IL SENZA NOME

di Rosa Marina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** M ***
Capitolo 2: *** La sciarpa rossa ***
Capitolo 3: *** Nanashi ***
Capitolo 4: *** Onore ***
Capitolo 5: *** Veterano ***
Capitolo 6: *** Paradiso perduto ***
Capitolo 7: *** L'uccello bianco ***



Capitolo 1
*** M ***


Correva l’anno 864. L’ultimo decennio dal termine della guerra aveva visto una Paradise Island rilanciata sia economicamente che militarmente, industrializzata e politicamente attiva. Le alleanze con i popoli del Continente avevano permesso al rinnovato Impero di Eldia di svilupparsi in breve tempo e poter ricominciare. Il nuovo governo investì risorse in più settori oltre a quello militare, come l’istruzione e la sanità, l’agricoltura e l’edilizia e le nuove generazioni che sia affacciavano verso il domani avevano molte più possibilità di scelta sul come affrontare il futuro rispetto a quelle che ebbero i loro genitori. Molti giovani sognavano di poter, una volta terminati gli studi, raggiungere il Continente, del quale conoscevano la situazione socio-politica attraverso le principali testate giornalistiche che mettevano la popolazione di Paradise Island al corrente di ciò che avveniva al di là del mare.

Negli anni che seguirono il termine del conflitto, la Regina Historia ordinò, inoltre, più di un censimento che venne eseguito da un nuovo e compatto Corpo di Gendarmeria capitanato da Hitch Dreyse, volto a riunire il più possibile le famiglie disperse. Molti bambini che si trovarono all’orfanotrofio poterono così riabbracciare anche dopo anni, almeno un parente ed in parecchi casi anche uno o entrambi i genitori. Alcuni di loro riuscivano, posti difronte a delle fotografie, vagamente a ricordare i volti famigliari, in particolare i più piccoli quello della mamma. Per altri invece queste persone parevano estranee e ci volle tempo perché si abituassero. Alcuni poi non sapevano cosa fosse questa “mamma” che sentivano spesso chiamare piangendo dai loro compagni più grandi.

Col passare dei mesi l’orfanotrofio, che pullulava di fanciulli senza una casa, andò lentamente svuotandosi quasi del tutto. Oltre ai bimbi che provavano la gioia di riunirsi alla famiglia, c’erano quelli che venivano adottati mentre i più grandi, una volta raggiunta l’età del consenso per lo più si arruolavano come Cadetti nel nuovo esercito paradisiano o si sposavano dando origine a nuove famiglie numerose e garantendo in questo modo all’isola di Paradise di aumentare demograficamente in modo esponenziale.

Tra coloro che ancora vivevano nell’orfanotrofio che ora, rimodernato e reso più accogliente, aveva più l’aspetto di una casa famiglia, vi era un ragazzino ci circa sette anni dai penetranti occhi verdi e una ribelle chioma corvina. Portava una lunga frangia che gli celava in parte lo sguardo.

Quel giorno era seduto su un tronco del giardino e stava giocherellando con una foglia d’erba. Nessuno lo chiamava mai per nome, in realtà tutti si rivolgevano a lui con l’epiteto “senza nome” tanto che lui stesso si era ormai persuaso che quello fosse il suo modo di chiamarsi. Quella mattina, una ragazzina più o meno sua coetanea che si trovava da sempre in quella casa con lui e che ad essere sincero gli era anche molto simpatica, era salita in automobile con una donna bellissima che le somigliava molto. Quando era scesa dall’auto la sua amica le era corsa incontro con le lacrime agli occhi e la donna si era chinata per stringerla a sé, piangendo anche lei. Quando lui e l’amica poco più tardi si salutarono lui le chiese chi fosse quella donna. Lei gli rispose «la mamma».

 

Mamma…

Aveva già sentito questa parola quando era piccolo all’orfanotrofio pronunciata da molti bambini mentre dormivano. Un giorno provò a chiedere a qualcuno che cosa significasse e un bimbetto gli indicò la giovane dai capelli biondi che veniva ogni giorno a giocare con loro, effettivamente la bambina che la accompagnava sempre e che solo qualche tempo dopo scoprì chiamarsi Ymir, si rivolgeva a lei sempre chiamandola “mamma”. Si persuase quindi che una “mamma” fosse quella donna bionda e non ci pensò più almeno fino al giorno in cui, qualche tempo dopo parlando con la piccola Ymir, non venne a scoprire che di mamme ce ne sono tante e ognuno ha la sua, «lei è la mia mamma!» gli spiegò Ymir, indicando Historia che la salutava sorridendo «tu hai la tua!»

Una mamma tutta sua! Questa scoperta lo sconvolse non poco, e dov’era?

 

Quel giorno, stava riflettendo su una cosa che aveva notato solo la mattina osservando la tenerezza con cui la mamma della sua amica la stava guardando. Istintivamente il suo pensiero era corso alla giovane donna dai capelli neri che, da sempre, veniva a trovarlo. Era stata da lui anche qualche giorno prima e avevano trascorso insieme l’intera giornata facendo un pic nic e raccogliendo fiori per abbellire la cucina dell’orfanotrofio. L’aveva da sempre chiamata “M” e non si era mai domandato il perché, non fino a quel momento.

La settimana a seguire, quando “M” venne a trovarlo, era un giorno grigio e piovoso, quindi rimasero in casa, questo favorì la conversazione. Lei gli chiese come andavano gli studi e se avesse dei progetti per il suo futuro, sapeva che aveva una cotta per la ragazzina, poco più grande di lui che se n’era andata la settimana precedente, ma le erano evidenti anche il suo carattere risoluto e la sua inclinazione a proteggere i più deboli.

 

«Perchè “M”?» le chiese lui a bruciapelo trafiggendola con lo sguardo.

«Co...come? Rispose lei confusa sbattendo le ciglia.

«Perchè mi hai insegnato a chiamarti “M”? sta forse per “Mamma”? Tu sei mia madre?”

A quella domanda così diretta Mikasa si sentì mancare, anche se mantenne la sua naturale compostezza rendendo il suo sguardo uno specchio impenetrabile agli occhi scrutatori del ragazzino.

Per un istante (dal momento che lo aveva praticamente capito da solo) pensò di rispondere in modo affermativo rivelando al bambino tutta la verità. Sentiva il suo sangue, quello degli Ackerman pulsarle nelle tempie mentre con la mano si accarezzava il polso fasciato e valutò per un istante la possibilità di sbendarlo e mostrare il marchio degli Azumabito a suo figlio, ma poi difronte a quegli occhi verdi che le parlavano solo di libertà, decise altrimenti.

«Mikasa» rispose in un soffio.

«Che?»

«”M” sta per “Mikasa”, il mio nome».

 

 

 

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Capitolo 2
*** La sciarpa rossa ***


«Mhmmm… innamorati dici?»

«Si… per sposarsi bisogna essere così!» stava dicendo la giovanissima Ymir allargando le braccia e facendo spallucce ad un perplesso ragazzino senza nome che la osservava da sotto la lunga frangia corvina. Quella mattina, a scuola, avevano trattato l’argomento del matrimonio come unione fra un uomo e una donna in età del consenso, fondato sull’amore reciproco e volto ad istituire una nuova famiglia.

Quando si incontrarono in cortile per l’intervallo e i maschi più grandicelli stavano discutendo sull’argomento con certi ghignetti sul volto mentre il ragazzino che tutti chiamavano “senza nome” li guardava perplesso, la sua amica Ymir gli aveva fatto capire roteando vistosamente la mano e muovendo le labbra che nel pomeriggio sarebbe andata all’orfanotrofio ed avrebbero studiato insieme. Ora, sotto un albero mentre soffiava un leggero venticello, stavano osservando una coppia di sposi disegnata sul libro di studio che tenevano sulle ginocchia.

Frequentavano entrambi l’ultimo anno della scuola che offriva a tutti i bambini una formazione di base per crearsi un futuro nella nuova società che stava velocemente avanzando anche a Paradise Island. Al termine del quinquennio di istruzione, all’età di circa undici anni avrebbero dovuto scegliere quale strada intraprendere nel loro futuro.

Le nuove riforme avviate durante il governo della Regina Historia puntando molto sulla formazione delle future generazioni avevano istituito una scuola pubblica che aveva la durata di cinque anni. Nei primi due veniva insegnato agli studenti a leggere a scrivere e a contare, successivamente una volta appresi i rudimenti della letto scrittura e dei calcoli si passava allo studio della storia e della geografia. Grazie alle moderne conoscenze, frutto della collaborazione con i popoli del Continente, in breve tempo furono stampati libri di storia che narravano le reali vicende di Paradise Island e atlanti di Geografia che riportavano disegni sia dell’Isola che della Terraferma.

Non mancava inoltre, anzi era ritenuta fondamentale, una formazione fin dalla tenera età alla disciplina marziale. Sia gli alunni che gli insegnanti indossavano una divisa verde militare con lo stemma del nuovo impero Eldiano e in ogni locale vi era esposto un ritratto della Regina Historia in alta uniforme e con il pugno stretto sul cuore. Ogni mattina prima di cominciare le lezioni veniva eseguito l’alzabandiera nel cortile della scuola e il saluto militare al grido di «Shinzou Wo Sasageyo!» era la prima cose che veniva insegnata ai giovani studenti. Le classi erano divise in maschili e femminili anche se i programmi era identici per entrambi i sessi. Oltre alle principali materie veniva proposta agli studenti anche una formazione di base sulla struttura sociale e politica del loro paese. Anche l’educazione religiosa aveva una sua importanza seppur al momento riguardava principalmente l’antico culto delle Mura e rientrava nei programmi di storia sulle venerande tradizioni. Il nascente culto del Salvatore di Paradise Eren Jeagher, serpeggiava per lo più a livello popolare ancora in attesa di un riconoscimento legittimo da parte della Corona che tardava ad arrivare a causa delle complesse trattative con il Clero. Il nome di Eren veniva pronunciato con una certa riserva.

Al termine di questo ciclo di studi i ragazzi potevano scegliere tra diverse opzioni lavorative, i più facoltosi avevano l’opportunità di intraprendere la carriera clericale oppure di studiare alla prima Università di Paradise Island, che di lì a pochi anni sarebbe stata inaugurata e diventare giornalisti o insegnanti, altrimenti potevano seguire le orme dei genitori con attività di commercio o di artigianato, di agricoltura e allevamento del bestiame . Vi era per tutti inoltre la possibilità di entrare all’Accademia militare e servire il paese come soldati del nuovo Iimpero di Eldia.

 

Quella mattina a scuola, Ymir e il ragazzo senza nome che frequentavano entrambi l’ultimo anno del primo ciclo di istruzione, avevano affrontato il tema della famiglia come struttura sociale ed ora stavano ripassando insieme. I rispettivi maestri avevano spiegato loro che la famiglia era alla base della società e si fondava sull’unione sancita da un patto di reciproca fedeltà tra un uomo e una donna in giovane età ed in grado di procreare. All’interno di questa struttura sociale la donna che era moglie e madre aveva il compito di badare alla casa ed ai figli, mentre l’uomo che era marito e padre aveva il dovere di lavorare per garantire il sostentamento alla prole, aveva in oltre l’obbligo di dare il proprio cognome ai figli nati da questa legittima unione. Il matrimonio era indissolubile e legava i due contraenti (gli sposi) per tutta la vita. Una volta avuti dei figli diventavano genitori e formavano insieme ad essi una famiglia.

 

Per un ragazzino, cresciuto senza una madre e un padre, quell’argomento era assai curioso e per questo motivo aveva chiesto ad Ymir, che invece aveva dei genitori, di spiegargli cosa fossero.

 

«Anche io un giorno dovrò sposarmi e fare dei figli», gli stava spiegando l’amica ora più seria, «non ho alternative perché devo garantire una successione al sangue reale della mia famiglia e dare un erede al mio popolo, anche io diventerò madre e i miei figli avranno un padre».

 

«Dunque un padre è….?» le stava chiedendo il ragazzo invitandola con lo sguardo ad essere esaustiva.

«Il marito della mamma, il suo innamorato… l’amore della sua vita...» rispose lei saccente.

«Anche i miei genitori sono innamorati».

«E.. come lo sai?»

«Da certe cose...»

«Cosa?»

«Per esempio perché la mamma indossa sempre uno scialle blu, non che non ne abbia altri, ma quello in particolare le è stato regalato da mio padre quando sono nata io. Lei lo indossa sempre e quando si rompe lo rammenda con le sue mani…. Ecco… poi ci sono altre cose… si guardano sempre con certi sguardi e lei...»

 

«Capisco...» rispose distrattamente il ragazzo pensieroso, stava riflettendo sulla sciarpa rossa che “M” teneva sempre avvolta al collo e che spesso le aveva visto accarezzare con sguardo strano. Si ricordò che una volta la osservò mentre la stava cucendo in un punto dove si era strappata, in effetti era piuttosto logora e sgualcita ma non ricordò di averla mai vista senza.

 

***

«A chi apparteneva?» chiese di getto a Mikasa che come ogni settimana era andata a trovarlo, lei lo guardò con evidente espressione interrogativa.

 

«La sciarpa!» rispose lui con l’aria di chi da qualcosa per scontato.

Istintivamente Mikasa accarezzò il tessuto ruvido e caldo, guardò intensamente e a lungo il ragazzo difronte a lei, incapace di trovare le parole più giuste per rispondere.

 

«Eren...» pensò.

 

«Era l’amore della mia vita...» rispose in un sussurro, quasi stesse parlando a sé stessa «… e lo è ancora...».

Stringendo la sciarpa a sé guardò lontano. Erano passati dieci anni da quel giorno ma il suo amore per Eren non era cambiato, era sempre lo stesso, intenso ed assoluto. Il ricordo di lui continuava a riempirle la mente e non passava istante senza che vi rivolgesse il pensiero. Spesso era malinconica e a volte ancora piangeva sulla tomba del suo amato, ma non si sentiva disperata, era felice così, quando le sembrava di sentire Eren vicino a lei in un sussurro del vento o nel volo di un uccello, non avrebbe avuto senso per lei tentare di dimenticare il suo amato e cercare appagamento tra le braccia di un altro, sapeva che non sarebbe mai stata vera felicità. Era consapevole che lo stesso Eren glielo aveva chiesto, aveva capito che lui la amava e voleva solo che vivesse una lunga vita serena circondata di affetto, ma la sua risposta era sempre la stessa, adesso come allora non poteva fare quello che lui le aveva chiesto, non poteva e non voleva dimenticarlo. Eren fu, era e sarebbe sempre stato il solo e unico amore della sua vita.

«Lui… era mio padre?» la domanda del ragazzino al suo fianco la colse come un fulmine a ciel sereno. Lo guardò colpita da tanta perspicacia. Ancora una volta, per un attimo valutò la possibiltà di rivelargli ogni cosa.

Lui la scrutava attentamente, ma anche in questo caso lei non rispose se non con un’altra affermazione, che non era una assenso ma nemmeno una negazione.

«Vieni… passeggiamo, ti racconterò la storia di questa sciarpa».

 

Camminarono fianco a fianco fino a tarda sera, sedendosi di tanto in tanto quando il racconto si faceva più avvincente o drammatico.

Mikasa parlava con voce tranquilla, a volte leggermente incrinata dall’emozione. Gli narrò di come Eren la salvò da bambina e di quando la avvolse nella sua sciarpa, gli parlò della famiglia Jeager che l’aveva accolta e di come lei e Eren trascorsero l’infanzia fianco a fianco come fratelli, del sogno di Eren e di Armin di vedere il mare, dell’attacco a Shiganshina e del loro arruolamento come Cadetti.

Il ragazzino fu molto affascinato dai racconti sull’ addestramento militare e dal fatto che lei fosse il miglior cadetto dell’Accademia diplomata come prima fra i primi dieci. Mikasa gli narrò del 104mo Corpo Cadetti, dell’attacco al distretto di Trosth, della trasformazione di Eren in un gigante e della maledizione di una vita destinata a spegnersi dopo tredici anni. Gli raccontò del Corpo di Ricerca e del Capitano Levi, della custodia di Eren, del tradimento di Annie, Reiner e Berthold e della vittoria che aveva visto la regina Historia salire al trono. Gli parlò del gigante Bestia, del sacrificio di Erwin Smith e della missione oltre le mura, della chiave che Eren portava al collo.

Gli narrò del momento in cui finalmente giunsero a vedere il Mare.

Solo quando si trattò di raccontare dell’attacco a Liberio e della battaglia decisiva divenne vaga, spiegando che lei e il suo amato avevano partecipato assieme allo scontro passato alla storia come "battaglia fra Terra e Cielo". Fu evasiva sul suo ritorno in patria e non gli disse nulla degli Azumabito.

 

«É… morto durante quella battaglia?» le chiese il ragazzo con i cangianti occhi bagnati dalle lacrime per la troppa emozione che tale racconto gli aveva suscitato.

 

Mikasa annuì in silenzio mentre si stringeva nella sciarpa. Guardò intensamente suo figlio, il figlio suo e di Eren, scrutò in quegli occhi verdi fino a vederne l’anima pura, sapeva che un giorno avrebbe dovuto raccontargli tutto ma, per ora voleva lasciarlo libero, libero di scegliere da solo cosa fare della sua vita.

 

«Come si chiamava?» la sorprese il ragazzo.

Era stata attenta a non pronunciare mai il nome di Eren Jeager. Aprì la bocca come a voler articolare una “E” poi «...non ha importanza...» disse vaga, volgendo lo sguardo altrove come a fissare un punto lontano. Il ragazzo comprese che non avrebbe aggiunto altro.

 

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Capitolo 3
*** Nanashi ***


«E quando mi chiederanno il mio nome, io cosa dirò?» stava chiedendo in preda all’ansia il ragazzo dagli occhi verdi a Mikasa. Raggiunta l’età di undici anni aveva infine deciso di iscriversi all’Accademia militare.

Durante il periodo trascorso all’orfanotrofio ed a scuola il suo principale disagio era sempre stato quello di non avere un nome e nemmeno un cognome ed era molto preoccupato su come poter fare per identificarsi quando l’istruttore avrebbe chiamato l’appello dei nuovi Cadetti. Gli sembrava impossibile che in tutti quegli anni nessuno si fosse preoccupato di dargli un nome (in cuor suo aveva sempre sperato che qualcuno vi provvedesse ma non era mai successo), e adesso a pochi giorni del suo ingresso in Accademia era in preda all’ansia e stava chiedendo aiuto alla donna che gli era sempre stata accanto fin da quando era piccolo.

Mikasa riflettè un attimo prima di parlare.

«Nanashi...» disse poi sovrappensiero.

Il ragazzo la guardò perplesso.

«Nella lingua che parlava mia madre...», rispose lei «significa appunto “senza nome”».

«Mi piace!» disse lui convinto.

«Cadetto Nanashi… e… non ho nemmeno un cognome!» sbottò irritato.

Mikasa valutò a lungo quale potesse essere la risposta migliore da dare. Se gli avesse suggerito il cognome Ackerman, la signora Kiyomi e gli Azumabito non ci avrebbero messo molto a capire che si trattava di suo figlio, e utilizzare il nome Jeager non era decisamente opportuno.

« E-basta...», rispose infine «Nanashi E-basta...».

 

Un decennio dopo la fine della guerra, il Governo di Paradise Island aveva raggiunto favorevoli accordi anche con le frange più estremiste che sobillavano il paese riportando l’ordine e instaurando un governo militare centralizzato sulla figura della Regina Historia. Per consolidare e formare adeguatamente le giovani reclute, era stata fondata una nuova Accademia militare pronta ad accogliere gli studenti appena usciti dal primo ciclo di istruzione che desideravano servire la libertà militando nell’esercito del rinato Impero Eldiano. Dopo accese discussioni tenutosi a più riprese nella Sala del Consiglio, finalmente tutte le fazioni coinvolte nel progetto, sia quelle interne all’Isola che quelle degli alleati nel Continente, compresa la delegazione di pace Marleyana, erano giunte, di comune accordo, alla decisione di dedicarla ad Erwin Smith, il valoroso Comandante del Corpo di ricerca caduto combattendo per l’Impero di Eldia sotto il vessillo delle ali della libertà.

Poiché il Comandante Smith era molto popolare e caro a coloro che nell’ultima guerra furono denominati Jeageristi, per non far torto alla fazione più moderata degli Alleati, il giorno successivo sarebbe stata inaugurata anche la prima Università dell’Impero Eldiano con lo scopo di formare una futura classe di politici, insegnanti, ingegneri e scienziati in grado di garantire all’Isola il miglior avanzamento sociale e tecnologico.

Anche questa importantissima nuova struttura venne intitolata ad un Comandante del Corpo di Ricerca, la valorosa Hanji Zoe, il cui sacrificio permise agli Alleati di fermare la marcia della morte e salvare così i popoli del Continente. Poiché il corpo del Comandante Zoe, come quello di molti altri soldati non fu mai ritrovato e le spoglie di tanti valorosi non fecero più ritorno in patria, venne deciso infine di erigere un monumento dedicato a tutti i caduti durante l’ultimo conflitto, in particolare a tutti i fratelli e le sorelle eldiani, che offrirono in olocausto i loro cuori in nome della libertà.

 

A motivo della notevole densità di ricorrenze si decise di seguire una scaletta che prevedeva il dilatarsi delle manifestazioni nell’arco di alcuni giorni. Per primo si sarebbe tenuta l’inaugurazione della nuova “Accademia Militare Erwin Smith” che avrebbe dato il via all’Anno Accademico con una cerimonia di presentazione dei nuovi membri del 110mo Corpo Cadetti. A seguire, nei giorni successivi, l’avvio solenne dell’Anno Accademico nella nuova “Università Hanji Zoe”. Al termine della settimana la cerimonia di svelamento del monumento dedicato ai caduti per la libertà, alla quale avrebbero partecipato anche i nuovi Cadetti, come corpo effettivo dell’esercito di Paradise Island. Per la solenne occasione era previsto inoltre il ritorno in Patria degli ultimi veterani eldiani rimasti in esilio a Marley.

 

All’inaugurazione della nuova “Accademia militare Erwin Smith” erano presenti tutte le più altre gerarchie dell’esercito eldiano oltre al popolo, che seguiva la cerimonia da dietro un fitto cordone di appartenenti alla Gendarmeria ed a molti giornalisti impazienti di immortalare il momento memorabile.

Al centro della piazza d’armi, su di un palco allestito per l’occasione, vi era Sua Maestà la Regina Historia Reiss che indossava l’alta uniforme del Comandante Supremo delle forze armate di Paradise Island. Al suo fianco i comandanti dei tre Corpi in cui l’esercito era articolato.

Il giovane Nanashi, emozionatissimo, li conosceva bene tutti quanti perché aveva visto i loro ritratti e letto i nomi nei libri di scuola:

il Comandante del Corpo di Gendarmeria era Hitch Dreyse, veterana dell’ultima guerra. Al termine della battaglia tra Terra e Cielo aveva militato tra le fila del gruppo estremista detto degli Jeageristi battendosi per la restaurazione del nuovo Impero di Eldia. Quando la Regina accolse le richieste degli Jeageristi, trovando vantaggiose mediazioni per tutti, venne reintegrata nell’esercito regolare.

La stessa cosa valeva per Rico Brnzesca il Comandante del Corpo di Guarnigione, anch’essa veterana ed ex militante jeagerista.

Vi era infine il Corpo di Ricerca, che un tempo aveva il compito di combattere i Giganti oltre le mura. La questione se reintegrare o meno il suo legittimo Comandante, Armin Arlert, designato tale sul campo di battaglia ma esiliato nel Continente al termine del conflitto, fu molto dibattuta portando alla fine, dopo anni di trattative tra il governo regolare di Paradise, le frange estremiste degli Jeageristi e i rappresentanti degli stati alleati a giungere alla conclusione che mantenere Armin Arlert come legittimo 15^ comandante del Corpo di Ricerca fosse la cosa più conveniente per tutti. Il suddetto Corpo militare infatti, era stato riformato ed i suoi membri sarebbero stati inviati in missione sulla Terraferma con lo scopo di sostenere gli stati alleati nei numerosi conflitti che, una volta cancellato il predominio Marleyano, rischiavano di insanguinare il Continente. La situazione oltre al mare infatti era molto tesa e vedeva i pochi gruppi superstiti dall’ultima guerra, che in un primo decennio avevano mantenuto una tregua vantaggiosa per tutti, iniziare ora a contendersi i territori più ricchi attraverso atti di violenza a volte anche efferata volti a sottomettere i più deboli. Molti figli di Ymir, sulla Terraferma, venivano ancora perseguitati ed oppressi e in loro soccorso Paradise Island avrebbe ben presto inviato le sue truppe, con lo scopo di liberare tutti gli quegli Eldiani ancora vittime di persecuzione.

 

Nanashi, notò che tra gli Ufficiali era presente anche Mikasa e per la prima volta la vide indossare l’uniforme del Corpo di Ricerca. Nell’osservarla in veste militare gli brillarono gli occhi e le rivolse un sorriso così orgoglioso e sincero che la fece sciogliere, tanto le ricordava quello del suo amato Eren.

 

«Come ti chiami Cadetto?»

«Nanashi E-basta» rispose il ragazzo dagli occhi incredibilmente verdi semi celati dalla lunga frangia.

«molto bene, Cadetto Nanashi E-basta, sei pronto ad offrire il tuo cuore per il popolo Eldiano e per la libertà?» chiese l’istruttore.

«Lo sono » rispose il ragazzo, mentre la mano stretta a pugno raggiungeva il suo cuore.

 

Fece un passo avanti, come voleva il regolamento pronunciando un solenne «Shinzou wo Sasageyo». Quel giorno soffiava una lieve brezza ed i suoi capelli corvini brillarono mossi dal vento mentre sollevava lo sguardo rivolgendolo verso il palco delle autorità.

Dei presenti, oltre ai sopravvissuti del 104mo corpo Cadetti, erano rimasti veramente in pochi a ricordare l’aspetto di un giovane cadetto che sembrava aver fretta di morire, di nome Eren Jeager. Tra questi Rico Brzenska che aveva combattuto, tanti anni or sono, al suo fianco con la missione di proteggerlo e rammentava chiaramente i suoi singolari occhi verdi. Ricordava distintamente anche sua sorella adottiva (che a lei e suoi compagni di allora non era sfuggito fosse anche la sua innamorata), una fanciulla dai tratti somatici caratteristici e serici capelli corvini quindi, appena il Cadetto Nanashi E-basta pronunciò il suo giuramento, il comandante del corpo di Guarnigione non potè non notare l’incredibile somiglianza tra il giovane in piedi difronte a lei e il ricordo che aveva di Eren Jeager e Mikasa Ackerman.

Purtroppo non poteva girarsi a guardare l’Ufficiale del Corpo di ricerca, per cercare di cogliere qualcosa dalla sua faccia poiché si trovava alle sue spalle, ma riuscì a vedere, con la coda dell’occhio, la medesima sua espressione perplessa e sbigottita dipinta sul volto di Hitch Dreyse che si trovava al suo fianco (anche lei in gioventù aveva incontrato Eren Jeger e conosceva bene Mikasa Ackerman). Se quello che le due donne, ex militanti fra gli Jeageristi, sospettavano fosse stato vero ciò avrebbe potuto rappresentare una notevole svolta nell’intero scenario politico di Paradise Island. I due ufficiali si scambiarono un occhiata d’intesa che non sfuggì però allo sguardo attendo di una nervosissima Mikasa.

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Capitolo 4
*** Onore ***


Il Capitano Levi Ackerman non si era facilmente adattato alla sua nuova vita in esilio a Marley. Ai suoi vecchi compagni d’armi ora si erano sostituiti un moccioso goffamente innamorato di una ragazzina con un caratteraccio che dopo dieci anni ancora non aveva deciso se accettare di sposarlo o meno ed un uomo dalla pelle scura che vaneggiava sempre su un dio che, a detta sua, li aveva creati tutti.

Reduce da gravissime ferite che sfiguravano vistosamente il suo corpo e unico sopravvissuto del Corpo di Ricerca comandato dal suo caro amico Erwin Smith, aveva deciso però senza rimpianti, che avrebbe continuato a vivere per vedere l’istaurarsi della nuova era che sorgeva dai tanti cuori offerti da coloro che oltre a compagni d’armi erano stati per lui una vera famiglia. Attraverso i giornali era sempre a conoscenza degli ultimi sviluppi politici che coinvolgevano sia il Continente che la sua patria e rimase per un decennio in attesa di quell’accordo politico che avrebbe concesso a lui, come a tutti quei soldati paradisiani che avevano combattuto contro Eren Jeager nell’ultima battaglia e che erano visti in patria come traditori, di tornare a finalmente casa. Alcuni anni prima, un gruppo di ambasciatori (in realtà non sapeva dire quanto bene assortito) erano partiti per una missione diplomatica verso Paradise Island nella speranza di aprire la via del dialogo. Levi era certo che il giovane e promettente Armin Arlert sarebbe prima o poi riuscito nell’impresa e ne ebbe la conferma il giorno in cui Gabi Braun rientrò in casa senza nemmeno levarsi scarpe e soprabito, sventolando una lettera inviatale da suo cugino. Levi ne fu molto contrariato perché fuori pioveva a dirotto ed ora il pavimento era bagnato e pieno di pedate di fango. Dopo che la ragazza ebbe ripulito tutto, sotto la sua attenta supervisione, si sedette assieme a lui Falco e Onyancopon attorno al tavolo della cucina nell’appartamento che condividevano in un complesso residenziale riservato all’esercito. Gabi aprì la busta con mani tremanti, nella lettera Reiner le scriveva che finalmente era stato annullato l’esilio per Levi, inoltre tutti loro erano invitati a Paradise Island per un’importante commemorazione che si sarebbe tenuta di li a qualche mese. Si trattava dell’inaugurazione di un monumento, durante la quale si sarebbe reso il dovuto onore a tutti i loro compagni eldiani caduti durante la guerra, sia di Paradise, che di Marley. In seconda battuta sarebbero stati anche ricordati anchei soldati non eldiani e tutti i civili.

Quella sera Levi, giunto nella sua stanza, prima di coricarsi, aprì il cassetto della scrivania e vi trasse un involucro di carta sottile. Lo aprì e ne sfiorò il contenuto con i polpastrelli. Era lo stemma del Corpo di Ricerca, “le Ali della libertà” appuntate sulla sua giacca che lei gli aveva consegnato prima di affrontare il suo destino.

«Hanji...» pensò «...presto torneremo a casa.»

 

 

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Capitolo 5
*** Veterano ***


Il complesso funebre dove riposavano i corpi dei soldati caduti durante l’ultima guerra, quei pochi che non si erano dispersi come polvere nel vento, era stato nei primi mesi dopo il termine del conflitto oggetto di atti di vandalismo e spregio da parte di coloro che ritenevano l’esercito responsabile della quasi totale distruzione dell’isola, di conseguenza per evitare che il luogo santo dimora di tanti valorosi fosse oggetto di atti di profanazione, la Regina Histria ordinò che venisse recintato da un muro e custodito da un picchetto di soldati del corpo di Garnigione. Era fatto divieto a chiunque di recarvisi anche solo per un semplice saluto mentre l’accesso era consentito esclusivamente durante le commemorazioni ufficiali che avvenivano alla sola presenza degli stretti famigliari e dei Corpi d’Armata. Era questo il motivo per cui in particolare Connie e Jean ma anche gli altri, che dal loro ritorno non erano ancora riusciti a porgere un saluto a Sasha che riposava in quel luogo, attendevano con trepidazione il giorno in cui sarebbe stato inaugurato il monumento ai caduti. La cerimonia infatti prevedeva di aprire anche le porte del cimitero murato e consentire a chiunque lo desiderasse di recarsi a pregare sulla tomba dei propri cari.

Quando finalmente giunse fu un giorno colmo di emozione per tutti e di tante lacrime, la cerimonia si tenne in un clima solenne e composto anche se non privo di tumulti e schiamazzi da parte di chi ancora non riconosceva il valore dell’esercito e manifestava il proprio disappunto alla militarizzazione dell’Isola di Paradise. Gli animi si placarono un poco solo quando, dal palco reale prima dello svelamento della statua, venne annunciato dalla voce della Regina stessa, che sotto la bandiere del nuovo Impero di Eldia presentandosi in Alta uniforme offriva il cuore al popolo con il simbolico gesto del pugno stretto sul petto, il ritorno in patria del Capitano Levi Ackerman.

 

***

L’automobile con le insegne militari di Paradise Island attraversava lentamente le strade di selciato in direzione della Capitale. Era una giornata di pieno sole e una leggera brezza portava ristoro alle molte persone assiepate lungo le strade per vedere il ritorno in patria di un uomo che nel corso dell’ultimo decennio era ormai divenuto una leggenda. Il Capitano Levi, unico sopravvissuto di quel Corpo di Ricerca che tanti giovani cuori aveva offerto per il popolo di Eldia affrontando tanti anni or sono al comando dell’indimenticabile Erwin Smith i temibili Giganti ed esule in terra straniera al termine dell’ultimo conflitto, faceva finalmente ritorno a Paradise Island.

Con il volto visibilmente sfregiato da profonde ferite, ricordo indelebile della sua vita trascorsa a combattere, Levi era seduto al fianco del guidatore mentre sul sedile passeggeri vi erano i suoi tre compagni che la gente guardava incuriosita, in particolare da quello con la pelle scura, senza tuttavia riconoscerne i volti. I più anziani piangevano e additavano ai più giovani il leggendario Capitano dell’eroico Corpo di Ricerca ricordato ancora con stima e affetto da buona parte della popolazione. Levi non aveva assolutamente voluto una scorta armata e nemmeno si rivelò necessario un contenimento della folla da parte della Gendameria. Al passaggio dell’automobile in molti si levavano il cappello in segno di rispetto mentre i più piccoli salutavano con la mano. Non si verificarono disordini di alcun tipo e dopo poche ore il gruppo giunse, in un’atmosfera solenne e fortemente commossa, nella piazza vicino al cimitero militare dove li attendevano sua Maestà la Regina, gli Alti Ufficiali dell’esercito di Paradise Island e la popolazione.

Il Capitano venne accolto con un solenne «Shinzou wo Sasageyo» da parte degli astanti mentre tutti, anche i popolani, portavano il pugno al cuore. Seguì un lungo silenzio carico di parole dette tra gli sguardi lucidi di lacrime prima che la Regina Historia prendesse la parola per salutare formalmente colui che un tempo fu un suo superiore, che le insegnò a credere in sé stessa e nei propri compagni e a combattere offendo sempre il suo cuore.

La cerimonia prevedeva che fosse proprio lui, dopo lo svelamento della statua, a leggere i nomi di tutti quei soldati eldiani che erano caduti per liberare il mondo dalla minaccia dei Giganti e che non possedevano un luogo dove i propri cari potessero ricordarli. Ci vollero anni per riuscire a stilare una lista (lunghissima) che non ne dimenticasse alcuno e per buona parte si riuscì anche a risalire al grado e al Corpo di appartenenza. L’elenco sarebbe proceduto in ordine alfabetico, menzionando prima gli ufficiali e in un secondo elenco, molto più numeroso i soldati semplici. Per primi i caduti del corpo di Gendarmeria, poi quelli del Corpo di Guarnigione, del Corpo di Ricerca e infine i Cadetti. Al seguito sarebbero stati menzionati gli Eldiani che militavano per Marley ovvero i caduti tra i Guerrieri Marleyani onorari e Guerrieri Cadetti, infine, senza che fosse però previsto un elenco nominale dettagliato sarebbero stati ricordati anche i caduti di Marley, degli Azumabito, degli altri popoli e tutti i civili.

La statua, un complesso marmoreo di grandi dimensioni raffigurava un gruppo di soldati che combattevano tra le macerie di un muro in parte distrutto, i combattenti indossavano i mantelli con le Ali della libertà e portavano il cappuccio sul capo in modo che nessuno di essi potesse venire identificato con un eroe in particolare, solo colui che li comandava assiso a cavallo e brandendo la lama aveva il volto semi scoperto, lasciando immaginare che si trattasse del Comandante Erwin Smith. Tra le macerie alcuni soldati uomini e donne giacevano inermi o feriti e venivano soccorsi e difesi da altrettante figure ammantate recanti i Simboli del Corpo di Guarnigione e di Gendarmeria, sulla parte di mura ancora intatte era evidente l’antico stemma del Wall Maria, in parte distrutto. Al centro della scena una figura femminile china a terra con il volto celato dai lunghi capelli di modo da non comprendere se fosse giovane o anziana, cullava tra le braccia un soldato morto che teneva il volto poggiato alla sua spalla. Raffigurava il milite ignoto, a ricordo di tutti coloro che erano caduti e di cui non si conosceva il nome o il volto e per questo indossava un mantello strappato che non recava alcuno stemma.

Il colore rosaceo del marmo era reso più dorato dal sole che illuminava il monumento rendendolo quasi vibrante e vivo creando un’atmosfera di religioso silenzio durante la quale Levi lesse con calma, a voce alta e solennemente i nomi di tutti quelli che venivano ricordati, lasciando spazio al cordoglio e al pianto sommesso delle persone. Quando pronunciava i nomi di coloro che aveva conosciuto e amato si fermava qualche istante in silenzio rivolgendo loro un saluto speciale con la mente tenendo il pugno stretto sul cuore. La gente ascoltava commossa in un rispettoso e composto silenzio e solo il pianto di qualche neonato interrompeva di tanto in tanto la solennità della cerimonia. Una lieve brezza sussurrava tra gli alberi e le foglie che si libravano nell’aria parevano le anime dei tanti compagni caduti giunte a loro per un saluto.

Nonostante il numero elevato di partecipanti non vi furono disordini nè alcuna forma di spregio nemmeno da parte di chi non vedeva di buon occhio l’esercito e quando terminava l’elenco dei caduti appartenenti ad uno dei Corpi d’Armata, i Gendarmi sparavano a salve colpi di saluto.

Quando giunse il momento di leggere i nomi dei caduti appartenente al Corpo di Ricerca, il Comandante Levi, proseguì palesemente a braccio, non gli serviva leggere, ricordava esattamente i nomi di tutti i suoi amati compagni caduti per la libertà.

Il programma prevedeva che venisse citato nel suddetto elenco anche il nome di Eren Jeager. Ebbene, questo dettaglio dato dal fatto che anche il giovane Jeager risultava tra i dispersi, causò un certo tumulto tra la folla. In molti iniziarono a sbraitare che era un complotto del nuovo governo. «Noi siamo giunti fin qui per rendere omaggio alla tomba del Salvatore!» urlavano.

«Deve essere sepolto in questo cimitero!»

«Mostrateci la tomba di Eren Jeager!»

Qualcuno gridò che un soldato lo aveva riportato in patria.

Quando stava per scatenarsi il caos, fu lo stesso Levi a prendere la parola.

«Fate silenzio! Non è questo il modo di osservare il riposo eterno dei nostri caduti, Eren Jeager era anche un mio sottoposto e un caro amico oltre alla nostra speranza. A lui sono stati offerti molti cuori!». Disse di getto, osservando con occhi penetranti la folla, colta di sorpresa dal suo intervento.

Quelle poche, sincere quanto inaspettate, parole misero tutti a tacere e permisero alla Regina di tranquillizzare gli animi e riportare la calma senza incorrere in spiacevoli incidenti. Non si era resa conto di quanto fossero numerosi i fedeli di Eren Jeager e comprese, in quello stesso istante, che doveva velocemente sanare i rapporti con gli esponenti del nuovo culto del Salvatore.

Nei giorni che seguirono la commemorazione, mentre Gabi e Falco si trovavano al cimitero ora reso accessibile a tutti per incontrare la famiglia di Sahsa Blaus, sentirono alcune persone parlare di voci che riferivano che un soldato aveva riportato da Marley il corpo di Eren e accusavano il governo di averlo nascosto per evitare ai suoi seguaci di porgergli omaggio e non era tutto, la scoperta che la tomba di Eren Jeger non si trovava all’interno del cimitero murato come creduto da molti creò infatti parecchio scompiglio, i sostenitori del culto del Salvatore erano in fermento, non solo si vociferava del soldato che aveva riportato le spoglie di Eren in patria, ma alcune chiacchiere di donne andavano dicendo che alcune simpatizzanti Jeageriste, che da giovanissime avevano militato al fianco di Floch Forster, vantavano di aver incontrato una fanciulla molto devota al Salvatore che, sul letto di morte aveva parlato loro di una giovane donna che si diceva essere la compagna di Eren Jeager. A quanto riportavano le voci lo stesso Jeger avrebbe rivolto confidenze alla moribonda su di una ragazza a lui sentimentalmente legata ma appartenente all’esercito paradisiano regolare. Tali pettegolezzi furono inoltre ingigantiti da chiacchiere che riportavano le affermazioni di alcune ufficiali dell’esercito, simpatizzanti Jeageriste, che ritenevano di aver visto tra i nuovi Cadetti un giovane molto simile d’aspetto al compianto Eren e alla sua misteriosa compagna che, lo affermavano con certezza, si trovava ora a Paradise Island. Nel giro di pochi giorni su tutti i giornali non si parlava d’altro e ci volle tutta l’abilità diplomatica (anche quella che prevedeva metodi coercitivi piuttosto estremi) della sovrana per convincere il Clero Jeagerista a tenere a bada i suoi fedeli. In cambio promise ai leder della nuova religione che, a giorni, persone a lui molto vicine avrebbero rivelato al mondo la verità sulla storia di Eren Jeager.

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Capitolo 6
*** Paradiso perduto ***


«Non vi è altro modo, Mikasa, davvero, mi dispiace tantissimo ma ho le mani legate, se non diamo a questi fanatici qualcosa per placare le loro richieste potrebbero scavare più a fondo e scoprire segreti che immagino tu desideri rimangano tali».

la Regina di Paradise aveva convocato con la massima urgenza non solo Mikasa e Armin, ma tutti coloro che avevano conosciuto Eren in gioventù ed erano, senza alcun dubbio lealmente schierati dalla sua parte, per spiegare loro che la situazione in cui si trovavano era molto delicata. Gli Jeageristi infatti, avevano accettato di patteggiare con la Corona solo in cambio di un formale riconoscimento del loro leader. Reintegrando Eren Jeager, Floch Forster, Luise e tutti i disertori di allora e facendo incidere i loro nomi indelebilmente sulla pietra del monumento eretto in onore degli Eroi caduti per la Libertà, solennemente inaugurato da poco e ricordando Zeke Jeager Yelena e i Volontari, Historia era convinta di avere risolto la questione e non si aspettava un insorgere di popolo che chiedeva a gran voce un trattamento esclusivo per coloro che veniva ormai denominato da tutti “il Salvatore”.

Le voci che si diffusero poi, improvvise, su di un soldato che aveva riportato in patria i resti di Eren Jeager la colsero impreparata, sapeva del nuovo culto venuto a sostituire quello delle Mura ma aveva evidentemente sottovalutato la situazione ed ora chiedeva aiuto ai suoi ex compagni d’armi per trovare un accomodamento anche con il potentissimo Clero Jegerista che aveva tutto il popolo dalla sua parte, al fine di non rischiare una guerra civile che avrebbe nuovamente insanguinato Paradise Island.

Aveva già sentito parlare, negli anni, di qualcuno che era tornato con i resti di Eren ed era certa si trattasse di Mikasa, tuttavia non le aveva mai chiesto nulla così come aveva mantenuto il segreto sulle oscure origini del bambino dagli occhi verdi che l’amica le aveva affidato più di una decina di anni prima, ed ora era giunto il momento per la Ackerman di ricambiare il favore.

Non venne detto nulla di esplicito, poichè anche i muri hanno le orecchie e la faccenda era della massima delicatezza, ma Mikasa era certa che tutti i presenti in quella stanza avevano ben compreso come stavano le cose nel momento stesso in cui un giovane Cadetto aveva pronunciato il suo giuramento.

«Mi dispiace Eren...» pensò amaramente, consapevole che una volta resa pubblica l’ubicazione della sua tomba, la collina dove si recava spesso per sentire tra i sussurri del vento le parole del suo perduto amore non sarebbe mai più stata quel luogo segreto e conosciuto solo da lei e da Armin. Tuttavia non poteva permettere che la verità sul figlio di Eren venisse mai scoperta. La signora Kyomi non aspettava altro e non poteva lasciare il ragazzo agli Jeageristi. Non aveva scelta.

«Ho posto una lapide per Eren… dove ho deposto i suoi resti» disse Mikasa mentre sentiva su di sé lo sguardo comprensivo di tutti i presenti «… sotto l’albero sulla collina di Shiganshina...».

Non più di un mese dopo l’inaugurazione della statua agli Eroi caduti per la Libertà, comparve su tutti i giornali la notizia che, proprio in occasione del ritorno del leggendario Capitano Levi che aveva fatto da mentore al giovanissimo Eren Jeager, il Governo Centrale aveva annunciato un discorso alla Nazione durante il quale i superstiti della battaglia fra Terra e Cielo e tutti coloro, Regina compresa, che avevano avuto l’onore di conoscere di persona il giovane Jeager avrebbero raccontato di lui. Infine colei che aveva riportato l’Eroe di Paradise Island in patria avrebbe rivelato al popolo il luogo dove riposa il Salvatore, tenuto celato fin d’ora per ragioni di sicurezza.

 

Quel giorno, nonostante cadesse una sottile ma insistente pioggia, la piazza principale della Capitale era gremita di persone che si assiepavano sotto il palco da cui la Sovrana avrebbe parlato al popolo. La gente si radunò in una sorta di religioso silenzio mentre ascoltava il racconto a più voci sulla storia del Salvatore di Paradise Island, Eren Jeager. La prima a parlare fu la Regina Historia che narrò di aver conosciuto il Salvatore durante il suo addestramento come Cadetta dell’esercito di Paradise, in particolare parlò della di lui fedeltà al popolo e alla sua patria. Raccontò di come lei ed Eren combatterono fianco a fianco per spodestare dal trono il re fantoccio e la sua corte corrotta e riportare la Giustizia sull’Isola. Rivelò al popolo di essere stata a conoscenza del piano di Eren di scatenare il Rumbling e devastare il mondo oltre le mura, piano giudicato folle da molti, oltre che dai nemici di Eldia, ma che era invece volto a salvare tutti loro. Spiegò che era vero ciò che si vociferava sul fatto che il Salvatore avesse sacrificato la sua giovane vita abbattendo migliaia di nemici degli Eldiani e che solo grazie a lui ora i figli di Ymir potevano progettare di vivere un futuro da uomini liberi, senza dover più ricorrere alla maledizione dei giganti per garantire la propria esistenza. Parlarono poi i Guerrieri marleyani testimoniando quanto fosse dura la vita per gli Eldiani a Marley, di come i figli di Ymir vivevano ghettizzati, trattati come animali e sfruttati come macchine da guerra a motivo del loro sangue, con l’utilizzo di vili ricatti.

Di seguito fu il turno del Capitano Levi, considerato il mentore del giovane Eren. La sua testimonianza fu, tutto sommato, più breve rispetto alle altre ma di una tale intensità da far sgorgare lacrime dagli occhi di buona parte dei presenti. Soprattutto per i giovani soldati, sentir raccontare di come anche il loro eroico Salvatore fosse stato considerato un semplice novellino li riempiva di ammirazione dando loro una spinta motivazionale in più. Fu poi il momento dei sopravvissuti del 104mo corpo Cadetti che raccontarono di come il Salvatore da giovanissimo non fosse altro che uno stupido che aveva fretta di morire, ma anche del suo carisma, del suo grande cuore e di come tutti lo amassero e alla fine lo abbiano seguito nel Corpo di Ricerca. La sincerità con cui Connie Springer e Jean Kirstein parlarono di lui, con gli occhi lucidi rivolti verso un oltre che solo loro vedevano, coinvolse tutti.

Ma la testimonianza più commovente fu quella di coloro che lo conoscevano sin da bambini e che avevano trascorso con lui praticamente ogni istante della vita, Armin Arlert e Mikasa Ackerman. I loro racconti si concentrarono principalmente sull’infanzia di Eren Jeager, regalando agli astanti momenti di vita comune in famiglia, desideri e speranze del piccolo Salvatore, l’aspirazione sin dalla più tenera età di appartenere al Corpo di Ricerca e di vedere il mondo oltre le mura, il sogno di volare e di essere libero. Proprio questi desideri di libertà lo avrebbero condotto lungo la strada che aveva scelto di percorrere per salvare gli Eldiani. La gente ascoltava in riverente silenzio la vera storia del Salvatore, fiera che molte delle voci che giravano sulla vita di Eren Jeager venissero finalmente confermate mentre il Clero era impaziente di vedere il proprio nuovo culto finalmente ufficializzato dal Governo Centrale.

L’ultima parte del racconto spettava soltanto a Mikasa Ackerman, la donna che aveva vissuto al fianco del Salvatore sin dalla più tenera età. Raccontò di come Eren la salvò da bambina infondendole coraggio e forza per combattere e di come le avesse insegnato a vivere e ad offrire il proprio cuore per la difesa dei deboli. Mentre parlava con lo sguardo rivolto al cielo Mikasa si portò istintivamente il pugno al petto. Narrò del giorno in cui, spinta dalle parole di Eren, trovò la forza di combattere e salvare delle vite innocenti dall’attacco di un gigante, della bambina che ispirata dal suo esempio sarebbe divenuta poi una Jeagerista al fianco di Eren, la stessa che proprio dalle labbra del Salvatore, sentì parlare di lei. Smentì però la diceria che la voleva essere la compagna di Eren Jeager affermando che, per quanto si fossero amati moltissimo, la salvezza di Paradise Island era sempre stata una priorità per entrambi. Ammise che in virtù di questo legame, al termine della battaglia fra Cielo e Terra, si era arrogata il diritto di riportare di nascosto le spoglie del suo amato in patria affinché potesse riposare in pace sotto l’albero della collina dove amava andare da bambino. Nel distretto di Shiganshina.

 

I mesi che seguirono la rivelazione sull’ubicazione della tomba di Eren Jeager videro molti pellegrini giungere alla collina di Shiganshina con l’intento di porgere omaggio al Salvatore di Paradise, mentre quello che fin d’ora era rimasto un culto popolare basato sui soli racconti dei pochi sopravvissuti alla battaglia tra Terra e Cielo, divenne velocemente il nuovo culto religioso del regno, legittimato dalla Corona e insegnato nelle scuole pubbliche. Da tutta l’isola i fedeli del Culto del Salvatore giungevano a porgere omaggio all’Albero sulla collina, dove le famiglie portavano i loro bambini a pregare sulla tomba di Eren Jeager affinchè li beneficiasse di una vita lunga e prosperosa, mentre anziani e malati si recavano alla tomba sotto l’Albero implorando la buona salute. Dopo non molto tempo i rappresentanti del Clero istituirono un giorno per la venerazione alla tomba da parte dei fedeli, la sera del quale, in processione, con fiaccole accese e seguiti dal popolo si recavano sulla collina rivolgendo canti e preghiere all’ Albero del Salvatore”. Fu così che che con il trascorrere del tempo il nuovo culto venne legittimato proprio in questo: “il Culto dell’Albero del Salvatore”.

Sull’onda del fervore religioso e con consistenti sovvenzioni da parte della Corona, Shiganshina da distretto semi abbandonato e abitato da pochi derelitti, venne riqualificato e ripopolato, furono costruiti nuovi edifici più alti ed eleganti, l’albero sulla collina venne recintato con una raffinata bordura di metallo mentre un vialetto ordinato e fiorito conduceva a quello che ora era diventato a tutti gli effetti, il luogo più sacro di tutta l’isola.

 

Anche quell’anno, come ormai faceva da molti, nel giorno in cui ricorreva l’anniversario della morte del suo amato, Mikasa raggiunse la collina e attraversò il vialetto per recarsi sulla tomba dell’uomo che amava e porgere un fiore. Ormai erano trascorsi tredici anni dalla morte di Eren, ma lei viveva ancora nel suo ricordo, avvolta dalla sua sciarpa. Armin l’avrebbe raggiunta di li a poco, poiché come sempre, quel giorno in cui ricordavano la morte del loro caro dovevano deporre il fiore insieme.

Sorgeva l’aurora quando la giovane donna raggiunse la cima della collina, si recava sempre da Eren, di buon mattino, prima che i fedeli del Culto dell’Albero giungessero a gruppi per porre omaggio al Salvatore ma quando i primi raggi dell’Alba le accarezzano il volto e il vento le scompigliò i capelli sciolti, Mikasa si girò per lasciare spaziare lo sguardo oltre la collina e si sentì spezzare il cuore. Gli alti edifici, costruiti ad una sorprendente velocità negli ultimi anni, erano diventati imponenti come quelle mura che facevano sentire Eren un uccello in gabbia sottraendogli la vista dell’orizzonte. Guardò sotto una luce nuova l’albero recintato e con l’erba ben tagliata attorno, come lo vedesse per la prima volta, la lapide di Eren sembrava stare lentamente scomparendo quasi fagocitata dalle radici e dal tronco dell’albero che pareva volerla inglobare in sé stesso ed i fiori che lei deponeva ogni giorno apparivano insignificanti difronte al giardino ordinato e rigoglioso che il Clero e i fedeli curavano con dedizione. Di colpo comprese ciò che stava accedendo e la realtà la gelò come una getto d’acqua fredda in faccia. Tutto stava cambiando sotto i suoi occhi, senza che loro potessero farvi niente e il Paradiso, quello per cui il suo Eren aveva dato la vita, era ormai perduto.

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Capitolo 7
*** L'uccello bianco ***


lo sciabordio delle onde che accarezzavano la sabbia unito al canto degli uccelli che si libravano sulle onde risuonava nel petto di Nanashi come un’eco lontana facendogli battere forte il cuore sotto il pugno che teneva chiuso sul petto. Ora che era divenuto un giovane uomo i lineamenti del suo volto si erano consolidati rivelando un paio d’occhi dal taglio allungato contornati da lunghe ciglia nere, peculiarità dei popoli orientali e che aveva ereditato da sua madre così come la serica chioma di capelli corvini che ondeggiavano sospinti dal vento lasciando libero lo sguardo altrimenti adombrato da una lunga frangia che ne malcelava l’incredibile colore. Il cangiante verde degli occhi ora rifletteva il blu intenso del mare assumendo sfumature azzurre.

L’indomani si sarebbe imbarcato verso la Terraferma al seguito della giovane principessa di Paradise Island, Ymir Reiss, che aveva assunto il comando di un gruppo scelto di appartenenti al Corpo di Ricerca rinunciando al suo ruolo di futura Regina che le imponeva l’obbligo di formare una famiglia e garantire la discendenza del sangue reale con dei figli. Molti giovani avevano risposto alla sua chiamata spinti dal desiderio di portare la libertà anche ai loro fratelli e sorelle Eldiani ancora vittime di soprusi ne Continente e sotto l’insegna delle Ali della libertà avevano assunto il nome di “Armata di liberazione” ricevendo l’approvazione dal Governo centrale. Con la benedizione del Clero del culto dell’albero del Salvatore sarebbero partiti il giorno seguente pronti ad offrire i propri cuori per la libertà ripercorrendo le gesta degli eroi di Paradise.

 

Mikasa Ackerman stava giungendo alle spalle di suo figlio, camminando con passo leggero per non disturbare la sua contemplazione del mare. Ripensava a quanto accaduto alcuni giorni prima quando un giovane asiatico aveva bussato alla porta della caserma per portarle la notizia che la signora Kiomi stava morendo e aveva chiesto di lei. Quando giunse al suo capezzale l’anziana donna degli Azumabito dischiuse pesantemente le palpebre stanche e con un movimento quasi impercettibile della mano fece cenno a Mikasa di avvicinarsi al suo volto. La voce le uscì in un sussurro mentre le lacrime le bagnavano le guance. Erano parole amare e rassegnate quelle che pronunciò mentre, con le poche forze che le rimanevano, strinse il polso di Mikasa dove, sotto la benda bianca, sapeva esserci l’antico simbolo degli Azumabito. La giovane allora posò la mano sulla sua, e comprendendo i suoi affanni, le confidò tutto di suo figlio, rassicurandola che il nobile simbolo non sarebbe andato perduto, che avrebbe parlato al ragazzo spiegandogli ogni cosa e tramandando il marchio così come avrebbe voluto sua madre. L’anima della signora Kiomi abbandonò il suo corpo mentre all’ascoltare le parole di Mikasa un sorriso le illuminava il volto. La giovane Ackerman pianse in modo composto e silenzioso e in un piccolo angolo del suo cuore rimpianse il fatto di non aver mai assecondato la signora degli Azumabito ed il suo intento di darla in sposa ad un giovane asiatico, consapevole che in questo modo sarebbe tornata in seno alla sua famiglia di appartenenza. Fu tuttavia un fugace pensiero, effimero come il volo di una farfalla in primavera, poiché subito dopo ricordò a sé stessa che Eren e nessun altro, era la sua unica e vera famiglia.

Ritornata in Caserma scrisse una lunga lettera a suo figlio, era intenzionata a mantenere fede alla parola data alla signora Kiomi sul letto di morte ma non lo avrebbe certo fatto di persona proprio quando il giovane Nanashi aveva scelto quale fosse la sua strada. Decise quindi di rivelargli tutto per iscritto in una lunga lettera bagnata di lacrime dove affidò alla carta l’antico marchio degli Azumabito e lasciando soltanto a lui la scelta di imprimerlo o meno sulla propria carne e in quella dei suoi eventuali figli e se prendere o meno tale fardello sulle proprie spalle.

Ora mentre lo guardava contemplare il mare stava stringendo la lettera, chiusa con un sigillo, che teneva in tasca, aveva ritenuto più sicuro dargliela di persona, data la delicatezza del contenuto, tuttavia lo avrebbe invitato a leggerla solamente quanto fosse giunto sul Continente, lontano il più possibile da Paradise Island. Crescendo in età i suoi lineamenti asiatici e il verde dei suoi occhi oltre al temperamento e alle singolari abilità marziali rischiavano di tradire, in ogni istante che trascorreva tra le fila dell’esercito paradisiano, il segreto sulle sue origini, per questo motivo Mikasa, nonostante la cosa la addolorasse moltissimo era stata sollevata nel venire a conoscenza della sua decisione di partire e non aveva fatto nulla per opporvisi caldeggiando invece la scelta del ragazzo. Anche Armin, consapevole dei pensieri e delle oggettive preoccupazioni della sua amica, aveva accondisceso alla decisione di colui che, agli occhi di tutti, era divenuto il suo giovane pupillo. Nemmeno il Capitano Levi si oppose quando Mikasa, seppur a monosillabi, gli parlò della questione. Non gli importava, in verità, poi molto che il suo nome, quello degli Ackerman venisse perpetrato, ma concordò con la donna quando gli disse della lettera che intendeva scrivere al figlio e sul fatto che fosse necessario informare il ragazzo sulle peculiarità di una parte del sangue che scorreva nelle sue vene. Quando aveva visto il giovane cadetto per la prima volta Levi comprese subito cosa fosse accaduto ma condivise anche i dubbi e i tormenti che immaginava si dibattessero nell’animo di Mikasa, il nome Jeager, il sangue Ackerman e il marchio degli Azumabito erano troppo perché un singolo essere umano potesse portarli su di sé, in quel preciso momento storico. Ma sapeva anche che era giusto affidarli alla storia che avrebbero scritto le nuove generazioni e non seppellirli con loro, ben presto destinati ad appartenere al passato, anche Erwin sarebbe stato d’accordo, di questo era sicuro.

 

Quando sentì i passi alle sue spalle infrangere le onde, Nanshi si voltò. Ora era cresciuto e non aveva più bisogno di alzare gli occhi per incrociare lo sguardo di vetro di Mikasa che come uno specchio rifletteva il suo. Il ragazzo era un tipo di poche parole e non amava gli addii e anche la Ackerman non era solita profondersi in grandi discorsi, sperava nell’aiuto di Armin, venuto a salutare Nanshi assieme a lei, ma il giovane Arlert era rimasto in disparte e osservava la scena con gli occhi velati di lacrime.

Madre e figlio si stavano ora stringendo le mani e questo gesto rese quasi tangibile la presenza spirituale di Eren in mezzo a loro, Mikasa stava dicendo qualcosa al ragazzo, ma il rumore delle onde e il vento resero impossibile ad Armin comprenderne il significato, mentre lui la guardava profondamente con quei penetranti occhi dall’inconfondibile sfumatura di verde. Il giovane ripensò a quante volte aveva notato Eren guardare Mikasa intensamente quando lei non lo notava e a come il suo sguardo fosse limpido e il suo cuore aperto. I pensieri e i sentimenti del suo migliore amico, anche quelli più intimi erano palesi ad Armin come un libro aperto. Suo figlio, al contrario, era molto diverso e per quanto mantenesse il medesimo colore cangiante e luminoso delle iridi aveva lo sguardo imperscrutabile e sfuggente di Mikasa della quale Armin non aveva mai afferrato appieno i pensieri e nemmeno lo stesso Eren aveva mai compreso del tutto la ragazza che amava, questo Armin lo sapeva bene perché sin da quando erano bambini, Mikasa era sempre apparsa loro piuttosto misteriosa. Per questo motivo il giovane Arlert assistette alla scena da lontano senza poter comprendere non solo le parole ma nemmeno i sentimenti dei protagonisti, cosa dissero e provarono in quel saluto lo conoscevano solo il vento e l’acqua del mare che bagnava loro le guance confondendosi con le lacrime.

Arman si affiancò a Mikasa solo quando la vide ricomporsi assumendo la postura marziale con il braccio sinistro dietro la schiena e il pugno destro sul cuore. Anche lui fece lo stesso.

Nanshi rispose al saluto con orgoglio e i suo occhi brillarono mentre rivolse un sorriso ad Armin. In un certo momento della sua vita aveva creduto che quel giovane dai profondi occhi azzurri e tristi, che lo guardava sempre con sincera dolcezza mentre veniva a trovarlo assieme a “M”, fosse suo padre.

 

Una volto sciolto il saluto militare, consapevole che quello avrebbe potuto essere un addio definitivo, Mikasa decise di separarsi dalla sciarpa donatagli dal suo amato Eren per avvolgervi il loro figlio, ma quando con la mano stava per slegare il nodo sentì qualcosa di morbido sfiorarle la pelle, era l’ala di un uccello che stava volando al suo fianco. Si librò in alto sopra di loro eseguendo alcuni cerchi nell’aria con le candide piume che brillavano illuminate dalla luce del sole per poi planare e atterrare posandosi sulla spalla del giovane dagli occhi verdi e i serici capelli corvini.

 

“Eren….”

 

le voci di Mikasa ed Armin, incrinate dall’emozione si persero nel battito d’ali del fiero uccello bianco che ora si librava libero nel cielo sopra di loro.

 

Nota dell’autrice

Con questo capitolo si conclude anche la seconda parte di questa mia trilogia, spero che il giovane Nanashi vi sia piaciuto come personaggio, a me ha entusiasmato molto dargli un volto e un carattere, scrivere di lui e della sua vicenda, insomma non è in una posizione facile la sua e mi è piaciuto gestire Mikasa nelle sue scelte a riguardo. In realtà in questa storia doveva essere solo un cameo assieme alla piccola Ymir, poi i personaggi mi sono sfuggiti un po' di mano iniziando a vivere di vita propria e a fare le loro scelte, magari quando avrò terminato questa saga dedicherò loro uno spin-off sulle loro avventure al di là del mare, voi continuate a sostenermi e ditemi cosa ne pensate!

A breve il gran finale della trilogia!

Ciao!

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