preferito. Poi adoro Liara e adoro Feron, penso si sia capito. Insomma, ringrazio in anticipo chi è riuscito a leggere fin qui e non mi ha mandato prima a quel paese, ammetto che ci vuole coraggio xD
E come sempre grazie ad Altariah per questo disegno stupendo.

 

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Capitolo 14
*** Riptide ***


“The colors conflicted 
 
as the flames climbed into the clouds 
 
I wanted to fix this but couldn't stop from tearing it down 
 
And you were there at the turn 
 
caught in the burning glow 
 
And I was there at the turn 
 
Waiting to let you know”

 
(Linkin Park, "Burn It Down")
 
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Liara lasciò la Normandy che era già notte, almeno secondo l’orario di bordo. Sarebbe tornata sulla nave dell’Ombra, dedicandosi a quel nuovo, enorme ammasso di dati che minacciava seriamente di seppellirla, se solo avesse permesso a se stessa di farsi trasportare dalle stesse smanie di potere e di controllo che avevano mosso il suo predecessore. Shepard si sentì alleggerita al pensiero che non fosse sola. In caso contrario, pensò, non le avrebbe mai permesso di andar via senza una qualche forma di supporto. Confidava nel fatto che insieme, lei e Feron potessero ritrovare la loro strada, una parvenza di tranquillità di cui, seppur per motivi diversi, erano stati privati da tempo.
Si allontanarono dall’atmosfera di Hagalaz per dirigersi verso la prima stazione spaziale disponibile, in modo da poter fare rifornimento e prepararsi per la prossima missione, quella per cui adesso l’intero l’equipaggio era in fermento. Il relitto di un vecchio Razziatore… che cosa avrebbero trovato? A quali orribili cose avrebbero dovuto assistere? Perché su questo, Shepard non aveva dubbi.
Quello fu uno dei tanti pensieri che attraversarono la sua mente, quella notte, mentre stringeva un cuscino fra le braccia, persa a guardare il vuoto dall’oblò sopra di sé.
Erano state ore faticose, dove l’azione aveva preso totalmente il posto della riflessione, lasciandola adesso quasi svuotata, talmente erano tante le cose da metabolizzare, su cui rimuginare. Primo fra tutte, il suo atteggiamento nei confronti di Tela Vasir, quell’avversario formidabile che, per un istante, era riuscita a farla dubitare delle sue stesse capacità.
Aveva provato solo vendetta, solo voglia di giustizia, almeno finchè non era riuscita a sconfiggerla. Poi quei sentimenti le erano scivolati di dosso, rendendola orrendamente consapevole della sua stessa debolezza per l’essersi fatta guidare da mere emozioni. Le ultime parole che lo Spettro le aveva rivolto rimbombavano nella sua testa, facendole adesso dubitare seriamente di cosa fosse giusto e cosa sbagliato. Non si era resa conto dell’evidenza della cosa, finchè l’Asari non le aveva puntato il dito contro. “Hai idea delle colpe di cui si sono macchiati i membri del tuo equipaggio? Hai idea dei crimini di cui si è macchiato Cerberus? Non osare giudicarmi”.
Improvvisamente, l’idea di far saltare in aria degli innocenti per un bene più alto, non le sembrò più così ripugnante. Non quando anche lei aveva dovuto sacrificare uno dei suoi su Virmire, non quando aveva dovuto sacrificare il Consiglio per il bene della Cittadella. Aveva fatto l’errore di concentrarsi su un dettaglio, invece di vedere il quadro generale delle cose… un errore che in altre circostanze sarebbe potuto essere fatale. Anche lei, in fin dei conti, combatteva per un’organizzazione senza scrupoli, che si era macchiata dei peggiori crimini, e tutto nel nome di un bene superiore. Provò improvvisamente vergogna davanti alla soddisfazione che aveva sentito davanti a Tela Vasir, sconfitta e sanguinante davanti a lei. Si rese conto che ad accomunarle non era solo lo stesso grado di addestramento, né lo stesso titolo… era qualcos’altro, qualcosa di terribilmente sconcertante. Entrambe, in un modo o nell’altro, erano state strumenti. Entrambe erano venute a patti con qualcosa di malvagio, credendo di seguire un’ideale, dove invece c’era solo la sete di potere di qualcuno, un burattinaio in grado di plasmare le loro vite con astuzia.
E lei, a questo punto, come avrebbe potuto osare giudicarla?
Ci sarebbe stato sempre qualcosa di sbagliato nella sua vita, quella nota stonata in grado di rovinare irrimediabilmente una sinfonia. Ne prese atto, finalmente, nella solitudine della sua cabina, rendendosi conto che anche dietro le migliori intenzioni si sarebbero celati sempre sentimenti in qualche modo sbagliati. Ripensò alle parole malinconiche di Garrus, “Grigio? Io… non so che farmene del grigio”, e improvvisamente lesse un altro significato nascosto tra le righe. Non ci vide una presa di posizione, non ci vide presunzione… le sembrò piuttosto di leggere paura dietro quelle parole, la paura di restare per sempre confinati in un limbo dove le cose non hanno colore, dove si mescolano fra di loro, rendendo la vista offuscata. Era più facile darsi dei limiti, scindere ogni cosa dall’altra seguendo criteri ben precisi, anche se ciò avrebbe reso la realtà accecante, fatta di contrasti troppo marcati, lontani dalle sfumature morbide che addolciscono gli occhi. E lei, in quel limbo, sentiva di starci in pieno, come dentro all’occhio di un ciclone. Se avesse permesso a se stessa di vedere il mondo in bianco e nero, non avrebbe mai accettato di lavorare per Cerberus, di stringere la mano ad individui che avevano ucciso sotto ricompensa, di combattere a fianco a persone squilibrate, o dalla moralità decisamente criticabile. Era scesa a compromessi, cercando di vedere il buono in ogni cosa, quella pennellata di bianco in grado di trasformare il nero in grigio.
E Thane era una di quelle cose.
 
 
 
Le mani strette intorno a una tazza fumante di thè, lo sguardo perso, assente, di chi si è momentaneamente allontanato dalla realtà, per rifugiarsi solo ed esclusivamente nei pensieri, nei ricordi… Thane non riuscì a sorridere, neppure quando la sua mente gli suggerì immagini infinitamente più piacevoli della visione del Drive Core che pulsava di fronte a lui. Ciò che era successo quel giorno, il carico di riflessioni che quella missione aveva fatto scaturire, erano cose che sentì di non poter condividere con nessuno, ancora troppo scosso dagli eventi per inquadrarli nella giusta luce. Lui e Shepard avevano fatto una buona squadra, come sempre, ma rispetto alle missioni iniziali dove si erano trovati a combattere fianco a fianco, stavolta sentì che c’era stato qualcosa di diverso. La paura di perderla aveva prevalso persino sull’istinto, guidandolo, facendo sì che agisse in virtù di quel principio. Motivo per cui era stato colto alla sprovvista dallo Yahg, così concentrato a tenerla d’occhio, a prevenire ogni azione che potesse in qualche modo riguardarla. Ma non era questo a turbarlo… non avrebbe esitato un solo istante a farle da scudo, mettendo a repentaglio la sua stessa vita, lo sapeva. Era il modo in cui le cose erano cambiate, nel giro di così poco tempo. Fino ad allora aveva sempre agito seguendo l’istinto di un assassino, mettendo al primo posto la propria vita, la propria sopravvivenza… era il suo corpo l’elemento da proteggere, ciò senza il quale lui sarebbe stato un individuo… inutile, semplicemente. Shepard gli aveva dato un’altra motivazione, gli aveva offerto un’altra via da seguire e lui l’aveva intrapresa così ciecamente da non riuscire neppure a rendersene conto. Il cambiamento aveva sconvolto la sua vita con la potenza di un uragano mascherato da una leggera brezza marina, lasciandolo inerme, adesso, ad osservare gli effetti che quel cambiamento aveva portato.
Diede un sorso al suo thè, scacciando con forza gli ultimi ricordi che, quella notte, lo tormentavano più del solito. Non aveva più parlato con lei dopo aver passato dieci minuti in infermeria, dove la Chakwas gli aveva medicato le ferite riportate sulla base dell’Ombra. Aveva letto una profonda preoccupazione negli occhi di lei e aveva fatto di tutto per rassicurarla. Shepard, però, non aveva cercato il contatto. Era stata professionale, quasi distaccata, nel salutarlo, augurandogli di rimettersi presto. Poi più nulla…
Un sostanziale cambiamento rispetto alle ore che avevano preceduto la missione, un atteggiamento che lui riuscì a spiegarsi solo in virtù degli avvenimenti che si erano susseguiti a venire. Entrambi avevano rischiato molto, entrambi si erano trovati ad un passo dalla morte… entrambi erano stati chiamati a riflettere sulla parola “perdita”, vedendola in modo così chiaro davanti a loro.
Lei, forse, non lo avrebbe sopportato… e lui, inevitabilmente, avrebbe capito.
 
 
 
Jack stava canticchiando un motivetto stonato, mollemente adagiata sulla sua branda, una sigaretta fra le labbra e lo sguardo che guizzava da un lato all’altro del suo piccolo rifugio, quando alcuni passi affrettati sulle scalette la ridestarono, costringendola a spegnere immediatamente la sigaretta sul pavimento. Shepard la trovò con un piede innaturalmente premuto sul pavimento metallico, mentre tentava di scacciare il fumo con una mano.
“Merda”, mormorò la biotica, mettendosi a sedere.
“Dove le tieni?”, domandò Shepard, senza l’ombra di rimprovero nei suoi occhi.
“Shepard… merda… Non succederà più, giuro”.
Al Comandante quasi venne da sorridere nel vederla così stranamente remissiva.
“Dove le tieni?”, chiese ancora una volta.
Jack imprecò fra i denti, prima di estrarre una scatoletta metallica dai pantaloni, porgendole le ultime cinque sigarette rimaste. Poi, con stupore, la vide estrarne una e portarsela fra le labbra, sorridendo leggermente.
“Ah”, fu tutto quello che riuscì a dire, prima di tirare fuori l’accendino e passarglielo.
Shepard inspirò una boccata di fumo, chiudendo gli occhi e godendosi il momento. Poi restituì il contenitore alla proprietaria, che non perse un secondo ad imitarla.
“Che succede, Shepard? Ti hanno fatto incazzare?”, le domandò poco dopo, azzardando un sorrisetto beffardo.
“Più o meno…”, rispose lei, gustandosi ogni tiro come se fosse l’ultimo.
“Ho sentito che avete fatto il culo a quello Spettro…”
Shepard annuì, mascherando l’irritazione per l’argomento appena tirato in ballo. Poi calò il silenzio, finchè entrambe non esalarono l’ultima boccata di fumo. Shepard spense la sigaretta sul pavimento, incurante, e si accomodò sulla branda di Jack, puntando lo sguardo sulla parete di fronte.
“Come fai, Jack?”, esalò. “Come fai a restare su questa nave, dopo tutto quello che Cerberus ti ha fatto?”, chiese improvvisamente.
Jack la guardò sbigottita. “Mi prendi per il culo, Shepard?”
“No, vorrei conoscere le tue motivazioni. Quelle vere”.
“Lo sai che se non fosse per te, io l’avrei già fatta saltare in aria questa nave…”
“Ti fidi del mio operato?”
“Fiducia… Bah. Ho smesso di provare fiducia tanto tempo fa… Semplicemente, non ho ancora trovato un motivo per dubitarne”.
Shepard annuì, posando lo sguardo sul pavimento.
“Perché me lo stai chiedendo?”
“Perché fino alla mia ricostruzione, Cerberus è stato un nemico anche per me”, confessò.
Jack non se la sentì di indagare, così come aveva preferito tacere sul suo passato, almeno ai primi tempi, ma Shepard la precedette.
“Se ho perso la mia squadra su Akuze, sette anni fa, è tutta colpa di Cerberus. Ci hanno usato per i loro esperimenti, ci hanno dato in pasto ai Divoratori quasi fossimo lo sterco della società… i sacrificabili”.
“Sono morti tutti?”
Shepard alzò la mano mestamente. “Non la sottoscritta”.
“Come hai fatto?”
“Non lo so… istinto di sopravvivenza?”
“Merda… non dev’essere un bel modo per morire”.
“Puoi dirlo forte, dannazione…”
Seguì un altro lungo silenzio, interrotto da sospiri occasionali, poi Jack si fece avanti.
“E tu come fai, allora?”
Shepard scosse il capo, sollevando le sopracciglia. “Cerco di convincermi che lo stiamo facendo per un bene superiore”, gesticolò. Non c’era ragione di mentirle, quella ragazza non aveva bisogno di discorsi ispirati e pressioni per gettarsi in battaglia.
“Ci credi davvero?”
“Ci crederò quando riusciremo a varcare quel maledetto portale…”
“…prima di allora, saremo di nuovo i sacrificabili”.
 
 
 
L’orologio di bordo segnava un quarto alle sei quando Shepard decise di concedersi una tazza di cioccolata, prima di rintanarsi nella sua cabina per provare a dormire. Ci sarebbero volute ancora parecchie ore di manutenzione e aveva in progetto di ricaricare le energie, in vista della prossima missione. I motori della Normandy erano spenti, un silenzio inusuale abbracciava l’intero ponte equipaggio, rotto solo occasionalmente dai rumori della quotidianità di chi era già sveglio.
Finì la sua cioccolata in santa pace e poi s’incamminò, istintivamente, verso il Supporto Vitale, prima di arrestarsi di botto davanti al portellone. Le era venuto così naturale prendere quella direzione, le era venuto così spontaneo cercarlo che quasi ne ebbe paura. Quello che aveva provato poche ore prima, nel vederlo inerme sulla nave dell’Ombra, ancora le dava i brividi. Aveva temuto il peggio, aveva sentito uno strano sentimento impossessarsi di lei, solo a considerare l’idea che…
Shepard tornò indietro, in fretta, quasi a voler cancellare i passi che l’avevano portata così spontaneamente a pochi metri da lui. Si rintanò nell’ascensore e si concesse un momento per pensare, per convincersi che la cosa giusta fosse mantenere le distanze, almeno per il momento. Nelle sue attuali condizioni, anche solo vederlo avrebbe potuto spingerla verso direzioni estreme, opposte e contrastanti, e lei non voleva macchiarsi di un’altra scelta azzardata.
Aveva riflettuto parecchio sulle parole di Liara, rassegnandosi al fatto che ormai fosse troppo tardi per sottrarsi ai suoi stessi sentimenti, ma lui… Fino a quel momento era stata lei a spingere le cose verso quella direzione, era stata lei a cercarlo, a rassicurarlo, a comprenderlo. E Thane, in un modo o nell’altro, sembrava sempre sfuggirle. Un passo avanti e due indietro. Neppure dopo la missione l’aveva cercata, preferendo rintanarsi nella sua cabina.
I discorsi che avevano fatto, le parole che si erano detti, adesso non le sembravano più così… giusti. Restava sempre il dubbio che lui avesse potuto agire in preda all’istinto, senza ponderare bene le conseguenze. Quando lei gli aveva chiesto se lui avesse davvero voluto privarsi di ciò che era nato fra di loro, lui aveva risposto con un bacio. Un bacio può essere facilmente fraintendibile, può essere dettato dal panico, dall’insicurezza, da un semplice desiderio momentaneo… Oltretutto, era stato chiaro nel dirle che non aveva assolutamente idea di come gestire quella situazione.
Ripensò alle sue stesse parole, alla sicurezza che aveva ostentato davanti a lui… davvero lei ne sarebbe stata capace, invece? Il perché si ritrovò a rifletterci proprio in quel momento, lei non riuscì a spiegarselo. Si decise a premere il quarto pulsante e tornò in cabina, sperando di svegliarsi con le idee più chiare e con meno mal di testa.
 
 
 
Non erano molti quelli che, dal momento del suo arrivo a bordo, avevano tentato di parlare con Thane andando a bussare alla sua cabina. La prima impressione che tutti avevano avuto di lui non era mutata di molto col passare del tempo. Per quanto l’iniziale senso di disagio di fronte all’assassino fosse ormai quasi totalmente scomparso, restava comunque la paura di avvicinarlo troppo, forse perché lui stesso non aveva mai fatto un passo in avanti, tranne che con Shepard. Kasumi, però, era sempre stata affascinata dal Drell. Era l’unico individuo su quella nave con cui avrebbe potuto tranquillamente discutere di libri, di arte e di tattiche d’infiltrazione. Tutti gli altri, a confronto, le sembravano goffi ciarlatani. Quando aveva sospettato ciò che inevitabilmente stava nascendo fra lui e il Comandante non era rimasta poi così sorpresa… Shepard era Shepard, il suo charme, la sua intelligenza – a parte la leggera mancanza di eleganza e grazia in campo – erano innegabili, e Thane doveva averlo notato. Così come a lei non era di certo sfuggito il suo fascino, condito da un’abbondante dose di aura misteriosa e un fisico che beh, non avrebbe lasciato indifferente nessuno, di quei tempi. Si trovò a pensare queste cose mentre rileggeva un paio di pagine a caso di Romeo e Giulietta, immaginando quale ruolo, in quest’opera, avrebbero potuto interpretare i componenti dell’equipaggio. Poi, dopo aver passato un’indefinita quantità di tempo persa nei vaneggi più assurdi, si decise a mettere il libro sotto braccio e a tentare un approccio con Thane, spinta oltretutto dall’enorme curiosità di sapere se il suo piano di qualche sera prima avesse funzionato.
 
Thane non aspettava visite, dal momento che gli unici a mantenere una sorta di rapporto con lui erano la Chakwas, Mordin e Shepard. Per la prima, aveva ormai deciso di non farsi aspettare e si presentava spontaneamente agli appuntamenti, il secondo invece non si faceva problemi a chiamarlo dalle scalette che dal suo studio scendevano direttamente sul Supporto Vitale, e Shepard… sapeva che non poteva trattarsi di lei, avrebbe riconosciuto i suoi passi tra mille. In effetti, non aveva sentito alcun rumore provenire da fuori, solo un bussare timido e delicato. Andò ad aprire frastornato e la sua meraviglia si moltiplicò nello scoprire che si trattava di Kasumi. La sua attenzione fu immediatamente catturata dal libro che portava in mano, un classico a giudicare dalla copertina.
“Thane, spero di non disturbare”, fece la ladra, elargendo un ampio sorriso da sotto il cappuccio.
“Nessun disturbo”, rispose lui, facendole cenno di entrare. “A cosa devo il piacere?”
“Oh, beh… speravo di poter contare su in interlocutore più educato di Jack e meno impacciato di Tali, stasera”, disse lei, prendendo posto sulla sedia alla scrivania. “Non fraintendermi, adoro quest’equipaggio, ci sono così tante personalità diverse”, continuò, l’aria sognante, “ma pochi riescono a soddisfare il mio bisogno di una buona chiacchierata, a meno che non decida di ripiegare su racconti di battaglie sanguinolente o discorsi filosofici al limite del comprensibile”.
Thane era perplesso. Non si aspettava un atteggiamento così aperto da un’Umana, considerando quanto Shepard, a confronto, gli fosse sembrata quasi ritrosa. “Sono lusingato che tu abbia pensato di rivolgerti a me, ma devo confessarti di essere un po’ arrugginito. Non capita molto spesso di fermarsi a parlare con qualcuno, se fai una vita come la mia”.
“Oh, non ha importanza… è un po’ come andare in bicicletta, no? Non si dimentica”, sorrise lei.
Nonostante lui non avesse la minima idea di cosa fosse una bicicletta, annuì, cambiando subito discorso. “Vedo che non sono l’unico ad apprezzare ancora un buon libro… di che si tratta?”, domandò, indicando il volume.
“Romeo e Giulietta. Una tragedia del 1600… Umana, ovviamente. L’hai mai letto?”
“No, di solito preferisco altri tipi di letture”, rispose cortesemente, “Di cosa parla?”
“Di un amore destinato a finire in tragedia”.
Nello stesso istante in cui quelle parole lasciarono le sue labbra, Kasumi sgranò gli occhi, incredula di fronte alla sua stessa stupidità. Non poteva averlo detto sul serio… e dal modo in cui l’espressione di Thane era cambiata, si rese conto di aver trovato le parole peggiori possibili.
Thane, dal canto suo, si sentì spiazzato. Amore e tragedia erano due termini che nella sua vita erano sempre andati a braccetto, prima con Irikah, ora con la prospettiva di un rapporto con Shepard. Aveva usato quelle parole volontariamente, per ottenere qualcosa da lui? E se sì, cosa?
“Voglio dire… niente di troppo realistico, è tutto molto, emh… romantico, passami il termine. A volte ti viene persino da sorridere per la sciocchezza dei due protagonisti. Diciamo che si sono scavati la fossa da soli”.
Mentre Kasumi si rendeva conto di aver, se possibile, peggiorato il tutto con quella descrizione povera e superficiale, Thane continuò a proiettare quelle parole nella sua attuale condizione. Irikah era stata una sciocca ad innamorarsi di un assassino, e Shepard sarebbe stata una sciocca ad innamorarsi di un uomo prossimo alla morte. Si stavano scavando la fossa da soli.
“Cioè, non che abbiano avuto poi molta colpa… è solo che a volte una storia è destinata ad andar male, semplicemente, nonostante gli sforzi dei protagonisti”. No, non poteva continuare a infierire in questo modo. Aveva appena espresso il desiderio di una discussione matura, tra persone intellettualmente allo stesso livello, e stava mandando tutto all’aria.
Sì, pensò Thane, probabilmente Irikah aveva pensato di poterlo cambiare totalmente, quando aveva deciso di accettarlo nella sua vita, inconsapevole del fatto che lui fosse un assassino e nient’altro. E Shepard… lei forse sperava in un miracolo che non sarebbe mai arrivato? Che senso avrebbe avuto, a questo punto, opporsi a un destino già scritto?
Restarono per un attimo in silenzio, cercando, stavolta, di trovare entrambi le parole adatte per continuare quella conversazione a dir poco destabilizzante.
“Ne è valsa almeno la pena?”, domandò Thane, tristemente.
“Io…”, Kasumi si guardò intorno, sperando di non sbagliare ancora, “tutto sommato, io credo di sì”. Aprì la pagina in cui la sua rosa faceva da segnalibro, attenta a non sgualcirla, e lesse ad alta voce: “Amore è un fumo levato col fiato dei sospiri; purgato, è fuoco scintillante negli occhi degli amanti; turbato, un mare alimentato dalle loro lacrime. Che altro è esso? Una follia discreta quanto mai, fiele che strangola e dolcezza che sana”.
Thane posò lo sguardo altrove, mentre rifletteva sul significato di quelle parole, poi Kasumi parlò di nuovo.
“Credo che una storia d’amore che si rispetti, abbia dietro il suo carico di sofferenza. Senza il buio, non potremmo apprezzare la luce”.
Thane si concesse una manciata di secondi per riflettere nuovamente, poi rispose, risoluto. “Secondo questo particolare punto di vista, bisogna assumere che le storie a lieto fine non siano degne d’essere comparate a quelle in cui la tragedia la fa da padrone?”
Kasumi si morse una guancia, intrecciando le mani. Forse, dopotutto, aveva fatto un errore ad andare da lui, quella sera. “Diciamo che non sono poi così… d’impatto, come dire”.
“Vuoi dire che è meglio un’emozione intensa e devastante, rispetto ad un’equilibrata tranquillità duratura?”
“Non sempre, certo… ma è questo che la gente cerca, no? Nessuna grande storia che rispetti, nessun romanzo degno d’essere chiamato tale termina con un lieto fine assoluto…”
Thane non riuscì proprio a frenare la lingua, a quel punto. “Se ti fosse data la possibilità di cambiare il passato… preferiresti lasciare immutate le cose, prediligendo il dolore di un amore perduto alla serenità della vita di coppia, anche se monotona?”
Ok, doveva riconoscerglielo… le stava tenendo testa. Forse si era persino trattenuto troppo a lungo, viste e considerate le sue prime, stupidissime parole.
“No, certo che no”, rispose lei, semplicemente. “E tu… tu cambieresti il tuo passato?”
“Cosa sai del mio passato?”
“Abbastanza da comprendere il tuo bisogno di isolarti dal mondo”.
“Non è così semplice. Dieci anni sono troppi… molte cose sono cambiate da allora. Io sono cambiato… chiedermi di cambiare le cose a questo punto, sarebbe come chiedere di cambiare me stesso”.
Dopo aver pronunciato quelle parole, rimase sconcertato, talmente tanto da doversi alzare, quasi gli mancasse l’aria. Cos’aveva appena detto?
“Kasumi…”, tentò di dire.
La ladra si accorse del suo cambiamento repentino e fu sorpresa quanto lui per ciò che le aveva detto. Talmente abituata a leggere il linguaggio del corpo, non le fu difficile capire quanto, in quel momento, il Drell fosse a disagio. Si alzò anche lei, sentendosi mortificata e preferì lasciarlo da solo. Si salutarono brevemente, nell’imbarazzo più totale, prima di sprofondare nelle rispettive riflessioni.
 
Non riusciva a credere di essere stata così sbadata. Possibile che fra tutti gli argomenti di cui parlare avesse dovuto scegliere quello di un amore brevemente consumato in cui gli amanti muoiono? Eppure lei avrebbe dovuto sapere che entrambi condividevano il dolore della perdita, avrebbe dovuto immaginare la reazione di Thane, nel sentirle tirar fuori quell’argomento. Era andata da lui con la speranza, sciocca e curiosa, di scoprire se le cose con Shepard stessero andando per il verso giusto e invece aveva finito per spingerlo totalmente sulla difensiva. Che errore da principiante…
Thane, dal canto suo, non riuscì ad opporsi a quel vortice di ricordi che lo travolse completamente nello stesso istante in cui Kasumi lasciò la sua cabina. L’ultimo ricordo di lei, così chiaro davanti ai suoi occhi, così intenso da spingerlo a carponi sul pavimento, lottando contro le lacrime, contro la mancanza d’aria, contro il panico. Nello stesso istante in cui riemerse dal ricordo, si rese conto di aver urlato il suo nome, disperatamente. Come aveva potuto anche solo pensare, per un attimo, che il suo presente gli andasse a genio, che quei dieci anni di tormenti fossero serviti a qualcosa? Eppure, quando aveva pronunciato quelle parole, gli era sembrato tutto così coerente… Aveva davvero sentito di non voler cambiare il proprio passato, il proprio presente. Che significato aveva tutto ciò? Perché la sua mente aveva agito come un’estranea, tradendo ciò che lui era sempre stato? Aveva davvero asserito che, avendone le possibilità, non avrebbe cambiato ciò che era stato? La morte di Irikah, l’abbandono di suo figlio, i suoi dieci anni di solitudine… Perché?
Si trascinò fino alla sua branda, sentendo il proprio corpo pesare una tonnellata, il cuore ancora in tumulto dal ricordo precedente. Aveva vissuto così a lungo nel dolore, nel rimorso e nei sensi di colpa, che non riusciva più a vedersi in nessun altro modo, se non come un portatore di morte e sofferenza. Almeno finchè non era salito sulla Normandy… da quel momento tutto era cambiato. Nuovamente, si ritrovò a prendere coscienza di quel cambiamento, rendendosi conto che forse era stato davvero troppo grande, tanto da non renderlo più padrone dei suoi stessi desideri. E, di sicuro, una buona parte di quel cambiamento era dovuta a Shepard.
Se lui fosse tornato indietro, se avesse riscritto la sua vita… non l’avrebbe mai incontrata. Si odiò per quel pensiero, profondamente, tanto da non riuscire a seppellire il bisogno istintivo di colpire il muro con un pugno, placando per un’istante la sofferenza dell’anima con un dolore sbiadito, debole, che non l’avrebbe mai punito abbastanza.
 
 
 
Sarebbero partiti alla volta di Hawking Eta fra qualche ora e Shepard iniziò a sentire le quattro mura della sua cabina troppo strette per potervi rimanere un attimo di più. Adesso che ogni rapporto era stato compilato, ogni dettaglio della missione rivisto, ogni tattica pensata e ripensata, non le restavano altro che i suoi pensieri e, al momento, non poteva aspirare ad una compagnia peggiore. Decise di scendere fino al ponte equipaggio, senza sapere bene se augurarsi di trovarci qualcuno con cui parlare o meno. Arrivò fino in sala mensa e in un attimo fu davanti al frigorifero, indecisa su cosa prendere da sgranocchiare. Non che ci fosse poi molta scelta, anzi… e niente l’appetiva poi davvero. Ripiegò per un thè, senza un motivo preciso. Non avrebbe mai accettato che lo stava facendo solo per appagare l’inconscio desiderio di sapere cosa piacesse a lui. Si issò sulle punte dei piedi per raggiungere una tazza e nello stesso istante percepì qualcosa, simile ad fruscio, dietro di lei.
“Shepard”.
La tazza le sfuggì dalle mani, ma nessun rumore di cocci rotti raggiunse le sue orecchie. Si voltò, Thane era accanto a lei, la tazza nelle sue mani. Col cuore in gola cercò di darsi un contegno, sperando di apparire meno turbata possibile, ma era ormai troppo tardi.
“Scusa, non era mia intenzione spaventarti”, le disse lui, porgendole la tazza. Lei, per qualche motivo, non la afferrò, paralizzata com’era. Poi si lasciò andare, appoggiandosi fiaccamente al bancone dietro di lei.
“Ciao”, fu l’unica parola che uscì dalle sue labbra, finchè non si decise a recuperare la tazza dalle sue mani, evitando il contatto con le sue dita. “Grazie…”
“Cercavi qualcosa?”, aggiunse poi, mentre si girava a fronteggiare il lavandino.
Che domanda stupida…
“La mia tazza”.
Shepard guardò quella che aveva fra le mani, poi si accorse che in effetti, era proprio la sua. Quella che aveva sempre visto sulla sua scrivania, poco diversa dalle altre, ma riconoscibile, di cui probabilmente si era appropriato giusto per il piacere di avere qualcosa solo per sé in un ambiente che non gli apparteneva. Socchiuse gli occhi, ingoiando la vergogna, poi si girò di nuovo verso di lui. “Diamine, che sbadata… tieni”, sorrise. Un sorriso che stirò solo le sue labbra, lasciando gli occhi inevitabilmente fermi.
“No, tienila pure…”, rispose lui, accennando un sorriso di rimando, prima di avvicinarsi a lei e prendere un’altra tazza dal pensile.
Quell’improvvisa vicinanza la fece rabbrividire, quasi fosse stata la prima volta.
“Cioccolata?”, domandò poi lui, trafficando con gli sportelli per cercare del thè. Shepard lo precedette, porgendogli la bustina che aveva per tutto quel tempo strizzato forte in una mano. Le loro mani, stavolta, si sfiorarono e i loro occhi s’incontrarono brevemente.
“Ah…”, mormorò lui, visibilmente sorpreso, e Shepard si rese conto che avrebbe potuto fraintendere tutto. La sua tazza, il suo thè…
“Stavi…”, fece per chiedere lui, ma lei bloccò la domanda sul nascere.
“No, volevo solo provare qualcosa di diverso stasera… troppa cioccolata fa male, parole della Chakwas”, si affrettò a dire. Non capì il perché di tutta quell’urgenza nel voler mettere in chiaro che in realtà non voleva andare a portargli del thè, come se ci fosse stato poi qualcosa di male…
“Capisco”, rispose lui. Nessuna emozione traspariva dal suo volto. “Tienilo allora, ne cerco dell’altro”.
“No, ci ho ripensato… mi metterò a dieta da domani”, scherzò lei.
Restarono occupati per qualche momento a preparare le rispettive bevande, cercando freneticamente qualcosa da dire per interrompere quell’imbarazzante silenzio, cercando un modo per ignorare quei momenti in cui le loro braccia si sfioravano, senza però volersene davvero privare.
“Bailey mi ha mandato un’e-mail”, esordì Shepard, ringraziando silenziosamente la sua mente per averle suggerito qualcosa di sensato da dire.
“A proposito di cosa?”
“Kolyat”.
Lui si voltò immediatamente, cercando il suo sguardo, scongiurando qualunque probabile brutta notizia. Poi si tranquillizzò… non poteva essere niente di preoccupante per volerne parlare di fronte a una tazza di thè.
“Sediamoci”, disse, facendo strada verso il tavolo. Lei lo seguì, contenta di notare che non avesse fretta di sbarazzarsi di lei. Diede un sorso alla sua cioccolata, scottandosi inevitabilmente la lingua, poi parlò.
“Mi ha chiesto se il mio drell e il suo drell si parlassero”, sorrise, “e mi ha spiegato che Kolyat se la sta cavando bene, anche se ogni tanto si lamenta delle sue mansioni”.
Thane sorrise, finalmente, un vero sorriso. “Lo immaginavo, nella sua ultima e-mail mi ha spiegato di essere stato assegnato alla raccolta rifiuti”.
“Ouch. Che sfortuna…”
“Al contrario. Avrebbe potuto trovarsi in carcere, in questo momento. E’ solo grazie a te se adesso sta scontando una pena infinitamente minore rispetto a quella che avrebbe dovuto”.
Shepard focalizzò il suo sguardo sul tavolo, incrociando le gambe. “Credo nelle seconde possibilità”, rispose semplicemente.
Thane si congelò all’istante, la mente che cercava furiosamente di presentargli un ricordo vecchio di solo qualche settimana. Non poteva, non doveva cedere, non in quel momento… ma…
 
Cosa ti piace del Viper? le chiedo, incuriosito. Occhi verdi indugiano brevemente nei miei, la seconda chance, risponde, sicura. Mi sorprende. Rifletto. Uso quel fucile da anni e mai l'ho visto come lo vede lei, adesso. So che ha ragione, ma voglio metterla alla prova, i suoi discorsi mi affascinano.
 
Nello stesso istante in cui Thane si trovò preda di quel ricordo, Shepard provò il desiderio di coprirsi il volto per le mani dall’imbarazzo. Non solo il suo, ma quello che doveva aver provato lui nel condividere con lei un ricordo… di lei. Così, senza motivo apparente. Ricordò quella discussione, ricordò quanto avesse voluto metterla alla prova, ma solo in quel momento capì di essere sempre stata lei, in realtà, a tenere le redini del discorso.
“Si, esatto”, disse lei, nel tentativo di minimizzare quello che minacciava di diventare un ostacolo insormontabile. Ostentò una sicurezza di cui non si credeva capace, ma riuscì nello scopo, notando che la sua espressione, prima pietrificata, si era rilassata leggermente.
“Scusami, Shepard, non intendevo…”
“Non c’è niente di cui scusarti”, fece lei, agitando una mano. Minimizzare, ecco tutto.
Lui restò in silenzio dopo aver annuito brevemente. E lei non aveva idea che tutto ciò che lui avrebbe voluto, in quell’istante, fosse scardinare quel tavolo che li teneva separati, annullando ogni stupida distanza fra di loro. Pensò, invece, di non averlo mai visto così profondamente freddo e distaccato, e si chiese se il motivo di ciò fosse proprio il fatto che lui si fosse pentito di ciò che c’era stato fra di loro. Non poteva essere altrimenti… non dopo un simile cambio d’atteggiamento. Lo stesso atteggiamento che, realizzò, aveva notato sulla navetta che li aveva condotti alla nave dell’Ombra. Ma mentre in quel momento si era convinta che fosse solo temporaneo, adesso si rendeva conto di quanto in realtà assomigliasse a un vero e proprio cambio di rotta permanente.
“Dunque…”, mormorò lei poco dopo, “le cose con tuo figlio vanno come speravi?”
“Ti mentirei se ti dicessi di aver avuto il tempo di crearmi delle aspettative”, rispose lui. “La prospettiva di un ricongiungimento con Kolyat non mi era mai davvero sembrata possibile, fino al momento in cui ho ricevuto quella chiamata. Non ho avuto modo di pensare a cosa avrei voluto, ho solo sentito che fermarlo fosse la cosa giusta”, concluse, poggiando i gomiti sul tavolo.
“Avresti potuto mandare qualcun altro a farlo per te… invece hai deciso di esporti in prima persona. Questo deve pur significare qualcosa”.
“E’ mio figlio, Shepard… anche se non avevo mai considerato attivamente la possibilità, ho sempre desiderato di vederlo, di parlargli di nuovo…”, disse, quasi a volersi giustificare.
“Ma hai aspettato di ricevere un segnale dall’esterno”.
“Non è facile cambiare di punto in bianco la propria vita dopo tanto tempo”.
“Vuoi dirlo a me? Immagina di svegliarti da un giorno all’altro e scoprire di essere solo, completamente solo, in una Galassia che si è dimenticata di te”.
Thane alzò lo sguardo, fissandola intensamente, e lei capì, in quell’istante, di aver detto una scemenza di enormi dimensioni.
“Non ho bisogno di immaginarlo”, affermò.
Shepard prese a torcersi le mani, maledicendosi intensamente per l’improprio utilizzo del suo vocabolario.
“Non sei solo”, gli disse infine, senza trovare il coraggio di guardarlo. Ma quella frase, singolarmente, non riuscì a reggerla, talmente la fece sentire esposta e vulnerabile. “Adesso hai tuo figlio”.
E l’ultima affermazione di Shepard non riuscì a consolare lui, anzi, se possibile contribuì solo ad ingigantire il caos nella sua mente. A dispetto dell’iniziale rifiuto nel voler intraprendere una simile discussione, decise di lasciarsi andare, sperando, forse scioccamente, che lei in qualche modo l’avrebbe compreso.
“Sono felice di averlo aiutato, di avergli impedito di commettere un errore fatale, di aver potuto fare la differenza in un momento così delicato della sua vita… ma mi domando se le mie azioni non siano state dettate solo dall’egoismo. Come hai detto tu, avrei potuto delegare qualcun altro per fermarlo, ma l’idea di rivederlo… Come avrei potuto sottrarmi a un incontro con lui dopo tutti questi anni? Eppure ormai è troppo tardi, la mia vita è troppo corrotta per poter anche solo sperare di ricevere da lui un affetto che comunque non meriterei affatto. La mia presenza nella sua vita, adesso, non farà altro che ricordargli la morte. Quella di sua madre e la mia”.
Shepard restò inebetita di fronte a quella confessione, davanti alla sua disarmante sincerità. Avrebbe voluto allungare una mano sul tavolo e stringerla intorno alla sua, dicendogli che gli sarebbe stata accanto, comunque sarebbero andate le cose… ma qualcosa simile alla paura e all’orgoglio insieme glielo impedì categoricamente.
“La tua presenza servirà a ricordargli che tutti meritano una seconda possibilità, che il cambiamento è possibile, che dagli errori si può imparare e che l’affetto di un padre non cessa di esistere con la lontananza. Un giorno, e su questo non ho dubbi, capirà cosa ti ha spinto ad agire nel modo in cui hai agito e si sentirà orgoglioso di avere un padre che si è privato della gioia di veder crescere il proprio unico figlio solo perché aveva intenzione di proteggerlo. Il tuo non è stato egoismo, tutto il contrario”, disse, credendo davvero in ogni singola parola.
“Ti ringrazio, Shepard, ma non è così facile. La tua è una visione troppo razionale delle cose, dimentichi che di mezzo ci sono sempre i sentimenti, e cancellare l’odio e il rancore verso una persona non è una cosa che si fa dall’oggi al domani. Non che io pretenda questo, ma mi chiedo se abbia fatto davvero la cosa giusta a pretendere di entrare a forza in una vita che ormai non mi comprendeva più”.
“E tu dimentichi che un rapporto non è mai a senso unico. Gli hai mai domandato se avesse preferito starti alla larga o fosse contento, anche in minima parte, di averti rivisto? Sta in questo la tua presunzione… credere che tu sia l’unico a comprendere le meccaniche di un rapporto, l’unico ad avere il diritto poter decidere per conto degli altri. Tuo figlio ha… tuo figlio deve avere una voce in capitolo e tu devi permettergli di esprimersi, prima di giungere alle tue personali conclusioni”.
L’aveva appena rimproverato? E poi perché quel discorso risultava così incredibilmente personale? Shepard diede un lungo sospiro, reclinandosi all’indietro sulla sedia, le braccia conserte. Si rese conto di essersi appena liberata di un peso, di avergli indirettamente comunicato il suo punto di vista non solo sulla relazione fra lui e suo figlio, ma anche sulla loro. Ed ebbe paura di quello che poteva essere il responso, tanto che sentì l’ansia impadronirsi di lei con la velocità della luce.
Thane, inaspettatamente si alzò, lasciandola ancora più perplessa, se possibile. Per un attimo sperò anche che lui superasse finalmente quell’odioso ostacolo che li divideva, raggiungendola, stringendola fra le sue braccia… ma lui si allontanò dal tavolo, senza darle il minimo segnale che ciò potesse essere vagamente possibile. 
“Mi hai dato molto su cui riflettere, Shepard. Ti ringrazio”, le disse, invece. “Se non ti dispiace…”
“No, vai pure… stavo giusto andando…”. Non riuscì a finire quella frase, che era già scomparso. “…a letto”.



 

Un enorme grazie a chi è arrivato fin qua, a chi trova sempre il tempo per farmi sapere cosa pensa di questa storia, a chi c'è anche solo come una presenza silenziosa. Grazie davvero.

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Capitolo 15
*** Fearful Odds ***


"And when your fears subside and shadows still remain,
 
I know that you can love me when there's no one left to blame 
 
So never mind the darkness we still can find a way 
 
'Cause nothin' lasts forever even cold November rain"

 (November Rain – Guns’n’Roses)

[x]

 

 

 
“Comandante, trenta minuti all’ingresso nel sistema Thorne”, annunciò Joker, mentre Shepard era intenta a infilarsi la tuta protettiva, dopo aver constatato che la ferita sul fianco era ormai completamente rimarginata e solo un sottile filo rosato restava ormai come prova di quell’incidente.
“Bene. EDI, avvisa l’equipaggio… tra venti minuti li voglio tutti in sala briefing”, rispose lei, raccogliendo il pettorale della sua armatura. Se lo rigirò fra le mani, percorrendo con lo sguardo ogni singola incrinatura delle piastre in ceramica. Solo qualche mese prima, quella corazza era completamente intatta, così come il suo cuore… appena sfornato dalle sapienti mani di qualche scienziato di Cerberus. Se la infilò in un unico movimento, assicurando tutti gli agganci, e lo stesso fece con gli altri pezzi, riservandosi poi alla la fine di legare i capelli in una coda. L’ultima cosa che recuperò, oltre alle armi, fu il casco, felice che per quel giorno ci sarebbe stato lui a proteggerla, da qualunque cosa i suoi occhi avessero incrociato.
 
“Dunque, la situazione è la seguente”, iniziò a spiegare alcuni minuti dopo, passando in rassegna i volti di ogni componente dell’equipaggio, “tutto ciò che sappiamo è che questo Razziatore non è attivo, non completamente almeno. Presenta ingenti danni a livello dello scafo, danni che non sono mai stati riparati e che risalgono probabilmente a migliaia di anni fa. E’ plausibile credere che le squadre di Cerberus abbiano perso i contatti a causa dell’elevata presenza di interferenze dovute all’atmosfera, ma ciò non spiegherebbe perché sia successo all’improvviso. Dobbiamo essere pronti, qualunque cosa troveremo. Bisognerà fornire soccorso se necessario, supporto… e soprattutto, bisognerà cercare qualunque cosa sia utile ai fini della missione ultima. L’obiettivo è il modulo di riconoscimento del Razziatore… una volta integrato nei sistemi della Normandy dovremmo essere in grado di attraversare Omega 4”. Gli altri annuirono, chi con un semplice gesto del capo, chi con un ossequioso “sissignora”.
“Tali, verrai con me. Ho bisogno delle tue capacità tecnologiche. Avrai il compito primario di cercare risorse utili”.
“Si, Comandante”, rispose la Quarian.
“Nel caso in cui le cose si mettessero male, avrò bisogno di supporto biotico. Jack, verrai tu. Miranda, tu sarai il tramite fra la mia squadra e Cerberus. Assicurati di non tralasciare nulla delle registrazioni”.
“Ricevuto”.
“In ultimo, un cecchino fa sempre comodo…”.
A Shepard sembrò per un attimo che gli occhi di Garrus si fossero illuminati. “Niente da fare, Vakarian. Il tuo compito oggi sarà il Thanix, dobbiamo essere pronti per un eventuale attacco e ho bisogno di qualcuno di cui potermi fidare al controllo del cannone primario”, asserì, mimando un’espressione vagamente dispiaciuta. “Krios, verrai tu”.
Thane diede un cenno d’assenso col capo, poi andò a recuperare maschera ed armi e in pochi minuti la squadra si trovò davanti al portellone, pronta a sbarcare.
 
L’affiancamento alla nave di Cerberus non fu semplice. L’atmosfera di Mnemosyne era attraversata da venti che soffiavano a 500 km/h e i campi di forza del Razziatore costituivano un ostacolo non da poco. Oltretutto, a complicare una situazione già di per sé preoccupante, una volta giunti in prossimità del Razziatore, si accorsero della presenza di un’altra nave… una nave Geth, apparentemente inattiva. Shepard decise di non perdere tempo in ulteriori speculazioni e penetrò con la squadra all’interno del relitto.
Cerberus si trovava lì da mesi e i segni della sua presenza erano evidenti. Gli scienziati e gli operai si erano dati un gran da fare costruendo passerelle, condotti e camere che andassero ad integrare la struttura ostile di quel mostro gigantesco, rendendola a prova d’uomo per quanto possibile. C’erano terminali ad ogni angolo, beni di prima necessità, kit di pronto soccorso, cisterne e… cadaveri. Uno schizzo rossastro su un muro, appena superato il primo corridoio, diede loro il benvenuto, insieme ad un corpo dalle sembianze vagamente umane, ormai decomposto.
“Tali, analizza quel terminale”, fece Shepard, avvicinandosi nel frattempo al cadavere, alla ricerca di un qualche indizio che avrebbe potuto spiegarle cosa fosse successo.
La Quarian lo mise in funzione e la voce di uno scienziato pervase l’intera area. Asseriva che secondo il suo superiore, il relitto fosse vecchio di almeno 37 milioni di anni, poi espresse le sue preoccupazioni a proposito dell’attitudine di quest’ultimo, perso sempre a catalogare i reperti, convinto di poterli “ascoltare”.
“Non so voi, ma io sento puzza d’Indottrinamento”, fece Jack, catturando l’attenzione di Shepard.
“E’ probabile, ma è meglio non fare ipotesi troppo affrettate”, rispose lei.
“Normandy a squadra d’esplorazione”. La voce di Joker li interruppe, poco prima che potessero superare un altro corridoio.
“Che succede, Joker?”
“Comandante, il Razziatore ha eretto delle barriere cinetiche. Non credo che riusciremo a passare da questo lato”, la informò il pilota.
“Per quanto io sia interessata ai Razziatori, Shepard, preferirei non restare intrappolata in uno di essi”, commentò Tali.
“EDI ha rilevato un picco di calore all’interno della struttura… è probabile che sia il nucleo. Bisognerà disattivarlo per abbatterli”.
“Attenzione, Shepard”, s’intromise l’IA. “Il nucleo funge anche da campo di forza. Una volta disattivato, la nave precipiterà verso la stella”.
“Restare stritolati nel cuore di una nana marrone non rientra nei miei progetti odierni”, rispose Shepard, con evidente disapprovazione. “Joker, se c’è qualcuno in grado di tirarci fuori da qui prima che la pressione diventi eccessiva, quello sei tu”.
“Agli ordini, Comandante. Invio delle coordinate in corso”.
“Faremo prima un giro per cercare sopravvissuti, tu resta in attesa”, concluse.
“Ricevuto. Buona fortuna, Shepard”.
 
Oltre il portellone, l’interno del Razziatore si dispiegò di fronte a loro. Immenso, spettrale. Quello scienziato aveva descritto perfettamente la sensazione che si provava a camminare dentro una macchina così antica… i muri sembravano crollarti addosso da un momento all’altro; era soffocante. Tali attivò un altro di quei terminali, ascoltando la conversazione fra due uomini, probabilmente due operai, intenti a chiacchierare fra di loro. Fu subito chiaro che doveva esserci qualcosa di sbagliato dal modo in cui parlavano: entrambi sembravano condividere gli stessi ricordi personali, erano turbati e visibilmente scossi.
“Pare che il Razziatore abbia influenzato le loro menti”, disse Thane, avvicinandosi.
“L’avevo detto io… Indottrinamento”, aggiunse Jack.
Shepard preferì non rispondere, consapevole sin da subito che in fondo tutto portasse a quella teoria. “Andiamo, non c’è tempo da perdere”, disse invece, seguendo la mappa fornita da EDI. Gli altri s’incamminarono subito dietro di lei, estraendo le armi per precauzione. Poi si verificò ciò che fin dall’inizio avevano temuto.
Una serie di rantoli, di gemiti soffocati e subito dopo piccole ondate di mutanti iniziarono ad arrampicarsi sulle passerelle, strisciando dai muri circostanti. Non era la prima volta che Shepard vedeva quegli esseri, ma lo sconcerto restava ogni volta immutato. Adesso non c’erano più dubbi che si trattasse effettivamente di uomini, uomini indottrinati e mutati. Alcuni di essi avevano ancora ciuffi di capelli sui loro crani, ad indicare che il processo non aveva ancora raggiunto il massimo stadio. Approfittarono delle cisterne ad alta pressione di fronte a loro per sbarazzarsene, provocando un esplosione dopo l’altra. Quei mostri non seguivano una linea precisa, nessuna tattica… avanzavano in modo scomposto, incuranti delle armi, delle barriere cinetiche dei loro avversari. Sembravano zombie in tutto e per tutto.
Dopo la prima ondata, i tre si scambiarono un paio di sguardi preoccupati, sotto le loro maschere.
“Non dobbiamo abbassare la guardia. In tutta la nave ce ne saranno almeno un centinaio…”, disse Shepard.
“…il numero degli scienziati di Cerberus”, mormorò Tali.
“Esattamente”.
“Dio, che schifo…”, imprecò Jack, sfregando le mani fra di loro quasi a voler cancellare il sudiciume.
S’incamminarono nuovamente, giungendo ad uno spiazzo di modeste dimensioni. Dopo aver eliminato l’ennesima ondata di mutanti, si avvicinarono all’inferriata di fronte per osservare il macabro spettacolo di fronte a loro. A Shepard sembrò di rivivere nuovamente l’orrore provato su Eden Prime, alla vista di quei mostri, una volta umani, infilzati da lunghi aculei d’acciaio.
“Circolano molte storie a riguardo fra la mia gente”, commentò Thane, “…misteriosi congegni situati su mondi remoti, in grado di trasformare in abomini chiunque li trovi”.
“Sembra quasi… un altare”, disse Tali, annuendo.
“Non mi meraviglia. Le menti di questi scienziati sono state deviate per credere che i Razziatori siano divinità”, rispose Shepard, con l’aria di chi aveva già visto tutto.
Jack le lanciò uno sguardo sconcertato.
“Questo posto mi dava ai brividi anche prima di pensare di potermi trasformare in una sacerdotessa mutante”.
“Il tempo d’esposizione dev’essere molto più lungo di così, Jack… non corriamo rischi”.
“Se lo dici tu…”
“Mi ero sempre chiesto se la tecnologia in grado di creare questi abomini fosse di derivazione Geth o provenisse dalla Sovereign”, osservò Thane, attirandosi lo sguardo perplesso di Tali.
“Per come la vedo io, i Geth sono solo macchine al loro servizio… è dei Razziatori che bisogna preoccuparsi”, rispose Shepard.
“E cosa ci fa allora una nave Geth attaccata al culo di uno di questi cosi?”, fece Jack.
“Non lo so. Vediamo di scoprirlo…”
 
 
Avevano appena superato l’ennesimo portellone, quando uno, poi due, poi tre spari li avevano raggiunti, cogliendoli di sorpresa. Si voltarono, notando che i colpi erano stati messi a segno, con estrema precisione, a danno di un gruppo di mutanti appena giunti alle loro spalle, col risultato di averli salvati da un abbraccio fatale. Si scambiarono uno sguardo perplesso, poi Thane indicò una passerella sopraelevata di fronte a loro. Shepard puntò automaticamente la Phalanx contro il cecchino, i nervi tesi alla vista di quel Geth così simile eppure così diverso dalle migliaia di quelli che aveva sterminato in passato. Un foro si apriva come uno squarcio sul torace… sulla sinistra, un pezzo di corazza N7, a voler rattoppare il danno.
“Comandante Shepard”, pronunciò, con la classica impronta sintetica di un IA. Qualcuno avrebbe addirittura detto che c’era stupore nella sua voce artificiale.
“Non sapevo che i Geth potessero parlare”, commentò Jack, proprio mentre il sintetico spariva dalla loro vista, tornandosene da dov’era venuto come se niente fosse.
“E’ così infatti. Un singolo Geth possiede l’intelligenza di un Varren, al massimo…”, rispose Tali.
“Ehi, vacci piano… i Varren sono animali rispettabili”.
“Beh, non intendevo questo…”
“Piantatela voi due. Piuttosto… come fa a conoscere il mio nome?”, chiese Shepard, senza scollare gli occhi da quella passerella, tentando di dare una spiegazione a quell’atteggiamento incomprensibile.
“Dev’essere una piattaforma, Shepard”.
“Spiegati meglio”.
“Un Geth che possiede la coscienza di altri Geth, una piattaforma fisica che dà voce a centinaia o migliaia di altre piattaforme. Solo in questo caso potrebbe spiegarsi il suo atteggiamento inusuale”.
“Non ci ha attaccati. Perché?”, domandò poi Thane.
“E’ quello che voglio sapere”, rispose Shepard con decisione, indicando al gruppo di continuare l’avanzata.
 
 
Di sopravvissuti non c’era stata alcuna traccia fin ora, quindi decisero di dare la priorità ai dati e al nucleo di forza, facendosi avanti lungo le passerelle con l’unico obiettivo di non farsi travolgere da quegli abomini. Man mano che si avvicinavano alla zona centrale, ne sbucavano fuori sempre di più, quasi volessero distoglierli dall’obiettivo di distruggere definitivamente la nave. Era come se l’Indottrinamento, in questo caso, fosse servito solo come mezzo di difesa e non di attacco. Almeno finchè i mutanti non furono affiancati da nuovi mostri, qualcosa di mai visto prima di allora. Ad una prima occhiata, sembravano l’esito di un esperimento mal riuscito. L’unione di più cadaveri, unita a una serie di componenti sintetiche. Utilizzavano dei cannoni biotici ed erano spaventosamente alti e imponenti. Solo più tardi avrebbero scoperto che si trattava di abomini creati dall’utilizzo di un singolo cadavere, unito alla materia cerebrale di molti altri e potenziato con noduli di eezo, motivo per cui erano in grado di lanciare potenti onde d’urto.
“Dannazione”, imprecò Shepard in risposta al primo attacco, trovando copertura. Lo spiazzo in cui si trovavano pullulava di mutanti.
“Krios, Tali, occupatevi di quei dannati mostri a distanza… io e Jack ci concentriamo sui più piccoli”.
“Ricevuto”, risposero loro, prima di iniziare a far fuoco. In breve tempo il rumore dei proiettili e delle esplosioni biotiche sovrastò quello delle urla stridule dei nemici, tingendo l’aria di rosso e di blu. La combinazione delle onde d’urto di Shepard e Jack risultò letale, mentre gli altri due miravano ai Progenie, assicurandosi che non si avvicinassero troppo al resto del gruppo. Si resero conto di non aver affrontato mai un nemico simile, che agiva senza l’utilizzo di tattiche ed era perciò imprevedibile. Bastava solo una piccola svista per ritrovarsi improvvisamente accerchiati e con gli scudi a terra, bastava una piccola distrazione per restare coinvolti nell’esplosione di uno di quei mostri potenziati in modo da risultare vere e proprie bombe ad orologeria. Una volta sbarazzatesi dei mutanti, Shepard e Jack poterono fornire supporto agli altri due per togliere di mezzo i Progenie rimasti. L’aria vibrava, scossa dai venti che infuriavano da est e che penetravano nello scafo con violenza inaudita, alterata dalle continue onde d’urto che minacciavano di sbalzarli in aria da un momento all’altro. Una combinazione letale di deformazioni e colpi di fucile riuscì a metterli KO giusto prima che l’ultima scarica biotica raggiungesse Tali, scaraventandola sulla ringhiera di una passerella. Shepard fece uno scatto verso di lei, preoccupata.
“Stai bene?”, domandò, porgendole una mano.
“Si… ahi…”, rispose lei, massaggiandosi un fianco. “Nessun danno alla tuta, per fortuna”.
“Bene. Voi due… tutto ok?”, chiese poi, rivolgendosi a Thane e Jack.
“Mai stata meglio”, sorrise la biotica.
Thane si limitò ad annuire e così ripresero la marcia.
 
 “Ci siamo Shepard. Il modulo di riconoscimento dev’essere questo”, annunciò Tali qualche minuto dopo, avvicinandosi ad un terminale posto nel corridoio successivo, appena prima la sala centrale. Aprì velocemente una connessione in sincrono tra il suo factotum e il terminale e fece partire un malware per concentrare le risorse di sistema del teminale su quell'attacco. Poi attuò una piccola manovra d'aggiramento tramite la backdoor secondaria del sistema informatico e puntò direttamente al firewall. Il muro di fuoco contava di una difesa primaria per i dati protetti e una secondaria per l'accesso al modulo di riconoscimento. Tali non si diede per vinta dinanzi alla cifratura quantica d'alto livello che il terminale possedeva, benchè sorpresa che un Razziatore "morto" potesse possedere ancora difese così forti, e sconfisse il suo avversario fatto di bit in una decina di minuti.
“Fatto”, concluse, senza nascondere una punta d’entusiasmo nella sua voce.
Shepard la gratificò con una leggera pacca sulla spalla, poi si mise in comunicazione con la Normandy. “Joker… ci siamo”, disse, “Pronti per il recupero?”
“Farò il possibile, Comandante”, rispose il pilota, “e anche l’impossibile, se necessario”.
 
 
Il Geth che aveva dato loro il benvenuto parecchi minuti prima, era ora  intento a trafficare ad uno dei terminali posti immediatamente sotto a quello che doveva essere il nucleo. Shepard osservò brevemente la sala… una passerella centrale conduceva al nucleo, dividendo in due il resto della struttura a cui era collegata tramite due rampe di scale. Mentre due gruppi di mutanti sbucavano dai lati della sala, mirando al Geth, lei impostò brevemente la strategia da attuare.
“Jack, Tali… presidiate la zona destra. Thane, tu coprimi le spalle”, disse con un cenno del capo, ripiegando sulla sinistra mentre l’IA si sbarazzava dei nemici alle sue spalle con precisi colpi di fucile, prima di stramazzare improvvisamente al suolo, come un qualunque organico privo di vita. Quello era però l’ultimo dei loro problemi, dal momento che in una manciata di secondi la sala si era riempita di mutanti, ostacolando l’obiettivo primario di distruggere il nucleo.
“Tali”, fece Shepard, mentre lanciava una potente deformazione ai danni di un mutante, “tieni d’occhio il nucleo, quando torna visibile massima potenza di fuoco”.
“Ricevuto, Comandante”, rispose la Quarian, lanciando nel frattempo il suo drone di combattimento.
“Thane, lo stesso vale per te”, disse, lanciandosi subito dopo in una carica biotica.
I mutanti la accerchiarono, costringendola a spingere i suo poteri al massimo, mentre lui eliminava con precisi colpi cadenzati quelli che si trovavano nella sua linea di tiro.
“Nucleo!”, esclamò poi lei, togliendosi di dosso un mutante prima di scagliarlo addosso ad un altro gruppo di nemici. Ma erano troppi… troppo numerosi e troppo imprevedibili. In breve tempo quattro di essi le furono addosso, riuscendo in qualche modo ad azzerare i suoi scudi, rendendola vulnerabile a qualunque tipo di attacco. E proprio in quell’istante fecero il loro ingresso due Progenie ad armi spianate. Riuscì a calciare via due dei suoi assalitori, concentrando le sue forze sul terzo che minacciava di strapparle l’arma di mano. Per un attimo incrociò i suoi occhi… gli occhi che un tempo erano appartenuti ad un fratello e che ora sapevano di morte. Provò una rabbia inaudita alla vista di quel mostro e si rese conto che neppure il casco le poteva bastare per proteggerla dal provare odio e ribrezzo verso tutto ciò che rappresentavano i Razziatori. Strinse le mani intorno al suo cranio, trattenendo un urlo di disgusto, e lo scagliò verso un Progenie. Poi si concentrò sull’ultimo rimasto che aveva appena afferrato le sue caviglie. Sollevò uno stivale, premendolo a fondo sulla sua gola, dopo si voltò a controllare perché i colpi del Viper fossero cessati all’improvviso.
“Dannazione!”, esclamò, lanciandosi nell’ennesima carica biotica verso uno dei mutanti che aveva accerchiato Thane. Li stava combattendo a mani nude, eliminandone uno dopo l’altro, in fila, concentrato e preciso nel distribuire destri e calci a mezz’aria… ma non era sufficiente, non quando si era nella linea di tiro di un Progenie, pronto a lanciare un onda d’urto. La carica biotica di Shepard e l’onda d’urto nemica si scontrarono, provocando una terribile esplosione biotica che travolse i mutanti. Neppure Thane e Shepard furono risparmiati dall’impatto, che li scagliò violentemente sul muro dietro, uno sull’altro. Ebbero giusto una manciata di secondi per riprendersi, e quei pochi istanti di smarrimento le bastarono per farle temere il peggio.
“Stai bene?”, gli domandò lei preoccupata, tendendogli una mano mentre Jack distraeva il Progenie.
“Si”, rispose lui, rialzandosi. Il suo sguardo aveva tutta l’aria del rimprovero, ma non aggiunse altro. Gettò via il Viper, ormai totalmente inutile, e impugnò la Predator, preparandosi ad uno scontro ravvicinato.
Shepard diede ordine a Tali e Jack di concentrarsi unicamente sul nucleo, lei avrebbe attirato i mutanti… Non c’era modo di sapere per quanto tempo il nucleo sarebbe rimasto visibile e quindi ogni istante era prezioso.
“Sei pronto?”, domandò a Thane, estraendo il Crusader mentre l’energia oscura danzava ondeggiando sulle sue dita.
“Quando vuoi”, rispose lui, richiamando un globo d’energia biotica sul palmo della mano destra.
Fecero detonare i loro poteri combinati ai danni del Progenie che li aveva in tiro e lo videro disgregarsi in mille pezzi, prima di trovarsi letteralmente assaliti dai mutanti. Jack e Tali continuavano a fare fuoco, ormai al sicuro, e chiedevano di continuo se avessero bisogno di supporto, ma non c’era tempo di discutere… tutto ciò che restava da fare era difendersi da quegli abomini nel minor tempo possibile. Riuscirono a coordinarsi alla perfezione, dosando l’uso dei poteri con l’uso delle armi, bilanciando il contraccolpo delle loro armi schiena a schiena, finchè anche l’ultimo mutante non stramazzò al suolo, colpito contemporaneamente da due globi d’energia biotica. Si osservarono per un solo istante, senz’aver coraggio di dire una parola, poi entrambi puntarono le loro armi verso il nucleo, ormai quasi totalmente distrutto.
 
 
Lo scorrere incessante dei secondi dopo la distruzione del cuore di quel relitto faceva da sfondo ad un’altra questione che premeva per essere risolta. Per quanto l’idea di precipitare su una stella fosse preoccupante, restava di decidere cosa farne del Geth prima di fare ritorno sulla Normandy. I quattro si scambiarono un breve sguardo, da sotto le loro maschere, poi si concentrarono sul sintetico che giaceva immobile ai loro piedi. Thane fu il primo a parlare, suscitando in Shepard un certo stupore.
“Cosa ne facciamo? Potrebbe rivelarsi utile”.
“Shepard, no… lasciamolo qua”, disse Tali in fretta, quasi a voler scongiurare ogni ripensamento. “Ne abbiamo combattuti a centinaia, chi ci dice che questo sia diverso?”
Shepard non aveva dubbi che Tali si sarebbe dimostrata restia, e d’altronde non poteva fargliene una colpa, visti i trascorsi con la sua gente… ma neppure avrebbe potuto decidere in base alle sue supposizioni. “Beh…”, rispose, “non dobbiamo per forza decidere subito cosa farne. Lo prenderemo, per il momento. Poi valuteremo le opzioni, una volta a bordo”.
Si avvicinò all’IA e lo issò per un braccio, facendo per caricarselo sulle spalle. Thane fece lo stesso con l’altro braccio e a quel punto iniziarono a correre verso la Normandy, dove Joker e il resto dell’equipaggio li stavano aspettando, pronti a lasciare quel luogo infernale.
 
 
 
Tali non riuscì a mascherare il suo disappunto, quella sera. Il Geth era stato sistemato nello stanzino che conteneva il nucleo di EDI, e lei sorpassò in fretta l’infermeria, disgustata al solo pensiero che a pochi metri da lei giacesse uno dei Servitori. Si diresse verso la Batteria Primaria a passo spedito, con l’estremo bisogno di sfogare la propria frustrazione con qualcuno. Non riuscì a pensare a nessun altro che non fosse Garrus… l’unico che insieme a lei aveva combattuto quei dannati sintetici, prima che Shepard morisse e si affacciasse all’orizzonte l’ipotesi dei Razziatori come la vera minaccia da neutralizzare.
“Tali… che succede?”, esclamò il Turian, nel vederla arrivare. Ogni muscolo del suo corpo era teso e vibrante per la rabbia, leggere l’espressione sul suo volto sarebbe stato superficiale.
“Shepard ha recuperato un Geth”.
Garrus si sollevò, dimenticando per un attimo le sue calibrazioni. “Un… Geth?”, domandò, “Intatto?”
“Un Geth che fino a qualche ora fa era perfettamente capace di comunicare e di sparare”.
“L’avete… uhm… disattivato voi?”
“No, ma non è questo il punto…”
Garrus si mise a sedere su uno degli scalini, sapendo che la discussione non sarebbe stata breve.
“Qualche settimana fa”, continuò la Quarian, “mi hai detto di esserti sentito tradito da Shepard…”
“Tali, non è la stessa cosa”.
“Lasciami parlare...”, lo zittì lei con un gesto del braccio, “lo so che non è la stessa cosa. Quel Geth non ha neppure cercato di ucciderci… al contrario, sembra quasi che ci abbia difeso”.
“E allora qual è il problema?”
“Resta comunque un Geth. Non capisco perché Shepard non abbia ascoltato il mio consiglio. Lasciarlo lì era la cosa più sensata da fare… non posso credere che l’abbia fatto per soldi, non ne abbiamo bisogno. E neppure che l’abbia fatto per dare a Cerberus qualcosa da studiare, so come la pensa a proposito… lei l’ha fatto per curiosità”.
Garrus si prese un paio di secondi per riflettere, passandosi una mano sulla fronte.
“Non lo so, Tali… Shepard non mi sembra il tipo da fare scelte avventate solo per semplice curiosità”.
“Aveva un pezzo di corazza N7 addosso, Garrus…”
Il Turian fece schioccare le mandibole, indeciso su cosa rispondere a quell’ultima rivelazione.
“Beh, pensa se avesse avuto un pezzo di tuta addosso. Una tuta Quarian…”
“Keelah… l’avrei ucciso io stessa!”
“Non avresti voluto scoprirne il motivo?”
“Che importa? Quei sintetici sono una minaccia. Non c’era ragione di portarlo a bordo”.
“Devo ammettere che anche io l’avrei lasciato lì, ma se Shepard ha deciso il contrario…”, rispose lui, accarezzandosi il mento. “Gli altri erano d’accordo?”
“A Jack, penso, non sarebbe potuto interessare di meno… e Thane invece le ha suggerito di portarlo”, sbuffò lei, incrociando le braccia sotto al petto, il viso rivolto verso un punto indefinito del soffitto.
“Ehi… dobbiamo darle un po’ di tregua”, parlò di muovo Garrus, abbassando il tono di voce. “Non se la sta passando tanto bene…”
“Shepard non si è mai fatta trascinare dai problemi personali”.
“Infatti. Sono convinto che la sua scelta sia giustamente motivata, anche se magari noi non la comprendiamo… per questo preferirei tacere a proposito. Non merita un altro carico di roba a cui pensare”.
Tali non rispose, andandosi a sedere invece accanto a lui. Le spalle, prima strette e immobili, ora si rilassarono.
“A volte dimentico quello che ha passato… lei è sempre così… Lei. Si è fatta in quattro per il suo equipaggio, per noi… Non ha esitato un attimo a prendere le mie parti quando ne ho avuto bisogno”, disse fra sé e sé. “E io…”
“E tu hai tutto il diritto di dissentire. Non devi sentirti in colpa per questo…”, rispose prontamente Garrus, “ma lei è pur sempre il nostro Comandante. Poteva andarci molto peggio…”
“Oh, questo è vero”, ridacchiò Tali, “pensa a Miranda. Quella proprio non l’avrei sopportata”. Garrus sorrise insieme a lei, poi Tali diede un altro sospiro.
“E’ solo che l’idea che quel… coso possa muoversi a bordo di questa nave non mi dà pace”.
“Non saltare a conclusioni affrettate. Dovresti fidarti un po’ di più”.
Tali scrollò le spalle, costringendosi ad annuire.
“Senti”, continuò lui dopo una breve pausa, “se proprio vuoi parlarle… almeno valle incontro. Aiutala, in cambio”.
“A proposito di cosa?”
“Lo sai”, rispose, rivolgendole uno sguardo complice. “Io non sono stato capace e lei… dubito che abbia voglia di chiedere consigli personali a un sottoposto”.
“Quindi è vero?”
“Le voci corrono in fretta sulla Normandy…”, gesticolò. “Se devo essere sincero, non mi piace il guaio in cui si è cacciata. Ne uscirà con le ossa rotte… è già stata abbandonata una volta e non l’ho mai vista così sconvolta come dopo Horizon. Ma d’altra parte…”
“…d’altra parte ha bisogno di qualcuno che possa starle accanto”.
Il Turian annuì, le braccia adagiate mollemente sulle ginocchia. “Che non sia qualcuno pronto a voltarle le spalle al primo problema, magari”.
“Garrus… per forza di cose, presto o tardi anche lui sarà costretto a voltarle le spalle”.
“Beh, potremmo anche morire tutti fra qualche settimana…”
“Non mi sembra una giustificazione”.
“Mi meraviglio di te, Tali… da una che ha visto Flotta e Flottiglia almeno una ventina di volte, mi aspettavo più romanticismo”.
“Se la vita fosse davvero come Flotta e Flottiglia…”
Tali si zittì di colpo, poi scoppiò a ridere. “Sai… ora che ci penso, non so se mi piacerebbe davvero”.
“Che cosa, avere un Turian come fidanzato?”
Tali annuì, sorridendo. “Troppe creste, denti, spuntoni… e poi, keelah, avete un caratteraccio”.
“Perché, voi Quarian? Sempre a pensare al Pianeta Natale e ai pellegrinaggi, e alle vostre strane tecnologie…”
Risero insieme, dandosi una gomitata amichevole, e continuarono a parlare così per ore, senza rendersi conto del tempo che passava almeno finchè la stanchezza non fu troppa da sopportare e dovettero arrendersi al fatto che, una volta ogni tanto, bisognava anche riposare.
 
 
 
Shepard era esausta. Erano riusciti nell’impresa, certo, avevano finalmente ottenuto l’IFF e EDI aveva già provveduto a scansionarlo e a svolgere le indagini preliminari sul suo funzionamento, ma d’altra parte si erano anche trovati di fronte a quegli orrori che aveva già visto e che comunque non smettevano di tormentarla. Oltretutto, c’era ancora la questione del Geth da risolvere e lei avrebbe voluto rimandarla ad oltranza. Le opinioni dell’equipaggio erano discordanti a riguardo… c’era chi lo vedeva come una risorsa economica, chi come un ottimo oggetto di studi scientifici, chi come un bersaglio per provare le nuovi armi in commercio. Lei riusciva a vederlo semplicemente come un’incognita. Un incognita con un simbolo N7 scolorito sulla parte destra del suo torace. L’ennesima incognita che il suo percorso le aveva posto davanti. Restava solo da decidere se sbarazzarsene subito e mettere a tacere ogni dubbio, se consegnarlo a Cerberus lavandosene le mani o attivarlo e togliersi così la curiosità. Una curiosità professionale, tentava di ripetersi, mentre si domandava se avesse fatto la cosa giusta. Ne aveva combattuti tanti, era vero, ma poi aveva anche scoperto che non erano i Geth il vero problema… e chi le diceva che quello non fosse semplicemente un ribelle tra la sua “gente”? Il fatto che non avesse provato ad attaccarli la turbava parecchio. Con una mira così li avrebbe potuti togliere di mezzo in meno di venti secondi, probabilmente. Ma non l’aveva fatto e lei voleva sapere perché. Perché li avesse difesi, perché conosceva il suo nome, perché fosse l’unico Geth presente su quella nave e cosa stesse cercando.
Si portò le lenzuola fin sopra le labbra, sentendo i capelli bagnati solleticarle la nuca, mentre ogni muscolo del suo corpo reclamava pietà. Avrebbe voluto dormire, ma troppe domande aleggiavano nell’aria, monopolizzando i suoi pensieri già confusi. Una volta archiviata la questione del Geth, che – decise - avrebbe riattivato l’indomani col supporto di EDI, ne restava un’altra. Quella che si sentiva meno pronta ad affrontare, in assoluto.
Per una volta, avrebbe voluto che qualcun altro intervenisse e ponesse fine a quello strazio, ma sapeva bene di essere assolutamente sola. C’erano solo lei, i suoi sentimenti, e le sue paure… e i muri della sua cabina diventarono di nuovo troppo stretti, mentre capiva che l’unica cosa che al momento desiderasse, era di avere di nuovo le sue labbra premute contro le sue, le sue mani intorno ai fianchi, i suoi occhi dentro ai suoi…
Non poteva farsi sopraffare in questo modo, lo sapeva bene. Non con una missione così importante all’orizzonte, non adesso che erano così vicini alla meta… Ma tutto quello che sentiva di dover fare era chiudere la questione, una volta per tutte. Dimenticare, se necessario. Tutto pur di uscire fuori da quel limbo senza colore e senza forma.
Si alzò con determinazione e prima che potesse rendersene conto, era già nella sua uniforme, fuori dal suo rifugio personale. Gli avrebbe chiesto un parere professionale sul Geth, era questo il piano. In fondo lui era stato uno dei pochi a sostenere la sua decisione e lei voleva, doveva scoprirne il motivo.
 
 
 
Quando sentì bussare alla sua cabina, Thane si alzò di soprassalto. Non stava dormendo, ultimamente era diventato davvero troppo difficile, ma aveva passato l’intera serata dietro ai ricordi, sebbene si fosse ripromesso di evitare il più possibile di estraniarsi dalla realtà. In un certo senso, si sentì sollevato di ricevere compagnia, almeno avrebbe potuto momentaneamente distrarsi dai pensieri che lo affliggevano, ma quando capì che poteva anche trattarsi di Shepard svanì ogni forma di sollievo. Era lei il motivo dei suoi tormenti, era lei che non aveva assolutamente voglia di vedere. Una parte di sé, almeno.
Percorse il breve corridoio e appena fu dietro al portellone si rese conto che comunque non avrebbe avuto senso rimandare di continuo la conversazione che, per forza di cose, sarebbero stati costretti ad affrontare prima o poi.
“Shepard”, la salutò semplicemente.
“Posso entrare?”, domandò lei, evitando inutili giri di parole.
Lui si spostò, facendola passare. Presero posto ai lati di quella scrivania troppo piccola, così diversa dal tavolo che la sera prima li aveva tenuti così lontani, e quando le loro ginocchia si toccarono, entrambi si allontanarono quasi avessero sfiorato una fiamma viva.
“Volevi parlarmi?”
“Sì. Ho bisogno di sapere cosa pensi riguardo al Geth, perché mi hai consigliato di recuperarlo”.
Thane restò in silenzio per un attimo. Era pronto a qualunque domanda avesse potuto rivolgergli, si aspettava di venire trascinato in un discorso personale, degli insulti, anche… ma in quel momento si rese conto di aver probabilmente sbagliato su tutta la linea. Forse lei non era neppure interessata a chiarire, a risolvere quella strana situazione che si era creata fra di loro. Il pensiero lo sollevò e lo turbò al tempo stesso, ma si costrinse a rispondere accantonando per un attimo quella questione.
“Il motivo è semplice, Shepard… Il suo comportamento è stato inusuale”.
“E’ così, dunque? Semplice curiosità?”
“La curiosità sta alla base di molte cose buone. La conoscenza, per esempio”.
Shepard captò una certa sfumatura di sarcasmo nella sua risposta, quasi avesse voluto mettersi sulla difensiva. Ma il perché non riuscì a spiegarselo.
“Non credi che sia stato un errore? Che sarebbe stato più sicuro lasciarlo lì e abbandonarlo al suo destino… se si può dire così di un essere inorganico?”
“Non credo tu abbia sbagliato, e penso che non ci sia modo di scoprirlo veramente se non dopo averlo attivato”.
“E rischiare di mettere in pericolo la mia nave o il mio equipaggio?”
Shepard capì, subito dopo avergli rivolto quella domanda, che la discussione stava prendendo di nuovo una piega stranamente personale e dal modo in cui Thane sollevò le sopracciglia, realizzò che anche lui doveva essersene accorto.
“Ho l’impressione che tu voglia portare questa discussione a tuo favore”.
Shepard deglutì, sentendosi improvvisamente minacciata. Che significava?
“Ho chiesto un tuo parere, nient’altro”.
“Vero, ma dalle tue domande sembra che tu sia disposta ad accettare solo un tipo di risposta”.
“E quale?”, domandò lei, con aperta aria di sfida.
“Lo sai meglio di me”.
E di nuovo, si ritrovarono a comunicare da dietro a un muro insormontabile fatto di lunghi silenzi e cose non dette.
Shepard, a quel punto, decise di alzarsi… non aveva senso continuare con quella farsa che avrebbe contribuito solo a peggiorare una situazione già di per sé orribile. Si stampò sul volto l’espressione più neutra che riuscì ad imitare e fece per andarsene con un gelido “Buonanotte”.
Fu solo prima di varcare la soglia del portellone che lui la raggiunse, facendola voltare.
“Shepard, che cosa vuoi da me?”, le domandò. Il suo tono di voce voleva essere calmo, risoluto, ma tradiva chiaramente un’enorme irrequietezza che lei non poté fare a meno di notare.
E tuttavia, lei non riuscì ad essere sincera.
“Niente che tu possa darmi”, gli rispose con rabbia, un attimo prima di richiudersi il portellone alle spalle.
Quella notte avrebbe lottato incessantemente contro le lacrime che minacciavano di sgorgare dai suoi occhi, fino alle prime ore dell’alba… quando si era addormentata e, finalmente, una di quelle lacrime aveva intrapreso il suo corso, bagnando il cuscino… l’essenza più pura del rimorso.
 

Vi sfido a trovare lo zampino di qualcun altro, qui :3 Grazie Ale <3

 

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Capitolo 16
*** Chances and Forgiveness ***


 
“Can imagine the moment, breaking out through the silence,
 
All the things that we both might say
 
And the heart it will not be denied till we’re both on the same damn side
 
All the barriers blown away”

(Come Talk to Me – Peter Gabriel)

[x]

 
 


La Normandy era in rotta verso la Cittadella da ormai qualche ora. Questo per Thane significava che avrebbe avuto l’occasione di rivedere suo figlio, probabilmente per l’ultima volta prima di attraversare Omega 4. Tale possibilità avrebbe dovuto renderlo felice, ma erano troppe le domande che gli impedivano di rilassarsi di fronte a quella prospettiva. Cosa gli avrebbe raccontato? Sarebbe riuscito a spiegargli che quella missione la stava combattendo anche e soprattutto per preservare il suo futuro da ogni possibile minaccia? E lui come avrebbe preso il fatto che suo padre stava per abbandonarlo di nuovo?
Aveva registrato un breve videomessaggio per chiedergli se avesse avuto voglia di vederlo. Kolyat aveva risposto in un modo che a lui era sembrato vagamente gentile, ma forzatamente misurato. L’aveva informato dei suoi orari di lavoro e gli aveva lasciato l’indirizzo del suo appartamento, invitandolo a raggiungerlo lì.
Fra i tanti errori che Thane credeva di aver commesso ultimamente, il prossimo incontro con suo figlio sarebbe potuto diventare l’ennesimo. Si rivolse ad Arashu, in una preghiera silenziosa, chiedendole di vegliare sulle sue prossime scelte come una madre avrebbe fatto col proprio figlio. A volte gli era semplicemente impossibile non fare affidamento su qualcuno di onnipresente, onnipotente… era l’unica goccia di invisibile certezza nel suo mare fatto di dubbi, sensi di colpa, scelte sbagliate e ragionamenti sofferti.
E a tal proposito, il pensiero di Shepard non aveva smesso di dargli il tormento da quando lei era andata via, la sera prima. Le sue parole riuscivano a fargli male ogni qual volta la sua mente gli presentava quel ricordo, con la stessa, immutata intensità. Aveva cercato mille significati nascosti dietro quella frase, tentando di capire che cosa l’avesse spinta a pronunciarla. Era stata una semplice presa di coscienza, si era trattato di un modo subdolo di fargli del male, era stata dettata dalla rabbia o dall’angoscia? Era stato solo un modo poco carino per chiudere definitivamente quel rapporto o, al contrario, una strana richiesta d’aiuto?
Avrebbe potuto chiederle spiegazioni sul momento, o chiedere un colloquio in seguito, ma qualunque fosse stato il responso, lui non era sicuro di sapere come avrebbe reagito. Ogni gesto, ogni parola di Shepard sembrava dimostrargli che lei non l’avesse compreso affatto o che stesse deliberatamente ignorando le sue giuste motivazioni. I discorsi che avevano fatto non erano stati altro che un modo contorto di parlarsi attraverso un pretesto. Il Geth, pensò, non era stato la sua principale preoccupazione, tant’è vero che quella mattina gli era giunta voce che l’avesse riattivato; era stato solo l’ennesimo pretesto per ricevere delle risposte. Quali? Semplice. Tutto ciò che aveva voluto sentirsi dire era che sì, ne vale la pena di correre dei rischi, anche quando questi potrebbero mettere in pericolo altre persone. E lui aveva scelto di non risponderle, ben sapendo che quel discorso non era altro che una lama a doppio taglio. Si sentì offeso, offeso e irritato da quel modo di risolvere la questione, mascherandola da qualcos’altro. Se solo lei gli avesse fatto una domanda sincera, lui le avrebbe risposto altrettanto sinceramente, così come aveva sempre fatto. E invece, alla fine, entrambi avevano finito per complicare le cose, incapaci di affrontare la situazione come due adulti.
 
 
 
Tali si sentiva in fermento quella mattina. Aveva assistito alla riattivazione del Geth e alla fine aveva ammesso di sentirsi più tranquilla. Non si fidava, certo, ma le parole di quel sintetico le erano sembrate sincere, e lei sentì di non avere la forza necessaria per cercare il male anche dove non c’era. Aveva anzi accettato di collaborare con quella fetta di Servitori pronti a schierarsi per la loro causa, sperando che quello potesse essere uno dei tanti passi in avanti verso un futuro migliore, per sé, per la propria gente e anche, in ultimo, per quella specie di sintetici che fino a qualche anno fa era riuscita a vedere solo come nemici da combattere.
Sorridendo da dietro la sua maschera violetta, attivò il factotum e si mise in comunicazione con Garrus.
“Allora, ce l’hai fatta? Siamo su un canale protetto?”, domandò il Turian, con un certo entusiasmo.
“A prova di EDI!”
“Ottimo… Dunque, qual è il piano per stasera?”
“Tu fai come ho detto. Io andrò a parlare con Shepard fra una decina di minuti”.
“Va bene…”
Ci fu un breve silenzio, poi Garrus parlò di nuovo.
“Sei sicura che sia una buona idea? Voglio dire… non vorrei rimetterci l’amicizia…”
“Oh, per così poco?”, ridacchiò la Quarian. “Senti… ho parlato con Kasumi e sono sicura che questa sia la cosa migliore da fare, a questo punto. Fidati di me”.
“Se lo dite voi donne…”
“Ecco, bravo. Mai sottovalutare l’istinto femminile”.
Garrus sbuffò divertito, poi si lamentò di avere ancora alcuni lavori da fare e lasciò Tali libera di mettere in atto il piano stabilito la sera prima.
 
 
“Shepard, disturbo?”. La Quarian si affacciò da dietro il portellone della sua cabina, trovandola visibilmente turbata. Lei non si aspettava visite, soprattutto da Tali… credeva fosse l’ennesima persona ad avercela attualmente con lei e per un attimo ebbe timore che la Quarian volesse semplicemente criticare di nuovo la sua scelta.
“Entra pure”, le disse. Tali si accomodò sul divanetto, notando nel frattempo le profonde occhiaie del Comandante e un rossore diffuso sulle guance. Non conosceva bene l’intera gamma delle espressioni umane, ma avrebbe creduto che avesse pianto, se solo l’avesse ritenuta capace di lasciarsi andare a certe debolezze.
“Qualche problema, Tali?”
“No, niente del genere… Avevo solo pensato che dato il nostro arrivo alla Cittadella, avremmo potuto mangiare un boccone insieme, stasera…”
“Io e te?”, Shepard non poté trattenersi dal sollevare un sopracciglio, scettica.
“Certo. E’ un problema? Ho sempre desiderato di ripagarti per ciò che hai fatto per me… e attualmente posso solo offrirti una cena degna di questo nome”, sorrise Tali, intrecciando le dita fra di loro.
“Senti… ti avrei sicuramente detto di sì in un’altra occasione, ma oggi proprio non posso. C’è troppo lavoro da fare e non me la sento di lasciare la Normandy”, protestò lei, accarezzandosi i capelli.
“Sai meglio di me che stiamo per tentare un’impresa impossibile… credo possa farti solo bene staccare un po’ la spina”.
Shepard piegò la testa di lato, puntando gli occhi sul pavimento mentre un sorriso rassegnato si dipingeva sulle sue labbra.
“Andiamo!”, la incitò Tali, sfiorandole un braccio con una mano. “Conosco un posto carinissimo”.
“Sulla Cittadella? E come l’avresti trovato?”
“Oh, una volta avevo un amico di nome Jack, mi ha fatto conoscere molti posti interessanti”, ammiccò lei.
“Solo una cena, poi ritornerò a bordo”, rispose Shepard, perentoria.
“Solo una cena”.
 
 [x]
 
Agglomerato Tayseri, diceva l’indirizzo che Kolyat gli aveva spedito. Il prossimo trasporto partiva in una decina di minuti. Thane si prese quel tempo per osservare la zona, memorizzando ogni orario sulla tabella delle partenze e quella degli arrivi, ogni nome. Non era mai stato in quel quartiere, non sapeva cosa aspettarsi, ma a giudicare dai punti d’interesse che vi si trovavano, non poteva essere tanto male.
Fu sorpreso non appena arrivò alla fermata stabilita, rendendosi conto che la zona sembrava non solo pulita e tranquilla, ma anche piuttosto benestante. L’appartamento di Kolyat, tuttavia, spiccava come una macchia nera su un foglio immacolato. L’edificio da fuori sembrava vecchio, a tratti fatiscente, nonostante fosse di evidente fattura moderna. Fece le scale - ovviamente non c’era nessun ascensore - e arrivò dietro alla porta dell’appartamento. Digitò il codice d’ingresso sull’interfaccia olografica sul muro ed entrò. Un particolare odore lo investì non appena varcò la soglia… sembrava fosse quello di vernice, o di colori a tempera… e un ricordò seguì immediatamente quella sensazione, spaventosamente vivido.
 
Un’altra delle tue opere d’arte?, le chiedo scherzosamente. Lei si gira, il suo naso è sporco di blu scuro e io sorrido di fronte a lei, mentre tenta di coprire la tela con le mani. Non voglio che lo vedi prima che sia finito, mi risponde imbronciandosi, ma sa già che non mi arrenderò… così alla fine cede al mio abbraccio e, mentre la stringo a me, oltre la sua spalla vedo la creatura più bella del mondo prendere forma sulla tela bianca. Nello stesso momento, qualcosa scalcia dentro la sua pancia… è la prima volta che sento mio figlio.
 
Era uno dei ricordi più belli che possedesse, e ogni volta che provava di nuovo quell’emozione, quella meraviglia, non riusciva a trattenere una sincera lacrima di gioia. Erano passati più di vent’anni, ma quella memoria sarebbe stata sempre una delle più preziose. Irikah non era mai stata così bella, così felice come allora… era così giovane e determinata, e la sua mente creativa riusciva a sorprenderlo ogni volta. Quel piccolo Drell che sorrideva dalla tela sarebbe stato solo l’inizio di alcuni anni di pura gioia. Neppure il suo lavoro era riuscito a scalfire la perfezione di quel periodo. Aveva sciolto il Contratto, aveva creduto di poter dare loro la stabilità e la sicurezza di una vera famiglia, ma dopo alcuni anni si era reso conto che per quanto potesse provarci, era impossibile cambiare totalmente se stessi. Non sarebbero potuti andare avanti solo con i suoi risparmi o con l’arte di sua moglie, non se avevano intenzione di dare a Kolyat il futuro che meritava, e giorno dopo giorno era diventato sempre più difficile rifiutare le proposte che riceveva. Iniziò ad accettare contratti semplici, veloci, per cui sarebbe stato via al massimo un paio di giorni, poi aveva scoperto della Kepral e tutto era cambiato…
“Padre”. La voce di Kolyat lo fece sobbalzare, immerso com’era nei suoi pensieri. Si voltò e incontrò il viso di suo figlio. Aveva i suoi occhi, i suoi colori… Era dimagrito molto, ma non era deperito. Indossava l’uniforme degli addetti ai lavori civili e sembrava visibilmente imbarazzato.
“Ciao Kolyat”, rispose lui, senza sapere bene se abbracciarlo o tendergli una mano. Nel dubbio restò immobile, aspettando una sua mossa.
“Entra”, gli disse lui, abbandonando il borsone all’ingresso. “Vuoi qualcosa da bere?”
“Dell’acqua andrà bene”, rispose Thane, seguendolo in cucina. Era piccola, c’era solo il minimo indispensabile. Quando Kolyat aprì il frigorifero, non riuscì a fare a meno di sbirciare. Era praticamente vuoto, ad eccezione di un paio di frutti troppo maturi e una lattina di birra.
“Senti, se hai bisogno di denaro, di qualsiasi cosa, non devi fare altro che chiedere…”, gli offrì istintivamente.
“No, non ho bisogno di nulla”, tagliò corto lui, versando dell’acqua in un bicchiere. “Me la cavo benissimo da solo”.
“Non intendevo sminuirti, però può fare sempre comodo un aiuto…”
“Ho tutto quello che mi serve, grazie lo stesso”, replicò Kolyat bruscamente. “E per favore, non fare caso al casino che c’è in giro… non ho avuto tempo di occuparmene”, aggiunse poi, indicando sommariamente la sala.
Thane si voltò d’istinto, notando che in effetti la parola “casino” fosse decisamente appropriata. Lattine di birra sparse ovunque, tele ammassate dietro al divano, cartoni della pizza impilati sul tavolinetto e tubetti di vernice ad ogni angolo… Si schiarì la voce, cercando le parole esatte per rispondergli.
“Non preoccuparti”, disse semplicemente, “…hai voglia di farmi vedere i tuoi lavori?”
“E’ solo spazzatura… niente d’interessante”.
“Lascia che siano gli altri a giudicarlo…”
“Tanto tu non ci capiresti niente. E’ roba astratta… un mucchio di colori e basta”.
Thane chinò il capo, posando lo sguardo sul bicchiere di fronte a lui, ormai vuoto. Non poteva biasimarlo per essersi fatto una così povera opinione di lui, neppure se quell’atteggiamento fosse  dettato solo dal rancore. Decise di incassare il colpo e passare oltre.
“Ho notato che qua vicino c’è la scuola d’arte Auxau, hai mai pensato di iscriverti ad un corso?”
Kolyat sbuffò, ridendo nervosamente. “Neanche se diventassi un detective dello C-Sec potrei permettermelo… e poi è pieno di figli di papà e Asari che si credono chissà chi…”
“Per la retta non preoccuparti, ci penserò io”.
“Ho detto di no. Non lo voglio il tuo aiuto”, rispose lui con rabbia.
“Voglio solo darti una mano, Kolyat”.
“Non puoi pensare di riapparire dopo dieci anni e sistemare tutto con un assegno. Non li voglio quei soldi… mi fanno schifo”.
Kolyat lasciò la sua postazione dopo quella frase, andando ad affacciarsi al balcone che dava sulla strada di sotto. Sapeva di essere stato duro, forse fin troppo, ma non riuscì a frenare la lingua. Era difficile perdonarlo, era difficile tradire in questo modo la memoria di sua madre. Perché di questo si trattava… loro due erano vivi e lei era morta, per colpa di suo padre. Come poteva dimenticare?
Thane, dal canto suo, non riuscì più a dire una parola. Si era preparato per questo, ma la realtà faceva male dieci volte di più. Sapere che suo figlio pensava a lui come un assassino senza cuore, sapere che lo credeva possibile di voler comprare il suo affetto… come poteva dimostrargli che si stava sbagliando?
“C’è un motivo particolare per cui sei venuto fin qui?”, gli domandò poi Kolyat, senza voltarsi.
“Sarò in licenza per un paio di giorni, avevo voglia di vederti”, rispose, prima di fare una lunga pausa. “Kolyat, qualunque domanda tu voglia farmi…”, aggiunse poi, esitante.
“Per chi lavori? Fai sempre la stessa cosa?”
Thane si affrettò a scuotere il capo, raggiungendolo sul balcone. “No, ormai quel capitolo è chiuso”.
Gli sembrò di averlo visto sbuffare, mentre si voltava dall’altra parte per evitare il suo sguardo. “Sto lavorando per un’organizzazione che si occupa di alcune colonie scomparse nei Sistemi Terminus”.
“Quella donna… è il tuo capo?”
“Shepard? Sì…”, rispose, tendando di mascherare il disagio, “ricordi l’attacco della Sovereign alla Cittadella?”
“So chi è, non sono stupido”.
Calò di nuovo il silenzio fra i due, interrotto solo dai rumori del traffico in lontananza e dai lamenti del frigorifero che sbuffava a distanza di una manciata di secondi, poi Kolyat si voltò di nuovo verso di lui, in procinto di parlare. Dischiuse appena le labbra, poi le serrò nuovamente.
“Kolyat…”
“E’ pericoloso?”, si affrettò a chiedere lui, approfittando di quell’attimo di coraggio.
“E’ rischioso, sì, ma Shepard sa quello che fa”.
“E’ un Umana… come puoi fidarti di lei?”, chiese con una smorfia.
“Non dovresti vivere nel pregiudizio, Kolyat. Non tutti gli Umani sono malvagi o sciocchi…”, tentò di argomentare.
“Noi Drell facciamo parte della comunità galattica da molto più tempo… hai mai visto un consigliere o uno spettro Drell?”
“Siamo in pochi, Kolyat. Gli Umani sono più di undici miliardi…”
“Non mi interessa. Io non mi fido… due umani lavorano con me, sono due imbecilli. Non fanno altro che pensare a mangiare o alla prossima pausa. E’ una specie di idioti”.
“Non ti sei fatto nessun amico qui?”, provò a chiedergli lui.
Kolyat scosse il capo, passando distrattamente una mano sulla ringhiera. “Sembrano tutti terrorizzati all’idea di avere a che fare con me…”, confessò a voce bassa.
“Non si vedono molti Drell in giro, è normale”. Thane avrebbe voluto aggiungere che forse era la sua aria perennemente cupa e arrabbiata a fare allontanare le persone, ma di sicuro l’avrebbe offeso e non voleva assolutamente ottenere quell’effetto. “Prova ad attaccare bottone, sono sicuro che troverai qualcuno che voglia…”
“Non me ne frega niente, sto bene da solo”.
No, non sarebbe stato bene da solo. Lui sapeva perfettamente com’era vivere in solitudine, lottare giornalmente contro la voglia di abbandonarsi ai ricordi e perdersi nell’intangibile. Per un Drell era forse la cosa più efficace per arrivare alla più totale autodistruzione.
“Lo sai bene che non è così. Non voglio che ti isoli, Kolyat. Non è salutare”.
“Tu l’hai fatto… perché io non posso?”
“Sono tuo padre, ho il dovere di impedirti di farti del male… e l’isolamento porterà inevitabilmente a questo”.
“Eri mio padre anche prima, hai presente? Non ci sei mai stato e ora vuoi dettare legge?”
“Non ti sto rimproverando, Kolyat. Voglio solo il tuo bene…”
“Allora lasciami in pace”, berciò lui.
Thane si prese del tempo per riflettere. L’incontro stava andando proprio come lui aveva sperato che non andasse, ogni parola usata sembrava quella sbagliata, ogni risposta di Kolyat mirava a ferirlo. A quel punto, pensò, solo la sincerità avrebbe potuto fare la differenza.
“Non chiedo il tuo perdono, Kolyat”, gli disse fermamente, cercando il suo sguardo, “so di non meritarlo. Voglio solo che tu capisca che il mio affetto è immutato nei tuoi confronti. Se ho deciso di prendere parte a questa missione è perché voglio regalarti un futuro migliore, un posto sicuro dove vivere la tua vita, lontano dal pericolo”.
“Cosa me ne faccio del futuro? Avresti dovuto esserci nel passato, quando avevo bisogno di un padre…”
Thane ebbe l’impressione che suo figlio fosse sull’orlo delle lacrime. Lacrime di rabbia, di dolore, che sapevano di abbandono.
“La mia presenza ti avrebbe arrecato solo sofferenza”, disse mestamente.
“Allora perché sei arrivato adesso? Perché proprio ora che stai morendo?”
Ed ecco tutte le sue paure, tutti i suoi dubbi condensati in una sola frase.
“Kolyat, se è quello che vuoi, io mi farò da parte”, si costrinse a rispondere, rinunciando a qualunque forma d’egoismo.
Il ragazzo non rispose subito, ma dalla tensione che si percepiva chiaramente da ogni suo minuscolo gesto, doveva essere terribilmente confuso.
“No”, disse poi, voltandosi finalmente a incontrare il suo sguardo. “Vederti sparire di nuovo non mi restituirà mia madre”.
In quello stesso istante, una lacrima rigò la sua guancia e Thane non riuscì a seppellire l’istinto di abbracciarlo, per lenire in minima parte quel dolore.
“Sei la cosa migliore che ho fatto in tutta la mia vita”, affermò, mettendogli in mano il suo cuore. “Anche se non riceverò mai il tuo perdono, sappi che sono disposto a dare la mia vita per te, e lo sarò sempre”.
Si allontanò, lasciando a Kolyat lo spazio di cui aveva diritto. Lui annuì, asciugandosi una guancia.
“Grazie”, rispose… e quella singola parola fu molto più di quanto avrebbe mai sperato di sentire.
 
 
 
Shepard si guardò allo specchio, poi diede un’altra occhiata ai vestiti che giacevano sul letto. Un paio di jeans sgualciti e una semplice canotta nera. Erano gli unici abiti da civile che era riuscita a recuperare tra una sosta e un’altra, senza preoccuparsi minimamente del fatto che forse le sarebbe servito qualcosa di più formale, per altre evenienze. Chi pensa a vestirsi in modo elegante quando là fuori intere colonie vengono inghiottite nel nulla?
“Un posto carinissimo”, le aveva detto Tali. Carinissimo quanto il Flux o quanto l’hotel su Telmum?
“Dannazione…”, sospirò lei, respingendo con forza quell’ultimo pensiero. L’ultima cosa di cui aveva bisogno, era ricordare quella notte. Si lasciò cadere sul letto, passandosi una mano fra i capelli ribelli. Non era proprio riuscita a dire di no a Tali, forse anche per un inconscio senso di colpa derivante dal recupero del Geth, ma più l’orario dell’appuntamento si avvicinava, più sentiva di pentirsene profondamente. Gli unici momenti passati da civile, dal momento della sua ricostruzione, erano stati quei pochi spesi con Thane… ma con lui era diverso. Non importava il contesto, non importavano le motivazioni, c’era solo la volontà di due persone di condividere un momento, lontano dal solito mondo… mentre il solo pensiero di dover cercare argomenti di conversazione con Tali le faceva venire il mal di testa. Oppure semplicemente avrebbero finito per ricordare le imprese di due anni prima, toccando i soliti tasti dolenti, cose che lei non aveva intenzione di rivivere. Erano cambiate troppe cose da allora e lei non aveva intenzione di farsi sopraffare ancora dalla nostalgia. Una nostalgia che, inevitabilmente, le avrebbe ricordato l’abbandono da parte dell’Alleanza e non solo. Si sentì di nuovo la ragazzina impegnata a rincorrere le stelle, che preferisce passare una serata a guardare attraverso l’obiettivo di un telescopio anziché uscire a farsi una bevuta con gli amici. Ma, e questo lei lo sapeva bene, non ci si può sempre sottrarre dalla compagnia altrui, specialmente quando ci si sta per lanciare in una missione suicida. Decise di andare a fare una passeggiata per sgranchirsi le gambe e schiarirsi i pensieri… e chissà come, diversi minuti dopo, si ritrovò in un negozio d’abbigliamento femminile.
“Posso aiutarla, signora?”, squittì una commessa. Shepard si voltò con l’aria di chi aveva appena visto un fantasma… come previsto, si trattava di un’Asari.
“No, grazie, do un’occhiata in giro”, rispose riluttante.
“Si ricordi che in questo negozio è a disposizione di tutti i clienti un dispositivo di ricostruzione corporea digitale in grado di evitarle una lunga fila ai camerini, se vuole provare un abito”, aggiunse velocemente la commessa, col tono meccanico di chi ha già ripetuto l’informazione un milione di volte.
“Grazie”, ripetè Shepard, allontanandosi alla velocità della luce.
Passò in rassegna l’intero reparto “basic”, per poi passare a quello “casual”, senza trovare nulla che catturasse la sua attenzione. Fece un’abbondante scorta di tute nel reparto sportivo e poi si decise finalmente a sbirciare in quello formale, attirandosi un paio di sguardi curiosi e vagamente sconcertati da parte di due Umane che, a differenza sua, indossavano qualcosa di femminile ed elegante abbastanza da giustificare la loro presenza lì. Fu seriamente tentata di mandarle al diavolo, ma in realtà l’effetto che ebbero su di lei fu opposto… si trattava di una questione d’orgoglio ormai. Anche lei poteva ancora essere femminile, e se aveva bisogno di indossare un fottutissimo vestito per riuscirci, l’avrebbe fatto. Prese la prima cosa che le capitò a tiro e decise di usare quel dannato aggeggio per la ricostruzione olografica.
“Pensavo di essere più magra…”, mormorò, mentre osservava l’immagine che le restituì la piattaforma. Era un abito lungo monospalla, di un verde che dava quasi sul blu, con un lungo spacco sulla coscia destra, abbastanza discreto da poter essere considerato un dettaglio di classe e non volgare. Non aveva idea del coraggio che ci sarebbe voluto per costringersi effettivamente ad indossarlo, ma quando le due donne di prima si avvicinarono all’ologramma, affascinate e compiaciute dalla sua scelta, decise immediatamente di prenderlo.
Tornò sulla Normandy e passò la restante parte del tempo a guardarsi allo specchio e a ripetersi che doveva pensare a quella serata nei termini di una missione. Solo in quel modo riuscì a convincersi di potercela fare.
 
 
 
Thane lasciò l’appartamento di Kolyat che era ormai buio sulla Cittadella. Ci sarebbero state troppe cose su cui rimuginare dopo quell’incontro, ma la prospettiva di svagarsi per qualche ora gli sembrò al momento più allettante. Avrebbe avuto fin troppo tempo, poi, per riflettere su ogni singola frase che si erano detti, cercando di capire in cosa avesse sbagliato e cosa invece, avesse detto di buono.
Non avrebbe mai pensato di poter ricevere una proposta come quella che Garrus gli aveva fatto quel pomeriggio. “Una cena fra uomini”, l’aveva chiamata, assicurandogli che non se ne sarebbe pentito. Accettò più perché si sentì lusingato dal fatto che un compagno d’armi avesse chiesto la sua compagnia, che per effettiva voglia. Mentre camminava a passo svelto, dirigendosi verso il locale stabilito, si rese conto che forse, dopotutto, non era una cattiva idea. Una serata diversa l’avrebbe tenuto lontano dai troppi problemi che affollavano la sua mente, consentendogli per un attimo di riposare davvero. Quando arrivò davanti al ristorante restò per un attimo sconcertato. Tutto si aspettava da Vakarian, tranne che una scelta così di classe. Quello non era decisamente un posto adatto a due persone che hanno intenzione di passare la serata chiacchierando di fucili di precisione. Entrò riluttante, cercando il Turian con lo sguardo, ma l’unica cosa che riuscì a notare, in quella maestosa sala dalle pareti di vetro, furono coppie di tutte le specie. Garrus doveva essersi sbagliato, non poteva davvero aver avuto intenzione di cenare con lui a lume di candela.
Un cameriere gli venne incontro, sorridendo gentilmente. “Buonasera signore, vorrebbe dirmi il suo nome di prenotazione?”
“Vakarian”, azzardò lui, guardandosi intorno.
Il cameriere esaminò il registro digitale, poi scosse il capo, assumendo un’espressione mortificata. “E’ sicuro? Non abbiamo nessun Vakarian in lista”.
“Krios?”, domandò lui, ancora più perplesso.
“Ma certo! Si accomodi pure…”
Lo condusse ad un tavolo di modeste dimensioni, riparato da un separé di vetro oscurato, proprio davanti ad una cascata d’acqua illuminata da led violetti. Sulla tovaglia, una piccola candela finta proiettava le ombre di un paio di bicchieri finemente decorati. Garrus doveva essersi totalmente sbagliato e avrebbero finito per ridere di quell’inconveniente davanti a una bottiglia di birra, ne era sicuro. Decise comunque di aspettarlo per cortesia e si accomodò, sperando di non essere notato.
 
 
 
Shepard si sentiva ridicola ai massimi livelli, mentre percorreva le strade illuminate della Cittadella. Il tassista l’aveva lasciata a qualche isolato di distanza dal locale, affermando che si trattava di una zona a traffico limitato, per cui lei si ritrovò costretta a lottare contro la forza di gravità e un paio di odiosissimi tacchi. Quando lesse l’insegna del locale si sentì per un momento sollevata, salvo poi restare a bocca aperta davanti all’entrata. Quel posto era decisamente fuori dai suoi standard, nonostante l’abito che aveva scelto, rivelatosi decisamente all’altezza. Avrebbe voluto chiamare Tali e disdire l’incontro, ma non riuscì a trovare una scusa abbastanza sensata, anche perché dopo tutta quella fatica, valeva la pena godersi almeno una buona cena. Fece il suo ingresso titubante, senza avere neppure il coraggio di guardarsi intorno. Non voleva sentire gli occhi di nessuno puntati addosso, voleva semplicemente scomparire e riapparire comodamente seduta ad un tavolo, evitando tutta la parte intermedia. Riusciva già a vedersi inciampare su qualche tappeto, nel tentativo di raggiungere la sedia.
Un cameriere le si avvicinò, l’aria odiosamente riverente.
“Salve, signora. Vuole dirmi il nome di prenotazione?”, domandò.
“Shepard”, rispose lei, certa che Tali avesse fatto il suo nome, visti i soliti pregiudizi nei confronti dei Quarian.
“Ah, certo. Venga da questa parte, la stanno già aspettando”, comunicò quello con un sorriso a trentadue denti, facendo un ampio gesto del braccio.
Due secondi dopo, lei si sentì morire. 



 

Ah, finalmente... adesso riuscirò a rimettermi in pari con la storia su dA *festeggia* E allo stesso tempo, mi rendo conto che boh... sono quasi alla fine. Nooonononono (cit.), non voglio neanche pensarci. Fortuna che ho un'altra storia da continuare e due one-shot in cantiere, il che mi porterà a infestare questa sezione ancora per un pò, chiedo perdono. 

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Capitolo 17
*** Now and Forever ***


 “The world was on fire and no one could save me but you.
 It's strange what desire will make foolish people do.
 I never dreamed that I'd meet somebody like you.
 And I never dreamed that I'd lose somebody like you”
 
 (
Chris Isaak, "Wicked Game")

[x]
 
 



Mentre aspettava l’arrivo di Garrus, Thane osservava la sala dall’unico angolo a lui disponibile, cercando istintivamente vie di fuga e deficit nella sicurezza, come d’abitudine. Lo faceva sovrappensiero, come se fosse semplicemente un istinto naturale che non richiedeva particolare attenzione. Attenzione che, però, fu catturata ad un certo punto da una chioma rosso fuoco, nascosta in parte dall’esile figura del cameriere di prima. Quando l’uomo si spostò, quello che vide lo lasciò senza parole. Un paio di occhi verdi si specchiarono nei suoi, prima di spalancarsi per lo stupore. Per una manciata di secondi restò interdetto, rendendosi conto che se avesse visto un Collettore in smoking, sarebbe rimasto meno meravigliato. Poi si alzò d’istinto. Qualunque cosa significasse la presenza di Shepard in quel posto, non poteva semplicemente restare immobile ad osservarla, nonostante fosse una visione così bella da togliere il respiro.
Lei, dal canto suo, appariva terribilmente sconvolta e impacciata. Gli occhi verdi guizzavano da una parte all’altra, alla ricerca di qualche appiglio, di un modo per poter sparire in quel preciso istante. Alla fine si costrinse a reagire e si avvicinò al tavolo, dove Thane la aspettava in piedi. Dischiuse le labbra per parlare, realizzando che la frase appena pronunciata era stata solamente un sibilo. Riformulò la domanda, schiarendosi la voce.
“Che significa?”, chiese, indicando vagamente il tavolo con un gesto del braccio.
Evidentemente si aspettava che lui lo sapesse. Thane si guardò intorno, senza riuscire a mascherare l'evidente imbarazzo.
“Speravo potessi spiegarmelo tu. Dovevo vedermi con Vakarian”, rispose, col tono di voce più calmo e gentile possibile.
Shepard si morse un labbro, con il cuore in gola e le mani sudate.
“Io dovevo vedermi con Tali”.
O uno di loro stava mentendo, o erano stati davvero ingannati entrambi. Shepard fece per sedersi, stando attenta a non calpestare l’orlo del suo vestito o quello della tovaglia, fallendo miseramente nel farlo. Non aveva idea di cosa avrebbe fatto nei prossimi secondi, ma tutto ciò che sentiva di volere, in quel preciso istante, erano almeno un bicchiere d’acqua e un attimo di pace per schiarirsi le idee. Anche Thane tornò a sedersi sulla sedia di fronte, senza toglierle gli occhi di dosso, mentre lei, al contrario, faceva di tutto per evitare il suo sguardo.
“Non so che dire”, mormorò, dopo essersi scolata un intero bicchiere di quella che credeva fosse acqua.
“Forse ci raggiungono più tardi?”, tentò di dire lui.
“E’ un tavolo per due, Thane”, rispose lei, col tono di chi sta sottolineando per l’ennesima volta la cosa più palese del mondo.
“Beh, devi ammettere che ti sei circondata di persone interessanti”.
“Di idioti, vorrai dire”, sbuffò Shepard, versando ancora un po’ di quella bevanda nel bicchiere. Poi alzò lo sguardo, pentendosene un attimo dopo aver incontrato i suoi occhi. “Vuoi?”, domandò. Lui rifiutò garbatamente, sfilandole la bottiglia delle mani per fare da sé. Shepard diede un lungo sospiro, appoggiando la fronte su una mano, quasi a voler sorreggere un carico di pensieri troppo pesante. La sera prima aveva scioccamente espresso il desiderio di trovare qualcuno in grado di risolvere per lei quella situazione, ma si rendeva conto solo adesso che trovarsi forzatamente faccia a faccia con ciò che le faceva più paura, era in realtà terrificante. Doveva essere proprio un’idiota per meritarsi degli amici che progettavano incontri e riconciliazioni al posto suo. Accantonò momentaneamente ogni desiderio di vendetta nei confronti dei responsabili e si concentrò sulla situazione in cui si trovava. Dall’esterno, nessuno avrebbe mai indovinato chi fossero quelle due persone sedute a quel tavolo, nessuno avrebbe mai capito che ruolo avessero, quali fossero i loro problemi e le loro speranze. Nessuno si sarebbe mai accorto di quanto dolore attanagliava le loro anime, mentre entrambi cercavano di dare un senso a quel momento.
“Non dobbiamo per forza restare”, disse poi, mentre il cameriere le porgeva il menù, comunicando loro che il conto era già stato pagato, qualunque cosa avrebbero ordinato.
“Non dobbiamo per forza andare via”, rispose invece Thane, incrociando brevemente il suo sguardo.
E cos’altro avrebbero potuto fare, a quel punto? Andarsene significava inevitabilmente porre fine a qualunque cosa ci fosse mai stata fra di loro, e nessuno dei due voleva esserne il responsabile.
Mentre tentava di leggere il menù, senza riuscire a dare un significato alle parole che distrattamente le passavano davanti agli occhi, Shepard realizzò che da parte sua sarebbe stato opportuno scusarsi per la sera prima… per come aveva reagito, per le parole che aveva usato, per il modo in cui aveva cercato di strappargli una confessione senza neppure rendersene conto, ma lui la precedette, comunicandole con un sorriso che quel pomeriggio aveva incontrato Kolyat.
“Alla fine, è andata meglio di quanto mi aspettassi”.
“Mi fa davvero piacere”, rispose lei, trattenendosi dal fargli domande più approfondite.
“Dipinge, sai? Non ha voluto mostrarmi nulla perché non mi ritiene capace di apprezzare la sua arte, ma sono felice che abbia qualcosa con cui distrarsi”.
Shepard stavolta sorrise, immaginando suo figlio imbronciato e imbarazzato mentre tentava di nascondergli le sue tele.
“Dagli tempo, sono sicura che un giorno verrà a chiedere la tua approvazione, al contrario”. Era sollevata che lui avesse scelto di parlare d’altro, mettendola nelle condizioni di poter ignorare per un po’ la questione in sospeso.
“E’ stato felice di vederti?”, gli domandò poi.
“Sta ancora cercando di accettare la mia presenza nella sua vita, ma oggi ho capito tante cose… Molte delle quali grazie a te”.
Shepard si irrigidì a quella risposta, serrando istintivamente le labbra. Continuava a ringraziarla per tutto, ma poi le sue azioni le comunicavano tutt’altro. Decise che non avrebbe accettato di nuovo di impantanarsi in un discorso apparentemente spassionato che poi sfociava nel personale, così si limitò a sorridere lievemente e concentrò la sua attenzione sul menù, scegliendo il primo piatto che stuzzicò il suo appetito.
Poi, mentre aspettavano che il loro ordine arrivasse, gli raccontò brevemente dell’esito della riattivazione del Geth, evitando però in qualunque modo di toccare tasti dolenti. Ne parlò con tranquillità, affermando che alla fine si era rivelato un acquisto importante per l’equipaggio e che non vedeva l’ora di testare le sue abilità in campo.
“Con Vakarian e Legion come cecchini, sarai libero di adottare uno stile di combattimento più libero”, affermò.
“E’ quello che succede anche adesso, no? Alla fine finiamo sempre per trovarci in prima linea, fianco a fianco”, rispose lui, rendendosi conto troppo tardi dell’ambiguità di quella frase. Le guance di Shepard si tinsero di un rosa più intenso, sotto le lentiggini, e lui osservò quel leggero cambiamento con stupore.
Mille pensieri attraversarono la mente di Shepard a quel punto, e si ritrovò ad odiarsi mentre si mordeva l’interno di una guancia per evitare di esplodere da un momento all’altro. Era stato abbastanza chiaro nelle sue intenzioni, perché continuava a stuzzicarla in quel modo?
Fortunatamente il cameriere non tardò ad arrivare, e dopo aver poggiato con eccessiva riverenza i loro piatti, li lasciò liberi di consumare la cena, dando finalmente loro a disposizione una scusa per tenere la bocca chiusa. Osservarono le rispettive pietanze con curiosità, ma non si azzardarono a fare domande. Sarebbe stato troppo semplice varcare quel muro che avevano eretto fra di loro, persino scontrare i propri piedi con quelli dell’altro avrebbe potuto farlo sgretolare da un momento all’altro… e chissà perché, sembravano tenerci troppo a quell’odiosa barriera ricolma di paure e fraintendimenti.
“Riesco a ricordare alla perfezione la prima volta che abbiamo mangiato insieme”, gli disse poi lui, attirandosi il suo sguardo perplesso. “Sono passate solo poche settimane, eppure mi sembra sia successo un secolo fa”.
“Era stata una giornataccia, lasciamelo dire. E la parte peggiore è stata attraversare quel ponte in costruzione fra le torri. Miranda ha rischiato un paio di volte di volare via come un fuscello al vento”, sorrise lei, raccogliendo le ultime foglie d’insalata dal piatto.
“Mi dispiace”.
“Dovere. L’Uomo Misterioso mi aveva spedita a reclutare l’assassino più abile dell’intera Galassia e io non potevo di certo farmelo sfuggire”, disse d’istinto. E a quel punto, anche lei aveva commesso l’errore fatale di esporsi troppo. Si maledisse internamente, mentre le labbra di lui si curvavano in un sorriso sincero.
“Eri bellissima nella luce di quel tramonto”.
 
 
 
Non riusciva a credere di aver sentito davvero una cosa del genere. Non capiva… perché, perché continuare a farle del male se non aveva intenzione di andare fino in fondo?
Quando gli attimi di silenzio che seguirono a quella frase furono troppi da sopportare, lei perse inevitabilmente il controllo e si alzò di scatto, colpendo il tavolo con una mano. Non poteva semplicemente restare ferma davanti a una situazione che la vedeva disarmata e totalmente impreparata. Lo guardò con rabbia, ignorando l’espressione sconvolta che si era formata sul suo viso.
“Perché mi stai facendo questo?”, gli chiese, guardandolo dritto negli occhi come non aveva più avuto il coraggio di fare.
Lui non rispose, evidentemente incapace di farlo, e lei continuò. “Perché illudermi, perché farmi credere che t’importi davvero qualcosa se poi sei pronto a fuggire al minimo ostacolo o alla minima incomprensione?”.
A quel punto si alzò anche lui, non più spaesato, ma determinato come non mai. Gli aveva appena confermato di non aver capito nulla, assolutamente nulla di ciò che lo aveva spinto ad agire così. “Non lo capisci che ti sto dando la possibilità di salvarti?”, esclamò con rabbia.
Quella frase fu per lei peggio di un’offesa, peggio di uno schiaffo. Gli si avvicinò, prendendolo per il colletto della giacca, ormai totalmente fuori controllo. “Smettila di credere di sapere cosa è giusto per me, smettila di mascherare una decisione già presa come una scelta. Io merito rispetto”, scandì, senza staccare gli occhi dai suoi. Poi lo lasciò andare, socchiudendo gli occhi nel tentativo di calmarsi. “Non voglio scuse, voglio la sincerità che mi spetta dopo quello che c’è stato, qualunque essa sia”, disse, preparandosi per ricevere il rifiuto che aspettava ormai da troppo tempo.
“Vuoi sincerità, ad ogni costo? E’ questo che vuoi?”
“Si, dannazione. E’ troppo da chiedere?”
Nel pronunciare quella frase, sentì il pavimento crollarle sotto ai piedi.
“Io ti voglio con tutto me stesso”.
 
 
 
L’aveva vista accasciarsi di nuovo sulla sedia, come se avesse perso improvvisamente tutte le forze. Non l’aveva guardato, non dopo quelle parole, e si era invece coperta il viso con le mani. I lunghi boccoli color rame coprivano le sue dita affusolate, nascondendo a lui qualunque parte del suo volto. Durò solo qualche secondo, prima di vederla alzare nuovamente, con una luce estranea ad illuminare le sue iridi verdi e le labbra serrate. Non ebbe il tempo di capire quale emozione avesse preso il sopravvento su di lei che si sentì trascinare per una mano e in un attimo lei gli aveva dato la schiena, iniziando a camminare verso l’uscita del locale senza dire una parola.
Non disse nulla, limitandosi a seguirla e a tenere il passo, mentre il solito cameriere tentava di chiedere spiegazioni, seguendoli a distanza come un segugio spaurito. Quando furono in strada si aspettò che lei avesse intenzione di parlargli, di spiegargli qualunque cosa le stesse passando per la mente, ma Shepard non si dimostrò minimamente interessata, continuando invece a camminare a passo svelto mentre la presa della sua mano intorno al polso aumentava di intensità.
Prima che potessero anche solo realizzare cosa stesse succedendo, si ritrovarono dentro a un taxi.
“Allo Spazioporto. Hangar d’attracco 24. Subito”.
Thane si voltò a guardarla, scoprendo di non averla mai vista così tesa e determinata. Per un attimo ebbe paura che fosse successo qualcosa sulla Normandy, ma non ricordava di averla vista ricevere alcun messaggio. L’ansia s’impadronì di lui, lentamente, annidandosi nella sua mente, intaccando ogni pensiero come un subdolo parassita, mentre le luci della Cittadella ricamavano disegni astratti sul volto di lei, sul suo vestito. Finalmente era riuscito a dirle quello che per tanto tempo aveva cercato di seppellire, sotto strati infiniti di quelle che sembravano buone ragioni, ma ora… ora che riusciva a sentirsi in parte sollevato, un’altra domanda premeva per trovare una risposta. Alzò una mano, quasi nel panico, con l’intenzione di trovare la sua e stringerla, implorando per un solo sguardo, una parola, ma il timore di aver sbagliato di nuovo tutto glielo impedì categoricamente, e quel gesto passò inosservato. Avrebbe dato qualunque cosa pur di leggere ciò che si celava dietro a quegli occhi vispi, impegnati a rincorrere mille dettagli fuori dal finestrino, dietro a quelle labbra che sembravano trattenere troppe cose. Cos’era… cos’era che aveva visto sul suo volto, appena dopo le sue parole, e che ora non gli dava pace? Fece per parlare, meravigliandosi di aver finalmente trovato il coraggio, quando una brusca frenata si frappose tra lui e la sua audacia, costringendolo definitivamente ad arrendersi all’idea che sarebbe stato più semplice smetterla di farsi domande e, semplicemente, attendere.
 
 
 
Dovette aspettare di ritrovarsi dentro la sua cabina, prima di poterla guardare di nuovo negli occhi. Shepard si abbandonò sulla scrivania, appoggiando le mani dietro la schiena sulla superficie metallica, e lo guardò come se fosse lei in realtà ad attendere una risposta da lui. Thane si avvicinò con cautela, senz’avere la minima idea di come interpretare i suoi gesti.
“Dimmelo di nuovo”, gli disse lei, con un malcelato tono di sfida.
Thane non rispose subito, rendendosi conto di essere lui, adesso, nella posizione di non riuscire più a guardarla negli occhi.
“Vuoi la verità…”, disse piano, “…la verità è che ti voglio nella mia vita, ma non voglio essere la causa di un futuro pieno di dolore”.
Shepard scosse il capo, come se la risposta che gli aveva appena dato non fosse quella giusta.
“Meriti un futuro migliore, meriti di essere felice”, aggiunse lui, facendo un passo verso di lei, costringendosi a guardarla con occhi tristi.
“Non me ne faccio nulla del futuro, se non posso averti nel mio presente”, rispose Shepard bruscamente. “E dio solo sa quanto ho bisogno di te…”
Restarono per un attimo a fissarsi i piedi, i cuori in tumulto, i muscoli tesi, poi lei cercò i suoi occhi, con una dolcezza disarmante.
“Lasciami scegliere di averti…”, lo supplicò, “perché io, davvero… non voglio nient’altro”.
E in quel preciso istante lui capì. Capì che continuare a negarsi ogni cosa non lo avrebbe sollevato dai suoi sbagli, capì che se voleva dare un senso al cambiamento, questo non poteva escludere le persone accanto a lui, capì che l’isolamento non gli avrebbe rimarginato le ferite, capì che per rispetto ai morti, bisognava amare la vita… e Shepard per lui aveva sempre rappresentato questo. Si era presentata quando aveva ormai deciso di non poter più continuare a vivere, facendogli rivedere le sue scelte, facendolo scontrare con le sue certezze, facendogli cambiare modo di vedere le cose, regalandogli una nuova chiave di lettura, un nuovo colore. Non era troppo tardi per accettare quel dono, non era troppo tardi per amare di nuovo, non era troppo tardi per essere felice… perché se fossero morti tutti, di li a qualche giorno, lui voleva essere certo di aver fatto l’ultima cosa davvero giusta in suo potere. Se lei avesse avuto davvero bisogno di lui, lui ci sarebbe stato, con ogni parte di sé.
Lasciò che a rispondere fossero le sue labbra, con un bacio delicato ma lungo abbastanza da farle capire con quanta intensità anche lui avesse così disperatamente bisogno di lei, e lei sembrò percepirlo perfettamente, perché le sue mani iniziarono ad affaccendarsi sulle fibbie della sua giacca come se odiasse adesso ogni centimetro di quell’ostacolo.
Quando l’indumento cadde sul pavimento, lui si distanziò, guardandola come avrebbe fatto con la cosa più fragile e preziosa del mondo. E in un attimo, anche il vestito di lei scivolò via, una cascata del colore del mare in tempesta che si raccoglie ai suoi piedi, un fruscio che precede il suono di un altro bacio. Un bacio che non era altro che un tentativo impetuoso di cancellare ogni cosa che si erano detti per ricominciare da capo, senza più dubbi a guidare i loro gesti, senza più tormenti ad impedire loro di guardarsi negli occhi nel modo più sincero possibile.
Affondò il viso nei suoi capelli mentre le sue mani lentamente esploravano sua schiena, e la sentì sorridere contro la sua gola, come se tutta la tensione che c’era stata fra loro fino a quel momento fosse improvvisamente scomparsa, come se avessero ripreso esattamente dall'ultima volta che si erano lasciati, quando la Normandy si trovava ancora sotto il cielo stellato di Telmum.
“Che c’è?”, le chiese dolcemente, scostandole un ciuffo di capelli dal viso. Lei si tuffò di nuovo sulla sua spalla, quasi ridendo adesso.
“Avrei dovuto dare un’occhiata ai video di Mordin…”, confessò, imbarazzata.
“Ah… quei video”, sorrise lui, accarezzandole la nuca.
“No, aspetta…”, si scostò leggermente per guardarlo negli occhi, “…non vorrai dirmi che Mordin… anche a te?”, domandò, una mano a coprire la propria bocca.
“Ho sempre trovato il professore piuttosto invadente, in effetti…”, annuì lui, imbarazzato e allo stesso tempo stranamente divertito, “ma non pensavo fino a questo punto”.
“Oh, dannazione, mi dispiace…”
Lui scosse il capo, sorridendo per tranquillizzarla. “Ha una collezione piuttosto… vasta”.
“Non ci credo… hai avuto il coraggio di guardarli davvero?”
“E’ stato l’unico modo di persuaderlo ad evitare di cantare nelle ore notturne. Iniziava a diventare insopportabile e, a dirla tutta, sono convinto che lo facesse apposta”.
“Avresti potuto, che so, parlarmene… gli avrei…”
“Siha”, la zittì lui, strofinando una guancia contro la sua mentre le sue mani cercavano quelle di lei, “non ha importanza… e poi, dopotutto, potrebbe anche essersi rivelato utile”.
Lei rise, sfuggendo dalle sue mani per intrecciarle invece intorno alla sua schiena, annullando il più possibile ogni distanza. Poggiò le labbra sul suo collo, accarezzandolo con baci delicati, appena accennati, deliziandosi di quanto fosse così morbida e calda la sua pelle lì.
“Lo sai, non sono abituata a trovarmi in simili condizioni di svantaggio”, ammise, senza interrompere il contatto.
“Dimentichi che questa non è una gara, Siha”, rispose lui, sfiorandole un orecchio con le labbra, tanto quanto bastò per farla rabbrividire all’istante, mentre un sorriso impertinente curvava gli angoli della sua bocca.
Sapeva che ci sarebbe voluto molto più di questo per convincere una persona abituata a vedere tutto in termini di una missione, che certe cose, semplicemente, non seguono una logica né un percorso prestabilito. Non si nutrono di regole, né fanno affidamento a manuali d’istruzione. E in ciò risiedeva il bello… nell’avere assoluta libertà di esprimersi ed esprimere le proprie emozioni sconfinando ogni limite possibile, esplorando nuovi percorsi alla cieca, meravigliandosi di ciò che ogni orizzonte nuovo poteva rivelare a uno sguardo vergine.
La sollevò per i fianchi, facendola sedere sulla scrivania, poi le allontanò i capelli dalle spalle, in modo che le ricadessero morbidamente sulla schiena, mentre le sue labbra percorrevano i contorni del suo collo. Lei chiuse gli occhi, le mani strette intorno ai vestiti di lui, così insopportabilmente stretti.
“Che ne pensi di…”, mormorò con difficoltà, “…uscire da quel coso?”
Thane rise brevemente, ma non esitò ad ubbidire a un ordine così ben mascherato dietro a un’innocente richiesta, e nel farlo, non si perse il sorriso di lei, impaziente e allo stesso tempo teneramente imbarazzato. Poi la prese in braccio, meravigliandosi di come fosse così leggera, leggera e morbida nonostante la rigida muscolatura da soldato e gli impianti di Cerberus.
Quel letto che li aveva già visti insieme in passato, sembrava più soffice che mai, un piccolo angolo di paradiso illuminato solo dalla flebile luce azzurra dell’acquario sempre troppo vuoto. Le loro mani s’intrecciarono insieme, le loro labbra si sfiorarono mentre occhi troppo diversi cercavano di specchiarsi in quelli dell’altro. Thane, scioccamente, aveva sempre considerato gli umani così monocromi rispetto alla propria specie, ma ora dovette ricredersi, incantato ad osservare come la pelle di lei cambiava colore ad ogni tocco, come arrossiva sulle guance e sul collo, in risposta ai suoi sorrisi e alle sue parole. Ogni sfumatura era un dettaglio prezioso, qualcosa che sarebbe stato per sempre solo suo.
“Le tue squame mi solleticano”, sbuffò lei in una risata, accarezzandogli una guancia.
“Ed è… un bene?”, domandò lui, incerto.
“Umh… in realtà preferirei smettere di ridere ad intervalli regolari". Si sporse dal bordo del letto, rovistando dentro al comodino finché non trovò il barattolo di Mordin, poi glielo porse sorridendo. "A te l'onore", annunciò, sedendosi sul letto con le ginocchia. Gli diede la schiena, portandosi i capelli in avanti, e aspettò pazientemente che lui aprisse il barattolo.
Le lasciò prima un bacio sulla base del collo, poi immerse le mani in quella sostanza profumata e le appoggiò sulle sue spalle, iniziando a massaggiare la sua pelle delicatamente, forse troppo.
"Non mi romperai, Thane", rise lei. Si voltò, incoraggiandolo a fare maggiore pressione con un sorriso sfacciato.
"Lo so", rispose lui, applicando una pressione maggiore con i pollici mentre risaliva lungo la curva della sua spina dorsale, "…so anche che se volessi, potresti essere tu a rompere me. Certo, solo nel caso in cui io decidessi di lasciartelo fare", aggiunse, imitando un tono presuntuoso.
"Cosa stai insinuando, Krios?", domandò lei, senza perdere il sorriso, "Sei davvero sicuro che in uno scontro corpo a corpo avresti la meglio?"
“Mmm...", le sue mani iniziarono a sganciare il suo reggiseno, "…non è mia intenzione sottovalutarti, Siha, ma la natura viene a mio vantaggio... la muscolatura di noi Drell è molto più densa di quella di voi Umani", disse, e come per sottolineare il concetto, aumentò leggermente la pressione delle sue dita dove la pelle di lei presentava i solchi lasciati da quell'indumento a lui così estraneo, quasi a volerli cancellare. Il suo corpo, incredibilmente, gli appariva come una bellissima mappa dove avrebbe potuto facilmente lasciare i segni del suo passaggio, se solo avesse voluto.
"Se la forza si basasse solo sulla muscolatura potrei darti ragione, ma sai meglio di me che quello che conta in realtà è l'energia...", rispose lei, plasmando una piccola sfera biotica in una mano. "E’ incredibile cosa si è capaci di produrre solo con la mente".
La sua schiena si dipinse di azzurro, mentre Thane lasciò affluire liberamente l'energia oscura sulle sue mani, quasi come se avesse colto nel suo gesto precedente un suggerimento.
Lei si voltò, sorpresa. Sarebbe stata una sensazione strana da descrivere, quella dell'energia oscura che sfiora la pelle senza però disgregarla, limitandosi a una carezza che somigliava solo lontanamente ad una leggera scossa elettrica.
"Dove hai imparato?", gli chiese, sorpresa. Non era niente di ciò che avesse precedentemente sperimentato durante il suo addestramento.
"Ho avuto molto tempo libero a disposizione, negli ultimi anni", disse lui, accarezzandole i fianchi, concentrato. Era pur sempre un esercizio difficile, che richiedeva molta calma, e lui sentiva di essere ormai al minimo. Ogni respiro di lei, ogni piccolo sospiro, erano un’immensa distrazione.
"Me lo insegni?", domandò lei.
Lui fece aderire il corpo alla sua schiena, cingendole la vita con una mano, mentre con l’altra prendeva la sua, accostando il viso al suo. Le fece aprire il palmo, respirando piano.
"Chiudi gli occhi", le disse, un tono che avrebbe dovuto rilassarla, ma che in realtà produsse in lei l’effetto contrario.
"Mh".
"Ora falla affiorare, il più lentamente possibile... immagina di dover accarezzare i petali di un fiore, o una lamina sottile di cristallo".
La sua mano brillò per un istante, poi si spense.
"Devi mantenere il pensiero costante, leggero, ma costante".
Anche il secondo tentativo fallì miseramente e lei si morse le labbra, contrariata. Abituata com’era ad eseguire solo un certo numero di abilità, e piuttosto distruttive, un esercizio elementare come quello le sembrò assurdamente difficile.
"Non ti riuscirà mai finché sei così tesa", osservò lui, spingendole i capelli da un lato.
"Diamine, mi stai davvero chiedendo di rilassarmi... adesso?", esclamò lei, sentendo tutto il calore affluirle alle guance.
Lui sbuffo in una breve risata, dandole un bacio appena sopra la clavicola. "Hai ragione", mormorò, abbandonando quel proposito. “Ci riproveremo…”
Continuò nella sua opera, finché la pelle di lei non fu interamente ricoperta di uno strato sottile di pura luce. Poi le porse il barattolo, dandole le spalle. Sarebbe stata l’ultima occasione in cui avrebbero potuto esplorare i rispettivi corpi prima di trovarsi finalmente e inevitabilmente faccia a faccia, senza più nessuna barriera a separarli. Lei si prese tutto il tempo necessario ad accettare quell'idea, massaggiando la sua schiena lentamente, osservandone ogni dettaglio, ogni striatura, ogni piccola squama più scura che spiccava fra le altre, fremendo al solo pensiero che di lì a poco le sue mani sarebbero state di nuovo su di lei, le sue labbra sulle sue, i suoi occhi dentro ai suoi... come per troppo tempo aveva desiderato, e al contempo ne fu spaventata, preoccupata di non esserne all'altezza.
Poi, quando lui prese le sue mani, voltandosi a fronteggiarla con estrema impazienza, e la tirò a sé, intrecciando le dita ai suoi capelli, cercando le sue labbra, mordendole a tratti… lei ci mise ben poco a sbarazzarsi di quel timore ridicolo, rendendosi conto che, in realtà, tutto sarebbe andato meglio di come aveva sempre osato sperare.
Quella notte, con le sue braccia a stringerla forte, fra lenzuola troppo sgualcite e muri di metallo, si sentì per la prima volta davvero invincibile.




 

Non so neanche cosa scrivere in queste note perchè potrei rischiare di passare per una deficiente piùdicosìmadavvero? L'unica cosa che ci tengo tantissimo a dire è che senza shadow_sea e Johnee, probabilmente se ne sarebbe parlato tra qualche millennio (criostasi permettendo), quindi boh, un grazie enorme per non avermi mandata subito a quel paese e avermi dato il sostegno che mi serviva. Si, perchè sono stupida e per scrivere un capitolo mi faccio le peggio paranoie. Non so più dove nascondermi, insomma... au revoir.

 

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Capitolo 18
*** Time Is What We Need ***


“I had a dream the other night
 
About how we only get one life
 
Woke me up right after two
 
Stayed awake and stared at you
 
So I wouldn't lose my mind”

 (One Republic, "Something I Need")


[x]

 

 
Le stelle non avevano brillato sopra la Normandy, quella sera, eppure lei avrebbe giurato di averle viste danzare sulla sua pelle, come atomi silenziosi di una materia bellissima e sconosciuta, particelle che si rincorrono alla ricerca dell’infinito, insinuandosi in ogni minuscola frattura, permeandola di un incredibile senso di completezza e unione… qualcosa che, realizzò, trascendeva completamente da ogni concetto di reale, eppure ne era parte, trasformando una sinfonia all’apparenza stonata in qualcosa di assolutamente perfetto. Furono attimi, istanti, che lei non avrebbe saputo quantificare, momenti in cui ogni cosa intorno a sé era sparita, per fare spazio a qualcosa di indefinito eppure palpabile, come un velo sottile di pura gioia… e tutto questo l’aveva condiviso con lui, proprio come se fossero stati gli unici spettatori di un evento raro e incredibile.
Si era svegliata nel cuore della notte, inseguendo milioni di pensieri astratti, residui del sogno, e si era accorta di avere un pacifico sorriso dipinto sulle labbra. Notò divertita come lui si fosse involontariamente appropriato di tutte le lenzuola, ma non ebbe il coraggio di tirarle verso di sé, per timore di svegliarlo. Trattenne il respiro, sollevandosi delicatamente su un gomito, per cercare i contorni del suo volto nella penombra. Se una parte di sé avrebbe voluto riaddormentarsi, stretta contro la sua schiena, l’altra parte non aveva intenzione di rinunciare a un momento di solitudine, persa ad osservare così da vicino qualcosa che per troppo tempo aveva solo potuto desiderare.
Gli occhi si adattarono al buio, le orecchie iniziarono a distinguere con precisione ogni suono… il respiro calmo e regolare di lui, i battiti di quel cuore troppo diverso. E in quel silenzio piacevolmente disturbato, i suoi pensieri ovattati dal sonno diventarono in qualche modo assordanti. Ma nessuno di loro portava con sé le parole dolore, dubbio, paura. Ogni cosa che la sua mente le suggeriva, rapita dalla dolcissima visione di lui, era qualcosa che sapeva di speranza, desideri, bellezza.
Sollevò d’istinto una mano, realizzando che se l’avesse posata sul suo viso l’avrebbe inevitabilmente svegliato, ma prima che potesse frenarsi, le sue dita avevano già raggiunto quella pelle estranea, incapaci di resistere alla tentazione. Nello stesso istante in cui iniziò a percorrere con i polpastrelli i contorni del suo volto, lo vide sorridere e un altro sorriso si formò anche sulle sue labbra.
“Dormi”, sussurrò appena, sentendo la sua gola vibrare leggermente in risposta. Si distese nuovamente, facendo aderire il suo corpo a quello di lui, e continuò ad accarezzarlo finchè, cullata da un milione di bellissimi pensieri, non si addormentò di nuovo.
 
 
 
Quella mattina, il suono squillante e insistente della sveglia la fece trasalire, e lei si rese conto di aver dormito tanto profondamente da aver ignorato persino i suoi soliti ritmi. Di solito non dava mai il tempo a quel dannato aggeggio di perforarle i timpani, alzandosi sempre con largo anticipo, ma non quella mattina.
Si stiracchiò, allungando poi un braccio verso l’altra parte del letto: era vuota. Poi si mise a sedere, visibilmente delusa, e aprì finalmente gli occhi, trovandosi stavolta coperta dalle lenzuola, quelle stesse lenzuola che inconsciamente lui le aveva rubato nel sonno. Controllò il factotum con un solo occhio senza scorgere alcun messaggio, poi diede uno sguardo sommario alla stanza, alla ricerca di qualche indizio. I vestiti di Thane erano spariti, i suoi erano invece ripiegati con cura sulla scrivania. Poi qualcosa di strano, un movimento anomalo alla sua destra catturò la sua attenzione. Volse lo sguardo verso l’acquario e strinse le palpebre, cercando di comprendere cosa fossero quelle macchie arancioni che si agitavano in mezzo all’acqua… poi capì. Si trattava di due splendidi esemplari di carpe koi, le stesse che aveva visto nuotare in quello stagno su Telmum. Curvò le labbra in un sorriso, vedendole rincorrersi fra le alghe, al pensiero che lui si fosse svegliato in anticipo solo per farle un regalo come quello, forse insignificante per chiunque, ma non per lei. In quello stesso istante il portellone si spalancò con uno sbuffo e lei si sporse da un lato, sorridendo ancora prima di vederlo.
Thane la raggiunse velocemente, un contenitore di medie dimensioni in una mano e l’aria rilassata.
“Mmm… potrei abituarmici”, mugugnò lei, tirandosi le lenzuola fin sopra al mento, mentre gli faceva cenno di sedersi sul letto.
“A me, alla colazione a letto o alla presenza di forme di vita nell’acquario?”, rispose lui facendo un cenno verso i due piccoli pesci, prima di baciarla sulle labbra.
“Tutt’e tre?”, sorrise lei, sbirciando dentro al contenitore. Poi arrossì, più perché la sua mente iniziò a presentarle vari flashback della notte precedente, che per reale imbarazzo, e iniziò ad indagare sulla natura di quel contenitore.
“Non sapevo cosa preferissi, così ho preso tutto quello che c’era”, spiegò lui, aiutandola a scartare i vari cibi.
“Con tutta questa roba potremmo sfamarci un esercito”, esclamò lei divertita, ignara del fatto che di lì a pochi minuti avrebbe fatto sparire tutto. “Mmm… questo è uno dei miei preferiti. Perché non lo provi?”.
Lui rifiutò garbatamente, dicendole che aveva già mangiato, e a lei non restò che fare una smorfia di disappunto e tornare alle sue prelibatezze, chiedendosi nel frattempo che cosa mangiassero di solito i Drell a colazione.
“Lo sai, Thane”, gli disse poi, con le labbra ricoperte di zucchero a velo e la bocca piena, “temo per il futuro di quei pesci… tendo a dimenticare di nutrirli. Ecco perché dopo il primo tentativo avevo lasciato perdere”.
Lui sorrise, compiaciuto. “E’ per questo che ho persuaso la Chambers ad occuparsene, qualora tu fossi d’accordo”.
“Splendido! Dovresti illustrarmi tutte queste tue tecniche di convincimento uno di questi giorni”, rispose lei, in un tono che celava un certo sarcasmo.
“In effetti, pensavo di chiederti di accompagnarmi ai magazzini Zakera oggi. Un mio contatto qui sulla Cittadella mi ha segnalato delle nuove mod in fase di sperimentazione e sarei felice di testarle con te. Se non hai da fare, è chiaro…”
Addentando l’ultima ciambella, lei scosse il capo, stringendo gli occhi in un sorriso.
“Ti accompagno volentieri”, rispose poi in una nuvola di zucchero, dopo l’ultimo morso. “Grazie”, aggiunse, reclinando il capo sulla sua spalla.
Lui rise, guardandola con aria felice.
“Perché ridi?”
“Perché non c’è una parte del tuo viso che non sia ricoperta di zucchero”.
“Beh, invece di ridere potresti occupartene…”, lo provocò lei, e lui, in un secondo, fu subito sulle sue labbra, a catturare una dolcezza che non avrebbe mai dimenticato.
 
 
 
Dopo pranzo, consumato nella solitudine della sua cabina a revisionare rapporti, la tentazione di recarsi immediatamente in Batteria Primaria, o in Sala Macchine, o direttamente da Kasumi era stata davvero enorme, ma Shepard si era ripromessa di conservare la necessaria lavata di capo per dopo, concentrandosi invece su quell’uscita pomeridiana. Si sentì un’idiota mentre sorrideva di fronte al suo stesso riflesso proiettato sullo specchio, ma non riuscì a reprimere quell’improvvisa e  assolutamente scontata ondata di felicità che la travolse, mentre tentava di legare i suoi capelli in una coda di cavallo. C’era ancora una Galassia da salvare, là fuori, c’erano ancora criminali da togliere di mezzo, c’erano ancora coloni che continuavano a sparire lontano dagli occhi di tutti… ma in quel preciso istante lei realizzò che portarsi dietro una nube perenne di timori e preoccupazioni non avrebbe giovato a nessuno, né a lei, né al suo equipaggio, né tantomeno alla Galassia. Uscì dal bagno e infilò i jeans dentro un paio di anfibi, recuperando una borsa di pelle vecchia chissà quanto tempo dall’armadietto e un paio di occhiali da sole; poi, dando un’ultima occhiata alla quantità infinita di contenitori vuoti che giacevano ancora sul suo letto, sorrise e lasciò finalmente la sua cabina.
 
 
 
“Comandante, qualcosa di divertente in programma?”, la salutò Kelly, ancora intenta a lavorare al suo terminale sul ponte di comando.
Shepard si fermò di colpo, come se qualcuno l’avesse improvvisamente richiamata alla realtà.
“Sì, n-no, solo un giro per i magazzini”, rispose lei, colta di sorpresa.
“Lo sai, Shepard, se hai bisogno di qualcosa puoi sempre rivolgerti a me o agli addetti ai rifornimenti. Basta una lista e…”
Shepard sventolò una mano a mezz’aria, sorridendo leggermente. “Non preoccuparti Kelly… Onestamente, preferisco testare di persona quello che compro”.
“Come vuoi, Comandante”, sorrise la specialista, lasciandola finalmente libera di uscire.
“Ah… Shepard”, la richiamò subito dopo. “Credo che Thane ti stia aspettando al molo d’attracco”, nel darle quest’informazione, non si lasciò sfuggire un minuscolo sorriso malizioso.
“Grazie Kelly”, rispose lei, serrando le mascelle, pregando con tutta se stessa di non tradire alcuna emozione.
Si diresse a passo svelto verso il portellone e uscì dalla Normandy, prendendo finalmente una vera boccata d’aria, per quanto tutto sulla Cittadella fosse artificiale.
Thane la aspettava ritto in piedi di fronte alla ringhiera che si affacciava sulla zona esterna dello spazioporto, l’orizzonte costellato da una miriade di mezzi in arrivo che seguivano percorsi prestabiliti come piccole api operaie. Aveva l’aria spensierata, le mani dietro alla schiena e lo sguardo fiero, perso a rincorrere chissà quale ricordo. Avrebbe voluto corrergli incontro, ma ciò che le premeva maggiormente, al momento, era di non attirare sguardi curiosi. Non avrebbe voluto che qualche membro del suo equipaggio ficcasse il naso nei suoi affari personali, ma dato che questo non era riuscito ad evitarlo, perlomeno poteva provare a non fornire nuovi spunti. Era già tutto così strano di per sé, senza che qualcuno ricamasse storielle su quella strana relazione, ingigantendo dettagli come ogni buon pettegolezzo da tabloid comanda. Scacciò questi pensieri dalla mente e lo raggiunse con impazienza, fermandosi solo a qualche centimetro da lui.
“Qualcosa di bello?”, domandò, assumendo la sua stessa posizione, mentre proiettava lo sguardo di fronte a sé.
Thane la guardò perplesso. “Cosa?”
“Ricordavi qualcosa di bello?”, riformulò lei, appoggiando i gomiti sul davanzale.
Lui sorrise leggermente, distogliendo per un attimo lo sguardo, quasi fosse in imbarazzo. “Si”, rispose semplicemente.
“Non vuoi dirmelo, eh?”, scherzò lei.
Non avrebbe mai voluto invadere il suo spazio personale e sperò che lui non prendesse quella domanda come un tentativo di voler ad ogni costo condividere i suoi pensieri, piuttosto che un modo come un altro di fare conversazione.
“Non mi hai chiesto di condividerlo con te…”, rispose lui ragionevolmente, sorridendo.
“Vorresti?”, rilanciò lei, piegandosi di lato per poterlo fronteggiare.
Lui le si avvicinò con cautela, in modo che potesse parlarle più piano possibile.
La guardo, e c’è l’infinito nei suoi occhi lucidi, specchi verdi che mi sorridono. In quell’istante le sue labbra incontrano le mie, le sue mani graffiano la mia schiena, mi sussurra qualcosa, ma io non capisco... Sono totalmente perso in lei, ogni cosa svanisce davanti alla sua bellezza, le parole si confondono con i pensieri, i sussurri con i brividi che scuotono i nostri corpi".
Lei sgranò gli occhi, arrossendo vistosamente, e prima che potesse anche solo pensare di evitarlo, si trovò a rispondere ad un bacio totalmente inaspettato. Quasi nello stesso momento, una voce familiare la fece trasalire, facendola poi voltare con orrore.
"She... oh, merda".
"Vakarian", rispose lei, con un tono indefinibile, mentre tentava di darsi un contegno, allontanandosi bruscamente da Thane. Scambiò un breve sguardo con il Turian, l’essenza pura dell’imbarazzo, prima che lui tornasse a fissare il pavimento della stazione. "Volevi qualcosa?"
"No, no… stavo solo rientrando alla Normandy, e... Spiriti, oggi fa più caldo del solito, non trovate?", rispose lui, accarezzandosi le creste frontali. "Beh, sarà meglio che torni a lavoro... Buona giornata".
"Mi devi una cena, Vakarian", lo interruppe Thane con un sorriso sornione, prima che Garrus potesse girare i tacchi.
"Ah... ma si, certo. La prossima volta, eh? Offro io", ridacchiò il Turian, prima di svignarsela definitivamente sotto allo sguardo incredulo di Shepard e quello soddisfatto di Thane. Appena furono al riparo da occhi indiscreti, entrambi sospirarono in sincrono e iniziarono ad incamminarsi lentamente verso la banchina del trasporto rapido.
"Scusami", le disse lui, in un tono che le sembrò oltremodo mortificato.
"Per cosa?", domandò lei scioccamente, pur sapendo perfettamente a cosa si riferisse.
"Non avrei dovuto... è solo che…"
“Non scusarti", lo interruppe lei, "diamine, per ricordare ogni cosa alla perfezione, come se stessi rivivendola, hai un ottimo autocontrollo", ridacchiò, strappandogli un sorriso.
"Senti, a proposito di quel ricordo...”, aggiunse lui poco dopo.
“No, non chiedermelo”, si affrettò a rispondere lei, continuando a guardare il pavimento mentre camminavano fianco a fianco.
“Perché?”
“Perché forse c'è un motivo se è andata così...", rispose lei, perfettamente tranquilla e ancora sorridente.
"Siha...", lui si fermò, per poi pararsi di fronte a lei, cercando i suoi occhi. “Si tratta forse di qualcosa per cui provi rimorso?”
“No, assolutamente. Non c’è niente che non rifarei, davvero…”, rispose lei, tentando con tutte le sue forze di sostenere quello sguardo.
“E allora?”
“E allora…”, sospirò lei, tentando di minimizzare con un’espressione rilassata, “…niente. Non era importante. Sono sicura che voi Drell siete abituati a ignorare certi dettagli… non vi perderete mica in mille paranoie al primo dettaglio che vi sfugge?”, sorrise.
“No, certo, ma stavolta è diverso”.
Ripresero a camminare, cercando con lo sguardo la tabella degli orari.
“E in cosa sarebbe diverso?”
“Sei tu il mio ricordo. E questo lo rende importante”.
“Thane…”
Prima che lui potesse replicare in qualche modo, un’Asari tagliò loro la strada, costringendo Shepard ad indietreggiare con uno scatto per evitare di farsi travolgere malamente da una grossa valigia. Trattenne un’imprecazione e si voltò verso di lui con un’espressione spazientita. “Beh, fortuna che fosse un’Asari e non un Elcor”, disse con un’alzata di spalle.
“Sono sicuro che un Elcor avrebbe prestato più attenzione”, rispose lui sorridendo.
Lei annuì, aggrappandosi istintivamente al suo braccio mentre riprendevano la marcia. “Quei bestioni sono aggraziati… a modo loro, certo, ma vanno ammirati”.
“Sai… una volta ho dovuto eliminarne uno”.
Shepard spalancò gli occhi, incredula, quasi non si fosse mai resa conto fino a quel momento di quale fosse il suo passato.
“Scherzavo”, replicò Thane l’attimo dopo, avendo captato la sua inquietudine. “Chi vorrebbe un Elcor morto? Dopotutto, non mi risulta che abbiano mai dato fastidio a nessuno…”
Lei si rilassò, sorridendo leggermente. “Beh, succedono così tante cose che vanno al di fuori dalla mia comprensione in questa Galassia, che non mi meraviglierei più di nulla. Ma sono curiosa… quale sarebbe il tuo approccio nei confronti di un Elcor?”
“Avrei davvero delle alternative?”
“Bomba”, esclamarono poi in coro, scoppiando a ridere l’attimo dopo.
Scacciando via i momentanei sensi di colpa per aver anche solo pensato a fare del male ad uno di quei bestioni, si misero in fila per i biglietti digitali del trasporto rapido, davanti ad un’apposita IV.
“Agglomerato Zakera?”, domandò Shepard, voltandosi verso di lui. Thane annuì, dando nel frattempo un’occhiata sommaria al tabellone degli orari.
“Finisco io qui, aspettami lì davanti”, disse lei, facendogli un cenno verso la banchina. Thane obbedì e lei aspettò pazientemente che arrivasse il suo turno.
 
“E’ incredibile. Dall’ultima volta il prezzo del biglietto elettronico si è duplicato”, si lamentò Shepard, una volta che lo ebbe raggiunto.
“Beh, devono pur assicurarsi un introito per sostenere le nuove misure di sicurezza… che nonostante tutto, sono ancora insufficienti”, rispose Thane, porgendole il factotum così che potesse trasferire il suo biglietto.
“Se iniziassero col tassare tutte le fantomatiche ballerine Asari con un doppio lavoro, sarebbero già a metà dell’opera…”
“Potresti provare a chiedere al Consiglio, la prossima volta…”, rispose lui ironicamente, facendole sollevare un sopracciglio, scettica.
“E invece sai, forse in quel caso mi darebbero ascolto. L’importante è non parlare di Razziatori, per carità… quelli mai”.
“Non li biasimo. La Galassia non è pronta per una minaccia come quella”.
“Credi che non lo sappia? Il problema è che quando arriverà il momento, non sapranno dove mettere le mani…”, sbuffò lei, mentre la navetta arrivava, carica di passeggeri. “E’ il nostro”, aggiunse, avanzando verso la porta d’entrata. Una massa informe di alieni di tutte le specie si riversò all’esterno, tingendo l’aria di mille colori e odori, cosa che avrebbe traumatizzato qualunque Umano o alieno che si trovasse lì per la prima volta. Thane la prese per mano, evitando di perderla tra la folla, poi entrarono e presero posto in un minuscolo angolo fra un Turian e un paio di Asari. Thane si aggrappò a una delle cinghie sulla paratia superiore, lei semplicemente si appoggiò a lui, aspettando che il mezzo partisse.
Da tanto non le capitava di vivere una situazione si simile quotidianità, dove lei cessava di essere il Comandante Shepard per mescolarsi invece alla moltitudine di gente che nient’altro condivideva con lei, se non il semplice fatto di vivere nella stessa Galassia. Il pensiero la terrorizzava e la tranquillizzava al tempo stesso, ma, consapevole di non essere la sola a sentirsi così, si lasciò cullare dal momento e smise di farsi sopraffare dai pensieri nello stesso istante in cui lui fece scivolare il braccio libero intorno alla sua vita e la trasse a sé.
“Non vorrei vederti finire addosso ad uno di quegli spuntoni”, si giustificò lui, facendo un cenno verso i gomiti del Turian.
“Ah, si? Beh… gentile da parte tua”, rispose lei con un sorriso malizioso.
“Non si è mai troppo cauti con loro”.
“Attento, se ti sentisse Garrus avrebbe da ridire”, sbuffò lei.
“Sono convinto che se anche insultassi Palaven e tutti i suoi avi, al momento non troverebbe proprio nulla da ridire”.
“Ho paura che lo abbiamo traumatizzato”, ridacchiò Shepard, attutendo una brusca virata del mezzo con la salda presa sul braccio di lui.
“Beh, se non sbaglio era proprio questo ciò che voleva”.
“Non ne sarei così sicura”, rise lei. Poco ne sapeva rispetto al modo in cui i Turian interagissero fra loro, ma era certa di aver sentito da qualche parte che i “baci” erano decisamente poco contemplati nel raggio delle loro relazioni interpersonali.
Un’altra brusca virata e qualche chilometro dopo il mezzo finì la sua corsa, affiancando una delle banchine sopraelevate degli agglomerati. Aspettarono che il grosso della folla lasciasse l’abitacolo, prima di fare altrettanto. Thane si sfregò le mani fra di loro, per poi passarle con decisione sulla sua giacca mentre cercava con lo sguardo la prossima direzione da prendere.
“Paura dei germi?”, lo additò Shepard sorridendo in modo beffardo.
“Non puoi mai sapere chi ha appoggiato le mani prima di te su un mezzo pubblico…”
“Si vede che non hai mai dovuto affrontare un addestramento di tipo N7”.
“Se ti dicessi che ho affrontato di peggio? Ma certe abitudini sono dure a morire”.
“Di peggio, eh? Fammi un esempio”, lo provocò lei, iniziando a camminare verso i magazzini.
“Avevo otto anni quando mi hanno lasciato per la prima volta in mezzo al nulla più assoluto. Sì, era un ambiente controllato, ma cosa vuoi che ne sappia un bambino? Ho passato una settimana a cercare di cavarmela, a cercare semplicemente di sopravvivere contando solo su di me e sul mio intuito…”
“Una… settimana?”, Shepard sollevò le sopracciglia.
“Sei giorni e quattordici ore, per essere precisi”.
“E riesci a ricordare…”
“Si, ricordo tutto alla perfezione”.
“Scusami se te lo dico, ma diamine… non hai mai provato il desiderio di ribellarti? Eri solo un bambino… tutto ciò è abominevole”.
“Può non essere etico secondo la tua visione dei fatti, ma sono ciò che sono grazie agli anni di duro addestramento a cui mi hanno sottoposto”.
“Non provi rabbia, frustrazione?”, insistette lei, incredibilmente testarda nel non riuscire a capire ciò che per lui era spaventosamente chiaro.
“Provo orgoglio, provo gratitudine. I sacrifici che ho fatto mi hanno aiutato nel tempo, mi hanno salvato da situazioni da cui altrimenti non sarei uscito vivo”.
“Situazioni in cui però non ti saresti mai trovato se non avessi fatto il mestiere che hai fatto…”
“Questo non puoi saperlo. Kolyat stava per trovarsi esattamente in una di quelle situazioni, e lui non ha mai ricevuto la preparazione adatta. Pensi che saremmo riusciti a fermarlo, altrimenti?”
“Insomma, vuoi dirmi che non rimpiangi nulla del tuo passato… voglio dire, sei felice di aver completato il tuo addestramento, anche se ciò ti ha privato di un’infanzia normale?”.
“Molta gente, Siha, non ha il privilegio di un’infanzia normale e non per scelta propria. Ho affrontato situazioni difficili, senza dubbio, ma alla fine sono sempre stato ricompensato. Posso dire con assoluta convinzione che non mi è mancato nulla”.
“E l’affetto… che mi dici dell’affetto dei tuoi genitori?”
“Come siamo finiti qui da un discorso sui germi?”, domandò Thane dopo averla fissata per un paio di secondi.
Lei sollevò le spalle, sorridendo leggermente. “In fondo so così poco di te…”
Lui le si avvicinò, prendendole le mani. “Ti racconterò tutto ciò che vuoi sapere, ma prima vorrei evitare di ritardare all’appuntamento”.
“E va bene, fai strada”, rispose allora lei, accontentandosi per il momento di quella risposta.
 
 
 
Giunsero ad un vicolo cieco che non sembrava altro che un sudicio deposito di rottami. I portelloni del magazzino erano sigillati e un Krogan campeggiava davanti all’ingresso, evidentemente annoiato. Si ridestò immediatamente non appena vide quelle due figure, un’Umana e un Drell in abiti civili che sembravano trovarsi lì per puro errore.
“Non c’è niente che vi interessi qui, smammate”, berciò, con un vocione che voleva essere intimidatorio.
Thane non si scompose, avvicinandosi tranquillamente. “Ho un appuntamento col signor Varn”.
Il Krogan attivò il comunicatore e fece una mezza torsione del busto per dare loro le spalle e borbottare qualcosa nell’apparecchio.
“Tu puoi passare”, gesticolò poi, rivolgendosi a Thane con un’alzata del mento. “Lei resta qui”.
“E’ uno scherzo?”, s’indignò Shepard.
“Tranquilla, tesoro”, fece Thane, poggiandole una mano sull’avambraccio. “Risolveremo questa faccenda”.
Shepard per poco non si strozzò nel sentirsi affibbiare un nomignolo del genere, con un tono a dir poco accondiscendente.
Thane si avvicinò alla guardia e parlò a bassa voce. “Senta… mia moglie non è un tipo molto paziente. Sono sicuro che lei capisca che lasciare una donna ad annoiarsi per troppo tempo, la porterà inevitabilmente a riempirle la testa di chiacchiere. E sono anche sicuro che lei non venga pagato per questo”, tentò di spiegargli pacatamente.
“In tal caso vedrò di zittirla a modo mio, eh eh eh”, bofonchiò il Krogan.
Shepard fece per avvicinarsi, dimenticando per un istante di dover sostenere quella farsa. Se fosse dipeso da lei, quel bestione sarebbe stato già in un angolo a piangere lacrime amare. Thane la fermò con un gesto della mano, sorridendo placidamente. “Temo che il signore non abbia capito chi ha di fronte, cara”.
“Dica al suo capo che se mia moglie non può entrare, mi rivolgerò altrove”, aggiunse, usando stavolta un tono più deciso. Quello parlò di nuovo attraverso il comunicatore e poi fece cenno loro di entrare, mentre il portellone si apriva con uno sbuffo e lui sciorinava imprecazioni a caso.
 
 
 
“Signor Krios!”, fece un Volus al di là di una piccola scrivania. “Sono mortificato… css... Non mi era giunta voce che avesse una moglie. La prego di… css… accettare le mie scuse”.
Thane si avvicinò alla scrivania, volgendosi solo un istante per ammiccare a Shepard, la quale non sapeva se sentirsi più offesa per l’atteggiamento precedente del Krogan, o per stare facendo la figura della moglie ignara che segue i traffici loschi del marito.
“Oh, lei è incantevole, signora Krios, css. Mi dispiace di non avere nulla da offrire a una donna come lei, ma spero… css… spero che troverà gradevole la permanenza”, continuò il Volus, stretto nella sua tuta arancione. “Vi prego di seguirmi”, disse poi, compiendo un piccolo salto dallo sgabello sul quale era appollaiato.
Una serie di intricati corridoi e scalette dopo, un enorme portellone venne schiuso, e a seguire, una serie di luci illuminarono a giorno l’enorme hangar ricolmo di armi. Erano ordinate secondo tipologia e sotto ogni tipologia, secondo casa di fabbricazione. Il Volus prese ad allargare in aria le sue piccole braccia, beandosi nell’orgoglio di possedere un arsenale del genere. “Prego, prego… css… è tutto in vendita. Al prezzo migliore, chiaramente… css… e per la signora, ecco… vuole uno sgabello? Le porto uno sgabello”.
“Non si scomodi, signor Varn. Le armi affascinano mia moglie almeno quanto un paio di orecchini d’oro”, lo tranquillizzò Thane, attirandosi un’occhiata assassina da parte di Shepard. “Non è così, tesoro?”
Lei annuì controvoglia, attivando il factotum immediatamente dopo per comporre un messaggio.
 
“Ti ammazzo, giuro che prendo il primo lanciamissili disponibile e ti ammazzo.”
 
La risposta di Thane non si fece attendere, e lei a stento trattenne un sospiro di completa frustrazione.
 
“Tesoro, dubito che tu riesca a far funzionare un lanciamissili. Ti prometto che appena fuori di qui ti porto nella prima gioielleria disponibile”.
 
Shepard smise di chiedersi cos’aveva fatto di male per meritarsi tutto ciò e iniziò a dare un’occhiata in giro, dimenticando ben presto che ruolo avesse in quella faccenda, completamente rapita dalla quantità incredibile di armi nuovissime e tirate a lucido che facevano sfoggio di sé ad ogni angolo.
“Com’è riuscito a mettere insieme un simile arsenale?”, domandò al proprietario, mentre Thane, da lontano, le faceva cenno di non fare domande.
Varn si schiarì la voce almeno un paio di volte, prima che Thane giungesse in suo soccorso. “Cara, domandi mai al tuo gioielliere di fiducia dove si procura i gioielli che tanto ti piace sfoggiare? Sono segreti professionali…”
“Esatto, esatto… css…”, scandì il Volus, ridacchiando nervosamente.
Shepard scosse impercettibilmente il capo e riprese il suo giro, fermandosi ad osservare una vetrina incastonata al muro, quasi contenesse il più prezioso dei diamanti. In effetti, l’arma che troneggiava là dentro, era spaventosamente bella. Varn non si fece attendere, affiancandola immediatamente.
“La signora ha occhio… css… questo è un incredibile prototipo. Il signor Krios concorderà con me se dico che l’unica cosa migliore di una Carnifex, è l’evoluzione di una… css… Carnifex”.
“Di che si tratta?”, domandò Shepard, curiosa.
“L’hanno chiamata Paladin… css… è la versione potenziata della pistola sopracitata. Proiettili più piccoli, ma più potenti, css. Microclip da tre colpi ciascuna e ventuno caricatore, css. Moddabile, ovviamente. Ottima nelle medie e lunghe distanze”.
Anche Thane si avvicinò, notando come gli occhi di Shepard stessero brillando, nel tentativo di contenere tanto stupore. Sapeva che avrebbe dato qualunque cosa per provarla e lui non poteva non accontentarla, o almeno provarci.
“E’ possibile testarla, signor Varn?”
“Nooo, no, no, no. Sono spiacente, ma quest’arma non è un… css… giocattolino. Ci sono tante altre pistole che la signora… css… può provare. Questa ad esempio…”, disse, indicando una Shuriken.
Shepard per poco non gli rise in faccia, frenandosi a stento.
“E se volessi acquistarla, signor Varn?”, domandò gentilmente Thane.
“Nessun problema, è sua. Guardi… css… le regalerò anche…”
“No, intendevo la Paladin”.
“La Paladin?” Per poco al Volus non mancò il fiato nel pronunciare quella domanda.
“La Paladin, esattamente. Di che prezzo parliamo?”
“Ma signore… css… si tratta di un prototipo, è solo d’esposizione”.
“Non è quello che ha detto quando siamo entrati. Ha sottolineato, al contrario, come fosse tutto in vendita”.
“Oh, sono certo che non vorrà spendere… css… una montagna di crediti per un’arma ancora da testare sul campo”.
“Mi sta dicendo che non è sicura?”
“No, certo che no… ha superato tutti i test, è…”
“E allora non vedo quale sia il problema. Mi faccia un prezzo”.
Il Volus sbuffò spazientito e si grattò il capo con una delle sue ridicole manine, prima di mostrare a Thane la cifra direttamente dal suo factotum, quasi avesse paura a pronunciarla a voce alta. Shepard si sporse per sbirciare, ma riuscì a intravedere solo qualche zero, prima che Varn si allontanasse bruscamente. Poi lui e Thane iniziarono a camminare con fare sospetto, scambiandosi parole a bassa voce. Qualunque cosa stessero tramando, a Shepard non piacque neanche un po’, se non altro perché lei non era riuscita ad avere nessun ruolo attivo in quella faccenda.
“Tesoro, un attimo di pazienza e sono subito da te”, disse Thane, poco prima d’infilarsi in uno stanzino nascosto insieme al Volus.
Shepard evitò direttamente di rispondergli, scuotendo le spalle, ricolma di disappunto.
 
Qualche minuto dopo, Thane e il signor Varn tornarono da lei. Il Volus sembrava elettrizzato, Thane aveva un pacifico sorriso dipinto sulle labbra, che diventò ancora più ampio quando Varn prese a togliere i sigilli dalla vetrina per estrarre la Paladin. La maneggiò con cura ed estrema lentezza, prima di riporla in una valigia argentata di medie dimensioni, insieme a tutte le cose utili per la pulizia e la manutenzione. Shepard osservò il tutto senza riuscire ad aprire bocca… l’unica cosa che le riuscì di fare, fu di comunicare a Thane solo con il labiale quanto lui si trovasse attualmente nei guai; cosa alla quale lui rispose con un’innocente alzata di spalle.
 
 
 
Una volta fuori dal magazzino, lontano dalle occhiate sospette del Krogan, Shepard poté finalmente smetterla di fingere e iniziare con le ovvie domande.
“Quanto è illegale la cosa che abbiamo appena fatto, Krios?”, iniziò.
“Direi molto poco. Tecnicamente, quel magazzino rifornisce squadre speciali che agiscono sotto copertura, ma che in qualche modo hanno il benestare dei Governi. E Cerberus in questo non fa differenza”.
“Cerberus, certo. Ma non te l’ho sentito nominare…”
“Io e il signor Varn ci conosciamo da quando lavoravo per la Primazia, non avevo bisogno di un tramite”.
Shepard sospirò, passandosi una mano sul viso. “Non mi piace, Thane… tralasciando il fatto che tu mi abbia trattato al pari di un’idiota…”
“Hai detto che sai poco del mio passato, ma sai bene cosa facevo. Secondo te, in che modo riuscivo a procurarmi le migliori armi in circolazione?”
Shepard si rese conto di non aver mai riflettuto su quest’aspetto. Si rese conto di come il grigio a volte apparisse più bianco, altre volte fosse così spaventosamente simile al nero… ma era il grigio che aveva scelto lei, accettandone tutte le sfumature.
“Senti, se è davvero un grosso problema per te…”, tentò di dire lui.
“No, no… è solo che non ci sono abituata, ecco tutto. Non è il mio usuale modus operandi”.
Poi ripensò a quella mattina, a come avesse realizzato che nel giro di una notte molte cose erano cambiate. Dalle più piccole, come due stupidi pesci in un acquario, alle più grandi.
Tempo fa, lui aveva avuto difficoltà ad accettare il cambiamento, adesso toccava a lei averci a che fare, scontrandosi col semplice fatto che far entrare una persona nella propria vita, inevitabilmente la sconvolge, su molti aspetti.
“Non sarebbe stato più semplice far parlare me? Sono stata uno Spettro, lavoro per Cerberus…”
“Un ex Spettro che si rifornisce per vie alternative in compagnia di un assassino? Meglio di no”.
“E va bene”, si arrese lei, concedendogli un piccolo sorriso. “Ma che mi dici delle tue mod? Non eravamo lì per quelle?”
“Diciamo pure che non erano così interessanti come pensavo…”
“Diciamo pure che sapevi perfettamente cos’avremmo trovato”, gli fece eco Shepard.
“Questo non lo ammetterò mai”, ribatté lui, sfacciato.
“Va bene, farò finta di crederti”, sospirò lei, ”adesso però andiamo a provarla”, aggiunse poi, senza riuscire a reprimere un fremito di gioia al solo pensiero di avere un’arma come quella fra le mani.
Thane sorrise e le consegnò la valigetta. “E’ tua”.
 

“And I had the week that came from hell
And yes I know that you can tell
But you're like the net under the ledge
But I go flying off the edge
You go flying off as well”

 

Il CIC era praticamente deserto, quella sera, salvo per un paio di specialisti intenti ad occuparsi degli ultimi controlli. Shepard sovrastava l’ampia mappa galattica, l’ologramma sul quale si giocava il destino di milioni esseri viventi, in attesa di decidere quale sarebbe stata la prossima mossa. EDI l’aveva informata che mancavano le ultime verifiche prima di poter considerare l’IFF pienamente operativo, e ciò significava che lei avrebbe avuto ampio spazio di manovra per qualche giorno ancora. Proseguire con la licenza avrebbe soltanto peggiorato le cose, lo sapeva bene. A lei serviva una squadra in forma, allenata, non una dozzina di rottami reduci da ubriacature e serate moleste… e a giudicare da come Zaeed era rientrato la notte scorsa, capì che trattenersi sulla Cittadella sarebbe stato un errore.
Scandagliò la mappa con lo sguardo, annotando mentalmente tutti i tragitti già percorsi e quelli ancora da percorrere, poi la voce di Kelly la ridestò.
“Comandante, mi dispiace disturbarti a quest’ora, ma c’è l’Ammiraglio Hackett in chiamata, dice che è urgente”, disse la ragazza, con evidente preoccupazione.
“Hackett?”.
Tutto si sarebbe aspettato, tranne che una chiamata dall’Ammiraglio in persona. All’assenso della specialista, lei si catapultò in ascensore, dirigendosi verso il proprio alloggio, poi si fece trasferire la chiamata al suo terminale.
Erano passati due anni, eppure il volto dell’Ammiraglio le sembrò identico.
“Shepard”.
“Signore, la sua chiamata mi giunge inaspettata”.
“Posso immaginarlo, ma non si preoccupi, sarò breve”.
“A sua disposizione, signore”.
“Si tratta di una faccenda personale ed estremamente riservata”.
Shepard annuì lievemente col capo, percependo una crescente tensione in ogni muscolo.
“Abbiamo un’agente sotto copertura nello spazio Batarian, la dottoressa Amanda Kenson. Come può immaginare, la questione è delicata. La Kenson sostiene di avere la prova di un attacco imminente da parte dei Razziatori…”
Lei avrebbe voluto urlare un “finalmente”, ma si limitò a dargli le spalle per un momento nel tentativo di ritrovare la calma.
“Signore, perché rivolgersi proprio a me? Adesso?”, sbottò, incrociando le braccia.
“Stamane ho saputo che i Batarian l’hanno arrestata con l’accusa di terrorismo. Ora… sono sicuro che non farà fatica a immaginare le dinamiche di una prigione segreta Batarian”, continuò, “e io ho bisogno che lei si infiltri nella loro base per portarla in salvo. E come favore personale, ho bisogno che lei si rechi lì da sola”.
“Perché io? Perché io e non una squadra dell’Alleanza?”
“La presenza ufficiale dell’Alleanza in quella zona solverebbe un polverone che nessuno di noi vorrebbe scatenare. Sappiamo quanto siano delicati i rapporti fra Umani e Batarian. E lei è perfettamente a conoscenza che una fregata dell’Alleanza verrebbe abbattuta seduta stante in quel territorio. Conosco anche i suoi trascorsi con questa specie, ma so di potermi fidare di lei”.
“Ho una squadra incredibile con me, potrebbero essermi d’aiuto, non capisco il perché di una missione in solitaria”.
“No, Comandante. La questione è troppo delicata. Ho bisogno di un lavoro pulito, silenzioso, e so che solo lei può farcela. In più, non conosco i suoi collaboratori”.
Shepard avrebbe voluto mandarlo al diavolo, e l’avrebbe fatto davvero se in gioco non ci fosse stato molto più che il futuro di una celebre scienziata. Se in quel luogo avesse potuto trovare davvero le prove di un’imminente invasione, prove da presentare al Consiglio, ciò l’avrebbe ampiamente ricompensata. Si decise ad accettare, passando la restante parte della serata a visionare i rapporti che l’Ammiraglio le aveva inviato, nel tentativo di elaborare una strategia, almeno finchè la voce di EDI non le comunicò che Thane si trovava fuori dalla sua cabina.
Mise da parte i vari files e andò ad aprire, improvvisamente sollevata dalla sua presenza.
“Non hai cenato stasera”, osservò subito lui.
“Ho avuto un imprevisto”, sorrise lei, facendo strada verso il divanetto.
“Di che natura?”
“Non posso parlartene”.
Thane si sedette di fianco a lei, chiedendosi se si trattasse di qualcosa di personale, oppure di una faccenda strettamente professionale, ma lei non gli diede il tempo di farle domande.
“Ho ricevuto una chiamata dall’Alleanza. Domani stesso raggiungeremo la nebulosa Viper”.
“Spazio Batarian?”
“Esattamente. Sono stata incaricata di svolgere una missione in solitaria. Niente di troppo complicato, conto di fare presto… così potremo concentrare finalmente le nostre forze sulla missione finale”.
Lui non riuscì a non farsi sopraffare da una certa preoccupazione, al pensiero che di li a poco lei si sarebbe trovata da sola ad affrontare una minaccia di cui lui non era neppure a conoscenza.
“Com’è andato il secondo incontro con tuo figlio?”, domandò allora lei, impaziente di cambiare discorso.
“Meglio del primo, senza dubbio. Stavolta ha acconsentito a mostrarmi uno dei suoi lavori…”
“Ah, si? E’ bravo?”
“Ha talento… ma gli manca la tecnica. Solo non vuole convincersi a frequentare un corso, non vuole accettare aiuti economici da me”.
“Magari per il momento è un bene, imparerà a cavarsela da solo… e col tempo imparerà anche a mettere da parte l’orgoglio”.
“Se non sapessi di averne così poco di tempo, forse non sarei così impaziente”.
Dopo quella frase, inevitabilmente calò il silenzio, e a Shepard sembrò di aver compreso all’improvviso tutto, anche ciò su cui non si era mai interrogata. Le piccole cose che lui aveva fatto per lei sino a quel momento, quell’arma che aveva deciso di regalarle senz’apparente motivo… ogni cosa, ogni gesto, erano stati semplicemente il suo modo personale di ovviare all’unico regalo che non avrebbe mai potuto farle: il suo tempo. Piccoli tasselli che lui sperava un giorno fossero rimasti con lei, ad alimentare una spirale di ricordi grande abbastanza da evitare che lei potesse dimenticarlo per sempre. Se da un lato, razionalmente, riusciva a leggere in ciò un certo egoismo, dall’altro non poteva fare a meno che provare un enorme smarrimento di fronte a ciò che lui doveva star passando. La possibilità di svanire da un momento all’altro, la consapevolezza di lasciare degli affetti senza poter fare la differenza nelle loro vite… molte volte si era lasciata sopraffare da un sentimento simile, ma non ne aveva mai avuto la certezza, era rimasta una paura sbiadita, da cancellare facilmente con un colpo di spugna. Una cosa che, invece, nella vita di lui aveva la stessa intensità di un’incisione profonda nella carne, qualcosa che adesso sanguinava, ma che presto lo avrebbe dissanguato.
“Tutto bene?”
La domanda di lui la distolse da quei pensieri così angosciosi, facendole curvare le labbra in un debole sorriso, mentre una mano raggiungeva la sua.
“Sono solo stanca, e non riuscirò a dormire finchè non avrò esaminato ognuno di quei rapporti…”, rispose, reclinando il capo sullo schienale del divano.
“Ti lascio riposare allora…” Thane fece per alzarsi, ma lei d’istinto lo trattenne.
“Mi dispiace”, disse, guardandolo con occhi tristi ”avrei voluto passare la serata con te”.
“Non preoccuparti, abbiamo tempo”, disse lui, chinandosi per posarle un bacio sulla fronte.
E con quella terribile bugia, si diedero la buonanotte.





 

Dire che sono terribilmente insicura di questo capitolo è un eufemismo. Mi trovo sempre in difficoltà quando esco dalla "Normandy" e cerco di descrivere attimi di vita comune, perchè per quanto possa provarci, ho sempre paura di andare OOC. Quindi vi prego di farmi notare tutte le cose che non quadrano, sarebbe davvero utile.
Ci ho messo un mese, e la cosa bella è che solo negli ultimi due giorni sono riuscita a scrivere... spero di non aver fatto quindi una marea di errori. Probabilmente avrei dovuto ritagliarmi ancora più tempo per rileggere e sistemare, ma basta... questo capitolo me lo porto dietro da troppo tempo.
Approfitto di questa nota per ringraziare tutti coloro che seguono questa storia e che mi dedicano del tempo, specialmente le persone che ho avuto la fortuna di incontrare a Lucca quest'anno. Sono davvero felice di aver condiviso con voi quest'esperienza, e spero di rifarla in futuro.
A presto.

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Capitolo 19
*** The Burden of the Past ***


"When you were naive you were so invincible
 and you laughed at anyone and anything that ever got in your way
 But now the mirror shows the change and you don't see that
 you're sinking back into the crowd, an echo fading
 I know things change, your world has slipped away
 I know things change, but you're living like a soldier who's caught in the fray
 Don't lose your faith, it's not so cold, it's not too late"
 
(Soldiers – Goo Goo Dolls)

[x]

 

 
Era una calda notte d’estate quando i campi di grano si macchiarono di rosso e le civette iniziarono a intonare la loro canzone funebre, nascoste sui rami degli alberi di ulivo. Non ci fu scampo neanche per loro, quella notte, inghiottite inesorabilmente dalle lingue di fuoco che divorarono avide l’intera regione di Salamanca, su Mindoir.
Sulle strade sterrate, piene di polvere, una lunga fila di uomini e donne arrancava, lenta, spronata da continui incitamenti in una lingua che non era la loro. Un uomo protestò con l’ultima briciola di orgoglio, in lacrime per il figlio che aveva abbandonato, e si ritrovò il calcio di un fucile conficcato sulla nuca. La donna che urlò tutto il suo orrore alla vista di quel gesto, fu trivellata dai colpi di un mitra. Poi calò il silenzio, sotto a un cielo stellato offuscato orribilmente dal fumo grigio della morte.
Ad un chilometro di distanza, una ragazzina tremava nel buio di uno scantinato, gli occhi spalancati, il viso coperto di terra e graffi, le braccia nude, piene di lividi. Nelle sue orecchie, l’ultimo grido di sua madre rimbombava come un eco capace di perforarle i timpani dall’interno. Acuto, lancinante. Davanti ai suoi occhi, l’immagine fissa di un esplosione che lei stessa, aveva provocato, salvandosi la vita. Prima l’azzurro, poi una pioggia di rosso, infine il nero… e la sua fuga a perdifiato. Aveva corso così tanto che ad un certo punto le sue gambe avevano preso a muoversi per inerzia, prima di accasciarsi sul pavimento di una cantina polverosa, lasciandola vuota e ansimante.
Non aveva nulla con sé, se non la consapevolezza di essere rimasta sola, in un mondo che veniva lentamente consumato dalle fiamme.
 
 
 
“Con tutto il rispetto signore, io le dico che non c’è speranza di trovare ancora qualcuno. Stiamo cercando da tre giorni e abbiamo trovato solo pile di cadaveri”.
“Sei pagato per eseguire gli ordini, soldato. E se io dico di cercare in ogni fottuto buco di questo posto, tu cercherai in ogni fottuto buco”.
“Sissignore”.
Il sergente Weisel, un Umano che non dimostrava più di vent’anni, si asciugò il sudore dalla fronte e con una smorfia diresse lo sguardo verso l’orizzonte, deformato dal calore. Non avrebbe mai ammesso che la speranza l’aveva persa anche lui, ormai. Lasciava entrambi i genitori su quella colonia, certo che non li avessero presi, perché onestamente, un uomo senza una gamba e una donna con seri problemi di asma non sarebbero stati utili per nessuno.
Due giorni prima aveva rimesso piede in quella che una volta era la sua casa. A stento aveva riconosciuto il tavolo intorno al quale si consumavano le cene di famiglia; aveva preferito non farsi domande su cosa fossero in realtà i mucchi di cenere che coprivano tutto il pavimento.
Era intento a sollevare un container di medie dimensioni, più per abitudine che per reale speranza di trovarci sotto qualcuno, quando la voce di un altro soldato giunse alle sue orecchie.
“Sergente, ho trovato qualcosa”.
Weisel si diresse a passo svelto verso il suo sottoposto, calpestando con i pesanti stivali i residui di una robusta recinzione di legno.
“Di che si tratta?”
“Pare ci sia una botola qui, ma è sigillata dall’interno…”
Il sergente si passò una mano fra i cortissimi capelli biondi, richiamando un altro soldato.
“Davidson, occupatene tu”, ordinò, “e presta la massima attenzione”.
Seguì il rumore ovattato di una leggera esplosione biotica, poi la botola cedette con un suono metallico.
“Signore…”
“No, vado io”. Il sergente diede un’occhiata sommaria dall’alto, puntando il suo factotum all’interno. Gli altri due soldati si scambiarono una rapida occhiata, lamentandosi del fatto che se avessero avuto strumenti più all’avanguardia, sarebbe bastato inviare un semplice drone di ricognizione per evitare un inutile spreco di energie.
Nessuna scala collegava la botola con il rifugio, segno che probabilmente qualcuno l’aveva tolta dall’interno, assicurandosi prima di sigillare l’apertura. Weisel saltò giù con tonfo, atterrando su qualcosa di morbido, probabilmente un cumulo di fieno. Lo scantinato era pieno zeppo di casse, scaffali, forse contenenti provviste o di concime per il bestiame.
“C’è nessuno?”, chiamò.
“Qui sergente Tom Weisel dell’Alleanza. Adesso siete al sicuro”, tentò nuovamente.
Fece un paio di passi in avanti, facendo scricchiolare le tavole di legno sotto ai suoi piedi, poi si lasciò andare ad un sospiro di completa frustrazione. Per un momento… per un solo istante aveva sentito la speranza riaccendersi dentro di sé, ma era evidente che nessuno fosse scampato all’attacco, era evidente ormai da giorni.
“Niente da fare”, comunicò ai suoi soldati, mentre cercava con lo sguardo la scala che avrebbe utilizzato per la risalita. L’aveva appena appoggiata sul bordo della botola, quando sentì un rumore alle sue spalle, simile a un debole fruscio. Pensò immediatamente che si potesse trattare di topi… ma un secondo rumore, stavolta più chiaro, lo insospettì.
Si diresse verso il fondo dello scantinato, chiamando nuovamente a gran voce. Poi qualcosa lo afferrò per una caviglia.
 
 
 
“E’ incredibile…”, commentò la dottoressa Mason, continuando a tener d’occhio una ragazzina che giaceva sul lettino di quell’improvvisato ospedale da campo. Le avrebbero dato al massimo quattordici anni.
“Da quanto tempo era lì sotto?”, domandò il Sergente.
“Tre, forse quattro giorni. E’ evidente che non abbia mangiato, né bevuto nulla. Ci vorrà un po’ per rimetterla in piedi, ma ha tutta l’aria di essere un osso duro”.
Weisel si accarezzò il mento, l’aria preoccupata. “Temo che non avremo a disposizione tutto questo tempo. L’Alleanza ci ha ordinato di ritornare alla base. Qui non è rimasto più nulla…”
“Che ne sarà di lei?”
“La porteremo con noi sulla Kilimangiaro, in attesa di identificarla. Poi si vedrà… spero per lei che abbia dei familiari altrove, magari sulla Terra”.
“Già… povera creatura. Non riesco a capire come abbia fatto a salvarsi…”
“Fortuna, dottoressa… solo fortuna”.
 
 
 
Andromeda Shepard riaprì gli occhi una mattina di Maggio del 2170. Fece fatica all’inizio, sentendo le palpebre quasi incollate fra loro. Quando il primo spiraglio di luce penetrò all’interno, li chiuse nuovamente di scatto, come accecata. Lentamente, i sensi tornarono di nuovo vigili… il bip di un macchinario giunse alle sue orecchie, l’odore dei farmaci solleticò le sue narici, sotto le sue mani poté sentire la consistenza morbida del cotone, e infine, quando provò a riaprire nuovamente gli occhi, vide nient’altro che bianco.
“Dottoressa, la paziente si è svegliata”. Questa fu la prima frase che captò, mentre la testa le girava vorticosamente.
Sentì il calore di una mano stretta alla sua, vide un sorriso formarsi su un viso giovane, femminile, sfocato, poi parole… tante parole che non le sapevano di niente. Domande, esclamazioni, frasi di circostanza come “lo sapevo che si sarebbe svegliata”. Avrebbe voluto addormentarsi di nuovo e non svegliarsi mai più.
 
Tre ore dopo, era seduta su un letto d’ospedale, con una brodaglia nauseante sotto agli occhi che non avrebbe mangiato neppure sotto tortura.
“Andiamo… lo sai che ti farà bene, fai un piccolo sforzo”, la incitò la dottoressa, cercando di imboccarla con un cucchiaio. Lei, per tutta risposta, rifiutò con una smorfia, girandosi dall’altra parte.
“E va bene… ma almeno parlami, dimmi come ti chiami”.
Qualcosa, dentro di lei, le impedì anche solo di schiudere le labbra. Forse perché se l’avesse fatto, avrebbe vomitato tutto il dolore che teneva dentro da ormai troppo tempo, da quando si era riappropriata della consapevolezza di aver perso ogni cosa.
“Sei al sicuro adesso, non devi avere paura di nulla. Questo lo capisci?”
La dottoressa Mason continuò così finchè altri pazienti non reclamarono la sua attenzione, poi si decise a lasciare la stanza, con la speranza che la prossima volta avrebbe scoperto almeno il suo nome.
L’improvviso silenzio che seguì, lasciò i pensieri della giovane liberi di fluire e attorcigliarsi in un nodo all’altezza del petto, in grado di toglierle il respiro. L’urlo di sua madre si fece di nuovo prepotente… Corri, Ann! Salvati!, tanto da costringerla a portarsi le mani sul cranio e premere tanto forte quanto i suoi muscoli consentissero. Le sembrò per un istante di trovarsi ancora lì, davanti all’immagine di sua madre che viene brutalmente trascinata via da un gruppo di schiavisti, per poi trovare la morte lontano dai suoi occhi.
“Ehi”.
Una voce maschile si frappose a quell’urlo, facendolo cessare di botto. I suoi occhi verdi trovarono la figura di un uomo, forse un ragazzo, ritto in piedi davanti a lei. Aveva un bellissimo sorriso, sotto a quel velo di barba incolta.
“Mi hanno detto che hai perso la lingua, ma secondo me sei solo spaventata”, disse quello, senza smettere di sorridere, mentre si avvicinava al suo letto.
“Ti capisco, sai? Hai perso tutti quanti… avevi una famiglia? Anche io ne avevo una, su Mindoir. E i tuoi amici? Andati, anche loro… immagino. Sei sola, non hai più nessuno. Mi meraviglio di come tu stia ancora qui, ferma su questo lettino a farti imboccare dagli infermieri”, sbuffò.
Mentre lui continuava a parlare, con quell’assurda faccia tosta e il tono di chi sta raccontando una favola della buonanotte, lei strinse i pugni e serrò ulteriormente le labbra.
Ancora un’altra parola e…
“D’altronde, cosa ti è rimasto? Forse hai perso anche la tua casa… Ammesso che fra qualche mese si inizierà a ricostruire tutto, ma la vedo dura sai… i Batarian non ce lo lasceranno fare tanto presto, temo”.
Una violenta e incontrollabile esplosione biotica scaraventò il ragazzo sul muro di fronte, facendo risuonare gli allarmi in tutta la struttura. Andromeda, gli occhi e la bocca spalancati, si osservò le mani sconcertata e poi, con un rapido gesto, si liberò dall’ago della flebo e saltò giù dal lettino, con l’intenzione di fuggire… dove non aveva idea.
Fu placcata all’angolo del corridoio successivo, dalla stessa dottoressa che le era stata accanto fino a quel momento.
“Calmati, ti prego…”, le disse, stringendola fra le braccia. “Non avere paura. Sei al sicuro, sei al sicuro adesso”, ripetè, cullandola proprio come avrebbe fatto una madre. “Fidati di me”.
E a quel punto lei si lasciò andare al primo vero pianto da quella notte su Mindoir, finchè non ebbe più lacrime da versare, finchè non si sentì sfinita e si addormentò di nuovo sul suo letto.
 
 
 
“Ciao Ann, come andiamo oggi?”
La ragazza abbozzò un sorriso, mettendosi a sedere. “Sto bene”, rispose. “Ho fame”.
“Ah, questa è un ottima notizia”, esclamò la dottoressa Mason, facendole uno scan completo con il suo factotum. “Bene, bene… ti stai riprendendo alla grande. Se continui così, fra due giorni ti faremo uscire da quest’infermeria”.
“Dove mi porterete?”
“Dal momento che non hai parenti, lo Stato si prenderà cura di te. Vedrai, andrà tutto per il meglio”, sorrise la donna, cercando di mantenere un tono più rassicurante possibile.
“Dottoressa…”, la ragazza si morse un labbro, spaventata. “Io non voglio finire in una casa famiglia, o peggio… Fatemi restare qui”.
“Non possiamo tenerti su una nave militare ancora a lungo, Ann”. La dottoressa Mason le si avvicinò, posando una mano sul suo braccio. “Credimi, mi assicurerò personalmente di metterti in buone mani”.
“Io voglio restare”.
“Ne parleremo più tardi, va bene? Intanto c’è qualcuno che vuole farti visita”, sorrise la donna, dirigendosi verso la porta. “E stavolta niente esplosioni, intese?”, le fece l’occhiolino, prima di lasciare la stanza.
Andromeda restò sbigottita quando si ritrovò davanti l’Umano dell’altra volta, con quel suo solito sorrisetto beffardo dipinto sul volto.
“Cosa diavolo vuoi?”, mormorò fra i denti, incapace di trattenersi.
“Ehi, ehi… stavolta vengo in pace”, rispose lui, alzando le mani in segno di resa. Si sedette sul bordo del suo letto, costringendola a ritirare i piedi bruscamente da sotto le coperte. “Mi dispiace, dico davvero… mi dispiace di averti parlato in quel modo, ma almeno è servito a qualcosa no?”
Lei si rifiutò di rispondere, puntando gli occhi verso un’altra direzione.
“Ci sono passato anche io… so cosa vuol dire. A proposito, non mi sono ancora presentato. Sergente Tom Weisel”, disse, tendendole una mano, “ma tu puoi chiamarmi Tom”.
Notando che la ragazza non aveva la minima idea di ricambiare il gesto, s’infilò di nuovo le mani in tasca.
“E va bene… so che ce l’hai con me. Ti ho fatto arrabbiare, non dovevo. Ma al momento mi era sembrato l’unico modo per farti reagire, e in effetti non mi sbagliavo”, ammiccò.
“Che cosa vuoi?”, si costrinse finalmente a chiedere lei.
“Senti, so che per te è ancora presto per parlare di futuro, ma con le capacità che hai… voglio dire…”
“Capacità?”
“Beh, io che finisco contro a un muro, gli strumenti medici irreparabilmente danneggiati… ti ricorda qualcosa?”, domandò il ragazzo con nonchalance.
“Non lo dirò a nessuno, lo prometto”.
“No, ragazzina… non è questa la soluzione. Non devi vergognarti di ciò che sei… piuttosto, fai in modo di ricavarne qualcosa di buono”.
“E come?”, chiese lei, stringendo i pugni da sotto il lenzuolo. Non aveva mai affrontato quell’argomento con nessuno, convinta che forse parlarne avrebbe reso la cosa ufficiale oltre che spaventosa.
“Ho parlato con la dottoressa. Tra poco ti dimetteranno, mi basta una tua parola e verrai inserita in un programma di studio per biotici sotto il controllo dell’Alleanza. Poi, una volta finito il tuo addestramento, deciderai cosa fare del tuo futuro”, rispose lui, con un tono incredibilmente rilassato.
“Non se ne parla”, tagliò corto lei, tremando al solo pensiero di diventare una cavia da laboratorio.
“Preferisci finire in un orfanotrofio o in una casa famiglia su qualche colonia ai confini della Galassia? Ne ho visti fin troppi di ragazzini come te… e credimi, non è la fine che vorresti fare”.
“Cosa ne sai tu di cosa voglio io?!”
“Tu pensi che nessuno al mondo ti comprenda in questo momento, e va bene, lo capisco… anche io una volta ero un ragazzino disilluso e arrabbiato, anche io mi sono trovato davanti a un vicolo cieco, ignorando le porte che avevo di fronte. Ma pensa alla tua vita, pensa a cosa vorrai diventare. Pensa a tutti coloro che non hanno avuto nessuna possibilità di scelta. Pensa a quanti, come te, sono finiti uccisi solo perché possedevano qualcosa che non erano in grado di controllare, solo perché nessuno aveva dato loro la possibilità…”
Seguì una lunga pausa, dove Andromeda non fece altro che mordersi le guance, in attesa che quel supplizio finisse. Non era ancora riuscita ad accettare ciò che era successo, e volevano già spedirla altrove, a fare chissà cosa.
“Dimmi almeno che valuterai l’idea… Ti darò tutte le informazioni che ti servono, potrai farmi qualunque domanda, ma per favore… fidati di me”.
 
Quella sera la passò davanti allo schermo di un terminale lento, con un sistema operativo che risaliva all’età preistorica. Scandagliò passo passo tutte le informazioni, sfogliò le brochure digitali, cercò notizie su internet – queste ultime, stranamente irreperibili - finchè quell’idea, da “completamente folle”, divenne “quasi possibile”.
Seguirono mesi di terapia, si sommarono molte notte insonni, gli attacchi di panico da regolari divennero sempre meno frequenti… finchè non fu considerata idonea per essere inserita nel programma.
Un anno dopo, era riuscita ad ottenere il massimo del punteggio in tutte le abilità – tranne matematica, ma questo se lo aspettava - ed era finalmente pronta per lanciarsi nell’unica cosa che, col tempo, era diventata il suo principale obiettivo: entrare nella marina dell’Alleanza.
Il giorno del suo giuramento, il sergente Weisel la osservò da lontano, mentre si esibiva in una marcia perfetta, e realizzò, con grande orgoglio, che non era stata la fortuna a salvarla quella notte. No, era stato il suo spirito. Forte e coraggioso come quello di una combattente… e lei, probabilmente, era nata per questo.
 
 
 
Shepard si svegliò di soprassalto, sopra a un mucchio di datapad accatastati alla rinfusa sulla scrivania. Si era addormentata mentre era intenta a ricontrollare per l’ultima volta tutte le informazioni che Hackett le aveva fornito. Erano mesi, forse anni, che non sognava Mindoir. Durante tutto quel tempo aveva fatto del suo meglio per lasciarsi alle spalle gli orrori di quella notte… la terapia l’aveva aiutata, certo, ma ciò che aveva davvero fatto la differenza, era stato il potersi gettare con tutte le sue forze in altri obiettivi. L’Alleanza le aveva dato qualcosa per cui andare avanti, le aveva mostrato come poter diventare uno strumento in grado di riparare, proteggere, salvare dove altri mietevano morte e distruzione. Le aveva indicato l’unica via possibile, quella migliore. E lei si era fidata… si era fidata proprio nel momento in cui aveva sentito di non credere più a niente, incapace di comprendere le motivazioni che portano gli individui a compiere tali orrori. Probabilmente i suoi genitori, una modesta insegnante e un umile agricoltore di provincia, non avrebbero mai compreso o approvato le sue scelte, ma dentro di sé era sicura che adesso, se avessero potuto vederla, sarebbero stati orgogliosi di lei e tanto le bastava per ripensare a loro con un sorriso.
Si alzò, passando una mano attraverso la folta chioma di capelli, e raggiunse l’acquario, appoggiandosi al vetro con un braccio. Quel sogno aveva risvegliato ricordi, emozioni che aveva troppo spesso respinto con codardia. Cose di cui credeva di essersi liberata, ma che invece erano solo abilmente nascoste, in attesa di essere rispolverate, insieme al loro carico di dolore. Si accorse di essere rimasta a fissare il vuoto troppo a lungo quando i due piccoli pesci persero i loro contorni, diventando semplici macchie arancioni e bianche che si mescolavano all'azzurro.
Diede un sospiro, appannando leggermente il vetro, e con una mano si stropicciò le palpebre, nel tentativo di rimettere a fuoco la vista.
"Non vi ho ancora dato un nome", sussurrò, picchiettando sull'acquario con un dito. I pesci la ignorarono beatamente, impegnati nel loro giro di ricognizione.
Shepard non aveva potuto fare a meno di informarsi sulla natura di quelle carpe, scoprendo che erano considerati attualmente degli animali vertebrati più longevi della Terra. Un esemplare, di nome Hanako, aveva addirittura vissuto per oltre due secoli… almeno, questo era ciò che aveva trovato su Extranet.
"Piccoli bastardi", disse con un sorriso, "ricordatevi di me quando io non ci sarò più. E raccontate alla vostra prole di come abbiate vissuto nell'acquario del leggendario Comandante Shepard e, soprattutto, di come non vi abbia lasciati morire di fame", aggiunse, premendo il pulsante per l'alimentazione automatica.
Era buffo... due piccoli pesci inutili e ignari avrebbero avuto diritto a qualcosa che lei neppure poteva a sperare, e per farlo, avrebbero solo dovuto continuare a nutrirsi, senza muovere un muscolo.
Fortunatamente, a impedirle di andare avanti con quel monologo delirante, ci pensò la voce di EDI, facendola sobbalzare.
“Comandante, mancano venti minuti all’attraversamento del portale”.
Shepard annuì, mormorando stancamente un “ricevuto”. Si concesse una rapida doccia e poi iniziò a vestirsi, assemblando pezzo per pezzo la corazza.
Non aveva problemi con le missioni in solitaria, non la spaventavano. Era addestrata per affrontare molto di peggio ed era sicura delle sue capacità... ma l’idea di doversi infiltrare in una prigione Batarian era qualcosa che le faceva accapponare la pelle, perché sapeva bene ciò che vi avrebbe trovato. Si ripromise di mantenere il sangue freddo e di affrontare tutto con razionalità, accantonando i sentimenti e i ricordi che per tanti anni l’avevano portata a mettersi sulla difensiva solo a sentire nominare quella specie. Hackett aveva chiesto il suo aiuto perché si fidava di lei, e lei non lo avrebbe deluso, anche se l’Alleanza, col tempo, era ampiamente riuscita a deludere lei.
 
 
 
Erano passati più di due giorni da quando Shepard si era messa in comunicazione con la Normandy per l’ultima volta, riferendo a Joker l’imminente cambio di rotta. Apparentemente era diretta verso una base scientifica situata nel bel mezzo di un asteroide, ad una distanza relativamente breve dal portale di quel sistema. Poi le comunicazioni si erano interrotte del tutto, lasciando l’equipaggio totalmente in balia di se stesso, nel buio più totale.
A turno, almeno una volta, ogni membro della squadra si era recato in quelle ore fino al ponte dei comandi, chiedendo con insistenza notizie a Joker, visto che Miranda si rifiutava di comunicare con chiunque… e in ogni caso, la risposta era stata sempre la stessa “non ci sono novità”.
Allo scattare delle 49 ore, Thane si alzò finalmente dalla sua branda, deciso a farsi ricevere da chi, a tutti gli effetti, era in quel momento l’unico comandante in carica sulla Normandy.
Miranda aveva inizialmente provato ad accampare scuse, alzando il tono di voce per farsi sentire al di là del portellone, ma vista l’insistenza del suo interlocutore, alla fine si decise a riceverlo, mandando all’aria tutti i buoni propositi di mantenere un atteggiamento tranquillo e distaccato. Thane entrò spedito, fermandosi solo a due passi dalla scrivania.
“Se sei venuto fin qui per chiedere notizie di Shepard, Krios, mi dispiace ma hai sprecato solo tempo”, esordì lei, senza neanche staccare gli occhi dal terminale. “Quando saprò qualcosa, l’equipaggio verrà informato”.
“Non sono venuto qui per questo. La nave è tua adesso, Lawson… perché te ne stai con le mani in mano?”, domandò lui senza esitazione.
“E che cosa dovrei fare secondo te?”, ribatté lei.
“Organizzare una squadra di ricerca, per esempio. O hai intenzione di aspettare che passi ancora un altro giorno?”
“Credi che io non ci abbia pensato? Ma è fuori discussione… Se Shepard, in qualche modo, non ce l’ha fatta… chi ci dice che la situazione per noi possa cambiare? La responsabilità è sua. Ha lasciato l’equipaggio senza fornire alcuna giustificazione… per quanto ne so potrebbe anche essere fuggita”.
“Come puoi anche solo pensare una cosa del genere?”
“Solo perché vai a letto con qualcuno, Krios, non vuol dire che lo conosci tanto bene… “
Thane dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per restare calmo davanti a quell’affermazione, e Miranda sembrò accorgersene, perché prese a mordersi le labbra con un’insicurezza di cui lui non avrebbe mai sospettato.
“Per favore, dimentica quello che ho detto…”, disse l’attimo dopo, addolcendo lo sguardo. “Credimi, sono preoccupata quanto te, quanto tutti dentro questa nave. Ma non posso rischiare l’equipaggio, non alla vigilia della missione più importante”.
“La maggior parte delle persone si trovano qui solo perché si fidano di lei, Miranda. Senza di lei, tanto vale ritirarci”, rispose lui, appoggiando le mani sul tavolo e puntando i suoi occhi direttamente in quelli azzurri dell’Umana.
“Shepard non è indispensabile”.
“Allora perché il tuo Uomo Misterioso si è preso la briga di riportarla in vita? Con quel denaro avrebbe potuto mettere su un esercito venti volte più numeroso di questa squadra”.
“Ci serviva la sua fama, ci servivano i suoi ideali…”
“E adesso siete pronti a farne a meno? Ora che avete una squadra di burattini da manovrare?”
“Se perdo il mio equipaggio, chi si occuperà dei Collettori, Krios?”
Entrambi alzarono esponenzialmente il tono di voce e Miranda si mise in piedi, sentendo il sangue ribollirle nelle vene.
“Non puoi dare per scontato che Shepard non tornerà mai più. Potrebbero averla catturata”.
“Shepard è sopravvissuta a ben altro… L’ipotesi della cattura è probabile, certo, ma remota”.
“Per te è più plausibile che sia fuggita, dunque?”, domandò lui, con eccessiva rabbia.
“Razionalmente, non la credo capace di un gesto simile, ma bisogna vagliare tutte le ipotesi”.
“Allora considera anche l’ipotesi di riunire una squadra per cercarla…”
“Ci ho pensato… ci ho pensato a lungo, ma non è facile nella mia posizione. Cerberus inizia a insospettirsi, oramai è solo questione di tempo prima che venga a scoprire che qualcosa è andato storto”, rispose lei, camminando verso l’oblò alla sua destra per smaltire in parte la tensione.
“Qui c’è in ballo la vita di Shepard, quanto pensi che me ne importi di cosa racconterai al tuo Uomo Misterioso?”
“No, qui c’è in ballo la vita di tutti! Perché è questo che mi stai chiedendo… rischiare le nostre vite per gettarci completamente alla cieca in una ricerca disperata!”, esclamò lei, voltandosi con rabbia per incontrare due occhi neri come il petrolio.
“E Cerberus ci sta chiedendo di tentare l’attraversamento di un portale che non ha mai risparmiato nessuna nave… cosa c’è di diverso?”
“E’ quella la nostra missione, è per quella che ci siamo preparati. La sparizione di Shepard è… è un dannatissimo intoppo”.
Poche volte Thane aveva davvero perso la calma durante una discussione, ma quella fu una di quelle rare, rarissime volte in cui sentì davvero il suo proverbiale controllo venir meno. Possibile che per gli esseri Umani il valore della vita si misurasse in numeri? No, non poteva essere così per tutti, non lo era per Shepard, e di lei si fidava ciecamente.
Fino a quel momento non si era mai fatto scrupoli, era qualcosa che la natura del suo lavoro gli proibiva categoricamente… ma adesso iniziava a rendersi conto che gli importava davvero della motivazione che teneva in piedi quella missione, e non era più certo di condividerla, non se a un prezzo così alto. Socchiuse brevemente gli occhi, nel tentativo di mettere a tacere il bisogno istintivo di sollevare il primo oggetto disponibile per scagliarlo su una parete, poi si ricompose, intrecciando le mani dietro la schiena. Un gesto avventato avrebbe potuto placare momentaneamente la sua rabbia, certo, ma a ben poco sarebbe servito.
“Spero tu ti renda conto che questa missione, senza Shepard, può considerarsi fallita”, disse infine, quasi in un sussurro.
Miranda si portò una mano sulla fronte, massaggiandosi una tempia.
“Non…”, principiò, prima di voltarsi di scatto in risposta a un rumore familiare.
“Miranda”, Jacob si precipito in cabina, senza preoccuparsi di bussare. “Ci sono notizie. Seguimi… EDI ha intercettato un segnale SOS”, aggiunse.
Miranda non perse tempo, seguita a ruota da Thane. Ogni possibile tensione fra loro era scomparsa all’istante per fare spazio a una sensazione di totale angoscia e impazienza. Durante il brevissimo tragitto fra la cabina e l’ascensore si accodò anche Garrus, chiedendo immediatamente notizie. Nessuno seppe dargli le risposte che voleva… dovettero attendere di trovarsi direttamente dietro allo schienale di Joker per saperne di più.
“Dov’è Shepard?”, domandò Thane, scavalcando la voce di Miranda.
“Stiamo andando a prenderla…”, rispose il pilota, concentrato.
EDI spiegò dettagliatamente la natura della richiesta che aveva intercettato, mentre il pilota si affaccendava sulla plancia dei comandi, dirigendosi a tutta velocità verso l’asteroide.
“Quanto tempo abbiamo?”, domandò Garrus alla fine di quella spiegazione, senza staccare gli occhi dal terminale che illustrava l’attuale situazione del corpo celeste, scagliato prepotentemente verso il portale che loro stessi avrebbero dovuto attraversare prima dell’impatto.
“Cinque, sei minuti al massimo”, mormorò Joker, stringendo le labbra.
Un recupero pulito e veloce era l’unica cosa che avrebbe potuto salvare la vita non solo a Shepard, ma alla Normandy intera, e lui era dannatamente consapevole di avere ancora una volta quell’enorme responsabilità sulle spalle.





 

Ahèm, si. Devo dire che l'umore di questi giorni mi ha un pò condizionato nella stesura di questo capitolo. Ci tengo però a chiarire una cosa... ovvero, mi dispiace per la posizione che ho dato a Miranda. Mi piace il suo personaggio, col tempo l'ho davvero rivalutato molto, ma resto dell'opinione che fino ad un certo punto della trama lei resti fedele più a Cerberus che a Shepard. Detto questo... ho trovato che l'Avvento sia davvero carico di incongruenze, conti che non quadrano... forse è anche per questo che mi è venuto spontaneo inserire un momento di tensione... perchè per quanto ne sappiamo Shepard ha davvero lasciato la Normandy senza fornire spiegazioni e dopo due giorni immagino che si sia scatenato il panico più totale. Va bene, ora la smetto di giustificarmi e vi invito a esprimermi le vostre critiche in merito, se ce ne sono - perchè sono dannatamente insicura su come ho gestito la situazione (oh, ma che simpatica novità).
Vabè, vi auguro tanta neve (se vi piace), altrimenti tanto sole... io voto per la neve.

Un grazie ad Altariah e Johnee per le loro opinioni, come sempre fondamentali.

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Capitolo 20
*** In The Middle of This Nowhere ***


“Let's kiss while all the stars are falling down 
 Tonight we live like no one is around 
 Forget the lies that we were told 
 Now is the only truth we know 
 Tonight we fly while the stars are falling down 
 We're falling down”
 
 (Hammock, “Let’s Kiss While All the Stars Are Falling Down”)


 [x]
 
 
 
Nessuno sapeva cos’aspettarsi una volta che Shepard ebbe fatto ritorno sulla Normandy.
L’equipaggio aveva provato a fiondarsi nell’hangar principale, in attesa che la sua navetta rientrasse, ma Miranda aveva espressamente richiesto la sola presenza di Mordin e della Chakwas, ordinando a tutti gli altri di tornare nei propri alloggi o, tutt’al più, di aspettare notizie in sala mensa. Le condizioni di Shepard erano sconosciute, per cui era opportuno prepararsi al peggio e con tutta la tranquillità possibile.
Quando la navetta fu dentro, la Normandy era già in procinto di compiere il salto iperluce, col risultato che la Chakwas rischiò seriamente di finire a carponi sul pavimento, se non fosse stato per la prontezza di riflessi di Mordin. Una volta ritrovato l’equilibrio, i tre corsero in direzione del mezzo e aspettarono che il portellone si sollevasse, poi osservarono Shepard uscirne fuori con un balzo. Miranda cercò di squadrare il suo volto, alla ricerca di un indizio qualunque, mentre il Salarian era già pronto col suo factotum per una scansione completa.
“Tornate alle vostre postazioni”, sibilò Shepard, lanciando con rabbia il suo casco per terra.
La Chakwas e Mordin si scambiarono un’occhiata preoccupata, Miranda invece si fece avanti assumendo un’espressione piuttosto minacciosa.
“Abbandoni la nave per due giorni e questo è tutto quello che sai dire?”, domandò, con un tono palesemente accusatorio.
Shepard sollevò finalmente gli occhi, incontrando quelli di lei.
“Fatti da parte, Lawson”.
“No. Esigo una spiegazione”.
Shepard dovette distogliere lo sguardo per evitare di avventarsi su di lei a mani nude. Trovare quello bonario della Chakwas, per un istante, ebbe il miracoloso effetto di calmarla.
“L’avrai a tempo debito. Ora, per favore…”
“Shepard, stavamo rischiando tutti…”
“Miranda!”, esclamò lei, sentendo la rabbia farsi di nuovo prepotente, “Non stavate rischiando proprio nulla. Non vi ho chiesto di aspettarmi, e sono sicura che EDI e Moreau sapessero perfettamente cosa stava succedendo, almeno un’ora prima dell’impatto. E adesso fammi il piacere, togliti di mezzo…”
Miranda la guardò sbalordita, senz’avere il coraggio di replicare. Scopriva solo ora che il suo stesso equipaggio le aveva nascosto dei dettagli terribilmente importanti, e tutto questo soltanto per la speranza che lei riuscisse a contattarli in tempo.
Si sentì oltraggiata, delusa… iniziò a dubitare perfino del suo ruolo all’interno di quella nave. Aveva sempre considerato Shepard come uno strumento nelle mani di Cerberus… nelle sue mani, persino, e invece adesso si rendeva dolorosamente conto che lo strumento era sempre stato lei.
Decise a quel punto di prendersi la serata per sé, rinchiudendosi nella sua cabina più in fretta che poté, spegnendo ogni dispositivo, rifiutando qualunque visita. Sapeva che Jacob sarebbe stato l’unico a preoccuparsi per lei, e questo, se possibile, la faceva infuriare ancora di più. L’Uomo Misterioso avrebbe tentato di contattarla per l’ennesima volta, ma stavolta voleva che fosse Shepard ad esporsi in prima persona, giustificando quei due giorni di buio totale… era stanca di lavarle sempre i panni sporchi, e per cosa, poi? Per ritrovarsi con un equipaggio che tramava alle sue spalle, come se fosse lei il nemico da contrastare, come se tutte le sue azioni non fossero state dettate solo ed esclusivamente dal dovere di proteggerlo, quell’equipaggio.
Quella notte si addormentò con la rabbia a stringerle i denti, e sebbene avesse voluto piangere, la sua dignità glielo impedì… e lei fu grata a se stessa, per essere riuscita a risparmiarsi almeno quell’ultimo smacco.
 
 
 
Neppure Thane sapeva cos’aspettarsi, una volta che Shepard rientrò a bordo della Normandy, ma ciò che proprio non riuscì a prevedere fu l’attesa snervante che dovette sopportare prima di vederla. Erano passate tre ore dall’attraversamento del portale e le chiacchiere provenienti dalla sala mensa erano diminuite fino a spegnersi totalmente. L’orologio di bordo segnava le 23 e la notte iniziava a farsi sentire, portandosi dietro un insostenibile carico di silenzio.
“Shepard ha richiesto espressamente di non essere disturbata”. Questa era la frase che EDI aveva rifilato a chiunque avesse chiesto il permesso di raggiungerla in cabina, dopo almeno un’ora passata a farsi visitare dalla Chakwas. Thane l’aveva già sentita cinque volte quella frase, durante la serata. Se solo lei avesse saputo ciò che aveva provato in quei due giorni, era sicuro che non gli avrebbe mai impedito di vederla…
Cercò di convincersi che probabilmente fosse solo sfinita e che per questo motivo avesse preferito addormentarsi immediatamente, così da poter essere pienamente operativa il giorno dopo, ma ogni volta che tentava di giustificarla, un’altra parte di sé gli faceva notare con cinismo che quell’ipotesi non aveva senso. Avrebbe almeno potuto inviargli un messaggio, o comunicargli qualcosa attraverso EDI… perché sparire così, senza una parola?
 
Ormai tutta la squadra era a conoscenza di ciò che era successo, ma nessuno osò formulare ipotesi, almeno non ad alta voce. Garrus continuava a sostenere come, secondo lui, lei non fosse riuscita a sventare un attacco terroristico, e questo avrebbe sicuramente motivato il suo volersi isolare dal mondo, ma che senso avrebbe avuto inviare un solo soldato per un’operazione così delicata?
Fra l’impazienza di ricevere sue notizie e quella di scoprire cosa fosse realmente successo su quell’asteroide, Thane non provò neanche a stirarsi sulla sua branda per cercare di dormire. Passò le ore successive tirando a lucido le proprie armi, anche quelle che non aveva mai avuto l’occasione di usare e, quando terminarono, pensò di uscire a preparare una tazza di thè. Questo solo dopo l’ennesima richiesta rifiutata da EDI.
Ciò che non si sarebbe aspettato, neanche stavolta, fu vedere il portellone della sua cabina aprirsi di fronte a sé, e Shepard immediatamente dietro. Non ebbe il tempo di aprire bocca che lei era già su di lui, aveva intrecciato le braccia intorno al suo collo, la testa seppellita nell’incavo della sua spalla, quasi a voler scomparire. La strinse forte, affondando una mano nei suoi capelli, cingendole la schiena con l’altra… e bastò questo per placare un’inquietudine che durava da troppi giorni, bastò sentire di nuovo il suo profumo e il suono del suo respiro.
 
Quando lei si distaccò leggermente per poterlo guardare negli occhi e regalargli un minuscolo sorriso, lui notò un profondo taglio sull’arcata sopraccigliare sinistra e un ematoma sulla mandibola destra. Non lesse altro che stanchezza nei suoi occhi, stanchezza mista a rassegnazione e… sollievo, forse, per essere finalmente a casa. Nessuno dei due ebbe il coraggio di proferire parola, almeno per i primi minuti. Semplicemente lui la prese per mano e la condusse davanti alla sua branda, sedendosi per consentirle di sdraiarsi e poggiare la testa sulle sue gambe. Poi spense le luci, così che restò solo l’azzurro del Drive Core a definire i loro contorni nel buio.
 
“Mi ricorda quella sera…”, esordì lei con voce roca, mentre lui la copriva con un plaid. Cercò poi la sua mano sotto la coperta, per stringerla fra le sue dita e accarezzarne il dorso con un pollice.
“Possiamo chiedere a Kasumi di procurarci un’altra di quelle bottiglie”, rispose lui, sorridendo lievemente nella penombra.
“O possiamo semplicemente fingere di essere ubriachi, così da evitare l’odioso mal di testa del giorno dopo”, rispose lei, coprendo la sua mano con l’altra rimasta libera.
“Ancora meglio”.
“Ho intenzione di riunire l’equipaggio domani per fornire un resoconto di quello che è accaduto in questi giorni, ma ci tenevo a parlarne prima con te”, disse poi lei di colpo, come se fino a quel momento avesse trattenuto tutto dentro fino a scoppiare. “Voglio scusarmi, e giustificare le mie azioni, ma tu… Ti ho pensato tanto”, proseguì, respirando profondamente.
“Non devi giustificarti con me, Siha”, rispose lui dopo un attimo di silenzio. “So che hai agito per il meglio, non dubiterei mai del tuo giudizio”.
Lei scosse la testa lievemente e lui poté sentire i suoi capelli solleticare le sue gambe, come minuscoli serpenti.
“Non voglio farti le mie scuse da Comandante, Thane”.
Riuscì a dire solo questo, prima di bloccarsi, preda delle sue stesse emozioni.
“Ugualmente, non è necessario”, ripeté lui, scostandole una ciocca di capelli dalla fronte.
“Lo è. Perché se fossi sparita nel nulla…”
“Ma sei qui”.
“Ho rischiato di morire… più di una volta. Non so quale… divinità o entità mi abbiano fatta risvegliare, dopo due giorni di sedativi. Una parte di me, credo, si era già rassegnata a restare per sempre su quell’asteroide… non so quante altre volte riuscirò a scampare alla morte”, disse lei con angoscia, perfettamente consapevole che quelle parole l’avrebbero ferito, ma incapace di trattenere ancora altro dolore.
“Vuoi scusarti con me… perché hai rischiato di non farcela?”, domandò lui interdetto.
“Sì. Perché…”, lei scosse di nuovo la testa, scacciando ciò che l’istinto tornava a suggerirle con prepotenza. “Perché hai riposto tanta fiducia in me, e non posso abbandonarti. Non posso abbandonare te o il mio equipaggio proprio adesso”.
Lui prese ad accarezzarle i capelli, sciogliendo il silenzio con un sospiro sommesso.
“Dovrei essere io a scusarmi. Dovrebbe essere il tuo equipaggio a scusarsi, per non essere stati con te quando ne avevi bisogno”.
“No. Voi non avevate nessun ruolo in questo. Ho deciso io di accettare di svolgere questa missione in solitaria, non voi. Per conto dell’Alleanza, oltretutto. E nessuno di voi verrà mai coinvolto, nessuno di voi doveva sapere”.
“E’ finita adesso…”
“Sono morte più di trecentomila persone in quel sistema… non sarà mai finita”, gemette lei stancamente.
Gli raccontò tutto ciò che era successo, senza sorvolare su alcun dettaglio, e fu solo quando iniziò a parlare dell’attivazione del Progetto che lui la fermò, asciugando con una mano la lacrima che stava scivolando lungo la sua guancia.
“Non avevi scelta, e anche se l’avessi avuta, avresti scelto per il meglio”.
Lei annuì, sapendo nel profondo che quelle parole erano vere. Non si pentiva, come avrebbe potuto? Aveva visto ciò che i Razziatori erano in procinto di compiere, in quella visione… sapeva che il suo istinto aveva ragione, così come l’aveva avuta su Eden Prime, ma sentirselo ripetere anche da lui fu quantomeno confortante.
“Mentre tentavo di seminare quelle guardie ho pensato a te… immaginando quante volte tu ti sia ritrovato in una situazione simile in passato. Ed è stato solo quando ho realizzato che al tuo ritorno tu non avevi nessuno ad aspettarti che mi sono decisa a lasciare la mia cabina stasera…”, confessò con un pizzico di vergogna.
“Beh, sono contento che il mio passato deprimente ti abbia portato qui da me”, rispose lui, con un tono volutamente scherzoso.
Lei rispose con una debole risata, prima di stringergli le mani sotto alla coperta.
“Davvero, non so come tu abbia fatto per tutti quegli anni…”
“Quando non hai motivo di vivere, non c’è niente che possa farti male”.
“Tu… non ti senti così adesso, vero?”
Stavolta fu lui a stringerle le mani, come a rimarcare il concetto che avrebbe espresso l’attimo dopo.
“Non potrei sentirmi più diversamente, Siha”.
Lei sorrise. Un altro di quei sorrisi che forse lui non avrebbe visto con gli occhi, ma che sentì chiaramente a pelle, come se da quel sorriso si fosse irradiato un calore in grado di riscaldargli il cuore.
“Pensi di volerti addormentare, prima o poi?”, le chiese poi, imitando un tono di rimprovero, lo stesso tipico della Chakwas.
“Sì, ma non senza di te… mai più senza di te”.
 
 
 
L’equipaggio si era riunito in mattinata intorno al grande tavolo ovoidale della sala briefing, su richiesta di Shepard. Alcuni, come Grunt e Jack, manifestavano chiaramente una profonda insofferenza; aspettavano già da una ventina di minuti e ben poco interessava loro di conoscere i dettagli della missione di cui sicuramente Shepard avrebbe voluto discutere. In fondo non li riguardava, e sapere che il Comandante avesse fatto ritorno era più che sufficiente. Altri, come Zaeed e Samara, erano chiaramente altrettanto disinteressati, ma perlomeno non sbuffavano a distanza di cinque minuti o camminavano in circolo come animali in gabbia. Jacob era appoggiato al tavolo con entrambe le mani, i muscoli particolarmente tesi… teneva costantemente lo sguardo puntato su Thane, che invece non ricambiava affatto l’interesse, limitandosi ad osservare il pavimento. Quello che non sapeva, però, era il motivo per cui Jacob lo stesse osservando. Qualcosa di cui forse neppure l’ufficiale stesso si era reso conto.
La sera precedente non era riuscito a fare a meno di origliare le ultime frasi che Miranda aveva scambiato con l’assassino, poco prima di fare irruzione in cabina. Gli ci erano voluti un paio di secondi per inquadrare la situazione e altrettanti per convincersi effettivamente che avesse sentito bene. Mai e poi mai si sarebbe aspettato un comportamento simile da quello che considerava solamente un mercenario… anzi, avrebbe scommesso su tutto il contrario a dirla tutta. Sin da quando Krios aveva messo piede sulla Normandy, lui si era segretamente ripromesso di tenerlo d’occhio - questo lo sapeva persino Shepard - ma se in un primo momento aveva attribuito quella strana richiesta di lavorare senza compenso alla semplice volontà di cercare un modo dignitoso di morire, dopo la discussione con Miranda dovette semplicemente arrendersi al fatto che avesse sbagliato di netto sul suo conto. Quell’assassino non si trovava lì per soldi, o per la gloria… aveva deciso di unirsi a loro per un ideale nobile quanto il suo, e il solo pensiero lo portò a trasformare la diffidenza e il disprezzo in assoluto rispetto. Qualcosa che forse non avrebbe mai ammesso, ma che sapeva di provare nel profondo.
Se Thane avesse incontrato il suo sguardo, avrebbe trovato sorpresa e forse un pizzico di ammirazione in quegli occhi da umano, ma le uniche occhiate di cui sentiva realmente il peso addosso erano quelle di Miranda, che attendeva a braccia conserte da quando aveva messo piede in quella stanza, ed era stata la prima. Non aveva detto una parola per tutto il tempo e il suo viso sembrava pietrificato dall’indignazione. Chiunque si sarebbe aspettato una sfuriata plateale, per questo Jack aveva già scommesso cinquanta crediti con Kasumi, puntando su Shepard.
 
Quando Shepard arrivò, praticamente trafelata, l’equipaggio assunse una postura composta e rivolse lo sguardo su di lei, che a parte le evidenti ferite sul volto, sembrava non mostrare alcun segno di quei due giorni di totale assenza.
“Se vi ho riuniti tutti”, cominciò lei, senza perdere tempo, “è perché sento di dovervi delle spiegazioni”. Attivò con una mano il dispositivo olografico di fronte, sul quale iniziarono a prendere forma dei documenti e delle immagini piuttosto confuse. “Tutto quello che è successo nelle ultime ore, ci tengo a precisarlo, non era previsto. L’Alleanza si è rivolta a me in via del tutto confidenziale, chiedendomi un piccolo favore di natura personale. Si trattava di un’operazione semplice, di cui non vi avrei mai parlato, se solo adesso la notizia non fosse ormai di dominio pubblico”.
“Immagino che vi starete chiedendo come si è arrivati alla distruzione di un intero portale e del conseguente sterminio di un’intera colonia… se si sia trattato di un errore, di un atto terroristico o di qualcosa di più…”, proseguì, facendo scorrere le immagini fino al manufatto dei Razziatori nel laboratorio sull’asteroide.
“Shepard, quello è…”, tentò di chiedere Tali, puntando l’indice verso il centro della sala.
“E’ un manufatto dei Razziatori. Qualcosa di simile alla sonda trovata due anni fa su Eden Prime, ma di potenza sicuramente maggiore”, spiegò lei, ricevendo in cambio una serie di occhiate incredule.
“Una semplice missione di recupero si è trasformata in un disastro di enormi dimensioni solo a causa di quella sonda. La persona che dovevo recuperare, la dottoressa Kenson, aveva scoperto il manufatto mesi addietro, ipotizzando l’arrivo imminente dei Razziatori dopo aver ricevuto lo stesso tipo di visioni che ho avuto anche io su Eden Prime. Ha così dato il via al Progetto, un’arma in grado di distruggere il portale che avrebbe salvato la Galassia da un invasione che pressappoco sarebbe cominciata ieri. I Batarian l’avevano scoperta e imprigionata, ma nessuno sapeva cos’avesse organizzato, neppure l’Alleanza era a conoscenza di quella stazione”.
“E tu ti sei fidata, Shepard?”, la interruppe Garrus.
“Ho avuto una visione anche io, la stessa. E sì, sono consapevole che come la prima volta, anche adesso non servirà a nulla. Fino a prova contraria le visioni “mistiche” non sono ancora considerate delle prove da portare in tribunale… ma ho avuto ragione allora e ce l’ho anche adesso”, rispose lei, determinata.
“Le cose si sono complicate quando l’intero team e la stessa Kenson si sono dimostrati indottrinati. In effetti, l’idea che fossero stati a contatto col manufatto per tutto quel tempo non mi piaceva, ma dovevo saperne di più. Per farvela breve, quando hanno capito che io stessa avrei votato per l’attivazione del Progetto, mi hanno messa KO e sedata per circa 48 ore di seguito, prima che mi svegliassi quando mancavano solo due ore all’arrivo dei Razziatori. Questi erano stati i loro calcoli…”
“Ora… L’Alleanza non si aspettava minimamente un risvolto simile, e ben presto dovranno fornire una giustificazione ai fatti di ieri. Hackett salirà a bordo della Normandy fra qualche ora, ma non mi serve la sua conferma per sapere che ci sarà un processo. Però ci tengo a precisare una cosa… nessuno di voi era a conoscenza di cosa è successo, quindi nella remota ipotesi che qualcuno di voi fosse chiamato a deporre, fatemi il favore di rimanere in silenzio, dall’inizio alla fine”.
“Ma Shepard…”
“Nessun ma, Vakarian. E’ un ordine che non si discute”.
“E il Consiglio? Come pensi di…”
“A questo penseremo dopo. Abbiamo una missione da compiere. La distruzione del portale Alpha ci ha dato un vantaggio, ne sono convinta, ma finchè i Collettori continueranno a rapire i nostri coloni, ci saranno sempre loro in testa. Lo scontro con i Razziatori è solo rimandato, perciò vorrei che tutti voi vi concentraste sul nostro obiettivo, dimenticando questa discussione. Dovevate sapere, perché siete il mio equipaggio, ma il discorso finisce qui”.
Shepard si era appena voltata per uscire dalla stanza, lasciando l’equipaggio completamente incredulo, quando si fermò sui suoi passi. Si voltò, cercando lo sguardo di Miranda.
“Hai fatto un ottimo lavoro, Lawson”.
 
 
 
Miranda ebbe il coraggio di raggiungere Shepard solo una volta che lei fu davanti all’ascensore. Sul suo viso era sparita la frustrazione e la rabbia del giorno prima, sostituite da qualcosa simile allo sconcerto.
“Che significa, Shepard?”, domandò, stringendo le palpebre.
“Quello che hai sentito”, rispose lei, senza voltarsi, “né più, né meno”.
“Solo ieri mi hai…”
“Ieri, Miranda, avevo appena assistito alla morte di trecentomila persone… Perdonami se non avevo voglia di spiegarmi”.
“Sai della discussione che ho avuto con Krios?”
Shepard si girò verso di lei stavolta, guardandola negli occhi.
“So tutto, e sono contenta di come tu abbia gestito la situazione. Non avrei tollerato eroismi inutili. Omega 4 è l’obiettivo, la squadra è da salvaguardare, non io”.
Miranda non riuscì a rispondere, spiazzata da un discorso che non si aspettava minimamente.
“Ho già provveduto a contattare l’Uomo Misterioso, tu non devi preoccuparti di nulla. E semmai dovesse succedermi qualcosa, sono sicura che sapresti guidare questa squadra degnamente, l’hai dimostrato”, proseguì lei.
Miranda si limitò ad annuire. Un semplice “grazie” sarebbe stato troppo persino in quelle circostanze.
Shepard la tolse dall’impiccio di aggiungere altro ed entrò in ascensore per raggiungere la sua cabina, dove avrebbe iniziato a compilare il rapporto che Hackett avrebbe preteso quel pomeriggio stesso.
 
Aveva appena iniziato quando la curiosità prese il sopravvento: doveva assolutamente sapere come la notizia fosse stata gestita dai media, e ciò la portò immediatamente su Extranet.
“Il peggiore attacco terroristico degli ultimi tempi… Oltre 300.000 i morti sulla colonia di Aratoht, i Batarian pretendono giustizia… Voci non confermate parlano del coinvolgimento dell’Alleanza… I portali possono essere distrutti…”
Trecentomila morti. Leggerlo sul radar non era stato come apprenderlo da Extranet, sulle notizie corredate da immagini devastanti che erano solo un tentativo di ricostruire l’attuale condizione di un sistema attualmente irraggiungibile, ma ugualmente terribili. Aratoht era sempre stato un brutto posto, questo lo sapeva… più di due terzi della sua popolazione era formata da schiavi che lavoravano incessantemente nelle miniere, e forse proprio per questo nessuno di loro si sarebbe meritato una fine simile. Quanti umani rapiti in giro per la Galassia erano stati eliminati nello spazio di pochi secondi, insieme ai loro aguzzini? Non avrebbe mai voluto un peso simile sulla coscienza, soprattutto perché l’unica prova in suo possesso era qualcosa che non avrebbe mai convinto le ottuse personalità del Consiglio. Chiuse il suo terminale di botto, era già abbastanza doloroso leggere le notizie infiocchettate ad arte dai maledetti giornalisti, e soffermarsi sui commenti che la gente scriveva senza ritegno sarebbe stato ancora più insopportabile. Riprese a lavorare sul suo rapporto finchè non fu completo, preciso in ogni dettaglio. Era necessario che non tralasciasse nulla, perché a questo punto si trattava anche della sua carriera, oltre che della sua coscienza.
 
 
 
Veder salire Hackett a bordo di una nave di Cerberus – soprattutto visto che non si trattava di una nave qualunque – le sembrò incredibilmente strano. Lo stesso Ammiraglio non volle dare neppure uno sguardo alla Normandy, come se ci tenesse a non conservare alcun ricordo riguardo a quella breve visita. Giunsero in sala briefing* a passo svelto, lesinando sui formalismi. A quel punto Hackett pretese le ovvie informazioni e lei gli fece un breve resoconto di ciò che era successo, aiutandosi con alcune prove raccolte durante la sua permanenza sulla base scientifica della Kenson.
Osservò Hackett camminare con una mano sotto al mento, pensieroso, prima di schiarirsi la voce e parlare.
“Fosse per me, Shepard, le avrei dato una medaglia per quello che è successo”.
Era indubbio che l’Ammiraglio si fidasse di quel soldato e che credesse ad ogni singola parola del suo racconto, probabilmente perché la Kenson era riuscita a mettergli la pulce nell’orecchio, settimane addietro. “Ma la distruzione di quel portale ha sconvolto la comunità galattica, e francamente dubito che riusciremo a tenere sotto controllo i Batarian ancora per molto, visto e considerato il pessimo sangue che corre fra le nostre specie”, la guardò dritto negli occhi e fu certo che lei, in quell’istante, avesse già capito. “Posso prometterle che farò tutto ciò che è in mio potere per difenderla, Shepard, ma quando verrà il momento, anche lei deve promettermi che ci sarà”.
Shepard si passò una mano sul volto, stringendo eccessivamente la presa intorno al datapad. Rifletté brevemente per qualche secondo, poi decise che non avrebbe accettato tutto senza dire una parola, non sarebbe stato da lei.
“Mi sta dicendo che mi userete come capro espiatorio… è di questo che si tratta, non è vero?”, domandò a bruciapelo, cercando di mantenere il tono di voce più neutro possibile.
“Comandante, non possiamo mentire su quello che è avvenuto”.
“Ci andrò di mezzo soltanto io. Per questo avete scelto me… perché ero, e rimango, nella posizione di non poter danneggiare in alcun modo l’Alleanza, dal momento che il mio titolo non mi è mai stato restituito. Formalmente, io non sono più nessuno. Neanche il mio stato di ex Spettro può aiutarmi…”, disse.
“Shepard, la prego di calmarsi. La situazione non è così…”
“No, signore. Con tutto il permesso, non può chiedermi di calmarmi”, ribatté lei, stavolta con maggiore foga. “Perché non mandare una piccola squadra in incognito a salvare la dottoressa? Perché scomodarvi a chiedere aiuto a qualcuno che, di fatto, si è alleato ad un’associazione che molti, compreso l’Alleanza, considerano terrorista? Semplice, perché voi sapevate, perché in questo modo nessuna responsabilità sarebbe ricaduta su di voi… E così sarà, di fatto”.
“Mi dispiace, Shepard, ma non c’era altro modo. Lei è l’unico soldato di cui l’Alleanza si sarebbe fidata in qualunque situazione, e continuerà ad essere così. Potranno non voler sentire ragione al Consiglio, ma sia lei che io sappiamo che ciò che ha fatto è stato di vitale importanza. E lo sosterrò in qualunque momento”.
Shepard socchiuse brevemente gli occhi e inspirò a fondo, nel tentativo di ingoiare il rospo. Non riusciva a credere che l’Alleanza, ancora una volta, avrebbe fatto di tutto per far ricadere la colpa solo su di lei, esattamente come per la distruzione della Destiny Ascension due anni prima.
“Ad ogni modo, signore, qui c’è il rapporto…”, concluse poi, avvicinandosi all’Ammiraglio con il datapad in mano. Sapeva che nulla ormai avrebbe cambiato le cose e l’unica cosa che desiderava al momento era che Hackett sparisse dalla sua vista.
“Non è necessario, Comandante. Non ho bisogno di leggerlo per sapere che lei ha fatto la cosa giusta. Vada avanti per la sua strada, ma quando la Terra chiamerà… lei dovrà rispondere”.
Si osservarono per un’ultima volta in silenzio, mentre lei si limitò semplicemente ad annuire, poi Shepard lo accompagnò fino al portellone sul ponte di comando, e dovette costringersi a salutarlo così come l’Alleanza le aveva insegnato, nonostante avesse un’incredibile voglia di prenderlo a pugni… voglia che riuscì a soddisfare solo dieci minuti dopo, nell’hangar delle navette, dopo aver ordinato a Jacob di andare ad allenarsi da un’altra parte.
 
 
 
Eppure… eppure avrebbe dovuto sapere che c’era una precisa ragione se Hackett aveva scelto lei. Avrebbe dovuto avere la furbizia di capire cosa si celava dietro a quella richiesta così strana e personale, quanto inaspettata, invece di fidarsi ancora una volta e rischiare la propria vita per qualcosa che, in fondo, l’aveva di nuovo semplicemente usata. Evidentemente non erano bastati i mesi in cui il Consiglio le aveva dato ripetutamente della pazza, non erano bastate le accuse della stampa, non era bastato il fatto che, pur avendone le prove, ufficialmente i Razziatori venissero ancora considerati come una minaccia fantasma. E chissà, forse dopo la sua ricostruzione l’Alleanza l’aveva abbandonata al suo destino proprio perché sapeva che prima o poi si sarebbe resa nuovamente utile, in altri modi.
Abbandonata… era questa la parola che più di ogni altra sentiva le si addicesse in quel momento. Se davvero Hackett fosse stato sin dall’inizio pienamente consapevole di cosa lei avrebbe trovato su quell’asteroide, allora la sua richiesta diventava più di un favore personale, era quasi la richiesta di un sacrificio. Chiederle di farsi carico di tutte quelle morti, chiederle di portare sulle spalle il peso di un intero sistema andato completamente distrutto e poi chiederle di prendersi ogni singola responsabilità a proposito… davvero l’Alleanza poteva arrivare a tanto?
Quel vortice di pensieri la assalì fino a sfinirla, mentre il suo corpo era impegnato in un allenamento quasi violento ai danni di un logoro sacco da boxe. Era difficile resistere alla tentazione di scoppiare in lacrime, dopo quanto la sua mente le aveva suggerito, era difficile… ma allo stesso tempo era dovuto. Se si fosse lasciata andare proprio adesso, quale speranza avrebbe avuto di vincere quell’ultima battaglia?
Era sicura che poi avrebbe avuto tutto il tempo di fermarsi a riflettere su quanto accaduto, ma solo quando il peso di quelle riflessioni fosse cessato di essere una minaccia. Doveva essere lucida, e doveva esserlo per il suo equipaggio… per coloro che avevano creduto in lei tanto da non lasciarla indietro. Per Joker, che aveva deciso di rischiare alla luce di una minuscola speranza. Per Thane, che non avrebbe esitato a mettere a rischio la propria vita per lei. Per tutti gli altri, che avevano atteso il suo ritorno senza perdere la testa, e persino per Miranda, che era riuscita a sopportare il peso di quella sparizione con dignità.
Si fermò per un attimo ad asciugarsi la fronte solo quando un rumore alle sue spalle l’avvisò che qualcun altro aveva appena osato disturbarla.
“L’equipaggio è preoccupato”.
Sentire la voce di Thane la tranquillizzò quel minimo che bastava per impedirle di urlare di essere lasciata in pace.
“Al momento non è la mia priorità”, mentì lei senza voltarsi, dopo aver dato un sorso d’acqua. Si avventò di nuovo sul sacco da boxe, mentre Thane la raggiungeva.
“Sono preoccupati per te”, continuò lui, fermandosi a mezzo metro da lei. “Per ciò che succederà una volta finita la missione. E sono preoccupato anche io”.
Ammesso che vinceremo.
“Sono cose che non vi riguardano”.
Thane inspirò profondamente, evitando di dire parole che l’avrebbero fatta infuriare ancora di più. Non poteva pensare sul serio che il suo destino non l’avrebbe riguardato, lo sapeva.
Le si avvicinò, prendendola delicatamente per un polso, e mai avrebbe pensato che l’attimo dopo si sarebbe ritrovato a doversi fare da scudo con le braccia per evitare i suoi colpi.
Capì che probabilmente era quella la cosa giusta da fare, lasciarla sfogare su di sé, dandole qualcosa in grado di rispondere ai suoi colpi, a differenza di quel sacco malconcio. Per quanto avesse potuto provare piacere nel picchiare un oggetto inanimato, la soddisfazione di un vero scontro era l’unica cosa che l’avrebbe risvegliata davvero.
 
 
 
“Jack!”
La ladra si era precipitata nel rifugio della biotica in sala macchine, uscendo dall’occultamento solo una volta giunta a destinazione.
“Che vuoi, signorina scommetto-che-Miranda-stavolta-perde-le-staffe?”
“Questa devi proprio vederla… avanti, muoviti!”, la incitò l’altra, chiamandola dalle scalette.
“Se si tratta di nuovo di Grunt e Zaeed che si prendono a testate passo…”
“No, molto meglio! Andiamo… stavolta scommetto almeno cinquecento crediti su Shepard”, ridacchiò la ladra, catturando finalmente l’attenzione della biotica.
Jack sorrise, scendendo con un balzo dalla scrivania sulla quale era appollaiata.
“Alla fine Miranda ha deciso di sfogarsi come si deve?”, domandò, imboccando le scale mentre si sfregava le mani.
“Mi dispiace deluderti, ma stavolta Miranda non c’entra…”
Nel loro tragitto verso l’hangar si tirarono dietro anche Tali, che soffocò un “keelah” non appena furono adeguatamente nascoste in modo che nessuno avrebbe potuto vederle.
“Cinquecento sul Drell”, annunciò Jack con un ghigno, non appena capì su che cosa stessero scommettendo.
“Che cosa sta succedendo?”, sibilò Tali, cercando di farsi spazio fra le due.
“Non lo vedi? Se le stanno dando di santa ragione…”, esclamò la biotica, sghignazzando.
“Ma…”
“Shhh, giù!”, disse Kasumi, occultandosi. Le era sembrato per un attimo di aver visto Shepard guardare in loro direzione, ma l’istante dopo, fortunatamente, la vide di nuovo impegnata in tutt’altro genere di cose.
“Ouch”.
“Che c’è? Fatemi guardare!”
“Shepard ha appena atterrato Thane con un calcio, ehm, non proprio sportivo”, bisbigliò Kasumi. “No, aspetta… adesso lui ha atterrato lei”.
“A-ha… li sento già in tasca quei cinquecento testoni”.
“Pstt… fammi il piacere, Shepard si sta solo preparando per il colpo di grazia”.
“Tu dici? Io vedo solo che Thane gliene para uno dopo l’altro”.
“Argh! Ok, questo era un bel destro…”
“Dici che gli avrà spaccato il naso?”
“No, ma un labbro di sicuro si…”
“Perché non si fermano?”, domandò Tali all’improvviso, strattonando entrambe per le braccia.
“Shh!”, esclamarono le altre due in coro.
“Diamine… non voglio immaginare cosa combinino quei due a letto…”, sbuffò Jack, strappando una risata sommessa a Kasumi.
Tali si portò una mano a coprirsi il visore, ricolma d’imbarazzo. “Forse è meglio chiamare qualcuno… sono sicura che Garrus potrebbe farli ragionare”.
La ladra la afferrò per un braccio prima che potesse farsi scoprire. “Ma dai, non fanno mica sul serio. Zitta e goditi lo spettacolo”, ridacchiò.
“Oh oh…”
“Che cosa? Che succede?”
“Penso che Kasumi abbia appena perso la scommessa… Shepard non si rialza”, disse Jack.
“Forza Shep!”
Se la giapponese avesse potuto improvvisare un balletto con i pon pon, l’avrebbe fatto di sicuro.
“Ragazze… forse dovremmo andare…”, tentò nuovamente la Quarian. Non riusciva a capacitarsi di come, dopo quanto successo, quelle due avessero ancora voglia di perdersi in frivolezze.
“Aspetta…”
“Oh, questa poi… lo sapevo io che non sarebbe finita qui”.
Tali tentò di nuovo di sbirciare, riuscendo solo a scorgere una luce azzurra provenire dal basso.
“Quanto passerà prima che EDI inizi a insospettirsi?”
“Se continuano così, non molto…”
Il suono delle esplosioni biotiche era l’unica cosa che Tali riusciva a sentire da quella posizione, e tanto le bastò per metterla in paranoia.
“Ragazze… non vi siete proprio chieste il motivo di tutto ciò?”, domandò perplessa.
“No”, esclamarono le altre due all’unisono.
“Ah, bella mossa Shep… Dai, dai, dai…”
“Sta’ zitta, tanto manca poco per… un momento…”
“Cosa?”
“Stanno… che diavolo…”
Seguirono cinque secondi di silenzio e quattro occhi spalancati prima che la ladra si decidesse a parlare nuovamente.
“Beh, penso proprio che la scommessa è da considerarsi fallita”, annunciò poi, con evidente disappunto.
“E’ la seconda volta in una giornata, Kas… inizio ad infastidirmi. La prossima volta ci conviene scommettere su quanto sale metterà Gardner nella zuppa”.
“Già… beh, io tolgo le tende signorine… Ci vediamo a cena. Au revoir”.
Kasumi sparì, lasciando Jack e Tali da sole… e a quest’ultima la prospettiva non piacque affatto.
“Quarian, acqua in bocca, mi raccomando”.
Tali scosse il capo infastidita, ignorando tranquillamente quel modo di dire umano. “Non avremmo dovuto”.
“Ma ormai è successo, fattene una ragione”, sorrise Jack, e dopo aver tamburellato un paio di volte sul suo visore, se ne andò anche lei.
 
 
 
“Grazie”, ansimò Shepard, appoggiando la fronte sul suo petto.
“Quando vuoi”.
“Ci sono andata giù pesante…”, aggiunse, sollevando il capo. “Mi dispiace”.
“Non è niente”.
“Non direi”, rispose lei, passando delicatamente l’indice sulle labbra di lui. “Ti servirà un po’ di medigel”.
Thane sbuffò con un sorriso, prendendo la sua mano per posarle un bacio sul dorso. “Quando la smetterai di preoccuparti inutilmente per me?”
“Mai?”
Lui le scompigliò i capelli, prima di stringerla di nuovo a sè.
“Come stai?”, le domandò dopo un attimo di silenzio, sperando stavolta in una risposta sincera.
“A pezzi… Ma è comprensibile, no?”, disse lei, appoggiando la fronte alla sua. “Vorrei solo poter dimenticare tutto… tutto quanto”.
“In questo, almeno tu, sei fortunata…”
“Ti sembra il momento di fare battute?”, sorrise lei, accarezzandogli una guancia.
“In realtà sì, mi sembra il momento migliore”, replicò lui.
“Secondo quale criterio?”
“Hai detto che vuoi dimenticare… ma se non inizi a pensare ad altro, come puoi evitare di ricadere sempre negli stessi ricordi? Forse per noi Drell è diverso, ma io posso dirti cosa faccio quando non voglio ricordare cose spiacevoli”.
“Sentiamo…”, disse lei, mimando un’espressione scettica.
“Penso a te, penso a Kolyat quand’era bambino, penso alla prima volta che sono salito a bordo della Normandy, penso ai tuoi capelli sparsi sul mio cuscino, penso a quello che ho provato quando ti ho abbracciata, ieri…”, rispose lui, prendendole il volto fra le mani. “Penso alle cose che mi rendono più felice, e per un istante dimentico il resto”.
Shepard appoggiò il capo sulla sua spalla, facendosi stringere dalle sue braccia. Trovava incredibile quanto si fidasse delle sue parole, quanto gli sembrassero giuste anche se qualcosa, dentro di lei, continuava a ripeterle che meritava quella sofferenza… perché lei stessa l’aveva causata.
“Ci proverò”, mormorò debolmente, mentre il suo stomaco iniziava a farsi sentire in modo imbarazzante.
“Hai sentito?”, domandò all’improvviso, guardandosi intorno.
“Umh... sì”, rispose lui, senza capire il motivo di tanta apprensione. “Hai bisogno di mangiare, no?”
Lei abbozzò un sorriso scocciato, prima di tornare di nuovo vigile. “No, non mi riferivo a questo…”
“Sono solo i passi di qualcuno…”, commentò Thane, continuando a non capire.
Shepard si guardò intorno un altro paio di volte e poi lo trascinò dentro una delle navette disponibili, prima che lui potesse anche solo opporre resistenza.
 
“Perché siamo qui?”, le chiese lui stranito, mentre lei continuava a spiare fuori con fare apprensivo.
“Perché non voglio che ci vedano, mi sembra logico”.
Thane sollevò un arcata sopraccigliare. “E quale sarebbe il motivo?”
“Non mi va che l'equipaggio possa farsi strane idee”, rispose lei, abbassandosi di colpo quando scorse Gardner scendere dalle scale. “Che diamine ci fa Rupert quaggiù?”, imprecò.
“Probabilmente è andato a recuperare qualcosa nel magazzino”.
Il magazzino. Quel ricordo bastò per farla arrossire.
“Shepard...“, tentò di argomentare lui, “riguardo all'equipaggio... ho ragione di credere che sia ormai troppo tardi per nascondere la cosa”.
Lei gli lanciò un’occhiata perplessa. “Ma non intendevo quello. E’ che, beh... siamo qui, da soli, e tu hai ancora una ferita aperta”.
“Beh, dubito che qualcuno avrebbe mai insinuato che avessimo davvero fatto a botte”, rispose lui sorridendo appena. “E poi, perché t’interessa tanto?”
Shepard sospirò, passandosi una mano fra i capelli. Forse la tensione che aveva accumulato nelle ultime due ore era stata davvero troppa, persino per lei.
“Ok, hai ragione, ho dato di matto...”, ammise con una certa vergogna, iniziando a camminare in tondo nel poco spazio a sua disposizione.
“Che facciamo ora?”, domandò poi, voltandosi verso di lui.
“Dimmelo tu… Tu mi hai trascinato qui”, rispose Thane, quasi divertito dalla sua scenata.
“Va bene… aspetteremo che Rupert finisca le sue cose e poi usciremo”, disse lei, cercando di suonare ragionevole.
Dopo i primi cinque minuti di silenzio religioso, l'attesa sembrò essere diventata interminabile. L’unico rumore che proveniva da fuori era il fischiettare sommesso del cuoco, che con ogni probabilità stava intonando la stessa canzoncina che a Mordin piaceva tanto canticchiare durante i suoi esperimenti. Shepard prese a tamburellare nervosamente col piede, spiando di continuo in direzione del magazzino. Solo quando Thane attivò l'oscuramento dei vetri, lei si rese conto del madornale errore che aveva appena fatto, se poteva definirlo tale.
“Thane”, mormorò aggrottando le sopracciglia.
L'abitacolo era buio abbastanza per impedirle di notare la sua presenza immediatamente dietro di lei.
“Non credi che....”, si bloccò di colpo, chiudendo gli occhi in risposta alle labbra di lui sul suo collo, mentre sentiva le sue mani appropriarsi lentamente dei suoi fianchi. “Che…”
“Cosa?”, domandò lui in un sussurro.
Se avesse trovato facile rispondergli, mentre sentiva le mani di lui accarezzare la sua schiena da sotto la maglietta, probabilmente gli avrebbe fatto notare quanto fosse inopportuno e rischioso continuare a fare qualunque cosa stessero facendo in quel momento, ma ciò che usci dalle sue labbra fu solo un gemito strozzato… risposta della quale lui sembrò accontentarsi.
“Finirà male… me lo sento”, disse, appoggiandosi al vetro davanti con entrambe le mani per non sbilanciarsi.
“Male? Quanto male su una scala da zero a Omega 4?”, rispose lui, sfiorandole un orecchio con la punta del naso.
Lei sorrise, realizzando che, in effetti, quella missione riusciva a mettere tutto in prospettiva. Persino ciò che era appena successo le sembrò rimpicciolirsi a confronto.
"Hai davvero intenzione di...?"
Thane decise di non rispondere a quella mezza domanda, e preferì invece concentrarsi sulla sua maglietta. Gliela sfilò delicatamente, percependo nel frattempo la tensione che avvolgeva ogni suo singolo muscolo del suo corpo. Poi si fiondò di nuovo sul suo collo, respirando il suo odore come se fosse aria pura, lasciando scivolare le mani lungo il suo bacino.
"Avrei voluto poterti chiedere di fuggire con me dopo questa missione", le disse piano, "nel posto più lontano che riesci a immaginare.... dove nessuno avrebbe mai potuto trovarci". C'era desiderio nella sua voce, ma anche tanta malinconia, e qualcosa simile al rimpianto.
"Ma tu hai tuo figlio...", rispose lei, lasciandosi accarezzare dalle sue labbra lungo la spina dorsale.
"E tu sei l'unica speranza di questa Galassia", disse lui, facendola rabbrividire.
Era dolorosa quella consapevolezza, più di ogni altra cosa, persino più dell’incertezza del loro futuro… soprattutto ora che non c’era solo la malattia a dividerli, ma il peso di una condanna.
"E se decidessi di scegliere per me, una volta tanto? Sarebbe così sbagliato chiedere di avere una vita normale, chiedere di svegliarmi con te ogni mattina, lontani dalle quattro pareti metalliche di questa nave?"
Thane la prese per la vita e la fece voltare verso di sé, annullando le distanze con una mano, premuta sul vetro dietro di lei. Era buio, ma i suoi occhi brillavano di una luce che lei avrebbe riconosciuto tra mille. "Non sarebbe sbagliato”, disse, “...ma è questa la vita che hai scelto, è questo che ti fa sentire viva… quello che fai, quello che sei, quello per cui combatti. E tu lo sai".
"Tu mi fai sentire viva", ribatté lei, avvicinando le labbra alle sue.
"Io non ci sarò per sempre..."
Lei dovette distogliere lo sguardo per reggere ancora una volta il peso di quella frase, e proprio in quell’istante, mentre tentava di convincersi che forse ci avrebbe fatto l'abitudine, iniziò a capire che nulla di quel momento sarebbe mai potuto essere sbagliato... il solo averci pensato, prima, la fece infuriare con se stessa, per quella e per ogni singola opportunità che aveva gettato alle ortiche, per quelle ore dopo Aratoht durante le quali aveva preferito rinchiudersi in bagno a compatirsi, per quella notte su Telmum, quando aveva deciso di non meritare nulla di ciò che il tempo e il destino le stavano offrendo, per tutte le sere passate a rimuginare senza trovare il coraggio di parlare, di spiegarsi, di dirgli quanto lui fosse dannatamente essenziale per lei... Perché ci arrivava solo adesso, solo ora che le loro vite erano così pericolosamente vicine al baratro?
 
Il bacio che si scambiarono fu il più dolce fra quelli che lei avrebbe ricordato, perché nasceva dall'assoluta certezza che entrambi conservassero nel cuore il medesimo sentimento e che lo stessero condividendo in ogni singola sfumatura, con la stessa devastante intensità. Avevano deciso di prendersi per mano e di fare quel salto nel vuoto, ma solo ora imparavano a volare insieme, fianco a fianco... a compensare gli squilibri dell'altro con un battito di ali più forte, a sostenere il peso altrui senza perdere la propria stabilità. Thane ripensò al mito di Andromeda e Perseo, arrivando alla conclusione che se anche Perseo avesse perso le sue ali, ci sarebbe stato qualcos’altro a consentirgli di spiccare il volo, qualcosa che avrebbe trovato solo in fondo agli occhi di Andromeda, qualcosa che lui stesso trovò in fondo a quegli occhi... qualcosa che diventò parole e si bloccò all'altezza della gola, prima di tornare a nascondersi nel posto più sicuro.
 
Quando sciolsero il bacio, si sentirono quasi divisi a metà, come se qualcuno avesse all’improvviso tolto loro l'ossigeno. Si specchiarono nei rispettivi occhi, lasciando alle loro mani il compito di eliminare tutto ciò che era ormai superfluo... vestiti, scarpe, ciocche di capelli davanti al viso, armi nascoste nelle giacche perché “non si sa mai”...
Sembrò diventare improvvisamente tutto più stretto, c'erano gomiti che sbattevano sugli spigoli, labbra che si scontravano, unghie che graffiavano la pelle dei sedili, ma anche risate, e respiri spezzati, e frasi in lingue sconosciute che venivano sussurrate piano in un orecchio.
Non c’era più spazio per i sensi di colpa, per le sconfitte, per la paura… quei sentimenti avevano già tolto ad entrambi così tanto che fu quasi doloroso separarsene, ma lo fecero con decisione, lasciando tutti i problemi fuori da quello shuttle, come se fosse stato davvero possibile creare un paradiso artificiale all’interno di muri di metallo e plastica.
Shepard catturò le sue mani, imprigionandole dietro la sua schiena... disegnò con le labbra ogni linea del suo corpo, come a voler imparare a memoria quella mappa, e si nutrì dei suoi respiri, che cambiavano quando lei cambiava. Si erano conosciuti, si erano scoperti, ma ora si comprendevano e potevano anticiparsi, esattamente come succedeva sul campo di battaglia.
Thane la sollevò, lasciando che lei intrecciasse le gambe dietro la sua schiena e si aggrappasse con le mani alle maniglie sul soffitto dell'abitacolo. Il sapore della sua pelle, il modo in cui reclinava la testa all’indietro persa nelle sensazioni che lui le stava regalando, il suo nome sulle sue labbra, come un sussurro appena accennato... Avrebbe portato per sempre con sé ogni istante, ogni frammento di lei, e con quella consapevolezza decise di abbandonarsi, di perdersi dentro di lei come non aveva mai fatto... perché sapeva che la vita, quella che adesso non avrebbe mai voluto abbandonare, non era fuori, era in lei, era in fondo ai suoi occhi, e li l'avrebbe trovata... li avrebbe finalmente ritrovato se stesso.

 
 
 
 
 
*L’incontro fra Shepard e Hackett in infermeria è un altro di quei dettagli dell’Avvento che non digerisco. Soprattutto perchè avrebbe cozzato con la versione personale che ho dato io a questa missione, che tutto sommato spero risulti credibile.

 
Chiedo scusa a chi  si fosse accidentalmente trovato ad aprire il capitolo e vederselo cancellato l'attimo dopo, ma avevo bisogno di rivedere alcune cose. A questo proposito, grazie a Johnee per il suo parere tempestivo - sempre fondamentale - e ad Altariah che mi ha sopportata durante i miei assurdi vaneggi. E ovviamente un enorme grazie anche a chi continua a leggere e a recensire questa storia (che per la vostra gioia, sta finendo - yeee). 

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Capitolo 21
*** We'll Be Here When You're Gone ***


 
"When I am alone
When I've thrown off the weight of this crazy stone
When I've lost all care for the things I own
That's when I miss you
You who are my home
And here is what I know now
In your love, my salvation lies"
 
(Alexi Murdoch, "Orange Sky")



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Sui vetri appannati della navetta, piccole gocce di condensa si facevano lentamente strada lungo i bordi, senza alcuna fretta di raggiungere la meta. Non c’era più nessuno fuori a fischiettare motivetti stonati, né altri rumori raggiungevano l’interno dell’abitacolo, avvolto in un’atmosfera di quiete surreale.
Shepard si strinse maggiormente a Thane, appoggiando la testa sul suo petto, sopra il suo cuore. Lasciò che un brivido di freddo attraversasse la sua spina dorsale, prima di cercare di nuovo calore sul corpo di lui, intrecciando le gambe con le sue.
“Non dovremmo prolungare ulteriormente il contatto”, suggerì lui dolcemente, pur non trovando il coraggio di allontanarla.
Lei, per tutta risposta, si fece ancora più vicina.
“Sei caldo…“, mormorò con un sorriso, cercando la sua mano per stringerla.
Restarono a lungo in silenzio, sperando in questo modo di protrarre quell’attimo all’infinito. Lei si perse ad ascoltare i battiti di quel cuore estraneo, lenti e regolari, seguendone il ritmo con il suo respiro. Poi i pensieri di entrambi divennero troppo assordanti per essere trattenuti ancora.
“Siha…”
“Mh?”
“Stai bene?”.
Il suo tono di voce le sembrò leggermente preoccupato, e lei sorrise teneramente, sollevandosi con un gomito per cercare i suoi occhi nel buio.
“Sto bene…”, rispose, sperando di essere convincente. “Cos’è… adesso hai paura delle conseguenze?”
Thane annuì, ammettendolo candidamente.
“Allora vorrà dire che mi aiuterai a rimediare”, disse lei, seguendo con le dita i contorni delle strisce più scure che fasciavano le sue braccia.
Lui la guardò con un pizzico di rimorso, consapevole degli effetti negativi che il contatto con la sua pelle le avrebbe causato di lì a poco.
“Non azzardarti a colpevolizzarti”, lo rimproverò lei, mantenendo un’espressione divertita. “Siamo stati due incoscienti, ma per come la vedo io, ne è valsa la pena”.
Stavolta fu lui a sorridere, portandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio. “Me lo dirai se inizierai di nuovo a vedere le stelle piovere dal soffitto?”
Lei sbuffò una risata, pungolandolo scherzosamente. “Mi prendi anche in giro, adesso? Beh, è un peccato che questa povera umana non possa causarti strane reazioni allergiche…”
“Sei sicura di essere così innocua?”
Shepard aggrottò le sopracciglia, l’espressione perplessa. “C’è qualcosa che devi dirmi?”
“No, volevo solo farti preoccupare”, rispose lui, come al solito impassibile.
Lei si limitò a rispondergli con un leggero morso sulla spalla, al quale lui reagì con una risata quasi impercettibile.
“Potrei stare qui per sempre…”, sospirò lei, dopo qualche istante di assoluto silenzio. “Esattamente qui, sul pavimento gelido di questa dannata navetta…”
Lui capì cosa si celava dietro quella frase. Non erano semplicemente parole dettate dalla gioia del momento o dalla volontà di protrarlo più a lungo… nascondevano invece il desiderio di fuggire da tutto ciò che lentamente le si era arrampicato sulle spalle, diventando un peso insostenibile da sopportare per qualcuno che, dopotutto, era solo carne.
“Sai che potrai contare su di me in ogni momento?”, le disse piano lui, accarezzandole il volto con il dorso di una mano.
Lei annuì, consapevole che sarebbe stato proprio in questo che lei avrebbe trovato la forza, adesso e nei giorni a venire.
Cercò con un braccio la sua giacca sul pavimento, ancorandosi a lui con una mano, quasi a non volersi staccare totalmente. Poi la portò su di sè, raggomitolandosi maggiormente al suo fianco.
“Ma ho dannatamente paura”, confessò poco dopo.
Lui non rispose, limitandosi a passare una mano fra i suoi capelli per farle capire che lui era disposto ad ascoltarla.
“Ho paura che quel processo metterà fine ad ogni cosa che ho cercato di ricostruire”.
Thane si prese del tempo per riflettere. Quell’idea non lo lasciava in pace da quando aveva saputo, ma nonostante la speranza che riponeva nei confronti del destino fosse davvero minima, decise di aggrapparvisi ugualmente.
“Non potranno davvero negare l’evidenza… non c’eri solo tu dietro quella missione. C’era l’Alleanza”.
“L’hanno già fatto in passato…”
“Vorrà dire che impareranno dai loro errori”.
“Ci credi davvero, Thane?”
No, per quanto cercasse di convincersene, non ci credeva davvero. Aveva vissuto ai margini di quel sistema tanto da sapere che non meritava alcuna fiducia… ma questo come avrebbe potuto aiutarla? Dirle che anche lui fosse maledettamente preoccupato per quel processo e per ciò che avrebbe inevitabilmente causato non avrebbe fatto altro che aggravare i suoi timori, distogliendola dall’obiettivo principale.
“Non devi pensarci adesso. Siamo su questa nave per uno scopo preciso, e siamo così vicini dal raggiungerlo che allontanarsene ora con la mente sarebbe sbagliato”.
“E’ difficile quando continui a rivedere quei numeri davanti agli occhi ogni volta che ti fermi”.
“Potresti parlarne con la specialista Chambers…”
Thane si pentì di quell’affermazione nello stesso istante in cui la pronunciò, e la reazione di lei non fece che confermargli l’inutilità di ciò che aveva appena proposto.
“Non ho bisogno di uno strizzacervelli… ho solo bisogno di sapere che quello che è successo sia valso a qualcosa”, replicò lei, irritata. “E poi… c’è qualcosa che non ti ho detto”, aggiunse, abbassando nuovamente il tono di voce.
“Prima di tornare a bordo… appena dopo aver contattato la Normandy, è successo qualcosa”. Un brivido s’insinuò sotto la sua pelle, un brivido di freddo e di paura insieme. “Probabilmente non saprò mai se quello che ho visto è stato solo frutto della mia mente, o se c’era davvero, lì davanti a me”.
Restò in silenzio per un attimo, cercando di analizzare con chiarezza il ricordo. “C’era la sagoma di un Razziatore. Come un enorme ologramma… e mi ha parlato”.
“Cosa ha detto?”
Lei scosse la testa, provando un improvviso moto di repulsione. “Ha detto che quel sacrificio non sarebbe valso a niente… Le nostre specie sono destinate all’annientamento. I nostri leader si piegheranno alla loro volontà”, citò, stringendo la presa sulla giacca.
“E’ questo che ti fa dubitare delle tue scelte?”
Lei annuì, sentendo un pensiero subdolo e terrificante annidarsi in profondità nella sua mente. “Se davvero non abbiamo scampo… se davvero il nostro destino è già segnato, io avrò sacrificato un intero sistema per nulla. Noi continuiamo a combattere per nulla”.
Thane si sollevò, mettendosi a sedere, come per riacquistare maggiore controllo su di sé e sulla situazione. Le fece spazio fra le sue gambe, intrecciando le braccia davanti a lei. Appoggiò il viso sulla sua spalla, lasciandole un bacio all’altezza della nuca.
“Che onore ci sarebbe nell’arrendersi alla sconfitta senza aver combattuto?”, le domandò. “Tu non ti arrendi mai, Siha”.
 
Qualche settimana prima le aveva spiegato il significato di quella parola. Un angelo guerriero, una tenace protettrice, una valorosa combattente al servizio della dea Arashu. Se lei avesse cessato di battersi per l’Umanità proprio in quel momento, che cosa avrebbe dimostrato a tutti coloro che fino a quel momento avevano creduto in lei? Cosa avrebbe dimostrato a lui?
No, lei non fuggiva, non lo avrebbe mai fatto neanche di fronte alla certezza della sconfitta.
“Non lasciare che le parole del nemico possano far vacillare le tue certezze. Quello che hai bisogno di sapere è già dentro di te, e nessuno può privartene”.
Quella frase le riportò alla mente la discussione avuta con lui all’Osservatorio, quando si erano trovati a discutere di filosofia. Proprio alla fine di quella serata, lei aveva realizzato di non sapere assolutamente di cosa avesse bisogno, così come lui, involontariamente, le aveva fatto capire.
Per molte settimane, dopo il suo risveglio, si era posta domande sulla vita, sul perché il destino le avesse concesso un’altra possibilità. Aveva provato rabbia, quanta ne avrebbe provata se qualcuno gliel’avesse tolta, quella vita. Si era sentita impotente e senza niente a cui aggrapparsi. L’unica cosa che le aveva impedito di uscire totalmente fuori di testa erano stati i volti amici che ben presto l’avevano circondata. Era stato rivedere Joker, la Chakwas, Tali, Garrus, Liara e tutti gli altri, ad averle permesso di riprendere contatto con la realtà, proprio quando sentiva di non appartenere più a niente e a nessuno. Ma ugualmente, non aveva smesso di sentirsi sola, incompresa… ed era difficile, diamine se era difficile dover rispondere alla domanda “come fai ad essere ancora qui?”, quando gli altri, sconcertati, la rivedevano per la prima volta dopo due anni.
Era lei che continuava a porsela, davanti allo specchio, quella domanda. Era lei che durante le spiegazioni tecniche di Miranda si rifiutava di comprendere, sentendosi ancora più smarrita.
Poi aveva incontrato lui, e tutto era cambiato. Nelle sue parole aveva rivisto se stessa, nei suoi occhi si era specchiata e si era finalmente sentita capita. Dopo tanto tempo, aveva sperimentato di nuovo ciò che rende umani gli Umani, ciò che rende organici gli Organici. Aveva affrontato con lui il peso di una vita spezzata e costretta a riprendere il proprio corso, cercandone insieme il significato.
Thane le aveva detto che lei l’aveva risvegliato. Era bastata la sua sola presenza, era bastato dargli uno scopo… E lui cos’aveva fatto per lei, se non la stessa cosa? Quei brandelli di vita, a pezzi, si erano legati fra loro come le estremità spezzate di una fune. E proprio in quel nodo avevano trovato la forza. Entrambi avevano trovato un obiettivo in quel legame, qualcosa più forte persino di Omega 4. Qualcosa che avrebbe reso quella missione possibile, in un modo o in un altro… perché ne accresceva le motivazioni. Un sentimento difficile da accettare, all’inizio, ma troppo intenso da sopprimere. E ciò li aveva condotti a quel punto… al punto di donare se stessi e la propria fiducia all’altro, e solo per ricevere lo stesso in cambio. Qualcosa per cui valeva la pena alzarsi e combattere anche quando il resto del mondo continuava a voltare loro le spalle.
 
Fu lei a spezzare il silenzio, questa volta, voltandosi per strofinare il profilo del suo naso contro la sua guancia. “Thane… cosa vuoi fare, una volta finito tutto questo?” Non aggiunse un “ammesso che sopravvivremo”. Quella possibilità era sempre sottintesa, in qualunque discorso che comprendesse l’idea di un futuro insieme.
Rispondere così su due piedi era difficile. Dopo dieci anni passati a farsi sopraffare dalle proprie colpe, aspettando il momento giusto per lasciare quel mondo, adesso le infinite possibilità che gli si presentavano davanti erano semplicemente troppe da vagliare. C’erano mille cose che avrebbe voluto fare con lei, con suo figlio. Una, forse, spiccava tra le altre. Una prospettiva che, come molte altre, non aveva mai considerato possibile fino a quel momento.
“Vorrei tanto visitare un deserto”, disse, e un sorriso si dipinse sulle sue labbra.
Shepard gli posò un bacio sul mento, stringendo le sue mani. Un deserto. Beh, se non altro era un punto di partenza. Un altro obiettivo da raggiungere, se il tempo glielo avrebbe concesso. “Immagino si possa fare”, rispose lei, abbandonandosi contro il suo petto con un sorriso.
 
 
 
Erano passate diverse ore di navigazione quando la Normandy arrivò nei pressi di una delle stazioni di servizio nella nebulosa di Argos Rho, sistema Phoenix. L’equipaggio aspettava di ricevere da un momento all’altro la chiamata che avrebbe finalmente decretato la fine di quell’avventura, ma quando Shepard li convocò tutti in sala briefing, in serata, capirono di non essere ancora pronti.
Il morale era sicuramente diverso da quello della mattina. Essersi allontanati così tanto dal portale appena distrutto aveva in qualche modo alleviato la tensione dei due giorni appena passati, quasi non fosse mai accaduto nulla, sicuramente per alcuni più che per altri. Certo, niente avrebbe cambiato ciò che era successo, ma tutti sapevano che bisognava lasciarsi quell’episodio alle spalle, esattamente come lo sapeva lei.
Shepard si fece avanti, appoggiando le mani sul tavolo, squadrando i visi dei suoi compagni com’era solita fare ogni volta che aveva qualcosa d’importante da comunicare.
“Ci sono due novità”, iniziò, “La prima è che i test sul modulo di riconoscimento dei Razziatori hanno dato buoni risultati. Attualmente è installato e parzialmente funzionante. La seconda, tuttavia, è che EDI ha rilevato dei malfunzionamenti in alcuni sistemi a seguito dell’installazione, e avrà bisogno di condurre analisi più approfondite, prima di poter compiere l’ultimo step”.
“Abbiamo deciso di effettuare gli ultimi test sulla nave in movimento e al massimo della sua potenza, per verificare che tutto funzioni per il meglio, una volta in procinto di varcare Omega 4. Se vi state chiedendo perché vi ho portati qui, beh… Sicuramente alcuni di voi hanno un ricordo piacevole di Pinnacle Station”.
Cercò lo sguardo di Garrus e Tali, lasciandosi sfuggire un sorriso appena accennato.
“C’è voluta tutta la diplomazia di cui sono capace per farmi concedere una sessione di allenamento, ma alla fine l’ho ottenuta, e sono convinta che possa aiutarci a definire meglio le meccaniche di squadra in campo”.
“Un momento… di che si tratta?”, domandò Jack, visibilmente perplessa.
“E’ una stazione dell’Alleanza dotata delle migliori strutture di combattimento simulato. Avete presente l’Armax Arena? Bene, è qualcosa di decisamente più complesso”.
“Non sarebbe stato meglio, che so, abbattere una colonia di schiavisti per esercitazione?”
Shepard lanciò alla biotica uno sguardo che la portò immediatamente ad alzare le braccia in segno di resa e cucirsi la bocca.
“Qualcun altro vuole avanzare un’altra idea geniale, prima di ricordarsi di chi è che comanda questa nave?”
Nessuno ebbe il coraggio di replicare, stavolta.
Fece un’altra breve pausa, dando un’occhiata al datapad lì vicino. “Dopodiché, avrò bisogno che ognuno di voi mi aggiorni sulla situazione attuale dei potenziamenti nelle vostre aree di competenza. Non ci è rimasto molto tempo”.
Il resto dell’equipaggio annuì e aspettò che lei li congedasse, prima di andare a prepararsi. Solo Miranda indugiò sulla soglia, in attesa che lei e Shepard restassero sole.
“Comandante…”
Shepard si voltò, ancora intenta a controllare i dati che scorrevano sul suo datapad, relativi al funzionamento dell’IFF.
“Credi che abbiamo buone possibilità di farcela?”, domandò Miranda, cercando di mantenere un tono sicuro e freddo, a discapito dell’insicurezza che scaturiva da quella stessa domanda.
“Ci credo, Lawson”, rispose lei, risoluta. “E dovresti crederci anche tu”.
Miranda annuì con decisione, sentendosi un grammo più sollevata. Era stata l’unica a farsi portavoce dei dubbi dell’equipaggio, ma in qualche modo le bastarono le parole di Shepard per decidere di smetterla di porsi domande, e affrontare la situazione così come si sarebbe presentata. Neanche l’Uomo Misterioso avrebbe avuto su di lei lo stesso potere… se ne rese conto solo in quel momento, e nonostante tutto, ne fu felice.
 
 
Fu Ahern in persona ad accogliere Shepard e il suo equipaggio, una volta giunti su Pinnacle Station. Shepard aveva lasciato a Joker il comando della nave, poi era salita a bordo di uno shuttle con tutti e dodici i membri dell’equipaggio, chiedendo il permesso di attracco ad uno dei moli disponibili della stazione.
Al vecchio ammiraglio in comando sembrò di trovarsi davanti ad una strana scolaresca composta da individui troppo cresciuti e troppo instabili, e il suo sguardo lo comunicò fin troppo palesemente.
“Noto delle personalità interessanti al suo seguito”, commentò, accompagnato da una stretta di mano, facendo scivolare gli occhi dall’uniforme di Shepard ai suoi commilitoni, allineati dietro di lei.
“Garantisco io per loro, signore”, rispose Shepard, composta.
“Ahern. Non dimentichi il privilegio che le avevo concesso due anni fa”, puntualizzò l’altro, sotto l’ombra di un sorriso.
“Non lo farò, Ahern. Grazie”.
“Vidinos vi condurrà direttamente all’arena. Vedete di non distruggermi tutto”.
“Sarà come se non fossimo mai arrivati”, rispose Shepard, avviandosi verso la direzione indicatale dall’ammiraglio.
 
Shepard, supervisionata da Ochren, il tecnico Salarian di turno, decise di optare per uno scenario di tipo Sopravvivenza. La squadra avrebbe dovuto affrontare orde di nemici via via più corpose, senza alcun limite di tempo. Ovviamente nessuno di loro aveva idea di cosa avrebbero trovato una volta giunti alla base dei Collettori, ammesso che fossero riusciti a varcare il portale, ma di sicuro una simulazione basata sulla sopravvivenza avrebbe dato loro il tempo e il modo di capire quanto bene funzionassero in squadra e quali fossero le eventuali pecche da perfezionare prima della resa dei conti.
Shepard, tuttavia, decise di omettere un dettaglio importante: nessuno di loro sarebbe uscito vivo da lì, almeno virtualmente. Lo scenario era stato creato apposta per mettere alla prova la resistenza dei giocatori e non c’era alcun modo di completarlo se non facendosi eliminare dai nemici o dando la propria resa. Il motivo di quest’omissione era chiaro: Shepard era curiosa di vedere chi sarebbe capitolato prima, ovvero quali erano gli anelli deboli che avrebbe dovuto salvaguardare maggiormente in missione.
“Comandante, lo scenario è pronto”, comunicò il Salarian, invitandola a scegliere la tipologia di nemici da affrontare.
“Organici, equipaggiati nel modo migliore possibile. Non voglio alcun tipo di vantaggio”, rispose lei prontamente, curiosando sullo schermo dove Ochren trafficava.
“Ricevuto. Ho predisposto la sala più ampia. Seguitemi”.
Il Salarian lasciò la sua posizione e Shepard lo seguì a ruota, facendo cenno agli altri di fare lo stesso. Riuscì a notare con una rapida occhiata le loro espressioni assolutamente perplesse, e sorrise fra sé e sé. Se pensavano che si trattasse solo di uno stupido gioco, beh… sarebbero stati smentiti da lì a poco. C’era un preciso motivo se quella struttura era riservata solo a gente del calibro di uno Spettro del Consiglio, e lei non vedeva l’ora che il resto del suo equipaggio se ne accorgesse. Il Salarian li condusse in un’anticamera dall’aspetto sobrio, arredata con una lunga fila di armadietti. Per comodità, si sarebbero mossi in due squadre, al fine di evitare che i nemici si concentrassero in un unico punto della mappa.
“Miranda, a te va il comando della prima squadra. Garrus, a te il comando della seconda”, decretò Shepard, assumendo una postura rilassata.
La biotica e il Turian si scambiarono un veloce sguardo incerto.
“Shepard… non mi dirai che tu hai intenzione di stare a guardare?”, domandò il secondo, incredulo. Insieme a Tali, era forse l’unico a conoscere i segreti di quel simulatore.
“Ovviamente. Siete in dodici… io sbilancerei troppo le sorti dello scontro”, rispose lei, concedendosi un minuscolo sorriso soddisfatto. “E poi ho bisogno di osservarvi dall’esterno”.
“Questo è ingiusto”, si lamentò il Turian.
“Beh, mettiamola così: l’ultimo sopravvissuto se la vedrà con me, alla fine”.
“Anche questo è ingiusto. Tu conosci meglio di chiunque altro le meccaniche di questo posto”.
“Allora cercate di impararle in fretta. E ora basta, muovete il culo. Ci sono dei deliziosi gilet colorati che aspettano solo di essere indossati”.
 
Dopo dieci minuti abbondanti di animate discussioni, Miranda scelse di portare con sé Legion, Mordin, Samara, Kasumi e Grunt, lasciando a Garrus il compito di guidare gli altri cinque. Con almeno due biotici, un tank, e due tecnici per squadra, a Shepard sembrò che entrambe le squadre avessero in qualche modo trovato un equilibrio. Restava solo da verificare se poi effettivamente quella formazione avrebbe dato i frutti sperati.
“Siamo pronti, Shepard”, annunciò Garrus, dopo aver ricevuto il benestare di Miranda. Gli altri, chi più chi meno, stavano ricontrollando le armi in dotazione e il proprio equipaggiamento. Shepard capì immediatamente chi aveva preso la faccenda sul serio e chi, invece, era ancora convinto che stessero per andare a divertirsi… cosa che la portò immediatamente a scommettere chi sarebbero stati i primi a uscire dal gioco.
“Buona fortuna”, li salutò lei, invitandoli ad entrare nell’ampia sala che avrebbe ospitato lo scontro. Tornò in seguito alla postazione del Salarian, prendendo posto di fianco a lui, di fronte al monitor dove avrebbe seguito l’andamento della partita. Ognuno dei giocatori era contraddistinto da un pallino colorato con il rispettivo nome sopra. Li vide mettersi in formazione, due piccoli gruppi, uno rosso e uno blu, che si posizionavano agli angoli opposti della mappa in attesa del segnale che decretasse l’inizio della partita.
“Su chi scommette, Comandante?”
“Sulla squadra blu”, rispose lei, senza esitazioni. D’altronde era l’unica squadra a vantare due membri che avessero già sperimentato quel tipo di simulazione, e questo non poteva che costituire un vantaggio.
Il Salarian si accarezzò il mento appuntito, socchiudendo gli occhi come per riflettere brevemente.
“Comandante”, esordì poco dopo, “come fa a tenere insieme una squadra così variegata?”.
Shepard alzò le spalle come per minimizzare. Non ci aveva mai riflettuto, ma la risposta le venne spontanea. “Prendi un individuo e dagli qualcosa di cui ha bisogno, qualcosa che dia uno scopo alle sue azioni… e puoi stare sicuro che non ti volterà le spalle”.
“Come un animale…”, mormorò Ochren, tenendo gli occhi fissi sullo schermo.
“Come?”
“Un animale selvatico. Lo raccatti dalla strada e gli dai una ciotola di cibo e un posto caldo in cui dormire. E avrai trovato un compagno fedele per tutta la vita”.
Shepard sorrise, immaginando la propria squadra come un branco di gatti randagi. Nonostante il paragone fosse leggermente estremo, il Salarian aveva ragione dopotutto. Ognuno dei suoi compagni era alla ricerca di qualcosa, ognuno di loro era solo all’interno del suo piccolo mondo, esattamente come lo era lei. Cerberus aveva dato loro risorse e un obiettivo, e tanto gli era bastato. Buffo come tutti gli organici rispondessero poi alle stesse regole, in qualche modo.
 
La prima ondata di nemici, intanto, era apparsa sullo schermo come una marmaglia arancione. I giocatori delle due squadre avevano trovato riparo dove possibile, tranne Grunt che si era prontamente lanciato alla carica sul primo nemico. Nel giro di una manciata di minuti, erano riusciti ad eliminarli tutti. Il primato delle uccisioni l’aveva Garrus, seguito a ruota dal Krogan.
La seconda ondata fu nettamente più corposa. I nemici confluirono al centro della mappa da altre postazioni, sparpagliandosi in breve tempo su tutto il perimetro. Un puntino blu lampeggiante indicò che Tali era stata colpita, ma le restava ancora una vita a disposizione. Shepard si appuntò mentalmente che per nessun motivo avrebbe potuto darle un ruolo che la vedesse in prima linea, come d’altronde aveva già stabilito. La Quarian vantava un esperienza minore rispetto al resto della squadra, nonostante il suo drone si fosse rivelato più volte indispensabile, per cui sarebbe stato più oculato darle un ruolo di supporto. Spostò lo sguardo sulla squadra rossa, osservando come si fosse esposta di meno rispetto all’altra. Persino Grunt era tornato sulla difensiva, probabilmente sotto gli ordini ripetuti di Miranda. Lei e Samara avevano scelto chiaramente di combattere in sincrono, e sulla tabella dei punteggi questo risultava chiaramente. Un pallino rosso, invece, continuava a smaterializzarsi da un lato all’altro dello scenario… rivelando l’inconfondibile presenza di Kasumi. Poi si concentrò nuovamente sulla squadra blu, notando che Thane si era progressivamente allontanato dagli altri, trovando riparo in una zona dove all’apparenza i nemici non osavano avvicinarsi.
“Camper”, sibilò il Salarian con disprezzo, notando la sua strategia.
Shepard si lasciò sfuggire una breve risata. “Può fare il camper quanto vuole, finchè continua a ucciderne uno dopo l’altro”. I numeri delle sue uccisioni sul tabellone continuavano a salire, raggiungendo in pochissimo tempo quelli di Garrus.
“Alla fine si ritroverà circondato…”
“Io lo so, ma lui questo non lo sa, e spero che gli serva di lezione”.
Continuarono ad osservare attentamente l’andamento della partita finchè anche la seconda ondata non fu eliminata. Garrus e Thane si contendevano il primato, seguiti da Legion, Grunt e Zaeed. Ben presto l’iniziale strategia di difesa non sarebbe più stata sufficiente e Garrus sembrava averlo capito, muovendosi verso il centro della mappa insieme a Jacob.
La terza ondata di nemici colse le due squadre alla sprovvista. Il punto di respawn era cambiato, lasciando il centro della mappa totalmente vuoto. I nemici iniziarono a confluire dagli angoli dello scenario, sorprendendo i suoi compagni alle spalle. Nel giro di qualche secondo, quasi tutti avevano perso una vita. Si riorganizzarono velocemente, cercando copertura e arretrando progressivamente, assicurandosi di avere sempre qualcuno a coprirli dalle ultime file. Shepard avrebbe dato qualunque cosa per vedere le loro facce, ora che finalmente dovevano aver compreso quanto imprevedibile fosse quella simulazione e quanto lontana fosse da una semplice partita all’Armax Arena o qualunque altro simulatore di combattimento amatoriale.
Se per le prime due ondate si erano mossi quasi come due parti coordinate di un unico organismo, adesso sembrò che ognuno dei componenti delle squadre stesse iniziando a coprire un ruolo particolare. Shepard osservò questo cambiamento con interesse… ciò significava che anche senza la sua costante presenza, in qualche modo se la sarebbero cavata. Mesi e mesi di addestramento e di missioni in campo stavano dando i frutti sperati, nonostante si trattasse di una semplice prova.
Osservò l’orologio, rendendosi conto che erano ormai passati più di trenta minuti dall’inizio della partita e, fortunatamente, nessuno era ancora stato messo KO. Stava giusto per domandare al Salarian le statistiche di quella particolare mappa, quando una schermata iniziò a lampeggiare sul suo factotum. Le ci vollero cinque secondi per realizzare cosa fosse appena successo. Sbatté le palpebre un paio di volte, poi si alzò di scatto dalla sua postazione. Si allontanò, passandosi una mano fra i capelli, un’espressione indecifrabile sul suo volto.
“Comandante, tutto bene?”, domandò Ochren, volgendosi verso di lei, allarmato.
“No, per niente. Deve richiamarli. Deve interrompere tutto”, rispose lei, armeggiando ancora col suo factotum.
Il Salarian annuì, premendo un pulsante d’emergenza. Sullo schermo i pallini arancioni lampeggiarono una volta, prima di dissolversi nel nulla. All’interno dello scenario, il suono di un allarme si sovrappose a quello degli ultimi spari e delle esplosioni biotiche che non arrivarono mai a colpire il nemico. Miranda domandò a Garrus cosa stesse succedendo. Il Turian non fece in tempo a rispondere che la voce del tecnico Salarian risuonò forte e chiara in ogni angolo della grande struttura, comunicando ad entrambe le squadre che dovevano recarsi immediatamente fuori, seguendo le indicazioni lampeggianti.
Quando l’equipaggio raggiunse l’anticamera, trovò Shepard ad aspettarli. Era visibilmente sconvolta, qualcuno avrebbe persino detto furente.
“Lawson, Taylor, seguitemi”, disse lei, facendo loro un brusco cenno, prima di allontanarsi in un angolo più appartato.
“Che succede, Shepard?”, la biotica sgranò gli occhi, cercando di calmare il suo respiro, ancora affaticata dallo scontro.
“La Normandy ha subito un attacco. Tutto l’equipaggio è stato prelevato, ad eccezione di Joker. Non abbiamo più tempo. Dobbiamo ripartire immediatamente e settare le coordinate verso Omega 4”.


 
Ebbene sì, sono ancora in vita, nonostante la mia latitanza da queste parti sia stata piuttosto lunga. Prima le vacanze natalizie, poi la preparazione al mio esame finale, poi il diploma e ora i preparativi per la partenza. Perchè, ebbene sì, andrò in Irlanda per qualche mese a lavorare. Il capitolo esisteva già da mesi, ma ciò che mi è mancato sono stati, a turno, il tempo e la voglia. La voglia perchè, dannazione, sono arrivata quasi alla fine e non voglio staccarmi da questa storia... come se rimandare potesse quasi annullare l'inevitabile *sniff* Sono stata anche piuttosto assente come lettrice, ma spero di riuscire a recuperare presto tutti gli arretrati. E' che boh, quando vivi un periodo di cambiamento nella tua vita non sai più da dove cominciare per far quadrare tutto. Sono sicura di avere tipo altre mille cose da dire, ma al momento ho dimenticato tutto. Solo un enorme grazie a Johnee che mi ha dato l'idea di Pinnacle Station per coprire quel piccolo ma enorme buco di tempo che è l'attacco dei Collettori. Sì, poi io uso le idee altrui male, ma pazienza xD 
A presto.

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Capitolo 22
*** We Burn Like Stars That Never Die ***


 
“One day our song will end,
so now let's just pretend
Tonight we burn like stars that never die
So don't cry
Heaven's in our eyes”


(Hammock, “(Tonight) We Burn Like Stars That Never Die”)




 [x]
 
 
Non era rimasto niente. Non c’era più il leggero vociare dell’equipaggio in sala mensa, la risata distante di Karin in infermeria, le lamentele di Gardner o i battibecchi di Daniels e Donnelly in Sala Macchine. Non c’era più il sorriso di Kelly in Sala Tattiche e i mormorii degli specialisti alle loro postazioni. C’era solo sangue. Sangue sui portelloni, sulle paratie, sui rivestimenti metallici dei corridoi. Tubi e lastre metalliche scardinati dai muri, scintille che piovevano dai cavi recisi, depositandosi in macchie scure sui pavimenti. La Normandy come l’avevano lasciata due ore prima non c’era più, insieme ad ogni briciola di speranza.
Shepard, Miranda e Jacob entrarono in ascensore a passo spedito, decidendo di ignorare momentaneamente le condizioni attuali della nave. La biotica fece per spingere l’indice sul secondo pulsante, ma improvvisamente si arrestò, la mano ferma a mezz’aria. Shepard le lanciò uno sguardo irritato, prima di premere lei stessa il pulsante con violenza, incurante del sangue che c’era sopra.
Trovarono Joker seduto sul tavolo della Sala Briefing, le gambe a penzoloni, lo sguardo perso nel vuoto. Miranda si fece avanti senza esitare, puntandogli un dito contro. “Hai perso tutti? Tutti quanti? E la Normandy… dannazione, stavi per perdere anche la Normandy?”
Era furiosa, come Shepard poche volte l’aveva vista, ma nonostante la gravità di ciò che era successo, non avrebbe tollerato un simile atteggiamento nei confronti del suo pilota. A differenza sua conosceva bene Joker, e sapeva altrettanto bene che quell’uomo si sarebbe fatto uccidere, piuttosto che consegnare la sua nave ai Collettori.
“Non è colpa sua, Miranda. Nessuno di noi era preparato per questo”. Jacob la tolse fortunatamente dall’impiccio di esprimersi. In quelle condizioni avrebbe rischiato di litigarci seriamente, e non era sua intenzione peggiorare ulteriormente una situazione orribile.
“Il signor Taylor ha ragione”, intervenne EDI, “Il modulo di riconoscimento conteneva al suo interno un sofisticato virus che ha permesso ai Collettori di rilevare la nostra posizione. Il signor Moreau è stato costretto ad aggirare i protocolli del mio sistema, per permettermi di liberare la nave. Ha fatto tutto il possibile”.
“La liberazione di una dannata IA?”, esclamò Miranda, gesticolando con nervosismo.
“La nave è salva. EDI è a posto. Cos’altro avrei potuto fare?”, replicò il pilota, carico di rabbia e di inevitabili sensi di colpa.
“Sono ancora vincolata dai miei protocolli di programmazione”, confermò l’IA, come se questo potesse in qualche modo tranquillizzarli.
“Lawson, Taylor, lasciateci soli”, sentenziò Shepard. Era la prima frase che pronunciava da quando aveva fatto rientro sulla Normandy, e per un attimo le sembrò di sentire la gola arsa dalle fiamme.
Il silenzio era insopportabile, sembrava quasi innaturale nella sua spettralità. Quel silenzio avrebbe ricordato a tutti loro il prezzo che avevano pagato per essersi spinti così oltre, se non fossero riusciti nell’impresa.
Si accostò al tavolo, scambiando con lui uno sguardo sconsolato ma carico di collera, prima di appoggiare una mano sul suo braccio.
“Non colpevolizzarti. La colpa è solo mia. Avrei dovuto sapere che un dannato congegno dei Razziatori poteva essere pericoloso”.
“Nessuno poteva prevedere tutto questo…”
“E invece no. Era già successo… io avrei dovuto…”, Shepard lasciò la sua postazione, incapace di restare ferma per un altro secondo. Si passò una mano sulla fronte, sospirando rumorosamente mentre camminava in tondo. “E’ tutto così dannatamente ingiusto”.
“Shepard…”
“E’ finito il tempo delle chiacchiere, Joker”. Il suo tono di voce era risoluto, per quanto rivelasse una rassegnazione di fondo. “Dobbiamo andare a riprenderci il nostro equipaggio”.
“Agli ordini”.
“Te la senti?”
“Sono qui”, rimarcò lui, allargando le braccia.
“Imposta le coordinate per Omega 4, non attenderemo oltre”.
“Ricevuto”.
 
 
Shepard raggiunse la sua cabina carica di frustrazione. Fra tutte le preoccupazioni all’orizzonte, quella di un attacco improvviso ai danni del suo equipaggio non l’aveva considerata. Era stata incauta, forse? Continuò a domandarselo finchè non realizzò che non ci sarebbe stato davvero alcun modo di prevederlo o anticiparlo. Ogni cosa, ogni singola azione che lei o la sua squadra avevano intrapreso da quando avevano messo piede sulla Normandy, era sempre stata un rischio. La loro missione finale era un rischio, era un salto nel vuoto, era una sfida alle probabilità, erano loro contro il fato… e non c’era modo di scoprire dove questo li avrebbe portati, verso quale sorte, verso quale destinazione. Ma adesso non c’era più solo il peso di milioni di coloni scomparsi sulle sue spalle, non c’erano più solo le migliaia di anime cancellate dalla Galassia dopo la distruzione del portale Alpha, ora c’era in ballo anche l’onore del suo equipaggio, di chi aveva sposato la sua causa, di chi aveva lavorato giorno e notte per consentire alla sua squadra di giungere fino a quel punto. E mai, mai come adesso lei si sarebbe potuta tirare indietro.
 
Il viaggio fino ai sistemi Terminus sarebbe stato piuttosto lungo, almeno quattordici ore di navigazione. Questo, per quanto odiosa fosse la prospettiva di non potersi scontrare subito con il nemico, sarebbe stato solo un vantaggio. Ognuno avrebbe avuto modo di allenarsi, riposare, controllare con cura le proprie armi e i settori della nave di competenza, in modo da non lasciare niente al caso. Shepard si premurò di comunicare dettagliatamente all’equipaggio le varie mansioni, prima di lasciarli liberi per la serata. Poi spense il suo terminale, ordinando a EDI di assicurarsi che nessuno la disturbasse. Aveva già ricevuto abbastanza sguardi carichi di pietà dopo Arahtot, e non ne avrebbe sopportati altri. Si rifiutava di credere che il suo equipaggio fosse spacciato, ma allo stesso tempo non riusciva a non pensare a quella prospettiva come assolutamente probabile, e ciò le faceva raggelare il sangue nelle vene. Non essere stata capace di proteggerli, di difendere la sua nave, era qualcosa che non riusciva ad alcun modo a perdonarsi, nonostante la razionalità le suggerisse che non poteva colpevolizzarsi ulteriormente.
 
Quella sera non riuscì a scendere fino al ponte equipaggio, certa che vederlo vuoto e devastato le avrebbe dato la nausea. E neppure avrebbe potuto domandare a Kelly di portarle la cena… lei non c’era più. Si rassegnò semplicemente a convivere con i crampi della fame finchè non fossero diventati troppo acuti da cancellare il dolore e l’indignazione per ciò che era successo.
Dopo una doccia abbastanza lunga da consentirle un minimo di rilassare i muscoli, si distese sul suo letto, sperando di trovare conforto tra le lenzuola pulite. Si era ripromessa di non pensarci, di relegare ogni minuscolo “se” agli angoli più remoti della sua mente, ma alcune cose, constatò, erano impossibili da controllare totalmente. Gli occhi erano fissi sul cielo stellato sopra di lei, ma non vedevano che i volti delle persone scomparse, come in una sequenza infinita. Durante quei mesi la Normandy era diventata la sua casa, l’equipaggio la sua famiglia. La rabbia provata alla scoperta dell’attacco diventò impazienza e sete di vendetta, sentimenti capaci di annullare qualunque altra cosa. Persino la prospettiva del processo le sembrava ormai lontana e distante, quasi non la riguardasse più.
 
Quando, all’improvviso, sentì bussare al suo portellone si alzò di scatto, rendendosi conto di essere stata fino a quel momento in un tormentato dormiveglia. Aveva chiesto a EDI di non far passare nessuno, ma era consapevole che l’unica persona ad avere il coraggio di svegliarla a quell’ora della notte, sarebbe stata anche l’unica che avesse tollerato di vedere.
Quando Thane fece il suo ingresso in cabina, Shepard notò immediatamente il vassoio fra le sue mani. Si sedette a gambe incrociate sul letto, osservandolo e basta, senza dire una parola. Lui la raggiunse e posò il vassoio tra le lenzuola, prendendo posto sul bordo.
Shepard iniziò a curiosare, vincendo l’iniziale voglia di mandare tutto al diavolo. Doveva mangiare, e lui l’aveva risparmiata dello strazio di raggiungere la sala mensa, come se avesse sempre saputo quanto le costava.
Solo dopo aver consumato tre tramezzini di seguito, lei si degnò di parlare, trovandolo assorto in uno dei suoi ricordi.
La voce di Shepard gli bastò per riprendere contatto con la realtà, e lui rispose al suo grazie con un sorriso appena accennato. Capì immediatamente che non avrebbe avuto voglia di parlare, né di sentire ciò che lui aveva da dirle. Glielo poteva leggere chiaramente nello sguardo, nonostante i suoi non fossero occhi a quali era familiare per natura.
Se fino a quel pomeriggio una parte di sé era felice di averle alleviato il carico di responsabilità che si portava dietro, ora era dolorosamente consapevole che i nuovi sviluppi l’avevano fatta ripiombare nel baratro. E stavolta la soluzione non poteva che essere una sola. Lui non avrebbe potuto fare altro che prestarle il suo braccio, l’abilità per cui era nato e per cui adesso si trovava lì. Non ci sarebbero state abbastanza parole di conforto, né abbracci in grado di consolarla. Sarebbero stati solo miseri tentativi di insabbiare qualcosa che ormai era troppo palese per essere ignorato.
Aspettò pazientemente che lei finisse tutta la sua cena, finchè non restarono solo poche briciole sul vassoio, poi a malincuore decise di lasciarla riposare da sola. Non era sicuro che fosse ciò che lei volesse in quel momento, ma il fatto che lei non si fosse degnata di fermarlo non poté che confermarglielo.
Non sentì mai il suo nome, pronunciato debolmente contro il bordo delle lenzuola, come un ultimo e sciocco tentativo di non lasciare andare l’unica cosa che avrebbe potuto davvero salvarla.
 
 
 
Gli incubi che popolarono la sua mente quella notte furono inquantificabili. Si risvegliò più volte, madida di sudore, alla ricerca disperata di ossigeno. Stupidamente pensò di recarsi dalla Chakwas, chiederle uno di quei tranquillanti che si era sempre rifiutata di prendere, salvo realizzare l’attimo dopo, con orrore, che neanche la dottoressa c’era più. Si piegò su se stessa, affondando le dita nei
capelli sciolti, tentando di regolarizzare il respiro. Tutto ciò che chiedeva era un attimo di riposo, qualche ora da passare nell’oblio più totale, ma il suo inconscio continuava a rifiutarsi, portandola sull’orlo della disperazione. Si lasciò cadere di nuovo indietro sul cuscino, spalancando gli occhi, ormai completamente sveglia. Poi, incapace di restare ancora ferma a farsi sopraffare dalle preoccupazioni, decise di rivestirsi e di recarsi fino al ponte dei comandi. Trovò Joker alla sua solita postazione, e stavolta nessuno dei due disse nulla. Non ci fu nessuno scambio di battute, nessun gesto amichevole. Semplicemente, lei si abbandonò sulla poltrona del copilota e puntò gli occhi sul parabrezza davanti, perdendosi a rincorrere quelle miriadi di puntini bianchi che si stagliavano sul nero più scuro. Era lì per trasmettergli tutta la solidarietà possibile, quella impossibile da comunicare a parole… e lui ne era consapevole, nonostante nessuno dei due osasse proferir parola. Joker si limitò a rivolgerle uno dei suoi sguardi, uno di quelli che volevano dire “lo so, Comandante, ci siamo dentro, ma ci siamo dentro insieme”, e lei ricambiò con uno sguardo che sapeva di profondo rispetto.
Restarono così, silenziosi nella penombra per un’indefinita quantità tempo, finchè Shepard non realizzò che le sue responsabilità non cessavano con il suo pilota. Aveva un intero equipaggio sulle spalle, dodici individui scossi dagli eventi così come lo era lei. E aveva Thane, probabilmente chiuso nella sua cabina immerso in chissà quali pensieri.
 
Se lei fosse morta, durante l’attacco, non avrebbe lasciato nessuno. Il mondo era andato avanti durante i suoi due anni di assenza, le persone a lei vicine erano andate avanti, persino chi aveva giurato di amarla. Ma lui aveva ancora un figlio, e nonostante ciò si era lanciato ugualmente in quella missione, promettendole di starle a fianco fino alla fine.
Non aveva mai pensato di poter essere una persona egoista, ma lo era stata. Quella sera non si era chiesta se lui avesse avuto bisogno di parlarle. Aveva messo davanti se stessa e il suo bisogno di pace, senza farsi domande. E adesso il senso di colpa la assalì in tutta la sua interezza, stringendole lo stomaco in una morsa insopportabile.
Si alzò dalla sua postazione, percorrendo tutta la lunghezza della Sala Tattiche come se si trovasse in mezzo ad un cimitero. Ogni terminale fuori posto, ogni cavo staccato dalle pareti, ogni macchia scura sul pavimento le ricordarono quanto stavano rischiando di perdere, e non avrebbe permesso a se stessa di perdere altra gente. Il percorso che la portò dal ponte due al Supporto Vitale la vide totalmente disconnessa, quasi avesse iniziato a camminare per inerzia. Si riebbe solo dopo aver varcato la soglia del portellone, investita da un odore ormai familiare che aveva il potere di rassicurarla. Lo trovò seduto alla sua scrivania, la testa china fra le mani, gli occhi chiusi e un’espressione che lei non era sicura di conoscere. Lasciò che la sua mano gli sfiorasse delicatamente un braccio, prima che lui le bloccasse il polso improvvisamente. Un istinto naturale, quello di un assassino, che svanì l’attimo seguente insieme ad una parola.
“Scusa”.
“Non volevo spaventarti”, si giustificò lei, appoggiandosi alla scrivania con un fianco. “Come stai?”
“Non preoccuparti per me”, rispose lui, senza esitare.
Odiava quella frase. Come poteva chiederle di non preoccuparsi? Era quantomeno egoista da parte sua pretendere che lei facesse come richiesto, accantonando qualunque sentimento. Eppure non se la sentì di rispondere, perché sapeva che lui le avrebbe elencato una lista infinita di cose che richiedevano un’attenzione maggiore, secondo il suo personale modo di vedere le cose. E qui, i loro punti di vista prendevano due strade totalmente differenti.
“Non hai dormito?”
Doveva essere una domanda, ma il tono di voce di lei fu più vicino a quello di una constatazione.
“Dormirò. C’è ancora tempo”, rispose lui, alzandosi.
Una parte di lei pensò, o forse solo sperò, che lui la avvicinasse, facendole spazio fra le sue braccia, ma lui rimase immobile dov’era, in una situazione di stallo. Avrebbe potuto farlo lei, si disse, ma qualcosa negli occhi di lui la bloccò, impedendole di muovere un passo. Iniziò a stringere in mano il bordo della manica della sua divisa, un gesto inconscio di disagio. C’era qualcosa che, subdolo, doveva essersi frapposto fra di loro… ma lei non riuscì capire cosa, e neppure ebbe il coraggio di domandare.
“Volevo solo assicurarmi che stessi bene”, cercò di ribadire, stupidamente.
“Sto bene, Siha”, annuì lui.
Seguirono ancora interminabili istanti di silenzio, prima che lei sentisse di nuovo il bisogno da uscire da quella situazione statica e innaturale.
“Stavi… ricordando qualcosa?”
Lo vide chiaramente irrigidirsi a quella domanda, prima che andasse a sedersi sul suo letto con un sospiro. Un chiaro tentativo di sfuggire alle sue domande, o anche solo al suo sguardo.
“Ho bisogno di restare solo. Ti prego, scusami”.
La sua risposta la sorprese, ma forse non più di quanto avrebbe immaginato. Iniziò a chiedersi immediatamente se il comportamento di lui fosse stato spinto dal rancore verso l'atteggiamento della sera prima, ma non sarebbe stato da lui. Thane l’aveva sempre compresa, anche quando lei arrivava a odiare se stessa, anche quando neppure lei riusciva a capirsi, e non poteva credere che il giorno prima della resa dei conti lui avesse deciso di punirla regalandole sensi di colpa su sensi di colpa. Aveva di certo le sue buone ragioni, e lei le avrebbe rispettate senza discutere. Annuì appena, incerta sul modo in cui lasciarlo. Poi, vincendo il timore iniziale, gli si avvicinò facendo per cercare la sua mano. Quando lui si accorse del gesto e portò la sua su quella di lei, Shepard si era già allontanata con un’insicurezza di cui lui non la credeva capace. Una frazione di secondo bastò loro per dividerli, ma fu forse più dolorosa persino di tutte le cose non dette che aleggiavano nell’aria e avvelenavano le loro anime.
 
 
Non era stata sua intenzione lasciarla andare. Non totalmente, almeno. Una parte di sé non avrebbe mai voluto rinunciarvi, conscia del poco tempo che restava loro, conscia di quanto ne avesse bisogno. Un’altra parte di sé, invece, quella subdola e più difficile da controllare, lo voleva ancora una volta legato al passato, alla continua ricerca di qualcosa che in ogni caso non avrebbe mai potuto trovare.
Il punto di rottura dell’equilibrio che lui cercava costantemente di mantenere, era stato, con ogni probabilità, la comunicazione avuta con suo figlio qualche ora prima.
Aveva raccolto tutto il suo coraggio e aveva inoltrato la chiamata, trovandosi faccia a faccia con suo figlio una manciata di secondi dopo. Sulla Cittadella doveva essere giorno, a giudicare dagli spiragli di luce che filtravano dalla finestra, disegnando righe luminose sul volto del giovane Drell. Tentò di leggere l’espressione di Kolyat, scoprendosi confuso e impacciato. Non lo conosceva così bene da saperne interpretare le emozioni, e d’altronde non poteva meravigliarsene: era stato lui ad abbandonarlo troppi anni prima, rinunciando a qualunque forma di contatto. Dopo le solite frasi di rito, pronunciate con troppo imbarazzo da parte di entrambi, lui decise di arrivare subito al punto, comunicandogli che tra poche ore sarebbe partito per la missione per la quale era lì sin dall’inizio. Kolyat non aveva risposto subito, ma aveva invece distolto lo sguardo dal terminale. Poi gli aveva chiesto per quale dannato motivo lo stesse informando.
“Perché è giusto che tu sappia, nell’eventualità che io…” Thane si era bloccato, senza riuscire a rendere la pillola meno amara.
“…che tu muoia? Lo so perfettamente, questo. Tanto è solo questione di tempo, no? Prima o poi te ne andrai comunque”.
Quelle parole, pronunciate forse con più rabbia del dovuto, lo colpirono in maniera devastante. Sapeva bene che non sarebbe stato facile per suo figlio smettere di portargli rancore, ma ogni volta che lui glielo ricordava, il dolore era quello di sempre, quello di una ferita fresca, impossibile da curare.
“Lo sto facendo anche per te, Kolyat”.
“Certo…”, mugugnò lui, tenendo gli occhi bassi, fissi sul pavimento sotto di sé. “E’ questo che dicevi alla mamma, ogni volta che andavi via per lavoro? Che lo facevi per lei, per noi?”
Thane non rispose, perché non aveva alcuna intenzione di mentirgli, né di ammettere che fosse davvero così. Perché suo figlio aveva ragione, e lui lo sapeva bene. Nello spazio di un secondo, arrivò perfino a rivalutare l’idea di aver deciso di unirsi alla causa di Shepard… ma se anche vi avesse rinunciato, se anche avesse deciso di abbandonare tutto per raggiungerlo, sarebbe mai riuscito ad essere un buon padre?
No, gli avrebbe dato solo un fardello in più di cui preoccuparsi. Entro qualche mese avrebbe iniziato a peggiorare, necessitando di un’assistenza costante di cui non voleva caricarlo. Rispuntare dieci anni dopo averlo abbandonato per dargli solo un malato di cui doversi occupare? Questo avrebbe superato qualunque egoismo possibile, da parte sua… e non poteva permetterlo, neanche se fosse stato suo figlio in prima persona a chiederglielo.
“Stavolta è diverso…”, fece per spiegare, venendo bruscamente interrotto da suo figlio.
“Non mi interessa”, esclamò lui. “Senti… farò tardi ai servizi sociali, quindi…”
Thane pregò che quelle che aveva visto agli angoli dei suoi occhi non fossero lacrime, prima vederlo in procinto di troncare la comunicazione.
“Kolyat”, lo chiamò, fermandolo appena in tempo. “Ti voglio bene”.
Vide solo suo figlio annuire e portarsi una mano sugli occhi, prima che interrompesse definitivamente la conversazione, lasciandolo annegare nei soliti, antichi, insopportabili sensi di colpa.
 
 
Continuava a rivivere quella breve conversazione nella sua mente, esaminandola alla luce di mille variabili, cercando nuovi punti di vista, nuove ragioni. Suo figlio soffriva, questo era fuori di dubbio, ma lui cos’avrebbe potuto fare davvero per cambiare la situazione? Non c’era assolutamente nessuna soluzione all’orizzonte, se non la speranza che lui, un giorno, arrivasse a capire. Omega 4 o no, sarebbe morto comunque.
Era felice di averlo salvato, era felice anche solo di avergli potuto dare un abbraccio, era felice di avergli parlato… ma la consapevolezza che lo avrebbe abbandonato di nuovo, presto o tardi, non riusciva a dargli pace. Non riusciva a smettere di domandarsi che cosa avrebbe fatto, una volta solo. Se avrebbe ceduto di nuovo al richiamo di una vita corrotta, se avrebbe finito per isolarsi fino a perdere completamente il senso delle cose, se avrebbe continuato a vivere nel rancore, senza trovare il modo di riuscire a sorridere di nuovo…
E non avrebbe abbandonato solo lui. Tutti i tormenti che lo avevano accompagnato lungo la strada del suo cambiamento, da quando per la prima volta aveva messo piede sulla Normandy, si condensarono in quelle ore, riempiendogli la testa di pensieri autodistruttivi. Se non avesse mai saputo di Kolyat, se non avesse mai permesso a Shepard di avvicinarsi…
Era stato così terribilmente egoista, e se ne rendeva conto nel complesso solo adesso, di fronte alla probabilità sempre più pressante che sarebbe potuto morire ancor prima della data che già da anni pendeva sul suo capo.
Shepard era stata così dannatamente brava a convincerlo che lui meritasse di essere felice, che lui aveva sperimentato davvero quel sentimento, nonostante avesse smesso di crederlo ormai possibile da parecchio tempo. Sapeva che una relazione, nelle sue condizioni, sarebbe stata tutto fuorché normale, e aveva creduto di poterla comunque affrontare, spinto dalla certezza che lei avesse davvero bisogno di lui. E proprio alla luce di questo non poté fare a meno di odiarsi profondamente per essere ricaduto con così tanta facilità negli stessi dubbi di sempre, proprio quando lei avrebbe avuto maggiore necessità di qualcuno a cui aggrapparsi. Aveva perso il suo equipaggio, ed era fuori di dubbio che si stesse crogiolando in un mare infinito di sensi di colpa, e lui… lui non era riuscito a fare nulla per aiutarla, convincendosi che lasciarle spazio sarebbe stata la cosa migliore da fare.
 
 
Quando decise di dare un taglio netto alle emozioni negative che, abilmente, l’avevano intrappolato per l’ennesima volta, erano passate già parecchie ore di navigazione. Un’enorme quantità di tempo passata ad annegare nei ricordi, nei rimpianti, nel rimorso più totale. Non era così che aveva immaginato di passare le ultime ore prima della resa dei conti, non erano questi i ricordi che avrebbe voluto possedere se tutto fosse andato a rotoli. Si era ripromesso che ci sarebbe stato, e l’avrebbe fatto, a qualunque costo.
Raggiunse la cabina di Shepard senza aver dato neppure un’occhiata all’orario. Quando si trovò dietro al portellone, pensò di essere sul punto di esplodere. Non avrebbe potuto fare di nuovo finta di niente, come quando era andato a portarle la cena.
La trovò seduta alla scrivania, intenta a rileggere febbrilmente i dati che scorrevano sul suo datapad. Lui la raggiunse velocemente, e prima che potesse anche solo accorgersene, le parole avevano iniziato a scivolare dalle sue labbra, come se non gli appartenessero, come se avessero vita propria.
“Siha…”
Lei si alzò, palesemente turbata dal suo atteggiamento, o forse anche solo dal fatto che lui avesse fatto irruzione senza neppure avvertirla. Ma lui non riuscì a fermarsi, investito da un vortice di pensieri che aveva preso totalmente il controllo su di sé.
“Sapevo da molti anni che sarei morto…”, continuò, “insieme abbiamo fatto tanto. Abbiamo reso la Galassia un posto migliore. Mi hai aiutato ad ottenere molto più di ciò che ho sempre sperato… Ho parlato con mio figlio. Dovrei essere in pace con me stesso, alla vigilia della battaglia, ma…”
“Thane… fermati”, disse lei, ormai decisamente preoccupata. Gli si avvicinò, posando una mano all’altezza del suo cuore. Riuscì a percepire chiaramente l’ansia di fondo che traspariva da ogni sua parola, e ciò la ferì terribilmente.
“Io… provo vergogna”.
Quelle parole le fecero ancora più male, assieme agli occhi di lui che rifuggivano in tutti i modi al suo sguardo. Lui prese le distanze, e lei tentò ancora una volta di cercare un contatto, sollevando una mano per posarla sulla sua guancia. Ma Thane la allontanò bruscamente, volgendosi per darle le spalle. Un gesto che esprimeva quanto lui pensasse di non meritare le sue attenzioni… come se solo toccandolo, lei avrebbe potuto corrompersi.
Lo vide allontanarsi, raggiungere la sua scrivania e appoggiarsi sulla lastra di metallo alla ricerca di equilibrio, prima che colpisse forte la superficie con un pugno. Lei sussultò, totalmente impreparata. Non l’aveva mai visto perdere il controllo in quel modo, non l’aveva mai visto così vulnerabile, così… umano. Era sempre stata lei quella sull’orlo di una crisi, era sempre stata lei quella da salvare… e se lui doveva aver provato la metà di quell’angoscia che sentiva adesso lei…
“Ho lavorato molto in questi anni”, riprese a dire lui, a denti stretti, “ho meditato, ho pregato, ho fatto ammenda per il male che ho causato. Mi ero preparato…”
Lei non si sarebbe arresa. L’avrebbe aiutato, in qualunque modo possibile. E se l’avesse allontanata ancora, lei l’avrebbe di nuovo avvicinato, e avrebbe usato anche la forza, se necessario. Se lo ripromise, camminando lentamente verso di lui, mentre sentiva di sbriciolarsi dentro.
“Ma se penso alla morte del mio corpo sento un brivido lungo la schiena. Io ho paura. E me ne vergogno…”
Sentì la mano di lei chiudersi intorno al suo pugno, la sua presenza rassicurante appena dietro alla sua schiena. Non avrebbe voluto mostrarle quel lato di sé, non avrebbe voluto mostrarle tutti i suoi timori proprio adesso, non avrebbe voluto mostrarle le sue lacrime… ma l’aveva fatto, spinto probabilmente da quello stesso istinto di conservazione che adesso vanificava anni e anni passati a fare pace col proprio destino.
Quando si voltò, guidato dolcemente dalla sua mano, lesse su quel viso umano tutta la disperazione che doveva star provando. Aveva gli occhi lucidi, pieni di lacrime, e il tremito sulle sue labbra gli suggerì che fosse in procinto di piangere. Lei appoggiò la sua fronte sul petto di lui, stringendo entrambe le mani intorno alle sue in una morsa decisa. Chiuse gli occhi per una frazione di secondo, lasciando alle lacrime la libertà di scorrere lungo le sue guance.
“Siamo vivi. Io e te siamo vivi adesso, ed è questo che conta”, gli disse poi, tentando di fuggire quanto più possibile dalla voglia di lasciarsi andare ad un pianto devastante. Poi lui sollevò il suo viso, cancellando la traccia di una lacrima. Cercò le sue labbra, e in quel dolcissimo bacio, troppe lacrime e troppi sentimenti si mescolarono insieme, trasformandosi in centinaia di cose diverse, che iniziavano con lui e finivano con lei.
 
 
 
Il pavimento vide sommarsi i loro vestiti alla rinfusa, come se ognuno di quegli indumenti fosse un’emozione di cui avevano deciso di liberarsi. La dolcezza iniziale che aveva guidato i loro gesti, lenti e misurati, raggiunse presto ciò che restava di quelle emozioni, giacendo dimenticata ai piedi del letto insieme ad un'infinità di altre cose per cui adesso non c'era più spazio.
Si scontrarono come onde del mare sugli scogli, sperando forse che l'urto attutisse e placasse il dolore, così come l’acqua leniva pazientemente la roccia. Ed entrambi erano onda ed erano roccia, invertendo abilmente i ruoli quando la marea lo domandava. Più il contatto era piacevole, più aumentava il desiderio di farsi male, come se provare dolore fosse l'unico modo di sapere che entrambi erano ancora vivi, che entrambi avrebbero potuto amare ancora. C'era un oceano negli occhi di lei, uno di quelli dove lui avrebbe voluto annegare. E c'era il cielo più nero negli occhi di lui, uno di quelli dove lei era pronta a morire. Se le lacrime avessero avuto il potere di trasmettere emozioni, adesso entrambi avrebbero saputo di essere vittime dello stesso bisogno. La rabbia si sommò alla rabbia, il rancore al rancore, la paura alla paura, e l'amore all'amore, moltiplicando quel sentimento fino a sentirne il peso dentro al cuore, un ritmo pulsante che si faceva portavoce di speranza e cancellava tutto il resto.
 
Le emozioni possono crescere, diminuire, addirittura mutare... e loro questo l’avevano sperimentato, riuscendo in qualche modo a convertire il nero in bianco, tralasciando di proposito tutte le sfumature intermedie. Quella notte non ci sarebbe stato spazio per il grigio, ci avevano passato le loro vite in quella condizione perenne d'incertezza, e il futuro domandava risposte. Le risposte furono cori di sospiri che si mescolavano a baci leggeri, carezze e sguardi limpidi, come limpide erano le stelle che accarezzavano dall’alto la Normandy. Scoprirono di condividere gli stessi atomi, mentre si regalavano pezzi di anima. Nessuno avrebbe potuto custodirli meglio di qualcuno disposto a tutto pur di proteggere ciò che aveva di più caro, e in ciò sapevano di aver fatto la scelta giusta, riponendo se stessi nell’altro. Quando tornarono a guardarsi, dopo lunghi momenti che li avevano visti semplicemente intenti a volersi liberare da ogni corruzione, fu come specchiarsi. Ogni cosa in loro era diversa e li separava, se non ciò che li teneva indissolubilmente legati. E impararono a cercare quella connessione nei rispettivi occhi, trovando tutte le risposte alle domande che non riuscivano a fare.
 
Lei pensò di essere sul punto di piangere, quando lui accarezzò la sua pelle solo con le sue iridi, fermandosi di proposito solo per osservarla. Poté sentirlo chiaramente dentro di lei, quello sguardo che fin dal principio aveva avuto il potere di spogliarla completamente, come se lui avesse sempre posseduto le chiavi della sua anima… quelle che lei aveva imparato a proteggere e a nascondere, credendo scioccamente di esserne l’unica in possesso. E ciò che premeva per uscire dalle sue labbra l’avrebbe confermato, liberandola davvero dagli ultimi brandelli di quel muro che aveva cercato di costruirsi intorno da sempre. Non erano più muri, erano solo calcinacci, macerie… ma dietro di essi lei riusciva ancora a nascondersi, credendo che la solitudine fosse meno dolorosa che affrontare un sentimento così grande come quello che le aveva intrappolato il cuore. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto uscire allo scoperto. Era un soldato, ed era dannatamente consapevole che stare sulla difensiva, a volte, è peggio che lanciarsi all’attacco… ma in quel momento, davanti a due occhi nerissimi eppure incredibilmente cristallini, si sentì spaventosamente indifesa, proprio come se una scarica di fuoco nemico l’avesse appena raggiunta in pieno petto, non lasciandole altro che la tremenda paura che la sua armatura non avesse retto i colpi. Bloccò di netto ogni emozione che la sua mente e il suo corpo le stavano trasmettendo, sapendo che se le avesse lasciate libere di affluire in superficie, avrebbe raggiunto il punto di non ritorno più pericoloso, alla stregua di un meraviglioso salto nel vuoto, uno di quelli che probabilmente non aveva mai compiuto, sempre protetta da qualcos’altro.
“I miei scudi sono a zero”, disse all’improvviso, mentre lui le cingeva i fianchi, assorto a guardarla come se non avesse mai visto niente di più bello.
Il sorriso scomparve dalle labbra di lui, diventando confusione. Le sue mani risalirono lungo la sua schiena, traendola dolcemente a sé, ricercando tacitamente una spiegazione.
“I miei scudi sono a zero quando sto con te. Sono sempre a zero…”, continuò lei, abbandonandosi contro la sua spalla e irrigidendo ogni muscolo, fermando quella marea che lentamente li aveva condotti fino a quel momento. “Potresti stringere le tue mani intorno al mio collo e uccidermi, e io non opporrei resistenza”.
A quelle parole, stonate per essere quelle di un soldato, lui cercò il suo viso, ricevendo in cambio un altro gesto di chiusura che avrebbe rispettato.
“Mi fido di te, come di nessun altro. Ho sperimentato il tradimento, in mille modi… ho sperimentato l’abbandono, ho sperimentato la perdita… Ho sempre creduto che quelli sarebbero rimasti i pilastri della mia vita, gli unici probabilmente… E invece tu… dio, perché è così difficile?”
La sua voce, da malinconica divenne carica di frustrazione, e le sue mani si strinsero intorno alle spalle di lui.
“Non è difficile”, rispose Thane, portando una mano ad accarezzarle i capelli.
“Lo è, invece”, ribatté lei, sottolineando quel concetto con un leggero pugno sulla sua spalla. “Lo è perché tu mi hai sconvolto, mi hai fatto male e mi hai salvata, in modi che io non avrei mai immaginato. Ed è difficile da gestire, è difficile credere che dovrò fare a meno di te… ora che sei così dannatamente indispensabile”.
Thane non rispose, perché non c’era assolutamente niente da dire. Il salto nel vuoto era difficile per lui così come lo era per lei, e se prima erano stati solo goffi tentativi di volare, ora il baratro era così vicino da poterne vedere l’imperscrutabile profondità. Però…
Però non avrebbero dovuto farlo da soli. Avrebbero potuto prendersi per mano e saltare insieme, gioendo entrambi di quell’ebbrezza, prima dell’inevitabile.
“Tu non ti arrendi mai…”, sussurrò lui, quasi contro il suo volere. E non era un’incitazione, era piuttosto una presa di coscienza, una constatazione dei fatti, di ciò che lei era per lui, di ciò che sarebbe sempre stata.
“Lo so, ed è per questo che non farei mai a meno di te”.
Stavolta fu lei a sorridere, sollevando il viso per cercare quegli occhi che l’avevano dilaniata, per poi restituirle la sicurezza di cui lei aveva sempre avuto bisogno. Adesso le lacrime sulle sue guance non sapevano di disperazione, ma di una completa e totale gioia che doveva ancora arrivare, a dispetto di ogni futura conseguenza.
Il bacio che si scambiarono sarebbe rimasto per sempre nella memoria perfetta e imperfetta di entrambi, perché ebbe il potere di disinnescare un meccanismo di autodistruzione da sempre instillato nelle loro anime. E subito dopo iniziarono a raccogliere le emozioni di cui si erano liberati all’inizio, certi adesso che ne avrebbero fatto un mosaico bellissimo, certi che per amarsi non sarebbero dovuti essere due gusci vuoti e solitari, ma due anime piene di tutto che si scontrano per miscelarsi, non per distruggersi.
L’azzurro, quella notte, si accese sulla loro pelle come fiamma viva, tingendo tutto il resto di un colore simile alla speranza, un autentico assaggio di paradiso prima di raggiungere l’inferno.


 
A un'ora e mezza dalla partenza, ho deciso di pubblicare anche il penultimo (o forse no) capitolo di questa storia. Beh, diciamo che dovevo farlo, per lasciarmi meno cose possibili dietro. Da ora in poi c'è soltanto un enorme punto interrogativo davanti a me, e poche, pochissime certezze. Nonostante ancora non ci sia la parola fine, sento di dovervi ringraziare. Proprio perchè quando un capitolo della tua vita finisce, ti aspetti di vedere dei titoli di coda. E nei miei titoli di coda voglio assicurarmi di non tralasciare nulla. Quindi grazie, grazie per le letture, grazie per il sostegno e grazie per il tempo che mi avete dedicato fin dall'inizio... ogni piccola cosa ha un valore inestimabile.

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Capitolo 23
*** Undying Love ***


It's a race
But I'm gonna win
Yes, I'm gonna win
And I will light the fuse
And I'll never lose
And I choose to survive
Whatever it takes
You won't pull ahead
Cause I'll keep up the pace
And I'll reveal my strength
To the whole human race
Yes, I'm gonna win”

  - Survival, Muse
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Aveva i capelli ancora bagnati quando li fissò saldamente alla base della nuca, dopo averli legati in una treccia. Nell’aria le note artificialmente fruttate di shampoo che presto sarebbero state assorbite dal materiale ruvido, ma efficace, della tuta protettiva. Indossò gli stivali magnetici, poi i gambali e infine i cosciali, accorgendosi che le sue mani non smettevano di tremare. Si fermò per un istante, serrando gli occhi. Inalò poi un lungo respiro, ricordando a se stessa l’importanza di quella missione, e si ammonì silenziosamente per la reazione che stava avendo. Quando riaprì gli occhi, Thane era davanti a lei, la corazza N7 tirata a lucido fra le sue mani. Lei annuì appena e gli diede le spalle, consentendogli di aiutarla. Assicurò ogni cinghia con scrupolo, poi lasciò che lui le agganciasse gli spallacci e le porgesse il resto della sua armatura. Finì di indossare con eccessiva cura ogni pezzo, finché anche le sue mani non furono interamente coperte dalla trama spessa dei guanti. E smisero di tremare.

Si trattava di pura e semplice routine, ma per qualche motivo nulla le era mai apparso più diverso. Per quanto fino all’ultimo avesse tentato di convincersi che tutto sarebbe andato per il meglio, il portale di Omega 4 restava pur sempre un’incognita di dimensioni inimmaginabili. La paura che la Normandy non ce l’avrebbe fatta le impedì di pronunciare una sola sillaba durante il tragitto che li portò entrambi in armeria, dove almeno metà dell’equipaggio stava attualmente chiacchierando concitatamente di fronte agli scaffali ben riforniti di armi. Shepard si diresse come un automa verso il suo scomparto personale, estraendo il Crusader e la Paladin nuova di zecca, ma ampiamente testata. Le aveva ricontrollate almeno una ventina di volte negli ultimi tre giorni, ma lo fece di nuovo con la solita perizia. Ignorò ogni richiesta da parte di chiunque, zittendoli a turno con un cenno della mano, dopodiché si diresse a passo spedito da Joker, apprendendo dal suo pilota che mancava poco meno di mezz’ora all’arrivo. Convocò dunque tutto l’equipaggio in sala briefing con un breve messaggio vocale e poi si accasciò sulla poltrona accanto a lui, suscitando lo sguardo incerto del pilota.
“Shepard, così non mi sei di incoraggiamento” le disse lui, tentando di apparire disinvolto. 
“Non hai bisogno di incoraggiamento, Joker. Fai quello che ti riesce meglio e nessuno di noi avrà nulla da temere.”
“Così va meglio” mormorò lui, curvando le labbra in un debole sorriso.

Shepard avrebbe voluto dirgli tante cose, forse troppe… Cose che erano sempre rimaste nell’aria, incapaci di concretizzarsi davvero. Entrambi si trovavano di nuovo di fronte ad un punto di non ritorno, di fronte a una situazione che presto o tardi avrebbe richiesto ancora un sacrificio. Fino alla fine, lei sperò che fosse lui a dire qualcosa, ma sapeva bene che non era nel suo stile. L’ultima cosa che Joker avrebbe fatto sarebbe stata lasciarsi andare ai sentimentalismi poco prima di una missione suicida. Però le fu impossibile reprimere l’istinto di appoggiare una mano sul suo braccio, con la delicatezza che le ossa fragili del pilota richiedevano. Lui si voltò verso di lei, visibilmente sorpreso, ma allo stesso tempo grato che almeno uno dei due avesse avuto il coraggio di fare qualcosa, anche un gesto così piccolo, ma carico di significato.
“Vai Comandante, non fare aspettare quel branco di scalmanati. Io sono a posto” le disse dopo qualche istante di assoluto silenzio. Lei si sentì finalmente sollevata, libera di potersi concentrare su ciò che adesso era fondamentale.

I volti dei suoi compagni di squadra erano seri, tesi come corde di violino. Ciò che era successo una manciata di ore prima era ancora vivido nella memoria di tutti e suonava come un terribile ammonimento. Si schiarì la voce, ripromettendosi di mantenere il contegno necessario. Nessuno poteva vederla vulnerabile.
“Ci siamo” iniziò, “non è andata esattamente come speravamo, ma sapevamo tutti cosa c'era in ballo. E ognuno di voi ha dimostrato di essere all'altezza di questa missione, di essere un tassello fondamentale di questa squadra. Adesso è arrivato il momento di dimostrarlo al resto del mondo. Coloro che hanno compiuto questo scempio” gesticolò, indicando le pareti imbrattate della stanza, “devono pagare. Forse non siamo preparati come avremmo dovuto, forse ci aspettavamo un maggiore preavviso... ma la realtà è che il momento è arrivato. Non lasciate che ciò vi intimorisca. Usate questa rabbia per alimentare la forza che vi servirà una volta superato il portale di Omega 4.”

I suoi compagni di squadra annuirono, chi con convinzione, chi con maggiore riservatezza.
“So che l'abbiamo sempre definita una missione suicida, ma non è così che voglio chiamare ciò che siamo in procinto di compiere oggi. Questa sarà una missione di soccorso. Andiamo a riprenderci il nostro equipaggio, andiamo a riprenderci la nostra gente e ricacciamo quei dannatissimi Collettori nel buco dal quale sono arrivati...” continuò Shepard, scrutando i membri del suo team con determinazione. “Voglio vedervi agguerriti e senza paura. Perché ne usciremo vincitori, costi quel che costi.”
Grunt emise un suono simile a un ruggito e picchiò i pugni sul tavolo, suscitando il sorriso del resto dell'equipaggio. Shepard gli rivolse uno sguardo compiaciuto e si allontanò dal tavolo al quale si era appoggiata durante il suo discorso.
“Vi voglio ognuno alle vostre postazioni. EDI ci terrà aggiornati.”
Un coro di 'ricevuto', e la stanza si svuotò nel giro di pochi secondi. Shepard fece ritorno alla cabina di pilotaggio, avvicinandosi alla plancia dei comandi.
“Ai tuoi ordini, Comandante” disse Joker, mantenendo gli occhi fissi sulla strumentazione di volo.
“Siamo pronti” rispose Shepard, aggrappandosi al sedile del pilota. “EDI?”
“Segnale di riconoscimento del Razziatore attivato e confermato.”
“Nucleo motore?”
“Acceso alla massima potenza. Livelli critici.”
“Joker?”
“Sto reindirizzando...”
“Prepararsi alla decelerazione.”


“Merda!”
L'attraversamento era stato brusco, come ogni salto iperluce, ma la Normandy era ancora intatta. Al di là del portale, però, si presentava uno scenario apocalittico. Joker fu costretto a manovrare la nave con estrema attenzione per evitare la miriade di rifiuti cosmici che fluttuavano pericolosamente intorno alla Normandy.
“Merda, merda, merda!” esclamò ancora il pilota, gli occhi fissi sullo scenario di fronte a sé, le mani intente a gestire i comandi.
“Shepard, rilevo la presenza di navi sentinella dei Collettori” intervenne EDI prontamente. “Segnalo la loro posizione sulla mappa.”
“Merda!” urlò nuovamente Joker, il radar diventato improvvisamente una costellazione di puntini luminosi. “Disintegrali, EDI!”
“Dannazione...” imprecò Shepard, incapace di distogliere lo sguardo dalla nana arancione che brillava di fronte a loro, appena dietro a quella che doveva, con molta probabilità, essere la base dei Collettori. “Portaci più vicino” ordinò al pilota, mordendosi nervosamente le labbra.

“Inizio delle manovre evasive...”
“Breccia nello scafo sul ponte macchine” avvisò EDI, facendo risuonare l'allarme in tutta la nave.

Shepard estrasse la Paladin e iniziò a correre verso l'ascensore, tentando di mantenere l'equilibrio mentre Joker virava bruscamente verso destra per evitare un ammasso di rottami.
“Grunt, Legion, ponte macchine. Subito!” comunicò attraverso il factotum.
“Ricevuto, Comandante” risposero i due in coro.
Quando Shepard giunse nello scafo, Grunt aveva già eliminato due Oculus con il suo fucile a pompa. Un potente raggio laser aveva squarciato la Normandy, esponendola a danni considerevoli.
“EDI, quanto ancora possiamo resistere?”
“Sarebbe raccomandabile evitare il fuoco diretto.”
Shepard roteò gli occhi, spazientita, prima di sporgersi dalla sua copertura e inviare un globo biotico in direzione di una Sentinella, col risultato di farne esplodere i circuiti.
“Shepard, posso tentare di seminarli all'interno del campo di detriti, ma si ballerà un pò” intervenne Joker.
“Stiamo già ballando” rispose lei a denti stretti, mentre rischiava di andare a finire su Grunt.
“Tenetevi forte” avvisò allora il pilota.

Il Comandante poté sentire chiaramente il rombo dei sistemi di propulsione che acceleravano alla massima potenza, mentre diventava sempre più difficile mantenere l'equilibrio. Un altro raggio laser minacciò di colpirla, lacerando la parete appena dietro di lei. Si sporse il necessario per fare fuoco con la sua Paladin e comunicare a Legion di fare una scansione della stiva.
“Quello era l'ultimo, Comandante Shepard” comunicò il Geth.
“Bene” sospirò lei, reggendosi ad un tubo di metallo mentre la Normandy si esibiva in un'altra delle sue virate. “Joker?”
“Tutto sotto controllo” rispose il pilota. “Raggiungici appena puoi.”
“Arrivo” disse lei, scattando in piedi verso l'ascensore. “Grunt, Legion, mantenete la vostra posizione.”


Stavolta, lo scenario che le si parò davanti, una volta in cabina di pilotaggio, fu ancora più sconcertante, se possibile. I resti delle navi che si erano disintegrate una volta superato il portale li circondavano in una densa rete di rottami.
“Li abbiamo seminati?” domandò Shepard, trafelata.
“Ci sto provando” rispose il pilota a denti stretti. “Io indosserei le cinture di sicurezza se fossi in te, Comandante” aggiunse, dando un cenno alla poltrona alla sua destra.
Shepard gli diede ascolto, prendendo posto e assicurando le fibbie della cintura intorno alla sua armatura. “Team, status?” chiese poi attraverso il comm.
“Nessun problema qui, Shepard” rispose Miranda.
“Motori sotto controllo” aggiunse Jacob.
“Cannoni pronti” comunicò Garrus.
“Danni alla nave, oltre a quelli in stiva?”
“Nessun altro danno rilevato” replicò EDI. “Barriere cinetiche stabili al 30%.”
“Vediamo di non portarle al di sotto...”
“Ci provo” intervenne il pilota, prima di un'altra brusca virata.


Quando, di fronte ai loro occhi, apparve chiara la sagoma della base dei Collettori, il peggio sembrava essere passato. I detriti si erano diradati e avevano intrappolato al loro interno buona parte delle sentinelle che avevano precedentemente dato la caccia alla Normandy, lasciando così il pilota libero di concentrarsi sull'attracco.
“Cerchiamo di non dare nell'occhio” suggerì Shepard.
“Troppo tardi” esclamò Joker a denti stretti, osservando il radar, “sembra ci stiano inviando una vecchia conoscenza.”
Shepard capì immediatamente di cosa si trattava. Il mezzo responsabile della sua morte, dell'attacco alla Normandy SR1. Strinse le labbra con disprezzo, cercando di mantenere la calma.
“Garrus, hai visto?” domandò attraverso il factotum.
“Al tuo segnale” rispose il Turian.
“Dacci dentro.”
La coppia di Thanix agganciò il nemico e fece fuoco, danneggiando abbastanza gravemente l'Incrociatore alieno da innescare una serie di esplosioni a catena, talmente potenti da lanciare rottami a velocità inaudita in direzione della Normandy. Uno di questi doveva averla colpita su un fianco, poichè nonostante l'abilità del pilota, la nave sembrò trovarsi presto fuori controllo.
“I generatori del campo di forza sembrano offline” decretò il pilota.
“EDI?”
“I generatori non rispondono. Prepararsi all'impatto.”
“No… Joker, deve pur esserci qualc-” esclamò Shepard, un attimo prima di ritrovarsi con la schiena sul soffitto, libera dalle cinture che avevano ceduto all'urto troppo violento.

La Normandy si schiantò contro la base dei Collettori, arrestandosi solo dopo un lasso di tempo che a Shepard sembrò infinito. Persino Joker adesso riversava sul pavimento, incapace di restare ancorato alla sua poltrona di pilotaggio.
Il Comandante si rialzò a fatica, controllando immediatamente che il pilota stesse bene e che non ci fossero casualità. Il resto dell'equipaggio le confermò il loro status, rassicurandola un minimo.

“EDI?”
“Diverse funzioni primarie risultano sovraccariche dopo lo schianto. La riparazione richiederà del tempo.”
“Siamo al sicuro qui?”
“E' possibile che i Collettori non ci abbiano rilevato. Non rilevo alcun sistema di sicurezza esterno attivo” rispose l'IA, tranquillizzandola relativamente.
Shepard considerò brevemente la possibilità che avessero perso ogni occasione di fare ritorno, ma scacciò questo pensiero con decisione. Anche se la Normandy si fosse rivelata troppo danneggiata, la loro missione restava comunque quella di distruggere la base dei Collettori per impedire ulteriori rapimenti a danno delle colonie. Tutto il resto doveva passare in secondo piano. La Normandy era stata la prima nave ad attraversare, intatta, il portale di Omega 4 e a lei non restava che il compito di credere fermamente che sarebbe stata anche la prima a farne ritorno.

Dopo un secondo briefing all'equipaggio, dove EDI fu in grado di mostrare le scansioni preliminari della base nella quale dovevano infiltrarsi, Shepard prese la decisione di formare due squadre distinte e separate che avrebbero avuto come scopo quello di raggiungere il nucleo della stazione. Lì, come EDI aveva ipotizzato dalle sue analisi, avrebbero potuto trovare dei coloni ancora in vita o, più ottimisticamente, il resto del suo equipaggio, oltre al potente nucleo centrale che gli avrebbe consentito di distruggere la stazione stessa, una volta sovraccaricato.
Miranda aveva fatto notare la necessità di nominare un tecnico in grado di bypassare i sistemi di sicurezza per garantire l'accesso alla struttura, man mano che le squadre sarebbero avanzate. La decisione di Shepard ricadde su Legion, per ovvi motivi, e successivamente diede a Miranda il compito di guidare la seconda squadra, mentre lei sarebbe stata a capo della prima.

Una volta all'interno, come previsto, si trovarono ad avere a che fare con droni di ricognizione programmati per eliminare qualunque cosa percepissero come estranea e, in un secondo momento, con mutanti, progenie e soldati Collettori. Le due squadre continuavano ad avanzare nella struttura, man mano che Legion bypassava i sistemi di controllo responsabili per l'apertura delle porte. La base sembrava vomitare difese da ogni angolo, inviando mutanti a cadenza regolare e progenie a farne da backup. Shepard iniziò a fare un uso sempre più intenso dei suoi poteri biotici e il suo factotum glielo ricordava costantemente con dei sonori bip ogni qual volta i suoi amplificatori rischiavano di sovraccaricarsi. Il casco era diventato improvvisamente troppo fastidioso, i capelli le si erano incollati addosso e persino la trama della sua tuta protettiva era diventata insopportabile sulla pelle surriscaldata. Tutti sintomi di sovrastimolazione sensoriale, dovuta all'abuso dei suoi poteri. Eppure non riusciva a farne a meno, essendo il modo più semplice e più sicuro di sbarazzarsi delle continue orde di Mutanti alle quali erano soggetti.
Durante un attimo di tregua si iniettò una dose di stimolanti e tirò un respiro profondo, ritrovando la calma. Thane, che fin ora era sempre stato dietro a guardarle le spalle, la raggiunse correndo per accertarsi che fosse tutto nella norma. Lei rispose con un cenno del capo, prima di scattare ancora in avanti, indicando nel frattempo al resto della sua squadra di prendere posizione e avanzare.
“Miranda, a rapporto” esclamò nel suo auricolare.
“Siamo sotto attacco, ma resistiamo” rispose la sua seconda in comando, sotto il rumore degli spari.
“Dovremmo esserci quasi” la rassicurò lei, girando l'angolo dove avrebbero trovato un punto d'accesso per unirsi all'altro team.

Shepard aveva immaginato tante cose, ma mai si sarebbe aspettata di trovare ciò che la attendeva una volta varcata la soglia della camera centrale. Ebbe bisogno di un solo istante per registrare con assoluto orrore ciò che la circondava, prima di avventarsi su una delle tante capsule che intrappolavano il resto del suo equipaggio, ad un passo dall'essere trasformato in qualcosa di abominevole. Colpì il vetro così forte da rischiare di rompersi le nocche anche attraverso i guanti, ma riuscì a creparlo abbastanza da arrestare il fatale processo di mutazione in corso. La capsula le restituì una dottoressa Chakwas quasi irriconoscibile. La affidò immediatamente alle cure di Mordin, mentre lei si apprestava con tutti gli altri a distruggere quante più capsule possibili, nel minor tempo possibile.
A discapito di ogni pronostico, riuscirono a tirare tutti fuori, tenendo sotto controllo sporadici attacchi da parte di sentinelle che percorrevano il loro usuale giro di ricognizione.
Shepard aspettò che tutti i superstiti ebbero ricevuto un'adeguata quantità di medigel per riprendersi, poi li indirizzò immediatamente verso la Normandy, dove il Salarian si sarebbe preso cura di loro in attesa di ripartire.

Quei pochi abbracci e parole che i suoi amici e colleghi erano riusciti a scambiarsi prima di tornare alla nave le diedero ulteriore forza per proseguire in avanti, accendendo in lei un'ulteriore speranza di vittoria.

La navata della camera centrale era ricoperta di tubi che collegavano le capsule a qualcosa di cui ancora non erano a conoscenza. Joker, grazie alle scansioni di EDI, riuscì a comunicare loro la direzione che avrebbero dovuto seguire per bypassare gli ulteriori sistemi di sicurezza, ma restava un problema, come prontamente illustrato dall'IA di bordo: la camera parallela a quella in cui si trovavano e che avrebbero dovuto percorrere brulicava di sciami dei Collettori. Samara, a quel punto si fece avanti, rivolgendosi a Shepard.
“Comandante, potremmo creare un campo biotico per resistere agli sciami. Mi offro io. Non riuscirò a proteggere più di quattro persone contemporaneamente, ma dovremmo essere in grado di raggiungere il nucleo centrale in tempo.”
Shepard annuì, convinta che quella fosse la strategia migliore, se non l'unica in loro possesso.
“Io, Samara, Jack e Thane percorreremo questo percorso” disse, illustrando a tutti su un'interfaccia olografica la scansione della base. “Voialtri dovrete fare da diversivo e percorrerete questa zona, dal corridoio principale in avanti. Quando arriveremo saremo in grado di bypassare i sistemi di sicurezza e incontrarvi lì. Ricevuto?”
“Sissignora” risposero in coro.
“Garrus, occupati di guidare la seconda squadra. Tienici aggiornato.”
“Senz'altro, Shepard.”
“Bene, non c'è tempo da perdere. Andiamo.”

Samara creò un campo biotico tale da riuscire a circondare quattro persone con relativa facilità. Non ebbero particolari difficoltà nel difendersi dai Collettori che man mano prendevano posizione per attaccarli. Da una parte lo scudo biotico deviava il grosso dei proiettili e gli sciami, lasciandoli più liberi di muoversi, dall'altro diventava una corsa contro il tempo perchè l'energia della Justicar non sarebbe durata ancora così a lungo. Quando giunsero finalmente all'ingresso del nucleo principale Samara era sfinita. Con un ultimo sforzo riuscì a confluire tutta l'energia oscura che stava controllando contro gli sciami e i Collettori che ancora non erano riusciti ad abbattere e creò un'onda d'urto tale da consentire loro di attraversare il portale e richiuderselo alle spalle.

“Shepard, mi ricevi?” la voce di Garrus risuonò forte e chiara nel suo auricolare mentre Shepard e gli altri prendevano fiato dopo la corsa.
“Ti ricevo, Garrus. Coordinate?”
“Ci troviamo appena dietro il portellone, siamo sotto fuoco nemico. Non riusciremo a resistere ancora a lungo.”
Shepard si precipitò dall'altra parte della stanza, attivando immediatamente il suo factotum per sbloccare l'altra uscita. “Trenta secondi, Garrus. Ci sono quasi, tenete duro.”

Quando il portellone si aprì, il resto della squadra capitanato dal Turian si riversò all'interno, continuando a far fuoco dal lato opposto, senza sosta. Garrus si accasciò sulla parete di fronte, sfinito, premendosi una mano sull'addome. Shepard si lanciò verso di lui, preoccupata.
“E' solo un graffio” ansimò il Turian, rilasciando una discreta quantità di medigel attraverso l'armatura. Shepard riuscì a tirare un sospiro di sollievo, prima di rimettersi in contatto con il suo pilota.
“Joker, mi ricevi? Sei al punto di incontro?”
“Affermativo, Comandante. L'intero equipaggio e Mordin hanno fatto ritorno.”
“EDI, cosa puoi dirci?”
“Dalle scansioni preliminari, non molto distanti da voi dovrebbero esserci delle piattaforme in grado di trasportarvi ai comandi principali. Da lì sarete in grado di sovraccaricare i sistemi e distruggere la base.”
La voce di Joker si accavallò a quella di EDI per un istante, “Comandante, rilevo la presenza di Collettori al di là del portellone che avete sigillato. Non ci vorrà molto prima che riescano a riaprirlo.”
“Merda” imprecò Shepard, guardandosi intorno per elaborare in fretta una strategia.
“Garrus, Grunt” indicò, “noi ci dirigeremo verso i comandi principali, da quella parte, mentre il resto della squadrà rimarrà qui a difendere la porta, intesi?”
“Shepard” Thane le si avvicinò, l’espressione nascosta dal visore, ma il tono di voce inequivocabilmente contrariato.
Shepard si portò una mano all’orecchio, passando su un canale di comunicazione privato.
“Non pensarci neanche” disse sottovoce. Il Drell fece un ulteriore passo verso di lei, fino a toccarle un braccio. “Guarda le scansioni” le suggerì. “Hai bisogno di un cecchino.”
Shepard dovette arrendersi alla realtà dei fatti. Grunt le sarebbe servito a poco sulle lunghe distanze, avrebbe solo fatto da diversivo. Sapeva bene che la scelta di lasciare Thane indietro era stata dettata da una debolezza, ma non poteva ignorare i fatti e lui aveva ragione.
“Grunt, resta qui con gli altri” gesticolò in direzione del Krogan, “Krios, con me. Miranda, conto su di te.”
La biotica annuì, prima di indicare ai restanti di prendere posizione.

Il trio capitanato da Shepard iniziò a correre verso la direzione opposta e appena arrivati alle piattaforme di cui aveva parlato EDI analizzarono velocemente la struttura che le sorreggeva. Sotto di loro c'era un abisso fatto di costruzioni a metà fra l'organico e l'inorganico e sopra di loro i grossi tubi collegati alle capsule percorrevano il soffitto per tutta la sua lunghezza. Date le curve che avrebbero dovuto percorrere per arrivare, non era ancora loro chiaro cos'avrebbero trovato nel nucleo centrale, ma si fidavano dell'IA di bordo e sapevano che questa era l'unica strada possibile da percorrere.
La piattaforma sulla quale presero posizione si staccò dalla base e prese a fluttuare in avanti, mentre altre piattaforme si avvicinavano e si agganciavano a questa, portando con loro una discreta quantità di soldati Collettori a difesa. Shepard sfruttò la possibilità di scaraventare i nemici al di sotto, lanciando potenti onde biotiche in grado di sbalzare in aria quelli peggio equipaggiati. Per Progenie e Araldi si affidò al sapiente uso dei fucili di precisione da parte di Garrus e Thane, che, quando poteva, le dava una mano a creare esplosioni biotiche. Concentrati com'erano ad eliminare i nemici, non si resero conto dell'abominio che li sovrastava finché non si trovarono esattamente di fronte ad esso.
“Spiriti” esalò Garrus, aggiustandosi il visore sopra l'occhio sinistro.
Shepard non trovò parole nell'immediatezza. Thane le si avvicinò, facendole capire con quel gesto che le stava vicino, senza però dire una parola.
“EDI, cosa puoi dirmi?” domandò poi lei attraverso l'auricolare.
“Sembra che i Collettori abbiano processato in questi tubi decine di migliaia di coloni, per creare un -”
“- un razziatore Umano” concluse Shepard, mentre osservava quell'orribile scheletro fatto di metallo e materia organica.
“Sembra che si trovi ancora in una fase iniziale di costruzione” continuò EDI, “servirà ancora altrettanta materia organica per completarlo.”
Shepard strinse la mascella, la presa salda sulla sua Paladin.
“Questa tecnologia non sembra appartenere direttamente ai Collettori, Shepard. In questo caso, sono semplici pedine che provvedono con la manodopera.”
“Come i Geth” mormorò Shepard, lanciando un'occhiata a Garrus, che annuì.

Non aveva dubbi. Questa base doveva essere distrutta e al più presto. Ebbero giusto il tempo di comunicare a Miranda ciò che avevano appena visto e di assicurarsi che il resto della squadra stesse bene, prima che altre, nuove piattaforme, iniziarono ad agganciarsi alla loro, e con queste, ulteriori ondate di nemici.
Erano stanchi, esausti, gli impianti L5 di Shepard non smettevano di segnalare al suo factotum che era arrivato il momento di fermarsi, ma erano troppo vicini alla fine per mollare proprio adesso. Shepard si iniettò un'altra dose di stimolanti prima di lanciare un'onda d'urto a carico di un paio di Collettori alla sua sinistra, mentre Garrus da dietro il suo riparo cadenzava i colpi del suo Mantis a danno del Razziatore Umano, lì dove EDI aveva indicato sembrasse più vulnerabile. Thane si occupava principalmente di fare da supporto, qualora l'uno o l'altra avessero avuto bisogno di una mano in più. Aveva imparato ad essere versatile e attento e finché lui avesse tenuto gli occhi fissi sul campo di battaglia, loro due non avrebbero rischiato.

“Garrus, finiscilo!” urlò Shepard, accovacciata dietro un riparo mentre ricaricava la Paladin, respirando ormai affannosamente. Sentiva ancora il fuoco nemico aprirsi cospicuo su di loro, in parte assorbito dai loro scudi, in parte dall'ambiente circostante che rispondeva con scosse e riverberi, data l’inusuale piattaforma fluttuante che li ospitava.
“Ci sto provando” rispose il Turian, imprecando poi nel suo dialetto, mentre con un ultimo colpo centrava uno degli occhi di quell'abominio.
Una forte scossa infine li sbalzò a qualche metro dalle loro attuali posizioni, e così anche gli ultimi Collettori rimasti. Shepard ne approfittò per farne fuori un paio, scagliandoli con violenza al di là delle piattaforme, mentre Thane ne intrappolò un paio alla sua destra, lasciando che Garrus li finisse con il suo fucile.
“Dobbiamo andare via da qui” affermò Shepard, temendo che la struttura sulla quale poggiavano non avrebbe retto ancora per molto. Il razziatore umano, ormai distrutto, si sganciò da una delle funi di metallo che lo tenevano ancorato alla nave, producendo così un'altra spaventosa scossa ai loro danni. Poi si staccò per metà, precipitando in fondo. I tre si sporsero dal bordo, facendo per quanto possibile attenzione e si assicurarono che fosse fuori gioco.

“Miranda, rapporto” esclamò Shepard, allontanandosi per tornare ad una posizione più sicura, mentre Thane e Garrus si guardavano intorno alla ricerca di nemici.
“Shepard, ce la stiamo cavando, ma continuano ad arrivare.” Miranda le sembrò provata. Non potevano perdere ancora tempo, il nucleo andava distrutto e subito.
“Joker, prepara i motori, stiamo per fare esplodere questo posto. Sei pronto?”
“Affermativo. Al tuo segnale” rispose Jeff.
“L'Uomo Misterioso vorrebbe parlarti, Shepard” si intromise EDI.
Il Comandante non potè fare a meno di sbuffare. Trovava inaccettabile in un momento come quello dover rispondere a quell'uomo, come se non avesse un'intera squadra sotto attacco. Accettò con rabbia la chiamata in entrata mentre Garrus stabiliva un link tra il suo factotum e l'interfaccia dei comandi, pronto ad un cenno di Shepard.
“Shepard” esalò l'Uomo Misterioso, in una nuvola di fumo. “Hai compiuto l'incredibile.”
Lei strinse i pugni, infilando la Paladin nella fondina del suo cosciale. “Non è il momento. Abbiamo la necessità di evacuare immediatamente” rispose poi, affiancando Garrus sull'interfaccia dei comandi.
“Prima che tu faccia qualcosa di cui ti pentirai, fermati. Non devi distruggere la base dei Collettori. Possiamo usarla a nostro favore. Possiamo studiarli.”
Shepard per poco non gli rise in faccia. “Incredibile...” sospirò poi, scuotendo la testa, “Cerberus non conosce limiti. Neppure davanti ad un razziatore umano creato con la materia organica dei nostri coloni. Qualunque cosa lei abbia in mente, può stare certo che non la farò. Questo posto deve scomparire.”
“Shepard, ascoltam-”
Andromeda chiuse la comunicazione con un gesto del polso, maledicendo internamente tutto ciò che lui rappresentava. Garrus sorrise compiaciuto, Thane chinò il capo in cenno di assenso, facendole capire che si trovava d'accordo con lei su questa decisione, poi il Turian parlò.
“Abbiamo dieci minuti prima che il reattore ci faccia saltare in aria.”
“Hai sentito, Joker?” fece Shepard, iniziando a correre verso la parte opposta.
“Ricevuto. Aspettiamo solo voi.”

E quando sembrava quasi fosse arrivata la fine di quell'incubo, l’ennesima, violenta scossa li fece capitolare e il razziatore umano riemerse dalle profondità, puntando verso di loro una potente arma che, ad una velocità inaudita, era capace di sparare un flusso di metallo liquido in grado di squarciare un incrociatore da guerra con una singola raffica. Era stato sapientemente dotato di sistemi di backup molto potenti e trovarsi sotto la linea di fuoco adesso sarebbe stata una sentenza di morte sicura. Shepard e Thane si ritrovarono a condividere lo stesso riparo, ammesso che fosse riuscito a proteggerli da un attacco di tale portata. Garrus si trovava dalla parte opposta, caricando un colpo nel Mantis, pronto a sparare al momento opportuno.
Shepard non fece in tempo ad avvisare il pilota di ciò che stava succedendo, che il razziatore fece fuoco, lasciando uno squarcio profondo sul metallo della piattaforma, a metà fra loro e il Turian. Fortunatamente la sua potenza non era al massimo, essendo ormai quasi completamente distrutto, e Garrus approfittò della situazione per mirare esattamente lì dove il razziatore era più debole. Thane fece lo stesso, sporgendosi dal riparo appena il necessario e Shepard si rese conto che era già passato un minuto. Il visore gliene segnalava solo altri nove a disposizione per mettersi in salvo.
Il costrutto dei Collettori si comportava come un mech con problemi elettrici. Non rispondeva come avrebbe dovuto, ma non mollava la presa. Shepard poteva sentirne il nucleo, in costante riavviamento, mentre cercava di agganciarli per poi caricare l'energia necessaria a fare fuoco.
Decise di rischiare ed estrasse il lanciagranate, puntandoglielo contro, avvisando i suoi compagni di squadra che avrebbe fatto fuoco. Uno, due, tre colpi. Tutti e tre andarono a segno: il razziatore esplose, scardinandosi definitivamente dai supporti che lo tenevano attaccato alle pareti della nave.
Poi, sotto di loro, tutto iniziò a crollare. La piattaforma sulla quale si trovavano era stata interessata dal contraccolpo e si disancorò.
Shepard vide Thane iniziare a rotolare rovinosamente verso il basso e istintivamente si lanciò dietro di lui, una mano tesa a tentare l'impossibile, il cuore in gola.
“Thane!” urlò, richiamando i poteri biotici che ormai non le rispondevano più.
La voce di Joker, allarmata, risuonò nel suo auricolare “Comandante, che succede?” Shepard non riuscì a rispondere.
Il Drell tentò il tutto e per tutto per restare ancorato alla piattaforma, incapace di arrestare la caduta, ma quando sembrava ormai troppo tardi per entrambi, le loro mani finalmente si sfiorarono e Shepard si fiondò con ancora più slancio verso di lui, finché non riuscì ad afferrargli il polso saldamente. Ormai lei era tutto ciò che lo separava dal baratro.

 

Un'altra esplosione, un'altra terribile scossa. La piattaforma si ristabilì in orizzontale quel tanto che bastava per far ritrovare loro l'equilibrio, quando furono sbalzati in aria violentemente dall'ennesimo scossone, andando poi a finire rovinosamente contro le pareti della base. Non appena Shepard riprese conoscenza in seguito allo schianto si guardò immediatamente attorno. Il visore lampeggiava ad intervalli regolari, ricordandole che mancavano solo tre minuti alla detonazione. Thane non era più accanto a lei, un brivido di terrore le attraversò la spina dorsale. Lo chiamò, la schiena piegata in due dal dolore, poi chiamò anche Garrus, che aveva totalmente perso di vista dal momento della distruzione del razziatore. Scansionò l'area, accorgendosi che entrambi erano finiti sotto un cumulo di detriti poco distanti e cercò di liberarli con le ultime forze rimaste, poi iniettò loro un'abbondante dose di medigel e stimolanti, per far si che riuscissero a riprendere conoscenza e seguirla verso l'uscita. Si scambiarono solo uno sguardo veloce prima di iniziare a correre.
“Shepard, mi ricevi?” la voce del pilota la fece sussultare, mentre correva a perdifiato, “mancano 2 minuti.”
Non riuscì ancora a trovare la forza di rispondere. Lo fece Garrus per lei, comunicando al pilota che erano ormai vicini.
La corsa verso la Normandy fu frenetica e pericolosa, gli ultimi Collettori sopravvissuti stavano ancora dando loro la caccia e gli scudi di Shepard erano quasi a terra quando la Normandy apparì davanti a loro e Joker aprì il portellone laterale della nave per farli salire. Garrus saltò su per primo, posizionandosi immediatamente al lato destro del portellone per fare fuoco sui Collettori, poi fu la volta di Thane che prese posto a sinistra, gli occhi fissi su Shepard. Un solo minuto e non ce l'avrebbero fatta. Un'altra esplosione mandò in frantumi la piattaforma sulla quale lei stava per mettere piede per darsi lo slancio, così, nel panico più totale, si lasciò andare nel vuoto.

La afferrò la mano di Thane, trascinandola a sè con tutta la forza di cui era capace, lasciando poi che Garrus richiudesse il portellone e urlasse a Joker di partire. Shepard si sfilò il casco, gettandolo per terra, incredula di fronte a ciò che era appena successo. Poi si preparò ad osservare con Thane lo spettacolo che di lì a poco li avrebbe travolti. Il Drive Core pulsava alla massima potenza, la Normandy diretta alla massima velocità verso il portale dal quale nessuno avrebbe mai pensato che avessero potuto fare davvero ritorno.
Una deflagrazione di dimensioni apocalittiche li investì con una luce satura di arancio, riflettendosi sulle loro iridi come fuochi artificiali. Shepard appoggiò la fronte su quella del Drell, respirando ancora a fatica, mentre lui le prendeva le mani, tenendole strette fra le sue. Poi entrambi rivolsero lo sguardo verso il cuore della Via Lattea.
“Ce l'hai fatta” sussurrò lui.
“Ce l'abbiamo fatta” disse lei, specchiandosi nei suoi occhi. “Contro ogni aspettativa, ce l'abbiamo fatta.”
Si scambiarono un bacio, poi chiusero gli occhi, aspettando insieme il salto iperluce.













 


E ce l'ho fatta pure io, a quanto pare, contro ogni probabilità. Mi sembra abbastanza assurdo che io ci abbia messo qualcosa come 8, 10 anni a finire questa storia, ma sentivo di averne bisogno. Mi ricordo come fosse ieri quanto impegno ci ho messo a scrivere questa ff, le notti insonni che passavo a scrivere, gli appunti che prendevo quando mi capitava, i blocchi dello scrittore, le paranoie e i dubbi, ma anche le gioie e le lacrime di felicità. So che questo capitolo non spicca per motivi particolari in quanto è una narrazione che non si discosta troppo dall'originale, però a me è servito per dare un senso di chiusura e poter finalmente dire "ce l'ho fatta". E quindi eccomi qui. Tra l'altro un anno fa usciva ME:LE e io boh posso dire che amo questa Trilogia quanto e più di prima.
Nonostante sia consapevole che probabilmente quasi nessuno di quelli che popolavano questa sezione 10 anni fa si ricorderà di questa storia, ci tengo comunque a ringraziarvi tantissimo per il tempo che mi avete dedicato. Tutt'ora ricordo con estrema nostalgia ed affetto i nostri scambi di recensioni e letture su EFP.
Un grazie in particolare va a Johnee che tutt'ora mi supporta e mi sostiene <3 

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