Le cose che so su di me

di Violet Sparks
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La notte più strana della sua vita ***
Capitolo 3: *** Non è facile comunicare ***
Capitolo 4: *** L'oscurità prima dell'alba ***
Capitolo 5: *** Ciò che non ti aspetti ***
Capitolo 6: *** Linea di confine ***
Capitolo 7: *** Guardare in prospettiva ***
Capitolo 8: *** Un passo alla volta ***
Capitolo 9: *** L'ospite inaspettato ***
Capitolo 10: *** Chiedere non costa nulla ***
Capitolo 11: *** La partita d'argento (Parte I) ***
Capitolo 12: *** La partita d'argento (Parte II) ***
Capitolo 13: *** Il lato oscuro della luna ***
Capitolo 14: *** Ardente desiderio ***
Capitolo 15: *** Con i piedi sulla sabbia calda... ***
Capitolo 16: *** ... e la testa immersa nell'acqua cheta ***
Capitolo 17: *** L'anatomia delle giraffe ***
Capitolo 18: *** Prendere o lasciare? ***
Capitolo 19: *** Nana ***
Capitolo 20: *** Cronache familiari (Parte I) ***
Capitolo 21: *** Cronache familiari (Parte II) ***
Capitolo 22: *** Forse l'ho perso nel vento ***
Capitolo 23: *** Lascia che sia ***
Capitolo 24: *** Quando chiama il sangue ***
Capitolo 25: *** Ad occhi chiusi ***
Capitolo 26: *** Al sicuro, nel buio ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


LE COSE CHE SO SU DI ME

Prologo
 
 
Proprio quando crediamo di aver pensato a tutto,
l’universo ci lancia una palla curva e dobbiamo improvvisare.
Troviamo la felicità in luoghi inaspettati,
ritroviamo la via che ci riporta alle cose che contano di più.
 
L’universo è così strano,
a volte trova il modo di farci finire
esattamente dove dovevamo stare.
- Grey's Anatomy
 
 
 
 
Wakatoshi lo riconobbe nello stesso istante in cui lo vide, non importava quanto buio fosse il vicolo o quanto sangue ci fosse ad imbrattare il suo visetto da bambino.
D’un tratto i suoi occhi si posarono su quella specie di fagotto piegato a terra, tremante e impaurito, e in un attimo la sua mente fu colta da un lampo.
Quello era Hinata.
Hinata Shoyo.
Il corvetto del Karasuno.
Il germoglio venuto dal cemento che lo aveva sconfitto tre settimane fa.

 
Accadde per puro caso.
Una bizzarra concatenazione di eventi, l’avrebbe definita Tendou, un ridicolo scherzo del destino.
Peccato che Wakatoshi, a tutta quella messinscena del destino, non avesse mai creduto granché.
Aveva sempre preferito soffermarsi su altro – l’impegno, il talento, la disciplina – cose su cui poteva effettivamente esercitare il controllo, di cui era sempre possibile prevedere l’effetto, quale che fosse la reazione che le scatenasse.
Eppure...

 
Sulla strada di ritorno, nonostante l’ora tarda della sera, Wakatoshi aveva deciso di comprare una bibita, avendo finito la propria borraccia già a metà dell’estenuante allenamento cui il coach aveva sottoposto lui e la squadra quel pomeriggio, e sentendosi particolarmente disidratato.
Si era fermato nel primo 24H che gli era capitato davanti, tra i mille tutti uguali per la via del centro ormai semideserta. Aveva acquistato una bevanda energetica all’arancia - l’ultima rimasta nel frigo piuttosto spoglio- dopodiché era tornato sul proprio cammino, la borsa della palestra a ciondolargli su un fianco come una vecchia amica.
Stava quasi per imboccare il quartiere di casa, quando lo aveva sentito.
Un tonfo, seguito da un gemito piccolissimo.
Il rosso del semaforo sopra di lui era scattato, permettendo l’attraversamento dei pedoni, ma Wakatoshi non aveva mosso un passo. Si era voltato su se stesso, semplicemente, scrutando perplesso la semioscurità del vicoletto alle proprie spalle, la bottiglia di plastica ferma a mezz’aria davanti alla bocca, la cinghia della borsa stretta tra le dita.
Poi era successo tutto molto in fretta.
Delle ombre si erano accorte della sua presenza, sebbene lui non avesse detto niente né avesse fatto alcunché per farsi notare. C’era stato un vociare confuso, concitato – chi è quell’armadio? Andiamocene via, ho paura! È enorme, sarà sicuramente un poliziotto! Presto, questo ci ammazza!- poi una fuga rocambolesca tra sacchi della spazzatura e cassonetti rovesciati a terra, verso il lato opposto di quel corridoio di asfalto, tetro e maleodorante.
Quando le ombre si erano dileguate, nel bagliore lattiginoso creato dai lampioni, era rimasto un pulcino dal piumaggio caldo come le lingue di un fiamma, la pelle di neve, il musetto sporco di sangue.
“Hinata Shoyo.”
Japan…”

 
Non appena riconobbe Wakatoshi, Hinata ebbe un sussulto talmente violento che parve rimbalzare nell’aria e finire dritto nella pancia del ragazzo più grande, facendogli perdere un battito. Subito si coprì il viso pesto con le mani, come se potesse in qualche modo nasconderlo, prese ad agitarsi sul posto e “Sto bene! Sto benissimo! Non è successo niente!” si affrettò a dire, la voce distorta dalla ferita.
Cercò di sollevarsi in piedi, sebbene gli tremassero le ginocchia, le braccia, lo scheletro.
Si aggrappò al muro puntando i polpastrelli sul calcestruzzo, facendoli quasi imbiancare dallo sforzo, quindi cominciò a trascinarsi su con tutto l’impegno di cui era capace, con tutta la forza che aveva in corpo.
Ma – era evidente- non era neanche lontanamente abbastanza.
Le sue gambe rigide smisero di collaborare all’improvviso, le sue spalle ossute vibrarono come colte da una specie di terremoto interiore e il suo intero corpo venne attraversato da uno spasmo visibile, fortissimo, il quale lo fece sibilare dal dolore e piegare verso l’asfalto.
Wakatoshi balzò verso di lui di puro istinto, afferrandolo per un braccio appena prima che toccasse terra.
Dentro di sé, sentì montare la rabbia – la solita che lo coglieva quando Hinata Shoyo si trovava nei suoi stretti paraggi- ma scelse di non dire niente.
Perché?
Perché quel mocciosetto testardo e incosciente, doveva sempre combattere? Doveva sempre ostinarsi al di là di ciò che era logico o prudente o consentito? Perché doveva sempre insistere e persistere al di là di quelle che erano le sue ridicole capacità?
Lo riportò seduto contro il muro con uno strattone poco gentile, guadagnandosi dal piccoletto uno sguardo di protesta intenso quanto un impropero strillato a pieni polmoni, quindi si accovacciò di fronte a lui, piegando le gambe e reggendo il peso solo sui talloni.
Perfino così pareva gravargli addosso come un uccello rapace.
“Non ti puoi alzare, smettila.” disse Wakatoshi, secco.
Hinata sbuffò nella sua direzione e scrollò le spalle. 
Da così vicino, era più facile constatare l’entità delle sue condizioni: aveva le labbra spaccate e tumide, il naso pieno di sangue, uno zigomo gonfio, la maglietta bianca della sua scuola - la Karasuno- stropicciata e imbrattata di rosso in più parti. In generale non sembrava avere niente di rotto, tuttavia, dal pessimo stato dei suoi vestiti, probabilmente doveva aver ricevuto qualche colpo anche addosso, sul busto e sulle gambe. La borsa della palestra era aperta, abbandonata su di un lato e il suo contenuto era stato seminato dappertutto lungo il vicolo: le scarpette da pallavolo, l’asciugamano, le ginocchiere, il pallone, perfino la sua borraccia da bambino con sopra i cartoni animati che, ormai senza tappo, zampillava acqua sul bitume scuro come un rubinetto difettoso.
Wakatoshi osservò ognuno di quegli oggetti abbandonati per circa un secondo, cercando di immaginare la dinamica degli avvenimenti, poi tornò sull’uccellino malconcio sotto il proprio naso.
C’era qualcosa di estremamente fastidioso nel vederlo in quello stato, qualcosa che rendeva Wakatoshi nervoso, a tratti vagamente inquieto.
Non gli piaceva.
Non gli piaceva che gli occhi di Hinata fossero diventati così grandi, praticamente giganteschi.
Non gli piaceva il lieve tremito dei suoi polsi sottili come giunchi.
Non gli piaceva il rosso sgargiante del sangue sul pallore della sua pelle ma, sopra ogni cosa, non gli piaceva quel velo di spavento grezzo, autentico, che chiaramente gli stava ristagnando sul volto.
Non gli piaceva perché non era suo, non gli apparteneva, era di troppo.
Era come un lenzuolo abbandonato per sbaglio su una lampada accesa, un ostacolo che ne ovattava la luce e che Wakatoshi avrebbe tanto voluto poter rimuovere, poter scrollare via con la punta delle dita, ma non era possibile ed era così… frustrante.
Quando si parlava di Hinata Shoyo, tutto era sempre terribilmente frustrante.
“Cosa è successo? Chi erano quelle persone?” chiese comunque Wakatoshi.
Il ragazzino abbassò lo sguardo, si rannicchiò nelle sue stesse braccia, “Non lo so, sono sbucati dal nulla! Mi hanno accerchiato e quando ho provato a chiedere aiuto, hanno cominciato a picchiarmi!” raccontò molto lentamente, dovendo fare i conti con lo stato pietoso della sua bocca “Mi hanno rubato tutto, i soldi, il cellulare, perfino la bici…” a quel punto, la sua voce si spezzò e gli occhi gli si riempirono di lacrime.
Wakatoshi si limitò ad annuire in silenzio, mordendosi il retro di una guancia con malcelato disagio.
Non sapeva davvero come comportarsi: Hinata aveva bisogno di cure, ma soprattutto di vicinanza, di conforto, cose che lui non si sentiva certo in grado di fornirgli, considerato che, al di là di una singola partita di pallavolo, non avevano mai condiviso alcuna forma di rapporto.
Anzi.
Hinata Shoyo non gli era mai andato a genio.
Non gli era mai andato a genio affatto.
Una parte nemmeno tanto recondita di Wakatoshi si stava pentendo amaramente di essersi fermato, di non aver semplicemente tirato dritto per la propria strada, invece di seguire quegli strani suoni, ma, adesso che c’era dentro fino al collo, cosa avrebbe dovuto fare? Come avrebbe dovuto comportarsi?
Avrebbe mai potuto abbandonare il ragazzino lì, nelle sue condizioni?
Avrebbe mai potuto girarsi dall’altra parte?
Alla fine, si risolse per fare l’unica cosa sensata che gli veniva in mente in una situazione del genere.
“Hai bisogno di un medico, adesso chiamo un’ambulanza.” affermò laconico, dopodiché recuperò il telefonino dalla tasca dei pantaloni e fece per comporre il numero delle emergenze.
Prima che il suo pollice potesse schiacciare il tasto di chiamata però, il corvetto gli afferrò il polso e lo bloccò.
“Non voglio andare in ospedale, ho detto che sto benissimo!” sbottò con una voce di almeno un’ottava più alta del necessario, salvo poi gemere dal dolore e correre a premersi le labbra martoriate col dorso della mano libera.
Wakatoshi serrò la mascella, profondamente seccato.
“Non stai benissimo, non lo ripetere più.” sentenziò, stanco di quell’atteggiamento del tutto illogico. Provò a sfilare via il braccio, ma Hinata non demorse, al contrario strinse la presa con maggior vigore e infilò gli occhi liquidi nei suoi in una supplica tremolante.
Somigliava a un passero sferzato da una tramontana.
La sua pelle era calda e leggermente sudata, mentre le sue dita erano lunghe, sottili, disseminate di piccoli calli che sfregavano sul braccio di Wakatoshi facendogli il solletico.
Se soltanto avesse voluto, l’asso della Shiratorizawa non ci avrebbe messo niente a levarselo di dosso - gli sarebbe bastato imprimere un briciolo di determinazione nell’atto, strattonare l’arto imprigionato con maggior decisione -  il problema era che Hinata sembrava talmente fragile in quel momento, talmente piccolo, da dargli l’impressione di potersi rompere al minimo tocco, per cui Wakatoshi scelse di rimanere immobile come un blocco di marmo. 
“Non ti devi preoccupare per me!” insistette ancora il piccolo, testardo.
“Non mi sto preoccupando per te. Sto valutando i fatti e sto facendo la cosa più razionale.”
“Non ce n’è bisogno, adesso mi alzo e vado a casa!”
“Non ti reggi in piedi. Non riuscirai mai a tornare a casa da solo, devi essere portato in ospedale.”
Quelle parole parvero colpire Hinata in maniera quasi fisica, perché sobbalzò sul posto neanche se qualcuno gli avesse appena tirato uno schiaffo e sgranò gli occhi nocciola. “Ti prego, io… non mi piacciono gli ospedali, mi fanno paura…” disse quindi, in un sussurro lievissimo che Wakatoshi fece fatica a captare nonostante i pochi centimetri di distanza.
Dinanzi a quella confessione, il più grande non poté impedirsi di aggrottare la fronte, in un misto di perplessità e insofferenza. “È una paura stupida.” affermò, con estrema durezza “Gli ospedali servono a curare le persone, a farle stare bene. Non c’è niente di cui avere paura.”
Un sillogismo perfetto, una costatazione tanto ovvia che Hinata boccheggiò, non sapendo bene come rispondere, e fu proprio allora che Wakatoshi ne approfittò per liberarsi dalla sua presa e schiacciare il tasto di chiamata.
Pensava che la questione si fosse chiusa lì, che Hinata si fosse finalmente arreso all’evidenza della questione e avesse accettato di farsi visitare, invece, non appena il centralino rispose dall’altro capo della cornetta, quello si rianimò all’improvviso, saltò in avanti come una molla cercando di afferrargli il telefono e cominciò a strillare.
“Maledetto Ushiwaka! Ho detto di no! No! Non ci voglio andare in ospedale! Metti giù immediatamente! Metti giù! Metti giù!”
“Stai fermo, per favore.”
“Riattacca il telefono! Riattacca subito!”
Wakatoshi era senza parole, del tutto allibito dai modi infantili, chiassosi e sconclusionati di Hinata Shoyo.
Ad un certo punto, fu costretto perfino ad alzarsi in piedi pur di mettere un po' di distanza fra sé e il terremoto umano che gli si era scatenato di fronte, ma con sua grande sorpresa il moccioso non demorse, lo seguì a ruota, continuando a dimenarsi, a gridare, a inveire, il tutto con una energia dirompente che davvero non capiva da dove stesse tirando fuori, visto che non riusciva a mantenersi dritto fino a un attimo prima.
Mentre forniva all’operatore le informazioni necessarie, sentiva i suoi pugni minuscoli infrangersi contro il suo petto, le sue unghie corte aggrapparsi alla stoffa della felpa che aveva indosso per tirarla, strattonarla, attaccandosi alla stoffa pur di arrivare al cellulare.
Wakatoshi continuò a parlare senza lasciar trapelare niente, in modo chiaro, preciso, privo di inflessioni.
La verità era che nessuno di quei colpi lo stava davvero scalfendo davvero. In confronto alla sua ingente stazza fisica, la forza di Hinata Shoyo appariva quasi ridicola, il suo accanimento non era altro che goffo, imbarazzante, patetico.
Eppure, era esattamente per quello che Wakatoshi stava ribollendo dalla rabbia.
Quando chiuse la chiamata, si voltò verso il ragazzino lentamente, ma inchiodandolo con uno sguardo così carico di ostilità che quello si placò all’istante, senza che Wakatoshi dovesse proferire una singola parola.
“Io… io…” balbettò in difficoltà, mentre lasciava andare la felpa e retrocedeva di qualche passo, a capo chino “Tu non capisci, Japan… non puoi capire…”
“Sei un bambino.”
L’asprezza nella risposta dell’asso dovette arrivare nel petto del corvetto con la spietata precisione di una freccia, perché sussultò sul posto e riservò al più grande un’espressione ferita “Non mi conosci! Non puoi parlarmi così! Non sei tanto più grande di me! E poi io n-“
Non riuscì a terminare la frase.
All’improvviso, il suo corpo minuto tremò come fosse stato colpito da una potente scarica elettrica che lo fece guaire dal dolore. Barcollò all’indietro fino a cozzare la schiena contro il muro sucido, si piegò sulle ginocchia e sputò un fiotto rossastro di sangue e saliva.
“Ti sei aperto la ferita sul labbro. Ti avevo detto di non agitarti.” affermò quindi Wakatoshi, severo, non riuscendo per la seconda volta a dissimulare la propria irritazione.
Non si era mai sentito così in tutta la sua vita.
Era sempre stato un ragazzo paziente, equilibrato, controllato nelle sue emozioni e nelle sue decisioni.
Non aveva mai perso la calma di fronte a niente e a nessuno, nemmeno di fronte agli avversari più scorretti e meschini, quelli che dall’altra parte della rete gliene dicevano di tutti i colori, minacciandolo, insultandolo, mossi dalla solita dose di frustrazione e d’invidia verso la sua forza invincibile.
Solo Hinata Shoyo possedeva la capacità di smuoverlo in quel modo.
Solo quando lui gli stava davanti -con quella sua espressione caparbia e impunita - Wakatoshi avvertiva il malsano impulso di colpire qualcosa, ripetutamente, a suon di pugni. Il desiderio impellente di distruggere le cose e poi disfarle e poi rimetterle nell’ordine che avrebbero dovuto avere.
Il bisogno di voler forsennatamente dimostrare qualcosa.  
Tuttavia.
“Siediti.” ordinò Wakatoshi e prima ancora che Hinata potesse obiettare, solo a vederlo sfarfallare le ciglia nella sua direzione, interdetto, gli circondò la vita con un braccio, lo spostò di peso e lo fece mettere seduto contro il muro. Come era prevedibile, il corvetto si agitò nella sua presa cercando di sgusciare via, di divincolarsi, ma a un certo punto, semplicemente sospirò e si lasciò manovrare da lui, tenendosi alle sue spalle, gli occhi nocciola sfiniti e bagnati di lacrime.
Vibrava come una foglia nel gelido inverno.
Teneva le mani raccolte a coppa sul muso per raccogliere il sangue, aveva piegato le ginocchia verso il petto e se ne stava ricurvo, rannicchiato neanche cercasse di scomparire.
Wakatoshi lo osservò in silenzio, sentendo qualcosa di indefinito gravargli dentro, all’altezza dello sterno, tuttavia decise di non soffermarcisi. Piuttosto, si accovacciò nuovamente di fronte a Hinata, aprì il suo borsone della palestra e ne estrasse il primo indumento pulito che gli capitò a tiro: una maglietta di ricambio che non aveva utilizzato durante gli allenamenti.
Quando gli afferrò il mento per rivolgerlo nella sua direzione, il corvetto spalancò gli occhi e lo guardò in un misto di terrore e sorpresa, neanche si aspettasse che Wakatoshi volesse fargli del male. Si rilassò soltanto nell’istante in cui l’altro ragazzo gli scostò le mani con un movimento gentile ma fermo, e al loro posto premette la stoffa intonsa del proprio indumento.
Il bianco del tessuto, in contrapposizione al sangue e allo sporco del viso del più piccolo, gli causarono un brividio lungo la schiena.
“No… non c’è bisogno…” borbottò Hinata, la voce impastata dal dolore e dalla stoffa morbida sulla sue labbra.
Si girò dalla parte opposta nel tentativo di scansarsi, tuttavia Wakatoshi glielo impedì categoricamente, stringendo le dita sulla sua mascella.  
Era la prima volta che lo toccava in maniera così diretta.
“Non parlare.” ordinò l’asso della Shiratorizawa, poi emise un lungo sospiro.
Le lacrime di Hinata, che d’un tratto cominciarono a bagnargli le nocche, sembravano bollenti come lava.

 
L’ambulanza giunse qualche minuto dopo e il sollievo che provò Wakatoshi nel vedersi sottrarre la responsabilità del ragazzino, non aveva eguali nella storia.
I paramedici fecero alzare Hinata dal marciapiede molto lentamente, lo condussero nel retro dell’ambulanza, dove lo avvolsero in una pesante coperta celeste, dopodiché passarono a esaminare le sue condizioni con estrema cautela: come Wakatoshi aveva sospettato, aveva riportato un bel numero di ecchimosi ed escoriazioni, una contusione al naso e un taglio profondo al labbro che avrebbe avuto bisogno di qualche punto ma, nel complesso, non pareva aver riportato danni gravi.  
Ad ogni modo, lo avrebbero portato in ospedale per i dovuti accertamenti e tutte le medicazioni necessarie.
Sotto le luci intense del vano posteriore dell’ambulanza, i paramedici elargivano a Hinata sorrisi calmi e rassicuranti, lo aiutavano a ripulirsi le mani e il viso, gli dicevano parole di conforto, carezzandogli i capelli con movimenti pacati. Anche il poliziotto accorso insieme a loro – un uomo giovane, sulla trentina- gli parlava con dolcezza, mentre continuava a fargli domande sull’accaduto, prendendo appunti su un taccuino di cuoio.
Solo Wakatoshi rimaneva piantato sul marciapiede, a qualche metro di distanza, incapace di muovere i piedi e allontanarsi da quella scena, sentendosi un pesce fuor d’acqua.
Aveva ancora la maglietta macchiata del sangue di Hinata stretta tra le dita.
“Signor Ushijima Wakatoshi?”
Una voce incerta lo distolse dai suoi pensieri.
Wakatoshi volse la testa di lato: sotto il suo naso, una ragazza minuta coi capelli castani legati in una coda e un paio di occhiali squadrati e bordati di nero, lo fissava dal basso della sua statura col collo niveo talmente teso da lasciar trasparire le linee viola delle vene.
Sembrava intimorita da lui, neanche fosse al cospetto di una bestia feroce pronta di attaccarla.
Succedeva spesso.
Wakatoshi ormai ci era abituato.
“Sì, sono io.” rispose comunque, accennando un inchino verso di lei.
Il paramedico indietreggiò di istinto, ma poi si schiarì la gola e cercò di ricomporsi. “È davvero una fortuna che lei sia arrivato a salvare il suo amico. Quei tipi avrebbero potuto fargli molto male.” affermò, gentilmente, accennando perfino un lieve sorriso.
Wakatoshi si limitò a sbattere le palpebre, “Noi non siamo amici ed io non l’ho salvato. Mi sono semplicemente girato.” disse, del tutto atonale.
La giovane lo fissò vagamente stranita, inclinando la testa verso la spalla, come se la stretta logica di quelle parole la lasciasse comunque perplessa. “Ad ogni modo…” continuò, incerta “mi chiedevo se potesse seguirci in ospedale.”
“Perché?” fu la domanda fulminea dell’asso “Non sono un suo familiare e ho già detto tutto quello che sapevo all’agente e agli altri paramedici.”
“Sì, sì, certo! Ed è stato davvero molto gentile!”
“C’è altro che devo fare?”
“No, tendenzialmente no… il fatto è che…” la giovane donna abbassò il capo, dondolò il peso da un piede all’altro con una certa agitazione, poi si arrischiò a lanciare a Wakatoshi un’occhiata furtiva da sotto le ciglia chiarissime “Il fatto è che Hinata è ancora molto spaventato, signor Ushijima, anche se cerca di non darlo a vedere.” spiegò, sospirando “Non riusciamo a contattare i suoi genitori in alcun modo e non avendo più il cellulare, ha perso tutti i contatti. È da solo, e credo che non gli piacciano molto nemmeno gli ospedali. So che non siete amici, ma a quanto pare vi conoscete e… beh, io… io credo che lo tranquillizzerebbe avere accanto un volto a lui… famigliare…”
Il respiro di Wakatoshi si arrestò, mentre il suo cervello incanalava una ad una le parole del paramedico.
Si girò verso Hinata.
Per l’ennesima volta in quella serata, sentiva se stesso diviso da istinti contrastanti, emozioni violente ma contrarie che lo tiravano da una parte e dall’altra, scombinando quell’equilibrio che aveva sempre fatto parte della sua persona.
Il lato di lui più razionale gli suggeriva semplicemente di andarsene, di declinare educatamente la richiesta del paramedico e mettere più distanza possibile tra sé e quel ragazzino turbolento con gli occhi troppo grandi, capace di dargli sui nervi come nessuna cosa al mondo, eppure, c’era qualcosa -un istinto sottilissimo come un prurito- che gli impediva di muoversi, di distogliere lo sguardo, di far finta di niente.
Di tornare sulla sua strada.
“Va bene.” pronunciarono le sue labbra, prima ancora che la sua testa avesse davvero generato una decisione. “Vengo anche io in ospedale.”
 
 
 





 
NOTE AUTORE
  • ATTENZIONE! La storia non segue la linea temporale dell’opera originale! Lo scontro fra il Karasuno e la Shiratorizawa è stato disputato nel mese di giugno/luglio, dunque gli eventi del prologo si svolgono all’inizio delle vacanze estive. Il campo della Shiratorizawa in cui Hinata si autoinvita e viene relegato al ruolo di raccattapalle ha una durata di quattro settimane.
  • Wakatoshi definisce Hinata piccolo, ragazzino etc. perché è così che lui lo vede, sia a livello caratteriale che a causa della loro differente stazza fisica (ricordiamo che fra loro ci sono quasi 30 cm in altezza e soprattutto 33 kg di muscoli di differenza!). Come ben sapete, i due sono quasi coetanei, hanno poco più di un anno e mezzo di differenza.
  • Per la trascrizione del nome di Hinata, è stata scelta la versione Shoyo (e non Shōyō o Shouyou) per questione di semplicità.
 
ODDIO RAGAZZI! CI SIAMO, NON CI CREDO!
Scusate lo sclero, ma era da un po' che avevo in ballo questo progetto e vederlo finalmente pubblicato mi riempie di adrenalina! Mi rendo conto che la USHIHINA non è una coppia particolarmente seguita nel fandom di Haikyuu, eppure io me ne sono innamorata non appena ho visto la terza stagione e sono convinta che abbia un sacco di potenziale!
Il fatto è che, mi interessava molto studiare il personaggio di Ushijima Wakatoshi -di solito così serio e stoico- e trovo affascinante vederlo alle prese con Hinata Shoyo, la persona a lui più antitetica del pianeta!
 
Credo che Hinata scateni qualcosa nel suo animo, tiri fuori delle parti recondite, degli istinti che nemmeno Ushijima comprende a pieno e vorrei tanto essere in grado di analizzare e raccontare questa crescita!
Ci riuscirò? A voi l’ardua sentenza!
Sappiate che focalizzarsi sull’introspezione di Ushijima non è affatto facile ^^’’ mi sto facendo mille pare mentali! Spero di non andare troppo OOC con lui e mantenermi quanto più in linea possibile col canone, ma mi sto addentrando in luoghi oscuri e inesplorati, quindi diciamocelo apertamente, questo rischio c’è! U.u
 
Okay, adesso la smetto davvero!
A presto!
 
Violet Sparks
 

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Capitolo 2
*** La notte più strana della sua vita ***


CAPITOLO I
 
La notte più strana della sua vita
 
 
Dicono che un fulmine non cada mai due volte nello stesso punto, ma è una leggenda.
Non capita spesso, il fulmine di solito fa centro la prima volta.
Quando ti colpisce una scarica elettrica di 30.000 ampere, la senti.
Può farti dimenticare chi sei, può ustionarti, accecarti,
fermarti il cuore e causare gravissime lesioni interne.
Accade tutto in un millesimo di secondo,
eppure può cambiare la tua vita per sempre.
- Grey's Anatomy
 
 
  
  
L’ospedale dove Hinata venne portato era una struttura di periferia non troppo grande, ma con al suo interno tutti i reparti necessari per gestire un’urgenza.
Odorava di plastica e disinfettanti. La luce bianca dei neon, appesi al soffitto, rimbalzava sulle pareti verde pastello e sui pavimenti perfettamente lucidanti, mostrando ogni singola increspatura dei muri, ogni singolo dettaglio delle piastrelle in formica.
A quell’ora della notte, c’era un silenzio quasi irreale, turbato soltanto dal rumore metallico dei carrelli e delle barelle che di tanto in tanto venivano trasportati attraverso il dedalo di corridoi al pian terreno o dal bip regolare di qualche macchinario di controllo, lasciato in funzione nelle stanze adiacenti.
Wakatoshi ne teneva il conto mentalmente, mentre con le unghie grattava sulle proprie gambe, piegate in modo alquanto innaturale a causa delle dimensioni fin troppo ridotte della sediolina su cui le infermiere lo avevano fatto accomodare, una volta arrivati in reparto.
Guardò l’orologio vicino alla porta: ormai era mezzanotte passata.
“Va bene Hinata, i tuoi esami non hanno evidenziato fratture di sorta o altri problemi! Certo, ti servirà qualche giorno per ristabilirti del tutto, però, nel complesso, direi che le tue condizioni sono abbastanza buone!” affermò il medico, con tono decisamente affabile.
Era un uomo sulla cinquantina coi capelli brizzolati tirati all’indietro, basso e tarchiato, il viso rotondo, dai tratti evidentemente poco orientali. Il suo sorriso bonario era rimasto fisso e invariato dal momento in cui aveva messo piede nella stanza del pronto soccorso e i suoi occhi - di un celeste chiarissimo- si erano posati su Hinata Shoyo per la prima volta.
Wakatoshi stava cominciando a notare che le persone tendevano ad avere sempre quell’espressione dolce e accondiscendente in presenza del ragazzino: non capiva assolutamente perché.
“Hai riportato una contusione al naso che potrebbe darti qualche fastidio, ho preferito medicarla per scongiurare il rischio di peggioramenti e fermare il sangue.” continuò a spiegare tranquillo, armeggiando, nel frattempo, con alcuni attrezzi che Wakatoshi non riusciva a distinguere dalla posizione in cui si trovava “L’unico problema è che hai un brutto taglio sul labbro inferiore e dovrò metterti quattro punti di sutura. Cercherò di essere il più delicato possibile, te lo prometto, e ti farò anche una anestesia locale, ma temo che brucerà almeno un pochino, mi dispiace!”
A quelle parole, il corpo di Hinata trasalì così forte da far traballare la brandina e i suoi occhi d’ambra si spostarono su Wakatoshi in un moto di puro e autentico terrore.
L’asso si limitò a sbattere le palpebre a disagio e a distogliere lo sguardo, puntandolo sui suoi stessi piedi.
Si sentiva inquieto, disorientato.
Da quando erano arrivati in ospedale, Hinata non aveva fatto altro che questo: osservarlo da lontano, in un misto di curiosità e timore, studiandolo attentamente neanche fosse un animale da vivisezionare, un puzzle da risolvere, tentando di non farsi cogliere in fragrante.
Sforzi inutili, anzi ridicoli.
Wakatoshi nutriva il forte sospetto che quel mocciosetto non avrebbe saputo essere discreto nemmeno se ne fosse valso della sua stessa vita.
Somigliava ad una sottospecie di carica elettrostatica vivente, una pallina di luce grezza che vibrava e pulsava, sempre sul punto di voler esplodere, sempre sul punto di bruciare il mondo intorno a sé.
Mentre aspettavano i risultati degli esami e l’arrivo del dottore, anche Wakatoshi aveva provato ad analizzarlo – solo con la coda dell’occhio però! In maniera educata e tranquilla, perché lui era un adulto dotato di autocontrollo, a differenza sua!- ma era durato soltanto pochi secondi, talmente irritato da quel suo ondeggiare e scuotersi e mangiucchiarsi le unghie e dondolare le gambe che, alla fine, aveva dovuto concentrarsi su qualunque altra cosa per evitare di alzarsi e lasciare la stanza.
Perfino in quel momento, nonostante il suo sguardo fosse puntato caparbiamente altrove, a Wakatoshi pareva di sentire il peso di quelle iridi nocciola, assurdamente espressive, dritte sulla sua pelle, quasi fossero delle mani pesanti e calde.
Cosa voleva quel ragazzino da lui? Cosa cercava? Cosa pretendeva?
Non ricordava più il motivo che lo avesse spinto ad andare in ospedale con lui.
“Ehi, ragazzo!” proruppe all’improvviso la voce del medico, cogliendolo di sorpresa “Ti chiami Ushijima, Ushijima Wakatoshi, dico bene?”
Wakatoshi sollevò il capo con aria interrogativa.
“Sì.” rispose soltanto, educato, alzandosi e facendo un inchino nella direzione dell’uomo.
“Mi pare di aver sentito parlare di te alla televisione! Sei un campione della pallavolo, dico bene? Mio nipote è un grande appassionato e non perde una partita del tuo liceo!”
“La ringrazio.”
“Perché non vieni qui a darci una mano? Ci farebbe comodo la tua forza! Shoyo trema così tanto che ho paura di fargli la puntura sulla pancia piuttosto che sul viso!” e rise della sua stessa battuta.
Wakatoshi rimase un attimo interdetto, le spalle rigide come fosse stato appena buttato sotto un getto d’acqua gelida.
Non voleva toccare Hinata.
Non voleva avvicinarsi a lui.
D’altronde però, non sapeva davvero cosa dire per declinare quella richiesta di aiuto senza risultare rude o maleducato, per cui si limitò ad annuire con il capo e mosse qualche passo incerto verso la brandina.
Il dottore aveva puntato una forte luce bianca dritta sul corpo di Hinata, la quale rendeva la sua pelle chiara talmente pallida da risultare trasparente, mentre l’arancio dei suoi capelli, sparati in tutte le direzioni sulla federa del cuscino, simile ad una specie di aureola infuocata. La tunica celeste che gli avevano fatto indossare le infermiere, al posto dei vestiti sporchi, gli lasciava scoperte le braccia e le gambe, macchiate qua e là da lividi rosso scuro; Wakatoshi notò che entrambi gli arti apparivano scattanti e tonici per gli allenamenti, eppure erano così sottili che probabilmente sarebbe stato in grado di spezzarli con una minima pressione come vecchi rami di un albero.
Non appena gli fu vicino, il ragazzino infilò gli occhi nei suoi.
Wakatoshi mantenne lo sguardo finché riuscì, poi tornò a rivolgersi al dottore.
“Cosa devo fare?” chiese dunque, con malcelata tensione.
“Oh niente di particolare, caro!” esclamò l’uomo, porgendogli un sorriso esuberante “Mantieni fermo Shoyo quanto puoi! Ecco, posiziona le mani qui, sulle sue braccia e tienilo contro il lettino.”
Wakatoshi strinse i pugni, imprimendosi la forma delle unghie nei palmi delle mani.
Odiava il contatto fisico.
Non era mai stato avvezzo ad abbracci, strette, carezze o semplici pacche sulle spalle. Non ne aveva mai sentito il bisogno, non li aveva mai desiderati, anzi: li aveva sempre rifugiati con ferma educazione anche quando a cercarli erano i suoi compagni di squadra nell’euforia di una vittoria oppure i coach, i manager, le ragazze che di solito gli venivano dietro e che lui non sapeva assolutamente come allontanare.
Già nel vicolo, aveva dovuto toccare Hinata Shoyo molto più di quanto avrebbe desiderato, ed ecco che adesso gli veniva imposto un ulteriore sforzo di nervi, l’ennesima forma di imbarazzante intimità da condividere proprio con quel mocciosetto che gli dava sui nervi come poche cose al mondo.
Chiuse le palpebre per un attimo.
Aveva bisogno di calmarsi, di recuperare il controllo di sé.
“C’è qualche problema, ragazzo?” chiese il medico, perplesso.
Wakatoshi rimase perfettamente immobile per una manciata di secondi. Rilassò le spalle, sciolse i muscoli, regolarizzò la velocità del respiro e del suo battito cardiaco. Poi, senza aggiungere altro, pose le mani sulle braccia di Hinata, appena sopra i gomiti e le fissò con fermezza contro la morbidezza del lettino.
“Ah! Perfetto! Cominciamo allora!” affermò il dottore, felice che Wakatoshi avesse accettato di aiutare, quindi avvicinò la siringa dell’anestesia al viso di Hinata.
Gli occhi del piccolo corvo saettarono da Wakatoshi all’uomo in maniera febbrile, sbarrati dalla paura, ma quando l’aghetto penetrò nella porzione di pelle sotto il labbro inferiore, vicino alla ferita gonfia e rossa di sangue rappreso, li serrò fortissimo, emise un sonoro piagnucolio e irrigidì tutto il corpo.
Wakatoshi dovette utilizzare una certa energia per mantenerlo stabile.
All’improvviso avvertì gli avambracci di Hinata scattare verso l’alto e le sue dita bollenti aggrapparsi strette ai suoi bicipiti in un guizzo di genuino terrore; il primo istinto di Wakatoshi fu quello di scansarsi, di divincolarsi da quelle unghie sgradite che gli stropicciavano la felpa, ben consapevole però che ciò avrebbe causato problemi alla delicata operazione del dottore, serrò la mandibola e restò in posizione.  
“Resistete, da bravi! Abbiamo quasi finito…” mormorò intanto il medico, mentre spingeva fino in fondo lo stantuffo. Poco dopo, sfilò via la siringa, gettandola nel cestino accanto a sé e premette un pezzettino di ovatta sulla bocca di Hinata. “Ecco qua! Tra poco non sentirai più niente e potremmo mettere i punti!”
A quel punto, Wakatoshi si affrettò a lasciare la presa.
Abbassò appena gli occhi sul lettino.
Il ragazzino tremava.
Senza alcuna ragione, gli venne in mente un episodio della sua infanzia, un ricordo lontanissimo che nemmeno sapeva di serbare dentro e che invece lo sorprese per la nitidezza con cui gli si delineò nella testa.
Doveva avere sette o forse otto anni.
L’inverno era stato gelido quell’anno e la neve continuava a fioccare ammantando le case, le strade, i lampioni, rendendo la città simile a una immensa distesa di cotone bianco.
Sua nonna gli aveva impedito categoricamente di uscire fuori in giardino; saltare gli allenamenti per un raffreddore era fuori discussione, avrebbe compromesso sicuramente le sue performance atletiche e intralciato il suo rendimento scolastico.
Per cosa poi? Per uno stupido fenomeno atmosferico?
Gli Ushijima non si perdevano in sciocchezze del genere.
Eppure, Wakatoshi desiderava così tanto poter affondare le mani in quell’invitante candore che, alla fine, aveva deciso di uscire di nascosto. Solo per un attimo, il tempo di sentire sotto i propri palmi il gelo bruciante della neve fresca e poi tornare in casa al caldo, ad occuparsi delle sue mansioni.
Si era coperto bene, aveva aperto la finestra della cucina -dove i suoi nonni entravano di rado- ed era uscito nel giardino laterale.
La neve aveva ricoperto tutto, non c’era foglia o ramo che fossero stati risparmiati dal suo velo bianchissimo, a tratti quasi iridescente. L’aria era silenziosa e quieta, e i fiocchi cadevano lenti impigliandosi tra le ciocche della sua frangetta che fuoriuscivano da sotto al berretto, solleticandogli le guance.
Wakatoshi ricordava di essersi accovacciato a terra e di essersi tolto i guanti, pronto a immergere le manine nel cumolo di brina fredda sedimentatasi vicino al cespuglio delle camelie di suo nonno… tuttavia, era stato proprio in quell’istante che aveva sentito un rumore sommesso provenire dal lato della scalinata.
Si era avvicinato cautamente, curioso e intimorito, poi lo aveva scorto in mezzo alla neve: un uccellino con la zampetta storta si agitava come un forsennato, gemendo tutto il proprio dolore.
Wakatoshi lo aveva raccolto tra le mani.
La bestiolina era tiepida e morbida tra le sue dita. Sembrava così fragile da fargli temere di poterla uccidere se solo avesse deciso di stringere un po' di più la presa e vibrava fortissimo, contorcendosi nel suo pugno per la paura.
Così appariva Hinata Shoyo in quel momento.
Un essere spaventato, minuscolo.
Debole.
“D’accordo, dimmi se senti qualcosa…” esordì il medico rivolto a Hinata, facendo trasalire Wakatoshi, prima di piegarsi su di lui e punzecchiargli la parte del viso su cui aveva appena fatto l’anestesia.
Il ragazzino negò lievemente con il capo.
A quel punto, l’uomo si esibì in una sonora, quanto improbabile esultazione e “Bene, allora! Cominciamo! Giuro che sarò rapidissimo! Sarete fuori da qui in men che non si dica!” esclamò, dopodiché afferrò tutti gli attrezzi per le suture e cominciò a lavorare sulla bocca di Hinata.
Wakatoshi rimase immobile vicino al lettino, rapito dall’operazione di cucitura, le mani piantate a un millimetro dal braccio del piccolo corvo.
Si accorse della cosa solo quando il medico ebbe tagliato l’ultima porzione di filo.
 

Uscirono dal pronto soccorso all’una e nove minuti esatti.
Firmare le carte di dimissione era stato lungo e tedioso, nonostante la gentilezza delle infermiere di reparto, inoltre l’agente di polizia che li aveva accompagnati, aveva insistito ancora una volta per ritracciare i genitori di Hinata con scarsi risultati: a quanto pareva, sua madre e la sorella minore erano fuori città per far visita ai nonni, per il resto non possedeva altri parenti da chiamare. 
Appena le porte scorrevoli si erano aperte, l’aria fresca della notte era giunta leggera come una carezza rispetto al clima asciutto e asettico all’interno dell’ospedale.
L’estate ormai era esplosa. La mattina, i raggi solari bollenti mettevano a dura prova la resistenza dell’intera popolazione giapponese, ma la sera, almeno, le temperature calavano di qualche grado – complice la posizione privilegiata della prefettura di Miyagi- donando un po' di refrigerio alla città e ai suoi poveri abitanti.
Wakatoshi tirò su la cerniera della felpa fino al collo, poi si arrischiò a guardare alla sua destra.
Hinata camminava al suo fianco, tuttavia era difficile dire che espressione avesse sul volto, considerato che tutto ciò che Wakatoshi riusciva a scorgere, dall’alto della propria statura, erano le ciocche scomposte dei suoi capelli arancioni.
Era in difficoltà.
Da quando erano saliti in ambulanza, lui e il ragazzino non si erano più rivolti la parola, era vero, ma erano sempre stati attorniati da altra gente, in particolare dal personale medico sanitario dell’ospedale, per cui la cosa era risultata normale.
Adesso che erano rimasti soli però, senza nemmeno l’urgenza e le preoccupazioni avute nel vicolo per l’aggressione, quel silenzio stava cominciando a far sentire tutto il suo peso, diventando alquanto imbarazzante.
Cosa avrebbe dovuto fare?
Le infermiere e l’agente avevano insistito per fargli passare la notte lì in reparto, ma Hinata si era opposto con ogni fibra del suo corpo, arrivando perfino a pregare a mani congiunte, finché il dottore non gli aveva concesso di andare via, prendendosi tutta la responsabilità della decisione.
E Wakatoshi?
Il suo dovere era compiuto ormai, no? Non c’era motivo per cui dovesse restare oltre. Aveva soccorso il ragazzino ferito, lo aveva accudito e accompagnato in ospedale, aveva perfino aiutato nella sua medicazione. Per quanto lo avesse infastidito stare così a stretto contatto con Hinata Shoyo, sapeva di essersi comportato in maniera adulta e responsabile, e adesso il corvetto stava bene, era tutto a posto, le loro strade potevano nuovamente dividersi.
Sì, era tutto finito.
“Hinata Shoyo…” disse quindi Wakatoshi, e la sua voce baritonale, scura, parve rimbombare nell’aria. La strada era deserta, se non per qualche macchina che sfrecciava sulla corsia opposta e due dottoresse in camice che fumavano accanto a una scaletta antiincendio.
Sentendosi chiamare, il ragazzino sussultò e alzò il capo verso di lui. 
I suoi occhi erano giganti. Wakatoshi aveva pensato che fosse stato lo shock dell’aggressione a renderli così grandi, ma no, doveva essere una sua caratteristica.
Era la prima volta che lo notava.
“Le tue condizioni di salute sono stabili, non hai più bisogno di me, per cui adesso tornerò a casa mia.” disse il giovane asso, in modo molto pragmatico.
Eppure, Hinata lo osservò dubbioso per qualche secondo, sbattendo piano le ciglia.
“Parli sempre così?” gli chiese, con una voce pastosa e incerta a causa dei punti di sutura.
“Così come?”
“Non so spiegarlo… è come se stessi recitando un telegramma!”
“Non capisco di cosa tu stia parlando. Non sono una macchina, sono una persona.” fu la risposta secca di Wakatoshi “Comunque io devo tornare a casa, faresti meglio a tornarci anche tu, è tardi.”
“Sì… certo, io… io aspetterò un autobus che mi porti alla stazione.”
“Perché la stazione? Dove devi andare?”
“Su- sulle colline di Kento. È lì che abito.”
Wakatoshi strabuzzò gli occhi e schiuse le labbra.
Il Kento era una località di periferia, parecchio lontana da dove si trovavano in quel momento e, più in generale, anche dalla Accademia Shiratorizawa. Solo in macchina erano due ore di viaggio, con i mezzi pubblici non osava immaginare quante corse e quanti cambi il ragazzino dovesse affrontare.
Era davvero basito.
Aveva sentito da Tendou che Hinata si era autoinvitato al famoso ritiro estivo della sua squadra, nonostante l’allenatore Washijo lo avesse scartato per via della sua altezza esigua, e che gli era stato concesso di restare come semplice raccattapalle, solo sotto sua fastidiosa insistenza.
Wakatoshi aveva trovato la situazione già di per sé estremamente umiliante per un giocatore come Hinata – che, nel suo liceo, era uno schiacciatore laterale titolare, in procinto di partecipare alle nazionali- ma adesso che sapeva che per arrivare ogni giorno alla Shiratorizawa, egli compiva un viaggio così lungo e faticoso, non poteva che pensare che fosse assurdo.
Niente di ciò che faceva quel moccioso sembrava seguire la razionalità.
“Quanti mezzi devi prendere per tornare a casa dalla Accademia Shiratorizawa?” chiese dunque, curioso.
“Mmh, vediamo…” rifletté Hinata “Di solito prendo l’autobus fino alla stazione, poi servono un’ora di treno e mezz’ora di bici.”
“Il prossimo treno è fra cinque ore e la bicicletta ti è stata rubata.”
Davanti a quella ovvia costatazione, il corvetto spalancò le palpebre con aria demoralizzata, incrociò le braccia al petto e si strinse nelle spalle. “Ah, è vero…” mormorò pianissimo “Non importa, aspetterò qui o alla stazione.” sollevò di nuovo il capo e piantò le proprie iridi dritte in quelle di Wakatoshi in un modo così schietto e aperto che l’altro sentì lo stomaco contorcersi in uno spasmo “Ma tu non ti preoccupare, hai già fatto anche troppo per me, Ushiwaka. Ti ringrazio, senza di te non so cosa avrei fatto.” disse, tirando fuori ogni singola a parola a fatica dalle labbra martoriate, dopodiché fece un profondo inchino nella sua direzione, arrivando quasi con la testa sulle sue ginocchia.
“Ho fatto ciò che era necessario.” rispose Wakatoshi, più incerto di quanto avrebbe desiderato.
“Ci vediamo in palestra, Japan.”
Piegò anche lui il busto in segno di saluto e si congedò dal ragazzino.

 
Era semplice, alla fine.
Doveva solo camminare verso casa, muovere le gambe in sincrono, compiere un passo dopo l’altro.
Il suo quartiere era a pochi isolati.
In dieci minuti e poco più, Wakatoshi sarebbe giunto innanzi alla porta, avrebbe varcato la soglia e accantonato quella serata assolutamente paradossale in un angolo remoto della propria testa, un affranto lontanissimo che non avrebbe mai e poi mai corso il rischio di rispolverare.
Sarebbe tornato alla sua vita di sempre, quella a cui era affezionato, quella che conosceva.
Allora perché, una volta svoltato l’angolo, i suoi piedi si erano piantati sul marciapiede e sembravano non avere alcuna intenzione di collaborare?
Buttò fuori l’aria in un sonoro sbuffo.
Forse l’irrazionalità era contagiosa.

 
“Japan?”
Lo sguardo che gli rivolse Hinata, quando lo vide di nuovo piantato di fronte a lui, era un miscuglio confuso di talmente tanti sentimenti che Wakatoshi se ne sentì sopraffatto.
Lo aveva trovato seduto sulla panchina sotto la fermata dell’autobus, le gambe strette al petto, il mento appoggiato alle ginocchia. Sia le sue ciglia che le sue guance erano velate da una spessa patina trasparente: doveva aver pianto.
Proprio in quel momento, accanto a loro, si fermò un taxi.
“Ma che…” disse Hinata, passandosi in fretta e furia le mani sul volto e quasi saltando su in piedi.
“Non posso lasciare una persona così fisicamente e psicologicamente provata per la strada, sarebbe poco prudente.” spiegò Wakatoshi, non sapeva se a stesso o all’altro “Per stanotte dormirai a casa mia. Domani mattina, dopo che sarai più riposato e il trasporto pubblico sarà di nuovo attivo, tornerai alla tua abitazione.”
Hinata rimase fermo a fissare Wakatoshi come se le sue funzioni celebrali si fossero interrotte.
“Io… io non so che dire… insomma… no… non è necessario… davvero, io…” borbottò, col viso divenuto di un rosso accesso in pendant con la sua chioma.
“Sì, invece è necessario. Qualora tu non voglia accettare, mi troverei costretto a restare qui seduto con te fino all’alba.” affermò Wakatoshi e, sebbene tenne quel pensiero per sé, sperò tanto che il ragazzino accettasse l’offerta, perché dormire su una panchina per tutta la notte era una circostanza che trovava particolarmente incresciosa.
Il giovane corvo rimase in silenzio, torturandosi le dita in maniera nervosa.
Guardò prima il taxi, poi di nuovo su in direzione di Wakatoshi.
Alla fine, scrollò forte le spalle e “Va-va bene, allora… grazie…” mormorò tra i denti.
L’asso della Shiratorizawa annuì.
Quella era ufficialmente la notte più strana della sua vita.
 
 
 



 
NOTE AUTORE
 
  • Per chi non lo sapesse o non lo ricordasse, Hinata chiama Ushijima “Japan” perché fa parte della nazionale under 19 giapponese. USHIWAKA, invece, è un soprannome usato spesso per Ushijima e non è altro che la crasi del suo nome e cognome: USHIjima WAKAtoshi
  • Diversamente dal canone, Ushijima non vive nei dormitori della Shiratorizawa. Questo punto verrà meglio approfondito nei prossimi capitoli.
  • Ricordo a tutti che Ushijima notoriamente è talmente rigido che non capisce i modi di dire e le metafore! Tutte le battute che vi sembrano un po’ strane quindi, sono volute 🤣
  •  
    Ed eccoci qui con il secondo capitolo!
    La scena si sposta in ospedale, ma i sentimenti di Wakatoshi nei confronti di Hinata non cambiano di una virgola. Continuano ad essere ostili, negativi. Odia doverlo toccare, odia sentire i suoi occhi addosso, non vede l’ora di prendere le distanze.
    Eppure… Eppure, Wakatoshi per l’ennesima volta non riesce ad abbandonare il nostro piccolo corvetto al suo destino, così si ritrova immischiato in una nuova seccatura.
     
    Ho riletto questo capitolo un centinaio di volte e ancora adesso mi lascia mille dubbi. Spero davvero di essere riuscita a descrivere al meglio l’introspezione di Ushijima, dato che è un personaggio fatto di forti contrasti e istinti che nemmeno lui riesce (ancora) bene ad interpretare.
    Maledetto gigante stitico di sentimenti XD però lo amiamo lo stesso, dai! Come avete intuito, la sua apparenza burbera inganna… solo che deve ancora imparare a gestire le proprie emozioni.
     
    Ho deciso di dare una cadenza bisettimanale agli aggiornamenti, quindi ci vediamo fra due settimane! :)
    A presto
     
    Violet Sparks
     
     
     

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    Capitolo 3
    *** Non è facile comunicare ***


    CAPITOLO III
     
    Non è facile comunicare
     
     
     
    Comunicare.
    È la prima cosa che impariamo davvero nella vita.
    La cosa buffa è che, più cresciamo,
    studiamo vocaboli nuovi e cominciamo a parlare,
    e più diventa difficile sapere che cosa dire.
    O peggio, ottenere quello che vogliamo davvero
    - Grey’s Anatomy

     
     
     
    Quando il taxi si fermò dinanzi al cancello della sua proprietà, Wakatoshi ci mise qualche secondo a svegliare Hinata: il ragazzino si era addormentato non appena l’auto era partita, accasciandosi, esausto, con la testa pigiata contro il finestrino e le braccia incrociate.
    Respirava piano, regolarmente, la bocca gonfia semi dischiusa sotto la fasciatura bianca sul naso e il petto sottile che si alzava e abbassava lento, come a spingere fuori fisicamente ogni singolo ansito.
    Durante il tragitto, Wakatoshi si era soffermato a osservarlo per circa un secondo, senza alcuna ragione apparente.
    Rendersene conto lo aveva messo piuttosto a disagio.
    “Hinata Shoyo!” tuonò infine, dopo un paio di tentativi andati a vuoto. La sua voce risuonò nell’abitacolo dell’autovettura facendo sobbalzare sia il conducente che – finalmente!-  il piccolo corvo, il quale aprì gli occhi impastati a fatica e prese a guardarsi intorno in maniera confusa.
    “Cosa… dove… ah!” farfugliò, prima che una fitta al labbro lo facesse sibilare dal dolore.
    Di istinto si portò una mano alla bocca, ma prima che potesse arrivare a toccarsi, Wakatoshi lo fermò afferrandogli il polso. “Siamo arrivati.” affermò, fissando il piccolo corvo dritto negli occhi “Per favore, non parlare e non toccare la medicazione. Il dottore si è raccomandato di non compiere azioni avventate che potrebbero far saltare i punti di sutura.” Vedendolo arretrare verso la portiera, si accorse di essergli andato fin troppo vicino e, soprattutto, di aver usato un tono eccessivamente intimidatorio, quindi arretrò nella direzione opposta e lasciò la presa sul suo braccio.
    “Andiamo adesso.” aggiunse, dopodiché pagò il taxista e scese dalla macchina.
    Hinata lo seguì in silenzio attraverso il vialetto, tenendosi a qualche passo di distanza.
    Camminava stretto nelle sue stesse braccia, osservando intorno a sé come un randagio che cercava di ambientarsi in un luogo sconosciuto. Aveva un aspetto così stanco e provato che Wakatoshi temeva di vederlo collassare a terra da un momento all’altro, invece riuscì a trascinarsi insieme al borsone da palestra fino alla porta di ingresso, che il proprietario aprì dopo alcune mandate.
    A quel punto, premette un paio di comandi sullo smartwatch che portava al polso e le luci dell’ingresso si accesero tutte contemporaneamente, rivelando l’ampio openspace che accoglieva soggiorno e cucina.   
    “Porca vacca!” sentì esclamare dietro di sé, al che si voltò verso il ragazzino, lanciandogli un’occhiata di traverso. Tutti avevano quella reazione di sconcerto quando entravano per la prima volta in casa sua – questo era vero- però non si aspettava che Hinata potesse uscirsene con certe esclamazioni.
    Comunque, il corvetto pareva non essersi nemmeno accorto della sua reazione.
    Tutta la spossatezza stampata sul suo volto fino a un secondo prima aveva lasciato il posto ad una espressione a dir poco estasiata. I suoi occhi d’ambra erano spalancati, brillavano come pietre preziose e si muovevano nell’ambiente in modo convulso, bevendo ogni singolo dettaglio dello spazio che gli si era delineato davanti, mentre le sue mani e le sue gambe fremevano visibilmente dalla voglia di lanciarsi alla scoperta.
    Senza neanche aspettare il permesso del proprietario di casa, all’improvviso si sfilò le scarpe e scese i tre scalini di ingresso per addentrarsi nel salotto e cominciare a gironzolare. Sospirava e gemeva ogni qualvolta si avvicinava ad un oggetto che attirava quel suo genuino stupore, che fosse l’immenso schermo sulla parete, il morbido divano bianco con la penisola o l’impianto stereo. In particolare, una volta giunto innanzi alle mensole dove erano stati sistemati tutti i riconoscimenti e i trofei sportivi che Wakatoshi aveva ricevuto nel corso della sua carriera sportiva, nonché le riviste sulla cui copertina era apparso o su cui gli era stato dedicato qualche articolo, il piccolo corvo si esibì in tutta una serie di gridolini esaltati, di pura e genuina ammirazione.
    Nelle profondità dello stomaco, Wakatoshi sentì la collera infiammargli le membra.
    Odiava tutto di Hinata Shoyo.
    Tutto.
    Odiava la sua immaturità.
    Odiava la sua mancanza di disciplina.
    Odiava quel suo mettersi così in mostra senza freno, senza barriere, senza controllo.
    Odiava quella sua illogica impulsività.
    Portarlo a casa era stata una pessima, pessima idea.
    “È davvero poco educato ficcanasare così in casa altrui, Hinata Shoyo.” affermò dunque, chiudendo la porta alle proprie spalle con un tonfo che riecheggiò nel silenzio, facendo sussultare il ragazzino.
    Il suo visetto si colorò di un rosso acceso molto simile all’arancione della sua chioma ribelle, piegò la bocca in una smorfia mortificata e si affrettò a inchinarsi verso di lui in segno di scuse. “M- mi dispiace, mi sono lasciato prendere dall’entusiasmo…” disse desolato, scandendo le parole lentamente a causa del dolore “È che hai una casa davvero incredibile.”
    “Grazie, ma non è casa mia.” fu la risposta secca di Wakatoshi.
    Hinata si raddrizzò con uno scatto e “In che senso, scusa?” chiese, alquanto perplesso.
    “Mi è stata data dai miei sponsor. È più vicina alla Shiratorizawa, ha una palestra, una sauna e un campo da pallavolo in giardino.” spiegò brevemente “Mi permette di condurre il mio stile di vita nel migliore dei modi.”
    “Tu… tu hai degli sponsor… ovvio…” borbottò quindi Hinata, senza riuscire a nascondere un certo luccichio negli occhi. Non era la prima volta che Wakatoshi glielo leggeva addosso: sembrava qualcosa di indefinito a metà tra l’invidia e la venerazione. Uno stato d’animo che, in realtà, egli scorgeva spesso nelle altre persone che gli ruotavano intorno e a cui ormai pensava di aver fatto l’abitudine, eppure, in faccia a Hinata Shoyo, lo infastidiva tantissimo, senza un vero perché.
    Strinse i pugni.
    Prima si concludeva quella serata, meglio era per tutti.
    “Credo sia necessario che tu faccia una doccia e ti cambi i vestiti.” proruppe, ragionando ad alta voce “Non è il caso che indossi ancora degli indumenti sporchi di sangue.”
    Hinata allora abbassò il capo e tirò la stoffa della propria felpa, analizzandola alla luce come se la vedesse per la prima volta. Non appena i suoi occhi incontrarono gli schizzi rossastri del suo stesso sangue, ben visibili sul tessuto bianco, le sue spalle vennero colte da un fremito e il suo viso si modellò in un’espressione piena di malinconia “Io… io non… ho solo la divisa da pallavolo…” mormorò  pianissimo.
    “Non fa niente, posso darti qualcosa di mio.”  
    “No! Ti prego, non c’è bisogno! Hai fatto abbastanza! La divisa è un po' sudata, ma posso metter-ahia!” gemette, prima di comprimere tutti i muscoli facciali nella solita maschera di dolore.
    Di nuovo, Wakatoshi provò il malsano e irrazionale impulso di procurare al ragazzino del male fisico.
    Era qualcosa di così estraneo a lui.
    Non aveva mai provato niente di simile per nessuno, in nessuna occasione.
    E lo faceva sentire profondamente a disagio con se stesso perché -insomma – tutto quell’astio non aveva motivo di esistere, soprattutto nei confronti di una persona debole e in difficoltà come era Hinata Shoyo in quel momento.
    Peccato però che Hinata Shoyo continuasse a dimostrarsi caotico, immaturo e irresponsabile, non facendo che istigare quella parte di lui.
    “Ti ho già detto di non parlare e di non agitarti.” affermò Wakatoshi, cercando di non dare troppo a vedere la fervida irritazione che stava provando.
    Probabilmente non dovette risultare molto convincente, dato che il piccolo corvo sospirò scrollando le spalle e, all’improvviso, gli rivolse uno sguardo mesto, eppure così intenso che all’altro parve di sentirselo rimbombare dentro come un fuoco d’artificio.
    “Non ti piaccio proprio, vero?” domandò Hinata, a bruciapelo.
    Wakatoshi rimase alquanto colpito da quell’inaspettata schiettezza, tuttavia strinse le labbra e “No, non mi piaci.” rispose con altrettanta sincerità, fissando il ragazzino dritto negli occhi.
    “Perché mi stai aiutando allora?”
    “Perché è la cosa giusta da fare.”
    “Ti sei pentito di esserti fermato a soccorrermi?”
    “Sì, onestamente sì.”
     

    - HINATA SHOYO -
     

    L’acqua tiepida della doccia scendeva sul suo corpo come una carezza, lavando via gli ultimi residui di schiuma nascosti tra i capelli, tra le pieghe morbide della sua pelle nuda.
    Hinata avrebbe tanto desiderato che anche i brutti pensieri che gli stavano affollando la testa potessero scivolare via con altrettanta facilità, risucchiati, insieme al sapone, attraverso il canale di scolo, ma a quanto pareva non era possibile e a lui non restava altro che affrontarli.
    Chiuse il getto d’acqua e si passò una mano tra le ciocche fradice, dopodiché uscì dalla porta a vetri, gocciolando sul morbido tappetino bianco. Si avvolse nell’accappatoio – piegato e inamidato, soffice come un abbraccio- che gli era stato lasciato sulla cassettiera accanto alla doccia ed emise un respiro profondo, colmo di angoscia.
    Il bagno era esattamente come il resto della casa di Ushijima Wakatoshi: sobrio, moderno, elegantissimo.
    Hinata era quasi intimidito da tutta quella perfezione. Guardava le superfici immacolate, le linee dure e precise dei mobili, la sobrietà armoniosa di tutti i colori, e non poteva fare a meno di sentirsi di troppo, un pesce fuor d’acqua capitato per caso nell’acquario più lussuoso mai concepito dall’essere umano.
    Gli sembrava di essere stato catapultato in uno di quegli appartamenti stratosferici delle star del cinema su cui, ogni tanto, la televisione locale realizzava qualche documentario.
    Aveva immaginato che, per frequentare una accademia privata costosa come la Shiratorizawa, Ushijima dovesse star bene economicamente, ma non aveva mai davvero riflettuto sul fatto che il giovane asso, essendo una promessa sportiva, avesse già cose come gli sponsor o tutti quei privilegi tipici degli atleti agonistici.
    A soli diciotto anni, Ushijima aveva riempito i propri scaffali di medaglie, trofei, riviste che inneggiavano al suo innato talento e - come se non bastasse- aveva alle proprie spalle delle persone che non si limitavano soltanto a sostenerlo, ma addirittura si prodigavano per permettergli di allenarsi sempre al meglio e mantenere il suo stile di vita.
    Non c’era niente da fare: Ushijima Wakatoshi era davvero la persona più figa del pianeta!  
    Aver giocato contro la sua squadra e aver addirittura vinto, era stato praticamente un privilegio, un evento che Shoyo ancora faticava a credere fosse reale. Ed era assolutamente sicuro che anche allenarsi insieme all’asso – o solo osservarlo da lontano, mezz’ora al giorno, due volte alla settimana!- avrebbe costituito un’opportunità imperdibile per imparare e crescere come giocatore.
    Peccato soltanto che il diretto interessato provasse tutta quella ostilità nei suoi confronti.
    Shoyo sospirò, si sfilò l’accappatoio di dosso e prese a frizionarsi la pelle umida con una delle asciugamani, sovrappensiero.
    Quando aveva riconosciuto Ushijima nel vicolo, aveva pensato di stare sognando.
    Era l’ultima persona che si sarebbe mai aspettato di vedere in quel momento, e ancora non riusciva a comprendere cosa mai potesse averlo spinto ad aiutarlo e a prendersi cura di lui con tutta quella premura, data l’antipatia che dimostrava di sentire per lui.
    “Perché è la cosa giusta da fare” era stata la sua risposta, pronunciata con quella sua voce cupa, baritonale, che sporcava anche le frasi più semplici di una sfumatura minacciosa.
    Ad ogni modo, che lo avesse fatto per pietà o per semplice senso del dovere, Shoyo gli era profondamente grato: senza Ushijima, con ogni probabilità sarebbe rimasto su quel marciapiede a piangere, talmente spaventato e sotto shock da non riuscire neanche a muoversi.
    Tastò con estrema cautela i punti in cui sentiva maggior dolore, le braccia, l’addome, la gamba sinistra, quindi risalì lungo il collo, verso il naso fasciato e gli zigomi.
    Aveva avuto così tanta paura…
    Mentre quei due energumeni lo pestavano, lui non aveva potuto fare altro che subire, che pregare che la smettessero o che qualcuno – chiunque!- arrivasse in suo soccorso.
    Si era sentito così inerme, indifeso, spaurito.
    Come sempre, il suo fisico gracile lo ostacolava, lo sminuiva, nonostante tutti i suoi sforzi di combattere per accorciare le distanze imposte da Madre Natura. Se fosse stato grande e forte come Ushijima Wakatoshi, nessuno avrebbe osato avvicinarsi a lui, sarebbero fuggiti al solo sguardo e qualora pure avessero voluto attaccar briga, lui avrebbe potuto tener loro testa senza problemi, lottando ad armi pari.
    All’improvviso i ricordi della notte appena trascorsa, dall’aggressione alla corsa in ospedale, sfrecciarono innanzi ai suoi occhi, facendolo rabbrividire.
    Si aggrappò al lavandino con entrambe le mani, cercando di regolarizzare il respiro.
    Anche il tempo trascorso in ospedale era stato un trauma per Shoyo.
    Nonostante la gentilezza di tutto il personale e la presenza silenziosa, ma ferma di Ushijima, non aveva fatto altro che tremare e cercare di tenere a bada immagini e sensazioni del passato che gli raggelavano il sangue, gli stringevano il cuore in una morsa di pura sofferenza.
    D’altronde, erano anni che non entrava in un luogo del genere.
    Dal giorno in cui gli era stata portata via una parte importante di sé.
    Hinata scosse energicamente la testa quasi a voler scrollare via dalle orecchie quei pensieri opprimenti. Afferrò i vestiti puliti che gli erano stati lasciati da Ushijima - un pantaloncino corto e una maglietta, entrambi neri, semplici, stirati e profumati-  li indossò e lanciò un’occhiata alla sua figura riflessa nello specchio attaccato alla parete. Con suo sommo sollievo, si rese conto che i vestiti del giovane asso non gli stavano tanto larghi come aveva temuto, se non per la maglietta che gli lasciava un po' scoperte le clavicole, allora si sforzò di modellare un piccolo sorriso, riordinò velocemente tutto ciò che aveva lasciato in giro per la stanza e decise che era arrivato il momento di avventurarsi di nuovo nel mondo esterno.
    Aprì la porta con cautela.
    La casa era immersa nel silenzio e di Ushijima non sembrava esserci neanche l’ombra.
    Maledizione! Non voleva gironzolare da solo! O meglio, lo voleva più di ogni altra cosa, ma non ci teneva ad essere sgridato una seconda volta dal padrone di casa!
    La prima bastava e avanzava!
    Si incamminò lungo il corridoio, in direzione di quella che ricordava fosse la cucina. Non trovò nessuno nemmeno lì, ma prima di continuare la sua ricerca, non poté impedirsi di prendersi qualche secondo per ammirare la bellezza irreale anche di quella parte della casa, che sembrava uscita da un libro di design.
    Passò una mano sulla superficie della penisola in marmo, lucida e rifinita alla perfezione, su cui troneggiavano quattro fornelli a induzione, una macchina del caffè e un set di coltelli da chef professionista.
    Hinata sollevò appena un angolo della bocca dolorante al pensiero del grande e cattivo Ushijima Wakatoshi intento a svolgere un’azione così semplice, quotidiana, come prepararsi la cena.
    Chissà se sapeva cucinare.
    Ma no, forse aveva uno chef personale, un maggiordomo come Batman o…
    “Stai di nuovo ficcanasando in casa mia, Hinata Shoyo.” proruppe all’improvviso una voce dietro di lui, scura quanto il rombo di un motore.
    Hinata sentì il cuore compiere un triplo carpiato e saltargli in gola. Si portò le mani al petto, avvertendo il muscolo correre impazzito dentro alla sua cassa toracica, dopodiché compì una giravolta su se stesso, pronto a dirne quattro all’idiota che gli aveva appena fatto rasentare l’infarto.
    Peccato che i suoi piani bellicosi andarono completamente in frantumi non appena si ritrovò il petto nudo e scultoreo di Ushijima a qualche centimetro dal naso.
    Dovette alzare il capo come un bambino di fronte a un genitore per incontrare il suo sguardo torvo, ombreggiato da una cascata di capelli umidi, appiccicati alla fronte.
    Gemette e indietreggiò di colpo, trovando serie difficoltà a deglutire la saliva.
    Di punto in bianco, la sua gola era diventata secca quanto il deserto del Sarah, il suo stomaco si era chiuso in un nodo e il suo cervello sembrava essersi inceppato su un'unica e sola immagine che era Ushijima Wakatoshi in piedi di fronte a lui, appena uscito dalla doccia e con addosso soltanto un pantalone della tuta grigio scuro, stretto alle caviglie.  
    Era… era sorprendente.
    Non esisteva un altro termine per definirlo.
    Molti dei suoi compagni di squadra - Daichi e Asahi in primis, ma anche Tanaka, Nishinoya e sì, perfino quello scemo di Kageyama- avevano un fisico delineato e tonico, così come Bokuto o Kuroo che aveva avuto modo di scrutare durante il ritiro a Tokyo con la Nekoma e il Fukurodani, ma Ushijima era completamente diverso, sembrava disegnato nel marmo da un artigiano esperto, un artista che aveva tracciato ogni linea con precisione millimetrica.
    Non c’era un solo muscolo del suo corpo che non apparisse vivo, scattante, duro. I suoi addominali erano scolpiti nell’addome stretto, le sue spalle erano enormi e le sue braccia massicce, increspate da piccole venature che correvano dalle nocche fino agli avambracci.
    Emanava un’aura di potenza e austerità impossibile da ignorare.
    Sembrava circondato da un alone magico che incuteva tanto timore quanta spontanea venerazione, simile agli dèi dell’antica Grecia che si vedevano sui libri di storia.
    E dentro di sé, Shoyo sapeva di star facendo la figura dello stupido e del maleducato a fissare il ragazzo in quella maniera spudorata, ma non riusciva proprio a farne meno, mentre le sue budella si contorcevano in una tempesta di sensazioni che non avrebbe mai saputo definire con esattezza. 
    D’altronde, Ushijima non migliorava certo la situazione, puntandogli addosso quello sguardo feroce, neanche fosse sul punto di sbranarlo.
    Che l’asso della Shiratorizawa, in realtà, fosse un assassino cannibale che ammazzava e mangiava la carne delle sue vittime come Hannibal Lecter?
    Shoyo non sapeva niente di lui e della sua vita privata. 
    Le possibilità c’erano ed erano concrete.
    “Io… t-ti stavo cercando, in verità.” mormorò dunque, grattandosi nervosamente la testa.
    “Ero sotto la doccia.” sentenziò l’altro. Aveva una maniera davvero singolare di parlare: sembrava centellinare ogni singola parola per non sprecare nemmeno un alito in più del necessario ed era sempre diretto, come una freccia scoccata da un arco “Ti senti meglio?”
    Shoyo rimase sorpreso dalla domanda… cortese?
    Beh, sì, era stata decisamente cortese.
    Si sentì in colpa ad aver pensato che Ushijima potesse essere uno spietato serial killer.
    “Sì, grazie.” rispose quindi, con un filo di voce. “E grazie anche per i vestiti! Mi stanno bene! Pensavo sarebbero stati giganteschi!”
    “I miei sarebbero stati giganteschi su di te, infatti. Questi sono vecchi, di quando avevo circa dodici anni.”
    Hinata sollevò gli occhi al cielo: non sapeva se prendere la frase come un insulto o meno, di sicuro però si era sentito pungolare nell’orgoglio.
    “Comunque è molto tardi, è meglio che andiamo a dormire.”  
    “Certo, v-va bene.”
    “Seguimi.”
    A quel punto, il padrone di casa gli voltò le spalle incamminandosi verso il corridoio e Shoyo lo seguì, ubbidiente, senza aggiungere un’altra parola.
    Complice l’ora tarda della notte, la quiete regnava incontrastata. Non c’era altro suono che quello morbido dei loro piedi scalzi che si inseguivano sul parquet lucido del pavimento e il frinire delle cicale fuori, in giardino, che cantavano un sottofondo monotono e costante.
    I muscoli della schiena di Ushijima che si flettevano e si rilassavano ad ogni passo erano una danza ipnotica e suadente. Di nuovo, Hinata si ritrovò del tutto ammaliato da quella vista, avvertendo un fuoco al centro esatto dello stomaco che gli scaldava le budella.
    Avrebbe pagato per essere Ushijima Wakatoshi o anche soltanto per poterlo toccare…
    No, un attimo, che pensiero idiota era quello?
    Le botte ricevute in testa stavano cominciando a farlo delirare.  
    “I-i tuoi genitori non ci sono?” chiese all’improvviso Hinata, più per riempire il silenzio e distrarsi da quei pensieri assurdi che per reale curiosità.
    Ushijima emise una specie di sbuffo.
    “Stai continuando a parlare e non dovresti, te l’ho già detto.” sentenziò, burbero.
    Shoyo pensò che la discussione si fosse chiusa lì, invece “No, comunque. I miei genitori non vivono qui.” aggiunse l’asso, senza alcuna inflessione nella voce.
    “Sono all’estero?”
    “Mio padre è all’estero. Mia madre e i miei nonni materni vivono ad Aoba-ju.”
    “Ma… in che senso, scusa? È solo a qualche isolato da qui! Perché non vivete tutti insieme?”
    “Io devo concentrarmi sugli allenamenti e sugli studi, la loro presenza non è indispensabile per nessuna delle due cose. Vivere qui è la scelta migliore per me.”
    “E non ti senti mai solo?”
    Ushijima si fermò di punto in bianco, tanto che Hinata, che non se lo aspettava, quasi non gli andò a sbattere contro. A quel punto, girò il capo verso di lui e gli mise addosso uno sguardo stranito, a tratti quasi… buffo.
    “No, non mi sento solo.” disse, ma c’era una inclinazione insolita nel suo tono, che Hinata non seppe in che modo interpretare. Ad ogni modo, Ushijima distolse lo sguardo da lui e aprì con uno scatto secco la porta di una stanza. “Dormirai qui, entra pure.” disse, di nuovo algido e severo.
    Hinata lanciò un’occhiata all’interno: si trattava di una camera da letto perfettamente in linea con l’arredamento del resto dell’abitazione, cioè sobria ma elegante, con una grande portafinestra che affacciava sul giardino buio, un cassettone e una scrivania dalle linee essenziali e un bel letto a…
    “Ehi! Ehi! Ehi!” strillò Hinata, mettendo le mani avanti e facendo qualche passo all’indietro. La sutura tirò dolorosamente, tuttavia decise che, in quel momento, poteva anche passare in secondo piano.
    “Non alzare la voce, è maleducato.”
    “Non me ne importa niente! Io non ci dormo vicino a te!”
    “Sei a casa mia, è indispensabile che tu dorma nelle mie vicinanze.”
     “Voglio dormire sul divano! È comodo e larghissimo, andrà benone!”
    “I divani non sono fatti per dormire.”
    “Io non dormo nello stesso letto con te! Mi vergogno!”
    Ushijima allora inclinò la testa e sbatté le palpebre, in un’espressione di autentica confusione. “Non intendo dividere il mio letto con te, Hinata Shoyo, sarebbe molto inopportuno.” sentenziò, indurendo poi la mascella come se l’insinuazione lo avesse offeso nel profondo.
    In effetti, fino a quel momento Ushijima si era dimostrato una persona davvero educata, rigorosa e responsabile, a differenza sua che aveva fatto la parte del moccioso, incapace di badare a se stesso.
    Mettere in discussione così la sua buona fede era stato davvero poco gentile, e Hinata si sentì uno schifo per averlo fatto.
    Non sapeva niente dell’asso della Shiratorizawa.
    Niente.
    E le circostanze non smettevano di dimostrarlo.
    “Scusa… pensavo che…”
    “Questa è la camera degli ospiti, la mia è quella in fondo al corridoio.” spiegò il ragazzo più alto, indicando verso una porta sita alla fine del lungo corridoio.
    Che deficiente! Era ovvio che una casa così dovesse avere anche una camera degli ospiti!
    Come aveva fatto a non collegare le cose!
    Hinata infossò il capo nelle spalle, imbarazzatissimo, quindi entrò nella stanza muto come un pesce, a testa bassa, senza avere il coraggio di guardare Ushijima di nuovo negli occhi.
    Si fermò al centro, accanto al letto a due piazze e tirò un lungo sospiro, carico di tensione.
    “Domani, quando ti sarai svegliato, puoi andare via chiudendoti semplicemente la porta alle spalle.” affermò intanto Ushijima dietro di lui.
    Il cuore di Hinata fece un tuffo dritto nel suo stomaco.
    L’altro non ci teneva neanche a salutarlo.
    Che aveva fatto di male per farsi detestare così tanto da lui?
    La verità era che non sarebbe mai riuscito a trovare un contatto con Ushijima Wakatoshi.
    Ma gli Dei solo sapevano quanto lo avrebbe desiderato…
    “B-buonanotte, Ushijima.” mormorò dunque Hinata, con voce affranta, guardando insistentemente la punta dei suoi piedi “E grazie. Grazie per tutto quello che hai fatto.”
    Alle sue spalle, ci fu un suono minuscolo, strozzato ancora prima di nascere.
    Poi la porta si chiuse con un tonfo.
     
     
     
     
     
    NOTE AUTORE
     
    Ed eccoci qui con il terzo capitolo, amici miei :)
    Ushijima e Hinata sono arrivati nella fantastica casa dell’asso della Shiratorizawa, ma i contrasti fra di loro – i loro caratteri, il loro modo di vedere le cose- continuano ad essere netti.
    Vi confermo che quella che state leggendo è una slow-burn quindi i due bimbi ci metteranno un po' di tempo (non tantissimo, ve lo prometto! xD) prima di riuscire ad istaurare un rapporto. D’altronde ho anche pensato che date le loro differenze e il carattere di Ushijima, sarebbe stato poco credibile farli legare immediatamente.
     
    Ci ho pensato a lungo prima di inserire il POV di Hinata, perché la storia si concentra soprattutto sul percorso di Wakatoshi, ma capirete che Hinata ha una importanza basilare e anche il suo punto di vista lo ha (non badate al gay panic per gli addominali di Ushiwaka… sono cose che capitano <.<)
    Sono davvero curiosa di sapere che cosa ne pensate di questa immersione nella testa di Hinata!
     
    Che altro aggiungere, ragazzi?
    Vi aspetto fra due settimane!
     
    A presto,
    Violet Sparks
     
     
     
     
     

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    Capitolo 4
    *** L'oscurità prima dell'alba ***


    CAPITOLO IV
    L’oscurità prima dell’alba
     
     
    Quando si è piccoli la notte fa paura,
    perché ci sono mostri nascosti sotto il letto.
    Da grandi i mostri sono diversi:
     insicurezza, solitudine, rimpianti.
    E anche se si è più grandi e più saggi,
     ci si ritrova ad avere ancora paura del buio.
    - Grey’s Anatomy
     
     
     
    Wakatoshi chiuse gli occhi, sospirò.
    Li riaprì dopo meno di cinque secondi, puntandoli sul soffitto buio sopra la sua testa, appena visibile nella semioscurità della stanza, quindi si girò su di un lato, li richiuse di nuovo, si morse le labbra.
    Aveva caldo, troppo caldo.
    Una goccia di sudore gli percorse la tempia per poi scivolare giù dietro l’orecchio, verso l’attaccatura dei capelli, mentre un’altra cadde lenta, lungo la linea del suo addome piatto, correndo fastidiosamente vicino all’ombelico.
    Scalciò via le coperte fino ai piedi del letto.
    Dietro lo sterno, il suo cuore stava battendo in maniera febbrile, frenetica, come un tamburo di guerra.
    Doveva assolutamente calmarsi.
    Si rimise supino, distese le braccia lungo il busto, ispirò con estrema lentezza, poi lasciò andare fuori l’aria.
    Gestire l’ansia, i pensieri intrusivi, era una delle prime cose che gli erano state insegnate durante gli incontri con gli psicologi che i giocatori della Shiratorizawa erano tenuti ad avere almeno una volta al mese. Wakatoshi aveva sempre trovato quei colloqui tediosi, del tutto superflui per la sua preparazione atletica, eppure in quel preciso momento, non era mai stato tanto felice di averne preso parte.  
    La verità era che non era riuscito a spegnere il cervello da quando aveva poggiato la testa sul cuscino.
    Continuava a pensare e pensare e pensare, e Hinata Shoyo era chiuso a tre camere di distanza da lui, non aveva dato più segni di vita, ma era come se la sua presenza potesse trascendere la fisicità dei muri e delle porte, penetrare attraverso il calcestruzzo per arrivare fino al suo letto e premergli addosso fisicamente, rallentandogli il respiro.
    Era sempre stato così con quel mocciosetto, fin da quando lo aveva incontrato per puro caso tanti mesi prima, insieme al suo amico alzatore, nei pressi dell’accademia.
    Lo ricordava benissimo quel giorno. Al tempo, considerava il Karasuno nient’altro che una delle tante squadre della marmaglia che si sarebbero affannate per guadagnarsi un posto nella finale del torneo di primavera, per poi vedersi inevitabilmente schiacciare dalla gloriosa grandezza della Shiratorizawa.
    “Se la Seijo è un terreno arido per te, allora noi somigliamo al cemento, dico bene?” gli aveva sputato contro Hinata quella volta, dopo aver ascoltato le sue opinioni su Oikawa e la sua squadra.
    Era una cosa che Wakatoshi aveva sempre pensato, di cui era sempre stato convinto: Oikawa Tooru era un ottimo alzatore, il migliore di tutta la prefettura, se non addirittura di tutto il paese, ma ciò aveva davvero poca importanza se si ostinava a voler giocare in una squadra mediocre, un terreno arido incapace di far crescere adeguatamente il proprio seme.
    Era così che stavano le cose, punto.
    E le continue vittoria della Shiratorizawa sulla Seijo non facevano che confermare quella inattaccabile verità.
    Eppure, Hinata Shoyo gli aveva messo addosso uno sguardo incandescente come acciaio fuso, così intenso che Wakatoshi si era sentito trapassare da quelle iridi nocciola neanche fossero state dei dardi incandescenti, e percorrere da un brivido freddo lungo la spina dorsale.  
    “Io sono Hinata Shoyo e sto crescendo nel cemento. Ti batteremo e arriveremo ai nazionali!”
    Glielo aveva giurato dritto in faccia, senza alcuna ombra di paura, ogni sillaba intrisa di orgoglio e sicurezza.
    A quel punto, Wakatoshi aveva pensato che Hinata facesse parte di quella categoria di giocatori bassini ma talentuosi, in grado di sopperire alla mancanza di altezza e di potenza cui li aveva condannati Madre Natura con uno spiccato senso del gioco, viva intelligenza e completezza tecnica, tanto in attacco quanto in difesa.
    La storia della pallavolo era piena di personaggi del genere.
    Wakatoshi allora si era esaltato: non vedeva l’ora di misurarsi con un avversario del tutto opposto a lui, qualcuno così bravo e così sicuro di sé da non aver alcun timore di sfidarlo.
    Certo, non aveva mai messo in discussione la propria vittoria. Le capacità sue e della sua squadra erano ben al di sopra di quelle di chiunque altro nella prefettura; vincere era l’unica opzione possibile, non esistevano varianti, non c’erano alternative. Quantomeno però, sarebbe stato interessante scontrarsi con quel ragazzino dai capelli improbabili e dallo sguardo di fuoco, testare le sue fantomatiche abilità.
    Con grande sorpresa di tutti, alla fine il Karasuno aveva davvero battuto la Seijo alle semifinali, il che voleva dire che le aquile della Shiratorizawa avrebbero disputato la finale proprio contro i famosi corvi rinati dalle ceneri, onnivori e imprevedibili – come li definivano le voci di corridoio.
    Wakatoshi era pronto a dare il massimo.
    Peccato che le sue aspettative fossero crollate miseramente nello stesso istante in cui erano entrati in campo.
    Hinata Shoyo non aveva niente.
    Niente se non una certa agilità e una discreta elevazione nel salto.
    La sua difesa era scarsa, per non dire penosa, così come lo erano le sue battute o il suo salto a muro.
    Non aveva tecnica, non aveva strategia.
    Si limitava a sfrecciare da un lato all’altro del campo ad una velocità folle cercando di eludere il muro avversario, schiacciando sulle alzate precise al millimetro di Kageyama Tobio, il suo dispotico alzatore, il tutto con quell’espressione caparbia e infuocata, sempre dipinta sul volto, che Wakatoshi avrebbe voluto strappargli a mani nude dalla faccia.
    Tutta quella fiducia cieca… tutta quella spavalderia… per che cosa poi?
    Hinata Shoyo non era altro che una specie di trottola impazzita che rimbalzava su e giù al di là della rete da pallavolo, senza un minimo di logica, senza né arte né parte.
    Eppure, il moccioso non si arrendeva, continuava a crederci con ogni fibra del suo minuscolo corpicino e intanto divorava punto dopo punto, mentre quella sua fame insaziabile gli faceva luccicare lo sguardo.
    Quando l’arbitro aveva emesso il fischio che decretava la fine della partita e la sconfitta della Shiratorizawa, Wakatoshi aveva impiegato una manciata di minuti per rendersi conto effettivamente di ciò che era appena successo.
    Era la prima volta che perdeva.
    E il fatto che fosse stato quel cucciolo di corvo ad averlo spodestato dal suo regno in cielo, lo straniva come nessun’altra cosa nella sua esistenza.
    Chiuse gli occhi.
    Il suono della palla che batteva oltre la propria linea di campo, ancora lo tormentava, ancora lo avviliva.
    Aveva deciso di andare avanti con la sua vita, di non soffermarsi mai più su quegli eventi e invece, a causa della ingombrante presenza del ragazzino, ecco che essi erano tornati ad affollargli la testa, più forti e rumorosi di prima.
    Si passò una mano sulla fronte, asciugando il sudore che gli inumidiva la pelle, si pettinò i capelli all’indietro, dopodiché decise di alzarsi.
    Fuori dalla finestra, l’alba ormai stava sfumando l’oscurità della notte, trasformando il blu del cielo in un violetto sempre più caldo. Non aveva senso rimanere a letto; ormai era evidente che non sarebbe mai riuscito a riaddormentarsi, per cui tanto valeva sfruttare quelle ore vuote per fare qualcosa di produttivo.
    Si cambiò velocemente, afferrando dall’armadio una maglietta e un paio di pantaloncini corti, indossò scarpe e calzini, quindi uscì dalla camera.
    Attraversando il corridoio, il suo stomaco ebbe un piccolo spasmo nel passare di fronte alla porta chiusa della camera dove riposava Hinata Shoyo, tuttavia decise di ignorare l’avvenimento e continuò per la sua strada.
    Non appena entrò in salotto, tuttavia, quasi inciampò sul suo borsone da palestra, rimasto abbandonato accanto al divano. Lo scostò in malo modo con la punta delle scarpe e sentì il suono tintinnante di qualcosa di metallico che cadeva e rotolava sul pavimento fino ai suoi piedi.
    Si abbassò a raccoglierlo: era la sua borraccia da bambino, coi disegni dei cartoni animati stampati sopra.
    La appoggiò sullo scaffale più vicino, stringendola tra le mani così forte che ebbe paura di averla ammaccata.
    Non ne poteva più di quel mocciosetto.
    Non ne poteva più.
    Almeno, pensò, quando sarebbe tornato a casa dalla corsa, egli sarebbe sparito per sempre dalla sua vita.
     


    Era estremamente facile riconoscere Satori Tendou in mezzo alla gente.
    Bastava un colpo d’occhio, uno sguardo distratto, che la sua zazzera di capelli rossi si stagliava nel paesaggio circostante come uno schizzo di inchiostro color carminio sfuggito da un calamaio, seguita a ruota dalla sua figura allampanata, gli occhi grandi e tondi, sempre cerchiati di nero, e infine lo scintillio della sua risata, acuta e penetrante, praticamente inconfondibile.
    “Buongiorno Wakatoshi-kun!” esclamò dal fondo del viale, prima ancora di giungere ad una vicinanza consona.
    Wakatoshi allora lasciò andare la barra di ferro dove stava facendo le trazioni, sciolse le spalle con piccoli movimenti circolari e “Buongiorno a te, Tendou.” rispose semplicemente, mentre alzava un lembo della sua maglietta per asciugarsi il sudore dalla fronte.
    Aveva corso per circa 13 chilometri senza mai fermarsi, perso nei suoi pensieri, ma quando si era accorto che erano appena le otto e mezzo, aveva deciso di rallentare e fare qualche esercizio al parco. Il pericolo di ritornare a casa e trovare il corvo della Karasuno ancora piantato lì, nella sua abitazione, era qualcosa che intendeva evitare ad ogni costo, per questo aveva deciso di protrarre l’allenamento fino a metà mattinata.
    La presenza di Tendou capitava al momento opportuno: la sua parlantina lo avrebbe aiutato a perdere un altro po' di tempo e, magari, perfino a sgomberare la testa.
    “Sembri abbastanza provato! Da quanto tempo ti stai allenando?” chiese dunque l’altro ragazzo, avvicinandosi a lui e studiandolo con gli occhi stretti a fessura. Stirò le sue lunghe braccia pallide verso l’alto, ma più che un movimento di stretching parve un moto di pigrizia, un blando tentativo di scrollarsi di dosso la sonnolenza ancora evidente sul suo volto spigoloso.
    Wakatoshi considerava Tendou un giocatore molto valido. Era veloce, intelligente, atletico e poi aveva quell’intuito quasi spaventoso che rendeva la sua difesa un vero incubo per gli avversari, tanto da essergli valso lo stravagante soprannome di guess monster.
    Il suo famoso muro a sangue portava sempre un buon numero di punti alla loro squadra.
    Certo però, non si poteva dire che la pallavolo fosse la sua vera passione o che mettesse del reale impegno negli allenamenti. A parte quelli cui erano tenuti settimanalmente per volere del coach, in effetti, Tendou si esercitava poco e niente, anzi trovava spesso delle scuse fantasiose per sottrarsi.
    D’altronde, gli aveva detto espressamente che dopo il liceo avrebbe smesso di giocare per seguire il suo sogno: aprire una pasticceria e lavorare con il cioccolato.  
    “Dalle cinque di questa mattina.” rispose comunque Wakatoshi, concedendosi un generoso sorso d’acqua.
    “Dalle cinque?! Ma non era nemmeno sorto il sole!” proruppe Tendou, l’espressione shockata che rendeva i suoi bulbi oculari ancora più protuberanti e tondi di quanto già non fossero.
    “Non riuscivo a dormire.” ribatté soltanto Wakatoshi, dopodiché afferrò di nuovo la barra consunta dell’attrezzo istallato al parco e ricominciò la sua sessione di trazioni. Sentiva i muscoli delle braccia e delle spalle bruciare per lo sforzo, ma era poca cosa rispetto a ciò cui era abituato. Oltretutto, era stato così distratto durante la corsa che non aveva fatto caso né alla stanchezza né all’ingente distanza percorsa.
    “Mi chiedo quali pensieri potrebbero mai turbare il sonno del nostro miracle boy…” affermò Tendou, con una voce che portava dentro qualcosa di vagamente malizioso, prima di distendersi supino sulla panca e iniziare a fare qualche addominale.
    Per un po' regnò il silenzio, intervallato soltanto dal lieve chiacchiericcio delle altre persone presenti nel parco e gli uccellini che cantavano verso il sole ormai alto nel cielo terso, ma Wakatoshi nutriva il forte sospetto che il cervello del suo compagno di squadra fosse tutt’altro che quieto in quel momento.
    A volte, Tendou stupiva anche lui.
    Era talmente intuitivo che percepiva le cose ancora prima che gli fossero capitate davanti.
    “Ieri sera io e Reon ti aspettavamo su Skype per confrontarci sui compiti di matematica, sai… quelli delle vacanze…” proruppe all’improvviso il ragazzo, appoggiando il mento su una mano e rivolgendo il busto nella sua direzione. Le sue iridi, di quel particolare color granata, sostavano immobili su di lui e sembravano non avere alcuna intenzione di lasciare la presa “Come mai non ti sei collegato?”
    “Ho avuto un contrattempo.”
    “Mi dispiace! È quello che ti ha tenuto sveglio stanotte?”
    Wakatoshi lasciò andare la sbarra.
    Come al solito, Tendou lo aveva portato esattamente dove voleva, e adesso sottrarsi al suo giudizio diventava oltremodo complicato: qualcosa gli diceva che se anche avesse deciso di mantenere il silenzio, il ragazzo avrebbe saputo ciò che era successo con Hinata Shoyo in un modo o nell’altro.
    Quella era esattamente l’arma a doppio taglio dell’avere Satori Tendou come compagno di squadra.
    Capiva tutto senza che Wakatoshi dovesse spiegarglielo.
    Il problema era che, a volte, come in quel caso, capiva anche troppo
    “Ieri sera ho incontrato Hinata Shoyo in un vicolo, vicino casa mia. Era stato aggredito, derubato ed aveva riportato alcune ferite superficiali sul volto e sull’addome, per cui mi sono fermato a soccorrerlo e ho chiamato un’ambulanza… anche se lui non voleva. Il paramedico mi ha chiesto di seguirli in ospedale, dato che lui era spaventato e solo, e non ho potuto rifiutare. Una volta usciti da lì, sarei voluto tornare a casa mia, ma poi Hinata ha detto che abita nel Kento, il che avrebbe comportato per lui dover aspettare l’inizio del trasporto pubblico, prendere un treno, un autobus e… e ho pensato che sarebbe stato davvero crudele e poco prudente lasciarlo lì, nelle sue condizioni… così, alla fine, ho deciso di portarlo a casa con me.”
    Wakatoshi si rese conto di non aver tirato un singolo respiro soltanto quando ebbe terminato la sua spiegazione.
    Si morse le labbra.
    In realtà, gli aveva fatto bene ripercorrere gli eventi con calma e lucidità, gli aveva permesso di considerarli con maggiore distacco, valutarli per quello che erano davvero.
    E la verità era che lui non aveva niente da recriminarsi.
    Per quanto quella vicinanza forzata con Hinata Shoyo gli fosse risultata fastidiosa, sgradevole e scombussolante, era stata anche necessaria, frutto di una catena di azioni e reazioni imprescindibili che avevano semplicemente seguito la logica.
    Wakatoshi si era comportato da persona matura e responsabile, soccorrendo una persona in difficoltà. Avrebbe fatto la stessa identica cosa per chiunque, in qualunque caso e che, fra i sei miliardi di esseri umani esistenti al mondo, ciò fosse capitato proprio con Hinata Shoyo era una circostanza incresciosa, certo, ma su cui non valeva la pena soffermarsi.
    Sollevò lo sguardo verso Tendou, curioso della sua reazione.
    Quasi si spaventò a vederlo bloccato con gli occhi sbarrati e la bocca aperta in una perfetta ‘o’.
    Non stava nemmeno sbattendo le palpebre.
    “Tendou?”
    L’altro si rianimò. Tentò di parlare un paio di volte, boccheggiando come un pesce senza ossigeno, ma tutto ciò che venne fuori sembrava più simile a dei suoni disarticolati che a delle parole di senso compiuto.
    Dopo l’ennesimo sforzo, si schiarì bruscamente la voce e “Ok, vediamo se ho capito bene…” cominciò con voce molto più acuta del normale “Hinata Shoyo è stato aggredito, tu lo hai soccorso e lo hai fatto dormire a casa tua, è esatto?”
    Wakatoshi annuì, “Sì, è esatto.”
    “E quando parli di Hinata Shoyo… intendi quell’Hinata Shoyo. L’unico Hinata Shoyo che conosciamo. Il numero dieci della Karasuno. Il gamberetto tutto pepe che fa quella veloce assurda e ci ha sconfitto alla finale.”
    “Sì, proprio lui.”
    “Ed ha dormito a casa tua. Proprio tua, tua.”
    “Sì, Tendou, è quello che ho detto.”
    “…”
    “…”
    “Porca puttana!”


     
    Tendou si era fatto ripetere il racconto della serata ben quattro volte, tutte accompagnate da domande stravaganti e richieste di particolari di cui Wakatoshi non riusciva assolutamente a comprendere la finalità. Ad ogni modo, lui aveva risposto senza colpo ferire ad ognuna di esse: ormai, aveva imparato a non soffermarsi troppo sulle stranezze del compagno e, in particolare, a non tentare di stare dietro ai suoi voli pindarici mentali.
    L’unica cosa che lo aveva insospettito era stata la sua alquanto tediosa insistenza nel volerlo accompagnare a casa, nonostante abitasse dalla parte opposta della città. Il mistero si infittì quando giunsero di fronte al cancello del suo vialetto e il ragazzo gli chiese di entrare, con su un sorrisetto sornione che non prometteva niente di buono.
    “Non capisco perché tu voglia così tanto accedere alla mia abitazione.” domandò quindi, sempre più perplesso, mentre infilava le chiavi nella toppa e girava le chiavi nella serratura “Devi forse andare al bagno?”
    “Oh no, Wakatoshi-kun! È che proprio non posso perdermi la scena!”
    “Quale scena?”
    Ma non ebbe il tempo di ascoltare la risposta poiché tutta la sua attenzione venne catturata da un misto di odori intensi che lo investì in pieno volto, non appena aprì l’uscio di casa.
    Annusò l’aria, accigliato. Non abitava vicino a nessun ristorante e, da che ricordasse, nessuno dei suoi vicini aveva l’abitudine di organizzare barbecue o eventi simili, erano tutte famiglie rispettabili, educate e tranquille. Non aveva una governante, non aveva un cuoco - sebbene i suoi manager glielo avessero proposto di frequente, per agevolarlo coi pasti della sua dieta- quindi da dove mai poteva venire quella zaffata irrespirabile di cibo cotto?
    All’improvviso, un tonfo sinistro, di oggetti metallici in collisione, gli fece saltare il cuore in gola.
    “Proprio come immaginavo…” tubò Tendou, dietro le sue spalle.
    A quel punto, Wakatoshi spalancò con un colpo la porta di ingresso e si ritrovò di fronte l’ultima scena che si sarebbe mai aspettato.    
    Tutti i suoi sforzi di evitare Hinata Shoyo non erano serviti a niente, perché il ragazzino era lì, in piedi in quella che un tempo era la sua cucina, ma che adesso somigliava più ad un campo di battaglia.
    C’erano almeno cinque o sei tra pentole e padelle impilate nel lavandino, scatole e recipienti abbandonati alla rinfusa sui vari ripiani, tracce di farina sparse ovunque, macchie di succo sul pavimento e della poltiglia indistinta su metà del piano cottura.
    Wakatoshi era pietrificato.
    “Ciao! Finalmente sei tornato!” disse Hinata non appena lo vide, rivolgendogli un sorriso timidissimo e  salutandolo con la mano aperta.
    Sotto la fasciatura del naso, aveva la guancia destra arrossata, incipriata di farina.
    “HINATA SHOYO!” gridò all’improvviso Tendou, sorpassandolo e camminando verso il ragazzino con le braccia spalancate, l’espressione ricolma di genuino entusiasmo “Allora è tutto vero! Sei tu il cucciolo ferito che Ushiwaka ha raccolto dalla strada!”
    Hinata non è un cane e non l’ho raccolto. Ha camminato fin qui con le sue gambe.” scandirono intanto le labbra di Wakatoshi, senza che il loro proprietario però avesse la forza di badare davvero a ciò che avevano appena pronunciato.
    Si era come bloccato.
    La presenza di Hinata Shoyo in casa sua lo stordiva, lo confondeva. Non capiva perché non se ne fosse andato come avevano concordato la notte precedente, non capiva perché non fosse tornato alla propria dimora, il luogo in cui apparteneva, dai suoi amici, dai suoi famigliari. Non capiva perché avesse messo così a soqquadro la sua cucina ma, sopra ogni cosa, non capiva perché - a differenza sua- lui non sentisse il bisogno impellente di mettere più distanza possibile fra di loro, di rompere quel laccio a doppio nodo che li teneva ancora fastidiosamente legati dalla notte trascorsa insieme. 
    “Oh! Ma tu sei il numero cinque della Shiratorizawa! Satori Tendou! Quello che faceva quei muri straordin- ahia! Maledizione!” esclamò a sua volta Hinata, in direzione del ragazzo dai capelli carmini. Nonostante la forte fitta di dolore alla bocca, i suoi occhi brillavano come due stelle del firmamento e quasi gli tremavano le mani per l’eccitazione “È stato troppo bello misurarsi con te durante la finale! Non vedo l’ora di giocare ancora contro la vostra squadra!” bofonchiò ancora, sofferente.
    “Ah-ah-ah! Sarà un vero piacere murare di nuovo le tue schiacciate, gamberetto!”
    “Non mi farò fregare da te, puoi giurarci!”
    “Oh questo sarà da vedere!
    “Mi devi insegnare qualche trucchetto! Sai, tipo quand-“
    “HINATA SHOYO.”
    Wakatoshi era sicuro di non aver alzato la voce – non era sua abitudine farlo, d’altronde- eppure essa rimbombò ugualmente tra le pareti dell’infernale cucina e portò sia il ragazzino che il suo compagno di squadra ad ammutolirsi seduta stante.
    Nel rinnovato silenzio, si avvicinò di qualche passo al piccolo corvo, il quale indietreggiò fino a cozzare con la schiena contro il bancone al centro della stanza.
    Il lucore del suo sguardo trasmetteva tutta la sua soggezione, tutta la sua paura, tuttavia mantenne quello di Wakatoshi senza sottrarsi, aperto e sincero.
    Gigantesco.
    “Cosa significa tutto questo?” chiese quindi l’asso della Shiratorizawa, il tono cupo come un ringhio proveniente direttamente dalla bocca del suo stomaco.
    Intimorirlo non gli interessava, non in quel momento.
    Doveva capire, doveva mettere ordine.
    Hinata deglutì lento, si strinse nelle proprie spalle ossute e “T-ti ho preparato la colazione.” mormorò pianissimo, indicando con il mento verso il bancone dietro di sé.
    In effetti, sulla superficie piana del mobile erano state apparecchiate una serie incalcolabile di pietanze variopinte, dolci e salate, tra riso, uova, bacon, pane tostato, crepes, pancake, frittate, carne di vario genere, verdure al vapore, mentre in un angolino erano state disposte addirittura alcune bevande, tra cui ben due caraffe di succo e un termos di caffè.
    Wakatoshi era sempre più confuso.
    “Perché lo hai fatto?” chiese, brusco.
    “P-perché volevo sdebitarmi con te… sai, per tutto il disturbo che ti ho creato…”
    “Non te l’ho chiesto, non era necessario.”
    “Lo so, ma…”
    “Oh, ma che pensiero carino! È davvero una cosa dolcissima, non c’è che dire!” esclamò Tendou di punto in bianco, interrompendo seccamente la loro conversazione. Passò un braccio intorno al collo di Wakatoshi, posizionando la testa proprio accanto alla sua, sulla spalla, quindi gli batté un paio di sonore pacche sul petto, elargendogli un sorriso a trentadue denti e un’occhiata diretta, indecifrabile “È vero, forse non era necessario, ma è stato comunque un gesto gentile, non trovi Wakatoshi-kun?”
    Wakatoshi fissò prima lui poi il corvetto sotto il proprio naso.
    La situazione lo stava confondendo a dir poco.
    Che Tendou avesse ragione? Forse stava esagerando?
    Trovare Hinata Shoyo ancora in casa propria lo aveva agitato parecchio - questo era certo- gettandolo in uno stato d’animo violento, fatto di rabbia e di frustrazione, ma anche di qualcosa che non riusciva bene a riconoscere, un senso latente di ansia, dettato soprattutto dall’imprevedibilità della circostanza.
    Non amava l’inaspettato, Wakatoshi.
    Era abituato a riflettere, a osservare, a ricollegare pezzo a pezzo, e dunque quasi pretendeva che il mondo intorno a sé agisse con la logica stretta e precisa che si confaceva all’ordine della natura.
    Azione e reazione.
    Gettare un sasso nello stagno e assistere al suo inabissarsi.
    Sentire rumore di zoccoli e vedere un cavallo passare.
    Scorgere la luce e sapere che il sole era sorto.
    Giocare a pallavolo e vincere.
    Uscire di casa e non trovare nessuno al proprio ritorno.
    Perché allora, da quando Hinata Shoyo era entrato nella sua esistenza, niente più sembrava seguire quella benedetta logica? Perché tutto continuava a cambiare e a rimescolarsi, in maniera inconcepibile?
    I sassi rilucevano sulla superficie dello stagno.
    Gli zoccoli appartenevano a delle zebre in corsa.
    La luce che si infilava nei pertugi delle finestre non era altro che una eclissi solare.
    Il liceo Karasuno vinceva la partita e andava ai Nazionali.
    Hinata Shoyo era ancora a casa sua, a pochi centimetri da lui, nella sua cucina.
    Wakatoshi arretrò di qualche passo, serrò la mascella.
    Perdere il controllo non serviva a niente in quel momento, non era altro che controproducente.
    Per fortuna, la parlantina di Tendou interruppe nuovamente l’aura di tensione che si era creata. “Allora Wakatoshi-kun? È bello tornare da un allenamento e trovare una colazione così abbondante, non ti pare?” rimarcò, stringendogli una spalle e strattonandolo un poco, come a volerlo risvegliare dal suo torpore.
    Il giovane asso tentennò ancora per un secondo, poi emise un lieve sospiro e rilassò la muscolatura.
    “Immagino di sì.” rispose brevemente, al che anche il ragazzino parve sciogliersi, sollevando un angolo della bocca gonfia in un piccolo sorriso. “Però non capisco perché tu abbia preparato tutte queste cose.”
    Hinata sussultò, “P-perché non sapevo cosa mangiassi a colazione, quindi ho fatto un po' di tutto.” si affrettò a spiegare, agitando le braccia “T-ti rifornirò di tutte le cose che ho preso dal tuo frigo super tecnologico e dalla  tua fantastica dispensa, lo giuro! E- e metterò anche in ordine, ovvio!”
    Wakatoshi strinse le labbra, soppesando la questione.
    Non ricordava nemmeno di avere quell’enorme quantità di cibo e di suppellettili in giro per la sua cucina: di solito, i suoi pasti erano semplici, controllati fino al milligrammo e contavano di un numero molto specifico di alimenti, motivo per cui non capiva perché i manager continuassero a riempire settimanalmente i suoi scaffali con biscotti, farine e altri alimenti che lui non avrebbe comunque consumato.
    Lanciò un’occhiata alle pietanze in fila sul bancone che, alla fine, avevano un aspetto piuttosto gradevole.
    “Non è necessario che tu mi rifornisca di niente.” disse allora, puntando il proprio sguardo sul piccolo corvo. “Ma hai sprecato il tuo tempo, non posso mangiare niente di ciò che hai cucinato.”
    A quelle parole, il volto di Hinata si sciolse in un’espressione così demoralizzata che Wakatoshi si sentì un po' in colpa. Prima che potesse aggiungere altro però, le dita lunghe e ossute di Tendou si strinsero intorno al suo braccio e lo trascinarono fino agli sgabelli posti sotto al bancone.
    “Suvvia! Ci sarà pur qualcosa che puoi assaggiare! Le verdure sono al vapore, no? E anche la carne e le uova sembrano buonissime!” proruppe, prendendo un piatto e servendosi di ben due crepes, una fetta di pane tostato e qualche strisciolina di bacon “Posso favorire anche io, no? Ho come l’impressione che ci sarà qualche avanzo!” domandò con un ghigno, mentre già si versava un intero bicchiere di succo di frutta.
    Wakatoshi prese posto accanto a lui, studiando attentamente il banchetto che gli si presentava di fronte. Analizzò ogni suo elemento per un tempo indefinito – in cui avvertì l’aspettativa degli altri due commensali convergere direttamente su di sé- poi afferrò una ciotola e si verso una mestolata di riso, insieme a qualche boccone di carne e un paio di verdure.
    Le bocche di Tendou e Hinata si aprirono in un sorriso quasi nello stesso momento.
    “Non era così difficile, no?” chiese il suo compagno di squadra vicino al suo orecchio, poco prima di ingurgitare un bel boccone di crepes al cioccolato.
    Wakatoshi preferì non rispondere.
     
          
     

     
     
    NOTE AUTORE
    • Il suffisso -kun (Wakatoshi-kun) è utilizzato in Giappone fra persone con un certo grado di confidenza. Come avrete notato, non sto utilizzando nella storia questo genere di suffissi, ma dato che Tendou chiama spesso Ushijima in questo modo, ho deciso di mantenerlo;
    • Ushijima, data la sua rigidità mentale, non capisce battute, metafore o modi di dire, con risultati spesso… comici!
     
    Ciao a tutti, amici! Le vacanze stanno per iniziare, fuori fa un caldo torrido – almeno dalle mie parti- ed io non vedevo l’ora di pubblicare questo capitolo :)
    Mi ha dato un bel po' di filo da torcere, vi dico la verità! Doveva essere un po' più lungo di così - comprendendo anche gli eventi del capitolo V!- tuttavia, poiché temevo di non dare il giusto risalto alle cose, ho pensato di dividerlo. Spero che la scelta sia stata consona!
     
    La prima parte del capitolo è forse la più importante di tutte. Wakatoshi ripercorre infatti il suo primo incontro con Hinata Shoyo e l’incredibile sconfitta della sua squadra durante il loro scontro.
    Per quanto sia un ragazzo equilibrato e maturo, volevo far capire come in realtà questi due eventi lo abbiano turbato parecchio, seppur a livello inconscio e anche mostrarvi uno dei motivi per cui Wakatoshi sente di detestare tanto Hinata.
    Hinata è ancora un giocatore grezzo, sprovvisto di una preparazione atletica e tecnica sufficiente, eppure ci mette tutto se stesso, con grinta e passione e voglia di vincere, cosa del tutto illogica per Ushijima.
    Dato che ci sono persone che seguono la storia come originale, qualora ci fossero dei passaggi poco chiari, me li indichino pure: cercherò di spiegarli con maggior chiarezza! :D
     
    Nella seconda parte invece, abbiamo l’entrata in scena di un personaggio chiave, Tendou Satori, altro giocatore della Shiratorizawa. Come sapete dal canone, Tendou è una delle persone più vicine a Ushijima, è vivace, senza peli sulla lingua e soprattutto dotato di un intuito spaventoso. Ho pensato di affidargli il ruolo di grillo parlante e guida per… beh, evitare che Ushijima faccia altre cazzate o ci metta tre quarti di secolo prima di rendersi conto delle cose!
    Tonto e testardo com’è, avrebbe fatto solo danni, è evidente.
    Sono stra-curiosa di conoscere le vostre opinioni su di lui!
     
    Avviso che il prossimo aggiornamento potrebbe slittare di qualche giorno, se non un’intera settimana! Sarò in vacanza per qualche giorno e non so se avrò il PC a portata di mano!
    Ma ci vediamo presto, prometto! ;)
     
    Violet Sparks

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    Capitolo 5
    *** Ciò che non ti aspetti ***


    CAPITOLO V
    Ciò che non ti aspetti
     
     
    Che cosa fai quando l'infezione ti colpisce?
    Quando prende il sopravvento?
    Fai quello che devi fare e prendi i farmaci,
    o impari a conviverci e speri che un giorno se ne vada.
    Oppure ti arrendi del tutto
    e lasci che l’infezione ti uccida
    Grey’s Anatomy
     
     
    Se mai avesse dovuto indicare la caratteristica che più di tutte lo inquietava di Hinata Shoyo, Wakatoshi avrebbe scelto lo sguardo.
    Quello sguardo immenso, inteso come una fiamma viva, talmente diretto e sincero da farlo sentire come sull’orlo di un precipizio.
    Quello stesso sguardo che, da quando si erano seduti a tavola, il ragazzino gli aveva messo addosso in maniera spudorata e impietosa, senza alcun apparente perché.
    Ingoiò l’ultimo boccone di riso, dopodiché posò la scodella e si pulì la bocca con una salviettina.
    Non appena rialzò il capo, la faccia di Hinata Shoyo era a pochi centimetri dalla sua, così che Wakatoshi si ritrovò il cuore in gola e gli venne del tutto istintivo ritrarsi verso Tendou, ancora intento a mangiare alla sua sinistra.
    Lo osservò, perplesso.
    Il corvetto aveva un’aria strana, risoluta e tesa insieme, le labbra gonfie tremanti e le guance di un rosso acceso, che faceva risaltare ancora di più il bianco della fasciatura.
    “J-Japan, i-io d-devo c-chiederti una cosa.” balbettò, stringendo i pugni lungo il busto.
    Wakatoshi inarcò un sopracciglio soltanto, “Che cosa?” chiese subito, e voltò l’intero corpo verso di lui per concedergli la massima attenzione. Qualsiasi cosa fosse, gli sembrava importante e difficile da pronunciare, ragion per cui stava cominciando a preoccuparsi anche lui.
    Non era pronto ad affrontare un nuovo problema, non ancora.
    Ad ogni modo, Hinata prese un lungo, profondo respiro, strinse le palpebre e…
    “FAMMIRESTAREQUICONTE!”
    “Non ho capito.”
    “FAMMIRESTAREQUICONTEPERFAVORE!”
    “Davvero, stai parlando troppo velocemente e a voce troppo alta. E non dovresti, visto che i punti potrebbero saltare.”
    All’ennesimo tentativo andato a vuoto, Hinata sbuffò, affondò le dita nei capelli aranciati e si massaggiò la testa con piccoli movimenti circolari. Gli ci volle qualche secondo di concentrazione per trovare la forza di articolare un discorso sensato ed anche in quel caso, pareva che l’ansia lo stesse mangiando vivo dall’interno.
    “Fammi restare qui con te, ti prego!” scandì quindi, lento e greve come se dovesse tirarsi fuori a forza ogni sillaba dalla lingua “Casa tua è più vicina alla Shiratorizawa, potrei andare al campus più velocemente, ma non è soltanto questo…” il fiato gli si spezzò in gola, deglutì rumorosamente e gettò le spalle all’indietro “Io… io voglio allenarmi con te, Ushiwaka! Vedere come mangi, quali esercizi fai, quante volte al giorno! Sei il miglior giocatore del Giappone, ti prego, lasciami imparare da te!”
    “Assolutamente no.”
    Wakatoshi si rese conto che la risposta dovette essergli uscita in modo più brusco di quanto avesse preventivato perché sia Tendou che Hinata Shoyo sussultarono all’unisono e sbarrarono gli occhi nella sua direzione.
    D’altronde però, non c’era molto altro da aggiungere.
    La richiesta del ragazzino era ridicola, arrogante, completamente illogica.
    Il solo pensiero di svegliarsi ogni giorno con la consapevolezza di averlo intorno a sé, nelle sue strette vicinanze, a dividere i suoi medesimi spazi vitali, gettava Wakatoshi in uno stato di inquietudine che gli faceva sfrigolare la bocca dello stomaco, scaldare la pelle e il sangue, tendere tutti i muscoli corporei come pietra.
    Come aveva fatto Hinata Shoyo anche solo a concepire una cosa del genere?
    Perché proporgli una simile sciocchezza?
    Iniziava a pensare che quel mocciosetto provenisse da un mondo estraneo al proprio, dove si parlava una lingua differente e le regole della natura fossero sottosopra.
    “Perché no?” lamentò infatti quello, come se non fosse ovvio, come se la domanda appena porta potesse prevedere una risposta diversa dal suo secco diniego.
    Wakatoshi strinse le labbra, “Perché non mi piaci, te l’ho già detto. Non ti voglio a casa mia.” spiegò, atonale “E poi non riusciresti mai a tenere il ritmo dei miei allenamenti. Non hai tecnica, non hai fiato, non hai una preparazione atletica sufficiente. Ti faresti del male e basta.
    Davanti a quelle parole, Hinata abbassò il capo mestamente, il volto contrito in un’espressione affranta, abbattuta, che mise l’asso della Shiratorizawa ancor più a disagio.
    Sembrava che ogni singola parola avesse avuto l’effetto di una coltellata dritta nella carne del ragazzino, dove faceva più male. E Wakatoshi scoprì che ad una parte di lui non piaceva affatto vedergli quel grigiore addosso, quell’ombra tetra ad incupirgli il colore ambrato degli occhi, ma ad un’altra, invece, non importava affatto, perché tutto ciò che essa bramava era allontanarlo da sé il più possibile e, per adesso, era lei quella che urlava più forte.  
    “Io… posso farcela! Mi impegnerò, cercherò di stare al tuo passo e non disturbarti!” riprese il moccioso, mormorando a capo chino.
    “Non si tratta di impegno, si tratta dell’essere fisicamente in grado di fare qualcosa o meno. Ora come ora il tuo corpo è troppo debole.” rispose allora Wakatoshi, con voce gelida.
    “Io voglio migliorare! So che posso farlo!” si intestardì ancora il corvetto.
    “Avresti dovuto cominciare la tua preparazione atletica alle medie. Recuperare anni e anni di allenamento in un mese è impossibile.”
    “Non ti sto chiedendo di farmi diventare forte come te dal giorno alla notte, voglio solo che… che mi insegni! Che mi mostri come migliorare e potermi avvicinare al tuo livello!”
    “Non è possibile.”
    “Ti prego!”
    “Ti ho già detto di non urlare e di non farti saltare i punti.”
    “Non mi importa niente dei punti!”
    “Hai un atteggiamento riprovevole! Sei infantile, testardo e irresponsabile!”
    “Io… io non…”
    “Ehi, ehi, ehi!” si intromise improvvisamente Tendou, il trillo della campana che metteva fine a un round di boxe. Sia Wakatoshi che Hinata si voltarono verso di lui: il ragazzo stava degustando quella che, ad occhio e croce, doveva essere la sua quinta crepes al cioccolato, aveva gli occhi socchiusi e la bocca stirata in uno strano sorrisetto serafico.
    Preso com’era dalla sua discussione con il più piccolo, Wakatoshi aveva quasi dimenticato la presenza di Satori al suo fianco, e ciò era alquanto singolare, considerato che l’amico non era certo famoso per sapersene stare quieto e al suo posto durante un confronto.
     Ad ogni modo, “Andiamo, gamberetto, non hai sentito cosa ha detto Wakatoshi-kun?” continuò il giocatore della Shiratorizawa, ruotando appena la testa in direzione del ragazzino. Gli lanciò un’occhiata di sbieco, senza mai smettere di sorridere in quella sua maniera ambigua e “Un no è un no! Non insistere oltre! Ci hai provato e non è andata bene! Fine della storia!” disse pimpante.
    Wakatoshi tirò un impercettibile sospiro di sollievo.
    Non sapeva spiegare perché, ma l’espressione sul volto di Tendou lo aveva allarmato, facendogli temere su che cosa gli stesse passando per la testa.
    Non che il suo essere in disaccordo gli avrebbe fatto cambiare idea sulla questione, soltanto che…
    Wakatoshi ormai conosceva Tendou abbastanza bene da sapere che egli poteva dimostrarsi piuttosto pericoloso quando aveva un’opinione contraria. Da quando lo conosceva, aveva perso il conto delle volte in cui - senza sapere né come né perché-  si era ritrovato a fare cose che aveva detto non avrebbe mai e poi mai fatto, guidato soltanto da chissà quale impulso messo in moto dal terribile guess-monster della Shiratorizawa.
    “Wakatoshi non ha nessunissima intenzione di ospitarti a casa sua e soprattutto di giocare ancora contro di te in futuro. È dura, ma devi accettarlo, mi dispiace.” continuò ancora il ragazzo dai capelli a fiamma, ostentando una certa noncuranza, mentre prendeva una tazzina e ci versava dentro una generosa dose di caffè.
    A quelle parole, tuttavia, Wakatoshi saltò sull’attenti e lo guardò, corrugando la fronte.
    “Aspetta, io non ho detto questo. Non lo voglio a casa mia, ma intendo giocare ancora contro di lui in futuro. Ho promesso che lo avrei sconfitto, dopo la finale.” si affrettò a sottolineare, preoccupato. Si trattava di un punto molto delicato, su cui non avrebbe mai accettato scusanti o eccezioni: Hinata Shoyo lo aveva sconfitto una volta, certo, ma sarebbe rimasta una ed una soltanto, perché all’occasione successiva lo avrebbe schiacciato, lo avrebbe rimesso al suo posto come era giusto che fosse.  
    Non averlo più come avversario, era una opzione che non prendeva nemmeno in considerazione.
    “Oh! Sul serio? Questo è davvero curioso!” proruppe allora Tendou, posando la tazza per un momento e rivolgendogli una occhiata di teatrale sorpresa.
    “Perché sarebbe curioso?”
    “Beh perché, sai, sarebbe impossibile per voi giocare di nuovo insieme, se il gamberetto perde un arto, un organo interno, sparisce dalla circolazione o viene sotterrato sotto tre metri di terreno, non trovi?”
    Wakatoshi sbatté le palpebre, talmente confuso da non riuscire a processare completamente la frase dell’amico. In modo furtivo, si voltò verso il ragazzino alla sua destra, il quale sembrava perplesso tanto quanto lui e anche un bel po' spaventato.
    “Non ti sto seguendo.” ammise infine Wakatoshi, la bocca distorta in una smorfia di disappunto e la fronte che non accennava a distendersi.
    Ebbe come l’impressione che Tendou avesse emesso una specie di ghigno prima di parlare.
    “Beh, non è stato mica un caso che lui sia stato aggredito ieri sera!” cominciò, socchiudendo le palpebre e prendendo un piccolo sorso di caffè “Il tragitto dalla Shiratorizawa alla stazione è molto pericoloso, lo sanno tutti, in particolare dopo le nove di sera! E il coach finisce sempre tardissimo gli allenamenti, non ti ricordi Wakatoshi-kun?” spiegò con una strana, stranissima nota zuccherina nella voce “Per non parlare della stazione di Khalila, dove il piccino deve prendere l’autobus! Oh, santo cielo! È lo sfondo di metà delle notizie di cronaca nera sui nostri telegiornali locali! I mezzi lì non sono mai in orario, e poi è un covo di criminali tra ladri, assassini, drogati, depravati, sfruttatori di prostituzione minorile! E… beh, sì insomma, guardalo! Il gamberetto è come se avesse scritto in faccia: ‘SONO UNA PREDA FACILE! FATE DI ME QUELLO CHE VOLETE!’” a quel punto, rise della sua battuta in maniera così sguaiata che per poco non cadde giù dallo sgabello “Probabilmente non arriverà alla prossima settimana!” 
    Wakatoshi rimase impietrito.
    Uno dopo l’altro, gli scenari appena descritti da Tendou si delinearono nella sua mente, stringendo le sue viscere in una morsa di autentica angoscia. Di nuovo, ruotò lievemente il capo verso il ragazzino, trovando nei suoi occhi sbarrati, nel suo pallore malsano, un senso di terrore impossibile da nascondere, che gli ricordò tanto quello della sera prima. Sbatté le palpebre e all’improvviso se lo rivide davanti, lì nel vicolo buio, ferito, spaventato, tremante, ma questa volta andò oltre, se lo immaginò sotto le mani di quegli energumeni che lo avevano aggredito, e poi ancora mentre, in attesa del suo autobus, veniva derubato, rapito, magari avvicinato per essere drogato e stuprato in qualche angolo buio.
    Tendou aveva ragione, Hinata era una preda facile, troppo facile.
    Con quei capelli arancioni, la pelle chiara, il visetto da bambino, le ossa fragili come porcellana… chi ci sarebbe stato ad aiutarlo? Chi altri lo avrebbe soccorso? E se fosse successo qualcosa di irreparabile?
    Il pensiero di rivedergli addosso quella paura gli risultava insopportabile.  
    “Ma sai, alla fine ci sono gli spray al peperoncino in commercio! Mi pareva di averli visti in quel negozietto… quello vicino al supermercato…”
    “Va bene, puoi restare.”
    La frase di Tendou si spezzò a mezz’aria e sia lui che Hinata gli rivolsero un’espressione di puro e autentico shock.
    Ushijima non si sentiva d biasimarli: lui stesso era rimasto esterrefatto da ciò che aveva appena detto e faceva davvero fatica a credere che quella frase fosse appena stata formulata dalle sue note vocali.
    Tuttavia, era stato più forte di lui, un istinto che non era stato in grado di controllare.
    “D-davvero?” chiese allora Hinata, con due occhi così grandi che sembravano prendergli quasi metà della faccia. Wakatoshi non ce la faceva a guardarlo, sentiva caldo sul naso e su tutti gli zigomi, per cui puntò lo sguardo sul piatto vuoto di fronte a lui, concentrandosi sulle briciole abbandonate ai bordi.
    “Non posso lasciarti affrontare un pericolo del genere. Qualora ti facessi male, sarebbe mia diretta responsabilità, perché non l’avrei impedito.” ragionò con calma, cercando di dare una logica alle sue azioni. Sospirò e strinse forte le palpebre, gli stava venendo mal di testa. “Ma ciò non cambia quello che penso. Non ti allenerò, e non ti voglio nelle mie strette vicinanza, in nessun modo. Puoi usare casa mia come appoggio finché il campo estivo della Shiratorizawa sarà finito, niente di più.”
    Per un tempo indefinito – che avrebbe potuto essere tanto dieci secondi, quanto venti minuti- il silenzio regnò incontrastato e perfetto tra le pareti bianche della sua cucina. Poi, senza che Wakatoshi potesse impedirlo o avesse il tempo materiale di fuggire, due braccia sottili e pallidissime come la neve in inverno gli circondarono il busto, intrappolandolo in una morsa bollente.
    Il fiato gli si mozzò in gola.
    Hinata Shoyo lo stava abbracciando.
    Lo stava stringendo a sé, premendo forte con le mani dietro la sua schiena. Aveva poggiato appena la testa sulla sua spalla e adesso il suo fiato tiepido gli stava solleticando l’orecchio, la punta dei suoi capelli ribelli gli stava pizzicando la porzione di pelle sotto la sua mascella e l’odore del suo stesso shampoo – quello che il ragazzino doveva aver trovato la sera prima, usando la sua doccia- gli stava invadendo le narici, increspandogli il flusso del sangue.
    Wakatoshi non riusciva a crederci.
    Era così allibito da non trovare la forza di riavviare il proprio cervello e concepire un rimprovero, un ordine, qualcosa che, insomma, gli permettesse di fuggire via da quella situazione terribile.
    Nessuno si era mai permesso di toccarlo in maniera così spudorata senza il suo consenso, con una tale familiarità, con un tale grado di intimità, nemmeno compagni di squadra che conosceva da anni. E ciò che questo scatenava dentro di lui era un miscuglio confuso e violento di rabbia, disagio e smarrimento che gli faceva sfrigolare il cuore nel petto come se qualcuno lo avesse poggiato su una graticola.
    Lanciò una timida occhiata alla zazzera arancione ancora caparbiamente poggiata al suo corpo, poi a Tendou, il quale sembrava sconcertato almeno quanto lui ma in modo differente, che non avrebbe saputo spiegare a parole.
    Alla fine, per sua fortuna, il piccolo corvo dovette stancarsi del contatto e si allontanò da lui, facendo un passo indietro. Il suo volto morbido sfoggiava un sorriso radioso, del tutto immotivato.
    “Grazie Japan, non ti accorgerai nemmeno della mia presenza, te lo prometto!” esclamò, le sue iridi che brillavano con un tale fulgore da trasformare il loro tipico color nocciola in un due frammenti di topazio.
    Wakatoshi si limitò ad annuire, troppo frastornato per formulare una risposta coerente.
    “Vado a dirlo a mia madre, allora!” annunciò ancora Hinata, dopodiché fece una piccola giravolta su se stesso e si diresse verso la camera degli ospiti, quasi saltellando come un giocattolo a molla.
    Wakatoshi rimase a fissare il vuoto per interi secondi, prima di voltarsi lentamente verso Tendou.
    Sussultò; l’espressione sul volto del compagno di squadra era a dir poco sinistra.
    “Perché stai sorridendo in questo modo strano?” chiese, sinceramente inquietato.
    Al sicuro nella sua testa, Wakatoshi si chiese esattamente quando – in quale marcio istante- il destino avesse deciso di ingarbugliare la sua esistenza per trasformarla in quel guazzabuglio di follia.
    Non solo aveva passato la notte con Hinata Shoyo, ma aveva fatto colazione con lui e aveva appena accettato di tenerselo in casa fino alla fine delle vacanze estive, il tutto mentre Tendou Satori lo osservava con una specie di ghigno sghembo a storcergli le labbra, molto simile a quando in campo riusciva a manovrare gli attacchi avversari e respingerli con il suo muro a lettura.
    “Sai, Wakatoshi-kun, mi piace che la gente mi chiami guess moster, ma non credo sia del tutto esatto…” disse, alzandosi dallo sgabello “Io non indovino le mosse dei miei avversari, faccio delle scommesse, niente di più.” incrociò le mani dietro la testa, tirò in fuori il petto e sospirò “Ma sai, c’è soltanto una cosa che mi piace di più delle scommesse di cui riesco a prevedere l’esito.”
    “Cosa?” chiese Wakatoshi, prima di vederlo incamminarsi verso la porta, dandogli la schiena.
    Era arrivato all’igresso, quando si girò per lanciargli uno sguardo in tralice, affilato come una lama.
    “Le scommesse di cui non riesco assolutamente a prevedere l’esito.”
     

     
    - HINATA SHOYO-
     
    Hinata era così su di giri da temere di poter vomitare il proprio cuore dalla bocca da un momento all’altro, raccoglierlo nei palmi delle mani solo per vederlo battere all’impazzata, rimbalzando contento come una pallina da ping-pong.
    Ripose il cellulare sul comodino accanto a sé, quindi tese braccia e gambe per tutta la lunghezza del letto, beandosi della morbidezza del materasso e dell’odore ancora fresco delle lenzuola.
    Sua madre aveva avuto qualche titubanza nel lasciarlo star via per un periodo così lungo, ma quando aveva colto l’entusiasmo sincero nella sua voce, la trepidazione mentre le spiegava per l’ennesima volta quale occasione rappresentasse per lui un evento del genere, aveva acconsentito di buon grado.
    Sapeva quanto la pallavolo contasse nella vita di Hinata, per questo – nonostante la preoccupazione di saperlo lontano- gli aveva dato il suo permesso, raccomandandosi di farsi sentire almeno una volta al giorno e di non arrecare fastidio al padrone d casa.
    Su quest’ultimo punto, Hinata nutriva forti dubbi circa la riuscita, dato che Ushiwaka continuava a mal tollerare la sua presenza, ma era un dettaglio che aveva deciso di tenere per sé.
    In tutta onestà, non sapeva ancora dove diavolo avesse trovato il coraggio e la faccia tosta di andare da lui a fargli una proposta tanto assurda. L’dea gli era venuta dal nulla, così, all’improvviso. semplicemente, quando si era ridestato in quella stanza elegante e curata, una parte di lui aveva pensato: chissà come deve essere vivere la vita di Ushijima Wakatoshi. Chissà come deve essere svegliarsi in un posto del genere ogni giorno, convivere con la consapevolezza di essere il migliore, la stella nascente della pallavolo. Chissà come deve essere allenarsi al massimo delle proprie capacità.
    Era passato poco meno di un millisecondo prima che un’altra parte di lui – quella più istintiva, irrazionale, sicuramente sconsiderata- aveva pensato: voglio scoprirlo, costi quel che costi!
    Se non fosse intervenuto Tendou Satori a convincerlo, Hinata era pronto a pregarlo in ginocchio, promettergli di tirare giù la luna di peso per fargliene dono, diventare il suo schiavetto personale fino alla fine dell’estate. Non sapeva dove il ragazzo dai capelli scarlatti avesse preso quelle informazioni su Khalila e il tragitto per il Kento – erano tutte sbagliate, avrebbe voluto dirglielo! Aveva affrontato quel percorso almeno una dozzina di volte e non aveva mai avuto problemi, anche perché vi era una stazione di polizia proprio davanti alla fermata dell’autobus!- ad ogni modo però, Ushiwaka si era convinto a farlo rimanere e questo era ciò che contava.
    Avrebbe trascorso le vacanze estive con una promessa della pallavolo, il super asso della Shiratorizawa Ushijima Wakatoshi, convocato come titolare dalla nazionale under19 del Giappone.
    E che quello lo detestasse e non gli avesse permesso di allenarsi ancora insieme a lui, non aveva importanza.
    A Hinata era sufficiente avere il privilegio di osservarlo, di carpire quante informazioni possibili sul suo stile di vita, di gioco, di addestramento.
    Forse, chissà, prima o poi sarebbe perfino riuscito ad aprirsi uno spiraglio nella sua corazza…
    Il pensiero gli fece battere il cuore un po' più velocemente.
     
     
     
     
     
     
    NOTE AUTORE
     
    Okay, potete chiamare “Chi l’ha visto?” e dire alla redazione che Violet Sparks è tornata nel mondo dei vivi!
    BUONASERA AMICI E BEN RITROVATI!
    Prima di tutto, lasciatemi dire che mi dispiace un casino di aver protratto così tanto la pausa estiva della fanfiction, purtroppo però, a parte le vacanze vere e proprie si sono messe di mezzo un po' di cosette che mi hanno ritardato tutti i piani… tra cui un colpo di fulmine accecante per una mezza dozzina di nuove coppie bollenti - ogni riferimento alle ship di Boku No Hero Academia, in particolare la BAKUDEKU, è puramente casuale! U.u Spero però di ritornare a pubblicare con la solita cadenza!
     
    Su questo capitolo ho da dire un paio di cosette:
    • La prima è che, come vi avevo anticipato la volta scorsa, in realtà esso doveva essere parte integrante del capitolo 4. Il motivo per cui avevo deciso di dividerlo, era per dare la giusta importanza ai pensieri di Wakatoshi prima e alla proposta di Shoyo adesso. Proposta che, immaginerete, porta il rapporto tra Hinata e Ushijima su tutto un altro piano! Spero che la scelta sia risultata azzeccata! :)
    • Sì, avete capito bene… Tendou si è inventato tutto di sana pianta! :P
    In generale, ricordate sempre che Tendou Satori è una personaggio alquanto enigmatico, ma dotato di un intuito praticamente spaventoso. Il fatto è che, lui ha già capito – molto prima di quei due tonti!- che c’è qualcosa di latente e ancora inspiegabile fra di loro e ci sta mettendo lo zampino proprio per vedere dove tutto ciò andrà a parare – e anche perché conosce bene la tendenze da yeti di Ushijima! Senza un po' di spinta, stavamo freschi, diciamoci la verità!-
    In realtà, ci sono anche delle ragioni più profonde alla base del comportamento di Tendou, ma questa è un aspetto che vedrete sviluppato in futuro… non spoilero niente!
    • Un lato che spero sia sempre più chiaro è che, in una parte ancora recondita del loro essere, Ushijima e Hinata sentono già delle “cose” ma non sono ancora in grado di interpretarle a dovere. Ushijima, in particolare, se avete notato, non prova più sentimenti prettamente negativi quando è con Hinata – tipo rabbia, disagio, fastidio etc.- ma anche uno strano istinto di protezione (a cui si appella poi Tendou!). Certo ci vorrà ancora un pochino per abbattere le barriere definitivamente, ma direi che si vedono le prime crepe!
     
    Okay e adesso la smetto di ammorbarvi!
    Spero che il capitolo vi sia piaciuto :)
    A presto,
     
    Violet Sparks

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    Capitolo 6
    *** Linea di confine ***


    CAPITOLO VI
    Linea di confine
     

    Non è d’aiuto diventare troppo intimi, fare amicizia. 
    Devi alzare delle barriere tra te e il resto del mondo. 
    Gli altri sono troppo complicati, occorre mettere dei confini, 
    tracciare linee sulla sabbia e pregare intensamente 
    che nessuno le attraversi
    - Grey’s Anatomy



    Hinata sapeva tante cose su Ushijima Wakatoshi, pur non avendolo mai conosciuto davvero. 
    Il motivo era banale. Aveva letto e riletto tutti gli articoli che lo riguardavano, conservando gelosamente le riviste in cui erano apparsi in un apposito scatolone sotto al letto, insieme a quelle di altri colossi della pallavolo. Aveva guardato le sue interviste su YouTube e sui programmi sportivi almeno tre volte ciascuna e – questa era un dettaglio che si era sentito di confessare soltanto a Yachi e Yamaguchi, provando una vergogna infinita nel farlo- aveva persino un suo poster nascosto nell’ultimo cassetto della scrivania, in mezzo a pile e pile di libri scolastici per evitare che sua sorella, sua madre o qualunque altro ficcanaso potesse incapparci per sbaglio. 
    Ogni tanto, prima di andare a dormire, tirava fuori quel pezzo di carta ripiegato, lo stendeva sulla scrivania e lo osservava rapito, disegnando i contorni di quella figura imponente e austera con la punta delle dita, sognando ad occhi aperti di poter diventare uguale a lui – un giorno o l’altro- di poter vantare la stessa potenza, lo stesso talento, la stessa spaventosa inarrestabilità. 
    Arrossiva come un bambino, quando i suoi polpastrelli percorrevano la linea netta di quelle cosce tornite, le spalle così ampie da coprire tre quarti della pagina; il corpo di Ushijima avrebbe potuto racchiudere il suo tranquillamente, un involucro di carne e cartilagine che avrebbe saputo contenerlo senza alcun problema. Hinata allora non poteva fare a meno di chiedersi che cosa si provasse ad essere così grandi, così forti, a mettere in soggezione chiunque con un solo sguardo.
    Avrebbe pagato per rinascere con un dono del genere, una fisicità mastodontica che non ammetteva rivali. 
    Di Ushijima Wakatoshi, Hinata sapeva che aveva cominciato ad interessarsi alla pallavolo fin da quando era bambino, i talent scout lo avevano notato praticamente nello stesso istante in cui aveva messo piede nelle scuole medie – complice la sua corporatura robusta e un innato senso del gioco- e da lì si erano prodigati per agevolarlo nella sua crescita come giocatore, pretendendo da lui sempre il massimo del rendimento. 
    Ushijima era alto 1,89 metro per 84 chilogrammi, seguiva una dieta bilanciata al millimetro, un addestramento rigido che scandiva le sue giornate da quando apriva gli occhi fin quando li richiudeva; non aveva altri interessi al di fuori della pallavolo, non aveva abbonamenti a Spotify né a Netflix e a scuola seguiva un programma agevolato, che gli permetteva di praticare sport mantenendo un’ottima media. 
    Per cui sì, Hinata sapeva tante cose su Ushijima Wakatoshi, pur non avendolo mai conosciuto davvero.
    O almeno così credeva, prima di cominciare la sua convivenza con lui. 
    Ciò che Hinata non sapeva di Ushijima era che, ad esempio, era una persona tremendamente ordinata. 
    Quando era entrato per la prima volta a casa sua, Hinata lo aveva intuito, certo, dal fatto che non vi fosse un singolo capello fuori posto o che non vi fosse nemmeno un granello di polvere sulle superfici splendenti del suo ancor più splendente mobilio, tuttavia, aveva semplicemente pensato che potesse essere opera di un maggiordomo o di una governante. Invece, era Ushijima stesso a rassettare in casa, ritagliandosi sempre un momento per farlo nonostante gli orari serratissimi, talvolta impossibili, che seguiva per gli allenamenti. 
    Puliva ogni singola cosa che sporcava, riponeva al proprio posto tutto ciò che toccava o utilizzava e ripiegava i propri vestiti con una meticolosità incredibile anche dopo essere tornato dopo due ore e mezza di corsa sotto il sole di agosto oppure quando risaliva dal seminterrato, dove teneva una palestra con gli attrezzi, la pelle lucida di sudore e il viso indurito dalla fatica. 
    La cosa che colpiva Hinata più di tutte, era che, di fatto, Ushijima sembrava un ospite nella sua stessa dimora, uno straniero capitato tra quelle mura per pura casualità. 
    A parte qualche eccezione – come i trofei o gli altri vessilli che lo inneggiavano sulle mensole del soggiorno- non vi era alcuna traccia tangibile della sua persona, qualcosa che rivelasse un po' della sua personalità. Si muoveva in maniera composta, quieta, quasi non volesse disturbare qualcuno, ed era sempre un po' sorprendente vedere quel gigante dall’aria severa compiere gesti tanto calibrati, precisi, senza emettere il benché minimo rumore.
    D’altronde, quando Hinata ci rifletteva, Ushijima era così anche in campo. 
    Aveva quest’arte lui, possedeva un controllo - del proprio corpo, delle proprie azioni- praticamente impossibile: tutto ciò che compiva aveva uno scopo compiuto, nascondeva al suo interno un calcolo, una previsione, un meccanismo esatto del cervello.   
    Ben presto, fu chiaro a Hinata che Ushijima Wakatoshi era l’essere più razionale che avesse mai incontrato sul proprio cammino e, per questo, anche il più lontano dal suo universo fatto di caos, pensieri confusi, emozioni troppo intense che spesso gli facevano venire male alla pancia. 
    A quel punto, era abbastanza ovvio il perché il giovane asso non volesse avere niente a che fare con lui.
    Hinata ci aveva provato su fronti diversi, per giorni, ma niente aveva avuto l’effetto desiderato: Ushiwaka aveva snobbato ogni suo timido tentativo di approccio, ignorandolo, squadrandolo con aria perplessa o semplicemente liquidandolo con due frasette in croce.
    Non era sgarbato nei modi, anzi. Era sempre molto educato nei suoi confronti, rispettoso sia nelle parole che gli rivolgeva che dei suoi spazi personali, tuttavia, era evidente il distacco di fondo con cui lo trattava, così come la sua volontà di ridurre i loro incontri in casa ai minimi termini. In generale, Ushijima lo guardava il meno possibile; qualora fossero costretti nella stessa stanza, faceva in modo di abbandonarla velocemente, gli rispondeva quasi sempre a monosillabi e – a parte il buongiorno e la buonanotte, a inizio e fine giornata- non gli rivolgeva mai altro tipo di parola. 
    Al principio, Hinata aveva provato a preparargli la cena, in modo che potessero sedersi a mangiare insieme almeno in quel momento della giornata: Ushiwaka, infatti, era solito fare colazione piuttosto tardi, dato che tornava dalla sua corsa non prima delle otto del mattino, mentre a pranzo entrambi erano fuori, Hinata per il campo estivo della Shiratorizawa e lui per quello della nazionale under19 che si teneva a Tohoku, una prestigiosa università privata a dieci minuti da Miyagi. 
    Era così emozionato, la prima volta, Hinata. Continuava a pensare e a ripensare alle mille e uno cose che desiderava dire ad Ushijima senza l’ostacolo di una rete da pallavolo, e intanto sentiva il proprio cuore battere come un forsennato, nella trepidante attesa di averlo vicino. Aveva fatto grande attenzione a non sporcare niente – o meglio, a rimettere tutto a posto dopo aver trasformato la cucina nell’ennesima baraonda- e aveva perfino passato il pomeriggio su Google per trovare una ricetta ipocalorica che potesse sposarsi con la dieta di Ushijima… peccato solo che, quando era rientrato a casa, l’asso si fosse limitato a lanciare un’occhiata sbrigativa al piatto apparecchiato sulla penisola, accanto a quello di Hinata, per poi snocciolare uno laconico “Non dovevi.”, prima di sparire nella sua stanza fino a metà serata.
    Hinata allora aveva provato con altre ricette, una diversa per ogni sera, alla ricerca di quella che avrebbe convinto l’altro ragazzo a cedere e ad accettare finalmente il suo invito, ma la scena si era ripetuta uguale e identica, giorno dopo giorno, come un video in loop. 
    Nemmeno gli esperimenti di diversa natura avevano avuto il successo auspicato. 
    Ogni qualvolta Hinata provava a spiarlo mentre era intento nei suoi allenamenti, Ushijima lo beccava dopo sì e no qualche minuto, induriva la mascella con fare seccato e tornava a svolgere i suoi esercizi come se lui non esistesse, facendolo sentire tremendamente in imbarazzo. E quando ogni sera si sedeva sul divano del salotto per vedere qualche vecchia partita di pallavolo sul suo maxischermo, con grande concentrazione, non invitava mai Hinata a sistemarsi lì con lui, sebbene lo notasse gironzolare intorno, incuriosito e lo vedesse perdere tempo accanto ai fornelli o al frigo aperto, le sue scuse preferite per sbirciare verso le azioni sul video, soprattutto durante i match point.
    Non che Hinata pretendesse di diventare suo amico o di prendere ad allenarsi spalla a spalla insieme a lui, quantomeno però gli sarebbe piaciuto istaurare con l’altro un rapporto civile, giusto per rendere la loro convivenza meno… strana. 
    Aveva così tante domande da fargli, Hinata.
    Avrebbe voluto sapere tutto di lui, conoscerlo, studiarlo e – perché no?- guardargli un po' dentro per capire quale fosse il suo segreto, cosa facesse di lui il campione dorato e invincibile che era. 
    A volte, mentre si girava e rigirava nel suo grande letto, la testa piena soltanto del nome di Ushijima Wakatoshi, a Hinata veniva da chiedersi se, in realtà, qualcuno lo conoscesse davvero quel benedetto segreto oppure il famoso Miracle Boy fosse un enigma per tutti, impalpabile e inavvicinabile come solo gli dèi sapevano essere. 
    Perché sì, quella era un’altra cosa che, in effetti, aveva colpito Hinata moltissimo, e un po' gli aveva stretto il cuore in una bizzarra morsa di malinconia.
    Ushijima Wakatoshi era un ragazzo tremendamente solo. 
    Da quando era arrivato a casa sua, il giovane asso non aveva mai accennato al fatto di uscire per raggiungere un posto diverso dalla palestra dove svolgeva i suoi allenamenti, nemmeno nel fine settimana. Non aveva mai ricevuto visite di cortesia, né da parte di amici né da parte dei suoi compagni di classe o di squadra; le uniche telefonate che teneva con una certa regolarità erano quelle con Satori Tendou, durante le quali il ragazzo si limitava a snocciolare sì e no cinque frasi di senso compiuto, e ogni tanto con una certa Nana, che però duravano poco meno di un paio di minuti.
    Di tanto in tanto, la porta si apriva per fare entrare delle figure sconosciute che – Hinata aveva intuito- dovevano appartenere allo staff che si occupava della sua carriera, ad esempio il preparatore atletico, la dietologa, il fattorino incaricato di consegnargli la spesa della settimana o anche due uomini sulla sessantina, dall’aria distinta, che avevano sempre qualche foglio fitto di parole da fargli firmare. 
    Il modo in cui Ushijima si rapportava a quelle persone, lasciava Hinata alquanto stranito. 
    Non sembrava mai un ragazzino di diciotto anni alle prese con degli adulti, ma un loro pari. Certo, manteneva sempre il dovuto rispetto, dato dalla differenza di età, tuttavia, aveva un atteggiamento molto composto, saldo, calcolato. Non aveva mai paura di esprimere la propria opinione e di cercare il confronto sulle questioni, così come non si lasciava intimidire dalle parole difficili che ogni tanto qualcuno degli esperti sfoderava a tradimento, per portare la discussione a proprio vantaggio. 
    Ragionava attentamente su qualsiasi cosa, anche il più piccolo dettaglio e le sue risposte erano sempre decise, espresse con parole chiare e tono freddo, senza la minima ombra di tentennamento. 
    In quelle occasione, Hinata si vergognava di se stesso, della propria infantilità, mentre l’ammirazione nei confronti di quel talento della pallavolo perfetto, indipendente e sicuro di sé, cresceva a dismisura. 
    Tuttavia, c’era una parte di lui che non poteva fare a meno di provare, al contempo, una certa tristezza. 
    Perché Ushijima sembrava abituato a dover affrontare quei discorsi difficili da solo, nonostante fosse così giovane? Perché non c’era nessuno a dargli una mano? E se la sua famiglia abitava nelle vicinanze, perché non si erano mai fatti vedere? 
    La verità era che, più i giorni passavano, più le domande di Hinata su Ushijima Wakatoshi aumentavano esponenzialmente.
    E il super asso della Shiratorizawa non sembrava avere alcuna intenzione di aiutarlo.


     
    - USHIJIMA WAKATOSHI- 
     
    Se Wakatoshi avesse dovuto descrivere quel periodo di convivenza forzata con il piccolo corvo della Karasuno, avrebbe utilizzato soltanto una parola: strano.
    Assurdamente, fastidiosamente strano. 
    Era strano avvertire rumore di passi, lì dove era sempre regnato un silenzio perfetto. Era strano trovare le cose di qualcun altro disseminate in giro per le stanze, simili a minuscoli granelli di sabbia: un paio di scarpe in più accanto alla porta d’ingresso, un pacco di biscotti al cioccolato nella credenza, una felpa gialla dall’odore fortissimo – inconfondibile- abbandonata sul divano in soggiorno. Era strano quel ‘buongiorno’ ogni mattina, quel ‘buonanotte’ ogni sera. Erano strani quei post-it attaccati al frigorifero che indicavano degli orari di uscita e di ritorno, firmati sempre con una esse, una acca e un piccolo smile sorridente ad ornare il bordo inferiore del foglio. Era strana quella risata leggera che ogni tanto risuonava tra le pareti, come tanti frammenti di vetro. Ma, sopra ogni cosa, era strano sentire costantemente su di sé quella presenza, quella specie di fiammella viva che non smetteva mai di tenergli il fiato sul collo. 
    Wakatoshi era abituato ad attirare l’attenzione della gente, sia per la sua stazza fisica alquanto possente, sia per la sua fama di giovane promessa della pallavolo. Ovunque andasse, qualsiasi cosa facesse, gli occhi di tutti i presenti convergevano su di lui in maniera quasi automatica, insieme a frasi di incitamento e di ammirazione, sospiri, complimenti, ma spesso anche bisbigli e risolini, commenti meschini atti a provocarlo o evidenti reazioni di timore.
    Si aspettava che con Hinata non sarebbe stato differente. Non aveva creduto nemmeno per un istante che il ragazzino – testardo e avventato quale era- si sarebbe arreso all’idea di non poterlo seguire durante i suoi allenamenti, tuttavia aveva anche pensato che avrebbe saputo gestirlo, sopportando e continuando con la propria vita come aveva sempre fatto con tutti gli altri. 
    Peccato però che, Hinata Shoyo, non fosse affatto come tutti gli altri.
    Il problema era che, più Wakatoshi gli stava vicino, più lo osservava, più si rendeva conto che il moccioso aveva qualcosa dentro di sé, qualcosa che lui non aveva mai visto e di cui non riusciva a riconoscere la natura, ma era capace di toccarlo fin dentro lo stomaco, ingarbugliandogli i pensieri e rendendolo estremamente inquieto. Era una sorta di bagliore stanziato sotto quella sua pelle pallida come carta, tanto sottile da lasciare intravedere l’intreccio delle venature; un’energia che vibrava e ronzava in continuazione, cosicché fosse impossibile ignorarla davvero perché – volente o nolente- finiva inevitabilmente per invadergli la testa. 
    Wakatoshi si accorgeva che, suo malgrado, i suoi sensi erano sempre proiettati verso Hinata Shoyo, come se dentro di lui si fosse acceso una specie di radar ormai sintonizzato sulla sua persona, provando un misto di curiosità e di angoscia nell’arrovellarsi su quale sarebbe stata la sua prossima bizzarria, che lo metteva profondamente a disagio. 
    Non che il ragazzino gli rendesse le cose facili. A volte, Wakatoshi aveva l’impressione che più cercasse di dimenticarlo, di arginarlo, più quello spargeva la propria essenza in giro per la casa come fosse un profumo. 
    Non era un tipo disordinato, anzi era piuttosto pulito, e poi Wakatoshi aveva intuito che stesse facendo del suo meglio per non gravare su di lui e non farsi sgridare di nuovo dopo l’episodio della colazione, tuttavia era molto distratto, motivo per cui tendeva a lasciare tracce di sé un po' dappertutto. 
    Tracce che Wakatoshi si premurava di cancellare immediatamente, con tutto l’impegno di cui era capace. 
    Così, richiudeva le ante dei mobili che Hinata dimenticava aperte in maniera sistematica, gli faceva trovare le ginocchiere sul tavolino accanto alla sua camera, dato che lui le lasciava nei posti più disparati dell’abitazione e poi perdeva almeno un quarto d’ora a cercarle, tra imprecazioni e piagnucolii. Gli staccava i caricatori dalle prese di corrente, gli metteva una copertina sulle spalle ovunque avesse deciso di cadere addormentato in quella particolare occasione, recuperava le tazze ancora sporche di latte al cioccolato che abbandonava sul lavandino del bagno mentre si preparava per uscire, e tutte le mattina gli sistemava le medicine accanto al frigorifero, in modo che non mancasse di assumerle come aveva fatto le prime volte. 
    Hinata aveva tolto i punti e le fasciature pochi giorni dopo l’aggressione, accompagnato da due ragazzi dall’aria educata che Wakatoshi aveva riconosciuto come Sawamura Daichi, il capitano della Karasuno e Sugawara Koushi, il secondo alzatore della squadra. 
    Stava tornando dalla sua solita corsa quando se li era ritrovati fuori al cancelletto e, prima ancora che avesse avuto il tempo materiale di salutarli, quelli avevano piegato la testa in un profondo inchino, ringraziandolo con grande accoratezza per aver aiutato Hinata e averlo accolto in casa propria. 
    Dopo poco, i loro volti si erano illuminati all’arrivo del piccolo corvo.
    “Oh buongiorno, Japan!” gli aveva detto quello, non appena lo aveva scorto “Sto andando in ospedale, oggi mi tolgono i punti! Visto che non hai risposto al mio messaggio, ho pensato di farmi accompagnare dai miei amici…” 
    Wakatoshi aveva serrato la mascella. Sapeva bene a cosa si stava riferendo il ragazzino: la sera prima aveva trovato un bigliettino attaccato alla porta della propria stanza, dove Hinata gli chiedeva se avesse voluto accompagnarlo alla clinica, barrando uno dei quadratini storti che aveva disegnato accanto al sì o al no.
    Tutto ciò che aveva fatto Wakatoshi però, era stato accartocciare il suddetto bigliettino nel proprio pugno, chiudersi in camera e girarsi e rigirarsi nel letto fino all’alba, senza sapere come comportarsi. 
    “Hai fatto bene.” era stata la sua risposta laconica, e una parte di lui – quella non corrotta da quel senso di responsabilità estremo che ultimamente gli stava causando più seccature che altro- aveva approvato a gran voce la scelta. Il solo pensiero di ritrovarsi di nuovo nella claustrofobica stanzetta del pronto soccorso, magari costretto ancora una volta a dover tenere Hinata fermo sul lettino, coi suoi occhi spauriti e liquidi ficcati impietosamente nei suoi, gli causava un tale fastidio alla bocca dello stomaco da fargli venire la nausea. 
    Dall’altra parte, Hinata aveva abbassato la testa e aveva preso a torturarsi le mani, nella solita manifestazione di nervosismo, “Però potresti venire anche tu… se ti va… sai, io in verità mi sentirei anche più sic…”
    “No, va bene così.”
    “Ma io…”
    “Mi aspettano per l’allenamento, con permesso.”
    Wakatoshi si era chiuso il cancelletto alle spalle e si era praticamente fiondato dentro casa, ma ciò non gli aveva impedito di sentire il sospiro affranto di Hinata come se lo avesse avuto dietro l’orecchio. 
    Il resto della sua giornata era stata una tortura psicologica infinita, in cui il suo cervello non aveva fatto altro che giocare per inerzia, mentre a scatti alterni si chiedeva se avesse fatto bene a non andare con Hinata, lui che sapeva quanta paura nutrisse verso gli ospedali, se quei due fossero stati in grado, in caso di necessità, di tenerlo fermo in maniera consona, senza lasciarsi intenerire dalla sua espressione malinconica, o ancora, se avessero insistito per fargli fare un checkup completo per assicurarsi che le botte che aveva preso non avessero causato danni collaterali.
    Le risposte alle sue domande erano arrivate non appena aveva aperto l’uscio di casa.  
    “Ciao Japan!” lo aveva salutato calorosamente il piccolo corvo, raddrizzandosi sul divano dove doveva essersi disteso a riposare. Aveva un aspetto distrutto, le sue labbra erano gonfie e arrossate, gli occhi abbottati di chi aveva pianto, ma almeno non portava più alcuna fasciatura sul naso e al posto dell’intreccio nero delle suture, aveva un solco bianco che si era disteso nel momento in cui gli aveva rivolto un sorriso stanchissimo “Il medico ha detto che sto bene! Mi ha fatto degli esami e ha confermato che non ho riportato ferite gravi, quindi posso tornare ad allenarmi, anche se dovrò stare attento e non potrò sforzarmi troppo!” aveva raccontato tutto d’un fiato. 
    Wakatoshi si era limitato ad annuire distrattamente mentre riponeva le scarpe, sentendo le sue membra sciogliersi come se fossero state congelate fino a quell’istante. Non vedeva l’ora di buttarsi sotto la doccia e togliersi quella sensazione dalla pelle, quando Hinata all’improvviso aveva continuato, “Il medico mi ha chiesto di te, sai? Il fatto è che… beh, non sono stato molto bravo oggi… ci ho provato, ma l’ansia ha preso il sopravvento! Daichi e Suga sono stati molto carini a tenermi la mano, ma il medico ha detto che con te ero stato meglio.” 
    Lo stomaco di Wakatoshi si era stretto e poi aperto in una voragine nel giro di uno schiocco di dita. “Io non ti ho tenuto la mano, ti ho mantenuto fermo. Avrebbero dovuto farlo anche loro.” aveva risposto, svelto. 
    “Im-immagino di sì. Cioè, in realtà il medico ha detto che quando stavo con te sembravo più… beh, tranquillo… sarà stata una sua impressione.”
    “Sì, è probabile.” 
    Se Hinata aveva detto qualcos’altro, Wakatoshi non lo aveva sentito, dato che aveva lasciato la stanza di gran carriera e si era chiuso in bagno senza nemmeno prendersi la briga di passare per la propria stanza a prendersi della biancheria pulita. 
    Ovviamente aveva dovuto passare i due giorni successivi ad evitare Hinata con tutti i mezzi possibili, dato che il ragazzino sembrava non vedere l’ora di riprendere il discorso e riempirgli le orecchie con altre frasi insensate. 
    Perché sì, una delle cose che più continuava a disturbarlo di Hinata Shoyo, era quella sua ostinazione a tratti persino malsana.  
    Per quanto rifiuti ricevesse, per quanti ostacoli insormontabili si trovasse lungo il percorso, per quanti colpi – mortali e non- dovesse incassare, Hinata non demordeva. Non demordeva mai. Si rialzava su quelle sue gambe nodose, sottili come spilli e procedeva imperterrito verso il proprio obiettivo, anche quando farlo sembrava folle, stupido o addirittura controproducente.
    Wakatoshi se ne era già reso conto la prima volta che lo aveva incontrato, ma ne stava avendo la dimostrazione lampante adesso che lo aveva sotto il proprio tetto, giorno dopo giorno. 
    Il coach Washijou non aveva smesso di trattarlo con durezza e di farlo sgobbare come raccattapalle, eppure Hinata usciva di casa molto prima dell’inizio del ritiro e rientrava molto dopo rispetto alla sua conclusione, per essere sempre il primo a presentarsi in palestra e l’ultimo ad abbandonarla. Gli era stato proibito di allenarsi insieme agli altri giocatori convocati al campus, eppure, quando tornava, portava con sé mille fogli zeppi di appunti, nonché video delle amichevoli, registrazioni dei rimproveri e delle correzioni, in modo da porteli riprodurre a ripetizione sul telefono e restare in giardino, fino a tarda notte, a perfezionare i propri movimenti. 
    Tra le mura domestiche, Wakatoshi declinava tutti i pasti che gli preparava, eppure ogni sera il ragazzino apparecchiava un posto in più accanto a sé, sul bancone della cucina. Lui cercava con ogni mezzo di evitarlo, di non guardarlo, di non incontrarlo nemmeno, eppure quello non mancava mai di tentare una qualche forma di contatto, attraverso gesti di cui Wakatoshi non capiva assolutamente la finalità come fargli trovare sempre la borraccia piena di acqua fresca quando finiva gli allenamenti e stendere il suo bucato nonostante non glielo avesse chiesto nessuno oppure, ancora, comprargli il dentifricio finito prima che avesse anche soltanto il tempo di dirlo al tuttofare della sua agenzia o fargli trovare delle garze nuove sul tavolino dell’ingresso, dopo averlo sentito dire a Tendou, per telefono, che gli erano finite e gli servivano per fasciarsi le dita. 
    Lui era in grado di fare tutte quelle cose da solo, le aveva sempre fatte, non aveva bisogno di altri. 
    Aveva imparato a badare a se stesso molto presto ed era sempre stato autonomo, indipendente.
    Perché allora Hinata insisteva in quel modo? 
    Cosa pensava di ottenere da lui? 
    Che pur di sdebitarsi, alla fine avrebbe accettato di allenarlo? 
    La verità era che, più i giorni passavano, più diventava evidente quale pessima idea fosse stata accettare quella assurda convivenza. 
    Non aveva mai aspettato la fine dell’estate con tanta trepidazione da che aveva memoria. 


     
    Wakatoshi fece rimbalzare il pallone sul cemento una, due, tre volte, dopodiché lo lanciò verso l’alto, a perdersi nel cielo bruno, ancora sporco degli ultimi rimasugli di tramonto. Prese la rincorsa. Lo vide sfiorare le nuvole, le prime timide stelle della sera, quindi saltò per andargli incontro, ruotando il braccio e poi tendendolo, in un movimento che ormai conosceva a memoria. 
    Il suo palmo entrò in collisione col corpo della palla nell’istante perfetto, imprimendole la giusta rotazione, la giusta inclinazione, la giusta potenza. Quando la vide colpire l’angolo più estremo del campo, precisa nel punto di incontro fra le due linee di fondo, si sentì soddisfatto, ma certamente non sorpreso. 
    L’errore non era mai stato un’opzione valida. 
    “Sei straordinario…” 
    Wakatoshi sussultò, si spostò i capelli sudati dalla fronte e ruotò gli occhi verso la fonte del commento.
    Hinata era seduto sulle gradinate basse che collegavano la porta finestra della cucina al giardino, le gambe tirate al petto e circondate dalle braccia, il mento mollemente appoggiato alle ginocchia. 
    Non lo aveva sentito arrivare, d’altronde non lo aspettava nemmeno: il suo allenamento del pomeriggio si era concluso in anticipo a causa di una riunione a cui era stato invitato a partecipare tutto lo staff tecnico, ma pensava che Hinata avrebbe fatto il solito orario, rientrando fra non prima di un paio d’ore.  
    Invece eccolo lì ancora una volta, che lo coglieva totalmente alla sprovvista, troppo vicino perché Wakatoshi potesse evitarlo, troppo intenso perché potesse ignorarlo, mettendogli addosso quello sguardo aperto, traboccante di sincerità e di ammirazione che gli faceva solo venire voglia di urlare. 
    Recuperò la palla dall’altra parte del campo. 
    La strinse fra le mani con fin troppo vigore. 
    “Sei rincasato presto anche tu.” constatò, senza più guardarlo.
    “Sì, il coach Washijou portava i ragazzi a cena stasera.” un sospiro lungo, mesto “Ovviamente io non sono stata invitato.”
    “Non eri stato invitato neanche al ritiro, se è per questo.”
    “Cos’è? Una frecciatina? È la prima volta che ti sento usare il sarcasmo, Japan, stiamo migliorando!”
    Wakatoshi si limitò a lanciargli un’occhiataccia in tralice, proprio mentre la faccia morbida del ragazzino si raggrinziva attorno ad una risata sommessa. Onestamente, lo lasciava sempre un po' allibito la quantità di espressioni che Hinata era in grado di modulare solo attraverso le pieghe del volto, quasi come se la sua pelle fosse fatta di argilla fresca e potesse essere plasmata in forme sempre differenti. 
    Quando rideva, in particolar modo, in Wakatoshi nasceva lo strano istinto di affondare le dita nella pasta bianca delle sue guance e premere fino a farle perdere la forma.
    Scrollò la testa. 
    Detestava essere colto da quel genere di pensieri del tutto irrazionali.  
    Portò le spalle indietro, si riposizionò dietro la linea di fondo campo e si preparò a ripetere nuovamente la battuta. Era una parte dell’allenamento che gli piaceva tanto quella, gli riempiva il sangue di adrenalina ma, allo stesso tempo, gli distendeva i nervi anche durante le partite più sofferte. 
    Schiacciare e sfondare la difesa avversaria era esaltate, scorgere i giocatori dall’altra parte della rete furiosi, demoralizzati, invidiosi per essere stati colpiti con quella durezza lo toccava dritto nell’orgoglio, tuttavia il momento della battuta era speciale, rappresentava un rito quasi catartico. 
    Non aveva una squadra da trainare alla vittoria, non aveva schemi di gioco da seguire o da portare a termine, non doveva dosare la propria forza per evitare di far male all’avversario. 
    C’era lui, soltanto lui e la palla che gli riempiva le dita, perfetta come un prolungamento dei suoi stessi arti.
    Di nuovo la lanciò su verso il cielo, le cui sfumature erano mutate ancora, incupendosi di qualche tono. Compì una serie di passi veloci, precisi, poi staccò i piedi dal pavimento e si librò in volo, a raggiungere quella sfera scura che tornava giù, sconfitta dalla forza di gravità. 
    Se ne accorse in quell’esatto istante, mentre la sua mano colpiva l’oggetto con la violenza di un frustata, ma seppure riuscì a deviare un poco la traiettoria, calibrarne la forza risultò impossibile. Hinata comparve all’improvviso, cercando di difendere con un bagher, tutto ciò che riuscì a ottenere, però, fu di essere sbalzato indietro dal contraccolpo, facendo schizzare la palla verso una parte imprecisata del giardino. 
    Cadde a terra di peso, sbattendo la schiena a terra con un tonfo. 
    Prima che Ushijima avesse anche solo il tempo di riflettere, era già dall’altra parte del campo.
    “Cosa ti è saltato in mente? Potevi farti male!” esclamò, con voce inasprita. Era fuori di sé dalla rabbia: quei gesti così avventati, sconsiderati, erano proprio ciò che lo mandava più in bestia di lui.
    Il ragazzino si massaggiò i polsi infiammati, esibendo una brutta smorfia di dolore, poi “Sto bene, non è niente. Volevo solo provare a fermare una delle tue battute micidiali.” rispose desolato “A quanto pare però, non sono ancora in grado di farlo.”
    “Certo che non sei in grado! La tua difesa è pessima! Se il vostro libero e il vostro capitano hanno avuto serie difficoltà, che speranze pensavi di avere tu?”
    “Volevo solo provare… è che… sto imparando alcune cose al ritiro estivo… volevo metterle in pratica…”
    “Potevo colpirti! Il medico ha detto di fare attenzione! Ti sei tolto i punti da una settimana!”
    Hinata allora si alzò in piedi, l’espressione ferita, lo sguardo ricolmo di tristezza. “Perché fai così con me?” gli chiese, tremando visibilmente “Lo so che non ti piaccio, l’ho capito bene. Ma sei sempre duro con me, mi ignori o mi rispondi male. Perché? Che cosa ti ho fatto?”
    Wakatoshi mantenne quegli occhi nei suoi nonostante gli costasse un’enorme fatica farlo, perché sentiva come se essi stessero scavando un buco dentro di lui, un pozzo profondo in cui aveva paura di affacciarsi. 
    Si irrigidì. 
    Serrò la mascella, i pugni lungo i fianchi. 
    “Non mi hai fatto niente. È il modo in cui continui a comportarti.” fu l’unica risposta che riuscì a formulare.
    “Io voglio solo giocare a pallavolo! Voglio solo imparare! Voglio solo migliorarmi! Perché ti dà così fastidio?”
    “Perché non è così che funziona la pallavolo! Tu ti intestardisci, agisci senza pensare! Non fai altro che schizzare su e giù per il campo, muovendoti per puro istinto! E ti permetti pure di guardare gli altri con quel… fuoco negli occhi, di chi vuole vincere ad ogni costo, di chi vuole farcela ad ogni costo!”
    “Perché è così! So di non essere ancora bravo come te e di partire svantaggiato per via della mia altezza, ma io ce la farò, che tu voglia aiutarmi o no! La pallavolo è la mia passione! La mia vita!”
    “Non si tratta di passione! Si tratta di quello che puoi o non puoi fare, te l’ho già detto!” 
    “Non sei tu a decidere quello che posso fare io! Giocherò a pallavolo e diventerò grande, anche più di te! Costi quel che costi!”
    “SMETTILA DI RIPETERLO! NON È COSÌ!”
    Il sussultò d Hinata fu talmente forte che parve smuovere anche il cemento sotto i loro piedi, la brezza leggera della sera che li attorniava senza far rumore. All’improvviso, i suoi occhi d’ambra si sgranarono diventando giganteschi, le sue labbra si schiusero intorno ad un respiro tronco, ma la cosa che fece più male a Wakatoshi fu vederlo retrocedere e portare le braccia al petto come se si stesse difendendo, come… come se avesse avuto il serio timore che Wakatoshi avesse potuto colpirlo in qualche maniera. 
    Fece un passo indietro, inorridito da se stesso. 
    Aveva alzato la voce. 
    Aveva usato un tono brusco, aggressivo.  
    Si era scagliato contro il ragazzino con violenza, con rabbia, con arroganza, torreggiando su di lui con tutta la sua mole fisica, al punto tale da farlo tremare, da fargli temere di vedersi assalire neanche fosse uno degli ignobili criminali da cui lo aveva salvato appena un paio di settimane prima.
    No. 
    Non poteva essere.
    Lui non era così. 
    Lui non perdeva la calma. 
    Lui non perdeva il controllo. 
    Gli stava girando la testa.
    “Scusa… scusa Hinata Shoyo, io…” mormorò, ogni parola che gli feriva a gola nel tragitto per venire fuori.
    Abbassò lo sguardo e lo sorpassò, diretto verso casa. 

    Se quello era la confusione, era la prima volta che la provava in tutta la sua vita.
    E no, decisamente non gli piaceva.
     







     
    NOTE AUTORE 
    1. Questo capitolo è stato un dannato parto, non ve lo nascondo. Ci sto sopra da un mese e ancora adesso, rileggendolo, non sono del tutto contenta del risultato. Ho dubbi sulla fluidità, sulla coerenza, sull’introspezione dei personaggi… insomma, un casino! ^^’’

    2. Come avete visto, la convivenza tra Hinata e Ushijima comincia, ma non nel migliore dei modi. Da una parte c’è Hinata (che non ha una cotta latente, grande quanto una cosa, per Ushijima! No, davvero! È un’impressione! ndr) affascinato dalla figura del campione della Shiratorizawa, dorato e irraggiungibile, pronto a fare di tutto per avvicinarsi a lui. Dall’altra invece abbiamo Ushijima… beh nel pieno di una crisi, e sappiate che questo è stato veramente difficile da raccontare! 
    Ushijima vorrebbe tenere lontano Hinata il più possibile, ma a parte l’ostinazione del piccino, c’è qualcosa che glielo impedisce. Ci sono lati di lui che non comprende, che non gli piacciono, ma così come Hinata studia Ushijima, anche lui fa lo stesso in maniera del tutto inconscia… insomma i due si gravitano intorno come il sole e la luna.

    Capirete quindi che, con una tensione così forte nell’aria, lo scoppio era praticamente dietro l’angolo. 
    Il punto di rottura definitivo è arrivato, miei cari e da questo momento in poi le cose prenderanno una piega diversa. In modo positivo o in modo negativo? Lo scoprirete presto! 

    3. Un altro lato essenziale di questo capitolo, è farvi iniziare a scoprire qualcosa di più su questi due ragazzi, soprattutto della quotidianità e della vita di Ushijima Wakatoshi che nell’opera originale non vengono menzionate proprio. Tutti quelli che trovate nel primo paragrafo sono miei headcanon sul suo personaggio… che ne pensate? Sono davvero curiosa! :)

    Bene amici, con questo vi saluto! 
    A presto

    Violet Sparks 

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    Capitolo 7
    *** Guardare in prospettiva ***


    CAPITOLO VII
    Guardare in prospettiva
     

    Quando arriviamo ad una diagnosi troppo orribile da accettare, 
    andiamo a cercare un altro parere. 
    Qualche volta, la risposta che otteniamo conferma le nostre peggiori paure, 
    altre volte, invece, può fare luce sul problema, 
    farcelo vedere sotto una prospettiva del tutto differente. 

    E dopo che tutte le opinioni sono state ascoltate, 
    e tutti i punti di vista sono stati valutati, 
    finalmente scopriamo quello che volevamo davvero.
    La verità. 

    .
     
    Wakatoshi ripiegò la sua divisa sudata con la solita attenzione, la ripose nel borsone insieme alla borraccia, l’asciugamano sporco, le ginocchiere e il resto della propria attrezzatura da allenamento, quindi richiuse l’armadietto, sbattendo l’anta in un fragore metallico che vibrò per tutto lo spogliatoio vuoto. 
    Sospirò. 
    Era stata una giornata pessima, da dimenticare. 
    La Shiratorizawa aveva chiamato i giocatori del terzo anno a disputare una amichevole contro una squadra universitaria proveniente da Tokyo. La partita era stata semplice, avevano vinto subito i primi due set senza troppi problemi, macinando punti come delle macchine da guerra, ma onestamente Wakatoshi non poteva dire di essere soddisfatto del proprio lavoro né di aver giocato al massimo delle sue potenzialità. 
    La verità era che non aveva chiuso occhio tutta la notte e la mattina era uscito di casa al sorgere del sole pur di non incontrare Hinata Shoyo sui propri passi. 
    Non che l’accortezza fosse servita poi a molto… 
    Wakatoshi non aveva smesso un attimo di avere davanti agli occhi l’espressione impaurita e triste del ragazzino, neanche se quello fosse stato lì, sotto il suo naso, a qualche centimetro di distanza da lui. Il suo cervello non aveva fatto altro che ripercorrere la scena della sera prima fino alla nausea, sbattendogli in faccia ogni singolo dettaglio - la cattiveria delle sue parole, l’aggressività dei suoi gesti e del suo tono di voce. E più andava avanti, più il suo stomaco si contorceva, si rivoltava dolorosamente perché non poteva e non voleva riconoscere se stesso in quella furia smodata, si guardava dal di fuori e vedeva soltanto un estraneo. 
    Lui non era mai stato così, non aveva mai avuto reazioni del genere. 
    Era umano, certo, aveva avuto dei momenti difficili nel corso della sua vita - delle tensioni, delle incrinature- ma aveva sempre affrontato le cose con maturità e raziocinio, cercando una soluzione piuttosto che esplodere come una bomba. 
    Da quanto Hinata era piombato nella sua vita, sembrava che niente rientrasse più sotto il suo controllo, né la pallavolo né la sua casa né tanto meno i suoi pensieri o le sue reazioni. 
    Non ne poteva più. 
    Gli stava scoppiando la testa.
    “Bella partita oggi, Ushijima-kun!” 
    Wakatoshi trasalì; onestamente pensava -anzi, sperava- di essere rimasto solo ormai nello spogliatoio. Aveva fatto in modo di attardarsi in palestra proprio per potersi concedere una doccia nel silenzio più totale, non essendo in vena di convenevoli, conversazioni di circostanza o simili. Invece, ecco che Tendou Satori lo scrutava, in piedi a braccia conserte, una spalla poggiata pigramente su una fila di armadietti, il solito sorrisetto sardonico a stirargli le labbra sottilissime. 
    “Pensavo fossi andato via anche tu, Tendou.” costatò accigliato, mentre infilava la maglietta di ricambio con un unico gesto fluido. 
    Dall’altra parte, il ragazzo dai capelli rossi tuonò in una lunga risata sguaiata. 
    “Oibò! Questa è davvero una novità interessante!” esclamò quindi, incurante del fatto che la sua voce rimbombasse tra le pareti dello stanzone vuoto in modo indecoroso “Il nostro Miracle boy, sempre così onesto e diretto, per la prima volta è evasivo!” 
    Wakatoshi si limitò a scoccargli un’occhiata in tralice attraverso le ciocche dei capelli ancora umidi che gli ricadevano sulla fronte.
    Era stato evasivo? Poteva darsi.
    Parlare con Tendou ultimamente lo faceva sentire scoperto, un animale braccato con le spalle al muro. 
    Ad ogni modo, “È stata una bella partita sì, ma non ho giocato bene oggi.” confessò senza guardarlo, sedendosi sulla panchetta di legno più vicina, per infilarsi scarpe e calzini. 
    Desiderava andarsene da lì il più presto possibile, in modo da raggiungere il ritiro degli under19 e poter tenere ancora occupata la mente con gli allenamenti, tuttavia fece appena in tempo ad avvertire il compagno di squadra muoversi di qualche passo alla sua sinistra, che all’improvviso se lo ritrovò seduto vicino, una gamba pallida tirata verso il petto, l’altra allungata sul pavimento in una posa alquanto scomposta. 
    Qualcosa gli diceva che non aveva alcuna intenzione di lasciarlo stare.
    “Per molti il tuo non giocare bene equivale alla miglior partita dell’anno, lo sai questo, vero?” sghignazzò, assottigliando gli occhi in un’espressione maliziosa. Nemmeno lui aveva asciugato i capelli, ma a differenza sua li aveva tirati tutti indietro, lasciando il viso spigoloso completamente scoperto, cosa che faceva risaltare le sue grandi iridi color carminio ancora di più. “Comunque, hai intenzione di dirmi cosa ti sta passando per la testa o vuoi continuare a emettere fumo dalle orecchie?”
    Wakatoshi corrugò la fronte e subito premette i palmi delle mani sui propri padiglioni auricolari, preoccupato. “Non sto emettendo fumo, ti sbagli. Sarà il vapore della doccia.”
    “È un modo di dire, Wakatoshi-kun, tranquillo. Si usa quando una persona appare talmente pensierosa e tesa da sembrare sul punto di esplodere. Sai, tipo… una pentola a pressione!”
    “Pensi che io stia per esplodere?”
    “Esplodere non lo so, ma sei turbato, questo è sicuro.”
    Il respiro di Wakatoshi inciampò. 
    Con gli occhi fissi sulle piastrelle lucide sotto i suoi piedi, rifletté sulle parole del suo compagno di squadra, sul modo in cui si stava sentendo dentro e fu come se, in un click, qualcuno avesse acceso una luce nella sua testa, permettendogli finalmente di vedere con chiarezza. 
    Era turbato, aveva ragione, quello era il termine adatto. 
    Avvertiva all’altezza del petto qualcosa di molto simile ad un peso che gli schiacciava le ossa e gli rubava il fiato dai polmoni, gli svuotava lo stomaco in un senso costante di vertigine e non gli permetteva di pensare con lucidità. 
    Era turbato, sì. 
    Era turbato, e mentre si rendeva conto di quella spietata verità, una parte di lui divenne anche drasticamente consapevole che l’episodio della sera prima non era stato affatto la causa scatenante di quello stato, ma semplicemente la goccia traboccante di un recipiente che aveva continuato a riempirsi, giorno dopo giorno, da quando aveva disputato la partita contro il Karasuno e Hinata Shoyo era piombato nella sua vita.
    Affondò il viso tra le mani, increspò le narici per permettere un maggior afflusso di aria. 
    “Stasera chiederò a Hinata Shoyo di andarsene.” disse quindi, lento, scandendo ogni singola parola perché dare voce a quel pensiero – scoprì- era più difficile di quanto si aspettasse.
    Tendou rimase in silenzio per circa un secondo, poi “Non ti importa più della sua incolumità?” chiese, atono.
    “Sì, mi importa, ma non posso averlo in casa mia, non funziona. Chiederò personalmente al coach di farlo andare via prima dagli allenamenti o di trovargli un alloggio nelle vicinanze. Pagherò tutto di tasca mia, se necessario.”
    “È una soluzione valida. Quello che mi chiedo è perché?”
    “Perché non funziona, te l’ho già detto.”
    “Non ha mai funzionato tra te e lui. Non ti piace, non lo hai mai nascosto. E lo sapevi benissimo quando hai accettato di ospitarlo. Cosa è cambiato? Avete litigato?”
    “Sì, anche. Ma non è questo il punto.”
    “E qual è il punto?”
    “Il punto è che…” Wakatoshi deglutì a vuoto, il cranio che ormai pulsava violentemente dal dolore “Il punto è che non mi piace quello che sono quando sono con lui.” si morse le labbra. Contro lo sterno, il suo cuore stava correndo troppo, troppo veloce “Lui… lui mi confonde. Mi fa pensare cose che non ho mai pensato, mi fa fare cose che non ho mai fatto, mi fa avere reazioni che non ho mai avuto. E non mi piace, non voglio. Non ho controllo quando sono insieme a lui, non riesco ad essere razionale. Sono… infantile.”
    Emise un respiro lungo, profondo, quindi ispirò tutto di colpo e ripeté il gesto, ancora e ancora. 
    Gli sembrava che ogni sillaba fuoriuscita dalla sua bocca avesse contribuito ad appesantire il macigno che gli stava gravando sul petto di almeno un grammo, cominciando ad incrinargli le costole. Sentiva la testa ovattata e greve allo stesso tempo, la gola secca, arida e nel cervello un groviglio di pensieri differenti che non faceva altro che allargarsi sempre di più - sempre di più- annebbiando ogni altra cosa. 
    Doveva liberarsene a qualsiasi costo, prima che lo mangiasse vivo, ma come fare? 
    Da dove iniziare?
    Quale era il bandolo della matassa?
    “Ed è una cosa così terribile?” 
    La domanda di Satori lo prese talmente in contropiede che Wakatoshi si voltò verso di lui con uno scatto simile ad una scossa elettrica, fissandolo interdetto per una buona manciata di minuti. “Sì… essere infantili è una cosa negativa…” fece, aggrottando le sopracciglia. Ci ragionò sopra un momento: da che ricordasse lui, non c’erano altre accezioni del termine infantile, non positive soprattutto, per cui l’intervento di Tendou era decisamente insensato.
    Eppure, “Certo, è una cosa negativa… se sei un adulto.” rispose il suo interlocutore, tranquillo, il viso che non tradiva alcun tipo di inflessione “Ma tu non sei un adulto, Wakatoshi-kun, hai solo diciotto anni. Ti è concesso essere infantile, ogni tanto.”
    “Non capisco che cosa intendi dire…” mormorò, incapace di individuare il filo logico del discorso.
    Vide le labbra di Tendou assottigliarsi leggermente, ma non per formare il solito ghigno sfrontato, bensì un sorriso più morbido, quasi dolce, che non gli aveva mai visto addosso. D’un tratto, si raddrizzò sulla panca, incrociando entrambe le gambe lunghissime su di essa, quindi si sporse un poco nella sua direzione, accorciando la distanza che li divideva e puntandogli addosso uno sguardo attento. 
    “Durante la partita contro la Karasuno, ti chiesi se il motivo per cui avevi paura di Hinata Shoyo, fosse che era così enigmatico per te, ricordi?” 
    “Sì, ed io ti risposi che non avevo affatto paura di lui.”
    “Allora perché stai scappando?”
    Wakatoshi si tese, neanche se un proiettile lo avesse appena trapassato da una parte all’altra. 
    “Io non sto scappando.” si affrettò a dire, tuttavia, si rese conto che la sua voce era terribilmente incerta.
    Se possibile, il sorriso di Tendou si arcuò, “Eppure è da quando lo hai incontrato che fai di tutto per tenerlo alla larga.” constatò, inclinando lievemente il viso “Ti ho visto affrontare avversari molto più difficili di Hinata. Spocchiosi che minacciavano di distruggerti, vigliacchi che giocavano sporco o cercavano di metterti pressione sussurrando insulti sotto rete, però tu hai sempre continuato per la tua strada, hai sempre pensato solo a te stesso, non ti sei mai lasciato toccare da niente e da nessuno. Cosa c’è di differente in lui?”
    “Io… io non lo so.“ fu l’unica risposta che riuscì a dare. 
    Quella conversazione stava cominciando davvero ad avvilirlo. 
    Non capiva dove il suo compagno di squadra volesse andare a parare, si sentiva sempre più perso e il peggio era che, più cercava di venire a capo di quella situazione, più sembrava che essa si ingarbugliasse e lo soffocasse tra le sue spire. 
    Era talmente preso da quel marasma di sensazioni che quando Tendou gli diede una sonora pacca sulla spalla, sussultò sul bordo della panca, non essendosi accorto che il compagno gli si era avvicinato. 
    “Io ti conosco da tre anni Ushijima Wakatoshi e ti ho osservato, ti ho osservato molto a lungo.” cominciò il ragazzo, guardandolo ancora una volta dritto negli occhi “Tu vivi per la pallavolo, il tuo intero universo ruota intorno a questo sport. E sei dannatamente bravo! Anzi, no! Sei il migliore! Molti giocatori professionisti arrivano al tuo livello di tecnica e di potenza solo dopo anni e anni di onorata carriera! Ma… forse non è tutto qui! Forse ci sono lati delle cose che ancora non conosci, che ancora non riesci a vedere! Quindi perché, invece di chiuderti nei confronti di Hinata Shoyo e cercare di allontanarlo, non provi a capire cosa c’è in lui che ti disturba tanto? Per quale ragione sembra essere l’unico, nell’intero universo, in grado di farti perdere il tuo prezioso equilibrio?” 
    A quel punto, Tendou si alzò con un saltello e prese a distendere fino all’inverosimile i suoi arti già lunghi e flessuosi per stiracchiare i muscoli. 
    All’improvviso però, ruotò di nuovo verso di lui con uno scatto brusco e tenendo le mani sui fianchi, gli rivolse un’occhiata così intensa che gli diede i brividi. 
    “Dà una possibilità al piccolino, Wakatoshi, credo che potrebbe sorprenderti ciò che scoprirai.”
    “E se ciò che scoprissi non mi piacesse affatto?”
    “Allora lo affronterai. Ma non imparerai mai a farlo, se ti allontani prima ancora di conoscere ciò che ti sta di fronte, non trovi? Certi muri possono proteggerci anche tutta la vita, se sono abbastanza forti. Ma barricarsi dietro ad essi e perdersi il resto del mondo… vale davvero la pena?”
    Anche Wakatoshi si sollevò in piedi e recuperò il borsone della palestra. 
    Il discorso di Tendou lo lasciava perplesso, confuso: nutriva forti dubbi sul fatto che dare una opportunità a Hinata Shoyo fosse una buona idea, d’altro canto però il compagno aveva ragione, fin quando non avrebbe capito perché il corvetto riuscisse ad avere quella strana influenza su di lui, non avrebbe mai saputo affrontarlo a dovere, né sul campo da pallavolo né tanto meno al di fuori di esso.
    Flash indistinti della finale persa contro il Karasuno lo colpirono a tradimento, come delle stilettate. Anche in quell’occasione – ricordava- Hinata Shoyo gli aveva fatto perdere il senno, l’autocontrollo e non desiderava ripetere l’esperienza né contro di lui né contro nessun altro. 
    Avrebbe capito l’errore, la falla nel sistema e non l’avrebbe commesso mai più.
    Mai più.  
    Pensieroso, afferrò la borsa della palestra e si incamminò, insieme a Satori, verso l’uscita. 
    All’improvviso, tuttavia, un dubbio lancinante lo fece bloccare sul posto. 
    “Non so se posso abbattere tutti i muri di casa, Tendou. Devo chiedere ai manager, ma credo proprio che così crollerebbe il soffitto.” 
    Tendou, poco davanti a lui, gli lanciò uno sguardo incerto al di sopra della propria spalla. 
    “Perché dovresti abbattere i muri di casa tua, scusa?”
    “Hai detto che non devo barricarmi dietro ai muri.”
    Tendou scoppiò in una clamorosa risata, dopodiché fece una giravolta intorno a lui per puntellargli le mani dietro la schiena e spingerlo di peso fuori dallo spogliatoio. 
    “Era un modo di dire, Wakatoshi-kun, non ci pensare! Andiamo adesso che ho una fame da lupi!”



    *****************


    Quando Wakatoshi entrò in casa quella sera, il sole era già tramontato da un pezzo e il cuore gli batteva così forte e così velocemente nella cassa toracica da sentirlo rimbombare perfino nelle tempie. 
    Chiuse la porta appoggiandosi di peso sulla sua superficie, inclinò la testa verso l’alto e socchiuse le palpebre. Sapeva bene quello che doveva fare, non aveva fatto altro che ripeterselo in mente durante il tragitto come una lezione di scuola, ma metterlo in pratica era più difficile di quanto volesse ammettere e, come se non bastasse, il peso sul suo petto sembrava essersi addirittura aggravato a mano a mano che procedeva verso la propria meta, divenendo solo più ingombrante. 
    Si passò una mano sulla fronte e lasciò cadere il borsone della palestra ai suoi piedi.
    Non appena avvertì il rumore di un video in riproduzione dalla cucina, si rese conto che una parte di lui aveva sperato ardentemente che Hinata fosse già andato a letto o fosse stato trattenuto al ritiro, perché tutti i suoi muscoli si tesero nel medesimo momento e avvertì una dolorosa fitta alla testa. 
    Ad ogni modo, si tolse le scarpe, strinse i pugni e si avviò, risoluto, verso la fonte del suono.
    “B-buonasera, Japan, b-ben tornato!” lo salutò il piccolino quando lo vide, non prima però di essere quasi saltato dalla sorpresa sullo sgabello su cui se ne stava appollaiato e aver fatto cascare le bacchette sul piatto, producendo un enorme fracasso. 
    “Buonasera Hinata.” ribatté solo Wakatoshi, con un cenno del capo. 
    Stava cenando guardando sul proprio cellulare il video di un allenamento, probabilmente una amichevole che avevano disputato al ritiro quello stesso pomeriggio, e accanto a sé aveva un foglietto pieno zeppo di disegnini e appunti scritti con una calligrafia alquanto disordinata. 
    Serrò la mascella; non gli era sfuggito affatto il modo in cui il piccolo si era messo sulla difensiva, non appena lo aveva visto entrare in cucina. Come sempre, il suo visetto da bambino non riusciva a celare alcun tipo di emozione, era un libro aperto, un libro dove il disagio che stava provando spiccava sulle pagine a caratteri cubitali. Non era soltanto intimidito da lui, era evidentemente intimorito. E se già questo aggravò il senso di colpa di Ushijima, causandogli dei crampi alla pancia, notare che nonostante ciò che era successo la sera precedente, il corvetto avesse addirittura apparecchiato un posto accanto a sé, come faceva ogni sera, rese quella sensazione a tratti insopportabile. 
    In una giornata normale, Wakatoshi non avrebbe fatto altro che ignorare il gesto, chiudersi nella sua stanza e uscirne solo quando fosse stato sicuro che Hinata non fosse più stato nei paraggi. Ma no – si disse-  se voleva seguire il consiglio di Tendou e imparare a gestire ciò che il ragazzino gli scatenava nel petto, doveva affrontarlo senza tirarsi indietro, per questo piantò bene i piedi a terra, prese un respiro profondo e “Devi smetterla di cucinare per me.” disse, lentamente.
    Hinata, che nel frattempo era tornato a mangiare e vedere la partita sul piccolo schermo del suo cellulare, alzò la testa verso di lui con le guance gonfie di cibo, l’aria perplessa. “Scusa, non stavo ascoltando! Puoi ripetere?” bofonchiò con la bocca ancora piena. Si affrettò a mettere in pausa il video, ingoiò tutto rischiando quasi di strozzarsi, quindi tornò a guardarlo, puntando i suoi occhi giganteschi nei suoi, diretti e curiosi. 
    Wakatoshi avvertì un brivido caldo attraversargli la schiena, però continuò. 
    “Devi smetterla di cucinare per me, per favore.” gli ripeté, secco. 
    A quelle parole, il volto del ragazzino si sciolse in un’espressione a dir poco abbattuta. Si strinse nelle proprie spalle ossute, abbassando la testa in una pioggia di ciocche arancioni ed emise una specie di sbuffo, simile a un singhiozzo. 
    “V-va bene, ho capito. Non ti disturberò più…” mormorò pianissimo.
    Wakatoshi si maledisse interiormente: perché sembrava che più cercasse di appianare la situazione più la complicava, urtando la sensibilità del ragazzino? Pensò ai programmi televisivi, alle discussioni tra i suoi compagni che ogni tanto gli era capitato di ascoltare in mezzo ai corridoi della scuola e si chiese per quale ragione per loro fosse così facile esprimersi e dialogare, mentre lui non capiva mai quando diceva una cosa sbagliata.  
    Doveva rimediare.
    Doveva rimediare subito. 
    “Non mi disturba che tu lo faccia. È che io non posso mangiare questo cibo.” si affrettò dunque a chiarire.
    Dall’altra parte, il viso di Hinata balzò verso l’alto con uno scatto, le ciglia trasparenti che sfarfallavano rapidissime in preda alla confusione. 
    “M-ma è tutto super leggero! Ho cercato le ricette su Google! Hanno solo duecento calorie, lo giuro!” ribatté, con tono ansioso. 
    “Questo è il problema. Io non ho bisogno di una dieta ipocalorica, duecento calorie sono davvero troppo poche per un pasto, anche per te.”
    “Anche per me?”
    “Sì, anche per te.” a quel punto, pressato dall’intensità dello sguardo con cui il ragazzino lo stava scrutando senza alcuna via di uscita, il giovane asso capì che non aveva altra scelta che spiegarsi “Sia io che tu svolgiamo una attività fisica molto serrata, a causa della quale perdiamo energia, sali minerali e simili. Il nostro pasto principale non può essere composto da sole duecento calorie, con nient’altro che verdure e riso in bianco poi, non è abbastanza. Porta soltanto stanchezza, non sazia e a lungo andare compromette le performance atletiche.”
    Hinata si morse le labbra, soppesando la questione “Quindi è per questo che mi sento sempre affaticato ultimamente… pensavo fosse il caldo…” rifletté ad alta voce, rigirando tra le bacchette un pezzetto di verza. 
    “Immagino di sì.”
    “E cosa dovrebbe contenere un pasto sano, allora? Google mi dice troppe cose diverse!”
    “Non lo devi cercare su Google, i nutritivi essenziali e, in generale, il fabbisogno di calorie variano da persona a persona e a seconda delle esigenze di ognuno. La mia dieta non può essere uguale alla tua perché il mio allenamento è molto più intenso e poi sono fisicamente più grande e pesante di te. Dovresti rivolgerti a un esperto.”
    “Oh, h- ho capito, grazie. Chiederò al sensei Ukai di darmi una mano, magari.”
    Ci fu un momento di silenzio, in cui però né lui né Hinata smisero di osservarsi. 
    Era la prima volta che scambiava con il corvetto più di una frase di senso compiuto e, soprattutto, era la prima volta che lo faceva senza lo scopo essenziale di sgridarlo o di allontanarlo da sé. 
    Probabilmente anche l’altro dovette aver intuito il sottile cambiamento nel suo modo di porsi, perché sembrava un po' più rilassato, un po' più aperto nei suoi confronti, sebbene, tuttavia, non avesse perso quel sottile velo di paura. 
    “Cosa mangi, quindi, di solito?” chiese d’un tratto il corvetto, con un filo di voce “G-giusto per avere un esempio, ecco… Però se non me lo vuoi dire non fa niente! Se preferisci andare in camera tua, va bene! Vai pure! I-io mi informerò per conto mio! Non voglio che ti arrabbi o-”
    “Non lo farò.” asserì Wakatoshi e non aveva mai provato tanta difficoltà nel pronunciare una semplice frase in vita sua. Si morse l’interno di una guancia. Ebbe la tentazione di abbassare lo sguardo, ma si trattenne “Mi dispiace per quello che è accaduto ieri sera, Hinata. Non dovevo urlare. Io non sono così…”
    Hinata parve visibilmente sorpreso di quelle scuse, però gli rivolse un sorriso timido e “Ma no, sono io ad aver esagerato! Non dovevo mettermi in mezzo… tanto più che mi sono anche fatto male!” disse, sciogliendosi poi in una risatina nervosa.
    “Non succederà mai più, Hinata, non perderò mai più il controllo.” 
    Wakatoshi non era sicuro se quella promessa fosse rivolta al piccolo corvo o a se stesso, ma mentre la proferiva, suggellandola attraverso gli occhi d’ambra in cui si stava specchiando, si sentì come investito dalla sua forza. Non si sarebbe più tirato indietro, non avrebbe più lasciato che quei sentimenti confusi e negativi prendessero il sopravvento su di lui, mettendo a soqquadro tutto il suo mondo. Avrebbe trovato una chiave, avrebbe cercato di capire, avrebbe studiato Hinata Shoyo e lo avrebbe finalmente neutralizzato.
    Allungando il braccio, afferrò il piatto che il piccolo aveva cucinato per lui, il tagliere di legno abbandonato sulla superficie della penisola, dopodiché rovesciò il suo contenuto su di esso. 
    “Il riso e le verdure vanno bene, ma servono soprattutto delle proteine e dei carboidrati.” cominciò, prima di prendere un piatto pulito più grande, lavarsi accuratamente le mani e ricomporre le pietanze, disponendone soltanto una piccola porzione su di un lato. “Le proteine sono soprattutto nella carne, nel pesce, ma anche nel tofu, ad esempio o nei legumi.”
    Si girò verso il frigo e cacciò un trancio di salmone dal colore vivace, insieme ad un avocado e una vaschetta di yogurt bianco, quindi si allungò verso il secondo cassetto accanto al lavello e ne estrasse tre tipi di spezie diverse. “È preferibile non abbondare con il sale, ma la paprika, il curry, la curcuma o le altre spezie aiutano ad insaporire e possono essere usate senza problemi.”
    “Wow! Ci sono un sacco di cose da sapere!” esclamò allora il ragazzino, con espressione estasiata “Non riuscirò mai a ricordarle tutte, ma mi piace tantissimo!
    “Posso aiutarti io a ricordarle.” 
    Le parole lasciarono la bocca di Wakatoshi, prima ancora che il suo cervello avesse il tempo materiale di riflettere seriamente su ciò che stava per dire. 
    Hinata si pietrificò sul posto, gli occhi sgranati dallo shock.
    “T-tu v-vuoi aiutarmi?” balbettò, incredulo.
    “Sì, posso aiutarti a cucinare le pietanze nel modo giusto. Ma sarà comunque necessario che tu ti rivolga a un professionista per quanto riguarda le quantità, la varietà del cibo, le allerg-“
    “Questo significa che mangerai insieme a me, d’ora in avanti?”
    Il cuore di Wakatoshi fece una capriola all’indietro. 
    In quel momento, Hinata lo stava fissando con una tale dose di speranza e di gratitudine e di genuina felicità stampata in quelle iridi di ambra lucida che lui se ne sentì sopraffatto. 
    Fu lì che lo avvertì, in un angolino remoto del suo essere, un meccanismo che si incrinava.
    All’improvviso si rese conto di star compiendo una scelta, una scelta molto precisa.
    Far entrare Hinata Shoyo nella sua vita, questa volta davvero. 
    E qualcosa gli diceva che ciò avrebbe cambiato tutte le carte in tavola.
    “Sì, mangerò insieme a te.” 
    La bocca di Hinata si distese in un sorriso bollente, come la luce del sole. 
    “Ne sono molto felice!” disse, entusiasta “Posso mangiare anche io il salmone? Ho una fame da lupi!”
    “Prendi un altro trancio dal frigorifero.”
    Sì, stava per cambiare ogni cosa.

    Il problema è che, spesso, la verità non è affatto la fine di tutto. 
    È solo il punto di partenza per una nuova serie di domande.
    Grey’s Anatomy





    NOTE AUTORE

    Ebbene sì amici, forse ci siamo! 
    Il fondo è stato toccato lo scorso capitolo e adesso, a Hinata e a Ushijima non resta che risalire! Non sarà una passeggiata, vi avviso. Provare a cambiare le proprie prospettive, soprattutto per una persona così rigida come Ushijima, non sarà affatto facile: l’impegno di cenare insieme può sembrare una sciocchezza, quasi un contentino, ma capite che per lui è un immenso passo avanti. 

    Il dialogo tra Wakatoshi e Tendou è una delle parti di questa long che non vedevo l’ora di scrivere! Avrete capito ormai che Satori Tendou è uno dei miei personaggi preferiti, nonché una delle chiavi di volta di questa storia e dell’introspezione di Ushijima. Credo che, da solo, Wakatoshi farebbe fatica spesso a comprendere determinate cose e abbia decisamente bisogno di una spintarella da parte di Tendou, che è un personaggio diretto, malizioso e intuitivo ai limiti del stregoneria! :P 

    Sono davvero curiosa di sapere le vostre opinioni!


    A presto, 
    Violet Sparks

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    Capitolo 8
    *** Un passo alla volta ***


    CAPITOLO VIII
    Un passo alla volta
     
     
    A volte la chiave per fare progressi
    è riconoscere come fare quel primo, semplice passo,
    poi comincia il tuo viaggio.
    Speri per il meglio e tieni duro, giorno dopo giorno,
    anche se sei stanco, anche se vorresti mollare.
    Nessuno ha mai detto che sarebbe stato facile.
    Grey’s Anatomy
     
     
     
    Wakatoshi ci mise un po' ad abituarsi all’idea di dover condividere i propri pasti con Hinata Shoyo, ma alla fine, lentamente, cominciò a prenderci la mano.
    Non era nient’altro che un allenamento – ripeteva a se stesso, in certi momenti particolarmente difficili- un esercizio da dover ripetere più e più volte per addestrare i muscoli e non accusare più lo sforzo. Ed effettivamente, dopo circa una settimana da quella famosa sera, Wakatoshi aveva notato che il senso di inquietudine che lo aveva sempre accompagnato quando il corvetto era nelle sue vicinanze, si era fatto un po' più… sopportabile.  
    Come aveva annunciato, Hinata aveva chiesto informazioni sull’alimentazione al coach della sua squadra, il quale aveva creato per lui una dieta specifica, consultandosi con un nutrizionista. Non mangiavano propriamente le stesse cose, ma di base le pietanze e le preparazioni erano simili, quindi il ragazzino aveva preso l’abitudine di aspettare che lui tornasse dall’allenamento, così da poter cucinare insieme.
    Quando Wakatoshi gli aveva fatto presente che era una premura del tutto innecessaria, Hinata gli aveva rivolto un sorriso timido e si era stretto nelle spalle.
    “Non è un problema per me aspettare. E poi, in questo modo, posso vedere come prepari i piatti e darti una mano!” aveva affermato, guardandolo da sotto le sue ciglia assurdamente lunghe.
    “Posso dirti a voce come preparare il cibo e non ho bisogno di aiuto, sono in grado di farlo da solo.”
    “Lo so che sei in grado di farlo da solo, ma in due è meglio, non credi?”
    Lì per lì, Wakatoshi aveva preferito non rispondere alla domanda.
    Era una credenza popolare piuttosto diffusa quella secondo cui affrontare gli oneri della vita insieme a due o più persone li facesse diventare magicamente più semplici, eppure lui non ci aveva mai creduto granché. Nel corso della sua esistenza, aveva sempre fatto tutto da solo, senza contare sull’aiuto di nessun’altro al di fuori di se stesso e non aveva mai avuto difficoltà rilevanti, ragion per cui non capiva perché la gente sentisse il bisogno di appoggiarsi agli altri per affrontare i problemi.
    Ad ogni modo, aveva accettato la proposta di Hinata nonostante le proprie rimostranze, intenzionato a rimanere fedele alla promessa che aveva fatto a se stesso e a Tendou di non chiudersi nei confronti del ragazzino e cercare di venirgli incontro.
    D’altronde, succedeva una cosa davvero bizzarra quando cucinava fianco a fianco a lui: ci mettevano sempre il doppio, se non addirittura, a volte, il triplo del tempo.
    Eppure, Wakatoshi non se ne accorgeva mai.
    “Devi tagliare le verdure in pezzi di uguale grandezza, altrimenti alcuni si bruceranno mentre altri rimarranno crudi.” lo riprendeva il giovane capitano, ad esempio, fermandolo poco prima che arrivasse a metà delle carote che aveva cominciato ad affettare sul tagliere di legno.
    “V- va bene!” si affrettava subito a rispondere il piccolo, annuendo rapido. A quel punto, di solito, esibiva un’espressione di concentrazione talmente intensa da risultare quasi buffa, faceva un respiro profondo e tentava di eseguire le direttive impartitegli da Wakatoshi con tutto l’impegno di cui era capace. “Così è giusto? Che dici?” esclamava non appena aveva finito, puntandogli addosso uno sguardo carico di aspettativa.
    “Sì, è giusto.” era la sua risposta atona “Ma le verdure vanno lavate e disinfettate prima di tagliarle, non dopo, altrimenti assorbono troppa acqua.”
    “D’accordo.”
    “E tieni meglio il coltello, rischi di tagliarti.”
    “In che senso?”
    “Impugnalo più giù, non al centro della lama.”
    “In questo modo?”
    “No, ti faccio vedere.”
    E così la scena si ripeteva, e si ripeteva ancora.
    Da una parte, Wakatoshi faceva le sue correzioni, gli mostrava nuove tecniche e metodi di preparazione, mentre dall’altra Hinata ascoltava rapito, attento come uno studente durante le lezioni, per poi cimentarsi nei vari compiti, mettendoci tutto quel fuoco e quella caparbietà che gli si confacevano finché, dopo numerosi tentativi, non arrivava al risultato desiderato.  
    Quando finalmente riuscivano a mettere entrambe le pietanze in tavola e sedersi uno accanto all’altro, sulla lucida penisola al centro della cucina, la notte oramai aveva già rinfrescato l’afa estiva e in giardino, i grilli avevano preso a intonare la loro metodica sinfonia al cielo scuro.
    Hinata, allora, prendeva il suo cellulare dalla sacca, lo appoggiava davanti ai loro piatti, in posizione orizzontale e faceva partire qualunque video avesse avuto modo di registrare quel giorno al ritiro. Per lo più si limitavano a guardarlo in silenzio, osservando le azioni, gli allenamenti o le partite tra un boccone e l’altro, ma i commenti del ragazzino – decisamente coloriti e più simili a delle esclamazioni casuali che a delle frasi di senso compiuto- non mancavano mai.
    “UFFAAA! Odio vedere Tsukki riuscire in qualcosa, ma quella battuta è stata pazzesca!”
    “WWWO! Che colpo micidiale! Hai visto?!”
    “Questa la devi vedere! SBEM, TUUUM! E adesso, ecco che arriva il BAAAMM!”
    Più Wakatoshi lo ascoltava più si chiedeva se parlassero la stessa lingua o ci fosse qualche forma di giapponese che non gli era stato insegnato alle elementari. Di sicuro, comunque, aveva smesso di intimargli di non gridare e cercare di mantenere un tono di voce dignitoso: ormai si era arreso al fatto che Hinata fosse chiassoso di natura e per quanto il suo senso del rigore bramasse sedare tutta quell’esaltazione immotivata, aveva capito che cercare di dosare il piccolo corvo era fatica sprecata.
    Al tempo stesso però, Wakatoshi doveva ammettere che dopo la violenta discussione che avevano avuto in giardino, anche l’atteggiamento del ragazzino nei suoi confronti era lievemente cambiato: non lo seguiva più dappertutto cercando di istaurare un rapporto, si sforzava molto più di prima a non fare rumore o a non lasciare le sue cose in giro per casa e, soprattutto, rispetto alle settimane precedenti, cercava di misurare i suoi modi, anche se non sempre riusciva nell’impresa.
    Si stava sforzando di essere più educato, meno distratto, non invadente.
    E, di conseguenza, Wakatoshi si sentiva vagamente più rilassato.
    “PUUAAA! Quella sì che era una schiacciata!” esclamava ancora, all’improvviso, riempiendo la stanza col fragore della sua risata e agitando le bacchette per aria.
    “Non parlare con la bocca piena, per favore.” lo rimproverava allora Wakatoshi, modulando la voce affinché il tono apparisse fermo ma non eccessivamente brusco.
    “Sì d’accordo, Japan!”
    Tornavano a mangiare in silenzio.
    Un sorriso morbido sulle labbra sporche del piccolo corvo.


     
    Wakatoshi era veramente stanco, quella sera.
    La palestra in cui si svolgeva il ritiro della nazionale under19 era stata chiusa per disinfestazione, quindi lui e gli altri ragazzi avevano dovuto svolgere l’allenamento sui campi all’esterno, posizionati in maniera tale da non essere esposti direttamente al sole, ma ugualmente tediati dalla intensa calura estiva. Già verso mezzogiorno la sua divisa stava grondando di sudore, aveva finito ben tre bevande energetiche e, intorno a lui, la maggior parte dei compagni aveva dovuto fermarsi e tornare nello spogliatoio per evitare di collassare sul circuito di atletica. Vista la situazione così tragica, nel primo pomeriggio, i coach avevano deciso di annullare l’allenamento e rispedire tutti a casa.
    “Procedere in queste condizioni sarebbe soltanto pericoloso, ragazzi! Tornate a casa, lunedì la palestra sarà pronta e potremmo recuperare il tempo perso oggi!”
    Wakatoshi aveva passato, sotto il getto d’acqua fresca della doccia, forse più di un quarto d’ora.
    Una volta tornato a casa, si era disteso sul letto senza maglietta, aveva ingurgitato una barretta proteica in soli due bocconi e aveva cercato di recuperare le energie perse, rilassandosi con uno degli shonen che Tendou gli prestava regolarmente, sorseggiando un tè freddo sotto il piacevole getto dell’aria condizionata.
    Si era perfino addormentato, ad un certo punto.
    Il problema era che, quando era stato svegliato dal rumore di Hinata che rientrava a casa e andava a farsi la doccia, non si era sentito affatto più riposato, anzi, la sua testa pulsava impietosamente dal dolore ancora peggio di prima. Aveva trovato la forza di trascinarsi in cucina e prepararsi qualcosa da mangiare soltanto perché sapeva che saltare i pasti non era una scelta saggia, tuttavia era stato quasi completamente assente, muovendosi tra i fornelli per pura e semplice inerzia.
    Mettere qualcosa sotto i denti, almeno, sembrava aver attenuato il senso di nausea.
    “Bevi questo…” proruppe d’un tratto una voce sottile alla sua destra, e Wakatoshi non poté impedirsi di sussultare sullo sgabello della penisola.
    Si voltò lentamente; era così stanco e provato da aver dimenticato che anche Hinata era lì, seduto a pochi centimetri da lui, intento a mangiare la sua cena. Mentre cucinavano, non aveva trovato le energie per controllare e correggere anche le sue preparazioni come faceva di solito, si era concentrato solo sul filetto di pesce che sfrigolava sulla griglia e non appena l’aveva considerato cotto, l’aveva impiattato insieme a qualche verdura e un po' di riso avanzato dalla colazione, che non si era nemmeno premurato di scaldare.
    Gettò un’occhiata dubbiosa verso il bicchiere che il ragazzino gli aveva allungato.
    Fumava leggermente e profumava di erbe.
    “Che cos’è?” chiese quindi Wakatoshi, incapace di individuare la natura dell’intruglio: sembrava una specie di tisana, ma non ne era troppo sicuro, tanto più che trovava alquanto singolare bere/prepararne una in pieno agosto.
    Alzò gli occhi sul ragazzino, il quale aveva la testa così bassa da poter toccare il piatto con la punta dei capelli. “È un infuso di foglie di menta, limone e rosmarino, me lo prepara sempre mia nonna.” mormorò, timidamente “È che sei pallido e ti sei toccato spesso le tempie… ho pensato che avessi mal di testa…”
    “Sì, ho mal di testa infatti.” confermò Wakatoshi  “Ma non era necessario che ti disturbassi.”
    A quel punto, il corvetto ruotò il viso nella sua direzione, le guance morbide appena sfumate di rosso, e gli rivolse un minuscolo sorriso. “Non è un disturbo! Mi fa piacere dare una mano! Sempre che funzioni, ovvio! A me fa subito meno male dopo che l’ho bevuto! Però insomma… adesso non lo so… forse un’aspirina sarebbe stata meglio! Sai, a me non piace molto prendere medicinali, quindi preferisco i rimedi naturali come questo! Ma se tu, invece, prefer-“
    “Va bene, grazie.” fece Wakatoshi, più per interrompere quella valanga infinita di parole che perché fosse convinto delle proprietà farmacologiche della bevanda.
    La sorseggiò piano, mentre finiva di cenare; quantomeno – constatò- aveva un sapore gradevole.
    Fu in quell’istante però che, senza alcun apparente motivo, si accorse di un piccolo particolare...
    “Non hai messo su uno dei tuoi video.” affermò ad alta voce “Non sei andato al ritiro oggi?”
    Hinata si girò verso di lui con le bacchette ancora in bocca, ingoiò in fretta e furia il proprio boccone e “No no, ci sono andato! Ma ho pensato che se avevi mal di testa magari non avevi voglia di sentirmi esultare, gridare e cose così…” rivelò, sollevando solo un angolo delle labbra.
    “Se è una cosa che vuoi fare, dovresti farla, a prescindere da me.”
    “Non sei abituato a ricevere molti gesti di cortesia, vero?”
    Wakatoshi ammutolì.
    No, in effetti non era abituato a ricevere cortesie da parte delle altre persone, soprattutto non cortesie fini solo a loro stesse, prive di un qualsiasi tornaconto individuale. La gente voleva sempre qualcosa da lui. Voleva il suo nome, la sua fama, il suo talento. Dare per ricevere, quella era regola. Una casa lussuosa per farlo vincere e accrescere il suo valore di mercato, la copertina di quello o di quell’altro giornale per ricavarne altro denaro, lettere d’amore e regali indesiderati per poter spendere il suo nome accanto al proprio sui social o per scatenare l’invidia degli amici, cure dai migliori medici del Giappone per rimetterlo presto sul campo e sfruttarlo ancora, ancora, ancora…
    Guardò Hinata Shoyo con la coda dell’occhio, mentre portava il bicchiere alla bocca per un sorso dell’infuso.
    Prima pensava che la sua gentilezza avesse lo scopo di convincerlo ad allenarlo, farlo diventare il suo kohai, ma ultimamente non aveva più quella sensazione, tanto più che il corvetto aveva smesso di menzionare la questione e di spiarlo maleducatamente durante le sue sessioni di preparazione.
    Che il suo obiettivo fosse cambiato?
    Che stesse cercando altro da lui?
    Il mal di testa, almeno, si era leggermente alleviato.
    “Posso farti una domanda?” proruppe all’improvviso il ragazzino, sempre con un filo di voce.
    Quella era un’altra faccenda che Wakatoshi trovava piuttosto ambigua: quando doveva dirgli qualcosa, Hinata spesso sembrava dover compiere uno sforzo immane per tirarsi fuori di bocca le parole, quando invece normalmente il volume della sua voce era di almeno una dozzina di decibel più alto di quello degli altri esseri umani. 
    Ad ogni modo, Wakatoshi annuì con il capo e rimase in attesa.
    “D-dove le hai imparate tutte quelle cose sull’alimentazione? Hai letto qualche libro?” chiese, rigirandosi le bacchette tra le mani con fare nervoso.
    Il giovane asso ci pensò su un momento, poi “No, nessun libro. Sono nozioni che ho assimilato nel corso del tempo.” rispose, tranquillo.
    “Assimilato… vuol dire che le imparate tutto da solo?”
    “Le ho imparate osservando e ascoltando.” precisò Wakatoshi “Prima avevo tre nutrizionisti diversi che si occupavano della mia alimentazione, perché ero in fase di sviluppo. Adesso non ne ho più bisogno dato che ormai ho imparato cosa devo mangiare, come e quando. Anche se, ovviamente, continuo a vedere un professionista due volte al mese per i controlli.”
    Hinata annuì in silenzio, ma non sembrava del tutto convinto da quella spiegazione, infatti aveva inclinato leggermente il capo verso la spalla e assottigliato le labbra in una espressione pensierosa.
    “D-da quanto tempo è che segui una dieta, Japan?”
    “Da quando avevo nove o dieci anni.”
    “DA QUANDO AVEVI NOVE O DIECI ANNI?!”
    L’urlo del ragazzino fu così intenso che non rimbombò soltanto tra le pareti della cucina, ma anche nella sua cassa toracica, da una costola all’altra. Wakatoshi lo fulminò con uno sguardo torvo quasi in automatico e tanto bastò al piccolo per tornare composto sul suo sgabello e raggomitolarsi su se stesso con aria desolata.
    Somigliava vagamente a un uccellino che si stringeva nelle ali per difendersi da una folata di vento.
    “Scusa… è solo che, wow! È davvero un sacco di tempo! Io la seguo solo da qualche giorno e ho sempre fame! Vorrei tanto una pizza! Mi sembra impossibile mangiare così tutta la vita!” disse, prendendo a torturarsi le dita in maniera nervosa “Come fai quando devi uscire con i tuoi amici? O – che so!- durante le festività?”
    “Non partecipo alle festività e non esco con nessuno.”
    “Giusto… in effetti, non ti ho mai visto uscire di casa se non per andare in palestra…”
    Wakatoshi intanto bevve l’ultimo rimasuglio di infuso e impilò i piatti sporchi uno sull’altro per prepararli a sciacquarli e metterli in lavastoviglie.
    Stava cominciando a renderlo un po' inquieto quella conversazione con Hinata; era la prima volta che si trovava a parlare con il ragazzino in quella maniera così aperta e confidenziale, rivelando perfino dettagli della sua vita privata. Il loro rapporto era diventato decisamente più civile rispetto ai primi giorni, quello era vero, tuttavia avevano sempre mantenuto le loro interazioni su un piano di mera educazione – saluti, frasi di circostanza, domande e risposte inerenti alla cena.
    Non sapeva esattamente come sentirsi di fronte a quella inaspettata intimità.
    Un po' lo innervosiva, un po' gli lasciava una strana sensazione di calore a fior di pelle.
    “Non ti manca mai qualche cibo in particolare? Tipo… quale è il tuo piatto preferito?” chiese quindi l’altro, poggiando i gomiti sulla superficie del tavolo e scrutandolo incuriosito da sopra i palmi congiunti.
    A Wakatoshi venne istintivo ritrarsi un poco d fronte a quello sguardo così diretto, però “Mi piace il riso Hayashi, lo cucino quando ho il weekend libero.” rispose, brevemente.
    “Oh! Niente male! È saporito! E i dolci invece? Non te ne piace proprio nessuno?”
    “No, non mi piacciono particolarmente.”
    “Davvero? Nemmeno le torte o i biscotti?”
    “No, davvero.”
    “Beh ma avrai almeno… un gusto di gelato preferito, no?”
    “Non me lo ricordo.”
    A quelle parole, Hinata si drizzò a sedere di colpo come se avesse ricevuto una frustrata dietro la schiena. Cominciò a sbattere le palpebre con una tale rapidità che gli fece spavento e la sua bocca piena si spalancò in un cerchio perfetto, da cui non sembrava nemmeno entrare e uscire ossigeno.
    “In che senso non te lo ricordi?” domandò infatti, senza fiato.
    “Che non me lo ricordo più, è passato troppo tempo.” rispose Wakatoshi, arrivando a retrocedere così tanto sullo sgabello da arrivare al limite e rischiare di cadere all’indietro.
    “Da quanto tempo è che non mangi un gelato, scusa?”
    “Da quando ero bambino.”
    Se possibile, gli occhi già giganteschi di Hinata si sgranarono ancora di più, prendendogli metà del viso.
    Era abbastanza sicuro che una cosa del genere potesse accadere solo nei manga, ma a quanto pareva si sbagliava di grosso.
    A quel punto, comunque, il suo livello di disagio aveva raggiunto il limite di sopportazione.
    Diede le spalle al ragazzino – ancora troppo shockato per ribattere- scese dallo sgabello e si avviò verso il lavello per buttarci dentro la pila di piatti sporchi. Non aveva più nemmeno voglia di prepararli per la lavastoviglie, lo avrebbe fatto nel corso della serata o anche il mattino dopo, l’unica cosa che contava davvero, in quel momento, era mettere un po' di distanza tra sé e il piccolo corvo.
    “Lascia, li metto io in lavastoviglie! Vai pure a riposare! Non volevo tartassarti con tutte queste domande!” affermò Hinata alle sue spalle. Non avrebbe saputo identificare quale fosse l’inflessione del suo tono di voce, ma non provò nemmeno a voltarsi per scoprirlo: desiderava solo raggiungere camera sua.
    “Non è necessario.” asserì tra i denti, dopodiché si avviò verso il corridoio senza nemmeno assicurarsi che il piccolo lo avesse udito o meno.
    Solo quando ebbe chiuso la porta, avvolto nell’oscurità della sua stanza, si accorse che non aveva più male alla testa.
     

     
    C’erano ancora delle gocce d’acqua incastrate tra i suoi capelli.
    Wakatoshi le sentiva indugiare sulla punta delle ciocche, in bilico a solleticargli la nuca, ma appena prima che potesse avere il tempo di scrollarle via, ecco che quelle si lasciavano cadere pigramente lungo la sua spina dorsale, vertebra dopo vertebra fino al coccige, inesorabili come spilli di pioggia. Avrebbe dovuto tamponarle con uno asciugamano, rimuoverle con l’aiuto di un phon, ma la verità era che anche dopo la lunga doccia fredda che si era concesso, aveva talmente tanto caldo che il solo pensiero di compiere movimenti futili lo spompava di ogni energia.
    Guardò il proprio riflesso nello specchio, lievemente opaco di condensa.
    Era difficile vederlo ad occhio nudo, ma al tatto avvertiva la mascella ruvida, segno evidente che avrebbe dovuto rifarsi la barba da lì a qualche giorno. Sospirò, annoiato. Aveva imparato a compiere quel gesto da poco – nonostante Tendou cercasse in tutti i modi di convincerlo a lasciarsela crescere, sottolineando come ciò avrebbe fatto impazzire le ragazze. Peccato soltanto che: a) Wakatoshi odiasse i peli superflui, gli davano un senso di disordine e, sudando, non facevano che irritargli la pelle; b) non aveva alcuna interesse nel piacere alle ragazze, anzi, già faceva fatica ad allontanarle normalmente, figurarsi se desiderava moltiplicare le loro attenzioni su di sé; c) in tutta onestà, non si fidava troppo del senso estetico di Tendou - tuttavia non aveva ancora raggiunto la manualità adeguata, motivo per cui finiva quasi sempre per graffiarsi e raschiarsi il viso con la lametta.
    Mentre si esaminava, venne colto da un pensiero improvviso, completamente illogico.
    Hinata Shoyo non aveva nemmeno un accenno di barba e, riflettendoci, la cosa non lo sorprendeva affatto.
    I suoi tratti erano ancora così infantili, così delicati.
    La sua pelle sembrava fatta di latte, Wakatoshi era certo che se mai avesse dovuto di nuovo toccarla, come quel giorno in ospedale, di sicuro si sarebbe disciolta tra le sue dita; ogni tanto si ritrovava a fissargli le spalle, quelle scapole sporgenti simili a delle ali che premevano per uscire, e si chiedeva come e quando si sarebbero manifestate, che forma avrebbero assunto, una volta che lo avessero fatto.
    La prima volta che l’aveva visto, aveva pensato che del corvo, Hinata, non avesse proprio niente: gli era sembrato più simile a un pulcino, un esserino indifeso e piccolo che pigolava alla ricerca di attenzioni.
    Ma poi gli aveva rubato la palla – sfrontato, incosciente- e nello sguardo fermo che gli aveva rivolto ci aveva visto dentro la fame onnivora di quegli uccelli, neri come una notte priva di stelle.
    Scosse la testa, afferrò i pantaloncini puliti che aveva preparato sullo sgabello e li indossò in fretta.
    Odiava avere quel genere di pensieri, farsi cogliere di sorpresa da loro, soprattutto perché gli lasciavano dentro una sensazione bizzarra, una specie di formicolio latente.
    Un formicolio che non sapeva mai del tutto come arginare. 
    Aprì la porta del bagno di scatto, intenzionato a tornare in camera propria e distrarsi con qualche rivista, invece si ritrovò Hinata Shoyo piantato di fronte a sé, capelli appiccicati alla fronte da una lieve patina di sudore, bocca morbida leggermente schiusa per la sorpresa.
    Wakatoshi poteva comprenderlo: anche lui si era spaventato, vedendoselo apparire davanti così all’improvviso. Spesso, la domenica mattina, Hinata vedeva i suoi amici della Karasuno o tornava dalla sua famiglia nel Kento, senza rincasare prima del tramonto, per cui, non avendolo visto in casa quando era tornato dalla sua sessione di jogging, Wakatoshi aveva dato per scontato che il piccolo non si sarebbe ripresentato fino a sera.  
    Ad ogni modo, “Ciao J-Japan!” lo salutò quello, con voce piuttosto malferma.
    Aveva il viso di un rosso accesso e le pupille sgranate che un po' fissavano il suo addome nudo e un po' rimbalzavano per tutto l’ambiente circostante. Wakatoshi lo trovò un comportamento alquanto curioso, ma dato che ormai stava cominciando a soprassedere sulle sue stravaganze, si infilò velocemente la maglietta da sopra la testa e “Ciao Hinata.” affermò a sua volta, per poi superarlo e dirigersi verso camera sua.
    “A-aspetta!” lo fermò però il piccolo, prima che potesse compiere un altro passo.
    Wakatoshi si voltò verso di lui, in attesa.
    “H-hai da fare adesso?”
    “No, perché me lo chiedi?”
    “Potresti venire con me in cucina, per favore?”
    Per un secondo, il solito istinto di rifuggire le attenzioni del ragazzino gli gridò in testa, minacciando di prendere il sopravvento, ma il giovane asso serrò la mascella, rilassò i muscoli e lo zittì seduta stante. “Va bene.” disse brevemente, quindi si incamminò insieme a lui, in silenzio.
    Mentre si accomodava sullo sgabello della penisola, notò che Hinata sembrava parecchio teso, al punto da torturarsi le dita fra di loro più del solito, dettaglio che scatenò anche nelle sue viscere un certo nervosismo considerando che non capiva il perché di quella misteriosa e inaspettata richiesta.
    La negatività del presentimento si rafforzò quando vide che il corvo non si sedette accanto a lui come d’abitudine, ma gli si piazzò di fronte, dall’altro lato della lucida superficie di marmo.
    A dividerli, cinque recipienti di polistirolo bianchi, non meglio identificati, impilati in una torretta ordinata.
    “Ho comprato una cosa per te!” esordì dunque il piccolo, facendo strisciare verso di lui i suddetti recipienti.
    “Grazie, ma non so cosa farmene del polistirolo.” fu la celere risposta di Wakatoshi.
    “Cosa? No, no! Non sono le vaschette il regalo! È quello che c’è dentro!”
    “E cosa c’è dentro?”
    Hinata allora accennò un piccolo sorriso, mise i recipienti uno accanto all’altro, allineandoli con estrema cura, dopodiché tolse i coperchi ad ognuno di essi, rivelando il loro contenuto.
    Contenuto che lasciò Wakatoshi completamente di sasso.
    Di fronte ai suoi occhi perplessi, infatti, si stagliava una varietà – ma soprattutto una quantità!- davvero spropositata di gelato.
    “Non capisco.” sbottò senza riuscire a trattenersi oltre “Ti ho detto che non mi piacciono i dolci. E poi non posso mangiare tutto questo gelato, mi farebbe male.”
    “Non lo devi mangiare tutto! È solo per fartelo assaggiare!” ribatté subito Hinata, con le iridi brillanti quanto due stelle della volta celeste.
    “Continuo a non capire…”
    A quel punto, Hinata si morse le labbra, scrollò le spalle e spalancò le braccia, proprio come fossero due ali.
    “L’altro ieri hai detto che non ricordavi più quale fosse il tuo gusto di gelato preferito, no? Beh, sono andato nella gelateria più grande della prefettura di Miyagi, dove hanno tutti i gusti del mondo, perfino quelli più occidentali e ne ho presi un po'! Così puoi assaggiarli e scoprirlo!”
    Wakatoshi rimase semplicemente immobile, incapace di partorire un qualsivoglia pensiero coerente. Hinata lo aveva preso così tanto alla sprovvista che non sapeva nemmeno che reazione avere, se alzarsi e chiudersi in camera, accettare di buon grado l’offerta oppure rimanere lì, come una statua, a non fare un accidenti, nella speranza che l’altro cambiasse idea e se ne andasse da solo, portando tutto quel gelato inutile con sé.
    “Quanto hai speso per tutto questo gelato?” chiese intanto, con le orecchie che ronzavano fortissimo.
    “Pochissimo in verità! Avevo accumulato un buono sconto con i punti del supermercato!”
    “Ma… perché è così importante che io abbia un gelato preferito?”
    Hinata parve rifletterci su un momento e “Non c’è un perché, è solo che mi sembra triste che una persona non abbia un gusto del gelato preferito!” disse, sbattendo quelle sue maledette ciglia lunghe e fitte “Dai, che ti costa fare un tentativo? Anche se non ti piace, almeno avrai fatto una cosa nuova, che non facevi da tanto tempo!” concluse, per poi sventolargli un cucchiaino davanti alla faccia.
    Wakatoshi spostò il peso sullo sgabello, si morse l’interno di una guancia.
    Aveva la netta impressione che l’opzione in cui Hinata desisteva e lo lasciava ritornare nella sua stanza non fosse affatto contemplata, quindi l’unica via di uscita era quella di prestarsi a quell’insolito esperimento e farla finita il più presto possibile.
    Afferrò il cucchiaino, incerto, ed avvicinò a sé la prima vaschetta di gelato.
    Avevano tutti dei colori sgargianti ed un aspetto cremoso, inoltre da essi si librava una patina trasparente di aria gelida, in contrasto con l’intensa calura estiva. Immerse soltanto l’estremità del cucchiaino in una delle fascette, quella color rosa sgargiante, prelevò un po' di prodotto e lo portò alle labbra: il sapore intenso e vagamente aspro della fragola gli invase il palato in un batter d’occhio.
    Doveva ammettere che era piacevole, ma soprattutto gradevolmente rinfrescante, tanto che portò Wakatoshi a chiedersi perché – nonostante talvolta fosse stato inserito nella sua dieta- avesse sempre rinunciato a mangiarlo, contro il caldo asfissiante di quei mesi.
    Ripeté il gesto cinque, sei, dieci volte, tanti quanti erano i gusti contenuti nelle vaschette bianche.  
    Onestamente alcuni gli piacevano molto meno di altri, tuttavia si assicurò di saggiare anche quelli con la dovuta attenzione, il tutto sotto l’occhio vigile e curioso del corvetto ancora piantato di fronte a sé, il cui viso era increspato in una smorfia concentrata, il labbro inferiore stretto tra i denti bianchissimi.
    Al termine del suo esame, ripose il cucchiaino e sospirò.
    “Dunque?” chiese subito Hinata, quasi saltellando sul posto.
    Wakatoshi storse la bocca, ci pensò su ancora un momento, poi “Questo qui.” sentenziò serio, indicando con l’indice un gusto preciso.
    La reazione di Hinata non fu affatto quella che si aspettava: il ragazzino aggrottò la fronte e strabuzzò gli occhi nella sua direzione, neanche se avesse appena pronunciato la più scabrosa delle imprecazioni.
    “Scusa, non credo di aver capito…” disse, esitante “A te piace questo qui?”
    “Sì, esatto.”
    “Forse ti stai confondendo, i colori sono simili!” afferrò un’altra vaschetta e la piazzò proprio sotto il suo naso, davanti a quella che conteneva il gusto scelto da lui “Magari intendi questo!”
    Wakatoshi inclinò il capo, confuso, ma fece comunque un tentativo: riassaggiò entrambe le opzioni - effettivamente di colori molto, molto somiglianti- le assaporò con calma, poi “No, sono sicuro.” confermò, annuendo “È questo qui il gusto che mi piace.”
    A quelle parola, la faccia di Hinata si trasformò in una tale maschera di teatrale sbigottimento che quasi lo spaventò. “Japan, tu mi stai dicendo che in un mondo in cui esiste il gelato al cioccolato, alla vaniglia, alla fragola e altre succulente meraviglie… a te piace il gelato al limone! Al limone! Cioè, andiamo! Non lo volevo nemmeno fare mettere, lo ha inserito la commessa per una questione di… completezza!” sbraitò Hinata, senza nemmeno riprendere fiato, le guance rosse come due pomodori maturi.
    “Non capisco, cosa c’è di sbagliato nel gelato al limone?” chiese allora Wakatoshi, vagamente traumatizzato dalla piega che stava prendendo quella già bislacca situazione.
    “È aspro!” esclamò Hinata, con le mani al cielo “I ghiaccioli al limone sono buoni, okay! Ma il gelato non può essere al limone! Deve essere a cioccolato, a vaniglia! Una cosa dolce!”
    “Non mi piacciono le cose dolci, mi piacciono le cose… aspre, sì.” affermò Wakatoshi, deciso più che mai a difendere la propria scelta.
    A quel punto Hinata si grattò la testa e prese a osservare la vaschetta del gelato incriminata con aria titubante. La fissò al lungo, come se di punto in bianco qualcosa avesse potuto schizzare fuori da quella crema giallo tenue e rivelargli il segreto che si nascondeva al suo interno, finché all’improvviso non afferrò il cucchiaino pulito che aveva abbandonata sulla tavola, ne prelevò giusto uno sbaffo e se lo cacciò in bocca.
    “Oh cavolo!” riuscì soltanto a bofonchiare prima che la sua intera faccia venisse risucchiata in una smorfia sofferente “Mi si stanno intorpidendo le guance!” si lamentò ancora, cacciando la lingua e scuotendo la testa.
    Era davvero buffo. Sembrava uno di quei personaggi strampalati dei cartoni animati per bambini; si agitava, strizzava le guance, scuoteva le braccia e intanto emetteva stridule maledizioni verso chiunque avesse inventato quel tipo di gelato per lui inconcepibile, neanche se quello avesse potuto ascoltarlo sul serio, ovunque si trovasse nel mondo.
    Continuò la sua predica sul gusto limone ancora per un po' di tempo, adducendo motivazioni sempre più strane e colorite alla sua teoria dei dolci… almeno finché casualmente non si voltò proprio verso Wakatoshi e all’improvviso si bloccò.
    Wakatoshi si raddrizzò sullo sgabello, allarmato da quel repentino cambio di umore.
    Era quasi inquietante. Sembrava che qualcuno avesse appena preso Hinata e avesse cliccato sul tasto di spegnimento, era come pietrificato, con le braccia ferme a mezz’aria, gli occhi d’ambra sgranati nella sua direzione e la bocca dischiusa, appena lucida di saliva.
    “Perché mi stai fissando?” non poté fare a meno di chiedere il giovane asso, dopo altri infiniti secondi di inesplicabile e imbarazzante silenzio.
    Notò che Hinata riacquistava vita lentamente, deglutì, muovendo su e giù la curva della gola e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi.
    Riuscì appena a scorgere la sua pelle assumere una intensa sfumatura rosata all’altezza degli zigomi, prima che quello abbassasse il capo in una pioggia di ciocche arancione.
    “È… è che è la prima volta…” mormorò, talmente piano che Wakatoshi fece fatica a sentirlo.
    “La prima volta di cosa?”
    “È la prima volta che mi sorridi, non lo avevi mai fatto prima…”
    Wakatoshi trasalì e si toccò le labbra.
    Non se ne era nemmeno reso conto, ma era vero, poteva sentirlo ancora sotto le dita, il fantasma di un sorriso leggero ancora incastrato tra le sue labbra.
    Hinata Shoyo aveva ragione, era la prima volta che succedeva.
    La prima volta dopo tanto tempo.   
    Aveva quasi dimenticato di saper sorridere.
     
     
     




    NOTE AUTORE
    1. Kohai è un termine giapponese che indica un discepolo, qualcuno che viene preso sotto la ala protettiva di un mentore, chiamato senpai.
    2. In realtà il gelato artigianale, in Giappone, non è un alimento consumato così come in Italia. I Giapponesi, infatti, sono soliti acquistare quelli confezionati, anche perché i gelati in vaschetta così come li compra Hinata nella scena hanno un costo abbastanza elevato.
     
    Questo è uno dei capitoli che non vedevo l’ora di scrivere, lo ammetto.
    Dopo tanta tensione, il percorso di Hinata e Ushijima sta cominciando! E anche se non è facile trovare subito una sintonia, entrare e fare entrare in intimità una persona, almeno possiamo vedere i primi, timidi passi.
     
    Sottolineo che non ho niente contro il gelato al limone! AHAHAH semplicemente ho questo headcanon secondo cui a Ushijima piacciono le cose particolarmente aspre e non preferisca, invece, i dolci! Come state vedendo, a mano a mano Ushiwaka sta scoprendo delle cose nuove di sé, ma anche noi stiamo scoprendo piccoli frammenti della sua vita e del suo passato. L’approfondimento di questo personaggio non è affatto facile alle volte, ma è sempre molto stimolante da immaginare/raccontare!
    Spero vi stia piacendo la sua costruzione!
     
    A presto
    Violet Sparks

     
     
     

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    Capitolo 9
    *** L'ospite inaspettato ***


    CAPITOLO IX
    L’ospite inaspettato
     

    Alla fine, sono gli incidenti la parte più interessante della giornata, della vita.
    Le persone che mai ci saremo aspettate di vedere,
    gli avvenimenti che mai avremo scelto di vivere.
    E all'improvviso ti ritrovi in un posto in cui
    non ti saresti mai aspettato di stare.
    A volte è bello.
    A volte ti ci devi solo abituare.
    Grey’s Anatomy

    Altri giorni passarono, uno dietro l’altro, in un modo che Wakatoshi non si sarebbe mai aspettato davvero.
    Era diventato più facile vivere insieme a Hinata Shoyo, come un ingranaggio che, dopo i primi faticosi istanti di rodaggio, avesse finalmente trovato un ritmo suo di funzionare, una maniera di diventare parte integrante del sistema.
    Non lo sorprendeva più sentire il rumore dei suoi piedi perennemente scalzi che si muovevano, rapidi, lungo il parquet del corridoio. Non lo sorprendeva più trovarlo ad attenderlo in cucina, quando rientrava la sera dal suo allenamento, pronto a preparare insieme la cena. Non lo sorprendeva più il suo tono di voce troppo alto, la lingua sconosciuta delle sue esclamazioni. Non lo sorprendeva più la sua risata chiassosa, il suo disordine, il leggero tepore che sembrava irradiarsi dalla sua pelle quando mangiavano gomito a gomito, l’agitarsi frenetico delle sue braccia sottilissime per cercare di esprimere un pensiero difficile, l’odore del suo stesso shampoo incastrato tra le ciocche di quei capelli assurdamente arancioni.
    Lo sguardo no, era una cosa a cui Wakatoshi non era ancora riuscito ad abituarsi.
    Quando Hinata gli premeva addosso quelle iridi espressive e limpide, di chi non aveva mai avuto un solo pensiero cattivo nella sua esistenza, avvertiva ancora un brivido freddo scivolargli lungo la spina dorsale. D’altra parte, però, non sentiva più il bisogno impellente di scappare dalla parte opposta dell’universo, e questo, alla fine, costituiva un innegabile passo avanti.
    Perfino le loro interazioni erano diventate più… spontanee.
    Non che potessero definirsi conversazioni amichevoli nel senso stretto del termine, simili a quelle che Wakatoshi, ogni tanto, si era trovato ad ascoltare negli spogliatoi, tra i suoi compagni di squadra. Erano sempre brevi, un po' superficiali, composte più che altro da rapidi botte e risposte, però riempivano il silenzio quanto bastava a sgretolare l’imbarazzo e, in un certo qual senso, non gli procuravano nemmeno più lo stesso grado di fastidio delle settimane precedenti.
    “Che musica ti piace?” gli chiedeva ad esempio Hinata, all’improvviso, le sopracciglia chiare aggrottate come se quella appena porta, fosse stata una domanda di vitale importanza.
    “Non ne ascolto molta.” era stata la risposta atonale di Wakatoshi.
    “Nemmeno durante gli allenamenti? La musica giusta può darti la carica, sai!”
    “Non ne sento il bisogno.”
    “Ok, va bene… Ma quelle rare, rarissimissime volte in cui la ascolti, che musica ti piace?”
    “Il pop mi sta bene, credo.”
    Il giorno dopo, Hinata gli aveva inviato il primo messaggio WhatsApp da quando si erano scambiati i numeri di cellulare, contenente le istruzioni per attivare un mese di prova gratuito su Spotify e una playlist denominata ‘Workout’.
    Wakatoshi non glielo aveva detto, ma il suo allenamento era durato un’ora in più del normale sotto la spinta potente e ritmica dei bassi delle canzoni in riproduzione nelle sue orecchie.
    “Secondo te, chi è il miglior giocatore della Karasuno?” proruppe un’altra volta, completamente dal nulla.
    Il giovane asso aveva ingoiato il boccone di pollo che teneva in bocca, poi “Non mi piace la tua squadra, ha un modo di giocare che trovo avventato e pericoloso.” aveva risposto, schietto come suo solito.
    Il problema era stato che, lanciando una rapida occhiata al ragazzino alla sua destra, aveva appurato sul suo viso un misto di disappunto e dispiacere così nitido che il senso di colpa lo aveva trapassato da una parte all’altra, più crudele di una pugnalata. “Però avete dei giocatori… validi.” si era affrettato quindi ad aggiungere, prendendo tra le bacchette un altro pezzo di pollo.
    Ultimamente stava imparando un’arte che aveva trascurato a lungo nel corso della sua vita: la diplomazia. Essere diretti andava bene – come gli diceva sempre anche Tendou- mentire, d’altronde, non portava mai a niente di buono, però dosare le parole per non risultare scortese o ferire i sentimenti altrui era un gesto di buona educazione tanto quanto lo era inchinarsi durante un saluto, e Wakatoshi ci aveva sempre tenuto particolarmente a non risultare incivile o sfacciato.
    Certo, non aveva molta dimestichezza con lo spettro delle emozioni umane, motivo per cui non gli era sempre facilissimo capire come e perché un determinato commento potesse risultare spiacevole. Fortuna però che Hinata Shoyo lasciava trapelare qualsiasi emozione neanche se la sua cute fosse stata trasparente, cosicché era abbastanza agevole intuire il tenore dei suoi pensieri.
    “Giocatori validi? Chi ad esempio?” aveva incalzato dunque, il ragazzino.
    “Non lo so… il vostro capitano, Sawamura, ha l’aria di essere una persona equilibrata.” aveva risposto Wakatoshi, sforzandosi con tutto se stesso di trovare qualche lato positivo in quella squadra così lontana dalla sua concezione di gioco “E quel centrale, il numero undici, è intelligente e freddo. Con un allenamento fisico intensivo e mirato potrebbe diventare un giocatore decente.”
    “Parli di Tsukishima! Sì, maledetto! È un cervellone! Sa un sacco di cose ed è anche bravo a scuola!” aveva esclamato Hinata tutto d’un fiato, posando le bacchette sulla sua ciotola ormai vuota e agitando le braccia al cielo “È super antipatico e mi fa sempre arrabbiare… però è bravo, è vero! Quando è riuscito a murare una delle tue schiacciate, io non ci potevo credere! Tutto il palazzetto è esploso, te lo ricordi?!”
    L’asso non aveva potuto fare a meno di fulminare Hinata con un’occhiataccia gelida, ma tutto ciò che aveva ottenuto da lui era stato un lieve rossore imbarazzato sulle sue guance e un sorrisetto gongolante, malamente nascosto dietro ad un bicchiere d’acqua tattico, bevuto al momento opportuno.
    Era in occasioni come quelle che Wakatoshi si rendeva conto di quanto effettivamente stessero cambiando le cose tra di loro, in che misura stesse permettendo a quel ragazzino tanto molesto quanto luminoso di avvicinarsi a lui.
    E che tale consapevolezza non gli faceva più tanta paura.
     
    ***

    Wakatoshi srotolò l’asciugamano che aveva annodato sui fianchi, tirò indietro i capelli ancora umidi dalla fronte, dopodiché si infilò una maglietta e un pantaloncino semplici, da casa, pescandoli a casaccio tra i vari indumenti nel cassetto. Si grattò la testa e, con fare distratto, gettò un rapido sguardo al borsone da palestra aperto sul letto, ormai quasi riempito: si era portato avanti con il lavoro, riponendo già la maggior parte dell’occorrente nella borsa, sebbene avesse, in effetti, tutto il pomeriggio per prepararla.
    Il giorno seguente, la nazionale under19 avrebbe affrontato una amichevole molto importante contro la Polonia, l’ultima partita di allenamento prima di cominciare le selezioni ufficiali per i mondiali del 2022.
    C’era grande trepidazione nell’aria, per cui il team tecnico aveva dato a tutti il pomeriggio libero, terminando gli allenamenti poco dopo pranzo, così da dare ai ragazzi l’agio di svuotare la mente e prepararsi psicologicamente al match dell’indomani.
    Wakatoshi intendeva seguire la direttiva ovviamente – arrivare stanco ad una partita era soltanto controproducente- ma dato che non conosceva altro modo per rilassarsi se non correndo su un tapis roulant per non meno di un paio d’ore, aveva deciso di preparare tutto in anticipo e rimanere in palestra quanto più possibile.
    Mentre tirava fuori l’uniforme dall’armadio, con l’altra mano agganciò il bluetooth del cellulare alle cuffiette che aveva acquistato da poco su Amazon. Stranamente, non riusciva più ad allenarsi senza la musica che gli rimbombava nelle orecchie, che gli dava il ritmo e la carica per spingere durante gli esercizi più duri. Si era perfino salvato un po' di playlist che gli piacevano e contava di crearne una lui stesso con i pezzi che considerava più forti: funzionava davvero bene Spotify!  
    Prese a ripiegare la divisa con cura, in modo che non si stropicciasse troppo una volta inserita nel borsone insieme al resto dell’attrezzatura, peccato però che, di lì a poco, si ritrovò ad imprecare sottovoce quando fu il turno di infilare la maglietta: poco sotto l’ascella, uno strappo di circa dieci/quindici centimetri faceva bella mostra di sé.
    Sapeva perfettamente quando era successo. Durante il precedente incontro, mentre si librava in volo per una schiacciata, aveva sentito il tessuto stracciarsi appena sotto il braccio sinistro, teso in aria.
    Dannazione! Non aveva il tempo di ordinarne un’altra per la partita e di certo non avrebbe potuto presenziare in quelle condizioni incresciose. Magari avrebbe potuto chiedere come fare a qualche compagno di squadra, ma non aveva il numero di nessuno di loro e sapeva già che rivolgersi alla sua equipe equivaleva soltanto a scatenare un putiferio.
    I suoi pensieri vennero interrotti bruscamente dal suono del campanello.
    Si accigliò ancora di più – non aspettava nessuno, chi mai poteva essere? Hinata aveva una copia delle chiavi ed era alla Shiratorizawa, Tendou era fuori città coi genitori e Nana era solita mandare un messaggio prima di passare- tuttavia si avviò lo stesso verso la porta.
    Non appena la aprì, rimase così interdetto da non riuscire a pronunciare una singola parola.
    Innanzi a lui vi era una donna di media statura, dai capelli scuri e corti, talmente lisci da luccicare nonostante la luce tenue del pomeriggio. Era vestita in modo semplice, ma con un certo gusto nell’accostamento dei calori, sembrava alquanto giovane e nel complesso aveva un’aria garbata, genuina, sfoggiava un sorriso gentile sul volto magro e i suoi occhi erano…
    Un momento, perché quegli occhi gli erano così famigliari?
    “Ciao, tu devi essere Ushijima Wakatoshi! Io sono Hinata Misaki, la madre di Shoyo. È in casa?” proruppe quella, con voce squillante, prima di piegarsi in un piccolo inchino nella sua direzione.
    Wakatoshi corrugò la fronte e ruotò il capo, leggermente frastornato dalla rivelazione dell’identità della signora alla sua porta, “Buonasera, sì sono Ushijima Wakatoshi. No, Shoyo non è qui al momento, rincaserà verso le sette.” cominciò almeno a dire, giusto per non rimanere lì, muto come un pesce, e prendere tempo per decidere sul da farsi.
    La madre di Hinata… che cosa ci faceva lì?
    Hinata sapeva che sarebbe venuta?
    E se sì, perché non lo aveva avvisato?
    Comunque, stava per compiere un inchino a sua volta, quando all’improvviso, qualcosa di non meglio identificato si aggrappò all’orlo dei suoi pantaloncini, strattonandolo un paio di volte.
    Wakatoshi abbassò il capo: non l’aveva vista subito perché gli arrivava a stento alle ginocchia, ma accanto alla donna vi era una bambina, una bambina che somigliava talmente tanto a Hinata da non lasciare alcuna ombra di dubbio sul loro grado di parentela.
    “Wao! Sei gigantesco!” urlò la piccola non appena incrociò il suo sguardo, osservandolo dal basso con un’espressione estasiata così simile a quella del fratello da fare impressione. Doveva avere all’incirca cinque o sei anni, aveva i capelli della stessa tonalità arancione di Hinata, pettinati in due vaporosi codini e portava un vestitino celeste con le paperelle gialle che metteva in risalto la sua carnagione candida.
    “Natsu! Sta’ buona, non dare fastidio!” la riprese la signora Hinata, cercando di riportarla vicino a sé.
    Non ci fu verso; la bambina scostò facilmente la mano della madre e si arpionò di nuovo all’orlo della sua maglietta, prendendo a saltellare per attirare la sua attenzione – come se ce ne fosse stato bisogno…
    “Tu sì che sei un giocatore di pallavolo! Mica come Shoyo che è un tappetto!”
    “Natsu! Non si dicono queste cose!”
    “Ma è vero, mamma! Uffa!”
    “Fai la brava, andiamo! Siamo venute qui soltanto per…”
    “Signor Ushijima fammi salire! Fammi salire! Dai, ti prego! Fammi salire lassù!”
    In un primo momento, Wakatoshi squadrò la piccolina, non capendo assolutamente che cosa volesse da lui, tuttavia, quando quella lasciò la presa sui suoi pantaloncini e protese le manine paffute verso di lui, intuì finalmente che desiderava essere presa in braccio.
    La fissò a lungo, stranito.
    Non voleva assolutamente fare una cosa del genere.
    Non aveva mai preso in braccio un bambino, anche perché non aveva molte occasioni per avere a che fare con esseri umani di quell’età e di quelle dimensioni nel suo quotidiano. Aveva paura di farle male, di farla cadere, magari di afferrarla nella maniera sbagliata.
    E poi, sopra ogni cosa, detestava l’idea di tenere una persona così vicino a sé, già il fratello, Shoyo, stava mettendo a dura prova quel lato del suo carattere!
    D’altra parte, però, che fare?
    Gli sembrava davvero sgarbato rifiutare, soprattutto davanti alla madre che continuava a guardare la scenetta, un po' desolata e un po' divertita dalla richiesta della figlia, per cui, alla fine Wakatoshi cedette e prese la bambina per le ascelle.
    La sistemò in modo che si aggrappasse alle sue spalle e potesse sedersi sul suo avambraccio. Era leggerissima, praticamente una piuma, aveva un odore buono, molto dolce, simile allo zucchero filato e proprio come il fratello, emanava un sacco di calore, neanche fosse una specie di tizzone appena tolto dal fuoco.
    Una volta accontenta, Natsu emise una risata di pura felicità che le fece vibrare tutto il corpo, riverberando anche nel petto di Wakatoshi e “Wao! È così in alto! Mi sembra di toccare il cielo!” esclamò, agitando gambe e braccia.
    “Non credo di essere così alto.” si sentì in dovere di precisare Wakatoshi.
    “Perdonaci, Ushijima, non era nostra intenzione disturbarti in questo modo.” intervenne allora la signora Hinata, mentre li osservava con un leggero sorriso sulle labbra “In verità eravamo passate soltanto per dare questa borsa a Shoyo. L’ha dimenticata a casa, domenica.” continuò quindi, porgendogli una sacca di juta contenente dei vestiti. “Dagliela tu, per favore! C’è il suo cambio per la settimana!”
    A quel punto, l’asso fece per prendere la sacca con la mano libera, tuttavia fu proprio in quell’istante che si rese conto di avere ancora la canotta della divisa lacerata stretta tra le dita.
    “Sì, scusi, io…” mormorò, cercando di posizionare la maglietta nella piega del gomito e afferrare anche la sacca, tenendo in equilibrio Natsu.
    “Ma… sbaglio o quella maglietta ha un gran bel buco?” chiese la signora Hinata, prendendolo alla sprovvista.
    “Sì, purtroppo si è strappata durante una schiacciata.” rispose semplicemente Wakatoshi.
    “Oh! E non ti serve per giocare?”
    “Sì, in realtà mi servirebbe per domani, ma vedrò come posso fare.”
    “Se hai ago e filo posso sistemartela io! Ci metto qualche punto!”
    “No… non è necessario, grazie…”
    “Ma hai detto che ti serve per domani! È la casacca ufficiale no? Come pensi di giocare con quella?” constatò la donna, ruotando lievemente il capo “Dai, insisto! Ci metto pochissimo, te la ricucio in un attimo!”
    Wakatoshi tentennò.
    Stava succedendo tutto così in fretta, così all’improvviso, che non aveva nemmeno il tempo materiale di processare gli eventi. Come era finito con una bambina in braccio, una maglia strappata e la madre di Hinata Shoyo ritta e sorridente alla sua porta? Perché da quando quel corvetto era entrato nella sua vita andava tutto per il verso sbagliato? Perché le cose continuavano a deragliare dai binari e gettarlo in situazioni che non sapeva e non voleva gestire?
    Guardò la maglietta, la lacerazione evidente sulla stoffa rossa.
    Non aveva poi tanta scelta…
    “D’accordo, le prendo l’occorrente per cucire.”
    “EVVIVA! POSSO RIMANERE ANCORA QUI IN ALTO!”
     
    ***

    Se qualcuno avesse potuto aprirgli la testa, in quel momento, e mettersi a rovistare nei suoi pensieri, Wakatoshi era sicuro che ci avrebbe trovato dentro soltanto una cosa: nebbia.
    Una coltre di fitta, terribile nebbia.
    Era così che sentiva il suo cervello, offuscato, vuoto, incapace di formulare un qualsivoglia pensiero coerente, figurarsi una strategia! Eppure, gli dèi solo sapevano quanto gli sarebbe servita una strategia in quella situazione, perché non sapere come comportarsi, cosa dire, cosa fare, non faceva che acuire il suo disagio.
    Dopo aver chiuso la porta, si era mosso praticamente per inerzia, concentrandosi sul portare a termine piccoli obiettivi, un’azione alla volta. Aveva fatto accomodare Misaki Hinata in soggiorno, aveva recuperato dal mobiletto del corridoio la scatolina con l’occorrente per cucire, le aveva affidato la sua preziosa maglietta, le aveva perfino offerto una bevanda fresca e qualcuno dei biscotti al cioccolato di Hinata stesso, sistemandoli sopra un vassoietto che non aveva mai usato prima.
    Era andata bene, alla fine, anche se aveva dovuto compiere ogni singolo gesto con Natsu ancorata al collo, per nulla intenzionata a lasciarlo andare.
    Il problema adesso era che – beh!- non c’erano altre mansioni da compiere, per cui a Wakatoshi non era rimasto altro che sedersi di fronte alla donna, dalla parte opposta del fortunatamente ampio divano, senza avere la più pallida idea di cosa fare.
    Doveva lasciarla sola? Aveva bisogno di qualcos’altro?
    E poi, come faceva a far scendere la bambina, la quale si era accucciata contro il suo petto neanche lo avesse preso per un peluche umanoide?
    Non che pesasse o che gli stesse dando chissà quanto fastidio – dopo qualche commento entusiasta sulla casa, infatti, paragonata ripetutamente ed erroneamente ad un castello, la piccola non aveva più pronunciato parola, limitandosi a poggiare la testolina sul suo petto- tuttavia gli causava una certa inquietudine avere sotto il naso il profumo intenso dei suoi capelli, avvertire le sue dita minuscole strette forte alla sua maglietta.
    Sospirò, demoralizzato.
    “Grazie per tutto quello che hai fatto per Shoyo.” affermò Misaki Hinata facendolo trasalire, mentre le sue mani sottili continuavano a lavorare alacremente con ago e filo. “Mi ha detto che sei stato tu a salvarlo la sera dell’aggressione… che lo hai accompagnato in ospedale, lo hai perfino portato a casa con te… insomma ti sei preso cura di lui!” un sorriso dolce, pacato, comparve sulle sue labbra colorate di lipgloss, trasformandole in uno sbaffo rosso rubino “Quando l’ho saputo mi sono sentita molto sollevata! Io e Natsu eravamo dai nonni che abitano fuori città, non potevamo tornare… temevo che Shoyo sarebbe rimasto da solo! Lo immaginavo ferito, spaventato… ero così in ansia per lui, sono stata malissimo! Però ha avuto te per tutto il tempo e questo mi ha tranquillizzata!”
    “Io… ho fatto solo ciò che era più responsabile fare.” rispose Ushijima, irrigidito da tutta quella gratitudine che considerava immeritata.
    Si era solo comportato come riteneva giusto, niente di più.
    E adesso, non vi era giorno in cui non si pentiva della scelta fatta.
    Non c’era niente per cui essere così grati.
    Niente.
    “Oh sì, è stato un gesto davvero responsabile! Ma sopra ogni cosa, è stato gentile. Non è così scontato, Wakatoshi.”
    “Immagino di sì.” ribatté, con poca convinzione. Senza un motivo valido, aveva preso a sentire il viso accaldato all’altezza delle guance, il respiro arrochito che entrava e usciva in sincrono con quello altrettanto ritmato della piccolina abbarbicata a lui.
    Le gettò un’occhiata dall’alto; si era addormentata. 
    “E grazie anche per aver permesso a Shoyo di rimanere in questa casa. A parte avergli risparmiato quel viaggio lunghissimo, per lui è molto importante essere qui con te.”
    “Sì, lo so.” affermò Wakatoshi, prima di far tornare lo sguardo sulla donna intenta nel cucito “Anche se, come ho già detto a lui, non ho alcuna intenzione di allenarlo.”
    Serrò la mascella.
    Stava succedendo qualcosa di singolare: aveva pronunciato quelle parole tante e tante volte negli ultimi tempi - al ragazzino, a se stesso, a Tendou- le aveva palleggiate tra i denti, fatte scivolare sulla lingua appena ne aveva avuto l’occasione, eppure era come se, all’improvviso, si fossero rotte in mille pezzi, frammenti di vetro che tagliavano come lame.
    Erano sempre state così dure, così impietose?
    Wakatoshi era fermamente convinto di quel pensiero, non lo metteva assolutamente in discussione. Ricordava fin troppo bene i litigi avuti con Hinata sull’argomento, primo fra tutti quello avvenuto in giardino, in cui era arrivato addirittura ad alzare la voce.
    Perché allora una parte di lui stava provando quel sottile senso di imbarazzo? Perché una vocina, in un angolo remoto del suo cervello, aveva cominciato a bisbigliare che forse quella sentenza aveva il sapore di un partito preso e le sue basi non erano poi tanto solide come aveva creduto fino a quell’istante?
    “Shoyo me ne ha parlato; a quanto pare, hai delle convinzioni molto precise sulla pallavolo e non sei tipo che cede facilmente.” ribatté Misaki, la voce priva di alcuna particolare inflessione.
    “No, in effetti no.” Wakatoshi deglutì, strinse le labbra “Se sta per chiedermi di cambiare idea, io…”
    “Non ne ho la minima intenzione, tranquillo. Non sono venuta qui per dirti cosa devi o non devi fare. Shoyo dice sempre che sembri molto più maturo della tua età ed è vero, lo sei. Dice anche che la pallavolo è il centro del tuo universo, per cui… chi sono io per intromettermi sulla tua visione di gioco? Sei o non sei il ragazzo dei miracoli?” di scatto, come spesso accadeva con il figlio, Misaki Hinata sollevò la testa, inchiodandolo lì dove era con le sue iridi scure. Il colore era diverso, diametralmente opposto a quello del ragazzino, eppure Wakatoshi constatò che la loro intensità era la stessa, così come la sensazione che gli suscitavano dentro: di luce pura, accecante sì, ma calda e avvolgente.
    “Ragazzo dei miracoli?”
    “Non è così che ti chiamano in campo? Miracle Boy?”
    “I giornalisti usano spesso questo soprannome, ma non so perché: io non faccio miracoli.”
    “Shoyo dice che è perché fai sembrare possibili anche le cose impossibili, questo è fare miracoli.
    Lo stomaco di Wakatoshi ebbe una leggero spasmo a quelle parole: sapeva che il ragazzino nutriva una certa ammirazione nei suoi confronti – non gli avrebbe girato intorno in quella maniera, se fosse stato altrimenti, né gli avrebbe chiesto di allenarlo con tanta insistenza – tuttavia era la prima volta che se ne rendeva conto con tale chiarezza.
    Hinata parlava di lui con gli altri, lodandolo, elogiandolo come persona e come giocatore e lo faceva anche se lui si era comportato con freddezza e con superbia nei suoi confronti, rifiutando ogni suo tentativo di approccio.
    “Io… mi limito soltanto a giocare a pallavolo. È la cosa che mi riesce meglio. Di tutto il resto non mi importa.” mormorò, la voce più incerta di quanto avrebbe desiderato.
    “Posso capirlo, anche per Shoyo la pallavolo è importante. È più di un gioco… è stato la sua salvezza…”
    “La sua salvezza?”
    “Già… ma ehi! Lui sta cambiando tanto, sai? Anche solo stando qui, guardandoti ogni giorno, parlando con te. È più disciplinato, più ordinato, più calmo. Ha cominciato perfino a mangiare meglio! Tutte cose che – beh- immagino stia assorbendo da te.”
    “Io non sto facendo niente.”
    “Sei più gentile di quello che pensi, Ushijima Wakatoshi, credimi. Insomma, guarda Natsu!”
    “Natsu?”
    “Quando l’hai presa in braccio, hai fatto una faccia super imbronciata! Eppure, si è addormentata sulla tua spalla da una ventina di minuti e non l’hai ancora messa giù.”
    Wakatoshi si morse l’interno di una guancia, soppesando le parole della donna.
    La gentilezza era un concetto nuovo per lui, qualcosa su cui si stava soffermando soltanto negli ultimi tempi e ancora non sentiva di comprendere del tutto.
    La sua famiglia gli aveva inculcato il senso dell’educazione, un codice di regole rigidissime che gli permettessero di comportarsi sempre in una maniera che fosse consona al suo cognome; la gentilezza però non aveva nulla a che fare quello, aveva un presupposto del tutto differente, quello di una condotta che partiva da se stessi per mettere al centro dell’azione l’altra persona, il suo benessere, la sua cura.
    E per Wakatoshi, abituato fin dalla nascita a badare solo a se stesso, a tener conto solo ed esclusivamente delle proprie volontà e delle proprie esigenze, era un istinto per niente spontaneo.
    “Comunque,” ripreso la donna con tono gioviale “Hinata mi ha detto che il tuo piatto preferito è il riso ayashi, giusto? Era uno dei migliori piatti di mia madre, sai? Potrei passarti la sua ricetta, se ti va!”
    “Sì, va bene, anche se io…”
    “MAMMA, CHE CI FAI QUI?”
    Wakatoshi si voltò di scatto: era stato così preso dalla conversazione da non accorgersi della porta di ingresso che si apriva e dell’arrivo di Hinata. Guardò l’orologio che aveva al polso e constatò che erano le sette passate: anche il tempo era volato senza che lui se ne accorgesse.
    “Shoyo, ciao! Ti stavamo aspettando!” rispose la donna, prima di dare un taglio netto al filo che stava tenendo teso e sollevare la maglietta per controllare il suo operato. Lo strappo era sparito, l’unica traccia rimasta di esso era una linea frastagliata di cotone nero, come una cicatrice di cotone. “Ecco qui! Non è molto, ma almeno potrai utilizzarla per la partita di domani!” riprese Misaki Hinata, rivolgendosi questa volta a Wakatoshi.
    “Grazie.” scandì soltanto l’asso, un po' intontito dal rapido susseguirsi degli eventi. 
    Prima che potesse aggiungere altro però, il piccolo corvo piombò nel bel mezzo del salotto, frapponendosi fra lui e la madre, per poi cominciare ad agitarsi sul posto come una specie di uccellino impazzito.
    “Mamma perché non mi avevi detto che passavi? Che avete fatto fino a questo momento? Non hai dato fastidio a Japan, vero? G-gli hai detto qualcosa di imbarazzante su di me? Oddio, me lo sento che lo hai fatto!” all’improvviso lanciò una fugace occhiata nella sua direzione e la sua faccia si trasformò in una buffa smorfia di orrore e sgomento “E cosa diavolo ci fa Natsu addosso a lui?!”
    “Non urlare, scemo!” piagnucolò la bambina, riprendendo lentamente vita. A quel punto, lasciò andare il collo di Wakatoshi, si stropicciò gli occhietti un paio di volte e si mise seduta dritta sulle gambe del ragazzo.
    Wakatoshi rabbrividì per la sensazione di gelo che lo attraversò proprio sulla porzione di pelle abbandonata dalla testa di Natsu.
    “Questo è un incubo!”
    “Oh, calmati Shoyo, non essere così melodrammatico!” intervenne dunque la donna, mentre ripiegava la maglia e gli attrezzi di cucito per nulla scalfita dalle accuse del figlio.
    “Ma mamma…”
    “Siamo passate di qui soltanto per lasciarti i vestiti di ricambio che hai dimenticato domenica a casa. Poi Wakatoshi ha avuto un piccolo problema tecnico e ci siamo fermate ad aiutarlo! Adesso ce ne andiamo, tranquillo! Non voglio mica disturbare il vostro speciale rito della cena…
    “MAMMA!”
    “Shoyo non essere maleducato!”
    “Scusate, io vi lascio soli.”
    Il battibecco fra madre e figlio si interruppe bruscamente alle parole del giovane asso, e due paia d’occhi profondi si focalizzarono su di lui in meno di un istante. Wakatoshi li sentì premere su di sé in modo quasi fisico, ma lo stesso si alzò in piedi, mettendo giù con cautela la piccolina: non aveva più senso essere lì per lui, era di troppo, non conosceva e non voleva entrare in quell’intimità famigliare. Il rincasare di Hinata gli aveva donato una via di uscita comoda per sfuggire da quella situazione e Wakatoshi aveva tutta l’intenzione di coglierla per chiudersi nella sua stanza e tornare a respirare di nuovo.
    “Non ti preoccupare, Wakatoshi, vai pure! Noi salutiamo Shoyo e andiamo via!” rispose la signora Hinata, alzandosi a sua volta e piegandosi in un profondo inchino.
    “Grazie ancora per la maglia, signora Hinata.”
    “Di niente! È stato un piacere avere l’occasione di conoscerti meglio.”
    “Signor Ushijima posso farti una domanda?”
    La voce tintinnante di Natsu attirò subito la sua attenzione, così Wakatoshi si accovacciò sui talloni per non costringerla a sforzare troppo il collo.
    Le rivolse uno sguardo interrogativo e quella poggiò una mano sulla sua.
    “Posso rimanere anche io qui insieme a te e Shoyo? Voglio vivere anche io in uno castello!” disse, serissima.
    “Questo non è un castello, te lo ripeto. E poi io e tuo fratello siamo troppo giovani per ottenere la custodia di un minore.” spiegò il giovane asso, altrettanto seriamente.
    Natsu ruotò allora il visino con aria interrogativa e “Non ho capito niente, ma mi prometti almeno che quando sarò grande ci sposeremo, così posso diventare una principessa?”
    “NATSU!” strillò Hinata da dietro le sue spalle.
    “Io non sono un principe e non posso farti questa promessa.” sentenziò Wakatoshi, tuttavia quando scorse il principio di un pianto negli occhi della piccola, si ravvide e decise di smorzare i suoi toni “Però se ci rincontreremo e cominceremo una relazione romantica, valuterò la tua offerta di matrimonio.”
    “EVVIVA!” esclamò Natsu, soddisfatta, dopodiché gli saltò al collo, abbracciandolo forte.
    Il gesto fece irrigidire il giovane asso seduta stante, poiché però scostare la bambina gli parve una mossa fin troppo scortese, rimase perfettamente immobile, attendendo che fosse ella ad allontanarsi di sua spontanea volontà. Appoggiò una mano sulla sua schiena. Avrebbe potuto racchiuderle il busto in quella stessa mano tanto era minuta, la sua pelle emanava un calore quasi impossibile attraverso la stoffa sottile del vestitino e le sue ossa davano l’impressione di essere fragilissime, capaci di spezzarsi alla minima pressione.
    “Va bene, Natsu, adesso lasciamo andare Wakatoshi, gli abbiamo dato fin troppo disturbo.” si intromise la donna, recuperando la figlia nonostante le sue proteste.
    A quel punto, Wakatoshi rinnovò i propri saluti ai suoi ospiti e ripiegò nel corridoio, senza voltarsi più indietro.
    Incrociò gli occhi del corvetto della Karasuno solo una volta.
     
    ***

    Il maxischermo del soggiorno stava riproducendo i quarti di finale del campionato 2010, gli Schweiden Adler contro i Sairentokanaria, una delle partite più avvincenti e più combattute della storia della pallavolo giapponese, eppure Wakatoshi non era riuscito a seguire neanche un passaggio.
    Le immagini si susseguivano innanzi ai suoi occhi vitrei, ma lui pensava e pensava e pensava…
    Non sapeva come fermare la testa.
    Alla fine, aveva messo da parte tutti i suoi propositi circa l’allenamento e si era rintanato nella sua camera fino all’ora di cena, momento in cui era risbucato dalle ombre soltanto per mettere sotto i denti qualche avanzo del pranzo, dopo essersi assicurato che la madre e la sorella di Hinata fossero realmente andate via.
    Gli aveva lasciato uno stato d’animo confuso, quell’incontro, un subbuglio interiore a cui faticava a dare una coerenza. Avere a che fare con delle persone più adulte di lui era quasi una costante nella sua carriera, aveva smesso di provare imbarazzo o soggezione per questo motivo molto tempo addietro, imparando ad interfacciarsi con professionisti anche di un certo rango nella maniera più naturale possibile.
    Non capiva quindi perché il suo dialogo con Misaki Hinata lo avesse scosso così tanto, lasciandogli nei meandri della psiche un senso latente di… amarezza.
    Quando aveva chiuso la porta della sua stanza, aveva cercato di distrarsi leggendo uno shonen, ascoltando della musica, ma non era servito a molto, dato che tutti i membri della famiglia Hinata sembravano condividere il vizio di parlare ad alta voce e Wakatoshi si era ritrovato, suo malgrado, ad ascoltare la conversazione tra madre e figlio.
    Ero stato un colloquio semplice, piena di quesiti banali: come stai? Mangi abbastanza? Come sta andando il ritiro? Ti copri bene quando esci dalla palestra? Non torni più troppo tardi la sera, vero? Quando ci sarà la prima partita? Gli altri si stanno allenando?
    Il problema era stato che, Wakatoshi, in mezzo a quella sfilza di quesiti banali, aveva preso a pensare alla sua di famiglia, e all’improvviso si era reso conto che a lui nessuno li aveva mai posti.
    Da quanto tempo era che non sentiva suo padre? Sua madre si chiedeva mai se stesse mangiando abbastanza? Sapeva a che orario tornava? Che partita avrebbe giocato l’indomani? Dove? Con chi?
    All’improvviso una fitta allo stomaco, simile a un pugno, gli fece venire la nausea.
    Che senso avevano quelle riflessioni?
    Suo padre e sua madre avevano altro da fare, Wakatoshi lo sapeva bene, era sempre stato così.
    Lui sapeva badare a se stesso, non era come Hinata, no?
    Stava bene da solo, che problema c’era?
    Piegò la testa all’indietro sul divano, prese aria, chiuse gli occhi.
    Perché invece di diminuire, quella sensazione di disordine non faceva che aumentare?
    Venne riportato alla realtà bruscamente dal suono di una bottiglia di vetro che tintinnava contro le altre: Hinata era accanto al frigorifero, intento a versarsi un bicchiere d’acqua, sollevando e abbassando gli occhi con una certa frenesia per sbirciare la partita proiettata sul maxischermo.
    Wakatoshi aveva notato fin dall’inizio della loro convivenza come il ragazzino cercasse qualsiasi scusa pur di attardarsi a guardare almeno qualche frammento dei match che la sera si metteva a vedere in soggiorno, tuttavia non lo aveva mai invitato ad unirsi a lui, in nome di quell’istinto di rifiuto incondizionato che provava nei suoi confronti.
    Al solito, dunque, Wakatoshi lo osservò con la coda dell’occhio mentre tergiversava vicino al frigorifero, poi fingeva di passare la spugnetta sulla penisola in mezzo alla sala, infine si dirigeva verso il corridoio con il collo teso e le pupille illuminate dalla luce artificiale dello schermo.
    Non seppe nemmeno lui perché lo fece, la sua bocca si mosse in automatico.
    “Resta.” scandirono le sue labbra.
    Hinata si bloccò lì dov’era, “C-cosa hai detto?” mormorò, ruotando leggermente su se stesso.
    Ormai era troppo tardi per tirarsi indietro.
    “Puoi restare, se vuoi vedere la partita.” continuò Wakatoshi, incredulo di se stesso.
    “Sì! Sì, certo!” esclamò subito il ragazzino, dopodiché si fiondò quasi saltellando verso il divano, posizionandosi accanto a Wakatoshi, nonostante l’enorme spazio libero. Per fortuna, al giovane asso bastò aggrottare la fronte per far intuire all’altro di farsi un po' più in là e rispettare il suo spazio vitale, ma nemmeno quel rimprovero silenzioso ebbe il potere di scalfire il sorriso raggiante sul suo volto.
    “Allora, Schweiden Adler contro i Sairentokanaria, eh? Che partita straordinaria! Ho visto l’azione di Jae Lee almeno cento volte su YouTube! È l’attacco di seconda più figo che io abbia mai visto…”
    Wakatoshi sospirò.
    In cuor suo, si stava già pentendo di quella trovata.
    Eppure, la fitta allo stomaco si era placata.

    Chissà come mai.
     
     





    NOTE AUTORE
     
    Non vi nasconderò che questo capitolo l’ho odiato! Mi ha fatto impazzire dalla prima all’ultima parola e ho deciso di pubblicarlo più per liberarmi di lui che perché fossi davvero convinta del risultato.
    L’idea iniziale era quella di costruire un semplice capitolo di passaggio che dimostrasse l’andare avanti della convivenza fra Hinata e Ushijima, ma poi mi è balenato in testa che sarebbe stato carino introdurre Natsu e la madre di Hinata e a quel punto, l’incontro con Ushijima era diventato praticamente OBBLIGATORIO.
    D’altronde, come avete avuto modo di vedere nell’ultimo paragrafo, l’avvenimento ha anche lo scopo di introdurre uno punto importantissimo per l’intera long, cioè il rapporto che Wakatoshi ha con la sua famiglia.
     
    SOTTOLINEO CHE:
    • della madre di Hinata non si sa quasi niente: sia il suo nome che la sua caratterizzazione sono farina del mio sacco. Per quanto riguarda il suo aspetto fisico, invece, ho fatto riferimento ad alcune scene del manga in cui ella appare.
    • Natsu nel canone dovrebbe avere intorno ai 8/10 anni. Poiché però mi piaceva l’idea di vedere Wakatoshi alle prese con un bambino piccolo, ho pensato di rendere Natsu ancora più giovane e tenermi intorno ai 4 anni.
     
    Avviso anche i miei lettori che la fanfiction probabilmente andrà in pausa fino alla fine delle vacanze di Natale. Il motivo è che a partire dalla settimana prossima pubblicherò diversi lavori a tema natalizio (di cui FORSE uno anche relativo alla coppia Ushijima/Hinata) per cui mi concentrerò su questi progetti, almeno per le prossime due settimane. Non temete però, Le Cose Che So Su Di Me tornerà prestissimo! 

    Tenete d'occhio EFP!
    Alla prossima!
    Violet Sparks

     
     
     

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    Capitolo 10
    *** Chiedere non costa nulla ***


    CAPITOLO X
    Chiedere non costa nulla
     
    Dicono che più investi e più guadagni,
    quindi devi essere disposto a rischiare.
    Anche se potresti perdere tutto.
    Perché, a volte, se corri il rischio
    e investi in modo saggio,
    la ricompensa potrebbe davvero sorprenderti.
    Grey’s Anatomy
     
     
    “Ma questa è una notizia formidabile, Shocchan! Praticamente siete diventati amici per la pelle!”
    “Stare seduti vicini su un divano deve essere così emozionante! Quasi quasi siamo gelosi!”
    Shoyo tirò fuori la lingua e si esibì in una brutta smorfia, che ebbe come unico risultato quello di far ridere Nishinoya e Tanaka a crepapelle.
    Lo sapeva che avrebbe fatto meglio a raccontare della serata trascorsa con Ushijima soltanto a Yachi e Yamaguchi -decisamente più riservati dei due senpai- ma quel pomeriggio alcuni ragazzi della squadra gli avevano proposto di uscire per una passeggiata e, fra una chiacchiera e l’altra, la notizia gli era sfuggita quasi senza rendersene conto.  
    D’altro canto, non avrebbe saputo gestire la propria euforia neanche con tutto l’impegno di cui era capace, anzi! Era già un miracolo che avesse resistito fino all’entrata del konbini fuori dalla Karasuno, prima di gridarlo ai quattro venti: Ushijima Wakatoshi gli aveva permesso di vedere la partita accanto a sé, sul suo fantastico maxischermo! Gli aveva chiesto di restare di sua iniziativa, senza che lui avesse detto o fatto niente, e ad un certo punto, si erano scambiati perfino cinque commenti su alcune azioni dei giocatori!
    Hinata sapeva che la sua era una reazione alquanto spropositata rispetto all’avvenimento, quindi non poteva biasimare le prese in giro di Tanaka e Noya, tuttavia era più forte di lui, solo a ripensarci sentiva il cuore cominciare a battere forte e una strana elettricità attraversare ogni singola cellula del corpo; desiderava soltanto sorridere, gridare, riassaporare quel resta nel suo cervello altre mille e mille volte ancora.
    Diamine, stava cominciando a parlare di pallavolo con Ushijima Wakatoshi, l’asso per eccellenza, l’incarnazione terrena di tutti i sogni e le speranze e le ambizioni che Shoyo avesse mai avuto nella sua vita!
    C’era da perderci la testa!
    “Lo so che è niente, ma è un passo avanti!” ribatté dunque Hinata, saltellando per farsi ascoltare dai due senpai, mentre cercava di scartare la barretta di cioccolato appena acquistata.
    Poco dietro le sue spalle, avvertì distintamente le risatine divertite di Sugawara, Daichi e Asahi che camminavano a qualche passo di distanza, intenti a trangugiare chi un pacchetto di patatine, chi un tramezzino al tonno e chi un muffin ai mirtilli.
    “Oh sì, infatti! Almeno adesso Ushiwaka ha smesso di pianificare il tuo omicidio! Sei a cavallo, Shoyo!” lo schernì Noya, prendendolo sotto il proprio braccio e cominciando a premergli lo scalpo con le nocche.
    “Lui non ha mai voluto uccidermi!” strillò Shoyo, che per poco non fece cadere la sua preziosa barretta di cioccolata.
    “Sicuro? Secondo me ci ha fatto un pensierino…” intervenne Tanaka, nascondendo un sorrisetto malizioso dietro la lattina della sua Coca-Cola alla ciliegia “Scommettiamo dieci yen che sulla cronologia del suo PC c’è almeno un: come avvelenare un cucciolo di corvo e farlo sembrare un incidente?
    “Guardate che Ushijima è molto più gentile di quello che pensate!”
    A quelle parole, l’allegra combriccola si fermò in perfetta sincronia, nel bel mezzo del marciapiede.
    “Gentile? Ushijima?” domandò Asahi, visibilmente sorpreso.
    “Sì…” pigolò allora Hinata, un po' imbarazzato dal fatto di avere attirato l’attenzione dei suoi amici completamente su di sé. Sgusciò via dalla presa di Noya, si massaggiò la testa e “Lui non è cattivo! Sembra burbero e serio… e per certi versi lo è! Ma è un ragazzo molto educato! Ed è anche maturo, indipendente, rispettoso! Alla fine, anche se non mi sopportava, mi ha salvato la vita in quel vicolo e mi ha permesso di restare a casa sua.” spiegò, mordendosi il retro di una guancia.
    Per un lungo, infinito secondo, i cinque membri della Karasuno, disposti in cerchio intorno a lui, rimasero perfettamente immobili, gli occhi sgranati e le bocche aperte in un’espressione di sgomento.
    Fu Sugawara il primo a riprendersi, mettendogli una mano sulla spalla, “Va bene Shoyo, non era nostra intenzione offendere Ushiwaka. Di sicuro tu lo conosci meglio di tutti noi qui, visto che vivete sotto lo stesso tetto.” disse con dolcezza, smorzando la leggera tensione che si era creata.
    Hinata annuì, abbozzando un mezzo sorriso, eppure quando i suoi amici tornarono a camminare e mangiucchiare le schifezze comprate al konbini, come se niente fosse successo, per un attimo lui rimase lì dove era, schiacciato da un improvviso senso di malinconia.
    Si passò una mano tra i capelli e osservò la barretta di cioccolata che ancora non aveva avuto tempo di aprire  - la carta traslucida della confezione ormai stropicciata e stracciata in più punti- allora la scartò alla svelta, affamato e desideroso di scrollarsi quella brutta sensazione di dosso, in modo da poter raggiungere i compagni, arrivati ormai alla fine della strada.
    Non aveva minimamente fatto caso agli annunci sull’involucro.
    Per questo, nel momento in cui un bigliettino dorato e scintillante comparve sotto la barretta di cioccolata, Shoyo rischiò di collassare.
    “HO VINTO! HO VINTO!”
     
     
    ***

     
    “Ah, ancora non ci credo! Ancora non ci credo! È la prima volta che vinco qualcosa! E guarda caso, è il premio migliore che potessi ricevere!”
    Sugawara si aprì in una risata musicale, che si librò nella quiete del tramonto.
    Dopo l’allegro pomeriggio insieme, i ragazzi si erano separati per fare ritorno alle proprie abitazioni, così lui e Suga si erano ritrovati da soli, a camminare fianco a fianco ancora per un altro pezzetto di strada, dato che la casa del senpai e quella di Ushijima si trovavano nella stessa direzione.
    A Shoyo faceva estremamente piacere passare del tempo extra con il suo vicecapitano. Sugawara era un ragazzo dolce, gentile, disponibile, aveva sempre una parola di conforto per tutti o un caloroso incitamento per i membri della sua squadra.
    Non era tra i membri titolari, purtroppo, avendo dovuto lasciare il posto da alzatore di fronte allo spaventoso talento di Kageyama, ma Hinata – e, ne era sicuro, tutti i ragazzi della Karasuno avrebbero convenuto con lui!- sapeva che senza la sua presenza, non ce l’avrebbero mai fatta ad arrivare alle Nazionali, a rimanere uniti come erano, a trovare il giusto equilibrio dentro e fuori dal campo.
    “Quindi, chi pensi di invitare a vedere la partita?” chiese il senpai, scompigliandogli i capelli.
    Hinata sventolò il biglietto dorato in aria, trionfante, lasciando luccicare, ancora una volta, la scritta ivi impressa sotto la luce aranciata del sole: due ingressi per la famosa ‘Partita d’argento’ che ogni anno la nazionale giapponese disputava per beneficenza contro quella coreaana, nel palazzetto centrale di Tokyo! Era uno dei match più amati dai fan della pallavolo, ma di solito i ticket costavano un occhio della testa ed era una vera impresa procurarseli! Lui, invece, li aveva appena trovati dentro ad una barretta di cioccolato qualunque: che colpo di fortuna!
    “Ancora non ho deciso!” esclamò Shoyo, troppo entusiasta per riuscire a contenere la propria voce “Tu hai detto di avere già un impegno per il giorno della partita, vero?”
    “Sì, ho un corso di preparazione per l’università e abbiamo una simulazione, non posso assolutamente saltarla!” sospirò affranto, l’altro ragazzo.
    “Peccato! Magari lo chiederò a Tanaka o Noya… anche se stavano già bisticciando per accaparrarsi il posto!”
    “Già, forse faresti meglio a virare su Yamaguchi o Kageyama!”
    “Yamaguchi non c’è questo weekend e Kageyama è ancora al ritiro, dubito che riuscirebbe a staccarsi per venire alla partita! Mi verrà in mente un modo per tirare a sorte tra Noya e Tanaka… ” rifletté Shoyo, riponendo intanto il prezioso biglietto nella tasca dei pantaloni.
    Per un po' i due ragazzi camminarono in silenzio, godendosi l’atmosfera placida della sera e il vociare allegro delle persone che rientravano alle proprie abitazioni.
    A Hinata piaceva moltissimo quel momento della giornata, gli dava un senso di calma, di conforto, come se, rispetto al giorno appena trascorso, anche la frenesia che sentiva sempre vorticargli nelle vene potesse affievolirsi insieme ai raggi del sole.
    Respirò lentamente, riempiendosi i polmoni del profumo dolce dei gelsomini.
    C’erano tutti i presupposti giusti per rilassarsi, per terminare con serenità quel pomeriggio di svago tra amici, eppure Shoyo non ci stava riuscendo appieno: la verità è che c’era un tarlo, nel suo cervello, un tarlo che continuava a scavare sempre più a fondo – sempre più a fondo- e non si decideva a lasciarlo in pace…
    “Sai, Suga, ho detto una bugia prima…” proruppe d’un tratto, le parole che scivolavano fuori dalla sua bocca in modo del tutto spontaneo. Sperò che, accanto a sé, il senpai gli stesse prestando attenzione, perché non aveva la forza di spostare gli occhi dalle punte delle sue scarpe che si avvicendavano sull’asfalto.
    “Una bugia? Di cosa stai parlando, Shoyo?”
    “Io non conosco affatto Ushijima.” sospirò “Le cose sono migliorate molto in casa, è vero, ma… è come se ci fosse un muro tra me e lui, un muro che non riesco ad abbattere in nessuna maniera. Mi impegno, ci provo con tutte le mie forze, ma i mattoni sono sempre lì ed io… non so cos’altro fare. Ho insistito per rimanere in quella casa per scoprire qualcosa in più su Ushijima Wakatoshi, il più grande asso che io abbia mai conosciuto e tutto ciò che ho fatto è stato grattare la superfice! Io sono sicuro che ci sia molto di più in lui. Ne sono sicuro perché ogni tanto mi sembra di scorgerlo nei suoi gesti, nelle sue parole, ma lui non vuole aprirsi con me, non mi vuole parlare! Tutte le nostre conversazioni sono superficiali! Ormai ho imparato a memoria le sue abitudini, i suoi orari, le cose che gli piacciono o che lo infastidiscono, eppure non so chi sia lui veramente! Non so niente di ciò che conta davvero.”
    Shoyo ingoiò un grosso boccone d’ossigeno e lo lasciò fluire dentro e fuori dai polmoni, con estrema lentezza.
    Erano giorni che quei pensieri frustranti gli rimbalzavano per la mente, rattristando il suo umore, e adesso che li aveva spinti fuori da sé, si sentiva molto più leggero, come se si fosse appena scrollato un grosso peso dalla schiena. Forse non esisteva una soluzione a quel problema o forse erano elucubrazioni assolutamente prive di senso, tuttavia, averle espresse ad alta voce gli dava l’impressione di poter respirare meglio, di essersi tolto di dosso almeno un grammo di angoscia.
    “Sai che tu e Ushijima siete molto diversi, vero?” riprese quindi Sugawara, senza una precisa inflessione.
    “Certo, siamo… il giorno e la notte!”
    “E allora perché pretendi che si comporti come tu ti aspetti che faccia?”
    Hinata sollevò la testa di scatto, fissando il senpai accanto a sé.
    Aveva un sorriso serafico fermo sul volto e il suo sguardo era incredibilmente mite, trasmetteva una tranquillità simile a quella che si provava di fronte a uno specchio d’acqua, in una tenue giornata di sole.
    Hinata sapeva che, se c’era una persona al mondo con cui avrebbe potuto confrontarsi e confessare quei pensieri senza sentirsi giudicato, quella era proprio Sugawara Koushi, ma in quell’istante ne stava avendo una prova tangibile: d’un tratto, gli sembrava che qualsiasi problema potesse avere una soluzione inedita che non aveva preso in considerazione, e che qualunque cosa fosse successa, risolverla sarebbe stato possibile, perché Sugawara non l’avrebbe abbandonato.
    Al sicuro, era così che lo faceva sentire il vicecapitano della Karasuno.
    “Hinata, da quello che mi hai sempre detto su Ushijima, mi pare di aver capito che sia un ragazzo molto… solo. A diciotto anni ha una cosa propria, gestisce i suoi affari in completa autonomia, esce solo per andare in palestra e agli allenamenti… insomma, parliamo di qualcuno davvero poco avvezzo ad avere a che fare con gli altri, dico bene?”
    “Sì, è vero. Credo che nemmeno con la sua famiglia abbia un rapporto molto stretto.”
    Il sorriso di Suga si ampliò e la sua mano calda corse intorno alla sua spalla per stringerla con vigore, “Vedi? Ushijima non è abituato a rapportarsi con le persone in maniera sana e genuina, gli devi dare del tempo. D’altronde, non si può dire nemmeno che voi due siate partiti col piede giusto…”
    “Oh, al contrario! A Ushijima non sono mai andato a genio, me lo ha detto esplicitamente la sera stessa dell’aggressione! Adesso penso che mi sopporti un poco di più, ma abbiamo avuto un sacco di scontri in queste settimane...” rifletté Shoyo, rabbuiandosi.
    Gli faceva ancora male ricordare la sera in cui Ushijima si era arrabbiato con lui in giardino. Se chiudeva gli occhi, gli sembrava ancora di vedere il giovane asso torreggiare di fronte a lui, il volto contratto dalla rabbia, i pugni serrati lungo i fianchi. Era indietreggiato di istinto. Non perché avesse temuto che Ushijima potesse mettergli le mani addosso – Shoyo era certo che non avrebbe mai, mai fatto una cosa del genere, neanche nei momenti di ira più nera!- ma perché dentro il suo sguardo ci aveva visto talmente tanto disprezzo, talmente tanto livore, che ne era stato soffocato.
    “Beh, non ti sei comportato nemmeno tu in modo molto carino nei suoi confronti, non trovi?”
    All’improvviso, Hinata arrestò il proprio passo e si strinse nelle sue stesse spalle come se l’aria fosse appena stata squarciata da un boato, “I-io? In che senso?” si affrettò dunque a chiedere, allarmato dall’insinuazione del senpai.
    Sugawara nascose una risatina dietro le dita e “Non credi di essere stato un pochino invadente nei confronti di Ushiwaka?” lo ribeccò, prima di alzare un sopracciglio con aria allusiva.
    “Invadente?”
    “Sì, molto invadente a dire la verità…” a quel punto, Sugawara lo costrinse a ruotare verso di lui esercitando una leggera pressione sulle sue braccia, quindi arpionò gli occhi di Shoyo coi suoi, togliendogli ogni via di fuga. La sua espressione era ancora docile, eppure c’era una nota di rigore in lui, un riverbero simile al duro metallo che Hinata aveva imparato ad associare al momento in cui il suo vicecapitano si preparava a fare una ramanzina.
    Era troppo tardi per scappare, vero?
    Deglutì a vuoto, aspettando la valanga.
    “Shoyo, tu ti sei letteralmente infilato a casa sua di punto in bianco, dopo avergli strappato via un posto alle nazionali e aver messo a soqquadro tutto ciò che credeva di sapere sulla pallavolo! Gli hai imposto la tua presenza, hai cominciato a girargli intorno come un satellite con il sole pur di istaurare un dialogo con lui! Mi hai detto più volte di averlo spiato mentre si allenava, di averlo analizzato nell’intimità delle sue azioni quotidiane, di averlo assillato più e più volte per diventare il suo kohai e farti allenare da lui… non credi che, per una persona come Ushijima Wakatoshi, abituato alla solitudine e all’indipendenza, tutto ciò sia stato a dir poco traumatizzante?”
    In quel momento, Hinata desiderò di venire investito per davvero da una maledetta valanga - lì, in pieno agosto, nel bel mezzo del centro abitato della prefettura di Miyagi!- perché provò così tanta vergogna che avrebbe preferito sotterrarsi piuttosto che vivere un giorno di più.
    Era vero, era tutto terribilmente vero.
    Si era comportato come un bambino! Un moccioso viziato!
    Non aveva fatto altro che vessare Ushiwaka da quando lo aveva conosciuto, in modo più o meno consapevole! Gli era praticamente piombato tra capo e collo, e invece di ringraziarlo per avergli salvato la vita e dato riparo con tanta cortesia, lo aveva ricompensato piazzandosi a casa sua, iniziando a ronzargli intorno come una specie di zanzara assetata di sangue e tediandolo con mille, stupidi tentativi di istaurare un rapporto che lui, evidentemente, non voleva!
    Crollò a terra in ginocchio, tenendosi soltanto sui talloni, sull’orlo delle lacrime.
    Ushijima faceva bene a detestarlo!
    “Sto sbagliando tutto… sono un’idiota…” mormorò, mentre affondava le dita nei capelli, disperato.
    “Non sei un idiota, Shoyo! Hai fatto tutto con le migliori intenzioni.” lo rincuorò subito Suga, accovacciandosi di fronte a lui e cullandolo con una mano sulla schiena. “Solo che… Ushijima è diverso dagli altri.altrialtralaaalmotivo  Non puoi pensare di approcciarti a lui come sei abituato a fare con il resto del mondo né aspettarti che reagisca in maniera convenzionale!”
    “Ma il nostro tempo insieme sta per scadere! Tra poco il campo della Shiratorizawa finirà!”
    “Ci tieni davvero tanto a questo rapporto, vero?”
    Hinata avvertì distintamente il proprio cuore esibirsi in un doppio carpiato e andare a sbattere da una parte all’altra del suo petto neanche fosse una pallina da ping-pong. La risposta era sì, ci teneva davvero tanto ad istaurare un rapporto con Ushijima Wakatoshi e no, non era in grado di spiegare il perché, dato che, ogni volta che se lo chiedeva, poi il suo intero corpo sembrava andare in tilt e cominciare a bruciare, come un pezzetto di legno tra le braci.
    “Io… beh sì, cioè… io voglio diventare come lui un giorno… uno degli assi più forte del Giappone, sai…” balbettò, con le guance in fiamme “Cioè, è per questo… lui è molto importante per m-ODDIO NO! Non intendevo questo, suona malissimo! Dicevo da un punto di vista sportivo, ovvio! Io…”
    “Shoyo, Shoyo guardami! Respira! Non iper-ventilare, ho capito!”
    “No, davvero, non è così! Non fraintendermi! Io voglio solo che…”
    “Va- tutto- bene!” Sugawara lo aiutò ad alzarsi, lo tirò a sé e lo strinse in un abbraccio pieno di affetto, che gli diede immediatamente una sensazione di familiarità e protezione. “Ascoltami, è una cosa bella che tu ci tenga tanto a legare con qualcun altro, qualsiasi siano le motivazioni che ti spingono. Devi solo… perfezionare un po' la tecnica, d’accordo?”
    Con la fronte affondata nel suo petto, le narici piene del suo odore buono, Shoyo annuì, stringendo la maglietta del suo senpai tra le dita, all’altezza delle scapole.
    Il suo sangue non aveva smesso di scalpitare su e giù lungo le sue vene, tuttavia aveva rallentato un po' il ritmo e questo gli stava permettendo di respirare con maggiore regolarità.
    Sugawara era sempre così prezioso per il Karasuno.
    E per lui.
    “Ascolta…” disse ad un certo punto il ragazzo più grande, scostandolo un poco da sé “Perché non inviti Ushiwaka alla partita?”
    Hinata scoppiò in una risata nervosa, “No, non potrei mai! Non accetterebbe! Non vuole passare il suo tempo con me!” rispose, la voce un po' incrinata da quella cruda verità.
    “Però ieri ti ha chiesto di restare insieme a lui. E poi la partita d’argento è un evento importantissimo, sono sicuro che anche a Ushiwaka piacerebbe vederlo!” gli fece notare Sugawara.
    “Non lo so… lo hai detto tu stesso, non voglio essere invadente e fargli fare qualcosa che non desidera…”
    “Chiedere non costa nulla! Tu non insistere, non mettergli pressione e… beh, vedi che cosa ti dice! Magari è proprio un campo da pallavolo il luogo più adatto per tendervi la mano…”
    Hinata cacciò dalla tasca il suo bigliettino dorato e lo osservò, incerto.
    Sugawara aveva ragione su tutta la linea.
    Andare con Ushijima a vedere la partita sarebbe stato grandioso, anzi no, epico!
    Doveva provare ad invitarlo!
    C’era solo un piccolissimo, minuscolo problema…
    Dove diavolo avrebbe trovato il coraggio di farlo?!
     
     
    *** 

     
    Ushijima, amico mio, guarda cosa ho trovato nella cioccolata!
    No, pessimo! Terribile davvero!
    Ciao Ushijima! Ascolta, lo so che mi odi dal profondo del tuo cuore, ma ehi! Posso comprare un po' del tuo rispetto e un briciolo della tua fiducia con un paio di biglietti per la partita dell’anno?
    Perfetto… se voleva farsi cacciare di casa!
    Ushijima, senti, io non so più cosa fare per legare con te! Ti scongiuro! Non mi cacciare un’altra volta!
    Ma sì, perché non buttarla sulla pietà?!
     
    Hinata evitò di affettarsi le dita insieme al sedano per puro e semplice miracolo.
    Posò il coltello accanto al tagliere, chiuse le palpebre e cercò di calmarsi.
    Aveva passato le ultime tre ore a formulare un numero incalcolabile di approcci per porgere a Ushijima il fatidico invito, ma ognuno di essi gli era parso semplicemente patetico - per non dire agghiacciante!- al punto che avrebbe preferito scappare in Messico piuttosto che pronunciare frasi simili.
    Quindi era così che si sentivano i ragazzi quando decidevano di chiedere alle persone per cui avevano una cotta di uscire per un appuntamento romantico…
    A Hinata andò di traverso la saliva.
    No, quel paragone non aveva il minimo senso!
    Ma proprio nemmeno un briciolo, nemmeno un filino!
    Mica stava chiedendo a Ushijima di uscire con lui, santo cielo!
    O era così che suonava da fuori, magari?
    Oddio, voleva morire!
    “Devi chiedermi qualcosa, per caso?”
    Hinata saltò sul posto in modo tanto violento che finì per rovesciare la pila di pentole poste sul bordo del bancone, creando un frastuono metallico che assordò sia lui che Ushijima per qualche secondo.
    Si fiondò a terra a recuperare uno per uno gli utensili con una foga inaudita, sbattendo a terra le ginocchia e maledicendo la sbadataggine che gli rendeva malferme le mani, poi però si fece forza e lentamente alzò gli occhi sul suo interlocutore.
    Ushijima lo osservava guardingo da vicino ai fornelli, cipiglio severo, mascella contratta.
    “Co-come scusa? Non ti ho sentito!” mentì Shoyo, giusto per guadagnare un altro po' di tempo.
    “Devi chiedermi qualcosa, ne sono abbastanza sicuro…” affermò quindi Ushijima, scrutandolo come se avesse potuto trovare scritta la risposta che voleva direttamente sulla faccia di Shoyo.
    “E p-perché lo pensi?”
    “Perché stai pericolosamente zitto quando devi chiedermi qualcosa… soprattutto quando sai che non mi piacerà.” asserì, con un tono che tradiva un velo di preoccupazione “Sbaglio?”
    Nel giro di un minuto, il cervello di Hinata elaborò circa trenta diversi piani di fuga, uno più idiota dell’altro: accarezzò l’idea di fingere un malore, di mimare una telefonata urgente, perfino di svenire lì, sul pavimento della cucina, facendo appello a tutte le proprie – inesistenti- doti attoriali. Alla fine, però, tutto ciò che Shoyo fece fu serrare i pugni, fin quasi a imprimersi le unghie nella carne, prendere un respiro profondo e marciare verso Ushijima, arrivandogli a meno di un passo di distanza.
    Non era il momento di comportarsi da codardo.
    Sugawara aveva ragione, chiedere non costava nulla.
    La partita d’argento era un ottimo pretesto per mettere a suo agio l’algido asso della Shiratorizawa e convincerlo a sbottonarsi un po' con lui. Shoyo era certo che non avrebbe mai più avuto un’occasione del genere, per cui tanto valeva non avere rimpianti e buttarsi nell’ignoto, quale che fosse stato l’esito finale.
    “Japan, io ho vinto questi, oggi pomeriggio. Sono due biglietti per la partita d’argento che si terrà sabato a Tokyo.” cominciò, tirando fuori dalla tasca il biglietto dorato, trovato nella cioccolata.
    Ushijima sgranò gli occhi verdi, “Hai avuto un bel colpo di fortuna. Avevo chiesto ai miei manager di procurarmene uno, ma sono già terminati.” affermò atono, tuttavia a Shoyo non sfuggì affatto il modo in cui aveva preso a fissare il biglietto incriminato. Trattenne il fiato: era la prima volta che vedeva Ushijima Wakatoshi seriamente interessato a qualcosa che provenisse dalla sua persona, e ciò lo fece sentire potente, gonfiando a dismisura la fiducia che riponeva in sé.
    “Uno puoi averlo tu, allora!” offrì Shoyo, raggiante “Mi fa piacere, così posso sdebitarmi almeno un po' per la tua ospitalità!”
    “Non devi sentirti obbligato. Non ti sto ospitando per avere qualcosa in cambio da te, Hinata Shoyo.” fu la risposta dell’asso, la quale ebbe il potere di provocare un brivido lungo la nuca di Hinata a causa della voce roca e austera con cui venne pronunciata.
    “Lo so, certo! Ma sarebbe davvero importante per me che tu accettassi.” si affrettò quindi a ribadire.
    Ushijima rimase in silenzio per un lungo secondo, infine “D’accordo, grazie.” acconsentì, prima di tornare a spadellare le uova sul fuoco.
    Hinata dovette chiamare a raccolta tutto l’autocontrollo che possedeva per non mettersi a esultare, saltellando e gridando in giro per la cucina.
    Ushijima gli aveva detto di sì, gli aveva detto di sì per davvero, sarebbero andati insieme alla partita!
    Era così felice!
    Appena avrebbero finito di cenare, sarebbe corso in camera a raccontarlo a Suga, ringraziandolo ancora una volta per il suo consiglio e per-
    “Inviami il biglietto su WhatsApp, per favore. Sabato mi alleno con la nazionale, così mi porto un cambio e posso raggiungere la stazione dalla palestra.” proruppe Ushijima distrattamente, mentre impiattava.
    Il cuore, il sangue e il cervello di Hinata si arrestarono in un’unica, brutale fitta di dolore, come se un pezzo di cemento fosse appena finito in mezzo ai loro ingranaggi, arrestandone il funzionamento.
    Congiunse le mani in grembo e prese a torturarsi le unghie, avvertendo la delusione divorarlo un pezzetto alla volta. “U-Ushijima…” disse con il poco fiato che gli era rimasto nei polmoni “Io volevo andarci insieme, a dire il vero… un biglietto per te e uno per me… sai, prendere il treno per Tokyo, andare al palazzetto, sederci vicini…”
    Quando il ragazzo più alto si voltò verso di lui, Shoyo capì che cosa si dovesse provare dopo una coltellata.
    Che illuso che era stato.
    Ushijima Wakatoshi non aveva mai avuto intenzione di passare del tempo con lui, non aveva accettato in nome della sottospecie di legame speciale che Hinata pensava di star creando e invece - a quanto pareva- esisteva solo ed esclusivamente nella sua testa bacata.
    Aveva accettato per nient’altro che la distaccata, anonima cortesia che il giocatore era solito riservare a chiunque. Perché andare a quella partita gli faceva comodo, come a qualsiasi altro appassionato di pallavolo, ma di certo, compiere l’esperienza insieme a Shoyo, andava al di là del suo margine di sopportazione.
    Abbassò il capo, fissando le piastrelle lucide del pavimento: l’unico modo che conosceva per nascondere le lacrime che si stavano addensando tra le sue ciglia.
    “Non ti preoccupare, mi sono espresso male io…” si sforzò di asserire, senza risultare patetico agli occhi dell’asso. D’altronde, insistere lo avrebbe soltanto fatto passare per il ragazzino invadente che era stato fino a quel momento, e lui aveva promesso a Suga e a se stesso che non lo sarebbe stato mai più nei confronti di Ushijima. “Ascolta, perché non li prendi tutti e due, eh? Potresti chiedere a Tendou di accompagnarti! O a chiunque tu voglia!” esclamò, forzando un sorriso “Ti mando su WhatsApp entrambi, così non hai problemi! Io… io ora vado un attimo in bagno, non mi sento troppo bene, credo di aver fatto indigestione di cioccolata… mangia senza di me, ti prego! A dopo! Buon appetito!”
    A quel punto, si girò su se stesso e quasi prese la rincorsa per fiondarsi fuori dalla stanza.
    Trattenere le lacrime ormai stava diventando impossibile, ma doveva resistere almeno fino alla porta della sua camera prima di poter dare libero sfogo alla tristezza che lo stava soffocando.
    Aveva appena varcato il corridoio, quando una mano gli afferrò il polso e lo trattenne.
    Hinata si voltò, gli occhi lucidi sbarrati dalla sorpresa.
    Era la prima volta, da quando lo aveva tenuto fermo sul lettino di un pronto soccorso, che Ushijima Wakatoshi lo toccava in maniera così diretta. Di solito rifuggiva il contatto fisico con ogni scusa concepibile, invece in quell’istante, le sue dita lunghe e spesse, lievemente callose, rimasero allacciate salde al suo polso, racchiudendolo senza alcuna fatica.
    La sua figura emanava vigore e fermezza perfino così, in completo silenzio, in una semplice cucina e con addosso una banale tenuta da casa. Come in campo, il suo sguardo era di un verde cupo, fasci di rovi in cui rimanere incastrati era tanto facile quanto letale.
    “Va bene, verrò con te.” pronunciò con la sua voce cupa, da adulto.
    Hinata deglutì, finanche le lacrime si erano come cristallizzate sulle sue palpebre per lo shock.
    “Non è necessario, ti sto regalando i biglietti, puoi andarci con chi vuoi…”
    “I biglietti sono tuoi, li hai vinti tu.”
    “Non importa, davvero...”
    “Non mentire, non è vero che non ti importa.”
    Hinata accusò il colpo, imprecando mentalmente.
    Nel suo non conoscere filtri, Ushijima sapeva essere veramente glaciale.
    “Japan, tu non vuoi venire con me, è evidente. Ma non me la prendo, non ti preoccupare. Non voglio costringerti a fare le cose per pietà o per sfinimento, per cui…”
    All’improvviso, la presa sul suo braccio si strinse e in Hinata si formò la consapevolezza nuda e cruda che Ushijima, se avesse voluto, avrebbe potuto spezzargli un osso solo con la pressione di una mano.
    “Hinata, io non provo pietà per nessuno e non mi sfinisce niente. Se faccio una cosa è perché la voglio fare.” affermò, con tono evidentemente piccato.
    “Non volevi salvarmi e non mi volevi a casa, eppure sono qui.”
    Un attimo di esitazione, “Quella è un’altra storia.” affermò “Mi va bene venire con te alla partita. Tornerò qui dopo l’allenamento, andremo insieme alla stazione e poi raggiungeremo il palazzetto di Tokyo.”
    “Ne sei sicuro?”
    “Sì, sono sicuro.”
    Ci fu un secondo, dopo che ebbe pronunciato quelle parole, in cui Hinata ebbe l’impressione che il mondo avesse smesso di ruotare sul proprio asse.
    Non riusciva a vedere altro che non fosse il verde di quelle iridi, dure come pietre, ancorate alle sue.
    Non riusciva a sentire altro che non fosse l’odore fresco del bagnoschiuma dell’altro ragazzo né a provare qualcosa che non fosse il fuoco ustionante che si irradiava a ondate dal suo polso intrappolato.
    Non sarebbe mai stato in grado di spiegarlo a parole, ma quel secondo, quella infinitesima frazione di tempo, fu qualcosa di potente e terrificante, simile a uno scintillio nel buio, che anticipava lo scoppio di un incendio.
    Seppe che Ushijima doveva aver provato lo stesso, quando lo lasciò andare di scatto e fece un passo indietro, scuotendo il capo come se si stesse scrollando di dosso un insetto fastidioso.
    “Mangiamo adesso, le uova si saranno già raffreddate.”
    Hinata trovò appena la forza di annuire.
    Il cuore completamente sottosopra.
     





    NOTE AUTORE
    • La desinenza -chan in Giapponese viene usata quando si ha molta confidenza con una persona e/o si parla con una persona più piccola di età (anche di poco). All'inizio del capitolo, SHOCCHAN (cioè le prime lettere di Shoyo, il nome di Hinata, Sho + chan) viene usato da Tanaka e Nishinoya come un vezzeggiativo/una presa in giro.
    • Ricordo che la parola senpai viene usata per indicare una persona più grande di età e/o che ricopre ruoli più alti (in questo caso, i ragazzi della Karasuno sono tutti più grandi di Hinata, essendo al secondo/terzo anno)
    • La partita d'argento è una mia invenzione, non esiste in realtà

    Ed eccoci tornati, amici! :)
    Dopo la pausa natalizia, che ha visto la pubblicazione della raccolta Christmas won’t be the same without you, Le Cose Che So Su Di Me torna con il decimo capitolo.
    Lo so, immagino che siate un po' sorpresi dalla presenza del POV di Hinata… ebbene, sappiate che sono in arrivo un po' di capitoli di questo tenore! :P
    Per quanto costituisca uno studio del personaggio di Ushijima Wakatoshi, questa fanfiction rimane pur sempre una storia romantica, motivo per cui reputo fondamentale sviluppare anche il personaggio di Hinata, dandogli uno spessore come singolo, oltre che, ovviamente, mostrare come viva lui certi avvenimenti e certi atteggiamenti di Ushijima.
     
    Come qualcuno di voi avrà notato, questo capitolo è del tutto speculare al capitolo 7, in cui era Ushijima a riflettere sul suo rapporto con Hinata. Le differenze però sono sostanziali: il modo di reagire di Hinata è decisamente più infantile e “teatrale” di Ushijima, cerca il contatto fisico, si deprime facilmente, cerca la protezione di Sugawara etc.
    Per quanto riguarda l’ultimo paragrafo, invece, lascio a voi i commenti! >.< Sono curiosa di sentire le vostre reazioni a caldo (soprattutto sul cosa abbia spinto, secondo voi, Ushijima ad accettare)!
    Siamo ormai in una parte del tutto diversa della storia rispetto a prima: dopo scontri e titubanze, a passi piccolissimi, Ushijima e Hinata stanno cominciando un percorso di avvicinamento.
    Ma sarà così facile?
     
    A presto,
    Violet Sparks

     
     
     
     

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    Capitolo 11
    *** La partita d'argento (Parte I) ***


    CAPITOLO XI
    La partita d’argento
    (Parte I)
     
    Le condizioni del nostro corpo
    a volte possono mutare senza nessun preavviso.
    Lo sapevi?
    L'amore fa battere il cuore proprio come il panico.
    - Grey’s Anatomy
     
     
    Shoyo aprì un poco le gambe, mise le mani sopra i fianchi, si girò a destra, poi a sinistra, tornò in posizione con i piedi uniti. Provò a infilare un orlo della maglietta dentro ai pantaloni, a sciogliere i risvolti dei jeans, a coprire le sue braccette striminzite con l’aiuto di una felpa strategica, eppure l’immagine che gli rimandava lo specchio era sempre la stessa: sembrava un moccioso delle elementari.
    Guaì di frustrazione, prima di buttarsi sul letto di faccia e cominciare a scalciare contro coperte e cuscini.
    Fosse stato venti centimetri più alto, l’outfit non avrebbe sortito lo stesso effetto -ne era certo- e lui sarebbe apparso come un qualsiasi studente di scuola superiore, casual ma composto, semplice ma curato.
    Aveva optato per qualcosa di classico, d’altro canto, come gli aveva suggerito anche Yachi: una maglietta a mezze maniche bianca con una piccola scritta nera sul petto, un jeans beige chiaro, le sue fedeli Converse bianche e una felpa per non accusare l’aria condizionata dei mezzi di trasporto, quella verde un po' oversize che gli aveva regalato Kageyama al suo compleanno.
    Se fossero stati lui o Yamaguchi a indossare quegli abiti -dall’alto del loro metro e ottanta- sicuramente sarebbero apparsi molto meglio di quanto non stessero facendo su di lui in quel momento, piccoletto e scheletrico come una zanzara.
    Si rigirò sul materasso, sbuffando e succhiandosi l’interno delle guance, quindi lasciò scivolare una mano al di sotto del cotone della maglietta, prendendo a carezzarsi distrattamente l’addome, mentre fissava il soffitto pallido sopra di sé.
    Il weekend era arrivato in fretta, complice la trepidazione, mista all’ansia, per l’imminente partita.
    Shoyo non aveva mai smesso di riflettere sul perché, alla fine, Ushijima avesse accettato di andare insieme a lui alla partita, nonostante l’evidente ritrosia che gli aveva letto in faccia, ma più lo faceva, più si ingarbugliava nei suoi stessi pensieri, arrivando ad un grado di avvilimento quasi insopportabile. Non voleva pensare che fosse stata semplice pietà nei suoi confronti, per la reazione da bambino che non era riuscito a trattenere in cucina, eppure nessun’altra spiegazione gli appariva altrettanta coerente, e l’angoscia lo atterriva.
    Perfino Sugawara, quando gli aveva raccontato l’accaduto per telefono, era stato abbastanza criptico.
    “Non saprei, Shoyo, ma non credo si tratti di carità. Ushijima non mi pare una persona che si fa impietosire da qualche lacrimuccia, anzi, hai sempre detto che è poco incline alla debolezza.” aveva constatato il suo senpai, dall’altra parte della cornetta.
    “Beh, la sera dell’aggressione ha dimostrato il contrario. Se non gli avessi fatto pietà per le mie condizioni, non credo si sarebbe fermato.” era stata la risposta mesta di Shoyo.
    “Ushijima non ti ha salvato per pietà, ma per senso di responsabilità, è una cosa diversa.” gli aveva fatto notare il ragazzo più grande, sorridendo “Comunque, qualsiasi siano state le sue ragioni, non pensarci troppo! Cerca di rilassarti e goderti la serata…”
    Già, peccato che fosse più facile a dirsi che a farsi!
    Aveva paura di rovinare tutto, dicendo o facendo qualche sciocchezza che avrebbe portato Ushijima ad allontanarsi definitivamente da lui, dopo i piccoli passi avanti che avevano conquistato.
    E se si fosse annoiato a morte e lo avesse mollato da solo a Tokyo? E se avesse fatto finta di non conoscerlo per tutta la serata?
    Hinata si schiaffò da solo una mano sulla fronte; quei pensieri erano assolutamente irrazionali, Ushijima era tutt’altro che un ragazzo infantile, non si sarebbe mai comportato così!
    Una vibrazione, nella tasca posteriore dei pantaloni, lo avvertì dell’arrivo di un messaggio.
    Sorrise ancor prima di leggerne il contenuto: era da parte di Sugawara.
    “Non essere nervoso, andrà tutto bene! Rilassati!”
    Ripose il cellulare e scese dal letto con un agile balzo, non meno agitato, ma sicuramente più risoluto di prima. Era inutile farsi divorare vivo dall’ansia, avrebbe soltanto peggiorato la situazione. Quella serata sarebbe andata esattamente come doveva andare, né più né meno, e qualsiasi fosse stata l’origine della straordinaria magia che aveva fatto cambiare idea a Ushijima Wakatoshi sul suo invito – beh!- ormai non importava, perché adesso aveva un’occasione per avvicinarsi a lui, per condividere qualcosa di bello sulla pallavolo, la passione più grande della sua vita, e Shoyo non intendeva continuare a piangersi addosso come un poppante!
    Guardò l’orologio, mentre si fiondava, a passa di marcia, fuori dalla propria stanza.
    Dovevano darsi una mossa, se non volevano perdere il treno. Aveva sentito sicuramente Ushijima tornare a casa dopo l’allenamento e chiudersi in bagno, ma poi non aveva più avuto sue notizie, per cui immaginava che si stesse ancora preparando.
    Shoyo si stava giusto chiedendo se fosse stato il caso di bussare alla sua porta per dirgli che era pronto, quando all’improvviso se lo ritrovò in soggiorno, accanto alla porta, intento a infilarsi le scarpe.
    Rimase pietrificato.
    Ushijima era bellissimo.           
    Si rese conto che era la prima volta che lo vedeva in una tenuta diversa da quella sportiva, fatta di tute larghe, felpe e completini. Non si era mai domandato che stile avesse o come potesse apparire in degli abiti comuni, scelti da lui in persona, e adesso che conosceva la risposta – pensò, con una buona dose di imbarazzo- non si sarebbe levato quell’immagina dalla testa per un bel po' di tempo.
    Aveva un jeans nero che gli fasciava le gambe perfettamente, lasciandogli scoperte la pelle tese delle caviglie, una maglietta semplice, dello stesso colore e una camicia di velluto a costine, di un grigio brillante, lasciata aperta per tutti i suoi bottoni. Portava al polso un orologio d’acciaio dall’aria costosa, ai piedi un paio di Nike il cui prezzo, ad occhio e croce, doveva comprendere tutto ciò che Hinata aveva addosso in quel momento, cellulare compreso, e infine una cintura di pelle, di un marchio italiano famoso, che si intravide nel momento in cui il ragazzo si alzò per riporre il portafogli nella tasca sinistra dei pantaloni.
    Non c’era niente di particolarmente ricercato nel suo outfit, eppure Ushijima somigliava al modello di una rivista o, almeno, ad uno studente appena uscito da un campus universitario.
    La sua presenza era virile, solida, energica, emanava fermezza e rigore ad ogni singolo respiro.
    Tutto al contrario di Hinata insomma che, seminascosto nel suo angolino, desiderò soltanto tornare in camera, nascondersi sotto al letto e non uscire mai più, tanta era la vergogna che provava.
    Quella era la differenza tra loro due: Ushijima Wakatoshi era un adulto, fatto e finito.
    Lui nient’altro che un moccioso insignificante.
    “C’è un motivo particolare per cui mi stai fissando?” chiese Ushijima di punto in bianco, facendogli rimbalzare il cuore su e giù, dai piedi alla gola, come una pallina da ping-pong.
    Hinata si fece rosso e mosse qualche passo in avanti, più per l’agitazione che perché avesse avuto intenzione di farlo. “S-scusa!” si affrettò a dire, torturandosi il labbro “È che mi hai colto di sorpresa… è la p-prima volta che ti vedo vestito così… è un po' strano…” ammise, con un breve sorriso.
    Ushijima allora alzò il capo e lo fissò interdetto, il verde dei suoi occhi reso ancora più intenso dal contrasto che il nero della maglietta creava con la sua carnagione. Senza un motivo preciso, le iridi di Hinata si mossero sulla sua figura longilinea, soffermandosi sul petto ampio, le braccia grosse, i fianchi stretti… si bloccò soltanto perché provò talmente tanto disagio per i pensieri che attraversarono la sua mente all’improvviso, che se avesse continuato sarebbe morto per autocombustione.
    “Sto male? Preferisci che mi cambi?”
    “No, stai benissimo!” rispose Hinata, prima di maledire la sua lingua lunga “Cioè, v-va bene così, non c’è bisogno di alcun cambiamento! Sei fanta- cioè no! È fantastico! È! Parlo dell’outfit, ovviamente! Non ti ho mai visto vestito come un comune mortale, per questo ti fissavo! Pensavo non possedessi altro che tute!” vomitò tutto insieme, mettendosi perfino a ridere in modo patetico della sua battuta altrettanto patetica.
    Ushijima lo stava guardando come se fosse pazzo, tuttavia “Preferisco le tute perché sono comode, ma non posso girare solo con quelle. Ci sono delle occasioni per cui non sono adatte.” gli spiegò con immotivata serietà “Se sei pronto, andiamo. Se perdiamo il treno, potremmo arrivare tardi alla partita.”
    “Certo sì! Andiamo!” esclamò Hinata e si accodò a lui.
    Chissà quando sarebbe finita quella escalation di figuracce…
     
    ***
     
    In treno, la distanza tra la prefettura di Miyagi alla città di Tokyo si riduceva a poco meno di due ore e mezzo.
    Hinata e Ushijima si erano seduti uno di fronte all’altro, lato finestrino, le punte delle loro scarpe vicine ma non abbastanza da toccarsi.
    Non si erano detti molto, né durante il tragitto fino alla stazione né al momento di salire sul mezzo di trasporto, e Hinata si era pure preparato a quell’imbarazzante possibilità, facendo un elenco approssimativo di argomenti di cui poter trattare per smorzare l’imbarazzo, tuttavia, ora che si trovava nella situazione concreta, non ne avvertiva la necessità.
    Ushijima sembrava tranquillo, rilassato, forse per la prima volta da quando lo conosceva.
    Osservava fuori dal finestrino, lo sguardo perso, le spalle che si alzavano e abbassavano ritmicamente sotto la spinta regolare del suo respiro.
    Com’era quella frase che aveva letto sul libro di inglese?
    Un penny per i tuoi pensieri?
    Hinata avrebbe pagato l’anima al diavolo pur di sapere cosa stesse passando per la testa del ragazzo dei miracoli.
    “Lo stai facendo ancora, mi stai fissando.” proruppe d’un tratto il fulcro delle sue elucubrazioni, senza guardarlo “In realtà lo fai spesso, ma quando è così plateale, faccio fatica a ignorarlo.”
    Hinata trasalì, si strinse nelle spalle e “Scusa, non volevo infastidirti.” ribatté, desolato. Avrebbe voluto fermarsi lì, ma fu più forte di lui, adesso che il ghiaccio era rotto, sarebbe stato un peccato non approfittarne, per cui “È la prima volta che vedi dal vivo una partita della nazionale?” chiese, con un filo di voce.
    “No,” esalò Ushijima, poggiando il mento sul palmo della propria mano “quando avevo sette anni, mio padre mi ha portato ai quarti di finale dei mondiali: il Giappone giocava contro la Germania.”
    “Wao! Deve essere stato pazzesco!”
    Un sorriso impercettibile parve formarsi sulle labbra dell’asso, “Sì, in effetti fu una bella serata.”
    “Aspetta, quindi anche tuo padre è un appassionato di pallavolo?”
    “Mio padre è stato membro titolare della Shiratorizawa, l’anno in cui vinse i Nazionali inter-liceali e attualmente allena gli Irvine Polar Bears, in California.”
    A quelle parole, Hinata quasi balzò in piedi sul sediolino del treno. “Ma è fantastico! Quindi è un talento di famiglia il tuo! Si può dire che tu abbia la pallavolo nel DNA!” gridò tutto d’un fiato, guadagnandosi un’occhiataccia dai passeggeri vicini. Anche Ushijima gli lanciò un breve sguardo di rimprovero, poi però tornò a concentrare la propria attenzione sul paesaggio, scrollò le spalle e “Non conosco la composizione esatta del mio DNA, ma sì, è stato lui a farmi scoprire la pallavolo.” rispose, con un’espressione assorta, come se la sua mente, in quel momento, si trovasse in luoghi molto lontani da lì “Giocavamo in salotto, quando abitavamo in città, oppure nel giardino dei miei nonni… ci passavamo le ore…”
    Shoyo sorrise, completamente rapito dal racconto: trovavo tutto quello a dir poco straordinario.
    Certo, sua madre si era sempre interessata alla sua passione per la pallavolo, sforzandosi di seguire le sue partite e di imparare le regole; e anche Natsu, benché ancora troppo piccola per prendere una decisione in merito, negli ultimi tempi aveva dato prova di una certa inclinazione verso lo sport praticato dal fratello, ma avere una persona in famiglia con cui condividere davvero l’amore e l’entusiasmo, una persona con cui giocare ogni giorno in casa propria per ore e ore, era un privilegio che Shoyo considerava inestimabile.
    “Mamma mia! Deve essere stupendo! Sono così invidioso!” affermò quindi, agitando le braccia davanti a sé, in preda al fervore.
    “Ti assicuro che non c’è niente per cui essere invidiosi.”
    “Immagino che ti dia consigli e dritte sugli allenamenti, che guardi sempre le tue partite, che vi scambiate in continuazione commenti su campionati e su-“
    “Non facciamo niente di tutto questo.”
    Hinata seppe di aver parlato a sproposito quando notò che il corpo di Ushijima, all’improvviso, era diventato un unico nervo teso, un elastico stirato fino all’orlo dello strappo.
    La sua mascella era serrata al punto da ingrossare i tendini del collo, la sua intera figura vibrava, mentre le dita della sua mano destra si erano arpionate a un lembo della camicia, con una forza tale da sbiancare le nocche.
    Eppure, non fu nessuno di quei dettagli quello che colpì Hinata come un pugno allo stomaco.
    Furono gli occhi di Ushijima, ancora caparbiamente fermi sul paesaggio campestre che si avvicendava al di là del finestrino, rabbuiati da un’ombra cupa, che Hinata identificò subito come amarezza.
    Aveva toccato un tasto dolente?
    In effetti, ora che ci rifletteva, quella era solo la seconda volta che Ushijima nominava suo padre e la prima che lo aveva fatto, non aveva mai accennato al perché si trovasse all’estero né alla quantità di tempo che ci avrebbe passato. Da quando abitavano insieme, non lo aveva mai sentito ricevere una telefonata o una videochiamata da suo padre, e se aveva un lavoro in California, era facile intuire che dovesse vivere lì più o meno stabilmente, lontano chilometri e chilometri dal Giappone e dalla sua famiglia…
    Che Ushijima soffrisse di quella lontananza?
    Shoyo aveva sempre dato per scontato che al giovane asso, maturo e indipendente com’era, facesse comodo stare da solo, concentrarsi su nient’altro che la propria crescita personale e atletica, ma, alla fine, la mancanza di qualcuno di importante come un genitore non era comunque qualcosa di innaturale, doloroso? Non era comunque qualcosa di complicato per un ragazzo di soli diciotto anni?
    Hinata si morse a sangue le labbra.
    Avrebbe voluto dirglielo così tanto – io ti capisco. Tu non lo sai, ma questa amarezza che stai provando, anche io la conosco bene! Ormai la tengo cucita su di me come fosse un secondo strato di pelle!- invece rimase in silenzio, lasciando che il rumore metodico delle rotaie riempisse il vuoto.
    Spostò l’attenzione sul mondo dietro al vetro e sospirò con rammarico.
    Era buffo, lui e Ushijima Wakatoshi probabilmente condividevano più di quanto potesse essere sospettabile.
    Peccato che non avrebbero mai avuto l’occasione di confessarselo.
     
    *** 
     
    La stazione di Shinjuko era un alveare di persone che ronzavano tra i binari, simili a tanti insetti impazziti, intente a chiacchierare, passeggiare o semplicemente correre verso la prossima meta.
    Hinata si guardava intorno, spaesato ed emozionato allo stesso tempo, cercando di assimilare dentro di sé quella tempesta di colori, odori e rumori, ma sentendosi infinitamente troppo piccolo per poter carpire ogni cosa.
    Non aveva mai visto tanta gente concentrata in un solo luogo, tanta vita vibrare tutta insieme, in un unico fascio di energia primordiale.
    Negozi delle marche più famose e piccole boutique si alternavano nel dedalo di corridoi che collegava le ben duecento uscite della stazione, disposte tra i quattro punti cardinali che fungevano da riferimento per raggiungere differenti zone della città. Ragazzi in cosplay e adulti in giacca e cravatta camminavano fianco a fianco, confondendosi l’uno con l’altro e dimenticando qualsiasi distinzione, mentre un lieve sottofondo musicale, proveniente dagli autoparlanti agli angoli delle pareti, accompagnava le loro voci concitate.
    A Hinata venne l’acquolina in bocca alla vista degli innumerevoli ristoranti che attiravano la clientela con le loro insegne luminose: alcuni così lussuosi da mettere soggezione soltanto ad affacciarsi dalle porte d’entrata, altri più semplici, composti solo da un bancone, qualche sgabello e un cucinino a vista, che dispensavano aromi di arrosto e di spezie, tanto appetitosi da far borbottare la pancia.
    D’un tratto, Hinata non poté fare a meno di fermarsi davanti alla vetrina di una pasticceria, le mani e la fronte appiccicate al vetro come un bambino al cospetto del suo primo negozio di dolciumi.
    Muffin dalla glassa colorata, torte a strati, macarons, cupcake variopinti, biscotti dalle mille forme e dimensioni… Shoyo accarezzò l’idea di entrare a farsi una bella scorpacciata, spendendo tutta la propria paghetta – senza rimpianti! Qualsiasi fosse stato il costo di quelle tortine alle fragole sarebbe valsa assolutamente la pena!- se non che, all’improvviso, una voce burbera lo riportò sul pianeta Terra.
    “Hinata Shoyo, non ti fermare per favore.” disse infatti Ushijima, le sopracciglia increspate in un cipiglio severo. Si ergeva solido e ritto in mezzo alla folla -il tronco di una quercia al centro di un formicaio brulicante- ma era evidente che nemmeno lui fosse del tutto a suo agio in quella confusione.
    “Stavo solo…”
    “E soprattutto non fermarti senza dirmelo. C’è troppa gente e questo posto è un labirinto, se ci perdiamo faremmo fatica a ricongiungerci.”
    “Sì, scusa.”
    “Andiamo, dobbiamo prendere la metropolitana.”
    Hinata seguì Ushijima senza più fiatare, non prima però di aver lanciato un’ultima, tristissima occhiata verso la tortina alle fragole che avrebbe rimpianto per il resto della sua vita.
    Sospirò mesto, quindi si morse le labbra in preda al nervosismo. Ushijima aveva ragione, c’erano così tante persone che, qualora si fossero persi, non avrebbe mai potuto ricongiungersi, e la cosa peggiore era che sembravano addirittura aumentare, via via che scendevano le scale in direzione delle linee della metropolitana.
    Hinata si strinse nelle sue stesse braccia, frastornato da tutte quelle spalle che lo sballottolavano a destra e a manca come una pallina da paintball, e cercò di concentrarsi il più possibile sulla stoffa morbida della camicia di Ushijima, ringraziando la sua stazza non indifferente, che lo rendeva riconoscibile in mezzo a quel marasma.
    Gli stava talmente appiccicato che per poco non gli andò a sbattere contro, quando l’asso si bloccò alla fine della scalinata.
    “La nostra è la linea rossa, ci porterà direttamente fuori al palazzetto.” affermò dunque il ragazzo, mostrandogli una mappa piuttosto articolata sullo schermo del cellulare.
    In effetti, Hinata non si era minimamente posto il problema di pianificare il loro itinerario di viaggio. Una volta usciti di casa, Ushijima era partito a passo di marcia verso la stazione dei treni e lui si era limitato a seguirlo, come un cagnolino ubbidiente, dando per scontato di potersi affidare a lui. “Sono soltanto quattro fermate, ma siamo nell’ora di punta, per cui ci sarà molta gente. Stai attento ai tuoi averi, cerca di non farti trascinare dalla folla e soprattutto evita di cadere, potresti morire schiacciato.”
    Hinata sbiancò.
    Potevano succedergli cose del genere in una metropolitana? Com’era possibile? Perché nessuno glielo aveva detto prima? E se era così pericolosa, perché la gente continuava ad usarla?
    Nel giro di un secondo, sentì la gola occludersi e cominciarono a tremargli le mani.
    “Stai bene? Sei claustrofobico, per caso?” chiese Ushijima, con un sopracciglio sollevato.
    “N-no, m-ma è la prima v-volta che prendo una metro…” balbettò, terrorizzato “Non immaginavo f-fosse così pericolosa…”
    “Non è pericolosa di norma, è l’orario a non essere dei migliori per viaggiare su un mezzo di trasporto del genere. A quest’ora gli impiegati escono dagli uffici.” spiegò l’altro, proprio mentre un uomo sulla quarantina, in giacca e cravatta, lo urtò con una spallata per correre verso i binari. Hinata inorridì: se riuscivano a spostare quell’armadio di Ushijima, lui sarebbe volato per l’aria?! “Se preferisci, possiamo prendere un taxi.” propose quindi l’asso, visibilmente preoccupato dal panico che doveva essere impresso sul suo volto.
    “Un taxi? Ma da qui al palazzetto quanto ci verrebbe a costare, scusa?”
    “Non lo so, ad occhio e croce credo sui 4000 yen.”
    “4000 yen?!”
    Praticamente, tutto ciò che aveva nel suo portafogli!
    Guaì, cadendo nello sconforto più nero.
    “Non ci sono alternative, per gli autobus e i tram dovremmo fare troppi cambi e arriveremmo in ritardo, così come se decidessimo di andare a piedi.” gli espose Ushijima, a mano a mano che studiava le loro opzioni sullo smartphone “Se i soldi per il taxi sono un problema, posso pagare io per entrambi.”
    “No, ti prego, mi metteresti in imbarazzo…”
    A quel punto, Ushijima sospirò di impazienza, voltandosi verso la banchina e Hinata seguì a ruota la direzione del suo sguardo: la prossima metro sarebbe arrivata fra meno di un minuto, non potevano stare lì in eterno, dovevano prendere una decisione.
    Doveva prendere una decisione.
    Ancora tremante, Shoyo scosse forte la testa, scese l’ultimo gradino e si affiancò all’altro.
    “Non ti preoccupare dai, la metro va bene! Adesso mi calmo!” disse risoluto, prima di prendere un respiro profondo e raddrizzare le spalle. “Non c’è niente di cui avere paura! Sono solo quattro fermate, l’hai detto tu! Durerà pochissimo, devo solo resistere!” continuò ancora, facendo il possibile per autoconvincersi delle sue stesse parole.
    Ushijima esitò un istante – e Hinata ebbe la netta impressione che fosse sul punto di dirgli qualcosa- poi però si limitò ad annuire con il capo e “Cerca di tenere il passo. Se ci dividiamo, scendi al Tokyo Metropolitan Gymnasium, non puoi sbagliarti, d’accordo?” gli indicò, mostrandogli anche il tragitto sulla mappa in formato gigante delle varie tappe della linea rossa, posta accanto ai cartelloni pubblicitari.
    L’assenso di Hinata si perse in mezzo allo stridio dei freni della metro, che arrestava la propria corsa a poca distanza da loro.
    Ushijima gli lanciò un’occhiata dubbiosa dall’alto del suo metro e novanta, dopodiché gli fece un piccolo cenno e si avviò verso le porte automatiche.
    Hinata lo seguì immediatamente, reprimendo a stento l’impulso di aggrapparsi al retro della sua camicia.  
    Il numero di persone che uscì dal vagone, non appena si aprirono i passaggi, fu a dir poco terrificante, ma niente al confronto del sentirsi letteralmente trascinare all’interno, contro la propria volontà, dalla fiumana di corpi che si mosse in un’unica onda per entrare.
    Quando le porte si richiusero, Hinata smise di respirare.
    Il calore, gli odori, la pressione.
    La vertigine della velocità, l’ansia di non cadere.
    Le pareti sudice dei tunnel che sfrecciavano al di là dei vetri.
    I respiri bollenti che parevano penetrare attraverso i vestiti.
    Le schiene e i volti che lo attorniavano, lo soffocavano, simili a una orribile gabbia di carne.
    Shoyo si sentiva come annegare, chiuso in una scatola piena fino all’orlo di una paura liquida, che gli annebbiava la vista e gli faceva ronzare le orecchie.
    Tirava su col naso, apriva la bocca, ma non c’era ossigeno per i suoi polmoni, soltanto quel miscuglio di umidità ed effluvi che gli stava dando la nausea.
    Chiuse gli occhi.
    Voleva piangere.
    Forse lo stava facendo già.
    La voce metallica degli autoparlanti annunciò l’arrivo alla prima fermata, eppure, nel momento in cui i battenti si aprirono, non ebbe nemmeno la forza di trovare un appiglio per non farsi sospingere dalla calca. Voleva soltanto uscire da lì.
    Voleva soltanto che quelle sagome senza volto la smettessero di spostarlo, colpirlo, premerlo.
    Voleva respirare.
    Voleva urlare.
    Voleva…
    “Hinata Shoyo!”
    La voce di Ushiwaka.
    Ci mise un po' a mettere di nuovo a fuoco il mondo intorno a sé, ma quando lo fece, Shoyo si rese conto che non era più prigioniero di corpi sconosciuti bensì appoggiato contro la parete del vagone, accanto alle porte, in un angolino strategico formato grazie ad una lastra di plexiglass montata di fianco ai sedili.
    E a fargli da barriera dalla calca, come un guscio protettivo, vi era la figura torreggiante di Ushijima Wakatoshi.
    “Japan…” mormorò allora Shoyo, sorpreso.
    “Stai bene? Stavi iper-ventilando…” chiese il ragazzo, visibilmente preoccupato.
    “S-sì, adesso sì. Penso di aver avuto un leggero attacco di ansia…” rifletté, a mano a mano che riprendeva fiato. Il suo cuore perse un battito: era stato Ushijima a spostarlo e a trovare per lui quel luogo riparato? Lo aveva impensierito a tal punto da smuoverlo dalla sua apatia?
    “Qui dovrebbe esserci un po' di aria in più. Cerca di respirare lentamente.” affermò l’asso, rispondendo involontariamente alla sua domanda.
    Rinsaldò la prese sulle maniglie sopra le loro teste, nell’esatto istante in cui la metro subì un brusco scossone a causa di un cambio binari: la folla venne sbalzata di lato in malo modo, mentre Ushijima, nonostante avesse cercato di mantenere il peso sulle gambe, fu costretto a compiere un passo in avanti per non perdere l’equilibrio. 
    Hinata si fece viola.
    L’asso era vicino – terribilmente vicino- al punto che se avesse voluto guardarlo negli occhi, Shoyo avrebbe dovuto tendere il collo all’indietro, ma tanto non sarebbe mai stato in grado di fare niente del genere, morto com’era dall’imbarazzo.
    Non avendo alternativa, prese a fissare il cotone della sua maglietta nera, avvertendo le proprie guance scaldarsi fin quasi a prendere fuoco.
    Ispirò e inalò il profumo del suo collo, una fragranza sicuramente costosa, con uno spiccato accento virile, il quale si mescolava alla perfezione alla nota di talco di cui, di solito, la sua pelle odorava naturalmente. Per la seconda volta, quel giorno, non poté impedirsi di ammirare la fisionomia di quel corpo statuario, soffermandosi su dettagli mai scorti prima – un piccolo neo sul collo, il taglio netto della mandibola, l’ombra della rasatura fresca, il leggero solco al centro delle due clavicole, la linea morbida del suo costato messa in evidenza dalla postura delle braccia…
    Come doveva essere toccarlo?
    Che consistenza dovevano avere quei muscoli tonici, definiti?
    Cosa si provava a premere i palmi su quelle ossa spesse come blocchi di marmo?
    Prima che potesse controllarsi, la mente di Shoyo venne pervasa da una slavina di pensieri irrazionali, impudenti, impulsi che gli facevano formicolare la pelle, lasciandolo confuso, accalorato, turbato da se stesso e dal tenore oscuro dei suoi desideri.
    Abbassò la testa, allarmato dalla possibilità che Ushijima, in qualche modo, potesse leggergli in faccia quella confusioni di immagini e di sensazioni, tuttavia, nel tragitto verso terra, i suoi occhi rimasero impigliati nella porzione di pelle nuda della sua pancia, appena sopra la cintura, allora il suo sangue parve cristallizzarsi, smettendo di fluirgli nelle vene. 
    Un calore strano, pungente, prese a sfrigolargli in mezzo alle cosce.
    Tese ogni muscolo del suo corpo.
    Che cosa diavolo gli stava succedendo?
    “Siamo arrivati, dobbiamo scendere.” pronunciò la voce di Ushiwaka, sopra la sua testa.
    Hinata annuì.
     
    Gli ci vollero almeno venti minuti per ritrovare il coraggio di guardarlo di nuovo negli occhi.
     
     
     


     
    NOTE AUTORE
    Quanto ci metterà Shoyo a capire che forse – forse eh!- sta sotto a un treno per Ushijima Wakatoshi?
    Non è di coccio come la sua controparte, grazie al cielo, ma è pur sempre un adolescente di fronte alla sua prima cotta seria, lontana dal platonismo infantile quindi… non aggiungo altro, va’!
    Di sicuro, il nostro piccolo corvo sta cominciando ad avere a che fare con i primi impulsi sessuali!
    Ma gli vogliamo dare torto di fronte a quella statua greca che si ritrova per coinquilino?
    ECCO.
    VI SIETE RISPOSTI DA SOLI.
     
    Come starete notando, ultimamente sto inserendo dei piccoli accenni alla famiglia di Hinata, ma soprattutto a quella di Ushijima, che sarà un punto fondamentale dell’intera long. Sottolineo fin da ora che, per questo frangente, attingerò sempre dal canone, ma ho deciso di spingere un po' di più su certe situazioni, per legarle alla trama che ho in mente! Spero di non combinare disastri!
     
    Sottolineo che la metropolitana di Tokyo, nelle ore di punta, è sì un vero inferno, ma Ushijima è stato piuttosto teatrale nelle sue raccomandazioni. Il suo intento era buono ovviamente, dato che voleva solo mettere in guardia Shoyo, ma FORSE ha finito un pelino per esagerare… ^^’
     
    A presto!
    Violet Sparks

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    Capitolo 12
    *** La partita d'argento (Parte II) ***


    CAPITOLO XII
    La partita d’argento (Parte II)
     
    Il cambiamento non ci piace, ci fa paura.
    Ma non possiamo evitare che arrivi:
    o ci adattiamo al cambiamento o rimaniamo indietro.
    Crescere è doloroso.
    Chiunque vi dica il contrario sta mentendo. (...)
    E qualche volta, oh, qualche volta il cambiamento è bello.
    Qualche volta il cambiamento è tutto. 
    Grey’s Anatomy
     


    La partita d’argento era nata nel 1992 e già alla sua prima edizione aveva raggiunto un successo fuori dall’ordinario.
    Era partito tutto come un banale match di allenamento, organizzato dai due coach dell’epoca, Kim Gang-Tae e Reki Nagatsuka, legati da una amicizia di vecchia data. Lo scopo era quello di far competere le due squadre con avversari di alto livello, per affinare le strategie e correggere gli errori prima del grande debutto sui campi internazionali – dai mondiali, alle Champions League, fino ad arrivare alle tanto attese Olimpiadi- ma la faccenda era degenerata quando un noto sponsor del team giapponese, aveva deciso di invitare all’evento anche ex stelle della pallavolo, idol e personaggi di spicco, al fine di pubblicizzare un certo prodotto, con il risultato di fare il tutto esaurito a un’ora e un quarto dall’apertura delle vendite.
    Visto il successo inaspettato, per la lega era stato naturale trasformare la sfida in un appuntamento fisso che permettesse di raccogliere soldi per beneficenza e, sopra ogni cosa, donasse visibilità allo sport e agli sponsor che sostenevano i giocatori di entrambe le squadre.
    Col tempo, la partita d’argento aveva raggiunto una fama tale che procurarsi i biglietti era diventata un’impresa titanica, dato che la maggior parte di essi veniva distribuita tra l’élite dello sport o del mondo dello spettacolo, mentre la parte restante veniva venduta a cifre da capogiro.
    Per questo, Hinata non poté impedirsi di sorridere fin quasi a farsi male le guance, vedendo le due squadre che entravano in campo, in mezzo al clamore generale del pubblico.
    Non avrebbe saputo spiegare a parole la magia che stava vivendo, la potenza della folla, dei cori delle tifoserie, l’orgoglio di quei giocatori che parevano luminosi e invincibili come i supereroi dei manga.
    Si chiese cosa si provasse ad essere il centro di tanto scalpore: lui si era sentito così piccolo durante il torneo di primavera, di fronte agli schieramenti della Seijo o della Shiratorizawa, che rappresentavano forse appena un quarto della moltitudine presente su quegli spalti! Non osava immaginare il terrore e l’adrenalina di essere inneggiato da un numero tale di persone, essere l’oggetto di tante fulgide speranze.
    Il punto massimo dell’esaltazione, Hinata lo raggiunse insieme al fischio di inizio, nell’istante in cui il capitano della nazionale coreana si esibì in un ace diretto, con la battuta al salto più pulita che avesse mai visto da quando aveva scoperto che cos’era la pallavolo.
    Gli venne voglia di lasciare tutto e correre in palestra, prendere in mano una palla solo per sentire il cuoio liscio sotto le dita. Gli venne voglia di scendere in campo, mettersi in ginocchio e gridare a tutti: vi prego, fatemi stare qui, insieme a voi! Questo è il mio posto, questo e nessun’altro, ne sono più sicuro che mai!
    Se avesse potuto, non avrebbe nemmeno sbattuto le palpebre per non rischiare di perdere nessuna azione. Desiderava bere ogni singolo movimento di quelle persone, assorbirlo nelle membra, farlo proprio. Pensò che sarebbe stato bello anche soltanto tentare di schiacciare su una di quelle alzate, provare a eludere una di quelle difese, uno di quei muri.
    Quanto lavoro serviva per arrivare a quel livello?
    Quanto era lunga ancora la strada?
    Chilometri, probabilmente, migliaia, miliardi, eppure la cosa non riusciva a demoralizzare Shoyo.
    Più osservava i giocatori, più la consapevolezza di voler passare la vita su un campo di pallavolo si faceva chiara tra le valvole del suo cuore in subbuglio.
    Non c’era destino diverso per lui.
    Era scritto nel suo DNA, sotto la sua pelle, perennemente irrorato dal sangue.
    “Grande giocata…”
    Hinata quasi sussultò al sentire la voce di Ushijima di fianco a sé, non soltanto perché – si accorse- in maniera del tutto inconscia, aveva cancellato il mondo circostante in favore della partita, ma anche perché era la prima volta che il ragazzo apriva bocca, da quando avevano preso posto sugli spalti.
    Aveva ragione, la giocata appena conclusasi era stata uno spettacolo, ed era valsa un punto meritatissimo alla squadra giapponese. Hinata, dunque, girò il capo verso Ushijima per dirglielo, per elargire il suo personale commento con la speranza – magari!- di intavolare una discussione con lui, tuttavia i suoi occhi rimasero impigliati sul volto di Ushijima come un gancio in mezzo ai fili e, alla fine, non riuscì a proferire parola.
    Ushijima stava guardando la partita sulla punta della sedia, il busto proteso verso il campo quasi intendesse invaderlo da un momento all’altro, le labbra dischiuse e lo sguardo spalancato, a metà tra la concentrazione e la meraviglia.
    Fu immediato.
    Hinata riconobbe subito in lui i tratti della sua stessa fame, i sintomi della medesima malattia che tracciava il loro futuro in modo così irreversibile. E di rimando pensò che sì, forse lui e Ushijima Wakatoshi erano davvero come il sole e la luna, avevano mille cose che li rendevano opposti, ma il loro percorso no, non rientrava fra di esse, perché portava alla stessa identica meta, e ciò li avvicinava inesorabilmente.
    Loro due avrebbero giocato a pallavolo per tutta la vita.
    Era una certezza tanto quanto lo era il sorgere del sole al mattino, lo sbocciare dei fiori in primavera, ed era qualcosa di estremamente rasserenante, compìto, somigliava alla sensazione di lasciarsi andare nella corrente, sapendo che le onde del fiume non avrebbero mai potuto condurre in un luogo differente dall’immensità del mare.
    Da quel momento in poi, gli occhi di Shoyo tornarono ciclicamente su Ushijima, in un moto istintivo, come se ciò che accadeva in campo risultasse incompleto senza il corollario delle micro-reazioni che poteva leggere addosso al capitano della Shiratorizawa.
    Notò che il suo linguaggio del corpo esprimeva una scioltezza che non gli aveva mai visto prima, una morbidezza e una luce che si rifletteva, insieme al bagliore intenso dei fari del palazzetto, nelle sue iridi di un verde olivastro, ma più in generale era tutto il suo aspetto ad apparire molto più fluido, libero, lontano dal rigore che di solito gli cementava i tratti del viso.
    Era quello il vero Ushijima Wakatoshi?
    Era così che appariva quando era rilassato, quando non aveva orari da rispettare, diete, allenamenti, incombenze, pressioni?
    All’improvviso, il ragazzo si voltò verso di lui, cogliendolo in flagrante.
    Se si era accorto del suo interesse, fu abbastanza gentile da non farglielo pesare, tuttavia, per un secondo, Hinata ebbe l’impressione di cogliere un guizzo nel suo sguardo, come se avesse appena scoperto qualcosa di sorprendente da qualche parte sulla sua faccia e seguitasse nel tentativo di interpretarla.
    Quel dettaglio schermì Shoyo al punto da farlo agitare sulla sedia, così finì per cozzare con le gambe contro quelle di Ushiwaka al suo fianco.
    Anche in quel caso, il giovane asso non si lamentò.
    “T-ti sta piacendo la partita?” chiese quindi Hinata, per sfogare l’inquietudine che gli provocava quello sguardo così pesante.
    Ushijima parve ridestarsi da una specie di trance, assottigliò le labbra e “Sì, molto.” rispose brevemente.
    Sul campo da gioco, l’arbitro fischiò un time-out tecnico, dalla curva della tifoseria coreana si alzò un inno violento, accalorato, ma lui e Ushijima continuarono a fissarsi.
    “È questo che voglio fare, nella mia vita.” si lasciò scivolare allora Hinata, consapevole che forse solo il ragazzo di fronte a sé, insieme a pochissimi altri eletti sul pianeta, avrebbe capito ciò che intendeva davvero “Lo so che tu credi che io non sia in grado, ma non mi importa. Desidero giocare a pallavolo finché avrò forza nelle gambe, finché avrò fiato, finché il cuore non smetterà di battermi nel petto. Un giorno ci sarò io su quel campo, costi quel che costi. ”
    Ushijima rallentò il respiro, “Anche io voglio giocare a pallavolo, Hinata Shoyo, e lo farò per il resto della mia vita. Non ho alcun dubbio al riguardo.”
    Shoyo parve cogliere uno scippo simile ad un sorriso sulla bocca dell’altro ragazzo, ma poi la partita ricominciò e quello riportò la propria attenzione al centro del palazzetto, dove i giocatori si stavano riposizionando da una parte all’altra della rete, e a lui non rimase che tornare a guardare la partita d’argento, leggermente più frastornato di prima.
    La sua pelle sembrava calda sotto i jeans, nel punto dove le loro ginocchia si sfioravano.
    Preferì non chiedersi perché.

    ***
     

    Non si rivolsero più la parola fino alla conclusione della partita – arrivata circa mezz’ora più tardi con la vittoria della nazionale giapponese, dopo un terzo set particolarmente complicato- anche allora però si limitarono a qualche frasetta spicciola, giusto il necessario per decidere di accodarsi alla folla che emigrava, chiacchierando, verso l’uscita.
    Hinata marciò in silenzio dietro la schiena mastodontica di Ushijima che gli oscurava quasi del tutto la visuale, affidando a lui il loro viaggio, proprio come aveva fatto all’andata.
    Non riusciva a concentrarsi, si sentiva strano.
    Nelle sue vene scorreva ancora la gloriosa esaltazione degli scambi di gioco, lo slancio feroce della sfida, ma dall’altra parte il breve dialogo con Ushijima gli aveva fatto contorcere le budella, lo sguardo che avevano mantenuto gli aveva teso tutti i muscoli del corpo, cosicché al crepitio dell’entusiasmo ora si accompagnava una sorta di offuscamento di sottofondo, che gli stava rallentando le sinapsi.
    Si accorse che avevano deviato dal flusso dei tifosi, solo quando Ushijima si fermò e ruotò il busto verso di lui. A quanto pareva, avevano preso un corridoio laterale, vicino alle scale antiincendio, e a parte un paio di persone che entravano e uscivano da una porticina poco distante, non c’era nessuno.
    “Vado un attimo al bagno, tu ne hai bisogno?” gli disse il ragazzo, con una voce più sottile del solito, a tratti vagamente ansiosa.
    “No, ti aspetto qui.” gli rispose Hinata.
    “D’accordo.” annuì l’altro, poi sparì dietro la porta bianca.
    Hinata appoggiò la schiena al muro e ne approfittò per riprendere fiato.
    Estrasse il cellulare dalla tasca. Voleva distrarsi, quindi cominciò a scorrere i messaggi che gli erano arrivati, ripromettendosi di rispondere ad ognuno di essi, una volta che fosse salito sul treno: un paio erano di un invidiosissimo Kageyama che, tra un insulto e l’altro, gli chiedeva di raccontargli la partita, senza tralasciare nessun particolare; moltissimi arrivavano dal gruppo che condivideva con tutta la Karasuno, e a giudicare da certi improperi in capslock del coach Ukai, qualcuno doveva aver detto qualche baggianata di troppo; una mezza dozzina provenivano da Yachi e Yamaguchi, preoccupati che Ushijima lo avesse abbandonato in qualche stazione, mentre in un altro, pieno zeppo di emoji, sua madre si raccomandava di scriverle per rassicurarla, quando lui e Ushijima avessero fatto ritorno a casa.
    Fu l’ultimo messaggio però, inviatogli da Sugawara, a colpire Shoyo dritto in profondità.
    ‘Come sta andando con Ushiwaka?’, recitava semplicemente.
    Ripose il telefono in tasca.
    Già, era una bella domanda, come stava andando con Ushiwaka?
    In tutta sincerità, Shoyo non credeva di essere andato molto al di là della linea di confine che divideva Ushijima Wakatoshi dal resto del mondo, eppure c’era stato quel passo, quel piccolo, minuscolo centimetro di spazio guadagnato oltre le difese dell’altro ragazzo, che gli dava l’impressione che tra di loro, finalmente, si fosse messo in moto qualcosa.
    Aveva avuto una strana sensazione, quando prima si erano guardati sugli spalti. Una sensazione che non riusciva ancora a scrollarsi dalle membra, nonostante il tempo che passava: era stato come se la pellicola che di solito avvolgeva Ushijima, per un momento si fosse fatta un po' meno spessa, cosicché lui avesse potuto intravedere un frammento del suo vero cuore.
    Un cuore che aveva trovato incredibilmente simile al proprio.
    Si portò una mano al petto, turbato da quei pensieri.
    Forse sarebbe stato meglio fare una capatina in bagno, darsi una sciacquata, rinfrescarsi le idee.
    Peccato che una voce squillante lo distolse all’improvviso, facendogli schizzare i battiti alle stelle.
    “Lo sapevo che era lui! Te lo avevo detto!”
    “Guarda che l’avevo riconosciuto anch’io, imbecille! Ti ho soltanto chiesto di non metterti a strillare davanti a tutti per attirare la sua attenzione!”
    “Ah, io ho sempre ragione! Non è vero, piccoletto?
    Hinata fissò interdetto prima Oikawa Tooru, che gli stava porgendo la domanda, e poi Iwaizumi Hajime che intanto sbuffava, bofonchiando insulti volgari alla volta del suo compagno di squadra.
    Era davvero una sorpresa ritrovarseli lì, in piedi di fronte a lui. In generale, Shoyo non aveva messo in conto di potersi imbattere in qualche faccia conosciuta, data l’esclusività dell’evento; d’altra parte, però, c’era da dire che ormai era così abituato a incontrare certi giocatori esclusivamente sui campi da gioco, che finiva spesso per dimenticarsi che quei ragazzi, in quanto esseri umani, dovevano avere una vita anche al di fuori della pallavolo, e Oikawa ed Iwaizumi rientravano in pieno in quella categoria.
    Li analizzò brevemente, quasi stranito dal non vederli indossare le solite uniformi bianche e celesti della Seijo.
    Iwaizumi appariva più massiccio, così ingolfato dentro la sua felpa nera, col cappuccio, al centro il logo psichedelico di un gruppo rock, inoltre aveva un ché di vagamente minaccioso con quelle sopracciglia crucciate e le mani ficcate nelle tasche dei jeans, stracciati in più punti.
    Ma colui che colpì Hinata veramente fu Oikawa, poco di fianco a Iwaizumi, impegnato a rivolgergli il suo solito sorrisetto zuccherino.
    Tutti nella prefettura di Miyagi sapevano che il capitano della Seijo era un bel ragazzo – lo confermavano le sue numerose interviste sui settimanali femminili, lo stuolo di spasimanti che sgomitavano per assistere alle sue partite, sospirando il suo nome tra gli spalti- ma soltanto in quel momento Hinata si rese conto di quanto, in realtà, egli fosse bello, e in una maniera tanto vistosa ed oggettiva poi, da fargli dubitare del precedente stato di salute dei suoi bulbi oculari.
    Era diverso da Ushijima. Così come l’asso della Shiratorizawa era solido, imponente, simile ad una statua perfetta e inavvicinabile, Oikawa era elegante e flessuoso, lo stelo di un fiore avvolto in una camicia bianca coi bottoni aperti per rivelare il collo delicato e un paio di pantaloni dal taglio classico, blu scuro.
    Aveva una bellezza talmente radiosa ed evidente da risultare eccessiva, a tratti un po' presuntuosa.
    Ma forse, era la sua aria generale a dare quell’impressione di lui, lo sguardo tagliente, il mento sempre alto, la bocca morbida protesa in una specie di broncio.
    “Allora, piccino? Il gatto ti ha mangiato la lingua?” gli ribadì quindi Oikawa, beffardo.
    Hinata si ridestò di colpo, scuotendo la testa.
    “Oikawa! Iwaizumi! Non mi aspettavo di incontrarvi qui!”
    “Mia madre è nel team legal di uno dei maggiori sponsor della nazionale giapponese! Io e Hajime abbiamo i biglietti assicurati praticamente ogni anno!” gli spiegò subito l’altro, senza nemmeno provare a dissimulare un po' della boria nella propria voce.
    “E non vantarti sempre, idiota!” inveì però Iwaizumi, prima di colpirlo con uno scappellotto alquanto violento.
    “Uffa, Iwa-chan! Non puoi cercare di trattarmi in maniera carina almeno quando siamo davanti agli altri?”
    “Non se ne parla! È necessario che ti ricordi quanto tu sia scemo, sia in pubblico che in privato!”
    “Che cattivo che sei!”
    “Zitto, merdo-kawa!”
    A quel punto, i due ragazzi cominciarono a battibeccare nel bel mezzo del corridoio, trascurando completamente il povero Hinata che, confuso e imbarazzato, si limitò a osservarli in silenzio, non sapendo bene come comportarsi: doveva dire qualcosa? Doveva cercare di dividerli? Doveva aspettare che risolvessero la faccenda da soli e andare via?
    Giusto per elevare il grado di assurdità dell’intera situazione, all’improvviso si materializzò una figura poco dietro di lui.
    “Oikawa, Iwaizumi, cosa ci fate qui?” domandò Ushijima, e Hinata poté giurare che la sua voce bassa, cavernosa, ebbe il potere di scuotere i due ragazzi dall’interno al pari di un terremoto.
    Si voltarono in sincrono, allibiti.
    “Noi?! Tu che diavolo ci fai qui, maledetto Ushiwaka?!” esclamò subito Oikawa, gli occhi ridotti a due fessure.
    Sembrava pronto a saltargli addosso e picchiarlo con quanta forza aveva in corpo, nonostante Ushijima non avesse fatto altro che porgere una banalissima domanda. Hinata sapeva che il giovane alzatore della Seijo provava un odio viscerale nei confronti dell’asso della Shiratorizawa - reo di averlo ripetutamente sconfitto sul campo da pallavolo fin dalle scuole medie - e adesso ne stava avendo la conferma definitiva.
    Lanciò un’occhiata preoccupata in direzione di Ushijima, ma il ragazzo non pareva aver accusato affatto l’astio del suo interlocutore. “Sono venuto a vedere la partita d’argento. È un evento importante per chi è appassionato di pallavolo.” spiegò infatti, senza alcuna inflessione, cosa che fece irritare Oikawa ancora di più. Ushijima non vi badò nemmeno in quel caso. Sporse solo un po' il busto verso Hinata e “Se non hai bisogno del bagno, sarebbe meglio andare. Abbiamo un lungo viaggio davanti a noi per fare ritorno a casa.” gli disse, con fare pratico.
    Hinata allora arrossì, “C-certo sì!” acconsentì subito, quindi si voltò verso i due giocatori della Seijo con l’intento di congedarsi.
    “Allora noi…” ma non finì la frase.
    Oikawa e Iwaizumi li stavano fissando ad occhi sgranati e bocche aperte, le facce deturpate da un tale grado di sgomento -anzi, di orrore!- che Hinata si preoccupò che dietro le sue spalle potesse essere appena apparso un fantasma o fosse appena stato commesso un efferato omicidio.
    Si grattò la testa, dubbioso, proprio mentre Oikawa sembrava riacquistare almeno l’uso della parola.
    “V-voi d-due sta-state in-ins-“ d’un tratto si portò una mano al petto in maniera abbastanza teatrale, come se stesse avendo un malore, si girò verso un Iwaizumi ancora pietrificato, e “No, non riesco neanche a dirlo, guarda! Mi sento male solo al pensiero!” sbottò, fuori di sé.
    “Voi due state insieme?” riprese quindi Iwaizumi, al posto suo.
    Hinata sentì il cuore sprofondargli sotto la suola delle scarpe.
    “NO!”
    “Sì.”
    Questa volta fu Hinata a rimanerci quasi secco per lo shock.
    Alzò la testa di scatto verso Ushijima, sorpreso dalla risposta che il ragazzo aveva dato all’unisono con lui, ma lo sguardo tanto perplesso quanto innocente di quest’ultimo, gli fece presto intuire che, come spesso accadeva, egli doveva aver frainteso la domanda.
    Hinata ingoiò un groppone amaro - dal forte e inspiegabile sapore di delusione- poi si affrettò a spiegare il terribile malinteso.
    “Ushijima, loro non parlano dello stare insieme qui, fisicamente. Intendono se siamo… beh f-fidanzati…”
    “Oh!” esclamò quindi l’asso, le guance colorate di una tenue sfumatura rosata “No allora, io e Hinata Shoyo non abbiamo nessuna relazione romantica.” specificò con la sua solita, superflua, accuratezza “Lui vive soltanto a casa mia.”
    “Scusa, che cosa?!” strillò Oikawa, di rimando.
    “È una lunga storia…” intervenne di nuovo Hinata “Sono stato aggredito qualche settimana fa, Ushijima è capitato di lì per caso e mi ha soccorso. Poi mi ha ospitato a casa sua per la notte, io ho insistito per restare con lui, dato che mi sono autoinvitato al campo estivo del suo liceo e anche perché… vabbè non è importante! Insomma, per adesso io vivo a casa sua, sì!”
    Se possibile, le facce di Iwaizumi e Oikawa erano ancora più inorridite di quanto non fossero state in precedenza. I due rimasero in perfetto silenzio -necessitando di qualche minuto, probabilmente, per processare tutte quelle informazioni bislacche- ma anche quando sembrarono recuperare un briciolo di autocontrollo, il loro aspetto somigliava a quello di uno straccio bagnato.
    “Mamma e papà lo sanno che tu vivi da Ushijima?” gli chiese d’un tratto Oikawa, sempre con un tono alquanto sprezzante.
    “Mmh, ovvio!” rispose Hinata, confuso dalla domanda “Non sarei potuto mancare da casa tutto questo tempo senza dirlo a mia madre…”
    “Non parlo dei tuoi genitori biologici! Che vuoi che me ne importi di loro! Intendo gli altri mamma e papà! Sugawara e Sawamura!”
    “Oh! Beh sì, certo, l’ho detto anche a loro!”
    “E quei due scellerati ti permettono di vivere con questo bastardo?”
    “Ehi, datti una calmata!” lo sgridò Iwaizumi.
    “Perché?! Lo sappiamo tutti che è un pallone gonfiato pieno di sé, troppo occupato a lucidare le sue medaglie d’oro e a crogiolarsi nella perfezione della sua miracolosa aura dorata per occuparsi del resto del mondo! Probabilmente se il piccoletto affogasse nella sua vasca da bagno, non se ne accorgerebbe nemmeno!”
    “Non è così, e ti assicuro che sto molto attento all’incolumità di Hinata Shoyo nella mia abitazione.” ribatté Ushijima, la voce improvvisamente fredda, il corpo rigido.
    “Non ci crede nessuno, men che meno tu…” continuò Oikawa, sempre più velenoso. Fece un passo verso l’asso, arrivando a parlargli a pochi centimetri dal volto “Non sei in grado di interessarti a qualcuno al di là di te stesso, Ushiwaka. Se non è utile per il tuo gioco, se non è in grado di ampliare la tua forza, per te non esiste nemmeno!” un sorriso stirato, falso, si formò sulle labbra del giovane alzatore “In campo, come nella vita reale, pensi di avere il diritto di diventare l’epicentro del dannato pianeta Terra! Tutti dobbiamo sottostare alle tue regole! Tutti dobbiamo prostrarci al tuo potere! Non è forse così?”
    “Smettetela, vi prego…” pigolò appena Shoyo, tentando di placare la situazione.
    Non gli piacevano affatto gli sguardi carichi di ostilità che si stavano scambiando i due ragazzi, non promettevano nulla di buono e lui stava cominciando seriamente ad agitarsi. Una cosa erano i battibecchi innocenti – e a quelli, oramai, aveva fatto l’abitudine per colpa di Kageyama, con cui non perdeva occasione di punzecchiarsi – ma i litigi veri e propri, gli scontri, erano tutta un’altra storia, e mai come allora Oikawa sembrava sul piede di guerra.
    Suo malgrado, Shoyo capiva la frustrazione dell’alzatore, l’aveva provata sulla sua stessa pelle il giorno in cui aveva incontrato Kageyama, quell’unica volta in cui si erano scontrati in veste di avversari ed era rimasto folgorato di fronte alla sua avvilente superiorità, e poi ancora, dopo la rovinosa sconfitta che il Karasuno aveva subito proprio per mano della Seijo di Oikawa, ai primi inter-liceali della sua vita.
    Lottare, impegnarsi, sudare, stringere i denti… e alla fine dover arrendersi all’evidenza di non essere abbastanza, di non poter superare il muro che si parava davanti perché semplicemente troppo alto, troppo spesso per essere abbattuto con le proprie, limitate, capacità.
    Se due mesi fa il Karasuno avesse perso contro la Shiratorizawa, avrebbe detestato anche lui Ushijima? Quando era stato sconfitto da Oikawa, da Kageyama, una piccola parte di lui li aveva odiati – non poteva negarlo- ma quella più consistente aveva condannato se stesso per la sua inadeguatezza.
    Forse era per questo che nella cattiveria che incupiva gli occhi grandi di Oikawa, a Shoyo pareva di scorgere le lame affilate dell’invidia, della colpa, della sofferenza?
    “Sei ingiusto, Oikawa.” sentenziò Ushijima, senza retrocedere di un millimetro “Ma immagino che tu risenta ancora della sconfitta di quest’anno, quindi le tue parole non sono del tutto lucide. D’altronde è il tuo ultimo anno, deve essere stato difficile da accettare.”
    “Come cazzo ti permetti, io sono lucidissimo! E poi hai perso anche tu, finalmente, o sbaglio?”
    “Sì, ho perso anche io contro il Karasuno di Hinata, ma ho partecipato alle nazionali già due volte, sette se si contano pure i tornei delle scuole medie, e adesso faccio parte della squadra giapponese under-19. Tu non hai mai avuto niente di tutto ciò, non ti sei mai creato la tua occasione. Per questo dico che faremmo meglio ad avere questa conversazione in un altro momento, in cui proverai meno rancore.”
    “Brutto figli-“
    Oikawa alzò la mano in aria all’improvviso, caricando un pugno che si sarebbe infranto sulla mascella di Ushijima, se solo Iwaizumi non lo avesse fermato. Il ragazzo della Seijo, infatti, afferrò rapidamente il polso dell’amico e lo strattonò all’indietro, “Basta, Tooru! Stai esagerando!” gli urlò e quando l’altro tentò di divincolarsi, gridando, quello lo spinse da parte e non gli permise di avvicinarsi ancora a lui e Ushijima.
    “È meglio che andiate.” disse loro, svelto, prima di tirare Oikawa per un braccio e cominciare a discutere animatamente con lui in un angolino in disparte.
    Hinata era scosso. La situazione era degenerata nel giro di un istante e, per un secondo, aveva temuto sul serio che Oikawa avesse potuto colpire Ushijima, riversandogli anche sul corpo quel risentimento tossico con cui aveva intriso le sue parole.
    Angosciato, cercò allora lo sguardo di Ushiwaka, tentando di carpire quale reazione avesse scatenato in lui il litigio, ma il ragazzo dei miracoli era un blocco di pietra e già stava dando le spalle alla scena.
    “Hinata andiamo, per favore.” affermò soltanto, dopodiché si incamminò verso la porta antiincendio alla fine del corridoio, senza aggiungere altro.
    Shoyo lo seguì ubbidiente, ma non poté impedirsi di voltarsi indietro, di tanto in tanto, per spiare la discussione violenta che seguitava dietro di loro.
    Ben presto divenne difficile distinguere le voci di Oikawa e Iwaizumi: i due si parlavano sopra a vicenda, spezzavano le frasi. Gesticolavano, si spingevano, a volte si afferravano per le braccia, i polsi, i capelli. Oikawa era stravolto, forse piangeva, le spalle affossate al muro e la camicia immacolata ormai completamente sgualcita, mentre Iwaizumi, tra le sue gambe, un po' lo attaccava, un po' cercava di consolarlo, gli prendeva in malo modo il viso fra le mani e lo costringeva a guardarlo, a prestargli ascolto.
    Fu così, in quella confusione di emozioni, che accadde.
    Ushijima era già per le scale, a differenza di Hinata che, prima di chiudersi la porta alle spalle, d’istinto decise di girarsi nel corridoio un’ultima volta.
    Iwaizumi teneva ancora le guance di Oikawa ferme tra i suoi palmi e Oikawa aveva ancora la felpa di Iwaizumi stretta fra le dita, ma ormai avevano smesso di combattere, perché si stavano baciando.
    Si stavano baciando a labbra aperte, occhi chiusi, le lingue che si cercavano senza pudore.
    Si stavano baciando come gli adulti, come gli attori del cinema.
    Si stavano baciando come se nient’altro avesse avuto importanza.
    Hinata sentì i suoi organi cambiare posizione, mettergli a soqquadro persino le ossa.
    Chiuse la porta.
     
    ***
     
     
    Oikawa e Iwaizumi erano fidanzati?
    Stavano insieme?
    Da quando andava avanti questa cosa?
    Anche quando avevano giocato contro il Karasuno, ai tornei interscolastici e di primavera, avevano quel tipo di relazione?
    Come aveva fatto a non accorgersene prima?
    Hinata osservò il suo riflesso sbiadito attraverso i vetri della metro che sfrecciava tra i cunicoli del sottosuolo, quasi completamente vuota, tanto diversa dalla trappola di corpi umani che era stata appena qualche ore prima.
    Non riusciva a togliersi dalle pupille l’immagine di quel bacio, le unghie di Oikawa piantate nella stoffa della felpa di Iwaizumi, il modo intimo e delicato con cui quest’ultimo, invece, sfiorava la pelle del suo capitano e approfondiva il bacio, indirizzandogli la testa.
    Era la prima volta che si approcciava a un tipo di amore così carnale.
    Non era un bambino, conosceva il sesso e tutto ciò che ruotava intorno ad esso. Più di una volta si era arrischiato a googlare qualche immaginetta sporca sul suo PC, guidato da una curiosità deliziosamente proibita. E si era perfino toccato, sì, a notte fonda, nella sua cameretta, col cuore che gli batteva forte tanto per il pericolo quanto per l’euforia. Ma al di là di ciò, la verità era che Shoyo aveva sempre rilegato i concetti di piacere e desiderio in un angolo remotissimo della sua mente, dando loro una consistenza esclusivamente onirica, fumosa, lontana dalla realtà dei suoi giorni.
    Adesso, invece, era come se i cancelli fossero andati in frantumi e quel ginepraio di sensazioni calde, pungenti, gli si fossero riversate addosso all’improvviso, scorticandogli la pelle e insinuandosi tra le sue viscere.
    Era così che si amavano gli adulti?
    Era questo che significava volersi, appartenersi?
    Sembrava bellissimo.
    Terrificante, ma soprattutto bellissimo.
    “Ti senti bene? Stai avendo un altro attacco d’ansia?”
    Hinata trasalì, quindi alzò la testa verso Ushijima e incontrò il suo sguardo crucciato.
    Constatò che non aveva una bella cera, il suo volto era adombrato, le sue spalle tese: gli eventi del post-partita dovevano averlo scosso più di quanto Hinata avesse sospettato.
    “No! No, sto bene, grazie.” si affrettò quindi a dire, scuotendo le mani.
    Ushijima annuì brevemente, poi tornò a guardare le sedute vuote di fronte a sé.
    “Ti sei spaventato, prima.” affermò d’un tratto, e Hinata non capì se fosse un’affermazione o una domanda.
    “Un po'… non mi piacciono le risse…”
    “Le risse?”
    “Beh, Oikawa stava per darti un pugno! Non ti saresti difeso?”
    “Difeso sì, ma non avrei risposto con un altro pugno. Non sono così, non mi piace venire alle mani.”
    A Hinata scappò un sorriso: Ushijima si dimostrava sempre più maturo della sua età, anche nelle situazioni spinose. Trovava curioso che un ragazzo dall’aspetto minaccioso come il suo, capacissimo di vincere una discussione contando esclusivamente sulla stazza fisica e la severità dello sguardo, nascondesse dentro un animo così pacato, metodico, disinteressato agli scontri e impassibile di fronte alle provazioni più meschine. Shoyo realizzò che da quando lo conosceva, in effetti, solo lui era riuscito a fargli saltare i nervi dentro e fuori dal campo, cosa che gli provocava una certa vergogna.
    “M-mi dispiace per quello che ti ha detto Oikawa, Japan…” gli disse allora, torturandosi le dita.
    “Perché ti dispiace?”
    “Non è stato gentile ad attaccarti così… non avrebbe dovuto dirti quelle cose…”
    “Non ne sono così sicuro.”
    Hinata fece scattare la testa verso Ushijima, cercando i suoi occhi per provare ad afferrare il filo dei suoi pensieri. Sebbene entrambi fossero seduti, il ragazzino doveva tendere il collo per riuscire a inquadrare il suo viso e, di nuovo, ebbe l’impressione che qualsiasi cosa stesse frullando nel cervello del giovane asso, lo stava appesantendo quanto un macigno.
    I vagoni della metro erano semi deserti, compreso il loro, occupato soltanto da un gruppetto di ragazze intente a chiacchierare, sorseggiando frappè dai colori sgargianti, così, per un lungo istante, il silenzio venne riempito soltanto dal rumore del mezzo che sfrecciava sistematicamente sulle rotaie.
    Shoyo strinse forte i pugni intorno alle ginocchia: chissà perché, nelle vene sentiva correre l’istinto di mettere la propria mano su quella di Ushijima – grande, calda, le dita spesse e nodose come le radici di un albero – per prendersi un po' di quel brutto peso.
    “Perché dici così?” gli chiese però, rosso in viso. “Credi che Oikawa abbia ragione su di te?”
    Non voleva tirare troppo la corda, Japan era come un animale selvaggio: se le distanze si accorciavano, senza le dovute precauzioni, poteva fuggire e sparire nella foresta da un momento all’altro.
    Lo avvertì sospirare forte, “Oikawa è uno dei migliori giocatori di tutta la prefettura, forse di tutto il paese.” cominciò, serio “Un alzatore che tira fuori il meglio dai suoi giocatori è un’arma di inestimabile valore per una squadra. Se fosse venuto alla Shiratorizawa, avremmo vinto le Nazionali tre anni di fila, l’ho sempre pensato.  Così come ho sempre pensato che la sua rovina fosse quel suo inutile orgoglio e le sue manie di protagonismo, che gli impedivano di sacrificarsi all’asso, come dovrebbe essere nella pallavolo…” scosse la testa e contrasse la mascella, indurendo i tratti del suo volto “Ma ultimamente mi chiedo se sia questa la verità oppure se io… se io…”
    All’improvviso, Ushiwaka si voltò verso di lui e Hinata non poté impedirsi di retrocedere un po' verso il sedile di fianco, tanta era la soggezione di avere quegli occhi verdi penetranti puntati su di sé.
    “È strano…”
    “C-cosa?”
    “Da quando conosco te, Hinata Shoyo, mi sembra di non sapere più niente. Non riesco più a distinguere cos’è reale da cosa non lo è.”
    Shoyo non rispose, ma prima che potesse essere colto dal panico, gli autoparlanti annunciarono l’arrivo alla loro destinazione, assorbendo completamente l’attenzione di Ushijima Wakatoshi.
    Scesero non appena le porte automatiche si aprirono, senza più toccare l’argomento, senza più incrociare gli sguardi, quindi si incamminarono su per le scale della stazione di Shinjuko per raggiungere la parte commerciale.
    Non sapeva come interpretare ciò che l’altro ragazzo gli aveva appena confessato.
    Era una cosa positiva o negativa?
    Lo stava forse rimproverando?
    Aveva appena mandato all’aria quella piccola, preziosa reazione chimica che aveva raggiunto con lui solo qualche ora prima, sugli spalti dello stadio?
    Era tutto così dannatamente confuso.
    “Abbiamo un’ora prima di riprendere il treno per casa, vuoi vedere qualche negozio?”
    Hinata si morse le labbra.
    “N-no, veramente avrei un po' fame.”
     
     
     
     
     
     
    NOTE AUTORE
    Ok… ammetto che nemmeno io so da dove partire…
    BUONGIORNO AMICI E BEN RITROVATI! Questo capitolo è rimasto sul PC a impolverare per qualche settimana, purtroppo, a causa degli impegni che mi hanno costretta a rimandare a oltranza la sua revisione, ma finalmente eccoci qui! SQUILLINO LE TROMBE!
     
    Come avrete visto, si tratta di un capitolo abbastanza corposo, con tanti piccoli eventi che si incardinano uno all’altro e contribuiscono a porre nuovi mattoncini nel rapporto tra Hinata e Ushijima.
    In primo luogo, abbiamo le emozioni della partita d’argento che finalmente sembrano far avvicinare i due ragazzi, almeno per quanto riguarda la loro passione. Hinata – ma anche Ushijima- rimangono folgorati da questa scintilla che si crea tra gli spalti e cominciano a rendersi conto di una cosa molto, molto importante: al di là delle divergenze, forse soltanto loro, malati di pallavolo come sono, possono capire veramente cosa significa questo sport nella loro vita.
    Nella seconda parte, invece, l’incontro con Oikawa e Iwaizumi accende una lampadina nella testa – e negli ormoni!- di Hinata. Spero tanto di essere riuscita a mantenere Oikawa e Iwaizumi abbastanza IC e che la scena vi sia piaciuta, sia nella parte più ironica che in quella più tesa!
     
    Il prossimo capitolo costituirà un passaggio importantissimo per l’intera long!
    Mi duole avvisarvi però che potrebbe arrivare con un pochino di ritardo! Purtroppo sto avendo un periodo di full immersion a lavoro che mi sta rallentando su tutta la linea, ma conto di recuperare nei prossimi giorni! Incrociamo le dita!

     
    A presto,
    Violet Sparks 

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    Capitolo 13
    *** Il lato oscuro della luna ***


    CAPITOLO XIII
    Il lato oscuro della luna
     
    La gente ha cicatrici in posti impensabili,
    sono come mappe segrete delle storie personali,
    diagrammi di tutte le vecchie ferite.
    Il dramma è che non tutte le ferite diventano cicatrici,
    ce ne sono alcune che non guariscono.
    Certe ferite le portiamo con noi ovunque
    e anche se si sono rimarginate da tempo,
    il dolore resta per sempre.
    - Grey’s Anatomy
     
     
     
    Wakatoshi arricciò il naso, storcendo la bocca in un’espressione di autentico disgusto.
    Non era da lui esibirsi in esternazioni così infantili, così poco educate e anche piuttosto teatrali, ma proprio non riusciva a trattenersi, si guardava intorno e tutto ciò che desiderava era soltanto fuggire da quella specie di inferno in terra.
    Ma dove diavolo era capitato?
    “Japan, stai bene?”
    Il ragazzo non rispose.
    I suoi occhi si spostarono lungo la confusione della sala gremita, palleggiando in maniera febbrile tra le macchie di olio translucide sulle superfici dei tavolini, i panini grondanti di salse, i distributori che elargivano bevande schiumose e zeppe di colorante. Il suo stomaco emise qualcosa di simile ad un rantolo di dolore, quando la sua attenzione si catalizzò su ciò che stava avvenendo dietro le spalle dei cassieri - tre ragazzi giovani che schizzavano da una parte all’altra del bancone, le facce paralizzate attorno ad un sorriso fintissimo: chili e chili di pollo fritto che venivano immersi in una vasca di olio bollente, mentre sulle piastre appena di fianco, fascette di bacon sfrigolavano tra le bollicine del loro stesso grasso sciolto, rilasciando un odore talmente acre da insudiciare non soltanto l’ossigeno, ma anche i vestiti, la pelle e qualsiasi altra cosa riuscisse ad avviluppare tra le sue spire.
    Stava per vomitare.
    “Lo sapevo che non dovevo proporre KFC!” sospirò Hinata, desolato “È la prima volta che entri in un fast-food, immagino…”
    “Non pensavo fosse così.”
    “Preferisci andare in un altro posto? Ce ne sono tanti in questa parte della stazione.”
    “No, va bene qui.”
    Era una menzogna bella e buona. Se avesse potuto, Wakatoshi avrebbe alzato i tacchi seduta stante e bollato per sempre quel putiferio di grassi saturi e carboidrati come ‘agglomerato di metastasi ambulante da cui tenersi lontano fino alla morte’, o almeno, avrebbe licenziato il personale e acquistato l’intero immobile, al solo scopo di mettere via tutto quell’olio e poter ridare una dignità salubre ai poveri ingredienti.
    Quando il ragazzino aveva proposto KFC, Wakatoshi aveva storto il naso, ma poi, riflettendo brevemente sui pro e i contro, si era reso conto che era la scelta più comoda rispetto alla loro tabella di marcia: entrare in un ristorante avrebbe bruciato loro troppo tempo e non potevano correre il rischio di perdere il treno, considerato che il successivo era programmato per le sei e un quarto del giorno seguente; oltretutto, aveva intuito che Hinata non aveva molto denaro con sé e non sopportava offerte di sorta, sebbene Wakatoshi continuasse a ribadirgli che, per lui, non costituiva affatto un problema.
    Stava valutando le offerte di street food dei numerosi stand disseminati in giro per l’area est di Shinjuko, quando il piccolo corvo aveva indicato entusiasta l’insegna bianca e rossa di KFC.
    Conosceva la nota catena americana?
    Sì, ovviamente, non interagiva molto con il mondo esterno, ma non era certo un alieno!
    Aveva mai consumato in vita sua qualcosa di anche lontanamente riconducibile al loro tipo di cucina?
    Nemmeno per idea!
    Però il tempo era sempre di meno, la fame cominciava a farsi stringente, l’incontro con Oikawa e Iwaizumi gli aveva prosciugato le forze, per cui – alla fine- la comodità aveva vinto sul buon senso.
    Che il luccichio gioioso negli occhi del ragazzino avesse contribuito in maniera rilevante a restringere le sue possibilità di scelta, era un dettaglio su cui preferiva non soffermarsi.
    “Se vuoi ci sono delle insalate con il pollo grigliato!” provò Hinata, accennando un timido sorriso di incoraggiamento.
    Erano in fila, uno accanto all’altro, e Wakatoshi doveva curvare la schiena per riuscire a guardare il suo viso.
    Era così piccolo, Hinata Shoyo.
    Wakatoshi se ne sorprendeva sempre, forse perché la sua gigantesca energia e l’irrefrenabile dose di caos che egli si portava dentro, finivano per trarre in inganno, portando a dimenticare le sue reali dimensioni.
    Non era una questione prettamente di altezza, quella era evidente, soprattutto su un campo di pallavolo, dove i centimetri facevano parte del gioco.
    Erano i dettagli, lampi piccolissimi che balzavano agli occhi di Wakatoshi all’improvviso - le orecchie bianche e delicate che facevano capolino tra le ciocche dei capelli, le ginocchia flessibili, le ossa iliache tese sotto la pelle, lo spessore esiguo del costato, oppure, come in quel caso, la linea morbida della sua nuca che si stagliava in mezzo al colletto della felpa.
    “Prenderò quella, sì.” rispose allora Wakatoshi, reprimendo il fastidioso crepitio che lo aveva colto alla bocca dello stomaco. Riportò la sua attenzione sul grosso menù attaccato al soffitto, in cerca di un’ancora di salvataggio, ma più leggeva le offerte più si sentiva prendere dallo sconforto.
    “N-non per farmi gli affari tuoi, non voglio costringerti a fare cose che non vuoi fare o simili, ma… questi cibi non sono poi tanto male, sai?” L’occhiata che lanciò al piccolino dovette essere fin troppo brusca, perché lo vide sussultare sul posto e ingoiare a vuoto. “Cioè sì, lo so che non sono affatto salutari, però sono… simpatici, ecco!”
    “Il cibo non deve essere simpatico, deve permettere il nostro sostentamento.”
    “Sì, certo, però può essere anche un piacere, qualche volta!”
    “Un piacere?”
    “Sì, cioè il cibo non è solo nutriente, è anche… buono! Come il gelato al limone! Non trovi?”
    Wakatoshi soppesò attentamente quella considerazione, pensando in cuor suo che, appena qualche settimana prima, forse non avrebbe potuto comprenderla affatto.
    Mangiare era sempre stato per lui niente di più che un’azione come un’altra, uno dei tanti anelli di quella catena che ruotava nell’ingranaggio della sua routine tutta uguale, giorno dopo giorno. Non aveva mai pensato al cibo come qualcosa di diverso da un miscuglio di nutrienti necessari al suo fabbisogno giornaliero, eppure da quando cucinava fianco a fianco con il piccolo corvo, era come se dentro di lui si fosse risvegliato il senso vero del gusto, permettendogli di  cose a cui prima non faceva caso: la spinta del sale, il pizzicore del pepe, l’amarezza buona di certe verdure, il dolce pastoso del miele, la pienezza del coriandolo o del cumino.
    “Sì, è vero.” acconsentì dunque Wakatoshi, mentre la coda di avventori si muoveva, cosicché lui e Hinata potessero compiere un ulteriore passo verso il bancone.
    “Perché non provi a prendere delle patatine?” esclamò all’improvviso Hinata, spalancando le braccia per dare ancora più enfasi alla sua idea malsana.
    “Intendi le patatine fritte?”
    “Sì! Non tornerai mai più in un posto del genere, no? Potrebbe essere l’occasione per te per assaggiare qualcosa di nuovo!”
    Wakatoshi strinse le labbra, per niente allettato dalla proposta del piccolo; tuttavia, non ebbe il tempo di riflettere oltre, dato che ormai era giunto il loro turno.
    Sospirò, ascoltando le domande di rito del giovane cameriere – “Buonasera signori, benvenuti da KFC! Come posso esservi utile? Avete già dato un’occhiata al nostro menù? Acqua o bibita?”- e osservando Hinata che ordinava, senza alcuna esitazione, un panino farcito, una coca e una vaschetta di ali di pollo alla paprika.
    “Perfetto! E lei, signore? Cosa desidera?” gli chiese a quel punto il ragazzo al bancone, rivolgendo completamente a lui quella sua espressione così statica e zuccherina da apparire vagamente inquietante.
    “Un’insalata con pollo grigliato e una bottiglietta d’acqua.” recitò allora Wakatoshi, scandendo ogni lettera per il terrore che l’altro potesse non capire e decidesse di fargli trovare un panino zuppo di olio sul vassoio.
    “Va bene! Nient’altro?”
    Gettò un’occhiata furtiva in direzione della cucina, nell’esatto istante in cui un’intera confezione di sale veniva gettata su un cesto di patatine ancora sfrigolanti, appena uscite dalla frittura.
    Scrollò le spalle.
    Ultimamente faceva fatica a riconoscersi.
    “E una porzione di patatine fritte, per favore… piccola!”


    ***
     

    Trovarono posto al piano superiore, in una specie di banchetto accanto alle enormi vetrate dello stabile, che davano sul paesaggio metropolitano di Kabuki- Cho, variopinto di mille insegne al neon.
    L’area che avevano scelto non era molto illuminata, a causa di qualche faretto rotto proprio sopra le loro teste, inoltre la superficie del tavolo, sporca di rimasugli, necessitò dell’intervento di un inserviente e di un paio di passate di disinfettante, prima di poter essere utilizzata, eppure quando vi si sedette, Wakatoshi sentì i muscoli del proprio corpo cominciare a languire lentamente, allentando la tensione.
    Quella giornata bizzarra, caotica, stava giungendo al termine.
    Non rimaneva loro che mettersi sul treno e fare ritorno a casa, dove la vita avrebbe ripreso il solito, confortante, corso delle cose, un passo più vicino al momento in cui la sua strada e quella di Hinata Shoyo sarebbero tornate a correre su due rette parallele, destinate a non incontrarsi mai più.  
    Lo scrutò di sottecchi dalla parte opposta del tavolo, giocherellando distrattamente con la confezione di insalata: metà del viso del piccolo corvo era sporcata da un bagliore artificiale di colore viola, proveniente dall’esterno, aveva le maniche della felpa tirate su fino al gomito, a scoprire la forma affusolata dei polsi e le sue ciglia lunghe, chiarissime, sfarfallavano con lentezza mentre succhiava della Coca-cola dalla cannuccia di cartone.
    Il panino che aveva scelto era così grande che gli servì più di qualche goffo tentativo, prima di riuscire a rifilargli un morso, e quando nell’impresa qualche goccia di formaggio fuso finì per colargli tra le dita, non ci pensò sopra due volte nel portarsi il pollice e l’indice alle labbra.
    Wakatoshi sapeva che avrebbe dovuto provare molto più fastidio di quello che effettivamente provò alla vista del gesto – maleducato, inopportuno, infantile- ma la verità era che, in quel momento, la sua mente era invasa da un pensiero tanto illogico quanto intrusivo, che aveva come punto focale il contrasto armonioso del verde della felpa di Hinata con l’arancio sgargiante dei suoi capelli, il bianco latteo della sua epidermide, per cui si limitò a rimanere in silenzio, attendendo pazientemente che quel frastorno lo abbandonasse.
    Aprì la scatolina di plastica in cui era racchiusa la sua insalata e le diede una rimescolata veloce, affondando la forchetta in mezzo al fogliame.
    Alla fine, non sembrava così malvagia, non differiva molto da quelle che era solito prepararsi da solo a casa, quando non aveva molta voglia di mettersi ai fornelli.
    Peccato che lo stesso discorso non valesse per le patatine fritte.
    Le studiò attentamente, palpandone la consistenza, scrutandone il colorito brunito, la patina lucida dell’olio freddo.
    L’odore era abbastanza neutrale, quindi quanto poteva mai essere cattivo il sapore?
    Ne prese una, se la ficcò in bocca in un colpo solo e nel giro di un istante, il suo palato venne invaso dai granelli di sale, poi dalla croccantezza della superficie più esterna, poi ancora dalla pasta farinosa del loro interno.
    Era buona?
    Non riusciva a capirlo.
    Ne assaggiò un’altra e un’altra ancora.
    “Allora? Sono così terribili?” proruppe all’improvviso la voce di Hinata, distogliendolo dalla sua analisi certosina.
    Alzò la testa di scatto, così notò che il ragazzino lo stava fissando, nascondendo a stento un sorriso divertito dietro al suo panino morsicato.
    “Non so decidere…” disse quindi Wakatoshi, sinceramente dubbioso, prima di prendere una generosa manciata di patatine e ingurgitarle, ipotizzando che una dose più grande, magari, avrebbe prodotto maggiori risultati per la sua indagine.
    Questa volta Hinata non si contenne, posò il cibo sul vassoio e scoppiò a ridere, piegandosi sul tavolino con le braccia intorno alla pancia.
    “Cosa c’è da ridere?” chiese l’asso, stranito più che irritato da quella reazione.
    La risata di Hinata aveva un bel suono, somigliava a un sacchetto di biglie che veniva scrollato nell’aria – pensiero che Wakatoshi si ritrovava a formulare più spesso di quanto avrebbe voluto ammettere, ad esempio ogni volta che gli arrivava alle orecchie attraverso i corridoi di casa, e lui immaginava i muri scuotere via la polvere del silenzio sotto quegli accenti.
    “Scusa… scusa, davvero… ma la tua espressione… è troppo buffa…”
    Buffa.
    La sua espressione era buffa.
    Nessuno aveva mai associato una parola del genere a lui, soprattutto non con quella leggerezza, con quel grado di confidenza. Ushijima Wakatoshi era il capitano della Shiratorizawa, l’aquila, il super-asso, il ragazzo dei miracoli. Il mondo non rideva dinanzi a lui – di lui, per lui- lo trattava con riverenza, ammirazione, a volte invidia, osservandolo dal basso di quella torre gigantesca che aveva imbastito per proteggere sé stesso da ciò che era superfluo per il suo obiettivo, ciò che era distrazione, intralcio, debolezza.
    Quando aveva permesso a Hinata Shoyo di avvicinarsi tanto?
    Come era successo?
    Perché se ne accorgeva soltanto adesso?
    Dov’era la rabbia?
    Che fine aveva fatto il fastidio?
    Quando si fermava a guardarsi dentro, si accorgeva che, sbiadita l’avversione, adesso non vi era rimasto altro se non un istinto di fuga che non comprendeva, un rifiuto verso il contatto talmente irrazionale e potente da avvicinarsi alla fobia.
    Ma di cosa mai poteva avere paura, lui, che in campo non conosceva rivali, non conosceva nemmeno l’angoscia della sfida? Lui che era essere razionale, abituato a incasellare ogni cosa in un posto definito, dove poterla controllare e manipolare nel modo più confacente ai propri bisogni, lui che non faceva, non diceva e non provava niente che non fosse strettamente programmato?
    Hinata, nel frattempo, si asciugò le lacrime con il dorso delle dita, intervallando altri ‘scusa’ ai propri singhiozzi e tentando di mettere a freno la propria risata, quantomeno – immaginò Wakatoshi- per recuperare il panino abbandonato sul vassoio prima che diventasse immangiabile.
    Aveva le guance di un rosso ciliegia e i suoi occhi erano liquidi come pozze d’acqua, anche se il loro colore era sfalsato dalle luci artificiali della città al di là del vetro.
    Ci si era perso, in quegli occhi, Wakatoshi.
    Appena qualche ora prima, in mezzo al clamore generale del Tokyo Metrepolitan Gymnasium, lo sguardo intenso del ragazzino lo aveva accalappiato, per poi tirarlo giù, imprigionandolo nei meandri di un abisso che però non intimoriva, al contrario donava un inaspettato senso di conforto.
    “È questo che voglio fare, nella mia vita.” gli aveva detto Hinata, esaltato dalla partita in corso, senza un briciolo di paura.
    Così, per una volta, Wakatoshi non era stato in grado di eccepire le solite questioni relative alla carenza di tecnica o di preparazione atletica, perché la fede nel futuro di quel ragazzino, all’improvviso, gli era parsa troppo potente per ammettere obiezioni e, al contempo, talmente simile alla certezza che invece albergava nel suo, di cuore, che smontarla avrebbe significato sradicare anche quest’ultima, di conseguenza. 
    Forse Hinata Shoyo era un giocatore acerbo, poco promettente, ma amava la pallavolo con ogni fibra del suo minuto organismo, esattamente come lui.
    Prese un altro boccone di insalata, insieme a un paio di patatine, dopodiché si addossò allo schienale della sedia, osservando Hinata che riprendeva ad aggredire il proprio cibo, rimasugli sulle dita compresi.
    La domanda gli uscì così spontanea che non ebbe il tempo materiale di flirtarla dalla testa.
    “Perché hai cominciato a giocare a pallavolo?” pronunciò, attirando subito la curiosità del piccolo corvo che infatti sollevò la testolina aranciata verso di lui, proprio come avrebbe fatto un uccellino su un ramo. Prese un sorso di coca-cola, per aiutarsi a mandare giù la crocchetta di pollo alla paprika che aveva appena ingurgitato, quindi “O-oh! P-perché me lo stai chiedendo in questo modo?” balbettò, prima di pulirsi il muso con un tovagliolino di carta.
    “In quale modo?”
    “C-come se stessi chiedendo ad un assassino perché ha ucciso la vittima…”
    Wakatoshi aggrottò la fronte.
    Ok, forse era stato un po' troppo veemente, ma non capiva quella fantasiosa associazione, tanto più che faticava a pensare ad Hinata – mingherlino, innocente – capace di perpetrare qualsivoglia violenza fisica.
    “Stavo solo pensando che è illogico che tu abbia scelto la pallavolo.” prese allora a spiegare, modulando il proprio tono affinché apparisse un po' più morbido “Sei abbastanza agile e veloce, saresti riuscito bene in tanti altri sport. Perché hai scelto quello meno adatto alla tua statura?”
    Un piccolo, timidissimo sorriso si stirò sulle sue labbra, “P-pensi che io sia agile e veloce?” domandò.
    “Sì, non è una cosa oggettiva?”
    “Non lo so… però di solito ti soffermi più su ciò che mi manca che sulle mie qualità. Non mi hai mai fatto un complimento.”
    Wakatoshi trattenne il fiato per un secondo.
    La sua intenzione era quella di esprimere un giudizio effettivo e preciso della situazione di Hinata Shoyo, ciò corrispondeva ad un complimento? Decise che non gli importava, tanto più che spegnere la genuina felicità che stava colorando il sorriso del ragazzino in quel momento, gli pareva terribilmente insopportabile.
    “Comunque,” riprese quello, scrollando le spalle “ho scoperto la pallavolo grazie al piccolo gigante, non so se lo conosci! L’ho visto giocare per televisione un pomeriggio, mentre camminavo con la bicicletta e… sono rimasto folgorato!” 
    “Parli di Udai Tenma?”
    “Sì, proprio lui! Ha portato il Karasuno alle Nazionali per la prima volta nella storia!”
    “Sì, è vero. Ricordo di aver visto qualche video delle sue partite: non godeva di una statura particolarmente elevata, ma era forte, aveva una tecnica salda, seppur ancora acerba.” constatò Wakatoshi, ripensando alle impressioni che aveva avuto nel vedere l’idolo di Hinata giocare, grazie ad alcuni dvd che gli erano stati procurati dai manager del suo team “Ti rivedi in lui? Nella sua fisicità?”
    “Sì, però non era soltanto questo! Lui… lui era un po' come te… quando giocava sembrava invincibile, come se niente avesse potuto fermarlo… mi ha ispirato a non arrendermi…”
    “A non arrenderti rispetto a cosa?”
    Hinata ebbe una reazione strana a quella semplice domanda, uno scatto improvviso e brusco, che lo portò perfino a retrocedere di qualche centimetro con la sedia, come un animaletto braccato.
    Wakatoshi lo studiò attentamente, cercando di comprendere il motivo di tanto allarme: Tendou gli rimproverava spesso di esprimersi in maniera inopportuna, pur avendo le migliori intenzioni, ma anche esaminando e riesaminando la domanda che gli aveva appena posto, non riusciva a comprendere in quale maniera essa avesse potuto mai causare l’abbattimento e la ritrosia che stava leggendo negli occhi di Hinata Shoyo.
    “Ho detto qualcosa di sbagliato?” chiese quindi, non trovando altra via d’uscita dalle sue elucubrazioni.
    Il ragazzino si ritrasse nelle sue stesse spalle, sempre più a disagio, “No… no, tranquillo…” mormorò, spostando gli occhi sulla superficie ingombra del loro tavolino.
    “Ma sembri turbato.”
    “N-non sono turbato!”
    “Sì, lo sei, lo percepisco. Non sei capace di nascondere i tuoi stati d’animo.”
    “Davvero io… ho detto così per dire! Intendevo che vedere il piccolo gigante, mi ha ispirato a cominciare a giocare e a non arrendermi nonostante la mia bassa statura, tutto qui.”
    La versione del ragazzino non convinse Wakatoshi neanche per un secondo, tuttavia la sua difficoltà era diventata talmente evidente che l’asso preferì annuire e lasciar semplicemente morire lì il discorso.
    Tornarono a mangiare, lui la sua insalata scondita, le ultime patatine accatastate sul fondo della scatolina, Hinata le poche crocchette di pollo rimaste, spiluccandole con molta meno voracità di prima.
    Il chiacchiericcio degli altri avventori rendeva il silenzio fra di loro meno pesante, ma non meno fastidioso, almeno per Wakatoshi che non smetteva di cercare la logica dietro al misterioso comportamento di Hinata.
    Ma forse non valeva la pena ossessionarsi in quel modo.
    Forse stava esagerando circa le reazioni di Hinata – d’altronde, ultimamente, il suo cervello pareva captarle costantemente, senza alcun motivo apparente, con la stessa precisione di una sonda- forse aveva visto un enigma dove in realtà non c’era.
    Guardò l’orologio; non c’era fretta ma, dato che ormai entrambi avevano finito, tanto valeva cominciare ad avvicinarsi al binario del loro treno.
    Stava per proporre a Hinata di alzarsi, quando la voce del piccolo – sottile, malferma- arrivò a distoglierlo dai suoi intenti.
    “Quando avev-“ le parole gli si incespicarono sulla lingua, prese un respiro profondo, quindi ricominciò “Quando avevo all’incirca sei anni, ho avuto un incidente con mio padre.”
    Wakatoshi restò immobile.
    Hinata aveva le mani congiunte sul tavolo e gli occhi bassi, puntati sulle sue dita.
    “I miei nonni paterni vivevano a Kitakata, nella prefettura di Fukushima, a circa tre ore da Miyagi. Erano troppo anziani per viaggiare o prendere i mezzi di trasporto, per cui mio padre mi portava a far loro visita una volta al mese, per passare insieme la giornata. Era uno dei miei momenti preferiti in assoluto: i nonni erano buoni, giocavano sempre con me e mi regalavano un sacco di giocattoli. Nonno conosceva tantissime leggende, adoravo starlo a sentire, soprattutto quando di pomeriggio ci mettevamo sul patio e lui mi faceva appoggiare la testa sulla sua gamba accarezzandomi i capelli, mentre mia nonna aveva un giardino pieno di fiori, che in primavera riempivano la casa di un profumo buonissimo.”  chiuse le palpebre lentamente, una lacrima piccola, trasparente, gli attraversò la guancia, cadendo sul tavolino.
    “Una sera ho insistito per rimanere a cena, non mi bastava mai il tempo con loro. Mio padre era titubante: il viaggio era lungo e il cielo prometteva pioggia, ma alla fine acconsentì. Si raccomandò: un piatto veloce e basta, Shoyo, non possiamo tardare! Ma tra una cosa e l’altra, chiacchierando, ridendo, il tempo passò senza che ce ne accorgessimo. I miei nonni si offrirono di ospitarci per la notte, ma mio padre doveva lavorare l’indomani, era un architetto, aveva un cantiere da portare avanti, pieno di operai che aspettavano le sue direttive, così ci mettemmo in macchina.” il suo corpo venne scosso da un tremito simile a uno spasmo.
    Provò ad asciugarsi il viso, ma le lacrime aumentavano invece di diminuire - un fiume senza fine.
    “Ha avuto un colpo di sonno a mezz’ora da casa, siamo finiti contro il guardrail. Papà è morto sul colpo, io sono rimasto in coma per otto mesi.”
    Wakatoshi era pietrificato.
    Si era fermato tutto, il mondo esterno, il tempo, forse il suo stesso sangue, il suo stesso cuore.
    Hinata Shoyo stava andando in pezzi innanzi a lui, si stava sbriciolando sotto i colpi di quel dolore antico che pur nel silenzio delle sue lacrime, nella sobrietà delle sue parole graffiate e pronunciate a fatica, sembrava gridare di disperazione e logorare tutta la vita che c’era intorno.
    E lui, intanto, se ne stava lì, immobile, non riuscendo a fare altro che non fosse fissarlo a denti stretti, reprimendo impulsi talmente irrazionali che a tratti lo spaventavano, come quello di lanciare da parte il tavolino che li divideva, prendere Hinata e tenerlo insieme, in una qualche maniera, una qualsiasi, non importava quale; oppure rovistargli dentro, cercare il nocciolo della sua sofferenza e gettarlo via, lontano da lui, per farlo tornare il solito ragazzino troppo luminoso e troppo sorridente, facile da detestare.
    Ripensò alla sera in cui lo aveva salvato nel vicoletto – la sera che aveva maledetto infinite volte, il centro di ogni suo rammarico. Aveva odiato vederlo sanguinante, spaurito. Anche in quella occasione - ricordava, con una punta di vergogna- si era ritrovato a desiderare cose strampalate come scrollargli di dosso il male che gli stava incupendo lo sguardo, ma adesso era molto peggio.
    Il sangue poteva asciugarsi, un osso ricomporsi, la paura sparire.
    Un ricordo come si estirpava?
    Un dolore del genere come si leniva?
    Quale era la terapia?
    Dove era la cura?
    Esistevano medicine adatte?
    “Q-quando mi sono svegliato, non ricordavo niente, è stata mia madre a dirmi la verità qualche settimana dopo. Ho pianto ininterrottamente per tre giorni, e anche quando ho smesso mi sentivo vuoto, non volevo vivere, non ne trovavo il senso. C’era soltanto dolore. Un oceano infinito di dolore… in ogni parte di me.” continuò ancora Hinata, gli occhi rigorosamente chiusi, a fare da setaccio a quelle lacrime quiete che non smettevano di scorrere “Il fatto è che… l’incidente mi aveva provocato dei lievi danni alla colonna vertebrale… i medici mi avevano sottoposto ad un paio di interventi già durante il coma, ma avevo bisogno di un duro lavoro di fisioterapia per riuscire a riacquistare la piena mobilità. Sono rimasto bloccato in ospedale per altri cinque mesi. È stato il periodo più brutto della mia vita.”
    All’improvviso, le immagini della sera dell’aggressione trafissero Wakatoshi come dei pugnali affilati.
    - Ti prego, io… non mi piacciono gli ospedali, mi fanno paura…-
    - No! Non ci voglio andare in ospedale!-
    - Tu non capisci, Japan… non puoi capire…-
    Quanto era stato stupido, quanto era stato meschino.
    Provava soltanto ribrezzo per se stesso e la sua cecità.
    “Quando sono stato dimesso, ho cambiato scuola, ne serviva una che fosse abbastanza vicina all’ospedale, dato che continuavo a fare avanti e indietro per la fisioterapia. I medici dicevano che ormai quello che c’era da aggiustare era stato aggiustato ed in effetti, con il passare del tempo, le mie condizioni migliorarono parecchio… anche se non completamente. Era una questione psicosomatica: non guarivo perché, semplicemente, non volevo guarire. Ed era vero. Mi sentivo rotto, ero dilaniato dal senso di colpa: se non avessi insistito per rimanere, quella sera, non si sarebbe fatto tardi e papà non avrebbe avuto quel colpo di sonno. Lo avevo condannato io. Lo avevo ucciso io.
    “Quando è stato il momento di scegliere la scuola media, mia madre ha seguito la stessa logica delle elementari, ne ha scelto una che mi permettesse di continuare le mie terapie. Tanto, non avevo tempo per frequentare i corsi pomeridiani, una valeva l’altra.” sospirò, si portò una mano alle labbra per stabilizzare la voce che, di tanto in tanto, finiva per venirgli meno.
    “Era tutto nero, pensavo che sarebbe stato così per sempre. Poi un pomeriggio, per caso, su un televisore da esposizione in un negozio di elettrodomestici, ho visto lui, il piccolo gigante!“
    “Era molto più piccolo rispetto ai suoi compagni di squadra, sembrava quasi un bambino in confronto agli altri, eppure emanava una forza spaventosa! Era come una stella incandescente, bruciava di orgoglio e possedeva una passione smisurata che bucava lo schermo!”
    “Quando ero in ospedale, la mia stanza affacciava su un campo di pallavolo, per cui mi era capitato spesso di vedere dei ragazzi giocare. Sembrava divertente, avevo anche pensato che sarebbe stato simpatico imparare. Ma il modo in cui stava giocando lui era… era diverso da quello che avevo visto! Non era semplicemente pallavolo, era… qualcosa di più! Mi lasciò di stucco! Quando lui saltava per schiacciare sembrava librarsi in volo come un uccello, era leggerissimo, ma allo stesso tempo potente… non avevo alcun dubbio che avrebbe portato a casa il punto, perché pareva inarrestabile. Niente avrebbe potuto fermarlo. Fu allora che pensai: voglio essere come lui! Sono stanco di rimanere incatenato a terra, non ce la faccio più a soffrire! Voglio sentirmi leggero e spiccare il volo! Voglio provare qualcosa di diverso dal dolore! Voglio tornare a vivere, proprio come lui! Lo devo a mio padre…”
    Finalmente, un sorriso minuscolo – affaticato, tremulo- stirò le labbra umide di lacrime di Hinata.
    Si asciugò il viso, trascinandosi sulle guance le maniche della felpa, passò brevemente una mano tra le lingue di fuoco dei capelli per ravvivarli un po', quindi riaprì le palpebre, ma solo per puntare uno sguardo stanchissimo verso le strade di Kabuki- Cho.
    “Da quel momento mi sono rimboccato le maniche. Ho completato il percorso di fisioterapia poco tempo dopo, riacquistando la piena mobilità. Ho imparato le regole del gioco, ho comprato una palla Mikasa, ho cominciato ad allenarmi. Purtroppo, la scuola media che avevo scelto non aveva una squadra di pallavolo, ma questo non mi ha demoralizzato, ho continuato ad esercitarmi. Al momento di scegliere il liceo, ho pregato mia madre di mandarmi alla Karasuno, la squadra del piccolo gigante, anche se era lontano da casa. Ed è stata la scelta migliore della mia vita! Lì sto realizzando tutti i miei sogni! Ho incontrato Kageyama e la mia squadra… ma non soltanto loro! Ho conosciuto anche degli avversari fantastici, che mi hanno aiutato a crescere e migliorare! Tra di loro ci sei anche tu, ovviamente, che sei la persona più simile al piccolo gigante che io abbia mai incontrato!”
    A quel punto, Hinata emise un respiro prolungato, come se intendesse sgonfiare il petto dalla tristezza che lo avevo intrappolato fino a quell’istante. Raddrizzò le spalle, scrollò la testa, dopodiché lanciò un’occhiata furtiva verso Wakatoshi e scoppiò in una risata forzatissima.
    “Oddio, mi dispiace! Scusami, sono davvero desolato! Non so perché ti ho raccontato questa cosa! Insomma, che diavolo te ne può fregare della storia della mia vita! Mi avevi fatto una semplicissima domanda…”
    “No, io…”
    “Che stupido! Devi esserti annoiato a morte! Lo so che non ami le chiacchiere, Ushiwaka! Scusami tanto!”
    “Non mi hai annoiato, Hinata.” si affrettò a ribattere l’asso, ma aveva la lingua impastata, il cervello in panne.
    Si sentiva un mostro.
    Da quando lo conosceva, non aveva fatto altro che recriminare al ragazzino la sua scarsa preparazione atletica, la sua mancata prestanza fisica. Era stato severo con lui, addirittura violento con le parole. Lo aveva ignorato, lo aveva allontanato, lo aveva maltrattato. Lo aveva salvato, certo, eppure gli aveva fatto pesare ogni singolo grammo di quell’atto di civiltà. Lo aveva portato in ospedale, eppure aveva odiato prestargli la sua vicinanza e, la seconda volta, aveva perfino rifiutato la sua richiesta di supporto, mentre lui veniva mangiato vivo dai ricordi e dalla paura, con un sorriso sulle labbra.   
    “Non so cosa mi sia preso, non racconto mai a nessuno questa storia! L’ho detto soltanto a Suga e al professor Takeda, che aveva accesso al mio fascicolo personale… nemmeno Yachi o Kageyama ne sono a conoscenza… io non…” continuò Hinata, scrollando le mani di fronte a sé con aria desolata.
    “Hinata, non ti devi scusare.” lo interruppe allora Wakatoshi, cercando di formulare il suo pensiero in maniera coerente “Io… mi dispiace per quello che ti è successo. E mi dispiace ancora di più per tutto quello che ti ho detto in queste settimane, se avessi saputo io…”
    “NO!”
    Wakatoshi strinse le labbra.
    All’improvviso, lo sguardo ferito, ma caparbio di Hinata Shoyo lo stava trapassando, intenso al punto che gli sembrò penetrare attraverso la pelle e ustionargli le ossa. 
    “Ti prego, non lo fare, non lo sopporterei.” disse, più adulto di quanto non lo avesse visto mai “Non so perché ti abbia raccontato la mia storia, ma di certo non l’ho fatto per avere la tua pietà. Mi hai sempre detto tutto ciò che pensavi veramente di me, anche le cose più brutte, e sebbene a volte mi abbia fatto male, questo mi ha spinto a impegnarmi ancora di più. Io avrò anche vinto il torneo di primavera, Ushijima, ma tu sei molto più avanti di me e ho intenzione di assorbire da te tutto quello che posso per avanzare, che tu lo voglia o no. Perciò non è della tua pietà che ho bisogno. Ho bisogno che tu sia te stesso, sempre, al cento per cento.”
    Orgoglio, determinazione, passione, ambizione.
    Dignità.
    Hinata Shoyo diceva di aver scorto in lui le peculiarità del vero asso, di ritenere lui il giocatore quanto più simile al leggendario Udai Tenma verso cui provava tanta ammirazione, eppure Wakatoshi si sentì tremendamente piccolo di fronte a quelle parole, riconoscendo nell’aura incandescente che stava inglobando il corvo del Karasuno, le qualità di cui tanto parlava, e non più in sé stesso.
    “Io non provo pietà per te, Hinata Shoyo, non ne ho mai provata e non comincerò adesso.” disse, sincero.
    “Ti ringrazio, Japan.” annuì il ragazzino, grato, prendendo a giocare nervosamente con i margini del suo vassoio “Questa… questa cosa che è successa… non deve cambiare niente tra me e te, per favore…”
    “Non lo farà.”
    Fra di loro calò un silenzio perfetto, che Wakatoshi decide di godersi, spegnendo la testa e il subbuglio che provava alla bocca dello stomaco.
    Hinata Shoyo continuava a mettere a soqquadro il suo mondo, le sue convinzioni.
    Avrebbe dovuto averci fatto l’abitudine, oramai, ma la verità era che ogni volta era esattamente come la prima - spaventosa, destabilizzante.
    Notò che, sulla superficie rossa del tavolino, c’era poco meno di un centimetro fra le loro dita.
    Anche quello, gli scaldò il centro del petto sotto le fiamme di un fuoco che non riconosceva.
    “Andiamo, adesso, rischiamo di perdere il treno.”
    “D’accordo.”
     
    ***

     
    Wakatoshi tamponò il sudore che gli stava gocciolando dalla fronte con l’asciugamano che teneva appoggiato al collo, poi si lasciò cadere sulla panchetta della palestra, osservando i suoi compagni di squadra che finivano gli esercizi di raffreddamento o, come lui, si rifocillavano prima di raccogliere le forze e correre sotto la doccia.
    Era stato un allenamento utile ma sfiancante, infatti non vi era un solo muscolo del suo corpo che non fosse dolorante.
    Quando avvertì lo squillo del suo cellulare, non si preoccupò nemmeno di guardare lo schermo, era sicuro che si trattasse di qualcuno del suo staff che gli spostava un appuntamento o qualcosa di simile, per questo necessitò di qualche istante per metabolizzare la provenienza della voce squillante che lo accolse dall’altra parte della cornetta.
    “Ehi! Japan! Ti disturbo?” lo salutò Hinata, festoso.
    “Hinata Shoyo.” convenne Wakatoshi, ancora un po' incredulo “È successo qualcosa? Di solito mi mandi un messaggio, è la prima volta che mi fai una chiamata.”
    “Oh! No nulla, è che avevo un momento di pausa e ho pensato che avrei fatto prima a telefonarti piuttosto che a scrivere un messaggio!”
    “Non capisco, hai bisogno di qualcosa?”
    “No, volevo solo sapere se, alla fine, le patatine fritte di ieri ti hanno fatto così tanto male! Sembravi disperato quando ti sei accorto di aver finito tutta la confezione!”
    “Non ero disperato.”
    “Lo sembravi però.”
    Wakatoshi scosse la testa, mordendo il piccolo sorriso che rischiava di apparirgli sulle labbra e “Ti assicuro che non lo ero.” puntualizzò nuovamente “Sto benissimo, comunque, non ti preoccupare.”
    “Allora puoi mangiarle di nuovo, le patatine fritte intendo! Adesso che sai che non fanno male!”
    “Non ho intenzione di farlo.”
    “Dai! Una volta al mese!”
    “Hinata…”
    “Va bene, la smetto! Ciao, Japan!”
    “Smettila di chiamarmi Japan, non è questo il mio nome.”
    “Che?! Ma non ti sei mai opposto, pensavo ti piacesse!”
    “Anche se mi fossi opposto, non credo che avresti smesso di utilizzarlo.”
    “Certo che sì!”
    “Ne dubito fortemente. Se vuoi fare una cosa, è impossibile farti cambiare idea.”
    Hinata emise una piccola risata e a Wakatoshi parve quasi di vederlo davanti a sé - gli occhi socchiusi, il mento alto, la faccia che si stropicciava intorno a quel suono pulito e fragile.
    “D’accordo, hai ragione! Ma avrei cercato di utilizzarlo meno spesso, almeno!” acconsentì, gioioso “Lo sai che quando sei sarcastico sei quasi simpatico, Jap- cazzo, scusa! Niente più Japan! Nessunissimo Japan, giuro!”
    Wakatoshi valutò di rimproverargli quello spergiuro senza consistenza, così come il linguaggio sboccato che poco si confaceva alla sua aria da bambino, ma alla fine scosse semplicemente la testa e lasciò correre, troppo stanco per spendere fiato invano: d’altronde, era da un po' che i suoi rimproveri verso Hinata sembravano aver perso di consistenza, oltre che di efficacia.  
    “È Wakatoshi il mio nome, Hinata, chiamami così.” disse però, insieme ad un breve sospiro.
    “Davvero?”
    “L’ho appena detto.”
    “W-Wak-“
    La voce del ragazzino si interruppe di colpo, dopodiché ci furono una serie di rumori indistinti, come se qualcuno stesse scuotendo in aria il cellulare con forza.
    “Hinata?”
    “Allora tu devi chiamarmi Shoyo.”
    “Non lo farò.”
    “Io credo di sì, invece!”
    “Hin…”
    “Devo scappare! Ci vediamo a casa, Wakatoshi!”
    E riattaccò.
    Il giovane asso osservò lo schermo del suo cellulare per qualche istante, ancora tramortito dalla conversazione lampo appena avvenuta, dopodiché si alzò dalla panca e si avviò verso gli spogliatoi con la testa fra le nuvole.
     
    Ci vediamo a casa.
    Non glielo aveva mai detto nessuno.
    Doveva ammettere che il suono gli piaceva.
     
     
     
     


    NOTE AUTORE
    Sì, avete indovinato: Hinata ha occultato il microfono e si è messo a saltellare come un grillo impazzito, erano questi i rumori che ha sentito Wakatoshi per telefono :P
    Per chi non lo sapesse, in Giappone permettere a qualcuno di utilizzare il proprio nome, invece del cognome, è sinonimo di grande fiducia e confidenza. Wakatoshi lo fa più per esasperazione, in realtà, ma non si può dire che non costituisca un evidente passo avanti nei confronti di Hinata!
     
    BUONASERA A TUTTI AMICI! BEN RITROVATI
    Lo so, è stato un capitolo corposetto, vi passo un bicchiere d’acqua per rifocillarvi!
    Vi avevo detto che questo sarebbe stato un passaggio fondamentale per la storia e, immagino, adesso avrete capito il perché delle mie parole!
     
    Prima di tutto, Wakatoshi sta avvertendo sempre più chiaramente che qualcosa sta cambiando dentro di sé. Al rifiuto iniziale, adesso si è sostituita una sana confusione verso questi nuovi e misteriosi sentimenti. E così, seppur sempre frenato dalla paura dell’ignoto, c’è indubbiamente qualcosa che lo attrae nei confronti di Hinata, facendo sì che le sue difese siano sempre più deboli. Inoltre, sono dell’idea che condividere un momento così intimo e sentimentale, porti inesorabilmente due persone ad avvicinarsi: Hinata si è messo a nudo e Wakatoshi ne è rimasto profondamente colpito.  
    Spero di star rendendo il suo percorso quanto più lineare e realistico possibile.
    Il fatto è che, quando prendo in mano il suo punto di vista, mi rendo conto che gestirlo non è affatto facile. Wakatoshi è un ragazzo troppo maturo per la sua età che, in realtà, non sa che nel profondo di sé è ancora bambino sotto mille e uno aspetti: rendere queste sfumature intellegibili è un lavoraccio! ^^’’
     
    Dall’altra parte, abbiamo la storia di Hinata, per cui ho deciso di discostarmi dal canone (ergo, è tutta farina del mio sacco! Hinata ha una vita serena nel canone, non vi preoccupate! Sono io la stronza che lo fa soffrire qui!). Non so esattamente cosa mi abbia spinto ad optare per questa versione… il fatto è che, fin dall’inizio, ho avuto l’impressione che la figura di Hinata avesse una vena sottile- quasi impercettibile- di malinconia dentro, così ho deciso di sviluppare questo spunto. Spero che abbiate apprezzato la scelta.
     
    Sottolineo anche che, per chi non lo avesse mai notato, anche nel canone Hinata associa il suo idolo, il piccolo gigante, a Ushijima Wakatoshi, non dal punto di vista fisico – ovviamente- ma per l’aura da asso che emana in campo! Scusate, era una cosa tenerissima che mi ha sempre fatto fangirlare da matti: DOVEVO inserirla ad ogni costo!
    Comunque, NON ho niente contro i fastfood, sia chiaro, ANZI!! Mentre scrivevo, mi veniva puntualmente una fame da lupi! Però, ammetto che scrivere il pov schifatissimo di Ushijima da KFC mi ha divertito parecchio! :P Fatemi sapere se è stato lo stesso per voi!
     
    Sono davvero curiosa di conoscere le vostre impressioni riguardo questo capitolo!
    Grazie mille a tutti voi che state seguendo/leggendo la long!
    A presto,
     
    Violet Sparks

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    Capitolo 14
    *** Ardente desiderio ***


    CAPITOLO XIV
    Ardente desiderio
     
     
    Nel nostro cervello,
    c’è una zona della corteggia celebrale,
    localizzata in profondità,
    in un’area tra il lobo frontale e quello temporale:
    si chiama insula ed è lì che nasce il desiderio.
    L’insula è grande quanto un cecio,
    eppure, ciò che causa nel nostro corpo
    e nelle nostre vite,
    può avere conseguenze bibliche.
    Grey’s Anatomy  
     
     

    Hinata stava dormendo davvero poco in quel periodo, ma non se ne lamentava.
    Il fatto era che, la sera non avrebbe rinunciato a vedere le partite sul maxischermo di casa Ushijima - accanto ad uno dei tre migliori assi del Giappone!- per nessuna ragione al mondo, e quando andava a letto, l’adrenalina gli faceva battere il cuore talmente forte che addormentarsi ad un'orario decente era un'impresa titanica. Per quanto riguardava la mattina poi, aveva preso l’abitudine di allenarsi nella palestra della Shiratorizawa prima dell’arrivo degli altri giocatori del campo estivo... in pratica, finiva per dormire forse quattro o cinque ore a notte, nelle giornate più fortunate.
    Alla fine, però, cosa importava?
    Se poteva migliorare, se poteva accrescere il proprio livello e aiutare il suo Karasuno a vincere il torneo Nazionale, avrebbe sacrificato volentieri altre mille ore di sonno, senza alcun problema! Si sarebbe riposato dopo, da vecchio magari! Come faceva Ukai senior nella sua vecchia casetta di campagna, tra un allenamento con i bambini e l’altro.
    Lanciò la palla in aria e cominciò a palleggiarla su e giù, colpendola con i polsi congiunti.
    Da quanto aveva capito, quella mattina si sarebbe tenuta una riunione amministrativa alla Shiratorizawa e gli allenamenti del campo estivo sarebbero cominciati più tardi del solito, il che significava che avrebbe avuto quella palestra immensa e super-attrezzata a sua completa disposizione per le prossime due ore!
    Con un enorme sorrisone sulla faccia, Hinata deviò la palla verso il muro più vicino e prese ad allenarsi nella ricezione, aiutandosi con la superficie intonsa, lucida di vernice.
    Era così immerso in ciò che stava facendo, che quando il portellone di ingresso si aprì con uno scatto, trasalì e per poco non si diede la palla in faccia dallo spavento.
    La afferrò più in fretta che poté, cercando di nasconderla dietro la schiena: non aveva il permesso di stare lì - non per allenarsi, almeno! - e se qualcuno della scuola lo avesse beccato, segnalandolo al coach Washijo, era certo che il vecchiaccio lo avrebbe cacciato in uno schiocco di dita, senza diritto di replica!
    Strizzò gli occhi, osservando con il cuore in gola la figura non meglio identificata che si avvicinava.
    Poi, il suo volto si aprì in un’espressione di autentico entusiasmo.
    Japan!”
    Ushijima scrollò la testa, mentre camminava a grosse falcate verso di lui – o meglio, camminava normalmente… solo che con le gambe lunghe e dritte che si ritrovava, messe anche in risalto dai pantaloncini corti che aveva indosso, a Hinata sembrava che ogni suo passo divorasse almeno un paio di metri!
    “Ti avevo chiesto di non chiamarmi Japan, Hinata.” fu il saluto del ragazzo, laconico come suo solito.
    Adesso che lo aveva vicino, Shoyo poté notare alcuni dettagli: Ushijima indossava un completino bianco e viola, i colori della Shiratorizawa e aveva la gamba destra interamente fasciata da una calza nera compressiva di cui non capiva la provenienza, dato che non ricordava che il giocatore si fosse infortunato di recente, ma che sicuramente gli cementava il polpaccio e i muscoli della coscia in una maniera… beh, alquanto affascinante! Portava le solite Nike nere da running, aveva la pelle leggermente traslucida e la maglietta chiazzata qua e là di sudore fresco, tutti indizi che lasciavano intuire che il giovane asso avesse appena concluso la sua quotidiana sessione di corsa, prima di palesarsi in palestra.
    “Che fai da queste parti? Non hai gli allenamenti con la nazionale?” gli chiese comunque Hinata, cercando di essere educato e smetterla di fissare il tessuto elastico della calza che si affusolava intorno alla sua caviglia, poco sopra al malleolo.
    Bizzarro… ultimamente gli era capitato di vedere una partita in cui uno dei giocatori della squadra – se non ricordava male il Brasile- portava addosso una cosa del genere…
    E sì, Hinata doveva ammettere che in quella occasione, il suo cervello aveva formulato una sfilza di pensieri piuttosto imbarazzanti, tra i quali: a) il giocatore brasiliano sembrava dannatamente sexy con quella fasciatura che gli metteva in risalto le gambe; b) con ogni probabilità anche Ushijima, con il fisico che possedeva, sarebbe stato altrettanto sexy in quella tenuta; c) sperava con tutto se stesso che il capitano della Shiratorizawa, presto o tardi, decidesse di confutare la sua teoria.
    A quanto pareva, era il suo giorno fortunato!
    “No, non ho impegni oggi. Dato che passavo di qua e non avevo visto nessuno in palestra, ho pensato di venire a provare qualche battuta.” spiegò intanto il protagonista delle elucubrazioni di Hinata – fortunatamente ignaro del loro tenore- giocherellando con la palla che stringeva tra le dita “Perché tu sei qui da solo, invece?”
    “Il campo estivo oggi comincerà più tardi, volevo approfittarne per allenarmi un po'.” gli confessò, di rimando “Posso restare o preferisci rimanere da solo?”
    “No, va bene. Basta che non ti salti in testa di difendere una mia battuta come l’ultima volta.”
    “Me ne starò buono nel mio angolino, lo prometto.”
    “D’accordo allora.”
    Si separarono nuovamente; Hinata tornò davanti alla parete che stava utilizzando come sostegno per i suoi bagher, mentre Ushijima, dopo aver recuperato la cesta dei palloni dal deposito, si posizionò davanti alla linea di bordocampo, a pochi metri da lui per cominciò a battere.  
    A sua discolpa, Hinata provò seriamente a focalizzarsi su ciò che stava facendo, da quel momento in avanti. Si impegnò con ogni fibra del suo organismo a non vanificare né l’alzataccia a cui si era auto-sottoposto né il rischio che stava correndo nell’occupare la palestra dell’accademia così, in maniera abusiva. D’altronde, non era nemmeno sua intenzione farsi beccare dal diretto interessato ad ammirarlo come un pesce lesso quale probabilmente doveva somigliare dall’esterno, tuttavia bisognava ammettere che quando Ushijima Wakatoshi si librava in volo per una schiacciata – il corpo arcuato all’indietro, l’espressione concentrata, i muscoli perfettamente tesi – non guardarlo sembrava quasi un sacrilegio, una omissione da condannare al di là di ogni possibile ragione.
    E così, ecco che gli occhi di Hinata si spostavano in continuazione su di lui neanche fossero dotati di vita propria, calamitati dalla presenza di quel campione splendente come un diamante prezioso.
    Non possedeva le conoscenze tecniche necessarie ad esprimere un parere sulla correttezza o meno dei suoi movimenti, ma scommetteva che chiunque, anche la persona meno avvezza alla pallavolo di tutto il pianeta, sarebbe rimasta incantata di fronte alla bellezza del corpo di Ushijima sospeso in aria come se non avesse peso, il suo petto ampio tirato in fuori per concedere maggiore slancio alle braccia che, simili a delle frecce, preparavano la traiettoria.
    Ogni volta che il palmo della sua mano impattava contro la palla, producendo un rumore violento, il cuore di Hinata si contorceva.
    Ne aveva di strada da compiere per raggiungere quel livello, ma nel frattempo, anche solo avere l’opportunità di osservare da vicino un campione del genere, studiarlo nei minimi dettagli, era assolutamente straordinario.
    All’improvviso, Ushijima si fermò per riprendere fiato; si passò una mano tra i capelli scuriti dal sudore, portandoli all’indietro, si sgranchì un poco il collo, dopodiché si sfilò la maglietta dalla testa con un unico gesto fluido.
    Stavolta Hinata non fu fortunato: colpì male la palla e quella lo prese in pieno sul naso.
    “Hinata, stai bene?” chiese Ushijima, dietro di lui.
    Maledizione, che figuraccia!
    Quanto meno – pensò- l’incidente gli forniva un alibi perfetto per il fuoco che si sentiva sulle guance.
    “S-sì, certo! Alla grande!” gli rispose, senza avere il coraggio di guardarlo.
    “Ti infastidisce che io sia senza maglietta? Posso rimetterla…”
    “N-no! Assolutamente no! Nemmeno per idea! Fai pure con comodo! Non mi infastidisce proprio per niente! Perché dovrebbe, insomma? Siamo soli qui! Va tutto alla grandissima!”
    “Stai iper-ventilando.”
    “Chi, io? È il caldo! Cavolo, oggi non si respira proprio, non trovi?! Tra poco mi spoglierò anche io, mi sa! Non del tutto, ovvio! Ma…”
    “D’accordo, Hinata, se ti aiuta a tornare a respirare correttamente, spogliati anche tu.”
    Le budella di Shoyo ebbero una specie di spasmo al suono di quel ‘spogliati anche tu’ così baritonale, scuro come le profondità di una caverna; ad ogni modo, se prima gli era parso difficile concentrarsi sui palleggi, a partire da quell’istante farlo divenne un’impresa praticamente titanica.
    In via precauzionale, il ragazzino decise di inchiodare gli occhi alla parete, ben consapevole che se si fosse rimesso a spiare Ushijima, probabilmente avrebbe perso la sanità mentale nel giro di un quarto d’ora, ma anche così, mantenere un contegno era maledettamente complicato, a causa del suo cuore che non riusciva a starsene buono e uno strano formicolio nella zona del bassoventre che non voleva proprio lasciarlo in pace. 
    La palla si allontanava e si riavvicinava innanzi ai suoi occhi inermi, scandendo il tempo con uno schiocco ritmato che riecheggiava tra i soffitti altissimi della palestra.
    Le sinapsi di Shoyo erano intorpidite, rallentate. Il suo cervello riusciva a registrare il mondo circostante solo passivamente, troppo occupato a scacciare via fantasie a dir poco indecenti, che avevano quale unico epicentro il corpo seminudo di Ushijima Wakatoshi – le sue spalle possenti, le venature degli avambracci, la V che spariva sotto l’elastico dei pantaloncini, in una specie di invito…
    “Sbagli completamente la postura.”
    Shoyo perse dieci anni di vita.
    Lasciò cadere il pallone e si girò di scatto: Ushijima lo stava fissando, torreggiando a pochi, pochissimi centimetri di distanza da lui come un uccello rapace.  
    “S-scusa, potresti ripetere?” balbettò, con le orecchie in fiamme.
    “La tua postura è del tutto scorretta. Non riuscirai mai a ricevere correttamente una palla così, la tua difesa sarebbe soltanto di intralcio alla squadra.” asserì Ushijima, serissimo.
    Shoyo incassò il colpo con un mezzo sorriso: se non avesse imparato, oramai, che quello era il modo canonico con cui il ragazzo soleva esprimere il proprio pensiero, probabilmente si sarebbe offeso.
    “Lo so, sono una frana!” ammise dunque Shoyo, grattandosi la nuca “Ho provato a chiedere a Noya di insegnarmi qualcosa sulla ricezione, ma non ci capisco niente! E poi mi annoio subito, attaccare è molto più figo!”
    “Con una difesa inadeguata, lo schiacciatore non potrà dare il massimo in fase di attacco.”
    “S-sì, hai ragione… per questo sto cercando di migliorare…”
    “Non migliorerai se continuo così.”
    A quel punto, Ushijima mosse qualche passo, fermandosi poco dietro di lui, tuttavia quando Shoyo tentò di girarsi a sua volta, per non dargli le spalle, la mano grande e calda del capitano gli ruotò bruscamente la testa in avanti, tenendolo fronte al muro.
    “Fammi vedere come fai un bagher.” gli ordinò dunque, mentre scostava le dita dalle ciocche dei suoi capelli con una carezza involontaria che gli diede i brividi: era la prima volta che Ushijima mostrava tanto interesse nei suoi confronti e la cosa a tratti lo tramortiva, gli svuotava la pancia e gli dava le vertigini.
    Fece un respiro profondo, poi mimò il gesto del bagher come gli era stato intimato.
    “È sbagliato.” sentenziò subito la voce aspra di Ushijima, molto più vicina di quanto Shoyo si sarebbe aspettato “Ti faccio vedere io.”
    Nella mente di Hinata, quello che sarebbe dovuto accadere prevedeva che Ushijima recuperasse la palla abbandonata ai loro piedi, prendesse posto di fianco a lui e infine gli svelasse la dinamica corretta dell’esercizio, correggendo una volta per tutte la sua tecnica grossolana.
    Quello che in realtà accadde fu che Ushijima incollò il proprio petto alla schiena tremolante di Shoyo, allungò le braccia sotto le sue, costringendolo a piegare delicatamente il torso, dopodiché gli manovrò i polsi finché non ottenne la postura desiderata.
    Shoyo sentì le ossa liquefarsi, la cute prendere fuoco in tutti i punti in cui combaciava con quella del giovane asso.
    “Devi tenerti morbido sulle spalle, hai il collo teso.” mormorò ancora Ushijima, il suo fiato bollente che si infrangeva senza alcuna pietà contro il suo orecchio, il suo solito profumo costoso e virile che gli si infilava nelle narici, gli risvegliava il sangue. All’improvviso, una delle mani che gli teneva i polsi salì a cingergli il collo, racchiudendolo quasi per intero con una lentezza estenuante e “Ruota piano la testa, sciogli i muscoli.” disse, anche se poi fu lui stesso a guidare i suoi movimenti, premendo gentilmente le dita.
    Shoyo smise di respirare nell’istante in cui il retro della sua testa si posò all’indietro, sulla spalla del capitano della Shiratorizawa e il suo odore buonissimo gli invase il palato, la ruvidezza della sua guancia gli sfregò una tempia.
    Era esterrefatto: Ushijima aveva sempre dimostrato una avversione totale nei confronti del contatto fisico, invece adesso lo stava toccando in maniera diretta, prolungata, cruda, perfino con una certa prepotenza nel modo di imporsi sul suo corpo, decisamente più sottile.
    “Wakatoshi…” esalò allora il piccolo, ma era un gemito senza intenzione, le sillabe di quel nome gli si srotolarono sulla lingua quasi prive di suono.
    Aveva la testa vana, ma il corpo ebbro di sensazioni, sovraccarico.  
    Cosa voleva esattamente?
    Allontanarsi? Avvicinarsi?
    Non lo sapeva, non era in grado di dare una risposta, ed essere onesto con sé stesso, gli faceva troppa paura. “Piegati un po' di più sulle gambe.” continuò intanto a guidarlo Ushijima, ma quando Shoyo, eseguendo l’ordine, si ritrovò a strusciare la base della propria schiena contro il bacino dell’asso, non poté impedirsi di sussultare, perdendo la posizione.
    Furono le mani del campione, per l’ennesima volta, a reggerlo e a riposizionargli le braccia.
    “Non fare movimenti inconsulti.” lo rimproverò subito dopo, flettendosi su di lui e parlandogli direttamente nel padiglione auricolare, “Dimentica il resto, sono soltanto due le parti del tuo corpo che devono lavorare: i muscoli adduttori…” in maniera del tutto inaspettata, le sue dita spesse scesero a sfiorargli la coscia nuda appena sotto l’orlo dei pantaloncini, nella parte interna, tesa per lo sforzo di mantenere la postura giusta “E quelli della parete addominale.” allora la mano rovente di Ushijima si spostò, trascinandosi pigra lungo la sua gamba, poi il suo bacino, si tuffò sotto la maglietta larga che aveva indosso e una volta lì, si posò sul suo stomaco - pesante, aperta- come a volerlo raccogliere nel suo solo palmo.
    La reazione di Shoyo fu violenta, incontrollata. 
    Si svincolò dalla stretta di Ushijima e ricadde sui talloni, a terra, avviluppando sé stesso in un guscio protettivo malfermo, mentre il cuore gli schizzava nel petto come un proiettile e il respiro gli graffiava la gola, incapace di fuoriuscire con la solita regolarità.
    Gli occhi gli si riempirono di lacrime.
    Aveva una erezione, una erezione che non sapeva assolutamente nascondere attraverso la stoffa striminzita dei suoi pantaloncini. E il suo corpo, traditore, non accennava a riprendere il controllo, non gli rispondeva, non seguiva la sua volontà. E Ushijima era ancora dietro di lui, imponente e silenzioso, annoiato probabilmente dal suo comportamento ambiguo o, ancor peggio, arrabbiato per aver perso tempo ad elargirgli consigli che lui, all’apparenza, stava bellamente ignorando.
    “Hinata, non ti senti bene?” gli chiese quindi l’asso, da qualche parte sopra di lui.
    “N-non molto, è meglio se vado a casa.”
    “Ti ho fatto male, per caso? Ho stretto troppo?”
    “No, tranquillo, davvero!”
    La situazione stava degenerando: Shoyo carpì con la coda dell’occhio l’ombra di Ushijima che si spostava, ma prima di poter concepire una strategia di fuga valida, ecco che le sue dita spesse gli si posarono sul ginocchio, mentre l’intensità improvvisa del suo profumo lo informò che il ragazzo doveva essersi accovacciato proprio di fronte a lui.
    Preso dal panico, perse l’equilibrio e ruzzolò all’indietro, riuscendo per mero miracolo a tenere unite le gambe.
    “Japan, per favore, potresti lasciarmi un attimo da solo?” lo supplicò, infine, non sapendo cosa altro fare per uscire da quella situazione incresciosa.
    “Non posso abbandonarti in queste condizioni, sembri davvero turbato.”
    “Ti prego, Wakatoshi, ho bisogno di un… di un attimo… io… ti prego…” le parole gli morirono in gola, soffocate dai singhiozzi.
    Si sentiva un completo idiota: la vergogna lo annientava, lo annichiliva, desiderava soltanto scappare il più lontano possibile da lì, ma Ushijima non sembrava affatto intenzionato a lasciarlo andare, gravando su di lui come una aquila sulla sua preda.
    Provò almeno a mettere un po' di distanza tra di loro, retrocedendo di qualche centimetro, ma la presa inattesa dell’asso intorno ai suoi polpacci gli impedì di muoversi.
    Shoyo allora sollevò la testa di scatto: gli occhi di Ushijima erano due stalattiti - fissi, implicabili, intensi al punto da bucare la carne.
    “Hinata, dimmi cosa sta succedendo.” ordinò, stringendo le dita “Ti voglio aiutare…”
    Semplicemente, Shoyo smise di combattere.
    Si morse le labbra, ingoiò l’imbarazzo e la paura, quindi scostò un poco le cosce e abbassò molto lentamente il capo, finché le sue pupille non furono puntate sulla protuberanza spudoratamente evidente al di sotto della stoffa nera dei suoi pantaloncini.
    Non avendo il coraggio di constatare da sé la reazione del capitano della Shiratorizawa, per cui si lasciò cadere all’indietro a peso morto - le braccia premute sul viso, il corpo scosso da lievi fremiti di tensione.
    Sapeva che Ushijima era abbastanza maturo da non mettersi a ridere di lui, ma non lo avrebbe certo biasimato se si fosse sentito a disagio in una circostanza del genere, perfino se si fosse infuriato, additandolo come uno strano, un pervertito, decidendo di cacciarlo via di casa e di non rivolgergli mai più la parola.
    Quest’ultima ipotesi, in particolare, gettò Shoyo nello sconforto più profondo.
    Dopo tutti i passi avanti che avevano compiuto, l’idea che Ushijima provasse ribrezzo nei suoi confronti, gli risultava assolutamente insopportabile.
    C’erano ancora troppe cose da fare, da imparare, non voleva essere odiato, non voleva essere allontanato.
    Voleva Ushijima, voleva cenare ancora con lui, voleva guardare le partite al suo fianco, voleva sentire i suoi piedi scalzi che percorrevano il corridoio, voleva… voleva…
    Sospirò, sconfortato.
    Doveva almeno trovare il coraggio di alzarsi e andarsene subito da lì, tanto più che il silenzio prolungato del giovane asso – indice del suo giudizio negativo- lo stava consumando un grammo alla volta.
    Era concentrato, Shoyo.
    Concentrato e afflitto.
    Per questo, si accorse che Ushijima era sgusciato sopra di lui solo quando le sue labbra ruvide ghermirono le proprie senza gentilezza.
    Hinata sussultò così forte da battere la testa sul pavimento.
    Ushijima Wakatoshi lo stava baciando.
    Stava baciando proprio lui, lì, in quel preciso momento.
    E no, non poteva essere un errore o un fraintendimento, non quando il respiro del campione si infrangeva a ondate irregolari sul suo viso bollente, non quando la sua lingua morbida premeva contro la linea dei suoi denti e, non appena riuscì ad espugnarla, catturava la sua con passione, prendendo a lambirla e succhiarla come fosse una caramella.
    “Japan…” trovò la forza di gemere Shoyo “Che stai…”
    “Te l’ho detto, Hinata, ti voglio aiutare.” gli sussurrò quello sulla bocca, prima di riprendere il proprio attacco e tornare a bere avidamente il suo sapore.
    Il comportamento di Ushijima non aveva il minimo senso. Non era da lui discostarsi dai binari della logica, non era da lui mettere se stesso in mostra in quella maniera, non erano da lui l’eccesso, la trasgressione, la lussuria, l’incoscienza. Forse era malato! Forse era impazzito dal giorno alla notte e aveva bisogno di un dottore! La cosa giusta da fare era fermarsi, sì. Fermarsi subito, riprendere il controllo e discuterne da persone mature, cercando di trovare una spiegazione coerente.
    Ma la verità era che Shoyo non era mai stato ragazzo coerente.
    Era debole – troppo debole, soprattutto quando si trattava di Ushijima Wakatoshi- per questo, alla fine, le sue palpebre cedettero, vinte dalle spire di fuoco che si libravano sotto la sua pelle, le sue dita tremanti corsero ad aggrapparsi alle ciocche ispide del ragazzo sopra di lui, quindi prese a rispondere al bacio con la medesima urgenza, perdendosi nella nebbia simile a zucchero filato che ormai gli stava offuscando la mente.
    Si abbandonò all’istinto, adeguandosi al ritmo vertiginoso dettato dal capitano della Shiratorizawa, ma anche alimentando i propri desideri, lasciandoli per la prima volta a briglia sciolta, liberi dai mordenti della vergogna e dell’insicurezza.
    Agganciò una gamba intorno alla vita stretta di Ushijima e se lo strinse addosso, gemendo quando quello immerse nuovamente una mano sotto la sua T-shirt ad accarezzargli la morbidezza della pancia, mentre con la bocca scivolava a mordergli la spalla, il collo, l’orecchio, la mascella.
    Ora che poteva toccare per davvero quel corpo scultoreo che aveva adorato con gli occhi per settimane, Shoyo ne era intossicato, lo rendeva folle il desiderio di conoscerlo e sondarlo, ne bramava ogni affranto, voleva possederlo e farsi possedere dalla sua potenza.
    Neanche gli avesse letto nel pensiero, Ushijima gli afferrò i polsi e lo bloccò sul pavimento piacevolmente fresco, guardandolo dall’alto con uno sguardo affamato che mandò una scarica di piacere dritta fra le cosce del più piccolo.
    “Guarda cosa hai fatto, Hinata…” disse, affondando il bacino contro il suo solo per mostrargli, attraverso un’erezione altrettanto evidente e dura, l’oggetto delle sue accuse “Adesso devi rimediare.”
    Il singhiozzo eccitato di Shoyo si perse nel rumore dei loro vestiti che venivano strappati, negli sciocchi osceni delle loro labbra che ripresero a divorarsi, ingorde e instancabili.
    Se fosse arrivato qualcuno, li avrebbe trovati ansimati, sudati, avvinghiati, ma quale importanza poteva avere uno scandalo di fronte alla gloria di Ushijima Wakatoshi, bello e dorato come un miracolo, che lo prendeva sul pavimento della palestra, mentre lui non sapeva fare altro che sospirare, aprendosi per lui come la corolla di un fiore.
    Lo accolse dentro di sé senza provare nemmeno un briciolo di dolore.
    Aveva letto da qualche parte che sarebbe stata opportuna una specie di preparazione, qualcosa con lubrificante e dita, forse, per abituarsi all’intrusione di una carne estranea alla propria, invece il suo corpo si era modellato intorno ad Ushijima senza alcun ostacolo, quasi che averlo lì non fosse una forzatura, ma una cosa perfettamente naturale, compiutamente giusta.
    Shoyo sondò la curva della schiena dell’asso e incrociò le gambe intorno ai suoi fianchi snelli, godendo di quei muscoli scattanti, intonando lamenti tra le sue labbra sottili, mentre quello lo inchiodava al pavimento sotto le sue spinte calcolate ed energiche, arrossandogli la pelle al passaggio dei suoi grossi palmi su ogni centimetro della sua figura tremante.
    Ushijima travolto dal piacere era uno spettacolo selvaggio, capace di farlo inarcare con la sola forza dello sguardo: quando i loro occhi offuscati si incontrarono, Hinata pensò che avrebbe perso il senno.  
    “Shoyo… Shoyo… Shoyo…” lo chiamò il ragazzo più grande con la sua voce virile, arrochita dallo sforzo.
    Il suo nome, pronunciato in quel modo, gli parve indecente come un peccato.  
    “Wakatoshi, io… io ti… ti…”
     

    ***
     

    Hinata aprì gli occhi di scatto, le fiamme nei polmoni, le orecchie che ronzavano in maniera dolorosa.
    Le sue pupille si spostarono, impazzite, da una parte all’altra dell’ambiente circostante, esigendo un lasso di tempo miseramente lungo per riconoscere la lussuosa stanza di casa Ushijima, allora si sollevò a sedere con un balzo e si portò entrambi le mani al petto, nel tentativo di placare il proprio cuore che galoppava sfrenato.
    Cazzo!
    Cazzo-cazzo-cazzo-cazzo-cazzo!
    Aveva appena avuto un sogno erotico su Ushijima Wakatoshi!
    Aveva appena immaginato di fare sesso col suo attuale coinquilino, sul pavimento di una palestra!
    Esitante, si arrischiò a dare una sbirciatina sotto le coperte, nel punto in cui il tessuto dei pantaloncini sembrava decisamente troppo bagnato, tuttavia gli bastò smuovere le gambe di appena un millimetro per appurare che sì – cazzo! - quella all’altezza del suo inguine non era affatto una semplice chiazza di sudore!
    Afferrò il primo cuscino disponibile, se lo mise sopra la testa, dopodiché si infossò tra le lenzuola, desiderando di sparire dalla faccia della Terra.
    Era appena venuto nei suoi stessi boxer solo con la forza della sua fervida immaginazione!
    Non gli era mai capitata una cosa del genere! Non pensava nemmeno che fosse possibile! Forse aveva mangiato qualcosa di marcio a cena e non se ne era accorto! La lattuga era stata drogata, per caso? Oppure chissà, erano state le carote a dargli le allucinazioni! I concimi chimici potevano essere molto pericolosi per l’uomo e negli ultimi anni, le industrie non facevano altro che sfruttarli per elevare il proprio guadagno, Yamaguchi glielo diceva sempre quando andavano al supermercato per acquistare la verdura!
    Piagnucolò sommessamente e si premette il cuscino sulla nuca, giusto per essere sicuro che nemmeno un capello fuoriuscisse dal suo nascondiglio.
    Faceva un caldo bestiale lì sotto e poi era tutto alquanto appiccicoso, ma a Hinata non importava un fico secco, anzi! Era meglio morire soffocato che affrontare la terribile realtà dei fatti!
    “Te l’ho detto, Hinata, ti voglio aiutare…” l’eco della voce di Ushijima, proveniente dal suo subconscio, gli rivoltò lo stomaco come un calzino.
    Da dove diavolo erano saltati fuori quei pensieri indecenti?
    Ok, aveva accettato già da qualche anno di preferire i ragazzi alle ragazze.
    E ok, sì, aveva già formulato qualche scenetta sconcia nella propria testa in compagnia di attori, cantanti o personaggi degli shonen che leggeva, ma si era sempre trattato di un paio di bacetti spinti, una toccatina qua e là di nascosto, non certo… quella specie di film porno!
    Prese a pugni il materasso, tentato di fare lo stesso anche con la sua faccia; ad un certo punto, comunque, sbucò dalle profondità delle lenzuola, avvilito dal calore asfissiante che faceva lì sotto, le scalciò con stizza in fondo al letto e si rimise supino, allargando le braccia e le gambe.
    Respirò piano, osservando il soffitto intonso.
    Forse stava esagerando…
    Insomma, era un adolescente dopotutto, no? Un adolescente gay che viveva sotto lo stesso tetto con un ragazzo che era una statua greca ambulante e girava senza maglietta spesso e volentieri! Poteva appellarsi agli ormoni impazziti, giusto? Sì che poteva! Quante volte, durante i ritiri, aveva sentito gli altri ragazzi fare apprezzamenti su quella o quell’altra persona, parlando senza problemi delle cose oscene che avrebbero desiderato fare insieme a lei? Yamamoto della Nekoma, una volta, aveva raccontato a tutti un sogno erotico che aveva avuto su una bella attrice coreana, scendendo nei minimi particolari, e nessuno dei presenti si era scandalizzato! Ushijima non era un attore, certo, ma era bello quanto un attore, no? Quindi era perfettamente normale pensare a lui in una certa maniera! E Oikawa e Iwaizumi, allora? Se si baciavano con quella passione, era molto probabile che avessero anche rapporti sessuali!  
    “Shoyo…. Shoyo… Shoyo…”
    Hinata sussultò.
    La voce roca di Ushijima era peggio di un chiodo nel suo cervello e minacciava di farlo ammattire.  
    Tra quarantotto ore esatte, la loro convivenza sarebbe giunta al termine: lui sarebbe tornato a casa propria, alla sua ruotine quotidiana fatta di scuola ed allenamenti con il Karasuno, e con ogni probabilità, non avrebbe mai più rivisto il capitano della Shiratorizawa…
    Spostò le mani all’altezza della pancia, dove uno strano senso di vuoto aveva cominciato a stringergli le membra.
    Aveva bisogno di cambiare il letto.
    E di una doccia fredda.
     
    ***

     
    Shoyo non sarebbe voluto entrare in cucina.
    La strategia che aveva minuziosamente formulato sotto il getto della doccia prevedeva quale punto primo esattamente il fatto di evitare Ushijima Wakatoshi per le prossime ore – ma anche per tutto il resto della loro vita, se necessario!
    Peccato che, non appena riconobbe la voce festosa di Tendou, una volta uscito dal bagno, la sua curiosità ebbe la meglio sull’istinto di autoconservazione e prima di poter anche soltanto pensare di fermarsi, Hinata si era ritrovato impalato accanto al frigorifero, con gli occhi curiosi di due aquile puntati su di sé.
    Ovviamente, non appena incrociò – per sbaglio! – il cipiglio severo di Ushijima, le guance di Shoyo assunsero una tonalità tendente al viola.
    “Ehilà, gamberetto!” lo salutò festoso il ragazzo dai capelli rossi, scrollando le braccia ossute e pallide nella sua direzione “Stai bene? Hai la faccia paonazza!”
    “Che?! No, tutto benissimo! Alla grande! È che sono appena uscito dalla doccia!” si affrettò a spiegare Hinata, intrecciando anche le braccia al petto e appoggiandosi allo stipite della porta per assumere una posa di fintissima nonchalance.
    Se la sua farsa sembrò convincere Ushijima, che – grazie al cielo! – tornò a dargli le spalle e a concentrarsi sul caffè nero che stava preparando, lo stesso non accadde con Tendou, il quale invece lo squadrò da capo a piedi, con sguardo sospettoso. “Se lo dici tu…” gli concesse, alla fine, stirando un sorriso un po' inquietante “Capiti proprio a fagiolo, lo sai piccolino?”
    “P-perché?”
    “Beh, perché magari puoi aiutarmi a convincere il ragazzo dei miracoli a concedere ai suoi compagni di squadra del terzo anno una giornata al mare!”
    Hinata dimenticò imbarazzo e soggezione e si aprì in un sorriso raggiante.
    “Volete andare al mare?! Ma è un’idea bellissima!” esclamò, battendo persino le mani.
    “Sentito, Wakatoshi? È un’idea bellissima!” gli fece eco l’altro.
    A quel punto, Ushijima scrollò le spalle e sospirò sonoramente, “Te l’ho già detto, non posso perdere una giornata, Tendou. E poi ho un allenamento con la nazionale alle sette, stasera.” affermò, mentre versava il caffè nella tazza e poi si incamminava verso l’isola della cucina, per prendere posto su uno degli sgabelli liberi.
    “Non perderesti la giornata! E Shirahama Beach è a poco più di un’ora di treno da qui, ce la faresti abbondantemente a tornare per il tuo allenamento, te lo posso garantire! Andiamo, Wakatoshi! Sarebbe davvero importante per noi averti oggi! Sei il nostro capitano e non siamo mai riusciti a coinvolgerti in niente, nemmeno una gita al centro commerciale!”
    “Ho delle visite di controllo da fare. Devo vedere il mio fisioterapista, il cardiologo e il dietologo.”
    “Fai queste visite una volta al mese! Che cambia se le rimandi a domani o dopodomani? Tra due giorni le nostre vacanze estive saranno finite e la nostra occasione di andare al mare sarà sfumata per sempre!”
    “Tendou, non insis…”
    “Secondo me, dovresti andare!” si intromise dal nulla Hinata, accorgendosi di aver aperto bocca ed essersi lasciato andare a quel commento, solo quando ormai fu troppo tardi.
    I due ragazzi, infatti, si voltarono verso di lui di scatto, visibilmente incuriositi, per cui - nonostante la mezza sincope che dovette affrontare nell’incrociare di nuovo lo sguardo di Ushijima- a Shoyo non rimase altro che accennare un mezzo sorriso e argomentare la sua opinione. “Non dico che le visite non siano importanti, è soltanto che, sai… questo è l’ultimo anno insieme per voi! Per te, soprattutto, come capitano della Shiratorizawa! L’anno prossimo potreste essere in università diverse, in città diverse, persino in paesi diversi… questa giornata al mare è un’opportunità unica, che non ricapiterà tanto facilmente, mentre di visite mediche ce ne saranno mille altre! Per la tua squadra è importante, dovresti accontentarli, per una volta, Wakatoshi.”
    Senza un motivo apparente, Tendou si raddrizzò sullo sgabello, dove se ne stava spalmato, neanche avesse appena udito un colpo di pistola, e “Ma guarda un po'…” mormorò tra le labbra, assottigliando all’inverosimile i suoi occhi grandi e rotondi.
    Seduto al suo fianco, Ushijima non diede segno di aver fatto caso alla reazione stravagante dell’amico, piuttosto bevve un sorso di caffè - la mascella serrata, la fronte crucciata in un’espressione pensosa- tintinnò un paio di volte coi polpastrelli sulla superficie ricurva della ceramica, infine posò la tazza, ruotando al contempo il capo in direzione del suo compagna di squadra.
    “Va bene, vengo con voi.” acconsentì, solenne.
    Ci fu un momento, un lasso di tempo breve quanto un battito di ciglia, in cui Hinata ebbe la netta impressione che Tendou Satori fissasse Ushijima con un guizzo indecifrabile, come se lo stesse sviscerando con la meticolosità di un chirurgo.
    Poi la cucina tremò sotto il suo ululato di gioia.
    “Evviva! Ci siamo riusciti, non ci posso credere! Hai visto, numero 10? Lo sapevo che la tua comparsa sarebbe stata provvidenziale!” gridò il ragazzo, indicando Hinata con le dita posizionate a formare una pistola.
    “Il discorso di Hinata aveva senso, non è opportuno affibbiare alla sua comparsa qualcosa di religioso.”
    “Sì, sì, come preferisci! Avete entrambi un costume da bagno, vero?”
    “ENTRAMBI?” risposero lui e Ushijima all’unisono, prima di scambiarsi un’occhiata stranita - seppur velocissima a causa della vergogna ancora latente nel più piccolo.
    “Ma sì, vieni con noi, gamberetto! Shirahama Beach è bellissima e in questo periodo dell’anno non è nemmeno troppo affollata!”
    “Io… non saprei… insomma…” tergiversò Shoyo, in seria difficoltà.
    L’idea di una giornata di mare lo entusiasmava parecchio, ovviamente, soprattutto se in compagnia dei formidabili giocatori della Shiratorizawa, ma era pur vero che quella gita sembrava un evento esclusivo tra compagni di squadra, inoltre, cosa più importante, sospettava che quei ragazzi non avessero alcuna voglia di avere a che fare con lui, che li aveva eliminati dal torneo inter-liceali per la prima volta nella storia.
    Quando illustrò le sue perplessità a Tendou, tuttavia, il ragazzo esplose in una risata sguaiata.
    “Ma per chi diavolo ci hai preso, uccellino? Non abbiamo mica cinque anni!” affermò, scuotendo la mano “E poi, l’importante era che ci fossimo tutti noi del terzo anno, compreso il capitano! Chiunque altro volesse venire, è ben accetto! Tu che ne pensi, Wakatoshi-kun?”
    “Non mi importa, in realtà.” fu la risposta monocorde di Ushijima.  
    “D’accordo, allora, grazie! Vado a preparare la borsa!”
    Hinata si congedò dai due ragazzi, dando loro le spalle.
    Nutriva ancora seri dubbi sulla sua scelta di aggregarsi alla comitiva, ma l’alternativa, dopotutto, era restarsene da solo in quella grande casa vuota, sprecando un giorno con l’asso del Giappone e tutta la sua talentuosissima squadra…
    Affrettò il passo.
    Chissà perché, si sentiva lo sguardo invadente di Tendou Satori fin dentro le ossa.
     
     
     
     

    NOTE AUTORE
    Ok… ok… con calma! No! Posate quel coltello! Comportiamoci da persone civili, suvvia! Sì, anche gli ortaggi possono definirsi armi contundenti, mettete giù i pomodori!
     
    Amici e amiche, buonasera!
    Lo so, sono stata un po' cattivella in questo capitolo, ma chi mi conosce sa bene quanto io ami il p0rn (anche se mi sono tenuta super soft, andiamo! E con mister Ushijima non è affatto un’impresa banale!) così, tra racconti del passato difficili e tante elucubrazioni importanti, sentivo la necessità di un pizzico di sano hard per ravvivare l’ambiente! :P
     
    Scherzi a parte, il sogno di Hinata non è messo davvero così a caso: esso fa parte della graduale presa di coscienza che il ragazzo sta affrontando circa i suoi sentimenti verso Wakatoshi, nonché di quel risveglio sessuale che è cominciato quando ha visto Oikawa e Iwaizumi baciarsi nel corridoio dello stadio.
    Non dimentichiamo che Hinata è un adolescente e, sebbene rispetto a Wakatoshi sia sicuramente facilitato nel riconoscere e assimilare sentimenti/emozioni/reazioni, è pur vero che si trova di fronte alla sua prima cotta seria, da adulto, lontano dall’innocenza e dal platonismo infantile.
     
    ATTENZIONE! Avrete notato che Ushijima, nel sogno, ha un atteggiamento piuttosto sensuale e flirtante – un po' più da macho, per dirlo alla spiccia!- cadendo nell’OOC almeno rispetto a come lo avete conosciuto finora: sappiate che è tutto voluto! Quello che avete visto non è il vero Ushijima, ma una sua versione romanzata, frutto della fantasia di un ragazzino in preda agli ormoni! Voi quando sognate Tom Hiddleston lo immaginate come un agnellino o come Rocco Siffredi? Ci siamo capiti, non scendiamo nei dettagli ;)
     
    Una gita al mare con i ragazzi della Shiratorizawa… perché nessuno ha ancora fatto a Tendou Satori una statua di oro zecchino?
     
    A presto,
    Violet Sparks
     
     
      

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    Capitolo 15
    *** Con i piedi sulla sabbia calda... ***


    CAPITOLO XV
    Con i piedi sulla sabbia calda…
     
    I fatti non sempre sono come appaiono.
    Spesso ci fanno intuire che,
    andando in profondità, ci può essere qualcosa di più grave.
    Sintomi, bandiere rosse, segnali di allerta,
    fatti a cui dovremmo fare attenzione,
    cose che non dovremmo mai ignorare.
    Cose brutte, che potrebbero fare davvero male.
    Fatti ai quali, forse è troppo tardi per rimediare.
    - Grey’s Anatomy
     
     
    Quando Shoyo si fermava a riflettere, si rendeva conto che molti dei ricordi più belli che possedeva della sua infanzia avevano come sottofondo il rumore del mare.
    Sua madre era cresciuta in una cittadina minuscola, completamente costruita intorno a un porticciolo incastrato in un’insenatura della costa, simile ad un braccio protettivo, dove la gente mangiava pesce freschissimo quasi ogni giorno e i bambini imparavano ad uscire in barca ancor prima di saper camminare. Era così che si erano conosciuti i suoi genitori.
    Suo padre - amante assoluto dell’acqua, ma vissuto solo ed esclusivamente in città nel corso dei suoi ventidue anni di vita- un giorno era capitato per caso in quella cittadina che sembrava respirare fuori dal mondo, piena di gente con la pelle perennemente incipriata di salsedine e i sorrisi bianchi di madreperla, e vedendo i bambini avventurarsi senza paura con le loro barchette, si era lanciato dietro di loro, pensando: quanto mai potrà essere difficile? Sarà un gioco da ragazzi!
    Il risultato era stato che Benjiro Hinata si era ribaltato dopo meno di dieci minuti di viaggio, a circa cinquanta metri dalla riva, ma per sua fortuna era stato soccorso da una cittadina del posto, la studentessa di letteratura con la risata più dolce che Benjiro avesse mai sentito da che aveva memoria; per cui, una volta tornato sano e salva a terra, non gli era rimasto che portarla fuori a cena ed innamorarsene perdutamente.
    I suoi genitori si divertivano un mondo a raccontargli quella storia, la quale si riempiva ogni volta di nuove e rocambolesche peripezie – “Tua madre sta mentendo! Sono caduto perché sono stata attaccato da una piovra gigante!”, “Sai che per venire a salvarti ho dovuto abbandonare la mia ciurma dei pirati? Ero appena diventato capitano!”- e Hinata rideva, rideva… poi, all’improvviso, esprimeva loro il desiderio di vedere il mare, e così Benjiro e Misaki si infilavano in macchina più in fretta possibile per raggiungere una località qualsiasi, l’importante era che fosse provvista di almeno uno specchio d’acqua cristallino, e così nuotavano per ore e ore, tutti insieme, fin a quando il sole tramontava.
    Che belli che erano quei ricordi.
    Hinata non riusciva a provare tristezza, mentre essi gli attraversano la mente davanti alla distesa di sabbia bianca che era la spiaggia di Shirahama, e le onde sulla sua riva sembravano cantargli il benvenuto.
    Si accovacciò sui talloni e piantò le mani a terra, beandosi della morbidezza del manto caldo sotto i palmi, la finezza dei granelli che si incastravano tra le dita. Il sole sopra di loro era forte ma non bollente, fortunatamente non c’era molta gente, dato il giorno feriale e il cielo si confondeva nella distesa di acqua azzurra, allargando all’infinito l’orizzonte, moltiplicando l’ossigeno che fluiva nei polmoni.
    Lanciò una breve occhiata alle sue spalle: i ragazzi della Shiratorizawa stavano sistemando gli ombrelloni che avevano preso in affitto, insieme ai teli e alle loro borse, chiacchierando fra di loro.
    “Gamberetto, che ne dici di darci una mano?” lo apostrofò d’un tratto Tendou, distogliendolo dai suoi pensieri “È vero che sei nostro ospite, ma non pensare di venire servito e riverito!”
    A quelle parole, Shoyo si alzò in piedi di scatto, scrollandosi i residui di sabbia dalle mani, quindi corse verso l’altro ragazzo per aiutarlo a sfilarsi la pesante borsa frigo dalla spalla. “Scusami! Mi sono distratto a guardare il mare!” disse subito, desolato, prima di cominciare a scorrazzare di qua e di là da chiunque gli sembrasse in difficoltà con qualche compito.
    “Hinata, non devi affannarti tanto, ce la facciamo.” gli fece notare Reon Ohira, col suo solito tono cordiale.
    “Ma sì! Tendou stava scherzando!” si aggiunse a lui Hayato Yamagata.
    “A me invece non dispiace se lo strapazziamo un po'!”
    “Nemmeno a me!” si spalleggiarono invece Eita Semi e Kenjiro Shirabu, passandogli accanto.
    “Io devo ancora capire cosa diavolo ci fa qui!” proruppe Tsutomu Goshiki, evidentemente piccato.  
    Shoyo rivolse un sorriso raggiante ad ognuno dei ragazzi, compresi coloro che si erano divertiti a punzecchiarlo con le loro frecciatine.
    Quando lui, Tendou e Ushijima avevano incontrato gli studenti della Shiratorizawa davanti alla stazione di Miyagi, Hinata si era nascosto istintivamente dietro la schiena del loro capitano, sbirciando i loro volti attraverso lo spazio tra i gomiti, in preda al panico: aveva una fifa tremenda della loro reazione, dell’astio – giustificabilissimo- che essi avrebbero potuto ostentare nei suoi confronti.
    Di solito, lui non odiava le persone contro cui perdeva in partita, purtroppo nei tornei ufficiali andava così, c’erano sempre un perdente e un vincitore, non aveva senso provare antipatia nei confronti di giocatori che avevano dato il massimo e si erano battuti lealmente… ma ogni persona era diversa, no?
    Magari loro, abituati a vincere e vedendosi già con la vittoria in tasca, lo avrebbero preso a pugni non appena fosse uscito allo scoperto!
    In effetti, l’espressione che il gruppetto gli aveva rivolto non appena aveva trovato il coraggio di fare capolino dal suo nascondiglio, era stata tutto fuorché confortante: tra sguardi confusi ed esclamazione sbigottite, Shoyo aveva desiderato soltanto fuggirsene a gambe levate!
    Era stato Reon Ohira, un ragazzo dalla carnagione scura e dai modi – avrebbe scoperto di lì a poco- estremamente gentili, a rivolgergli per primo la parola e rompere il ghiaccio.
    “Ciao! Hinata Shoyo, dico bene? Io sono Reon Ohira, non abbiamo avuto modo di presentarci l’ultima volta! Come stai? Vi siete battuti benissimo nella nostra partita, immagino che adesso siate in trepidazione per le Nazionali di Tokyo!” gli aveva detto, porgendogli la mano ed un gran sorriso.
    Hinata, seppur ancora intimidito, aveva affondato il palmo nel suo, pigolando una sottospecie di risposta, in mezzo a mille imbarazzati balbettii.
    Comunque, da quel momento in avanti, l’atmosfera era andata via via ad alleggerirsi, dato che anche la restante parte del gruppo aveva preso coraggio e si era avvicinata al giocatore del Karasuno con sempre maggior confidenza.
    Alla fine, le sue preoccupazioni si erano dimostrate completamente infondate.
    Certo, alcuni di loro non erano chissà quanto espansivi nei suoi confronti – niente sorrisi, pacche sulle spalle e complimenti di sorta- ma era più una questione caratteriale che di rancore, come aveva temuto al principio. La verità era che, dietro l’aria di superiorità che mostravano in campo, Hinata aveva scoperto che i giocatori della Shiratorizawa altro non erano che dei comunissimi adolescenti, non diversi da tutti quelli che conosceva. Si interessavano ai film, alla musica, ai libri, avevano problemi con questo o quell’altro professore, prendevano in giro il loro coach, lamentandosi degli allenamenti talvolta estenuanti, si scambiavano consigli su qualche videogioco, nominavano locali in cui si ripromettevano di andare presto a passare il pomeriggio, si sfottevano persino a vicenda su un certo interesse amoroso… ragazzi qualsiasi, insomma, con i loro pregi e i loro difetti.
    A parte Reon, ad esempio, che parlando, non aveva fatto che avvalorare l’impressione di ragazzo garbato e disponibile che Shoyo si era fatto di lui, anche Hayato Yamagata, il libero della squadra, si era dimostrato sorprendentemente gentile, soprattutto quando cercava di proteggerlo dalle piccole provocazioni di Shirabu e Semi che, al contrario dei compagni, evidenziavano un’indole leggermente più spigolosa.
    Eita Semi doveva essere un tipo alquanto competitivo; il tono con cui si rivolgeva a Hinata, invero, aveva sempre una leggera nota sprezzante al suo interno, anche se in fondo non era mai inopportuno o maleducato. Kenjiro Shirabu, invece, era composto, silenzioso, eppure assolutamente glaciale nei commenti che di tanto in tanto elargiva non soltanto a lui, ma anche ai suoi stessi compagni di squadra. Insieme a Tsutomu Goshiki, erano gli unici due giocatori non del terzo anno lì presenti, dato che il resto della Shiratorizawa – opportunamente invitato- non aveva aderito per impegni vari.
    Per quanto riguardava Goshiki poi, forse era proprio lui la persona che aveva sorpreso Shoyo più di tutte quante: dato che era l’unico di loro a partecipare al famoso ritiro estivo della Shiratorizawa a cui stava presenziando come raccattapalle, Hinata aveva già avuto occasione di rivolgergli la parola, ma ben presto si era reso conto che il Goshiki che era solito stare in campo era molto diverso dal Goshiki che vi era al di fuori, perché sì,  Tsutomu Goshiki era un tipetto decisamente agguerrito e piuttosto orgoglioso, ma era anche intelligentissimo, rispettoso, pieno di interessi diversi oltre la pallavolo; conosceva un mucchio di cose su un mucchio di argomenti, ed era evidente che nutrisse una stima infinita nei confronti dei suoi senpai, in particolare per il suo capitano.
    Hinata, in effetti, aveva intuito quasi subito che le battutine al vetriolo che il coetaneo gli lanciava di tanto in tanto, non erano affatto legate ad una vera antipatia o al loro match di primavera.
    Era pura e semplice invidia per il fatto che lui stesse abitando sotto lo stesso tetto di Ushijima.
    “Sapete, l’uccellino aveva il terrore che lo avremmo spennato ben benino non appena fossimo saliti sul treno, per vendicarci della sconfitta!” lo punzecchiò Tendou, intanto che si spalmava la crema solare, prendendolo alla sprovvista.
    Hinata non poté fare a meno di notare che, nonostante le linee flessuose, il ragazzo aveva una muscolatura molto ben definita, non avendo nulla da invidiare ai suoi compagni di squadra giusto un po' più massicci. Ad ogni modo, “Ecco, io… temevo che potesse essere arrabbiati… era una partita importante, dopotutto…” mormorò, a testa china, facendo finta di affaccendarsi per stendere il proprio telo sulla sabbia calda, sotto l’ombrellone.
    Dietro le sue spalle, il gruppetto ridacchiò.
    “Potremmo sempre decidere di affogarti qui a Shirahama, la giornata è lunga!” gli urlò Semi.
    “Non ricordavo di essere un criminale! Ho la faccia da criminale, per caso?” chiese, ironico, Yamagata.
    “Non rischierei mai la prigione per una cosa così stupida.” sentenziò Shirabu, lanciandogli un’occhiata in tralice dall’ombrellone lì di fianco.
    “La Shiratorizawa è una squadra di persone oneste e ragionevoli, nessuno di noi avrebbe mai avuto il comportamento che paventavi.”
    Calò il silenzio.
    L’inaspettato intervento di Ushijima nella conversazione aveva ammutolito tutto il gruppo, anzi la spiaggia intera.
    “Avete giocato lealmente e avete vinto. Solo uomini senza onore farebbero del male fisico a qualcuno per una sconfitta.”
    A quel punto, successe una cosa davvero singolare. Shoyo vide che, dopo l’attimo di stordimento dovuto alle parole del proprio capitano – che fino a quell’istante, non aveva pronunciato una sola sillaba- uno ad uno i ragazzi della Shiratorizawa sorrisero, alzando le spalle e raddrizzando la schiena, come dei soldati chiamati all’ordine dal proprio generale.
    In quelle poche ore che aveva trascorso con il gruppo, durante il viaggio in treno, Shoyo aveva capito che il rapporto che Ushijima condivideva con la sua squadra era molto particolare, forse un po' distaccato, un po' tiepido, ma non per questo meno potente.
    A differenza di Daichi, Ushijima non si prendeva cura di quei ragazzi con la calda affidabilità di un genitore, non sentiva il bisogno di accudirli, spronarli o rimbrottarli per riportarli all’ordine. Ushijima interagiva poco e niente nelle loro conversazioni, completamente avulso – Hinata ormai lo sapeva- da quegli argomenti e quelle preoccupazioni tipicamente adolescenziali che invece riempivano la loro esistenza da comuni liceali, eppure bastava una sola frase, una sola parola, e quelli lo seguivano senza il minimo tentennamento, in nome di un rispetto, di una fiducia e di una ammirazione che Ushijima si era guadagnato non attraverso affetto o belle parole, ma sul campo di pallavolo.
    Mentre il giovane asso osservava rapito la distesa del mare, Hinata posò gli occhi sulla sua schiena ampia, possente, la sua postura fiera.
    Non faceva alcuna fatica ad immaginare come dovesse essere giocare al fianco di un campione del genere, essere pervaso dalla sua luce iridescente e inviolabile, ed avere la assoluta certezza che niente avrebbe mai potuto scalfirti, niente di brutto sarebbe mai riuscito a toccarti o ferirti, fin quando lui sarebbe stato lì, a combattere al tuo fianco.
    All’improvviso, Ushijima ruotò il capo nella sua direzione.
    I suoi occhi, sotto i raggi diretti del sole di agosto, erano di un verde prezioso.
    “Metti la crema, la tua pelle è molto chiara, potresti scottarti.” gli disse, o meglio, gli ordinò.
    “Va-va bene!” rispose Hinata e prese subito a togliersi le scarpe per rimanere in costume – un pantaloncino celeste con una banda gialla che aveva acquistato in una bancarella vicino alla spiaggia.
    “Sai, Wakatoshi, sei un po' diverso quando ti rivolgi al piccolino.” fece Tendou, affiancandosi al capitano.
    Hinata finse di non dare peso al discorso e continuò a spogliarsi, nonostante il cuore fermo in gola.
    “Diverso come?” ribatté allora Wakatoshi, increspando un poco la fronte.
    “Diverso e basta.”  soffiò l’altro ragazzo, mentre sollevava appena un angolo della bocca.
    “Ehi, Hinata, ma che hai fatto dietro la schiena?”
    Il commento inaspettato di Eita ebbe il potere di cristallizzare il sangue di Shoyo nelle vene.
    Nel giro di un istante, si sentì lo sguardo di tutti quanti addosso, perfino Tendou gli girò intorno per aggiungersi all’esame certosino che stava avvenendo sulla profonda cicatrice che deturpava lo spazio tra le sue scapole.
    Se ne dimenticava spesso, Hinata, del suo marchio, del simbolo frastagliato e un po' sbiadito che avrebbe attestato per sempre la sua perdita.
    Lo specchio lo risparmiava dalla ferocia dei ricordi, complice anche la posizione nascosta sulla schiena, ma la curiosità della gente no, nella sua innocenza, quella finiva impietosamente per scuotere le acque della memoria, e allora lui che ancora non aveva imparato a placare il dolore - lui che forse non lo avrebbe imparato mai- non sapeva fare altro che rimanere immobile, come in quel momento, non sapendo che cosa dire per proteggere la propria sofferenza dal resto del mondo.
    “Niente di che, ho subìto una operazione quando ero molto piccolo.” sussurrò incerto, stringendo le labbra.
    “La cicatrice è bella grande…” commentò Tendou, con una certa tensione nella voce.
    “Cavolo, sì! Hai avuto un incidente o qualcosa di simile? Devi essertela vista brutta, mi dispiace!” disse invece Reon, in apprensione.
    “No, tranquilli! Era per un… difetto congenito, niente di serio…”
    “Che difetto? Vorrei studiare medicina dopo il liceo, mi interessa.” gli domandò ancora Shirabu, mentre avvicinava un poco il viso.
    “Io… non ricordo… non ricordo con esattezza… ha un nome complicato…”
    “Tutte queste domande non sono necessarie.” tagliò corto Ushijima, all’improvviso.
    Il giovane asso afferrò Shoyo per un gomito, quindi lo spostò malamente in avanti per piegare il busto e iniziare a rovistare nella sua sacca firmata, abbandonata sull’asciugamano ai loro piedi.
    Hinata, tra sé e sé, si chiese ingenuamente se l’altro fosse consapevole che, in quella maniera, si era andato a frapporre tra il suo segreto e le congetture del gruppo, come a volergli fare scudo, comunque, non ebbe tempo di soffermarsi oltre su quello stupido pensiero, dato che l’asso gli ficcò tra le mani la sua confezione di crema solare. “Ti ho detto di mettere la crema.” gli intimò, senza guardarlo “Se siete tutti pronti, vorrei fare una partita a beach volley.”
    “Cavolo, sì!”
    “Vi farò mangiare la polvere!”
    “Io voglio stare in squadra con te, Ushiwaka!”
    “Non se ne parla, ci voglio stare io!”
    “Io pure!”
    “Ce la giochiamo a morra cinese!”
    “Ma prima ci facciamo un bagno?”
    Come se niente fosse accaduto, i cinque giocatori della Shiratorizawa presero a spintonarsi e a ridere, finché Eita e Tendou afferrarono Shirabu per le gambe e per le ascelle con l’intento di buttarlo in acqua.
    Shoyo e Ushijima rimasero fermi, sotto l’ombrellone, a scrutarli da lontano.
    “Grazie…” mormorò allora Hinata, la voce ancora provata dalla situazione. 
    “Non ho fatto niente.” fu la breve risposta di Ushijima, prima di avviarsi verso la banchina.
     
    *** 
     
    La mattinata passò in fratta, con una facilità che Shoyo non avrebbe mai davvero sospettato.
    L’acqua del mare, contro la calura estiva, era una carezza fresca sulla pelle. Shoyo amò immergersi nelle sue profondità per osservare il fondale di sabbia compatta e morbida, amò leccare le goccioline salate che si incastravano tra le proprie labbra dischiuse a recuperare fiato dopo l’apnea, amò le capriole, gli scherzi, le battaglie combattute sulle spalle di Tendou contro Semi e Goshiki, amò tagliare le onde del mare col dorso delle mani e dei piedi per darsi la spinta e nuotare fino alle boe, oltre le quali si aggiravano pedalò e barche. Ma, sopra ogni cosa, amò la sensazione di leggerezza che derivava dal lasciarsi cullare sulla superficie - gli occhi pieni soltanto di cielo, il mare che lo teneva a galla senza fatica.
    La amò perché era una sensazione che non provava da tempo, di cui capì di provare una profonda nostalgia.  
    Da quando era che non entrava in acqua?
    La risposta doveva essere troppo, troppo davvero, dato che non ne aveva memoria.
    Il lutto, misto alla difficoltà di dover badare da sola a due figli piccoli, aveva costretto Misaki Hinata a non concedersi più lunghe giornate sulla spiaggia, ma anche Shoyo, per un motivo o per un altro, non aveva più trovato occasione di avvicinarsi a delle località marittime, per questo promise a se stesso di impegnarsi, in futuro, a ricongiungersi più spesso con quell’elemento naturale che gli regalava un tale grado di benessere, che sembrava accoglierlo dentro di sé come l’abbraccio di un vecchio amico.
    Di comune accordo, il gruppetto decise di lasciarsi asciugare al sole direttamente sul campetto di beach volley dello stabilimento, tornando a bisticciarsi la presenza di Ushijima nella propria squadra con una foga che si guadagnò l’indignazione dei proprietari e di ben più di qualche avventore del lido.
    Alla fine, Hinata giocò con Eita, Tendou e Yamagata, mentre Ushijima rimase insieme a Shirabu, Goshiki e Reon.
    Era la prima volta che si cimentava nel beach volley, ma fu un’esperienza divertente, essenzialmente per due motivi: il primo fu che, così come su un normale campo da pallavolo, i ragazzi della Shiratorizawa si rivelarono dei giocatori eccellenti, dotati di un talento e di un senso del gioco davvero fuori dall’ordinario; in secondo luogo, perché – Shoyo scoprì- il beach volley era anche più complicato della pallavolo e, per questo, ugualmente entusiasmante.
    Se già in condizioni normali, Shoyo doveva fare i conti con una corporatura tutt’altro che robusta e la maledetta forza di gravità che tentava di ancorarlo al pavimento, nel beach volley era il terreno il suo più acerrimo nemico, la sabbia che con le sue coltri soffici e cedevoli pare ingoiare ogni slancio e imprigionare le caviglie, impedendogli di spiccare il volo. Oltretutto, stando alle regole ufficiali, una squadra di beach volley si componeva di soli due elementi, il che significava che non c’erano compagni a cui appoggiarsi in una vera partita, nessuno avrebbe potuto sopperire alle tue mancanze: c’eri soltanto tu, a coprire dove occorreva, che fosse palleggio, attacco, difesa!
    Per fortuna, potendo contare su Yamagata e Tendou in quel match alla buona, Shoyo era riuscito a dissimulare un poco la sua scarsa propensione per… beh, qualsiasi cosa che non fosse schiacciare!
    “È piuttosto divertente vederti sfrecciare da una parte all’altra del campo, quando non giochi da avversario!” gli disse Eita, ridendo, appena dopo aver terminato un’azione in cui erano riusciti ad eludere il muro di Goshiki proprio grazie alla rapidità di Hinata.
    Ormai stavano giocando per mero intrattenimento: dopo aver tenuto i punti per un paio di set – che avevano visto la vittoria schiacciante della squadra di Ushijima- il caldo e la fatica avevano cominciato a farsi sentire, per cui i ragazzi avevano deciso di limitarsi a fare qualche passaggio, giusto per tenersi impegnati fino all’ora di pranzo.
    “Già, perché quando sei dall’altra parte della rete, è molto fastidioso!” gli fece eco Tendou con un sorrisetto sardonico, intanto che si asciugava il sudore dalla fronte.  
    “In verità, non riesco a muovermi come vorrei sulla sabbia! È faticosissimo!” precisò allora Hinata, gettandosi a terra a peso morto, per riprendere fiato. Con il passare delle ore, il caldo stava diventando asfissiante; il campetto quantomeno era coperto da un grosso telone scuro, ma anche senza i raggi diretti del sole sulla pelle, la sensazione era quella di trovarsi all’interno di un forno a microonde.
    “È perché non hai le gambe sufficientemente allenate.” intervenne Ushijima all’improvviso, dal lato estremo del campo. Il giovane asso raccolse la sua borraccia da terra e ingollò un generoso sorso d’acqua, prima di continuare, “Su un campo normale, la tua elevazione deriva dallo slancio, ma qui il fondo semi-morbido ti rallenta. Se seguissi un allenamento fisico adeguato, riusciresti a muoverti con molta più facilità.”
    A quel punto, Hinata si issò a sedere con un piccolo slancio e “C-certo, deve essere così…” si affrettò a rispondere, scrollandosi un po' di sabbia dai capelli in modo da dissimulare il rossore che avvertiva sulle guance. Dannazione! Avrebbe desiderato tanto dire qualcosa di più intelligente, peccato che Ushijima avesse scelto quell’esatto momento per svuotarsi il contenuto della propria borraccia sopra la testa, togliendo a Shoyo ogni singola facoltà intellettiva.
    Fissò i rivoli trasparenti scivolare lungo il torace scolpito, le dita lunghe e spesse del ragazzo sparire in mezzo ai fili scurissimi dei suoi capelli per tirarli all’indietro, a scoprirgli i tratti severi del viso.
    Stare a stretto contatto con Ushijima in quelle condizioni – il fisico statuario coperto soltanto da un costume verde scuro, la pelle nuda scintillante di sudore e salsedine- si era rivelato molto più complicato di quanto Shoyo avesse previsto, quando aveva accettato di unirsi alla comitiva della Shiratorizawa.
    Si era illuso che sarebbe stato facile accantonare il sogno assurdo di quella mattina nel dimenticatoio, screditarlo come la stupida e innocua fantasia di un adolescente in preda agli ormoni, invece i suoi sprazzi si divertivano a invadergli la mente a tradimento, mettendo a dura prova il suo autocontrollo.
    Non si fidava di se stesso, Shoyo.
    Era come se quel sogno avesse spezzato una diga immaginaria posta nel suo essere più profondo, e adesso il desiderio fosse libero di correre a briglia sciolta, rompendo gli argini del buon senso, invadendogli la pancia, il basso ventre, le mani, gli occhi, le gambe, la bocca.
    Shoyo non aveva mai provato il bisogno di toccare un’altra persona con quella ferocia, con quella frenesia: gli faceva prudere i palmi l’urgenza di stringerlo, gli seccava la gola la necessità di scoprire la consistenza della sua pelle, e la cosa peggiore era che, più tentava di darsi un contegno, più quelle sensazioni sembravano sovrastarlo, come a volergli dimostrare tutta la loro potenza.
    Il fatto di non essere l’unico a subire il fascino di Ushijima Wakatoshi, lo confortava e lo irritava alla stessa maniera.
    “Grazie.” snocciolò infatti l’asso, educato ma sbrigativo, mentre con un piccolo inchino congedava l’ennesima ragazza che gli si era avvicinata per lasciargli un bigliettino con il proprio numero di telefono.
    Era la quattordicesima? La ventiduesima?
    Shoyo aveva perso il conto circa un’ora fa.
    Da quanto avevano messo piede sulla spiaggia, c’era stata una sottospecie di processione al cospetto di Ushijima, processione che aveva visto coinvolte per lo più ragazze tra i quindici e i vent’anni, ma anche – e Shoyo ne era rimasto a dir poco scioccato- una donna sulla quarantina, un’altra poco più giovane con la fede al dito e ben tre uomini, di cui uno che non poteva avere meno di trent’anni.
    A Shoyo ormai era abbastanza chiaro quale presa, un ragazzo come Ushijima, avesse sulla gente; d’altronde, non aveva dimenticato il modo in cui, quando erano andati a vedere la partita d’argento a Tokyo, gli occhi delle persone sembrassero venir calamitati dalla sua aura splendente quasi si trattasse di un gesto assolutamente imprescindibile. E sì, non c’era poi da stupirsi che tale fenomeno si fosse addirittura quadruplicato in un contesto come la spiaggia, dove la perfezione dell’asso della Shiratorizawa faceva bella mostra di sé in maniera anche più plateale del solito. Eppure, Shoyo non poteva fare a meno di chiedersi se fosse più da compatire o da invidiare una risonanza del genere: a Ushijima faceva piacere avere tutta quella attenzione addosso? Dietro la sua educazione, c’era imbarazzo? Fastidio? Oppure era bello venire apprezzati così apertamente? Sapere di poter schioccare le dita in qualsiasi momento e veder cadere ai propri piedi uno stuolo infinito di ammiratori pronti a mandare all’aria famiglia e onore, pur di ricevere un briciolo di attenzione?
    Shoyo, al momento, sapeva soltanto che lui, dal basso della sua presenza banale e fiacca, assolutamente dimenticabile, non avrebbe mai dovuto porsi alcuna di quelle questioni.
    E che, per disgrazia o per fortuna, per quegli stessi motivi, i suoi sogni inopportuni su Ushijima sarebbero rimasti solo e soltanto quello, dei sogni, confusi in mezzo agli altri che accerchiavano la sua persona.
    “Cosa possa portarvi, ragazzi?”
    La voce squillante della cameriera distolse bruscamente Hinata dai suoi pensieri.
    Era così assorto da non essersi nemmeno accorto di aver seguito il gruppo della Shiratorizawa fino al chioschetto e aver preso posto insieme a loro, intorno al bancone, per prendere il pranzo, comunque ordinò al volo un panino e una bibita fresca, i primi che gli capitarono a tiro dal menu di carta plastificata che gli era stato passato da Tendou.
    Lanciò una rapida occhiata verso Ushijima, seduto dal lato opposto, intento ad ascoltare qualcosa che gli stava raccontando Reon, al suo fianco, tuttavia, d’un tratto anche il giovane asso sollevò il capo nella sua direzione, facendolo sussultare.
    Ci fu un istante – infinito, pesantissimo- in cui Ushijima infilò gli occhi nei suoi e li tenne lì, immobili, stringendo appena le sopracciglia come se stesse inseguendo un flusso di idee complesso, che a tratti lo innervosiva.
    “Hinata...” scandì solo con le labbra, poi protese appena il busto, come per continuare, e…
    “Basket o pallavolo?”
    Tutti i ragazzi si bloccarono al suono di quella domanda, anche se essa era stata porta, inequivocabilmente, solo ad Ushijima.
    Proveniva da una ragazza che aveva appena preso posto sullo sgabello libero vicino al capitano e adesso lo stavo fissando, col viso poggiato sul palmo di una mano e un sorrisetto furbo, un po' imbronciato, sulle labbra laccate di lipgloss.
    La prima cosa che pensò Hinata, vedendola, fu che doveva essere straniera, probabilmente europea, a giudicare dai tratti del viso decisamente lontani da quelli tipici orientali.
    La seconda fu che doveva essere un tipetto molto sicuro di sé, visto il modo diretto e spavaldo con cui si era approcciata ad uno sconosciuto.
    La terza fu che, in ogni caso, quella ragazza aveva tutto il diritto di essere spavalda, diretta o sicura di sé, visto che era senza alcun dubbio la creatura più bella che Shoyo avesse mai visto sulla faccia della Terra.
    Aveva i capelli lisci, di un biondo dorato lucente, pieno di sfumature, la carnagione bronzea di chi aveva passato in spiaggia almeno una decina di giorni e due occhi verdi, contornati da una fitta corolla di ciglia nere. Era snella, flessuosa, i suoi lineamenti erano fini ma marcati. Portava indosso un bikini sui toni del marrone e una camicia di lino bianca, aperta, che esaltava oltremodo i suoi colori naturali, e ogni suo movimento sembrava avere una certa grazia, anche il più insignificante, che fosse un cenno del capo, un gesto breve delle braccia colme di braccialetti, un guizzo delle labbra morbide, perfette.
    Shoyo non avrebbe saputo spiegarlo a parole, ma quella ragazza aveva qualcosa di affascinante, un’aura magnetica capace di catalizzare su di sé l’interesse delle persone senza fare un bel niente.
    In quel momento, ad esempio, tutti la stavano guardando con la bava alla bocca e lei – fiera, sprezzante – non sembrava avere occhi che per Ushijima.
    “Come scusa?” chiese a quel punto l’asso, dopo qualche secondo di stordimento.
    Il fatto che perfino lui, di solito così apatico e disinteressato, fosse rimasto colpito dalla bellezza della sconosciuta causò a Hinata una fitta al petto talmente forte che gli spezzò il fiato.
    “Io e le mie amiche abbiamo fatto una scommessa,” cominciò la ragazza, la voce morbida, voluttuosa “secondo loro sei un giocatore di basket, io invece dico che fai pallavolo!”
    “Faccio pallavolo, infatti.”
    “Benissimo, allora ho vinto io!”
    “Va bene, buon per te.”
    “Oh, in realtà è buono anche per te, perché il mio premio è prendere un drink qui in tua compagnia, sai?” spiegò, ridendo sbarazzina della sua stessa battuta “Un mojito, per favore!”
    Quando la signora del bancone servì alla nuova arrivata la bevanda richiesta, ufficializzando definitivamente la sua intenzione di parcheggiarsi lì al chioschetto, la situazione cominciò a prendere delle pieghe alquanto surreali: la ragazza pareva davvero intenzionata a rivolgersi soltanto a Ushijima e infatti prese a chiacchierare con lui, ignorando bellamente il resto del gruppo, senza lasciarsi intimidire dalle risposte alquanto laconiche dell’asso, ma anzi sembrando quasi infervorata dalla sua mancanza di interesse, come se flirtare con lui fosse una specie di gioco che sapeva di vincere.
    Appresero che il suo nome era Layla, aveva ventitré anni, era nata e cresciuta a Valencia, in Spagna e di lavoro faceva la influencer, infatti era a Shirahama beach per uno shooting di costumi da bagno, su ingaggio di una nota casa di moda giapponese.
    O almeno, così pensava di aver capito Hinata.  
    Il fatto era che le sue orecchie avevano preso a fischiare forte e il cuore gli stava martellando in maniera talmente violenta nella cassa toracica da rendergli difficile persino respirare.
    Perché stava avendo quella reazione?
    Davvero non lo capiva…
    Ushijima era già stato oggetto di attenzioni in sua presenza – come quella mattina- eppure c’era qualcosa di diverso quella volta, qualcosa che feriva Shoyo come un pugno nello stomaco.
    Forse era che, per la prima volta da quando lo conosceva, dietro i monosillabi e i vaghi cenni del capo, Ushijima sembrava diverso dal solito, ad esempio guardava Layla dritta negli occhi, non si irrigidiva se lei casualmente gli accarezzava un braccio o poggiava le dita affusolata sulla sua coscia mentre parlava di se stessa e, più in generale, non mostrava il proverbiale distacco che usava con chiunque, piuttosto sembrava vagamente intontito dal vortice di energia della ragazza.
    “E dimmi, Ushijima Wakatoshi, sei bravo nella pallavolo?”
    “Sì, molto, sono l’asso della mia squadra, nonché capitano.”
    “Non mi riesce difficile crederlo, hai il fisico dei vincenti!”
    “Non so che fisico abbiano i vincenti, ma io mi alleno molto.”
    “Sei sicuro di te, mi piace! Ho una cosa da chiederti…”
    Shoyo sentì le viscere come cadere giù, sul pavimento, quando Layla si avvicinò all’orecchio di Wakatoshi per sussurrargli qualcosa e lui la ascoltò, attento, prima di risponderle, trovandosi a un centimetro dalle sue labbra.
    Sarebbero stati una così bella coppia loro due.
    Entrambi attraenti, affascinanti, perfetti.
    Ushijima era un essere umano dopotutto, no?
    Doveva avere anche lui degli istinti sessuali sepolti sotto l’austerità che lo contraddistingueva e chi meglio di una divinità come Layla sarebbe stata in grado di portarli a galla?
    Maledizione, il cuore gli stava per sfondare la cassa toracica.
    “Ragazzi, vado con Layla al bagno. Ci vediamo tra poco.”
    Silenzio di tomba.
    Il sorriso vittorioso e malizioso della ragazza.
    La sua mano ferma, possessiva, alla base della schiena di Ushijima.
     
    Hinata riuscì a stento a trattenere le lacrime.
     
     
    NOTE AUTORE
     
    Ragazzi, la violenza non è mai un bene, suvvia!
    Mettete da parte quei forconi, smettetela di affilare i coltelli! Vi vedo che state lì a scartare la confezione nuova di proiettili per il vostro fucile! Lo so che vorreste prendere la manina di Layla e spezzarla in nome dell’affetto che provate per Shoyo, ma vi ricordo che le lesioni e l’omicidio sono penalmente perseguiti!
    CON CALMA E PER PIACERE!
     
    La giornata al mare di Shoyo con i ragazzi della Shiratorizawa sembra scorrere tranquilla, almeno all’inizio, complice soprattutto il superamento dell’imbarazzo e delle ritrosie che il corvetto covava nei confronti dei componenti della squadra avversaria, eppure l’arrivo di Layla sconvolge gli equilibri, mettendo Shoyo di fronte a una questione che non ha mai affrontato prima: la concreta possibilità che Ushijima possa interessarsi ad uno dei mille e mille spasimanti che gli gravitano intorno.
    Insicurezza, senso di inferiorità, gelosia… sono sentimenti di chi ha solo una forte e indomabile ammirazione nei confronti di un campione? E Ushijima, da parte sua, cosa sta facendo con Layla?
    Sono davvero curiosa di leggere le vostre opinioni al riguardo!
     
    ATTENZIONE!! Purtroppo, devo informarvi che il prossimo capitolo della long potrebbe arrivare con un po' di ritardo rispetto al normale! Sto avendo qualche incombenza in più al lavoro, a cui si stanno aggiungendo – giusto per avvicinarmi di più all’esaurimento nervoso- impegni personali vari ed eventuali, per cui mai come in questo periodo sto trovando poco tempo per mettermi al PC e scrivere due righe!
    Forse – e dico forse! – potreste assistere alla comparsa di qualche OS sparsa, che tengo in cantiere già mezza abbozzata!
    FARÒ PRIMA CHE POSSO PER NON LASCIARVI APPESI, PROMETTO!
     
    Piccole precisazioni random:
    1. A me, Reon Ohira sta un sacco simpatico. Lo trovo uno dei personaggi più dolci e gentili di Haikyuu e mi scoccia che non gli venga mai data la giusta importanza! :P
    2. Se volete un riferimento per l’aspetto di Layla, mentre scrivevo avevo in mente l’immagine di Ester Exposito (sì, la marchesina di Elite) che io trovo bona a livelli atomici!
    3. Ricordo che la storia famigliare di Hinata è totalmente farina del mio sacco, compresi i nomi della mamma e del papà
     
    Alla prossima
    Violet Sparks

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    Capitolo 16
    *** ... e la testa immersa nell'acqua cheta ***


    CAPITOLO XVI
    … e la testa immersa nell’acqua cheta
     
     
    Ti può spaventare scoprire che ti sei sbagliato su qualcosa,
    ma non dovremmo avere paura di cambiare idea,
    di accettare che le cose sono diverse,
    che non saranno mai più come prima,
    nel bene o nel male.
    Dobbiamo essere pronti a rinunciare a quello che credevamo.
     
     
     
    Si era sbagliato, Shoyo.
    Si era sbagliato su tutta la linea.
    Ushijima Wakatoshi non era la divinità austera e irraggiungibile che appariva.
    Non era il condottiero fiero e affidabile che si mostrava sul campo, accanto alle sue aquile.
    Non era il liceale maturo, serio e coscienzioso che ostentava con tanto rigore, quando giudicava gli altri, cinto dalla sua corona preziosa.
    Ushijima Wakatoshi era un ragazzo come tutti gli altri, forse solo un po' più selettivo rispetto ai suoi coetanei.
    Un ragazzo che si faceva incantare da qualche moina, da un sorriso smagliante e un paio di movenze feline, se provenienti dalla persona giusta.
    Un ragazzo che non dava confidenza a nessuno, a stento parlava coi compagni di squadra o con la sua stessa famiglia, eppure non si faceva problemi a seguire in bagno una perfetta sconosciuta.
    Bugiardo.
    Bugiardo! Bugiardo! Bugiardo!
    “Quindi erano vere le voci che giravano sul suo conto! Il nostro capitano non è poi così di ghiaccio come potrebbe sembrare!”
    “Onestamente, ho sempre pensato che si trattasse di dicerie inventate di sana pianta da chi voleva darsi delle arie…”
    “Io ho sentito spesso persone vantarsi di essere uscite con Wakatoshi! Averlo baciato o cose simili…”
    “Più di una cheerleader giura di esserci stata a letto!”
    “Pure nel club di teatro e di cucina c’è chi dice di essere stato insieme a lui in quel senso! E scende molto nei particolari…”
    “Alla fine, però, si sono sempre rivelate un bel mucchio di fandonie, o sbaglio?”
    “A questo punto, credo proprio che in mezzo a tante fandonie, ci sia almeno un po' di verità! Insomma, per seguire in bagno una sconosciuta…”
    “Una sconosciuta che di mestiere fa la fotomodella! Ragazzi, ma l’avete vista?! Venderei l’anima al diavolo per essere al posto di Ushiwaka in questo momento…”
    “Già, peccato che una così non guarderebbe di striscio nessuno di noi!”
    “Secondo voi, stanno facendo davvero… quello?”
    “No, Goshiki, piccino! Stanno facendo un puzzle sulla tazza del gabinetto!”
    Risate.
    Altre chiacchiere.
    Altre congetture.
    E in mezzo a tutto quel trambusto, il cuore di Hinata che lentamente si riempiva di crepe, si sgretolava sotto i fumi delle paranoie che gli stavano invadendo il cervello, come il canale di scolo di una discarica di liquali.
    I fatti erano chiari, non c’erano molti dubbi al riguardo: mentre loro se ne stavano lì, a formulare le loro mirabolanti ipotesi, Ushijima Wakatoshi stava facendo sesso con Layla nel cubicolo di un bagno, anche se l’aveva conosciuta soltanto venti minuti prima, anche se, probabilmente, non l’avrebbe mai più rivista, anche se per lei, lui era stato un gioco, un premio, una scommessa. Ushijima la stava baciando, la stava toccando, la stava spogliando per scoprire il suo corpo raffinato e tonico, la sua pelle di velluto, perfetta in ogni affranto. E, dall’altra parte, le stava permettendo di accarezzarlo, di assaggiarlo, di dargli piacere, magari tra un gemito e un sospiro appagato, inconsapevole, o forse semplicemente incurante del dolore che stava causando in quel momento… che stava… la distruzione… che… che lui… stava…
    Shoyo si ridestò di colpo, asciugò in fretta e furia le lacrime con il dorso della mano, quindi allontanò da sé il piattino con il suo pranzo e raddrizzò la schiena.
    Non voleva farsi beccare in quello stato pietoso dagli altri, lo faceva sentire un completo idiota il modo in cui stava reagendo, eppure non riusciva a placare i nervi. Era come stare fermi sul ciglio di un burrone: se solo avesse aperto gli occhi nell’abisso, l’oscurità lo avrebbe ghermito, lo avrebbe masticato nelle sue fauci per poi risputarlo sulla sabbia - rotto, spaccato.
    Che senso aveva tutto quel dolore?
    Che senso aveva tutta quella rabbia?
    Shoyo non riusciva a darsi una risposta.
    Shoyo temeva di darsi una risposta.
    Razionalmente, Ushijima era libero di fare ciò che voleva, non era tenuto a dare conto a nessuno delle sue azioni o dei suoi desideri, men che meno a lui, un perfetto sconosciuto piombatogli in casa che aveva dato prova di mal sopportare in più di un’occasione.
    Forse era quello il problema.
    Forse Hinata si era illuso di essere riuscito ad andare un pochino oltre con Ushijima Wakatoshi, di aver istaurato un qualche legame, di averlo capito un briciolo in più rispetto agli altri, a cui era concesso soltanto di ammirarlo dal basso del suo trono di gemme. Invece aveva frainteso ogni cosa, non aveva costruito niente. Ushijima Wakatoshi era e sempre sarebbe stato un segreto per lui, mentre Shoyo sarebbe rimasto un inconveniente capitatogli tra capo e collo, un fastidio da dimenticare il più in fretta possibile.
    Ma che cosa pretendeva, alla fine?
    Che cosa voleva davvero?
    Che il sogno stupido, imbarazzante, che aveva avuto quella mattina potesse trasformarsi in realtà? Che Ushijima Wakatoshi, prima o poi, riservasse a lui le attenzioni che probabilmente stava riservando a Layla? Voleva essere al posto di quella ragazza? Voleva essere toccato da Ushijima? Voleva essere baciato? Notato? Lui? Magrolino, insignificante, dall’aspetto ancora così infantile, che non aveva mai dato un bacio o solo accarezzato un’altra persona?
    Non lo sapeva.
    Non lo voleva sapere.
    L’unica cosa certa, in quel momento, era che quei pensieri lo stavano mangiando vivo e lui non riusciva a fermarli, il cuore gli batteva fortissimo, la testa girava forsennatamente, le lacrime si addensavano ancora sulle palpebre appannandogli la vista, lo stomaco gli ribolliva.
    Grazie al cielo, l’indomani, la loro convivenza sarebbe giunta al termine.
    “Prendi un bicchiere d’acqua, ti sentirai meglio.” pronunciò una voce alla sua destra all’improvviso, facendo riemergere Shoyo dalle coltri oscure in cui stava lentamente affondando. Voltò il capo di scatto; Tendou Satori non lo stava guardando, tuttavia gli stava porgendo un bicchiere d’acqua fresca e un fazzolettino pulito “Dai, se proprio non vuoi finire quel sandwich, almeno riprendi fiato.”
    Con un po' di titubanza, Shoyo fece come gli era stato consigliato, a capo chino, prendendo un sorso d’acqua e tamponandosi il viso in prossimità della zona oculare, “È che mi fa male la pancia, forse ho mangiato qualcosa di guasto a colazione…” mormorò quindi, cercando di giustificarsi.
    Vide che Tendou sollevava gli angoli delle labbra in un sorriso smorzato, molto diverso da quello diabolico che era solito elargire ai suoi avversari sul campo, “Qualsiasi cosa sia, prenditi un momento. I ragazzi sono andati a fare una partita a ping-pong, siamo rimasti soli, puoi dire e puoi fare quello che vuoi.”
    “Grazie.” rispose Shoyo, rigirandosi il bicchiere tra le dita “Perché tu sei rimasto qui?”
    “Perché ti ho visto turbato, mi stavo preoccupando!” spiegò semplicemente, scrollando le spalle, poi prima ancora che Hinata avesse il tempo di aprir bocca, “Tranquillo! Non sto cercando di leggerti questa volta!” aggiunse “Niente trucchetti, lo giuro! Se preferisci, vado via anche io.”
    “N-no, rimani, va bene.”
    Rimasero in silenzio, Hinata a placare il subbuglio che avvertiva dentro, Tendou a divorare gli onigiri che aveva ordinato insieme a un cocktail analcolico con ben tre ombrellini di carta.
    Doveva essere piuttosto stravagante vederli così tranquilli, loro che di solito erano un’esplosione di scintille e di colori e, in effetti, Hinata per primo era alquanto sorpreso di quella inedita vicinanza con Satori Tendou, del tatto e della gentilezza che gli stava dimostrando in maniera assolutamente gratuita.
    Quante cose stava scoprendo sui membri della Shiratorizawa.
    “Piuttosto singolare il comportamento di Wakatoshi, non trovi?” chiese a bruciapelo il ragazzo dalla chioma scarlatta, prima di prendere un generoso sorso dalla propria bevanda.
    Hinata sussultò, “Non così tanto, a quanto pare…” mormorò afflitto “Da quello che dicono i ragazzi, girano molte voci su Ushijima in questo senso.”
    “E tu dai per scontato che siano vere?”
    “No! Cioè, non lo so… non so cosa pensare…”
    “Ti fa così male la possibilità che Wakatoshi stia con qualcuno?”
    Shoyo non ebbe la forza di ribattere.
    Tendou aveva perfettamente ragione, stava avendo una reazione esagerata, da bambino, eppure sentiva tutta quella negatività dentro di sé, non sapeva cosa farsene, dove e come indirizzarla, era come un acido corrosivo che bruciava ogni grammo di lucidità.
    Due lacrime calde – fatte di rabbia e frustrazione- scivolarono lentamente lungo le sue guance, inseguendosi fino alla linea del mento.
    Fu Tendou a raccoglierle con il dorso dell’indice, prima che cadessero oltre il suo viso.
    “Mi dispiace, gamberetto, non posso rassicurarti sulla veridicità o meno di quelle voci: pur essendo il mio migliore amico, Wakatoshi rimane un gran mistero anche per me.” gli disse, con un sorriso comprensivo. Poggiò il gomito sul tavolo, abbandonando la guancia sul palmo aperto in modo quasi indolente, tuttavia lo sguardo che mantenne su Hinata aveva un’intensità tangibile, accentuata ancor più dallo stravagante colore scarlatto di quelle iridi grandi e tonde.
    All’improvviso, Shoyo rammentò tutti gli epiteti che accompagnavano il nome di Tendou Satori attraverso i corridoi dei tornei di pallavolo: mostro, indovino, demone.
    Come poteva definirsi in modo tanto maligno un ragazzo, solo perché sopra le righe? Tendou aveva un aspetto e un atteggiamento un po' stravaganti, certo, ma era anche divertente, brillante e, a quanto pareva, inaspettatamente sensibile, cosa di cui le persone si sarebbero potute accorgere, se solo si fossero prese la briga di andare più a fondo con lui.
    “Però una cosa la so - e credimi, la so molto, molto bene, perché l’ho provata su questa mia stessa pelle…” continuò il giocatore della Shiratorizawa, con tono dolceamaro “La gente farebbe di tutto per un briciolo di potere, anche alimentare dell’odio immotivato verso una persona diversa, solo per sentirsi parte di un gruppo. Oppure, come in questo caso, sfruttare la luce riflessa di qualcun altro per dissimulare il proprio vuoto assoluto.” scosse la testa, afferrò un ombrellino a caso tra quelli ammassati nel proprio bicchiere e ne succhiò la punta bagnata, dopodiché prese a giocarci, facendolo roteare sul legno del bancone “Wakatoshi è una sottospecie di rockstar, Hinata! Ed esattamente come una rockstar, la gente vuole sempre qualcosa da lui. Il problema è che, quando non riesce ad ottenerla, sceglie la via più semplice e più vigliacca di tutte: inventa.”
    Hinata si morse le labbra, fortemente colpito dal discorso di Tendou.
    Ancora una volta, innanzi a lui si palesava l’estrema difficoltà che nascondeva il successo scintillante di Ushijima: non potersi fidare di nessuno, essere attorniato da malelingue, bugie, da gente cattiva che pensava di poter prendere la sua vita e manipolarla come meglio credeva.
    “Stai cercando di dirmi che sto prendendo un granchio?” chiese quindi, confuso.
    “Sto cercando di dirti di non fermarti alle apparenze, uccellino, niente di più.”
    “Ehi, voi due! Ne avete ancora per molto?! Venite con noi, avanti! Vogliamo fare una gara di nuoto!”
    La voce squillante di Goshiki colse di sorpresa sia Hinata che Tendou, ma mentre il primo si affrettò a dissimulare la tristezza sul suo viso, nascondendosi dietro il bicchiere d’acqua gocciolante di condensa, l’altro scese con un balzo dallo sgabello e si sbracciò in direzione degli amici. “Andate! Vi raggiungiamo subito!” urlò, saltellando “Che dici, Hinata? Ti va di distrarti un po'? Non serve a molto rimanere qui a rimuginare!”
    Hinata stirò le labbra in un timido sorriso e annuì.
    Forse liberare la mente sarebbe servito ad alleggerirgli anche il cuore.

     
    ***  


    “Allora, è molto semplice: il primo che tocca una delle boe e torna a riva, vince!” spiegò Reon davanti a loro, disposti a semicerchio sul bagnasciuga.
    Hinata lanciò un’occhiata ai suoi avversari: tutti i ragazzi si stavano preparando con piccoli esercizi di stretching, così decise di imitarli, facendo qualche piegamento sulle gambe.
    Si sentiva ancora intontito dal turbinio di emozioni negative provate al chioschetto del lido, come fosse stato risputato dal centro esatto di un uragano, tuttavia impose a se stesso di concentrarsi soltanto sulla sfida imminente e non lasciarsi affondare di nuovo sotto al peso di quel marciume, stanco di venire schiacciato dal peso di sensazioni che non gli erano mai appartenute prima.
    “Ehi! Guardate un po' chi è tornato!” esclamò Semi, scrutando in lontananza.
    Hinata si voltò insieme agli altri, d’istinto, ma non appena identificò la figura che si stava dirigendo verso di loro, avvertì i propri organi interni venire stretti in una morsa: Ushijima procedeva a grandi falcate attraverso la sabbia calda, la mascella contratta, i pugni serrati lungo il busto.
    “Che state facendo?” chiese il capitano, non appena fu loro accanto.
    Sembrava irrequieto, vagamente nervoso, i suoi occhi palleggiavano sui suoi compagni di squadra senza soffermarsi davvero su nessuno di loro, solo quando arrivò su Shoyo parve indugiare un momento, cosa che fece rivoltare lo stomaco del più giovane come un calzino.
    “Stiamo per fare una gara di nuoto, capitano! Partecipi anche tu?” gli rispose Reon, gioviale.
    “Sì, d’accordo.”
    “Se partecipa anche Wakatoshi, stiamo freschi!” si lamentò Tendou, grattandosi la nuca.
    “Io non mi farò di certo intimidire!” si impettì invece Goshiki.
    “S-scusa Wakatoshi,” si intromise Yamagata, di punto in bianco, con malcelato imbarazzo “hai… beh, hai l’elastico del costume in disordine!”
    A quel punto, tutti i presenti puntarono automaticamente lo sguardo verso l’indumento di Ushiwaka, il cui orlo in effetti appariva spiegazzato su se stesso, all’altezza dell’inguine, come se qualcuno ci avesse appena infilato la mano dentro o come se fosse stato indossato in fretta e furia.
    I ragazzi si lasciarono andare ad una serie di risatine maliziose e occhiate ammiccanti.
    Shoyo sentì il proprio cuore cadere al suolo e frantumarsi in mille pezzi.
    Le emozioni negative questa volta non si limitarono a inondarlo, lo subissarono, gli tennero la testa giù, sotto gli urti violenti della collera, facendolo affogare in un flusso di pensieri tossici, insensati, pesanti come gocce di catrame. Al segnale di Reon si mise in posizione insieme agli altri, coi piedi puntati nella sabbia umida e il busto arcuato per preparare lo slancio, ma la verità era che Shoyo non era davvero lì, insieme a loro, era rinchiuso in un alveare brulicante dove ognuna delle api che gli ronzava intorno era un’immagine pungente – le mani di Wakatoshi sul corpo di Layla, le gambe di lei intorno ai suoi fianchi stretti, le sue labbra rosse, lucide di lipgloss, lungo il collo del campione a farlo arcuare, a farlo gemere dal piacere.
    Quando Reon fischiò la partenza, il sale delle lacrime di Hinata si confuse con l’acqua del mare.
    Non fermarsi alle apparenze - gli aveva suggerito Tendou- non credere alle voci.
    Cazzate!
    Ci aveva visto giusto Shoyo: Ushijima aveva fatto davvero sesso con quella fotomodella, e data la scioltezza con cui si era approcciato alla situazione, chissà quante altre volte doveva aver fatto la stessa, identica cosa! Forse era quello il suo modo di allentare la tensione! Era quello il premio che si concedeva dopo gli allenamenti estenuanti che seguiva! E chi poteva biasimarlo, dopotutto? Aveva diciotto anni, era bellissimo, era potente! E le ragazze con cui andava a letto, se somigliavano a Layla almeno un pochino, erano tutte meravigliose e più che consenzienti… allora qual era il problema?
    Il problema era che Shoyo non aveva capito niente di lui.
    Il problema era che Ushijima non era affatto la persona che si aspettava.
    Il problema era che lui non sarebbe mai stato una di quelle fotomodelle disponibili e affascinanti.
    Il problema era che Ushijima non lo avrebbe mai desiderato come Shoyo voleva.
    Si bloccò all’improvviso - le braccia che bruciavano per lo sforzo, il sangue che vorticava ferocemente, irrorando i vasi sottopelle.
    Si guardò intorno, spaesato, mentre le onde lo sballottolavano senza tregua.
    Cavolo, preso com’era dalle sue elucubrazioni, si era completamente dimenticato della gara in corso: dov’erano gli altri? Per quanto aveva nuotato? Non avrebbe dovuto toccare una delle boe?
    Cercò di asciugarsi il viso - dal mare o dalle lacrime non avrebbe saputo dirlo ormai – comunque non appena la sua vista si schiarì quel tanto che bastava a distinguere di nuovo il mondo circostante, con suo sommo disappunto si rese conto di essersi allontanato molto dal limite delle boe e di essere finito nella zona in cui passavano le barche, oltre l’insenatura protettiva di Shirahama, a qualche metro dalla costa.
    Sospirò, buttando i capelli all’indietro.
    Doveva tornare subito a riva, era pericoloso rimanere lì: le onde erano decisamente alte in quel punto, e pure la corrente era piuttosto intensa, infatti stava trovando serie difficoltà a mantenersi a galla.
    Prese un respiro profondo, pronto ad immergersi e tornare verso la spiaggia, quando qualcuno emerse dalle onde in maniera così repentina che per un pelo Hinata non ci andò a sbattere contro.
    Prima ancora che avesse il tempo di processare che quello innanzi a lui era Ushijima, il giovane asso lo afferrò bruscamente per un polso e lo strattonò.
    Era furibondo.
    “Hinata! Perché ti sei allontanato dalle boe! È pericoloso stare qui!” gli urlò contro, grondando acqua a fiumi dalle ciocche e dagli spigoli del viso.
    “Io… non me ne sono accorto, stavo tornando indietro…” balbettò il più piccolo, stordito tanto dalla presenza di Ushijima quanto dalle sue parole.
    “Che cosa volevi dimostrare, eh?! Che sai nuotare meglio di noi?!”
    “I-io non volevo dimostrare niente… non…”
    “Non pensi mai prima di agire! Come al solito ti comporti da irresponsabile! Sei soltanto un bambino!”
    Hinata non ce la fece più.
    Un interruttore scattò dentro di lui, un mattoncino venne meno, e così anche l’ultimo baluardo della sua resistenza crollò sotto le trame scarlatte della rabbia.
    Si liberò con forza dalla presa di Wakatoshi, quindi puntellò le mani sul suo petto ampio e lo spinse via, dimenandosi quando l’altro, stranito dalla sua reazione, provò ad afferrarlo di nuovo, in una battaglia di acqua e braccia resa soltanto più febbrile dalla corrente che li scuoteva.
    “Hinata, fer-…”
    “E tu sei soltanto un ipocrita!”
    “Cosa?”
    “Ti credi tanto meglio di noi! Tanto maturo, tanto perfetto! Invece sei solo un bugiardo!”
    “Basta! Smettila di agitarti!”
    “Mi sono sbagliato sul tuo conto, la verità è che sei un idiota superficiale!”
    “Di che cosa st-”
    Ma Ushijima non terminò la frase.
    Non la terminò perché un’onda anomala lo investì, ghermendolo nelle profondità del mare, allora Hinata sussultò per lo spavento, ridestandosi di colpo dallo stato di trance in cui era caduto in preda alla collera.
    Subito si immerse alla disperata ricerca del ragazzo. Avanzò di qualche bracciata, cercò di aprire gli occhi sotto la superficie nel tentativo di individuarlo, ma si dimostrò un’impresa praticamente impossibile a causa della corrente che sollevava la sabbia e trascinava il suo corpo dove voleva.
    Tornò su, “Wakatoshi! Wakatoshi!” cominciò a urlare, nel panico.  
    Si stavano allontanando sempre di più dalla costa.
    Da quanto era sotto Ushijima?
    E se avesse battuto la testa?
    E se si fosse impigliato da qualche parte e non stesse riuscendo a risalire?
    Era tutta colpa sua!
    Provò nuovamente a calarsi giù, in profondità, tuttavia il risultato non fu diverso: Wakatoshi pareva scomparso nel nulla, come fosse stato inghiottito dall’abisso.  
    All’improvviso, una mano sulla sua spalla quasi gli fermò il cuore.
    “Hinata…” sibilò Wakatoshi, respirando affannosamente.
    Shoyo si sentì così sollevato che trattenne a stento l’impulso di abbracciarlo.
    “Japan! Japan, stai bene?” si affrettò a dire, la voce che tremava dalla paura “Mi dispiace! Non volevo allontanarmi così tanto! È stato un incidente!”
    Gli pizzicavano gli occhi, se per la felicità o per i rimasugli dell’angoscia non avrebbe saputo affermarlo: di base, ce l’aveva ancora con Ushijima per ciò che era successo, non poteva negarlo, eppure Shoyo aveva scoperto che l’idea di perderlo gli risultava del tutto insopportabile.  
    “Ho capito, va bene…” rispose allora l’asso, alquanto provato “Andiamo adesso, potremmo farci male se restiamo qui!”
    “Sì, va bene! Fammi str-“
    Fu come prendere uno schiaffo violento dietro la nuca.
    Hinata sentì solo un colpo fortissimo all’altezza del cranio e quando riaprì gli occhi, non aveva più il cielo terso sopra di sé ma acqua - acqua che gli invadeva le narici, acqua che gli invadeva la bocca, acqua buia che filtrava la luce del sole e lo teneva prigioniero, acqua che rallentava i suoi movimenti e non aveva alcuna intenzione di lasciarlo respirare.
    Provò a nuotare.
    Serrò le labbra, tappò il naso.
    Una spinta delle gambe.
    Una bracciata, un’altra ancora.
    Ma l’aria sembrava non arrivare mai.
    Sembrava non arrivare mai!
    Era avvilente.
    Più nuotava e più la profondità lo attirava verso il basso.
    E più la profondità lo attirava verso il basso, più la sua lucidità traballava.
    E più la sua lucidità traballava, più il fiato diminuiva e il panico aumentava – ancora, ancora!
    Era difficile.
    Era troppo difficile…  
    Quando la luce lo investì di nuovo, Shoyo aveva quasi perso conoscenza.
    “Hinata! Hinata!” gridava qualcuno di fianco a lui, ma la sua voce era sovrastata da un fischio acutissimo, stordente. La testa gli pulsava furiosamente, i muscoli dolevano e l’ossigeno, che aveva inseguito con tanta disperazione, adesso era fuoco nei polmoni – grattava la gola, ustionava i dotti nasali, bisticciava col liquido in eccesso che intanto sputava fuori.
    “Hinata, respira! Siamo vicino alle boe ormai! Siamo al sicuro!” continuò la voce accanto a lui, l’unica cosa che sembrasse possedere una consistenza reale, insieme alla presa che avvertiva intorno al proprio corpo.
    Dopo qualche secondo, finalmente, Shoyo riuscì quantomeno a mettere a fuoco il viso preoccupato di Ushijima, accanto al proprio.
    “Ja… Japan…” mormorò a fatica, tossendo come un forsennato. Capì che il capitano della Shiratorizawa lo stava mantenendo da dietro, contro il proprio petto, probabilmente per nuotare e trascinarli contemporaneamente in direzione della costa, comunque, a quel punto, il giovane asso lo allontanò da sé e lo aiutò a girarsi, in modo che fossero faccia a faccia.
    Anche nelle sue condizioni, Shoyo notò che la maschera di imperscrutabilità che copriva sempre i tratti di Ushijima Wakatoshi, si era incrinata, lasciando spazio per la prima volta ad un’espressione di angoscia autentica e tangibile.
    Stava respirando a bocca aperta, ancora provato dall’ingente sforzo di affrontare la corrente e portare entrambi al sicuro oltre le boe, ma la sua presa intorno ai fianchi di Shoyo era salda, immobile.
    “Ti tengo… ti tengo, Hinata… non tremare…” disse, e le sue iridi verde scuro somigliavano ad una tempesta.
    Hinata non ricordava di averlo mai visto così turbato da quando lo conosceva “Non tremare… respira… respira, tranquillo…” continuò a ripetergli senza sosta, stringendo di tanto in tanto le dita sulla sua pelle.
    Shoyo riuscì a smettere di tossire solo dopo un lasso di tempo che gli parve infinito, quindi si aggrappò al petto di Wakatoshi e tentò di riprendere il controllo di sé, come meglio poteva.
    Prese dei respiri profondi.
    Osservò Ushijima di fronte a sé.
    Era strano. La spinta del mare permetteva loro di stare alla stessa altezza, uno di fronte all’altro, come mai erano stati prima. Le onde, adesso calme, non li scuotevano, li cullavano, facendo cozzare di tanto in tanto le loro gambe, le loro ginocchia. All’improvviso, Shoyo si rese conto che sembravano incastrati in una sottospecie di abbraccio e un po' gli venne da ridere, visto tutto quello che era successo in precedenza, salvo poi fermarsi di colpo quando si accorse di un particolare.
    Wakatoshi gli stava fissando le labbra.
    Wakatoshi gli stava fissando le labbra e loro erano vicini, vicini al punto che avrebbe potuto contare le gocce di mare ferme sul suo viso scolpito, vicini al punto che Hinata scoprì che l’asso aveva due minuscoli nei sotto l’occhio sinistro, così chiari da poter passare per delle lentiggini, e un lieve accenno di barba nella parte bassa delle guance che lo rendeva soltanto più adulto, più virile.
    Wakatoshi gli stava fissando le labbra e per un attimo – un attimo soltanto, infinitesimo, piccolissimo- Hinata ebbe la netta impressione che l’altro stesse per baciarlo.
    Due fischi ravvicinati, prolungati, li fecero trasalire.
    Wakatoshi si allontanò di scatto, Shoyo invece si limitò a mantenersi a galla, frastornato.
    “Ehi, voi due! Guardate che vi ho visto nuotare oltre le boe! È pericoloso! Siete due pazzi!” li rimproverò il bagnino, un uomo sulla quarantina dai capelli brizzolati e la pelle seccata dal sole, accorso con la scialuppa di salvataggio insieme a due colleghi “Forza, salite! Vi riportiamo a riva! State bene, almeno? I vostri amici si stavano preoccupando!”
    “Io sto bene, lui è stato sotto per un po', ha bevuto molto acqua.” fu la risposta pragmatica del capitano della Shiratorizawa, mentre si approssimava all’imbarcazione con l’intento di salire.
    Hinata lo seguì, in perfetto silenzio.
    Non si rivolsero la parola per tutto il resto del tragitto.  

     
     ***
     

    “Sei sicuro di non voler andare in ospedale, marmocchio?” gli chiese per l’ennesima volta il bagnino, squadrandolo di tanto in tanto con fare sospettoso, frattanto che metteva da parte il kit di primo soccorso.
    “Sì, davvero, sto benissimo!” ribadì Hinata, sperando di convincerlo attraverso il più smagliante dei suoi sorrisi. Era stato fatto accomodare su una sdraio messa a disposizione dai proprietari del lido, dopodiché sia i ragazzi della Shiratorizawa che altri bagnanti si erano affaccendati intorno a lui per assicurarsi che fosse a posto e recuperasse le energie. Hinata era lusingato da tanto premura, però – insomma- lui stava benissimo! Aveva bevuto un po' d’acqua, okay, e si era preso un gran bello spavento, ma non era successo niente!
    Niente a parte il suo litigio con Ushijima e… beh, quella cosa
    Alzò lo sguardo sul giovane asso, intento a parlare con Reon e Shirabu sul bagnasciuga.
    Ushijima stava davvero per baciarlo mentre erano in mare o era stata soltanto una sua illusione?
    No, non aveva alcun senso, doveva esserselo immaginato!
    Allora perché non riusciva a toglierselo dalla testa?
    “Ehi Wakatoshi, non per farmi gli affari tuoi…” proruppe Eita, all’improvviso, proprio quando il bagnino e gli altri curiosi del lido si erano allontanati, lasciando il gruppetto da solo “Ma è successo qualcosa con Layla, per caso? Perché mi sembra un pelino ostile…”
    A quelle parole, Hinata seguì la direzione dello sguardo di Eita, imitato dagli altri, individuando quasi subito la bella ragazza seduta sotto il chioschetto, insieme alle sue amiche.
    Onestamente più che un pelino ostile, sembrava assolutamente inviperita.
    Era difficile capire che cosa stesse dicendo, non tanto per la distanza, quanto per l’utilizzo della lingua materna, tuttavia dal fervore con cui stava gesticolando in direzione di Wakatoshi, era facile intuire che non gli stesse riservando alcuna parola gentile.
    Quando Hinata si voltò nuovamente verso l’asso, lo trovò con la mascella contratta e un’espressione di evidente irritazione.  
    “Definirla ostile è un eufemismo, Semi! Penso che se avesse un coltello, lo farebbe a fette!” affermò Yamagata, dando voce al pensiero di tutto il gruppo.
    “Che dica e faccia quello vuole, è una gran maleducata.” fu la gelida risposta dell’interessato.
    “Perché maleducata? Che cosa ha fatto?” domandò allora Shirabu, circospetto.
    L’atteggiamento di Wakatoshi era piuttosto bizzarro: rispetto all’esplosione che aveva avuto con Hinata in mare, poco prima, sembrava pervaso da uno sdegno palpabile, qualcosa di più simile al disprezzo che alla semplice stizza.
    “Mi è saltata addosso non appena siamo arrivati in prossimità dei servizi.” spiegò, infastidito “E quando ho cercato di fermarla, mi ha baciato sulla bocca e mi ha messo una mano nel costume.”
    Ci fu un momento di silenzio.
    Hinata sbatté le palpebre un paio di volte, perplesso ed era sicuro al cento per cento che stessero facendo la stessa cosa anche i ragazzi della Shiratorizawa intorno a lui.
    “Scusami, Wakatoshi, credo di non aver capito bene…” intervenne dunque Reon, cercando di suonare il più gentile possibile, nonostante l’aria dubbiosa dipinta sul suo viso “Volevi essere tu a fare il primo passo con lei? Ti ha messo a disagio che fosse così intraprendente?”
    “In che senso?” chiese a sua volta l’asso, arcuando la fronte.
    “Wakatoshi, tu perché hai seguito Layla in bagno?” proruppe a quel punto Tendou, con un tono di voce decisamente enigmatico. A differenza degli altri, non sembrava particolarmente confuso dalla situazione, anzi se ne stava un po' in disparte, a braccia conserte, come se stesse assistendo ad una scenetta teatrale.
    Wakatoshi inclinò il capo, “Perché me lo ha chiesto lei.” rispose semplicemente “Mi ha detto all’orecchio se mi andava di accompagnarla in bagno ed io le ho detto di sì, non volevo essere scortese.”
    “E secondo te perché voleva essere accompagnata al bagno?”
    “Perché non sapeva dov’era, no?”
    Di nuovo calò il silenzio sulla spiaggia di Shirahama.
    Un silenzio ricco di tensione però, da parte di tutti i componenti della Shiratorizawa che dovevano fare uno sforzo immane per contenersi e non scoppiare a ridere davanti all’ingenuità del loro capitano.
    “Wakatoshi…” prese coraggio almeno Tendou, arricciando le labbra per trattenere un sorriso “Layla sapeva benissimo dov’era il bagno, voleva appartarsi con te… per una sveltina…”
    “Una sveltina?”
    “Per fare sesso! O pomiciare, nel migliore dei casi!”
    La realizzazione che avvenne nella mente di Wakatoshi fece bella mostra di sé anche nei suoi begli occhi verdi, i quali si sgranarono all’inverosimile, “Ma io non la conosco nemmeno, perché dovrei volere avere un rapporto sessuale con una persona di cui a stento conosco il nome?” rifletté, allucinato “Mi sembra una cosa davvero molto superf-“
    Lo sguardo dell’asso trapassò Hinata da parte a parte con una tale imprevedibilità che per lui fu impossibile sfuggirgli.
    Non aveva scampo.
    Ushijima aveva appena smascherato il perché del suo comportamento in acqua, aveva ricollegato le sue parole e adesso lo stava fissando in modo indecifrabile, ma con una forza che fece sentire Hinata come se ogni cellula del proprio corpo venisse schiacciata tra due dita.
     
    Fu in quell’istante che Hinata capì.
    Capì e la consapevolezza lo terrorizzò e lo alleggerì allo stesso tempo.
    Aveva appena fatto una scenata di gelosia a Ushijima Wakatoshi, una scenata brutale, infantile e, a quanto pareva, del tutto superflua.
    E il motivo per cui era successo, alla fine, era davvero molto semplice.
    Aveva una stramaledettissima, stupidissima cotta per lui.
     
     
    Perché se siamo disposti ad accettare le cose come sono
    e non come le pensiamo,
    ci troveremo esattamente dove dobbiamo stare.
    - Grey’s Anatomy
     
     
     

    NOTE AUTORE
    Okay, tutti quelli che desiderano prendere a sberle Ushijima per aver fatto preoccupare Hinata inutilmente, vadano a destra! Tutti quelli che invece vogliono abbracciarlo perché, dopotutto, è un adorabile stoccafisso che non capisce le allusioni, vadano a sinistra!
     
    Nel frattempo, buongiorno a tutti amici! :)
    Questo capitolo non è stato una passeggiata, lo ammetto, mi ha dato filo da torcere e non sono del tutto soddisfatta del risultato, ma spero davvero di avervi trasmesso qualcosa a livello emotivo.
    Si tratta di un punto di svolta fondamentale per la storia: Hinata ammette a se stesso di provare qualcosa di più che una semplice ammirazione sportiva nei confronti di Ushijima.
    E voi direte: “Grazie al piffero! Era palese! Ha dato di matto al pensiero che fosse andato a letto con Layla!”
    Ci sta!
    Ma dovete ricordarvi sempre che Hinata è un adolescente di fronte alla sua prima cotta vera, lontana dal platonismo infantile, per cui dentro di lui è tutta una confusione di emozioni intensissime, sia positive che negative, che dopotutto anche uno estroverso come lui ha qualche difficoltà a incanalare. È per questa ragione, ad esempio, che la gelosia ha una risonanza così forte in Hinata: ho immaginato che fosse la prima volta che provava una simile sensazione negativa, e non è facile tenere a bada cose come i pensieri intrusivi, la delusione, l’insicurezza.
    Voi cosa ne pensate?
     
    Tengo molto anche alla parte iniziale del capitolo che riguarda Tendou e Hinata. Per chi non lo sapesse o non lo ricordasse, Tendou è un personaggio che ha sofferto molto per i pregiudizi delle altre persone, a causa del suo aspetto fisico vagamente inquietante e l’atteggiamento un po' sopra le righe. Veniva bullizzato, isolato… è una cosa che mi ha sempre colpito tanto e che, vi anticipo, tornerà nel corso della storia!
     
    Ma Ushijima? EBBÉ EBBÉ EBBÉ! Nel prossimo capitolo il focus ritornerà su di lui, non vi preoccupate! Così capiremo anche se la sensazione di Hinata in acqua sia stata solo un abbaglio o meno!
    Voi che dite?
     
    ATTENZIONE! Il prossimo capitolo arriverà tra due settimane esatte e sarà l’ultimo aggiornamento prima della pausa estiva!
     
    Alla prossima,
    Violet Sparks
     
     
     
     

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    Capitolo 17
    *** L'anatomia delle giraffe ***


    CAPITOLO XVII
    L’anatomia delle giraffe
     
     
    Ci sono dei disastri che non puoi prevedere, 
    non importa l’accuratezza dei tuoi programmi. 
    Una piccola sorpresa che cambia tutto. 
    In chirurgia la chiamiamo complicanza, 
    nella vita reale si chiama catastrofe. 
    - Grey’s Anatomy

    Tendou aveva scoperto il rock classico alla tenera età di otto anni: il merito era stato tutto di Ryoga, in assoluto il suo cugino preferito fra i dodici che si ritrovava in famiglia.  
    Ryoga si era fatto bocciare per ben due volte, una al primo e l’altra al terzo anno di liceo, fumava un pacchetto di sigarette al giorno, tornava al sorgere del sole ogni weekend e, fondamentalmente, era matto come un cavallo! Però guidava una moto da paura, raccontava sempre un sacco di aneddoti improbabili, per cui era davvero divertente passare il tempo con lui, e poi aveva vissuto in America due anni e mezzo, portando con sé, al suo ritorno, due dei più bei regali che gli dèi avessero mai fatto all’umanità: il burro d’arachidi e la musica degli AC/DC. 
    Appunto, il suo cugino preferito.
    Sorrise, appuntandosi mentalmente di inviargli un messaggio non appena avesse fatto ritorno a casa, quindi lasciò che 'Pictures Of You' dei The Cure partisse dalla sua playlist di Spotify. 
    Si sistemò meglio le sue preziose cuffie verde fluo sui padiglioni auricolari e, dopo essere sprofondato ancora un po' sul sedile, si guardò intorno nel vagone del treno straordinariamente silenzioso: tutti i ragazzi, a turno, avevano ceduto alla spossatezza della giornata, appisolandosi in posizioni piuttosto buffe. 
    Semi, ad esempio, si era addormentato sulla spalla di Shirabu, il quale, a sua volta, aveva abbandonato la testa sulla sua, in un incastro molto dolce, che Tendou si era premurato di immortalare giusto per assicurarsi di potere ricattare i due alzatori fino alla fine dei loro giorni. Reon avrebbe avuto sicuramente qualche problema al braccio, vista la posizione improbabile che aveva assunto, così come Goshiki che se ne stava con la guancia appiccicata al vetro del finestrino, con un rivolo di bava a colargli dal lato della bocca. Yamagata, il più furbo di tutti, si era appropriato di una fila di sedili libera proprio dietro di loro e lì si era steso, beato, utilizzando il telo da spiaggia come cuscino, mentre Wakatoshi e Hinata si erano appisolati semplicemente a braccia conserte, uno di fronte all’altro, entrambi con una felpa poggiata addosso per proteggersi dall’aria condizionata.
    Tendou li osservò, con un sorriso sulle labbra.
    Era complicato, il destino. 
    Complicato ed ineffabile, come soltanto le cose che trascendono la comprensione umana sapevano essere. 
    Quando la Shiratorizawa era stata sconfitta dal Karasuno, Satori aveva pensato che quella squadra onnivora e imprevedibile fosse stata messa sul loro cammino per nessun’altro scopo che non fosse quello di cacciarli dal paradiso in cui si erano adagiati troppo a lungo, in cui impropriamente si erano sentiti al sicuro, scaldati dalla luce del loro arcangelo miracoloso. 
    Si era sbagliato. 
    C’era un disegno più grande, sotto. 
    Qualcosa di molto più importante, impalpabile ma ineluttabile che il filo rosso del destino stava costruendo, tessendo lentamente le sue trame scarlatte. 
    C’era un’anima da salvare, un cuore imprigionato da liberare dalle gabbia dorata che la vita aveva imbastito intorno a lui senza che nemmeno se ne rendesse conto, e Satori avrebbe fatto la sua parte, sì, avrebbe impugnato i ferri e aiutato il fato a compiersi, perché lui poteva, lui aveva già intuito. 
    E poi aveva un debito morale da saldare, no? 
    In quell’istante, Wakatoshi si ridestò, raddrizzandosi sullo schienale e sbattendo le palpebre un paio di volte, intontito dal sonno; diede un rapido sguardo fuori dal finestrino, verso la vegetazione senza contorni del paesaggio, quindi si voltò in direzione di Hinata, fissandolo con fare assorto per un breve lasso di tempo. Tendou non fu affatto sorpreso, quando vide il giovane asso tendersi un poco sul bordo del proprio sedile, prendere tra due dita la felpa che stava facendo da coperta all’uccellino e sollevarla sulla sua spalla, da dove era scivolata; a quel punto, tornò al suo posto, si infilò a sua volta la felpa firmata che gli si era arrotolata sulla pancia, dopodiché richiuse gli occhi, tornando a sonnecchiare. 
    Le lunghe gambe stese. 
    I piedi che si alternavano, come intrecciati, a quelli del piccolo corvo.
    Satori ridacchio tra sé e sé, mentre un detto di sua nonna, che gli era sempre piaciuto moltissimo, gli attraversava la mente con la precisione di una freccia scoccata sul bersaglio.  
    La giraffa ha il cuore lontano dal cervello: si è innamorata l’altro ieri e ancora non lo sa.

     
    ***


    “Hai visto, Wakatoshi, proprio come ti avevo promesso: siamo tornati in tempo per il tuo allenamento!”
    Wakatoshi annuì, senza ricambiare l’entusiasmo di Tendou, impegnato, piuttosto, a riporre nella propria borsa la felpa che si era sfilato di dosso, non appena erano scesi dal vagone.
    Per fortuna, il viaggio era filato liscio come l’olio, il treno era arrivato in perfetto orario, il che voleva dire che aveva tutto il tempo per farsi una doccia e raggiungere l’università dove si tenevano gli allenamenti con la nazionale under19. 
    Onestamente, Wakatoshi non vedeva l’ora di buttarsi sotto il getto tiepido del bocchettone di casa propria: a parte il desiderio di darsi una ripulita e scrollarsi gli ultimi residui di sabbia dalla pelle, aveva cominciato ad accusare la stanchezza della giornata in modo sempre più pesante nel corso delle ultime ore e adesso avvertiva un mal di testa lancinante, che pareva riverberarsi per tutto il corpo. 
    Scrocchiò il collo a destra e sinistra, in cerca di un po' di sollievo, poi lanciò un’occhiata veloce al cielo plumbeo fuori dalla stazione. “Andiamo, Hinata, credo che stia per mettersi a piovere.” disse al ragazzino vicino a lui, evitando accuratamente di guardarlo.  
    “È incredibile! Non c’era una nuvola in cielo fino a dieci minuti fa!” constatò quello, mentre si stropicciava gli occhi con i pugni come un bambino dell’asilo. 
    “Sarà un temporale passeggero, d’estate sono frequenti!” gli rispose Tendou, alzando le spalle. 
    A quel punto, i due si persero in alcuni convenevoli sul tempo, che Wakatoshi non trovò la forza nemmeno di far finta di stare ad ascoltare. 
    Gli altri compagni della Shiratorizawa si erano congedati appena scesi dal treno, per non perdere le varie coincidenze che li avrebbero condotti a casa, non prima però di averlo ringraziato accoratamente per la giornata trascorsa e aver ribadito quanto li avesse resi felici aver coinvolto il loro capitano. Wakatoshi era rimasto molto colpito dalle loro parole – sapeva che i ragazzi avevano stima di lui sul campo, ma non immaginava che avessero tanto a cuore la sua presenza- per questo adesso non poteva fare a meno di rammaricarsi per il modo sbrigativo e un po' impersonale con cui li aveva salutati: tutta colpa di quella stanchezza acuta che gli stava rendendo difficile finanche pensare!
    Fu un sollievo quando anche Tendou li lasciò e, finalmente, lui e Hinata poterono intraprendere la strada di casa. 
    Wakatoshi camminava a passo di marcia, i muscoli in tensione. 
    Come aveva previsto, piccole gocce di pioggia avevano preso a bagnare l’asfalto, preludio dell’imminente acquazzone, per cui accentuò ancora il ritmo, mettendosi quasi a correre. 
    Con sua grande sorpresa, Hinata sbucò al suo fianco giusto qualche secondo dopo, trafelato eppure perfettamente in grado di mantenere la sua medesima andatura. 
    “Hai fretta di tornare a casa? Hai tempo prima dell’allenamento o sbaglio?” gli chiese, con un tono che a Wakatoshi suonò vagamente nervoso. Se si fosse voltato, sarebbe stato facile sondare i suoi pensieri attraverso quei suoi occhi giganteschi, come aveva imparato a fare nel corso delle ultime settimane, ma la verità era che, da quando avevano lasciato la spiaggia di Shirahama, Wakatoshi stava provando un certo disagio nel reggere lo sguardo del ragazzino, come se le sue pupille stessero bruciando ancora più del solito.  
    “Sì, lo so, ma non voglio bagnarmi. Non dovresti nemmeno tu.”
    “Certo, hai ragione.” ci fu silenzio, la pioggia cominciò a scendere copiosamente in un ammasso di spilli che pizzicavano la pelle “Japan, io… io devo dirti una cosa…”
    “Hinata, affretta il passo. Qualsiasi cosa sia, me la dirai dopo, siamo quasi a casa.”
    “No, è troppo importante! Io devo chiederti scusa per quello che ti ho detto in mare! Non pensavo davvero quelle cose, non so da dove mi siano uscite!”
    “Le hai dette perché pensavi che avessi fatto sesso con quella ragazza, come tutti gli altri, no?”
    “Sì… cioè no… ma io…”
    “Hinata, non importa.”
    Erano giunti di fronte al cancelletto di casa ormai. Wakatoshi recuperò le chiavi dalla tasca, affrettandosi ad infilarle nella toppa per farli accedere al vialetto, peccato che Hinata all’improvviso quasi si appese al suo braccio e lo costrinse a ruotare verso di lui con uno strattone. 
    Intorno a loro, oramai il temporale si era scatenato in tutta la sua furia. L’acqua scendeva giù in fiotti violenti che incollavano i vestiti ai loro corpi ancora caldi di sole e ammantavano la città in una nebbia viva, ronzante, mentre nuvole nere tuonavano la propria rabbia e lampi di luce bianca rischiaravano di tanto in tanto i loro volti madidi, come fari di un palcoscenico. 
    Wakatoshi, forse, avrebbe dovuto sentire freddo, invece tutto ciò che avvertiva era un calore ustionante all’altezza dello stomaco. 
    “Tu non sei superficiale! Non sei un ipocrita! E non lo saresti stato nemmeno s-se fossi stato per davvero con quella ragazza! Non so cosa mi sia preso!”
    “Hinata…”
    “È che il pensiero… il pensiero di te con lei… mi ha fatto perdere la testa! Cioè, no! No! Non volevo dire questo! Cioè sì! Però… non lo so… io… io…”
    Perché ti ha fatto perdere la testa?
    Era quella la domanda che Wakatoshi voleva porgere a Hinata.
    La domanda giusta da fare, la più ovvia.
    L’unica necessaria.
    E ci provò, provò con ogni libra del suo essere a schiudere le labbra e urlare attraverso l’acquazzone imperversante per farsi ascoltare da quell’uccellino coi capelli ammaccati sulla fronte e due occhi immensi, liquidi di pioggia e di dispiacere, che sembravano l’unica cosa ferma in mezzo al frastuono del cielo.
    Eppure, non riuscì a muovere un muscolo.
    All’improvviso, un dolore lancinante simile a un pugno gli trapassò il cranio e così il mondo circostante parve rovesciarsi, andare sottosopra.

    Una vertigine.
    Un grido.
    Buio.









    Ci vediamo a settembre! 
    Buone vacanze ;)
    Violet Sparks

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    Capitolo 18
    *** Prendere o lasciare? ***


    Wakatoshi! Wakatoshi!
    Hinata…
    Wakatoshi, svegliati! Svegliati, ti prego! Che ti succede?!
    Hinata… Hinata, non piangere…
    Wakatoshi, ti prego! Non ce la faccio a portarti dentro! Sei troppo pesante!
    Non… non piangere…
    Wakatoshi, svegliati! Aiuto! Aiuto!
    Hinata…
     
     
    CAPITOLO XVIII
    Prendere o lasciare?
     
     
    Se subisce un trauma, il corpo dispiega il proprio sistema di difesa.
    Dal primo momento in cui il cervello riceve il segnale della catastrofe,
    il sangue si riversa negli organi che ne hanno più bisogno,
     fluisce nei muscoli, nei polmoni, nel cuore,
    ma soprattutto nel cervello.
    È lui che prende decisioni per il resto del corpo:
    affrontare il pericolo oppure fuggire?
    È un meccanismo che serve a proteggerci dalle lesioni,
    dalla consapevolezza che quello che è successo
    potrebbe avere delle conseguenze irreparabili.
     
     
     
     
    La luna.
    Fu quella la prima cosa che Wakatoshi vide quando il suo cervello riavviò il sistema e le sue palpebre – pesanti, incollate- riuscirono a schiudersi, mettendo nuovamente a fuoco il mondo circostante.
    Si trovava disteso in camera sua, almeno di questo era certo. Riconosceva il colore antracite delle tende, la scrivania ordinata con il suo iMac di ultima generazione poggiato sull’apposito leggio, e poi vi era il solito, inconfondibile panorama fuori dalla sua finestra, il giardino che salutava ogni suo risveglio, ora ammantato dall’oscurità della sera, con un cielo nerissimo a fare da sfondo, squarciato soltanto dallo sbaffo luminoso del satellite che gli sorrideva, sottosopra.
    Che ore erano? Quanto a lungo aveva dormito? E soprattutto perché non ricordava di essersi messo a letto?
    “Oh! Guardate chi è tornato tra noi!”
    L’incursione imprevista di quella voce, nei suoi pensieri, gli fece saltare il cuore in gola.
    Schizzò seduto sul letto, prendendo a sondare convulsamente l’ambiente circostante, ma così facendo una sfilza di informazioni gli si riversò addosso tutta insieme: a) si trovava nella sua camera, sì, ma non era solo, c’erano due sconosciuti, un uomo e una donna, in piedi accanto alla porta di ingresso; b) per fortuna, aveva mosso poco il braccio sinistro, perché a quanto pareva aveva una flebo infilzata in prossimità della piega del gomito; c) i suoi vestiti erano scomparsi e indosso aveva nient’altro che una specie di casacca da ospedale.
    “Chi siete voi? Che sta succedendo?” chiese quindi, frastornato.
    Nel medesimo istante in cui aprì bocca, fu come se il suo corpo venisse attraversato da una scarica di elettroshock.
    Di punto in bianco, la testa cominciò a fargli malissimo, quasi che delle mani invisibili fossero lì a comprimergli il cranio. Si accorse di avere la gola riarsa, la lingua impastata, il respiro affannoso, ma la cosa più fastidiosa di tutte erano i muscoli deboli, indolenziti, una sensazione assolutamente spiacevole che Wakatoshi ricollegò subito a quando in palestra, senza preavviso, i suoi preparatori atletici decidevano di aumentargli contemporaneamente tutti i pesi.
    Una vertigine improvvisa lo costrinse a riaccasciarsi sul cuscino, tenendosi la tempia.
    “Calma! Calma, ragazzo! Sarai pure grande e grosso, ma devi lasciare che le medicine facciano effetto, se vuoi rimetterti in piedi!” proruppe allora l’uomo, avvicinandosi lentamente al suo letto.
    Proprio quando Wakatoshi maturò l’idea di aver già visto quegli occhi celesti e quel viso rotondo da qualche parte, un guizzò lo attraversò: quello era il medico che aveva messo i punti a Hinata, la sera della sua aggressione.
    “Ma… lei è… il medico di Hinata…” balbettò allora, a fatica.
    Il dottore rise di gusto, “Lieto che un campione del tuo calibro si ricordi di me!” esclamò, elargendogli delle leggere pacche sul dorso dei piedi, attraverso le lenzuola “Sono il dottor Porsche, comunque, non credo di essermi presentato l’ultima volta! Mentre questa gentile signorina, che mi ha aiutato ad assisterti, è la mia infermiera, Ari Yuriko!”
    “È un piacere, signor Ushijima.” lo salutò la donna, con un inchino profondo “Dottore, comincio a portare la sua borsa all’ingresso, se non le dispiace.”
    Il dottor Porsche le rispose con un semplice cenno di assenso, poi tornò su un Wakatoshi ancora molto, molto confuso; “Cosa… cosa ci fa lei qui? Che sta succedendo?” domandò il ragazzo, infatti, tentando almeno di sollevare la schiena contro la spalliera.
    Non gli piaceva sentirsi così vulnerabile, soprattutto di fronte ad una persona che non conosceva.
    Se c’era una cosa che Wakatoshi aveva imparato in tanti anni di carriera sportiva, avendo a che fare con manager, avvocati, imprenditori e quant’altro, era che le persone più adulte non ci pensavano sopra due volte prima di sopraffare il prossimo per fare i propri interessi e lui, con la sua giovanissima età, veniva bollato quasi immediatamente come una preda facile: abbassare la guardia era un suicido volontario.
    “Niente di che, mio caro, a parte il fatto che sei svenuto davanti al cancelletto di casa, nel bel mezzo di un acquazzone! Ti sei beccato una febbre da cavallo, complimenti! La tua temperatura era ferma a trentanove e mezzo, quando sono arrivato! Avrei potuto cuocerti un uovo sulla testa!” spiegò il dottore, con una ironia spiccata che Wakatoshi percepì, ma non comprese affatto.
    “Io non ho la febbre.” sentenziò, ad ogni modo, serissimo “Io non prendo mai la febbre.”
    A quelle parole, l’espressione bonaria del dottor Porsche cambiò in modo così repentino che il ragazzo ne rimase turbato.
    “No, Wakatoshi, tu sei un essere umano, quindi prendi la febbre come tutti quanti gli altri, te lo assicuro.” affermò, cupo “La differenza è che, stando alle cartelle cliniche che ho trovato in soggiorno, non appena manifesti i sintomi, vieni imbottito di farmaci, immagino in maniera tale da poter giocare.”
    “Non capisco dove vuole arrivare.”
    “Chi sottopone il corpo di un ragazzo di appena diciotto anni a questo grado di stress, non ha affatto a cuore la sua salute, ecco dove voglio arrivare.”
    “Io… io non la seguo… è tutto così confuso…” riuscì solo a sospirare Wakatoshi, massaggiandosi le tempie con le dita; era incredibile come anche la semplice azione di dialogare lo stesse facendo sentire stremato, neanche avesse appena finito di percorrere dieci chilometri in salita.
    Non ricordava di essersi mai sentito così male. Il dottor Porsche aveva ragione, adesso che ci rifletteva, non appena il suo fisico dava qualche segno di cedimento, di solito si rivolgeva alla sua equipe medica, la quale si premurava di risolvere il problema in uno schiocco di dita, di qualsiasi natura esso fosse. Stava forse insinuando che le loro terapie non erano giuste? Erano troppo estreme? Eppure, gli avevano sempre permesso di non perdere né allenamenti né partite, qual era il problema?
    Wakatoshi non riusciva a riflettere lucidamente, un moto di sconforto lo colse, tuttavia, quando si rese conto di aver saltato l’incontro con la nazionale under19 fissato per quella sera.
    Era la prima volta in dieci anni che succedeva una cosa simile.
    “Chi l’ha chiamata? Chi mi ha soccorso, se sono svenuto?” si sforzò comunque di chiedere, genuinamente curioso di quel particolare.
    Così come era arrivata, l’ombra sul volto del dottore si dissipò, per cui fu con il suo proverbiale sorriso allegro che prese ad ammiccare verso un punto della stanza alle spalle di Wakatoshi, il quale si affrettò a seguire quello sguardo, nonostante la difficoltà di staccare nuovamente il busto dal cuscino.
    Un singulto gli si spezzò in gola.
    Hinata stava dormendo sulla poltroncina della sua stanza, rannicchiato su se stesso, i capelli che gli ricadevano sul viso in una disordinata pioggia arancione e la bocca dischiusa in una specie di broncio.
    Di colpo, la mente di Wakatoshi venne pervasa da ricordi confusi, flash psichedelici – il viso sfocato del ragazzino sotto la pioggia battente, le sue urla, le sue lacrime, la sensazione di essere trascinato di peso, il dolore, lo shock… e sopra quella baraonda, la necessità impellente di fare qualcosa, qualunque cosa, pur di tranquillizzare Hinata, pur di farlo smettere di piangere…
    Pur di farlo smettere di piangere…
    Un forte senso di disagio si impossessò di lui, lasciandolo frastornato.
    Senza alcun motivo logico, cominciò a sentirsi in trappola, sopraffatto, allora si sporse con l’intento di svegliare Hinata e farlo uscire dalla stanza immediatamente, quasi che la sua sola presenza, silenziosa e inoffensiva, gli stesse stringendo il collo, togliendogli dai polmoni tutto l’ossigeno.
    “Lascialo riposare!” lo riprese però il signor Porsche prima che potesse compiere il gesto, stringendo la presa sulla sua caviglia all’improvviso “È crollato qualche minuto fa, doveva essere stremato. Si è spaventato a morte quando ti ha visto svenire, a telefono piangeva così forte che non riusciva neanche a parlare.”
    Titubante, Wakatoshi si lasciò ricadere sul letto, il cuore che gli batteva nel petto come un tamburo.
    “Non deve dormire sul divano. Fa male alla postura.” mormorò, ma non avrebbe saputo dire se quelle parole fossero rivolte al medico oppure a se stesso, per affibbiare una qualche giustificazione alla valanga di sensazioni violente che gli imperversavano dentro.
    “Una volta tanto non sarà un problema.” ribatté l’uomo, con un tono giocoso che però non ammetteva repliche “Siete cambiati molto da quella notte in ospedale, sai? Tu, in particolare. Sei meno chiuso, meno rigido… avevi come un’ombra in fondo allo sguardo che adesso non vedo più, mentre Hinata…” sbuffò una risata, scosse piano la testa “Beh, Hinata si è affezionato moltissimo a te!”
    “Nessuno prova affezione per me.” disse Wakatoshi, secco.
    “Ne sei sicuro? Questo bambino pesa trenta chili meno di te, eppure non ci ha pensato sopra due volte a trascinarti in casa sotto un acquazzone e non ti ha lasciato da solo nemmeno per un secondo, nemmeno quando siamo arrivati noi a prenderci cura di te.” raccontò l’uomo, dopodiché i suoi occhi celesti ruotarono sul ragazzino profondamente addormentato, scrutandolo con aria assorta “Riposa bene, giovane capitano, hai tante cose su cui riflettere.” sospirò infine, congedandosi da Wakatoshi con un profondo inchino.
    Prima di voltarsi però, i suoi occhi di cielo si infilarono nei suoi come due stalattiti.
    “Se accetti un consiglio, pesa bene chi ti sta intorno. Alcuni vogliono il tuo bene molto più di altri.”
     
    *****

    Hinata si è affezionato moltissimo a te.
    Gli stavano scavando dentro quelle parole
    Insieme al ricordo confuso dell’acqua salata che bruciava in fondo della gola, del panico cieco di vedere Hinata venire accalappiato dalle onde e non riemergere, e poi il rombo del temporale, le dita calde del ragazzino strette intorno al suo polso, i suoi occhi che lo fissavano in mezzo al diluvio, più trasparenti della pioggia.
    Il suo corpo minuto e liscio che tremava forte tra le sue mani, vicino come non era mai stato prima.
    Le sue labbra livide di freddo, bagnate di mare.
    Quell’inspiegabile urgenza di baciarle…
    Wakatoshi si agitò tra le coperte, prese un respiro lento, quindi affondò la testa nel cuscino madido di sudore quasi a volerci sprofondare dentro.
    Si sentiva un pezzo di carne abbandonato su una graticola, non vi era una sola parte del suo corpo che non bruciasse o si stesse contraendo dal dolore, ma in verità era la testa il suo peggiore nemico, come un calderone ribollente di pensieri che si sovrapponevano l’uno all’altro, incoerenti e incontrollabili.
    Cosa voleva insinuare il dottore? Hinata provava dei sentimenti nei suoi confronti? Era per questo che aveva perso la testa, quando aveva pensato che avesse avuto un rapporto con Layla? Ma, qualora avesse avuto ragione, cosa avrebbe dovuto provare Wakatoshi esattamente?
    Le persone finivano spesso per nutrire una malcelata attrazione sessuale per lui, ci era abituato, così come erano pronte a giurare di essersi perdutamente innamorate, senza avergli mai nemmeno rivolto la parola. Non aveva mai dato peso a quel genere di faccende: il sesso -aveva capito- era qualcosa di assolutamente superficiale, un bisogno fisiologico, fine a se stesso, che gli uomini potevano sfogare con chiunque per accaparrarsi qualche istante di piacere, mentre l’amore era un concetto così labile, così fumoso… Wakatoshi non riusciva a dargli né una forma né una consistenza. Nei pochi film o fumetti a cui si era interessato, l’amore sembrava una sorta di trucco di magia, un incantesimo che rendeva le persone capaci di superare ogni avversità. Doveva avere a che fare con il cuore - se aveva capito bene- con il cuore che all’improvviso prendeva a galoppare più veloce del vento… eppure a lui quell’organo non aveva mai battuto per nessun altro motivo che non fosse una lunga corsa!
    No, forse si stava sbagliando, si stava spingendo troppo in là con la fantasia.
    Per due persone che permanevano sotto lo stesso tetto per un periodo di tempo prolungato come loro, magari era inevitabile legarsi reciprocamente. Lui non poteva saperlo, d’altronde: erano anni che non viveva a stretto contatto con qualcuno, e tutti i rapporti che intratteneva erano sempre strettamente finalizzati a qualcosa, che fossero affari o interesse.
    Tuttavia…
    Ciò comportava che anche lui si fosse legato a Hinata in qualche maniera?
    In una maniera del tutto inconscia, che non aveva affatto preventivato e che adesso stava gradualmente colando fuori dai bordi, alla luce del sole?
    E questo come lo faceva sentire?
    Aveva detestato Hinata Shoyo con ogni fibra del suo essere, ma adesso? Adesso non provava più quella avversione, era chiaro e in parte ne era felice: lo stava intossicando quella rabbia latente, come un veleno iniettato sottopelle. Ma cosa aveva preso il suo posto? Perché continuava ad aver bisogno di fuggire da Hinata? E come era possibile che, insieme a questo bisogno, al contempo avvertisse sempre di più l’istinto opposto e primitivo di tenerselo vicino? Vicino al punto da confondere i loro contorni e non potere più distinguere la sua figura dalla propria.
    Come si incasellavano quelle sensazioni? Dov’era la logica? Quando, in quale marcio istante, aveva abbassato la guardia e aveva permesso a se stesso di finire in quel ginepraio di domande?
    Chiuse gli occhi con lo stomaco in rivolta, il medesimo senso di panico che lo aveva colto poco prima, divenuto ancora più insistente, asfissiante come un cappio stretto intorno alla gola.
    Non si era mai sentito così smarrito nella sua vita.
    Era come essere bloccati al centro di un filo teso in mezzo a due grattacieli - un alito di vento e tutto sarebbe crollato, un movimento impercettibile e ci sarebbe stato lo schianto.
    Eppure, all’improvviso, in lui si formò anche la limpida consapevolezza che era stato così da sempre con Hinata Shoyo, fin dall’istante in cui si erano incontrati. Quel ragazzino lo aveva sempre tenuto in bilico sulla bocca del caos, aveva sempre avuto la capacità di ingarbugliargli i pensieri, di spingerlo oltre i confini per poi riscriverli e valicarli ancora, per l’ennesima volta. Solo che mentre Wakatoshi si illudeva di allontanarsi, di star correndo dalla parte opposta, in realtà non stava facendo altro che tirare la corda di un elastico, fino al punto massimo di tensione.
    E adesso non gli restava altra scelta: spezzarsi oppure lasciarsi attrarre irrimediabilmente da quella forza.
    Un po' a fatica, si girò su un fianco, dal lato in cui Hinata dormiva ancora accoccolato sulla sua poltrona grigia.
    Lo osservò in silenzio, quasi senza respirare e per un istante – un piccolo, insignificante istante – concesse a se stesso di allentare la presa, lasciandosi semplicemente dondolare dal vento.
    Non si sarebbe mai dimenticato la paura che aveva avuto quando lo aveva tirato fuori dall’acqua, pallidissimo, inerme. Non aveva mai provato niente del genere ed era stato orribile, la cosa peggiore che avesse mai provato nella sua esistenza.
    Questo significava tenere a qualcuno e poterlo perdere?
    Wakatoshi aveva sempre avuto tutto e anche di più, la perdita era un tipo di angoscia che gli era completamente estranea.
    Ma perdere il ragazzino… insomma, perderlo davvero… non avere più quei suoi occhi giganteschi attaccati addosso… non avere più la sua risata nei timpani… non avere più il movimento delle sue braccia iperattive, sempre agitate come le ali di un passero… non avere più le sue labbra, colorate come la buccia di un frutto…
    Le sue labbra…
    Le sue labbra.
    Wakatoshi allungò una mano prima ancora che il suo cervello potesse processare l’azione, opponendosi in qualche maniera.
    Il suo palmo aperto si allineò con la curva della guancia di Hinata Shoyo, ricoprendola per intero ma senza davvero toccarla, piuttosto sfiorandola con una delicatezza che non pensava nemmeno di possedere, vicino quel tanto che bastava ad avvertire sotto i polpastrelli il bollore della sua pelle, la morbidezza della peluria leggera, chiarissima, che la rivestiva, appena imperlata di sudore.
    D’un tratto, quella sottospecie di carezza scivolò, imprudente, verso la sua bocca, arricciata in avanti come la piega di un tessuto a causa della posizione, tuttavia stavolta le dita di Wakatoshi non riuscirono ad essere altrettanto ligie, premettero su quella consistenza morbida, insinuandosi un poco nello spazio umido tra le due labbra, indugiando solo per un momento sul fiato caldo che avvertiva sulla punta delle dita.
    Tornò in sé di colpo, ritraendo la mano come se si fosse ferito con la lama di un coltello.
    Senza rendersene conto, cadde in un dormiveglia pesante e torbido, psichedelico, colmo di immagini caotiche che mancavano di rispetto al ragazzino in un modo che lo lasciavano indignato ed esaltato allo stesso tempo.
    Il cuore tremante, in subbuglio.
    L’inspiegabile desiderio di baciare Hinata fermo in fondo allo stomaco.
     
    Il giorno seguente, il piccolo corvo avrebbe lasciato la sua abitazione.
    Sarebbe finito tutto quanto.
     
    *****
     
     
    “Japan, sei sveglio! Come ti senti?”
    Ushijima si appoggiò allo stipite della porta, incrociando le braccia al petto, mentre osservava la baraonda in cui si era trasformata la sua stanza degli ospiti. Hinata stava raccogliendo le sue cose e a quanto pareva, pur non avendo mai dimostrato di aver portato molto con sé, aveva ben due scatoloni aperti in mezzo a pile di vestiti e altre cianfrusaglie sparse su ogni superficie orizzontale della camera.
    Un brivido freddo risalì lungo la nuca dell’asso, quando i suoi occhi si posarono sulla felpa gialla che il ragazzino era solito abbandonare nei posti più disparati della casa, le ginocchiere che dimenticava puntualmente sul tavolino del soggiorno prima di andare ad un allenamento, la borraccia con i cartoni animati, unica superstite di quella dannata sera in cui le loro strade si erano nuovamente incrociate.
    Vedere le tracce di Hinata sparire dalla sua vita...
    Era una liberazione per lui, no? Quando tutto era iniziato, non aveva fatto altro che agognare l’arrivo di quel momento, eppure adesso che stava accadendo, non vi era una sola cellula del suo corpo che non stesse gridando in protesta.
    Ricordava bene le elucubrazioni deliranti in cui si era perso la notte prima, ma non intendeva affatto tornare a immergersi in quelle acque torbide, non ora almeno che la febbre aveva cominciato a scemare e quel disordine di idee minacciava di inondarlo nuovamente, senza una temperatura corporea eccessiva a fare da scusa comoda per la loro totale assurdità.
    Aveva bisogno di capire.
    Aveva bisogno di riflettere.
    Eppure, l’elastico stava vibrando, adesso, pronto a tirare o a cedere.
    Prendere o lasciare?
    “Sto meglio, le medicine stanno facendo effetto.” rispose allora l’asso, cercando di dissimulare la tensione che avvertiva fin dentro le ossa “In giornata vedrò la mia equipe medica, mi hanno assicurato che domani sarò pronto per tornare ad allenarmi.”
    “Ne sono felice, Wakatoshi, davvero.” gli sorrise Hinata, alzando il viso, ma evitando accuratamente di guardarlo negli occhi. "Ti prego però, se devi svenire non farlo mai più davanti a me! Mi hai fatto prendere un infarto!” continuò con un tono scherzoso, a mano a mano che ripiegava alcune magliette nell’ultimo angolino rimasto libero sul materasso.
    Era triste, Wakatoshi lo percepiva.
    Le sue spalle stavano curvate in avanti e i suoi movimenti erano insolitamente lenti, trascinati, come se portasse un ingente peso sulla schiena, e poi stava facendo quella cosa, quella che Hinata faceva sempre quando un pensiero cattivo gli entrava dentro e lo faceva sanguinare, cioè occultare la ferita dietro due occhi stretti e una risata assolutamente fasulla.
    “Mi dispiace averti fatto spaventare, Hinata.” disse Wakatoshi, sincero.
    “Non è niente, l’importante è che tu stia bene.”
    Ci fu un momento di silenzio, turbato soltanto dai passi concitati del ragazzino che si affaccendava tra gli scatoloni a testa bassa e qualche voce estranea che entrava dallo spiraglio della finestra, insieme ai raggi del sole. Se non lo avesse reputato impossibile dal punto di vista biologico, Wakatoshi avrebbe giurato però che anche il pulsare frenetico del suo battito cardiaco stesse contribuendo a spezzare quella quiete apparente, lui di sicuro lo sentiva rimbombare nel proprio petto con una violenza a tratti spaventosa, mentre il suo intero corpo sembrava dilaniato da un incrocio di spinte differenti, a cui non era in grado affibbiare una provenienza.
    “Resta qui.”
    Fece fatica a riconoscere la sua stessa voce.
    Hinata lasciò cadere la pila di vestiti che aveva tra le braccia in un leggero fruscio, quindi lo fissò interdetto con le labbra dischiuse dallo shock.
    “Scusa, che cosa ha-”
    Resta qui, Hinata, non andare via.”
    Hinata rimase immobile, pietrificato come una statua.
    Anche Wakatoshi rimase allo stesso modo, accanto alla porta, per cui non poté fare a meno di chiedersi se il ragazzino stesse provando quello che stava provando lui – un miscuglio talmente confuso di sensazioni da annebbiargli ogni briciolo di raziocinio.
    “Perché?”
    Già, perché?
    Che senso aveva tenerlo lì? Che cosa voleva da Hinata? Che cosa stava cercando realmente?
    “Perché ho deciso di allenarti.”
    Stava mentendo.
    Era la prima volta che dalla sua bocca usciva una bugia: scoprì che aveva un retrogusto amaro, sgradevole, eppure regalava un sollievo quasi zuccherino.
    Se possibile, gli occhi di Hinata si sgranarono ancora di più, gli occuparono metà del volto. Le sue mani presero a tremare, fece qualche passo in avanti, ma per poco non inciampò nei vestiti ammucchiati sul pavimento. “Tu vuoi allenarmi?” balbettò, incredulo “Perché? Non hai mai voluto farlo! Ti sei sempre rifiutato categoricamente!”
    Wakatoshi deglutì a vuoto.
    Sperò che il ragazzino abbassasse lo sguardo anche solo per un istante, giusto il tempo di dargli un po' di tregua, invece di continuare a bucargli lo stomaco con quell’aria di trepidazione così innocente e genuina che gli trasudava dal volto, ma ciò non accadde, per cui al capitano non rimase altro da fare che farsi mangiare vivo dal senso di colpa.
    Stava andando contro ogni suo principio accettando di allenare Hinata Shoyo, ne era consapevole, eppure sentiva di non avere altra scelta, si trovava con le spalle al muro: lasciarlo andare, in quel momento, gli appariva insopportabile come un dolore fisico, ma la verità non era un’opzione, non quando essa era fatta soltanto di sensazioni confuse che ronzavano sulla bocca dello stomaco, senza alcuna coerenza.
    “Perché voglio sdebitarmi per ieri sera…” disse allora Wakatoshi, cercando di irrobustire la sua menzogna con tutta la logica che riusciva a trovare.
    “Non ti ho aiutato perché volevo qualcosa in cambio da te.” rispose Hinata, con un sospiro malinconico.
    “Lo so.” si morse le labbra, strinse le palpebre, poi le riaprì “Non mi sono comportato bene con te, Hinata, non mi sono comportato bene affatto. Tu sei sempre stato gentile con me, invece io non ho fatto altro che darti addosso in queste settimane, con un astio del tutto immotivato e non te lo meritavi. Non te lo meriti nemmeno ora.” si lasciò sfuggire d’un tratto, spaventosamente sincero. Prese un respiro profondo e, tra le braccia conserte, strinse i pugni fino ad imbiancarsi le nocche. “L’inizio delle partite per le tue nazionali inter-liceali coincide con l’inizio delle nostre qualificazioni per i mondiali under19. Resta fino a quel momento, dopodiché le nostre strade si divideranno di nuovo.”
    “Ma c’è la scuola, da domani ricominciano le lezioni! Non ti darà fastidio avermi intorno?”
    “Anche tu hai scuola e i nostri orari più o meno sono simili. Oltretutto casa mia è più vicino alla Karasuno, giusto? Ti risparmieresti un bel pezzo di strada.”
    Di nuovo, si creò un momento di assoluta stasi tra di loro, un purgatorio di pensieri e sensazioni incapaci di trovare una forma.
    “Io n-non capisco…” balbettò ancora Hinata, scuotendo il capo.
    “Accetti l’offerta o preferisci tornare a casa?”
    Un brivido freddo attraversò la nuca del giovane asso al fuoriuscire di quelle sillabe dalle sue labbra.  
    La scelta era del ragazzino, d’altronde, non lo avrebbe mai costretto a fare qualcosa che non desiderava fare, eppure mentre il tempo passava e Hinata lo guardava incerto, non avrebbe saputo dire quale risposta stava sperando di ricevere da lui.
    “Va bene, Japan, rimarrò qui insieme a te.”
    Il fiato di Wakatoshi si spezzò.
     
    Lo aveva fatto, quindi.
    Aveva tenuto insieme l’elastico e si stava lasciando trasportare dalla sua spinta.
    Il problema, adesso, era che stava viaggiando a trecento chilometri all’ora.
    E non aveva la minima idea di cosa ci fosse alla fine della corsa.
     
     
    Quando lo shock si dissolve,
    quando il corpo riesce ad accettare che c’è stato un trauma,
    quando abbassiamo le difese,
     è un momento spaventoso.
    Siamo vulnerabili.
    La reazione ci ha protetti dallo shock, forse ci ha salvati.
    E adesso?
    E adesso è tutto nelle nostre mani.
    - Grey’s Anatomy 
     
     
     
     
    *  Il cognome Porsche è un omaggio alla serie Kinnporsche che sto amando ultimamente
     
     
    NOTE AUTORE
    Lo so, lo so… sono pessima!
    Mi merito quelle pistole puntate addosso, non posso dire di no!
    Ad agosto vi ho lasciato con un capitolo piuttosto cattivello e a settembre mi sono fatta un po' desiderare... sappiate che – ahimé!- la seconda cosa non era affatto voluta T^T purtroppo alcuni problemi della real-life mi hanno completamente assorbita e così adesso mi ritrovo decisamente in ritardo sulla tabella di marcia! Spero di riuscire a recuperare!
     
    Non è stato facile scrivere questo capitolo e spero con tutta me stessa che il risultato sia stato quantomeno DECENTE. Si tratta di una chiave di volta tanto per la storia – in quanto, vi anticipo, abbiamo appena raggiunto un arco narrativo veramente importante!!- tanto per il personaggio di Ushijima Wakatoshi e il percorso personale che sta affrontando.
    Dopo essere a lungo fuggito da Hinata, adesso Wakatoshi sta mettendo insieme i pezzi, si sta facendo delle domande…
    Purtroppo, non conosce ancora tutte le risposte – un pochino, ha anche paura di darsele. Avrete notato che è spesso incoerente, confuso su ciò che prova. Il motivo è che sta affrontando qualcosa di completamente avulso dal mondo che ha conosciuto fino a questo momento, qualcosa che trascende dalla logica assoluta che è sempre stata il filo conduttore della sua vita.
    Al di sotto di tutto questo, però, c’è l’istinto - perché per quanto Ushijima sia un ragazzo estremamente razionale, la verità è che c’è una parte di lui prepotentemente istintiva, lo abbiamo visto durante la partita Karasuno/Shiratorizawa- e così…
    La convivenza continua, dunque, amici miei!
    E questa volta non è una convivenza forzata, ma qualcosa di espressamente voluto da entrambe le parti.
    … sì, stiamo per arrivare alla ciccia!
     
    A presto,
    Violet Sparks

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    Capitolo 19
    *** Nana ***


    CAPITOLO XIX
    Nana
     
     
    Come di acqua e cibo, gli esseri umani hanno bisogno di legami.
    Uno studio sul cervello ha rivelato che durante una TAC,
    i centri mesencefalici di un paziente si attivano
    quando c’è un’altra persona nella stanza.
    I nostri neuroni si innescano quando parliamo con qualcuno
    o solo pensiamo a qualcuno.
    E vanno in tilt quando gli prendiamo la mano.
    I nostri corpi e cervelli sono programmati
    per cercarsi a vicenda e connetterci.
    Allora perché scappiamo,
    quando capiamo di aver creato dei legami?
    - Grey’s Anatomy
     
     
    Dividere le proprie giornate con Hinata Shoyo si dimostrò assolutamente diverso da come Wakatoshi si aspettava.
    Convivere con un estraneo era stata una forzatura, una violenza alle sue abitudini e alla sua intimità. Wakatoshi aveva faticato a vedere i propri spazi contaminati dalla presenza di un’altra persona, sentire la quiete statica dei propri pensieri riempirsi di sfumature - risate, parole, grida- accettare che le proprie azioni avessero delle conseguenze: il globo terrestre aveva smesso di girare intorno a un unico epicentro, esistevano forze nuove e sconosciute, adesso, e non intendevano essere ignorate.
    Quando aveva chiesto al giovane uccellino di rimanere per diventare il suo kohai, Wakatoshi aveva passato a girarsi e rigirarsi nel proprio letto una giornata intera, senza trovare riposo.
    Lo aveva inquietato quello slancio di imprudenza, la facilità con cui quella bugia era sgorgata fuori dalla sua bocca, ma ancora di più lo aveva spaventato comprendere in che misura il ragazzino fosse diventato oramai parte integrante della sua esistenza, una appendice tanto fastidiosa quanto indivisibile.
    Non ricordava più come fosse la sua vita prima di Hinata Shoyo.
    Si sforzava di metterla a fuoco, ma l’immagine che gli appariva davanti agli occhi aveva sempre le sembianze di un puzzle mancate, una stanza semibuia con l’interruttore della luce abbassato.
    Era per questo che Wakatoshi aveva creduto che cominciare a condividere anche qualcosa di così visceralmente importante per sé come la pallavolo, si sarebbe rivelata l’ennesima seccatura, l’ennesimo brusco scossone al proprio universo con cui avrebbe fatto fatica a scendere a patti.
    Non fu così.
    Era facile allenarsi con Hinata.
    Era facile spiegargli quella o quell’altra tecnica.
    Era facile calibrare i loro ritmi, discutere di squadre e di strategie, spingersi oltre i limiti.
    Wakatoshi viveva per la pallavolo e -scoprì- per Hinata valeva altrettanto.
    Non doveva stancare la testa a infagottare le conversazioni di convenevoli di cui non gli importava assolutamente nulla, solo per non annoiare chi aveva di fronte. Non aveva bisogno di fingere di provare interesse per qualcosa che non fosse lo sport a cui aveva votato ogni rintocco del proprio tempo, ogni goccia di sudore. Non doveva allentare la propria fame per adeguarsi al resto del mondo che vedeva nella pallavolo soltanto un gioco con una palla.
    Hinata capiva.
    Capiva la voglia di vincere, capiva la passione, il sacrificio.
    E la sua tecnica continuava ad essere rozza, la sua preparazione scarsa. E non c’era un solo motivo coerente per cui un giocatore così mediocre dovesse riporre tanta fiducia in se stesso e nel proprio sogno, eppure Wakatoshi sentiva di non avere più la forza di opporsi a quel fuoco dirompente che pareva albergargli nel petto, anzi ne rimaneva affascinato. Mentre lo guardava incaponirsi su un bagher molto storto o su un palleggio decisamente pessimo, una parte di lui cominciò ad accarezzare l’idea che forse aveva sempre guardato le cose da una prospettiva troppo rigida, limitata: Hinata era indietro, certo, la sua corsa iniziava ad almeno un centinaio di chilometri dalla linea di partenza di molti altri giocatori, ma perché questo svantaggio avrebbe dovuto impedirgli di raggiungere il traguardo? Perché doveva essere destinato a perdere, quando correva più veloce di tutti gli altri, più agguerrito di chi era partito dalla prima posizione?
    Hinata aveva bisogno di più lavoro, di più impegno, ma era proprio in quel suo folle ed insensato atto di fede che albergava la spinta che gli permetteva di volare.
    “Mostramelo ancora una volta, ti prego, ancora una!” gli diceva, mentre si alzava da terra con le gambe che gli tremavano dallo sforzo, i polsi lividi per l’impatto ripetuto con il cuoio della palla.
    “Ce la faccio a fare altri piegamenti, non sono stanco, te lo giuro!” ansimava riverso sulla panca, il petto stretto e sottile che vibrava ritmicamente a corto di fiato.
    “Oggi ti supererò, mi hai sentito Japan? Ti farò mangiare la polvere!” esclamava, saltellando come un uccellino impazzito a qualche metro dalla schiena di Wakatoshi, facendo a brandelli la pigra quiete dell’alba.  
    Wakatoshi non rispondeva, però gli angoli delle sue labbra tendevano sempre verso l’alto, in un moto automatico di cui, a volte, nemmeno si accorgeva.
    Gli veniva più facile, sorridere, negli ultimi tempi.
    Non ne comprendeva il motivo.
     

    ***


    Wakatoshi lasciò andare il bilanciere con un tonfo.
    Aprì e richiuse i pugni un paio di volte, osservando le venature pronunciate che gli percorrevano gli avambracci, quindi ruotò piano il collo teso, passò una mano sui muscoli delle spalle, rigidi come le corde di uno strumento e provò a massaggiarsi cautamente con le dita.
    Gemette di dolore.
    Durante l’ultima partita con la nazionale under19, aveva fatto un movimento brusco in schiacciata, piegando malamente il braccio sinistro prima di eseguire una diagonale. Lì per lì aveva avvertito una specie di scossa elettrica dipanarsi lungo tutto il busto, ma poi era riuscito a giocare senza troppi problemi, arrivando alla fine del match: non pensava che, a distanza di giorni, avrebbe continuato a provare fastidio.
    La situazione era alquanto preoccupante.
    Il Giappone era riuscito a qualificarsi per i mondiali ormai, tuttavia le partite che stavano disputando negli ultimi tempi non erano meno importanti, sia perché rappresentavano dei banchi di prova fondamentali in termini di formazioni e strategie, sia perché la Lega aveva annunciato che presto avrebbe designato il nuovo capitano della squadra, visto il passaggio di quello precedente alla nazionale over.
    Ovviamente la cosa aveva messo in fermento tutto il team di Wakatoshi.
    Diventare capitano della nazionale alla sua prima convocazione, nonostante fosse uno dei membri più giovani, avrebbe sicuramente consolidato il suo trono nell’Olimpo della pallavolo. Significava triplicare gli sponsor, i guadagni, il prestigio, dichiarare al mondo intero che lui non era semplicemente uno dei migliori, ma il migliore in assoluto, senza partita, senza rivali.
    Wakatoshi aveva preso molto seriamente quell’obiettivo: un’occasione del genere capitava soltanto una volta nella vita, ne era consapevole.
    Solo che…
    Negli ultimi giorni, i suoi orari di allenamento si erano fatti ancora più serrati, la sua dieta si era fatta ancora più rigida, non trovava il tempo di passare agli incontri della sua Shiratorizawa nemmeno per un saluto, tenere il passo con compiti e lezioni era sfiancate, certe sere si sentiva talmente stremato che finiva per addormentarsi prima di cena o più spesso sul divano, accanto a Hinata, mentre vedevano qualche vecchio incontro registrato.
    Era necessario, ripeteva a se stesso.
    Non esisteva risultato, senza duro lavoro.
    La pallavolo era tutto ciò che contava, il suo sangue, la sua ragione di vita.
    Solo che a volte gli mancava il fiato.
    “Japan, perché non ti fermi un attimo?” pigolò all’improvviso una voce dalla sua sinistra, ridestandolo dai suoi pensieri.
    Maledizione, perfino voltare la testa verso Hinata gli fece bruciare tutti i muscoli delle spalle.
    Lo trovò seduto a gambe incrociate sul nastro spento del tapis-roulant, intento a fissarlo con aria preoccupata, dietro alla sua famosa borraccia coi cartoni animati.
    Il ragazzino ormai aveva preso l’abitudine di scendere in palestra con lui non appena tornava da scuola, allenandosi al suo fianco secondo il programma che il coach del Karasuno gli aveva preparato: Wakatoshi, di solito, cercava di correggergli quello o quell’altro esercizio, gli dava qualche consiglio, dopodiché salivano insieme in giardino, dove giocavano a pallavolo fino all’ora di cena; all’improvviso, l’asso si rese conto che negli ultimi tre giorni a stento doveva avergli rivolto la parola, preso com’era stato da quel vortice infernale di incombenze.
    Ad ogni modo, “Sto bene, ho solo la schiena un po' contratta.” gli rispose, stringendo le labbra per trattenere l’ennesimo lamento che minacciava di sgusciare fuori.
    “Sei sicuro? Sembri stanchissimo ultimamente…” insistette Hinata, mordendosi il labbro inferiore.
    “Sono abituato.”
    “Lo so… lo so… i tuoi allenamenti devono essere molto intensi, l’ho capito! Non potresti giocare ai tuoi livelli, se fosse il contrario, però…” sospirò, poi si strinse tra le spalle in un buffo scatto di vergogna “Non voglio mettere in discussione le parole di medici ed esperti, okay? Non sono nessuno per farlo! Ma, davvero, sembri molto affaticato, Japan! Siamo sicuri che ti faccia bene, tutto questo?”
    “Ci sono cose importanti in ballo, devo dare il massimo per puntare al massimo.”
    “Puoi dare il massimo anche se ti concedi un momento per respirare, sai?”
    Wakatoshi non ribatté, preferendo ritrarsi dietro alla stoffa umidiccia del suo asciugamano.
    Nonostante le settimane passate con Hinata, ancora lo straniva avere qualcuno con cui confrontarsi, avere qualcuno che si preoccupasse così sinceramente per lui.
    Era abituato a risolvere i problemi da solo, Wakatoshi, a cavarsela contando esclusivamente sulle proprie forze e, in fin dei conti, farlo non gli era mai neanche pesato più di tanto: era così da sempre, d’altronde, da che aveva memoria. Non aveva mai avuto nessuno a cui appoggiarsi, nessuno che gli tendesse la mano senza un minimo tornaconto personale, ma alla fine che cosa importava?
    Non era un bambino, non era un debole, con un po' di impegno, poteva gestire qualsiasi cosa.
    Le uniche persone con cui sentiva di avere un rapporto meno superficiale erano Tendou, il cui intuito sopraffino, per fortuna, lo risparmiava spesso dalla fatica di dover dare voce ad un eventuale turbamento, e poi c’era Nana, ovviamente, che però rappresentava un pericoloso campo minato.
    Il problema era che, il rapporto che stava istaurando con Hinata Shoyo, non gli pareva associabile a nessuna delle due situazioni.
    In un moto di disagio, Wakatoshi scattò in piedi, deciso a voler continuare il proprio allenamento, peccato che non appena mosse il braccio per gettare via l’asciugamano, il dolore fu così acuto che non poté fare a meno di emettere un sibilo.
    “Stai bene?!” gli domandò subito Hinata, affrettandosi nella sua direzione.
    “Non è niente.” disse l’asso, prendendo a massaggiarsi la base del collo con attenzione.
    “Sembra fare male…”
    “Il fisioterapista mi ha dato da mettere delle bende per la kinesio taping, mi passerà.”
    “Hai bisogno di una mano per applicarle?”
    Wakatoshi rimase alquanto perplesso: nonostante la proposta fosse appena uscita dalla sua bocca, non appena l’ebbe pronunciata, tutta la figura di Hinata venne attraversata da una specie di brivido e poco dopo le sue guance assunsero un evidente tonalità scarlatta.
    “Sei in grado di farlo?” chiese quindi, dubbioso.
    “S-sì, cioè se mi spieghi come devo fare, c-credo di riuscirci! Me lo ha insegnato Sugawara, il mio senpai! Suo padre è ortopedico e ogni tanto lui lo aiuta allo studio…” balbettò, facendosi sempre più rosso “Ma se devi eseguire qualche procedura specifica, cioè non so…”
    Wakatoshi tentennò, indeciso sul da farsi.
    Da un lato, gli avrebbe fatto comodo un po' di aiuto: dovendo applicare le bende principalmente sulle spalle e la schiena, con il dolore che provava, avrebbe avuto serie difficoltà ad effettuare l’operazione, tanto più che, a parte la posizione esatta in cui dovevano essere applicate, ben descritta nelle istruzioni del fisioterapista, chiunque avrebbe saputo portare a termine il compito. Dall’altro però, il ragazzino sembrava davvero molto imbarazzato - per qualche motivo che Wakatoshi non riusciva assolutamente ad afferrare!- per cui forse era meglio lasciar perdere e aspettare l’indomani di vedere il suo specialista.
    “Non importa, posso fare da solo.” tergiversò ancora l’asso, il problema fu che, quando sovrappensiero mosse il braccio per grattarsi la testa , una specie di scossa elettrica corse lungo tutti i suoi muscoli dorsali, dal gomito al centro delle scapole, mozzandogli il respiro.
    Japan!” saltò immediatamente Hinata, agitandosi di qua e di là “Ti prego, non puoi continuare così! Lascia che ti aiuti!”
    Onestamente, Wakatoshi non trovò più un solo motivo valido per opporre resistenza.
    Stando ben attento a non compiere altri movimenti inconsulti, risalirono in cucina, dove diede a Hinata tutte le istruzioni necessarie su dove trovare le fasciature, insieme ai documenti medici contenenti i vari schemi circa l’applicazione delle kinesio tape; a quel punto, si lasciò cadere sul primo sgabello disponibile, con un sospiro sofferente.
    “Ho trovato tutto, Japan! Adesso arrivo!” urlò il ragazzino da qualche parte imprecisata del salotto.
    Wakatoshi trovò a stento la forza di annuire. Chiudendo le palpebre e pregustando già il dolore acuto che avrebbe provato, afferrò la maglietta che indossava all’altezza della nuca, dopodiché se la sfilò da sopra la testa, mordendosi le labbra a sangue per non gemere.
    Quando riaprì gli occhi, Hinata era di fianco a lui, che gli fissava il petto a bocca aperta.
    “C’è qualcosa che non va? Hai cambiato idea?” proruppe allora Wakatoshi, cominciando ad avvertire una sensazione di calore latente sulla faccia, alquanto incomprensibile vista la scarsità di indumenti che indossava.
    All’improvviso, le conseguenze di quella bruttissima – anzi pessima!- idea presero forma nel suo cervello: non soltanto aveva fatto sì che Hinata gli si dovesse avvicinare tanto, al punto da annullare qualsiasi distanza di sicurezza, ma aveva implicitamente accettato di lasciarsi toccare da lui, di avere le sue mani direttamente addosso, pelle contro pelle, con una confidenza che non avevano mai sperimentato prima.
    Dal suo canto, il ragazzino ci mise un lasso di tempo assurdamente lungo per ritrovare la facoltà di parola, “N-no! No, figurati! Ci sono! Ho capito quello che devo fare! Tutto chiarissimo, anzi cristallino!” esclamò, nervoso come un uccellino dopo uno sparo “È facile! Dovrebbe essere il metodo classico!”
    “Sì, infatti.” fu l’unica risposta che riuscì a dare.
    Doveva tirarsi indietro?
    Doveva trovare una scusa per fuggire?
    Si accorse di aver serrato la mascella fino a procurarsi dolore.
    La situazione non migliorò affatto quando sentì Hinata avvicinarsi lentamente alla sua schiena e il suo respiro irregolare, caldo, arrivò a soffiargli proprio dietro la nuca.
    “P-posso?” sussurrò il ragazzo, la sua voce simile a un alito di vento accanto all’orecchio.
    “Sì.” esalò, prima ancora di pensarci.
    Non appena le dita di Hinata sfiorarono la sua scapola destra, lo stomaco di Wakatoshi ebbe uno spasmo così violento da far vibrare anche lo sgabello sotto di sé.
    Deglutì a vuoto, sospirò.
    Doveva darsi una calmata.
    “Scusa! Ho le mani fredde?”
    “No, va tutto bene.”
    Mentiva.
    C’era una cosa, che Wakatoshi stava tacendo, in quegli strani giorni.
    Una cosa che stava accuratamente omettendo a sé stesso.
    Una cosa che stava cercando di reprimere con ogni libra del suo essere, con ogni grammo della sua forza e del suo buon senso.
    Il suo corpo, senza alcun motivo apparente, sembrava aver cominciato a nutrire una ambigua quanto insensata attrazione verso quello di Hinata Shoyo.
    Era una sensazione anomala, per lui, un istinto fastidioso e pungente simile a uno sfrigolio a fior di pelle. Non avrebbe saputo dire con esattezza quando e come era iniziato, da dove fosse venuto o quale fosse il suo scopo, sapeva soltanto che, ad un certo punto, lo aveva scoperto dentro di sé, mescolato al sangue e dall’istante in cui ne aveva preso coscienza, non era più riuscito a scrollarselo di dosso, ne veniva sopraffatto a tradimento e i pensieri che andava a scatenargli nel cervello lo facevano vergognare come un ladro.
    Perché lui non voleva soltanto toccare Hinata.
    Voleva morderlo, voleva stringerlo, voleva fissarlo.
    Voleva sentirlo.
    E non aveva il minimo senso, una cosa del genere. 
    Non la aveva perché Wakatoshi aveva sempre odiato qualsiasi tipo di contatto fisico. Detestava il calore di un altro corpo premuto contro il proprio, mal sopportava perfino le semplici pacche sulla spalla che si elargivano tra compagni per incitarsi l’un l’altro durante una partita. Aveva provato desiderio sessuale prima, una volta soltanto, in una maniera del tutto fugace e insoddisfacente, ma non era stato affatto così, non c’era stata la stessa potenza, la stessa frenesia.
    Chiuse gli occhi, mentre i palmi del ragazzino scorrevano lungo le strisce colorate per farle aderire ai muscoli della sua schiena.
    Non aveva emesso più un singolo fiato da quando aveva cominciato l’operazione. Dalla inusuale lentezza dei suoi gesti, Wakatoshi aveva intuito quanto fosse concentrato, quanta cura stesse mettendo nell’eseguire al meglio il suo lavoro, eppure percepiva anche un lieve tremito di imbarazzo, una tensione latente che rendeva i suoi movimenti insolitamente legnosi.
    Una volta finito con la parte posteriore, comunque, Hinata si spostò di lato, mettendoglisi quasi di fronte e “Penso di aver seguito tutte le istruzioni, adesso passo al braccio sinistro, va bene?” chiese, gli occhi rigorosamente bassi, la voce tremula “È quello che ti dà maggior fastidio tra i due, giusto?”
    “Sì, è quello.” ribatté Wakatoshi, come se la lingua che pronunciava quelle parole non fosse stata la propria. Non aveva bisogno di essere aiutato con il taping anche in quella zona, poteva benissimo provvedere da solo, peccato che il sangue nelle sue vene avesse ruggito in protesta alla sola idea di allontanare Hinata.
    Abbassò il capo, avvertendo il contenuto del suo stomaco rimescolarsi come una centrifuga.
    Da quella posizione Hinata pareva ancora più vicino, il suono del suo respiro risuonava nel silenzio della cucina e il suo odore gli riempiva le narici – lo shampoo alla vaniglia che condividevano, l’ammorbidente che era solito utilizzare, intrappolato tra le fibre della sua maglietta bianca e poi, in fondo, un profumo che era soltanto di Hinata, un profumo che non avrebbe saputo descrivere a parola, ma era dolce, dolcissimo, buono.
    Spostò un poco il ginocchio, il ragazzino seguì il movimento e si fece leggermente a destra, approssimandosi inconsciamente, tra le sue gambe.
    Com’erano stretti i fianchi di Hinata.
    Anche se nascosto dalla maglietta oversize, il profilo delle sue ossa iliache era intuibile attraverso la linea dei pantaloncini, da cui sbucavano le sue gambe dritte e nervose, pallide, cosparse di una peluria ramata così chiara da essere quasi invisibile.
    Wakatoshi le fissò per un tempo interminabile.
    Di nuovo, quell’istinto inspiegabile di stringere il corpo dell’altro gli graffiò le pareti dello stomaco.
    “Piega un po' la testa…” sussurrò all’improvviso Hinata, con fare assorto, ma nel medesimo tempo in cui quelle parole lasciarono la sua bocca, le sue dita premettero sul collo di Wakatoshi, guidandone i movimenti, anticipando l’azione.
    L’asso sussultò.
    Hinata scostò la mano come se si fosse scottato.
    “Scusa… scusa, io…”
    “Non ti preoccupare.”
    “Ma non volevo, cioè… sì… insomma…”
    Shoyo, non…”
    La sorpresa, questa volta, rimbalzò dall’uno all’altro.  
    Non aveva mai chiamato Hinata per nome, o meglio, si era sempre rifiutato di farlo. Era una cosa abbastanza ridicola visto che lui stesso aveva permesso al ragazzino di rinunciare alle formalità, e quello, di rimando, aveva insistito fino allo sfinimento per convincerlo a prendersi la medesima confidenza, tuttavia, se da una parte Wakatoshi poteva scendere a patti con il fatto che Hinata accorciasse la distanza che li poneva agli antipodi, dall’altra valicare di sua sponte la linea di confine, era qualcosa che non avrebbe potuto accettare in alcuna maniera.
    Eppure, gli era venuto così spontaneo usare quel nome, adesso. Gli si era srotolato sulla lingua con una facilità inaudita, e seppure sarebbe stato complicato affrontarne le conseguenze, un angolo nemmeno troppo remoto del cervello di Wakatoshi pensò che quel suono, tutto sommato, gli piaceva.
    Sollevò il capo di scatto, rimanendo incastrato negli occhi giganteschi di Hinata.
    “È la prima volta che usi il mio nome.” mormorò il ragazzino, in un ipnotico sfarfallio di ciglia.
    “Mi è uscito di getto.” ribatté l’asso, onestamente.
    “Mi piace come lo dici.”
    Di nuovo, Wakatoshi ebbe la netta impressione che le parole fossero sgorgate dalle labbra di Hinata senza che quello lo avesse voluto davvero. Le sue mani ancora ferme a mezz’aria, infatti, ebbero uno spasmo più che evidente, indietreggiò di un passo come una preda sul punto di fuggire, mentre il suo viso assunse una tonalità rosso accesso, molto simile a quella dei suoi capelli.
    Wakatoshi bevve silenziosamente ognuno di quei dettagli, incapace di distogliere lo sguardo.
    Aveva un bel viso, Hinata Shoyo.
    Era la prima volta che lo notava.
    Era delicato, tondo, con un bel naso diritto, gli occhi grandi, la bocca morbida e sempre un po' screpolata.
    Era piccolo.
    Così piccolo che probabilmente Wakatoshi sarebbe riuscito a racchiuderlo nel palmo di una sola mano senza troppi problemi.
    Immaginò di farlo.
    Immaginò di farlo e, all’improvviso, fu come se qualcuno avesse appena premuto sul pedale dell’acceleratore.
    Il cervello di Wakatoshi non si fermò all’immagine curiosa, innocua, delle sue dita intorno al volto del ragazzino, schizzò in avanti, immaginò di afferrarlo e far combaciare le loro labbra, assaggiarle, scoprirne la consistenza e il sapore. Immaginò di baciare la pelle del suo collo niveo, di avvertire i suoi singulti imbarazzati direttamente nel padiglione auricolare e poi immaginò di stringerlo, di portarselo addosso, magari di sollevarlo su quella penisola della cucina e continuare a sondarlo ovunque con le mani.
    Saltò giù dallo sgabello che riusciva a respirare a stento, la pancia bollente come in preda alla febbre.
    Stava perdendo il lume della ragione.
    “Japan…”
    “Devo andare in farmacia, mi serve una pomata.”
    Recuperò la maglia cercandola a tentoni, ben attento a non incontrare lo sguardo di Hinata nemmeno per errore.
    “Cosa? Ma non ho finito di metterti le bende sulla spalla, sono tutte storte…”
    “Non ti preoccupare.”
    Afferrò la prima felpa che gli capitò sotto tiro e corse fuori di casa.
     
    ***
     

    Cosa gli stava succedendo?
    Era quella la domanda che il cervello di Wakatoshi stava continuando a porsi ininterrottamente, mentre a grandi falcate percorreva a ritroso il tragitto che lo aveva condotto fino alla farmacia.
    Non aveva davvero bisogno di quella pomata – nepossedeva almeno due confezioni quasi completamente integre nel cassetto dei medicinali in cucina – allo stesso tempo, tuttavia, sapeva che se non si fosse allontanato da Hinata Shoyo in quel preciso momento, non avrebbe più risposto di sé.
    Ma per fare che cosa, poi?
    Se avesse perso il controllo, cosa sarebbe accaduto?
    Dove lo stava portando il suo corpo?
    Possibile che, quel flash a sfondo sessuale che aveva avuto poc’anzi, corrispondesse ai suoi reali desideri? Era davvero questo che voleva dal ragazzino? Fargli quel genere di cose?
    Da un punto di vista strettamente biologico, sapeva che era normale, a diciotto anni, provare pulsioni simili, il fatto di provarle nei confronti di un altro maschio lo lasciava del tutto indifferente – era già successo, e poi Wakatoshi non aveva mai capito questa ansia sociale riguardo l’omosessualità. Alla gente piaceva chi piaceva, che importanza aveva il suo sesso?
    Il problema, dunque, era che l’oggetto di queste fantasie fosse proprio Hinata Shoyo? Una persona che aveva professato di odiare fino a qualche settimana prima? Colui che aveva scardinato ogni sua certezza, rovesciato ogni suo punto di equilibrio?
    Non riusciva a capire.
    Era tutto così maledettamente confuso…
    Si alzò il cappuccio della felpa sopra la testa, strinse tra le dita la bustina dei medicinali e affrettò il passo. Una pioggerellina leggera aveva cominciato a cadere, ma il cielo plumbeo, insieme ad alcuni tuoni in lontananza non promettevano nulla di buono: erano giorni che Miyagi era interessata da rovesci più che consistenti e sebbene i temporali non lo avessero mai spaventato prima di allora, dopo la brutta esperienza in cui era svenuto in preda alla febbre, Wakatoshi aveva sviluppato una certa avversione verso di essi.
    Con la testa china per proteggersi dalle gocce sempre più insistenti, imboccò quindi il vialetto di casa e divorò, correndo, gli ultimi metri che lo dividevano dalla porta.
    Una volta dentro, mentre si toglieva le scarpe e la felpa zuppa, si scoprì a sperare che il ragazzino avesse deciso di andare a fare la doccia, in modo da dargli l’agio di rifugiarsi nella sua stanza e chiudervisi dentro fino all’indomani mattina. Poggiò la busta della farmacia sul mobiletto di ingresso e scese gli scalini che lo dividevano dal soggiorno, sporgendosi sul muro a sinistra per posare le chiavi sull’apposito gancetto, dove…
    “Hola, mi niño.” 
    Le chiavi gli caddero dalle mani in un tonfo metallico.
    Sul divano, Hinata era seduto accanto ad una signora sulla settantina dai capelli mori striati di bianco, la carnagione scura e due occhi come fondi di pozzo, profondi e attenti, nerissimi. Il suo corpo generoso era avvolto in degli abiti dai colori sgargianti, un tripudio di rosso e di arancione; nonostante il sorriso morbido che le raggrinziva le rughe del viso, stava dritta e composta, le braccia massicce posate conserte sulle cosce, in una posa che suggeriva una vita di formalità rispettate e ormai ben conosciute.
    Nana…” mormorò Wakatoshi, ancora incredulo di avere la donna innanzi ai suoi occhi.
    “Wakatoshi! Questa signora è appena arrivata, ha detto che ti conosceva, per questo l’ho fatta accomodare!” esclamò Hinata, arrampicandosi sul divano per guardarlo con due occhi dubbiosi, di chi spera ardentemente di non aver commesso un errore.
    “Hai fatto bene.” rispose l’asso, prima di camminare lentamente nel soggiorno, fino a ritrovarsi di fronte ai due “Hinata, lei è Nana, è la governante di casa Ushijima.”
    La reazione della donna non tardò ad arrivare: come era sua abitudine, scattò in piedi con un’agilità insospettabile, circondò il busto di Wakatoshi e se lo strinse forte al suo petto, ridendo di gusto.
    “Mi niño, mi niño, mi niño…” ripeté nella sua lingua, con le lacrime agli occhi “Vaya, qué grande te has hecho! Y que lindo eres, madre mía! Guarda, come ti sei fatto grande! E come sei bello, mamma mia!
    “Nana, ya sabes que soy alto, por qué siempre te sorprendes? Nana, sai già che sono alto, perché ti sorprendi sempre?
    “¡No es verdad! ¡Cada vez te veo más alto y más hermoso! Non è vero! Ogni volta sei più alto e più bello!
    Wakatoshi sorrise, stringendo una spalla della donna per allontanarla da sé gentilmente.
    Era stato impreciso, prima. Nana non era semplicemente la storica governante di casa Ushijima, era la persona a cui Wakatoshi associava il concetto stesso di famiglia. Nana era in ogni suo ricordo di infanzia. Era colei che gli aveva insegnato ad allacciarsi le scarpe, a preparare correttamente la borsa della palestra. Era colei che da piccolo lo aiutava a mettersi a letto e gli augurava di fare bei sogni, era colei che ancora adesso lo chiamava una volta alla settimana, esordendo con quell’epiteto in spagnolo, la sua lingua madre, “Mi niño – bambino mio”, chiedendogli di raccontargli la sua vita, le partite che aveva vinto, la scuola, i compagni.
    Proveniva dal Messico, era fuggita dal suo paese a causa di un marito violento, giocatore d’azzardo. Era arrivata in Giappone per puro caso, senza una lira in tasca: disperata, si era affidata al buon cuore di una donna conosciuta al porto, la quale, nascondendola nella stiva della nave su cui lavorava come cuoca, le aveva offerto l’unica via di salvezza possibile. Non aveva mai avuto figli, il marito l’aveva costretta ad abortire tutte le volte in cui era rimasta incinta, però non se ne rammaricava: diceva che Wakatoshi era il suo unico bambino e quando lui obiettava che non era vero, il loro sangue era diverso, lei di rimando scuoteva la testa, rideva forte e diceva ‘il sangue dice un sacco di bugie, non gli credere mai!’
    “Perché sei qui, Nana?” le chiese, comunque, invitandola ad accomodarsi di nuovo sul divano.
    In effetti, era più che bizzarro averla lì, in casa sua.
    Nana aveva cercato in tutti i modi di seguirlo, dopo che si era trasferito in quella dimora, e i primi tempi aveva fatto carte false per andarlo a trovare e accudirlo come suo solito, finché non glielo era stato proibito categoricamente: Wakatoshi doveva seguire le direttive del suo staff, doveva stare dietro agli allenamenti, qualsiasi interferenza esterna sarebbe stata unicamente d’intralcio.
    Mi niño, sei sicuro di stare bene?” domandò intanto la donna, osservandolo con una certa apprensione “Sembri molto stanco! E quanto sei magro, madre mia! Quegli idioti ti fanno mangiare abbastanza? Riposi bene la notte?”
    “Sì, Nana, te l’ho già detto a telefono.”
    “Non è vero, ultimamente sta lavorando il triplo!” si intromise Hinata, di punto in bianco.
    “Cosa?! È la verità?!” si allarmò subito Nana, portandosi le mani al petto.
    “Hinata non…” provò Wakatoshi ma, come al solito, venne investito dall’energia dirompente del ragazzino.
    “Stanno esagerando! Lo stanno spompando! Dovrebbe parlare con loro e rallentare i ritmi!” inveì ancora Hinata.
    “Quei maledetti! È meglio che non me li trovi mai sotto le mani, guarda! Potrei farli a pezzettini!” si infervorò a sua volta Nana, perdendo tutta la compostezza che aveva esibito fino a qualche istante prima “Sai, tu mi piaci tanto, piccino! Ti si legge negli occhi che hai il cuore buono!” disse quindi al più piccolo, elargendogli perfino una carezza sulla guancia.
    “G-grazie!”
    “E che bei capelli che hai! Che bel colore! Pareces una pequeña naranja! Sembri una piccola arancia!
    Wakatoshi assistette alla scena perplesso ma, per certi versi, anche vagamente divertito.
    Visti così, Hinata e Nana sembravano brillare della stessa luce, emettere gli stessi riverberi, come due gemme illuminate da un unico raggio di sole.
    “Nana,” li interruppe suo malgrado, poco dopo, “non hai risposto alla mia domanda: perché sei qui?” le fece chiese quindi, con una certa urgenza.
    Era felice che Nana fosse venuta a trovarlo, davvero, il problema era che Wakatoshi sentiva che c’era sotto dell’altro e se proveniva da chi sospettava lui, non avrebbe portato a niente di buono.
    Quando l’espressione sul viso della governante cambiò, seppe di avere ragione.
    E qualcosa, nelle sue viscere, si congelò all’istante.
    “Tua nonna ha chiesto di vederti, stasera a cena.” gli disse infatti, abbassando il capo con espressione desolata.
    L’asso serrò i pugni lungo i fianchi.
    “Sì, d’accordo.” si affrettò ad asserire; a quel punto, si voltò verso il ragazzino, “Hinata, io non ci sarò a cena stasera, quindi…”
    “No!” proruppe Nana, cogliendolo alla sprovvista “L’invito a cena è anche per il tuo coinquilino.”
     
    Lo stomaco di Wakatoshi si chiuse in una morsa.
     
     
     
     

    NOTE AUTORE
    Buongiorno amici, che piacere ritrovarvi!
    Scusate se mi sono fatta attendere, purtroppo negli ultimi tempi la mia real life si è fatta un po' incasinata! Per quanto scrivere rappresenti una irrinunciabile valvola di sfogo per me, trovare il tempo – e la testa- a volte diventa complicato… perdonatemi in anticipo se andrò un poco a rilento, ma ci sono! Non ho alcuna intenzione di abbandonare i miei piccini!
     
    Non ora soprattutto che siamo arrivati ad una parte tanto importante della storia!
    Ebbene sì, finalmente avete fatto la conoscenza di Nana, un nome che avete sentito nominare spesso negli scorsi capitoli. Come ve l’eravate immaginata? Chi pensavate che fosse? Sono curiosissima di sentire le vostre impressioni al riguardo!
    Sottolineo che il personaggio di Nana è tutta farina del mio sacco, non esiste assolutamente nel canone, pertanto me ne prendo tutti i diritti (e me ne assumo tutte le responsabilità! :P).
     
    Ad ogni modo, la presentazione di Nana non è stato l’unico punto focale del capitolo.
    Dopo tante elucubrazioni, infatti, l’istinto di Ushijima sta avendo la meglio e l’attrazione che sente verso Hinata si sta facendo sempre più presente.
    Per adesso, l’asso associa tutto questo ad un fattore prettamente fisico, ma le avvisaglie di qualcosa di più profondo ci sono tutte. Il concetto è che Wakatoshi – ormai lo sapete- non comprende molti meccanismi affettivi che umanamente considereremo semplici e intuitivi, d’altra parte invece gli istinti sessuali, in quanto inerenti alla sfera fisica, secondo me potrebbero risultargli molto più immediati.
    D’altronde… avete notato che Wakatoshi ogni tanto fa menzione ad una “attrazione sessuale passata”? Ebbene sì! Non vi preoccupate, tutto sarà spiegato a tempo debito!
     
    Come avrete intuito, nel prossimo capitolo faremo la conoscenza della famiglia di Ushijima.
    Dico solo: preparatevi…
     
    A presto,
    Violet Sparks
     
     
     

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    Capitolo 20
    *** Cronache familiari (Parte I) ***


    CAPITOLO XX
    Cronache familiari
    (Parte I)
     
     
    Puoi costruire una casa con qualunque cosa,
    renderla solida quanto vuoi.
    Ma una casa, una casa vera,
    è più fragile di quattro mura.
    Una casa vera è fatta dalle persone con cui la riempi.
    E le persone posso spezzarsi.
    Grey’s Anatomy
     
     
     
    Hinata conosceva il quartiere Aoba-Ju, ma soltanto di fama.
    Il motivo era semplice: si trattava in assoluto della zona residenziale più ricca e snob dell’intera prefettura di Miyagi e per sua sfortuna - o fortuna- non aveva mai conosciuto nessuno che abitasse lì.
    I suoi coetanei, quali figli di banchieri, avvocati, manager e politici di spicco, non frequentavano certo le stesse scuole di Hinata, studiavano all’estero, prediligevano quello o quell’altro istituto internazionale di Tokyo oppure, come Ushijima, sceglievano la famosa Accademia Shiratorizawa. I ragazzi di Aoba-Ju erano abituati a chiedere e a ottenere, a vedere esaudito ogni loro desiderio; si incontravano in caffè del centro, dove una fetta di torta costava quanto un intero pasto, facevano shopping soltanto in boutique italiane di lusso, passavano le loro vacanze in Provenza o in Grecia.
    Era per questo che, mentre saliva sul sedile posteriore della Porsche Macan che li era venuti a prendere, Shoyo si era preparato psicologicamente alla prospettiva di sentirsi del tutto inadeguato.
    E, purtroppo per lui, quando l’autista aprì per loro la portiera dell’autovettura di fronte alla casa privata più bella e lussuosa che avesse mai visto in tutta la sua vita, seppe che i suoi timori erano assolutamente fondati.
    La casa degli Ushijima era un complesso in stile orientale sviluppato su tre piani, antico nelle fondamenta, nel suo animo più profondo, eppure estremamente moderno nella scelta delle linee, dei dettagli, dei colori, due mondi che convivevano, armonizzandosi tra di loro senza alcuno sforzo, in un equilibrio perfetto che trasmetteva immediatamente un senso di rigore e di ricercatezza.
    Shoyo rimase incantato dal meraviglioso giardino che circondava la struttura, fatto di siepi curatissime, fiori dai colori sgargianti e alberi rigogliosi, i quali si dipanavano lungo tutto il perimetro del cortile, come a volerlo proteggere dal mondo circostante. Le gradinate di pietra, che congiungevano il cancello principale all’ingresso, erano accompagnate da un gioco di cascate e specchi d’acqua alquanto scenografico, reso ancora più affascinante dalla presenza di una miriade di carpe bianche e rosse che nuotavano pacifiche e da bonsai di tasso ritagliati in forme artistiche, sapientemente curate, mentre di tanto in tanto, nascoste tra le edere rampicanti, facevano capolino delle statue dai musi un po' buffi, raffiguranti divinità ancestrali.
    Quando giunsero nel porticato, Hinata non poté fare a meno di ammirare il legno scuro e levigato che rifiniva le mura dell’intera abitazione, le ampie vetrate che si intervallavano ai pannelli tradizionali, da cui era possibile scorgere la finezza degli interni.
    All’improvviso, la porta si aprì innanzi a loro rivelando la morbida figura di Nana.
    “Entrate, piccoli, avanti!” affermò la domestica con un piccolo inchino, prima di scostarsi quel tanto che bastava affinché potessero entrare “Benvenuto, Hinata, spero che il viaggio in macchina sia stato comodo.”
    “G-grazie, Nana! Certo, comodissimo, il più comodo della mia v-vita!”
    La risposta della donna fu una leggera risata.
    C’era qualcosa di diverso in lei, Hinata lo percepiva a pelle, eppure non avrebbe saputo spiegare esattamente cosa. Forse era la rigida uniforme grigia che indossava, così diversa dal vestito allegro e variopinto con cui si era presentata alla porta di Wakatoshi appena qualche ora prima, oppure erano i lunghi cappelli striati, ora impietosamente raccolti in una crocchia bassa, fatto stava che tutto il suo aspetto appariva molto più disciplinato e monotono di quanto non fosse sembrato in precedenza, e perfino il sorriso materno con cui si rivolgeva sempre a Wakatoshi, si era trasformato in una specie di corda tesa.
    “Vado ad informare la signora che siete qui.” li avvisò comunque, in tono pratico, mentre lui e Wakatoshi toglievano le scarpe per infilare le comode ciabatte che erano state messe loro a disposizioni in dei sacchi di iuta “Cariño, ¿te importaría llevar a Hinata al salón tú mismo? ¿Conoces el camino, verdad? Tesoro, ti dispiacerebbe portare tu stesso Hinata in soggiorno? Conosci la strada, giusto?
    “Certo, Nana.” rispose l’interpellato “Hinata, seguimi, per favore.”
    Si incamminarono lungo un dedalo di corridoi stretti, piuttosto cupi, in cui Shoyo avvertì quasi subito il bisogno di fissare la propria attenzione sulla schiena del giovane asso di fronte a sé per alleviare l’agitazione che gli stava montando dentro, complice il silenzio tombale che pareva albergare nella dimora; superarono delle porte chiuse rifinite in argento, una serie di quadri di caccia e di natura morta dall’aspetto piuttosto angoscioso e diversi suppellettili decisamente preziosi, infine, arrivarono in quella che doveva essere la sala principale della struttura.
    L’ambiente che li accolse era eclettico, sofisticato.
    Per certi versi, Hinata pensò che somigliasse molto a quello presente in casa del campione della Shiratorizawa, complici gli spazi ampi e il medesimo design spiccatamente moderno, eppure l’aura che emanava era del tutto differente – e no, non gli piaceva.
    Se l’abitazione di Wakatoshi trasmetteva ordine, eleganza, ma anche confort e accessibilità, il luogo in cui si trovava adesso puzzava di privilegio, come un santuario destinato ad una piccolissima cerchia di adepti, dove sentirsi inadeguati era praticamente inevitabile. Le luci soffuse, il susseguirsi di toni scuri, il taglio netto del mobilio, gli oggetti in stile orientale dai tratti all’avanguardia, tanto armonici quanto fatalmente nudi ed essenziali, rendevano l’aria satura, quasi asfissiante, greve al punto da risultare intimidatoria.
    Né le enormi finestre che affacciavano sul giardino né l’ampio tavolo di mogano riuscivano a donare alla stanza un seppur vago senso di familiarità, così come i pregiati tappeti in terra o i grandi dipinti appesi alle pareti erano in grado di smorzarne l’alterigia: era come se ogni singolo dettaglio della dimora degli Ushijima fosse stato pensato per rimarcare la netta superiorità di coloro che risiedevano al suo interno, vessillo di un malcelato senso di superbia.
    Sopraffatto, Shoyo prese a torturarsi i polsini della camicia, tirandoli e ritirandoli giù fino alle nocche con scatti nervosi della mano.
    Quello non era il suo posto, era evidente.
    Lui non aveva nulla a che vedere con tanta ricchezza, tanto prestigio.
    Si sentiva come se da un momento all’altro, gli arabeschi dorati di quegli ornamenti potessero agguantargli le caviglie e trascinarlo fuori dal cancello, come se il marmo lucidissimo del pavimento di colpo potesse inghiottirlo per poi sputarlo via, lontano da quel mondo di ricchezze.
    Sospirando, sollevò gli occhi verso Wakatoshi, ritto immobile al suo fianco.
    “Tu hai vissuto qui?” chiese quindi, in un misto di curiosità e apprensione.
    Avrebbe mentito, Shoyo, se avesse detto di non aver mai provato una curiosità quasi morbosa verso la storia famigliare di Ushijima Wakatoshi. Racimolando qualche briciola qua e là, aveva intuito che i suoi genitori dovevano essersi separati quando lui era molto piccolo, tuttavia non aveva mai compreso il tenore del rapporto che il campione intratteneva con i suoi congiunti, soprattutto perché egli mostrava una palese reticenza persino a menzionare i loro nomi.
    In effetti, anche di fronte a quella semplice domanda, l’asso scrollò le spalle, in segno di disagio e “Sì, quando i miei genitori hanno divorziato, ho vissuto qui per un periodo.” si limitò a rispondere, freddo e conciso.
    Hinata deglutì, rammaricato: quella casa sembrava tutto fuorché un luogo adatto a crescere un bambino.
    Di sottecchi, prese a studiare il volto di Wakatoshi.
    Quando lo aveva visto uscire dalla sua stanza, pronto per uscire, si era vergognato per le immagini assolutamente indecenti che la sua mente aveva partorito alla vista del ragazzo. A sua discolpa, tuttavia, andava ammesso che Ushijima non era mai stato così elegante, così bello. Il suo corpo scultoreo era perfettamente fasciato in un paio di pantaloni grigio scuro dal taglio classico, stretti in vita da tre fibbie metalliche che rendevano superfluo l’uso di una cintura, mentre sopra portava una camicia bianca, scollata alla coreana, lasciata aperta quel tanto che bastava ad intravedere la pelle olivastra del petto.
    Hinata aveva sentito il desiderio vibrargli nel sangue, scaldargli le viscere del bassoventre, salvo poi essere attraversato da un brivido freddo nell’istante in cui aveva incontrato il suo sguardo.
    Nel corso di quelle settimane, Shoyo aveva conosciuto tante sfumature di Ushijima Wakatoshi.
    Lo aveva visto arrabbiato, frustrato, esaltato, confuso. Aveva imparato a memoria ognuna delle minuscole, impercettibili increspature del suo volto, aveva capito come interpretarle, come riconoscerle, le aveva catalogate una ad una per custodirle dentro di sé come un tesoro prezioso, eppure quella era stata la prima volta che aveva scorto su di lui i tratti inconfondibili dell’angoscia, e la cosa lo aveva lasciato frastornato.
    Anche il ragazzo dei miracoli poteva provare paura, dunque?
    Ma di cosa, poi?
    Erano a casa sua, dopotutto, in un luogo a lui famigliare…
    All’improvviso, il giovane asso ruotò il capo verso di lui, facendolo trasalire.
    In fondo ai suoi occhi verdi, Shoyo scorse un’ombra.
    “Hinata, per quanto riguarda mia nonna, c’è una cosa che…”
    “Wakatoshi, sei tu?”
    Entrambi si voltarono contemporaneamente verso il fondo della sala.
    La proprietaria di quella voce flebile, musicale, era una donna slanciata dai lunghi capelli castani, la pelle talmente diafana da lasciare intravedere le venature blu dei polsi. Portava un vestito di raso bianco, il quale non faceva altro che accentuare la natura magra e nodosa del suo corpo, i suoi occhi smeraldo erano lucidi di emozione e la sua bocca rosa era aperta in un sorriso fragile, incrinato.
    Sembrava sul punto di disfarsi, di cadere in pezzi lì, sul pavimento, come un vaso di cristallo.
    Hinata pensò fosse bellissima.
    “Mamma…”
    Doveva aver sentito male.
    La donna che aveva di fronte era troppo, troppo giovane per essere la madre di un ragazzo di diciassette anni, e poi era così diversa da Ushijima – solido, dorato, potente.
    No, non era possibile.
    Non poteva essere vero.
    Eppure, i dubbi di Hinata si sgretolarono rapidamente nel momento in cui ella si mosse verso di loro senza emettere alcun suono, posò entrambe le mani ai lati della faccia del giovane asso, dopodiché congiunse le loro fronti, emettendo un sospiro rotto, di commozione.
    Si era sbagliato.
    Della madre, Wakatoshi aveva la forma fine del naso, il taglio degli occhi, le spigolature nette del viso, la curva più pronunciata del labbro superiore. Da lei aveva preso il modo incerto di sorridere, la tendenza a scandire ogni sillaba delle parole sulla lingua, quella sottile prepotenza nel toccare le cose del mondo a palmi aperti, in pienezza.
    “Sono così felice di vederti.” disse la donna debolmente, chiudendo le palpebre.
    “Ciao, mamma.” sussurrò soltanto Wakatoshi, prima di poggiare le dita sulle sue e ricoprirle completamente. 
    Shoyo non ricordava di avergli mai visto quella tenerezza nello sguardo, quella delicatezza nei gesti.
    D’un tratto si sentì di troppo, spettatore indiscreto di un momento assolutamente intimo in cui non vi era posto per nessun’altro al di fuori delle persone agli estremi del cordone ombelicale che si era appena manifestato nella stanza, per cui istintivamente fece un passo indietro, desiderando confondersi con lo spazio circostante.
    “Come stai? Dimmi che stai bene, dimmi che sei felice!”
    “Mamma, sto bene, tranquilla.”
    “Sei così bello… sei un uomo, oramai…”
    “È solo che non mi vedi da tempo.”
    “Mi manchi così tanto… così tanto…” tremò, una lacrima trasparente le solcò una guancia “Ti penso sempre, tutti i giorni… voglio solo che tu stia bene, Wakatoshi, è l’unica cosa importante… l’unica cosa che conta per me…”
    “Oh Akiko, basta con queste stupide smancerie, ci metti tutti in imbarazzo.” 
    Quelle parole trapassarono l’aria simili ad una freccia scagliata verso il bersaglio, risucchiando tutta l’atmosfera di calore che si era creata tra madre e figlio, e mutando perfino la temperatura della stanza, facendola rarefatta, gelida.
    La madre di Wakatoshi, Akiko, si ritrasse di scatto per poi cingersi il busto tra le sue stesse braccia come una bambina piccola, mentre il capitano della Shiratorizawa parve tendere ogni muscolo del proprio corpo, serrando la mascella talmente forte da creare un solco nei suoi lineamenti già granitici.
    Vi era una donna anziana dall’altra parte della sala principale degli Ushijima.
    Se ne stava dritta e imperscrutabile, appoggiata ad un bastone di legno scuro con la testa d’argento; guardava verso di loro immobile, senza dire una parola, eppure la sua sola presenza sembrava strabordare dalle pareti, riempire l’ambiente fino al soffitto, premendo perfino contro le vetrate altissime, oltre le quali stava cominciando a calare la sera.
    Quando si mosse, prendendo a camminare nella loro direzione, i suoi passi e il suono cadenzato del bastone che toccava il pavimento, risuonarono nel silenzio – toc toc toc – e così anche l’energia che la circondava prese a pulsare in sincronia coi suoi movimenti, emettendo scariche elettrostatiche che Hinata avvertì fin dentro le ossa.
    “Buonasera, nonna.” la salutò Wakatoshi, piegando il busto in segno di rispetto.
    “Bentornato, Wakatoshi.” si limitò a rispondere quella, affilando lo sguardo.
    La sua voce era roca, ma ferma; il suo viso spigoloso era percorso da rughe profonde, le quali solcavano soprattutto gli angoli degli occhi e il contorno della bocca, per poi scendere lungo il collo sottile, elegantemente adornato da un giro di perle, per il resto, invece, la sua pelle appariva tesa e acquosa come un lenzuolo umido, appena lavato. Hinata notò che anche lei, nonostante le spalle ricurve, era piuttosto alta, sicuramente magra. I suoi capelli erano raccolti in uno chignon, per cui era impossibile definirne la lunghezza, tuttavia il loro colore era di un corvino innaturale, specchio perfetto delle sue iridi buie. 
    Aveva un portamento regale, altero.
    Tutto in lei esprimeva fierezza, dal mento alto al modo di congiungere le mani sul bastone, dai gioielli che indossava con la grazia di una nobildonna all’espressione di gelida accondiscendenza disegnata sul suo volto.
    Era quello, in effetti, a preoccupare Hinata sopra ogni cosa: più la guardava, più non riusciva a comprendere che cosa passasse per la testa della signora Ushijima. Gli sembrava di essere di fronte ad una maschera splendente e misteriosa, oltre la quale guardare non era concesso.
    Di istinto, tuttavia, Hinata intuì che doveva nascondere un abisso.
    Un abisso in cui sporgersi faceva dannatamente paura.
    “Sei dimagrito, dall’ultima volta che ti ho visto.” asserì dal nulla la donna, inclinando un poco il capo per studiare il nipote da capo a piedi.
    Wakatoshi strinse le labbra, preso in contropiede e “Non saprei…” rispose soltanto.
    “Non era una domanda, era una constatazione.”
    “Forse ho perso qualche chilo, sì.”
    “Forse? Con tutti i medici, i preparatori atletici e i programmi che io e il tuo staff prepariamo minuziosamente per te, tu ti permetti il lusso di non conoscere una informazione così importante come il tuo peso corporeo?”
    Shoyo sentì il colpo che quella affermazione inferì a Wakatoshi, come fosse stato rivolto a lui.
    La cosa che più lo straniva era che la donna di fronte a loro non aveva usato alcuna sfumatura collerica o di irritazione nella propria voce, così come non vi era la benché minima ombra di biasimo sui suoi tratti, eppure in quel suo sorrisetto inespressivo, in quel suo contegno ghiacciato simile ad una stalattite, c’era qualcosa di così feroce e di così spietato che era inevitabile esserne atterriti.
    “Il piano alimentare e gli allenamenti sono molto rigidi ultimamente.” affermò comunque il campione, inalando un profondo respiro. Era arrabbiato, era evidente; teneva lo sguardo fisso innanzi a sé, ma stando ben attento a non incontrare quello della nonna e poi stava stringendo i pugni, lungo i fianchi, con una intensità tale da farsi venire le nocche bianche.
    “Niente che non sia assolutamente necessario, Wakatoshi, lo sai.” ribatté la donna, tranquillamente “D’altronde, hai bisogno di recuperare il tempo perduto dopo quella scampagnata del tutto superflua che hai preteso di fare coi tuoi amici, o sbaglio?”
    “È stata solo una giornata…”
    “Una giornata che ti è costata una febbre e tre giorni di fermo.”
    Wakatoshi rimase in silenzio, incapace di replicare.
    A quel punto, la anziana si sporse leggermente verso di lui, sollevò una mano e la posò tra i capelli del giovane asso, il quale fu costretto, questa volta, a fissare la nonna dritto negli occhi.
    “Noi facciamo tutto questo per te, lo sai vero?” fece quindi, con un tono morbido che Shoyo trovò assolutamente fasullo, arcuando appena il suo sorriso incolore “Vogliamo solo e soltanto il meglio per te e la tua carriera, ma è importante che tu…”
    “Che io mi fidi del tuo giudizio e faccia qualche sacrificio.” recitò Wakatoshi, come se stesse ripetendo una vecchia filastrocca; alla fine, emise un lungo sospiro, rilassò le spalle e annuì lentamente “Sì, hai ragione, nonna.”
    “Il mio ragazzo dei miracoli…” sibilò allora la donna, con un lampo di orgoglio negli occhi neri.
    Shoyo non era affatto preparato, quando all’improvviso quella si voltò verso di lui.
    Lo inchiodò lì dov’era, con un’aria a metà tra il curioso e l’altezzoso, quindi prese ad analizzarlo come fosse una cavia da laboratorio, senza nemmeno preoccuparsi di dissimulare la scortesia.   
    “B-buonasera, signora Ushijima, i-io so-sono Hinata Shoyo” si sentì in obbligo di dire, esibendosi in un profondo inchino, se non altro per interrompere l’esame certosino che stava avvenendo sulla sua persona.
    “Sì, lo so chi sei.” precisò la nonna di Wakatoshi, compiendo qualche passo verso di lui “Io sono la padrona di casa, nonché capo di questa famiglia. Il mio nome è Midori Ushijima.”
    Shoyo rabbrividì.
    Lo so chi sei.
    Poteva sembrare una frase banale, una asserzione di circostanza, ma non lo era: Midori Ushijima si stava ergendo un gradino sopra di lui, stava implicitamente puntualizzando che, sebbene non fosse presente con loro in casa, ella esercitava una vigilanza quasi costante sulla vita del nipote, al punto da conoscerne ogni più piccolo dettaglio.
    “Morivo dalla voglia di conoscerti, sai Hinata? Soprattutto da quando ho scoperto che la tua convivenza con mio nipote si è prolungata tanto.” disse Midori, il solito sorrisetto stampato sul volto, nonostante la marcata insinuazione nella sua voce.
    “Non è una convivenza, mamma, è una situazione temporanea, Wakatoshi te lo ha già spiegato…” intervenne Akiko per la prima volta, tremolando.
    Hinata notò che se ne stava in un angolo della stanza, a capo chino, ancora stretta tra le sue stesse braccia come se le facesse paura anche il mero atto di respirare. 
    “Temporanea?” sbottò però la nonna, facendo trasalire la figlia “Tesoro, temo che abbia smesso di essere temporanea settimane fa.”
    Qualcosa, nelle profondità dello stomaco di Shoyo, si contorse: quella donna aveva l’abilità di assestare sferzate così taglienti e precise, da non concedere l’agio, a chi le subiva, nemmeno di difendersi, nemmeno di concepire una via di fuga.
    Bisognava solo incassare, in silenzio, pregando di non subire un altro fendente mortale.
    “Ad ogni modo, non vedo l’ora di conoscerti meglio a cena, Hinata Shoyo. Chissà, forse capirò cosa abbia spinto mio nipote a dedicarti tutta questa attenzione…” sentenziò maligna, dandogli le spalle, dopodiché afferrò la figlia per un braccio e la costrinse a seguirla fuori dalla sala “Wakatoshi, caro, mostra pure al tuo coinquilino il resto della casa.”
    “Grazie.” mormorò Shoyo flebilmente, prima di abbassare la testa in segno di congedo.
    Aveva la pelle d’oca.
     
     
     
     
    NOTE AUTORE
    Vi preparo una camomilla, va bene ragazzi?
    Lo so, Midori Ushijima non vi ha fatto una buona impressione, ma vi avverto… è meglio che preparate la bile, perché quello che avete visto durante questo primo incontro è soltanto la punta dell’iceberg!
     
    In realtà il capitolo, sulla carta, doveva essere molto più lungo, comprendendo anche la scena della cena, tuttavia un po' perché vi ho lasciato a bocca asciutta per parecchio, un po' perché mi sono resa conto di quanto già questo primo approccio con la famiglia Ushijima si fosse dimostrato saturo e corposo, alla fine ho pensato fosse meglio spezzarlo.
    Tranquilli, però! Proprio per questo motivo, la seconda parte del Capitolo XX arriverà molto prima, precisamente mercoledì 15 dicembre!
     
    Sono molto curiosa delle vostre reazioni riguardo Akiko e Midori Ushijima, rispettivamente la mamma e la nonna di Wakatoshi! La storia di questa famiglia deve ancora essere trattata a dovere, ma vi anticipo che costituisce una parte fondamentale di questa parte della long!
    ATTENZIONE: questi personaggi - i loro nomi, la loro caratterizzazione, la loro storia - sono tutta farina del mio sacco, quindi me ne prendo tutti i diritti e le responsabilità! Nel canone, infatti, queste due figure compaiono nella terza stagione, insieme al padre di Wakatoshi, che vive all'estero, precisamente in America; si spiega altresì che i suoi genitori sono divorziati, ma nulla di più! Quindi tutto quello che avete letto e leggerete, al di là di queste informazioni di base, proviene da me, cioè costituisce una mia personale interpretazione della storia di Ushiwaka! 
     
    A presto!
    Violet Sparks
     
     
     
     

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    Capitolo 21
    *** Cronache familiari (Parte II) ***


    CAPITOLO XX
    Cronache familiari
    (Parte II)
     
     
    Nella vita, ci insegnano che esistono sette peccati capitali.
    Tutti noi conosciamo i principali: gola, superbia, lussuria…
    Un peccato di cui non si parla tanto, però, è la rabbia.
    Forse perché pensiamo che la rabbia
    non sia abbastanza pericolosa, che possiamo controllarla.
    Eppure, la rabbia può essere molto,
    molto più letale di quanto immaginiamo.
    Quando porta a comportamenti distruttivi
    diventa il numero uno dei peccati capitali.  
     
     
    Come se un camion gli fosse passato addosso.
    Era così che Shoyo si sentiva dopo il suo disastroso incontro con Midori Ushijima, e quando alla fine si sedette sui gradini del porticato retrostante la dimora, di fronte al meraviglioso giardino ormai bagnato dai colori aranciati del tramonto, non lo sorprese affatto scoprire che gli stavano tremando le mani.
    Non aveva trovato nemmeno la forza di farsi mostrare il resto della casa da Wakatoshi: era troppo provato, troppo arrabbiato, troppo… tutto!
    Non riusciva a comprendere come una persona potesse dimostrare una tale cattiveria, una tale indifferenza verso i sentimenti di coloro che le stavano intorno.
    Il pensiero che Ushijima Wakatoshi fosse vissuto in un ambiente del genere lo amareggiava moltissimo ma, allo stesso tempo, spiegava tanti lati del suo carattere: alcuni modi di pensare, alcuni atteggiamenti, alcune parole dette nel corso di quelle settimane… i lati peggiori del capitano della Shiratorizawa erano figli di quel veleno, ecco quale era la verità! Persino la sua solitudine, il rigore della sua testa, i ritmi febbrili e scanditi al millimetro della sua vita, erano frutto delle macchinazioni della sua famiglia, e Shoyo avrebbe voluto tanto spaccare qualcosa in quel momento, mettersi a urlare oppure tornare indietro nel tempo, trovare l’Ushiwaka del passato e portarlo in salvo dalle idee malsane, tossiche, che Midori Ushijima cercava di inculcare in lui.
    Sospirò, aprendo e chiudendo le dita per recuperare un po' di autocontrollo, quindi alzò il capo verso Wakatoshi, seduto al suo fianco, intento a osservare l’orizzonte.
    Quanto avrebbe desiderato avere il coraggio di abbracciarlo…
    Anche lui era evidentemente provato dalla conversazione avuta con sua nonna, Shoyo glielo leggeva addosso. Pensò a tutte le volte in cui lo aveva intristito il pensiero che il ragazzo possedeva un rapporto così distaccato con la famiglia, fatto di poche e brevi telefonate, invece era una fortuna che la sua carriera lo tenesse lontano da loro, fermo restando che trovava allucinante anche il carico di obblighi, pressioni e aspettative che gli veniva affibbiato persino in quel frangente.
    Oddio, forse stava sbagliando a parlare al plurale.
    Akiko Ushijima, a differenza della capofamiglia, gli era sembrata davvero affezionata a Wakatoshi.
    Prima, ad esempio, quando i due avevano avuto quel momento di intimità in soggiorno, lo sguardo della donna era parso davvero traboccare di amore e di tenerezza nei confronti del figlio, eppure, anche in quel caso, Hinata aveva percepito che c’era qualcosa di storto, di controverso.
    Perché, lasciava che Midori Ushijima esercitasse un tale controllo sulla vita del figlio? Perché non era mai andato a trovarlo a casa? Perché non aveva alzato un dito per proteggerlo, poco prima? Che, dopotutto, anche Akiko fosse d’accordo con le idee e coi metodi di Midori Ushijima? Quanto era profonda l’influenza che quella donna esercitava sui membri della sua famiglia?
    “È stato un errore, dovevo venire da solo.” affermò all’improvviso Wakatoshi, distogliendolo dalle sue elucubrazioni.
    Lo sguardo del ragazzo era ancora lontano, fisso verso il sole calante, aveva il viso leggermente inclinato verso sinistra, poggiato sul dorso della mano, sicché i tendini del suo collo erano tutti in vista, mentre il suo profilo appariva più duro e affilato del solito.
    Era bellissimo.
    “N-non ti preoccupare! Alla fine, l’invito era rivolto anche a me, non avrei mai potuto rifiutare!” balbettò Shoyo, grattandosi nervosamente la nuca.
    “Avresti dovuto, invece. Mi dispiace averti messo in questa situazione, lo so che sei in difficoltà.”
    “N-no, va bene, posso farcela! È solo che… non mi aspettavo che la tua famiglia fosse così… beh, sai…”
    Complicata.” concluse per lui il capitano, buttando fuori l’aria “Sì, è vero. Ma ci sono delle cose, dietro. Tante cose, a dire la verità. A volte mi sembra di stare su una giostra, una giostra che non smette mai di girare.”
    Hinata rimase in silenzio.
    Era la prima volta che vedeva Ushijima Wakatoshi così turbato, così vulnerabile.
    Era un lato di lui che non conosceva affatto e, ne era certo, probabilmente non aveva mai visto nessun’altro sulla faccia della Terra: agli occhi del mondo, il ragazzo dei miracoli era un dio della pallavolo irraggiungibile e potente, un condottiero dall’armatura scintillante, dietro cui combattere senza paura della sconfitta. Eppure, in quell’istante, tra le tenui ombre della sera, a Shoyo sembrò di poter scorgere la carne attraverso le pieghe della sua corazza di ferro, il sangue al di là del bagliore sacrale che lo rivestiva, e così il suo cuore prese a battere furioso, torcendosi, perché sentiva di essere di fronte a qualcosa di raro e, per questo, tanto fragile quanto prezioso.
    “Se vuoi parlarne, i-io ti ascolterò!” esclamò allora il più piccolo, con molta più enfasi di quanto avesse preventivato.
    Desiderava moltissimo essere di sostegno per Wakatoshi, ma non sapeva in che modo farlo, inoltre nutriva il sincero terrore di schermirlo, di vedere scomparire quei piccoli spiragli di umanità, perdendo l’occasione di allacciare un legame vero con lui, forse per la prima e ultima volta.
    Peccato però, che Wakatoshi non fece altro che ruotare le iridi nella sua direzione con aria perplessa, poco meno di un secondo, dopodiché “D’accordo.” affermò senza un briciolo di convinzione e tornò a guardare l’orizzonte, ignorando il suo imbarazzante tentativo di conforto.
    A giudicare dal calore che Hinata sentiva sulle guance, la sua faccia doveva essere diventata fucsia per la vergogna.
    Perfetto, aveva appena rovinato tutto!
    “C-comunque hai una casa bellissima! Sembra di stare in un film!” balbettò quindi, di punto in bianco, giusto per riempire il pesante silenzio che si era creato.
    Vide che l’altro ragazzo increspava la fronte in un’espressione di disappunto e “Non è vero, non ti piace.” sentenziò, con una sicurezza tale nella voce che Hinata rimase interdetto.
    “C-cosa? Ma non è affatto così! È la casa più lussuosa che io abbia mai visto!” tentò di negare, quantomeno per non risultare scortese. 
    “Sei a disagio qui. Tieni gli occhi bassi e non riesci a stare fermo con le mani, quando qualcosa ti spaventa o ti rende nervoso. Lo fai sempre.” 
    Stavolta Shoyo non provò nemmeno a controbattere.
    Lo lasciava sempre un po' sorpreso scoprire quanto profondamente, ormai, Wakatoshi lo conoscesse, con quanta facilità l’asso sembrasse in grado di guardargli dentro, di interpretare le sue reazioni, le sue emozioni, a prescindere da ciò che diceva. Certo, era consapevole di non essere un maestro nel nascondere il proprio cuore, tuttavia, il fatto che fosse proprio Ushiwaka a notare quei dettagli, l’algido campione disinteressato a tutti e a tutto al di fuori della pallavolo, era un pensiero che gli rimescolava il sangue nelle vene.
    “Beh, sì, forse un pochino mi mette a disagio…” confessò allora, torturandosi le labbra coi denti “È che, non sa di casa, ecco! Assomiglia di più… ad un museo! Uno di quelli bellissimi, per carità! Ma anche super-super-seri! Quelli dove se parli troppo forte, ti sgridano!”
    L’altro parve rifletterci un momento, “Sì, in effetti è vero. Forse è per questo che non è mai piaciuta neanche a me.” ribatté infine, sorprendendolo.
    “Sul serio?”
    “Ho sempre preferito la casa di Tokyo, quella in cui sono nato, anche se era un semplice bilocale.” raccontò il ragazzo, ma Hinata aveva la netta impressione che non si stesse rendendo conto di star parlando a qualcuno: sembrava perso nei suoi pensieri, altrove “Questa non è mai stata casa mia. Credo di odiarla, in realtà.
    Hinata ingoiò un singulto di delusione.  
    Era nato a Tokyo, dunque? Quanto a lungo era vissuto lì? Perché si era trasferito? Forse suo padre non era di Miyagi? Perché mai avevano vissuto in un bilocale, pur avendo una famiglia tanto potente alle spalle?
    Quante cose non sapeva di Ushijima… nei giorni passati sotto lo stesso tetto, Shoyo si era illuso di aver stretto una qualche sorta di legame con lui, di aver compreso qualcosa del suo cuore, della sua persona, invece l’asso della Shiratorizawa era ancora un mistero.
    Un mistero che, forse, nessuno sarebbe mai stato in grado di svelare.
    Un pensiero improvviso però, lo fece sorridere.
    “Perché sorridi?” gli domandò subito il ragazzo più grande, incuriosito.
    “Niente… È che alla fine, abbiamo trovato qualcosa che odi più di me, per fortuna!”
    Wakatoshi lo scrutò per un attimo con un sopracciglio sollevato, poi fece una cosa che non aveva mai fatto prima: si mise a ridere.
    Era particolare la risata di Ushijima.
    Strana, per certi versi, ma non per questo meno bella.
    Era gutturale, profonda, simile alla risacca di un mare in tempesta, un suono roco, quasi affaticato, come il motore di uno strumento arrugginito dallo scorrere del tempo. Eppure, nonostante quella cupezza, essa gli ammorbidì tutti i tratti del viso; gli donò una luce inedita, diversa dallo scintillio conturbante che di solito avvolgeva la sua indomita figura di guerriero. Shoyo rimase a guardarlo incantato, senza riuscire a fare niente, il battito cardiaco che pulsava febbrile, ricordandogli quanto profondi, davvero, fossero i sentimenti che provava verso quel ragazzo enigmatico.
    Fu breve, fugace come un lampo.
    Così come era arrivata, infatti, la risata scomparve e l’espressione di Ushijima cambiò di nuovo, facendosi stranamente concentrata, le iridi verde scuro che puntavano verso qualcosa di indefinito alle spalle di Hinata, il quale, ancora un po' imbambolato, impiegò un lasso di tempo piuttosto lungo a tornare in se stesso e ruotare il busto per scoprire cosa mai stesse attirando l’attenzione del giovane del capitano.
    Rasentò l’infarto.
    Ad un palmo dal suo naso, vi era un grosso muso peloso nero e marrone, che lo fissava con due occhioni neri gioiosi e la lingua a penzoloni, contornata da una fila di denti aguzzi.
    “Oh cielo!” esclamò, scattando all’indietro, peccato che il cane, vedendolo agitarsi, dovette pensare che fosse un gioco, per cui gli saltò addosso, finendo quasi per atterrarlo.
    A giudicare dal pelo e della conformazione fisica, doveva trattarsi di un pastore tedesco, ma allora perché diavolo era così grande e così pesante? Sembrava un orso!
    “Stark, basta! Vieni qui!” intervenne in suo aiuto Wakatoshi, tendendo la mano verso l’animale che, ubbidiente, si dimenticò presto di lui e seguì il comando.
    Quando fu accanto all’asso, Stark prese a fargli un sacco di feste, abbaiando, dando veloci lappate al suo viso, cercando carezze con la testa protesa verso il collo del ragazzo, il tutto mentre scodinzolava come un matto e gli saltellava di qua e di là tra le gambe: era una scena dolcissima.
    “Mi dispiace, hai paura dei cani, Hinata?” gli chiese Wakatoshi, continuando ad elargire energiche grattate dietro le orecchie dell’animale. Dopo qualche tentativo, riuscì finalmente a farlo sdraiare accanto a sé, con metà del busto premuto sul suo stomaco.
    “Di solito no, ma lui è piuttosto… imponente!”
    “Effettivamente è piuttosto grande per avere due anni.”
    “Due anni?! Vuoi dirmi che questo sarebbe un cucciolo?!”
    Hinata si protese per studiare meglio Stark, adesso che pareva essersi acquietato in braccio a Wakatoshi. Era davvero un bell’esemplare, col pelo folto e lucido, le zampe forti, lo sguardo espressivo, tuttavia continuava a pensare che fosse a dir poco mastodontico, soprattutto se aveva soltanto due anni!
    Sollevò il capo verso Ushijima che giocava col cane, placido, affondando le dita tra le trame scure della sua pelliccia: sembrava a suo agio, rilassato… Hinata non avrebbe mai immaginato che avesse tanto dimestichezza con gli animali.
    “Stark è tuo?” domandò, a quel punto.
    “No, è di Nana, ma è come se fosse di famiglia, ormai.” spiegò Wakatoshi, beccandosi una sottospecie di bacetto sulla guancia da Stark che lo fece sorridere “È il figlio di Marvie, una femmina che Nana aveva raccolto dalla strada. All’inizio nonna non voleva lasciarla stare qui, ma alla fine sono cani di una buona razza, sono bravi a fare la guardia e poi non danno molto fastidio, per cui gliel’ha concesso.”
    A Hinata venne istintivo roteare gli occhi al cielo: fosse mai che Midori Ushijima facesse qualcosa senza un tornaconto personale!
    “Marvie è morta l’anno scorso, per cui è rimasto solo.” continuò Wakatoshi, ignaro dei suoi pensieri “Avrei voluto tenerlo con me, ma non sono mai a casa purtroppo…”
    “Non pensavo fossi un amante degli animali, Japan!”
    “Sono più semplici delle persone.”
    “Sì, è vero…” convenne Shoyo, scrollando le spalle “P-posso provare ad accarezzarlo o mi salta di nuovo addosso, secondo te?”
    Wakatoshi voltò la testa nella sua direzione, “Non ti preoccupare, se dovesse agitarsi, lo manterrei io.” lo rassicurò, spostando la mano verso la schiena dell’animale, in maniera tale che Hinata avesse campo libero sul collo. Si avvicinò con cautela, un po' impaurito dall’eventualità di vedersi nuovamente sormontato da quel gigante di pelo. Intuendo forse la lieve tensione nell’aria e l’appropinquarsi di un estraneo, Stark drizzò le orecchie e tentò di sollevarsi sulle zampe, ma subito l’altro ragazzo si premurò di tenerlo buono, esercitando una leggera, sebbene autoritaria pressione sul suo dorso.
    Ad ogni modo, non appena Hinata riuscì finalmente a tuffare le dite in quella pelliccia calda e soffice, un sorriso a trentadue denti si disegnò in automatico sulle sue labbra.
    Era fantastico! I muscoli dell’animale ondeggiavano sotto il suo palmo, a ritmo con il respiro quieto e un po' affannoso, i suoi peli lunghissimi gli ricoprivano le dita fin quasi a farle scomparire e il bollore che emanava il suo corpo era come il soffio di un camino acceso d’inverno; la coda che dondolava a destra e a sinistra fece intuire a Shoyo che il suo tocco non gli stava dando fastidio, ma ne ebbe la definitiva conferma quando Stark alzò il muso per dargli qualche colpetto sul braccio col naso umido, e poi una piccola lappata sul retro del collo che gli fece il solletico.
    Mentre rideva, incontrò per sbaglio lo sguardo di Wakatoshi, fermo su di lui.
    Una scarica elettrica gli attraversò la nuca.
    All’improvviso, avvertiva una tensione inspiegabile intorno a loro – in mezzo a loro- un peso senza forma che faceva vibrare l’aria e gli increspava la pelle.
    “Japan…”
    “Io non ti odio, Hinata.” disse l’asso, guardandolo dritto negli occhi “Non ti ho mai odiato.”
    Rabbrividì.
    Immerso nella foresta incontaminata che erano le pupille di Wakatoshi, Shoyo sentì lo stomaco stretto in un pugno, la mente svuotata di ogni cosa. Senza una ragione precisa, il suo sguardo cominciò a vagare sul viso del ragazzo, bevendo avidamente i particolari della sua bellezza – la linea regolare del naso, gli zigomi sporgenti, il modo in cui il fuoco del tramonto lambiva i suoi capelli, scurendoli come rovi; quando arrivò alle labbra, qualcosa gli si sciolse dentro, al centro del petto, allora Shoyo rimase immobile, a lasciarsi cullare da quella sensazione dolce e potente, incapace di fare qualsiasi altra cosa che non fosse star lì a desiderare ardentemente di baciare Ushijima Wakatoshi e dimenticarsi dell’universo.
    Fu un rumore sopra le loro teste a riportarlo alla realtà.
    Akiko Ushijima li stava osservando dal fondo del porticato, splendida e fragile come un fiore.
    A Hinata sembrò di cogliere un bizzarro barlume di sorpresa sul suo viso di porcellana.
    “Ragazzi, la cena è pronta.” mormorò, debolmente.
    Sia lui che Wakatoshi si alzarono in silenzio, lasciando che Stark si addentrasse tra i meandri del giardino, trotterellando tranquillo.
    Non si rivolsero più la parola, nemmeno mentre entravano in casa.
    Una parte di Hinata si chiese se per caso, magari, anche Ushijima Wakatoshi avesse provato lo stesso tumulto che lo aveva colto, pochi istanti prima.
    E ne fosse rimasto turbato, quasi quanto lui.
     
    ***
     
    La cena venne servita nella sala principale, sull’imponente tavolo da pranzo in legno scuro che Shoyo aveva notato poco prima, posto accanto all’enorme vetrata che dava sul giardino ormai buio, contornato dagli enormi dipinti e dagli arazzi dai colori sgargianti appesi alle pareti.
    La sua superficie era stata apparecchiata con uno stile che trovò molto in linea con il resto della casa: elegante, ma con una vaga aggressività di sottofondo. L’oro e l’argento che ornavano le varie componenti della mise en place all’occidentale spiccavano sulla tovaglia bordeaux, scintillando come monili, il cristallo dei bicchieri rifletteva le luci circostanti in un gioco ipnotico, mentre al centro della tavola erano stati disposti due enormi candelabri dall’aria pregiata, evidentemente antichi.
    Hinata prese posto accanto a Wakatoshi, il quale a sua volta sedeva di fronte ad Akiko, alla destra della nonna – composta e gelida neanche fosse una statua, ovviamente a capotavola.
    Nana arrivò con le pietanze qualche secondo dopo che si erano accomodati: uno stufato di carne dall’aspetto delizioso che venne servito a ognuno come pietanza principale, poi riso, verdure grigliate, una zuppa di legumi dal profumo meraviglioso, uova, patate dolci, formaggi.
    Hinata ammirò l’abbondanza di cibo innanzi a sé con l’acquolina in bocca, salvo poi perdere ogni forma di appetito quando lanciò un’occhiata di fianco a sé.
    Nel piatto di Wakatoshi c’era due filetti di carne sottilissimi, senza un filo di condimento, una ciotola di riso in bianco e un paio di foglie di spinaci, anch’esse prive di qualsivoglia intingolo.
    “Ho contatto il tuo staff, abbiamo concordato un nuovo piano alimentare.” asserì Midori Ushijima, mentre portava alla bocca un calice di cristallo contenente del vino “Ho pensato di cominciare da stasera, un pasto squilibrato sarebbe stato del tutto superfluo per la tua dieta, non trovi?”
    “Certo, nonna.” disse Wakatoshi, inespressivo.
    Sapevo che saresti stato d’accordo. Mangiamo, dunque.”
    Hinata prese la forchetta in mano per inerzia, ma non riuscì a fare null’altro che stringerla forte, fortissimo, fino ad imprimerne la forma nel palmo della mano.
    Non capiva come Wakatoshi potesse non accorgersi di quanto tossiche fossero le costanti pressioni psicologiche alle quali lo sottoponeva quella donna, ma la cosa che disgustava maggiormente Shoyo era che, con ogni probabilità, la spiegazione risiedesse nel fatto che, per Wakatoshi, quella rappresentasse la normalità del loro rapporto, l’unica e sola maniera con cui ella si era sempre approcciata a lui, per questo il ragazzo appariva così a disagio di fronte a cose banali come la gentilezza, l’affetto, la comprensione.
    Di sottecchi, studiò gli altri commensali.
    La madre di Ushiwaka spiluccava nel proprio piatto quasi controvoglia, come se l’atto del mangiare fosse una recita da portare avanti giusto per darlo a vedere; dall’altra parte, Wakatoshi mangiava a capo chino, masticando lentamente, fiacco e senza vita come Shoyo non lo aveva mai visto, mentre Midori Ushijima parlava e parlava e parlava, ora di politica estera, ora di viaggi imminenti in occidente, ora di impegni mondani con quella o quell’altra associazione di cui Shoyo non si prese il disturbo nemmeno di comprendere il nome, visto e considerato che la donna sembrava ciarlare per il solo gusto di farlo, mostrandosi del tutto disinteressata dall’avere o meno degli ascoltatori.
    Sperava davvero che la cena continuasse così, in modo che lui e Wakatoshi potessero arrivare al dolce incolumi e fuggire via da lì il più presto possibile.
    Peccato che i suoi sogni andarono in frantumi nell’istante in cui la matriarca pronunciò il suo nome.
    “È stato un grave errore non sfruttare meglio la storia di Hinata, come ti avevo suggerito di fare. Una cosa del genere avrebbe sicuramente giovato alla tua immagine, soprattutto adesso, in vista dell’imminente elezione del capitano degli under19.” asserì la donna, con quel suo tono solo fintamente colloquiale.
    “Q-quale storia?” chiese subito Shoyo, scattando sulla sedia.
    “Quella della tua aggressione, naturalmente! E della magnanimità di mio nipote nel raccoglierti dalla strada nonostante la vostra rivalità.” fu la risposta della donna, affilata come vetro “Potremmo essere ancora in tempo, però! Perché non ne parliamo con il tuo staff?”
    “Ho già detto di no.” intervenne Wakatoshi, lapidario.
    Aveva abbandonato le posate sul bordo del piatto e teneva entrambe le mani sulla superficie del tavolo, strette a pugno, i muscoli del corpo tesi al punto da marcargli le vene delle braccia, del collo.
    “Oh, Wakatoshi! Non mi dirai che il motivo per cui non vuoi farlo è per non ferire i suoi sentimenti!” esclamò, esibendosi in una risatina melliflua “È ridicolo, andiamo! Dopotutto, vivete insieme da così tanto tempo! Sono certa che il giovane Hinata farebbe volentieri questo piccolo, piccolo sacrificio per aiutare la carriera del suo salvatore, non è forse così?”
    Shoyo deglutì a vuoto, tanto arrabbiato quanto confuso.
    Tentò di balbettare una qualche sorta di risposta, ma la verità era che non sapeva assolutamente cosa dire, come svincolarsi dalla ragnatela in cui quella donna lo aveva appena intrappolato, nonostante la guardia alta che aveva cercato di mantenere.
    Una manipolatrice, ecco cos’era Midori Ushijima.
    Sapeva portare il discorso sempre, esattamente dove lei voleva. Sapeva rigirare le parole, scomponendole e ricomponendole fino a inculcare nel suo interlocutore tutta la ragione del suo pensiero. Sapeva muovere i fili giusti, premere i tasti dolenti, affondare la lama dove la carne era più tenera; tutto pur di raggiungere il proprio scopo e dominare gli altri - letale e spietata come una vedova nera.
    “Basterebbe soltanto che parlassi di Hinata con questo giornalis-“
    “Ti ho già detto di no. Non mi importa se lui stesso è d’accordo oppure no, non ho intenzione di fare il nome di Hinata Shoyo e di esporlo ai media, non lo voglio ripetere.” ribatté Wakatoshi, il rombo della sua voce che quasi fece tremolare la fiammella dei candelabri, sebbene egli non avesse di certo gridato. Perfino Midori parve vacillare un istante di fronte a quel muro impenetrabile che il nipote le aveva parato davanti all’improvviso, salvo poi risollevarsi, assottigliando gli occhi neri in una maniera così feroce che Shoyo rabbrividì.
    “Va bene, Wakatoshi, come vuoi tu. Io penso solo e soltanto al tuo bene, come sempre.” disse, increspando le labbra in un’espressione accondiscendente.
    “Lo so, nonna…” sospirò il ragazzo.
    “Se non sei d’accordo con questa strategia, penseremo a qualcos’altro. Certo, dovremmo inventarci qualcosa alla svelta, dato che è evidente che non riuscirai ad ottenere il titolo di capitano da solo…”
    La testa di Wakatoshi scattò verso il capotavola.
    “Mamma, per favore, stai esagerando…” si intromise Akiko per la prima volta, ma la sua preghiera fuoriuscì talmente flebile che solo Shoyo sembrò udirla.
    Ushiwaka, almeno, aveva gli occhi fissi su sua nonna.
    “Perché pensi questo?”
    “Beh perché non ci stai nemmeno provando, Wakatoshi.” sentenziò la donna, sorseggiando tranquillamente il proprio calice di vino, come se si stesse limitando a raccontare una storiella per bambini o ad esporre un semplice ragionamento personale “Sei affaticato, poco concentrato… non riesci a tenere il ritmo degli allenamenti, ti lamenti, non badi a te stesso… insomma, un vero disastro! Pensavo che dopo il totale fallimento del torneo primaverile - che, ricordiamo, ci è costato una valanga di sponsor e una macchia indelebile sul tuo percorso di atleta- oramai avessi capito quanto siano importanti questi traguardi, e come non ti sia concesso assolutamente di sbagliare, ma a quanto pare…” alzò le spalle, mise in bocca un pezzo di carne, masticando voracemente “La verità è che non ci credi abbastanza, tesoro. Non ti stai impegnando abbastanza.”
    “Come si permette…”
    “Hai detto qualcosa, Hinata Shoyo?”
    COME SI PERMETTE!”
    Era in piedi, Shoyo.
    Era in piedi, ma non aveva la minima idea di quando si fosse alzato.
    Sapeva solo che adesso se ne stava ritto sulle proprie gambe, accanto ad una sedia trascinata all’indietro, il coltello caduto in terra, l’aria stagnante, la vista offuscata, il cuore impazzito e il suo corpo che tremava, tremava, tremava, tremava, tremava…
    Tremava.
    Non stava provando semplicemente rabbia.
    No, era molto più di questo.
    Era febbre, era frustrazione, era furia.
    Era qualcosa che gli avvelenava il sangue, un sentimento pesante come piombo, ruvido come pietra che gli scavava la pelle, la scorticava, ottenebrava non soltanto il suo cervello ma anche il resto del mondo, sicché non esistesse niente al di fuori di quell’emozione violenta, cancerosa.
    “Hinata, calmati, sei molto turbato.” proruppe Wakatoshi, il cui volto tradiva tutta la sua apprensione, ma anche un prominente stato di shock.
    Peccato che la sua voce, in quel momento, fosse nient’altro che un eco lontano.
    “Come si permette di rivolgersi così a lui?! Come si permette di dirgli queste cose?!” gridò, infatti, dritto in faccia a Midori Ushijima “Wakatoshi si ammazza! Si ammazza per ottenere i risultati che ha! La sua intera esistenza ruota intorno alla pallavolo, ogni singolo istante della sua vita è dedicato a questo sport! E lei ha il coraggio di dire che quello che fa non è abbastanza?”
    Dopo un breve lampo di sorpresa, la donna abbandonò le posate che stava impugnando su un lato del piatto, si pulì la bocca lentamente, dopodiché raddrizzò la schiena, congiungendo le mani di fronte a sé.
    La sua espressione era algida, crudele.
    “È logico che tu non comprenda certe dinamiche, Hinata. Dopotutto, tu e la tua adorabile squadretta siete arrivate ai nazionali per una semplice concatenazione di coincidenze… non hai la minima percezione di cosa significhi giocare a livello agonistico, come mio nipote.”
    “Perché lei lo sa, invece?! È mai venuta a vedere una partita della Shiratorizawa? È mai andata a trovarlo a casa sua? Si è mai interessata a ciò che Wakatoshi pensa o sente o vuole?”
    “Oh, sei così bambino… Wakatoshi è seguito dai migliori medici, allenatori e manager del paese, oltre che da me, ovviamente. E ti posso assicurare, Hinata Shoyo, che io so sempre, esattamente, cosa è meglio per lui, di cosa ha bisogno per raggiungere la gloria cui lui e la nostra famiglia sono destinate.”
    “Spolparlo fino all’osso sarebbe meglio per lui? Non lasciargli un attimo di respiro, non dirgli una parola gentile, ma sottolineare soltanto le sue imperfezioni dovrebbe aiutarlo?!”
    “Vivi di fantasie, piccolino. Le vittorie non si reggono su qualche pacca sulla spalla e un paio di complimenti. Si costruiscono col sudore, il sangue e il sacrificio.”
    “Il sudore, il sangue e il sacrificio di suo nipote, però! Lei al contrario può limitarsi a controllare tutto e tutti dall’alto del suo trono, vero?”
    “Quello che tu non comprendi è che non c’è spazio per l’errore a questo livello del gioco. O si vince o si perde. O si sfila sul carro dei vincitori o si guarda il carro dalla propria fogna.”
    “Wakatoshi merita più di questo! Ha solo diciotto anni ed è il migliore giocatore del Giappone! Hai idea di quanta passione e dedizione ci metta in ogni cosa che fa? Ha idea di quanta stima abbiano le altre squadre di lui? Di quanto sia temuto o acclamato? Ha idea di quante persone desidererebbero apprendere da lui? Misurarsi con lui? Possedere un briciolo del suo talento?”
    “Eppure, ci sei tu all’ultimo torneo nazionale inter-liceale della sua carriera. Un uccellino troppo agitato che cinguetta di qua e di là e stava per rimanere paralizzato su un letto di ospedale per il resto della sua vita.”
    Fu come se un proiettile gli avesse perforato il cranio da una parte all’altra, colpendolo esattamente nello spazio in mezzo agli occhi: Hinata ne avvertì il peso, il boato, perfino il sapore della polvere da sparo mista a sangue sulla punta della lingua.
    All’improvviso, il mondo circostanze smise di vorticare furiosamente, si fermò quasi che qualcuno avesse premuto il tasto pausa e all’improvviso il giovane tornò ad avere percezione di ciò che stava intorno a sé. Akiko Ushijima non era più seduta a tavola, era rannicchiata sul divano con le ginocchia al petto, l’espressione atterrita, il bel volto di cigli rigato di lacrime, mentre Ushiwaka non soltanto era in piedi accanto a lui, ma gli stava tenendo il polso – quando era successo? – stringendolo così forte da intorpidirgli le dita.
    Quando incontrò gli occhi del ragazzo, Shoyo lo trovò attonito, smarrito, tuttavia fu un istante brevissimo prima che l’altro si voltasse lentamente verso la nonna.
    “Dove hai preso questa informazione?” le chiese, con un tremolio nell’intonazione che non aveva mai avuto.
    Midori Ushijima sollevò le labbra in un sorriso ferino, “Oh, Wakatoshi, io so sempre tutto ciò che ti riguarda.” sentenziò, dopodiché si alzò tenendosi al suo bastone di ebano e camminò verso di loro, finché non si trovò di fronte a Hinata, occhi negli occhi “Giovane Hinata Shoyo, guarda che cosa hai fatto… crei scompiglio ovunque tu ti trovi…” puntualizzò, inclinando lievemente la testa verso la spalla, come se gli avesse appena rivolto null’altro che un simpatico rimprovero “Tu non conosci la verità di questa famiglia, credimi. E sei così infantile e così essenzialmente mediocre, che temo tu non possa mai arrivare a comprendere davvero l’importanza di quello che io faccio per Wakatoshi… o cosa sia necessario che lui stesso faccia per portare alto il cognome che porta.” affermò, gelandogli le viscere solo con lo sguardo.
    “Io… non…”
    “La cena è finita, credo che sia ora che tu lasci questa casa, e soprattutto quella di mio nipote.”
    Hinata si svincolò dalla presa di Wakatoshi.
    Dopodiché abbozzò una sottospecie di inchino e fuggì via.
     
    Quindi cosa rende la rabbia diversa dagli altri sei peccati capitali? 
    È davvero semplice. 
    Commetti un peccato come l'invidia o l'orgoglio
    e farai del male soltanto a te stesso. 
    Prova la lussuria o la brama
    e farai male a te stesso e a pochi altri.
    Ma la rabbia, la rabbia è la cosa peggiore. 
    Perché la rabbia non solo può portarti oltre il limite,
    quando lo fa, trascina insieme a te
    un gran bel mucchio di persone.
    - Grey’s Anatomy
     
     
     
    NOTE AUTORE
    Lo so, è tanto da digerire, non riesco nemmeno a fare la solita ironia, questa volta.
    Vi avevo anticipato che la cena sarebbe stata tosta, ma mentre scrivevo le battute di questo paragrafo io stessa mi ritrovavo a voler strozzare Midori Ushijima, quindi…
    La domanda adesso è: Wakatoshi lascerà si farà influenzare dalla matriarca o si opporrà facendo restare Hinata? Quello che posso anticiparvi però, è che nel prossimo capitolo avremmo ulteriori delucidazioni circa la storia della famiglia Ushijima, per cui verranno chiariti tanti piccoli dettagli – come il periodo a Tokyo di Wakatoshi o la patologia di Akiko- che qui sono stati soltanto accennati.
     
    Molto più soft è stato, invece, il primo paragrafo…
    Sapete, vero, che qui il bacio è sempre più imminente?
    Non dico altro!
     
    Alla prossima,
    Violet Sparks

     

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    Capitolo 22
    *** Forse l'ho perso nel vento ***


    CAPITOLO XXI
    Forse l’ho perso nel vento
     
    Alla fine di una giornata, quando tiriamo le somme,
    l'unica cosa che vogliamo davvero è stare vicino a qualcuno.
    Se è così, allora perché manteniamo le distanze
    e fingiamo di non aver cura dell'altra persona?
    È soltanto un alibi.
    Scegliamo le persone a cui vogliamo stare vicino.
    E una volta fatta la nostra scelta,
    quelle persone non le lasciamo più.
     
    Il freddo delle chiavi gli pizzicava la pelle, i denti di metallo penetravano attraverso il palmo delle sue mani strette a pugno, mentre l’acqua rimasta incastrata tra i suoi capelli scivolava, lenta, lungo il suo viso, colando sulla superficie del mobile dell’ingresso, formando una piccola pozzanghera.
    Plic, plic, plic...
    Wakatoshi la osservò inerme per un tempo vicino all’infinito, poi finalmente sollevò lo sguardo verso lo specchio di fronte a sé.
    L’immagine che trovò riflessa era quella di un ragazzo zuppo di pioggia, il tessuto della camicia incollato addosso, la breve porzione scoperta delle clavicole cosparsa di rivoli trasparenti, le ciocche della frangia madide, nere. Il suo petto si alzava e abbassava a ritmo irregolare, forzando un respiro che sembrava non avere alcuna intenzione di circolare correttamente e i suoi occhi erano pozzi vuoti, stagni torbidi in cui era impossibile trovare il fondo.
    Non riusciva ad inseguire alcun pensiero coerente.
    La sua testa era un vortice di immagini, suoni, sensazioni violente – le urla di Hinata, le risposte taglienti di sua nonna, le lacrime sul viso di sua madre, la rabbia, la confusione, la voglia di esplodere… quel maledetto, inspiegabile istinto di protezione che gli ghermiva le viscere, sbucando fuori a tradimento...
    Eppure, questa volta non era stato lui a proteggere Hinata Shoyo.
    Era stato il contrario.
    Era stato il contrario perché Hinata aveva preso le sue difese, aveva combattuto a spada tratta, lanciandosi senza paura contro Midori Ushijima, l’imperatrice invincibile che, nei suoi sogni di bambino, graffiava il mondo con il suo sguardo di ghiaccio. Piccolo e fragile com’era, si era levato in piedi e aveva lasciato divampare il fuoco che gli albergava dentro - quello che Wakatoshi aveva scorto nei suoi occhi di ambra fusa fin dal loro primissimo incontro- scuotendo le stalattiti che ricoprivano le mura del santuario degli Ushijima, gridando a pieni polmoni tutto ciò che pensava, tutto ciò che sentiva, forte di quel coraggio indomito, che un po' sapeva di incoscienza, stampato sulle molecole del suo DNA.
    Nessuno aveva mai fatto niente di simile per lui.
    Nessuno, mai.
    E perché avrebbe dovuto, d’altronde?
    Lui poteva farcela da solo.
    Lui era in grado di fare qualsiasi cosa da solo.
    Era sempre stato così.
    Aveva sempre dato ascolto a sua nonna, perché lei aveva sempre ragione.
    Anche se i suoi modi, a volte, erano troppo duri, le sue pretese troppo eccessive, le sue parole troppo affilate.
    Doveva fidarsi di Midori, perché Midori sapeva cosa era meglio per il suo percorso, sapeva come renderlo grande, come renderlo forte, sapeva come non commettere mai errori.
    Era vero, i sacrifici erano tanti, gli sforzi spesso disumani, sfibranti, brutali, ma questo era il prezzo da pagare per il potere, giusto?
    Sudore e sangue.
    Era questo che doveva immolare per gli errori del passato, giusto?
    Era questo che serviva per porre rimedio a ciò che era stato, per rimettere le cose al loro posto, per rendere orgogliose le persone che gli stavano intorno.
    Era così, no?
    No?
    Si passò una mano tra i capelli umidi per portarli indietro, dopodiché si tolse la camicia, sfilandosela da sopra la testa in maniera disordinata, facendo persino saltare qualche bottone.
    Non gli importava.
    All’improvviso si sentiva accaldato, a corto di ossigeno come se stesse affogando, si sarebbe strappato di dosso perfino la pelle, se avesse potuto.
    Fuori il temporale imperversava e le nuvole nere, che poco prima avevano invaso il cielo della sera, oscurandolo di colpo come una macchia di catrame, adesso rombavano con irruenza - la medesima che Wakatoshi avvertiva dentro le vene, nei canali interni delle ossa.
    Avrebbe voluto spaccare qualcosa.
    Fece dei respiri profondi, si aggrappò al mobiletto dell’ingresso e socchiuse le palpebre.
    Non aveva senso lasciarsi andare a una reazione tanto emotiva.
    Lui era più razionale di così, era più forte di così.
    Doveva ritrovare immediatamente il controllo di sé, ma soprattutto doveva cercare Hinata: gli era parso talmente sconvolto a casa della sua famiglia che Wakatoshi aveva temuto di vederlo sgretolarsi lì, sul pavimento, davanti a tutti e quando sua nonna aveva lanciato quella bomba, riguardo al suo passato, il dolore che gli aveva letto in faccia, aveva schiacciato persino lui.
    Si guardò intorno nel soggiorno semibuio, si affacciò nel corridoio che dava alle camere da letto, ma del ragazzino non vi era alcuna traccia; la casa appariva silenziosa e intatta, senza ulteriori forme di vita.
    Poi vide che la portafinestra della cucina era leggermente aperta.
    Recuperò in fretta e furia la prima maglietta che gli capitò a tiro e si precipitò all’esterno.
    Hinata era seduto sulle gradinate di marmo, raggomitolato come un gatto, la testa aranciata affondata contro le ginocchia che teneva abbracciate al petto. Per fortuna, il tettuccio del patio lo proteggeva dalla pioggia implacabile che si stava abbattendo sul giardino, ma lo stesso il suo corpo era scosso da tremiti febbrili, piccoli spasmi che facevano vibrare la sua schiena ricurva, con quelle scapole sporgenti come le ali di un uccello.
    Wakatoshi si avvicinò, sedendosi a un gradino di distanza da lui, dopodiché bussò con cautela sulla sua spalla, per evitare di spaventarlo.
    Quando ruotò il capo, il viso di Hinata era completamente bagnato di lacrime. 
    “Hinata…”
    “Stai tranquillo!” proruppe quello, senza lasciarlo parlare, asciugandosi gli occhi con le maniche della camicia come meglio poteva “Raccolgo la mia roba e me ne vado! Entro domani mattina, non mi vedrai più!” gli disse, distrutto, tirando su forte con il naso.
    Wakatoshi aggrottò la fronte, la stomaco colto da una fitta dolorosa, “Non vuoi più stare qui?” gli chiese allora, con una voce malferma che non aveva affatto calcolato. 
    “Certo che sì! Ma tu stai per cacciarmi via, non è vero? Sono stato avventato, maleducato, irrispettoso! Mi sono comportato come un bambino… tutte cose che detesti, dico bene? E poi tua nonna è stata chiara! Non mi vuole vicino a te! Perciò lo so che adesso tu… che tu…” e ricominciò a piangere, più forte di prima.
    A quel punto, Wakatoshi allungò una mano sul volto del ragazzino, poggiandola sulla sua guancia umida.
    Non sapeva, davvero, perché lo avesse fatto.
    Era stato un gesto puramente istintivo, il suo braccio si era mosso in completa autonomia rispetto al resto del corpo, tuttavia, quando il cervello parve finalmente registrare l’azione, si accorse che tutti i motivi che aveva per mantenere le distanze, tutte le ragioni per trovare quel gesto inopportuno, stupido o insensato, avevano perso qualunque significato. 
    La pelle di Hinata era liscissima, morbida nonostante fosse tutta impiastricciata di lacrime. Come aveva immaginato svariate volte, a tenere le dita aperte finiva per raccogliergli il viso quasi per intero - dalle ciocche sudate dei suoi capelli sulle tempie, al punto in cui la sua giugulare pompava veloce- ma fu il calore che emanava a sconvolgerlo sul serio, quel tepore accogliente che gli penetrò attraverso il palmo per poi irradiarsi, lento, fino al centro esatto del suo petto.
    Hinata immerse gli occhi nei suoi di scatto, lucidi e curiosi, un po' spauriti.
    Wakatoshi capì, allora, perché non avesse mai voluto nemmeno sfiorarlo, perché, al di là della repulsione istintiva che provava per il contatto fisico, il pensiero di toccare Hinata Shoyo, tra tutti, gli causasse quel desiderio impellente di fuggire dall’altro capo dell’universo: non c’era un solo organo del suo corpo, in quel momento, che fosse nel posto in cui sarebbe dovuto stare.
    “Non voglio che tu vada via.” gli disse, attraverso la furia del temporale. La sua stessa voce gli suonò estranea, eppure quelle parole erano sgorgate dalle sue labbra simili all’acqua di un rubinetto lasciato aperto, strabordando direttamente da una parte molto recondita di sé.
    Hinata sbatté le ciglia un paio di volte, i capelli scossi dal vento.
    “Ma tua nonna… tua nonna ha detto…”
    “Lo so cosa ha detto mia nonna. Ma io voglio che tu rimanga qui, come avevamo detto. Perciò, per favore, adesso smettila di piangere. Mi fa male vederti piangere.”
    “Perché ti fa male?”
    “Non lo so, mi fa male e basta.”
    Fu un attimo.
    Hinata sgusciò nello spazio aperto del suo gomito e all’improvviso il suo petto minuto fu contro il proprio, le sue braccia esili si posarono intorno al suo collo e il suo profumo buono lo avvolse completamente, invadendogli le narici e la gola.
    Wakatoshi rimase immobile.
    Il ragazzino tremava forte, le sue lacrime scendevano ancora, senza freno, come la pioggia battente intorno a loro, gocciolandogli di tanto in tanto sul lembo di pelle lasciato nudo dallo scollo; eppure, la sua stretta era energica, il vigore con cui si teneva al tessuto della sua maglietta, tangibile.
    Pensò che fosse buffo: la prima volta che Hinata Shoyo lo aveva abbracciato, era stato all’inizio di quella loro bislacca convivenza, quando lui aveva accettato di tenerlo lì controvoglia, in nome di un senso di responsabilità e un’assennatezza che non gli erano mai apparsi così scomodi; e stava succedendo di nuovo adesso, sì, adesso che gli aveva chiesto esplicitamente di restare.
    Pensò anche che, al tempo, il gesto lo aveva infastidito, scombussolato. Aveva desiderato con ogni fibra del suo essere che il ragazzino gli si scrollasse immediatamente di dosso, invece adesso non stava provando affatto quelle sensazioni, anzi, gli ruggiva nel sangue l’impellenza di cingerlo per fermargli il pianto, per rimettere insieme i pezzi, solo che...
    Hinata Shoyo era l’unica persona che – ricordava- lo avesse abbracciato negli ultimi dieci anni della sua vita; Wakatoshi non aveva idea di come si abbracciassero le persone, non era allenato, non sapeva nemmeno da dove cominciare.
    Impacciatamente, mosse le braccia e circondò il busto dell’altro con quanta più delicatezza fu capace di mettere, nel timore di fargli male in qualche maniera, quindi poggiò una mano sul suo fianco e l’altra sulla sua nuca, quasi trattenendo il fiato.
    Hinata smise subito di piangere.
    “Chi sei tu? Che ne hai fatto di Ushijima Wakatoshi?” disse, ridendo di una risata fragile, incrinata.
    “Sono sempre io. Non capisco la domanda.” rispose, confuso.
    “Due mesi fa non mi avresti abbracciato… mai e poi mai!”
    “Già. Forse è vero che le cose cambiano.”
    “Non detesti più il contatto fisico?”
    “Sì, credo di detestarlo ancora, ma adesso, con te, mi sta bene. È quello che voglio.”
    A quelle parole, la figura di Hinata ebbe un brusco scossone, al punto che Wakatoshi sospettò che avesse ricominciato a piangere. Per fortuna, non fu così. Al contrario, la tensione dei suoi muscoli prese a sciogliersi piano piano e il suo respiro – il quale finiva inevitabilmente per cadere accanto al suo padiglione auricolare- si fece sempre più regolare, fino a calmarsi.
    Un tuono rombò attraverso il cielo, seguito da un lampo che illuminò, come il flash di una fotocamera, il profilo delle siepi, degli alberi e delle case del vicinato, tuttavia Wakatoshi non provò alcun turbamento di fronte a quello spettacolo della natura.
    Non si era mai sentito così.
    Forse era stato il miscuglio di emozioni provato durante il giorno, l’angoscia intossicante che lo aveva accompagnato dal momento in cui Nana si era presentata nel suo soggiorno fino a quando la cassa toracica di Hinata Shoyo aveva cozzata inaspettatamente contro la propria, ma si sentiva privo di forze, svuotato di ogni energia.
    Non era una sensazione spiacevole, in realtà.
    Era come tornare a galla dopo un lungo, lungo bagno, spogliarsi delle proprie armi, dopo una guerra durata secoli.
    Era un sollievo.
    Passarono altri minuti di perfetto silenzio, accompagnati soltanto dal frastuono del temporale, poi “Perché si comportano così con te?” sussurrò Hinata tra le ciocche dei suoi capelli, mettendogli i brividi “Perché ti trattano come se non fossi abbastanza?”
    “Perché ti importa di come mi tratta la mia famiglia? Non sono problemi tuoi.”
    Perché mi importa di te, Wakatoshi. Mi importa moltissimo…” rispose l’uccellino con un filo di voce, muovendo la testa quasi stesse cercando di farsi piccolo, di nascondersi nell’incavo del suo collo.
    Wakatoshi scostò allora Hinata da sé gentilmente, lasciando che trovasse una posizione comoda sui gradini più in basso di fronte a lui, quindi scrutò il suo visetto da bambino senza dire nulla, per qualche istante, diviso dentro dalla decisione che stava per prendere. 
    Scoprì che faceva dannatamente paura, mettersi a nudo, raccontare la propria verità ad un’altra persona.
    Supponeva un grado di fiducia che non aveva mai provato nei confronti di nessuno, l’imprudenza di mostrare e ammettere le proprie debolezze e le proprie brutture, ma anche il desiderio irrazionale di farsi comprendere, di permettere a qualcuno di entrare nel proprio universo e abitarlo.
    Con lo stomaco svuotato e le dita un po' tremanti, recuperò il suo portafogli dalla tasca dei pantaloni, ne estrasse una fotografia e la porse a Hinata.
    Il ragazzino la osservò a lungo, con le sopracciglia aggrottate, “Chi sono queste persone?” chiese dopo un poco, girando e rigirando l’immagine che aveva tra le mani per studiarla da ogni angolazione possibile.
    Wakatoshi strinse le labbra, “Sono mia madre e mio padre.”
    Lo stupore di Hinata fu del tutto prevedibile.
    L’identità dell’uomo nella foto destava certamente qualche perplessità, se non altro perché – ipotizzava- associare una persona dall’aspetto così solare e aperto, ad uno come lui, doveva apparire alquanto singolare, ma la verità era che chiunque avesse visto Akiko Ushijima negli ultimi anni, avrebbe fatto una enorme fatica a riconoscerla nella ragazza raggiante, fiera e sicura di sé immortalata lì.
    “Adesso che lo guardo bene, tuo padre ti somiglia… anche se non credo tu abbia preso da lui il carattere! Ma lei… lei è Akiko? Com’è possibile? È così diversa dalla donna che ho conosciuto stasera…” esclamò Hinata, infatti, avvicinando l’istantanea fin sotto al naso; all’improvviso, tuttavia, il suo sguardo si intristì “Che cosa le è successo?”
    Wakatoshi percepì distintamente una vertigine, prima di lasciarsi cadere nel vuoto. 
    “Io non sarei dovuto nascere. Non a quel tempo, almeno. Non da quelle persone. Io sono frutto di un errore di percorso.” cominciò a raccontare, fissando le proprie dita congiunte in mezzo alle ginocchia “La famiglia Ushijima è sempre stata una famiglia di grande onore, i nostri avi erano politici, banchieri, governatori. Mio nonno era un diplomatico e mia madre, unica erede, è stata cresciuta fin da bambina per essere altrettanto grande, per aspirare alla vetta. Eccelleva in tutto ciò che faceva, ballava danza classica, suonava il piano, padroneggiava cinque lingue diverse, a scuola primeggiava ed era ammirata da alunni e professori. Era entrata senza problemi alla facoltà di giurisprudenza e sarebbe diventata sicuramente un giudice delle cariche più alte. Era tutto stabilito, una strada in discesa.”
    Wakatoshi prese una pausa e si grattò la nuca, si massaggiò il collo: parlare a lungo non era un’attività che gli si confaceva, ma quella notte, a quanto pareva, niente sembrava marciare sui soliti binari. 
    “L’ultimo anno di liceo, le mancavano due crediti. Avrebbe potuto diplomarsi ugualmente e a pieni voti anche senza, ma lei era una perfezionista, così si scelse un club: optò per la squadra di pallavolo soltanto perché era molto famosa, sarebbe stata benissimo sul suo curriculum e poi c’era molta gente, il suo aiuto non sarebbe stato indispensabile, la partecipazione non le avrebbe richiesto un grande dispendio di tempo. Fu lì che incontrò Takashi Utsui, mio padre, membro titolare della squadra Shiratorizawa.”
    “Cominciarono a uscire per gioco, o meglio, mia madre insistette parecchio – lei otteneva sempre quello che voleva- mentre mio padre acconsentì quasi per sfinimento… ma col tempo finirono per affezionarsi moltissimo l’uno all’altra. Quando me lo raccontava, mia madre diceva sempre che Takashi sapeva fare una cosa che nessun’altro sapeva fare: farla ridere, farla sentire leggera. E credo che fosse davvero così. Mio padre era un po' come te, Hinata, almeno questo è il ricordo che ho di lui: un uomo indissolubilmente positivo, sempre col sorriso sulle labbra.”
    A quelle parole, vide gli angoli della bocca del ragazzino curvarsi verso l’alto e la sua espressione concentrata ammorbidirsi dolcemente. Era comprensibile. L’inizio della storia di Akiko e Takashi, in effetti, somigliava a quello di una bella favola, del tipo che si raccontavano ai bambini prima di andare a dormire - facile, romantica, sicuramente a lieto fine.
    Scosse piano la testa.
    Il rombo arrabbiato di un tuono lo riportò alla dura verità.
    “Mia madre rimase incinta tre mesi prima del diploma, aveva solo diciassette anni.” continuò, prendendo un lungo, profondo respiro “Non lo dissero a nessuno, né ai miei nonni né ai loro amici. Nessuno. La vergogna era troppa, soprattutto per quanto riguardava mia madre: una notizia del genere, per la famiglia Ushijima, era una macchia sul loro onere, avrebbe distrutto anni di dignità e di prestigio. Per questo, decisero di scappare a Tokyo. Attesero la cerimonia del diploma, ma la sera stessa salirono sul primo treno disponibile, fuggendo senza lasciare traccia.”
    “Avevano dei risparmi da parte, li usarono per prendere un appartamento e trovarsi un lavoro. Pensavano di farcela. Mia madre avrebbe frequentato una facoltà di giurisprudenza più piccola, per rientrare nelle spese e mio padre avrebbe giocato in questa squadra della seconda divisione in cui era riuscito ad entrare, seguendo dei corsi serali. I primi ricordi che ho della mia infanzia sono fatti di corse e di orari a incastro, di aule di università affollatissime dove mia madre mi lasciava, mentre dava un esame o degli spalti della palestra dove mio padre seguiva i suoi allenamenti. Era difficile – molto difficile- ma loro tentavano di mantenersi a galla. Andava bene. Stavamo bene. O così mi sembrava. Comunque, non durò a lungo…”
    “Non so esattamente cosa successe, ad un certo punto, ma le cose in casa presero a farsi tese, complicate. Forse, banalmente, l’entusiasmo dell’inizio era scemato e i miei genitori cominciarono a capire che la vita da adulti era molto più ardua di quanto si fossero aspettati.”
    La fede non serve a niente, Hinata, ti illude soltanto, prima o poi dovrai sempre fare i conti con la verità.”
    Wakatoshi si fermò un momento, qualcosa di simile a un ammasso di aculei bloccato a metà della gola.
    Non si era mai reso conto di quanto dolore gli provocassero quei ricordi.
    Certo, facevano parte della sua storia, eppure all’improvviso si accorse che, in maniera del tutto istintiva, la sua mente aveva cercato di offuscarli, di distaccarsene, arginandoli in un angolo buio della sua coscienza.
    Riaprì e chiuse le dita, scoprendole alquanto instabili.
    Riprese da dove aveva interrotto.
    “I soldi scarseggiavano di continuo, stare dietro a tutto era complicato. Mia madre perdeva un sacco di lezioni, saltava gli esami, lavorava fino a tardi cinque giorni su sette; mio padre invece si infortunava spesso: il problema era che faceva tre lavori contemporaneamente, studiava, badava a me, per cui non riusciva a stare dietro agli allenamenti e le sue prestazioni atletiche, ben presto, cominciarono a risentirne. Erano sempre più stanchi, sempre più infelici. E così i loro litigi iniziarono a farsi sempre più frequenti.”
    “È l’immagine più nitida che ho di loro due: le urla, la frustrazione, le porte sbattute, le lacrime, il rancore. Mio padre cambiò, si spense, si incupì, ma fu mia madre ad accusare maggiormente della situazione, prendendo a chiudersi in se stessa. Rimaneva a letto per giorni interi, guardando il soffitto; non parlava, non mangiava, non reagiva. A volte, di notte, veniva nel mio letto, mi abbracciava e piangeva per ore, fino al mattino. Mio padre cercò pure di portarla in una clinica, ma la terapia era troppo costosa, a stento riuscivano a pagare l’affitto, era impensabile comprare anche degli psicofarmaci.”
    “La verità è che…” si interruppe ancora, gli aculei, questa volta, ficcati nella carne, a sangue “La verità è che li avevo incastrati in una vita che non volevano, che immaginavano diversa. Avevo spazzato via tutte le loro ambizioni, tutti i loro sogni. Entrambi erano destinati a grandi cose, invece la mia nascita aveva rovesciato completamente il loro futuro.”
    Sussultò.
    D’un tratto, le mani del ragazzino erano poggiate sulle sue, minuscole rispetto alle proprie, finissime e quasi bianche, eppure così calde a contatto con le sue dita ghiacciate che Wakatoshi non oppose resistenza, accettò quella vicinanza innaturale – spaventosa- perfino quando i suoi pollici presero a carezzargli la porzione interna dei polsi, facendogli venire la pelle d’oca.
    Sollevò gli occhi nei suoi, in un moto di vero e proprio autolesionismo.
    Gli si annodò la gola.
    Nessuno lo aveva mai guardato come lo stava guardando Hinata in quel momento, come se avesse voluto prendersi il suo veleno, come se avesse voluto alleggerirlo di un peso.
    Come se avesse voluto salvarlo.
    Nessuna pretesa, nessun obbligo, nessun dovere.
    Per la prima volta nella sua vita, qualcuno gli stava offrendo qualcosa, invece di esigerla da lui.
    Gli stava facendo un dono – supporto, comprensione, empatia- invece di succhiare linfa dal suo sudore, dalla sua fama, dalla sua fatica.
    Ed ovviamente era Hinata Shoyo a farlo, non sapeva nemmeno perché ne fosse tanto sorpreso, a quel punto.
    Hinata Shoyo che si muoveva nel mondo in quel suo modo caotico e affamato, luminoso come la luce del sole a mezzogiorno e pronto a scaldarlo, con quella medesima luce, senza reclamare nulla in cambio.
    Hinata Shoyo che lo aveva sempre trattato non come gli altri, che gli chiedevano di dare tutto se stesso, ma come qualcuno che voleva dargli tutto se stesso - tutto, senza sconti, senza paura – con quel suo coraggio e quella sua fiducia assolutamente folli, che però gli permettevano di mostrare il cuore sul palmo di una mano.
    Hinata Shoyo che ormai gli si era infilato sottopelle e aveva tutta l’intenzione restarci.
    “Cosa è successo, poi? Perché siete tornati a Miyagi?” gli domandò allora il ragazzino, facendolo uscire dalla trance dei suoi pensieri.
    Wakatoshi deglutì, “All’improvviso, a mio padre venne offerto un posto sulla panchina di una squadra piuttosto importante, in America. Non so come o tramite chi. Si trattava di uno stage, per iniziare la carriera di allenatore. In realtà, non credo fosse molto interessato al ruolo, al principio, ma poi accettò ugualmente: era la sua via di fuga.”
    “Partì due mesi dopo, non aspettò nemmeno di ultimare la separazione, quindi io e mia madre fummo costretti a tornare a Miyagi, a casa di mia nonna. Mia madre stava troppo male, la decisione di Takashi non aveva fatto altro che distruggere i suoi nervi ancora di più, ma almeno qui, mia nonna poteva provvedere alle sue cure. Non che questo abbia risolto qualcosa, come hai potuto constatare…”
    “Non è stato facile, all’inizio. Mia madre era isolata in un’ala della casa, la vedevo pochissimo perché secondo i medici qualsiasi interazione col mondo esterno poteva farle perdere l’equilibrio, praticamente era Nana ad occuparsi di me, mentre mia nonna… il fatto è che a Tokyo, qualche tempo prima, ero stato notato da un talent scout durante un allenamento nella mia scuola elementare. Ho sempre giocato a pallavolo con mio padre, nel tempo libero, per questo ero già piuttosto bravo. Questo signore prese contatto con mia nonna o forse la conosceva già, non l’ho mai capito, comunque, una volta tornati a Miyagi, Midori diede adito a tutte le risorse della famiglia Ushijima per farmi intraprendere una carriera agonistica.”
    “Lei è sempre stata molto severa, Hinata. E lo so che i suoi modi, spesso, possono risultare aspri, ma io le devo molto. Lei ci ha ripreso in casa nonostante ciò che era successo, si sta occupando della salute di mia madre e ha provveduto in tutto e per tutto a darmi il miglior sostegno possibile per quanto riguarda la pallavolo.”
    “A volte è dura, ma io amo questo sport. È l’unica cosa che conta per me. E vincendo, posso ripagare il mio debito. Ho tolto alla famiglia Ushijima il prestigio e adesso, seguendo le sue direttive, non solo ho l’opportunità di restituirglielo, ma posso portarlo perfino ad un livello più alto.”
    “Japan, posso farti una domanda?” si intromise all’improvviso Hinata, stringendo un poco di più la presa sulle sue mani. La sua espressione era crucciata, seria, infatti una piccola ruga gli deturpava la fronte, di solito pallida e distesa come un foglio di carta.
    “Va bene.” acconsentì Wakatoshi, frattanto che reprimeva l’istinto di liberare le dita per grattare via quel cruccio inconsueto dal viso dell’altro.
    “Da quanto tempo è che non vedi tuo padre?”
    “…  Nove anni.”
    “Nove anni?!”
    Lo shock del ragazzino gli rimbombò nella cassa toracica come il rinculo di una pistola.
    Colto dal disagio, si strinse nelle proprie spalle, distolse lo sguardo verso le piastrelle lucide dei gradini.
    Non gli piaceva parlare di Takashi.
    Quando qualcuno metteva in mezzo l’argomento, il suo corpo si irrigidiva neanche fosse stato immerso nel cemento armato, e poi sul suo stomaco scendeva come un peso, una specie di gigantesco masso che lo tirava giù… ancora più giù… sempre più giù… gli mancava il fiato…
    Deglutì a vuoto.
    Non sapeva perché, ma la pelle di Hinata, a contatto con la sua, era diventata incandescente.
    “Scusa, sono stato invadente! Se non vuoi rispondere, non sei obblig-“
    “All’inizio lo sentivo spesso. Telefonava una volta alla settimana, veniva in Giappone almeno una volta al mese. Dopo il divorzio però, ha smesso di farlo.” spiegò Wakatoshi, nonostante ogni sillaba sembrasse la lama di un coltello incastrata nel palato “Ormai sono nove anni che non torna qui. Anche le telefonate sono molto rare. Non credo nemmeno che abbia il mio numero, chiama soltanto per le feste programmate – Natale, compleanni- e sempre a casa di mia nonna. L’unica cosa che fa è regalarmi un cellulare di ultima generazione ogni anno. Ho smesso anche di scartarli, li tengo ammassati di là.”
    “Tu sei arrabbiato con lui.”
    La constatazione di Hinata lo trapassò da parte a parte.
    “Non sono arrabbiato con lui.” rispose a denti stretti “Sarebbe infantile esserlo. Se non chiama o non torna a casa, è perché ha impegni che non glielo consentono. Nulla di più.”
    “Io non ti ho chiesto se è giusto o no, Wakatoshi. Ti ho chiesto se è quello che provi.”
    A quel punto, successe una cosa davvero singolare – giusto un po' di più di quanto già non fossero stati gli eventi di quella giornata: Wakatoshi sentì distintamente qualcosa dentro di sé spezzarsi, producendo un rumore di vetro in frantumi.
    “Sì, sono arrabbiato.” ammise, infine, rigurgitando quella confessione con una amarezza che gli avvelenò il sangue, come una metastasi impiantata nelle profondità delle sue viscere “Sono arrabbiato perché ha lasciato me e mia madre e non si è mai voltato indietro. Non gli importa della malattia di mia madre. Non gli importa nemmeno di me, anche se sono diventato il più bravo, anche se sono diventato uguale all’asso che diceva di stimare tanto. È come dice mia nonna, lui non ci ha mai voluti.
    A quel punto, Hinata trascinò le loro mani unite contro il petto, di scatto, congiungendole tutte e quattro in un groviglio premuto sullo sterno.
    Aveva ricominciato a piangere, ma non era un pianto sofferente come in precedenza, era un pianto quieto, malinconico.
    “Sembri sempre così forte, così impassibile… invece ti porti dentro tutte queste cose…” mormorò, strizzando gli occhi per la commozione.
    “Non hai motivo di essere triste. Quello che ti ho raccontato è il passato, non conta niente. Contano solo il presente e gli obiettivi che mi sono prefissato.”
    “Dovresti giocare a pallavolo perché ti fa stare bene! Avere addosso un tale carico di aspettative, non è giusto, non è sano! Sarebbe troppo per chiunque!”
    Wakatoshi si liberò dalla presa di Hinata con un piccolo strattone, poi - sebbene in modo alquanto impacciato e grossolano- fece scorrere tutte e quattro le dita sui suoi zigomi per asciugargli le lacrime. “Non è troppo per me, Hinata.” disse al ragazzino, le cui guance erano parecchio arrossate a causa dell’attrito poco delicato coi suoi polpastrelli. Non appena intuì che quello stava per protestare, “Smettila. Non ti devi preoccupare per me. Sono adulto. So gestire la mia vita da solo.” Aggiunse con tono pratico, guardandolo dritto negli occhi.
    “Tu non sei più solo, Wakatoshi.”
    Di fronte a quella affermazione, il giovane capitano non trovò alcuna risposta decente.
    Si limitò a restare immobile, mentre il calore delle sue sillabe scendeva lentamente lungo la sua spina dorsale, insieme ad un brivido che gli mise a soqquadro tutti gli organi.
    Il battito del suo cuore intraprese un ritmo irregolare e singhiozzante, eppure non gli provocò alcun dolore.
    D’un tratto – non avrebbe saputo dire né come né quando- seppe solo che Hinata si era trascinato seduto al suo fianco, spalla contro spalla, le loro gambe attaccate insieme.
     
    Rimasero a osservare la pioggia, così vicini, in silenzio, per un tempo indefinibile.
     
     
    Anche se facciamo loro del male,
    le persone che sono ancora con te alla fine della giornata,
    sono quelle che vale la pena tenersi strette.
    Certo, a volte la vicinanza può diventare eccessiva,
    eppure, quell’invasione dello spazio privato,
    può essere proprio quello di cui abbiamo bisogno.
    - Grey’s Anatomy
     
    NOTE AUTORE
    Questo è stato in assoluto uno dei capitoli più complessi da scrivere di tutta la long, pertanto, mi scuso con tutto il cuore per il ritardo con cui ha visto la luce.
    Ma, capitevi… doveva essere perfetto!
    Oddio, non che il risultato lo sia davvero, alla fine, poteva venire molto-molto meglio! Ma desideravo con tutta me stessa che fosse accurato e che questa mia visione della storia di Ushijima non vanificasse il percorso che il personaggio ha fatto fino a questo momento, finendo per cadere nell’OOC (rischio altissimo, visto che Ushiwaka nel canone non si trova ad affrontare chissà quale gamma di emozioni!).
    Ai posteri – e a voi lettori!- l’ardua sentenza…
     
    Come dicevo, siamo di fronte alla svolta definitiva che Ushijima Wakatoshi ha fatto nel corso di questa long, la sua liberazione dalle catene: parlando con Hinata, non solo l’asso ha modo di analizzare il suo passato, ma anche di comprendere come, in maniera del tutto inconscia, gli echi di quel dolore, di quella delusione, si riverberino ancora tanto su di lui. Se Wakatoshi fino ad adesso ha lasciato Hinata avvicinarsi a lui, questa volta lo lascia entrare dentro, permettendo così al corvetto (e a noi tutti) di scoprire una parte molto intima e molto fragile del suo cuore.
     
    Ho amato scrivere e immaginare la storia di questi due ragazzi, Akiko e Takashi. Sono molto curiosa di sapere cosa ne pensate!
    Di sicuro, adesso capite meglio le condizioni di Akiko e a cosa si riferiva Midori Ushijima, la nonna di Wakatoshi, quando nel capitolo precedente parlava di “debito da pagare”! Ma anche il motivo per cui Wakatoshi è sempre stato così avverso alla “fiducia illogica e cieca” di Hinata Shoyo nelle proprie capacità.
     
    Per quanto riguarda Takashi Utsui il discorso è complicato. Vedete, io ho sempre percepito un po' di malinconia nel discorso che Wakatoshi fa con Tendou sulla sua famiglia, nella terza stagione: a parte che un divorzio dei genitori è sempre doloroso, ma poi Wakatoshi afferma di non vedere praticamente mai suo padre – addirittura non dà per scontato che quello veda le sue partite in televisione o sia fiero del fatto che sia diventato un campione del Giappone- nonostante, di fatto, egli sia la persona da cui è partita la sua passione per la pallavolo, lo sport che è il fulcro della sua esistenza.
    Non so, l’ho sempre trovata una cosa molto triste, che mi ha colpito molto, per questo DOVEVA ESSERE PRESENTE nella mia storia.
     
    Sappiate, però che la storia della famiglia Ushijima non si conclude affatto con questo capitolo.
    I più attenti, probabilmente, avranno già colto delle avvisaglie… dei passaggi che non tornano…
    Siamo proprio sicuri che tutto corrisponda alla verità e invece non sia frutto della manipolazione di qualcun’altro?
     
    Avviso che, il prossimo capitolo, potrebbe ugualmente richiedermi un poco di tempo in più per la sua pubblicazione… perché, sì, amici, siamo arrivati proprio a quel momento lì e NULLA DEVE ESSERE LASCIATO AL CASO, NEMMENO UNA SILLABA!
     
    A presto,
    Violet Sparks

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    Capitolo 23
    *** Lascia che sia ***


    CAPITOLO XXII
    Lascia che sia
     
    Ad un certo punto,
    devi prendere una decisione.
    I confini non tengono fuori gli altri,
    servono soltanto a soffocare te.
    La vita è dura e noi siamo fatti così.
    Quindi, puoi sprecare la tua vita a tracciare confini
    Oppure puoi decidere di vivere superandoli.
    È vero, ci sono dei confini che
    è decisamente molto,
    molto pericoloso superare…
     
     
    La luce di un lampo illuminò per un istante l’intonaco del soffitto, rischiarandolo quasi per intero di un bagliore asettico e freddo, simile ad una lastra di ghiaccio.
    Poi, il buio.
    Non aveva mai smesso di piovere.
    Il temporale di poco prima si era trasformato in una pioggerella fitta e ostinata che profumava l’aria di un odore muschiato intenso e scandiva il passare delle ore con un sottofondo regolare, monocorde. Il cielo sembrava aver placato la sua ira. Non c’erano stati più tuoni, rombi o boati furibondi; solo lampi, come flash pallidi e privi di suono, a disturbare l’oscurità altrimenti perfetta della notte.
    Forse – rifletté Wakatoshi – a quella calma soltanto apparente, lui preferiva la collera.
    Voltò la testa per l’ennesima volta verso lo schermo a led della sveglia poggiata sul suo comodino: erano ancora le due e trenta.
    Si sentiva così stanco, eppure non era riuscito in alcun modo a prendere sonno.
    Dopo essere rientrato in casa insieme a Hinata, si era buttato sotto la doccia più in fretta che aveva potuto, e con la stessa lena aveva indossato il pigiama, infilandosi nel letto, convinto di collassare non appena la sua testa avesse toccato il cuscino.
    Non era stato così.
    Il peso dei pensieri aveva cominciato a gravargli addosso, quasi che ognuno di essi fosse stato di pietra, un ciottolo attaccato all’adiacente da una passata di stucco che, un pezzetto alla volta, lo stavano murando vivo su quel letto improvvisamente troppo piccolo.
    I dubbi che gli affollavano la mente sembravano infiniti: aveva fatto bene a raccontare il suo passato a Hinata? Era stato un rischio mettersi così a nudo di fronte a qualcuno? Aveva commesso uno sbaglio, lasciandolo avvicinare tanto?
    No, non era stato uno sbaglio, quella era la sua unica certezza.
    Non riusciva a pentirsi di ciò che era accaduto con Hinata Shoyo poco ore prima, anche se lo agitava, anche se gli rimescolava il sangue nelle vene, anche se gli faceva paura.
    Parlargli del suo passato lo aveva aiutato a razionalizzarlo, ma soprattutto ad estirparlo dall’affranto buio e remoto in cui lo aveva ricacciato senza rendersene conto e quello, intanto, era cresciuto, si era alimentato, aveva messo su radici, intossicandolo come la muffa nel seminterrato di un palazzo elegante.
    Adesso che lo osservava alla luce del sole, lontano da sé e dal suo subconscio, Wakatoshi scopriva che il passato aveva spigoli acuminati come coltelli, che avevano sparso cicatrici ovunque in quella vita che si era illuso di controllare e rendere perfetta e invece, sotto la superficie, nascondeva crepe e detriti, voragini profonde quanto la bocca di un vulcano.
    Sradicare quei ricordi lo aveva reso più consapevole, più lucido, alleggerendolo di un macigno che non si era mai accorto di portare sulla schiena. Eppure, ora che finalmente ne era libero, la verità era che non sapeva che cosa farsene, di tutto quello spazio vuoto, non riusciva a trovare un equilibrio, gli sembrava di dover imparare a camminare una seconda volta.
    Si sentiva irrequieto, mancante, un funambolo a cui era stato amputato un arto in cancrena: l’operazione gli aveva salvato la vita, certo, ma gli aveva anche cambiato il baricentro e ogni passo sulla fune, adesso, era diventato un’incertezza.
    Si sedette sul bordo del letto, issandosi di scatto, premendo la parte inferiore dei palmi contro le palpebre per minuti interi.
    Gli stava mancando l’aria.
    Alla fine, decise semplicemente di rinunciare all’idea di addormentarsi, per cui si mise in piedi e uscì dalla camera da letto, diretto in cucina o in palestra o forse in salotto… non ne aveva la minima idea. Sapeva soltanto di aver bisogno di mettersi in movimento con il corpo e con la mente, dando un senso al ritmo frenetico con cui il cuore stava martellando dentro la gabbia toracica.
    La casa era immersa in una oscurità tenue, frastagliata dalle luci artificiali che provenivano dall’esterno; Wakatoshi camminò lentamente lungo il corridoio, indovinando i profili del mobilio a mano a mano che gli si presentavano davanti durante il percorso. Il pavimento fresco, sotto i suoi piedi scalzi, donò subito una sensazione di sollievo alla sua pelle velata di sudore, così come la leggera corrente che doveva provenire da qualche finestra lasciata aperta in una delle altre stanze, gli rizzò i capelli bagnati dietro la nuca, aiutandolo a respirare meglio.
    Stava giusto meditando di togliersi la maglietta del pigiama per lasciare che quella piacevole brezza raggiungesse porzioni più ampie del suo addome, quando si accorse del chiarore dorato che proveniva dalle fessure della porta di Hinata.
    Si fermò dov’era.
    Possibile che anche Hinata fosse ancora sveglio? Oppure aveva solamente dimenticato la luce accesa?
    Era abbastanza tardi, forse era meglio sincerarsi che stesse bene. Hinata non gestiva bene l’ansia, lo aveva dimostrato in più di un’occasione – ad esempio, durante la loro trasferta a Tokyo, quando aveva avuto un vero e proprio attacco di panico in mezzo alla calca della metropolitana di Shinjuku- e di certo la discussione avuta con sua nonna a cena lo aveva sconvolto parecchio.
    D’altra parte, però, qualora si fosse addormentato e basta, senza spegnere l’abatjour sul comodino, sarebbe stato preferibile lasciarlo riposare…
    Ormai Wakatoshi non si sorprendeva neanche più di provare quel bisogno impellente di accudire il ragazzino come fosse stato sua responsabilità da sempre.
    Come se Hinata Shoyo fosse una cosa sua.
    Per lui che aveva fatto del controllo e del distacco la sua personalissima armatura, curarsi del benessere e degli stati d’animo di un altro essere umano al di fuori di sé stesso, era una volontà sconosciuta quanto fastidiosa, eppure, da quando conosceva Hinata, avvertirla gli veniva talmente naturale che spesso se ne accorgeva solo dopo che ogni fibra del suo organismo era stata già pervasa da quell’urgenza.
    Si dondolò sulle gambe, indeciso se entrare o meno.
    In effetti, anche lasciare la luce accesa così immotivatamente era deleterio, si trattava di uno spreco di corrente bello e buono. Però, accedere alla camera di Hinata senza permesso, mentre magari lui era immerso nel sonno, costituiva una violazione della privacy davvero poco educata, per cui…
    “Japan, sei tu?”
    Wakatoshi trasalì. Nel giro di un istante, ebbe la chiara consapevolezza che la ragione principale di tanta esitazione, risiedeva nel fatto di non sentirsi assolutamente in grado di affrontare un’altra conversazione con il piccolo corvo, quella notte.
    “Japan?”
    Sospirò, seccato. “Sì, Hinata, sono io.” tentò allora, rimanendo piantato in corridoio “Mi stavo solo chiedendo perché la luce fosse accesa, non ti preoccupare.”
    “Entra, per favore.”
    “Non ce n’è bisogno, torna a dormire.”
    “Ti prego, entra…”
    A quel punto, Wakatoshi capì di essere con le spalle al muro. Raddrizzò il busto, chiamando a raccolta tutta la calma e la razionalità che ancora albergavano, superstiti, dentro di lui, quindi afferrò la maniglia ed entrò nella stanza che un tempo era stata la sua camera degli ospiti.
    Trovò Hinata seduto a gambe incrociate al centro del letto, con la schiena poggiata su una vaporosa pila di cuscini, simile ad un buffo gatto arancione appollaiato su una nuvola di ovatta. Portava un pigiama di cotone scuro, estivo, con dei disegnini che la semioscurità dell’ambiente non permetteva di distinguere; il colore creava un contrasto netto rispetto al candore lattiginoso della sua pelle, in particolare sulle gambe, snelle e nodose, che la stoffa dei pantaloncini arricciata dalla posizione, lasciava quasi completamente esposte.
    Di puro istinto, gli occhi di Wakatoshi le percorsero per intero, bevendole grammo a grammo, risalendo dalla linea tesa delle caviglie alla curva morbida dei polpacci, fino a inciampare sulla carne più dura dei muscoli nella porzione interna delle cosce.
    Si vergognò di se stesso, quando il desiderio di compiere lo stesso tragitto, gli si srotolò pure attraverso le dita.
    “Perché sei ancora sveglio? È molto tardi.” domandò comunque, mettendo forse un po' troppa autorità nella voce, dato che Hinata si morse le labbra con espressione colpevole.
    “N-non riesco a prendere sonno.” spiegò quello, prima di portarsi le ginocchia contro il petto e cingerle tra le braccia “Tu, invece? Cosa ci fai ancora sveglio?”
    “Non riesco a dormire nemmeno io.” ammise, semplicemente.
    “Perché? Non sei stanco?”
    “Sì, lo sono. Ma per quanto ci abbia provato, il mio corpo continua a rimanere sveglio, è come se…”
    “Se non riuscisse a spegnersi! Sì, è lo stesso per me.” concluse Hinata al posto suo “Non riesco a rilassarmi, mi batte forte il cuore e il mio cervello ronza, ronza… è pieno di pensieri! Continuo a rimuginare su tutto ciò che è successo stasera e provo così tanta rabbia e tristezza… mi stringe lo stomaco, non so spiegarlo! Sono andato un po' in cucina, prima, ho bevuto una camomilla, ho guardato qualche anime sul PC, ma non è servito a un bel niente! Ho la testa che mi scoppia!”
    Di fronte a quella colorita descrizione, Wakatoshi si ritrovò ad annuire, riconoscendo esattamente lo stesso stato d’animo che stava affliggendo anche lui.
    Sorrise, impercettibilmente.
    Onesto e genuino com’era, Hinata dimostrava ancora una volta di possedere l’innata abilità di dare forma e consistenza alle proprie emozioni, donando nitidezza a quello che per lui era soltanto un miscuglio confuso di astrazioni.  
    Senza saper bene cosa fare di sé stesso, lì piantato all’ingresso, il giovane capitano prese a scrutarsi intorno, attraverso la semioscurità della lampada.
    La presenza del ragazzino pareva sparsa come polvere in giro per la stanza: i vestiti ammucchiati in maniera disordinata sulla poltrona, la divisa del Karasuno appesa vicino all’armadio, un paio di ginocchiere a terra, una tazza usata sulla scrivania, un’altra sul comodino, due paia di scarpe ai piedi del letto, il suo profumo buono nell’aria, attaccato alle pareti quasi fosse un secondo strato di vernice.
    Wakatoshi allora non poté fare a meno di chiedersi quando, in quale esatto istante, Hinata Shoyo fosse penetrato tanto a fondo nella sua vita e nella sua casa da non riuscirne più a immaginare l’assenza, al pari del tetto, del pavimento – di un braccio, di una gamba, del sangue, del cuore.
    “Smetterà mai di piovere?” chiese d’un tratto Hinata, distogliendolo dalle sue elucubrazioni.
    Aveva ruotato completamente il capo verso l’enorme porta finestra che dava sul giardino laterale, sicché la sua testa si era trasformata in una arruffata criniera arancione, come una fiamma incastrata nella notte buia. 
    “Certo che smetterà di piovere. Altrimenti il nostro pianeta sarebbe preda delle inondazioni.” rispose Wakatoshi, non trovando alcun senso nella domanda posta dal piccolo corvo.
    Hinata non ribatté, tuttavia si girò brevemente verso di lui, rivolgendogli una risata morbida.
    Adesso che lo osservava con maggiore attenzione, notava che aveva un’espressione a dir poco sfinita; i suoi occhi erano piccoli e lucidi per la stanchezza e perché continuava a stropicciarli con i pugni, aveva le guance molto rosse, inoltre anche la sua voce era insolitamente fiacca, lenta.
    “Hinata, riprova a stenderti, sei molto stanco, devi riposare.”
    “Non servirebbe a niente.”
    “Spegni la luce, magari il buio ti aiuta.”
    “Stenditi qui, insieme a me.”
    Wakatoshi ci mise un tempo indefinibile a processare la frase appena pronunciata da Hinata e in realtà, a giudicare dallo sguardo sgranato di quest’ultimo e dal guizzo improvviso che ebbe tutta la sua figura, era probabile che stesse avendo serie difficoltà anche lui.
    Perfino la pioggia sembrò fermarsi, in attesa.
    “Oddio! Mi è uscita malissimo! Non uccidermi! Non sgridarmi!” esclamò subito il ragazzino, saltando in ginocchio al centro del letto e agitando le braccia come un uccellino spaventato “Non c’era niente di sess- cioè, sì, sai, sessual- insomma, non c’era niente di sconcio nella mia proposta, te lo garantisco!”
    “Ho capito, va bene, calmati.”
    “Ho solo pensato che, visto che nessuno di noi due riesce a dormire, magari se ci stendevamo insieme - completamente vestiti e ognuno dalla propria parte di questo letto gigante- forse diventava più facile rilassarci, non credi anche tu?!”
    “Non lo so, n-”
    “Io faccio sempre così, davvero! Cioè non è che dormo con della gente random! Ma quando non ho sonno, accendo la tv ed è come essere con altre persone!”
    “Sì, ho afferrato il concetto.”
    “Solo che, nel nostro caso, saremmo noi a parlare e non degli attori dentro uno schermo! Anche s-“
    “Shoyo, calmati, basta!”
    Al tuono di quel rimprovero, Hinata smise all’istante di straparlare, per poi sgonfiarsi su se stesso come una specie di palloncino bucato: sorpresa, delusione, imbarazzo e terrore iniziarono a saettare sul suo viso in modo talmente caotico e repentino, che Wakatoshi ebbe giusto un secondo per rammaricarsi di aver usato, ancora una volta, il nome di battesimo del piccolino, prima di sospirare mesto, e affrettarsi ad adottare l’unica soluzione che riuscì a partorire al fine di evitare che Hinata continuasse a dare di matto.
    “Va bene, mi stenderò vicino a te.” disse, facendo uno sforzo immane per controllare le corde vocali e, nel frattempo, reprimere l’istinto di fuga che invece graffiava attraverso il reticolo dei suoi vasi sanguigni.
    Hinata sbatté le ciglia freneticamente, in silenzio.
    Il rossore sulle sue guance era ben visibile, nonostante la semioscurità della stanza.
    “Se-se non ti va, io…”
    “Rimango finché non ti addormenti, nulla di più.”
    “Non ti voglio disturbare…”
    “Ho già detto che va bene.” ribadì ancora Wakatoshi e, sapendo quanto già si stesse pentendo di quella decisione assolutamente irrazionale e pericolosa, decise che era meglio non rimuginarci oltre.
    Chiuse la porta accanto a sé con una leggera spinta – il clic della serratura gli rimbombò nelle orecchie come un colpo di pistola- sgranchì il collo, tentando di alleviare la tensione che d’un tratto aveva ghiacciato, una ad una, tutte le ossa del suo corpo, quindi camminò fino al letto, fissando rigorosamente il parquet lucido che si dipanava sotto ai suoi piedi.
    Il fruscio delle lenzuola gli lasciò intendere che Hinata doveva essersi spostato in modo da fargli spazio.
    Non lo guardò nemmeno in quel caso.
    Si stese di schiena, sul margine più estremo del materasso, faccia al soffitto e rigido quanto una carcassa abbandonata da diverse ore. Dal proprio fianco sinistro, avvertì l’altro ragazzo fare la stessa cosa dopo qualche maldestra manovra di assestamento che fece cigolare le doghe di legno.
    Poi furono di nuovo immersi dal rumore della pioggia.
    Era impossibile per Wakatoshi descrivere ciò che stava provando. Il battito del suo stesso cuore gli stava martellando nelle tempie, il suo stomaco si era svuotato completamente e nelle porzioni nude della sua pelle, gli pareva di percepire l’ossigeno intorno in ogni singola molecola, quasi che le sue cellule si fossero trasformate in una miriade di minuscoli ricettori.
    Ma non era soltanto qualcosa di fisico.
    Era un rimescolarsi di sensazioni inesplicabili che cozzavano l’una contro l’altra, amplificandosi fino all’esplosione. Sentiva tanto, troppo e, allo stesso tempo, non riusciva a cogliere niente. Era come se un meccanismo conservato in un posto remoto dentro di sé fosse appena andato in tilt e adesso i bulloni stessero stridendo, in una cacofonia di suoni metallici, assordanti.
    Lo spazio fra sé e Hinata era una voragine ribollente di lava.
    Quello era tutto un altro livello di intimità.
    Quello era tutto un altro livello di intimità e Wakatoshi capì di averne paura – come non ne aveva mai avuto per niente in vita sua. Perché in quella zona grigia e inesplorata, non aveva il controllo su niente, non sapeva cosa aspettarsi, non sapeva cosa c’era, ma soprattutto non sapeva chi lui stesso fosse e che ruolo avesse, e perché mai reprimere il desiderio di toccare Hinata, all’improvviso, fosse diventato così difficile da risultare doloroso.
    “F-forse è meglio se spengo la luce!” balbettò il piccolo corvo, con una voce tesissima che alimentò anche la sua, di agitazione.
    “Sì, spegnila.” si limitò a snocciolare Wakatoshi, congiungendo le mani al centro dello stomaco, giusto per dar loro uno scopo.
    Non appena furono immersi nell’oscurità della notte, tirò un sospiro di sollievo: almeno – constatò – al buio era più facile far finta di essere solo, dimenticarsi l’identità del ragazzo con cui stava dividendo il letto.
    “H-hai freddo? V-vuoi una coperta?” chiese Hinata, dopo qualche secondo di silenzio.
    “Sì, va bene.”
    “Ecco, prendi un po' della mia.”
    “Ne vado a prendere una di là.”
    “No, non ti alzare. È abbastanza grande, possiamo coprirci tutti e due!”
    Wakatoshi afferrò il lembo di morbido pile che gli veniva offerto e cercò di sistemarselo addosso, tirando il tessuto meglio che poteva. Si arrese, dopo qualche tentativo: non era la coperta ad essere troppo corta, il problema era la distanza macroscopica che c’era fra di loro.
    “Non fa niente, posso stare senza.” disse il giovane capitano, restituendo il plaid al ragazzino.
    “Ma, ti prenderai un malanno!”
    “Non ho freddo.”
    “Basta solo…” e senza nemmeno finire la frase, Hinata si spostò lungo il materasso in modo da ridurre il vuoto in mezzo ai loro corpi.
    A quel punto, la coperta effettivamente riuscì ad avvolgere entrambi, ma Wakatoshi si sentì andare a fuoco neanche se un incendio fosse appena divampato da qualche parte nella stanza: il ragazzino, adesso, era talmente vicino che sarebbe bastata una sola mossa falsa per permettere ai loro arti di toccarsi.
    Si impegnò a rimanere immobile, a focalizzarsi su qualsiasi altra cosa che non fosse il leggero tepore che aveva preso a irradiarsi sul suo braccio sinistro o i rumori che Hinata produceva, ticchettando le dita, accavallando le gambe, grattandosi la testa, sistemandosi i vestiti.
    Avrebbe voluto calmarlo.
    Avrebbe voluto prendergli le mani, stringerle forte, cancellargli di dosso quell’ansia latente che stava intossicando lui, le nuvole, il quartiere, la pioggia e tutta l’aria intorno, ma c’era quella sensazione - come un formicolio sotto l’epidermide, un prurito tra i globuli del sangue - che gli diceva che semmai lo avesse fatto, poi non avrebbe saputo più fermarsi e così, dopo le mani, avrebbe stretto anche i polsi e le costole e i fianchi e le ginocchia e il collo e…
    Buttò fuori l’aria, a disagio.
    “Quale è la tua squadra preferita di pallavolo?” chiese Hinata, di punto in bianco, sussurrando quasi non volesse disturbare qualcuno.
    Wakatoshi aggrottò la fronte, “Me lo hai già chiesto tempo fa, sono gli Adlers.”
    “Mmh, okay sì, hai ragione… allora, il tuo piatto preferito?”
    “Sai anche questo, è il riso hayashi.”
    “Uffa! Aspetta, ci ragiono meglio: quante lingue straniere conosci?”
    “Anche di questa domanda sai già la risposta, Hinata. Ho imparato l’inglese a scuola, come tutti e parlo spagnolo perché me lo ha insegnato Nana.”
    Davanti all’ennesimo buco nell’acqua, il ragazzino non proferì più parola.
    Ci furono dei rumori indistinti, però, seguiti da uno strano incurvarsi del materasso e un sommesso dondolio delle coperte, finché un calcio dritto nello stinco non spinse Wakatoshi a buttare un’occhiata alla sua sinistra, per capire cosa stesse succedendo.
    Un brivido gli attraversò la nuca.
    Il ragazzino si era girato completamente sul fianco e, sebbene la semioscurità della notte celasse quasi per intero il suo volto, Wakatoshi intuì che lo stava osservando, imprimendo quei suoi occhi giganteschi e vividi su di lui come due chiodi nel muro.  
    Avrebbe dovuto distogliere lo sguardo.
    Non ci riuscì.
    “Un ricordo felice che hai con la tua famiglia.”
    “C-come hai detto, scusa?” proruppe Wakatoshi, scuotendo il capo per tornare in sé.
    “Dimmi un ricordo felice che hai con la tua famiglia, il primo che ti viene in mente. Mi hai raccontato solo cose tristi, ma devono esserci stati anche dei momenti felici coi tuoi genitori, no? Dimmene uno. Uno soltanto.”
    Per qualche istante, calò il silenzio.
    La domanda di Hinata lo aveva colto decisamente di sorpresa, per cui Wakatoshi impiegò un tempo piuttosto lungo, prima di trovare una risposta adeguata. Una vocina dentro di sé, gli fece notare che stava permettendo ancora una volta a Hinata Shoyo di avvicinarsi, di abbattere una nuova barriera tra loro due. Eppure, dei mille motivi che aveva sempre avuto per tenere il ragazzino alla larga, per respingerlo e per difendersi, in quel momento, non gliene venne in mente neanche uno.
    “Un pomeriggio, i miei genitori vennero a prendermi prima da scuola. Andammo al parco, quello dove io e mio padre di solito giocavamo a pallavolo. Era la prima volta che veniva anche mia madre. Me lo ricordo come se fosse ieri. Aveva fatto un esame, era radiosa. Portava una treccia con dei fiori tra i capelli e un vestito bianco, leggero, di… pizzo di sangallo. Lei si mise sul prato a leggere, mentre io e papà cominciammo a fare dei passaggi. Ricordo che, ad un certo punto, la palla finì sul caffè che mamma stava bevendo, sporcandola da capo a piedi. Fece una faccia buffissima, poi cominciò a rincorrerci per tutto il parco. La gente ci guardava come se fossimo pazzi. Penso di non aver mai riso tanto, in vita mia.”
    Un profondo senso di vuoto si impossessò di lui, risalendogli nelle viscere a ondate, come una marea. Capì che doveva trattarsi di quella che le persone chiamavano tristezza - un sentimento a lui quasi completamente sconosciuto- tuttavia non gli era affatto chiaro perché mai un sentimento così potesse sgorgare da qualcosa di luminoso e limpido come il ricordo che aveva appena raccontato: forse, constatò, i ricordi felici erano più dolorosi di quelli normali.
    Tutto si spense, nell’istante in cui le dita bollenti del ragazzino si aggrapparono alla manica della sua T-shirt.
    “È un ricordo bellissimo, Japan.” mormorò il piccolo corvo, stringendo un poco la presa.
    “Dimmene uno tu.” disse Wakatoshi, parlando all’oscurità “Un ricordo felice che hai di tuo padre.”
    Il singulto di Hinata gli rimbalzò nel petto quasi fosse proprio.
    Si rese conto di aver sbagliato, di avergli posto una domanda indelicata con il solo intento di placare l’irrequietezza che avvertiva, allora “Scusa.” si corresse subito “Non importa, non volev-“
    “Quando è nata Natsu.” intervenne però il ragazzino, con una voce incrinata, che gli si ruppe in gola “Quando è nata Natsu, io e mio padre dovemmo passare la serata da soli a casa perché, dopo il parto, mamma ovviamente aveva l’obbligo di restare in clinica insieme a mia sorella. Peccato che… beh, mio padre fosse un completo disastro con le faccende domestiche! Bruciò la cena tre volte, prima di arrendersi e ordinare una pizza. Ricordo che mi fece lo shampoo con il bagnoschiuma e lavò il pavimento con l’ammorbidente per i panni… rimase tutto azzeccato per una settimana! Fu molto divertente!” a quel punto Hinata emise in una risata piena di malinconia “Mi dispiace, il mio ricordo fa schifo rispetto al tuo. È solo che… io non ho ta-tanti ricordi di papà… ero molto piccolo… e…”
    Wakatoshi se lo tirò contro il petto nello stesso istante in cui il ragazzino cominciò a piangere.
    Avrebbe dovuto turbarlo quella vicinanza, corrodergli la pelle, il sistema nervoso, invece Wakatoshi non provò niente del genere, semplicemente si girò anch’egli sul fianco, lasciando che il volto umido di Hinata si incastrasse nella curva del suo collo e che le loro braccia si aggrovigliassero in un intreccio rassicurante, bollente.
    Il suo cervello si era spento.
    Aveva deposto le armi.
    “Anche il tuo è un bel ricordo.” constatò, sinceramente, immerso nel profumo dolce dei suoi capelli.
    “Ho paura di dimenticare ogni cosa e non voglio.” sussurrò Hinata, la sua bocca che scivolava a contatto diretto con la linea del mento di Wakatoshi, mettendogli i brividi “Il suo viso… la sua voce… sono sempre meno nitidi…”
    “Raccontami qualche altra cosa, allora.”
    “Ma…”
    “In questo modo, rinsalderai la memoria. Diventerà più semplice ricordare.”
    “Non importa, Japan. Non voglio annoiarti.”
    “È impossibile annoiarsi, quando si tratta di te, Hinata Shoyo.”
    Lo sentì sorridere contro la propria pelle.
    Passarono così ore.
    O forse giorni, mesi, anni.
    Nel buio, la voce fragile del ragazzino divenne l’unica cosa coerente, il suo corpo sottile l’unica forma a cui aggrapparsi in mezzo ai racconti del passato e del presente, che ben presto cominciarono confondevano col suono placido della pioggia.
    Wakatoshi non aveva mai parlato così a lungo.
    Non aveva mai ascoltato così a lungo.
    Ma preferì non porsi domande.
    Si abbandonò nella corrente, lasciandosi trasportare ovunque essa avrebbe deciso di portarlo.


     
    *****


    Fu il rombo di un tuono, a svegliarlo.
    A giudicare dal fioco bagliore proveniente dalla finestra, stava albeggiando, nonostante il cielo si fosse trasformato ancora una volta in un inferno di acqua e lampi di luce pallidi.  
    Strizzò le palpebre un paio di volte, tentò di sgranchirsi i muscoli, ma un peso distribuito sulla sua intera figura glielo impedì: Hinata stava dormendo profondamente, raggomitolato contro il suo petto.
    La punta di cieco panico che avvertì, per fortuna, venne vinta quasi subito dal torpore che lo avvolgeva, il quale sembrava stemperare ogni cosa, sfocando i confini non solo del mondo esterno, ma anche dei suoi stessi pensieri.
    Quanto avevano dormito?
    Due ore? Tre?
    Era troppo stanco per ragionare in maniera coerente.
    Scostandosi un poco sul materasso, si concesse di studiare il ragazzino disteso al suo fianco, approfittando di quella vicinanza irrisoria, ma soprattutto della quiete assoluta in cui il piccolo corvo verteva – un’occasione irripetibile, considerando la sua indole burrascosa.
    Indugiò sul suo viso da bambino, le ciglia lunghe e chiare, la spruzzata di lentiggini che correva lungo il suo naso e sugli zigomi, la tenera rotondità delle guance. Lo sorprendeva sempre la differenza eclatante che vi era fra i loro corpi. Dove lui era roccia, Hinata sembrava fatto di piume. Dove lui era spigoli e ombre, contrasti netti, Hinata era curve e armonia, luce indomita, grezza. Era bello. Bello di una bellezza diversa dalla propria. Una bellezza di cui Wakatoshi aveva scoperto l’esistenza soltanto da poco, proprio attraverso quell’uccellino troppo agitato, col cuore sempre in vetrina: quella delle cose pulite, buone e semplici come una mattina di sole, calde e familiari come casa.
    Si accorse di avere ancora il braccio fermo intorno alla sua vita, lo spostò piano.
    Nel sonno, la maglietta del pigiama di Hinata si era sollevata leggermente scoprendogli l’osso del fianco, allora Wakatoshi vi posò sopra la mano, a palmo aperto, stringendo appena.
    Insinuò le dita un poco più su, oltre l’orlo della T-shirt, dove la pelle dello stomaco si tendeva, indurendosi sotto la spinta dei muscoli performati dell’addome. Immaginò di salire ancora, esplorare altri affranti di quella distesa lattiginosa e liscia che era la sua epidermide, svelarne i segreti, le reazioni. Vide se stesso marchiarla con i denti, assaggiarla con la punta della lingua, graffiarla fino a sentire le ossa del ragazzino incrinarsi dal bisogno.
    Dal desiderio.
    Si allontanò di scatto, col cuore che batteva ad un ritmo febbrile.
    Si stava spingendo troppo oltre, doveva fermarsi.
    Si alzò dal letto, cercando di non svegliare Hinata, con la fretta di fuggire arpionata alle gambe. Il suo battito cardiaco era ancora accelerato, ma non era un problema: sarebbe andato a correre, la fatica lo avrebbe aiutato a scaricare la tensione e mettere in ordine la testa.
    Tutto sarebbe ritornato al proprio posto.
    Aveva appena voltato le spalle al letto, quando una mano gli afferrò il polso: apparteneva a Hinata, il quale si era sollevato a sedere sul letto, nonostante gli occhi impastati di sonno e la testa che ciondolava in avanti nello sforzo – inutile- di mantenersi vigile.
    “Dove stai andando?” bofonchiò, con voce intorpidita.
    Wakatoshi non poté impedirsi di accennare un sorriso davanti a quella comica scenetta.
    “Sto andando a correre, tu torna a dormire. È ancora presto.” gli intimò, cercando di sgusciare via dalla sua presa spingendolo delicatamente. Peccato però che il ragazzino gli si aggrappò alle spalle e alle braccia, facendolo quasi cadere sul letto.
    Solo Hinata Shoyo poteva dimostrarsi così testardo pure mezzo addormentato.
    “Rimani qui.”
    “Devo andare. Rimettiti a dormire, per favore.”
    “Ma piove a dirotto.”
    “Sono abituato.”
    A quel punto, Hinata si esibì in tutta una serie di farfugliamenti indistinguibili, mentre le sue palpebre sfarfallavano, lottando per non chiudersi. Vinto dal sonno però, all’improvviso la sua testa oscillò pericolosamente all’indietro e di certo avrebbe sbattuto la nuca contro il muro, se Wakatoshi non lo avesse impedito, prendendogli il viso tra le mani.
    “Puoi fare come ti dico, per una volta?” gli chiese, senza un briciolo di convinzione, cercando di mantenergli almeno il capo dritto manovrandogli il collo, tuttavia il ragazzino trovò appena la forza di annuire, entrando e uscendo dal suo dormiveglia.
    Aveva le guance lievemente arrossate, le labbra lucide, i capelli arruffati e sparati ovunque.
    Wakatoshi si ritrovò a guardarlo in silenzio per lunghi istanti, senza proferire parola – forse, senza nemmeno respirare.
    Poi lo baciò.
    Lo baciò perché non avrebbe potuto fare nient’altro.
    Era l’unica cosa giusta da fare.
    L’unica cosa sensata.
    Qualsiasi altra azione sarebbe stata un errore madornale, anche la più piccola.
    Un singulto, un battito, un sospiro.
    Tutti errori.
    Una caterva di terribili, plateali errori.
    Il mondo, intorno a loro, si zittì.
    Quando riaprì le palpebre, vide che Hinata Shoyo lo stava guardando come se non riuscisse a metterlo bene a fuoco, con due occhi piccolissimi e arrossati dalla fatica di non chiudersi.
    “Wakatoshi…” soffiò piano, prima di aggrapparsi al tessuto della sua maglietta e premere la bocca morbida sulla sua, tirandolo giù con sé.
     
    Wakatoshi non andò a correre, quella mattina.
     
     
    Però una cosa la so:
    se sei pronto a correre il rischio,
    la vita dall’altra parte è spettacolare.
    - Grey’s Anatomy
     
     


    NOTE AUTORE
    Questa scena è nata praticamente due anni e mezzo fa, insieme all'idea di questa storia ed è rimasta custodita nella mia testa fino ad adesso, mescolandosi e rimodellandosi giorno dopo giorno. Non avete idea di che emozione sia stato scriverla e, adesso, pubblicarla.
    Spero di non aver deluso le vostre aspettative (mai come questa volta, sarei davvero curiosa di ricevere un feedback da tutti voi!).
    Non voglio aggiungere nient’altro, questa volta.
     
    A presto
    Violet Sparks

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    Capitolo 24
    *** Quando chiama il sangue ***


    CAPITOLO XXIV
    Quando chiama il sangue
     
     
    I sistemi pressurizzati hanno bisogno di una valvola di sfogo,
    ci deve essere un modo per ridurre la tensione, lo stress,
    prima che diventi impossibile da sopportare.
    Dobbiamo trovare un modo per avere sollievo,
    perché se la pressione non trova una via di uscita…
    beh, esploderà.
    La pressione non scende mai.
    Mai.
    La pressione aumenta... aumenta…
    Aumenta.
    - Grey’s Anatomy
     
     
    Wakatoshi ruotò il capo lentamente, alzò e abbassò le spalle più volte, aiutandosi con una mano per manovrare le articolazioni con la dovuta cautela, dopodiché si sedette a terra per cominciare il riscaldamento pure nella parte inferiore del corpo.
    Nello stesso istante in cui allungò la gamba sul lucido pavimento della palestra, Hinata gli passò davanti, spingendo una cesta di palloni grande quasi quanto lui.
    “C-ciao, Wakatoshi!” esclamò, con una voce almeno tre ottave più alta del normale.
    Wakatoshi gli rivolse un breve cenno di saluto, prima di tornare a fissare i muscoli in tensione della propria coscia neanche se nascondessero una qualche operazione matematica da risolvere.
    Erano passati tre giorni da quella mattina.
    La mattina in cui aveva baciato Hinata Shoyo.
    Non riusciva nemmeno a formulare quel pensiero senza sentire le ossa schizzargli fuori dalla sua stessa pelle.
    A stento si erano rivolti la parola, da allora e ogni loro interazione era stata del medesimo tenore di quella appena avvenuta: assolutamente imbarazzante.
    Hinata evitava di guardarlo negli occhi, farfugliava frasi sconnesse e si portava addosso talmente tanta agitazione che in casa era un disastro, Wakatoshi sudava freddo ogni volta che lo vedeva avvicinarsi ai fornelli – o peggio ancora, ai coltelli! Certo, lui non stava avendo un atteggiamento più maturo del suo. Andava in allarme non appena avvertiva i suoi passi nel corridoio, cercava di rimanere fuori casa più tempo possibile e quando rientrava, inventava qualsiasi scusa plausibile pur di ridurre i loro incontri al minimo; solo il giorno precedente aveva mangiato la sua cena così in fretta, che per poco non aveva finito per vomitarla, non appena si alzato da tavola.
    Sembravano tornati ai primissimi giorni di convivenza.
    Anzi no, era tutto decisamente più strano e spiacevole.
    Almeno, all’epoca Wakatoshi riusciva a dormire.
    E a concentrarsi su qualcosa che non fosse il corpo caldo di Hinata Shoyo premuto contro il proprio, il suo sapore dolce fermo sulla lingua…
    Dannazione.
    Approfittando della posiziona prona, il capitano nascose il viso in mezzo alla piega del gomito, per poi esalare un lento e profondo sospiro di sconforto.
    Non avrebbe mai dovuto baciare Hinata.
    Non aveva alcun senso ciò che aveva fatto.
    Era stato un gesto sconsiderato, avventato, impulsivo.
    Un attimo di debolezza.
    Non era lucido in quel momento, non stava ragionando.
    Altrimenti, cosa mai avrebbe potuto spingerlo a compiere un’azione tanto folle come unire le proprie labbra a quelle del ragazzino, e poi stringerlo, e poi toccarlo, e poi bere il suo respiro come se il mondo avesse dovuto finire da lì a pochi istanti.
    Forse era stato il sangue, convenne.
    Lo stesso, maledetto sangue che non smetteva di bruciargli nelle vene da quando aveva lasciato quel letto, dopo che Hinata si era riaddormentato – colpevole e furtivo neanche fosse stato un ladro - e che adesso sfrigolava, pungendo sottopelle, ogni qualvolta il piccolo corvo inavvertitamente accorciava le loro distanze.
    Si alzò in piedi massaggiandosi le tempie, quindi trascinò indietro i capelli, nel vano tentativo di catturare qualche grammo di ossigeno in più e riconquistare un ritmo cardiaco regolare.
    Il vociare del pubblico che prendeva posto sugli spalti, non faceva che aumentare l’irrequietezza che gli stava annebbiando la mente, ma si costrinse a ritrovare la dovuta lucidità: non poteva - e non voleva! - rimanere ancora in quello stato. Già le sue performance durante gli allenamenti con la nazionale erano state pessime, sarebbe stato riprovevole fare lo stesso sul campo della Shiratorizawa, dove oltretutto era chiamato a guidare la propria squadra in qualità di capitano.
    Al fine di distrarsi, indugiò sul volto dei suoi compagni, intenti come lui a portare a termine il riscaldamento, accanto alla panchina.
    Questo genere di match era davvero importante per loro; d’altronde, dopo la sconfitta agli inter-liceali di primavera si trattava delle uniche, nonché ultime occasioni che avevano per giocare insieme, indossando la maglia bianca e amaranto della Shiratorizawa.
    Notò che sembravano parecchio concentrati.
    Forse... troppo concentrati?
    Nessuno dei ragazzi stava proferendo parola, cosa alquanto bizzarra dato che di solito chiacchieravano molto per stemperare l’adrenalina del prepartita; i loro sguardi apparivano sfuggenti, alcuni persino crucciati, mentre i loro movimenti trasmettevano una tensione latente, al punto da risultare scattosi, meccanici come quelli di un mucchio di burattini.
    C’era una strana atmosfera nell’aria.
    In realtà, Wakatoshi lo aveva percepito fin dagli spogliatoi, dove i ragazzi si erano presentati uno dopo l’altro, snocciolando un saluto a mezza voce per poi chiudersi nel religioso silenzio in cui vertevano ancora adesso, ma ne aveva attribuito la causa alla naturale ansia da prestazione, ora stava seriamente cominciando a preoccuparsi.
    Quando alla fine vide Shirabu – il quieto e imperturbabile Shirabu- posare la borraccia sulla panca con un gesto tanto inconsulto da rovesciare anche metà delle altre bottigliette lì in fila, capì che i suoi sospetti erano fondati.
    “C’è qualche problema?” si decise quindi chiedere, attirando l’attenzione del gruppetto.
    Al suono della sua domanda, i ragazzi quasi trasalirono, dopodiché si scambiarono un’occhiata silenziosa e prolungata, la quale contribuì a mettere ancora più in allarme i sensi del giovane asso, tuttavia, “Nessuno, capitano, ci prepariamo soltanto ad affrontare il match.” fu l’unica risposta che ottenne da Reon, accompagnata da un flebile sorriso di circostanza.
    “Non è vero.” insistette Wakatoshi “Non vi ho mai visto così nervosi, nemmeno durante le partite del torneo nazionale. Qualora ci fossero dei problemi, vi pregherei di mettermene al corrente. Sono il vostro capitano, devo sapere se c’è qualcosa che può influire sulle vostre prestazioni in campo.”
    La scena si ripeté uguale e identica: i ragazzi della Shiratorizawa si limitarono a guardarsi l’un l’altro senza dire nulla, dondolandosi sul posto in uno stato di agitazione sempre più evidente.
    Fu Tendou, seduto sulla panchina dietro le loro spalle, a prendere la parola.
    “È che non ci piace giocare contro la Tomagawa. Ogni anno è un supplizio per noi avere a che fare con i ragazzi di quella squadra.” spiegò, con un sospiro.
    Wakatoshi aggrottò la fronte, volgendo istintivamente gli occhi verso gli avversari che intanto schiamazzavano, rilassati, dall’altra parte della palestra.
    La Tomagawa era una università privata di Osaka, gemellata con l’accademia Shiratorizawa da tempo immemore: i fondatori dei due poli di istruzione erano fratelli, per cui erano numerosi gli eventi che vedevano coinvolti i rispettivi studenti, in particolare le trimestrali partite di beneficenza di pallavolo, volte a raccogliere fondi per borse di studio e altre agevolazioni economiche da indirizzare agli studenti meno facoltosi.
    In linea di massima, a Wakatoshi non dispiaceva disputare quelle partite. Da un punto di vista strettamente sportivo, scontrarsi con ragazzi più grandi, con più esperienza e fisici più robusti, costituiva sicuramente un’occasione di arricchimento, tuttavia comprendeva lo stato d’animo dei suoi compagni di squadra: non aveva avuto chissà quante interazioni coi ragazzi della Tomagawa, ma gli erano sempre parsi alquanto spocchiosi, per non dire proprio maleducati
    “Mi rendo conto che gli studenti della Tomagawa possano risultare un po' arroganti.” asserì dunque, cercando di non risultare troppo severo “Ma questa partita rappresenta una tradizione importante per la nostra accademia, dobbiamo dare il massimo e… ho detto qualcosa di sbagliato?” domandò perplesso, innanzi all’inaspettata reazione degli altri: non aveva nemmeno finito di parlare che i volti dei ragazzi si erano rabbuiati visibilmente, ad alcuni di loro erano venuti perfino gli occhi lucidi, come fossero stati sul punto di piangere.
    Non li aveva mai visti in quelle condizioni.
    Ma che stava succedendo?
    “Wakatoshi è con te che loro sono soltanto un po' arroganti…” intervenne Reon, con aria mesta “Perché tu sei forte e influente, se si comportassero male, attirerebbero troppo l’attenzione. Con noi, invece, sono assolutamente tremendi!”
    “Che intendi dire?”
    “Che si comportano di merda, capitano!” proruppe Yamagata, arrabbiato.
    “È vero, sono aggressivi sia fisicamente che verbalmente!” aggiunse subito Kawanishi.
    “Quando siamo sotto rette è uno strazio! Ci minacciano, ci insultano o ci deridono in modo pesantissimo!” raccontò Goshiki con la voce rotta.
    “Già, l’anno scorso c’era la mia fidanza a fare il tifo sugli spalti… hanno detto certe cose su di lei che non riesco neanche a ripetere! Non l’ho mai più invitata a vedere una nostra partita… mai!”
    “E spesso passano direttamente alle mani! Ci trattengono per la divisa, ci fanno gli sgambetti, a volte volano addirittura calci e pugni!”
    “Due anni fa, li ho incontrati in bagno subito dopo la partita: mi hanno sbattuto la testa contro il lavandino, dopodiché mi hanno chiuso dentro ad uno dei cubicoli, bloccando la porta!”
    “Quando so di dover giocare contro di loro, non dormo per una settimana… È semplicemente orribile...”
    Wakatoshi ci mise diversi secondi a processare ciò che era appena uscito dalle bocche dei suoi compagni di squadra. Si sentiva come se si fosse svegliato nel bel mezzo di una scena del crimine. Quanto raccontato dai ragazzi era sconcertante, fuori da ogni realtà, eppure il capitano non pensò nemmeno per un istante che stessero mentendo o esagerando: le loro espressioni affrante, terrorizzate, parlavano da sole.
    “Perché non avete mai segnalato niente di tutto questo all’arbitro?” chiese, frastornato.
    Tendou schioccò la lingua, carico di amarezza, “Intendi l’arbitro che da tradizione viene dalla loro università? Lui fa finta di non vedere, ovviamente! Anzi, se proviamo a dire qualcosa, poi cerca di sabotarci, chiamando dei falli inesistenti!”
    “E i guardialinee, allora? Loro sono della nostra scuola, non possono essere di parte.” constatò Wakatoshi; all’improvviso, un ricordo gli attraversò la mente “Eita, tu hai fatto una cosa del genere l’anno scorso, me lo ricordo. Hai detto al guardialinee che la loro ala sinistra ti aveva trattenuto per la maglietta, infatti è stato espulso, non è vero?”
    La figura di Eita Semi venne attraversata da un brivido così intenso che Reon, in piedi di fianco a lui, si affrettò a stringergli le braccia intorno alle spalle, quasi che quello potesse accasciarsi al suolo da un momento all’altro. Il giovane alzatore strinse i pugni, emise un sospiro di autentica frustrazione, quindi abbassò lentamente la testa, gesto che, tuttavia, non celò l’espressione ferita che gli adombrava il volto.
    “Sì, ti ricordi bene, capitano.” disse, cacciando ogni sillaba dalla bocca a fatica “E ti ricordi anche che cosa è successo il giorno dopo?”
    “Il giorno dopo?” a Wakatoshi servì qualche secondo per fare mente locale e capire a cosa si stesse riferendo Eita, poi “Ah, sì, giusto… hai fatto quell’incidente in biciclett-“
    Sgranò gli occhi, mentre la verità si delineava nella sua testa.
    Non poteva essere vero.
    “Mi hanno aspettato fuori dal parcheggio in quattro. Mi hanno pestato a sangue, è stato spaventoso. Ho avuto gli incubi per settimane.” gemette Eita, lasciando che una lacrima sola solcasse il suo viso cementato dietro ad una maschera tremolante di strenuo orgoglio.  
    “È per questo che non abbiamo mai detto niente nemmeno ai senpai o all’allenatore…” aggiunse Tendou, prendendo sottobraccio il compagno ancora molto scosso “Se sanno che abbiamo fatto la spia, è la fine!”
    “Quei tizi sono davvero pericolosi!” sospirò Shirabu “Li detesto!”
    Allibito, Wakatoshi ruotò di nuovo il capo verso la panchina avversaria, esaminando uno ad uno i membri della Tomagawa, questa volta attraverso la lente di rancore e paura appena costruita dai ragazzi della sua squadra.
    Metabolizzare tutto era semplicemente impossibile.
    La Tomagawa non gli aveva mai fatto una buona impressione, certo, ma mai avrebbe potuto immaginare che quelle persone potessero avere un comportamento così disonesto e violento nei confronti degli avversari; sulla carta, oltretutto, si trattava di ragazzi per bene, provenienti da famiglie altolocate di Osaka.
    Un pensiero fra tutti però, lo rattristò ancora di più.
    “Perché non ne avete mai parlato con me?” chiese, riportando la propria attenzione sui compagni della Shiratorizawa.
    Si sentì un vigliacco.
    La domanda che avrebbe voluto fare loro era diversa – e molto, molto più difficile da formulare: perché non mi sono mai accorto di nulla?
    Ci fu un secondo di silenzio, in cui i ragazzi si ritrassero, abbassando lo sguardo.
    “Perché tu sei tu, Wakatoshi.” affermò Reon, rivolgendogli un sorriso gentile “La pallavolo è il tuo chiodo fisso, il tuo intero universo. Pensi solo a giocare, lo sappiamo. E va bene così.”
    “Io sono il vostro capitano. Il mio compito è guidarvi e… difendervi, in questo caso.”
    “E lo fai!” proruppero i ragazzi, in coro.
    “Nessuno lo fa meglio di te… in campo! Sei il nostro cannone d’attacco! La nostra invincibile arma di distruzione di massa!” aggiunse Goshiki, con la voce piena di una ammirazione che, per la prima volta, Wakatoshi non pensava affatto di meritare.
    “Dovrei essere più di questo…”
    “A noi basta che tu li metta a tacere con le tue schiacciate killer durante la partita! È una soddisfazione impareggiabile vederli crollare, davvero!” fece Yamagata.
    “Già! Non puoi capire quanto sia bello sapere che qualunque angheria verrà ripagata dalla loro disfatta!”
    “È vero, fuori dal campo ce la vediamo da soli! Possiamo farcela…”
    Wakatoshi aggrottò la fronte, “Ma io non voglio che voi subiate tutto questo, è disumano! Se solt-”
    “Wakatoshi…” lo interruppe all’improvviso Tendou, scrollandolo per il gomito.
    “Aspetta, Tendou, voglio dire questa cosa.”
    “Wakatoshi, ascolta un attimo…”
    “Aspetta, devo chiarire ch-”
    “Wakatoshi!”
    “Tendou, che succede?”
    L’esasperazione dell’asso si spense, sostituendosi all’angoscia, nell’esatto istante in cui il suo sguardo incontrò quello serio e cupo di Satori Tendou. “Wakatoshi, vai immediatamente a prendere Hinata!” gli intimò infatti l’amico, muovendo un cenno verso la panchina avversaria.
    Il suo stomaco fece una capriola.
    Hinata era attorniato dai membri della Tomagawa, i quali stavano evidentemente prendendosi gioco di lui, lanciandogli occhiate e sorrisetti di scherno, ma soprattutto rubandogli le felpe della Shiratorizawa che il ragazzino stava portando tra le braccia, giocando a rotearle sopra le loro teste o a passarsele dall’alto, dove lui non era in grado di recuperarle.
    Wakatoshi si accorse di stare marciando nella loro direzione, quando ormai era già arrivato a metà del campo.
    Non avrebbe saputo dire cosa lo avesse fatto scattare con quella prontezza, se i tremendi racconti dei suoi compagni o gli occhi lucidi e frustati di Hinata.
    Oppure il modo vile, inopportuno e deplorevole con cui quei vigliacchi continuavano insistentemente a toccarlo.
    “Lasciatelo stare. Adesso.” proruppe una volta giunto a destinazione, piombando in mezzo al gruppetto e strappando loro dalle mani le felpe rubate.
    In una situazione diversa, si sarebbe limitato a rimproverare i suoi avversari, cercando di istaurare un dialogo che permettesse a entrambe le parti in causa di esternare le proprie ragioni, ma non in quel caso, non dopo tutti i soprusi che la sua squadra aveva sopportato in silenzio, non quando gli uomini che aveva davanti lo guardavano con l’arroganza tipica di chi credeva di poter fare tutto ciò che gli aggradava a discapito del prossimo, senza avere conseguenze.
    E infatti, mentre qualcuno della Tomagawa era retrocesso, intimorito dalla sua incursione, Fujita Shuntaro, centrale, Nishimura Kyuma, opposto e soprattutto Nicholay Ivanov, il loro capitano, avevano assunto un’espressione scanzonata, intimidatoria, piantandosi davanti a Hinata in modo da impedirgli di raggiungerlo.
    “Ushiwaka, che piacere vederti! A cosa dobbiamo l’onore e il piacere della tua presenza?” proruppe Nicholay l’ironia nella sua voce marcata dal forte accento bulgaro. Si trattava di un ragazzo alto e magro, dai tratti evidentemente europei, coi lineamenti squadrati, la pelle chiarissima e gli occhi, i capelli e la barba di un nero pece. Era figlio di ambasciatori, per questo frequentava una scuola di Osaka; non aveva chissà quale talento per la pallavolo, ma la precisione delle sue schiacciate oggettivamente era invidiabile.
    “Hinata sta con noi, non mi piace che lo prendiate in giro. Non mi piace niente di quello che fate contro i miei compagni, in realtà.” disse Wakatoshi, serissimo.
    Nicholay Ivanov strinse gli occhi in un’espressione maligna; Fujita Shuntaro, invece, “Questo piccoletto sta con voi? Davvero? Non è troppo fragilino per i vostri canoni?” cinguettò, ignorando le sue accuse e passando un braccio intorno al collo di un Hinata ormai spaventato a morte, come un uccellino braccato.
    “Japan…” mormorò invero quest’ultimo, rivolgendogli uno sguardo che era un silenzioso grido di aiuto.
    A quel punto, Wakatoshi avvertì qualcosa di indefinibile montargli dentro, un’ondata acida, bruciante e corrosiva che irrigidì ogni fibra del suo corpo e spinse il suo cuore ad un ritmo vertiginoso, incontrollabile, febbrile.
    “Sì, ci dà una mano anche se non è della nostra scuola.” rispose sbrigativo, dopodiché si mosse in avanti, scansando bruscamente Fujita col fine di recuperare Hinata.
    Prima che riuscisse ad arrivare a lui, tuttavia, Nicholay lo tirò a sedere sopra le proprie ginocchia, sulla panchina della Tomagawa.
    “Che dici, Ushiwaka, Hinata può darla anche a noi una mano?” sibilò quello, mellifluo, accanto al padiglione auricolare del ragazzino, il quale prese subito a divincolarsi e a protestare.
    “Non lo toccare.” intimò Wakatoshi, e non riconobbe la sua stessa voce.
    Non si era mai sentito così.
    Era furibondo.
    “Quanto interessamento per un piccolo raccattapalle.” insinuò Nicholay con un sorrisetto, poi, fissandolo dritto negli occhi, circondò il ragazzino con un braccio, in modo tale da bloccare i suoi movimenti, mentre dall’altra parte, strinse le dita sul suo interno coscia, sotto i pantaloncini della tuta, cominciando lentamente a risalire “Deve essere proprio bravo con le mani, allora…”
    Wakatoshi scattò.
    Afferrò con forza il polso di Nicholay, arrestando il suo tragitto sulla gamba di Hinata e “Ho detto che non lo devi toccare.” ordinò a denti stretti, ogni sillaba impregnata di livore.
    Ivanov pareva non stesse aspettando altro.
    Quasi buttando Hinata per l’aria, si alzò dalla panchina, fronteggiando Wakatoshi faccia a faccia, allora agguantò a sua volta il polso del capitano della Shiratorizawa per distorcerlo con deliberata violenza, provocandogli un sibilo di dolore.
    “Ushiwaka…” disse minaccioso, a pochi millimetri dal suo viso “tu mi stai simpatico, sul serio. Ma se non te ne rimani zitto e buono al tuo posto, come hai fatto fino ad ora, te ne pentirai.”
    “Io sono dove devo stare, Ivanov. E tu hai smesso di dare fastidio ai miei compagni.”
    “E chi mi fermerà? Tu?”
    “Sì, esatto.”
    “Che c’è? Una scopata col raccattapalle e magicamente hai smesso di fare l’autistico del cazzo?”
    “Sei soltanto un vigliacco.”
    Wakatoshi fu grato quando il fischio dell’arbitro arrivò a decretare l’inizio del gioco e, inconsapevolmente, la fine del loro scontro, visto che il capitano della Tomagawa pensò bene di lasciare subito la presa sul suo braccio di fronte agli allenatori che entravano in palestra.
    Wakatoshi non aveva paura di Nicholay Ivanov.
    Nel corso della sua carriera, aveva già avuto a che fare con personaggi subdoli e arroganti come lui, giocatori che lo prendevano di mira col puro intento di umiliarlo, tentando di spodestarlo dall’olimpo della pallavolo che lui presiedeva. Di solito però, le prepotenze si concentravano esclusivamente su di lui, entro i confini del campo. Nessuno aveva mai messo in pericolo le persone che aveva intorno, nessuno aveva mai fatto del male a coloro a cui – Wakatoshi ammise a se stesso – in qualche modo teneva, e la rabbia che questo gli generava dentro, era un’emozione del tutto nuova, aggressiva e potente, simile a una gittata di lava liquida su cui non era certo di riuscire ad esercitare alcuna forma di controllo.
    “Andiamo, Hinata.” disse dunque il giovane capitano e così, sebbene con qualche remora, diede le spalle ai ragazzi della Tomagawa, incamminandosi verso la panchina della Shiratorizawa.
    “G-grazie, Japan…” pigolò Hinata, al suo fianco, le felpe recuperate strette al petto come una specie di scudo protettivo.
    “Ti hanno fatto del male?”
    “No, sto bene, tranquillo! Cavolo, quei tizi sono davvero spaventosi… io me la farei sotto a giocare contro di loro!”
    “Sono soltanto dei codardi, in campo avranno quello che si meritano.”
    “Japan, stai bene? Non ti ho mai visto così arrabbiato, avevi det-“
    La frase di Hinata venne spezzata da un colpo sordo, seguito dal grido di dolore del ragazzino che si piegava su se stesso e dal suono del pallone che rimbalzava sul pavimento.
    “Hinata? Che è successo? Cos’è stato?” chiese subito Wakatoshi, accovacciandosi vicino al più piccolo, il quale si teneva il retro del collo, gemendo forte.
    Anche il pubblico sugli spalti prese ad agitarsi.
    “Wakatoshi, sono stati loro!” esclamò Yamagata, mentre accorreva vicino a lui e a Hinata insieme ad altri della Shiratorizawa “Gli hanno schiacciato una pallonata addosso! L’ho visto!”
    “Sì, sono stati quelli della Tomagawa, li ho visti anche io!”
    “Lo hanno fatto apposta, quei bastardi!”
    “L’impatto è stato fortissimo! La distanza era così ravvicinata…”
    “Bisogna portarlo subito in infermeria! Deve fare malissimo!”
    “Ops! Ma che spiacevole inconveniente, il piccolo raccattapalle si è fatto male, per caso?”
    Nonostante il caos generale, la voce sarcastica di Ivanov arrivò a Wakatoshi forte e nitida, come se fossero stati da soli, immersi nel silenzio.
    A quel punto, il giovane asso si raddrizzò con una lentezza irreale, ruotò il capo di traverso e fissò i propri occhi in quelli bui dell’altro capitano, non prima però di aver gettato uno sguardo sfuggente alle proprie mani: stava tremando.
    “Lo hai quasi preso alla testa, potevi provocargli una commozione cerebrale.” affermò, ma gli sembrò di non essere lui a parlare, il suo stesso corpo era un’entità estranea, tutto ciò che riusciva a sentire era rabbia.
    Rabbia.
    Rabbia!
    “Sono costernato, è stato un incidente!” rispose Ivanov, scimmiottando un’espressione di teatrale innocenza.
    “No, lo hai fatto di proposito.”
    “Di proposito?!” sollevò le braccia in aria in segno di resa, tintinnò le dita “Non so proprio di cosa stai parlando…”
    Fu il coach Washijo, avvicinatosi al gruppetto per sincerarsi delle condizioni di Hinata, ad interrompere per la seconda volta quella guerra fredda.
    Hinata venne portato in infermeria da una riserva.
    I ragazzi della Shiratorizawa tornarono alla panchina, preparandosi ad entrare in campo, ancor più carichi di angoscia dopo l’aggressione al povero studente del Karasuno.
    Wakatoshi, in stato di trance, rimase ad osservare le proprie mani, in silenzio.
    Si vergognò quando ammise a se stesso che, se l’allenatore non fosse intervenuto in tempo, adesso probabilmente sarebbero state sporche di sangue.

     
    *****

     
    Wakatoshi non si considerava perfetto.
    Era questa la prima regola per diventare un campione, glielo aveva insegnato suo padre.
    C’era sempre qualcosa di nuovo da imparare.
    C’era sempre qualcosa da potere migliore.
    C’era sempre quello o quell’altro dettaglio da dover correggere.
    E sì, la pallavolo era il suo intero universo, i suoi compagni di squadra avevano ragione sul punto.
    Tutta la sua vita era incardinata intorno a ciò che era necessario per diventare il migliore su quel campo, e quando ne varcava il perimetro, per lui non esisteva nient’altro che non fosse la consistenza rassicurante del cuoio sotto le dita, la trama morbida della rete, il numero di passi necessari prima di un salto.
    Era sempre stato così, fin dal primo bagher, fin dalla prima battuta.
    Forse per questo non si era mai domandato se, alla fine, quell’isolamento volontario fosse giusto o sbaglio.
    Se lo stava chiedendo adesso, però, per la prima volta nella sua carriera d’atleta.
    E la risposta non gli stava piacendo affatto.
    Come aveva fatto a non accorgersi di quello che succedeva durante le partite contro la Tomagawa? Come aveva fatto a non vedere la difficoltà dei suoi compagni? Come aveva fatto ad ignorare i soprusi di cui erano vittime, quando questi erano così gravi, così frequenti, così lampanti?
    Insulti a mezza voce, sgambetti, trattenute, risate, intimidazioni.
    Wakatoshi era nauseato.
    Tanto da quei codardi che sapevano vincere soltanto attraverso la violenza, quanto da sé stesso per aver tenuto troppo a lungo gli occhi chiusi…
    “Non è solo una questione fisica.” gli diceva suo padre, tra un passaggio e l’altro “L’asso non è soltanto colui che fa più punti durante una partita. È il condottiero che guida in battaglia i suoi soldati. È il generale a cui i compagni affidano i propri sogni di gloria, dietro la ferma convinzione che lui saprà proteggerli e realizzarli.”
    Serrò i pugni lungo i fianchi.
    Mai come in quel momento gli sembrava di non essere degno di portare il titolo di asso.
    “Goshiki, che ti hanno detto quei bastardi? Sei stravolto!” proruppe all’improvviso Kawanishi, alla sua sinistra; in effetti, la loro matricola aveva il capo chino e si stava mordendo le labbra nel vano intento di trattenere il pianto. Wakatoshi aggrottò la fronte. Era in seconda linea, ma aveva visto benissimo Nishimura Kyuma parlare al ragazzo con aria provocatoria e, sebbene non fosse riuscito a intendere la conversazione completa, ne aveva sicuramente afferrato la frase di chiusura: ti spacco la faccia.
    “Ti ha minacciato, vero?” intervenne quindi Wakatoshi, approssimandosi allo schiacciatore laterale.
    “Mi ha d-detto che se faccio un altro mani e fuori, mi aspetta fuori scuola per ammazzarmi di botte, come ha fatto con Eita…” mormorò l’altro, affossando la testa in mezzo alle spalle.
    “Questa storia deve finire.” sentenziò il capitano “Il coach deve essere messo al corrente, vado a…”
    “NO!” gridò però Goshiki, tenendolo per il braccio “No, capitano, ti scongiuro non dire niente!”
    “Ma…”
    “Ti prego! Se sanno che ho fatto la spia, quelli mi uccidono sul serio! Per favore, non è niente! Devo solo essere più cauto, non è un problema!”
    L’arbitro fischiò la ripresa del match.
    Wakatoshi tornò in posizione, quasi trascinando i piedi sul parquet del pavimento, ma con la testa rimase lì dov’era, a quella conversazione lasciata a metà e al tremore negli occhi del suo kohai.
    Sentiva il sangue pulsargli nelle tempie, i suoi muscoli erano ghiacciati in una tensione che pareva sul punto di spaccarlo e le orecchie gli fischiavano forte - sempre più forte, sempre più forte- come dopo un’esplosione. Non era presente a sé stesso. Giocava, ma in realtà non vedeva altro che i sorrisetti boriosi dei membri della Tomagawa. E li odiava. Li odiava con ogni cellula del suo organismo. E una parte di lui sapeva benissimo che la cosa migliore era riacquistare la lucidità e la calma, perché emozioni del genere erano sbagliate, tossiche e assolutamente controproducenti, ma poi eccola, un’altra battuta cattiva a ferire Reon accanto alla rete, eccolo uno sgambetto per far sbagliare l’alzata a Shirabu, eccolo un pugno nello stomaco di Kawanishi per impedirgli di saltare a muro, eccolo… eccolo… eccolo…
    Wakatoshi osservò la sua schiacciata fare punto, il pallone che rimbalzava in un angolo scoperto della difesa avversaria, mentre i cori della Shiratorizawa acclamavano il suo nome.
    Non c’era nulla da festeggiare.
    Le mani gli tremavano talmente tanto, ormai, che era stato un miracolo se, dopo il muro di Tendou, era riuscito a coprire e perfino a riposizionarsi per saltare sull’alzata.
    “Pensavo avresti scardinato il muro di questi idioti, capitano!” colse per caso Wakatoshi, mentre riprendeva fiato sotto rete.
    Ivanov schioccò la lingua, “Stai scherzando, cazzo?!” proruppe il ragazzo bulgaro, con una fragorosa risata “Quando c’è quel mostro di Satori Tendou a fare muro, a me vengono i conati di vomito! Non riesco nemmeno a guardarlo, mi fa ribrezzo!”
    “Già, fa veramente schifo!”
    “Una volta di queste, devo mirare alla faccia. Magari gli cambio i connotati, gli faccio un favore.”
    Wakatoshi si voltò di scatto.
    Tendou era immobile, dando le spalle al gruppetto della Tomagawa, con gli occhi fissi sul pavimento e le labbra strette fino a scomparire del tutto.
    Aveva ascoltato ogni parola.
    “Tendou…”
    Il ragazzo si ridestò all’improvviso, si girò verso di lui e abbozzò un sorriso tirato, fasullo, “Sì, Wakatoshi? Dimmi pure!” esclamò, cercando di dissimulare il suo vero stato d’animo.
    Wakatoshi scoprì di non sapere cosa dire.
    La verità era che lui non aveva mai consolato nessuno, non gli era mai importato davvero di un’altra persona al punto da volergli dare sostegno o solo cambiargli l’umore. E si odiò per questo, si odiò perché adesso la cosa più vicina a un amico che avesse mai avuto, aveva lo sguardo distrutto e lui non era in grado di fare altro che muovere la bocca, senza emettere alcun suono.
    “Oh, ti stai preoccupando per quello che hanno detto quei tizi su di me?” fece Tendou, in tono bonariamente sorpreso “Ma no, figurati! Sono abituato! Non è la prima volta che la gente mi dice cose brutte, ormai non fa più male.”
    “Satori…”
    “Tranquillo, Wakatoshi-kun, sul serio. Sto bene. Pensiamo a giocare, dai.”
    Eppure, quando si riposizionò sotto la rete, i fari della palestra scintillarono sui rivoli di lacrime che gli bagnavano le guance.
    Wakatoshi era stanco.
    Voleva solo che quella maledetta partita finisse il più presto possibile, in modo da mettere al sicuro i suoi compagni di squadra e dimenticarsi per sempre della Tomagawa. Avrebbe parlato coi suoi avvocati per prendere i provvedimenti adeguati a fermare le angherie pur preservando i ragazzi, dopodiché avrebbe convocato il coach e il consiglio studentesco così da non organizzare mai più un evento del genere, nonostante i benefici economici e la tradizione.
    Sì, era quella la migliore strategia da adottare.
    Avrebbe usato la sua influenza, non si sarebbe abbassato al loro livello.
    Tutto sarebbe andato per il meglio.  
    All’improvviso, la palla entrò nella metà campo della Shiratorizawa.
    Era pulita, per cui Yamagata non ebbe alcun problema a difenderla.
    Avevano vinto il primo set, il punteggio era fermo a 23 a 21 per loro, quindi bastavano soltanto due punti per vincere: tra poco quel supplizio sarebbe finito, la sua squadra sarebbe tornata incolume negli spogliatoi e lui si sarebbe occupato del resto, difendendo i suoi compagni come avrebbe dovuto fare fin dal principio.
    Chiamò l’alzata e Shirabu gli lanciò un’occhiata di intesa.
    Avrebbe fatto personalmente quei due punti, gli avversari non avevano scampo.
    Prese la rincorsa, Fujita e Nishimura fecero lo stesso dall’altra parte della rete per tentare un muro.
    Constatò che Ivanov era poco dietro di loro, pronto a coprire dal basso.
    I suoi occhi scuri, occidentali, seguivano l’azione che si realizzava in aria, mentre sulla sua faccia già si apriva il solito ghigno di sfida, sfrontato e cattivo.
    Fu quella l’immagine che rimase impressa a Wakatoshi, nell’istante in cui i suoi piedi si staccarono da terra.
    Poi il suo braccio frustò l’aria, il palmo della sua mano impattò contro la solida consistenza del pallone.
    E di colpo realizzò che il suo bersaglio non era né il lucido parquet sotto di loro né il muro composto da Fujita e Nishimura né la linea bianco di bordo campo.
    Era il ghigno di Nicholay Ivanov.
    E, come sempre accadeva, la palla gli ubbidì.
    Il volto del capitano della Tomagawa si accartocciò dietro la forma sferica del pallone, il suo corpo massiccio fu sbalzato all’indietro, cadendo di schiena, mentre il suo grido di sorpresa venne stroncato dal tonfo del cuoio che rompeva la cartilagine, il quale parve riecheggiare fino al soffitto della palestra improvvisamente ammutolita.
    Quando si rialzò sui gomiti, tremando, Nicholay Ivanov era una maschera di sangue.
    “Figlio di puttana…” ruggì quello, tossendo un misto di rivoli rossi e saliva. I suoi occhi neri erano spalancati dallo shock, respirava in maniera convulsa, come un animale imbizzarrito e nonostante cercasse di fermare l’emorragia con le mani, sputava sangue a fiotti dal naso e dalla bocca.
    Wakatoshi osservò la scena, inerme.
    Non stava provando niente, né paura né rimorso, nemmeno la rabbia di poco prima.
    Solo una calma irreale, come se il suo ritmo cardiaco fosse rallentato di colpo, frenando anche i pensieri - e in mezzo a quella densa nube di fumo, uno spillo sottilissimo ficcato nelle viscere, luccicante e gelido: l’oscura esaltazione della vendetta.
    Si guardò le mani.
    Avevano smesso di tremare.
    “Figlio di puttana!” ripeté Ivanov, stavolta aggrappandosi di peso ai suoi compagni per sollevarsi in piedi “Lo hai fatto di proposito! Lo hai fatto di proposito!”
    Wakatoshi sentì un angolo delle sue stesse labbra sollevarsi appena.
    Non lo impedì
    “Di proposito?” gli fece il verso, tintinnando in aria le dita proprio come aveva fatto lui, quando aveva colpito Hinata in precedenza “Non so proprio di cosa stai parlando…”
    Ivanov gli si lanciò addosso prima che avesse il tempo di reagire.
    Caddero a terra. Wakatoshi sibilò dal dolore nell’istante in cui la sua nuca batté conto il pavimento, ma non ebbe il tempo di pensarci troppo, dato che Ivanov iniziò ad accanirsi su di lui a suon di pugni. Sollevando le braccia, riuscì almeno ad evitare i colpi diretti al viso, allora provò a bloccare le mani del suo nemico, a ribaltarlo usando le gambe o la spinta del bacino, tuttavia ogni tentativo si dimostrò vano: Ivanov sembrava essersi trasformato in una tempesta furiosa di pietre che si infrangeva sul suo corpo, senza alcuna pietà.
    “Ti ammazzo! Hai capito, Ushiwaka? Ti faccio pentire di essere nato!” urlava a sprazzi, gocciolando sangue addosso a Wakatoshi “Ammazzo te e tutti quei mocciosi dei tuoi amici, hai capito? Il raccattapalle sarà il primo! Vedrai! Non lo riconoscerai nemmeno quando avrò finito con lui!”
    A quelle parole, il suo battito cardiaco schizzò alle stelle.
    Approfittando di una piccola apertura, il capitano della Shiratorizawa finalmente sbilanciò l’altro ragazzo, invertendo le loro posizioni, così che Ivanov rimanesse incastrato sotto di lui, intontito dalla sua mossa repentina e dal battere violento della schiena contro il parquet.
    Tentò di dimenarsi, ma Wakatoshi lo neutralizzò, facendo perno con le ginocchia su entrambe le sue braccia, sovrastandolo di peso.
    Poi sollevò il pugno in aria.
    L’ira che per qualche istante aveva trovato appagamento nel sangue era tornata più forte di prima, reclamandone altro con rinnovata ferocia e così Wakatoshi strinse forte le dita, esponendo le nocche, pronto a prendersi ciò che voleva.
    “USHIJIMA WAKATOSHI!”
    La realtà si riaccese intorno a lui in un istante.
    Si voltò nella direzione da cui era sopraggiunto il suo nome: il coach Washijo era in piedi, vicino alla panchina, col volto sudato e arrossato, stravolto dalla collera.
    Una confusione di suoni e colori lo investì.
    Le proteste dei suoi compagni che avevano preso, a loro volta, a litigare coi membri della Tomagawa, le urla del pubblico aizzato dalla mischia, i fischi impazziti dell’arbitro e dei guardialinee che questionavano con quello o quell’altro team, i senpai che tentavano invano di placare sul nascere altri scontri fisici.
    “TORNATE TUTTI NELLO SPOGLIATOIO! ADESSO!”
    Wakatoshi abbassò il braccio, ansimando come se avesse corso venti chilometri in salita.
    Non appena fece per alzarsi però, un pugno gli fece girare la testa da sinistra a destra.
    “Spero di averti spaccato la faccia, bastardo Ushiwaka.”
     
     
     
    NOTE AUTORE
    Siete sorpresi, lo so: dopo gli eventi del capitolo precedente, questo non è assolutamente ciò che vi aspettavate! Eppure, sappiate che vi trovate di fronte ad uno dei passaggi più importanti controversi del percorso che sta compiendo Ushijima Wakatoshi in questa fanfiction.
     
    Il senso è che, Ushijima sta affrontando un cambiamento che coinvolge tutti gli aspetti della sua vita, non soltanto quello sentimentale. Lentamente Wakatoshi sta cominciando a cambiare prospettive, a prendere consapevolezza di non essere da solo al centro dell’universo e che il mondo non ruota solo e soltanto intorno alla pallavolo: ad esempio, esistono delle persone intorno a lui che contano molto sulla sua figura di capitano, ma che lui ha sempre dato per scontate.
     
    Il cambiamento però non è una strada in discesa. Ci sono ostacoli, ci sono errori. E così Wakatoshi che, grazie a Hinata, ha appena allentato la presa sui suoi freni, sulle sue barriere, adesso deve imparare a gestire delle emozioni del tutto nuove, nel bene e nel male. In questo caso, io ho sempre pensato che Ushiwaka sia di base una persona molto matura e controllata, ma che sotto-sotto possieda un lato istintivo dirompente che, se stuzzicato a dovere, può farlo diventare brutale, come è successo con Ivanov.
     
    ATTENZIONE! La scena della pallonata è ovviamente romanzata, prendetela come tale! Mi rendo conto che nella realtà, una cosa del genere sarebbe abbastanza inverosimile, ma Ushiwaka è il ragazzo dei miracoli, no? Ahahah
     
    Questo episodio non sarà senza conseguenze, vi avviso…
    Intanto però, vi aspetto nel prossimo capitolo e non vedo l’ora di sapere le vostre impressioni su questo Ushiwaka furioso!
     
    A presto,
    Violet Sparks

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    Capitolo 25
    *** Ad occhi chiusi ***


    CAPITOLO XXV
    Ad occhi chiusi
     
     
    “Non si bacia una persona solo protendendo le labbra.
    La si guarda e ci si ricorda perché la si desidera.
    Il sistema nervoso simpatico fa accelerare il battito,
    il lobo frontale riduce l’inibizione
    e si sente il bisogno di baciarla.
    Succede tutto in contemporanea.
    Siamo sia impulsivi che compulsivi.
    Il cervello funziona così.”
    - Grey's Anatomy
     
     
    Wakatoshi impiegò un tempo indefinibile a mettere nuovamente a fuoco il mondo circostante.
    Non era svenuto, tuttavia il pugno di Ivanov si era infranto dritto contro il suo zigomo, riverberandosi lungo tutte le ossa del cranio, sicché per diversi minuti ogni cosa si trasformò in una confusa macchia di colore e i suoni presero ad accavallarsi l’uno all’altro, fondendosi in un fischio fastidioso.
    La chioma scarlatta di Tendou, in particolare, divenne l’unico appiglio in mezzo al disordine.
    “Lasciatelo respirare! Lasciatelo respirare!”
    “Wakatoshi? Riesci a sentirci? Rispondi, per favore!”
    “Forse ha una commozione! Quanto ci mette l’ambulanza?”
    “Presto, serve del ghiaccio! Del ghiaccio!”
    All’improvviso, una consistenza gelida e dura venne premuta proprio contro l’epicentro del suo dolore, allora una scarica elettrica gli attraversò lo scheletro intero, schizzando fino al cranio dove, almeno, parve rimettere in moto le sue sinapsi intorpidite. Afferrò il primo lembo di stoffa che gli capitò sotto le dita – un asciugamano, probabilmente, a giudicare dalla morbidezza – e vi sputò dentro un grumo ferroso di sangue e saliva. Poi impose alle sue palpebre di rimanere sollevate sui volti preoccupati dei compagni, tutti intorno a lui.
    “Wakatoshi-kun? Stai bene?” chiese Tendou, accovacciato davanti alle sue gambe.
    Solo in quel momento, si rese conto di essere seduto su una delle panche degli spogliatoi della loro palestra, appoggiato alla parete. Non aveva la minima idea di come ci fosse arrivato.
    “Sì, sto bene.” rispose piano, sebbene anche il più piccolo movimento delle labbra gli regalasse delle fitte acute qua e là per il volto. Scansò la borsa del ghiaccio che Reon gli teneva sulla guancia e si toccò cautamente lo zigomo: era gonfio e dolente, però non gli sembrava che ci fosse qualcosa di rotto, inoltre la botta aveva interessato più la porzione verso la mandibola che quella verso l’occhio, constatazione che gli fece tirare un sospiro di sollievo.
    Un danno alla zona orbitale gli sarebbe costato settimane e settimane di fermo; era stato molto fortunato.
    “Sei stato grande, capitano!”
    A quelle parole, Wakatoshi alzò lo sguardo verso i ragazzi della Shiratorizawa con una certa perplessità.
    Onestamente, non pensava affatto di essere stato “grande”. Aveva ignorato per anni i soprusi di cui i membri della sua squadra erano stati vittime, concentrando le proprie energie esclusivamente sulla pallavolo; aveva lasciato i suoi compagni indifesi e soli, nonostante la qualifica di capitano avrebbe imposto di guidarli, di proteggerli, deludendo così la cieca fiducia che questi riponevano nei suoi confronti e, dulcis in fundo, in campo aveva appena messo a tacere Ivanov nel modo peggiore possibile, abbassandosi allo stesso livello di quel vigliacco senza scrupoli.
    Ciò nonostante, mentre una parte di lui lucidamente e fermamente formulava quelle conclusioni, un’altra vorticava furiosa sotto l’epidermide, danzando gloriosa fra le spinte di un sentimento che Wakatoshi non aveva mai provato, ma che pure lo faceva sentire inebriato come mai prima di allora: la dolce soddisfazione della lotta, l’orgoglio di leggere negli occhi dei suoi soldati la gratitudine e il sollievo di aver trovato finalmente vendetta.
    “Posso sapere cosa diavolo è successo?!” tuonò dal nulla una voce, sgretolando di colpo quel picco di energia positiva. Poco dopo, il coach Washijo spuntò in mezzo al gruppetto di studenti, minuscolo rispetto alla possenza dei giovani giocatori che gli stavano intorno, eppure così austero e minaccioso nel cipiglio che gli stava indurendo il volto, da apparire dieci volte più grande.
    “Una rissa! Avete scatenato una rissa! Avete la minima idea di che immagine vergognosa avete appena dato della nostra accademia?” li sgridò, senza risparmiare un briciolo della sua collera “Per non parlare di te, Wakatoshi, io…”
    “Il capitano non ha fatto niente! Sono stati quelli della Tomagawa a cominciare!” proruppe Goshiki, piazzandosi davanti a Wakatoshi a braccia tese, lasciando tutti a bocca aperta. In realtà, il primino dovette rendersi conto di essersi rivolto al loro coach con un po' troppa vemenza, per cui subito incassò la testa nelle spalle, alquanto rammaricato e “Coach, davvero, non se la prenda con Ushijima, lui non ha colpe…” rimarcò, sebbene con un tono decisamente più pacato.
    “È vero! La Tomagawa è una squadra terribile, si è sempre comportata in maniera scorretta!” intervenne quindi Eita, affiancandosi a Goshiki.
    “Non è stata colpa di Wakatoshi! Ci hanno provocato!” fece eco Yamagata, aggiungendosi allo scudo dei compagni.
    “Sì, è vero! Confermo tutto!” aggiunse Shirabu.
    “Sono dei disonesti! Ushijima non ha fatto niente! Non lo sgridi, la prego!” rincarò Reon.
    “Non è colpa sua! Non se la prenda con lui!”
    “Non è giusto! Non deve sgridarlo!”
    “Sono loro il problema, non lui!”
    “Non è giusto! Non è giusto!”
    Ben presto, le voci dei ragazzi iniziarono a frapporsi, così come le loro figure, tutte fermamente piantate innanzi al capitano a formare una specie di testuggine contro l’espressione di rimprovero del loro allenatore.
    Wakatoshi era senza parole.
    I suoi compagni di squadra lo stavano difendendo, esponendosi per lui senza la minima esitazione, al di là di qualsiasi richiamo disciplinare, al di là di qualsiasi ripercussione.
    Quel pensiero gli suscitò un’emozione difficile da descrivere.
    Il punto era che, Wakatoshi sapeva che la pallavolo era uno sport di squadra, era consapevole dell’importanza di fidarsi del proprio team; ognuno dei membri della Shiratorizawa, invero, era stato scelto e voluto in nome delle potenzialità che possedeva, fisiche o sportive che fossero. Ciononostante, la pallavolo per lui era sempre stato qualcosa di strettamente individuale, una battaglia da combattere in solitaria puntando su quel talento che lo ergeva sì alla testa dell’esercito, ma sempre e irrimediabilmente da solo con la propria spada.
    Adesso che era a terra però, disarmato e ferito, Wakatoshi comprendeva per la prima volta che cosa significasse essere parte di qualcosa di compatto e forte, che cosa significasse avere qualcuno a coprirti le spalle, mettendo in gioco la sua stessa vita. E il senso di inviolabilità che questo gli regalò, sembrò caricarlo di una potenza indomita, luminosa come una fiamma, che gli accese le membra.
    Ad ogni modo, la discussione venne interrotta quando gli operatori dell’ambulanza fecero il loro ingresso nello spogliatoio, carichi di attrezzature e kit di primo soccorso; sia i ragazzi della squadra che il coach, a quel punto, dovettero farsi da parte per lasciare lavorare i dottori sul viso di Wakatoshi, deponendo le armi.
    Fortunatamente la sua auto-diagnosi venne confermata quasi subito: non aveva niente di rotto né per quanto riguardava lo zigomo né altre parti del corpo, tuttavia si era guadagnato un gran bel livido, insieme ad una piccola costellazione di contusioni sparse per l’addome, per cui gli sarebbe toccato un periodo di riposo di almeno tre giorni, scandito da pomate e ghiaccio da applicare a intervalli regolari.
    Preferì non immaginare il biasimo di sua nonna per tutta quella situazione.
    Non appena i medici si chiusero la porta alle spalle, poggiò la nuca contro il muro e chiuse gli occhi.
    Ormai la maggior parte dei compagni aveva lasciato lo spogliatoio, quindi l’ambiente era tornato calmo e silenzioso, tutto al contrario dell’adrenalina che ancora turbinava nelle sue vene, incapace di accettare la fine della battaglia. Si toccò il petto, come a voler rallentare con il palmo stesso della mano, il suo cuore che pompava senza tregua dentro alla cassa toracica: aveva decisamente bisogno di una doccia fredda.
    Peccato che, nell’esatto istante in cui fece per alzarsi, il coach Washijo si accomodò accanto a lui, in silenzio, scrutando fisso il pavimento innanzi a sé.
    A differenza di prima, il suo sguardo non trasmetteva rabbia o delusione, piuttosto una stanchezza palpabile e un velo sottilissimo di apprensione che gli accentuava le rughe profonde della fronte. Sembrava più vecchio, in qualche modo. E all’improvviso Wakatoshi rifletté che, sebbene l’uomo che aveva di fianco rappresentasse una figura cardine della sua adolescenza e della sua preparazione atletica, quella era la prima volta che sedevano insieme, a parlare, fuori da una palestra.
    Non sapeva niente di lui, nemmeno se avesse figli o se fosse sposato.
    Washijo Tanji era colui che più di tutti aveva contribuito a plasmare il celeberrimo capitano della Shiratorizawa.
    Ed era, fondamentalmente, un perfetto estraneo.
    “Coach Washijo…”
    “Non sono nato ieri, Wakatoshi, e nonostante la mia età, ti assicuro che non sono un vecchio moralista: non credo nella filosofia buonista del porgere l’altra guancia. Credo nell’occhio per occhio, do ut des. affermò senza guardarlo, stringendo saldamente l’impugnatura del bastone che utilizzava come supporto per camminare “Nicholay Ivanov ti ha aggredito, lo hanno visto tutti. E tu non hai potuto fare altro che difenderti, non ti dirò che questo è sbagliato. Tuttavia…” di scatto, l’uomo ruotò il capo nella sua direzione, quindi infilò gli occhi nei suoi, due chiodi che lo bloccarono sul posto e lo sviscerarono, lo denudarono, non lasciandogli alcuna via di fuga “I membri della lega, mi hanno chiesto se la pallonata che ha subito Ivanov durante la partita, sia stata un mero errore tecnico o un atto volontario. Perché Ivanov ha il setto nasale spaccato e ha perso tre denti – tre! - il colpo è stato talmente ravvicinato e violento che avrebbe potuto provocargli dei danni di natura cerebrale; pertanto, qualora si sia trattato di un’azione deliberata, una rappresaglia di qualche tipo, il suo artefice potrebbe subire non soltanto una penalità sportiva in grado di compromettere la sua intera carriera, ma addirittura una denuncia penale per aggressione.”
    “E lei che cosa ha risposto?”
    “Io ho detto la verità.”
    Wakatoshi serrò i pugni, il suo stomaco fece una capriola.
    “Ho detto che conosco Ushijima Wakatoshi da ben tre anni e lui non farebbe mai – mai!- una cosa del genere. È troppo maturo, troppo assennato e soprattutto troppo corretto per compiere un’azione tanto deplorevole, qualsiasi possa essere stato il motivo scatenante.” se possibile, l’intensità dello sguardo di Washijo si acuì, inghiottendolo in un abisso nero “È così, giusto Wakatoshi?”
    Il sangue gli si cristallizzò nelle vene.
    Il mondo, intorno a loro, arrestò la propria rotazione, in attesa.
    “Sì.” rispose, cupo “È stato soltanto un errore, coach Washijo.”
     
    *****

     
    Wakatoshi fece scorrere il dito sul pulsante di spegnimento, quindi osservò - non senza una punta di sollievo- lo schermo del proprio IPhone diventare buio, decretando ufficialmente il suo distacco dal mondo esterno.
    Trentacinque chiamate perse da parte di sua nonna.
    Quarantadue dalla sua equipe, tra avvocati, agenti, medici e sponsor.
    Era semplicemente troppo.
    Non era un idiota né tantomeno uno che fuggiva dalle proprie responsabilità: sapeva che prima o poi avrebbe dovuto affrontare le conseguenze delle sue azioni, ma non quella sera, non quando gli sembrava di avere un trapano ficcato nel cervello e, nelle sue vene, il sangue ancora ribolliva delle minacce di Ivanov, del suo ghigno cattivo, delle parole di scherno che aveva rivolto a Tendou e agli altri compagni.
    Voleva solo smettere di pensare.
    Per una volta - forse la prima nella sua vita- non gli interessava fare ciò che era giusto, non gli interessava dimostrarsi coscienzioso, onesto e responsabile. Gli interessava soltanto fare ciò di cui aveva bisogno. E ciò di cui aveva bisogno, in quel momento, era cancellare tutto. Tutto. Solo per una notte. Dimenticarsi il suo nome, a volte così dannatamente pesante, la sua carriera tanto luminosa quanto difficile, la scuola, l’educazione, la disciplina, i giornalisti e le illazioni prive di fondamento che avrebbero sollevato sulla questione, sua nonna e gli obiettivi che continuava a tracciare al suo posto, sul suo percorso - ciò che la gente si aspettava da lui.
    Per una volta – una soltanto!- Wakatoshi desiderava che ogni cosa fosse inghiottita dal buio, un buio dove non esistevano né logica né regole né catene e lui poteva respirare, libero, senza doversi addossare l’onere di splendere.
    Inserì la chiave nella toppa, sfregando distrattamente la consistenza fredda del ferro tra le dita: decise che sarebbe stato l’ultimo barlume di realtà, prima di entrare nelle tenebre dell’incoscienza.
    La sera stava calando lentamente; il salotto era bagnato dalle tinte sature del sole, simile al filtro di una fotocamera, l’odore buono dei gelsomini soffiava dalla porta-finestra aperta insieme ad un piacevole alito di vento e il vociare esterno della gente del quartiere si affievolì, non appena la porta di casa scattò dietro la sua schiena. L’aria sembrava immobile, immortalata in una immagine di pace inviolabile e perfetta, così diversa dal caos che c’era fuori che Wakatoshi si chiese ingenuamente se qualcuno avesse fermato il tempo per concedergli un po' di tregua.
    E, completamente fuso in quell’atmosfera, a confondersi tra i raggi aranciati del tramonto, Hinata Shoyo sedeva di spalle sull’isola della cucina, oscillando piano le gambe nude.
    Wakatoshi appoggiò il borsone sul pavimento, si tolse le scarpe e camminò nella sua direzione.
    Doveva avere le cuffiette, perché stava osservando un video sul telefonino e non dava segno di essersi accorto della sua presenza. Quando gli fu accanto, provò ad allertarlo in modo gentile, sfiorandogli il braccio con la punta delle dita, tuttavia il ragazzino finì per spaventarsi lo stesso, il suo intero corpo sussultò e per una buona manciata di secondi, lo fissò coi suoi soliti occhi immensi, resi ancora più espressivi dalla sorpresa.
    Poi, nel giro di un istante, mise da parte tutto ciò che teneva tra le mani, ruotò di scatto le gambe e il busto e gli buttò le braccia al collo.
    Col naso affondato nel profumo dolce dei suoi capelli, Wakatoshi si gelò.
    Doveva ancora scendere a patti con tutta quella faccenda degli abbracci.
    “Hinata…”
    “Oddio, stai bene? Dimmi che stai bene! Pensavo di non vederti tornare a casa stasera! Ti sei rotto qualcosa? Sei andato in ospedale? Hai visto un medico? Che ti ha detto? Non dovresti stare facendo degli esami, adesso? Non ci sei andato in ospedale, dì la verità, stai facendo l’eroe! È pericoloso! Potresti avere delle ferite di cui non ti sei accorto, devi farti controllare subito! Adesso, io… io…”
    Il capitano interruppe quel fiume in piena di parole, circondando a sua volta Hinata tra le braccia e stringendolo forte a sé. Buttò un’occhiata al video ancora in riproduzione sullo schermo del suo cellulare: come aveva sospettato, si trattava di un servizio del telegiornale sportivo locale riguardo la rissa avvenuta alla Shiratorizawa. “Tu… Tu devi ass-assolut-” balbettò ancora il piccolo corvo sulla sua spalla, e le sue ossa non smettevano di tremare, la sua voce veniva spezzata continuamente da rantoli convulsi.
    Stava avendo un attacco d’ansia.
    Seguendo il proprio istinto, Wakatoshi poggiò allora una mano dietro al suo collo e prese a muovere le dita tra i capelli dietro la nuca - il fatto che sua madre compisse lo stesso gesto, quando da bambino aveva fatto un brutto sogno, gli provocò una fitta di dolore all’altezza dello stomaco.
    “Sto bene, Hinata.” gli disse vicino all’orecchio, per essere sicuro che l’altro lo ascoltasse “Non ho niente di rotto, i medici mi hanno visitato, ho soltanto qualche contusione.”
    “No… devi farti altre analisi… devi farti controllare… tu devi…”
    “Le ho fatte tutte. Sto bene, smetti di tremare.”
    “Resti qui stanotte, quindi?”
    “Sì, resto qui.”
    “Resti qui… resti qui…”
    “Sì, resto qui con te.”
    A quel punto ci fu un momento di silenzio, in cui Wakatoshi si rese conto che stava ancora giocherellando coi suoi capelli e che Hinata, intanto, pareva essersi rilassato sotto il suo tocco, infatti aveva girato il viso in modo da premere la guancia sul suo sterno, poco sotto la congiunzione delle clavicole, dopodiché il suo respiro si era fatto sempre più lento, fino ad assumere una cadenza regolare.
    Wakatoshi non contemplò la possibilità di staccarsi da lui neanche in quel caso.
    Gli piaceva il calore confortante che sprigionava la pelle del piccolo corvo, gli piaceva la consistenza morbida delle sue ciocche in mezzo alle dita, gli piaceva il modo in cui il suo petto sottile sembrava combaciare perfettamente dentro al proprio come il nocciolo di un frutto, gli piaceva il suo profumo di sapone e gli piaceva sentire il peso della sua mano nella piega del gomito, qualche strato di epidermide appena sopra il flusso sanguigno. Gli piaceva, sì. E così decise che, almeno per quella sera, avrebbe potuto concederselo - le conseguenze si sarebbero messe in fila insieme alle altre che lo attendevano l’indomani al suo risveglio, pronte a chiedergli lo scotto di tutta quella imprudenza.
    “Piuttosto…” ricordò all’improvviso, allontanando Hinata da sé quel tanto che bastava a guardarlo negli occhi “Tu sei stato in infermeria? Il collo è un punto delicato, la pallonata è stata violenta.” rifletté, prima di afferrargli malamente metà della faccia e manovrarla per esaminare il punto in cui – ricordava- l’altro era stato colpito.
    Dall’altra parte, il ragazzino si esibì in una sequela piuttosto articolata di proteste, “Non mi sono fatto niente, la dottoressa mi ha solo consigliato di metterci del ghiaccio!” esclamò, indicando un bicchiere pieno di cubetti in via di scioglimento e un canovaccio da cucina “Figurati, sono abituato a prendere pallonate in testa…” ammise poi, mettendo su un broncio da moccioso “Cioè, oddio! Se mi avessero centrato in piena faccia con quella specie di bomba che hai schiacciato contro Ivanov, credo che anche a me sarebbe saltato qualche dente! Facevi davvero paura!”
    Wakatoshi aggrottò la fronte, “Non volevo farti paura.”
    “No, no, in senso figurato!” si corresse subito Hinata “Non è che mi hai fatto paura sul serio! Dico… in generale! Anche quando quell’idiota ha colpito me… mi ha spaventato un po' vederti così, non ti ho mai visto tanto arrabbiato… non sembravi tu…”
    Il giovane capitano annuì con un sospiro, “Ho perso il controllo, oggi e ho commesso un errore. Non è così che si risolvono i problemi.”
    “Che?! Ivanov se l’è cercata! È una persona meschina!”
    “Se lui è una persona meschina, non significa che debba diventarlo anche io, Hinata.”
    “Ma…”
    “È stato un errore, punto.”
    “Okay, va bene, d’accordo! Forse hai fatto davvero una cavolata oggi… una cavolata di dimensioni bibliche!” asserì, allargando teatralmente le braccia per rimarcare il concetto “Ma lasciatelo dire da uno che di cavolate ne fa mille al giorno: non è una tragedia! Ivanov era un gran bastardo, un pugno glielo avrebbe dato chiunque! E poi mi sembri molto consapevole di aver sbagliato, inoltre… beh, tu sei tipo il re della maturità! Non credo proprio che tu abbia intenzione di evitare la valanga di cacca che ti piomberà addosso, perciò… non ti rimproverare troppo, intesi?”
    Wakatoshi sollevò un angolo delle labbra, a metà tra il divertito e il sorpreso: il discorso del ragazzino, per quanto colorito, aveva una sua logica, ed effettivamente più rimuginava su quelle parole, più gli sembrava di sentire la testa leggera, sgravata da un peso. Pensò che, nella sua semplicità, Hinata Shoyo aveva un modo di vedere la vita alquanto singolare, privo delle solite impalcature fatte di doveri, regole e imposizioni; un modo diametralmente opposto al suo, insomma, ma che comunque filava, inesorabile e libero, come un ruscello che scorreva tra le rocce.  
    D’un tratto però, Hinata gli rivolse un sorrisetto furbo, “Puoi ammettere che ti ha dato soddisfazione vederlo coperto di sangue?”
    “Assolutamente no.”
    “Dai!”
    “No, Hinata.”
    “Giusto un briciolino, una puntina minuscola… non lo dirò a nessuno, giuro!”
    L’asso scosse la testa, ma con tutti gli sforzi del mondo non riuscì a rimanere impassibile di fronte alla buffa espressione inquisitoria dell’altro, per cui “Forse un po'…” gli concesse infine, annoiato solo per finta.
    La reazione di Hinata fu una risata bellissima, che gli illuminò il viso di sprazzi dorati più caldi dei raggi del tramonto fuori dalla finestra e che riempì la cucina di un suono argentino, dolcissimo. Senza alcuna ragione, Wakatoshi restò ad osservarlo in silenzio, assorbendo ogni linea del suo volto, collezionando quei guizzi di luce nei suoi occhi limpidi prima che quello li richiudesse e lasciasse solo le ciglia lunghe a ombreggiargli le guance.
    Sentì prudere le dita.
    Avrebbe voluto baciarlo.
    Si riscosse soltanto perché notò che il sorriso del ragazzino si era spento all’improvviso, e la sua espressione pareva vagamente allarmata. “Non avrai niente di rotto, ma quel bastardo ti ha fatto male…” mormorò infatti, stringendo le labbra “Hai lo zigomo tutto gonfio.”
    Di rimando, Wakatoshi si tastò la guancia e costatò che sì, la botta stava cominciando a dare il peggio di sé. Si girò prendendo il primo coltello con la lama abbastanza larga che gli capitò sottomano, quindi si specchiò nel suo riflesso: non solo il dolore stava aumentando, ma ormai aveva una bella macchia rossa e viola poco sotto l’occhio.
    “È normale, non ti preoccupare.” ribatté, posando il suo specchietto improvvisato.
    “Aspetta!” fece però Hinata, ostinato come suo solito. A quel punto, recuperò dal bicchiere al suo fianco i pochi cubetti di ghiaccio superstiti, li avvolse accuratamente dentro il canovaccio colorato e glielo sventolò sotto al naso, pieno di entusiasmo “Usa questo! A me ha dato sollievo!”
    Wakatoshi scrollò le spalle, “Sì, certo.” rispose, poi si protese verso il ragazzino per facilitargli il lavoro. Era un’ottima idea in effetti, lo avrebbe fatto lui stesso dopo cena per evitare che l’ematoma si gonfiasse troppo, ma forse era preferibile cominciare a occuparsene fin da subito.
    Quando i minuti passarono e niente di freddo arrivò a sfiorargli la guancia, tuttavia, il giovane capitano si girò di nuovo verso Hinata con aria perplessa.
    Lo trovò imbambolato, bocca spalancata e occhi vitrei, come se avesse visto un fantasma.
    “È successo qualcosa?”
    “T-tu vuoi c-che sia io a metterti il ghiaccio?”
    Wakatoshi aggrottò la fronte, sempre più confuso. Non capiva perché il ragazzino fosse diventato tutto rosso e soprattutto perché stesse boccheggiando senza articolare alcuna frase di senso compiuto. Dopo un po', “Ah, volevi che lo facessi da solo, scusami.” concluse, ma lo stesso la reazione dell’altro continuò a sembrargli piuttosto esagerata.
    Non appena provò a prendergli il fagotto di ghiaccio dalle mani, comunque, Hinata fece un salto di circa tre metri sulla superficie del bancone, ritrasse il braccio e prese a gesticolare. “No, no! Hai ragionissimo! Faccio io, faccio io, tranquillo! È meglio così! Tu non puoi vederti la faccia!” esclamò, con una dose di imbarazzo eclatante tanto quanto immotivata.
    Ormai avulso alle stranezze del piccolo corvo, il capitano preferì non indagare oltre, quindi “D’accordo…” acconsentì soltanto e tornò nella medesima posizione di prima, appoggiando i palmi sull’isola da cucina per mantenere l’equilibrio.
    Fu nell’istante in cui Hinata avvicinò la mano al suo zigomo che Wakatoshi comprese finalmente ove risiedesse la ragione di tanto disagio.
    L’ultima volta che erano stati così vicini, risaliva a quella mattina.
    La mattina in cui si erano baciati.
    D’un tratto, l’ossigeno nella stanza parve prosciugarsi, un silenzio statico li avviluppò come se la vita avesse deciso di rallentare fin quasi a smettere di scorrere, e la realtà tutta si illuminò aumentando improvvisamente di gradazione, al punto che Wakatoshi divenne mortalmente consapevole di ogni cosa, folgorato da ogni dettaglio, ogni colore, ogni spigolo.
    Si accorse allora di stare in piedi, sì, ma tra le gambe seminude di Hinata, ferme intorno al suo bacino come lo erano state in molti di quei sogni che la notte lo facevano vergognare di sé stesso – così poco rispettosi. Si accorse di aver posato le mani sul bancone per stare più comodo, ma dietro la schiena del ragazzino, approssimando pericolosamente i loro corpi, permettendo al suo fiato irregolare e caldo di sfiorargli la pelle del volto. Si accorse che il suo profumo di bucato si era quadruplicato, invadendogli i polmoni e si accorse che tra le loro labbra la distanza si era fatta brevissima, quasi ridicola, per cancellarla sarebbe bastato un piccolo slancio – un millimetro, due millimetri, tre, quattro…
    Si accorse anche di non volersi muovere da lì per nessuna ragione al mondo, e che il suo cuore aveva cominciato a comportarsi in maniera bizzarra, battendo nella gabbia toracica talmente forte da rimbombargli anche nella testa.
    Una goccia di condensa gli colò lungo la guancia.
    Hinata la raccolse con il pollice, e all’improvviso i loro occhi furono agganciati l’uno all’altro, intrappolati in un limbo senza contorni né suoni.
    Rimasero immobili, così, per un tempo indefinito.
    Un tempo che Wakatoshi riempì con lo stridio degli artigli di un bisogno sconosciuto che gli montava dentro, consumando la sua razionalità grammo a grammo, viscerale e atavico come un urlo, come un morso.
    “D-dove altro ti fa male?” sussurrò il piccolo corvo, senza fiato.
    L’asso sospirò, ma l’aria buttata fuori, invece che raffreddargli il sangue, sembrò cedere terreno a quella strana fame. “Qui.” soffiò, prima di ruotare l’arto sinistro.
    A quel punto, almeno, Hinata gli lasciò un po' di tregua liberandolo dalla presa del suo sguardo per osservare i quattro lunghi graffi che gli adornavano l’interno dell’avambraccio.
    “Sono unghie?” gemette, con voce triste.
    “Sì, Ivanov mi ha graffiato quando mi è saltato addosso.”
    “Bruciano?”
    “Niente di insopportabile.”
    Di nuovo calò il silenzio, mentre Hinata passava il suo panno freddo su tutta la lunghezza delle ferite, seguendo le linee rosse una ad una, con una delicatezza a Wakatoshi assolutamente estranea: nessuno lo aveva mai toccato in quel modo, come qualcosa da non scalfire, come qualcosa di cui avere cura. Dopotutto, lui era sempre stato quello grande e grosso, il ragazzo dei miracoli, il dio del campo inavvicinabile e potente. La gentilezza di Hinata Shoyo disciolse un nodo nelle profondità del suo stomaco, regalandogli brividi bollenti che lo fecero tremare.
    “Hai qualche altra ferita?”
    “Sull’addome.”
    Questa volta, l’asso non ci mise molto ad intuire che la risposta istintiva e spontanea che aveva appena elargito, era aperta ad interpretazioni oltremodo imbarazzanti per entrambi. Dal suo canto, il ragazzino non emise un fiato né provò a rialzare lo sguardo; semplicemente restò in attesa, rinsaldando la presa sul suo impacco di ghiaccio.
    “Lascia stare, poss-”
    “No, fammi vedere dove ti fa male…” lo interruppe l’altro, la voce che era diventata un fruscio quasi impercettibile “Se non ti dà fastidio, ovvio… perché in quel caso, non fa niente, io non-“
    “No, va bene.” fu la risposta di Wakatoshi, quindi sollevò un poco l’orlo della maglietta per scoprire il busto. Non gli sfuggì affatto il sussulto che ebbe Hinata davanti a quel gesto, ma non riuscì a soffermarcisi quanto avrebbe voluto: la temperatura della sua carne si era alzata ancora, incontrollata, e adesso ogni pensiero bruciava prima ancora di raggiungere una forma finita.
    “Qui, vicino alle costole, giusto?”
    “Sì, esatto.”
    “Da questa parte?”
    “Più in basso.”
    A quel punto, successe tutto molto in fretta.
    Hinata poggiò il canovaccio con il ghiaccio sul suo petto, lungo il bordo inferiore del costato, ma nello stesso istante, Wakatoshi racchiuse la sua mano calda nella propria in modo da guidarlo nel punto esatto in cui si trovava la contusione.
    Poi, il desiderio di baciarlo smise di essere semplicemente un desiderio.
    Si trasformò in istinto, in pulsione, in gesto.
    Per questo, quando riaprì gli occhi che non ricordava di aver chiuso, Wakatoshi scoprì che la bocca del ragazzino era contro la sua e il suo singulto di sorpresa gli era già scivolato giù, nelle profondità della gola.
    Gli strinse la mano ancora ferma sul suo petto, schiacciando gli ultimi rimasugli di ghiaccio, mentre con l’altra, corse ad afferrargli il mento, mosso dall’urgenza di appigliarsi a qualcosa di tangibile. Il sapore di Hinata era dolce e fresco, buono da saggiare come una di quelle caramelle che si sciolgono lentamente sulla lingua, e Wakatoshi si ritrovò a berlo a sorsate, con una avidità che non aveva mai provato ma che lo terrorizzò, perché – immaginò- nessun essere umano al mondo poteva provare un cataclisma del genere, senza venirne irrimediabilmente consumato.
    In un barlume di lucidità, riuscì a retrocedere di qualche centimetro, sebbene il distacco dalle labbra del ragazzino suonò al proprio corpo come una specie di violenza.
    “Scusami…” mormorò a corto di fiato, scuotendo la testa.
    Aggrappato alle sue braccia, lo stesso, identico respiro zoppicante, Hinata poggiò la fronte contro la sua “S-scusa di cosa?” chiese, stordito.
    Wakatoshi sollevò lo sguardo su di lui.
    Scelta pessima.
    Hinata aveva gli occhi sfocati e liquidi, le ciglia scurissime, le guance rosse e le labbra tumide, ancora protese, leggermente schiuse.
    Richiuse gli occhi di scatto.
    Impedirsi di ghermirlo nuovamente, al di là di qualsiasi buon senso, gli richiese uno sforzo abominevole.
    “Non avrei dovuto baciarti in questo modo. Avrei dovuto chiederti il permesso. È stata una mancanza di rispetto. È la seconda volta che succede e non voglio che t-“
    Le parole seguenti vennero ingoiate una ad una dalla bocca affamata di Hinata.
    Con una forza insospettabile, infatti, il piccolo corvo si aggrappò al tessuto della sua maglietta, dunque lo tirò a sé, cercando le sue labbra in un bacio disordinato e caotico che non sembrava seguire altra logica che non fosse nudo istinto, autentica bramosia.
    Quando si staccò, alla disperata ricerca di ossigeno, questa volta fu il turno di Wakatoshi di osservare l’altro ragazzo, alquanto disorientato.
    “Tu mi piaci.” affermò Hinata Shoyo prendendolo in contropiede, e nella sua voce vi era una tale dose di certezza e di ardore che Wakatoshi non poté che far altro che rimanere in ascolto, inchiodato da quel fuoco indomito “E no, prima che tu me lo chieda, non sto parlando soltanto in generale. Intendo che tu mi piaci davvero, Wakatoshi. Mi piaci nel senso che ti penso sempre, da quando mi sveglio a quando vado a dormire. Vorrei passare ogni secondo di ogni giorno in tua compagnia, faccio sogni su di te che mi fanno vergognare il mattino dopo e quando mi guardi – o ancora, peggio mi sfiori!- io vado completamente in tilt, non riesco a concentrarmi più su niente, per il resto della giornata. Perciò, non chiedermi il permesso, non ne hai bisogno. Baciami sempre. Baciami tutte le volte che vuoi. Ti prego…”
    Sarebbe stato difficile, per Wakatoshi, spiegare a parole ciò che quella confessione provocò dentro di lui. La sua pelle si trasformò in una distesa di fuoco che però non bruciava, scaldava; il suo cuore rallentò il ritmo, lesinando i rintocchi, allora sorridere divenne un bisogno viscerale, un impulso naturale quanto necessario. Dopodiché le loro labbra si incontrarono di nuovo, cercandosi come se fosse la cosa più ovvia del mondo, incastrandosi con una facilità insospettabile. 
    Fu un bacio diverso dai precedenti, meno irruento ma non meno esigente, intenso proprio perché consapevole, voluto, vero.
    Hinata si aggrappò ai suoi fianchi e Wakatoshi affondò le dita tra i suoi capelli per spingerselo addosso – qualcosa che, finalmente ammise a se stesso, aveva sempre bramato fare. Quando il ragazzino schiuse la bocca, lo lasciò fare prima ancora di poter riflettere, ormai stanco di combattere, di resistere.
    Di negare.
     
    Si era sbagliato.
    Pensava di essersi lasciato cadere nel buio dell’incoscienza quella sera, invece Hinata Shoyo era sempre stato lì ad attenderlo, fulgido e vivo come una stella che brucia.
     
    E lasciarsi accecare dalla sua luce – scoprì - era semplicemente bellissimo.
     
    “C'è una cosa strana nella resa:
    quando ti lasci andare veramente,
    quando molli la presa,
    dimentichi persino il motivo per cui ti eri tanto affannato a combattere.”
     
     


    NOTE AUTORE
     
    Sapete, questo è stato uno dei capitoli più difficili da scrivere, e forse la ragione è che ci tenevo tantissimo alla sua riuscita: perché sì, la scena del bacio in cucina è in assoluto la prima che la mia mente ha partorito quando ho cominciato a pensare questa long; addirittura, avrebbe dovuto essere questo il primo bacio degli Ushihina, pensate un po'!
    Poi si sa, quando si affronta la stesura di una storia particolarmente lunga e articolata come questa, si finisce sempre per cambiare qualcosina in corso d’opera, tuttavia ci tenevo da morire a che questo pezzo ci fosse, che avesse una sua importanza e soprattutto che vi regalasse le stesse emozioni che regalava a me, quando era soltanto roba mia.
     
    Ma andiamo con ordine!
    Il percorso di Wakatoshi, in questi ultimi capitoli ha raggiunto il suo picco massimo, non soltanto da un punto di vista sentimentale. Ushiwaka capisce per la prima volta cosa significa essere parte di una squadra, non soltanto da un punto di vista di responsabilità e doveri, ma anche rispetto alla bellezza di avere qualcuno su cui contare.
    Certo, c’è qualcosa di storto… non vi pare? Non voglio fare spoiler, tuttavia vi consiglio di non abbassare la guardia: presto, ahimè, ci addentreremo nella terza fase della storia.
     
    Intanto però, direi di goderci questa! Ahaha
    La strenua resistenza di Ushijima è andata a farsi benedire finalmente e il nostro ragazzo dei miracoli ha finalmente accettato la sua attrazione per Hinata. Come molti di voi avranno notato, la scena in cucina ha come parallelo quella delle bende nel capitolo “Nana”, dove però l’attrazione di Wakatoshi era ancora in fase di sviluppo, pertanto veniva vissuta come qualcosa di spaventoso, da reprimere a tutti i costi.
    Adesso invece, complice la stanchezza di dover sempre sottostare a regole e ad aspettative, Wakatoshi ha cominciato ad abbracciare il lato più istintivo di sé, in cui le pulsioni non vengono catalogate più come qualcosa da temere, ma come qualcosa da cui lasciarsi dolcemente dominare. E ovviamente, chi se non Hinata Shoyo – che fin dalla partita degli interliceali ha stuzzicato queste pulsioni- poteva rappresentare la molla per farlo scattare?
     
    Spero di essere un po' più celere con l’aggiornamento del prossimo capitolo
    Pregate con me ;)
     
    A presto,
    Violet Sparks

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    Capitolo 26
    *** Al sicuro, nel buio ***


    CAPITOLO XXVI
    Al  sicuro, nel buio
     

    Il cervello contiene 14 miliardi di neuroni
    che viaggiano a una velocità di 450 miglia all'ora.
    Gran parte di questi sfugge al nostro controllo,
    per cui quando abbiamo freddo, ecco la pelle d'oca;
    quando siamo eccitati, ecco l'adrenalina.
    Il nostro corpo segue naturalmente i suoi impulsi,
    e penso che in parte sia per questo
    che ci risulta così difficile
    controllarlo.
    - Grey’s Anatomy
     
     
    “Era il mio primo bacio.”
    Hinata la sussurrò alla notte quella confessione, sentendosi come un palloncino bucato non appena le parole fuoriuscirono dalle sue labbra.
    Erano ore che cercava il coraggio di pronunciarle, combattendo contro l’imbarazzo di vedersi piccolo, immaturo - sempre così irrimediabilmente inadeguato.
    C’era qualcosa di sbagliato in lui?
    Se l’era chiesto spesso, preferendo non rispondere alla domanda.
    A scuola, molti dei suoi compagni di classe avevano già avuto i loro primi approcci con il sesso, calandosi in situazioni ben più compromettenti di un semplice bacio.
    In realtà, era tutto il tema a suscitare una curiosità quasi morbosa tra i suoi coetanei, come se ad un certo punto della loro esistenza, per le persone il sesso diventasse il dannato fulcro dell’intero universo. Siti porno, masturbazione, baci con la lingua… a volte Hinata si ritrovava ad origliare quei discorsi durante l’intervallo, col viso arrossato e le orecchie bollenti, in tasca la solita bugia da spendere davanti all’ennesima domanda: “Certo che ho già baciato qualcuno, mica sono uno sfigato! No, il resto no! Ma solo perché non ho ancora trovato la persona giusta, sono un tipo romantico.”
    Non era bello mentire ai propri amici, questo lo sapeva, solo che, avendo la facoltà di scegliere, preferiva risparmiarsi occhiatine pietose e giudizi superficiali, interi minuti sprecati a spiegare concetti che – per chi non c’era dentro fino al collo come lui – sarebbero rimasti incomprensibili: per Shoyo era sempre esistita soltanto la pallavolo; l’unico desiderio che avesse mai provato era quello di volare e segnare l’ultimo punto, l’unico impulso, quello di schiacciare, colpendo il cuoio compatto e fresco di una palla Mikasa.
    O almeno, era stato così fino a quando Ushijima Wakatoshi non era entrato nella sua vita.
    Lo osservò con la coda dell’occhio, scoprendo il suo cuore sussultare ancora all’idea di averlo accanto a sé così, disteso nello stesso letto, come fosse la cosa più naturale del mondo.
    Non si erano dovuti dire niente, semplicemente, quando il sole ormai era calato, entrambi avevano capito di non avere appetito, e che separarsi per la notte, non sarebbe mai stata un’opzione valida. A quel punto, Wakatoshi si era limitato a seguire Shoyo nella camera degli ospiti e lì erano crollati, attoniti e ancora storditi dal luna park di emozioni affrontato quel giorno, finché il più piccolo non aveva dato voce ai propri pensieri.
    All’improvviso, il ragazzo dei miracoli ruotò il capo nella sua direzione, mettendogli addosso quel suo sguardo intenso e severo, sempre un po' crucciato nonostante il morbido verde che lo distingueva, allora, per un istante, a Shoyo parve di sentire il proprio cuore liquefarsi, prendendo a colare lentamente lungo le pareti del suo povero stomaco.
    Ushijima Wakatoshi lo aveva baciato.
    Aveva baciato lui, sì, proprio lui, tra i sei miliardi di esseri umani che popolavano il pianeta Terra.
    E se la prima volta aveva temuto di esserselo immaginato, in mezzo ai fumi del dormiveglia, quello che era accaduto poche ore prima non poteva essere stato soltanto un bel sogno; non poteva esserlo, perché nemmeno nelle sue fantasie più deliranti, Hinata avrebbe mai saputo concepire la stretta ferrea di Wakatoshi tra i suoi capelli, il punto esatto del suo collo in cui il profumo si faceva più persistente, il modo autoritario e fermo con cui le sue mani gli avevano percorso le gambe, attirandolo contro di sé.
    Aveva ancora la pelle d’oca.
    “Lo so.” rispose il giovane capitano, riportandolo alla realtà; la sua voce, già di per sé baritonale, era arrochita dalla stanchezza “Perché lo stai dicendo come se fosse una cosa brutta?”
    “Beh, è solo che… molti miei amici hanno dato il loro primo bacio tanto tempo fa, per cui…”
    Wakatoshi soppesò le sue parole con la medesima serietà con cui avrebbe riflettuto su un compito di matematica e “Esiste un tempo limite per fare questo genere di cose?” domandò, realmente curioso.
    “Certo che no, ma-”
    “Allora non c’è motivo per essere a disagio.”
    Razionale e lapidario come al solito, Ushiwaka non si smentiva mai.
    Hinata accennò un sorriso timidissimo, ancora immerso nella foresta che si stagliava nei suoi occhi verdi, poi il dorso della sua mano sfiorò casualmente quella del capitano abbandonata sul materasso, e trasalì, neanche se nella stanza ci fosse stato uno sparo.
    Tornò col volto al soffitto di scatto, raccogliendo le mani in grembo, un singhiozzo incastrato a metà della gola.
    Stava facendo la figura dell’idiota, era evidente, ma non sapeva cosa fare.
    La verità era che, quando Wakatoshi lo aveva baciato, non si era fatto troppe domande: aveva seguito l’istinto, spogliando il proprio cuore di ogni difesa, senza pensare affatto alle conseguenze. Il suo era stato un salto nel vuoto, coraggioso tanto quanto avventato, il problema era che, a quanto pareva, era ruzzolato in un bel ginepraio di domande: come ci si comportava in una situazione del genere? Cosa facevano le persone normali, dopo essersi baciate? Potava toccare Japan come e quando voleva? Lui poteva fare lo stesso?
    Oddio, la sola idea rischiava di farlo implodere!
    Certo era che, continuare a fissare il soffitto come un pesce lesso, non lo avrebbe portato molto lontano, per cui “T-tu avevi già baciato q-qualcuno prima?” chiese a brucia pelo, pregando di non apparire impiccione, inopportuno, indelicato o tutte e tre le cose insieme: semplicemente era stata la prima cosa che gli era balenata per la testa – il fatto che morisse dalla curiosità di conferire una risposta a quella domanda, praticamente da quando aveva messo piede in casa di Ushijima, forse non aveva aiutato la causa...
    “Me lo chiedi perché vuoi mettere di nuovo a confronto la tua esperienza con quella degli altri?”
    “No! Cioè, okay, forse un pochino… ma non è il motivo principale!” si difese il piccolo corvo, cominciando a torturarsi le dita “È che sono davvero curioso, in realtà! Non mi sei mai sembrato un tipo molto interessato a questa… roba! Eppure, so che girano un sacco di voci su di te… che sei stato con tante ragazze e ragazzi… cose così! Non capisco quale sia la verità…”
    Wakatoshi rimase in silenzio per un lungo secondo, secondo durante il quale Hinata maledì se stesso una mezza dozzina di volte per quella cacciata così stupida. “Scusa, sono uno scemo totale!” si affrettò quindi a dire, rammaricato “Non deve essere bello essere oggetto di gossip. Si tratta pur sempre della tua vita privata, hai tutto il diritto di non parlarne, fai finta che non ti abb-“
    “Quando siamo andati a Shirahama con Tendou e gli altri, anche tu hai pensato che io avessi avuto un rapporto sessuale con Layla, vero?”
    Hinata incassò il colpo, sperando di venire ingurgitato dal materasso per non riemergerne mai più: ricordava benissimo cos’era successo a Shirahama Beach, in particolare la sparata che aveva fatto a Wakatoshi in mezzo al mare, nel suo delirio di gelosia, prima di rischiare di morire affogato insieme a lui.
    Quell’episodio rientrava di diritto nella top five delle figuracce che avrebbe voluto cancellare dalla memoria collettiva umana.
    “Io… beh, l’ho pensato, sì… ma non ne vado fiero! Mi dispiace tantissimo.”
    “Eri parecchio arrabbiato con me.”
    “Chi? Io? N-non mi ricordo, sai…”
    “Era perché ti piacevo già, quindi. Eri… com’è quella parola? Ah, geloso, sì.”
    Ecco, doveva essere quella la sensazione di venire tagliati in due da una spada.
    Maledetto Japan e il suo essere così dannatamente diretto!
    Aveva ragione Oikawa, a volte era snervante avere a che fare con lui, soprattutto perché non c’era alcuna malizia nella sua tendenza a mettere con le spalla al muro gli altri; semplicemente, pensava una certa cosa, la riteneva giusta e perciò decideva di esprimerla, senza tenere in alcun conto l’effetto che poteva suscitare nel proprio interlocutore… tipo fargli venire un infarto!
    “Io… s-sì, forse… forse ero u-un pelino geloso…” ammise Shoyo tra mille balbettii, ben consapevole che tentare di trovare una spiegazione alternativa lo avrebbe messo ancor più nei casini.
    Tanto non sapeva mentire, era risaputo in tutto il Giappone.
    Wakatoshi, dal suo canto, decise di infierire su di lui con maggior ferocia: si girò completamente nella sua direzione, indurendo poi la mascella con espressione assorta.
    Come facesse ad essere così bello persino con quell’aria assorta e uno zigomo pesto, era un enigma.
    Non si sarebbe mai abituato alla bellezza dorata di Ushijima Wakatoshi.
    Mai, in nessuna vita.
    “So quali sono le voci che girano sul mio conto. Quando posso cerco di metterle a tacere, ma sono talmente tante che spesso sfuggono al mio controllo.” affermò l’asso, parlando piano, come se stesse dando voce a un pensiero squisitamente intimo.
    “Non ti fanno arrabbiare?”
    “Non ci avevo mai dato peso, sinceramente, quello che gli altri pensano sul mio conto, non è affar mio. Almeno fino a Shirahama…”
    “Fino a Shirahama?”
    “È stato…” strinse le labbra, aggrottò le sopracciglia “sgradevole sapere che tutti voi pensavate che io avessi avuto un rapporto intimo con quella sconosciuta. In particolare, che lo pensassi tu.”
    Il respiro di Hinata si bloccò.
    “C-che importa quello che penso io?”
    “Importa a me, a quanto pare.”
    A quelle parole, impulsi contrastanti si avvicendarono nel sangue improvvisamente caldo del giovane corvo: quello di sorridere fino a stirarsi le guance, quello di nascondere la testa sotto al cuscino per la vergogna e quello di buttarsi tra le braccia di Ushijima, ficcando il viso nell’incavo del suo collo – un posto che, aveva scoperto, lo faceva sentire al sicuro come a casa.
    Ciò che realmente fece, alla fine, fu chiudere le palpebre per un istante, imponendo al proprio cuore agitato quanto le ali di un colibrì di darsi una calmata; poi, chiamando a raccolta una buona dose di coraggio, si girò a sua volta verso il capitano della Shiratorizawa.
    “Q-quindi, anche per te è stato il primo bacio?” chiese di nuovo, mentre si mordicchiava le labbra.
    Il giovane asso parve trattenere il fiato un istante, “No, in verità. Avevo già baciato qualcuno prima.” confessò atonale “Ma non è come gli altri pensano, non sono uscito con tutte quelle persone. Con nessuna di loro, in verità. Ho avuto soltanto due esperienze, prima di questa.”
    Avrebbe mentito, Shoyo, se avesse affermato che quelle parole non gli provocarono una fitta di dolore.
    Sì, doveva ammetterlo: per un secondo si era illuso che Ushijima Wakatoshi non avesse un passato, che anche per lui la pallavolo fosse sempre stato l’unico chiodo fisso, l’unico baricentro. Perché Shoyo conosceva bene l’aura che Ushijima emanava, così come aveva visto bene la maniera in cui la gente di tutte le età, sesso e ceti sociali soleva guardarlo quando lui camminava per la strada – l’ammirazione, la lascivia, il desiderio- e il solo pensiero di dover reggere il confronto con esseri ultraterreni come una Layla o qualche altro modello dalla personalità conturbante come poteva essere un Oikawa, lo aveva affogato nello sconforto più assoluto.
    Shoyo non si considerava brutto, ma era evidente che lui, con il mondo scintillante e patinato che attorniava il campione Ushijima Wakatoshi, non avesse nulla a che fare.
    Quello era l’Olimpo, mentre lui – aspetto mediocre, modi semplici, vita banale – non era altro che un semplice mortale.
    “Oh, okay, certo. C’era da aspettarsi che avessi avuto almeno qualche esperienza…” disse quindi, esibendosi in una risatina forzata.
    “Perché dici questo?”
    “Beh, tu…tu piaci molto alle persone, attiri l’attenzione di tutti ovunque vai!”
    “Anche tu. E molto più di me, in realtà.”
    “Io?”
    “Sì, ogni volta che entriamo in un posto, dopo qualche minuto l’energia delle persone si catalizza completamente su di te, come… gli insetti con una lampadina. Hai la capacità di suscitare nella gente qualcosa di indefinibile. Non ci riesce nessun’altro. Solo e soltanto tu.”
    Hinata avvertì la propria pelle farsi molto calda e un crepitio, alla bocca dello stomaco, che lo spinse ad affondare maggiormente la faccia nel cuscino, in cerca di riparo.
    Lo destabilizzava scoprire che durante quel tempo, nel suo piccolo, anche Ushijima doveva averlo osservato, arrivando a notare qualcosa di così profondo di lui.
    Lo faceva sentire speciale, vivido.
    “Comunque, non capisco perché le persone diano tanta importanza al sesso.” riprese l’asso, storcendo la bocca “È soltanto un bisogno corporale, non diverso dal mangiare, bere o dormire.”
    “Beh, perché è una cosa… bella, immagino! L’intimità, il p-piacere…”
    “Non lo so. Anche Tendou sostiene che sia qualcosa di molto speciale.”
    “Per te non è stato così?”
    Di fronte a quella domanda, Wakatoshi retrocesse. All’improvviso, il suo sguardo cupo si diluì sotto un velo di malcelata ritrosia, per cui a Shoyo divenne evidente che, qualsiasi natura avesse la risposta che gli stava rimbombando nella testa, decidere se darle voce, gli stesse costando una strenua lotta interiore.
    Fu dopo un lento e profondo sospiro, in effetti, che il ragazzo dei miracoli cominciò il proprio racconto.
    “No, onestamente le mie esperienze sono state ben lontane dal definirsi speciali, in entrambi i casi.” disse, stringendosi nelle spalle “Ho dato il mio primo bacio a dodici anni. Ero al secondo anno delle medie. In realtà non è corretto dire che ho dato il mio primo bacio, è lei che si è avvicinata. Ayako era una mia compagna di classe. Era molto gentile e assennata, mi aiutava a tenere il passo con le lezioni, dato che facevo spesso assenza a causa delle partite, per questo quando quel pomeriggio mi aveva invitato a casa sua per fare i compiti, non ci avevo visto nulla di strano. Mentre aspettavamo la merenda, si è avvicinata e mi ha baciato. Non è stato un brutto bacio… credo. Ma lei non mi piaceva. Quindi l’ho scostata e le ho fatto presente che non ricambiavo i suoi sentimenti. Sembrava avesse capito, che fosse tutto okay e potessimo tornare ad avere un rapporto normale… invece il giorno dopo ha detto a tutta la scuola che ero stato io a baciarla e che lei mi aveva rifiutato in malo modo. Le persone non hanno fatto altro che guardarmi male e bisbigliare alle mie spalle per mesi. È stato parecchio fastidioso.”
    “Che stronza!”
    “Hinata!”
    “Scusa, ma è vero!”
    Non gli importava un fico secco di aver usato un’espressione colorita: se avesse avuto quella Ayako davanti, Shoyo avrebbe ripetuto quell’insulto a gran voce, dritto sulla sua brutta faccia, prima di… di rovesciarle un bicchiere di succo sulla testa, ecco!
    In un flash, ricordò la conversazione che aveva avuto con Satori Tendou sulla spiaggia di Shirahama: “Wakatoshi è una sottospecie di rockstar, Hinata!” aveva detto il guess blocker, amareggiato “Ed esattamente come una rockstar, la gente vuole sempre qualcosa da lui. Il problema è che, quando non riesce ad ottenerla, sceglie la via più semplice e più vigliacca di tutte: inventa.”
    Hinata venne attraversato da un profondo senso di rabbia.
    Prima di conoscere Wakatoshi, pensava che dovesse essere esaltante essere famosi come lui, vedere il proprio volto stampato sulle copertine dei giornali, sentire il proprio nome nella bocca di chiunque, colmo di rispetto e adorazione. Dall’esterno, la vita di Ushijima appariva un fulgido bagno di sole, un castello dorato infrangibile, dove ogni cosa era perfetta, invece esisteva un lato decisamente oscuro della medaglia: tutti bramavano uno spicchio di quello splendore, a costo di calpestare la fonte da cui proveniva.
    “E la seconda esperienza, invece?” domandò quindi il giovane corvo con un velo di preoccupazione, non sapendo bene che cosa aspettarsi.
    “La seconda è più complicata…”
    Come la sera in cui gli aveva rivelato la storia dei suoi genitori, il corpo di Wakatoshi si irrigidì visibilmente, quasi che la sua stessa pelle imbastisse una corazza contro le lame troppo affilate dei ricordi.
    Per Hinata fu un istinto naturale posare una mano sulla sua. Notò che sembrava minuscola rispetto a quella dell’asso, a stento riusciva a ricoprirne il dorso, ma decise che non importava: ciò che Shoyo voleva era ricordargli che lui era lì, che adesso aveva qualcuno con cui condividere quel peso, che non sarebbe andato via.
    “Due anni fa, ho avuto un infortunio alla spalla sinistra. Niente di serio, ma per aggirare un muro avversario, durante i nazionali di Tokyo, ho eseguito una diagonale molto stretta, muovendo male il braccio. Per fortuna, era l’ultima partita dell’anno, quindi non ho dovuto sforzare oltre l’arto, ma ho passato l’estate a fare fisioterapia per riacquistare la piena mobilità.
    È lì che ho conosciuto Dae-Jung.
    Dae-Jung era il praticante del fisioterapista incaricato dal mio staff. Aveva ottenuto la laura magistrale da qualche mese, doveva soltanto terminare i tirocini in ospedale, nel frattempo però aveva chiesto a un amico di famiglia – il mio fisioterapista, appunto - di poter cominciare a lavorare su qualche atleta: il suo sogno, era specializzarsi nel campo sportivo. Era stato un nuotatore professionista per anni, durante l’adolescenza, ma un infortunio aveva spezzato le sue ambizioni. Quella era l’unica maniera per continuare a vivere nel mondo delle gare.
    All’inizio mi era totalmente indifferente. Era bravo, ma né più né meno di altri fisioterapisti con cui avevo avuto a che fare, eppure col tempo cominciammo a legare, sempre di più.
    Dae-Jung era… particolare. Era molto sicuro di sé ma non spavaldo, sembrava essere a suo agio in ogni situazione, sapeva sempre cosa dire e quando dirlo, era pacato, educato ed era pronto a farsi in quattro per chi gli stava vicino. Ma soprattutto, lui… capiva. Capiva cosa significasse concorrere a livello agonistico negli anni del liceo, tutte le pressioni, i sacrifici, le difficoltà di questo mondo. Parlare con lui era facile come schioccare le dita, non mi era mai successo con nessuno prima di allora.
    Alla fine, quando ricominciò la scuola, e con essa gli allenamenti della squadra, divenne il mio fisioterapista di riferimento, il che comportava anche seguirmi durante le trasferte.
    Fu durante una trasferta, effettivamente, che accadde.
    Eravamo a Osaka. Dae-Jung aveva insistito con lo staff per darmi una stanza singola. Lì per lì, non ci diedi troppo peso: era la prima partita ufficiale dopo l’infortunio, sosteneva che avevo bisogno di riposo, concentrazione e qualche sessione di massaggio in più. Aveva senso, perciò non me ne preoccupai. I dubbi cominciarono a venirmi, quando bussò alla mia porta in piena notte, mentre tutti gli altri erano andati a dormire. Disse che era necessario fare un controllo prima della partita, l’indomani non ci sarebbe stato tempo. Mi sembrò bizzarro, ma mi fidavo di lui, quindi lo lasciai entrare nonostante fossi piuttosto stranito dalla situazione.
    Mi baciò non appena mi misi sul lettino.
    Provai a scostarlo, ma lui cominciò a dire un sacco di cose: “Pensavo ci fosse un legame speciale tra di noi.”, “Sei solo spaventato, fidati di me, sono più grande, so quello che faccio.”, “Voglio solo farti sentire bene, sei così stressato, così teso…”, “Lo so che ti piaccio, lo so che lo vuoi, non dire bugie.”
    All’inizio lo lasciai fare. Per certi versi, non mi ero mai avvicinato tanto a qualcuno; pensai che forse aveva ragione, senza rendermene conto potevo aver sviluppato una qualche sorta di legame con lui. Ma poi cominciò a toccarmi e a volere che io lo toccassi a mia volta, e non ce la feci più. Non volevo fare quel genere di cose, non mi sentivo a mio agio. Provai a dirglielo, ma non accennava a fermarsi, continuava a toccarmi… cercava di spogliarmi…
    Alla fine, me lo tolsi di dosso bruscamente e lo cacciai fuori.
    Il giorno dopo aveva fatto le valigie e se ne era andato.
    Non l’ho mai più rivisto.”
    Shoyo tirò Wakatoshi contro il suo petto con la vista appannata di lacrime.
    Stava tremando, stava stringendo la maglietta dell’altro talmente forte da sentir tirare la stoffa, stava impiastricciando la federa, le proprie mani, i capelli del ragazzo: un disastro.
    “Hinata? Perché stai piangendo adesso?”
    “Tu hai affrontato una cosa simile da solo? Non ne hai mai parlato con nessuno?”
    “No, sei la prima persona a cui lo racconto.”
    “Wakatoshi…”
    Non aveva parole per esprimere ciò che stava provando. Dentro di lui si avvicendavano angoscia, rabbia, ma soprattutto una profonda tristezza. Tristezza nel pensare a quante brutte situazioni come quella, Wakatoshi aveva dovuto interfacciarsi da solo nel corso della sua vita, buttato fin da piccolo in quel mondo di adulti spesso così meschini e disonesti, pronti a mangiarselo vivo, pensando di giocare sull’inesperienza della sua giovane età. Ushijima possedeva una forza d’animo fuori dal comune, era vero, ma quanti colpi doveva aver incassato prima di indurire le ossa? Quando lo aveva conosciuto, Shoyo si era stupito della sua freddezza, della sua maturità, di quell’attitudine a isolarsi e a guardare con sospetto ogni barlume di gentilezza, ma adesso gli era chiaro che quei tratti, purtroppo, non erano altro che riflessi di un meccanismo di difesa che Wakatoshi aveva imbastito in anni e anni di guerra.
    “È per questo che ti sei scusato per avermi baciato senza permesso?” rifletté all’improvviso il ragazzino, asciugandosi malamente il volto.
    Wakatoshi lo scostò quel tanto che bastava per guardarlo, quindi poggiò la fronte contro la sua e gli sfiorò il mento con la punta delle dita. “Non voglio fare niente che tu non voglia. Mai. Me la ricordo la sensazione che provai con Dae-Jung: era sgradevole, sentivo che era tutto sbagliato.”
    Hinata sorrise triste, “Non è stato nulla del genere per me! Io volevo tanto che tu mi baciassi!” confessò, mordendosi le labbra “Intendo… davvero, davvero tanto…”
    La risposta di Wakatoshi fu una risata simile ad uno sbuffo, che gli fece vibrare il petto.
    “Però voglio che anche tu sia sempre a tuo agio con me!” riprese Hinata, con fervore.
    “Io?”
    “Non darò mai più per scontato che a te stiano bene certi tipi di contatto, m-mi dispiace! Se c’è qualcosa che non ti piace o non ti va, io lo voglio sapere! Io… voglio prendermi cura di te!
    L’asso sgranò gli occhi, di fronte a quella frase, prendendo a sfarfallare le palpebre convulsamente, con aria smarrita. Hinata intuì subito che il motivo di tanta sorpresa era infelice – chissà se gliela aveva mai detta nessuno una frase del genere – e che forse non doveva suonare molto credibile, visto era un nanerottolo alto poco più di un metro e sessanta, comunque non ebbe il tempo di rammaricarsene oltre: con quella espressione confusa, Japan somigliava a uno di quegli aquilotti un po' buffi che di tanto in tanto giravano sui social, per cui, suo malgrado, Shoyo esplose in una risata argentina.
    “Mi piace quando ridi così.”
    Il ragazzino si bloccò di colpo.
    Il suo cuore ruzzolò, perse un battito.
    “S-sul serio?”
    “Non dico niente che non sia sul serio.”
    A quel punto, il giovane capitano posò lentamente una mano sul suo collo, neanche avesse paura di scalfirlo in qualche modo, poi lasciò ondeggiare il pollice davanti alle sue labbra, ancora e ancora, senza mai toccarle.
    Nel silenzio della notte, il respiro di Shoyo accelerò, riecheggiando in tutta la grande casa di Ushijima, in attesa. Era come se qualcuno avesse premuto un interruttore invisibile, che aveva cambiato completamente l’atmosfera nella stanza: un attimo prima, l’aria era fresca e Hinata respirava a pieni polmoni; l’attimo dopo, tutto l’ossigeno pareva essere stato risucchiato dalla congiunzione dei loro corpi, pesando su quel letto, gravando sulle loro costole.
    Fermando il resto del mondo.  
    Wakatoshi non gli chiese il permesso a parole, questa volta, semplicemente sollevò gli occhi su di lui con un’intensità tale che il piccolo corvo sentì il suo desiderio scivolargli sottopelle, mescolarsi con il rosso del proprio sangue.
    Bastò solo un cenno di assenso.
    Le loro labbra si calamitarono le une vero le altre, combaciando come due metà di un intero.
    Baciare Ushijima era una miccia sulla benzina, una scintilla in grado di originare un incendio. Hinata si arcuò contro di lui e si aggrappò alla sua maglietta ormai martoriata dalle energiche strette che aveva collezionato quella sera; pregò di non doversi staccare mai, di non dovere mai recuperare il fiato. La mano di Wakatoshi, ferma sulla sua giugulare, sembrava pompargli dentro una vitalità inedita: Shoyo sentiva di poter scalare le montagne, tirare giù la luna che faceva capolino dalla finestra socchiusa, saltare più in alto delle stelle.
    Si tirò indietro, solo quando avvertì la lingua dell’altro lambirgli gentilmente il labbro inferiore. “Scusa…” sussurrò infatti, rosso in viso sia per la vergogna che per la foga “Non so baciare come gli attori nei film…”
    “Possiamo non farlo, se non te la senti.”
    “No, voglio imparare! Solo che… credo… credo di essere una frana…”
    Wakatoshi rimase in silenzio per un istante, osservandolo come rapito.
    Il sospiro che emise – rotto, frenato, a tratti sofferente- regalò al ragazzino un brivido dietro la schiena.
    “Apri la bocca.” disse poi con la sua voce roca, prendendogli il mento tra le dita.
    Hinata ubbidì senza neanche pensarci. La lingua del capitano indugiò un poco sulle sue labbra, quasi volesse tracciarne il contorno, dopodiché vi scivolò in mezzo, iniziando ad accarezzare la sua con movimenti languidi.
    A Hinata sembrò di uscire fuori da se stesso, cambiare scheletro, rivestirsi di pelle nuova.
    Non era neanche lontanamente paragonabile ai baci precedenti: era passione allo stato più grezzo, un terremoto di sensazioni diverse che si sovrastavano, sovraccaricando Hinata di pura elettricità. Capire il meccanismo non fu facile – più di una volta temette di graffiare l’altro coi denti o di usare un po' troppo entusiasmo – ma Wakatoshi era sorprendentemente paziente, si premurava di recuperarlo ogni volta che perdeva il ritmo; presto, comunque, tutto divenne naturale, istintivo, mentre il suo cervello si svuotava delle ultime briciole di razionalità.
    All’improvviso però, Wakatoshi lo allontanò da sé in maniera brusca.
    “Hinata…” chiuse gli occhi un istante, morse l’interno della guancia “È meglio che andiamo a dormire.”
    Shoyo lo osservò intontito, un po' indignato, “T-tu vuoi andare a dormire?”
    La mano di Wakatoshi scese giù in picchiata; come in precedenza, rimase sospesa a un millimetro dalla sua pelle, mettendogli i brividi, e così risalì piano lungo la sua coscia, la stoffa dei suoi pantaloncini, l’elastico dei boxer, arrestandosi solo per agganciare la punta delle dita all’orlo della sua maglietta.
    “Temo che le cose che voglio io, non siano consone, al momento.” disse, fissandogli le labbra. 
    Hinata deglutì.
    Poi prese la mano di Wakatoshi e se la portò sotto la maglietta.
    “Ma se sono le stesse che voglio io?”
    Le unghie del capitano aderirono sulla pelle nuda del suo stomaco come se vi si stessero aggrappando, spiraglio di un desiderio talmente disperato da togliere il fiato anche a lui.
    “Promettimi che non ti farai annebbiare dagli impulsi.” gli intimò quindi, la sua mano che scivolava calda e lenta sulla curva del suo fianco e la stringeva “Promettimi che se non ti senti a tuo agio, se non vuoi fare qualcosa, non ti lancerai a capofitto come al solito. Ti fermerai. Mi fermerai.”
    “Lo prometto!”
    “Hinata…”
    “Lo prometto, Wakatoshi, davvero! Adesso però baciami.”
    Non finì nemmeno la frase. Il capitano dello Shiratorizawa lo inchiodò con la schiena al letto, si sollevò sopra di lui e riprese a baciarlo.
    Shoyo gli circondò il collo con le braccia, sorrise stupidamente e lo accolse – impaziente, grato – schiudendo le gambe per fargli spazio, come se quel posto fosse sempre stato suo di diritto.
    Quante volte aveva immaginato uno scenario del genere? Decine, migliaia, e adesso, non sapeva neanche spiegare quanto fosse liberatorio poter toccare Wakatoshi in quel modo, sentire il suo fiato caldo che si infrangeva a ondate irregolari sulle sue labbra, il peso del suo corpo che premeva gentilmente sulle proprie ossa. Lo teneva incollato addosso, eppure non gli bastava, avrebbe voluto cancellare i loro contorni, mescolarli insieme fino a non riconoscere più cosa era suo e cosa dell’altro. In un guizzo di sconsideratezza, affondò le mani sotto la sua T-shirt e la stropicciò, la tirò, al punto che, d’un tratto, Wakatoshi dovette decidere di adeguarsi a quella frenesia, così lasciò che l’indumento gli scivolasse da sopra la testa.
    Hinata tremò.
    La distesa di muscoli levigata e solida che gli si dipanò innanzi agli occhi, gli fermò il cuore. “Sei perfetto.” sussurrò, e non provò nemmeno un briciolo di vergogna stavolta: quello non era un complimento né era una mera considerazione personale, era la pura e semplice verità.
    L’asso lo osservò per un lungo istante, in quella maniera aperta e penetrante che faceva sentire il ragazzino privo di qualsiasi difesa, dopodiché prese l’orlo della sua maglietta, la sollevò un poco e, quando Shoyo glielo permise, aiutandolo nei movimenti, gliela sfilò a sua volta.
    Una ventata di freddo gelido gli increspò la pelle, ma Hinata non avrebbe saputo dire se la causa fosse stata la notte oppure l’imbarazzo di trovarsi mezzo nudo, per la prima volta, di fronte ad un’altra persona.
    Incrociò le braccia al petto, cercò di farsi piccolissimo.
    “Sei a disagio?” gli chiese Wakatoshi.
    “Sì… cioè no! È-è solo che…” sbuffò, incassò il capo tra le spalle e ritentò “Io… io non sono come te… il mio fisico… insomma, non c’è molto da vedere…”
    Il punto era che, grazie alla loro convivenza, Hinata aveva già visto Wakatoshi a petto nudo e - sebbene non credesse che l’asso potesse avergli riservato chissà quale attenzione - anche lui aveva avuto l’opportunità di vederlo in costume da bagno sulla spiaggia di Shirahama.
    Ma adesso… adesso era una situazione del tutto differente, come se in realtà non si fossero mai guardati davvero prima.
    Alla luce soffusa della sera, Wakatoshi appariva dorato e splendente più di quanto non fosse mai stato in quelle settimane… ma lui? Lui come doveva apparirgli? Lui che di miracoloso non aveva niente, che era smilzo, smorto, acerbo in ogni singolo aspetto.
    Eppure, Ushijima se ne stava ancora lì a fissarlo, senza dire una parola, con un’intensità tale da mettergli a soqquadro ogni organo.
    Fu uno shock quando le sue labbra fredde si posarono gentilmente sulla curva del suo collo per poi trascinarsi, esitanti, lungo la linea della sua clavicola.
    “Lo so che non sei come me.” disse roco, la bocca premuta al centro del suo petto; raccolse i suoi polsi intrecciati e li ripose tra le pieghe delle lenzuola “E non voglio niente di diverso.”
    Shoyo ingoiò un ansito, mentre un bacio si posava all’altezza esatta del suo cuore.
    Lentamente, l’asso prese a sondarlo come un paesaggio da scoprire, a volte sfiorandolo appena con la punta delle dita, altre volte stringendo, piegando, affondando i denti dove la carne era più tenera.
    Nel modo in cui lo stava toccando, il ragazzino scorgeva lo specchio dell’indole binaria di Wakatoshi: da un lato, la razionalità, il metodo; dall’altra quella tendenza innata al predominio, l’avidità di prendere e conquistare ogni cosa.
    Gli ci volle un po' prima di tornare in sé, ma quando finalmente il suo cervello si riaccese, anche Shoyo cominciò ad acquistare confidenza con il corpo dell’altro, lasciando le proprie mani vagare senza meta tra quei muscoli cesellati e duri, lisci come il marmo lavorato.
    Era così che ci si sentiva un drogato dipendente dalla cocaina? Più ne assumeva, più ne voleva.
    Si baciarono di nuovo, uniti in un groviglio confuso di arti, pelle contro pelle, i loro respiri ormai diventati uno soltanto. Non seppe mai chi dei due sfregò per primo il proprio bacino contro quello dell’altro, ma all’improvviso accadde, e una scarica elettrica gli attraversò la schiena, folgorandolo; a quel punto, una ondata di vergogna, terrore ed eccitazione lo sovrastò.
    “Hinata…” lo chiamò Wakatoshi con la sua voce simile al rombo di una tempesta, regalandogli un altro brivido. Aveva le palpebre chiuse, la mascella serrata, il corpo ghiacciato dallo sforzo di non muoversi.
    Hinata gli posò una mano sulla guancia e lo convinse a guardarlo negli occhi.
    “Va tutto bene.” soffiò pianissimo, mentre timidamente si inarcava sul letto alla ricerca di quel contatto così intimo, così nuovo.
    Un sussultò palleggiò da lui a Ushijima.
    Non si fermò.
    “Va tutto bene…” e ripeté il gesto, tremante ma deciso, bevendo la sorpresa negli occhi della giovane aquila insieme a quel guizzo di piacere che lasciò attoniti tutti e due.
    “Sei sicuro?” gli chiese allora Wakatoshi, ma già le sue labbra erano incollate a quelle aperte di Shoyo, la sua durezza premuta contro il suo interno coscia.
    “Sì.”
    “Sai cosa stiamo per fare? Sai che possiamo fermarci in qualsiasi momento?”
    “Sì…” e mosse ancora il bacino, “Sì…” e allacciò una gamba intorno a quella dell’altro, “Sì…” e immerse le dita tra i suoi capelli corti, “Sì…” e chiuse gli occhi, “Tu lo vuoi, Wakatoshi?”
    La risposta del ragazzo dei miracoli fu un bacio che gli tolse ogni facoltà di parola.
     
    Quella notte, Shoyo scoprì con quanta intensità potesse amarsi un corpo, quanto bellezza ci fosse nel perdersi in un’altra persona. Lui e Ushijima si incastrarono come mai avevano fatto prima; cercarsi divenne un impulso incontrollabile, mescolarsi un bisogno atavico, sincero, e persino quando le loro mani si fecero più audaci e l’ultimo strato di tessuto li abbandonò al cospetto della luna, nessuno dei due riuscì più a provare un briciolo di paura. Coperto solo di brividi, il piccolo corvo raggiunse l’orgasmo gemendo al sicuro, stretto al petto del campione, mentre quello si riversò tra le loro pance, sospirando nel suo orecchio come un segreto.
    L’alba li trovò ancora svegli, un po' intontiti, sicuramente stanchi.
    Sempre intrecciati.
     
    Era perfetto.
     
     



    NOTE AUTORE
    Stavo perdendo le speranze, lo ammetto.
    Negli ultimi mesi la mia real life mi ha prosciugata, risucchiando ogni granello della mia energia, e il risultato è stato un blocco totale non soltanto a livello creativo, ma anche di lettura e di recensioni. Un disastro! Guardavo quella pagina bianca e non ne cavavo un ragno dal buco, non so quante volte io abbia letto una singola riga, togliendo e mettendo una virgola senza riuscire ad andare avanti.
    Non sono del tutto contenta di alcuni passaggi… ma pubblicare questo capitolo, amici, è una liberazione!
     
    I nostri piccolini ormai hanno rotto il ghiaccio e si stanno vivendo questa passione anche da un punto di vista fisico, oltre che emotivo. Il capitolo è incentrato sulla scoperta delle proprie pulsioni, dei timori tipici dell’adolescenza, delle insicurezze sul proprio aspetto che, prima o poi, proviamo tutti.
     
    Sono davvero curiosa di sapere cosa ne pensate del capitolo, ma soprattutto del racconto di Wakatoshi circa la sua esperienza del passato con il fisioterapista… vi dico la verità, ho avuto seri dubbi sull’inserire questo pezzo oppure no, ma avendone fatto riferimento spesso in precedenza, alla fine ho deciso di seguire il piano. Volevo sviluppare un tema abbastanza importante, che è quello degli abusi fisici di cui spesso sono vittime i giovani atleti, lanciati troppo presto in questo mondo di adulti, lontano da casa.
    La mia speranza è di non aver trattato il tema in modo indelicato.
     
    Il prossimo capitolo è uno dei miei preferiti in assoluto e non vedo l’ora di farvelo leggere
    Che dire?
     
    Alla prossima,
    Violet Sparks

     
     

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