Un sole intero di felicità

di FluffyHobbit
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una goccia di buio ***
Capitolo 2: *** Si spezza il respiro e dopo ritorna ***
Capitolo 3: *** Si spezza il mio cuore che pompa vergogna ***
Capitolo 4: *** Il tuo sorriso da lontano ***
Capitolo 5: *** Se mi aspetterai ti aspetterò ***
Capitolo 6: *** E vivremo ancora ***
Capitolo 7: *** Per poi dimenticare tutto il male ***
Capitolo 8: *** In un 'ciao, amore' ***
Capitolo 9: *** C’era lui a contare le stelle con me ***
Capitolo 10: *** Un dottore guarisce da più o meno ogni male, però ***
Capitolo 11: *** L’insistenza di esistere appesi ad un filo sottile sei tu ***
Capitolo 12: *** E se non riesco ad alzarti, starò con te per terra ***
Capitolo 13: *** Ma se sei tu, lo sentirò ***
Capitolo 14: *** E adesso te lo dimostrerò ***
Capitolo 15: *** Perché da soli fa male pure l'aria ***
Capitolo 16: *** Non c'è niente che ti assomigli ***
Capitolo 17: *** Guarire le ferite anche senza dare punti ***
Capitolo 18: *** Sotto cieli un po' più veri, sai, potremmo riposare ***
Capitolo 19: *** Le paure che sento come distanze da un centro ***
Capitolo 20: *** La matematica non sarà mai il mio mestiere ***
Capitolo 21: *** Insieme un inganno non c’è (parte 1) ***
Capitolo 22: *** Insieme un inganno non c’è (parte 2) ***
Capitolo 23: *** Un Sole intero di felicità (parte 1) ***
Capitolo 24: *** Un Sole intero di felicità (parte 2) ***
Capitolo 25: *** Piccolo extra - Cerbiattino e Paperotto ***
Capitolo 26: *** Appendice, Capitolo 1 - Quella notte blu come te (parte 1) ***
Capitolo 27: *** Appendice, Capitolo 1 - Quella notte blu come te (parte 2) ***
Capitolo 28: *** Appendice, Capitolo 2 – Le tue profondità verdi come gli occhi tuoi (parte 1) ***
Capitolo 29: *** Appendice, Capitolo 2 – Le tue profondità verdi come gli occhi tuoi (parte 2) ***
Capitolo 30: *** Appendice, Capitolo 3 – È grazie a te che ho imparato a stare bene (parte 1) ***
Capitolo 31: *** Appendice, Capitolo 3 – È grazie a te che ho imparato a stare bene (parte 2) ***
Capitolo 32: *** Appendice, Capitolo 3 - È grazie a te che ho imparato a stare bene (parte 3) ***
Capitolo 33: *** Appendice, Capitolo 4 – E ad amarmi un po’ di più (parte 1) ***
Capitolo 34: *** Appendice, Capitolo 4 – E ad amarmi un po’ di più (parte 2) ***
Capitolo 35: *** Appendice, Capitolo 4 – E ad amarmi un po’ di più (parte 3) ***
Capitolo 36: *** Appendice, Capitolo 5 – Capitolo 5 – Rimangono le impronte (parte 1) ***
Capitolo 37: *** Appendice, Capitolo 5 – Rimangono le impronte (parte 2) ***
Capitolo 38: *** Appendice, Capitolo 6 – Nella vernice fresca dei miei ricordi (parte 1) ***
Capitolo 39: *** Appendice, Capitolo 6 – Nella vernice fresca dei miei ricordi (parte 2) ***
Capitolo 40: *** Appendice, Capitolo 6 – Nella vernice fresca dei miei ricordi (parte 3) ***
Capitolo 41: *** Appendice, Capitolo 7 – Tu mi guardi e ci scappa da ridere (parte 1) ***
Capitolo 42: *** Appendice, Capitolo 7 – Tu mi guardi e ci scappa da ridere (parte 2) ***
Capitolo 43: *** Appendice, Capitolo 7 – Tu mi guardi e ci scappa da ridere (parte 3) ***
Capitolo 44: *** Epilogo – Eternamente ora (parte 1) ***
Capitolo 45: *** Epilogo – Eternamente ora (parte 2) ***
Capitolo 46: *** Epilogo – Eternamente ora (parte 3) ***
Capitolo 47: *** Epilogo – Eternamente ora (parte 4) ***
Capitolo 48: *** Epilogo – Eternamente ora (parte 5) ***
Capitolo 49: *** Epilogo – Eternamente ora (parte 6) ***
Capitolo 50: *** Epilogo – Eternamente ora (parte 7) ***
Capitolo 51: *** Epilogo – Eternamente ora (parte 8) ***
Capitolo 52: *** Epilogo – Eternamente ora (parte 9) ***
Capitolo 53: *** Epilogo – Eternamente ora (parte 10) ***



Capitolo 1
*** Una goccia di buio ***


Capitolo 1 - Una goccia di buio 


"Non vedo l'ora che arrivi stasera, 'o sai?"

La voce di Manuel, ancora piena di sonno, era poco più di un sussurro, ma non per questo non arrivò chiara e forte alle orecchie di Simone. Non era la prima volta che si svegliavano insieme, ma sapeva che non si sarebbe mai abituato a quella voce roca che gli attraversava la pelle e gli faceva tremare i muscoli. Accennò un sorriso, pigramente, e si strinse un po' di più all'altro ragazzo, che approvò con un mugolio.

"Ma se siamo svegli da tipo cinque minuti…"

Gli fece presente e anche Manuel avvertì più di un brivido quando fu investito da quella voce bassa e profonda. Non si sarebbe mai abituato a quella sensazione, ne era sicuro, ma del resto non aveva alcuna intenzione di abituarsi. Portò una mano tra i ricci morbidi del suo ragazzo per accarezzarli delicatamente, ottenendo un gemito d’approvazione in risposta. Manuel aveva presto capito che quando Simone aveva sonno, come in questo momento, si lasciava andare molto più liberamente a quei piccoli versi e dato che per lui rientravano tra i suoni più belli che Dio o chi per lui avesse creato, aveva altrettanto presto imparato a sfruttare quelle occasioni.

"Sì, ma oggi è una giornata speciale e stasera lo sarà ancora di più."

I suoi occhi scuri luccicavano emozionati e per Simone facevano concorrenza ai raggi di Sole di fine Giugno che invadevano la stanza. Quasi gli sembrava impossibile aver paragonato quegli stessi occhi a due lampadine fulminate appena qualche settimana prima.

"Tu lo sai che per me ogni giorno con te è speciale e che mi basta che passiamo la serata insieme per essere felice, vero?"

Era il loro primo mesiversario e in più Simone aveva superato il suo esame formale, due eventi che Manuel aveva insistito di festeggiare fino allo sfinimento. Erano giorni che stava organizzando qualcosa, più di una volta Simone lo aveva beccato a confabulare con sua nonna o suo padre, ma non era riuscito a carpire neanche una piccolissima informazione. Non doveva sapere nulla di quella serata ed era davvero così, non sapeva cosa aspettarsi. Era molto emozionato all'idea, però, perché nessuno aveva mai fatto qualcosa di simile per lui, nemmeno Laura. Manuel interruppe le sue carezze per arruffargli i capelli, in modo da scacciare via quel pensiero. Simone meritava il mondo, era ora che lo capisse!

"Per prima cosa, guarda che il poeta tra noi due so' io, tu pensa agli assi cartesiani e a quelle robe là. Poi comunque è presto per parla', magari quello che ho preparato non ti piace…"

Replicò Manuel con un po' di apprensione, che non si sforzò di nascondere. Da quando stava con Simone aveva imparato a non cercare di imprigionare i sentimenti in fondo al cuore ed era molto più sereno da quando aveva smesso di farlo. Non era l'unica cosa che Simone gli aveva insegnato e, come per tutte le altre, lui gli era estremamente grato. Fu il turno dell'altro ragazzo, adesso, di arruffare una matassa di ricci per scacciare pensieri insensati.

"Non hai sentito la parte in cui ti ho detto che mi basta stare insieme a te? Ti devo ringraziare già soltanto per il pensiero che hai avuto."

Mormorò dolcemente, poi accennò un ghigno furbetto.

"Se vuoi essere proprio sicuro, comunque, puoi sempre illuminarmi sul tuo progetto."

Manuel scoppiò a ridere, scuotendo il capo. Non era facile resistere a quella richiesta, soprattutto perché il ruffiano aveva iniziato a fargli dei grattini sulla nuca per cui lui impazziva –anche Simone era uno che imparava in fretta, dopotutto-, ma no, non avrebbe ceduto.

"E secondo te so scemo che te vengo a di' tutto mo, all’ultimo? No, non esiste, e non riuscirai a corrompermi!"

E subito imitò il ghigno furbo dell'altro, per poi avvicinare ancora un po' i loro visi. Erano stretti in un meraviglioso abbraccio, con cui andavano a dormire ogni sera e si svegliavano ogni mattina.

"Però se proprio vuoi, quel ringraziamento me lo prendo...meglio approfittarne, no? Metti che poi davvero te fa schifo la mia sorpresa…"

Simone si lasciò sfuggire una risatina e in un attimo lo fece stendere a pancia in su e gli fu sopra. Sentì il lenzuolo scivolargli dalla schiena nuda, ma non se ne curò, anzi meglio così, sarebbe stato più libero di muoversi. Per qualche istante non fece altro che accarezzare il volto di Manuel, in silenzio, lasciando che fossero i loro occhi scuri a portare avanti una conversazione silenziosa, ma poi  all'improvviso, sempre in silenzio, si chinò sulle sue labbra un po' secche e le baciò lentamente, senza alcuna fretta. La scuola era finita da giorni e loro non dovevano andare da nessuna parte. O meglio, Simone aveva gli allenamenti di rugby, ma era ancora presto per prepararsi, quindi aveva tutto il tempo per ringraziare adeguatamente il suo premuroso e creativo ragazzo.

Manuel, dopo un istante di piacevole confusione, portò una mano tra i capelli di Simone per dimostrargli quanto apprezzasse quel gesto, tenendolo fermo contro di sé senza tuttavia esercitare troppa pressione, perché in quel mese aveva scoperto che quando il matematico veniva lasciato libero di fare ciò che preferiva, non c'erano poemi in grado di raccontarne le gesta. L'altra mano, invece, scivolò sulla sua schiena tonica, che Manuel accarezzò con dedizione, soffermandosi su ogni muscolo in tensione fino a fermarsi poco sopra il bordo dei boxer.

Simone, a quel tocco, decise di approfondire il bacio, accarezzando le labbra dell'altro ragazzo con la punta della lingua per chiedere un permesso che ottenne subito, e a quel punto niente e nessuno avrebbe potuto separarli, nemmeno Giove con le sue saette.

Tuttavia, a suo modo di vedere, non bastava un bacio a ringraziare il suo fidanzato, quindi quando sentì che entrambi avevano bisogno di respirare interruppe quel contatto, ma solo per spostare le proprie labbra altrove. Manuel, quando vide lo sguardo malizioso che l'altro gli aveva rivolto, non ebbe nemmeno il tempo di chiedergli cosa avesse intenzione di fare perché immediatamente si ritrovò quelle stesse labbra al centro del proprio petto. Simone aveva preso l’abitudine di baciarlo in quel punto e ogni volta Manuel smetteva di respirare, anzi smetteva di fare qualsiasi cosa, perfino di pensare: in quei momenti lì, viveva di sensazioni e basta.

Simone si spostava lentamente, seguendo con precisione chirurgica la sagoma del tatuaggio del serpente e Manuel, come sempre, lasciò che la stanza si riempisse dei propri gemiti e mugolii, non riuscendo –né volendo- a trattenersi. Ciò che non si aspettava -per quanto ogni volta fosse come la prima- era di sentire la punta della lingua di Simone accarezzare la propria pelle, una cosa che l'altro non aveva mai fatto e che, per lo stupore, gli fece emettere un gemito un po' più acuto degli altri. Simone lo sentì irrigidirsi sotto al suo tocco e si fermò, sollevando il capo per guardarlo. Beh, ad occhio Manuel non sembrava uno che stesse sopportando una tortura, ma era sempre meglio accertarsi che fosse tutto a posto.

"Hey, tutto bene?"

Domandò con estrema dolcezza, facendogli una carezza sul fianco. Manuel deglutì, poi gli sorrise. Dolce Simone, che si preoccupava sempre per lui, anche quando non ce n'era motivo, come in questo caso.

"Cazzo Simo', se va tutto bene. Va talmente bene che secondo me tra poco 'sto serpente prende vita, io t'avviso, eh…"

Simone ridacchiò di gusto e Manuel insieme a lui. Anche le loro risate erano inseparabili.

"Posso continuare, quindi?"

"Ah, te prego de non smettere mai."

Rispose Manuel senza esitare, ringraziandolo con lo sguardo. Simone salì un attimo a dargli un bacio a fior di labbra, poi tornò a dedicarsi a quel tatuaggio con tutto se stesso e Manuel, con l'ultimo briciolo di lucidità rimastagli, ringraziò mentalmente la mano tremolante del tatuatore che glielo aveva fatto prima di spegnere il cervello e di lasciarsi completamente andare a quei baci più caldi del Sole, prima di lasciarsi completamente amare.

"Simo', io te lo devo dire, questa cosa che ti sei inventato è illegale…"

Commentò Manuel, affannato, mentre sistemava il capo sul petto di Simone dopo quell'intensa sessione di baci. Subito l'altro lo cinse con un braccio e prese ad accarezzargli con l'indice quella porzione di pelle resa rossa dalle proprie labbra. Non sembrava esserci tregua per quel tatuaggio, ma a Manuel andava più che bene così.

"Pensavo non avessi problemi con le cose illegali."

Replicò divertito ed anche con un pizzico d'orgoglio. Amava tantissimo Manuel -tutto amore ricambiato, lo sapeva- e quando riusciva a dimostrarglielo, anche fisicamente, si sentiva sempre bene. Manuel fece una risatina, annuendo appena.

"E infatti non c'ho problemi, anzi, ho apprezzato tantissimo questo tuo modo di ringraziarmi. Avrei apprezzato qualsiasi cosa, però insomma... hai capito."

Per quanto il suo cervello stesse ancora recuperando ossigeno, Manuel era lucidissimo nel fare quell'affermazione: Simone non aveva bisogno di inventarsi chissà che per lasciarlo senza fiato, semplicemente i loro corpi si riconoscevano a vicenda ed erano fatti per amarsi, perché erano i loro cuori ad amarsi per primi. La loro era una connessione nemmeno lontanamente paragonabile a ciò che aveva vissuto con Chicca e con Alice: quelle due storie, seppur per motivi diversi, non erano state neanche una misera ombra di ciò che vivevano adesso lui e Simone. Al pensiero si strinse un po' di più all'altro, nonostante facesse caldo e fossero entrambi leggermente sudati, e anche Simone lo cinse con un po' più di forza, in un gesto naturale ed istintivo. Aveva capito, certo che aveva capito, non c'era bisogno di parole.

"Quindi adesso mi dirai cosa mi aspetta stasera?"

Domandò furbescamente, pur sapendo che avrebbe ricevuto una risposta negativa, ma cazzeggiare un po' non aveva mai fatto male a nessuno. Manuel ridacchiò e scosse il capo, ostinato, sollevandosi quanto bastava per guardarlo negli occhi. Non contento, gli diede un pizzicotto sul fianco, facendolo sussultare appena e lamentare in un modo decisamente sproporzionato.

"Zitto, che te lo meriti! Sei un grandissimo ruffiano, lo sai, ve'?"

Il ragazzo fece spallucce, mettendo su uno sguardo innocente.

"Beh, ci ho provato, almeno. Però non sono un ruffiano, era tutto molto sincero."

Simone, nonostante il tono scherzoso, stava dicendo la verità e Manuel non mancò di capirlo, quindi lo ringraziò con un bacio altrettanto sincero e sentito prima di tornare a sistemarsi sul suo petto. Passarono diversi minuti in silenzio, le leggere carezze che si regalavano a vicenda erano l'unica cosa che poteva far intuire che non stessero dormendo, quando Simone parlò.

"Sai perché mi piace tanto baciarti in questo punto?"

Manuel aveva intuito che Simone avesse una particolare predilezione per quella parte specifica del proprio corpo e conoscendo bene la profondità del suo animo era sicuro che dietro ci fosse un motivo preciso, ma non sapeva quale fosse, per cui scosse il capo e si sollevò di nuovo, in modo da poterlo guardare in viso. Dal suo tono, sembrava che quella domanda avesse una risposta particolarmente importante e Manuel voleva dedicarvi tutta la sua attenzione.

"Perché quando ti bacio qui, il tuo cuore inizia a battere così forte che lo sento anch'io e allora mi ricordo che tu sei qui, vivo, accanto a me."

Sorrise imbarazzato a quella confessione, sembrava così ridicola in un momento sereno come quello, ma sapeva che Manuel non l'avrebbe giudicato. Da quando si erano messi insieme tutto era andato per il meglio, ma c'era una vocina nella sua testa che ogni tanto gli ricordava di non adagiarsi troppo sugli allori ed era molto difficile metterla a tacere. Ecco, i suoi grandi occhi marroni si velarono di preoccupazione e Manuel, che sentiva il proprio cuore piangere a quella vista, si affrettò ad avvicinarsi e a posare tanti piccoli baci su quel volto dolcissimo, accarezzandolo con delicatezza.

"E perché mai non dovrei essere accanto a te? Io non me ne vado da nessuna parte, Simone, non esiste altro posto per me."

Sussurrò in risposta, cercando di captare in quegli occhioni un segnale di tranquillità. Niente da fare, erano ancora agitati.

"Mi dici a cosa stai pensando, per favore? Perché tanto lo so che stai pensando a qualcosa di preciso e magari parlarne ci fa bene."

Propose, sorridendo incoraggiante, e Simone non si fece pregare ulteriormente. Sperava davvero di poter risolvere quel problema. Allungò un braccio sul comodino e prese il cellulare, poi si mise a scorrere tra i video e le foto della sua galleria: ce n'erano tanti di Manuel e di lui e Manuel insieme, ma ne stava cercando uno in particolare. Quando lo trovò, non glielo mostrò subito.

"Non dico che tu possa andartene volontariamente, non è neanche una cosa che penso, però...non sempre le cose dipendono da noi, no?"

Fece un profondo respiro e gli porse il cellulare, mostrandogli il video che gli aveva fatto quando lo aveva soccorso mesi prima, mentre lui dormiva. Manuel si accigliò leggermente, non sapeva che Simone lo avesse ripreso in quel frangente, ma non era per la propria privacy che aveva assunto quell'espressione corrucciata: aveva compreso la sua paura e non poteva certo dire che fosse infondata. A dire il vero, soltanto a guardare quelle immagini gli sembrava di tornare a sentire tutto il dolore che aveva provato durante e dopo il pestaggio.

"Scusami se ti ho fatto questo video e scusami se non te l’ho mai detto, ma avevo bisogno di qualcosa che mi ricordasse quanto tu avessi rischiato per colpa mia. Ho davvero temuto di perderti, quel giorno…"

Simone parlava a voce bassa e teneva bassi anche gli occhi, anzi nel mezzo del discorso li chiuse per bloccare le lacrime. Era una giornata speciale, come gli era saltato in mente di appesantirla in quel modo?

Manuel posò il cellulare sul comodino, poi si chinò a posare un bacio sulle sue palpebre, accarezzandogli una guancia. Anche i suoi occhi pizzicavano per quella confessione, ma non fece niente per non darlo a vedere.

"Simo, ti prego, apri gli occhi, va tutto bene. Non devi vergognarti di ciò che provi, me l'hai insegnato tu."

Simone, dopo qualche altro secondo di incertezza, sollevò le palpebre, ma non parlò. Fece incontrare i propri occhi con quelli di Manuel e si accorse che anche quelli erano lucidi. Istintivamente imitò il suo movimento e salì con una mano ad accarezzargli il viso. Manuel curvò le labbra in un dolce sorriso.

"Ti prometto che con Sbarra risolvo, va bene? Da domani inizierò a pensare ad una soluzione e di illegale ci saranno solo i tuoi baci, te lo giuro. Oggi però è soltanto nostro."

Ripensò alla richiesta di Claudio, di testimoniare contro Sbarra. Pensava ancora che fosse una follia, che fosse pericoloso, ma era l'unica opzione che aveva per uscire da quel giro. Stava diventando più rischioso restarci, anche perché ultimamente Manuel non era stato esattamente uno scagnozzo affidabile, cosa che a Simone non aveva detto per non farlo preoccupare. Si convinse ancora di più a parlare con l'avvocato quando vide il viso di Simone rilassarsi, per il momento le sue parole lo avevano calmato.

"Non sai quanto mi faccia piacere sentirtelo dire, Manuel. Non dovrai pensarci da solo, però, lo faremo insieme. Ti ricordo che siamo una società."

Replicò, più tranquillo. Lo aveva aiutato nel compiere dei veri e propri crimini -mentre da amico avrebbe dovuto consigliargli di non infilarsi in quel mondo pericoloso- lo avrebbe aiutato anche ad uscirne. Manuel si chinò a dargli un bacio, per ringraziarlo.

"Allora, da socio, mi permetto di ricordarti che hai gli allenamenti di rugby e che dovresti iniziare a prepararti."

Sussurrò sulle sue labbra e Simone ridacchiò, perché Manuel solitamente era la causa per cui arrivava tardi a quegli allenamenti, ma immaginava che oggi avesse un motivo valido per cacciarlo dal letto.

"Mi stai davvero cacciando da casa mia, Manuel?"

Domandò divertito e intanto lo strinse un po' di più a sé con il braccio libero, mentre con l'altra mano non smise di accarezzargli il viso. Si sarebbe alzato a breve, voleva solo fare tesoro di quei momenti insieme per avere qualcosa da ricordare -e da far ricordare a Manuel- per il resto della giornata.

"Eh, sai com'è, devo vedermi con la mia amante bona."

Prima che Simone potesse ribattere, Manuel si abbassò a baciargli il collo, sapendo perfettamente che questo avrebbe azzerato ogni sua capacità di replica. Simone, infatti, poté soltanto esprimere il proprio apprezzamento con un lungo sospiro seguito da qualche roco gemito. Manuel fu particolarmente attento, però, a non fare in modo che quei baci azzerassero anche la voglia di alzarsi dal letto e smise prima che Simone potesse abituarcisi troppo.

"Certo che anche tu, in quanto a baci illegali…"

"Eh, vedi, qualcosa la so fa' anch'io. Mo alzati, su."

E così dicendo si spostò sul lato libero del letto. Simone si alzò, stiracchiandosi, e Manuel come sempre si ritenne davvero fortunato ad avere un biglietto in prima fila per quello spettacolo esclusivo.

"Più di qualcosa, se proprio lo vuoi sapere. Adesso che dici, vieni con me a fare colazione o ti sei già nutrito abbastanza con gli occhi?"

"I miei occhi non sono mai sazi di te!"

Ribatté in fretta il poeta e il matematico, colto come sempre alla sprovvista da quelle dichiarazioni improvvise, sorrise impacciato. Era bello sentirsi così amati e voleva che anche Manuel si sentisse così, quindi si affrettò a fare il giro del letto per andargli vicino e baciarlo, prima sulle labbra e poi tra i capelli arruffati. Per Manuel, che sorrise beato alle sue attenzioni, quello era il Paradiso.

"Sappi che in un altro momento avrei saltato gli allenamenti, così da non far morire di fame i tuoi occhi."

"Simo', se me lo dici così mi fai quasi venire voglia de assecondarti. Quasi, però, eh."

Si alzò, finalmente, per evitare che quel ‘quasi’ diventasse certezza e per permettere ad entrambi di cominciare le rispettive giornate.

"Ti ho lasciato un biglietto con degli esercizi di matematica da fare, poi domani li controlliamo insieme. Ah, e cerca di imparare il capitolo di scienze che abbiamo riassunto ieri, ok?"

Simone fece quelle raccomandazioni mentre si infilava il casco della Vespa, conosceva il suo pollo e sapeva che senza di lui non amava studiare quelle materie piene di numeri e formule. Manuel però era stato bravo e aveva recuperato in quasi tutte le materie prima della fine dell'anno e Simone, come promesso, lo stava aiutando a superare il debito nelle altre. Il diretto interessato alzò gli occhi al cielo.

"Sì, mamma, nun te preoccupa', poi magno pure tutte le verdure."

Simone fece una risatina, scuotendo appena il capo con finta esasperazione.

"Mi raccomando, Paperotto. Ci vediamo stasera."

Si sporse a dargli un bacio, ma Manuel non sembrava essere della stessa idea.

"E basta co’ sto soprannome, dai! Un pezzo di ragazzo come me, puoi mai chiamarlo Paperotto?"

Si lamentò, indicandosi. Simone rise di nuovo, amava stuzzicarlo in quel modo.

"Eddai, è una cosa tenera, a me piace."

"Mh, aspetta che trovo un soprannome ridicolo per te e poi vediamo che dici."

Quella velata minaccia fu seguita dal bacio che non gli aveva dato poco prima, non era concepibile che si salutassero senza baciarsi. Manuel restò a guardare Simone allontanarsi fin quando scomparve alla vista, poi rientrò in casa e come prima cosa si mise a studiare, in modo da togliersi subito il pensiero. Certo, sarebbe stato molto più piacevole farlo con il suo ragazzo seduto accanto a lui, pronto a dispensargli premi ad ogni piccolo risultato, ma si consolò pensando alla loro serata speciale.

Dopo pranzo, a tale proposito, si dedicò al compito ben più piacevole di preparare la sorpresa per Simone e più andava avanti e più il suo cuore batteva forte, come se con ogni battito volesse contare i secondi che lo separavano da quella sera. Prima che potesse accorgersene, ma al tempo stesso gli sembrò passata un'eternità, Dante, Virginia e Anita uscirono per andare a teatro, così come Manuel aveva pregato di fare e lui si ritrovò in giardino ad aspettare Simone. A breve l'avrebbe visto in sella alla Vespa nel viale di villa Balestra, non stava più nella pelle. Camminava avanti e indietro e ogni minimo suono gli sembrava il rombo del motorino di Simone, ma il suo sorriso si spegneva ogni volta che si rendeva conto che era qualcos'altro.

Strano, Simone non era mai stato un ragazzo ritardatario -a differenza sua- e certamente non avrebbe iniziato ad esserlo proprio adesso. Manuel controllò più volte la loro chat, ma non c'erano nuovi messaggi. Dopo mezz'ora di attesa fu lui a scrivergli e dopo un'ora, dal momento che non aveva ricevuto risposta, gli telefonò. Nessuna risposta anche in questo caso. Fece un altro tentativo dopo essersi acceso una sigaretta che prese a fumare per cercare di calmarsi e poi altri ancora, ma all'ennesimo squillo a vuoto si rese conto che qualcosa non andava. Salì allora in sella alla sua moto in fretta e furia, mentre nella sua testa si affollavano brutti pensieri.

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Capitolo 2
*** Si spezza il respiro e dopo ritorna ***


Simone aveva dato il meglio di sé in quella giornata di allenamento intensivo e aveva ricevuto perfino i complimenti del suo coach, un tipo che solitamente era restio a farne: gli aveva detto che se avesse giocato così anche quel sabato, nell’ultima partita della stagione, sarebbe stato fondamentale per portare la squadra alla vittoria.

Eppure non era per vincere la finale che Simone si era dato tanto da fare, ma perché immaginava di dedicare a Manuel ogni punto che avrebbe segnato, come del resto aveva iniziato a fare da quando stavano insieme. Il suo ragazzo non ne capiva molto di rugby, anche se aveva provato a spiegargli le basi, ma si illuminava ed esultava più di tutti quando lui segnava e Simone avrebbe fatto di tutto per vederlo sempre così felice. Non importava quanto fossero distanti durante le partite, i loro occhi non fallivano mai di incontrarsi in quei piccoli istanti.

"Oh, certo che te lo sei magnato er campo, oggi! Ricordati di lasciarne un po' pure a noi!"

Commentò scherzosamente Marco, uno dei suoi compagni di squadra, mentre si ritiravano negli spogliatoi. Era un ragazzo simpatico, con cui era piacevole scambiare quattro chiacchiere. Simone ridacchiò in risposta, ma non ebbe modo di replicare perché subito l'altro ragazzo riprese la parola.

"Vojo di', pure noi abbiamo delle fidanzate a cui dedicare le mete, ci fai fare brutta figura!"

Simone sgranò gli occhi, sorpreso. Non aveva detto a nessuno di Manuel e non perché ci trovasse qualcosa di male o si vergognasse, ma perché non era poi così in confidenza con i suoi compagni di rugby e, in generale, non era il tipo che andava a raccontare in giro delle sue relazioni.

"E tu come lo sai che sono fidanzato, scusa?"

Domandò incuriosito, accennando un mezzo sorriso. Si sentiva abbastanza tranquillo, Marco non gli aveva mai dato l'impressione di avere la mente chiusa, ma nel caso avrebbe difeso il proprio amore a spada tratta.

"Eh, come lo so! Scusa se te infrango l'aura da ragazzo del mistero…"

Cominciò a rispondere l'altro, gesticolando un po' come se stesse tracciando il contorno di quell'aura.
"...ma non ci vuole la sfera magica per vedere che ti volti sempre verso lo stesso ragazzo quando fai un punto, anche perché per quanto si agita è difficile non notarlo."

Simone rise, pensando a quanto entrambi si ritenessero riservati e discreti sotto quel punto di vista e invece a quanto pareva il loro amore era sotto gli occhi di un po' tutti. Beh, in fondo l'amore non è una cosa che si può nascondere, pensò.

"Sì, lui...si chiama Manuel e sì, è il mio fidanzato."

I suoi occhi brillavano d'orgoglio, era bello dire quella cosa ad alta voce. Le parole 'Manuel', 'mio' e 'fidanzato' stavano particolarmente bene insieme, nella bocca di Simone avevano il sapore del miele. Marco diede una leggera spinta al suo compagno di squadra, scherzoso.

"Mazza, oh, sei proprio cotto! Dai, te lascio l'ultima doccia libera così puoi correre da lui…"

"Oh no, non ti preoccupare, preferisco lavarmi a casa, devo solo prendere la mia roba. Grazie lo stesso!"

I due ragazzi si salutarono, Simone raccolse il suo borsone e uscì dallo spogliatoio, sporco e sudato com'era, stanco e felicissimo al tempo stesso. Mentre percorreva la strada che lo separava dal parcheggio sul retro del campo si mise a fantasticare sulla sorpresa che lo attendeva a casa -su Manuel che lo attendeva a casa-, ma poi i suoi pensieri furono interrotti da un altro tipo di sorpresa, ben più spiacevole: la Vespa aveva una ruota a terra.

"No, cazzo!"

Imprecò tra i denti e sbuffò. Non si spiegava come fosse successo, dato che l'aveva guidata quella mattina e non aveva notato niente di strano. Se si fosse soffermato ad esaminare meglio la ruota si sarebbe accorto che presentava un taglio netto, troppo preciso per essere accidentale, ma in quel momento voleva solo tornare a casa, quindi prese il cellulare per farsi venire a prendere. Non fece in tempo a telefonare a Manuel o a suo padre, all'improvviso avvertì un forte dolore alla testa e tutto divenne buio.

Quando riaprì gli occhi fece fatica a rendersi conto di averlo fatto, perché il buio del posto in cui si trovava non era tanto diverso da quello dietro le sue palpebre. La testa gli faceva un male cane e istintivamente provò a toccarsela con una mano, ma quando fece per sollevare un braccio si rese conto di non poterlo muovere e così anche l'altro. Mosse un po' le mani, che si trovavano dietro la sua schiena, e il rumore metallico che udì gli fece capire di essere ammanettato ad un tubo o qualcosa del genere. Come era finito in quella situazione? L'ultima cosa che ricordava era la Vespa con una ruota a terra e...possibile che quello fosse uno scherzo di Manuel, che facesse parte della sorpresa? Il pensiero gli attraversò la testa per un istante, ma il dolore pulsante che avvertiva gli fece scartare l'idea, Manuel non gli avrebbe mai fatto del male, tanto meno per fargli uno scherzo.

Deglutì, spaventato, realizzando di essere stato rapito da qualcuno, per qualche motivo. Spinto dalla pura e semplice paura, provò a dare degli strattoni alle manette per liberarsi, ma ci guadagnò soltanto delle fitte improvvise in punti sparsi del corpo che gli mozzarono il fiato. Rimase immobile per almeno un paio di minuti, in attesa che le fitte passassero, ma più il tempo passava e più il dolore sembrava aumentare e diffondersi ovunque. Perfino respirare gli faceva male e quando si umettò le labbra con la lingua sentì sulla propria pelle il sapore ferroso del sangue.

Non erano dolori che potevano dipendere dagli allenamenti di rugby, la stessa persona che l'aveva portato lì -ovunque lì fosse- doveva averlo anche pestato per bene e Simone non ebbe dubbi su chi potesse essere stato a conciarlo così: conosceva quella sequenza di colpi, apparentemente casuale, ma abbastanza precisa da non danneggiare gli organi interni, perché non erano colpi destinati ad ucciderti, solo a farti desiderare di essere morto: era la stessa che aveva visto e medicato sul corpo di Manuel mesi prima.

Se era stato Zucca a picchiarlo e a rapirlo, e ne era certo, allora in quel momento si trovava nelle mani di Sbarra e la paura che era riuscito a tenere più o meno sotto controllo fino a quel momento si trasformò in terrore. Pensò subito a Manuel, perché in fondo era plausibile che Sbarra avesse rapito anche lui, e il suo cuore già agitato saltò un battito.

"Manuel? Manuel? Sei qui?"

Sussurrò, ricevendo soltanto il silenzio della stanza in risposta. Ciò non lo fece sentire più tranquillo, però, perché del resto Sbarra, che era infame e Simone lo sapeva bene, avrebbe potuto benissimo tenerli separati. L'idea di non sapere come stesse il suo ragazzo gli faceva più male dei lividi e delle contusioni e più paura dell'incertezza sul suo immediato futuro. E dire che fino a poco -o tanto, non sapeva da quanto tempo si trovasse lì- prima quel senso di incertezza aveva un sapore del tutto diverso. Gli veniva da piangere, ma il rumore di una porta che si apriva lo costrinse a trattenere le lacrime. Un istante dopo, si ritrovò a strizzare gli occhi, accecato da una luce improvvisa.

"Oh, ma guarda, il pischello si è svegliato! Buongiorno principino! Hai riposato bene?"

Sentì esclamare da una voce fredda e melliflua, che gli fece venire i brividi. Strizzò le palpebre più volte e quando finalmente riuscì a mettere a fuoco ciò che vedeva, si ritrovò davanti Zucca, che conosceva già, e un uomo più anziano, quello che aveva parlato, e che senza dubbio era Sbarra. Si mise a sedere un po' più dritto, per quanto possibile, e rivolse ai due uomini un'occhiataccia che sperava nascondesse le lacrime che premevano per uscire.

"Che cazzo vuoi, Sbarra?"

Chiese con una sicurezza che in realtà non aveva e il vecchio ridacchiò. Simone pensò che probabilmente doveva trovarlo ridicolo.

"Ah, non c'è bisogno delle presentazioni, allora, a saperlo nun te venivo proprio a trova'. Però vedi, questa cosa nun va bene, perché se sai come me chiamo vuol dire che l'amichetto tuo ti ha parlato di me e io gli avevo detto de starse zitto. Manco questo ha saputo fa'..."

Simone, preoccupato di aver messo Manuel nei casini, si affrettò a scuotere il capo e nel farlo gli si annebbiò la vista per un attimo.

"No, no, Manuel non mi ha detto niente! T'ho visto sui giornali…"

Sbarra rise di gusto e così anche Zucca. Quest'ultimo, ad un cenno dell'altro, si avvicinò a Simone e gli diede uno schiaffo in piena guancia.

"Senti ragazzi’, mettiamo subito le cose in chiaro: 'ste fregnacce non me le devi di', altrimenti dico a Zucca de menarti de nuovo, ce semo capiti? Che secondo me non vede l'ora di farlo, ancora è incazzato per il pugno che gli hai dato…"

Simone non ci aveva fatto caso, né si ricordava di essersi difeso nel parcheggio, ma adesso che lo guardava bene, notò che effettivamente Zucca aveva un occhio nero. In un altro momento ne sarebbe stato compiaciuto. Annuì in risposta alla domanda di Sbarra, poi sputò a terra il grumo di sangue che si sentiva in bocca dopo lo schiaffo. Doveva stare più attento a ciò che diceva.

"Oh, bene, forse sei più intelligente di quell'altro là. In confidenza, comunque, è già nei guai fino al collo, che t'abbia detto di me conta poco."

"In che senso? Che ha fatto?"

Domandò, gli occhi sgranati pieni d’angoscia. Sbarra non era il tipo a cui si potevano fare torti, che cazzo aveva combinato Manuel?

"Cosa non ha fatto, ti dovrei dire. Gli avevo affidato un compitino, niente che non avesse già fatto, ma nun s'é fatto più vede’ ed è qui che sei entrato in gioco tu. Capirai, non c'ho niente contro de te, però non potevo lascia’ correre, no? Te sta già cercando, ha provato a chiamarti non so quante volte...ah, a proposito, questo è meglio se lo spegniamo."

Sbarra prese un cellulare dalla tasca, che Simone riconobbe come il proprio, e gli mostrò lo schermo acceso prima di fare quanto aveva detto. Il ragazzo si sentì le guance andare a fuoco quando vide la foto di lui e Manuel che si baciavano, una delle tante nella sua galleria, era l'ultima cosa che Sbarra avrebbe dovuto scoprire. Per la seconda volta nella stessa giornata si rese conto di quanto fosse difficile nascondere l'amore.

"Siete proprio 'na bella coppia, complimenti. Pensavo d'aver rapito un amico, ma un fidanzato è pure meglio! Dopo lo richiamo io, vuoi che je dica qualcosa da parte tua? Che je vuoi tanto bene, magari?"

Nel tono dell'uomo non c'era una briciola di gentilezza, soltanto scherno che fece ribollire il sangue nelle vene di Simone. Ogni sua parola era un insulto al loro amore, ma lui non poteva permettersi di perdere la calma. Non avrebbe fatto bene né a Manuel, che sicuramente avrebbe cercato di affrontare Sbarra di lì a poco, né a se stesso.

"Tutto quello che potrei dirgli, Manuel lo sa già."

Borbottò tenendo lo sguardo fisso in quello del criminale, che fece spallucce in risposta.

"Come te pare, volevo esse gentile. Non lo sono spesso, fossi stato in te ne avrei approfittato."

Si avvicinò alla porta della piccola stanza, seguito da Zucca, ma prima di uscire si voltò di nuovo verso Simone.

"Un'ultima cosa prima che me ne vado: non sprecare il fiato a gridare come una gallina spennata, non ti sentirebbe nessuno tranne me e non penso che tu voglia romperme i coglioni, nun te conviene. Perciò mettiti comodo e statti tranquillo, così forse mi verrà un altro attacco de gentilezza."

Non gli diede modo di replicare, spense la luce ed uscì prima che Simone potesse dire qualcosa, anche se non avrebbe saputo cosa dire. Era di nuovo al buio, in compagnia soltanto del suo corpo dolorante e dei suoi pensieri, pensieri che inevitabilmente ruotavano intorno a Manuel. Perché era stato così incosciente da saltare un lavoro per Sbarra, sapendo cosa rischiava? Era già stato menato una volta, cazzo!

E cosa sarebbe successo quando Manuel sarebbe andato da lui? Sbarra lo avrebbe fatto picchiare da Zucca come l'ultima volta? O avrebbe fatto picchiare lui davanti ai suoi occhi, per dargli un qualche tipo di dimostrazione e spaventarlo? Come aveva appena sentito dire, dopotutto, un fidanzato era anche meglio di un amico. Simone preferiva questa seconda opzione, avrebbe preso e sopportato tutte le percosse del mondo pur di non far fare del male a Manuel. C'era anche una terza opzione che vedeva entrambi ammazzati come bestie, in modi che non voleva neanche immaginare.

Affannato da tutti questi pensieri si concesse la libertà di piangere, ma al tempo stesso si impose di non singhiozzare: Sbarra e Zucca non dovevano sentirlo, non dovevano capire quanto fosse terrorizzato, Simone non poteva dar loro alcun tipo di vantaggio.

Si appoggiò meglio al muro dietro di sé, anche se il tubo al quale era ammanettato gli rendeva impossibile trovare un minimo di comodità, e lasciò che il suo corpo esaurisse le lacrime, senza nemmeno poterle asciugare. Chiuse gli occhi, si sentiva stanco, e immaginò –pregò, sperando ci fosse qualcuno all'ascolto- che quando li avrebbe riaperti si sarebbe ritrovato abbracciato a Manuel come ogni mattina, scoprendo che tutta questa situazione era soltanto un brutto sogno.

Doveva essere la loro giornata speciale.

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Capitolo 3
*** Si spezza il mio cuore che pompa vergogna ***


Manuel conosceva perfettamente la strada che portava al campo da rugby dove Simone si allenava, l’aveva percorsa così tante volte che avrebbe potuto guidare anche ad occhi chiusi, ma quella sera li tenne più aperti che mai: si aspettava di trovare la Vespa di Simone rovesciata da qualche parte a causa di un incidente e il suo proprietario a poca distanza da essa. Paradossalmente, era l’opzione più felice che riusciva ad immaginare e sperò che se proprio a Simone doveva essere successo qualcosa, fosse questo.

“Simo! Simo!”

Gridava di tanto in tanto, sperando di ottenere qualche risposta che però non arrivò mai.

Giunse fino al centro sportivo e fece il giro del parcheggio più di una volta per cercare il motorino del suo ragazzo. Quando fu certo che non ci fosse entrò dentro, cercando di ignorare i battiti del suo cuore e concentrarsi.

“Scusa, sto cercando Simone Balestra, sta nella squadra di rugby. Non è che per caso è ancora qui?”

Domandò all’uomo seduto dietro ad una scrivania all’ingresso, che normalmente raccoglieva le iscrizioni ai vari corsi, ma che in quel momento stava guardando qualcosa sul cellulare e non sembrò aver sentito la domanda di Manuel.

“Oh, sto parlando con te! Mi senti o no?”

Esclamò il ragazzo, allungando un braccio per dare una leggera spinta a quel tizio. Non aveva tempo da perdere dietro alle sue distrazioni.

“Nun me toccà, che cazzo fai? Guarda che qua stiamo a chiude, tutti i ragazzi se ne sono già andati, e mo vedi di annartene pure tu prima che te faccia penti' di essere venuto!”

Manuel ascoltò soltanto la parte di risposta che gli interessava davvero e senza salutare corse di nuovo fuori, agitato.

“Cazzo Simo’, cazzo…”

Mormorò a denti stretti, mentre per l’ennesima volta provava a telefonargli e per l’ennesima volta non riceveva risposta, con la differenza che il cellulare di Simone stavolta non aveva squillato affatto. Qualcuno doveva averlo spento e un solo nome si affacciò nella sua mente quando si chiese chi potesse essere stato, causandogli un sussulto allo stomaco che per poco non lo fece vomitare per strada.

Come cazzo era possibile? Era stato attento, tutte le volte che Simone lo aveva accompagnato allo sfascio era sempre rimasto fuori, lontano dagli occhi viscidi di quel criminale, proprio per evitare che venisse coinvolto. Soltanto una volta Zucca lo aveva visto in sua compagnia, davvero era stata sufficiente a far capire quanto fossero legati? Certo che è bastata, si rispose da solo, perché Simone ha provato a difenderme.

Doveva fare qualcosa, ma cosa? Chiamare la polizia era fuori discussione, non poteva farlo con Simone tra le grinfie di Sbarra, e non poteva neanche presentarsi allo sfascio, perché da solo non sarebbe riuscito a fare nulla. Chiamò allora l’unica persona che forse poteva aiutarlo, che sperava potesse aiutare Simone, una persona a cui avrebbe dovuto dare ascolto tempo prima e che, fortunatamente, rispose dopo un paio di squilli.

“Te prego dimmi che stai a casa, è successo un casino e ti devo parla', è urgente!”

Biascicò agitato, mentre saliva già in sella alla sua moto. Claudio, dall’altra parte del telefono, si accigliò preoccupato. Continuava a sentirsi con Simone di tanto in tanto per controllare che tutto andasse bene, mentre Manuel di solito lo evitava, quindi la situazione doveva essere grave per davvero se aveva deciso di contattarlo.

“Sono a casa, ma se mi dici dove sei ti vengo a prendere io. Non mi sembri nelle condizioni di-”

“Sto arrivando.”

Interruppe Manuel, chiudendo subito la telefonata. In effetti Claudio aveva ragione, non era saggio mettersi alla guida inquieto com’era, ma in quel frangente non aveva razionalità a cui dare ascolto. Fu per questo molto fortunato ad arrivare illeso a casa dell’avvocato, se si escludeva il pallore del suo volto e lo stato generale di agitazione. Claudio non l’aveva mai visto così, per quel poco che lo conosceva, nemmeno quando aveva provato a picchiarlo, e per questo era sicuro che quel casino a cui gli aveva accennato avesse a che fare con Simone.

“Dimmi tutto, dai.”

Lo invitò a sedersi sul divano accanto a lui, ma Manuel era troppo nervoso e preferì restare in piedi.

“Ho fatto una cazzata, Claudio, una cazzata vera, e adesso Simone è sparito…”

Cominciò a dire, camminando avanti e indietro per la stanza, tormentandosi le mani. Dirlo ad alta voce era anche peggio. Claudio si sporse verso di lui, allarmato.

“Cosa? In che senso è sparito?”

“Eh, secondo te in che senso? Non è tornato a casa dopo gli allenamenti di rugby, sono anche andato a cercarlo e non c’era, ho provato a chiamarlo, ma niente! L’ha preso Sbarra, so' sicuro, e non so che cazzo fare!”

L’avvocato chiuse gli occhi per un istante e fece un profondo respiro. Per quanto quell’idea lo spaventasse, non poteva permettersi di farsi prendere dal panico. Bastava Manuel.

“Aspetta, respira un secondo e non saltare a conclusioni affrettate. Come fai ad essere certo che Sbarra l’abbia rapito? Davvero non può essere successo altro?”

Manuel fece un verso di stizza, quasi un ringhio, perché sì cazzo, ne era più che sicuro!

“Ho pensato ad un incidente, c’ho sperato ad essere sincero, ma ti ho detto che sono andato a cercarlo al centro sportivo e per strada non c’erano né la polizia né ambulanze, niente! Poi l’ho chiamato non so quante volte, se fosse finito in ospedale qualcuno avrebbe risposto, no? E invece adesso il telefono è pure spento, non fa neanche un cazzo di squillo! E poi so' sicuro che è stato Sbarra perché…perché sono un coglione, cazzo.”

Parlò di getto, senza quasi respirare, e gli venne un giramento di testa che lo costrinse a sedersi in poltrona. Si sentiva stupido ed inutile. Claudio si alzò per andargli a prendere un bicchiere d’acqua, che però Manuel rifiutò.

“Fare così non serve a niente, Manuel. Bevi un po’ e poi dimmi cos’hai combinato, possiamo trovare una soluzione.”

“Claudio, se a Simone succede qualcosa io ammazzo Sbarra e poi mi ammazzo io, hai capito?”

Replicò con un filo di voce, tuttavia fermo e deciso. La sua mente stava già pensando al peggio ed era certo che Claudio non potesse dargli torto, nonostante la sua aria tranquilla. Come diamine facesse ad avere sempre il controllo di se stesso, proprio non lo capiva.

“Bevi e non dire queste cose, non pensarle nemmeno. Conosco bene i tipi come Sbarra, se ha preso Simone è perché vuole ricattarti, quindi gli serve ed è anche nel suo interesse che non gli succeda nulla di irrimediabile.”

Il ragazzo lo guardò male, per niente rincuorato da quell’informazione.

“Grazie, adesso sì che mi sento più tranquillo.”

Si decise a bere un sorso d’acqua, che comunque non riuscì a farlo sentire meglio, ovviamente. Claudio sospirò, paziente.

“Lo so che sembra assurdo, ma dovresti. Significa che abbiamo tempo per aiutare Simone. Ora, immagino che tu non voglia coinvolgere la polizia…”

“No, infatti, non se ne parla! Se vanno allo sfascio a fare casino, quello è capace de fa sbranare Simone da quei cani indemoniati che se ritrova!”

“E infatti, se mi avessi fatto finire di parlare, ti avrei detto che per il momento è una buona idea, più o meno. Non possiamo fare tutto da soli, però, quindi facciamo così: spiegherò la situazione ad un ispettore che conosco da anni, è un mio caro amico, e gli chiederò di tenersi pronto, ma saremo noi a dirgli quando intervenire, va bene?”

Manuel sospirò, ben poco convinto. Non che l’idea di Claudio gli sembrasse del tutto sbagliata, era chiaro che prima o poi la polizia sarebbe dovuta intervenire, solo che non riusciva a vedere quel momento opportuno. Sbarra non era un fesso, in fin dei conti.

“E se non ce ne fosse occasione? Guarda che Sbarra lo conosco, è furbo, non si farà fregare facilmente.”

Claudio scacciò via quel pensiero agitando una mano.

“Fidati, anche i migliori sbagliano e Sbarra sarà anche furbo, ma non è infallibile. So che ti sembra tutto nero in questo momento, ma devi fare lo sforzo di fidarti di me.”

Disse guardandolo negli occhi e Manuel, per un istante, trovò un po’ di rassicurazione in quello sguardo che, seppur di ghiaccio, gli parve estremamente caldo. Annuì appena.

“Anche perché solo tu puoi aiutare Simone, io so solo metterlo nei guai e combinare casini…”

Mormorò, scuotendo il capo. Finì il suo bicchiere d’acqua e lo posò sul tavolino, fece poi per alzarsi, ma Claudio glielo impedì. Nelle sue condizioni, era meglio che restasse seduto.

“Puoi aiutarlo anche tu, ma devi essere sincero e raccontarmi tutto. Sbarra vuole vendicarsi, che gli hai fatto?”

Manuel si umettò le labbra, più per prendere tempo che altro. Se solo ci ripensava, si sentiva ancora più coglione.

“Mi aveva dato della roba da spacciare, non è la prima volta che lo faccio.”

Teneva lo sguardo basso, fisso sulle mani che strofinava tra loro per sfogare l’agitazione.

“Solo che negli ultimi tempi ho pensato soltanto a Simone e ho trascurato…il lavoro, se così si può chiamare. Ero così felice de pote' finalmente stare con lui e non riuscivo a separarmene, soprattutto all’idea di doverlo fare per due pillole di merda. Ma ho sbagliato, se solo mi fossi preso qualche sera, Simone non sarebbe in pericolo adesso. Se solo ti avessi ascoltato, quando mi hai chiesto de denuncia’ tutto…”

Si piegò in avanti e nascose il viso tra le mani, pieno di vergogna e sensi di colpa, pieno di paura.

Claudio gli rivolse uno sguardo comprensivo e portò una mano sulla sua schiena, facendogli una carezza che sperava potesse dargli conforto. Manuel non se ne rendeva conto, ma ciò che aveva appena ammesso era molto bello.

“Hai sentito cosa hai detto? L’amore che provi per Simone e che lui prova per te ti ha salvato da una brutta fine e ti ha aiutato a capire qual è la cosa giusta da fare. Non hai sbagliato…”

Manuel scosse rapidamente il capo e lo sollevò per guardare di nuovo l’avvocato. Aveva sbagliato e si stava sbagliando anche lui.

“E invece sì, perché l’ho capito troppo tardi! È proprio questo il problema, Simone ha salvato me, ma io non so se riuscirò a salvare lui e…”

Si interruppe, sentendo il cellulare vibrargli in tasca. Sperò con tutto il cuore di leggere il nome di Simone sul display, di sentire la sua voce che gli diceva che stava bene e che lo aspettava a casa per festeggiare il loro giorno speciale. Ogni speranza si spense quando vide un numero ben diverso. Deglutì.

“È Sbarra, Claudio.”

Subito l’avvocato prese il proprio cellulare e fece partire il registratore.

“Metti il vivavoce, potrebbe dire qualcosa di utile. Forza, andrà tutto bene.”

Manuel prese un respiro profondo e fece quanto detto. La mano libera gli tremava e d’istinto si aggrappò al bracciolo della poltrona. L'ultima volta che aveva stretto quella stoffa aveva chiesto perdono a Simone per come l'aveva trattato e gli aveva confessato i suoi sentimenti. Quel momento gli sembrava lontano anni luce.

“Dove cazzo è Simone, Sbarra?”

Chiese, furioso. L’uomo dall’altra parte non si scompose minimamente.

“Chi, scusa? E poi te sembra il modo de rivolgerte a me, dopo tutto questo tempo che nun te sei fatto senti'?”

“Non prendermi per il culo! Simone, il mio amico! Dimmi dove cazzo sta, adesso!”

Sbarra ridacchiò e a Manuel venne voglia di spaccare qualcosa. Sapeva che lo faceva per tormentarlo e purtroppo ci riusciva benissimo.

“E io che ne posso mai sape’ de dove sta l’amico tuo, non lo conosco nemmeno! Ma non è che hai bevuto, ragazzi’?”

Claudio gli fece segno di non insistere, era meglio non indisporlo ulteriormente. Manuel sospirò e si costrinse ad inghiottire il rospo.

“Sì, forse c’hai ragione, ho bevuto troppo. Beh, che vuoi, allora?”

“T’ho chiamato per un lavoretto, se sei interessato. M’hanno portato una Vespa da rottamare ed è messa male, te lo dico, ma secondo me te con le mani d’oro che te ritrovi la puoi rimette a nuovo, così la rivendo e ti do la metà. Che dici, ce stai?”

Manuel si lasciò scivolare sulla poltrona, era come se lo avessero colpito in pieno petto. Sbarra era dannatamente furbo, quello era il suo modo per dirgli che aveva
Simone in mano senza dirlo direttamente. Probabilmente sospettava anche che stesse registrando la telefonata.

“Una…una Vespa?”

Balbettò e Sbarra gli rise in faccia.

“Mazza quanto devi aver bevuto, però, me fai quasi preoccupa’! Sì, una Vespa, c'hai presente? Nun me fa perde tempo, accetti o no?”

“Sì, sì, certo che accetto! Posso venire anche adesso…”

Si affrettò a rispondere, ma Sbarra ridacchiò di nuovo, interrompendolo.

“E da quando decidi tu? Facciamo domani sera a quest’ora, va bene?”

“Domani sera? Ma se non vuoi perde tempo, non è meglio adesso?”

Aveva bisogno di vedere Simone il prima possibile, doveva sapere come stava. Solo per miracolo la sua voce non suonava come una supplica.

“Se permetti il mio tempo me lo gestisco io e sai cosa? Facciamo dopodomani sera, mi sono ricordato che domani c'ho già un impegno. O preferisci fare tra una settimana?”

Manuel imprecò mentalmente, sia contro se stesso che contro Sbarra.

“No, no, dopodomani va benissimo.”

“Ecco, bravo, così me piaci. Se vedemo, Manuel, e mi raccomando non bere troppo!”

L'uomo chiuse la telefonata e Manuel scattò verso la cucina, perché il bagno era decisamente troppo lontano. Non aveva bevuto come aveva detto a Sbarra, ma il vomito di cui si liberò nel lavandino era degno della peggiore delle sbronze. Claudio gli fu subito accanto a reggergli la testa e a tenergli indietro i capelli. Gli ricordò sua madre, per un attimo.

“Dai, siediti, ti faccio una tisana…”

Disse Claudio dolcemente, quando Manuel terminò di vomitare tutto ciò che aveva in corpo. Il ragazzo fece una smorfia.

“Ne hai una al cianuro? La porto a quello stronzo…”

Biascicò, lasciandosi cadere su una sedia. L’avvocato fece una risatina.

“No, quella mi manca, ma ho quella giusta per te.”

Così dicendo si mise a preparare una tisana alla menta, avrebbe aiutato lo stomaco di Manuel a rilassarsi. Non aggiunse altro fino a quando il ragazzo cominciò a bere e anche Manuel preferì restare in silenzio, nonostante sentisse il bisogno di urlare. Gli mancava la forza.

“Ascoltami, Sbarra ti ha detto della Vespa per torturarti, per farti stare esattamente così. Tu ti sei lasciato coinvolgere e non te ne faccio una colpa, ami Simone ed è normale, ma devo chiederti di fare uno sforzo, quando andrai da lui. Anche se ti sentirai morire dentro o avrai voglia di urlare o di spaccare tutto, non puoi perdere la calma o farti prendere dal panico. Quelli come Sbarra ci sguazzano in queste cose e lui ha già un vantaggio su di te, non puoi dargliene altri, hai capito?”

Manuel sorrise amaramente, quasi rimpiangeva l’aver perso il suo talento nel soffocare le emozioni. Per una volta gli sarebbe tornato utile.

“E come cazzo faccio, Claudio? Me lo spieghi, eh? Quello non c’ha un vantaggio qualsiasi, c’ha Simone! Il mio Simone, cazzo! Io lo dovevo proteggere, lo dovevo rendere felice e invece guarda cos’ho combinato! Per colpa mia adesso è solo, buttato chissà dove, nelle mani di due pazzi! Dovrei esserci io al posto suo!”

I suoi occhi erano come due braci infuocate e Claudio avvertiva tutta la forza di quello sguardo. Era un fuoco praticamente impossibile da spegnere, ma Manuel doveva riuscire almeno a nasconderlo se voleva aiutare il suo Simone.

“Se ci fossi tu al posto suo, Simone starebbe esattamente come stai tu adesso e io dovrei dirgli le stesse identiche cose. Quando si ha un cuore che batte come il tuo, come il vostro, nasconderlo è praticamente impossibile e io non so spiegarti come imparare a farlo nel giro di un giorno, mi dispiace. Posso solo dirti che, al momento, è l’unica cosa che puoi fare per non peggiorare la situazione."

Manuel si sentiva intrappolato in un incubo, un incubo dal quale non riusciva a svegliarsi. Temeva di fare un'altra cazzata, di peggiorare la situazione, e allora cosa sarebbe successo? Simone ne avrebbe pagato le conseguenze, come sempre. Era il martire sull'altare delle sue stronzate.

"Hai visto che avevo ragione? Non vado bene per Simone, doveva restare con te! Oggi dovevamo festeggiare il nostro primo mese insieme, avevo organizzato tutto, me so' pure vestito da pinguino…"

Con un gesto vago della mano indicò la camicia bianca che indossava, ormai stropicciata, e la cravatta che si era fatto prestare da Dante, che aveva allargato perché si sentiva soffocare. Con quella stessa mano andò a stringere l'altra, dato che gli tremavano.

"...e poi ho trascurato la cosa più importante! Me so illuso che uno come me potesse essere felice e magari anche rendere felice un'altra persona, o almeno risparmiarle la tristezza e invece…"

Cominciò a singhiozzare, senza riuscire a fermarsi. Bella prova per uno che avrebbe dovuto nascondere le sue emozioni di lì ad un giorno!

Claudio gli andò vicino e gli offrì un abbraccio che Manuel inaspettatamente accettò. Era stata decisamente una giornata pesante per lui e le prossime non sarebbero state da meno, aveva il diritto di sfogarsi.

"Manuel, ascoltami. È vero, hai commesso uno sbaglio, ma tenerti dentro i tuoi sentimenti nei confronti di Simone sarebbe stato un errore ancora più grande.

Risolveremo questa situazione, voi festeggerete il vostro mesiversario e tornerete ad essere felici, te lo giuro. Ora però è meglio che tu vada a riposare, non c'è altro che tu possa fare per il momento. Ti riaccompagno a casa, ok?"

Gli disse dopo un bel po' di tempo, quando le lacrime non vollero più saperne di dare voce all'angoscia di Manuel. Il ragazzo si aggrappò a quella promessa con tutto se stesso.

"A casa ci torno, ma devo spiegare la situazione a Dante e alla nonna di Simone e anche a mia madre, non credo che dormirò, stanotte. Poi, senza Simone..."
Claudio fece un profondo sospiro.

"Con loro è meglio che ci parli io, devo spiegare alcune cose. Tu, invece, devi fare uno sforzo e dormire eccome, non puoi permetterti di perdere lucidità. Anche un sonno agitato è meglio di niente."

"Se lo dici tu…"

Manuel finì la sua tisana in silenzio e poi si lasciò riportare a casa, senza dire una parola per tutto il viaggio. Dante fu sorpreso di vederli arrivare.

"Manuel, ma dov'eri finito? E dov'è Simone? Pensavo che voi…"

Il ragazzo non gli diede modo di completare la frase.

"Ho fatto una cazzata, professo', e ho messo in pericolo Simone…"

Esclamò con voce rotta, non scoppiò a piangere solamente perché non aveva più lacrime. Il professore si accigliò, confuso e spaventato, ma prima che potesse ribattere intervenne Claudio.

"Manuel, qui ci penso io, tranquillo. Tu va' a riposare, cerca di dormire un po'."

Manuel non se lo fece ripetere due volte, non riusciva a sostenere lo sguardo di Dante, l'uomo che aveva accolto lui e sua madre in casa propria e che gli aveva affidato il proprio figlio. Come l'aveva ripagato, lui?

Mormorò soltanto un "mi dispiace" prima di scappare via nella stanza che lui e Simone ormai condividevano. Si infilò rapidamente e distrattamente una specie di pigiama, poi si stese a letto e chiuse gli occhi. Per quanto si sforzasse di non farlo, non riusciva ad evitare di pensare a quanto quel letto fosse vuoto, troppo grande per una sola persona, a come invece a quest'ora sarebbe dovuto essere pieno, un nido di baci e d'amore.

Si agitava alla ricerca di una posizione comoda, ma senza Simone non aveva più il proprio spazio, il proprio posto e il cuscino che stringeva, per quanto avesse il suo profumo, non era Simone. Si sentì inevitabilmente in colpa per quello che gli sembrò il capriccio di un bambino, perché lui almeno aveva un letto comodo in cui riposare, mentre Simone stava sicuramente molto peggio di lui. In un flash improvviso gli tornò in mente che Sbarra, al telefono, gli aveva detto che la Vespa era ridotta male e sentì il sangue gelarsi nelle vene. Non era una cosa detta a caso, Sbarra non parlava mai a caso: la Vespa era Simone e se era messa male, allora Simone era ferito.

Con il cuore in gola, immaginò che avesse subito lo stesso violento trattamento di calci e pugni di cui lui aveva fatto esperienza mesi prima e di cui ricordava benissimo gli effetti. Se solo avesse potuto, se lo sarebbe preso lui quel dolore.

Claudio gli aveva detto di riposare, ma come poteva dormire sapendo che Simone soffriva ad ogni respiro? Si arrese ad una notte insonne, la prima dopo molto tempo, e nonostante il suo rapporto con Dio si fosse fermato alla Prima Comunione, si ritrovò a mormorare una specie di preghiera, nel buio e nel silenzio della stanza.

"Senti Dio, o come te chiami, c'ho una cosa da chiederte, una cosa importante e ti prego, ascoltami. Non voglio fa' l'ipocrita, io manco so' sicuro che esisti, ma per stanotte devi esistere, devi esistere per Simone. Sta nei casini per colpa mia, solo per colpa mia, e non se lo merita, so' sicuro che lo sai pure te ed è per questo che ti chiedo, ti prego, di mandare un angelo dei tuoi a salvarlo da quel diavolo de Sbarra, da quell'Inferno in cui l'ho trascinato io."

Deglutì il pesante groppo in gola che gli bloccava la voce e si passò una mano sul viso per asciugare le lacrime. Sperava con tutto il cuore che ci fosse davvero qualcuno all'ascolto, qualcuno con il potere di portare Simone in salvo.

"Se poi tutti i tuoi angeli so' impegnati, allora prenditi il mio sonno e dallo a lui, te chiedo almeno questo. Fallo riposa' per un po', che ne ha bisogno, fallo sta' un po' in pace."

Sospirò.

"Ti prego, non lo fa' per me, che so' un diavolo anch'io, fallo pe' Simone, che è innocente. Ti prego, lo so che sono l'ultima persona che c'ha diritto de parlarte, ma ti supplico, se stanotte devi sceglie de aiuta' qualcuno, aiuta il mio Simone. Io non ne sono capace…"

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Capitolo 4
*** Il tuo sorriso da lontano ***


Simone, dopo quella visita di Sbarra, venne totalmente abbandonato a se stesso. Era riuscito a dormire un po'  -più che altro gli sembrava che il suo corpo si fosse spento per poter spegnere anche il dolore- ma non poteva certo dire di essersi riposato. Senza il calore del corpo di Manuel, il profumo della sua pelle e le carezze che si scambiavano ogni sera era ormai impossibile per lui riposare davvero, anzi si chiedeva come avesse fatto tutti quegli anni senza di lui. Forse per tutta la sua vita non aveva fatto altro che spegnersi e basta.

Non appena riaprì gli occhi desiderò di non averlo fatto: il dolore che non aveva avvertito in quel periodo di sonno -breve o lungo, non lo sapeva- era tornato a farsi sentire con gli interessi e se possibile lo stanzino era piombato in un'oscurità ancora più profonda, la notte era entrata senza bisogno di passare per le finestre, che del resto lì non c'erano.

Il tempo passava lentamente, così lentamente da sembrare fermo, e l'unica cosa che ne testimoniava lo scorrere era il vociare ovattato che proveniva dall'altra parte della porta. Riconobbe la voce di Sbarra, poi forse quella di Zucca, mentre le altre per lui erano del tutto sconosciute. Da un lato desiderava sentire quella di Manuel, dall'altro sperava che il suo ragazzo non si presentasse lì, ma sapeva bene di poterlo soltanto sperare, perché era impossibile che l'altro non andasse a cercarlo, soprattutto se Sbarra gli aveva già parlato.

Ad un certo punto ogni voce si spense e Simone non ebbe neanche più quella magra compagnia a distrarlo. Come un'ombra lenta, un profondo senso d'angoscia si impadronì di lui, strisciando lentamente fino al suo cuore, che cominciò a battere all'impazzata. Si sentiva come quando da piccolo si svegliava in piena notte per un brutto sogno e nel buio della sua cameretta gli sembrava si nascondessero mostri terribili. Un po' li vedeva anche adesso, quei mostri, come se avessero dato il cambio a quelli che fino a poco prima si trovavano al di là della porta, ma lui non era più un bambino e non si trovava nella sua cameretta, non poteva chiamare la mamma per mandarli via. Doveva affrontarli da solo.

                                                                                                     *****

Manuel non aveva chiuso occhio tutta la notte e quando allo spuntare dei primi raggi di Sole si decise a lasciare quella stanza troppo vuota per lui, si rese conto che non era stato l'unico a passare la notte in bianco. Sua madre, Dante e la nonna di Simone erano seduti in soggiorno, ciascuno con una faccia da funerale che per Manuel furono come pugni nella pancia. Dante, in particolare, sembrava invecchiato di dieci anni in una sola notte.

Fece per tornare sui suoi passi, sperando di non essere stato visto, ma sentì sua madre chiamarlo e si bloccò.

"Tesoro, vieni qui. Sei già sveglio?"

Gli chiese dolcemente, con un sorriso, anche se dai suoi occhi si vedeva che era preoccupata. Manuel, tenendo lo sguardo basso per i sensi di colpa, si trascinò nella stanza.

"E chi ha dormito, ma'."

Sussurrò e Anita si alzò per abbracciarlo, stringendolo forte. La lasciò fare per qualche secondo, poi si separò da lei per andarsi a sedere al tavolo, in disparte dai tre adulti che invece erano sistemati sul divano. Si era accorto di non riuscire a sopportare neanche il contatto fisico, oltre a quello visivo. Sentiva gli occhi di Dante puntati addosso, sentiva il suo giudizio su di sé come non succedeva neanche a scuola e sapeva che era soltanto per l'affetto che provava nei confronti di sua madre che non l'aveva sbattuto fuori di casa.

"Lo so che me vuole di' qualcosa, prof. Avanti, lo faccia."

Interruppe quel silenzio assordante che non riusciva più a sopportare, trovando il coraggio di alzare gli occhi verso quelli dell' adulto. Nonostante fosse ormai il compagno di sua madre, nonché padre del suo ragazzo, non aveva smesso di considerarlo il suo professore né di chiamarlo così. Era una forma di rispetto, per lui.

"L'unica cosa che voglio dirti, Manuel, è che sei un irresponsabile! E te lo sto dicendo da padre, non da professore! Ti rendi conto del pericolo che corre Simone? Perché non mi hai dato ascolto quando ti ho detto di lasciar perdere quel criminale? E perché non ci hai parlato dei problemi che avevi con lui?"

Manuel avrebbe preferito sentirsi urlare addosso, vedersi scagliata contro tutta la rabbia che un uomo può provare e invece la voce di Dante era quasi un sussurro, incrinata, come se quell'uomo sempre energico non avesse più avuto forze in corpo. Faceva male vederlo così.

"Perché pensavo di poter gestire tutto, di essere più furbo di Sbarra...ma sono stato un coglione, lo so."

Anche la sua voce era rotta, tremava come tremavano le mani che cercava inutilmente di tenere ferme. Dante sospirò profondamente.

"Non sei stato un coglione, sei stato un ragazzino. Perché questo sei, Manuel, anche se ti piace pensare di essere già grande. Mi dispiace, ma adesso dovrai crescere in fretta, perché soltanto tu puoi aiutare Simone. Claudio ci ha consigliato di farci da parte."

Spiegò, con un certo rammarico misto a fastidio. Manuel, a dire il vero, non sapeva nulla di ciò che si erano detti.

"Vi ha detto questo, quindi?"

La nonna di Simone, rimasta ferma e in silenzio fino a quel momento come se con la testa fosse stata da un'altra parte, annuì.

"Ci ha consigliato di comportarci come se non sapessimo niente di questo mascalzone che ha rapito mio nipote, come se per noi si trattasse di una sparizione inspiegabile e ci ha dato il nome di un ispettore che conosce. Più tardi Dado andrà a fare una finta denuncia, deve essere tutto credibile. È un copione che non avrei mai voluto recitare, ma un attore non è sempre libero di scegliere i propri ruoli."

Anche in quella situazione, Virginia non aveva perso la compostezza che sempre la caratterizzava, almeno a prima vista. Manuel, nelle ultime settimane, aveva imparato a conoscerla un po' e notò il tremolio alle mani e i capelli leggermente fuori posto che tradivano tutta la sua preoccupazione. Si sentiva terribilmente in colpa anche nei suoi confronti.

"Anch'io voglio che Simone torni a casa sano e salvo e lo so che avrei dovuto pensarce prima, ma…"

Non riuscì a completare la sua stessa frase, non sapeva cosa aggiungere. Cosa avrebbe potuto dire? 'Ma ve lo riporterò a casa sano e salvo'? Una promessa che non era sicuro di poter mantenere. 'Ma vi chiedo di fidarvi di me'? Neanche lui si fidava di se stesso, come poteva chiederlo a loro? Abbassò lo sguardo, sospirando, e il soggiorno piombò di nuovo nel più totale silenzio.

                                                                                                     *****

Simone si ridestò improvvisamente, non ricordava nemmeno di essersi addormentato. Gli stava accadendo sempre più spesso e ogni volta che si svegliava si sentiva più stordito di prima. Preferiva quei momenti di sonno, se così si potevano definire, perché quelli in cui era cosciente di ciò che succedeva intorno a lui erano diventati un vero Inferno, quasi in senso letterale: se aveva interpretato bene l'alternanza di chiacchiericcio e di silenzio, erano trascorsi quasi due giorni da quando era stato portato lì e la porta era rimasta chiusa per tutto quel tempo, trasformando la piccola stanza in una sorta di grande forno e facendo di lui l'arrosto delle grandi occasioni, la portata principale. Fece una risatina a quella buffa associazione mentale -ci stava proprio bene, era anche legato come un arrosto-, subito sostituita da una scarica di colpi di tosse.

Lo stanzino, infatti, oltre ad essere caldissimo, era anche pieno di polvere e lui la stava respirando da fin troppo tempo. La tosse non fece altro che acuirgli il bruciore alla gola, che tentò inutilmente di placare deglutendo un po' di saliva. Non ricordava neanche più quando aveva bevuto l'ultimo sorso d'acqua e avrebbe dato una gamba per averne un bicchiere.

Poggiò la testa contro il tubo dietro di lui, che ormai quasi considerava una parte di sé, per cercare di darsi un po' di stabilità e di aggrapparsi a qualcosa che lo aiutasse a far passare quel senso di vertigini che lo tormentava costantemente. Le vertigini erano in buona compagnia, a tormentarlo c'era anche il sudore, che gli faceva bruciare la pelle nei punti in cui i lividi presentavano qualche graffio, e un tanfo di cui, suo malgrado, poteva incolpare soltanto se stesso.

Una buona notizia però c'era, o almeno Simone se la raccontava come tale, e cioè che i dolori in tutto il corpo sembravano essere andati via, almeno se restava fermo, sostituiti da un generale senso di torpore, che però lo aiutava a non muoversi e quindi a non soffrire.

Aveva anche imparato a fare tesoro di quei brevi attimi di passaggio tra la veglia e l'incoscienza, piccoli momenti di grazia in cui riusciva a vedere Manuel, bello come sempre, e talvolta anche a sentire anche le sue mani delicate che lo accarezzavano. Gli sussurrava sempre parole dolci che Simone custodiva nel cuore, una volta sveglio. Si trattava di allucinazioni, ne era consapevole, ma paradossalmente erano l'unica cosa che lo aiutava a non dare di matto, a resistere, nell'attesa che succedesse qualcosa.

Ecco, stava entrando in un altro di quei piccoli momenti preziosi, sentiva gli occhi che si chiudevano, ma se voleva assaggiare un briciolo di felicità doveva sforzarsi di tenerli aperti ancora per un po': Manuel era seduto accanto a lui, nel verso opposto al proprio e gli sorrideva, illuminando la stanza con la forza della sua luce. Simone gli sorrise di rimando e d'istinto si sporse verso di lui, ma le manette lo tenevano bloccato anche in quegli attimi di sogno e lui allora si mosse di nuovo, poi ancora una volta, facendo uno sforzo sovrumano nelle sue condizioni, per cercare di liberarsi ed emise un gemito di frustrazione quando non ci riuscì. L'altro ragazzo lo placò con una carezza sul ginocchio, infilando la mano poco sotto i pantaloncini della divisa.

"Non toccarli, sono sporchi. Sono sporco."

Mormorò Simone, pieno di vergogna, ma Manuel fece una risatina -il suono più bello del mondo- e si avvicinò a dargli un bacio a fior di labbra. Un istante dopo, Simone crollò.

Si risvegliò in un momento di quiete, segno che i traffici di Sbarra per quella giornata erano finiti e che per Simone era passato un altro giorno di prigionia. Doveva essersi sbagliato, però, perché dopo un po' sentì di nuovo una voce, o meglio un grugnito che corrispondeva a Zucca, poi quella di Sbarra che parlava con una terza voce, più bassa, ma che doveva appartenere ad una persona giovane. Tutto arrivava ovattato alle sue orecchie, anche a causa del suo non essere del tutto lucido, quindi impiegò un po’ di tempo a realizzare chi si trovava dall’altra parte della porta. Quando lo capì, però, non ebbe più dubbi.

"Manuel! Manuel!"

Gridò, più e più volte, cercando dentro se stesso quel poco di voce che doveva essergli rimasta. Non si trattava di un'allucinazione, stavolta.

                                                                                                      *****

Manuel non era riuscito a resistere più di mezza giornata a casa Balestra, nonostante ormai fosse anche casa sua: senza Simone ogni stanza era vuota e quel vuoto lo avvolgeva tra le sue spire, lo stritolava, lo soffocava. Sarebbe impazzito a restare lì e non poteva permetterselo, doveva restare lucido come aveva detto Claudio. Fu proprio l'avvocato a scrivergli che, se voleva, poteva andare a stare da lui per un po', e lui non esitò ad accettare.  Cominciava a capire perché Simone si fosse affidato a quell'uomo quando era stato male -per colpa mia, gli ricordò la sua testa-, era come se avesse il potere di leggere nei cuori feriti delle persone e sapeva come prendersene cura. Manuel gli era molto grato di quella gentilezza, che in fin dei conti non gli doveva, considerando che aveva anche provato a spaccargli la faccia.

"Secondo te cosa accadrà domani sera?"

Domandò all'uomo seduto accanto a lui sul divano. Era notte fonda, tra meno di ventiquattro ore sarebbe dovuto andare da Sbarra -da Simone- e nonostante si sentisse stanchissimo non riusciva minimamente a dormire.

Stringeva tra le mani una tazza di camomilla -nonostante facesse piuttosto caldo era stato Manuel a chiedere a Claudio di poter bere uno dei suoi 'intrugli', sperando che potesse fare qualcosa per distendergli i nervi- e teneva lo sguardo basso, fisso verso un punto indefinito del pavimento. Era terrorizzato dagli scenari che si affollavano nella sua mente. Claudio fece un profondo sospiro.

"Te lo dico chiaramente, Manuel, così non ti fai illusioni: non aspettarti di tornare a casa con Simone, domani."

Il ragazzo si sentì di nuovo annegare nel vuoto. Non era ingenuo, sapeva che Sbarra non gli avrebbe restituito Simone non appena si fosse presentato alle porte dello sfascio, ma un po' aveva sperato di far finire quell'incubo l'indomani. Ogni speranza morì con le parole di Claudio.

"Sarebbe troppo bello, eh? Ma troppo facile…"

Commentò con amarezza, per poi passarsi una mano sul viso stanco. Claudio sollevò un angolo delle labbra in un sorrisetto che non aveva nulla di allegro.
"Sarebbe poco conveniente per Sbarra. Rapire qualcuno ha dei rischi considerevoli, se lo si fa è perché si è certi di poter ottenere qualcosa che valga di più."
Manuel si accigliò, perplesso. Cosa poteva mai dare a Sbarra, lui? Non aveva certo i soldi per pagare un riscatto, né poteva essergli particolarmente utile per i suoi affari. Insomma, di ragazzetti da mandare in giro a spacciare o a minacciare negozianti poteva trovarne a bizzeffe.

"Ma...io pensavo me volesse solo dare una lezione, perché l'ho tradito. Ora, lo so che non se accontenterebbe de un biglietto di scuse, che me chiederà de fare qualcosa, però...non è poi tanto difficile trovare qualcun altro come me, no?"

Claudio annuì, pronto a spiegarsi meglio.

"E questo è vero, in generale, ma tu in questo momento sei molto più di una semplice pedina nei suoi loschi affari. Sei un simbolo."

Bevve un po' di camomilla, poi fece spallucce.

"Sei uno che ha provato a disobbedirgli, a ribellarsi e lui adesso, attraverso te, sta dimostrando cosa succede a chi ci prova. Sono sicuro che ti riempirà di...chiamiamoli incarichi, nei prossimi giorni, è importante che la gente veda che sei tornato a lavorare per lui. In questo c'è il tuo valore, Manuel, ed è questo il motivo per il quale terrà con sé Simone ancora per un po'. Non può dartela vinta facilmente, capisci?"

E il ragazzo annuì, mentre i sensi di colpa e il terrore gli mordevano l'anima.

"Questi lavori che mi darà, io...dovrò farli, allora? Così lascerà in pace Simone?"

Quella era la sua unica preoccupazione, il suo unico desiderio. Si sarebbe fatto arrestare, chiudere in carcere, qualsiasi cosa per salvare il suo Simone.

"Dovrai accettarli e senza fare storie, a prescindere da cosa ti proporrà, ma ciò non vuol dire che dovrai effettivamente eseguirli. Ne parleremo insieme e troveremo delle soluzioni alternative. Andrà tutto bene."

"Claudio, però qui c'è in gioco Simone. Cosa accadrebbe se Sbarra si accorgesse che lo sto prendendo in giro? Che lo voglio fregare?"

I suoi occhi sembravano ancora più scuri, presi dall'angoscia, e non trovarono conforto nemmeno in quelli di Claudio. Era una preoccupazione troppo pesante, insostenibile. Non poteva fare cazzate.

"Accadrebbe esattamente ciò che temi, perciò dobbiamo essere molto cauti. Tu, poi, devi mantenere la calma, ok? Mi devi promettere che non importa ciò che Sbarra dirà o farà, non dovrai andare in escandescenza. Anche se non ti dovesse far vedere Simone."

Claudio aveva ragione e Manuel ne era consapevole, ma come poteva mantenere la calma se già si sentiva impazzire? E poi aveva bisogno di vedere Simone, doveva capire in che condizioni si trovasse, perché la sua testa continuava a proporgli immagini sempre peggiori.

"È questo il problema, io lo so già che combinerò un casino e metterò ancora più in pericolo Simone, so fare solo danni. Dante m'ha detto che devo fare l'adulto, ma la verità è che c’ha ragione, io so' soltanto un ragazzino. Vorrei essere come te, Claudio, ma ho paura di non riuscirci. Ho paura de un sacco di cose, so' peggio de un bambino."

Disse quell'ultima cosa con gli occhi bassi e pieni di lacrime, quasi in un sussurro. Con Simone aveva imparato ad aprirsi, ma nei confronti del resto del mondo manteneva la sua diffidenza.

La situazione però era particolare, Simone non poteva ascoltarlo e lui si sentiva scoppiare, aveva bisogno di tirare fuori almeno un po' di tutto quel peso che si sentiva dentro. La diffidenza però c'era sempre ed era entrata in contrasto con il suo bisogno di urlare ed ecco perché aveva sussurrato. Ciononostante, Claudio lo aveva sentito e gli sorrise comprensivo, come un padre farebbe nei confronti del figlio. Almeno, Manuel immaginava che fosse così, dato che lui non aveva mai avuto un padre.

"Guarda che essere un ragazzino, vivere la tua età, non è una cosa sbagliata. Ti dirò di più: anche io ho paura, anche io mi domando se sarò in grado di prendere le decisioni giuste, quelle che aiuteranno Simone. Essere adulti, però, non significa non avere paura, ma prendersi le proprie responsabilità e tu lo stai facendo, perché anche tu corri dei rischi ad andare da Sbarra. Qualcun altro si sarebbe tirato indietro."

Manuel liberò un piccolo sbuffo, in un altro momento si sarebbe concesso una risatina: per lui era inconcepibile non aiutare la persona che si amava.

"Questo qualcuno, allora, non ama."

Replicò con voce un po' più alta, più ferma e sicura, così come fermo e sicuro era l'amore tra lui e il ragazzo che aveva il suo cuore accanto al proprio. Claudio annuì, concordando con lui.

"Cerca di amare anche te stesso, però. Non fare cazzate, perché possono prendersela anche con te. Ti ricordo che Sbarra ce l'ha con te, Simone è soltanto un mezzo."
"Me? Ma che me frega de me! Tu hai idea di come sta Simone, di quello che sta passando? Mi farei spezzare le gambe, pur di restituirgli la libertà!"

Nell'esclamare ciò, preso dall'impeto, Manuel aveva risollevato la testa e Claudio si accorse delle lacrime che gli rigavano le guance e arrossavano gli occhi. Oltre a questo, era anche visibilmente stanco. Scelse di non sottolineare la cosa, però, perché preferiva che Manuel si liberasse, invece di trattenersi per la vergogna.

"Allora vedila in questo modo: ama te stesso perché Simone ha bisogno di te."

Così dicendo si alzò in piedi e lo invitò a fare lo stesso con un cenno.

"E tu hai bisogno di dormire. Andiamo, dai."

Manuel scosse il capo, ostinato.

"Te se vuoi va' pure, io resto qua, tanto a dormire non ci riesco, ci ho provato anche prima, mi hai visto."

"Sì, ma adesso ti sei sfogato un po' e hai anche bevuto la camomilla, ti aiuterà a rilassarti. Dai, forza…"

Manuel sbuffò, ma si decise ad alzarsi. Dopo un paio di passi, però, si fermò di nuovo.

"Senti, Claudio...non è che potresti venire anche tu? Solo per un po', eh, magari...magari aspetti che mi addormento. Per favore."

Domandò imbarazzato, senza guardare in faccia l'avvocato. Gli sembrava di essere tornato a quando aveva cinque anni e chiedeva alla madre di dormire con lui perché pensava di avere dei mostri sotto al letto. Quelli non c'erano più, ma adesso, che era più grande, altri li avevano sostituiti: i mostri che doveva affrontare erano la solitudine e la paura. Claudio gli si avvicinò, sorridendogli comprensivo.

"Certo, non ti preoccupare. Andiamo."

Gli mise una mano sulla spalla e lo accompagnò nella camera degli ospiti, poi si distese a letto accanto a lui.

"Secondo te Simone pensa che l'abbia abbandonato?"

Sussurrò dopo qualche istante, stringendo un lembo del cuscino. Era uno dei tanti sensi di colpa che gli impedivano di dormire. Claudio scosse appena il capo.

"No, sono sicuro di no. Sa che faresti di tutto per lui e si fida di te."

"E te che ne sai de quello che pensa Simone?"

Domandò, un po' sorpreso da tutta quella sicurezza. L'avvocato fece una risatina.

"Beh, perché ogni tanto ci sentiamo e Simone non fa altro che parlarmi bene di te, quindi lo so perché me l'ha detto lui. È felice di stare con te, Manuel, non dubitarne mai."

Il ragazzo accennò un sorriso, anche se la preoccupazione non lo fece arrivare agli occhi, lucidi d'amore.

"Voglio solo essere degno di questa fiducia."

"Lo sei, anche se non te ne rendi ancora conto. Dai, adesso prova a dormire."

Manuel annuì appena, poco convinto, ma contro sua ogni aspettativa, dopo essersi girato e rigirato per un po', si spense, esausto. Il suo ultimo pensiero fu il sorriso luminoso di Simone, sperava con tutto il cuore di poterlo rivedere presto.

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Capitolo 5
*** Se mi aspetterai ti aspetterò ***


“Pronto?”

Finalmente era arrivato il momento di andare da Sbarra, dopo una giornata che sembrava non volerne sapere di finire, e anche se Manuel era terrorizzato all’idea di mandare tutto all’aria, finalmente avrebbe potuto fare qualcosa per aiutare Simone. Quindi sì, era pronto, e annuì con decisione in risposta a Claudio.

“È Sbarra che nun è pronto a incontrarme.”

L’avvocato accennò una risatina alla battutina del ragazzo.

“Ah, questo è poco ma sicuro.”

Tornò serio e fissò gli occhi nei suoi, incoraggiante.

“Resta concentrato e andrà tutto bene. Io ti aspetto qui, ma se ti dovesse succedere qualcosa, chiamami subito.”

Manuel annuì ancora e lo ringraziò con lo sguardo, poi si infilò al volo una felpa, prese le chiavi della moto e uscì, ripetendosi mentalmente per tutto il tragitto quanto fosse fondamentale mantenere la calma. Claudio gli aveva spiegato che Sbarra avrebbe fatto di tutto per intimidirlo e anche se lui aveva tutto il diritto di spaventarsi, non doveva darlo a vedere. Doveva riuscirci.

Si fermò poco prima dell’ingresso dello sfascio, parcheggiando la moto in un punto che avrebbe potuto raggiungere facilmente nel caso di una fuga improvvisa, e fece l’ultimo breve tratto a piedi. Tutto taceva vista l’ora tarda, ma già dal cancello poteva vedere che c’era la luce accesa in quella specie di baracca che fungeva da ufficio di Sbarra, segno che fosse effettivamente lì ad aspettarlo. Fece un respiro profondo ed entrò, trovandosi quasi immediatamente fermato da Zucca, che sbucò da un lato.

“Chi nun more se rivede! O sai che pensavo non avessi le palle de venì? E invece me devo ricrede, bravo. Stupido, ma bravo.”

Zucca doveva decisamente rientrare nella categoria di persone che non amavano, pensò Manuel, cercando di concentrarsi su questo piuttosto che sull’istinto di tirargli un pugno. Non sarebbe servito a niente se non a peggiorare le cose e poi, a ben vedere, qualcuno -che Manuel ringraziò mentalmente- doveva averci già pensato, a giudicare dal suo occhio nero. Sostenne il suo sguardo, cercando di non far capire quanto la paura gli stesse mordendo lo stomaco.

“Beh, mo però sto qua, me fai passare o no?”

“Che, vai de fretta? Prima devo vede’ se c’hai qualcosa, forza.”

Gli fece cenno di allargare le braccia e le gambe e Manuel obbedì, pur scuotendo il capo.

“Ma che devo tene’, è ridicolo…”

Si finse incredulo, in realtà era estremamente sollevato: aveva proposto a Claudio di farsi montare una piccola videocamera o un piccolo microfono addosso per registrare la conversazione con Sbarra e avere delle prove contro di lui, ma l’avvocato aveva bocciato la sua idea dicendogli che guardava troppi film e che un criminale vero non si sarebbe fatto fregare così. Per fortuna gli aveva dato ascolto.

“Ridicolo sarai te, guarda. Comunque questo lo prendo io.”

Agitò il cellulare di Manuel davanti ai suoi occhi e poi se lo mise in tasca.

“Annamo.”

Senza troppe cerimonie, afferrò Manuel per un braccio e lo portò con sé verso l’ufficio di Sbarra. Il vecchio era lì ad aspettarli e insieme a lui c’era quella donna che gli stava sempre intorno.

“Guarda chi c’è venuto a trova’!”

Esclamò Zucca, con finto tono cordiale. Sbarra allargò le mani, sorpreso.

“T’o dicevo io che non sarebbe mancato! ‘Sto ragazzo è intelligente e non si sarebbe fatto scappare una proposta come la mia. Come stai, ragazzi’? Te trovo bene…”

Sbarra lo guardava con un sorrisetto sardonico stampato in viso e due occhi che sembravano quelli di un predatore. Manuel non aveva mai odiato tanto qualcuno in vita sua. Gli ricordava un po’ Lombardi quando lo chiamava alla cattedra, con la differenza che fare un errore durante questa interrogazione sarebbe costato molto più di un brutto voto. Accennò un sorrisetto di circostanza, imponendosi di tenere lo sguardo fisso su Sbarra e di non far vagare gli occhi alla ricerca di un posto in cui poteva essere nascosto Simone. Era uno degli errori da non commettere.

“Sto ‘na favola, grazie. Pure te me sembri messo bene.”

Odiava dover conversare con quel pezzo di merda come se fossero due amici al bar, ma quando aveva parlato con lui al telefono aveva già provato ad imporgli dei tempi e ne aveva subito le conseguenze, che erano ricadute su Simone. Meglio lasciare che fosse Sbarra a decidere tutto, motivo per il quale sopportò le inutili domande sulla scuola –neanche fosse un suo vecchio zio-, sul calcio –lui manco lo seguiva, il calcio!- e su tutta un’altra serie di argomenti di poca importanza, sforzandosi di dare risposte più o meno credibili, come se fosse davvero interessato a quello scambio di opinioni.

Ad un tratto, però, udì una cosa che lo fece gelare sul posto: si sentì chiamare, più di una volta, da una voce rotta e spezzata che si sforzava di gridare e che lui avrebbe riconosciuto tra mille. Simone era lì, da qualche parte in quella stanza, e Manuel non poteva andare da lui.

Non erano mai stati così vicini, eppure così lontani.

Gli ci volle tutto il suo autocontrollo per non scattare in piedi e correre nella direzione di quella voce, o anche solo per non risponderle, mentre sentiva il proprio cuore andare in mille pezzi.

Simo, che cazzo ti hanno fatto?, fu l’unico pensiero che riuscì a formulare.

Anche Sbarra aveva sentito Simone gridare, per forza di cose, quindi la domanda che gli fece subito dopo non fu casuale.

“E senti, dimme ‘npo’, ma te la sei trovata ‘na donna? O quella che ha mannato er fratello a sfascia’ la mia macchina t’ha traumatizzato?”

L’uomo fece una risatina alla sua stessa battuta e Manuel si sforzò di ridacchiare a sua volta. Era tutto più difficile, ora che le urla di Simone rimbombavano nella stanza. Era una follia dover far finta di niente mentre il suo ragazzo, la persona che amava, si sgolava in quel modo. Immaginò quanto si sentisse solo e anche abbandonato. Probabilmente si chiedeva perché non fosse ancora andato a prenderlo, a salvarlo, pur essendo lì. Si sforzò di mandare giù il doloroso magone che sentiva in gola e poi rispose.

“No, non ce l’ho la ragazza…”

Che poi, in fin dei conti, non era neanche una bugia.

Sbarra ridacchiò, un po’ troppo a lungo per il sesto senso di Manuel. Sospettava che in qualche modo sapesse di lui e Simone e del loro rapporto non esattamente d’amicizia. La sua paura si centuplicò all’idea e pregò che fosse soltanto una sua sensazione.

“Vabbè, per fortuna sei ancora giovane! Mo vieni con me, che te la presento io una signorina…”

Si alzò, facendo cenno di seguirlo. Manuel non aveva proprio voglia di lasciare quella stanza, ma non poteva fare diversamente e quindi, ancora una volta trascinato da Zucca, attraversò lo sfascio fino ad arrivare alla zona dedicata alle motociclette, una zona che lui conosceva meglio delle sue tasche per tutte le volte che era stato lì a cercare pezzi di ricambio. Si fermarono davanti ad una Vespa bianca, o meglio, a quella che una volta era  stata una Vespa bianca.

“Come vedi è proprio messa male, me l’ha portata uno che ha fatto un incidente de quelli brutti, eh, però dacce n’occhiata, sei te l’esperto. Non essere timido, vai.”

Zucca mollò la presa sul suo braccio e Manuel poté avvicinarsi all’ammasso di ferraglia che una volta era –non ebbe dubbi-  il motorino di Simone. Non era salvabile, lo si capiva subito, ma fece comunque finta di esaminarlo con attenzione perché, esattamente come aveva fatto prima, doveva continuare a recitare il copione di Sbarra. Gli tornò in mente la frase che Virginia gli aveva detto il giorno precedente, che non sempre un attore può scegliersi il ruolo. Adesso capiva come ci si sentisse.

“Sbarra, senti, ‘sta Vespa non è messa male, peggio. Io sarò pure er mago delle moto, ma qua ci vorrebbe un miracolo. Te la posso smonta’ per i pezzi de ricambio, però, qualcosa ce ricavi.”

Spiegò mentre si puliva le mani sulla felpa lasciata aperta a mo’ di giubbino, cercando di sembrare il più naturale possibile. Sbarra annuì, mettendo su una faccia piena di rammarico. Lui era decisamente un attore che aveva potuto scegliersi il ruolo da interpretare.

“Me sa che c’hai ragione, sì. Però me dispiace, t’avevo promesso un po’ de soldi, so che te servono…”

“No, ma davvero, non fa niente. Nun te preoccupa’, io m’arrangio…”

Sbarra era irremovibile e scosse il capo, poi poggiò una mano sulla spalla di Manuel e prese a camminare insieme a lui.

“E no, invece me preoccupo, perché lo so che te vuoi aiuta’ mamma tua co le bollette e tutto er resto. Famo così, te ricordi le caramelle che t’avevo dato? Dimmi la verità, ce le hai ancora o le hai vendute per conto tuo, mh?”

Manuel fece un profondo respiro. Era un lavoro che dopotutto poteva accettare, non era la prima volta che spacciava per Sbarra, e avrebbe potuto rifarlo se Claudio non avesse trovato un’alternativa sicura per Simone. Su questo non avrebbe accettato compromessi.

“No, no, ce le ho ancora. Anzi, scusami se…”

Sbarra lo interruppe con un cenno della mano.

“Nun te preoccupa’, quella è acqua passata. Se me le vai a venne e me porti cinquemila euro, il resto te lo puoi tene’ per te. Che ne dici?”

Manuel annuì immediatamente, senza esitare.

“Quanto tempo c’ho?”

L’altro fece spallucce, come se la cosa non avesse importanza.

“M’hai fatto aspetta’ tre settimane, diciamo che il tempo non è poi così importante per me. Però diciamo pure che meno ce metti e meglio è, mh?”

Manuel annuì ancora, aveva recepito il messaggio sotteso. Il tempo che avrebbe impiegato a portare quei soldi a Sbarra sarebbe stato del tempo che Simone avrebbe trascorso ancora alla sua mercé e se soltanto due giorni lo avevano portato a gridare nel modo in cui aveva sentito poco prima, non poteva farne passare molti altri.

“Va bene, allora me faccio sentire io. Grazie, Sbarra, non me ne dimenticherò.”

Gli faceva schifo ringraziare Sbarra anche solo per finta, si faceva schifo solo per aver pronunciato quella parola, ma doveva essere credibile.

C'era anche del vero in quella frase, però, e cioè che non avrebbe dimenticato il modo in cui aveva osato far del male alla persona a cui più teneva al mondo. Si sarebbe vendicato, per una via o per un'altra.

“Bravo, sarà meglio pe’ te. Mo vattene a casa, che c’ho ancora un po’ da fare qua. Zucca, accompagnalo che non voglio se perda.”

Manuel non se lo fece ripetere due volte e non appena Zucca gli restituì il cellulare, all’ingresso dello sfascio, saltò in sella alla sua moto per tornare da Claudio. Soltanto quando fu abbastanza lontano si concesse il lusso di piangere, lasciando libero sfogo alla paura, alla rabbia e alla frustrazione.
 
                                                                                     *****
 
"Manuel! Sono qui!"

Ogni parola che urlava era l'ennesima fiamma nella sua gola che già andava a fuoco da ore, ma il dolore non era abbastanza per convincerlo a tacere, non con Manuel a pochi passi da lui.

Doveva fargli sapere che era lì, che tutto sommato stava bene perché era ancora vivo, e che era pronto a tornare a casa. Sì, perché se Manuel era andato da Sbarra, doveva sicuramente averlo fatto con un piano per salvarlo e di lì a breve si sarebbero riabbracciati, ne era certo.

Eppure la porta dello stanzino non si aprì, Manuel non diede segni di averlo sentito -forse non aveva gridato abbastanza?- e presto le voci tacquero. Sospirò rassegnato, tornando ad appoggiarsi al muro.

Che si fosse immaginato tutto? O forse si era addormentato e quello era un sogno? Entrambe le opzioni erano plausibili, del resto non sarebbe stata la prima volta che la realtà si confondeva con la fantasia, eppure stavolta c'era qualcosa di diverso dalle altre, perché almeno nei suoi sogni -e momenti di incoscienza in generale- Manuel era sempre presente, non si limitava a sentirne soltanto la voce. In più, le fitte che gli mozzavano il fiato erano decisamente reali, preso dall'euforia si era agitato troppo e il suo corpo ne stava pagando il prezzo.

Era quindi abbastanza sicuro che Manuel fosse davvero andato lì, ma se non era andato a prenderlo allora cosa era successo? Cominciò a temere che Sbarra gli avesse fatto del male o che lo avesse ucciso così, a sangue freddo, e Simone urlò di nuovo il suo nome, stavolta per la paura. Tanto valeva che Sbarra ammazzasse anche lui, allora, perché vivere una vita senza Manuel non aveva senso.

I suoi pensieri furono interrotti dalla luce che praticamente lo accecò, facendogli chiudere gli occhi. Li riaprì lentamente, trovandosi i suoi aguzzini davanti.

"Ah, meno male che sei vivo! Dalla puzza che c'è qua dentro, pensavo de trovarme davanti a un cadavere!"

Esclamò divertito Sbarra e Zucca ridacchiò.

"E per forza! Guarda, s'è pisciato addosso come un marmocchio!"

Simone si sentì montare dalla vergogna, ma fu abbastanza forte da non lasciarla vincere e tenne lo sguardo in alto, non lo abbassò.

"Dov'è Manuel?"

Chiese subito, con la poca voce che la sua gola martoriata e assetata poteva permettersi.

"Io fossi in te nun me preoccuperei de lui, ragazzi’. Io una cosa t'avevo chiesto de non fare, e te che fai? Te metti a strillare come un matto! Te mo capisci che devo prendere provvedimenti, vero?"

Simone non rispose, troppo impegnato a pregare il Cielo che Manuel fosse al sicuro. In un istante Zucca gli fu accanto e gli mollò un ceffone, poi gli tirò su il capo afferrandolo per i capelli.

"Oh, svejate, t'ha fatto una domanda. Lo capisci o no?"

Simone fece una smorfia di dolore che avrebbe preferito nascondere.

"Sì, sì, lo capisco, ma non m'importa, va bene? "

Rispose, tenendo lo sguardo fisso in quello di Zucca. Entrambi gli uomini ridacchiarono.

"Ah, nun te 'mporta? Quindi se io adesso chiedo a Zucca de spezzarte na gamba, a te non importa? Nun ce credo manco se lo vedo."

Simone spostò lo sguardo su Sbarra, carico d'odio.

"Non è un problema mio se non ci credi."

Non era impazzito, né certamente era felice all'idea di farsi spezzare una gamba -anzi, aveva una paura fottuta-, ma se Sbarra si era messo in testa di punirlo in qualche modo, lui non avrebbe potuto in ogni caso fargli cambiare idea, quindi era meglio affrontare la cosa con dignità, per quanto possibile. Non si sarebbe messo ad implorare.
Zucca gli diede un ceffone che gli fece vedere le stelle e poi si preparò a dargliene un secondo, ma Sbarra lo fermò prima.

"Certo che te c'hai le palle, ragazzi’, è un peccato che mi tocchi lavora’ co quell'altro. Pe stavolta lascio corre, me sento generoso, però te nun tira’ troppo la corda."

Lo avvertì, poi fece segno a Zucca di allontanarsi. Simone era decisamente sorpreso, ma lo fu ancora di più, qualche minuto dopo, quando vide una donna entrare nello stanzino con una bottiglia d'acqua in mano. Fu quello il dettaglio che catturò tutta la sua attenzione.

"Sì, è per te, sta' tranquillo. T'aiuto io, però devi bere piano, altrimenti vomiti."

Simone annuì senza dire nulla, lasciò che l'altra gli avvicinasse il beccuccio alle labbra e bevve avidamente qualche sorso. Non era abbastanza, ma già si sentiva meglio.

Quando si vide privare di quell'acqua, istintivamente si spinse in avanti per avvicinarsi alla bottiglia.

"Oh ma sei de coccio, t'ho detto che devi bere piano! Aspetta un attimo, no?"

La donna sospirò pazientemente e lo aiutò a bere un altro po', poi come prima si fermò.

"Com'è che te chiami, ragazzi’?"

Simone non aveva voglia di fare conversazione, ma aveva sete e tutta l'intenzione di finire quella bottiglia, quindi era meglio non far andare via quella tizia. Si schiarì la voce prima di rispondere.

"Simone."

Mormorò lui e lei annuì.

"Sei stato coraggioso, lo sai, Simone? Non te lo dovrei dire, ma Sbarra è rimasto sorpreso da come gli hai tenuto testa. Ho visto uomini ben più adulti de te piangere come agnelli per molto meno, sai?"

A Simone non importava un cazzo di cosa Sbarra pensasse di lui, era solo contento di essersi risparmiato una gamba rotta.

"E se non me lo dovresti dire, allora perché l'hai fatto?"

Domandò pungente e la donna ridacchiò, avvicinandogli di nuovo l'acqua alla bocca.

"Perché m'andava, va bene?"

Simone bevve, svuotando totalmente la bottiglietta. La donna stava già per andarsene, ma la chiamò prima che uscisse.

"Aspetta! Aspetta un attimo! Mi puoi dire un'altra cosa?"

Lei si voltò a guardarlo e gli tornò vicino. Era incuriosita.

"Dipende da cosa vuoi sapere."

"Il ragazzo che prima è venuto qui, adesso dov'è? Sbarra gli ha fatto qualcosa?"

Gli occhioni di Simone tradivano i due grandi sentimenti che provava per il suo Manuel, amore e paura, per quanto non avrebbe dovuto mostrarsi così coinvolto. Tutte le sue difese però crollavano, se c'entrava Manuel. La donna gli rivolse un sorriso intenerito.

"Nun te preoccupà, sta bene. Sbarra gli ha fatto vede' qualcosa nello sfascio e poi l'ha mannato a casa. Se te posso da' un consiglio, però, non metterte a gridare di nuovo come hai fatto prima. Se Sbarra s'incazza, se la prende con te e con lui."

Simone sospirò sollevato, si sentiva come se gli avessero tolto un peso dal petto. Perfino il buio e la solitudine in cui la stanza era ripiombata sembravano un po' meno opprimenti. Manuel stava bene e lui tutto sommato era vivo, c'era ancora speranza. Doveva solo essere paziente e resistere.
 
                                                                                             *****
 
Manuel rientrò in casa con gli occhi arrossati dalle lacrime e lo sguardo preoccupato. Simone non era con lui, ma del resto Claudio non si aspettava diversamente. Subito il ragazzo si gettò sul divano, portandosi il viso tra le mani. Quando le abbassò, a Claudio sembrò di vedere in faccia un adulto divenuto tale troppo in fretta.

"Allora? Che è successo?"

Le labbra di Manuel si curvarono in un sorriso amaro.

"In teoria è andato tutto bene, ma Sbarra è un cazzo de sadico, Claudio."

Sospirò profondamente, prendendosi un attimo per organizzare un discorso coerente. Non aveva chissà cosa da raccontare, ma la sua testa era ancora piena delle urla di Simone e gli veniva difficile concentrarsi.

"Appena so arrivato s'è messo a parlare del più e del meno e lo so che l'ha fatto per infastidirmi, però non gliel'ho data vinta. Ho risposto alle sue domande del cazzo come se me ne fosse interessato davvero, sono stato calmissimo, ma ti giuro, Claudio, c'è mancato poco. È successa una cosa che…"

Mentre parlava, le sue mani non stavano ferme un attimo, continuava a farle toccare in qualche modo per scaricare la tensione. Da Sbarra non si era concesso nemmeno questo, per non mostrarsi agitato. Scosse il capo, sospirando di nuovo.

"Ad un certo punto ho sentito Simone gridare. Mi chiamava, era disperato, io...io non l'ho mai sentito così, anzi non ho proprio mai sentito nessuno gridare così, mi devi credere. Non so cosa gli abbiano fatto, ma non possiamo lasciarlo lì ancora per molto."

Claudio annuì preoccupato, adesso capiva perché Manuel fosse così devastato. Non era difficile immaginare quanto fosse stato duro per lui sopportare una cosa del genere.

"E poi che è successo?"

"Niente, nel senso che io non ho fatto niente, ho solo continuato a parlare con Sbarra."

Accennò una risatina amara.

"Sai cosa m'ha chiesto, il bastardo, mentre Simone urlava ancora? Se avessi la ragazza!"

Il viso di Claudio si contrasse in una smorfia di puro disgusto, ma purtroppo non era sorpreso da un comportamento del genere.

"Sbarra è un infame e su questo non si discute, tu però sei stato bravo, davvero. Puoi essere fiero di te stesso."

Manuel scrollò le spalle, non aveva né il tempo né la voglia di crogiolarsi in se stesso. C'era altro a cui pensare.

"Sarò fiero di me stesso quando Simone smetterà di soffrire a causa mia."

"Sei sulla buona strada, concediti almeno questo. C'è altro?"

Manuel annuì.

"M'ha portato a vede' la Vespa che voleva farmi riparare ed era quella de Simone, ne sono sicuro. Era tutta sfasciata, distrutta, e Sbarra mi ha detto che il proprietario aveva fatto un incidente. Un incidente, capito lo stronzo?"

Fece un respiro profondo, quel racconto non gli stava facendo bene. Era giusto che Claudio sapesse tutto, naturalmente, ma ogni parola era come una piccola scheggia di vetro che andava ad infilarsi nelle ferite che quella notte gli aveva lasciato.

"Poi ha fatto come hai detto tu, mi ha chiesto di spacciare quelle pillole che mi aveva dato tempo fa. Devo portargli cinquemila euro."

Claudio annuì, aveva immaginato che come primo incarico gli avrebbe affidato questo.

"Quanto tempo hai?"

"Nun me l'ha detto, ma è meglio sbrigarse. Anzi, è meglio che inizi adesso…"

Claudio lo interruppe con un gesto della mano.

"No, tu quella roba non vai a venderla, non per davvero. Ti do io i soldi, tu fatti solo vedere in giro, mettiti nei soliti posti, ma spostati continuamente. Sbarra ti terrà d'occhio."

Manuel scosse il capo, non gli piaceva quel piano.

"Un motivo in più pe non fa cazzate, no? Che facciamo se si accorge che la roba sua non sta circolando?"

Claudio sospirò profondamente. Era un rischio che aveva calcolato.

"Lo so, Manuel, ma non puoi vendere quelle pillole. La gente ci muore per queste cose."

Manuel alzò gli occhi al cielo, facendo uno sbuffo sarcastico. Tornò poi a guardare l'altro dritto dritto nei suoi occhi di ghiaccio.

"E sai quanto me ne sbatto er cazzo della gente, Claudio? Non li obbligo io a drogarsi, è una scelta che fanno loro. Se è per tenere al sicuro Simone, per me possono anche morire tutti quanti."

Replicò duro, irremovibile. Simone era la persona più importante del mondo per lui, non aveva scelto di mettersi in quella situazione, e aveva bisogno di aiuto. Se Claudio avesse ascoltato le sue urla, se le sue ossa avessero tremato come le proprie, sarebbe stato d'accordo con lui.

"Dici così perché non hai mai avuto un morto sulla coscienza."

Gli fece notare l'avvocato, preoccupato per il ragazzo.

"È vero, ma non vorrei cominciare proprio da Simone."

Claudio, negli occhi scuri di Manuel, vide tanta, tantissima determinazione, ma in fondo erano sempre quelli di un ragazzino spaventato. Lo capiva.

"D'accordo, facciamo come dici tu. Sta' attento però, mi raccomando."

Manuel non attese oltre, filò in quella che provvisoriamente era diventata la sua stanza e si mise lo zaino in spalla. Si era portato dietro quella roba, sia per non lasciarla a casa di Dante, sia perché immaginava che Sbarra l'avrebbe rivoluta indietro o cose del genere.

Cominciò a vendere quelle pillole quella notte stessa e andò avanti così per quasi una settimana. Di giorno dormiva, per quanto possibile, e di notte si fermava nelle strade più nascoste di Roma, quelle a cui i turisti non si avvicinavano, ma che erano comunque piene di gente. Era una specie di supereroe, insomma, ma il suo obiettivo era salvare una sola persona.

"Sbarra, so' Manuel. Ho fatto quella cosa."

Spiegò al telefono, qualche ora dopo aver venduto l'ultima pillola. Aveva preferito aspettare che fosse mattina inoltrata per chiamare Sbarra, non voleva rischiare di disturbarlo di notte. Non era riuscito minimamente a chiudere occhio, nell'attesa, pensando a cosa sarebbe successo dopo: probabilmente Sbarra gli avrebbe affidato un nuovo incarico, come gli aveva spiegato Claudio, ma Manuel si chiedeva soprattutto se stavolta gli sarebbe stato possibile vedere Simone. Purtroppo, la decisione era in mano a quello stronzo.

"Ah, ma che bravo! Passa stasera, allora, al solito orario, 'o sai."

Senza aspettare una risposta, l'uomo chiuse la telefonata e Manuel rivolse un insulto all'indirizzo dei suoi antenati che per fortuna non avrebbe lasciato la camera degli ospiti di Claudio. Si concesse allora di dormire un po', per quanto tutte le sue ore di sonno sembrassero non contare niente al risveglio, e riaprì gli occhi soltanto quando sentì l'avvocato entrare in camera, portando un vassoio con sé. Il ragazzo si accigliò perplesso, ancora non del tutto lucido.

"Ma no, Claudio, dai! M'hai portato la colazione in camera? Non dovevi…"

Biascicò, stropicciandosi un occhio. Claudio accennò una risatina.

"Pranzo, a dire il vero, hai dormito un bel po’. E poi così sono sicuro che mangi, non ti sei fermato un attimo in questi giorni."

Nell'ultima settimana, infatti, Manuel aveva spesso saltato i pasti, o perché doveva andare in giro a spacciare per Sbarra o perché, al ritorno, era troppo stanco per mangiare e crollava a letto. L'altro si tirò su a sedere, prendendo il vassoio e mettendoselo sulle gambe. Nel farlo, notò che erano le tre di pomeriggio passate, aveva dormito davvero tanto. Peccato che non fosse servito a niente, si sentiva più stanco di prima.

"Quindi...non ce l'hai con me per non aver voluto fare come dicevi tu?"

Domandò dopo qualche istante di silenzio, mentre mangiava. Claudio sorrise comprensivo e scosse il capo.

"No, perché dovrei? Hai semplicemente fatto la tua scelta e col senno di poi credo anch'io che sia stata quella migliore. Adesso però non pensare al passato, concentrati sul presente. Hai avvisato Sbarra?"

"Sì, l'ho chiamato prima. Devo anna’ là stasera…"

Buttò giù un altro boccone prima di chiedere una cosa a Claudio, una cosa che gli premeva molto. Lui se ne intendeva di queste situazioni, del resto, e forse avrebbe saputo dargli una risposta.

"Secondo te stasera me farà vedere Simone? Lo so che non devo chiederlo e non lo farò, te lo giuro, però...ho bisogno di vedere come sta."

Gli occhi di Manuel erano spenti, tristi e non era giusto per un ragazzo della sua età, come del resto non era giusta la situazione che lui e Simone stavano affrontando. Per questi motivi, Claudio si sentì un po' in colpa a dargli la risposta che gli diede, si rendeva conto quanto potesse sembrare da stronzi.

"Sì, potrebbe, ma sarebbe meglio che non lo facesse. Ogni cosa che dirai o farai vedendo Simone, o che Simone dirà o farà vedendo te, sarà un'altra arma che Sbarra potrà usare contro di voi. Lo capisci, questo?"

Manuel annuì, perché la sua testa lo capiva, ma il suo cuore non voleva sentire ragioni.

"Io me sento impazzi', Claudio. 'Sta pasta sicuramente è bona, ma in bocca mia sa di cartone, e questo letto senz'altro è comodissimo, eppure a me sembra de stendermi in mezzo alle spine."

Allontanò il vassoio, gli era passato l'appetito, e poi poggiò il capo contro la testata del letto, mantenendo lo sguardo fisso in quello di Claudio.

"Me sento di vivere in un mondo senza colori, senza odori, senza sapori, senza niente. Non è vita, questa, non è vita senza Simone. Tu dici che devo restare lucido, e hai ragione, ma sta diventando sempre più difficile. E lo so che sono passati solo pochi giorni, ma ogni giorno pesa come un'eternità e se per me è così, immagina per Simone."

Fece un respiro profondo, che gli sembrò costargli una fatica immensa. Anche l'aria era diventata irrespirabile.

"Dobbiamo pensare ad un modo per tirarlo fuori da lì, non possiamo aspettare che Sbarra commetta un errore."
Manuel aveva le sue ragioni e aveva ragione, Claudio lo sapeva, ma non era il momento di lasciarsi prendere dalla fretta. Gli riavvicinò il vassoio, dato che il ragazzo aveva lasciato quasi tutto.

"Adesso finisci di mangiare, ne hai bisogno, altrimenti come credi di poter pensare ad una soluzione efficace?"
Disse con un sorriso accennato, comprensivo del dolore dell'altro, e Manuel si lasciò convincere, ma soltanto perché quella sera doveva tornare da Sbarra, o meglio, dal suo Simone.

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Capitolo 6
*** E vivremo ancora ***


L'ora dell'incontro giunse con la lentezza delle ore attese e questa volta Manuel non protestò quando Zucca si mise a perquisirlo. Come l'altra volta gli sequestrò il cellulare e lo trascinò con ben poca gentilezza nell'ufficio di Sbarra. Manuel si chiese se il vecchio si fosse mosso da lì dall'ultima volta che si erano visti.

"Ragazzi’, me devi scusa' se oggi vado de fretta, ma c'ho un sacco da fa'. M'hai portato i soldi?"

Domandò subito e Manuel senza perdere tempo -anzi, era contento di non dover dilungarsi in chiacchiere inutili- prese nello zaino la busta in cui aveva messo i contanti, poggiandola sulla scrivania.

"So' settemila, ho pensato che te dovessi da' un po' de interessi per quanto t'ho fatto aspetta'..."

E poi lui i soldi di Sbarra non li voleva, non più. Aveva capito che gli antichi romani nel pensare ‘pecunia non olet’ si erano sbagliati di grosso, c'erano soldi che puzzavano eccome e lui non voleva averci niente a che fare, non più.

Sbarra fece una risatina e contò rapidamente le banconote nella busta, poi prese mille euro e li porse a al ragazzo.

"Tiè, questi so pe te. Sei stato bravo, te li meriti."

Manuel scosse il capo, poi si sforzò di accennare un sorrisetto di circostanza.

"No, te ringrazio, ma non me li merito. Magari la prossima volta…"

"No, insisto io. Pigliateli, magari ce porti fuori a cena er pischello tuo, eh?"

Replicò con un ghigno beffardo e Manuel si gelò sul posto. Le sue paure erano fondate, Sbarra sapeva tutto. Deglutì, sforzandosi di mantenere la calma, e nascose le mani in tasca per non far vedere che avevano cominciato a tremare.

"Pischello? Ma di che parli, Sbarra? Io mica so' frocio…"

Cercò di mostrarsi sicuro di sé, usò perfino quella parola orribile che aveva sputato in faccia a Simone troppe volte -e non avrebbe mai smesso di sentirsi una merda per questo, non importava quanto lui gli dicesse di averlo perdonato- nel tentativo di allontanare l'idea da Sbarra, ma evidentemente non ci riuscì perché il vecchio si mise a ridere e così anche Zucca.

"Ah no, non sei frocio, te? Siediti, che te faccio vede' 'na cosa."

Manuel si morse un labbro, nervosamente, e si mise a sedere. Subito si ritrovò le mani di Zucca strette sulle sue spalle per tenerlo fermo. Pochi istanti dopo Sbarra gli mostrò una foto e Manuel non ebbe bisogno neanche di osservarla da vicino per riconoscerla, lui e Simone l'avevano scattata appena una settimana dopo essersi messi insieme: erano stesi a letto, entrambi si erano svegliati da poco e Manuel aveva i capelli più arruffati del solito. Simone aveva riso tantissimo, li aveva definiti 'un nido di rondini' e aveva insistito tanto per immortalare il buffo momento. Manuel aveva protestato un po', ma solo per gioco, in realtà sarebbe andato anche a scuola con quell'assurda pettinatura, pur di rendere allegro Simone. Ciò che rendeva inequivocabile la foto, anche per chi non sapeva nulla di loro, erano le labbra di Simone poggiate sulla guancia di Manuel in un morbido bacio e il volto di Manuel illuminato di conseguenza.

"Questo pischello qua, mo te sei rinfrescato la memoria? Simone, giusto?"

Manuel chiuse gli occhi per un istante e annuì. Non aveva senso continuare a mentire.

"Lo so che l'hai rapito tu, la Vespa che mi hai fatto vedere era la sua."

Sbarra accennò un sorrisetto beffardo.

"Bravo, sei proprio intelligente allora. E dimme, hai capito pure il motivo per cui so' stato costretto a mandare Zucca a prende 'sto ragazzetto?"

Manuel annuì di nuovo e fece un respiro profondo prima di rispondere. Era chiaro che Sbarra avesse affidato a Zucca un compito del genere, del resto era il suo uomo di fiducia, ma si sentì comunque morire dentro di fronte a quella certezza, perché Zucca non era uno che usava le maniere gentili per fare qualcosa.

"Sì, sì, l'ho capito, l'hai fatto perché non ti ho venduto subito quelle pillole e m'hai voluto puni'. Ti giuro che nun se ripeterà più."

Parlava in fretta, agitato, non riusciva a tenere a freno la sua preoccupazione, pur sapendo di star sbagliando. Claudio aveva ragione, se solo vedere una foto di lui e Simone gli aveva fatto perdere il controllo, cosa sarebbe successo se l'avesse visto di persona? Il problema era che lui, a Claudio e alle sue indicazioni, non riusciva nemmeno a pensarci, in quel momento.

"E adesso immagino che me chiederai de lasciar andare il tuo fidanzatino, non è così?"

Sbarra era estremamente compiaciuto dalla situazione, era bastato davvero poco a far crollare quella finta spavalderia che il ragazzetto di fronte a lui si ostinava a mostrare. Manuel si sentiva soffocare.

"Sì, però te voglio proporre uno scambio, come negli affari che te piacciono tanto. Lascia andare Simone e prenditi me, sono io quello che t'ha fatto incazza'.  Me puoi far menare da Zucca, je puoi di' de spezzarme un braccio, tutto quello che ti pare, ma prenditela con me. Simone non c'entra in questa storia."

Manuel pensò che quella, più che una proposta, fosse una vera e propria supplica. Una supplica fatta al Diavolo in persona, che in quanto tale gli rise in faccia.

"Che cuor de leone, e innamorato pure! Tra poco me fai mette a piagne, guarda…"

Scosse il capo.

"Il problema sai qual è? È che io t'ho già fatto menare una volta e tu la lezione non l'hai imparata. Non so' un professore, ma questo nuovo metodo ha funzionato molto di più, adesso me sembri davvero convinto. Me spiace, ma me vedo costretto a trattenere l'amichetto tuo ancora per un po'..."

Manuel non ci vide più, fece per alzarsi preso dalla voglia di strozzare quel vecchio infame con le sue stesse mani, ma Zucca lo teneva fermo, piantato sulla sedia, non importava quanto lui si agitasse.

"Non lo puoi fare!"

Esclamò, terrorizzato e arrabbiato, anche se in realtà Sbarra poteva benissimo.

"Mh, altrimenti che fai, chiami la polizia? Mettiamo le cose in chiaro, appena sento odore de sbirri, io al tuo amichetto faccio fare una brutta fine, intesi?"

Il ragazzo si placò immediatamente, ogni fibra del suo corpo aveva perso forza di fronte a quella minaccia, nonostante il suo cuore pompasse sangue all'impazzata. Ogni via d'uscita gli sembrò lontanissima, irraggiungibile.

"Ecco, così già va meglio. E ringrazia che sono un romanticone, adesso te la faccio io una proposta. Mi senti?"

"Sì, ti sento…"

Rispose lui con voce fioca. Sapeva già di non avere alternative e che avrebbe dovuto accettare a prescindere.

"Ce stanno un po' de persone che, come te, se sentono de potermi prendere in giro. Me devono dei soldi e nun vojono paga'. Tu va' da loro, convincili, e io, se me gira bene, te faccio incontrare Simone. So sicuro che anche lui muore dalla voglia de rivederti."

Le ultime parole di Sbarra si arrampicarono come brividi lungo la sua schiena, Manuel sapeva che non erano casuali, non lo erano mai. Cosa cazzo sta facendo passare a Simone?, pensò.

"Va bene, sì, lo faccio. Dammi gli indirizzi e ci vado…"

"Vedi che ho ragione e che questo metodo funziona? Faremo tante belle cose, io e te…"

Così dicendo prese a scrivere su un pezzetto di carta, ma venne interrotto quasi subito da una telefonata, al termine della quale si alzò.

"Zucca, andiamo, ce sta quella cosa da fare. Manuel, tu m'aspetti qui, vero? Cinque minuti e torno, così ti do la lista. Mi raccomando, nun tocca’ niente."

Entrambi si allontanarono, lasciando Manuel da solo con la donna di Sbarra a tenerlo d'occhio. Di certo lei non era Zucca, ma Manuel era così spaventato al pensiero di fare un passo falso, che l'idea di poter sfruttare il momento per salvare Simone venne accantonata immediatamente. Anche volendo, poi, lo sfascio era pieno degli uomini di Sbarra, sarebbero stati fermati ancor prima di poter raggiungere il cancello.

"Te sei Manuel, giusto?"

Domandò la donna, che fino a quel momento era stata a sistemarsi le unghie. Il ragazzo quasi trasalì a sentirne la voce, gli aveva sempre dato l'impressione di essere una bambolina e basta, era come se adesso gli avesse parlato una Barbie.

"Sì, sono Manuel. Che vuoi?"

La donna accennò un sorrisetto.

"Voglio farti un favore. Alzati."

Si avvicinò alla scrivania di Sbarra, aprì un cassetto e vi prese un piccolo mazzo di chiavi. Manuel la osservava accigliato, non capiva cosa volesse fare. Aveva una speranza, però.

"Oh, ma te vuoi move? Guarda che Sbarra non starà via pe’ molto. Vie' con me."

E Manuel finalmente si alzò, seguendola nella stanza accanto all'ufficio -dove lei si fermò a prendere una bottiglietta d'acqua- e poi ancora fino ad un'altra porta. Manuel sapeva cosa, o meglio chi, ci fosse dall'altra parte, ma non aveva intenzione di aggiungere l'ingenuità agli errori di quel giorno. Fermò quindi la donna prima che potesse aprirla.

"Guarda che qua dentro ce sta Simone, eh."

"E questo l'avevo capito, ma non capisco perché tu me lo voglia fa' vede'. Non hai sentito l'uomo tuo? Se ne parla la prossima volta…"

Cercò di dissimulare il rammarico nella sua voce, ma non fu sicuro di riuscirci bene. La voglia di abbracciare Simone era troppo forte, non era facile nasconderla.

La donna alzò gli occhi al cielo.

"Sì che l'ho sentito, perciò ti ho portato qui. Ti ho detto che voglio farti un favore, non ti sta bene?"

"E no che non mi sta bene, perché i favori poi si devono ricambiare e io non so cosa tu voglia da me."

Replicò, con una punta di sarcasmo. La gente come Sbarra non faceva mai niente per niente, ormai l'aveva imparato.

"Senti, Manuel, Sbarra non starà via a lungo, se ci tieni a vede' Simone devi deciderlo adesso. Se vuoi un consiglio, lasciami aprire ‘sta porta."

Si fissarono negli occhi per qualche istante e Manuel vi lesse, inaspettatamente, una determinazione sincera. Sembrava ci tenesse davvero a fargli incontrare Simone e forse, se davvero era così, evidentemente sapeva qualcosa più di lui. Le lasciò la mano, in modo che potesse girare la chiave.

"Me dispiace, te posso dà solo cinque minuti. E fallo bere un po', ma piano piano perché altrimenti se sente male."

Così dicendo gli porse la bottiglia e aprì la porta subito dopo. Manuel si ritrovò davanti ad una stanza buia, ma non appena la donna di Sbarra accese la luce, sentì il proprio cuore saltargli in gola.

Davanti a lui, all'altro capo di quello che capì essere uno stanzino, c'era Simone seduto a terra, con il capo reclinato leggermente in avanti. Sembrava addormentato, tuttavia una persona che dorme solitamente si sveglia quando all'improvviso viene accesa una luce, mentre Simone non reagì in alcun modo. Non era addormentato, era svenuto.

"Simo! Oh, Simo!"

Esclamò, precipitandosi accanto a lui. Si mise in ginocchio per essere alla sua altezza e gli sollevò il viso prendendolo delicatamente tra le mani.

La prima cosa che notò fu il grosso ematoma all'altezza dello zigomo sinistro, gli copriva quasi tutta la guancia, per cui preferì dargli qualche colpetto sul lato destro, per evitare di fargli male.

La seconda, furono le manette che lo tenevano legato al tubo dietro di lui, perché provò a spostarlo un po' e non ci riuscì.

"Simo, cazzo, svegliati! Nun me fa scherzi…"

La voce gli tremava per la paura e sentiva gli occhi già pieni di lacrime quando finalmente Simone riaprì i suoi. Manuel gli sorrise a trentadue denti e Simone, dopo qualche istante di confusione passato a sbattere le palpebre per il fastidio causato dalla luce, lo ricambiò. Doveva essere un altro di quei momenti bellissimi in cui Manuel gli faceva visita tra il sonno e la veglia, sì. Questa volta, però, si accorse che le mani di Manuel, morbidissime sulle sue guance, erano molto più calde.

"Ciao, Simo'."

Riuscì appena a sussurrare, troppe erano le parole che gli affollavano la testa e poco il tempo per dirle tutte. Una cosa, però, era più importante delle altre.

"Te lo giuro, ti porterò fuori di qui. Ti riporterò a casa, fosse anche l'ultima cosa che faccio. Me dispiace, me dispiace da morire…"

Simone si lasciò cullare da quella promessa rassicurante, anche se era soltanto frutto della sua fantasia, e da quelle carezze delicate che Manuel aveva preso a fargli con il pollice sulla guancia sana. Erano più belle del solito e gli mancavano tanto.

"Vorrei che tu fossi davvero qui, lo sai?"

Mormorò con un filo di voce e Manuel si accigliò, preoccupato. Che Simone non stesse nelle migliori delle condizioni lo aveva messo in conto, ma la situazione adesso gli sembrava molto più critica.

"Che vuoi dire, Simo'? Guarda che io sto qua per davvero, eh."

Gli sorrise incoraggiante, passandogli la mano libera tra i capelli. Erano sudatissimi, in quella stanza faceva un caldo infernale, ma non se ne curò minimamente.

Simone scosse il capo in maniera quasi impercettibile.

"Lo dici sempre, ma poi scompari. Non fa niente, però, va bene così."

No, per Manuel non andava un cazzo bene se Simone aveva le allucinazioni. In lui, il desiderio di spaccare la testa a Sbarra era solo di poco inferiore a quello di prendersi cura di Simone.

"No, no, guarda, stavolta non è così. Adesso ti dimostro che sono vero."

Disse dolcemente, interrompendo le carezze soltanto per prendere la bottiglia che aveva lasciato a terra e aprirla. Portò una mano dietro la testa di Simone, con delicatezza, mentre con l'altra gli avvicinò l'acqua.

"Bevi un po', mh? L'acqua è reale, senti? E lo sono anch'io."

Mentre Simone beveva, lasciò vagare i suoi occhi su di lui: indossava la tuta che usava per gli allenamenti di rugby, la stessa tuta che Manuel più di una volta si era preso il tempo di sfilare, sporca di terra e chiazzata di sudore in alcune parti - in quello sgabuzzino si moriva di caldo- ma fu una particolare macchia ad attirare la sua attenzione.

Serrò la mascella, sentendo la rabbia montargli dentro quando realizzò che quello stronzo di Sbarra non lo lasciava nemmeno andare in bagno e Simone era costretto a pisciarsi addosso.

Spostando lo sguardo ancora più giù, vide che le sue gambe erano piene di lividi ed era certo che ne avrebbe trovati altri, se avesse sollevato la maglietta. Sbarra gliel'avrebbe pagata.

"Adesso mi credi?"

Domandò sorridendogli, spostando momentaneamente la bottiglia dalle labbra di Simone. Preferì mettere la rabbia da parte per quel momento, che doveva essere soltanto loro.

Simone gli sorrise di rimando, il primo vero sorriso in quei giorni bui, con le lacrime agli occhi.
"Sei...sei davvero qui!"

Balbettò, felicissimo. Si spinse verso di lui, potendo soltanto poggiare la fronte contro la sua, ma se avesse avuto le mani libere e se non fosse stato sporco dalla testa ai piedi lo avrebbe stretto a sé. La paura, il dolore, la sete e la fame scomparvero tutti quasi per magia a quel contatto. Se c'era Manuel, lui stava bene, sempre.

"Sì, sì Simo'. Paperotto tuo è qui."

Sussurrò Manuel senza smettere di sorridere e Simone ridacchiò.

"Pensavo ti facesse schifo questo soprannome."

"E pensavi male! Mi fa schifo tanto quanto mi fa schifo abbracciarti, cioè per niente."

Simone abbassò lo sguardo, pieno di vergogna. Era tutto sudato e sporco, sicuramente Manuel la pensava diversamente in quel momento.

"Non ti biasimerei, se adesso ti facesse schifo abbracciarmi…"

Manuel scosse il capo, incredulo. Sollevò il capo di Simone portandogli una mano sotto al mento, in modo da poterlo guardare di nuovo negli occhi. Come poteva anche solo pensare una cosa del genere?

"Simo', non fare il perfettone. T'abbraccerei anche se fossi ricoperto di spazzatura, non lo faccio soltanto per paura de farte male."

Il viso dell'altro ragazzo si illuminò di un bel sorriso, un sorriso che sciolse il cuore di Manuel.

"I tuoi abbracci non potrebbero mai farmi male."

Sussurrò e Manuel, allora, si sporse ad abbracciarlo dopo avergli chiesto il permesso con lo sguardo. Era vero, Simone era sporco e sudato, ma Manuel non avrebbe rinunciato a stringerlo a sé per niente al mondo. Erano uniti in un modo che nulla poteva separare.

Simone, per la prima volta dopo giorni, rilassò ogni muscolo del suo corpo, cuore compreso. Era tutto tornato al suo posto, anche se c'era ancora tutto da risolvere.

"Ascoltami, non sei tu che ti devi vergognare, capito? È quello stronzo di Sbarra che deve vergognarse de respirare ancora."

Sussurrò Manuel al suo orecchio, senza separarsi da lui. Simone annuì piano, anche lui ben poco intenzionato a rompere quel contatto. Restarono stretti ancora per un po', con Manuel che accarezzava la schiena di Simone per quanto gli era possibile, quando furono interrotti dalla donna di Sbarra.

"Ragazzi’, me dispiace, ma il tempo è scaduto. Sbarra sta tornando, spicciate."

Manuel sciolse a malincuore l'abbraccio e anche l'espressione di Simone si fece più triste. Gli diede un bacio a fior di labbra e per un attimo sentì il sapore del ferro.

"Torno presto, te lo prometto. E ti riporterò a casa."

"Ti aspetto."

Rispose l'altro e i due si scambiarono un dolce sorriso, pieno di futuro.

Manuel poi si sbrigò a tornare nell'altra stanza e Simone rimase di nuovo solo, al buio. Poggiò la testa contro al muro e chiuse gli occhi, lasciando che il suo corpo si beasse della sensazione lasciata da quello di Manuel e che la sua mente lo cullasse con un bel ricordo.

"Ah, ecco dov’era finita la mia maglietta!"

Esclamò Simone, voltandosi per sventolare la sua maglia a righe rosse e blu in direzione dell'altro ragazzo.

La stanza di Manuel era qualcosa di molto simile ad un campo di battaglia: i suoi vestiti erano sparsi un po' ovunque, per non parlare dei libri, dei dischi e di tante altre cianfrusaglie che Manuel nemmeno ricordava di possedere. In ogni spazio libero c'era almeno uno scatolone, pronto per essere riempito. Lui e Anita erano in procinto di trasferirsi a Villa Balestra e Simone si era offerto ben volentieri di aiutare il suo ragazzo nei preparativi.

Manuel, che era di spalle, si voltò e mise su un'espressione che ricordava quella di un bambino beccato con le mani nella marmellata.

"Ah, sì, quella. Scusami, è che poi sei partito pe Glasgow, ce so stati quei casini e me so' dimenticato di restituirtela."

Disse con nonchalance, tornando a concentrarsi sui dischi che aveva appoggiato sulla scrivania per non incrociare lo sguardo di Simone. Era la maglietta che Simone gli aveva prestato quando lo aveva soccorso dal pestaggio di Zucca ed effettivamente Manuel si era dimenticato, almeno in un promo momento, di riportargliela.

Simone, comunque, non era intenzionato a dargliela vinta così facilmente: posò la maglietta sul letto e si avvicinò di soppiatto alle spalle del suo ragazzo, lasciandogli un bacio sul collo prima di poggiare il mento sulla sua spalla. Manuel sorrise istintivamente.

"Pensavo non ti piacesse il mio modo di vestire. Sbaglio o hai detto che è strano?"

Disse per punzecchiarlo, intuendo che ci fosse qualcosa sotto. La sua intuizione fu confermata dal leggero rossore che colorò le guance di Manuel. A Simone vennero in mente gli angioletti dipinti che spesso si vedono negli affreschi delle chiese o nei quadri. Quello che stava stringendo tra le braccia era un angioletto un po' inusuale, sicuramente troppo cresciuto, ma era il suo preferito.

Qualcuno non avrebbe esitato ad etichettarlo come angelo caduto, ma per Simone era il più santo, il più sacro. Manuel era un Lucifero a cui era stata data una seconda possibilità e che era tornato a diffondere la sua luce ovunque andasse. Era bastato semplicemente dargli più amore per farlo tornare a splendere.

"E infatti mica me la so’  rimessa! È troppo da perfettone, io mica me vesto così!"

Ribatté l'altro, sforzandosi di suonare convincente. Simone fece una risatina dolce.

"Mi fa piacere sapere che una piccola parte di me sia rimasta qui con te anche mentre eravamo lontani."

Sussurrò, riferendosi non solo alla distanza fisica, ma soprattutto a quella emotiva, quella che aveva fatto più male.

"Se vuoi te la lascio per ricordo, comunque."

Aggiunse più scherzoso e Manuel scoppiò a ridere. Si voltò nel suo abbraccio e portò le proprie mani sui fianchi di Simone per stringerlo a sé. No, aveva molto di meglio di una maglietta, adesso.

"E che me ne faccio di un ricordo, se adesso ci sei tu, ci siamo noi?"

Mormorò, avvicinandosi poi per baciarlo a fior di labbra e subito quel bacio venne approfondito.

In entrambi si stava facendo strada l'idea di lasciar perdere gli scatoloni per un po', ma non avevano fatto i conti con Anita, che per fortuna bussò prima di entrare. Era a conoscenza della loro relazione ed era esattamente questo il motivo per cui aveva imparato a bussare ogni volta che i due erano in stanza da soli.

Manuel sbuffò, separandosi controvoglia da Simone.

"Che c'è, ma'? Entra!"

La donna entrò in camera con un bel sorriso stampato in volto e una scatola colorata in mano. Manuel fece una smorfia quando la vide.

"Guarda che ho trovato, Manuel! Pensavo le avessimo perse quando ci siamo trasferiti qui…"

Disse lei, allegra. In realtà quella scatola non era andata perduta, era stato Manuel a nasconderla accuratamente quando aveva iniziato a portare Chicca a casa le prime volte.

"Eh, magari le avessimo perse, ma'."

Borbottò lui e la madre gli scoccò un'occhiataccia.

"Ma che scorbutico! Vuoi vedere che a Simone invece fa piacere vederle?"

Simone si avvicinò incuriosito, ma Manuel si parò tra lui e la madre.

"No, non esiste! E poi non gli interessa, vero Simo'?"

Simone guardò divertito il suo ragazzo, doveva esserci qualcosa di veramente imbarazzante per lui in quella scatola a giudicare dal rossore del suo volto.

"Non so nemmeno di cosa state parlando, come faccio a sapere se mi interessa?"

Replicò furbetto e prima che Manuel potesse rispondergli, lo fece Anita.

"Sta facendo tutte queste storie per le sue foto da piccolo! Ti rendi conto?"

Simone scoppiò a ridere, mentre l'altro incrociò le braccia, sulla difensiva. Si aspettava un po' di collaborazione dal suo fidanzato!

"Faccio storie perché tu le fai vede’ a tutti! Lo vuoi capire che adesso sono cresciuto?"

Anita si avvicinò a fare una carezza su quel viso imbronciato. Difficile credere che suo figlio avesse diciassette anni, quando si comportava così.

"Ed è proprio perché sei cresciuto che questi sono ricordi belli e preziosi. Sono contenta di aver ritrovato questa scatola, sai?"

Manuel sbuffò, anche se la sua espressione si ammorbidì un po' sotto le carezze della madre.

"Se Simone mi lascia per colpa di queste foto, me la paghi."

Fu Simone, adesso, ad avvicinarsi per fargli una carezza. Più precisamente, per scompigliargli i capelli. Ma cosa andava a pensare quella testa riccioluta?

"Dopo tutta la fatica che ho fatto per mettermi con te, secondo te ti lascio per delle foto? Come se poi ci fosse qualcosa di male, dai."


"Ecco, bravo Simone, diglielo anche tu! Poi sono così carine, guarda…"

Si mise a sedere sul letto, facendo segno a Simone di sedersi accanto a lei e subito il ragazzo si accomodò. Manuel si sentiva rincuorato dalle sue parole, ma avrebbe voluto comunque sprofondare al centro della Terra.

Gli parve trascorsa un'eternità quando finalmente finirono di passare in rassegna le foto del primo bagnetto, della prima volta al mare, dei vari compleanni e perfino quelle della Prima Comunione, ma doveva ammettere a se stesso che vedere Simone illuminarsi ad ogni singola foto gli aveva riempito il cuore di gioia.

"Oh, finita 'sta passeggiata sul viale dei ricordi? No perché noi qui avremmo un trasloco da preparare, nel caso in cui ve lo foste dimenticato!"

Simone sollevò gli occhi al cielo, scuotendo divertito il capo, mentre Anita andò via lamentandosi dell'acidità di suo figlio. Il ragazzo si alzò per riprendere la preparazione degli scatoloni, ma prima si accorse che una foto era caduta a terra e si chinò a raccoglierla. La girò e ciò che vide gli illuminò il viso in un'espressione di pura tenerezza: ovviamente era una foto di Manuel, che stando alla data scritta a penna sul retro aveva sei anni, vestito da Paperino in occasione del Carnevale di quell'anno. Sorrideva felice, con qualche dentino mancante, nel suo costume da papero completo di blusa, cappello e ovviamente zampe palmate e coda piumata!

"Ma che carino che eri!

Esclamò, facendogliela vedere. Manuel assunse un'altra sfumatura di rosso.

"Ma che carino e carino, ero ridicolo! Guarda qua, co ste zampe giganti che c'inciampavo sempre e sto cappello più grande della mia testa! Al confronto, mo sono uno spettacolo!"

E Simone annuì, ma solo per l'ultima parte del suo discorso. Gli diede un bacio a fior di labbra, per farlo calmare.

"È vero che sei uno spettacolo, ma non che eri ridicolo. Con questi boccoli, poi, sembravi un angioletto."

Manuel fece una risatina.

"Eh, deve esse successo quarcosa nel frattempo."

Sospirò, pensando a quanto fosse innamorato di Simone per fare ciò che stava per fare. Con Chicca, ad esempio, non l'avrebbe mai fatto.

"Senti, sta foto piace più a te che a me, se vuoi te la puoi tenere... altrimenti la riporti a mi' madre, come vuoi."

Simone sorrise a trentadue denti, felicissimo. Poteva sembrare una piccola cosa ad occhi esterni, ma per lui era grandissima.

"Grazie, mi farebbe tanto piacere. La custodirò con cura."

Promise e così dicendo la infilò nel portafogli, in modo da tenerla sempre con sé. Manuel si sentì più protetto, con quel semplice gesto.

"Mo però dobbiamo davvero riprendere a lavorare, questi scatoloni non si riempiranno da soli!"

Simone annuì con decisione.

"Come dici tu...Paperotto."

Azzardò, rivolgendogli uno sguardo curioso, per vedere la sua reazione: Manuel si lamentò, ovviamente, ma Simone avrebbe potuto giurare di averlo visto sorridere appena un istante prima.

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Capitolo 7
*** Per poi dimenticare tutto il male ***


"Mi vuoi dire cos'è successo?"

Manuel era rientrato in casa di Claudio con l'aria di chi aveva tutta l'intenzione di far scoppiare una guerra. Deciso come una tempesta si era diretto subito in cucina e Claudio pensò che l'avesse fatto per prendersi qualcosa da bere, qualcosa di forte, quindi fu molto sorpreso quando invece lo vide fermo davanti alla sua vetrinetta delle tisane. Le scrutava tutte con occhi di fuoco, agitato, ma era chiaro che la sua agitazione risiedesse altrove.

"Ci penso io, dai, tu siediti e raccontami tutto."

Il ragazzo si spostò, lasciando che fosse l'avvocato a scegliere qualcosa che potesse aiutarlo almeno un po' a distendere i nervi, ma non si mise a sedere. Prese invece a misurare a grandi passi la stanza, facendo avanti e indietro come un leone in gabbia.

"Io a quello lo ammazzo con le mie mani, te lo giuro. Poi posso pure andare in galera, non me ne importa niente!"

Esclamò, e anche la sua voce sembrava il ringhio di un leone ferito e arrabbiato. Claudio sospirò pazientemente.

"Ti ricordo che in carcere non ci sarebbe Simone e sono sicuro che nessuno di voi due voglia separarsi dall'altro. Sbarra pagherà, ma lo farà con la giustizia, non con la vendetta."

Manuel fece una risatina amara. Se ci fosse stata giustizia al mondo, ci sarebbe stato lui in quello sgabuzzino buio e afoso al posto di Simone. Claudio però aveva ragione su una cosa, e cioè che non voleva assolutamente stare ancora lontano dal suo ragazzo.

"Dici così perché non hai visto Simone! Lo volevo strozza', a quello stronzo de Sbarra…"

Ringhiò ancora, dando un calcio alla gamba del tavolo che fece tremare le tazze che vi erano poggiate sopra.

Claudio non si scompose, era giusto che Manuel si sfogasse ora che poteva, e riempì quelle stesse tazze con la bevanda calda. Solo allora Manuel si sedette, o meglio, si accasciò sulla sedia.

"Quindi tu l'hai visto? Sbarra te l'ha fatto incontrare?"

Manuel scosse il capo e bevve un sorso di tisana. La riconobbe, era la preferita di Simone e sentì gli occhi inumidirsi, di certo non per il sapore deciso dello zenzero.

"No, non lui, ma la donna sua sì. Sbarra era uscito un attimo e lei mi ha portato da Simone. Non so perché l'abbia fatto, ma sinceramente non m'importa. Lo tengono chiuso in uno stanzino più piccolo de 'sta cucina, Cla', ammanettato come un criminale e…"

L'immagine di Simone ferito e sporco, lasciato da solo al buio con le sue allucinazioni -allucinazioni, cazzo- gli tornò vivida davanti agli occhi e gli fece morire la voce in gola. Provò a chiuderli per scacciarla, ma fu inutile. Era giusto così, però, perché era soltanto colpa sua se Simone si trovava in quel casino e lui non aveva alcun diritto di provare ad ignorarlo. Non voleva ignorarlo.

"So' sicuro che non mangi da giorni e a stento ogni tanto je portano l'acqua. Non lo fanno manco anda' in bagno, ti rendi conto? Neanche i cani si trattano così!"

Le sue mani stringevano forte la tazza, così forte che avrebbero quasi potuto frantumarla, tanta era la rabbia che aveva in corpo, unita al dolore e alla consapevolezza di essere totalmente impotente.

"Quando so’ entrato dentro, all'inizio ha pensato che non fossi vero, mi ha fatto capire che non era la prima volta che mi vedeva. Solo che io là non c'ho mai messo piede prima de stasera."

Fissò Claudio negli occhi, per fargli capire quanto grave fosse la situazione. L'avvocato di solito era bravo a tenere a bada le sue emozioni, ma nei suoi occhi di ghiaccio Manuel poté cogliere tutta la sua preoccupazione nei confronti di Simone ed era effettivamente così, Claudio era estremamente preoccupato. Era molto affezionato a Simone e anche lui desiderava aiutarlo. Anche lui, se avesse potuto, avrebbe preso il suo posto senza esitare.

"La disidratazione può portare ad avere allucinazioni, se poi ci aggiungi anche il trauma del rapimento…"

Si interruppe subito, perché era chiaro che a Manuel non interessasse una spiegazione scientifica o psicologica. Non gli era utile, ciò di cui aveva bisogno era supporto.

"Ti giuro che se servisse davvero a qualcosa ti terrei fermo Sbarra per fartelo strangolare, ma ti ho già spiegato perché la vendetta non è una buona soluzione."

Manuel accennò uno sbuffo divertito, poi bevve un altro po' di tisana. Voleva soltanto salvare Simone, ma non sapeva come fare.
"Cosa proponi, allora?"

Claudio scrollò le spalle.

"Cos'altro è successo, stasera? Sbarra ti ha detto qualcosa?"

Il ragazzo annuì, Sbarra in realtà gli aveva detto un bel po' di cose.

"Per prima cosa s'è preso i soldi che gli ho portato e mi ha dato questi…"

Posò i mille euro -avvolti con un elastico- sul tavolo, non li voleva nella propria tasca un istante di più.

"...dicendomi di usarli per portare fuori a cena 'il mio pischello'."

Sospirò, affranto, abbassando poi lo sguardo verso il tavolo.

"Sa tutto, Claudio, mi ha pure fatto vedere una foto nostra che ha preso dal telefono di Simone. Adesso è sicuro de tenermi per le palle e io ho paura di cosa potrebbe chiedermi dopo. Sa che lo farei per forza, con Simone in mano sua e c'ha pure ragione, perché farei de tutto."

Claudio gli fece una carezza sulla schiena, comprensivo, perché capiva che quel ragazzo, in quel momento, si sentiva tutto il peso del mondo addosso.

"E per adesso, invece, cosa ti ha chiesto di fare?"

Manuel scrollò le spalle e si alzò, andando a recuperare lo zaino che aveva lasciato all'ingresso della cucina.

"M'ha dato gli indirizzi de un po' de gente che non vole paga', li devo minacciare con questa."

Mise sul tavolo, accanto ai soldi, la pistola avvolta da un panno che Sbarra gli aveva dato. Claudio sollevò gli occhi verso di lui, preoccupato.

"E tu che farai?"

"Che vuoi che faccia? Ci vado, no?"

Si morse il labbro, sentendo una stretta d'ansia intorno al proprio stomaco.

"L'ultima volta che mi ha chiesto de fa' una roba simile è stata un fallimento, ho avuto paura e non ce so' riuscito. Stavolta però è diverso."

Quella sera di qualche mese prima con lui c'era Simone e nello sguardo che si erano scambiati mentre lui si avvicinava al negozio aveva trovato un motivo per non andare oltre, per non fare una cazzata. Poi da quel tizio c'era tornato, da solo, perché aveva bisogno di sentirsi grande dopo la rottura con Alice, e gli era partito un colpo che per fortuna non aveva ferito nessuno, ma che a lui ogni tanto ancora sembrava di sentire.

Se avesse ammazzato quell'uomo, quel padre di famiglia, non sarebbe riuscito a dormire la notte. Lui non era così, non era come Sbarra voleva che fosse, era come Simone lo vedeva con i suoi occhioni pieni d'amore.

Almeno, voleva essere così.

"E cosa farai se una di quelle persone si rifiutasse di pagare? Se le minacce non dovessero bastare?"

Domandò Claudio, accigliato. Aveva paura che Manuel potesse compiere un gesto di cui si sarebbe pentito, un gesto che gli avrebbe fatto imboccare una strada difficile da ripercorrere in senso opposto. Manuel sbuffò, nervoso.

"Allora 'sta pistola la userò per davvero. Non mi sembra d'ave' alternative, no?"

Voleva essere come lo vedeva Simone, ma era proprio per lui che doveva trasformarsi in ciò che invece voleva Sbarra. Non gli piaceva l'idea di dover far male a qualcuno, ma Simone stava soffrendo, stava impazzendo, e Manuel non poteva sopportarlo. Non gliene fregava un cazzo della legge morale, con Simone in quelle condizioni.

"Manuel, ti prego, pensa alle conseguenze…"

Provò a dire Claudio, ma il ragazzo lo interruppe sbattendo una mano sul tavolo.

"Ci penso alle conseguenze, a quelle che pagherebbe Simone se Sbarra non avrà i suoi cazzo di soldi! Sei tu che dovresti pensarci, perché io non riesco a fare altro!"

Urlò, riversando tutta la sua frustrazione sull'avvocato. Gli tremava la voce, ma gli occhi erano più fermi che mai. C'era il fuoco dell'amore, in quegli occhi, e Claudio temeva che Manuel potesse scottarcisi.

"Anch'io ci penso, ma penso anche a te perché a quanto pare tu non pensi a te stesso. Rovinarti per salvare Simone non è una soluzione, capito?"

Sospirò.

"Senti, tu sai quanti soldi queste persone devono a Sbarra?"

"Sì, mi ha dato una lista…"

Manuel sospirò per sbollire la rabbia, poi gli porse un foglietto ripiegato che si era messo in tasca su cui erano riportati nomi e indirizzi di cinque persone con le relative cifre che dovevano pagare. Agitava nervosamente una gamba, nell'attesa che Claudio gli proponesse una soluzione alternativa. Non aveva cambiato idea, però, se fosse stato necessario avrebbe fatto ciò che doveva, perché l'unica cosa che contava era salvare Simone, anche a costo di rovinarsi la vita.

"Facciamo così: tu andrai da queste persone e non per minacciarle, ma per proporre un accordo. I soldi per pagare Sbarra ce li metto io, loro dovranno soltanto saldare il debito, così quell'infame avrà i suoi soldi e tu non dovrai sparare a nessuno. Che dici?"

Manuel scosse il capo, poco convinto.

"E che facciamo se questi, invece de paga' Sbarra, se intascano i soldi e basta? E poi scusa, ma non è una cifra un po' alta?"

Claudio mosse una mano in aria per scacciare quell'obiezione. Capiva che per il ragazzo fossero tanti soldi, ma per lui non era un grande problema darli via, soprattutto se doveva farlo per quei due ragazzi a cui si era tanto affezionato.

"Non finirò in bancarotta, non ti preoccupare, ma anche in quel caso lo farei volentieri. Però hai ragione, meglio aggiungerci un piccolo incentivo così da evitare furbate. Va meglio?"

Propose con un sorriso e Manuel annuì, sollevato e commosso. Claudio era davvero una brava persona, e dire che solo poco tempo prima gli avrebbe spaccato volentieri il naso.

"Non so se sei un folle o un santo, ma in ogni caso ti devo ringraziare…e ti prometto che troverò un modo per ripagarti."

Mormorò, accennando un sorrisetto. Claudio, invece, fece una risatina.

"Non sono né l'uno né l'altro, voglio solo aiutarvi. E tu, se vuoi ripagarmi, adesso mangi qualcosa e poi fili a letto, ok? Non accetto un no come risposta."

Manuel non poté fare altro che accettare la proposta, anche se il cibo non aveva più lo stesso sapore e il suo stomaco era più chiuso che mai, ma doveva sforzarsi di mangiare lo stesso per restare in forze. Certo, se avesse potuto, avrebbe portato volentieri a Simone quel piatto di carbonara fumante che Claudio gli mise davanti poco dopo.

Trascorse le tre sere successive ad incontrare le persone sulla lista di Sbarra, a spiegare loro per sommi capi la situazione e con sua grande sorpresa pagarono tutte e senza farsi aspettare. Bastò infatti soltanto un ulteriore giorno prima che Manuel si ritrovasse il numero di Sbarra sul display del cellulare. Gli diede appuntamento quel giorno stesso, nel tardo pomeriggio, e Manuel fu puntualissimo. Consegnò il proprio cellulare a Zucca senza neanche farselo chiedere e si lasciò perquisire senza protestare. Zucca controllò anche il suo zaino e prese la pistola che gli era stata prestata, poi fece una risatina quando vide il resto del contenuto.

"Te ne vai a fa' na scampagnata, dopo? Che te sei portato?"

Manuel aveva pensato di portare un po' di cibo per Simone, era da troppi giorni che non mangiava, e sperava che Sbarra -per quanto stronzo- chiudesse un occhio. Forse era un'impresa destinata al fallimento, ma valeva la pena tentare.

"Niente, Zucca, a te che sembra? So' due panini e un po' d'acqua per Simone, Sbarra ha detto che oggi me lo faceva incontra'."

L'uomo richiuse ridacchiando lo zaino e glielo riconsegnò.

"Te sei un po' troppo ottimista, ragazzetto."

Lo condusse nell'ufficio di Sbarra, che come sempre era seduto alla scrivania. Manuel ebbe bisogno di fare appello a tutto il suo autocontrollo per non spostare lo sguardo verso la porta dello stanzino, non doveva fargli pensare che sapesse già dove fosse tenuto Simone.

"Ah, Manuel, sei già qua? Me spiace, ma te devo liquida' subito che so' pieno de impicci. Tie' questi sono per te, per il servizio che hai fatto."

Gli allungò una busta sulla scrivania, a cui Manuel non rivolse nemmeno uno sguardo. Era incredulo, non si aspettava che Sbarra lo cacciasse così in fretta. Forse troppo ingenuamente, si aspettava invece che rispettasse la sua parte di accordo.

"Stavo quasi per farteli portare da Zucca per non farti arrivare fino a qui, ma già che ci sei pijateli e vattene."

Ma Manuel non aveva alcuna intenzione né di prendere i soldi né di andarsene. Si avvicinò alla scrivania e vi sbatté le mani sopra, sporgendosi poi infuriato verso Sbarra. Zucca fece per intervenire, ma il vecchio lo fermò con un gesto. Guardava Manuel con aria di sfida.

"Stai cacciando le palle, ragazzi’? Che vuoi?"

"Non fare il finto tonto con me, lo sai benissimo cosa voglio. Voglio vede' Simone, me l'avevi promesso."

Ringhiò, tenendo gli occhi fissi in quelli di Sbarra. Sì, stava cacciando le palle, perché si era ricordato di una cosa che Claudio gli aveva spiegato e che aveva deciso di sfruttare a suo favore, per portare un po' di sollievo a Simone. Il vecchio fece una risatina.

"Non ho mai fatto promesse a nessuno in vita mia, figurati se iniziavo da te, che non sei un cazzo. T'ho detto che te l'avrei fatto vedere se mi girava, ma mo nun me gira. Vattene, prima che te libero il cane contro."

Manuel scosse il capo, facendo un sorrisetto furbo.

"E te conviene che te la fai girare bene, invece, perché ho portato del cibo per Simone e voglio che mangi."

Sbatté di nuovo una mano sulla scrivania, facendo tremare qualche cianfrusaglia poggiata lì sopra.

"È vero, finché c'hai lui mi tieni per le palle, ma se gli succede qualcosa io ti giuro che chiamo pure l'esercito e questo posto de merda te lo faccio smonta' rottame per rottame finché nun trovano tutta la droga che nascondi e poi vediamo chi terrà per le palle chi."

Manuel era furioso, ma quella furia era tenuta sotto controllo e la sua voce era ferma, sicura, affilata. Non stava supplicando il Diavolo, come aveva fatto l'altra volta, gli stava ricordando di poterlo rispedire all'Inferno.

Sbarra rimase sorpreso e sollevò le mani in segno di resa.

"Nun me sembra er caso de metterse a fa' queste minacce, no? C'hai ragione, t'avevo detto una cosa e tu c'hai messo er pensiero. Poi sei stato bravo, mi hai fatto arrivare quei soldi in fretta, ti meriti un premio. Zucca, fa' na cosa, accompagnalo da quell'altro, va'."
 
                                                                                                     *****
 
Simone, da quando aveva ricevuto la breve visita di Manuel -quello vero-, non era più riuscito a tenere il conto dei giorni che passavano. Era sempre più stanco e ciò che sentiva intorno a lui era sempre più confuso, gli era diventato difficile capire se il chiacchiericcio che lo aveva aiutato a scandire il tempo fino a quel momento provenisse davvero dall'ufficio di Sbarra o fosse ormai parte integrante dei propri pensieri. Ogni volta che chiudeva gli occhi -e avveniva sempre più spesso- era sempre meno sicuro che sarebbe riuscito a riaprirli da lì a chissà quanto.

Avrebbe trovato quella prospettiva confortante, in fondo morire nel sonno non era poi un brutto modo per andarsene, se non fosse stato per il pensiero che c'era Manuel ad attenderlo. Non voleva lasciarlo solo e allora si sforzava di resistere ancora, con un'energia che non aveva, combatteva contro il suo stesso corpo per opporsi all'impulso di lasciarsi andare. Sollevare le palpebre era diventato lo sforzo più grande della sua vita.

"Ao, svejate!"

Esclamò una voce, quella di Zucca, accompagnandosi con schiaffi poco gentili sulla guancia già livida. Simone, con molta fatica, si fece guidare fuori dal sonno e quando riaprì gli occhi trovò sia Zucca che Sbarra davanti a lui. Che cazzo vogliono, adesso?

"Certo che te dormi sempre, eh? Mo però te devi alza', te porto a fa' na cosa."

Disse Sbarra, mentre Zucca gli toglieva le manette e lo sollevava di peso. Per fortuna, pensò Simone, perché da solo non sarebbe riuscito ad alzarsi. Rivolse a Sbarra uno sguardo confuso, erano giorni che stava lì e non l'aveva mai fatto uscire, ma non ottenne spiegazioni.

Un po' spinto e un po' sostenuto da Zucca, uscì fuori dalla piccola baracca e subito chiuse gli occhi, accecato dal Sole di quel pomeriggio estivo. Era una bella sensazione, però, sentirlo di nuovo sul proprio viso.

"E muoviti, forza!"

Ringhiò Zucca, spingendolo per l'ennesima volta per farlo avanzare. Simone però non riusciva a camminare bene, un po' perché non vedeva dove andava a causa della troppa luce, e un po' perché le sue gambe erano stanche, quasi atrofizzate per il troppo tempo ferme.

Inciampò più di una volta nei suoi stessi passi, causando le risate dei suoi aguzzini che non lo aiutarono a rialzarsi, anzi Zucca si divertì anche a fargli uno sgambetto, di tanto in tanto. Ebbe molte occasioni di farlo, dal momento che si stavano addentrando sempre di più nello sfascio, in un labirinto di carcasse tutte uguali.

Quando arrivarono di fronte ad un muro, Simone si bloccò per la paura. Gli sembrava una scena d'esecuzione degna di un film. Sbarra e Zucca scoppiarono a ridere.

"Sta' tranquillo, ragazzi’, nun te vojamo mica ammazza’. T'abbiamo portato qua per farti fa' una doccia. Co sto caldo ce vole, no?"

Spiegò il vecchio e Simone si accigliò, perplesso. Non era una gentilezza che si aspettava, ma del resto non si aspettava nemmeno che quella fosse effettivamente una gentilezza.

"Una...una doccia?"

Biascicò, confuso. Sbarra alzò gli occhi al cielo, mentre Zucca lo afferrò per un braccio, trascinandolo verso il muro.

"Mettiamo le cose in chiaro, è stata mia figlia che ha insistito. T'ha preso in simpatia, poi sai come sono le donne, no? Hanno il cuore tenero e le avrai fatto tenerezza…"

"No, secondo me questo non lo sa come sono le donne. È un frocetto."

Commentò Zucca, mentre armeggiava con una pompa lì vicino e Sbarra rise, sprezzante.

"Beh, adesso lo sa. Forza ragazzì, a casa tua te lavi vestito? Te vuoi spoglia’ o no? Nun te preoccupa’, a noi ce piacciono le donne, nun te facciamo niente."

Simone, senza altra scelta, si chinò sui talloni per togliersi scarpette e calzini e quando tornò su gli girò la testa, facendogli annebbiare la vista e portandolo ad indietreggiare alla cieca verso il muro, in cerca di un qualche sostegno. Restò così per qualche secondo, ma poi Sbarra e Zucca cominciarono ad urlargli di sbrigarsi, che non avevano tutto il giorno, e allora fece un paio di passi in avanti -nonostante fosse ancora intontito- per sfilarsi la maglia.

Un dolore lancinante gli attraversò i muscoli indolenziti delle braccia quando le sollevò, tanto da mozzargli il fiato e fargli venire le lacrime agli occhi, che subito abbassò per non farle vedere. Fu in quel momento che per la prima volta notò tutti i lividi sul proprio corpo, alcuni ancora violacei o rossastri, mentre altri avevano già assunto una sfumatura verdognola, uno accanto all'altro come in una sorta di grottesco mosaico. Provò a tastare qualche punto, ma smise subito per le fitte che avvertì.

Ci sto bene, pensò, in mezzo a tutti questi rottami. Sono come loro, sono diventato uno di loro.

Con un ultimo sforzo fece scivolare giù anche i pantaloncini e i boxer, rimanendo completamente nudo, e istintivamente andò a coprirsi il pube con una mano, gesto di cui si pentì subito per le risate che causò.

Sentire gli occhi di quei due sul proprio corpo lo faceva sentire sporco in un modo che quella doccia non avrebbe potuto lavare via, si vergognava e nemmeno lui sapeva bene il perché. Forse perché era convinto che nella sua vita si sarebbe spogliato soltanto per amore, soltanto per essere guardato dalla persona che amava.

Ripensò alle parole di Manuel e ritrovò un po' di coraggio, ma perso nei suoi pensieri non si accorse che Zucca aveva aperto la chiave dell'acqua e venne investito da un getto gelido che gli fece perdere l'equilibrio -già precario- e scivolò a terra.

"Oh, ma dormi 'n piedi?"

Esclamò divertito Zucca, mentre Simone si rialzava dolorante.

"Tiè, pija questa!"

Sbarra gli lanciò una saponetta, che Simone afferrò maldestramente al volo e con cui prese ad insaponarsi rapidamente. Tremava come una foglia, non sapeva se più per l'imbarazzo e la paura o per l'acqua fredda che scorreva sul suo corpo, e non riusciva a tenere a bada i propri muscoli.

"Certo che è caruccio 'sto pischello, però, eh? Secondo me c'è chi pagherebbe per divertisse una notte co lui…"

Commentò Sbarra dopo un po', e Simone sentì il proprio cuore saltargli in gola e lì battere all'impazzata, come a voler uscire dalla bocca. Sperò con tutta l'anima che quella conversazione servisse soltanto a spaventarlo, che non portasse a nulla di concreto.

Zucca annuì, ridacchiando.

"Co tutti i depravati che ce stanno, se potrebbero fa bei soldi, sì."

Le restanti risatine e commenti cattivi di Sbarra e Zucca arrivavano ovattati alle orecchie di Simone, il quale cercò in tutti i modi di pensare ad altro: al sorriso di Manuel quando riusciva a risolvere un esercizio di matematica tutto da solo e lui gli faceva i complimenti, ai baci che si scambiavano tra un capitolo e l'altro di scienze, al modo in cui Manuel marcava volutamente l'accento romano quando si metteva a recitare le poesie sul loro libro di inglese, creando un contrasto buffissimo che faceva piegare Simone in due dalle risate e che anche adesso, in quella situazione, gli fece accennare un sorriso al solo pensiero. Pensava a Manuel, insomma, ai momenti passati insieme e ai tanti altri che ancora avrebbero vissuto.

In questo modo, prima che se ne rendesse conto, Zucca chiuse l'acqua e Simone si ridestò come da un sogno. Gli allungarono un asciugamano e dei vestiti, quelli che stavano nel suo borsone da rugby, poi gli dissero di mettere la roba sporca in una busta e lui obbedì.

Come prima, tra spinte e passi incerti, si ritrovò ad attraversare il labirinto di metallo fino a ritornare allo sgabuzzino che ormai conosceva bene e nonostante tutto ne fu felice, perché i suoi muscoli non reggevano più e non vedeva l'ora di potersi sedere.

Sospirò profondamente quando rimase finalmente da solo, in quel buio che stava diventando più familiare della luce e che gli permetteva di nascondere le lacrime da occhi indiscreti.

Aveva sempre sentito dire che piangere fosse liberatorio, eppure ogni volta che aveva pianto in quei giorni si era sentito solo peggio, perché avrebbe voluto che ci fosse stato qualcuno -no, non qualcuno, Manuel- ad asciugargli il viso e puntualmente non c'era.

Anche quella volta non fece eccezione, pianse per ore senza sentirsi meglio e aveva ancora le guance umide quando vide aprirsi la porta: Zucca entrò per primo e subito dietro di lui scorse un paio di occhi scuri che in un istante trasformarono quella prigione in una casa.

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Capitolo 8
*** In un 'ciao, amore' ***


"Manuel!"

Esclamò sorpreso, senza riuscire a trattenersi. Manuel gli rivolse uno sguardo veloce e un rapido sorriso, era il suo modo per dirgli di pazientare ancora un attimo.

"Ma che, sta pure legato? Togligli le manette, Zucca."

Disse deciso, guardando l'uomo senza un briciolo della dolcezza che fino ad un istante prima aveva rivolto a Simone.

"Nun se ne parla nemmeno, è già tanto che t'avemo fatto entra’ qua."

Zucca fece per andarsene, ma Manuel gli si parò davanti come un toro che partiva alla carica.

"Ti ho detto che gliele devi togliere. O mi vuoi dire che lo dovete tene' attaccato come quelle povere bestie che tenete fuori, perché non sapete gesti' un ragazzino?"

"Stai tirando un po' troppo la corda, attento che se spezza."

Ringhiò Zucca in risposta, ma fece comunque ciò che Manuel gli aveva detto.

Simone finse di volergli dare una testata, sfidando l'uomo di fronte a lui, un po' a sottolineare le parole che aveva detto Manuel. La sua sola presenza lo faceva sentire più forte, più vivo.

"Scherza tu, scherza, tanto poi queste te le rimetto."

Esclamò l’uomo, agitandogli le manette davanti agli occhi.

Manuel sorrise sghembo alla scena, preferendo però non commentare per non tirare ulteriormente la famosa corda. Non era il momento di fare una gara d'ego.

"Hai visto? Aveva paura che gli facessi nero anche l'altro occhio."

Disse soddisfatto Simone, quando finalmente rimasero soli. Manuel lo guardò sorpreso per un attimo, poi gli rivolse un sorriso furbetto, fiero di lui.

"Ah, ma allora sei stato tu! Ti meriti un premio per quest’azione valorosa!"

Si avvicinò rapidamente a Simone, posò lo zaino a terra e si sedette accanto a lui. Non volendo perdere altro tempo, subito catturò le sue labbra tra le proprie in un morbido bacio, come prima cosa. Come seconda cosa, avvicinò le mani a quelle del suo ragazzo, avendo notato che fino ad un attimo prima si stava massaggiando i polsi.

"Posso?"

L'altro annuì e Manuel avvolse con delicatezza i polsi di Simone tra le proprie dita, cominciando a fare dei piccoli massaggi circolari.

"Dimmelo se ti faccio male."

Non era poi così improbabile, dal momento che le manette lo avevano riempito di graffi. Simone, però, non sembrava sofferente, almeno a giudicare dal suo meraviglioso sorriso.

"Non potresti mai."

Si allungò a dargli un altro bacio, ora che poteva, e poggiò la fronte sulla spalla di Manuel. Restò così per un po', a lasciare che il suo ragazzo continuasse con quei piccoli massaggi, ma ad un certo punto volle di più.

"Mi sei mancato."

Sussurrò, facendo scivolare via le mani da quelle di Manuel per poterle portare dietro di lui e stringerlo in un abbraccio. Fu doloroso per i suoi muscoli indolenziti, ma ne valse la pena.

"Anche tu, Simo', anche tu. Mi manchi ogni giorno…"

Manuel avvolse subito con le braccia la sua metà che da troppo tempo era lontana, stringendola al proprio petto per far incontrare di nuovo i loro cuori.

Simone scoppiò a piangere, travolto da quell'amore, e per la prima volta da quando era lì si lasciò libero di singhiozzare, non gli importava di essere sentito da Sbarra.

"Senza di te, non so nemmeno distinguere i giorni...mi sento impazzire, Manuel. Se non dovessi farcela ad uscire di qui..."

Mormorò tra i singhiozzi, dopo un po', tremando come un bambino tra le braccia del suo ragazzo.

Manuel lo strinse di più a sé, perché al momento non poteva fare altro. Avrebbe dato tutto se stesso per fare in modo che quell’abbraccio bastasse a proteggere Simone da tutto e da tutti. Quelle parole furono per lui come spine conficcate nel cuore e se fino a quel momento era riuscito a trattenere il pianto -pensava che tra loro due soltanto Simone avesse il diritto di piangere e poi lo conosceva, se lo avesse visto singhiozzare si sarebbe preoccupato per lui trascurando se stesso-, lacrime calde cominciarono a scorrergli sulle guance. Anche lui aveva un tremendo bisogno di quell'abbraccio.

"No, Simo', non le devi manco pensa' queste cose, hai capito? Tu da qua ci uscirai con le tue gambe e presto, anche."

Era una promessa che stava facendo a Simone, ma era anche un impegno che ricordava a se stesso. Proprio mentre si recava allo sfascio, aveva cominciato a sviluppare una specie di piano per salvare Simone e anche se doveva ancora parlarne con Claudio, si sentiva un po' più sicuro in quella sua promessa.

Per Simone era facile non pensare a quelle cose adesso che era stretto da Manuel, piccolo piccolo tra le sue braccia, ma diventava molto più difficile quando lui era lontano.

"Portami via adesso, ti prego. Non ce la faccio più…"

Implorò, sollevando il capo quanto bastava per guardarlo negli occhi. Per Manuel quegli occhioni pieni di lacrime e di dolore erano una tortura, ma non osò spostare lo sguardo. Anche volendo, comunque, non ci sarebbe riuscito.

"Non posso, adesso non posso...me dispiace, Simo'."

Sussurrò, la voce rotta sotto il peso della colpa. Cominciò a baciargli il viso bagnato, sperando che potesse essergli di qualche conforto, ed in qualche modo funzionò perché le lacrime, così come erano arrivate, piano piano si arrestarono. Manuel però non mise fine ai suoi baci, almeno non fino a quando sentì Simone allentare la presa intorno al suo busto, segno che era un po' più calmo, adesso.

"Grazie...e scusa."

Mormorò, facendo una carezza sul fianco di Manuel. Sapeva perfettamente che l'altro, se avesse potuto, lo avrebbe tirato fuori di lì già da giorni e che quindi se non lo aveva ancora fatto aveva i suoi motivi, non avrebbe dovuto fare quell'assurda richiesta.

"No, Simo', questa è un'altra cosa che non devi nemmeno pensare. Non hai niente per cui chiedere scusa."

Lo guardava negli occhi -ancora lucidi-, determinato. Era assurdo, per lui, che Simone, perfino quando era indiscutibilmente la vittima, trovasse un qualche motivo per cui scusarsi. Si era scusato per aver mostrato a Chicca la sua foto con Alice, nonostante Manuel se lo fosse meritato per tutta la sofferenza che gli aveva causato, ed ora si stava scusando per aver espresso una sua paura, una paura che lui provava per colpa sua.

"Sono io che devo chiedere scusa a te, è a causa mia se adesso stai qua. Ho trascurato un lavoro per Sbarra e lui s'è vendicato. Non devi scusarti per ciò che provi, non dipende da te."

Prese una mano di Simone e, sollevandola cautamente, la portò alle labbra, baciandola con devozione. Simone accennò un sorriso e gli accarezzò l'arco di Cupido con il pollice.

"E perché hai trascurato questo lavoro?"

Chiese con dolcezza, per niente inquisitorio. Aveva già un'idea della risposta, perché Manuel nell'ultimo mese non aveva fatto altro che passare del tempo con lui, ma voleva che lo dicesse. Non per sentirselo dire, ma perché Manuel ascoltasse se stesso.

"Perché ho preferito stare con te. Non riuscivo a starte lontano."

Manuel sorrise imbarazzato nel dare quella risposta, un imbarazzo piacevole che nasceva dall'amore, quello delle farfalle nello stomaco.

"Allora non devi scusarti nemmeno tu. Va bene così."

Il sorriso di Simone si fece più ampio mentre andava ad abbassare la mano e la sostituiva con le proprie labbra.

Manuel avrebbe voluto ribattere che non era esattamente come diceva lui, ma Simone come sempre sapeva metterlo a tacere.

"Hai il brutto vizio d'esse’ troppo buono con me. Per quello che ti sto facendo passare, dovrei scusarmi fino alla fine dei tempi e manco basterebbe."

Mormorò Manuel sul suo viso, mentre i loro respiri affannati si intrecciavano.

Simone scosse appena il capo, più testardo dell'altro.

"Ti ricordi cosa ci siamo detti…"

Chiuse gli occhi per un istante, non voleva dire 'il giorno in cui mi hanno rapito' e si prese un attimo per cercare un’alternativa. Quando li riaprì, erano velati di malinconia.

"...la mattina del nostro mesiversario?"

Non era un riferimento meno doloroso, dal momento che non avevano avuto occasione di festeggiare, ma era pur sempre meglio di ricordare quella forzata separazione che ancora gravava su di loro.

Manuel annuì, anche lui con gli occhi coperti dallo stesso velo. Certo che si ricordava, ricordava ogni minuto di quella mattina splendida. Così come ricordava ogni istante di quella terribile sera.

"Sì, ti ho promesso che avrei trovato una soluzione con Sbarra, che avrei chiuso. Certo, avrei dovuto pensarci prima…"

Simone, con un certo sforzo, prese il viso di Manuel tra le mani. Le sue guance erano ancora un po' bagnate e lui aveva tutta l'intenzione di far andare via le lacrime da quel volto amato. La barbetta dell’altro gli solleticava la pelle, una sensazione di cui non si sarebbe stancato mai.

"Avevi già iniziato a farlo, solo che io non lo sapevo e tu non te ne rendi conto nemmeno adesso. Hai scelto noi, non devi scusarti per questo."

Manuel sollevò una mano per poggiarla su una di quelle di Simone ed accarezzarla. Di solito scherzava sul fatto che quelle mani fossero quasi più grandi della sua faccia, ma apprezzava sempre tantissimo sentirle su di sé. Accennò un sorriso mesto, continuava a pensare che Simone lo stesse perdonando troppo facilmente.

Simone intercettò quei pensieri dietro i suoi occhi e alzò i propri verso il cielo per un istante.

"Senti, hai scelto me al posto di Sbarra, qualsiasi fidanzato sarebbe contento, no?"

Disse divertito e Manuel, a questo punto, non poté fare altro che mettere da parte i propri pensieri e ridere.

"Ma te da quando sei così cazzaro? Pure prima, con Zucca, che hai fatto finta de dargli una testata…"

Simone ridacchiò, facendo spallucce.

"Non saprei di preciso, da quand'è che ti conosco?"

Manuel rise di nuovo e Simone si unì alla sua risata in un attimo. L'ultima volta che le loro risate avevano riempito una stanza erano in camera di Simone -che ormai era di Simone e Manuel- a scambiarsi baci illegali e nessuno di loro due sapeva che sarebbe stata l'ultima. L'ultima fino a quel momento, almeno.

"Allora vedi che avevo ragione? Ti ho fatto diventare meno stronzo!"

Esclamò Manuel, tra gli strascichi della sua stessa risata. Simone lo guardò sollevando un sopracciglio, con lo stesso divertimento.

"Potrei dirti la stessa cosa, anzi te la dico! Ho risolto la domanda Manuelica."

E Manuel, allora, si sporse a dargli un bacio a fior di labbra.

"Manuel ringrazia."

Sussurrò, innamorato. Gli diede un altro bacio, poi si spostò quanto bastava a prendere lo zaino. Era andato lì con uno scopo preciso, in fin dei conti.

"Senti, io non so per quanto tempo Sbarra mi farà ancora stare qua, che ne dici di mangiare un attimo prima di riprendere a fare i cazzari?"

Simone sgranò gli occhi, sorpreso. Non se lo aspettava, ma in fondo era piuttosto stupido da parte sua non aspettarsi che Manuel facesse una cosa del genere.

"Mi hai portato da mangiare?"

"Certo! Che, te pare che te lasciavo digiuno?"

Aprì lo zaino, allungando per prima cosa a Simone una bottiglietta d'acqua dopo avergliela aperta. A Simone non passò inosservata quella premura, che gli fece nascere un sorriso sulle labbra. Era così facile sorridere, quando stava con Manuel.

"Allora, lo chef propone panini pollo e insalata, prosciutto e formaggio, salmone e maionese. Premesso che te li devi magna' tutti altrimenti lo chef s'offende, da quale vuoi cominciare?"

Simone si prese qualche momento per bere -moriva di sete, neanche a dirlo-, poi poggiò la bottiglietta a terra e fece spallucce.

"Scegli tu, per me è uguale."

Manuel annuì e tirò fuori la busta con i panini, tutti accuratamente avvolti dalla pellicola da cucina. Opera di Claudio, ovviamente, lui di solito ci litigava con quella roba.
Simone fece una risatina quando li vide.

"Questi non sono panini, sono bastoni! Ma quanto sono grandi, scusa?"

Manuel alzò gli occhi al cielo.

"Scusami, devo essermi perso un passaggio: per caso qua te servono arrosto tutti i giorni?"

Simone scosse il capo, con un sorriso appena accennato sul volto.

"No, non lo fanno…"

"Eh, allora non protesta' e magna, che ne hai bisogno."

Manuel gli parlò con gli occhi che traboccavano di premura e si sporse a dargli un bacio a fior di labbra. Avrebbe voluto poter fare di più.

"Grazie, Paperotto."

Sussurrò Simone, con dolcezza, e l'altro gli sorrise di rimando. Tentò poi di sollevarsi un po' sulle braccia per sistemarsi meglio contro il muro e il suo volto si contrasse in una fitta di dolore. In un attimo Manuel gli fu accanto per sostenerlo.

"Oh, che c'è?"

Chiese preoccupato, anche se poteva immaginare la risposta. Simone sospirò profondamente, in attesa che le fitte passassero.

"C'è che mi fa male ovunque. Che rugbista penoso che sono, eh?"

Rispose con un'autoironia che aveva il sapore della rassegnazione e Manuel si sentì morire dentro. Se avesse potuto, avrebbe scambiato il proprio corpo con il suo, per farsi carico del suo dolore.

"No, neanche un po'. Tranquillo, dai, poggiati a me."

Si sistemò dietro di lui, cautamente, e con delicatezza lo aiutò a poggiare la schiena sul suo petto. Simone sospirò sollevato a quel contatto, il petto di Manuel era decisamente più comodo del muro.

"Peso?"

Domandò, sollevando lo sguardo verso il suo ragazzo. Manuel scosse il capo, sorridendo dolcemente.

"Simo', è il vuoto che pesa, non tu. Te sei il peso più leggero del mondo."

Sussurrò, facendogli una carezza tra i corti ricci che ricadevano sulla fronte.

"Adesso mangia, così starai meglio."

Gli allungò un panino, dopo avergli tolto un po' di pellicola. Simone lo prese, ma non iniziò a mangiare subito, prima lo fissò per qualche secondo.

"Però non posso mangiare da solo, è deprimente, no?"

Disse, ripetendo più o meno le parole che Manuel gli aveva detto la prima volta che avevano cenato insieme. Aveva una gran fame, non poteva negarlo, ma il bisogno di condividere un pasto con Manuel era ancora più forte. Per lui significava un piccolo ritorno alla normalità, gli dava speranza.

Manuel accennò un sorriso, riconoscendo la sua stessa citazione, e poi fece un profondo respiro. Intuiva le motivazioni che spingevano Simone a fargli quella richiesta, anche lui aveva voglia di normalità.

"Sei te che hai bisogno de magna', non io, però...dai, damme un pezzetto, così ti faccio compagnia."

Simone sorrise a trentadue denti, estremamente grato, e spezzò un pezzo di panino per darlo al suo ragazzo.

Mangiarono in silenzio, Simone era troppo affamato per parlare e Manuel si prese quel tempo per osservare Simone, mentre gli accarezzava un fianco con una mano, delicatamente. Si accorse solo in quel momento che l'altro non indossava più la tuta degli allenamenti e non era neanche sporco come l'ultima volta che l'aveva visto. Si accigliò leggermente, perplesso, ma se Simone aveva avuto la possibilità di lavarsi, ne era contento.

"Ma dimme 'na cosa, t'hanno fatto lava'?"

Chiese mentre gli porgeva il secondo panino.

Simone ebbe un attimo di esitazione, non sapeva se dirgli proprio tutto. Per lui non era stata un'esperienza piacevole, anche per le cose che aveva sentito dire a Sbarra e a Zucca, ma non voleva far preoccupare ulteriormente Manuel.

"Sì, mi hanno portato a fare una doccia."

Rispose sbrigativo, dando subito un morso al pane per avere la bocca occupata. A Manuel quella reazione non convinse.

"Simo, t'hanno fatto qualcosa? Ti prego, se è successo qualcosa me lo devi dire…"

Simone scosse il capo, per poi buttare giù il boccone. Il problema era che se gli avesse riferito i commenti che quei due avevano fatto su di lui, sul suo corpo, Manuel avrebbe fatto il pazzo e si sarebbe messo nei guai.

"No, no, non mi hanno fatto niente, tranquillo."

In fin dei conti non era nemmeno tanto una bugia, materialmente Sbarra e Zucca non l'avevano neanche sfiorato.

"È stato solo un po' imbarazzante, ma...niente di grave, non ti preoccupare."

Manuel spostò leggermente il capo per osservare la sua espressione, per cogliere in quegli occhi grandi e bellissimi le parole che la bocca di Simone non pronunciava. Simone, però, teneva lo sguardo basso, fisso sul panino, e Manuel non poté vedere molto. Tornò sospirando nella posizione di prima e poggiò le labbra tra i ricci morbidi del suo ragazzo.

"Sei coraggioso, lo sai?"

Sussurrò dolcemente, riprendendo anche ad accarezzargli il fianco. Simone si sentì avvampare per l'imbarazzo, lui non si sentiva affatto così.

"Che c'entra adesso, scusa?"

"Lo so io cosa c'entra. Tu cerca di non dimenticarlo, me lo prometti?"

Gli diede un altro bacio tra i capelli, poi un altro ancora. Simone si sentiva al sicuro tra tutte quelle premure, poggiato a quel corpo che era il suo posto sicuro, il suo punto fermo. Il suo coraggio, che lui non vedeva - ma Manuel sì- proveniva senz'altro da lì.

"Te lo prometto, se anche tu mi prometti di non dimenticarti del tuo, di coraggio."

Manuel preferì non rispondere, limitandosi a posare qualche altro bacio tra quei ricci morbidi o ad accarezzarli con la punta del naso. La verità era che lui era soltanto un codardo, aveva paura di perdere Simone e quella paura lo paralizzava, gli impediva di affrontare Sbarra come avrebbe dovuto per paura -ancora una volta- di peggiorare le cose. Una persona con un po' più di fegato avrebbe corso il rischio, lui invece era impantanato.

Simone spostò leggermente il capo, sottraendosi quindi a quelle carezze, per guardarlo. Se Manuel restava in silenzio, voleva dire che era la sua testa a parlare.
"Non ci pensare, non è vero."

Manuel distolse lo sguardo, puntandolo verso il suo zaino poco distante. Cazzo, era incredibile il modo in cui Simone sapesse sempre leggergli dentro.

"Adesso sai leggere anche nel pensiero?"

Sorrise mestamente. Non era sulla difensiva, quei giorni erano finiti da tempo, era solo genuinamente sorpreso.

"Beh no, nel pensiero no, però nei tuoi silenzi...sì, diciamo che in quelli ho imparato a leggere qualcosa. E sto leggendo una cosa che sinceramente non mi piace."
Rispose Simone, paziente. Da quando stavano insieme Manuel gli parlava molto di più, gli raccontava ciò che provava e ciò che gli passava per la testa, ma c'erano ancora dei momenti -come questo- in cui si chiudeva in se stesso e le sue parole, se anche c'erano, non significavano niente. Simone aveva imparato a leggere tra le righe e aveva capito ad esempio che un 'chi me li passa i compiti di matematica?' significava in realtà 'torna, mi manchi da morire' e che un silenzio come quello era soltanto una richiesta d'aiuto.

"Me spiace, la prossima volta te porto qualcosa de più avvincente."

Manuel fece un respiro profondo e tornò a guardare Simone, per cercare di capire come lo vedeva lui. Si sentiva una persona migliore, negli occhi dell'altro.

"Tu cosa cambieresti?"

Sussurrò poi, quasi impercettibilmente. Simone gli prese la mano libera -quella non impegnata ad accarezzargli il fianco- nella propria.

"Cambierei il modo in cui ti vedi. Nemmeno io mi sento coraggioso, anch'io ho tanta paura, eppure per te lo sono e allora ci credo anch'io. Perché per te non può essere lo stesso?"

Manuel, istintivamente, strinse la sua mano, come se potesse bastare a scacciare via le sue paure.

"Perché tu stai affrontando le tue paure ogni cazzo de giorno, mentre io non lo riesco a fare. Se avessi affrontato Sbarra a muso duro, invece di assecondare le sue stronzate, adesso tu saresti già fuori di qui."

"O magari saremmo morti entrambi. Se l'avessi fatto, ti saresti trovato ad affrontare non solo Sbarra, ma anche tutti quelli che lavorano per lui. So che la matematica non è il tuo forte, però di sicuro capisci anche tu che saresti stato in inferiorità numerica, no?"

L'altro ragazzo accennò una risatina, poi scrollò le spalle.

"Avrei potuto chiamare la polizia, però."

"Mh, e perché non l'hai fatto?"

"Perché... perché Sbarra se ne sarebbe accorto e chissà cosa ti avrebbe fatto."

Simone gli sorrise, dandogli poi un bacio sulla guancia.

"E allora vedi che anche tu stai affrontando le tue paure ogni giorno? Pensa che in fin dei conti avresti anche potuto abbandonarmi, dopotutto stiamo insieme solo da un mese…"

Fu volutamente provocatorio con quella sua ultima frase, sapeva bene che Manuel non lo avrebbe mai abbandonato, ma voleva davvero che capisse quanto a fondo si spingesse il suo coraggio.

Manuel, pur cogliendo la provocazione e comprendendo il suo significato, sentì il bisogno di avvolgere Simone tra le braccia per fargli capire che no, quella non era un'opzione.

"No, questo non è proprio possibile. Questo mese è stato il più bello della mia vita, tu sei la cosa migliore che mi sia capitata nella mia vita e non ti abbandono, non lo dire neanche per scherzo."

Simone ridacchiò, mentre le sue guance si coloravano di rosso per quella dichiarazione inaspettata, che il suo cuore ricambiava con tutto se stesso.

"Allora hai capito cosa volevo dire?"

Manuel annuì in risposta, dandogli un bacio sulla guancia arrossata. Era anche un po' più calda, sotto le sue labbra.

"Sì, ho capito, mi hai convinto e ti ringrazio. Adesso però torna a magna', su!"

Simone fece una risatina e aprì l'altro panino, dando subito un bel morso.

"Per inciso, comunque, è tutto ricambiato, solo che tu ovviamente lo sai dire meglio."

Manuel sorrise sghembo, spostandosi a posargli un bacio sul collo. Era un modo per ringraziarlo.

"Anche te non sei stato male con le parole, però. Attento, che da matematico a filosofo è un attimo!"

"Ah no, per carità, basti tu! Appena torniamo a casa, ti faccio vedere se non sono un matematico!"

Ribatté divertito Simone, stando attento a non strozzarsi con il cibo.

Manuel gli diede un altro bacio sul collo, gli piaceva quella prospettiva, soprattutto la parte in cui sarebbero tornati a casa. Doveva crederci.

"Mh, non vedo l'ora."

Sussurrò sulla sua pelle e sentì distintamente l'altro ragazzo fremere. Decise di lasciarlo in pace, non era proprio il luogo adatto per mettersi a provocarlo, quindi tornò ad appoggiarsi al muro e lasciò che Simone finisse i panini indisturbato facendogli soltanto qualche carezza sul fianco. A quelle non poteva proprio rinunciare e anche Simone la pensava allo stesso modo. Stare così, con Manuel, aveva perfino attutito le vertigini.

"Erano boni i panini?"

Simone bevve un po' d'acqua, poi annuì.

"Boni come chi li ha preparati."

Rispose, volendo fare un po' il marpione. Manuel alzò un sopracciglio, divertito. Era positivo il fatto che Simone volesse giocare un po', voleva dire che tutto sommato stava bene.

"E allora ce sta un problema, perché li ha preparati Claudio. Come la mettiamo?"

Simone sorrise sghembo, rivolgendo a Manuel uno sguardo di sfida. Quanto gli erano mancati quei momenti di leggerezza.

"Io non vedo nessun problema, onestamente."

Replicò tagliente e Manuel trattenne a stento una risata.

"Cioè aspe', me stai dicendo che Claudio è bono? Più di me?"

Esclamò, fingendosi incredulo ed offeso. Nel frattempo, però, non aveva smesso un attimo di accarezzare Simone.

"Bono è bono, su questo non puoi dire niente."

Fece volutamente una pausa, solo per godere ancora un attimo della finta espressione offesa del suo ragazzo. In realtà, dalla luce nei suoi occhi, poteva vedere che era sul punto di scoppiare a ridere. Si stava anche mordicchiando l'interno delle guance, proprio per evitare la risata.

"Ma non lo è più di te, questo no. Tu sei il ragazzo più bello e più dolce di tutta Roma e io sono tanto innamorato di te. Solo di te."

Manuel si sciolse in un tenero sorriso, di quelli che secondo Simone potevano illuminare la notte, e sentì i propri occhi inumidirsi. Prima di incontrare Simone, nessuno gli aveva mai detto che fosse dolce, anzi molto spesso gli veniva detto che era uno stronzo. Forse, però, il motivo stava nel fatto che soltanto da quando aveva conosciuto Simone aveva abbassato le difese e aveva permesso alla propria dolcezza di venire fuori.

"E qua ce sta n'altro problema, perché anche io sono tanto innamorato del ragazzo più bello e più dolce de tutta Roma e no, sono sicuro che parliamo di due persone diverse. Che se fa?"

Simone scoppiò a ridere, ma presto quella risata venne interrotta da un violento attacco di tosse che lo fece scattare in avanti. Manuel si protese verso di lui immediatamente, preoccupato.

"Tranquillo, oh, calmo…"

Gli fece qualche carezza sulla schiena in attesa che l'attacco passasse, poi gli porse la bottiglietta in modo che si rinfrescasse la gola. Simone bevve avidamente, fino a svuotarla. Per fortuna Manuel ne aveva portate altre.

"Tutto bene, Simo'?"

L'altro annuì, schiarendosi poi la voce.

"Senti, mi potresti aiutare ad alzarmi un po'? Voglio sgranchirmi le gambe…"

“Certo, aspetta…”

Lo scostò delicatamente da sé, poi si accovacciò accanto a lui per aiutarlo a mettersi in piedi. Simone contrasse il volto in un’espressione di dolore e mugolò, aggrappandosi a lui con tutta la forza che aveva.

“Piano, piano, piano…”

Sussurrò l’altro, sostenendolo saldamente. Il suo viso era il ritratto della preoccupazione, Simone era conciato peggio di quanto pensasse.

“Solo un attimo…”

Mormorò Simone mentre poggiava il capo sulla spalla di Manuel, aveva di nuovo le vertigini. L’altro ragazzo sospirò e mise una mano tra i suoi capelli, accarezzandolo lentamente.

“Tutto il tempo che vuoi, non ti preoccupare. Ce sto io, ok?”

Simone accennò un sorriso, grato, e si prese tutti gli attimi che gli servivano. Quando si sentì pronto, fece cenno a Manuel di voler cominciare a camminare e insieme mossero lentamente i primi passi. Le gambe gli dolevano ogni volta che sollevava un piede e ogni volta che lo poggiava, ma sentì il dolore scemare dopo il primo giro della piccola stanza. Manuel era paziente e non gli metteva fretta, anzi per lui ogni passetto era una piccola conquista.

“E quindi…i panini li ha fatti Claudio? Come sta?”

“Sta bene, anche se è preoccupato per te. Mi sta aiutando tanto, è…beh, lo sai meglio di me com’è fatto, no? Sto da lui, in questi giorni…”

Simone posò su di lui il suo sguardo, chiedendogli di più soltanto con gli occhi. Manuel accennò un sorrisetto di circostanza.

“Da quando sei qui, non me la sono sentita di restare a casa tua…”

“Casa nostra.”

Lo corresse subito Simone e Manuel annuì appena. Faceva fatica a ricordarselo, se in quella casa non c’era la sua metà.

“Sì, casa nostra, scusa. È che lì ci sono anche tuo padre, tua nonna e…e immagino che anche a loro faccia piacere non avere tra i piedi il tizio che ti ha messo nei guai.”

Simone si morse un labbro, impensierito. Aveva pensato tanto a Manuel in quei giorni di solitudine, ma anche alla sua famiglia: si chiedeva come sua nonna avesse accusato il colpo, perché sì certo, era una donna forte, ma anche anziana e certe cose sono più dure ad una certa età; si domandava se avessero informato sua madre, che stava ancora a Glasgow, e temeva che potesse sentirsi inutile ed impotente, così lontana; anche suo padre gli mancava, nell’ultimo periodo avevano iniziato a ricucire un legame che si era strappato tanto tempo prima e Simone aveva finalmente saputo cosa avesse causato quello squarcio. Per suo padre, quindi, non doveva essere facile andare avanti con la paura di perdere anche il suo secondo figlio, l’ultimo rimasto. Sbatté le palpebre un paio di volte per scacciare le lacrime che gli appannavano la vista e istintivamente si strinse un po’ di più a Manuel.

“Come stanno, loro?”

Manuel sospirò profondamente, non c’era un modo piacevole per dire che la sua famiglia viveva nella paura che ogni telefonata di Claudio potesse portare una cattiva notizia.

“Hai già abbastanza pensieri, Simo’, e non te ne vorrei dare altri, ma non voglio nemmeno dirti una bugia. Per quel poco che li ho visti e da quello che mi dice Claudio, posso dirti che stanno male, sono preoccupatissimi per te, ma sono anche forti e resistono. Hai preso da loro, dopotutto, no?”

Simone curvò l’angolo delle labbra in un piccolo sorriso, sperava davvero che fosse così. Guardò di nuovo il suo ragazzo, solo per pochi attimi prima di tornare a concentrarsi sui propri passi, il tempo di capire dalla sua espressione triste che anche lui aveva bisogno di sentirsi chiedere come si sentisse. Era sicuro che nessuno gliel’avesse domandato, tutti troppo occupati a preoccuparsi di lui, ed era altrettanto sicuro che Manuel non avesse cercato l’aiuto di nessuno, preso dai sensi di colpa e dall’apprensione.

“E tu, invece, com’è che stai?”

Eh, come stava, bella domanda. Stava una merda, ma non poteva rispondere così a Simone. Non poteva dirgli che da quando lui non c’era aveva dimenticato cosa fosse la felicità, cosa fosse la serenità. Non poteva confessargli che di notte non dormiva perché senza di lui non avevano senso nemmeno i sogni e che di giorno non avrebbe voluto fare altro che sprofondare in un lunghissimo sonno perché anche la realtà faceva schifo, da solo. Come aveva detto prima, non voleva dargli altri pensieri, quindi si limitò a rispondere con una scrollata di spalle.

“Sto come mi vedi. Non ti preoccupare, me la cavo.”

Teneva lo sguardo basso, rivolto verso le scarpe di Simone come a voler controllare dove mettesse i piedi, ma era solo un modo per nascondere i suoi occhi in cui Simone sapeva trovare verità nascoste meglio di chiunque altro.

L’altro ragazzo non si fece convincere da quella risposta, che nel personalissimo dizionario di Manuel voleva dire qualcosa tipo ‘Sto uno schifo, ma tu stai peggio di me e io non ho diritto di lamentarmi.’, quindi si fermò e si mise davanti a lui, portando le mani sui suoi fianchi un po’ per reggersi e un po’ per tenerlo vicino e fargli capire che per lui c’era, c’era sempre.

Manuel si morse un labbro, continuando a tenere lo sguardo basso.

“Lo so che te la cavi, sei un maestro nell’arte del cavarsela, ma non basta, non va bene.”

Mormorò Simone, per poi posargli un bacio sulla fronte, tra i capelli in disordine.

“È un momento di merda, ma lo è per entrambi, lo so che ci stai male. Finché posso, adesso, vorrei fare qualcosa per aiutarti.”

Manuel lo sapeva, Simone si sarebbe privato anche dell’aria che respirava per dare ossigeno a lui: sempre generoso, sempre altruista, sempre pronto a farsi in quattro per lui, più di quanto meritasse.

“Se mi vuoi aiutare, allora non pensare a me.”

Sollevò finalmente gli occhi verso il suo ragazzo, incastrandoli nei suoi come faceva sempre. Era il miglior modo di parlarsi, quello.

“E non lo dico perché penso di non meritarmelo, anche se un po’ è vero, ma perché in questo momento devi pensare solo a te stesso, solo a resistere, capito?”

Prese il viso di Simone tra le mani, accarezzandolo con i pollici. Gli era cresciuta un po’ di barba in quei giorni e gli solleticava la pelle, era una sensazione che Manuel non aveva mai sperimentato, ma in quel momento non riusciva a godersela pienamente.

“Lo so che ti sto chiedendo tanto, ma…”

Simone lo interruppe, sorridendogli.

“Niente ma, va bene così. Se me lo chiedi tu, se dici che può aiutarti, allora lo faccio.”

Manuel ricambiò il sorriso, anche se più mestamente, e lo baciò a fior di labbra. Avrebbe proposto a Claudio il suo piano quella sera stessa, più un angolo del suo cervello ci pensava e più gli sembrava sensato.

“Dai, camminiamo un altro po’.

Propose Simone e Manuel tornò subito al suo fianco, reggendolo a sé.

“La prossima passeggiata, però, la facciamo in un posto più bello.”

Promise, allargando il proprio sorriso. Fecero qualche altro giro della stanza, andando un po’ a caso da un lato all’altro, finché Simone non decise di fermarsi.

“Stanco?”

Gli diede un bacio sulla tempia, premuroso, mentre l’altro annuiva.

“Sono proprio un rugbista penoso…”

Mormorò divertito e Manuel ridacchiò.

“Tranquillo, non lo dico a nessuno.”

Ribatté con lo stesso tono scherzoso, mentre lo aiutava a sedersi a terra. Si sistemò accanto a lui e tirò a sé lo zaino, prendendo subito una bottiglietta per farlo bere. Oltre a quella, però, tirò fuori anche un contenitore per alimenti, non molto grande, che attirò lo sguardo incuriosito di Simone.

“Che hai portato?”

“Un po’ di frutta, che fa sempre bene.”

Nello specifico, la piccola scatola era piena di ciliegie, fragole e di qualche pesca già sbucciata e tagliata. Di questo si era occupato lui, non Claudio.

Simone diede uno sguardo a quei frutti e poi al suo fidanzato, con un’espressione estremamente divertita.

“Manuel, non ti ho mai visto mangiare frutta da quando ti conosco.”

Il ragazzo sbuffò, un po’ come quando sua madre lo rimproverava per lo stesso motivo.

“Eh, c’è sempre tempo per cambiare idea, no?”

E quella non era nemmeno la prima cosa sui cui cambiava idea, considerando che fino a qualche tempo prima si ostinava a ripetere che non gli piacesse quel ragazzo che adesso teneva accanto a sé e da cui, se avesse potuto, non si sarebbe mai separato.

“Facciamo Lilli e il Vagabondo?”

Propose in aggiunta e Simone annuì contentissimo. Manuel, allora, prese un pezzetto di pesca e se lo portò tra i denti, avvicinandosi all’altro per fargli dare un morso. Poi fu il turno di Simone di tenere la fettina in bocca, mentre l’altro si avvicinava. Andarono avanti così per un po’, spensierati, finendo tutte le pesche e le fragole in poco tempo.

“E queste?”

Simone indicò le ciliegie, che erano più scomode da mangiare in quel modo.

“Beh, queste…ho un’idea, vie’ qua, dai.”

Lo aiutò a stendersi, facendogli poggiare la testa sulle sue gambe.

“Comodo?”

L’altro annuì, sorridente.

“E sapessi che bella vista che c’è da qui.”

Manuel ridacchiò imbarazzato, scuotendo il capo. ‘Questo me sta a diventa’ un marpione de prima categoria’, pensò, mentre prendeva una ciliegia e vi dava un morso per tagliarla a metà.

“Sicuramente non batte la mia, da qui vedo due stelle che sembrano due Soli.”

Avvicinò l’altra metà della ciliegia alle labbra di Simone dopo aver gettato il nocciolo nella scatola. Simone attese un attimo, però, e sorrise furbetto.

“Tu lo sai che il Sole è una stella, vero? Ti prego, dimmi che lo sai…”

Disse per provocarlo e Manuel fece un verso di stizza, poi sbuffò. Non era mica così ignorante, lui!

“Certo che lo so, ma ti pare? Questa è sublimazione, che ne vuoi capire, tu! E mo magnate sta ciliegia, prima che te la spiaccichi sul naso!”

Simone scoppiò a ridere e la risata di Manuel subito si unì alla sua.

A risate placate, Simone accolse il pezzo di ciliegia tra le labbra, approfittandone per posare una sorta di bacio sui polpastrelli di Manuel. Lui non se l'aspettava, ma gradì molto quel gesto che gli fece battere il cuore un po' più velocemente.

"Oh, non morde, eh…"

Lo avvertì, scherzoso, prima di porgergli un'altra metà di ciliegia, da cui aveva rimosso il nocciolo allo stesso modo della prima.

"No, faccio il bravo, promesso."

Simone fu molto bravo, non diede morsi, ma soltanto baci leggeri che erano diventati un po' come le ciliegie, uno tirava l'altro.

Manuel, per ringraziarlo di quei piccoli doni, aveva iniziato ad accarezzargli i capelli con dei lenti movimenti circolari, che Simone apprezzava sempre tantissimo. Continuò anche dopo che ebbero finito le ciliegie, quando Simone prese la sua mano libera nella propria, mettendosi ad accarezzarla. Era una parentesi perfetta in una situazione imperfetta.

"Ma lo sai che sembri proprio un cerbiattino?"

Esordì Manuel ad un certo punto, apparentemente a caso, ma in realtà stava seguendo un ragionamento coerente. Simone lo guardò incuriosito, sorridente.

"Un cerbiattino? E come ti è venuta, questa? È sempre sublimazione?"

Chiese divertito e Manuel fece una risatina.

"Un po' sì, dai. È che c'hai sti occhioni grandi e caldi, poi adesso hai mangiato le ciliegie piano piano, delicato, proprio come un cerbiatto. Sai cosa, Simo'? Mi sa che ho trovato il soprannome pe’ te!"

Era particolarmente fiero di quel soprannome, si era tormentato tanto per trovarne uno a Simone dopo che lui si era inventato 'Paperotto', ma nessuno di quelli che gli venivano in mente sembrava adatto a descriverlo.

"Scusa, ma un pezzo di ragazzo come me lo puoi mai chiamare Cerbiattino?"

Ribatté scherzosamente, ripetendo una protesta che Manuel spesso gli faceva. Manuel sorrise sghembo, furbescamente.

"È una cosa tenera, mi piace."

Fu lui, adesso, a citare il proprio fidanzato.

"Che, quando tu lo dici a me va bene, ma sei io lo dico a te non va più bene?"

Aggiunse e Simone scosse il capo. Andava più che bene, anzi.

"Mi piace tantissimo, invece. Grazie, Paperotto."

"Ah, di niente, figurati. Quindi adesso che facciamo, cambiamo il nome della società in Cerbiattino e Paperotto Associati?"

Domandò scherzoso e Simone fece una risatina.

"Così sembra uno zoo, meglio restare sul professionale."

"Perché siamo molto professionali noi, no?"

Ribatté Manuel, arruffandogli affettuosamente i capelli. La loro bolla scoppiò improvvisamente all'aprirsi della porta, e i due ragazzi furono prepotentemente riportati alla realtà.

"Interrompiamo qualcosa?"

Chiese la voce fredda di Sbarra, che in un attimo spense i sorrisi sul volto di Manuel e Simone. Insieme a lui c'era l'immancabile Zucca e un altro tizio dalla stessa aria poco raccomandabile che Manuel aveva visto di sfuggita, di tanto in tanto. Zucca sollevò Simone di peso, facendolo mugolare per il dolore.

"Oh, fa' piano, stronzo!"

Ringhiò Manuel guardandoli, mentre veniva sollevato a sua volta dall'altro tizio. Fece anche per spingersi verso Zucca, ma venne trattenuto con forza.

"Ah, piano, dici? E mo te faccio vede'!"

Gli disse Zucca, dando uno schiaffo a Simone sulla guancia già livida. Rise di gusto, mentre Manuel si dimenava.

"Va bene così? O forse è meglio così, aspetta…"

E così dicendo diede un pugno al ragazzo in pieno stomaco, facendolo piegare in due con un verso di dolore.

"Basta, smettila! Sbarra, fallo smette!"

Implorò Manuel, cercando ancora di liberarsi. Sbarra ridacchiò.

"Eh, io lo farei pure, ma non posso. Anzi, me sa che Zucca deve continua’."

Entrambi i ragazzi si voltarono verso il vecchio, che per il momento era rimasto sulla porta.
Entrambi ebbero paura per l'altro.

Sbarra si spostò un attimo di lato per prendere qualcosa appoggiato al muro. Era un tubo di metallo, un pezzo come un altro che era normale si trovasse in uno sfascio, ma quando Manuel lo vide sbiancò.

"Vedi, Manuel, c'ho riflettuto e devo di’ che nun m’è piaciuto il modo in cui ti sei rivolto a me, prima. Hai messo in mezzo pure l'esercito, hai esagerato, non trovi?"

Il vecchio, parlando, si era avvicinato al suo scagnozzo più fidato e gli porse il pezzo, che quello prese ghignando. Lo soppesò in una mano, per preparare il colpo. Simone intanto si agitava, cercando di liberarsi, ma Zucca lo spinse con maggiore forza contro il muro.

"Sì, ho esagerato, me dispiace! Non lo faccio più, te lo prometto! Ti prego, non lo fare…"

Esclamò Manuel, con il cuore in gola, mentre anche lui tentava inutilmente di liberarsi con qualche strattone. Anche i suoi tentativi di supplica furono inutili, ebbero soltanto l'effetto di far sghignazzare i tre uomini.

"Ma sentitelo, il leone è diventato n'agnellino! Manco la dignità c'hai…"

Scosse il capo, come se fosse stato deluso dal suo comportamento.

"Devi capi' che delle tue promesse non me ne faccio niente, ma proprio niente. Io me vedo costretto a fare questa cosa qua, che te credi che a me fa piacere?"

Sì, Manuel credeva fermamente che a Sbarra facesse piacere, anzi ne era sicuro, lo leggeva in quei suoi occhietti viscidi. Glieli avrebbe cavati, se avesse potuto.

"Mo scegli, gamba destra o sinistra? Secondo te a Simone quale serve de meno?"

"No, Sbarra, te prego, prenditela con me, non con lui! Sono io che ti ho mancato de rispetto, no?"

Supplicò ancora, terrorizzato, non potendo fare altro. Sbarra ancora una volta gli rispose con una risatina.

"Risposta sbagliata. Zucca, fa' un po' come te pare."

Simone cercò Manuel con lo sguardo, terrorizzato, e Manuel, con occhi altrettanto sbarrati, poté soltanto assistere impotente alla scena. Si sentì il fischio del metallo che fendeva l'aria e poi un crack secco, seguito da un urlo straziante. Per Manuel fu come se gli avessero strappato il cuore dal petto.

"No! Simo!"

Gridò, in lacrime. Sbarra gli si avvicinò e gli diede uno schiaffo.

"È solo colpa tua se adesso er pischello tuo sta così, ricordatelo la prossima volta che vuoi fare il fenomeno."

In un altro momento Manuel lo avrebbe guardato con occhi infuocati e lo avrebbe insultato, ma adesso il suo sguardo era solo per Simone -il suo cuore-, che si era accasciato a terra e gemeva per il dolore, la gamba piena di sangue era piegata in una posizione quasi innaturale.

Manuel si diede del coglione, si era sentito così forte a rispondere a Sbarra in quel modo, si era illuso di potergli tenere testa e invece ancora una volta Simone era finito a pagare per lui. Doveva salvarlo e doveva farlo il prima possibile.

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Capitolo 9
*** C’era lui a contare le stelle con me ***


Manuel giaceva disteso sul divano di Claudio e con una mano manteneva una busta di ghiaccio sullo zigomo sinistro, che ancora sentiva pulsare. Zucca e l'altro pezzo di fango si erano divertiti anche con lui mentre lo trascinavano fuori, anche se indubbiamente a Simone era andata peggio.

Aveva dovuto chiamare Claudio per farsi venire a prendere, era riuscito a guidare la moto solo per poche centinaia di metri, quanto bastava ad allontanarsi a sufficienza dallo sfascio, ma non avrebbe retto ulteriormente.

Claudio, a sua volta, aveva telefonato a quel suo amico ispettore, chiedendogli di recuperare la moto e portarla a casa sua. Era un bene, perché Manuel aveva intenzione di parlare anche con lui, oltre che con Claudio.

"Te sei sicuro che di questo tizio ce se po' fida', sì?"

Domandò, guardando con l'unico occhio aperto l'avvocato seduto sul bordo del divano. Claudio accennò un sorriso, un sorriso velato di malinconia, e annuì.

"Credimi, Manuel, se ti dico che affiderei all'ispettore Liguori la mia vita. Sa ciò che fa, non temere."

Ed in effetti lui la sua vita gliel'aveva affidata anni prima e c'era una cicatrice a dimostrarlo.

Manuel lo fissò per qualche istante, domandandosi se fosse abbastanza per affidargli anche la vita di Simone. Claudio sembrava sicuro di ciò che diceva.

"Vi conoscete da molto tempo, quindi?"

L'avvocato annuì, sporgendosi poi a riposizionare meglio la busta di ghiaccio sul viso di Manuel, dato che era scivolata. Quante volte si era ritrovato in situazioni simili, con quello spericolato di Domenico Liguori.

"Avevamo soltanto qualche anno in più di te e Simone quando ci siamo conosciuti. Lui era da poco entrato in Polizia, io non sapevo ancora cosa fare della mia vita…"

Ma sapeva, Claudio, che avrebbe voluto trascorrere il resto della sua vita con lui. La vita, però, aveva avuto altri progetti per loro.

"È anche grazie a lui se mi sono iscritto a Giurisprudenza."

Il ragazzo accennò un sorriso, comprensivo. Dalla voce morbida di Claudio traspariva un profondo affetto nei confronti di quell'uomo e una grande vulnerabilità dai suoi occhi di ghiaccio e Manuel conosceva bene quel tono di voce e quello sguardo, erano gli stessi che aveva lui quando parlava di Simone. Era chiaro che per Claudio questa persona fosse altrettanto importante.

"Allora ce sta parecchia gente che lo deve ringrazia', me sembra."

Ribatté scherzoso e Claudio ridacchiò, annuendo appena. Era lui quello che doveva ringraziarlo più di tutti.

"E altrettanta che lo vorrebbe solo maledire."

Fu Manuel a fare una risatina, ora, ma subito il suo viso si contrasse in un'espressione di dolore. No, ridere non era una buona idea.

Claudio lo guardò preoccupato.

"Dopo ti porto in ospedale."

Manuel scosse il capo, sarebbe stata soltanto una perdita di tempo.

"No, Cla', non c'è bisogno, fidate. Se Zucca e quell'altro me volevano manna' all'ospedale, fidati che già ce stavo. Domani non avrò più niente, davvero."

L'avvocato sospirò, poco convinto, avvicinando una mano al bordo della maglietta di Manuel.

"Posso almeno vedere come stai messo?"

"Basta che non t'abitui troppo alla vista. Te ricordo che il mio ragazzo fa rugby…"

Il suo sorrisetto, inizialmente ironico, si spense in un attimo al pensiero di Simone. Non che fino a quel momento non avesse pensato a lui, ma faceva tutto più male se detto ad alta voce.

"Tornerai presto a vederlo giocare, te lo prometto."

Manuel distolse lo sguardo, sorridendo amaramente al pensiero che quella promessa fosse già stata infranta, dal momento che Simone aveva una gamba rotta -solo per colpa sua, come gli aveva ricordato Sbarra-, anche se questo Claudio non poteva saperlo perché non gli aveva raccontato ancora nulla di quella notte. Preferiva parlarne una volta sola, sempre perché ad alta voce faceva tutto più male.

Mentre l'avvocato gli toccava delicatamente, quasi accarezzandolo, i lividi sul corpo per controllare che non ci fosse nulla di rotto, Manuel cominciò a chiedersi se effettivamente Simone sarebbe stato in grado di tornare a giocare a rugby o se gli aveva rovinato anche quella parte della sua vita.

Lui di rugby ci capiva poco, ma capiva il sorriso di Simone quando la sua squadra vinceva una partita e tutti insieme si abbracciavano rumorosamente; capiva che i lividi che si ritrovava dopo un allenamento -non troppi, perché il suo Simone era bravo- non facevano poi così male, che per lui erano quasi come dei piccoli trofei; capiva che per parecchio tempo il campo da rugby era stato l'unico posto che l'avesse fatto sentire accettato e infine capiva di essere la persona più amata sulla faccia della Terra, quando Simone gli dedicava un punto.

"Non sono un medico, ma mi sembra che sia tutto a posto, tutto sommato. Se però domani stai ancora male, facciamo come dico io."

La voce di Claudio lo riportò alla realtà e lui annuì distrattamente, troppo preso dai suoi pensieri per pensare a se stesso.

Un attimo dopo il citofono suonò e Claudio andò ad aprire.

"Manuel, questo è l'ispettore Liguori. Ti ha riportato la moto."

"Piacere, Manuel."

Dato che quando voleva sapeva essere educato, si sforzò di mettersi a sedere per stringere la mano di quell'uomo, ma Claudio intervenne immediatamente per farlo tornare giù.

"La moto sta bene, sì?"

Aggiunse, tornando a stendersi sotto lo sguardo attento di Claudio. Liguori fece una risatina, perché ebbe un déjà-vu.

"Scusa se mi permetto, ma sta anche meglio di te. Comunque puoi chiamarmi Domenico."

Fu lui, ora, ad avvicinarsi a Manuel per stringergli la mano e il ragazzo ebbe modo di vederlo meglio. Ciò che gli saltò subito all'occhio fu quanto fosse diverso rispetto a Claudio, sembravano due opposti: Liguori, infatti, indossava una semplicissima t-shirt, dei jeans praticamente anonimi e delle scarpe da ginnastica che sicuramente avevano visto tempi migliori, cose che l'avvocato probabilmente non avrebbe indossato neanche sotto tortura. La barba brizzolata aveva decisamente bisogno di una spuntatina, mentre quella di Claudio era sempre perfettamente in ordine, e anche i capelli andavano un po' per cavoli loro, sicuramente non solo a causa del casco che doveva averli scompigliati. In ultimo, Liguori aveva due occhi verdissimi come le chiome degli alberi in estate, che con quelli di Claudio avevano in comune soltanto il senso di sicurezza e protezione che trasmettevano.

"C'è anche chi sta peggio di me. Simone, ad esempio. Vi devo parlare, a tutti e due. È urgente."

Disse deciso, rivolgendosi ai due uomini che si scambiarono uno sguardo preoccupato e poi si accomodarono sull'altro divano, sedendosi vicini come se non ci fosse abbastanza spazio per entrambi, anche se non era così.

"Claudio mi ha accennato qualcosa, so che la situazione di Simone è piuttosto...delicata."

Manuel fece una risatina amara.

"Delicata? No, la situazione di Simone non è delicata, è tragica! Dimme, tu sei quello che sta indagando su Sbarra da un botto de tempo, giusto?"

L'ispettore si scambiò uno sguardo veloce con l'avvocato e poi annuì. Conosceva quel ragazzo da pochissimo, ma aveva già capito quanto fosse determinato.

"Sì, sono almeno cinque anni che gli sto dietro e prima di me erano già cominciate le indagini."

"Bene, allora non te lo devo spiegare io quanto è stronzo e infame quell'uomo, no? Simone non può più aspettare, non c'è tempo!"

Ribatté preoccupato e Liguori sospirò.

"Io ti capisco, credimi, ti capisco, ma proprio perché ci sto dietro da anni, posso dirti che non possiamo fare passi falsi. Tu tieni molto a questo ragazzo, e si vede, ma…"

Manuel ringhiò di disappunto e scattò a sedere, ignorando le fitte che sentì al busto. Claudio fece per alzarsi e aiutarlo, ma lui lo fermò con un cenno della mano.

"Ma un cazzo, se mi permetti. Simone è trattato peggio de una bestia, non gli portano da mangiare, non lo lasciano andare in bagno, sta sempre al buio e…"

Chiuse gli occhi in un'espressione di dolore che nulla c'entrava con i lividi.

"...e c'ha pure le allucinazioni e una gamba rotta, adesso."

Claudio sgranò gli occhi, allarmato.

"In che senso ha una gamba rotta? Cos'è successo?"

Manuel sbuffò, nervoso. Non ce l'aveva con l'avvocato, ma con se stesso.

"È stata colpa mia, come sempre. Ho fatto er galletto co' Sbarra e lui m'ha punito. Simone c'ha bisogno de anda' in ospedale, non può restare così!"

Claudio si passò una mano sul viso, angosciato. Eppure aveva detto a Manuel di stare attento, di controllarsi, come gli era venuto in mente di provocare Sbarra?

"Manuel, però ne avevamo parlato…"

Disse calmo e il ragazzo rispose con un verso di stizza.

"Lo so che ne avevamo parlato, cazzo, lo so! Però Simone aveva bisogno di mangiare e tu mi avevi detto che a Sbarra in fin dei conti serviva vivo, quindi ho pensato di...di insistere un po' su sta cosa e...e ho pisciato fuori dal vaso."

Mentre parlava, Manuel teneva lo sguardo basso sulle mani che aveva preso a tormentarsi. Quelle mani sapevano stare tranquille soltanto quando accarezzavano Simone.

"E... com'è che avresti insistito, esattamente? Cosa gli hai detto?"

Domandò Claudio, guardandolo comprensivo. Manuel aveva agito per il bene di Simone, non era il caso di rimproverarlo eccessivamente.

"Gli ho detto che...che o mi faceva portare il cibo a Simone o io gli mandavo l'esercito allo sfascio a smontare tutto, per trovare tutta la droga che tiene nascosta là."

Ora che ripeteva quelle parole a Claudio, si sentiva ancora più stupido. Aveva sputato una minaccia davvero idiota, oltre che irrealizzabile, come aveva potuto anche solo pensare che Sbarra se la sarebbe fatta sotto sentendola?

"Ho anche detto che così l'avrei tenuto io per le palle…"

Aggiunse con un tono più basso, pieno di vergogna. Liguori accennò un sorrisetto, mentre Claudio si prese qualche secondo per elaborare quelle informazioni. Manuel decisamente non aveva un futuro da avvocato.

"Vabbè, ormai quel che è fatto è fatto, non ha senso fossilizzarsi sul passato, pensiamo al presente e all'immediato futuro."

Esclamò l'ispettore, proprio poco prima che l'avvocato aprisse bocca.

"Manuel, ascoltami, che con Sbarra hai fatto un casino l'hai capito da solo e sono sicuro che tu sia abbastanza intelligente da capire che non ne possiamo fare altri. Dobbiamo pensare bene a come agire per salvare Simone e tu dovrai dirci tutto ciò che sai su quello sfascio. Immagino che tu lo conosca bene, no?"

Manuel annuì, rapido, poi si schiarì la voce.

"A dire il vero, io avrei già una mezza idea…"

Si rendeva conto che, dopo la sua impresa di quella sera, ogni suo piano sarebbe dovuto essere bocciato a prescindere, ma proporlo non costava niente.

Claudio e Domenico si scambiarono un'occhiata veloce, poi fecero cenno al ragazzo di esporre.

"Sbarra è un tipo preciso e penso che qui dentro lo sappiamo tutti. Gli piace ave' le cose sotto controllo, organizza tutto alla perfezione, non c'è mai niente fuori posto nel mondo suo. È per questo che non possiamo aspettare che commetta un errore, perché lui di errori non ne fa. Altrimenti lo avreste già preso, no?"

Liguori annuì, incoraggiante. Era molto interessato a ciò che quel ragazzo aveva da dire, aveva una scintilla particolare negli occhi che non si vedeva spesso, eppure lui di gente ne conosceva tanta.

"E non possiamo neanche mandare lì la polizia, perché se ne accorgerebbe e se la prenderebbe con Simone."

Respirò a fondo.

"Perciò ho pensato che possiamo essere noi a fargli commettere uno sbaglio e l'unico modo per farlo è portare del disordine in quell'ordine. E poi dobbiamo fare in modo che sia lui a farci entrare, come...come 'na specie de Cavallo di Troia."

Claudio lo guardò incuriosito, leggermente accigliato. L'idea di Manuel poteva funzionare, se messa bene in pratica.

"Hai già qualcosa in mente?"

Manuel fece un profondo respiro.

"Prima, mentre andavo là, ho visto per caso un camion dei pompieri e ho iniziato a pensare…"

Tacque un istante per sondare il terreno, posando gli occhi prima in quelli di Domenico e poi in quelli di Claudio.

"Sbarra nasconde la droga nelle auto e nelle moto, non in tutte, ma in molte. Se quelle carcasse prendessero fuoco, per lui sarebbe un macello e...e dovrebbe per forza chiamare qualcuno per spegne l'incendio. Ho pensato che magari, insieme ai vigili del fuoco, poteva infilarsi qualche poliziotto in incognito e nella confusione generale, portare via Simone da lì."

Claudio e Domenico si guardarono per l'ennesima volta e il primo si sporse in avanti, come se ciò potesse aiutarlo a comunicare meglio con il ragazzo di fronte a lui.

"Quindi fammi capire bene, tu vorresti appiccare un incendio allo sfascio per spostare l'attenzione da un'altra parte? Ti rendi conto che è pericoloso e che ci sono cose che possono andare per il verso sbagliato, vero?"

Manuel se ne rendeva tremendamente conto, ma non gli venivano in mente delle alternative.

"La mia è solo una proposta, eh…"

Si giustificò e Claudio gli rivolse un sorriso.

"Non ho detto che è una cattiva proposta, solo che ha dei rischi. Domenico, tu che dici?"

Liguori fissò Manuel negli occhi per qualche secondo e il ragazzo sostenne il suo sguardo con decisione. Aveva già fatto troppe cazzate, aveva assecondato Sbarra per troppo tempo e non lo aveva portato a niente, era arrivato il momento di agire.

L'ispettore accennò un sorriso.

"Dico che l'idea è buona, forse un po' cinematografica, ma può funzionare. Contatto subito il capitano dei vigili del fuoco per accordarmi con lui, però tu, Manuel, mi devi promettere due cose."

Il ragazzo annuì, determinato. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per aiutare Simone.

"Qualunque cosa, dimme."

"La prima è che non appena Simone sarà al sicuro, verrai in commissariato a raccontarmi tutto quello che sai su Sbarra e la seconda è che te ne stai un po' a riposo, mi sembra che tu ne abbia bisogno."

Manuel voleva chiudere definitivamente la storia di Sbarra e aveva ormai capito che denunciarlo era l'unico modo. Spostò lo sguardo su Claudio, per un istante, ricordandosi di come gli avesse detto che Sbarra avrebbe pagato con la giustizia e non con la vendetta e accennò un sorriso.

"Va bene, te lo prometto."

Disse tornando a guardare l'ispettore e notò un certo orgoglio nel sorriso di Claudio.

"Allora se siamo tutti d'accordo, è meglio che adesso tolga il disturbo."

Liguori si alzò e Claudio, come un pezzo di ferro attratto da una calamita, lo seguì immediatamente.

"Sicuro di voler andar via? Non vuoi mangiare qualcosa, prima?"

In quegli occhi azzurri c'era tanta premura, eppure per Domenico andava soltanto a stuzzicare una vecchia ferita mai del tutto rimarginata. Accennò un sorriso, che però non arrivò agli occhi verdi.

"No, grazie, è meglio che vada. Prima riesco ad organizzare questa cosa, prima riporteremo Simone dal suo ragazzo."

Manuel, in quel momento, provò una fitta allo stomaco, una fitta di vergogna e colpa. Di solito amava quando Simone lo definiva 'il suo ragazzo' o quando erano altri a farlo, era un titolo di cui si fregiava con grande orgoglio, ma dopo tutto ciò che era successo, tutto ciò che Simone aveva dovuto sopportare e stava ancora sopportando a causa sua, non si riteneva più così meritevole di quel nome e una nuova consapevolezza lo colpì, pesante come un macigno.

"Non credo che sarò il suo ragazzo ancora a lungo."

Mormorò, fissando il vuoto. Un'altra fitta allo stomaco.

I due uomini si voltarono verso di lui, perplessi.

"Manuel, ma che dici? Dai, non pensare che Simone ti lascerà…"

Manuel scosse il capo, interrompendolo. No, era certo che Simone non l'avrebbe mai lasciato, neanche se fosse stato lui a rompergli personalmente la gamba. Doveva essere lui a compiere quel passo.

"Infatti sono io che devo lasciarlo. Voglio lasciarlo."

Fece fatica a pronunciare quelle parole, come se nel farlo provasse un grande dolore ed era effettivamente così. Si sentiva uno stronzo anche solo a pensarle, aveva promesso a Simone che non l'avrebbe mai abbandonato soltanto poche ore prima ed era certo che lasciandolo gli avrebbe spezzato il cuore, ma quello sarebbe stato l'ultimo dolore che gli avrebbe inferto.

Gli occhi verdi di Domenico scattarono su quelli di Claudio, perché sapeva che quelle parole lo avrebbero fatto reagire ed in effetti così fu. L'avvocato si avvicinò al ragazzo, quasi minaccioso, e per un attimo Manuel pensò che avesse intenzione di menarlo.

"Manuel, tu adesso apri le orecchie e mi ascolti bene: non puoi permetterti di lasciare Simone, non dopo tutto quello che avete passato, faresti la cazzata più grande della tua vita! Scappare è facile, ma tu sei migliore di così, quindi non fare il coglione e tira fuori le palle!"

Esclamò l'avvocato, rosso in viso e con gli occhi di ghiaccio che sembravano di fuoco.

Manuel lo guardò stupito, non l'aveva mai visto perdere il controllo in quel modo ed era abbastanza sicuro di non averlo mai sentito pronunciare delle parolacce.

L'ispettore gli andò accanto e posò una mano sulla sua spalla. In un attimo Claudio si calmò, tornando più simile al controllato avvocato di sempre.

"Oddio, Manuel, scusami, io...non dovevo parlarti così, perdonami."

Mormorò, ma prima che Manuel potesse dire qualcosa -che non era un problema, e che anzi quelle parole se le meritava tutte- intervenne Domenico.

"Senti, Claudio, ci potresti lasciare un attimo da soli? Devo dire a Manuel un paio di cose."

Gli occhi di Claudio si spostarono verso quelli di Domenico e si fissarono a lungo, come cielo e bosco che si incontravano, portando avanti una conversazione fatta di soli sguardi per alcuni secondi. Alla fine l'avvocato annuì, rivolse a Manuel un'ultima scusa, e si allontanò.

Liguori tornò a sedersi di fronte al ragazzo, che adesso si sentiva un po' come un ladro beccato a rubare. Non voleva parlare di Simone, soprattutto con quel tizio che non conosceva praticamente per nulla. Che gliene fregava a lui, poi, della sua vita sentimentale?

"Senti, Manuel, tu ormai avrai capito che non sono di queste parti, vero?"

Il ragazzo si accigliò, perplesso. Sì, l'aveva capito, ma cosa c'entrava questo, ora? Annuì, comunque, in risposta.

"Napoli?"

Azzardò, perché l'accento dell'ispettore, anche se non troppo marcato, gli sembrava di lì. L'altro annuì.

"Sono di quelle parti, sì. È a Napoli, però, che ho conosciuto Claudio. Avevo diciannove anni, lui diciotto, eravamo...due pischelli, giusto?"

Manuel annuì ancora. Poteva cominciare ad intuire perché Liguori avesse deciso di raccontargli quella storia, ma non credeva che potesse aiutarlo.

"Sì, senti, apprezzo lo sforzo, ma con tutto il rispetto sono cazzi miei quello che decido de fa' con Simone. Tu non ci conosci, non mi conosci, non lo sai che gli ho fatto più male che bene. Sono...sono un veleno, per lui."

Abbassò lo sguardo, gli occhi pieni di lacrime che premevano per uscire, aggrappandosi al bordo del divano. Ecco, quello era un titolo che gli calzava a pennello.
Manuel non lo vide, ma Liguori accennò un sorriso malinconico a quella definizione.

"Guarda, ti faccio vedere una cosa."

Gli si avvicinò, sollevandosi poi un lembo della maglietta per scoprire una parte della pancia. Indicò un punto sulla sinistra, dove la pelle era meno liscia. Manuel sollevò gli occhi, perplesso.

"Sono passati tanti anni, ma un po' si vede ancora. Riesci a capire cos'è?"

"Beh, sì, è 'na cicatrice...me dispiace, ma...che c'entra?"

Con il lavoro che faceva Liguori, pensò Manuel, non era poi così tanto strano che avesse una cicatrice.

"Ah, non ti dispiacere, se tornassi indietro lo rifarei. Secondo te cos'è che mi ha lasciato questo bel regalino?"

"Un proiettile?"

Azzardò, data la forma circolare di quel segno. Liguori annuì e tornò a sedersi.

"Tu dici di essere un veleno per Simone, Claudio invece pensa di essere un proiettile per me."

Manuel sgranò gli occhi per un istante, sorpreso.

"In...in che senso, scusa? Mica è stato lui a spararti?"

Domenico fece una risatina, scuotendo il capo.

"No, ma ciò non lo fa sentire meno colpevole. Ti ricorda qualcuno per caso?"

Certo, certo che sì, Manuel capiva perfettamente quel sentimento. Non era stato lui a rapire Simone, a farlo picchiare e a spezzargli una gamba, così come non era stato Claudio a sparare a Domenico, eppure sentiva comunque le mani sporche del suo sangue.

"Cosa... com'è successo? Se lo posso sape', insomma…"

Domandò allora, un po' perché era curioso e un po' di più per sviare il discorso. L'ispettore sospirò e si portò in avanti, facendo strofinare le mani tra loro. Stava prendendo tempo, per lui non era una storia piacevole da raccontare, ma quel ragazzo di fronte a lui aveva bisogno di sentirsela dire per evitare di fare cazzate di cui si sarebbe pentito per tutta la vita.

"Claudio era venuto a Napoli in villeggiatura e ci siamo conosciuti per caso o per destino, se preferisci. Cominciammo a frequentarci e quella vacanza che doveva durare soltanto una decina di giorni cominciò ad allungarsi sempre di più. Diceva di essersi innamorato della città, lo ripeteva in continuazione e io ci credevo perché, insomma, Napoli è la città più bella del mondo, senza offesa per Roma."

L'ispettore fece una risatina e così anche Manuel. Lui a Napoli non c'era mai stato e non dubitava che fosse bella, ma era sicuro che non fosse l'unica cosa di cui Claudio si fosse innamorato.

"Un romanticone, Claudio…"

Domenico annuì, accennando un sorriso. Quelle e le altre parole che Claudio gli aveva dedicato nel corso degli anni, le conservava tutte nel cuore.

"Come puoi intuire, si era innamorato di me e anch'io mi ero innamorato di lui. Vent'anni fa però era un po' diverso da ora e certe cose non si potevano dire così liberamente, quindi nessuno dei due si azzardò a fare il primo passo, non subito almeno. Entrambi pensavamo che nella mente dell'altro ci fosse soltanto un'amicizia, ce lo facevamo andare bene e nel nome di quest'amicizia ci vedevamo ogni volta possibile, a volte scendeva lui a Napoli, a volte salivo io a Roma. Era bello, però... però mancava qualcosa, capisci?"

Sì, Manuel lo capiva perfettamente, con tutto il cuore.

"Vi sentivate incompleti."

Incompleti come lui e Simone erano stati per tanto tempo, incompleti come sarebbero stati ancora se lui l'avesse lasciato. Ma cos'altro poteva fare, per proteggerlo?

"Ah, vedo che capisci benissimo. Sì, ci sentivamo così e un giorno non ne potemmo più. Ero andato io a Roma e, grazie anche ad un vino molto buono che Claudio si era procurato, finalmente ci completammo."

Il bacio di quella sera, scambiato con foga in un piccolo appartamento spoglio e anche piuttosto buio, se lo ricordava ancora nonostante il tempo passato e, in cuor suo, non aveva niente da invidiare ai tanti baci che aveva dato e ricevuto sotto il cielo stellato di Napoli, con ragazze di cui non ricordava neanche più un dettaglio del viso.

"Da quel momento vivemmo degli anni bellissimi, credimi. Per un po' andammo avanti facendo la spola tra Roma e Napoli, telefonandoci spesso e scrivendoci lettere in continuazione. Claudio era bravissimo con le parole, un poeta, e del resto lo è ancora, mentre io...io rubacchiavo qualche frase qua e là, ma attenzione, il sentimento era onesto!"

Manuel ridacchiò, annuendo.

"Non lo metto in dubbio, tranquillo!"

"E ti ringrazio."

Replicò l'ispettore prima di continuare il suo racconto.

"Non appena mi fu possibile chiesi trasferimento a Roma, mentre Claudio, nel frattempo, aveva iniziato a studiare Giurisprudenza e gli mancava poco alla laurea. Lo prese con sé un avvocato, un pezzo grosso del Foro, uno di quelli che può rovinarti o farti diventare ricco con mezza parola...un po' come è Claudio adesso, no?"

Nonostante la battuta, nei suoi occhi non c'era spazio per il divertimento. Erano tristi, malinconici, e Manuel sospettava che a breve avrebbe saputo di più sulla cicatrice che aveva visto prima.

"Non dovrei parlare male di un morto, ma lo stronzo affidò a Claudio, che all'epoca era alle prime armi, un caso troppo difficile, troppo pericoloso. Io gli consigliai di rifiutarlo, ma lui, testardo, diceva che quella era una prova importante e che se avesse dimostrato il suo valore l'avvocato l'avrebbe preso definitivamente nel suo studio. Lo faceva anche per noi, per il nostro futuro."

Sospirò, sconfortato. Se solo avesse saputo prima cosa stava riservando loro il futuro, avrebbe insistito di più.

"Cominciò a spingersi sempre più oltre, a ficcare il naso dove non avrebbe dovuto, a dare fastidio alle persone sbagliate. Io cercavo di seguirlo ogni volta che si allontanava e un giorno me lo ritrovai con una pistola puntata addosso. Capirai che non esitai un attimo a sparare al tizio che lo stava minacciando, ma quello anche da terra sparò un colpo, prima di perdere i sensi. Fui fortunato, però, non prese bene la mira e colpì me, non Claudio."

Prima di concludere il racconto prese un pacchetto di sigarette dalla tasca e se ne accese una.

"Non dovresti fumare, ma per caso ne vuoi una?"

Domenico era l'unica persona a cui Claudio consentiva di fumare in casa propria, perfino lui stesso usciva in balcone quelle poche volte in cui aveva voglia di una sigaretta, ma era certo che anche per Manuel avrebbe fatto un'eccezione.

Il ragazzo accettò volentieri la sigaretta, in quei giorni era stato preso dall'agitazione e aveva fumato anche troppo, ma non si era goduto nemmeno una di quelle sigarette.

"È così che vi siete lasciati, quindi?"

Domandò mentre tornava a sedersi. Liguori scosse il capo, malinconico, e buttò fuori del fumo. Sarebbe stato molto più semplice così.

"Claudio si fece carico di questa cosa, rendendola anche più pesante di quanto fosse in realtà. Ci stava davvero male e io ho provato e riprovato a fargli capire che non era colpa sua e che alla fine non era successo nulla di grave, ma non mi ha mai dato ascolto. Mi lasciò lui dopo poco, non feci neanche in tempo a togliermi i punti che già mi ritrovai con un'altra ferita, ma questa volta nessun medico poteva aiutarmi a richiuderla. Ti confesso che sanguina ancora, sai?"

Manuel serrò le labbra intorno alla sigaretta, colpito da quelle parole come un proiettile. Pensò che in quel momento si trovava davanti ad una versione di Simone del futuro, mentre il proprio equivalente era nell'altra stanza. Valeva la pena sapere cosa lo aspettasse.

"E...Claudio, invece, come l'ha presa? Voglio dire, come sta?"

Chiese impacciato e Domenico scrollò le spalle.

"Non me l'ha mai detto chiaramente, ma hai visto come ti ha risposto prima, no? Sono passati anni, ma ancora si pente di ciò che ha fatto."

Manuel, allora, lo guardò perplesso. Non capiva perché si ostinassero a stare lontani...o meglio, lo capiva, ma voleva una conferma.

"E allora perché non siete tornati insieme? Sei te che non vuoi?"

Liguori fece una risatina.

"Manuel, io tornerei con Claudio in questo istante, se me lo chiedesse. Ho cercato di dimenticarlo, in tutti questi anni, ho cercato di completare me stesso con altre persone, ma i miei angoli coincidono soltanto con i suoi spigoli. È lui che non vuole, ancora convinto di essere più un danno che un bene, per me. Un veleno, come dici tu, senza rendersi conto che per me lui è miele."

L'ispettore parlava con un'intensità tale che fece venire i brividi a Manuel e lo costrinse a voltarsi con la scusa di soffiare via il fumo, per nascondere gli occhi lucidi. Gli sembrava davvero di sentire Simone.

"Forse non sono un veleno, forse sono una droga. Una droga che te rende felice, no, che te da l'illusione della felicità, ma poi ti rovina da dentro e quando te ne accorgi è troppo tardi. Forse anche Claudio la pensa così."

Mormorò, tenendo lo sguardo fisso sulla finestra. Sotto quello stesso cielo stellato, da qualche parte, c'era Simone che soffriva per colpa sua. Sentì Liguori sospirare.

"Senti, io non posso dirti cosa fare o non fare con Simone, è una decisione che spetta a te. Posso solo dirti che io le droghe le conosco e l'amore, quello che ti ho letto in faccia stasera, non è una di queste."

Si alzò, andando vicino al ragazzo e gli mise una mano sulla spalla. Istintivamente, Manuel si voltò.

"Uagliò, vir 'e nun fa' strunzat, hai capito?"

Manuel annuì perché sì, aveva capito. Il suo cervello e il suo cuore non erano in accordo su cosa considerare una stronzata e cosa no, ma sì, aveva capito.

Liguori gli diede una pacca sulla spalla.

"Salutami Claudio, mi faccio sentire io per le novità. Stammi bene, Manuel."

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Capitolo 10
*** Un dottore guarisce da più o meno ogni male, però ***


Simone non aveva più un corpo, ma una massa di sofferenza fatta di carne livida e ossa spezzate.

Si sentiva così da quando Zucca l'aveva colpito a piena forza su quella gamba che non aveva più il coraggio di guardare, ma su cui continuava a posare gli occhi.

La prima volta che l'aveva fatto, dopo essere rimasto solo, aveva vomitato tutto ciò che aveva mangiato con Manuel. Era rimasto lì, disteso accanto alla sua pozza di vomito, per un tempo indefinito, con il cuore che gli batteva all'impazzata e la mente che non riusciva a fare altro che non fosse pensare a Manuel. Aveva visto Zucca e quell'altro tizio trascinarlo via mentre lui si dimenava e urlava il suo nome, un grido a cui Simone non era riuscito a rispondere per mancanza di forze. Fu l'ultima cosa che vide prima che il dolore gli facesse perdere conoscenza e il non sapere cosa fosse successo dopo lo faceva impazzire tanto quanto la gamba rotta, se non di più: quella, almeno, era una certezza.

Non sapeva di preciso cosa avesse fatto il suo ragazzo -se non che si era rivolto nel modo sbagliato a Sbarra-, ma era certo che anche lui avesse ricevuto una buona dose di colpi, anche solo per farlo stare buono. Pregò che la cosa si fosse fermata lì, che non avessero infierito ulteriormente, magari rompendo una gamba anche a lui o scatenandogli contro uno di quei cani assatanati che Sbarra teneva in gabbia, pregò che Manuel fosse riuscito a tornare a casa, da Claudio, e che fosse al sicuro.

Poteva quasi sentire la voce del suo ragazzo -e no, stavolta non si trattava di un'allucinazione- che gli dava dello stupido romanticone perché anche in quella situazione, con una gamba sfracellata, pensava a preoccuparsi per lui e non per se stesso. Ma anche volendo, che vantaggio avrebbe avuto a preoccuparsi di sé? Cosa poteva fare per migliorare la sua situazione? Assolutamente nulla.

Non poteva provare a sfondare la porta dello stanzino e se anche ipoteticamente ci fosse riuscito sarebbe stato riacciuffato ancor prima di riuscire a vedere il cancello dello sfascio. Non poteva salvarsi da solo, quindi che senso aveva pensare a se stesso? Manuel, invece, era fuori, era libero, poteva contare su qualcuno che lo aiutasse, poteva effettivamente tirarlo fuori da lì, come gli aveva promesso.

Certo, per come era fatto Simone e per quanto lo amava, avrebbe pensato a lui e al suo benessere anche se non fosse stato in grado di aiutarlo e perfino se Manuel non avesse nemmeno avuto l'intenzione di aiutarlo.

La verità era che Manuel era la sua metà e per Simone era naturale preoccuparsi per lui, pensare a lui con tutte le sue forze, così come anche Manuel faceva. Quell'essere unico che erano diventati era stato di nuovo violentemente separato dall'invidia degli dèi e loro avevano ripreso freneticamente a cercarsi, stavolta con il cuore e la mente, non potendolo fare con il corpo.

Quando recuperò un po' di forze e si sentì meglio, si trascinò il più possibile lontano dal suo stesso vomito, che puzzava in un modo da fargli girare la testa. Arrivare alla parte opposta dello stanzino gli sembrò come attraversare l'intero asse terrestre e ad ogni spinta che si dava la gamba gli faceva un po' più male, sempre più male, mentre strisciava sul pavimento duro e sporco.

Quando si fermò era senza fiato e prese a respirare a pieni polmoni -e ogni respiro era come una coltellata-, il sudore gli scorreva sulla pelle mischiandosi alla polvere, rivestendolo di una patina sottile che pizzicava da morire e per un po' fu scosso da brividi, nonostante lo stanzino fosse rovente. Crollò così, esausto, senza neanche rendersene conto.

Al suo risveglio era rimasto perfettamente immobile, non aveva provato a muovere nessun muscolo, totalmente paralizzato dal dolore che si era di nuovo diffuso ovunque, a partire dalla gamba rotta che gli sembrava andasse a fuoco per quanto la sentiva bruciare. Si chiese se fosse effettivamente possibile morire di dolore e quale fosse la soglia massima che un corpo umano potesse sopportare. Qualunque essa fosse, pensò, doveva impegnarsi a resistere anche oltre, come aveva promesso a Manuel.

Sentiva Sbarra discutere dall'altra parte della porta, segno che la notte era passata, e per tutto il giorno tese bene le orecchie per carpire eventualmente la voce di Manuel. Non gli piaceva l'idea che tornasse lì, preferiva pensarlo il più lontano possibile da Sbarra e da Zucca, ma non aveva altro modo per sapere se stesse bene, se fosse vivo.

Le ore passarono lente senza portare alcuna notizia di Manuel con loro e senza che nessuno entrasse in quello stanzino. ‘Meglio così’, si disse Simone, non aveva proprio voglia di avere un'altra conversazione con Sbarra e Zucca, non credeva che sarebbe riuscita a sostenerla, debole e stanco com'era.
All'improvviso la tranquillità di quella giornata fu interrotta da urla concitate, troppo confuse tra loro per permettergli di capire qualcosa. Era strano, però, che gli sgherri di Sbarra si lasciassero prendere dal panico, di solito era tutto sotto controllo in mano a lui. Dopo non molto Simone sentì aprire la porta e un uomo che non aveva mai visto in vita sua gli si avvicinò rapidamente.

"Simone, eccoti qua! Dobbiamo andare, non abbiamo molto tempo."

Simone si ritrasse d'istinto, trascinandosi dolorosamente a terra, perché aveva ancora in mente i commenti che Sbarra e Zucca avevano fatto mentre si lavava e, annebbiato dal dolore, in quel momento, con quello sconosciutodavanti, riusciva a pensare soltanto a quelli.

"Non ti avvicinare! Vattene!"

Urlò, per quanto gli fosse possibile.

L'uomo sconosciuto sospirò pazientemente. Avrebbe potuto sollevarlo di forza, ma non voleva fargli del male, quel ragazzo aveva già sofferto abbastanza.

"Fossi in te ci ripenserei. Sono l'ispettore Liguori e sto qua per riportarti a casa. Dai, vieni, non abbiamo molto tempo."

"Ti ho detto di andare via! Non mi toccare!"

Strillò Simone, con la voce che gli usciva a fatica e la gola che graffiava. Liguori alzò le mani, per dimostrargli che non aveva intenzione di toccarlo e gli rispose con voce calma, guardandolo negli occhi. In quelli del ragazzo vide soltanto paura, dolore e confusione ed era una vista che spezzava il cuore.

"Calmati, ti prego, così ti fai solo del male. Guarda qui…"

Portò una mano dentro la giacca, tirando fuori il distintivo.

"Sono un ispettore di polizia, voglio portarti via di qua e riportarti dalla tua famiglia e da Manuel. Paperotto, lo chiami così, giusto? Me l'ha detto lui."

Gli spiegò con un sorriso e Simone, a sentire il nome di Manuel, smise di agitarsi. Era l'unico punto fermo, l'unica sicurezza in quel mare di dolore in cui stava affogando da un tempo che gli sembrava infinito.

"Manuel…Manuel sta bene? È al sicuro?"

Domandò preoccupato, respirando affannosamente, e Liguori annuì, rassicurante.

"Sì, non ti preoccupare, sta bene e ti sta aspettando, in questo momento è a casa di Claudio. Sono sicuro però che starà ancora meglio quando saprà che tu sei uscito da questo postaccio."

Simone lo fissò ancora per qualche istante, cercando di capire se gli stesse mentendo, ma gli occhi di quell'uomo gli parvero sinceri, gli ricordarono quelli di Claudio -che a quanto pare conosceva- e decise di fidarsi, senza contare che gli aveva detto il soprannome di Manuel, che avrebbe potuto apprendere soltanto da lui.

Si fece aiutare ad alzarsi in piedi e appoggiandosi all'ispettore si fece portare fuori dall'ufficio di Sbarra, che in quel momento era vuoto.

"Tieni, usa questo."

L'uomo gli porse un fazzoletto di stoffa bagnato, facendogli segno di portarselo al viso e Simone obbedì immediatamente. L'aria era densa del fumo che volava verso di loro, intorno a loro, spinto dal vento e che proveniva dalla zona più lontana dello sfascio. Lì, vicino all'ufficio di Sbarra, non sembrava esserci nessuno.

"Ma che succede? Va a fuoco qualcosa?"

Liguori annuì, ispezionando rapidamente con lo sguardo i dintorni prima di iniziare a camminare, reggendo a sé il ragazzo.

"Un'idea del tuo innamorato, è un tipo sveglio…"

Spiegò rapidamente e Simone sorrise, innamorato e sorpreso, nascosto dal fazzoletto. Non aveva mai dubitato che Manuel, in qualche modo, sarebbe riuscito a tirarlo fuori di lì, ma certamente non si aspettava qualcosa di così eclatante, che sembrava uscita da un film.

Si aggrappò meglio all'ispettore, cercando di aumentare il passo, ma non bastò ad evitare che l'uomo accanto a lui venisse colpito da un proiettile, all'improvviso.

Liguori imprecò a denti stretti e si voltò verso la persona che aveva sparato, sparando un colpo a sua volta con la pistola che teneva nascosta sotto la divisa da pompiere. Simone sgranò gli occhi, come pietrificato, non aveva mai sentito il rumore di un proiettile. Era quasi assordante.

"Uagliò, tutto a posto?"

Chiese l'ispettore, rafforzando la presa su di lui. Lo vedeva scosso, ma era naturale.

"Sì, io...lei, piuttosto, è ferito?"

L'uomo scosse il capo, riprendendo a camminare.

"È solo un graffio, tranquillo. Forza, ci siamo quasi."

Salirono entrambi su un'ambulanza nascosta a poca distanza dallo sfascio e da quel momento Simone ebbe qualche difficoltà a rimanere lucido. Venuta meno l'adrenalina, infatti, erano tornati tutti i dolori con gli interessi, anche se in verità a poco a poco anche quelli andarono via, grazie ad una siringa di antidolorifici. L'ultima cosa che vide prima di abbandonarsi al sonno fu il braccio insanguinato dell'ispettore e un infermiere che se ne occupava.

Quando riaprì gli occhi non era più in ambulanza e si rese conto, seppur con la vista annebbiata,  di essere in una stanza bianca, di cui faticava a mettere a fuoco i dettagli. Davanti a lui, di spalle, vide una massa di ricci scuri che gli sembrò familiare.

"Manuel?"

Biascicò speranzoso, all'indirizzo di quella persona. Quando questa si girò, con un sorriso cordiale in volto, Simone capì che non si trattava di Manuel e si diede dello stupido per averlo anche solo pensato: per prima cosa indossava un camice bianco, il che era decisamente un indizio, poi era molto più alto di Manuel e anche i capelli erano troppo corti per essere i suoi.

"No, mi spiace, io sono il dottor Bonvegna, ma puoi chiamarmi Riccardo. E tu sei Simone, invece, giusto? Ben svegliato!"

Gli si avvicinò e Simone si accorse che aveva gli occhi verdi e le guance perfettamente rasate, a completare il quadro delle sue differenze con Manuel.

"Sì, sono...sono Simone. Dove mi trovo?"

Chiese con voce impastata, chiudendo gli occhi perché la luce gli dava fastidio. Era una domanda stupida, ma non poteva pretendere chissà cosa dal suo cervello in quel momento.

“Beh, capisco che tu possa esserti confuso con la suite di un hotel a cinque stelle, ma sei in ospedale, al San Camillo per l’esattezza.”

Rispose scherzoso il giovane medico, mentre andava a spegnere la luce che sembrava essere un problema per il ragazzo.

Simone si sentiva ancora troppo stordito per rispondere con una risata o un sorriso. Era contento per la buona notizia, naturalmente, anzi gli sembrava troppo bello per essere vero, essere riuscito ad uscire da quell’incubo. Si ricordò di esserci riuscito solo grazie all’uomo che lo aveva salvato e che era stato ferito, per cui si accigliò, preoccupato.

“In ambulanza con me c’era l’ispettore…l’ispettore qualcosa, gli hanno sparato…come sta?”

Domandò a fatica, la bocca impastata rendeva difficile articolare le parole.

“Lui sta bene, non ti preoccupare, lo abbiamo già mandato a casa. Ho spento la luce, puoi riaprire gli occhi, comunque.”

Simone sollevò lentamente le palpebre e si trovò molto meglio nella stanza in penombra, illuminata soltanto da un lampione fuori dalla finestra e dalla luce che proveniva dal corridoio. Proprio guardando fuori da quella finestra, si accorse che era notte fonda.

“Grazie e mi scusi per il buio…”

Il medico lo interruppe con un gesto della mano.

“Per prima cosa dammi del tu, che con questo lei mi fai sentire un vecchio bacucco. Per seconda, non ti scusare, ok? Io sono un dottore, sono qui per farti stare meglio e se la luce ti dà fastidio io ho il dovere morale di spegnere anche il Sole!”

Simone, adesso, rispose con una risatina. Era simpatico, quel dottore.

“Va bene, però lasciamo stare il Sole, è un po’ esagerato…”

Riccardo annuì, avvicinandosi di nuovo al letto.

“Come preferisci. Adesso guarda, ti faccio vedere una cosa…”

Gli mise sotto la mano un piccolo telecomando collegato al letto e gli fece sfiorare i due pulsanti con l’indice.

“Con questo in alto sollevi lo schienale, con l’altro lo abbassi, così ti è più comodo bere o mangiare. Immagino tu abbia sete in questo momento, no?”

Simone annuì appena e, come gli era stato appena spiegato, fece sollevare lo schienale del letto mentre il medico versava dell’acqua in un bicchiere e glielo porgeva. Bevve a piccoli sorsi, ma lo svuotò rapidamente.

“Allora, Simone, adesso ti spiego un po’ la tua situazione e poi ti lascio in pace, va bene? Sono abbastanza sicuro che tu te ne sia già accorto, ma hai una gamba rotta che ti devo chiedere di tenere il più possibile ferma. Per aiutarti ti abbiamo dato un supporto, poi appena sarà possibile ti mettiamo il gesso, per adesso pensiamo a stabilizzarti.”

Indicò delle flebo, appese sopra il letto.

“Sei parecchio disidratato, stiamo reintegrando i liquidi con queste. Non ti nascondo che sei stato fortunato, c'era un'emorragia e abbiamo dovuto operarti, siamo riusciti a salvare il muscolo giusto in tempo. Però sei stato  anche forte, se mi permetti. Io, per esempio, al tuo posto non sarei riuscito a resistere e a quest’ora altro che ospedale…”

Si interruppe, rendendosi conto che così avrebbe potuto spaventare il suo giovane paziente e si schiarì la voce.

Simone, dal canto suo, non era poi così turbato da quelle affermazioni, più di una volta aveva pensato che sarebbe morto in quello stanzino –per un motivo o per un altro- e il dottor Bonvegna gli stava soltanto dando la conferma scientifica.

“Avevo i miei motivi per resistere.”

Replicò con un mezzo sorriso, per fargli capire che non gli avevano dato fastidio le sue parole.

Il medico ricambiò il sorriso e i suoi occhi verdi si illuminarono di ammirazione. L’ispettore che aveva portato lì Simone aveva spiegato per sommi capi cosa fosse successo e Riccardo era rimasto colpito da quella storia. Non era facile per un ragazzo così giovane attraversare un’esperienza di quel tipo. Si chiese se tra quei motivi ci fosse quel Manuel che gli aveva sentito nominare prima, ma evitò di fare questa domanda ben poco professionale.

“Adesso però non devi più resistere, pensa soltanto a riposarti. Anzi, se non hai domande da farmi, ti lascerei appunto riposare…”

Simone non aveva domande di tipo clinico da fare, ma era praticamente certo che gli sarebbe stato difficile riposarsi, da solo. Sospirò.

“In realtà, vorrei solo sapere se la mia famiglia sa che sono qui e quando potrò ricevere visite.”

Il medico sorrise, comprensivo.

“Sì, abbiamo avvisato la tua famiglia e anche il tuo avvocato, l’ispettore che ti ha salvato è stato molto insistente su questo punto. Comprensibile, vista la situazione. Per quanto riguarda le visite, invece, se mi prometti che non ti affaticherai, potrai iniziare a riceverle già da domani. Però devi fare il bravo, intesi?”

Lo indicò con l’indice, fingendosi minaccioso. Simone annuì, più sereno.

“Lo prometto, grazie.”

Dormire quella notte sarebbe stato difficile, ma il pensiero di rivedere suo padre, sua nonna e naturalmente Manuel già l’indomani avrebbe aiutato a farla trascorrere più velocemente.

“Bene, allora adesso cerca di riposare. Per qualsiasi cosa premi quel pulsante e verrò io o un infermiere ad assisterti, non farti nessun problema. Sei al sicuro adesso, capito?”

Riccardo glielo disse guardandolo negli occhi e il suo sguardo era deciso, carico di solennità, diverso da quello giocherellone che aveva rivolto al suo paziente nel poco tempo trascorso insieme. Si era fatto carico di quel ragazzo e voleva che stesse bene sotto ogni punto di vista.

Simone annuì, sperando che il medico avesse ragione. Il ricordo di ciò che aveva trascorso non si cancellava certamente con un colpo di spugna e la paura di finire di nuovo nelle grinfie di Sbarra rimaneva ben ancorata nel suo cuore, ma il dottor Bonvegna, per quanto disponibile, sicuramente aveva altri pazienti di cui occuparsi e non poteva trascorrere tutta la notte a tenergli compagnia soltanto perché lui aveva paura di rimanere da solo.

Gli diede la buonanotte, allora, e chiuse gli occhi come se avesse voluto addormentarsi. La sua reale intenzione era di restare sveglio, ma un po’ grazie agli antidolorifici, un po’ a causa della stanchezza, finì per assopirsi davvero, accorgendosene giusto in tempo per sperare che una volta riaperti gli occhi avrebbe rivisto la stanza bianca dell’ospedale e non lo sgabuzzino buio dell’ufficio di Sbarra.

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Capitolo 11
*** L’insistenza di esistere appesi ad un filo sottile sei tu ***


“Perché non possiamo andare da Simone adesso?”

Esclamò Manuel, contrariato, al rifiuto di Claudio a quella sua richiesta. Non era stupido, sapeva che non potevano farlo perché erano in piena notte e non li avrebbero fatti entrare, ma avevano ricevuto una telefonata dell'ospedale ed erano stati informati del fatto che Simone fosse stato operato, Manuel doveva accertarsi che stesse bene! Sperava che Claudio potesse fare un po’ di insistenza, essendo un avvocato importante.

L’uomo sospirò pazientemente, come ormai spesso si ritrovava a fare da quando quel ragazzo si trovava in casa sua. Non lo biasimava, anche lui avrebbe provato a smuovere mari e monti per la persona che amava.

“Lo sai perché, Manuel, non insultare la tua intelligenza. Sono quasi le quattro, non ci fanno neanche parcheggiare l’auto. E no, prima che tu possa chiedermelo, io non posso fare niente contro le regole dell’ospedale. Andremo da Simone domani, così avrai anche modo di riposarti.”

Manuel incrociò le braccia e sbuffò, simile in tutto e per tutto ad un bambino capriccioso, ma in realtà era preoccupato, perché per quanto fosse felice del fatto che Simone finalmente fosse in un posto sicuro, era certo che non sarebbe stato bene lasciato da solo con i suoi pensieri.

"E come faccio a riposare, se so che Simone non dormirà? Non posso lasciarlo solo!"

"Simone è stanco, sono sicuro che non gli sarà troppo difficile dormire. Poi ti ricordo che con lui ci sono medici e infermieri, non è solo."

Gli fece presente Claudio con calma, per poi bere un sorso di tisana. Manuel, però, non trovò rassicurazione in quelle parole.

"Se non ci sono io sì, è solo! Simone ha bisogno di me, Claudio...e io ho bisogno di lui."

Ammise, con voce più bassa, guardando l'avvocato con occhi tristi. L'uomo sospirò e gli fece cenno di sedersi sul divano accanto a lui. Manuel si accomodò, mantenendo la sua espressione da cane bastonato, come l'aveva definita Simone tempo prima, in quella che adesso sembrava un'altra vita.

Se fossero stati in tribunale, Claudio adesso avrebbe ricordato a Manuel che appena un giorno prima aveva espresso il proposito di lasciare Simone, ma preferì non farlo, dal momento che il ragazzo sembrava aver recuperato la ragione da solo. Beh, non proprio da solo, aveva parlato con Domenico e Claudio aveva un'idea piuttosto chiara di cosa si fossero detti. Mise da parte il pensiero, tornando a concentrarsi sul ragazzo davanti a sé.

"Manuel, credimi, se avessi davvero il potere di farti entrare in quell'ospedale lo farei. Tu e Simone siete stati strappati l'uno dall'altro e siete rimasti separati e sanguinanti per troppo tempo. Volete solo rimarginare le vostre ferite, tornando ad essere completi e questo lo capisco, davvero, ma adesso si tratta di sopportare soltanto un'ultima notte. Una notte che, diversamente dai giorni appena passati, Simone trascorrerà in un ambiente sicuro, dove nessuno vuole fargli del male. Rende la cosa un po' più sopportabile, no?"

Manuel scosse il capo, testardo. Voleva essere sicuro che Simone riposasse davvero, che si sentisse al sicuro e che, soprattutto, nessuno lo portasse più via da lui.

"Tu non faresti almeno un tentativo, per una persona a cui tieni? Se ci fosse Domenico al posto di Simone, non correresti da lui?"

Alzò gli occhi scuri per incontrare quelli azzurri dell'altro, certo di colpire nel segno con la sua domanda. Domenico gli aveva fatto capire che lui e Claudio erano più simili di quanto avrebbe mai potuto immaginare, del resto.

Claudio sospirò e poi annuì, non se la sentiva di mentire di fronte all'amore. Si era sbagliato, Manuel poteva avere un futuro come avvocato.

"E va bene, facciamo questo tentativo, ma non posso assicurarti niente. Se ci mandano via, mi prometti che non farai storie?"

"Prometto! Sei un grande, Cla'!"

Esclamò, scattando in piedi. Filò in camera a infilarsi rapidamente una felpa per proteggersi dall'aria fredda della notte, intanto l'avvocato inviò un messaggio all'ispettore, a cui però non ottenne risposta. Si impose di restare calmo, perché se fosse successo qualcosa sarebbe stato sicuramente avvisato dall'ospedale, si disse che semplicemente Domenico doveva essere tornato a casa ed essersi messo a letto.

I suoi pensieri furono interrotti da Manuel che gli diede fretta di uscire, quindi lasciarono l'appartamento e si diressero verso l'ospedale. Per Manuel quello fu il viaggio più lungo della sua vita, più di una volta chiese a Claudio di accelerare, che tanto non c'era nessuno in giro per Roma a quell'ora, e quando arrivarono al parcheggio dell'ospedale sarebbe sceso dall'auto ancora in movimento, se non fosse stato trattenuto dall'avvocato.

"Comprendo la tua voglia di rivedere Simone, ma adesso ti devi calmare. Andiamo e lascia parlare me."

Riuscirono a superare un primo controllo all'ingresso dicendo che erano stati chiamati d'urgenza per la madre in fin di vita -una scusa che Claudio servì con un talento da attore-, ma l'infermiera all'accettazione del reparto di medicina generale, a cui per forza di cose dovettero dire la verità, proprio non voleva saperne di farli passare, limitandosi a dire che il paziente che cercavano stava bene e che stava riposando.

Manuel cominciò a sentire il proprio cuore battere all'impazzata, non poteva concepire di essere così vicino a Simone e di non poterlo vedere. Aveva promesso di non fare storie, ma in vita sua non era mai stato un campione di coerenza.

"La prego, glielo chiedo pure in ginocchio, ce faccia vede' Simone, pure solo da fuori! Lei lo sa cos'ha passato? Devo sape' se sta bene!"

Esclamò, guadagnandosi un'occhiataccia da Claudio e un avvertimento dalla caposala, che minacciò di chiamare la sicurezza. In loro soccorso, fortunatamente, intervenne Liguori.

"Chiedo scusa, loro sono con me."

Disse mostrando il distintivo, solitamente era un passepartout che funzionava. Claudio spostò lo sguardo verso di lui, sorpreso di vederlo ancora lì, mentre l'ispettore ignorò volutamente quegli occhi.

Grazie al suo intervento riuscirono a superare l'ingresso e a sistemarsi in sala d'attesa. Beh, a dire il vero Manuel corse verso la stanza di Simone e Claudio fece per inseguirlo, ma venne bloccato dall'altro uomo che gli si parò davanti mettendogli una mano sul petto.

"Lascialo sta', dai. Vuole solo vedere come sta l'innamorato suo…"

Domenico accennò un sorriso e Claudio non riuscì a resistere al suo sguardo malinconico. Sapeva a cosa stava pensando.

"Se si fa cacciare dall'ospedale non lo vedrà più neanche con il cannocchiale."

Sospirò, facendo cenno all'ispettore di sedersi.

"E tu invece che ci fai qua? Pensavo fossi andato a casa…"

Domenico non poteva mentire a Claudio, non ne era mai stato capace. Non voleva neanche che si preoccupasse eccessivamente, però.
"No, niente, è che... c'è stato un piccolo incidente allo sfascio, ma niente di grave, sta' tranquillo."

Claudio si accigliò, preoccupato, e gli si avvicinò di qualche passo.

"È proprio quando dici così che inizio a preoccuparmi. È successo qualcosa a Simone?"

L'ispettore scosse il capo, spostando lo sguardo altrove per sfuggire a quegli occhi di ghiaccio, pur sapendo che sarebbe servito a poco.

"Allora è successo qualcosa a te? Dai, non farmi fare l'avvocato!"

Esclamò, muovendo il capo per cercare gli occhi verdi dell'altro. Liguori sospirò, trovandosi costretto a dire la verità.

"Mi hanno sparato, ma non t'agita’, sto bene. È solo un graffio, ho passato di peggio. Guarda."

Si sbottonò la divisa da pompiere, che ancora indossava, e la abbassò per mostrare una fasciatura sull'avambraccio. Claudio vi portò istintivamente una mano sopra, accarezzandola delicatamente con il pollice. I suoi occhi si riempirono di malinconia perché sì, Domenico aveva passato di peggio ed era successo per colpa sua. Era proprio per quello sguardo triste che l'ispettore non voleva raccontare nulla.

"Ja, nun fa' accussì, è cos ‘e nient."

Parlò volutamente nel suo dialetto, di solito bastava per far tornare il sorriso sul volto di Claudio. Questa volta, però, non ottenne l'effetto desiderato.

"Per te non è mai niente, Domenico."

Sospirò, scuotendo appena il capo.

"Non so più cosa fare con te. Finisci sempre per metterti nei guai…"

Sussurrò preoccupato, senza staccare gli occhi da quella fasciatura che ancora stava accarezzando.

Domenico accennò un sorriso malinconico.

"Forse è perché non ho più il mio portafortuna con me. Ti ricordi cosa ti dicevo sempre?"

Mormorò, e intanto nella sua mente riaffiorarono i ricordi di quelle parole che riecheggiavano nel piccolo ingresso del loro appartamento, rendendo più dolce ogni amara separazione.

Claudio sentì il proprio respiro mozzarsi in gola e chiuse gli occhi, come colpito da una fitta.

"Non so di cosa tu stia parlando."

Mentì, pur sapendo che fosse del tutto inutile. La sua voce aveva tremato nel pronunciare quella frase, un errore che non aveva commesso neanche durante la sua primissima udienza. Aveva sempre avuto la capacità di saper trasformare -se avesse voluto- un uomo innocente in colpevole e un uomo colpevole in innocente, eppure dire una bugia a Domenico non gli era mai riuscito.

"E invece lo sai."

Ribatté l'ispettore, afferrandolo delicatamente per un polso. Non voleva che scappasse via, come faceva sempre quando si trovavano in momenti come quelli, ormai sempre più rari.

L'avvocato riprese a respirare con un profondo sospiro e riaprì gli occhi, fissandoli di nuovo sulla ferita dell'altro.

"Ti dicevo che il mio portafortuna erano i tuoi occhi blu. Lo sono ancora, anche se lontani."

Continuò Domenico, sollevando il capo per guardarlo in quegli stessi occhi che per lui erano come una bussola da seguire per ritrovare il cammino nelle situazioni più pericolose. Lo avevano sempre aiutato.

Claudio abbozzò una risatina, ma non era allegro.

"Non ti sono serviti granché, faresti meglio a trovartene uno nuovo. Ho perso il conto delle volte in cui hai rischiato la vita, Domenico…"

Mormorò malinconico, ma Liguori scosse il capo, ostinato.

"Guardami, sono vivo. Hai ragione, ho rischiato di morire tantissime volte, eppure sono ancora qui per raccontarlo. Lo vuoi capire che non è mai stata colpa tua se ho rischiato la vita, ma merito tuo se non l'ho persa?"

Gli stava parlando con il cuore in mano, gli occhi che tremavano mentre pronunciava quella specie di supplica. Erano passati anni dall'ultima volta che aveva provato a convincerlo a tornare insieme, con la differenza che in quel momento era sobrio.

Nel cuore di Claudio scattò qualcosa, qualcosa che fece incrinare il ghiaccio nei suoi occhi, e diversamente da allora non allontanò Domenico con i gesti o con le parole. Si avvicinò ancora un po', costringendo l'ispettore ad appoggiarsi al muro per riflesso, e con la mano libera prese un fazzoletto di stoffa dalla tasca, che poi passò sul suo volto sporco di fumo nero per pulirlo.

Era un gesto d'affetto che l'ispettore non si aspettava, ma che il suo cuore riconobbe immediatamente come un bisogno a lungo insoddisfatto. L'avvocato accennò un sorriso.

"Appena avremo un po' di tempo vorrei parlarti, se sei disposto ad ascoltarmi. Non me lo merit-"

L'ispettore non gli lasciò concludere la frase, per evitare che se la rimangiasse troppo in fretta.

"Perché non me lo dici mo’? Non abbiamo niente da fare, posso ascoltarti anche adesso…"

Ti ascolterei sempre, pensò, non mi stancherei mai del suono della tua voce.

Claudio scosse il capo, calmo, e poi sorrise.

"Perché adesso dobbiamo recuperare Manuel prima che si faccia venire strane idee in mente. Te lo giuro, questa volta non scappo."

                                                                                                         *****

Manuel, intanto, si era messo a cercare la stanza di Simone sbirciando alle finestre che davano nelle camere. Si sentiva un po' un guardone a invadere un momento così privato come il sonno ad una serie di perfetti sconosciuti, ma cercava di non pensarci troppo e di concentrarsi solo su Simone.

Ecco, finalmente lo vide nella stanza numero quindici e sospirò, in uno strano misto di sollievo e timore che non pensava neanche potesse esistere. La camera era immersa nell'oscurità, ma a lui non serviva poter vedere ogni singolo dettaglio per riconoscere il suo Simone. Lo aveva riconosciuto il suo cuore, che aveva preso a battere più velocemente non appena si era affacciato lì.

Simone era sistemato nel letto più in fondo, quello vicino alla finestra, e sembrava stesse dormendo. Manuel notò che l'altro letto, più vicino alla porta, era vuoto e pensò che non avrebbe disturbato nessuno, allora, entrando in quella stanza. Voleva solo accertarsi che Simone dormisse serenamente, una cosa da pochi minuti, sarebbe stato velocissimo e non si sarebbe fatto vedere da nessuno.

Proprio mentre stava per aprire la porta, una voce alla sua destra lo bloccò.

"E tu chi sei? Che ci fai qua? Guarda che chiamo la sicurezza!"

Il ragazzo imprecò mentalmente e si voltò in quella direzione, cercando freneticamente nella sua testa una scusa credibile. Vide che a fermarlo era stato un medico, o  almeno gli sembrava un medico, anche se ad occhio poteva passare quasi per un ragazzo della sua età.

"Io...ehm...sono un paziente! Volevo sgranchirmi un po' le gambe e...ah, ma questa non è la mia stanza! Mi sono sbagliato, chiedo scusa!"

Cercò di essere convincente, ma evidentemente fallì. Non era del tutto colpa sua, però, del resto non poteva farci niente se il dottor Bonvegna conosceva personalmente ogni singolo paziente del proprio reparto. Il medico trattenne a stento una risatina a quel goffo tentativo di depistaggio.

"Ah, ma allora ti chiedo scusa io! Se mi dici qual è la tua stanza, ti ci accompagno."

Manuel imprecò mentalmente per la seconda volta, il dottore non se l'era bevuta neanche lontanamente.

"La mia stanza? Sì, certo...è la diciannove…"

Rispose, sperando in un colpo di fortuna o in un miracolo. Riccardo incrociò le braccia, guardandolo divertito.

"Nella stanza diciannove ci sono una signora di quasi sessant'anni e una ragazza di venticinque e tu non mi sembri nessuna delle due. Te lo chiedo di nuovo, che ci fai qua?"

Disse calmo e Manuel sospirò, rassegnandosi a dire la verità.

"Sto qua per Simone…"

Indicò la stanza con un cenno del capo.

"Per favore, non mi cacci. Ho solo bisogno di vedere come sta, la prego."

Mormorò preoccupato, con gli occhi tristi. Il dottore sospirò, scuotendo il capo.

"Non posso farti entrare a quest'ora, devi aspettare domani. Simone sta bene, te lo garantisco io. Tu, piuttosto, sei qua da solo? Dovresti tornare a casa…"

Con un tempismo perfetto, Claudio e Domenico entrarono nel corridoio, raggiungendo a passo svelto Manuel e il dottore.

Il ragazzo li indicò con un gesto della mano e intanto pensò che le garanzie di quel dottore non lo rassicuravano minimamente. Certo, tra i due era lui che aveva studiato Medicina, ma non era lui quello che conosceva Simone.

"Sto con loro, veramente."

"Ah, eccoti! Dottore, la prego, lo scusi. È solo preoccupato per il suo amico, ma adesso lo riportiamo a casa…"

Cominciò a dire Claudio, dopo essersi avvicinato a Manuel e aver poggiato una mano sulla sua spalla. Manuel sbuffò.

"Mi presento, sono Claudio Vinci, l'avvocato di Simone Balestra."

Aggiunse, porgendo la mano libera al dottore, che ricambiò la stretta. Conosceva quell'avvocato di fama e sapeva che l'ufficio legale dell'ospedale avrebbe tremato a sentire quel nome, ma le regole erano regole e valevano anche per lui.

"Piacere, io invece sono il dottor Bonvegna, Simone è un mio paziente. Mi dispiace che siate venuti fin qui a quest'ora, ma devo proprio chiedervi di andare. Anche lei ispettore Liguori, può tornare a casa. Si ricordi di cambiare la fasciatura e ripassi tra una settimana per un controllo."

Disse cordiale, ma deciso.

Dopo aver salutato, Claudio dovette quasi trascinare Manuel di peso in quel corridoio, mentre Domenico se la rideva sotto i baffi. Era un'altra situazione che gli fece venire un déjà-vu, solo che al posto di Claudio c'era sua madre, al posto di Manuel c'era Claudio e al posto di Simone c'era lui.

"Dai, Manuel, non fare il testardo! È già tanto che non abbia chiamato la sicurezza!"

Esclamò l'avvocato e Manuel alzò gli occhi al cielo.

"Ma l'hai visto a quello? Non sembra manco un medico, devi pure vede' se ha finito la scola!"

E così dicendo si liberò dalla presa dell'avvocato per accasciarsi su una sedia in sala d'attesa. Claudio non poteva dire di essere sorpreso.
"Io da qua nun me movo, se volete voi potete andare. Grazie per averme portato qua, ma nun me me vado. Voglio essere qui subito, domani mattina."

L'avvocato si scambiò uno sguardo veloce con l'ispettore, in cerca di supporto. In quegli occhi verdi poteva leggere un 'chissà chi mi ricorda', ma trovò anche l'appoggio che cercava.

"Uagliò, tu m'hai fatto due promesse, non ti ricordi?"

Manuel incrociò le braccia, deciso.

"Domani vado a salutare Simone e poi passo in commissariato da te, c'ho già pensato. Per l'altra, a casa comunque non riposerei, quindi tanto vale restare qua."

Così, pensò, se fosse successo qualcosa a Simone, sarebbe stato informato subito.

L'ispettore guardò eloquentemente l'avvocato e si accomodò a sua volta su una sedia.

"E vabbuò, allora restiamo qua pure noi."

Claudio annuì, in fin dei conti non aveva poi tutto questo bisogno di essere convinto e si sistemò accanto a Domenico. Manuel rivolse ad entrambi un sorriso grato.

"Ma si può sapere che ci fate ancora qui? Vi avevo detto di andare a casa!"

Esclamò sorpreso il dottor Bonvegna quando, circa un'ora dopo, si ritrovò i tre in sala d'attesa.

"Io da qua nun me movo, tanto che fastidio ve do'? Sto fermo, zitto, non disturbo…"

Manuel alzò lo sguardo per guardare il dottore negli occhi, quasi con aria di sfida. Per lui restare in quella sala e non poter stare in camera con Simone era già un enorme compromesso, non avrebbe rinunciato anche a quello.

Riccardo era quasi ammirato da tutta quella determinazione e decisamente molto incuriosito.

"Ma tu lo capisci che non hai nessun motivo per restare qui tutta la notte, vero? Capisco che tu sia preoccupato per il tuo amico, ma se gli succede qualcosa c'è un ospedale intero che può fare molto di più di quanto potresti fare tu. E poi queste sedie sono scomodissime, non preferiresti dormire nel tuo letto?"

Manuel serrò la mascella quando si sentì definire amico di Simone, in un gesto di pura repulsione. Tante volte si era detto e aveva detto anche a Simone che loro due erano soltanto amici, aveva sprecato del tempo prezioso portando avanti quell'assurda convinzione e ogni volta che si scambiavano un bacio o una carezza si dava dell'idiota per aver costretto entrambi a privarsi di quei piccoli assaggi di Paradiso. Certo, il dottore non poteva sapere niente di tutto questo e forse non avrebbe neanche potuto capire quanto fosse forte il sentimento che legava lui e il ragazzo che riposava in fondo al corridoio.

"Ho i miei motivi per restare."

Riccardo inarcò le sopracciglia in un'espressione di pura sorpresa, se fosse stato un personaggio di un fumetto gli sarebbe spuntata una lampadina in testa. Era praticamente la stessa frase che gli aveva detto Simone e gli tornò in mente che aveva anche fatto un nome, appena sveglio.

"Senti, ma non è che per caso tu sei Manuel?"

Fu il ragazzo, adesso, a sgranare gli occhi per la sorpresa, anche se solo per un istante prima di tornare a guardare il medico in cagnesco. Simone doveva avergli parlato di lui, per forza.

"Sì, so' io, perché?"

Riccardo sorrise soddisfatto, come se avesse trovato la soluzione ad un rompicapo. Adesso sì che capiva da dove venisse tutta quella determinazione!

"Perché Simone mi aveva scambiato per te, quando si è svegliato."

Manuel arricciò il naso, contrariato. Lui era più bello di quella specie di spaventapasseri vestito da medico!

"Eh, non fare questa faccia, tra l'anestesia e gli antidolorifici avrebbe potuto scambiarmi anche per Orietta Berti, credimi."

"Vabbè, comunque, a maggior ragione devo restare qua, no? Se pure Simone ha fatto il mio nome, vuol dire che sono necessario!"

Esclamò Manuel, senza comunque alzare troppo la voce. Il dottor Bonvegna sospirò sconsolato e poi scosse il capo.

"Senti, se ti faccio entrare per cinque minuti nella stanza di Simone, poi ti fai riportare a casa? Cinque minuti e non di più però, eh!"

"No, te forse non ci senti bene, vatte a fa' na visita alle orecchie, già che sei in ospedale."

Ribatté Manuel, offeso, indicando il proprio orecchio per sottolineare il concetto.

"Io da qua nun me schiodo almeno finché Simone nun se sveglia. Voglio stare qua, potrebbe aver bisogno de me."

"Ascoltami, Manuel, io capisco che…"

"No, te non capisci proprio un cazzo!"

Sbottò Manuel, arrabbiato. Era stufo di farsi sentir dire che lo capivano, ma. Che ne sapevano, loro, di ciò che erano lui e Simone?

"Te ce l'hai qualcuno che quando lo stringi al petto, la sera, ringrazi di essere nato? Perché è questo che Simone è per me ed è questo che io provo ad esse per lui! Perciò non mi venire a dire che capisci, perché se capissi davvero me faresti resta'!"

Claudio e Domenico si scambiarono uno sguardo preoccupato e l'avvocato fece per intervenire, nel tentativo di aggiustare la situazione, ma Riccardo parlò prima che potesse farlo lui. Era rimasto travolto da quell'impeto di emozioni e adesso capiva davvero perché quel ragazzo insistesse tanto.

"E invece ti capisco, più di quanto credi."

Gli disse calmo, con un velo di malinconia negli occhi di cui però Manuel non si accorse, troppo preso dai propri pensieri e dalla voglia di stare vicino al proprio ragazzo.
"Dai, vieni, ti porto da Simone."

Manuel sgranò sorpreso gli occhi, per un attimo, e per quell'attimo tornò ad essere il ragazzino preso da un amore più grande di lui che era, prima di rimetter su la sua maschera di diffidenza.

"Io però a casa nun ce torno, eh."

Il dottor Bonvegna alzò gli occhi al cielo, sbuffando divertito.

"Sì dai, l'hanno capito anche i muri. Ti faccio restare in stanza con lui, contento?"

Non attese la sua risposta e si voltò verso Claudio e Domenico.

"Voi però fatemi il piacere e andatevene a casa, non posso farvi stare tutti in stanza e non serve che restiate qui. Non fatemelo chiedere in ginocchio."

Disse con tono scherzoso e i due uomini si alzarono immediatamente.

"Non vorrei tirare troppo la corda, dottor Bonvegna, ma ci terrei anch'io a dare uno sguardo a Simone, prima di andarmene. Non le chiedo più di un minuto, davvero."

Disse Claudio, con la voce e l'espressione di un padre preoccupato. Il medico sospirò, ma non se la sentì di dire di no a quella richiesta.

"Va bene, venga anche lei, ma davvero per un minuto!"
"Ok, allora andiamo!"


Esclamò Manuel, afferrando il medico per un braccio. Meglio muoversi, prima che cambiasse idea! Il medico si lasciò trascinare nel suo stesso reparto, fermandosi soltanto una volta entrati in stanza.

Claudio fu il primo ad avvicinarsi a Simone, a passo svelto ma silenzioso, e sorrise teneramente vedendo il ragazzo dormire sereno. Ne aveva passate tante, troppe, come testimoniavano la gamba fasciata e il livido scuro sul viso su cui soffermò preoccupato lo sguardo, meritava di riposare e di stare con le persone che amava e che lo amavano. Lo salutò con una carezza leggerissima tra i ricci neri, poi si allontanò e tornò vicino alla porta.

"Grazie davvero, dottore, ora tolgo il disturbo."

Si voltò verso Manuel.

"Mi raccomando Manuel, non dare fastidio al dottore."

Gli intimò, anche se con un sorriso.

"E cerca di riposare anche tu, eh."

Aggiunse l'ispettore, più tranquillo, che li aveva seguiti, ma era rimasto fuori.

"Sì, lo prometto, non vi preoccupate."

Claudio e Domenico si allontanarono dopo un ultimo saluto, lasciandoli soli. Il dottor Bonvegna indicò a Manuel un angolo della camera.

"Scegli pure una poltroncina, se vuoi posso portarti un cuscino o un lenzuolo...Te sei sicuro di voler restare qui tutta la notte?"

"Sì, so' sicuro e nun me serve niente, grazie."

Gli occhi di Manuel erano stati attratti come calamite dal letto di Simone, dall'altra parte della stanza rispetto a dove stava lui. Per un istante, però, si spostarono sul medico. Forse l'aveva giudicato troppo in fretta.

"Davvero, grazie."

Il medico gli mise una mano sulla spalla, con fare amichevole.

"Non ringraziarmi, cerca solo di non mettermi nei guai, intesi? Ah, Simone sta dormendo come un angioletto, vediamo di lasciarlo così, eh?"

Manuel fece una piccola smorfia, quasi impercettibile, a sentir chiamare Simone 'angioletto'. Di per sé non era una definizione sbagliata, ma gli aveva dato fastidio sentirla dire da una voce che non fosse la propria, anche se solo per un istante. La cosa più importante in quel momento, però, era far capire a quel medico che non era un totale scapestrato e che no, non avrebbe fatto cazzate. Non più, almeno.

"Sto qua proprio perché voglio che dorma, non ci penso nemmeno a svegliarlo. Puoi stare tranquillo."

"Per qualsiasi cosa rivolgiti a me, non farti vedere da altri medici o dagli infermieri. Buonanotte."

Manuel prese il bigliettino su cui il medico aveva scritto il suo numero, poi attese che uscisse prima di fare qualche passo in avanti nella stanza in penombra che sembrava immersa in un'atmosfera sospesa, da sogno.

Posò lo sguardo sui macchinari accanto al letto, attirato dal loro bip cadenzato e rassicurante. Quel bip era il suono del cuore di Simone e quella linea verde che faceva su e giù sullo schermo era il suo percorso ed entrambi gli dicevano che Simone era vivo, che nonostante tutto -nonostante lui e le sue cazzate- stava bene.

Si spostò verso la poltroncina che il medico gli aveva indicato prima, la avvicinò il più possibile al letto e vi si lasciò cadere sopra, sedendosi in maniera ben poco composta. I suoi occhi scivolarono sulla gamba rotta e fasciata, l'emblema della sua colpa. Quante volte Manuel si era fermato ad accarezzare le gambe di Simone quando si intrattenevano a letto più del dovuto o a massaggiarle quando si facevano il bagno insieme dopo una partita di rugby o un allenamento. Quando poi voleva proprio strafare e viziare il suo fidanzato -cioè una volta sì e l'altra pure- vi posava anche qualche bacio e Simone un po' protestava, imbarazzato, ma sorrideva con gli occhi che brillavano e per Manuel erano le gemme più preziose del mondo.

Salì poi verso il busto coperto da un lenzuolo e si trattenne a seguire la danza lenta del suo respiro, scandita dai bip del suo cuore.

Simone è vivo, Simone sta bene.

Lì, su quel petto, Manuel aveva fatto i sogni più belli della sua vita, ma che erano comunque meno belli della realtà che lo accoglieva quando riapriva gli occhi. Era quello il suo posto nel mondo, neanche cercando per tutta la vita ne avrebbe trovato un altro.

I suoi occhi si mossero ancora più su e furono colpiti da uno spettacolo che conoscevano bene, ma a cui non si sarebbero mai abituati.

I miei occhi non sono mai sazi di te.

Simone dormiva, il capo leggermente inclinato in direzione di Manuel e se non fosse stato per i suoi colori vivi e caldi sarebbe parso una statua antica da esporre in un museo. Il suo viso rilassato era la massima espressione di quei canoni di bellezza e perfezione che gli scultori greci inseguirono per tutta la vita -come aveva spiegato la prof di arte- anzi secondo Manuel era stato proprio quel viso ad ispirarli, a dettare quelle regole che ancora oggi non potevano essere superate. Solo una barbetta scura appena accennata entrava in contrasto con quei canoni di perfezione, restituendo però a Simone la sua età e rendendolo ancora più umano, ancora più bello.

I suoi riccioli neri, scomposti dal sonno e dalle avventure di quei giorni, non avevano nulla da invidiare a quelli di Antinoo -l'amato perduto dell'imperatore Adriano che neanche le centinaia e centinaia di statue da lui fatte realizzare poterono riportare in vita-, ma Manuel sapeva di essere più fortunato dell'imperatore e che, a differenza di quelle sculture, se avesse allungato una mano ad accarezzarli non avrebbe trovato il freddo marmo ad accoglierlo, ma la morbidezza di un corpo caldo.

Infine, gli occhi di Manuel cercarono i loro compagni, che al momento però erano nascosti dalle palpebre, con le ciglia lunghe e nere a fare da guardia come dei piccoli soldatini. Dietro quelle palpebre c'erano i sogni di Simone, che dovevano essere più agitati del previsto a giudicare da come i suoi occhi saettavano sotto la pelle.
Manuel non poteva svegliarlo, il dottore glielo aveva sconsigliato, anche se avrebbe voluto, per cui si limitò a prendere una mano di Simone nella propria e ad accarezzarla dolcemente. Era quello il motivo per cui era lì.

"Va tutto bene Simo', va tutto bene. Vorrei dirte che va tutto bene perché ce sto io, però non è così. Te lo dico adesso, mentre dormi, perché lo so che se fossi sveglio mi avresti già fermato, ma in fondo in fondo lo sai pure te che ho ragione. Va tutto bene perché sei in ospedale, dove c'è qualcuno che si prenderà cura de te e va tutto bene perché qualcuno ti ha salvato e ti ha portato qui. Qualcuno che non sono io, ma va bene lo stesso perché te sei al sicuro ed è questo che conta. Anzi, se non ce fossi stato io, te non avresti avuto bisogno d'esse salvato e mo non staresti bloccato in un letto co’ 'na gamba rotta e gli incubi in testa. Forse facevamo meglio a non incontrarce, anzi facevo meglio a non nasce proprio…"

Sussurrò con un filo di voce, lasciando che quelle parole si perdessero nel silenzio della notte. Si era sporto in avanti mentre parlava, come un fedele che si accostava alla sua divinità. Non aveva mentito, prima, quando aveva detto che Simone lo faceva sentire grato di essere nato -non c'era nulla di più vero-, ma al tempo stesso in quei giorni si era reso conto di quanti problemi avesse portato nella vita di Simone e, a suo modo di vedere, sulla bilancia che misurava il valore delle loro rispettive felicità era quella del ragazzo di fronte a lui a trascinare il piatto più in basso.

Era la sua quella più importante, quella da preservare a tutti i costi.

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Capitolo 12
*** E se non riesco ad alzarti, starò con te per terra ***


Dietro le palpebre di Simone c'era il buio confortante del sonno profondo senza sogni.

Tutti gli esseri umani cominciano la propria vita al buio, un buio che non fa paura, che ti culla e ti protegge con il suo vuoto. Era una sensazione piacevole essere immersi in un buio molto simile a quello, quasi a galleggiare, senza dover pensare a nulla.

All'improvviso il buio cambiò e si fece più intenso, più opprimente.

Tutti gli esseri umani hanno paura del buio, perché nel buio sono vulnerabili, senza difese.

Il buio si riempì di voci cattive, violente, che parlavano di morte e Simone cominciò a correre per fuggire da quelle voci che lo inseguivano. Non aveva punti di riferimento, non sapeva dove andare, spostava freneticamente gli occhi alla ricerca di qualcosa che potesse aiutarlo, ma intorno a lui c'era soltanto il nulla.

Correva e correva, ma non sapeva nemmeno se stesse correndo in circolo o se invece la sua corsa avesse una direzione. Ogni passo era un salto nel vuoto, come quando salendo le scale non ti accorgi che i gradini sono finiti e convinto che ce ne sia ancora uno calibri male il tuo passo e ti sembra di sprofondare. Per Simone quella non era una semplice sensazione, ad ogni passo finiva davvero in un buio sempre più profondo, sempre più nero e le voci si facevano sempre più vicine, sussurravano al suo orecchio.

Correva a perdifiato, con il cuore che sembrava sul punto di esplodergli nel petto, in quel buio che sembrava non finire più, quando si ritrovò davanti ad un muro che non poteva vedere, ma che c'era e gli impediva di avanzare.

Tentò allora di correre in un'altra direzione, ma dopo essere avanzato di poco si scontrò con un altro muro e poi ancora un altro e un altro ancora. Era bloccato in una stanza invisibile, la sua prigione personale, lo stanzino in cui aveva trascorso gli ultimi giorni. A nulla servì battere i pugni contro quelle pareti, non aveva la forza di poter uscire da solo.

Le voci intanto lo avevano raggiunto e lo avvolsero come una nebbia impalpabile. Con un distinto rumore di ossa rotte Simone cadde a terra senza riuscire ad alzarsi. Si rese conto di essere nudo quando sentì il buio accarezzargli la pelle con le sue mani ghiacciate che bruciavano al contatto e che lo stringevano sempre di più.

"Aiuto! Qualcuno mi aiuti!"

Gridò a voce piena, disperato, e il buio ne approfittò per farsi strada dentro di lui, passando dalla sua bocca. In qualche modo Simone sapeva che se fosse arrivato al suo cuore sarebbe stata la fine, quindi cercava di ribellarsi, di liberarsi da quella presa opprimente, ma senza successo.

Stava diventando parte di quel buio e non poteva salvarsi.

Fu quando sentì venir meno ogni forza che il buio venne squarciato da una luce improvvisa, una luce accecante dinanzi alla quale, tuttavia, non chiuse gli occhi perché non provava fastidio o dolore a guardarla.

Avanzava verso di lui, cancellando l'oscurità intorno a sé senza alcuna difficoltà, e quando fu abbastanza vicina Simone si accorse che aveva sembianze umane, pur non riuscendo a scorgerne i dettagli.

L'angelo -perché poteva trattarsi soltanto di un angelo- lo aiutò a rialzarsi e Simone si aggrappò a lui, venendo avvolto dalla sua luce che lo abbracciò per proteggerlo dal buio intorno a loro. La sua pelle era accarezzata dal suo calore e non c'era più traccia di freddo nel suo corpo.

Simone era incantato dal volto di quella creatura meravigliosa e si accorse che aveva due occhi scuri, caldissimi e dolci, che lo fissavano con amore e un po' più in basso delle labbra leggermente dischiuse, come un fiore appena sbocciato. Si mossero insieme, attratti l'uno dall'altro, e si incontrarono in un bacio che fuse i loro corpi nudi in uno solo e le loro anime in un'unica luce.

Simone riaprì gli occhi con ancora sulle labbra il sapore di quel bacio e dopo qualche istante di confusione ricordò di essere in ospedale. Gli tornò in mente anche il volto simpatico del dottore che lo aveva preso in cura: Roberto? No, no, Riccardo.

Il suo sguardo, quando riuscì a mettere a fuoco l'ambiente circostante, fu immediatamente attratto dalla massa di ricci scomposti accanto a lui e le sue labbra si curvarono in un sorriso. Eccolo, il suo angelo dagli occhi scuri.

"Manuel…"

La sua voce era appena un sussurro roco, ma tanto bastò a far sorridere l'altro ragazzo a trentadue denti. Strinse le dita intorno alla sua mano, ricambiando quella presa che chissà da quanto tempo Manuel stava tenendo salda. Era decisamente un bel risveglio.

"Hey, Simo, buongiorno. Tutto a posto? Hai bisogno de qualcosa?"

Domandò premuroso, resistendo alla tentazione di baciarlo immediatamente. Prima le cose importanti, poi quelle piacevoli e importanti. Era ancora presto, volendo Simone avrebbe potuto dormire ancora un po', sembrava anche essersi calmato nell'ultima parte del suo sonno.

"Solo un po' d'acqua, se puoi, per favore."

Mormorò Simone con voce impastata e per Manuel fu naturale fare una risatina. Il solito Simone!

"Se puoi, per favore...Simo', eddai, non me lo far dire."

Disse divertito mentre gli versava l'acqua, riferendosi al fatto che Simone non aveva proprio bisogno di chiedergli favori. L'altro ragazzo sorrise imbarazzato e intanto fece alzare lo schienale del letto.

"Ammazza, quanta tecnologia…"

Commentò Manuel e Simone ridacchiò.

"Mh, hai visto? Sembra di stare alla NASA."

Non prese il bicchiere che Manuel gli stava porgendo, sollevò una mano solo per sfiorargli la sua con le dita. Aveva bisogno di contatto e non aveva vergogna a chiederlo.
Manuel lo capì, come sempre, e con l'altra mano gli accarezzò una guancia, delicato.

"Mi fai bere tu?"

Chiese Simone, ma la sua non era una richiesta dettata dalla reale necessità di essere aiutato, riusciva abbastanza tranquillamente a muovere le braccia e a reggere un bicchiere, voleva soltanto essere sicuro che Manuel fosse lì per davvero e quel gesto era diventato un po' la prova della sua presenza.

Manuel capì anche questo e annuì, avvicinandogli il bicchiere alle labbra. Avrebbe fatto di tutto per rassicurarlo.

"Sto qua, Cerbiattino, sto qua."

Sussurrò dopo, chinandosi a dargli un bacio tra i capelli. Simone liberò un sospiro d'approvazione, più sereno.

"Te lo può confermare anche quello spaventapasseri che ti ritrovi come medico."

Aggiunse, dandogli subito un altro bacio tra i ricci e Simone reagì con una risatina.

"Dai, non dire così, Riccardo è stato molto bravo con me…"

Manuel sollevò un sopracciglio, indispettito.

"Riccardo? Lo chiami pe' nome?"

Non ce l'aveva con Simone, ma non poteva neanche negare che la cosa gli facesse provare un po' di fastidio.

Simone sollevò il capo verso di lui, guardandolo con gli occhioni che luccicavano furbetti. Il solito Manuel!

"Eh, me l'ha detto lui. Non mi dire che sei geloso..."

Manuel arricciò il naso, colto in flagrante. Sì, un po' lo era.

"Non te lo dico se proprio ci tieni, però quello nun me voleva manco fa resta' in sala d'attesa. Diciamo che non mi sta proprio simpatico, però se con te è stato bravo, va bene. Anche perché altrimenti gli rigavo la macchina."

Borbottò e Simone rise di gusto, innamorato perso di quel suo fidanzato dolcissimo. Anche Manuel rise, perché il suo cuore era felice se lo era anche quello di Simone.

"Vieni qui, scemo."

Lo tirò a sé per la maglietta e Manuel non oppose certo resistenza.

I loro respiri, ancora ebbri di risate, si mischiavano e i loro occhi si perdevano e si ritrovavano gli uni negli altri, vicini com'erano. Mancava soltanto una cosa perché fosse tutto a posto e non tardò ad arrivare.

Simone portò una mano dietro la testa di Manuel per tenerlo stretto a sé mentre si scambiavano quel bacio perfetto nonostante la posizione scomoda, quel bacio che fece tornare i loro personalissimi assi in equilibrio.

"Questo, il dottor Bonvegna se lo sogna."

Sussurrò Simone, poggiando la fronte su quella di Manuel. Ancora lo stringeva a sé, aggrappato ai suoi capelli morbidi. Manuel sorrise sghembo.

"Questo, Riccardo non lo sa fare."

Replicò, gettandosi di nuovo sulle labbra dell'altro per saziare una fame che troppo a lungo aveva tormentato entrambi. Erano insieme, Simone era al sicuro, dovevano celebrare in qualche maniera e non c'era modo migliore di quello.

"Senti come batte il tuo cuore, Simo'..."

Portò una mano ad accarezzargli il viso affannato e Simone vi ci strofinò leggermente la guancia contro.

"Rischiamo di far arrivare mezzo ospedale se non ci calmiamo, Manuel."

Ridacchiarono insieme, complici, e sempre insieme si separarono, ma solo con i corpi e neanche così tanto, in fondo. Manuel tornò a sedersi sulla poltroncina e Simone a stendersi. I loro sguardi non si posavano su niente se non sull'altro.

"Come stai? Non te l'ho ancora chiesto…"

Domandò Simone, intrecciando la propria mano in quella di Manuel, che subito ricambiò la presa.

"Prima che tu possa obiettare dicendo che dovresti essere tu a chiederlo a me, ti faccio notare che tu lo sai come sto io, ma io non so come stai tu. Ti ho visto che ti trascinavano via, l'altro giorno."

Manuel curvò un angolo delle labbra in un sorrisetto dolce. Il suo fidanzato lo conosceva fin troppo bene, era esattamente l'obiezione che voleva fare ed era convinto che fosse doveroso farla, dal momento che tra i due non era lui quello con una gamba rotta. Capiva però anche la sua preoccupazione, a parti invertite sarebbe stato lo stesso.

"Mo che sto qua sto benissimo, sarà l'aria dell'ospedale."

Cominciò a dire, cazzaro come al solito. Ottenne una risatina da parte di Simone, ma i suoi occhioni da cerbiatto chiedevano di più e Manuel non esitò a tornare più serio.

"Zucca e quell'altro m'hanno menato, sì, ma niente di chissà che. Qualche pugno per farme smette de agitarme e una spinta fuori dallo sfascio, ho passato di peggio."

Spiegò tranquillo, perché del resto era vero, stava benissimo. Simone, però, lo guardò comunque come se fosse stato un cucciolo ferito, ricordandosi di quel 'peggio'.

"Povero Manuel…povero Paperotto."

Mormorò dolcemente, accarezzandogli il dorso della mano con il pollice.

Manuel accennò un timido sorriso, ma in cuor suo sapeva  che quelle botte se le era meritate e che anzi si sarebbe meritato anche di più, solo per essere punito per le sofferenze che aveva fatto patire a Simone. Preferì tenere il pensiero per sé, sapeva che Simone avrebbe cercato in tutti modi di convincerlo del contrario e non voleva affaticarlo.

"E tu, invece, come hai dormito?"

Era meglio cambiare argomento, per prima cosa, e poi aveva notato che dopo quell'agitazione iniziale Simone si era calmato e aveva davvero dormito come un angioletto, tuttavia voleva esserne sicuro.

Simone, dal canto suo, si accorse che Manuel si stava tenendo qualcosa dentro, ma sapeva anche che insistere non sarebbe servito a molto, non in quella situazione. Doveva fargli capire che stava davvero bene, che era sereno e felice di stare con lui, solo così avrebbe potuto aiutarlo a gestire i suoi sensi di colpa.

"Bene, il letto è comodo e qualunque cosa ci sia in queste flebo aiuta. Mi hanno dato la roba buona…"

Scherzò e Manuel fece uno sbuffo divertito, dandogli un buffetto sulla guancia con la mano libera.

"Mh, quasi quasi me faccio ricovera' pur'io, allora."

Simone ridacchiò alla battuta, poi tornò più serio.

"Ho fatto un sogno brutto, che poi però è diventato bello. Molto bello."

E così dicendo sorrise morbidamente al ricordo. L'altro ragazzo lo guardò incuriosito.

"Te va di raccontarmelo?"

Simone annuì, prendendosi qualche secondo prima di iniziare a parlare, alla ricerca delle parole giuste. È sempre un po' difficile raccontare un sogno, non tanto per la sua assurdità o difficoltà nel ricordarlo, ma perché farlo vuol dire mostrare una parte profonda di se stessi, un desiderio o un pensiero nascosto.

"Ero immerso nel buio, da solo. All'inizio era piacevole, mi sembrava di galleggiare nello spazio come un astronauta…"

Accennò un sorrisetto divertito a quel paragone, ma i suoi occhi rimasero malinconici. Manuel lo notò e cominciò ad accarezzargli con il pollice il dorso della mano stretta nella sua. Era solo l'inizio dell'incubo, quello.

"Era bello, ma tutto ad un tratto non lo è stato più, non so perché. Se fino ad un attimo prima stavo galleggiando, un attimo dopo mi sono ritrovato a correre, circondato da un buio diverso, che mi faceva paura. E poi c'erano delle voci, come dei sibili, ed erano ovunque, non capivo da dove provenissero. Mi dicevano di fermarmi, di ascoltarle, ma io non l'ho fatto e ho continuato a scappare, anche se non sapevo dove andare e non vedevo nulla intorno a me, anche se più andavo avanti e più sprofondavo nel buio."

Il viso era contratto in un'espressione concentrata che quasi sembrava di dolore e aveva chiuso gli occhi, credendo che tornare nel buio fosse il miglior modo per raccontarlo.

Manuel si sporse ancora di più verso di lui, se possibile, e con la mano libera gli accarezzò il viso. Non poteva fare nulla per cancellare quell'incubo dalla memoria di Simone, né poteva tornare indietro nel tempo ed evitare che Zucca lo portasse via, ma poteva ricordargli che era tutto finito.

"Mo nun ce resta' al buio, però. Apri gli occhi, sta' qua con me, che ce sta er Sole."

Sussurrò teneramente, avvicinandosi a dargli un bacio a fior di labbra.

Simone sorrise perché Manuel, senza saperlo, si stava comportando come nel suo sogno. Quando riaprì gli occhi, un istante dopo quel bacio, trovò il bel sorriso del suo ragazzo ad attenderlo. Aveva ragione, lì c'era il Sole.

"Hai ragione, qui è meglio. Infinitamente."

Manuel fece uno sbuffo divertito.

"Infinitamente? Ma come parli? Non mi ci abituerò mai…"

Simone, in tutta risposta, gli fece una linguaccia e Manuel ridacchiò di gusto. Non ci voleva molto, in fondo, per ritornare alla serenità.

"Per essere uno che ama tanto le poesie, hai troppo da ridire su come si esprimono gli altri. Vuoi sapere o no come continua il sogno?"

Ribatté indispettito e Manuel annuì, sollevando la mano libera in un gesto che significava lasciargli campo libero. Simone tornò a concentrarsi e sospirò. Istintivamente, la mano che non era intrecciata a quella di Manuel scivolò sulla propria coscia, in corrispondenza della gamba rotta.

Manuel seguì quel movimento con lo sguardo, attentissimo.

"Ad un certo punto mi sono accorto di essere finito in una specie di stanza, sempre buia, che sembrava non avere muri, ma ero intrappolato. Le voci mi avevano raggiunto e colpito, facendomi cadere sul pavimento. Le sentivo addosso, mi afferravano e mi toccavano con le loro mani freddissime, mi stringevano togliendomi il respiro. Dicevano 'lasciati andare, resta qui con noi, presto sarà tutto finito'. Io cercavo di liberarmi e loro mi avvolgevano ancora di più, non potevo più muovermi. Gridavo, chiamavo aiuto, ma non c'era nessuno ad ascoltarmi e il buio stava entrando dentro di me. Lo sentivo nella bocca e nella gola, mi soffocava e non avevo le forze per cacciarlo fuori, o forse non ne ero capace. Ero stanco e...stavo cedendo, Manuel. Volevo cedere, lasciarmi prendere dal buio e restare lì, dove non ci sarebbe stato più dolore o paura, soltanto... soltanto il buio."

Manuel si sentì sprofondare nel buio a sua volta all'udire quelle parole, quella confessione. Aveva temuto di perdere Simone per sempre in quei giorni di lontananza e adesso aveva la certezza di esserci andato vicino, terribilmente vicino.

Non riusciva nemmeno ad immaginare un'esistenza senza Simone, probabilmente perché senza di lui l'esistenza non avrebbe più avuto senso. Il mondo sarebbe precipitato nel buio insieme a lui e così anche gli animali, le piante, perfino la luce stessa, nulla avrebbe avuto il coraggio di continuare ad esistere senza Simone.

Gli occhi si riempirono di lacrime che lui non provò nemmeno a fermare quando presero a rigargli le guance e anche per Simone fu lo stesso. C'era soltanto un motivo per il quale non aveva ceduto alle lusinghe del buio e adesso ce l'aveva davanti, gli stringeva la mano e piangeva insieme a lui: il suo angelo dagli occhi scuri.

"Poi, però...è successa una cosa bellissima, sai?"

Riprese, con la voce un po' tremante, sorridendo al ragazzo di fronte a lui. Manuel si concesse di riprendere a respirare, qualunque cosa fosse questa cosa bellissima di cui parlava Simone, era grato che gli fosse capitata.

"Sì? Che cosa?"

Domandò roco, portando la mano ad accarezzare il viso di Simone. Era caldo di vita, umido per le lacrime, ed era il viso che amava tanto. Simone accolse con gioia quelle carezze, beandosi di quel tocco che lo aveva sottratto al buio.

"È successo che è arrivato un angelo. Era bellissimo, pieno di luce. Mi ha preso, anzi mi ha strappato al buio senza sforzo e mi ha tirato a sé."

Guardava Manuel negli occhi, sognante e innamorato, esattamente come aveva fatto con l'angelo del suo sogno. Solo che ora non si trovava in un sogno, ma nella realtà e l'angelo era lì, un angelo meravigliosamente umano con i capelli arruffati e il viso stanco di chi non dormiva da un po'. Simone pensò che doveva assolutamente aiutarlo a riposare.

Manuel invece lo ascoltava, tutto sporto verso di lui, e non pensava minimamente che quell'angelo potesse essere lui. I suoi occhi tradivano la malinconia di quella consapevolezza.

"Stretto a lui non avevo più paura, non avevo più freddo, mi ha salvato per davvero. E poi…"

Rivolse a Manuel un morbido sorriso, leggendo sul suo volto tutte le insicurezze che provava ascoltando quel racconto. Possibile non capisse che per lui non potevano esistere altri angeli?

"E poi l'ho guardato nei suoi meravigliosi occhi scuri, lui ha guardato nei miei e ci siamo baciati. Mi sono sentito al sicuro, in quel momento."

"Fortunato quest'angelo…"

Sussurrò Manuel, abbozzando un sorrisetto mesto.

"E poi che è successo?"

"Beh, poi è successo che mi sono svegliato e l'angelo era ancora qui con me. Sono io quello fortunato."

Manuel sospirò profondamente e distolse lo sguardo, guardando in basso. Simone gli aveva detto una cosa meravigliosa, eppure lui non riusciva ad esserne felice, perché non era vera. Fece per alzarsi, ma l'altro lo trattenne per la mano e lui non ebbe né la forza né il coraggio di opporsi. Simone lo guardava preoccupato.

"Che c'è, Manuel? Per favore, parliamone."

Manuel scosse il capo, non voleva affrontare quel discorso con lui perché non voleva affaticarlo. Simone doveva solo riposare e guarire, doveva rilassarsi.

"No, senti, fa' finta di non avermelo raccontato, 'sto sogno. Devi pensare solo a te, adesso."

Gli disse, pur sapendo che fosse una richiesta irrealizzabile. Simone, infatti, non si fece convincere: Manuel aveva bisogno di parlare, non poteva chiudersi a riccio, lasciandosi divorare dalle insicurezze.

"Pensavo avessimo superato da un po' la fase in cui ci tenevamo tutto dentro. Se c'è qualcosa che ti fa stare male, e mi sembra di sì, ti prego parliamone. Scappare non serve."

Ribatté deciso, seppur con dolcezza e pazienza. Non era arrabbiato con Manuel, voleva solo fargli capire che non era sano tornare indietro dopo tutta la fatica che avevano fatto per arrivare fin lì.

"Vuoi sapere cosa penso, Simo'? Penso che il sogno sia bello, ma è solo un sogno. Vorrei fosse stato la realtà, davvero, credimi, lo vorrei con tutto il cuore, ma io non so' l'angelo del tuo sogno. Vorrei esserlo, ma non lo sono. Non ne sono capace."

Manuel disse tutto di getto, il suo cuore premeva di vomitare quelle parole già da un po', ma a differenza di quanto accade solitamente dopo aver vomitato, non si sentiva meglio.

"Mi ero illuso che tra me e te potesse andare tutto bene, che potessimo esse felici insieme, ma guardati, Simo': hai una gamba fracassata soltanto per colpa mia e fai gli incubi sul buio che te divora soltanto per colpa mia! Non te lo meriti, uno così. Sono rotto, Simo', e non me riesco ad aggiusta'."

Si lasciò andare alle lacrime che avevano soltanto il sapore della colpa, scosso dai singhiozzi. Si sentiva ridicolo, oltre che egoista.

Simone però non la pensava così e fece sollevare lo schienale del letto per mettersi seduto. I suoi occhi erano umidi di lacrime per il dolore che l'altro provava, per le paure e le insicurezze che lo attanagliavano. Allungò una mano ad accarezzare i capelli del suo angelo ferito per fargli capire che non era solo.

"Vieni qui, dai."

Sussurrò dolcemente, allargando le braccia per accoglierlo. Manuel spostò un istante lo sguardo su di lui, poi scosse il capo.

"No, Simo', lasciame perde. Non ti devi affaticare…"

Simone accennò un sorriso, senza abbandonare la sua posizione.

"E da quando un abbraccio è una fatica? Vieni qui, ne hai bisogno e ne ho bisogno anch'io. Devo chiedertelo per favore?"

"No, certo che no…"

Manuel fece un respiro profondo, si alzò e, tremante, si rifugiò tra le braccia del suo ragazzo. Anche dopo giorni di maltrattamenti, la sua stretta era salda intorno a lui e, come sempre, teneva insieme tutti i suoi pezzi rotti. Anche lui però strinse Simone tra le proprie braccia, circondandogli il busto con delicatezza per non fargli male. Affondò il capo nell'incavo del suo collo caldo, respirando il profumo della sua pelle sudata. Era un profumo che per Manuel significava tutto.

Simone portò una mano tra i capelli del ragazzo che singhiozzava su di lui, accarezzandoli con tutto l'amore che meritava di ricevere. Accompagnò le carezze con qualche piccolo bacio posato appena dietro al suo orecchio, dove riusciva ad arrivare. Un bacio per ogni lacrima che Manuel versava.

"Te non hai niente da doverti aggiustare, Manuel, non sei rotto e te lo ripeterò fino a cancellare per sempre le voci di chi ti ha messo in testa questa cazzata."

Sussurrò direttamente al suo orecchio, dandogli subito dopo qualche altro bacio. Sperava con tutto il cuore che in quel modo il messaggio arrivasse più rapidamente.

"Tu non sei rotto e sei davvero l'angelo del mio sogno, mi hai salvato anche da lontano. Senza di te, senza la certezza che ci fossi tu ad aspettarmi, io adesso non sarei qui a parlarti. Ti prego di credermi, perché è la verità."

E Manuel annuì, troppo provato per fare altro. Non faceva fatica a credere alle sue parole, conosceva da poco l'amore -quello vero- ma ne aveva compreso subito la forza. L'amore salva, l'amore tiene in vita e Simone era salvo e vivo grazie a quel miracolo che era stato l'incontro tra i loro cuori. Un miracolo tutto umano, gli piaceva pensare, e tutto loro.

Simone gli diede un bacio un po' più lungo degli altri, perché era fondamentale che quel messaggio giungesse a destinazione.

"Perciò meglio una gamba rotta, che quella si aggiusta, no?"

Aggiunse, un po' più leggero. Manuel emise una risatina strozzata dalle lacrime, ma poi scosse il capo. Il problema non era la gamba rotta in sé, ma la sua causa.

"Se...se io non fossi stato così coglione, adesso tu non l'avresti proprio, la gamba rotta. Capisci perché non so' degno dell'amore che me dai? Vorrei esserlo, c'ho provato, ma ho fallito. Me dispiace, Simo'..."

Simone sospirò pazientemente e intanto prese a cercare dentro di sé le parole giuste. Non c'era una formula matematica per far capire a Manuel quanto fosse importante per lui, qualcosa di oggettivo che non potesse contestare, ma forse poteva crearla.

"Manuel, ti prego, ascoltami bene. A me della gamba rotta non frega proprio niente. Sai cosa c'è di peggio? Il senso di...angoscia, credo sia la parola giusta. Non sapevo cosa mi sarebbe successo, non sapevo cosa sarebbe successo a te, non sapevo nemmeno se il resto della mia famiglia fosse in pericolo e mi sentivo come se al centro del mio petto ci fossero un vuoto e un peso nello stesso momento. Non so bene come spiegartelo…"

Simone parlava piano, calmo, anche se la sua voce ogni tanto tremava.

Manuel sollevò il capo dal suo rifugio per guardarlo negli occhi. Erano arrossati a causa del pianto, non tanto diversamente dai suoi, e c'era la preoccupazione di non riuscire ad esprimersi bene, di non riuscire a comunicare qualcosa di importante. Si era ritrovato tante volte in quelle situazioni, lui che si vantava di esser bravo con le parole, e lo capiva. Portò una mano sulla sua guancia, accarezzandola con il pollice.

"Come una vertigine che ti fa sentire il vuoto sotto ai piedi, ma al tempo stesso ti trascina giù e ti schiaccia a terra."

Si permise di completare il pensiero di Simone soltanto perché quella stessa sensazione, quella stessa vertigine, l'aveva provata anche lui in quei giorni senza fine lontano da lui. A modo suo, aveva vissuto a sua volta una prigionia.

Simone si avvicinò a dargli un bacio a fior di labbra, mosso dall'affetto nei suoi confronti. Dagli occhi di Manuel e dalla curva malinconica delle sue labbra aveva capito che parlava per esperienza, che anche lui aveva dovuto affrontare il buio.

Erano due sopravvissuti.

"Sì, esatto, come una vertigine. So che adesso ti stai incolpando anche di questo, ma credimi se ti dico che tu eri l'unica cosa che riusciva a mandarla via."

Gli diede un altro bacio, stavolta un po' più profondo, a cui Manuel ebbe il tempo di rispondere, lasciando che le loro lacrime si mischiassero sulle loro labbra.

"Io lo capisco come ti senti, quando Sbarra ti ha fatto picchiare a causa mia mi sono sentito il peggior essere umano sulla faccia della terra e ti confesso che il senso di colpa è ancora lì e ogni tanto spunta fuori…"

"Simo…"

Simone lo interruppe prima che potesse continuare, ancora una volta con un bacio, questa volta appena poggiato sulla bocca.

"Ma l'importante è comprendere gli sbagli ed andare avanti, impegnandosi a non commetterli più. Siamo vivi, Manuel, pensiamo al presente e al futuro, restare nel passato non ci fa bene."

Gli sorrise, incoraggiante.

"E poi, cos'è che diceva Platone? Che l'essere umano è stato diviso in due metà dagli dèi invidiosi, dico bene? Due metà però non possono essere diverse, non ce n'è una più importante e una meno importante, sono identiche. È per questo che tu sei degno del mio amore e io del tuo, perché siamo due metà e, in quanto tali, siamo pari."

Ecco, quella era la giusta formula per descrivere il loro amore. Una formula che univa filosofia e matematica, non particolarmente complessa, ma da tenere sempre a mente.

Fu Manuel, adesso, ad avvicinarsi alle labbra di Simone per dargli un bacio. Le parole sarebbero venute dopo, per il momento voleva soltanto tornare ad unire quelle due metà.

Spostò la mano che teneva sul viso del proprio amato dietro la sua testa, tra i ricci scuri in cui le sue dita presero a navigare senza rotta e quella di Simone la imitò un istante dopo, lasciando che le loro bocche si riempissero del sapore dell'altro.

Non si separarono nemmeno quando avvertirono di nuovo il bisogno di respirare, restarono fronte contro fronte a respirarsi a vicenda: Simone era l'ossigeno di Manuel e Manuel l'ossigeno di Simone.

"Simo', ti prometto che di cazzate non ne farò più. Non posso cambiare il passato, ma posso lavora' sul presente e sul futuro. Comincio oggi stesso, dopo vado a denuncia' tutte le schifezze de Sbarra, così finalmente la pagherà per tutto quello che ti ha fatto, che ci ha fatto."

Per Simone quelle erano due ottime notizie, sia che Sbarra avrebbe finalmente avuto ciò che si meritava, sia che -soprattutto- Manuel avesse acquisito un po' più di sicurezza. Sapeva che, per entrambe le cose, non sarebbe stato tutto così immediato, che ci sarebbero stati degli alti e bassi, ma si sarebbero sostenuti a vicenda, questo era ciò che contava di più.

"A proposito di lavorare sul presente, sai cosa potremmo fare adesso?"

Fece sfiorare i loro nasi, morbidamente, per sottolineare la propria felicità. Manuel ricambiò con una risatina, sentendosi un po' più leggero di prima. Il senso di colpa non si era cancellato con un colpo di spugna, ma Simone lo aveva aiutato a vedere le cose da una prospettiva diversa, una prospettiva che lo portava a guardare davanti a sé e non alle proprie spalle.

"Sono tutt'orecchie."

Rispose incuriosito, senza interrompere quelle leggere carezze affettuose.

"Mi sembra che sia ancora abbastanza presto, no? E mi sembra anche che tu abbia bisogno di farti una dormita decente, quindi io adesso potrei abbassare questo schienale, tu potresti sistemarti accanto a me e potremmo dormire un po' insieme. Lo spazio è quello che è, però, insomma…"

"Tanto, secco come sono, non me ne serve molto."

Completò Manuel, che non aveva nemmeno lasciato che Simone terminasse la sua proposta e già si era alzato per togliersi la felpa, rimanendo in maglietta.
Simone ridacchiò sia per la sua battuta, che per la fretta con cui aveva reagito. Lo trovava adorabile, anche se probabilmente non sarebbe stato il primo aggettivo che qualcuno avrebbe utilizzato per descrivere Manuel. Beh, lui poteva dire di non essere qualcuno: era il suo ragazzo.

"Non volevo dire questo, eh. Volevo dire che è meglio di niente."

Puntualizzò, mentre l'altro ragazzo si slacciava le scarpe.

"Ah ma figurate, mica me so' offeso. Fossimo stati due rugbisti, allora sì che ci sarebbero stati problemi di spazio, e invece me torna utile essere uno stecchetto."

Si alzò, avvicinandosi al letto. Tutta la stanchezza che aveva accumulato in quei pesanti giorni gli era piombata addosso come un macigno, si sentiva stanchissimo e non vedeva l'ora di dormire -soprattutto di farlo insieme a Simone-, eppure non si stese subito. Restò lì, in piedi, ad osservare quel lettino per prendere le misure.

Ci aveva scherzato su, ma in effetti lo spazio era poco per due persone e in una situazione normale non sarebbe stato un problema, avrebbero risolto con un abbraccio, cosa che non potevano fare in quel momento. Simone doveva per forza restare disteso di schiena e Manuel non poteva stringersi a lui più di tanto, non senza fargli male almeno e questo naturalmente era fuori discussione.

Simone intanto aveva fatto abbassare lo schienale e si era messo ad osservare il suo pensieroso ragazzo, intuendo facilmente cosa gli passasse per la testa.
"Guarda che non sono di cristallo, non mi rompi se mi tocchi. Dai, un modo per sistemarci lo troviamo."

Disse con un sorriso, mentre scostava leggermente il lenzuolo per rimarcare l'invito. Manuel fece un profondo respiro e cercando di essere il più delicato possibile si stese accanto a Simone, sul fianco destro. Si spinse quanto più poté verso il bordo del letto, in modo da occupare pochissimo spazio. Simone se ne accorse gli fece segno di avvicinarsi con la mano.

"Vieni più qua, così stai scomodo. C'è ancora un po' di spazio, su…"

"È che non te voglio fa' male, Simo'. Poi c'hai tutti 'sti fili, metti che schiaccio qualcosa, chi lo sente al dottore tuo?"

Replicò l'altro, dopo essersi comunque avvicinato un pochino. Simone ridacchiò e quella sua risatina bassa e profonda sembrò vibrare attraverso il cuscino per arrivare direttamente all'orecchio di Manuel, che l'amava particolarmente.

"Ma non ti preoccupare, non schiacci niente e poi comunque con il dottor Bonvegna, al massimo, ci parlo io."

Simone sollevò una mano ad arruffare i capelli di Manuel, poi la riportò giù, poggiandola sul proprio petto. Manuel arricciò leggermente il naso.

"E non ho capito, come faresti a convincerlo? Stai qua da manco mezza giornata e già c'hai l'ammiratore che te cade ai piedi? Per carità, è comprensibile, però se mettesse l'anima in pace…"

Prese la mano di Simone e, con estrema delicatezza, se la portò alle labbra. Stava scherzando un po' con lui, come facevano sempre, ma doveva ammettere che c'era un fondo di verità in quello scherzo. Non dubitava dell'amore di Simone, questo mai, ma il Dottor Spaventapasseri non gliela contava giusta. Certo, gli aveva detto di capirlo quando gli aveva detto di avere una persona importante da abbracciare, ma per quanto ne sapeva poteva voler dire tutto e il contrario di tutto.

Simone intanto rideva, cercando di trattenersi per non farsi sentire da eventuali medici o infermieri in giro per i corridoi.

"Ah, è comprensibile, dici? Quindi tu lo comprendi?"

Domandò divertito, sfiorandogli le labbra con la punta dell'indice. Manuel vi posò sopra un altro morbido bacio prima di rispondere.

"Eccerto che lo comprendo, io sono il tuo ammiratore numero uno. È per questo, però, che quello se deve rassegna'."

"Mh, puoi stare tranquillo, Paperotto, sei anche il mio unico ammiratore. Prima c'era anche Laura, ma adesso sta con Pin, non hai competizione."

Disse tranquillo, mentre con il dito continuava a tracciare il profilo dell'arco di Cupido di Manuel, avanti e indietro, lasciandosi solleticare dai suoi baffetti. Non gli era mai importato niente di ammiratrici o ammiratori, non avrebbe certo iniziato a fregarsene adesso. Aveva cose -o meglio, una persona- molto più importanti a cui pensare.

"Eh, tu dici così, Cerbiattino, perché non ti rendi conto di quanto sei bello. Fidate, che qualcuno che te viene dietro a scuola c'è."

Più di una volta, infatti, Manuel si era accorto di ragazze –e anche ragazzi- di altre classi che fissavano insistentemente Simone nei corridoi e parlottavano tra loro guardandolo. Che guardassero pure, pensava ogni volta, tanto potevano fare solo quello e solo a scuola.

Simone arrossì imbarazzato, facendo una risatina. No, non era proprio possibile, lui non era uno di quei ragazzi che a scuola spiccava particolarmente per bellezza e non perché ne fosse privo, ma semplicemente perché, a differenza di altri, non la ostentava e passava inosservato, o almeno così credeva.

"Manuel, è meglio che mo dormi perché stai iniziando a sparare cazzate. Riposati, che sei stanco."

Manuel sbuffò divertito, dando l'ennesimo bacio alla mano di Simone.

"Non è una cazzata, io me ne accorgo degli sguardi che attiri quando stiamo alle macchinette all'intervallo o quando facciamo assemblea. Certo, è pure naturale fissare un'opera d'arte quando ce la si ritrova davanti, specie se è viva. Anche io lo faccio sempre."

Mormorò, sorridente. Dalla sfumatura di rosso che assunsero le guance di Simone capì che forse era stato un po' troppo smielato, ma dalla curva delle sue labbra capì anche che non era un problema.

"Ma no, ti starai sbagliando. Se proprio vogliamo parlare di opere d'arte in carne ed ossa, allora quegli sguardi sono per te."

Ribatté Simone, che in fin dei conti pure ci sapeva fare con il miele. Anche Manuel arrossì, imbarazzato, e ancora una volta Simone ebbe la conferma di quanto in realtà Manuel fosse ancora più bello di qualsiasi opera d'arte al mondo passata, presente e futura.

“E invece no, perché ti guardano anche quando stai da solo. Poi magari guardano anche me, te lo concedo…”

“E devono rassegnarsi a poter fare solo questo anche con te.”

Aggiunse Simone, sorridendo furbescamente. Manuel annuì con decisione, allontanando per un istante la mano di Simone in modo da potersi avvicinare a dargli un bacio a fior di labbra, a conferma di quanto detto.

“Quindi anche tu sei un po’ geloso, eh?”

Sussurrò, del resto i loro visi erano così vicini che non aveva bisogno di parlare ad alta voce. Ne approfittò per far scivolare una mano sul suo collo in leggera tensione, accarezzandolo lentamente. Simone mugolò beato a quelle carezze, come un gatto appagato.

“Geloso no, dai, diciamo protettivo. Se qualcuno ci provasse con te non credo che risponderei di me stesso, ma se fossi tu, per ipotesi, a volermi lasciare per una di quelle persone, allora ti lascerei andare.”

I suoi occhi si velarono di una leggera nebbia di malinconia, ma erano sinceri: ne avrebbe sofferto come un cane, come quando vedeva Manuel baciare Chicca in classe o come quando lui gli aveva mandato la foto con Alice e la sua mente si era riempita di immagini di loro due a letto, a toccarsi e a baciarsi in modi che lui poteva vivere soltanto nei suoi sogni più intimi, ma non avrebbe privato Manuel della sua libertà, della sua felicità.

Manuel si accigliò leggermente, non voleva nemmeno sentire quei discorsi. Si sollevò, portando il braccio sinistro dall’altra parte del busto di Simone per sovrastarlo. A stento lo sfiorava con il proprio busto, stando attento a non pesargli.

L’altro ragazzo lo seguì con gli occhi, riportando il collo in posizione dritta. Trattenne il fiato, rapito dalla determinazione che infuocava gli occhi di Manuel.

“Ma chi te lascia, Simo’, chi te lascia…”

Mormorò per poi chinarsi sulle sue labbra, baciandole in maniera scomposta, passionale. Erano baci che facevano il rumore della pelle che si toccava e si allontanava per poi toccarsi di nuovo, quasi tanti piccoli schiocchi che riempivano la stanza insieme ai respiri affannati, al bip del cuore di Simone che si faceva sempre più veloce e al rumore delle prime auto che cominciavano a riempire le strade.

“Non la devi mai pensare una cosa del genere, mai, hai capito?”

Lo stava sussurrando a Simone, ma lo stava dicendo anche a se stesso: aveva capito che lasciarlo, seppur con buone intenzioni, sarebbe stata la scelta più facile. Una scelta dolorosa, sì, ma che permetteva di scappare dai problemi senza impegnarsi a risolverli.

Manuel era stufo di scappare, soprattutto adesso che aveva trovato un posto in cui fermarsi, un posto che era suo e di nessun altro, un posto che si sarebbe impegnato a difendere.

E poi, era diventato a sua volta un posto, un posto in cui Simone poteva fermarsi e che apparteneva soltanto a lui, un posto che non poteva essere vissuto da altri, non poteva e non voleva privargliene. Meglio costruire il presente e il futuro insieme, allora.

“Stavo solo parlando per ipotesi…”

Mormorò Simone, con un affanno che il dottor Bonvegna non avrebbe approvato. In quel momento, però, l’unico medico che aveva intenzione di ascoltare era il proprio cuore e questi gli aveva suggerito di aggrapparsi a Manuel, di infilare le mani sotto la sua canotta leggera e di accarezzarne la schiena calda. Tenendolo ben saldo, poi, lo spinse verso di sé perché aveva bisogno di sentire i loro corpi che si toccavano di nuovo, che si univano come nel sogno che aveva fatto.

Manuel, anche se con una certa difficoltà, cercò di puntellarsi con i gomiti sul materasso, per evitare di schiacciare Simone e fargli male, ma non poteva negare che anche lui desiderasse quella vicinanza, quello scambio di calore.

“Ed io te la stavo confutando.”

Gli diede un bacio in mezzo agli occhi, più calmo. Era riuscito nel suo intento ed era meglio non far affaticare Simone più del dovuto, meglio dosare quella passione a piccole dosi, almeno per il momento.

“Sei proprio un bravo filosofo.”

Ribatté scherzoso Simone, guardandolo negli occhi con una luce divertita e ardente nei propri. Capiva anche lui che, da un lato, era più saggio prendersi un po’ di tempo, che non era possibile tornare subito a fare tutto ciò che faceva prima, ma dall’altro era stato privato di Manuel per troppo tempo e aveva sete di lui.

“Però a te i filosofi non piacciono…”

Puntualizzò l’altro, curvando poi l’angolo delle labbra in un sorriso sghembo. Simone sollevò di poco il capo, quanto bastava a posargli un bacio proprio in quel punto in cui cominciava la curva del suo sorriso, poi tornò di nuovo con la testa sul cuscino.

“Per te faccio un’eccezione. Sei il mio filosofo preferito, anche più di Cartesio.”

Manuel sollevò le sopracciglia, con stupore e divertimento.

“Uuuh, qui facciamo dichiarazioni forti, eh? Beh, per me è un onore.”

Fece un profondo sospiro, innamorato perso del suo ragazzo. La sua attenzione venne poi attirata dal rumore di passi e di voci nel corridoio. Anche Simone si voltò in quella direzione.

“Il reparto si sta animando, meglio non farsi trovare così…”

Simone annuì e, anche se controvoglia, lo liberò dalla sua presa.

“Resta qui, però. Dormiamo un po’ insieme, come avevamo detto prima.”

Manuel si risistemò sul fianco, accanto a Simone, facendo una risatina.

“Dici che ce riusciamo ad addormenta’?”

Poggiò la propria mano sul petto di Simone e subito quella dell’altro la raggiunse, in un abbraccio simbolico.

“Beh, se smettiamo di baciarci e di parlare, sicuramente abbiamo più possibilità.”

“Non è proprio facilissimo, eh, però ci provo. Buonanotte, Simo’.”

“Buonanotte, Manuel.”

Neanche un secondo dopo scoppiarono entrambi a ridere, cercando però di trattenersi per non farsi sentire. Più di una volta i loro tentativi di riposarsi vennero interrotti da quelle risatine spontanee, che germogliavano dalle loro labbra senza un senso o un motivo preciso, se non la felicità di stare insieme.

Dopo un po’, però, le risate di Manuel si fecero sempre più trascinate e le sue palpebre sempre più pesanti e Simone, che ci teneva davvero a farlo dormire, si calmò a sua volta.

Lui ci mise più tempo a cedere al sonno, i suoi occhi preferivano di gran lunga restare aperti e riempirsi di Manuel, come fosse stato un quadro conservato in un museo lontano di cui memorizzare ogni dettaglio prima di ripartire.

Quei ricci in perenne disordine erano certamente l’esercizio di bravura di un pittore esperto, un pittore che aveva passato anni e anni della sua vita a disegnare soltanto ricci ribelli, riproducendone le curve senza controllo, e che era infine riuscito a riprodurre in maniera perfetta il caos nel suo ultimo capolavoro.

Poi, quel maestro, aveva deciso di far ricadere quelle morbide onde su un viso che era invece armonioso, bello nel senso più profondo della parola, quasi a voler ristabilire un equilibrio tra ordine e disordine.

Come tocco finale, il pittore aveva tracciato due morbide labbra rosse, come due petali di rose poggiati su quel viso già perfetto, in una sorta di firma, realizzando dunque un quadro prezioso, che le persone di tutto il mondo avrebbero desiderato vedere almeno una volta nella vita.

In effetti Simone a lungo aveva visto Manuel esattamente come un quadro, che poteva ammirare soltanto da lontano: quando era andato a dormire a casa sua per la prima volta, ricordò, aveva passato ore intere a fissarlo, desiderando ardentemente di poterlo accarezzare, anzi si sarebbe accontentato anche solo di poterlo sfiorare con le dita, ma come davanti ad un Rembrandt o ad un Caravaggio la sua mano non aveva osato muoversi, per paura di arrecare un danno irreparabile.

Con il tempo, tuttavia, aveva capito che Manuel era molto più di un quadro, perché un quadro non respira, un quadro non ride e non piange, non odia e non ama, resta sempre così com’è, impassibile a tutto ciò che gli accade intorno. Manuel invece viveva e viveva intensamente, ogni gioia, ogni dolore erano più di semplici pennellate che si sommavano a comporre la sua figura, erano sensazioni e sentimenti forti e veri.

Un quadro non si può toccare e certamente non si può baciare, mentre Simone poteva riempirsi mani e bocca di Manuel, sempre pronto ad accoglierlo e a ricambiare tutte quelle attenzioni in modi che un dipinto senz’altro non poteva fare.

Infine, una tela è muta e sorda, volendo puoi parlarci, ma lei non può ascoltarti o risponderti, non può darti consigli o dirti parole di conforto. La voce di Manuel, invece, ormai riempiva quasi ogni momento della vita di Simone, quando per esempio canticchiava suonando la chitarra oppure ripeteva versi particolarmente belli e degni di essere imparati a memoria o ancora quando sussurrava dolci parole d’amore al suo orecchio che viaggiavano fino al suo cuore.

E così Simone trascorse un tempo indefinito a guardare Manuel dormire, quel ragazzo che era sì un’opera d’arte, ma non un quadro, accarezzandogli la mano di tanto in tanto, sapendo bene che, una volta sveglio, avrebbe potuto fare molto di più.

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Capitolo 13
*** Ma se sei tu, lo sentirò ***


"Dottor Bonvegna, ma che ci fa ancora qui? Non va a casa?"

Riccardo sussultò quando si sentì chiamare da Teresa, la caposala, ma subito le rivolse un sorriso cordiale. Il turno di notte era finito da almeno mezz'ora, ma lui non si era nemmeno sfilato il camice. Preferiva restare lì, in ospedale, per non abbandonare il suo nuovo giovane paziente.

"No, no, ho delle cose da sbrigare e mi tratterrò ancora un po'. Non sono stanco, non è un problema."

La donna gli rivolse un sorriso affettuoso, quasi materno.

"È per il ragazzo nella quindici, vero? Gli stanno giusto portando la colazione…"

Il medico sgranò gli occhi, preoccupato. Simone non era da solo in stanza e nessuno avrebbe dovuto scoprirlo. Si congedò rapidamente dalla caposala e corse in corridoio alla ricerca dell'infermiere che si stava occupando di distribuire le colazioni. Lo trovò giusto in tempo, mentre entrava nella stanza quattordici.

"Ci penso io al paziente della quindici, grazie!"

Senza attendere una risposta prese un vassoio ed entrò, aprendo di pochissimo la porta per non permettere a nessuno di vedere all'interno. Sembrava un adolescente che tornava di nascosto a casa dopo una notte brava, non un medico stimato da pazienti e colleghi.

Si avvicinò lentamente al letto e, nonostante non avrebbe dovuto essere felice di vedere il letto del proprio paziente occupato anche da un'altra persona, accennò un sorriso intenerito alla dolce scena che gli si presentava davanti agli occhi: c'era Manuel, disteso su un fianco, tutto rannicchiato accanto a Simone, e Riccardo immaginò che di lì a breve, quando avrebbe aperto gli occhi, avrebbe ringraziato il mondo per essere vivo, come gli aveva quasi urlato contro.

Accanto a lui c'era ovviamente Simone, steso sulla schiena, ma comunque con il capo proteso verso l'altro ragazzo e i loro ricci quasi si sfioravano. Si vedeva che era rilassato e sereno e Riccardo dovette ammettere a se stesso che Manuel aveva ragione e che probabilmente non avrebbe trovato il proprio paziente in quello stato di beatitudine se lo avesse lasciato a dormire da solo.

A completare quel quadro amoroso, poi, c'erano le loro mani intrecciate sul petto di Simone e il medico quasi si sentì di troppo, ma al tempo stesso avvertì un groppo in gola che si costrinse a buttare giù.

"Ragazzi? Hey, ragazzi? Mi dispiace, ma è ora di svegliarsi."

Sussurrò, posando poi la colazione sul comodino. Manuel si limitò a grugnire infastidito, Simone invece aprì gli occhi, sbattendo un paio di volte le palpebre. Sorrise quando vide Manuel ancora accanto a sé, poi si voltò verso il medico.

"Buongiorno…"

Mormorò con voce impastata. Riccardo gli sorrise.

"Buongiorno a te. Dormito bene?"

Simone annuì piano, prendendo ad accarezzare distrattamente con il pollice il dorso della mano di Manuel.

"Benissimo, sì. Grazie per aver permesso a Manuel di restare."

Il dottore agitò una mano, non aveva bisogno di ringraziamenti.

"Mi basta sapere che ti ha fatto stare bene. Ha fatto il bravo, sì?"

Simone fece una risatina e annuì di nuovo.

"Sì, sì, abbiamo fatto i bravi entrambi."

Tornò a guardare il suo fidanzato che ancora sonnecchiava accanto a lui, rilassato come quando l'aveva visto addormentarsi.

"Lui è la mia acqua."

Sussurrò a voce bassissima, sorridendo appena. Bonvegna si accigliò leggermente, incuriosito.

"La tua acqua? Cioè? È una cosa che si dice tra giovani?"

Il ragazzo fece una risatina, scuotendo il capo.

"No, intendo in senso...letterale, più o meno. Sono due le cose di cui ho sentito più bisogno in questi giorni, per cui avrei dato anche l'altra gamba. Una è l'acqua e l'altra è Manuel. Non necessariamente in quest'ordine."

Spiegò con semplicità, seguendo con lo sguardo il profilo di un ricciolo di Manuel, uno dei tanti scomposti dal sonno. Era abbastanza sicuro che l'altro fosse abbastanza sveglio da sentirlo e ne ebbe la conferma quando vide le labbra di Manuel curvarsi in un piccolo sorriso, ma del resto voleva che lo sentisse, dopo il discorso della sera precedente.

Riccardo si ritrovò per la seconda volta a mandare giù un groppo in gola, perfino più pesante del precedente. Anche lui avrebbe dato una gamba per riavere accanto a sé la sua acqua, per svegliarsi al suo fianco anche solo un'ultima volta, per sentire il suo respiro caldo sulla propria pelle e le sue carezze tra i capelli arruffati.

"Devi ringraziare Manuel, allora, perché è riuscito a convincermi."

Rispose a bassa voce, schiarendosi poi di nuovo la gola.

"Adesso però deve andare, può tornare più tardi…"

Solo in quel momento Manuel si convinse ad aprire gli occhi, sbuffando.

"Che brutto risveglio…"

Mugugnò e Simone fece una risatina bassa. Sciolse l'intreccio delle loro mani per fargli una carezza tra i ricci, affettuoso.

"Dai, non è così terribile, anzi. Ci vediamo dopo."

Manuel fece un profondo respiro come a farsi coraggio a cominciare quella giornata, prendendosi ancora qualche istante per guardare Simone: era sereno, sorridente, poteva lasciarlo per un po'. Si sporse a dargli un bacio sulla fronte, incurante della presenza del medico -anzi, che vedesse pure!- e poi si alzò, stiracchiandosi. Indossò rapidamente le scarpe e prese in mano la felpa che aveva lasciato sulla poltrona, senza indossarla.

"Ma che è sta colazione da ospizio? Simone non c'ha mica ottant'anni!"

Esclamò, vedendo per caso il vassoio con il tè e le fette biscottate poggiato accanto al letto.

Riccardo gli fece segno di abbassare la voce, Simone non poté trattenere una risatina.

"Non urlare, sei impazzito? E comunque questa è la colazione giusta per lui, non ti preoccupare."

Ribatté il medico, ma Manuel non era convinto.

"Secondo me è mejo un bel cornetto con un cappuccino...che dici Simo', te li porto?"

Simone gli rivolse uno sguardo divertito e scosse il capo.

"Ti ringrazio, ma va bene così. Sono medici, sanno quello che fanno."

Bonvegna annuì con decisione a conferma della cosa, mentre Manuel si avvicinò al letto di Simone e gli fece una carezza. Simone, come un gatto affettuoso, mosse la guancia contro il suo palmo. Quelle carezze erano sempre belle.

"Va bene, come vuoi tu, però mangia tutto, eh. Io vado a fare quella cosa e poi passo a casa, ti porto qualcosa?"

"No, non mi serve niente, grazie. Porta solo te stesso, ma prima cerca di riposare un altro po’, va bene?"

Sorrise sghembo e l'altro fece una risatina.

"Ci posso provare, va bene. Aggiungo anche qualcosa di testa mia, però."

Lo baciò a fior di labbra, trattenendosi poi vicino a lui.

"Ci vediamo più tardi, Cerbiattino."

Sussurrò quasi impercettibilmente, perché quel soprannome era solo di Simone e non voleva che altri -il Dottor Spaventapasseri, nello specifico- sentissero.

Simone sorrise morbidamente, guardando l'altro negli occhi.

"A dopo, Paperotto."

Sussurrò a sua volta, in modo che quel nomignolo affettuoso non uscisse dalla loro bolla.

Manuel poi andò via, sgattaiolando fuori dalla camera al segnale del medico, che si premurò di aspettare che non ci fossero altri medici o infermieri in giro. Subito dopo Riccardo si avvicinò a Simone e gli sistemò la colazione sul tavolino.

"Posso permettermi di dirti che il tuo ragazzo è una bella testa dura?"

Domandò divertito e Simone fece una risatina imbarazzata, arrossendo leggermente.

"Sì, lo è, ma è anche un bel cuore."

Bevve un sorso di tè, che a dire il vero sembrava acqua calda con un leggero retrogusto di limone, niente a che vedere con le squisite tisane di Claudio che gli tornarono in mente al confronto.

"Ah, sì, si vede che ti vuole un gran bene. È una cosa bella, davvero tanto. Sei fortunato ad averlo con te."

Replicò Riccardo con un tono lievemente malinconico. Simone si chiese a cosa fosse dovuto, ma naturalmente non osò domandare.

"Ah, lo so bene."

Accennò un sorriso.

"A questo proposito, per favore perdonalo se ogni tanto si mette a fare storie. Si preoccupa per me, tutto qui…"

Riccardo scrollò le spalle, facendo una risatina.

"Non preoccuparti, ho visto persone fare di peggio per molto meno. Insomma, dopo ciò che ti è successo è comprensibile che voglia starti vicino."

Simone annuì appena e abbassò lo sguardo, concentrandosi sulle sue fette biscottate. Gli tornarono davanti agli occhi momenti sparsi di quella sua prigionia, insieme alle sensazioni e alle emozioni che avevano portato con sé, come con una pellicola riavvolta rapidamente di cui, per fortuna, vide anche qualche momento del lieto fine, un lieto fine ancora in corso, tutto da vivere.

"Anch'io voglio stargli vicino, anche lui è stato male. Anzi, sta ancora male…"

Ora che ci rifletteva, si rese conto che quello, fatta eccezione per le sue due visite allo sfascio, era stato il periodo più lungo che lui e Manuel avevano trascorso totalmente separati da quando erano diventati amici. Perfino quando, dopo il suo compleanno, aveva cercato di eliminarlo dalla sua vita avevano continuato almeno a vedersi a scuola, anche se non si erano più parlati e anzi, Simone addirittura cercava di stargli il più possibile lontano e di ignorarlo.

"Dopo può restare un po' in più?"

Adesso, infatti, stare lontano da Manuel per lui era un qualcosa che non riusciva nemmeno a prendere in considerazione e così era anche per l’altro ragazzo. Stare vicini, fisicamente vicini, era l’unica medicina per guarire dalla paura.

Riccardo sospirò profondamente, fissando in silenzio per qualche istante i grandi occhi di Simone che sembravano implorarlo come quelli di un cucciolo. Gli occhi scuri avevano sempre fatto un certo effetto su di lui.

“Guarda, se dipendesse da me, l’avrei fatto restare anche ora…”

Cominciò a dire, ma un tintinnio metallico interruppe le sue parole. Si portò istintivamente una mano all’altezza del petto, tastando alla ricerca di qualcosa e, non trovandola, si chinò immediatamente a terra a raccogliere ciò che gli era caduto. Tornato su se lo portò alle labbra chiudendo gli occhi e vi posò un bacio, sollevato.
Simone vide che si trattava di un anello appeso ad una catenina le cui due estremità pendevano separate in basso e pensò che dovesse significare molto per il medico, vista la sua reazione.

 
“Sai a cosa stavo pensando? Che potremmo adottare quel gatto che hai sempre voluto, ma che i tuoi genitori non ti hanno mai preso…”

La voce di Lorenzo, già fioca di suo, era attutita dalla mascherina per l’ossigeno, eppure nemmeno quel pezzo di plastica poteva coprire la luce del suo sorriso, di cui brillavano anche i suoi occhi scuri e profondi.

Riccardo, seduto accanto a lui sulla poltroncina vicino al letto, sorrise di rimando a quella dolce promessa –una delle tante che si stavano scambiando in quel pomeriggio uggioso- e per un momento dimenticò la bombola d’ossigeno ai suoi piedi, dimenticò il letto d’ospedale in cui Lorenzo giaceva già da dieci lunghissimi giorni, e tornarono ad essere soltanto loro e quel matrimonio che stavano cercando di organizzare per il Luglio successivo.

“Ma tu non eri più tipo da cani? Queste cose devo saperle, non posso mica sposare uno sconosciuto!”

Esclamò scherzosamente, accarezzando i capelli dell’altro con delicatezza, come se avesse paura di fargli male.

Lorenzo accennò una risatina -poco più di uno sbuffo divertito a dire il vero, perché i suoi polmoni non gli permettevano di fare di più- guardando i begli occhi verdi poco sopra di sé, che per lui erano come un prato, un’enorme distesa d’erba in quella piccola camera bianca. Per quegli occhi avrebbe fatto di tutto, anche prendere un animale a cui era sempre stato piuttosto indifferente.

“Sì, è vero, ma per prima cosa il nostro appartamento e i nostri turni non sono adatti ad un cane e poi, soprattutto, so quanto ti farebbe piacere. Mettiamo le cose in chiaro, però, della lettiera ti occupi tu!”

Riccardo ridacchiò immaginando già Lorenzo abbracciato a quel gatto a cui avrebbe mostrato indifferenza per una settimana al massimo e a cui poi si sarebbe inevitabilmente affezionato -perché aveva un grande cuore ed era impossibile che non si affezionasse a quella creaturina pelosa-, e si sporse a dargli un bacio sulla fronte per ringraziarlo, rendendosi conto di quanto fosse calda: la febbre non accennava a diminuire.

Si sforzò comunque di mostrarsi sorridente e di mettere da parte la preoccupazione, chiudendola in quella scatola che riapriva soltanto quando Lorenzo si addormentava e non poteva vederlo piangere.

“Ti ho già detto che sei il fidanzato migliore del mondo?”

Lorenzo scosse appena il capo, sorridendogli di rimando. Cercava di sorridere il più possibile quando stava insieme a Riccardo, di mostrarsi sereno, perché sapeva quanto fosse difficile per lui vederlo in quelle condizioni. Certo, Riccardo era un medico e in quanto tale doveva essere abituato a dover rapportarsi con pazienti in condizioni critiche, ma anche Lorenzo era un medico –un medico diventato paziente- ed era perfettamente consapevole che neanche tutti gli anni di esperienza del mondo potevano mettere a tacere quel senso di impotenza che ti pesava in petto come un macigno quando ti rendevi conto di non poter fare nulla, o di non poter fare abbastanza, per salvare qualcuno.

Se questo qualcuno, poi, era una persona con cui avevi condiviso gli ultimi dieci anni della tua vita e con cui progettavi di trascorrere tutti gli anni a venire, diventava davvero un peso insostenibile.

“No, oggi ancora no, però ieri me l’hai detto due volte.”

Sollevò una mano per accarezzargli i capelli e gli fece cenno di avvicinarsi un po’, quindi Riccardo chinò il capo e si lasciò arruffare i ricci senza fingere di protestare come invece faceva di solito, prima di tutto questo.

“Sai a cosa stavo pensando io, invece? Che  abbiamo entrambi un bel po’ di ferie arretrate e che potremmo usarle per andare a quel raduno di motociclisti che mi descrivi sempre come l’esperienza della vita. Quand’è, a Marzo?”

Lorenzo fece un’altra risatina delle sue, poi scosse leggermente il capo. Riccardo era troppo perfettino per quel tipo di cose.

“Ad Aprile, ma non fare promesse di cui sicuramente ti pentiresti. Ti ricordo che si dorme in tenda e i bagni sono in comune…”

“Beh dai, per qualche giorno posso resistere, è una bella sfida! E poi ci vai sempre da solo, mi dispiace…”

Replicò l’altro, con fermissima decisione.

“Davvero Ric, ti ringrazio, ma non sei obbligato.” 

“Nessun obbligo, lo sto dicendo io! E poi ti ho detto che abbiamo un mucchio di ferie da consumare, dopo ce ne andiamo per una settimana in una bella SPA, così recupero tutto!”

Lorenzo scoppiò a ridere, una risata troppo impetuosa per i suoi polmoni allagati, che presto si trasformò in violenti colpi di tosse che lo fecero scattare a sedere. Riccardo poté soltanto alzarsi per sorreggerlo, in attesa che l’attacco passasse.

Era il primo dopo due giorni in cui Lorenzo era stato relativamente meglio e si stava facendo sentire con tutti gli interessi, scuotendo il suo corpo come il vento farebbe con un albero troppo fragile e lasciandolo senza fiato dopo, a boccheggiare.

Riccardo lo aiutò a riprendere il ritmo del proprio respiro, poi gli fece bere un po’ d’acqua e lo fece tornare disteso.

Il silenzio cadde nella stanza, da un lato Lorenzo aveva bisogno di riprendere ossigeno e non riusciva a parlare, dall’altro Riccardo non trovava nulla da dire, era stato ammutolito dalla paura, lui che di solito non stava mai zitto.

Si tenevano per mano, l’unica cosa che entrambi erano in grado di fare, e Riccardo accarezzava i capelli di Lorenzo, come a scusarsi del proprio silenzio.

“Ric, ti devo dire una cosa…”

Sussurrò Lorenzo, dopo infiniti minuti di silenzio, nonostante la gola gli facesse un male cane, graffiata com’era dalla tosse.

“Me la dici dopo, non ti sforzare, ti prego…”

“No, è importante e devi ascoltarmi. Ti prego io…”

Gli occhi di Lorenzo erano pieni di lacrime che premevano per uscire e Riccardo non ebbe il coraggio di insistere ulteriormente, anche se poteva intuire perfettamente cosa stesse per dirgli e non era un discorso che voleva sentire. Era un discorso che Lorenzo voleva fare, però, quindi lui l’avrebbe ascoltato.

“Va bene, dimmi.”

Lorenzo si abbassò la mascherina e allontanò la mano di Riccardo che provò a riportargliela sul viso. Voleva che le sue parole arrivassero il più chiaramente possibile.
“Senti, queste cose che ci stiamo dicendo oggi, il gatto, il raduno, la vacanza...mi devi promettere che le farai comunque, a prescindere da me.”

Riccardo sentì come una mano strappargli via l’aria dai polmoni e un’altra mano stringergli il cuore fino a farlo fermare. No, non poteva promettere una cosa del genere, non voleva prometterla.

“Che…che vuol dire, scusa?”

Domandò, anche se aveva capito benissimo. Sperava però di aver capito male. Lorenzo sospirò.

“Voglio dire che se io non dovessi farcela, tu devi andare avanti con la tua vita. E devi lasciare anche che la tua vita si intrecci con quella di qualcun altro, va bene? Ti chiedo solo questo.”

Per la prima volta da quando lo conosceva, Riccardo odiò Lorenzo. Fu solo per un istante, più breve di un battito di ciglia, ma lo odiò per la richiesta che aveva osato fargli.

Quel lampo d’odio attraversò anche i suoi occhi verdi e colpì in pieno Lorenzo, che tuttavia assorbì la botta senza un lamento.

“Ma che cazzo stai dicendo? Io non dovrò fare un bel niente, né da solo né con qualcuno che non sia tu, perché tu guarirai! O forse sei così egoista da non volerci neanche provare?”

Sputò senza pensarci, ma se ne pentì ancor prima di terminare la frase.

Lorenzo si prese anche quel colpo, paradossalmente tra i due era lui quello più forte al momento. Riccardo aveva più paura di vivere –di sopravvivere- di quanta lui ne avesse di morire, e Lorenzo lo capiva, ma proprio perché era lui quello che stava per lasciare la vita –era medico anche lui, del resto, e aveva capito di avere i giorni contati- doveva ricordare all’altro che era giusto assaporarne ogni morso.

“Oddio, cazzo, scusami… ti prego, Lorenzo, scusami.”

Aggiunse subito Riccardo, chinandosi a baciargli le labbra mentre le lacrime cominciavano a rigargli le guance.

Lorenzo sorrise sotto quel bacio e cercò di ricambiarlo come meglio poteva, mentre portava una mano tra i ricci morbidi del suo fidanzato per tenerlo più vicino e non farlo allontanare. Se solo avesse potuto, non si sarebbe mai allontanato da lui, non lo avrebbe mai lasciato solo.

“Va tutto bene, tranquillo. Io ti prometto che ce la metterò tutta per cercare di guarire, va bene? Tu però devi promettermi che mi lascerai andare se non dovessi riuscirci. Non essere arrabbiato con me, ti prego…”

Sussurrò sulle sue labbra mentre riprendeva fiato e Riccardo liberò un singhiozzo che aveva cercato di trattenere. Prese a baciarlo su tutto il viso, ovunque capitasse, per scacciare via quel pensiero dalla sua testa: non era arrabbiato con Lorenzo, ma con Dio, in cui aveva sempre creduto e a cui si era sempre affidato, perché prima gli aveva dato l’amore e adesso glielo stava portando via.

“Io ti amo, come faccio ad essere arrabbiato con te? E te lo prometto, ti prometto tutto quello che vuoi…tu però non mi lasciare.”

Biascicò, lasciandosi scivolare nell’incavo del suo collo, una posizione scomodissima per lui che era tanto alto, ma non aveva intenzione di separarsi dall’altro.

Lorenzo accennò un sorriso mesto e lo avvolse con il braccio libero, senza smettere di accarezzarlo con l’altra mano.

“Non ti lascio, non ti lascio. Ovunque sarai tu, ci sarò anche io, te lo prometto.”

 
“Ti tengo qua da mesi, non è mai successo nulla e vai a romperti proprio adesso?”

Mormorò Riccardo, accarezzando la superficie liscia e fredda dell’anello che ancora teneva tra le dita, un gesto che era diventato il suo modo per ricordare un altro tipo di carezze, che faceva ad una guancia calda e coperta da una morbida barba.

Ovunque sarai tu, ci sarò anche io.”, gli aveva promesso Lorenzo, e quella catenina spezzata era il suo modo per ricordargli quanto fosse stato importante per lui averlo vicino mentre stava male, per ricordargli che le regole dell’ospedale non erano altrettanto importanti.

Riccardo stesso non le aveva rispettate, era rimasto accanto al letto di Lorenzo notte e giorno per giorni interi, era diventato il suo unico paziente.

Quella catenina spezzata era un suggerimento.

“Come?”

Domandò Simone, che non aveva sentito bene ciò che aveva detto il medico.

“Niente, niente, parlavo tra me e me.”

Rispose, facendo scivolare anello e catenina in tasca.

“Sai che ti dico, Simone? Vado subito a parlare con la primaria, voglio chiederle di fare un’eccezione per Manuel e permettergli di restare anche oltre l’orario di visita. Immagino che per te vada bene, no?”

Simone sgranò gli occhi, sorpreso e felice. Sorrise a trentadue denti, era la notizia migliore che potesse ricevere!

“Davvero si può fare? Non rischi qualcosa?”

Riccardo ridacchiò, scuotendo il capo.

“Al massimo mi dirà di no e mi farà una ramanzina, ma è un rischio che sono disposto a correre. Non sarebbe giusto lasciare un mio paziente senz’acqua, no?”

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Capitolo 14
*** E adesso te lo dimostrerò ***


Manuel aveva raggiunto l'ingresso dell'ospedale senza problemi, erano tutti troppo indaffarati per accorgersi di lui, e stava attraversando il parcheggio, dirigendosi verso la metro -avrebbe potuto chiedere a Claudio di venire a prenderlo, ma non voleva disturbarlo a quell'ora- quando si sentì chiamare.

Si voltò e vide sua madre accanto ad un'auto che riconobbe essere quella di Dante e infatti poco dopo anche lui e Virginia uscirono da lì. Sorrise ad Anita e le andò incontro, abbracciandola forte non appena l'ebbe raggiunta. Non la vedeva da giorni e gli era mancata tanto.

Lei, dopo un attimo di sorpresa, ricambiò l'abbraccio e gli portò una mano tra i capelli.
"Ciao, tesoro. Che ci fai già qui?"

"Ciao, ma'."

Le diede un bacio sulla guancia e, senza separarsi dall'abbraccio, agitò una mano in segno di saluto anche verso Dante e Virginia, con un sorriso un po' più mesto di quello che aveva rivolto a sua madre. Si sentiva ancora in colpa per come li aveva fatti soffrire ed era certo che quel peso non sarebbe mai andato del tutto via, ma era deciso a impegnarsi per lavorare sul presente e sul futuro, come aveva promesso a Simone.

Virginia gli rivolse un caldo sorriso e un saluto elegante con la mano, Dante invece si limitò a fargli un cenno con il capo.

"Io veramente me ne stavo andando. So' stato qua tutta la notte con Simone, mo’ però c'ho una cosa da fa'..."

Anita gli rivolse uno sguardo preoccupato, non vedeva il figlio da giorni e anche se l'avvocato Vinci li aveva tenuti informati costantemente, lei aveva avuto il sospetto che non avesse detto proprio tutto. Manuel le sorrise rassicurante, ma prima che potesse riprendere il suo discorso intervenne Dante, che nel frattempo si era avvicinato.

"Ti hanno fatto restare con Simone? Come sta?"

Manuel alzò gli occhi verso il suo professore, ma subito li spostò in direzione di un punto indefinito alla sua destra, perché ancora non riusciva a sostenerne lo sguardo.

"Ho dovuto insistere un po', ma mi hanno fatto restare, sì. Simone sta...sta bene, tutto sommato. L'ho visto sereno, insomma, ha pure dormito. Credo che sia più tranquillo, adesso, che si senta al sicuro. E sarà molto felice di vedervi, quindi magari non fatelo aspetta' troppo…"

Disse rivolto anche a nonna Virginia, abbozzando un sorrisetto. Non voleva che Simone rimanesse troppo solo e poi sapeva quanto gli mancava la sua famiglia, era ora che si incontrassero di nuovo.

"E tu invece dov'è che stavi andando?"

Domandò Dante, con tono severo. Anche lui aveva lo stesso sguardo preoccupato di Anita, ma era più freddo. Beh, era comprensibile, Manuel aveva fatto fin troppe cazzate.

"Sto andando a denuncia' tutte le schifezze de Sbarra, così finalmente lo acchiappano. Voglio fare la cosa giusta, adesso."

Il professore annuì e, senza dirgli altro, porse le chiavi della propria auto ad Anita.

"Fa' una cosa, accompagnalo tu, tanto noi restiamo qui per un po'."

"Da' un bacio a Simone anche da parte mia, ci vediamo più tardi!"

Replicò lei, facendo cenno al figlio di seguirla in auto. Mentre uscivano dal parcheggio dell'ospedale, Manuel provò a telefonare all'ispettore Liguori, ma non ricevendo risposta tentò con l'avvocato Vinci, ottenendo anche da quel numero soltanto squilli a vuoto. Fece una risatina tra sé e sé, perché aveva intuito cosa potesse essere successo.

"Ma', scusa, dobbiamo fa' una deviazione. Passiamo a casa de Claudio, cioè dell'avvocato Vinci, così recupero pure la mia moto e tu puoi tornare in ospedale."

Così dicendo impostò il navigatore sul cellulare, inserendolo poi nell'apposito sostegno sul cruscotto.

"Senti Manuel, a proposito di questo Claudio, si può sapere che tipo è? Sei rimasto a casa sua tutto questo tempo, io te l'ho lasciato fare perché ho capito che ne avevi bisogno, però insomma…"

Manuel fece una risatina, poi fece un profondo respiro e si sistemò meglio sul sedile. Mantenne un sorriso appena accennato in volto, addolcito dal pensiero che sua madre avesse capito i suoi bisogni. Non era assurdo per una madre capire i bisogni del proprio figlio e non era particolarmente assurdo per sua madre, ma era una cosa che lo faceva sentire amato.

"Ma', puoi stare tranquilla, quell'uomo è praticamente in odore de santità. M'ha sopportato per tutto sto’ tempo e tu lo sai che non so' un tipo facile. Poi mettice che ero pure preoccupato da morire per Simone, non facevo altro che urlare o piangere, gli ho pure vomitato nel lavandino!"

Manuel si sorprese della facilità con cui stava raccontando a sua madre, seppur sommariamente, di quanto avesse sofferto negli ultimi giorni; il se stesso del passato non l'avrebbe mai fatto, si sarebbe tenuto tutto dentro, convinto di dovercela fare da solo, perché tanto anche se si fosse sfogato con qualcuno, nessuno si sarebbe fatto carico delle sue pene.

Aprirsi era una cosa che aveva imparato grazie a Simone, che piano piano lo aveva aiutato a liberarsi della sua armatura, ascoltando i suoi silenzi e la sua rabbia. Già gli mancava, non vedeva l'ora di tornare da lui; aveva anche in mente una cosa da portargli.

Anita intanto ascoltava attentamente suo figlio e le erano venuti gli occhi lucidi a sapere che era stato così male e al pensiero che lei non c'era stata.

"Insomma, ero veramente intrattabile, un'altra persona mi avrebbe cacciato a calci. Lui invece no, al massimo me preparava una tisana. Pure bone, eh, alla fine me ce so' abituato."

"Tesoro, mi dispiace tanto. Avrei dovuto esserci io con te…"

Cominciò a dire Anita, ma Manuel la interruppe scuotendo il capo. Apprezzava l'affetto, ma in cuor suo sapeva che non sarebbe stata d'aiuto, non in quella situazione.

"Non te la prendere ma', ma è andata meglio così. E non lo dico perché tu non mi avresti saputo dare conforto, ma perché se fossi restato a casa con te, con voi, sarei impazzito e mi serviva lucidità per vedermela co' Sbarra. Ci sono stati dei momenti in cui ho sbagliato lo stesso, momenti in cui non ho saputo mantenere la calma e io ti conosco, ti saresti fatta prendere dal panico anche tu e sarebbe stato peggio. Claudio, invece, mi ha saputo gestire. Quindi nun te fa' colpe, è andata bene così, ok?"

Anita abbozzò un sorriso, trovandosi in accordo con il figlio. Un altro genitore probabilmente si sarebbe stupito della maturità del proprio figlio, ma lei no, perché sapeva benissimo che Manuel era fin troppo maturo, e che anzi lo era diventato troppo in fretta. Forse quello era stato il suo unico errore, crescendolo: non avergli dato abbastanza spensieratezza.

"Sì, hai ragione tu. Adesso come stai, invece? Ti vedo stanco, ma mi sembri anche felice…"

"Eh, perché sto esattamente così. L'unica dormita degna di questo nome me la sono fatta stamattina presto, insieme a Simone, ma è stata troppo breve."

"Ah, tocca recupera', eh?"

Commentò Anita, scherzosa, e Manuel si ritrovò ad arrossire imbarazzato, ma sorridente. Sì, sia lui che Simone avevano molte dormite insieme da recuperare, ma avevano anche molto tempo davanti a loro.

"È per questo che sono felice. Forse è stupido, non lo so e non me frega, ma il pensiero di poter dormire di nuovo abbracciato a lui me fa senti' di poter uscire da questa macchina e volare ovunque io voglia. Che poi andrei comunque da Simone, ma questo è un dettaglio."

Mormorò guardando in basso, con le guance ancora decorate dal rossore e solcate da due morbide fossette. Anita sorrise teneramente, era bellissimo vedere suo figlio così innamorato, così felice.

"No, non è stupido. Significa che Simone è al sicuro e questa certamente non è una cosa stupida."

Gli fece notare e Manuel annuì con convinzione, alzando lo sguardo verso di lei.

"È tutto ciò che desidero, ma', davvero. Ho fatto delle cazzate e l'ho messo in pericolo, ma voglio rimediare. Lo voglio proteggere. Che poi è un po' questo il senso dell'amore, no?"

Nella voce di Manuel c'era tutta la dolcezza di quel sentimento su cui da secoli si arrovellavano poeti, scrittori e filosofi, alla ricerca del suo significato profondo e segreto. Tra loro, nel suo piccolo, c'era anche Manuel.

Per un bel po' di tempo, quando stava con Chicca, aveva pensato che l'amore in fin dei conti fosse qualcosa di piuttosto banale, il segreto era vedersi tutti i giorni a scuola, quando possibile nel pomeriggio, e almeno una volta nel fine settimana.

Poi aveva conosciuto Alice e l'amore era diventato qualcosa di diverso, di più difficile, perché Alice era più grande, aveva un'altra vita, altre esperienze e Manuel doveva dimostrarsi all'altezza delle sue aspettative in tutto, anche nei momenti d'intimità, che per la prima volta aveva condiviso con lei. Il segreto dell'amore, allora, stava nella sfida, nel continuo mostrarsi degno delle attenzioni dell'altra persona.

Dopo Alice -anzi, col senno di poi prima di Alice, solo che Manuel lo aveva realizzato dopo- nella sua vita era entrato Simone, a piccoli passi, senza fare rumore, come un venticello leggero che però era stato in grado di scombinare tutte le sue carte senza che lui se ne accorgesse e così facendo -per puro paradosso- le aveva rimesse in ordine.

Con Simone l'amore era diventato un rompicapo complicatissimo che non riusciva a risolvere, che lo faceva impazzire e Manuel aveva perso ogni certezza che aveva sull'amore, ma questo soltanto perché fino a quel momento non l'aveva realmente conosciuto. Con Chicca c'era stato affetto, con Alice passione, ma con Simone c'erano entrambi e anche qualcosa in più, qualcosa che non riusciva ad ammettere a se stesso.

Ecco che l'amore si era trasformato in vergogna, imbarazzo e paura nascosti da una maschera di rabbia attraverso cui urlare parole che non pensava davvero, ma che erano più facili da pronunciare di quelle che avrebbe effettivamente voluto dire. Erano parole con un loro prezzo, però, e il costo era perdere Simone che, giustamente, si era rifugiato tra le braccia di un altro uomo, un uomo gentile e premuroso che avrebbe potuto dargli tutto ciò che meritava: così l'amore, per Manuel, aveva trovato la sua rima in dolore, in un verso scolpito nella pietra, incancellabile ed immutabile.

"E questo chi lo dice, Platone?"

Domandò divertita Anita e Manuel rispose con una risatina, scuotendo il capo.

"No, questo lo dico io! L'amore alla fine è una cosa semplice, ma', siamo noi che lo rendiamo complicato, che gli diamo significati che non gli appartengono. Amare è…"

Fece una breve pausa, per trovare le parole adatte.

"Amare è darse mille baci, poi altri mille e altri cento, ma non perché nun se ha niente de mejo da fa' o perché se vole fini' a letto e basta, ma perché finché ce se bacia se resta uniti e finché se resta uniti ce se protegge a vicenda."

Parlava gesticolando, Manuel, come a voler dare forma a quel concetto importantissimo con le proprie mani, e brillava di pura gioia, una luce che sua madre aveva visto sul suo viso soltanto da bambino e che poi era scomparsa per tanto, troppo tempo. Anita sorrise commossa alla spiegazione del suo piccolo filosofo innamorato e gli diede un buffetto sulla guancia.

"Quando dici queste cose fai concorrenza a Dante, lo sai?"

Manuel rise, orgoglioso e imbarazzato al tempo stesso.

"Sai come se dice, no? Che i figli cercano un fidanzato o una fidanzata simile ai genitori, ma forse è vero pure che i genitori cercano qualcuno simile ai figli!"

“Ma quanto sei scemo!”

Esclamò Anita e l'auto si riempì delle loro risate, che continuarono ad echeggiare di tanto in tanto fino a quando non arrivarono a destinazione. Manuel salutò sua madre con un bacio sulla guancia e raggiunse rapidamente l'appartamento di Claudio.

Dovette bussare un paio di volte prima che quest'ultimo andasse ad aprire la porta e Manuel trattenne a stento una risatina quando lo vide conciato com'era: i capelli, solitamente sempre in ordine, erano arruffati e sparati in almeno tre direzioni diverse e il suo solito pigiama rigorosamente di seta era stato sostituito da una t-shirt in cotone, per di più anche infilata al contrario, che a malapena copriva i boxer che lasciavano scoperte il resto delle gambe. Insomma, Claudio sembrava il suo gemello diverso, ma ciò che Manuel non sapeva era che al di là di quell'aspetto scomposto, c'era un cuore di nuovo in perfetto ordine.

"Ma che hai combinato? Notte folle?"

Commentò divertito il ragazzo, mentre l'avvocato lo lasciava entrare in casa. Il suo volto tradì un pizzico di imbarazzo in un sorriso appena accennato, ma era un imbarazzo positivo, felice.

"Potrei chiederti la stessa cosa. Ma che ore sono?"

Chiese Claudio, passandosi una mano sul volto assonnato. Manuel ridacchiò, scuotendo leggermente il capo.

"Le dieci passate e tu non mi hai risposto. Io ho fatto il bravo, mentre te…"

Lasciò la frase in sospeso, guardandolo furbescamente. L'avvocato rispose con una risatina e poi gli fece cenno di seguirlo in cucina.

Manuel, prima di entrare in cucina, si sporse verso il lungo corridoio, per cercare di captare qualcosa dalla camera da letto di Claudio, la cui porta però era socchiusa. L'uomo lo vide e alzò gli occhi al cielo, divertito.

"Siediti, piccolo impiccione che non sei altro, ti preparo la colazione."

"Ma no, non c'è bisogno, tranquillo. Anzi, me sa che so pure de troppo stamattina, eh?"

Prima che Claudio potesse replicare, Domenico entrò in cucina -scompigliato e a torso nudo, indossava soltanto dei pantaloni- e si diresse direttamente verso Claudio per abbracciarlo da dietro, posandogli un bacio sul collo. Anche lui era piuttosto assonnato, tanto da non accorgersi del ragazzo seduto a tavola, ma anche lui come Claudio sembrava felice, leggero.

Manuel si sentì davvero di troppo in quel momento e distolse lo sguardo, ma con un sorrisetto soddisfatto sul viso.

"Buongiorno, avvocato…"

Mormorò Domenico sulla pelle dell'altro, lasciandovi un altro bacio. Claudio sorrise, portando una mano sulle sue per fargli una carezza.

"Buongiorno, ispettore. Devo farle notare che non siamo soli, stamattina."

E con un cenno del capo indicò Manuel, al che Domenico si voltò, lo vide, e scoppiò a ridere. Non era imbarazzato, solo sinceramente divertito dalla situazione.

"Buongiorno anche a te, Manuel. Scusami, non ti avevo visto."

Si separò dall'avvocato non prima di avergli lasciato un bacio tra i capelli, poi si spostò per preparare la macchinetta del caffè, era meglio che Claudio non la sfiorasse nemmeno. Sapeva fare molte cose, ma il caffè non era tra queste.

"Ah, figurate, anzi, so' io quello che è piombato qua senza avvisare. È che ho provato a chiamarve, ma non m'avete risposto…"

"Sì, scusaci, Morfeo stava facendo il suo lavoro. È successo qualcosa, per caso?"

Domandò Claudio, mentre sistemava sul tavolo tazze e biscotti. Manuel scosse il capo.

"No, no, è solo che stamattina volevo passare in commissariato pe fa' quella cosa, ma non sapevo se t'avrei trovato…"

Rispose rivolto a Domenico, che annuì.

"Hai ragione, in effetti sono in ritardo, ma per una volta non succede niente. Tu e Simone tutto bene, quindi? Com'è andata la notte?"

Manuel accennò istintivamente un sorriso mentre masticava un biscotto, ripensando alle ore da poco trascorse come se fossero state un sogno, ma che erano ancora più belle perché erano reali. Reali come il profumo di Simone, il calore del suo corpo, la morbidezza delle sue labbra e le dichiarazioni d'amore che si erano sussurrati prima di addormentarsi.

"È andata benissimo, io e Simone abbiamo parlato un po' e poi ci siamo addormentati, nessuno ci è venuto a rompe i coglioni, per fortuna."

Guardò poi entrambi gli uomini davanti a lui, con una luce furbetta negli occhi. Era felice per loro, perché era palese che fosse successo qualcosa di bello, qualcosa che li aveva portati ad abbracciarsi di nuovo senza timori o sensi di colpa, come era successo tra lui e Simone.

"Sono indiscreto se dico che me sembra che anche voi abbiate passato una bella serata?"

Claudio e Domenico si guardarono e poi scoppiarono a ridere, più come due adolescenti spensierati che come due quarantenni. Era il bello dell'amore, non avere età.
"Sei indiscreto, ma non ti sbagli. Diciamo che...abbiamo messo in chiaro un po' di cose."

Rispose Claudio, dolcemente, senza staccare gli occhi da quelli di Domenico che a loro volta si perdevano nei suoi. Sì, era stata decisamente una bella serata.


Non si erano messi d'accordo, ma dopo essere usciti dall'ospedale ad entrambi era venuto naturale andare a casa sua, sembravano essere tornati ai tempi in cui i pensieri di uno erano anche quelli dell'altro.

"Hai fame, ti preparo qualcosa?"

Chiese Claudio, senza neanche dare il tempo a Domenico di chiudere la porta d'ingresso. Cercava di non darlo a vedere, ma era agitato, si sentiva lo stomaco in subbuglio e la testa pesante.

Domenico sorrise a quella premura tipica di Claudio, ma declinò scuotendo il capo. Anche il suo stomaco era in tempesta e non avrebbe accettato nemmeno una briciola di pane. Erano lì per parlare o meglio, Claudio voleva parlargli e lui voleva soltanto ascoltarlo. Quel piccolo scambio che avevano avuto in ospedale gli aveva dato un'enorme speranza.

"No, grazie. Però magari una tazza di tè…"

Propose, armeggiando nervosamente con le chiavi dell'auto. Claudio annuì subito, ringraziando mentalmente l'altro per avergli dato qualcosa da fare.

"Allora accomodati, io arrivo subito."

Si allontanò in cucina, mentre Domenico si spostò in salotto. Non avendo molto altro da fare, si sfilò il giubbotto da pompiere, che ancora indossava, rimanendo in una più fresca maglietta. Si sedette sul divano e Claudio lo raggiunse pochi minuti dopo con un vassoio in mano che sistemò sul tavolino prima di sedersi accanto a lui. Lo sguardo gli cadde immediatamente sulla fasciatura che aveva al braccio e di nuovo provò quella sensazione di senso di colpa unito a preoccupazione che in fondo non l'aveva mai abbandonato.

"È solo un graffio, l'hanno detto anche i medici. Chi me l'ha fatto sta peggio di me, credimi."

Disse Domenico mentre aggiungeva lo zucchero nel tè, senza aver bisogno di voltarsi verso Claudio per capire su cosa avesse posato gli occhi. Si portò la tazza alle labbra e ancora prima di assaggiare venne investito da un profumo di vaniglia che lo fece sorridere. Era il suo gusto preferito, Claudio se ne era ricordato.

"Lo so che è solo un graffio, l'ho capito, ma è stata solo una questione di fortuna. Poteva capitarti di peggio e lo sai."

Claudio spostò lo sguardo sul tavolino, sospirando. Prese la propria tazza e bevve un sorso, senza riuscire però a goderselo, perché davanti ai suoi occhi riusciva a vedere soltanto un Domenico più giovane dal cui fianco sgorgava un fiume rosso e le proprie mani che inutilmente cercavano di arrestarne il corso.

"Sì, lo so, ma non è successo. È il mio lavoro rischiare la vita per salvare quella degli altri e questa è una cosa che sai bene anche tu."

Domenico si voltò a guardarlo e prima che gli potesse dare una risposta che si era già sentito dire un'infinità di volte, si affrettò a prendere in mano la situazione.

"Però adesso mi devi dire una cosa, Cla': siamo qui per ripetere un discorso che abbiamo già affrontato mille volte o vuoi dirmi qualcosa di nuovo? Perché poco fa mi hai detto che questa volta non saresti scappato, ma sappiamo già come finirà se continuiamo a parlare così."

Claudio posò la tazza sul tavolino, più che altro per prendersi ancora qualche istante prima di confrontarsi con il proprio cuore, poi ricambiò il suo sguardo. Negli occhi di Domenico vedeva tanta determinazione, ma al tempo stesso gli sembravano smarriti, quasi spaventati. Era soltanto colpa sua se quegli occhi tremavano, se imploravano delle parole diverse da quelle che gli aveva sempre detto.

Avrebbe voluto davvero essere in grado di pronunciarle, quelle parole rassicuranti, ma le sentiva vorticare nella propria testa e non riusciva ad afferrarle. Quasi rise per l'assurdità della cosa, lui che con i suoi discorsi riusciva a convincere anche il più severo dei giudici, ora non riusciva a convincere nemmeno se stesso.

"Io non so cosa dirti, Domenico. O meglio, lo so, ma non so come. Tutto ciò che potrei dire, non mi sembra abbastanza."

Confessò, cercando sostegno nel suo sguardo. L'ispettore alzò gli occhi al cielo, incredulo, per poi riportarli immediatamente sui suoi, per dargli il sostegno che cercava. Non gliel’avrebbe mai negato.

"Questo fallo decidere a me, no? Tu dimmi quello che vorresti dirmi, io ti ascolto."

L'avvocato fece un respiro profondo, scrollando poi le spalle. Cominciava a dubitare di aver fatto bene a promettergli quella conversazione, sul momento gli era sembrata una buona idea, ma adesso non riusciva ad immaginare che potesse portare a qualcosa di buono. Ciononostante, cominciò comunque a liberare il proprio cuore.

"Vorrei dirti che mi dispiace di averti spezzato il cuore e che non c'è giorno in cui non me ne sia pentito negli ultimi quindici anni."

Sorrise amaramente, scuotendo leggermente il capo.

"Vorrei dirti che mi dispiace di essere stato un codardo, di essere scappato di fronte alla tua cicatrice invece di aiutarti a farla guarire. Vorrei dirti che mi dispiace di non averti dato ascolto quando mi dicevi di lasciar perdere quell'avvocato, di fare praticantato altrove, perché se ti avessi ascoltato non avresti passato gli ultimi anni a soffrire."

La sua voce, di solito controllata e decisa, si incrinava continuamente costringendolo a fare delle piccole pause di tanto in tanto per deglutire il macigno che sentiva bloccato in gola.

Domenico ascoltava ogni parola con la massima attenzione, quasi non respirava per evitare di fare rumore e coprirle, e gli arrivavano dritte al cuore, facendolo battere all'impazzata. Claudio, in tutti quegli anni, non si era mai aperto così tanto con lui.

"E poi vorrei dirti che ti amo e che non ho mai smesso di amarti, ma questo non fa altro che rendermi più stronzo."

L'impulso di scappare, nel senso di lasciare fisicamente la sua stessa casa, si era fatto ancora più forte adesso che aveva detto a Domenico tutto ciò che si era tenuto dentro per tutto quel tempo. Domenico, però, non gli diede modo nemmeno di pensare ad una fuga, perché subito prese una sua mano nella propria, sorridendo dolcemente.

Gli occhi dell'avvocato scattarono sulle loro mani intrecciate e poi di nuovo sul volto dell'ispettore, non sapeva cosa aspettarsi. Notò che aveva gli occhi lucidi.

"Vedi che non era poi così difficile? E non era nemmeno male come arringa, secondo me convincerà anche il giudice."

Commentò scherzosamente Domenico, mandando in totale confusione Claudio. Si aspettava come minimo un ‘vaffanculo’ e invece l’altro sembrava soddisfatto.

"Ma...tutto qui? Non sei incazzato?"

Domenico rispose con una risatina divertita, facendo spallucce. Claudio proprio non capiva che non gli era proprio possibile arrabbiarsi con lui, era un'emozione che non concepiva quando si trattava di lui.

"E perché mai dovrei? Mi hai detto delle cose che ho aspettato per quindici anni!"

"Ed è per questo che mi dovresti riempire d'insulti! Non...non è possibile, dai!"

L'ispettore sospirò pazientemente e lasciò andare la presa sulla sua mano, ma solo per un istante, il tempo di allungarsi a prendere la sua tazza di tè e di porgergliela.

"Bevi un po', sei troppo agitato."

E Claudio non se lo fece ripetere, bevve un lungo sorso di tè anche perché, tra l'altro, si sentiva la bocca totalmente impastata e la gola secca.

"Cla', tu devi capire che io ti avrei aspettato anche per tutto il resto della mia vita, quindici anni non sono niente. L'avrei fatto perché anche io ti amo e non ho mai smesso di amarti e tu mi hai appena dato la conferma che anche per te è così, quindi mi spieghi come potrei essere arrabbiato? E poi questi quindici anni sono passati anche per te, anche se non si direbbe per quanto sei bello."

Claudio abbassò imbarazzato gli occhi, preso in contropiede, e per pochi secondi sembrò di nuovo il giovane uomo, poco più di un ragazzo, che Domenico vedeva davanti ai suoi occhi.

"Vorrei soltanto recuperare il tempo perduto, tutto qui."

Aggiunse, portando una mano sulla guancia di Claudio per fargli una carezza, in un impeto di coraggio. Claudio smise di respirare per un istante, come a voler fermare il tempo per far durare quella carezza per sempre e, proprio per questo desiderio, mise una mano su quella dell'altro, in modo da farlo restare così.

"Lo voglio anch'io."

Gli sorrise, guardandolo negli occhi.

"Che ne diresti di cominciare adesso?"

E così dicendo l’avvocato si fece un po' più avanti, per ridurre la distanza tra loro.

"Stavo giusto per chiedertelo...."

Replicò l'altro, con lo stesso sorriso ad illuminargli il volto, avvicinandosi fino ad annullare del tutto lo spazio tra i loro corpi. Il bacio non partì dall'uno o dall'altro, fu un bisogno di entrambi, tanto che per la foga la tazza -ora vuota- che Claudio ancora teneva in una mano finì a terra, ma quelle due metà che si ritrovavano avevano ben altro a cui pensare: come un meccanismo perfettamente funzionante anche dopo anni di fermo, Claudio si spinse contro Domenico fino a farlo distendere sul divano e lui assecondò quel movimento tirando l'altro su di sé, e furono così fluidi nella loro azione che mantennero il bacio, senza separarsi.

Una mano di Domenico finì tra i capelli di Claudio e l'altra sul suo fianco, in un gesto istintivo per tenerlo vicino. Claudio sorrise sulle sue labbra, portando una mano sul suo collo caldo, accarezzandolo piano.

"Sono qui, non me ne vado."

Promise in un sussurro, fissando gli occhi azzurri in quelli verdi. Domenico sorrise e annuì appena, quasi con timidezza, e il suo cuore fece un salto a quella promessa.
"Però, magari...potremmo andare tutti e due di là, che dici?"

Propose, mentre gli accarezzava lentamente i capelli.

"Questo divano è un po' scomodo..."

Aggiunse scherzoso e Claudio ridacchiò.

"È di design!"

Protestò, dandogli un bacio sulla punta del naso. Concordava con lui, però, quel divano non era abbastanza grande per contenere il loro amore, senza contare che per Domenico era sicuramente stata una serata pesante, aveva il diritto di riposarsi e lui avrebbe fatto in modo che ciò accadesse.

"Eh, ma alla mia schiena non interessa!"

Ribatté divertito l'altro, baciandolo a fior di labbra.

Claudio si alzò, ridacchiando, e gli tese una mano per aiutarlo a fare lo stesso. Domenico prese la sua mano e si portò su, liberando -apposta- un buffo verso, come se quel gesto gli stesse costando una gran fatica, solo per far ridere Claudio e quando ottenne l'effetto desiderato sorrise, soddisfatto. Claudio non ricordava nemmeno l'ultima volta che aveva riso così di cuore.

"L'età si fa sentire, eh ispettore?"

Disse canzonatorio, con ancora gli strascichi di quella risata nella voce, e gli occhi verdi di Domenico furono attraversati da un lampo di sfida.

"Te la faccio vedere io l'età, avvocato!"

Esclamò, e in un attimo lo condusse in corridoio, diretto verso la camera da letto, ma poco più che a metà strada si fermò, portò Claudio con la schiena contro il muro -fu delicato, non lo spinse con foga perché non voleva fargli male-, lo strinse a sé per i fianchi e fu di nuovo sulle sue labbra.

Pochi istanti dopo si spostò sul suo collo, lasciandovi un leggero morso che fece sussultare Claudio per la sorpresa e aggrapparsi a lui in risposta, attraversato da una scarica improvvisa.

"Tutto a posto?"

Sussurrò Domenico sulla pelle dell'altro, su cui poi lasciò un bacio, premuroso.

Claudio annuì, prendendo poi un profondo respiro.

"Fallo di nuovo, per favore..."

Chiese a bassa voce e Domenico, con una risatina bassa, acconsentì, andando di nuovo a stuzzicare con i propri denti quel punto che, ricordava perfettamente, era particolarmente sensibile per l'avvocato.

Claudio trattenne di nuovo il respiro e liberò un gemito d'approvazione, mentre l'ispettore prese ad accarezzare con la punta della lingua la piccola zona per darle sollievo e sospirò, lentamente, quando sentì di nuovo il sapore della sua pelle.

L’avvocato quasi tremava sotto quelle piccole attenzioni, i brividi di piacere che gli attraversavano la schiena lo portarono a chiedersi come avesse potuto vivere tutti quegli anni senza, e cercò di ricambiarle infilando una mano sotto la maglietta dell’ispettore, prendendo a disegnare piccoli cerchi poco sopra il bordo dei pantaloni, perché sapeva quanto all'altro piacesse, e infatti i suoi mugolii d'approvazione non tardarono ad unirsi ai propri.

Mossi poi da un desiderio comune, si spostarono nella stanza da letto, separandosi il tempo necessario ad attraversare il breve tratto di corridoio e poi furono di nuovo uno sulle labbra dell'altro, affamati di baci.

D'istinto, le mani di Domenico si avvicinarono ai primi bottoni della camicia di Claudio, e bastò uno sguardo d'intesa per farglieli aprire rapidamente uno ad uno. Prese poi i lembi della camicia, come se avesse voluto sfilargliela, ma per il momento la tenne ancora su.

"Posso?"

Sussurrò, mantenendo lo sguardo fisso in quello dell'altro. Claudio si lasciò accarezzare dalla premura di quegli occhi verdi e annuì senza esitazione. Domenico si avvicinò a dargli un bacio e, in quel piccolo istante, la camicia finì sul pavimento. Un attimo dopo, le mani di Claudio afferrarono il bordo della maglietta dell'altro, sollevandola solo un po'.

"Permetti?"

Chiese con un sorriso sulle labbra e, negli occhi azzurri, la stessa premura che l'altro aveva riservato a lui e Domenico sorrise, annuendo. Anche la maglietta finì a terra, accanto alla camicia, e fu solo questione di attimi prima che lo facessero anche i loro rispettivi pantaloni.

Entrambi, infatti, non vedevano l'ora di essere liberi.

"Mettiti comodo."

Lo invitò Claudio, accennando al letto con il capo. Domenico, però, non si mosse.

"E tu?"

Domandò, inclinando leggermente il capo. Claudio fece una risatina e lo rassicurò con una carezza leggera sulla guancia.

"Io posso stare comodo solo se nel letto ci sei già tu. Non ho intenzione di dormire nella stanza degli ospiti o su un divano scomodo, non ti preoccupare."

Domenico accennò un sorriso e prese la mano di Claudio nella propria per voltarsi a darle un bacio prima di andare a stendersi a letto. Non appena la sua schiena toccò il materasso morbido, liberò un lungo e profondo mugolio d'approvazione, ad occhi chiusi, e si prese qualche secondo per stiracchiarsi un po'.

Gli occhi di ghiaccio dell'avvocato si sciolsero a quella tenera vista, e non poté fare a meno di paragonare mentalmente l'ispettore ad un grosso cane felice di sistemarsi nella sua cuccia.

"Lo sai che sei proprio bello?"

Disse, incantato. L'ispettore sorrise sornione.

"Mi è stato fatto notare, sì…"

Ribatté, vantandosi per finta. Aveva perso il conto delle persone -uomini e donne- che avevano dimostrato più volte di apprezzare il suo aspetto, ma il parere di nessuna di loro contava quanto quello dell'uomo che gli stava di fronte.

L'avvocato fece una risatina e sorrise sghembo, sollevando un sopracciglio.

"E anche molto tenero."

"Ah, questa invece mi giunge nuova!"

Commentò Domenico, ridacchiando divertito. Per sottolineare il concetto, Claudio gli andò vicino e si sedette sul bordo del letto, posando una mano sulla sua pancia su cui prese a fare delle lente carezze, esattamente come se fosse stato un tenero cagnolone. Domenico, ancora ad occhi chiusi, ridacchiò beato.

"Deduco che il letto sia più comodo del divano..."

Commentò Claudio, dolcemente, e Domenico annuì, pigro.

"Sì, molto, però manca qualcosa..."

Riaprì gli occhi e allungò una mano verso il volto di Claudio, che si sporse per farsi accarezzare.

"Sì, lo penso anch'io."

Trasformò quella carezza in un bacio, azzerando la distanza tra i loro visi, e sfruttò il momento per sistemarsi su di lui, cercando di non pesargli troppo.

Domenico lo cinse immediatamente tra le braccia e lo strinse a sé, perché per troppo tempo non aveva sentito quel corpo accanto al suo, che non pesava ma che riempiva il suo vuoto, e Claudio sentì le lacrime premere dietro le palpebre abbassate, perché a quel gesto semplice, ma al tempo stesso così istintivo e disperato, percepì tutto il dolore dell'altro, tutta la disperazione che lo divorava da dentro da quindici anni, e li avvertì nel proprio cuore, come colpi di pistola, dove si unirono al proprio dolore e ai propri sensi di colpa, che non avevano mai smesso di morderlo.

Approfondì il bacio, lentamente, baciò Domenico con devozione, con tutto l'amore che non gli aveva dato in quegli anni, e poi si spostò in basso, sul suo petto che tanti anni prima aveva accolto le sue ferite, posandovi le labbra una sola volta prima di sollevare il capo per guardarlo negli occhi.

"Vorrei prendermi cura di te, stasera, se me lo permetti..."

Mormorò, accarezzandogli il fianco con un movimento apparentemente distratto, ma in realtà preciso e calcolato. Domenico annuì, lentamente, con un sorriso morbido sulle labbra.

"E tu mi permetterai di fare lo stesso con te?"

Chiese, ma Claudio non rispose, era già sceso nuovamente su di lui e aveva ripreso a baciarlo seguendo i movimenti lenti del suo respiro.

Domenico, allora, capì che lasciarsi baciare era già un modo per prendersi cura di Claudio e dei suoi sensi di colpa, per cui preferì non insistere. Lo seguiva con lo sguardo, come incantato, e se quei baci non fossero stati così caldi sulla propria pelle -tanto da fargli venire i brividi-, avrebbe creduto di trovarsi in un sogno, perché lui momenti del genere li aveva sognati costantemente, eppure perfino la sua più profonda fantasia era nulla in confronto a quel momento così vero.

Nessuno, forse nemmeno se stesso, conosceva bene il suo corpo quanto Claudio, a nessuno aveva mai permesso di conoscerlo così profondamente, e anche se erano passati molti anni, Claudio non aveva dimenticato nulla di ciò che aveva imparato a conoscere: si muoveva con precisione e senza esitazione, disponeva quei baci come stelle nel cielo, e Domenico ad ogni bacio si lasciava andare un po' di più, sentendosi più amato che mai.

Lo avvertì scendere più in basso, lungo la sua pancia, e avvertì una sensazione di calore che gli pervase tutto il corpo, ma che passò in secondo piano quando le labbra di Claudio si posarono sulla vecchia cicatrice. Domenico trattenne il fiato e, con un sussulto che lo portò ad aggrapparsi al lenzuolo sotto di sé, cominciò a singhiozzare. Non era un pianto di dolore, il suo, ma un pianto d'amore.

Claudio lo sentì e, inevitabilmente, le lacrime che già premevano da tempo per uscire dai suoi occhi cominciarono a cadere sulla pelle di Domenico, che lui non smise di baciare neanche un istante, anche se le labbra tremavano e il suo corpo era scosso dal pianto.

"Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace..."

Ripeteva ad ogni bacio, con voce rotta. Domenico non riuscì a sostenere a lungo quella vista e gli fece una carezza sul capo per richiamarlo a sé.

"Non fare così, ti prego. Vieni qui, dai..."

Disse, allargando le braccia per accoglierlo.

"No, no, sono io che mi devo prendere cura di te, non tu di me..."

Balbettò Claudio, come un bambino spaventato.

Domenico prese un profondo respiro e si tirò su a sedere, in modo da staccarsi dall'altro, e poi gli gattonò accanto, avvolgendolo tra le braccia. Claudio fu scosso da un singhiozzo più forte e nascose il capo nell'incavo del suo collo, anche se si diceva che non avrebbe dovuto indugiare, che non meritava quell'abbraccio.

Immaginando perfettamente quali pensieri si agitassero nella sua testa, Domenico cominciò a posare tanti piccoli baci tra i suoi capelli per scacciarli via, e andò avanti così per un po', fin quando non lo sentì un po' più calmo e solo allora si distese di nuovo, portandolo su di sé.

"Ascoltami, Claudio, ti prego, ascoltami bene..."

Cominciò a dire, accarezzandogli la guancia umida. Teneva gli occhi fissi nei suoi, che pieni di lacrime com'erano sembravano ancora più blu.

"Tu non devi pensare di avere...una specie di debito con me, ok? Non voglio che tu viva ogni bacio, ogni carezza, come il pagamento di questo debito, non è così che vive l'amore. Non te lo meriti e non sarebbe giusto."

Continuò, senza smettere di accarezzarlo. Claudio sospirò profondamente.

"Sei troppo buono con me…"

Provò a contestare, ma l'altro respinse quell'obiezione scuotendo il capo.

"E se non si è buoni in amore, allora non lo si è mai, no?"

Ribatté, facendo una risatina prima di tornare più serio.

"Voglio che tu ti senta libero tanto quanto me o anche di più, il resto non conta."

Disse dolcemente, facendogli un bel sorriso. Con l'altra mano, poi, salì sul suo fianco fin quasi ad arrivare alla schiena, dove però non si posò. Lì, anni prima, c'era un grande dolore che teneva Claudio prigioniero, ma da cui poi lo aveva aiutato a liberarsi.

Voleva accarezzarlo per ricordargli quella sensazione di libertà, ma prima di farlo preferì chiedergli il permesso con lo sguardo e Claudio acconsentì allo stesso modo, senza esitare. Si lasciò andare in un profondo respiro quando sentì la carezza morbida di Domenico sulle sue cicatrici che praticamente non si vedevano più, ma che lui spesso sentiva ancora. Non in questo momento, però.

"Sono in debito con te di quindici anni, Domenico. Tutto questo tempo che è passato per colpa mia non tornerà più, ma devo pur far qualcosa per restituirtelo..."
Mormorò, con voce flebile e sguardo basso.

"Hai detto bene, è passato! E allora, se è passato, perché dobbiamo continuare a voltarci indietro? Perché non possiamo lasciarcelo alle spalle e guardare avanti?"
Replicò Domenico con entusiasmo, sorridendo innamorato.

"Sapessi che bella vista che c'è..."

Aggiunse, con immensa dolcezza. Claudio, nonostante stesse ancora piangendo, liberò una risatina e senza pensarci riportò i propri occhi nei suoi, che brillavano di un amore che li rendeva ancora più verdi.

"Me ne sto rendendo conto anch'io..."

Sussurrò chinandosi a baciarlo, trovando in quel gesto il modo giusto di vivere l'amore.

In quel mattino ancora timidamente illuminato dai primi raggi del Sole, si amarono a lungo e lentamente, in quella stanza non c'era posto per la frenesia della caotica città che si svegliava sotto di loro, non c'era spazio per i suoi rumori di clacson e il suo vociare indistinto, ma solo per i loro sospiri, i loro gemiti, per le carezze che per troppo tempo non avevano ricevuto, per i baci su vecchie ferite, che finalmente si rimarginarono, e per le dolci parole sussurrate all'orecchio, promesse di un amore senza più paure.

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Capitolo 15
*** Perché da soli fa male pure l'aria ***


Simone rimase da solo nella stanza per pochissimo tempo, appena una mezz’oretta dopo che il dottor Bonvegna si era allontanato per parlare con il primario, suo padre e sua nonna fecero  capolino dalla porta e lui si illuminò con un sorriso a vederli.

“Nonna! Papà!”

Esclamò tendendo le braccia verso di loro come quando era piccolo e, in effetti, quando i due  si avvicinarono per abbracciarlo, si sentì immediatamente ritornare bambino. Sua nonna prese subito a riempirgli la guancia di baci e suo padre ad accarezzargli i capelli, entrambi per accertarsi che Simone fosse davvero lì con loro, e Simone si lasciò coccolare, ridendo e piangendo al tempo stesso, troppo felice per controllare le sue emozioni. Non aveva più senso farlo, con la sua famiglia.

“Mi siete mancati tantissimo.”

Sussurrò, cercando di accarezzare entrambi, anche lui alla ricerca di certezze.

“Anche tu ci sei mancato tantissimo, tesoro. Come stai? Ti stanno trattando bene? Il medico che ti sta seguendo è bravo? Volevamo parlargli, ma ci hanno detto che non è disponibile, al momento…non è una cosa che va a suo favore, se proprio devo essere sincera, eh!”

Virginia era al settimo cielo e insieme al sorriso aveva recuperato anche la parlantina. Simone quasi si sentì stordito da tutte quelle domande, ma comunque non smise di sorriderle.

“Mamma, dai, non fargli il terzo grado a questo povero ragazzo!”

La rimproverò scherzosamente Dante, facendo un occhiolino al figlio. Simone ridacchiò, ma subito intervenne in difesa di sua nonna.

“No, papà, sono domande lecite! Non ti ricordi cos’è successo quando si è operata lei?”

Si stava riferendo ad un’operazione allo stomaco a cui sua nonna si era sottoposta quando lui aveva circa dieci anni, ma se la ricordava bene perché la donna aveva trascorso settimane intere a lamentarsene. Dante annuì, facendo una risatina.

“Eh, e chi se lo scorda! Secondo me se la ricordano anche all’ospedale…”

Virginia, alzò gli occhi al cielo e incrociò le braccia, piccata.

“Lo spero bene per loro! Un servizio pessimo, non mi facevano neanche tenere in camera le rose che mi inviavano i miei ammiratori, ma come si può?”

 “Questo perché la stanza rischiava di diventare a tutti gli effetti il negozio di un fioraio, mamma.”

Le fece notare Dante e subito dopo tutti e tre scoppiarono a ridere, riempiendo la camera della loro felicità di stare insieme. Le risate vennero interrotte dalla tosse di Simone, che fece allarmare i due adulti.

“Non è niente, non è niente, ho solo bisogno di bere…”

Indicò con un gesto della mano la bottiglia d’acqua sul comodino e Dante subito gli riempì un bicchiere, porgendoglielo. Simone poteva sentire i loro sguardi preoccupati su di sé mentre beveva e la cosa non gli piaceva.

“Non fate così, però, sto bene. Davvero, sto bene.”

Diede al padre il bicchiere vuoto per farglielo posare e sospirò. Suo padre e sua nonna non potevano immaginare quanta verità ci fosse in quella semplice frase perché non sapevano cosa lui avesse vissuto in quei giorni di angoscia, paura e buio. Avrebbe potuto spiegarglielo, ma da un lato non aveva voglia di parlarne e dall’altro non voleva farli preoccupare per qualcosa che ormai era finito.

“Per rispondere alle tue domande, nonna, vi dico che il dottor Bonvegna è molto bravo e che se non avete potuto incontrarlo è solo perché è andato a parlare con il primario.”

Non poté fare a meno di sorridere, pensando a ciò che Riccardo era andato a chiedere. Sperava davvero che riuscisse ad ottenere quella specie di permesso speciale per Manuel senza troppi problemi, non voleva che quel medico così gentile venisse rimproverato.

“E di cosa è andato a parlare? Ci dobbiamo preoccupare, tesoro?”

Domandò preoccupata Virginia e Simone le prese una mano, per rincuorarla.

“Ma no, nonna, te l’ho detto, è tutto a posto. Non è andato a parlare di questioni mediche, non in senso stretto, almeno.”

Virginia e Dante si scambiarono uno sguardo perplesso, che poi rivolsero al ragazzo. Se due medici non parlavano di questioni mediche, allora di cosa? Simone si passò una mano sul braccio, leggermente imbarazzato.

“Beh…è andato a chiedergli di poter far restare qui Manuel per più tempo, oltre all’orario di visita.”

Dante si accigliò, perdendo l’aria allegra che aveva avuto fino a quel momento e sua madre gli rivolse uno sguardo carico di apprensione. Anche Simone si accigliò leggermente, notando il suo cambio d’umore.

“Scusami se te lo dico, Simone, ma allora non è vero che non dobbiamo preoccuparci.”

Sbottò l’uomo, di getto.

“Che vuoi dire, papà?”

Domandò Simone, sulla difensiva. Capiva che suo padre aveva trascorso dei giorni molto pesanti, che sicuramente non era stato facile per lui vivere con il terrore di perdere suo figlio per la seconda volta, ma non gli avrebbe permesso di incolpare Manuel, come invece sembrava star facendo.

Dante sospirò profondamente, pentendosi di aver detto ciò che pensava.

“Niente, Simone, niente. Fingi che non abbia detto niente.”

Simone sbatté una mano sul letto, nervoso.

“No, tu adesso invece me lo ripeti, se hai le palle! Perché vi dovreste preoccupare? Per via di Manuel? È questo che pensi?”

Ringhiò, come da tempo non faceva con lui. Avevano ricucito il loro rapporto, ma forse quella era stata l’ennesima cazzata di quell'uomo e lui stupido ci aveva anche creduto. Forse suo padre era uno stronzo a prescindere e lo sarebbe stato anche senza la morte di Jacopo.

“Non usare questo linguaggio con me, Simone! Dico solo che, da padre, ho tutto il diritto di preoccuparmi per te!”

Esclamò Dante, scattando in piedi. Simone non poteva credere alle proprie orecchie.

“E invece lo uso, perché è l’unico linguaggio che ti meriti! Non ti sei mai preoccupato di me e inizi proprio adesso che non ce n’è motivo? Bel padre di merda che sei!”

Ogni suo muscolo era in tensione, come quello di un animale braccato pronto ad attaccare. Sotto quell’apparente immobilità, però, c’era un’agitazione che i bip del suo cuore non tardarono a rivelare.

Dante scosse il capo, incredulo, indicando il macchinario.

“Lo vedi come ti fa stare? Dovresti stare tranquillo, dovresti pensare a riposare e invece guarda, ti stai agitando soltanto perché l’ho nominato!”

“Mi sto agitando perché tu mi fai agitare! Possibile che odi così tanto la mia felicità? Scusami tanto se non sono morto al posto di Jacopo, papà!”

Gridò con le lacrime agli occhi, arrabbiato e ferito. Aveva scoperto di Jacopo qualche settimana prima, quando lui e Manuel, alla ricerca di sue foto da bambino –Manuel aveva insistito tanto per vederle, dopo la storia del 'Paperotto'- avevano trovato per caso una scatola nello studio del padre e al suo interno le foto e un cd con i video di due bambini ricci, identici se non per i vestitini di colore diverso.

Simone aveva fatto una certa fatica a realizzare l’ovvio, e cioè che uno di quei due bambini era lui e l’altro non era semplicemente un bimbo molto simile a lui, ma un gemello, perché da un lato non ricordava nulla di lui e dall’altro gli sembrava assurdo che non gliene avessero mai parlato.

Era arrivato addirittura a pensare che l’altro bambino – che ormai doveva avere la sua età, ed essere quindi un ragazzo- fosse un figlio nato da una delle tante relazioni extraconiugali di suo padre (certo, non si spiegava perché avessero delle foto e dei video insieme, ma non sarebbe stata la prima cosa che non riusciva a spiegarsi del comportamento di quell’uomo) e, per la rabbia, aveva rovesciato a terra tutto ciò che aveva trovato sulla sua scrivania, sotto gli occhi attenti e preoccupati di Manuel che prima lo lasciò sfogare quell’impeto di rabbia e poi lo prese tra le braccia per fargli sfogare anche la tristezza e la delusione.

Quando Dante era tornato a casa, Simone lo aveva affrontato, gli aveva urlato contro i peggiori insulti che gli erano venuti in mente, e l’uomo si era trovato costretto a raccontargli tutta la verità su Jacopo e sulla sua morte. Simone aveva pianto di nuovo, per ore e ore, vivendo per la seconda volta quel lutto, anche se gli sembrava la prima, e ancora una volta Manuel gli era stato accanto.

“Tesoro, non fare così…”

Provò a calmarlo Virginia, facendogli anche una carezza, ma il nipote non voleva sentire ragioni.

“Lo pensi anche tu, nonna? Pensi che Manuel sia un problema, un pericolo? Perché se è così, neanche tu hai capito un cazzo!”

"Simone, non parlare così a tua nonna! E non permetterti più di dire certe cose!"

Urlò Dante, con le lacrime agli occhi e la voce spezzata. Prima che potesse aggiungere altro, Simone gli urlò da sopra.

"E tu non permetterti più di parlare male di Manuel! Come se non lo conoscessi, poi!"

"Ma si può sapere che diamine sta succedendo, qui dentro?"

Esclamò il dottor Bonvegna, entrando di corsa nella stanza. Stava tornando dal colloquio con il primario -con buone notizie, tra l'altro- quando gli era arrivata alle orecchie quell'accesa discussione. Ignorando per il momento i due adulti si avvicinò al suo paziente, che era decisamente troppo agitato.

"Succede che mio padre non capisce un cazzo."

Sbottò Simone, guardando in cagnesco il genitore. Riccardo rivolse una rapida occhiata a quell'uomo, ma poi tornò a concentrarsi sul ragazzo.

"Mi gira la testa…"

Aggiunse il ragazzo a voce più bassa, lasciandosi andare contro lo schienale del letto.

"Eh, ti sei agitato troppo e non è una cosa che per il momento puoi permetterti. Respira, dai, segui me."

Il medico cominciò a fare dei respiri profondi, che Simone si impegnò a replicare. Cercò di concentrarsi solo su quello, senza pensare a suo padre e alle sue cazzate, e nel giro di poco si sentì meglio.

Riccardo gli rivolse un sorriso affettuoso e lo fece bere un po'. L'espressione che rivolse all'altro Balestra, invece, fu molto più dura.

"Scusatemi se non mi sono presentato subito, sono il dottor Bonvegna, il medico di Simone. Mi hanno detto che mi stavate cercando, giusto?"

Dante annuì, spostando lo sguardo da suo figlio al giovane medico. Quell'interruzione lo aveva aiutato a calmarsi, ma la preoccupazione era tutta ancora lì.

"Sì dottore, volevamo sapere come stava Simone, tutto qui."

"Simone è stato portato qui con una frattura alla gamba e una seria disidratazione, in stato confusionale. Siamo intervenuti con un'operazione sul muscolo, salvandolo in tempo, e stiamo reintegrando i liquidi. È un ragazzo forte, sta reagendo bene, ma ha bisogno di riposo, come tutti i pazienti di questo ospedale. Riposo."

Riccardo accompagnò quell'ultima parola con uno sguardo eloquente e un gesto della mano, come se la stesse sottolineando davvero, e Dante sospirò.

"Lei ha ragione, mi scusi per la scenata incresciosa di poco prima. Non si ripeterà."

"Vorrei ben dire! Posso sapere almeno a cosa è dovuta?"

"Ma no, niente, questioni famigliari…"

"No, non è niente! Mio padre pensa che Manuel sia un pericoloso criminale, a quanto pare, e non vuole che stia qui."

Intervenne Simone, cercando di non agitarsi eccessivamente, ma con un tono e uno sguardo affilati come una spada.

 Riccardo si accigliò, perplesso. Non conosceva chissà quanto quel ragazzo, era vero, ma gli sembrava assurdo che quel giovane innamorato che aveva insistito così tanto per far star bene il suo fidanzato potesse essere un poco di buono.

"Manuel? Stiamo parlando della stessa persona?"

Dante alzò gli occhi al cielo.

"Mio figlio esagera, dottore, io ho detto un'altra cosa e lui lo sa benissimo."

Replicò, guardando Simone negli occhi. Il ragazzo ricambiò lo sguardo in cagnesco e incrociò le braccia al petto, in segno di chiusura totale.

"È come se lo avessi detto."

"Simone, non fare il bambino, adesso…"

Protestò il professore, interrotto però da sua madre.

"Simone non ha tutti i torti, però, Dado. Il tuo giudizio su Manuel è un po' troppo duro."

"Ecco, vedi? Lo dice anche nonna che non capisci un cazzo!"

Dante spostò gli occhi da sua madre a suo figlio e poi fece un respiro profondo. Era molto stanco e decisamente non si aspettava di discutere con suo figlio e sua madre, quella mattina.

"Non è che io non capisca, Simone, ma cerca di vedere le cose dal mio punto di vista, ti chiedo solo questo piccolo sforzo. Io lo so che Manuel è un bravo ragazzo, che se si è immischiato in brutti giri lo ha fatto con buone intenzioni e so anche che ha compreso i suoi sbagli e che vuole rimediare, questo gli fa molto onore. So anche, però, che se Manuel avesse ascoltato i miei consigli quando era ancora in tempo, ci saremmo risparmiati questa brutta situazione. Non penso che sia un pericoloso criminale, come dici tu, ma mi permetti di essere quantomeno arrabbiato con lui?"

In una situazione diversa Simone avrebbe ridacchiato a quella coincidenza, perché suo padre gli aveva ripetuto lo stesso discorso che gli aveva fatto anche Manuel, e avrebbe scherzato sul fatto che erano entrambi due filosofi pesantoni. In quel momento, però, non ci trovava nulla da ridere in quelle parole: se da un lato riusciva a capire perché Manuel, divorato dai sensi di colpa, pensasse quelle cose di sé e quindi riusciva ad essere comprensivo nei suoi confronti, lo stesso non era capace di fare con suo padre, proprio perché suo padre sapeva che in quel ragazzo non c'era un briciolo di cattiveria. Scosse quindi la testa, risentito.

"Queste cose le pensa anche Manuel, lo sai, papà? Tu non hai idea di quanto si senta in colpa, di quanto ci stia male, non c'è bisogno che ti ci metta anche tu!"

Fece un profondo respiro e sciolse l'intreccio delle sue braccia per distendere la tensione, sia quella del proprio corpo che quella tra lui ed il padre.

"Ti dico la stessa cosa che ho detto a lui, va bene? Guardami papà, sono vivo e sto bene, ed è ciò che dovrebbe contare di più. Epicuro diceva 'panta rei' no? E allora se tutto scorre, non pensare più al passato!"

Dante abbozzò un sorriso, suo figlio non gli aveva mai citato un filosofo prima d'ora, non li aveva mai apprezzati, ad eccezione forse di Cartesio e di qualche altro pensatore matematico.

Lo sguardo di Simone si addolcì, ma i suoi occhi erano velati di malinconia. Davvero non voleva che Manuel si sentisse rotto ancora una volta.

"Non te la prendere con Manuel, ti prego. Ho trascorso dei giorni veramente…"

Chiuse gli occhi e il suo volto si contrasse in una smorfia di dolore per un istante, come se provasse sofferenza fisica a ricordarli.

"...veramente terribili e Manuel ha fatto il possibile per portarmi un po' di sollievo. Mi ha dato speranza e ti giuro, papà, che io non ne avevo più."

Fece spallucce, abbozzando un sorriso.

"Sei stato tu a dirmi che la felicità prima o poi sarebbe arrivata e avevi ragione, è arrivata con Manuel. Lui mi fa stare bene, sempre."

Concluse con semplicità, guardando il padre senza più quella rabbia che gli aveva riversato contro poco prima. C'era tanta stanchezza nei suoi occhi e tanta voglia di tornare alla normalità, il che voleva dire tornare dalla sua famiglia, di cui adesso faceva parte anche Manuel.

"È vero, confermo!"

Esclamò il dottor Bonvegna, deciso ad aiutare Simone in tutto e per tutto, e anche spinto da una certa commozione. Far star bene la persona amata era la più alta forma d'amore, per lui: non era riuscito a salvare Lorenzo -e di questo si incolpava ogni secondo, ad ogni respiro-, ma se c'era una cosa che non poteva rimproverarsi era di non essere riuscito a dargli conforto. Aveva fatto di tutto per fargli trascorrere al meglio -per quanto possibile- i suoi ultimi giorni, e ancora prima, quando la morte era soltanto la stronza che incontravano in ospedale e contro la quale combattevano, da medici, ogni giorno, sapeva di essersi preso cura di lui con tutto il cuore. Lorenzo aveva fatto altrettanto per lui e, lo poteva giurare, lo stava facendo anche adesso. Stava mantenendo la sua promessa.

Gli sguardi perplessi di Dante e Virginia si posarono sul medico, che dovette ammettere a se stesso di essersi messo in mezzo con fin troppo entusiasmo, mentre quello di Simone era molto meno confuso e molto più grato. Riccardo si schiarì la voce, cercando di darsi un contegno.

"Sì, insomma, da medico posso dire che la presenza di Manuel, anche se soltanto per una manciata di ore, ha avuto degli effetti positivi sul paziente, su Simone, che ha trascorso una notte assolutamente tranquilla e serena. Non bisogna trascurare l'aspetto psico-emotivo nel processo di guarigione, sapete? Anzi direi che è fondamentale!"

Parlava gesticolando, pieno di entusiasmo, ma poi si fermò e fece una piccola pausa, rivolgendo a Simone uno sguardo complice.

"Infatti la dottoressa Giordano, la primaria di questo reparto, si è espressa favorevolmente alla richiesta di estendere l'orario di visite di Simone, vista anche la sua situazione particolare."

Il sorriso di Simone si fece più ampio e luminoso, come quello di un bambino a cui era stato promesso un giocattolo nuovo o, più appropriatamente, come quello di un innamorato.

A Dante bastò vedere quel sorriso, unito alle parole che il figlio aveva pronunciato poco prima, per mettere da parte la rabbia.

"Se lo dice anche la Scienza, allora, io non posso fare altro che adeguarmi."

Simone si voltò verso il padre, felice che avesse finalmente capito, che finalmente lo ascoltasse.

"Grazie papà, davvero. Grazie."

Dante gli sorrise a sua volta e gli si avvicinò, dandogli un bacio tra i capelli, un gesto che non faceva da tanti, troppi anni. Aveva commesso una miriade di errori con Simone, anzi aveva fatto più sbagli che cose giuste, era giunto il momento che pensasse alla sua felicità.

"È il minimo che io possa fare per te, Simone. Adesso perché non stai un po' con nonna, mentre io e il dottore andiamo un attimo fuori?"

Simone annuì e lasciò che i due uomini uscissero dalla stanza. Il dottor Bonvegna gli fece strada verso un angolo del corridoio più appartato, dove non avrebbero disturbato nessuno.

"Se è per l'intervento di prima le chiedo scusa, ma sono un medico e il benessere dei miei pazienti viene prima di tutto e…"

Cominciò a dire Riccardo, ma Dante lo fermò subito con un gesto della mano.

"No, no, non è per questo, anzi io ti ringrazio di averlo fatto. Perdona la domanda indiscreta, si vede che sei ancora giovane, ma per caso hai figli?"

Bonvegna sgranò gli occhi, preso decisamente in contropiede. Scosse il capo, abbozzando un sorrisetto.

"No, io...ho una gatta che tratto come fosse una figlia, ma dubito sia la stessa cosa."

"No, ecco, decisamente no. Però se e quando sarai padre, capirai che spesso i padri hanno bisogno di più ramanzine dei figli, quindi tu ti sei comportato egregiamente!"

Esclamò Dante con enfasi, quasi come se si stesse complimentando con un suo alunno per un'ottima risposta ad un'interrogazione.

Riccardo si schiarì la gola, decidendo di accettare il complimento e di non pensare a futuri figli, che non erano nei suoi programmi. Non lo erano più, almeno.

"Io, ehm...grazie, sì. Voleva dirmi solo questo?"

"No, no, io veramente volevo chiederti se per caso Simone ti avesse detto qualcosa su questi giorni. Sai, essendo tu il suo medico...ah e dammi pure del tu, naturalmente."

Rispose il professore, preoccupato. Certo, l'avvocato Vinci telefonava ogni giorno per tenerli aggiornati, ma c'erano cose che nemmeno lui poteva sapere, cose che sapeva soltanto Simone. Aveva notato negli occhi del figlio una profonda sofferenza, di cui certamente non c'era da sorprendersi, ma avrebbe voluto saperne di più.
Il medico scrollò le spalle, infilandosi le mani in tasca.

"Lui non mi ha detto niente, ma l'ispettore che lo ha portato qui, che lo ha salvato, ci ha detto di averlo trovato in una stanzetta buia, afosa, e che era molto spaventato. Non so dirle molto altro, solo che…"

Esitò, pur sapendo che il padre di Simone meritava di conoscere ogni minimo dettaglio.

"Che cosa? Non farti pregare!"

Lo incalzò l'altro, con voce piena d'ansia. Riccardo sospirò.

"Ho notato che ha i polsi scorticati, sono abbastanza sicuro lo tenessero ammanettato a qualcosa. Devono anche preso a calci, ha il torso pieno di ematomi. Mi dispiace, davvero, nessuno meriterebbe di vivere un'esperienza di questo tipo, soprattutto un ragazzo giovane come Simone."

Dante si portò una mano al volto, indietreggiando verso il muro in cerca di un appoggio. Si sentì privo di forze, ma se avesse avuto davanti quello stronzo che aveva fatto questo a suo figlio non avrebbe esitato a restituirgli il favore.

"È per questo che ho insistito tanto per far restare qui Manuel, Simone ha bisogno di tutto il conforto che gli si può dare."

Dante annuì debolmente, dandosi mentalmente dell'idiota per essersi opposto a quella richiesta. Anche lui, dopotutto, era perfettamente consapevole di quanto Manuel fosse benefico per Simone: da quando lo conosceva era tornato a sorridere.

"A questo proposito, ho notato che Simone è molto sudato. Gli abbiamo portato dei vestiti puliti, non è che sarebbe possibile lavarlo in qualche modo?"

Riccardo annuì, accennando un sorriso.

"Sì, ci avevo pensato anch'io. Di solito se ne occupano gli infermieri, ma se preferisci puoi farlo tu."

"No, no, meglio gli infermieri, io potrei fargli male, non è il caso. Vado a dirlo a Simone, allora. Grazie mille."

                                                                      *****

"Mi dispiace di essere stato sgarbato con te, nonna, ti chiedo scusa. Ti prego, perdonami."

Mormorò Simone, guardando la nonna con occhi tristi. Si era fatto prendere dalla rabbia e lei certamente non se lo meritava.

Virginia gli sorrise, facendogli una carezza affettuosa sulla guancia.

"Non ti preoccupare, tesoro, scuse accettate. Dopo quello che hai passato, è comprensibile che tu sia nervoso…"

E con gli occhi gli chiese qualcosa in più, qualche dettaglio su quei brutti momenti, ma Simone distolse lo sguardo. Capiva che sua nonna cercasse di aiutarlo, che voleva che si sfogasse, ma lui non voleva infliggere ulteriori dolori alla sua famiglia.

"...e poi so quanto Manuel sia importante per te."

Aggiunse lei e Simone sorrise timidamente, gli occhi ancora fissi sulle lenzuola. E pensare che, inizialmente, aveva temuto che sua nonna avrebbe potuto trovare difficoltà ad accettare la sua relazione con Manuel e non perché non fosse di mente aperta, anzi, ma perché aveva praticamente adottato Laura come sua seconda nipote, nonostante l'avesse vista giusto un paio di volte.

"È così evidente?"

Domandò, pur conoscendo perfettamente la risposta. L'amore non si può nascondere ed in fondo è una cosa così bella che non vale neanche la pena tentare di farlo: che senso avrebbe desiderare di coprire il cielo stellato?

"Tesoro, vorrei dirti che me ne sono accorta soltanto perché sono tua nonna, ma ti direi una bugia. Anche ad un osservatore meno attento di me non sfuggirebbero i tuoi occhi luminosi ogni volta che si posano su quel ragazzo oppure tutti quei piccoli gesti affettuosi che fai magari senza nemmeno accorgertene."

Simone allora tornò a guardare sua nonna, incuriosito. Lui non faceva niente per dissimulare il suo amore per Manuel -erano finiti i tempi in cui doveva pesare e ripesare le parole e mettere un freno ai gesti-, ma non si era mai chiesto di come ciò potesse apparire ad occhi esterni.

"Per esempio, quali?"

Domandò come un bimbo curioso e Virginia ridacchiò, con fare complice.

"Beh, per esempio gli riempi sempre il bicchiere prima di mangiare e quando sta per svuotarsi, è una delle prime cose che ho notato e devo dire che è un gesto molto galante, sai? Anche Attilio lo fa sempre.”

Ora che glielo faceva notare, in effetti, Simone si rese conto che sua nonna aveva ragione e ridacchiò, sentendo le proprie guance farsi un po' più calde. Virginia, però, non aveva certo finito.

"E poi gli metti in carica il cellulare quando lui se ne dimentica e quando andavate ancora a scuola gli controllavi lo zaino per essere sicuro che avesse preso tutto. È un po' sbadato quel ragazzo, fammelo dire!"

Simone stavolta rise, annuendo con decisione.

"Lo puoi dire forte, sì. È che lui è un po' un poeta, un po' un filosofo, e la sua testa è presa da altro, non ci pensa a queste cose. Ci penso io per lui, però, e non mi pesa."
Sorrise, innamorato, e Virginia gli diede un buffetto sulla guancia decorata da una tenera fossetta. L'Amore aveva il volto giovane e felice di suo nipote e quell'immagine la fece commuovere.

"Ma che fai, nonna, piangi? Non ho detto niente di brutto…"

Simone posò la mano su quella di sua nonna, facendole una morbida carezza. Lei sorrise, affettuosa.

"Ma lo so che non hai detto niente di brutto, è che mi fa tanto piacere vederti così, sai? Per troppi anni ho visto solo tanta rabbia, tanto dolore nel tuo sguardo, anche quando stavi con quella cara ragazza, Laura, non eri felice."

Fece un profondo sospiro, per farsi forza.

"Poi in questi giorni non ho fatto altro che pensare a te, a quanta paura avessi, alle cose orribili che avrebbe potuto farti quel criminale che ti giuro, strozzerei con le mie mani se lo avessi qui davanti!"

Per rimarcare quella volontà agitò il pugno in aria e per un istante i suoi occhi smisero di essere quelli dolci di una nonna che rivedeva suo nipote dopo tanto tempo e divennero quelli di una leonessa che voleva difendere il proprio cucciolo.

"E adesso vedere che stai bene, vedere il tuo sorriso, mi fa tornare serena. So che senza Manuel tutto ciò non sarebbe possibile e quindi, per rispondere alla tua domanda, no, non penso che quel ragazzo sia un pericolo, anzi penso l'esatto opposto. Non ti affiderei a nessun altro, so che nessuno sarebbe in grado di prendersi cura di te come fa lui. Tuo padre è soltanto molto scosso, ma lo sa benissimo anche lui, credimi."

Furono gli occhi di Simone, di fronte a quel meraviglioso discorso, a riempirsi di lacrime. Virginia si sporse ad abbracciarlo e subito Simone ricambiò l'abbraccio, rimanendo in silenzio per un po'. Non c'era altro da aggiungere, sua nonna aveva capito tutto e aveva detto tutto.

"Grazie, nonna."

Mormorò, ancora stretto in quell'abbraccio.

"Grazie perché hai capito me e hai capito Manuel e scusami ancora per prima. Hai ragione, questi sono stati giorni spaventosi e senza Manuel non li avrei superati. Adesso però è tutto a posto, non devi più essere preoccupata."

Virginia gli diede un bacio sulla guancia, facendogli una carezza sulla schiena. Il suo anziano cuore tremava all'idea di aver rischiato di perdere il suo Simone e non era facile farlo smettere.

"Ti dispiace se restiamo un po' così, tesoro mio?"

Simone scosse il capo e chiuse gli occhi, sorridente.

"A me no, però ti avviso che ti sto rovinando la piega."

Virginia liberò una risata e strinse un po' di più il nipote a sé: i capelli erano l'ultima cosa a cui pensare, in quel momento.

Fu così che Dante li trovò quando, dopo qualche minuto, rientrò in stanza e istintivamente sorrise.

"Tutto a posto, papà? Che ha detto il dottore?"

Chiese Simone, ancora tra le braccia di sua nonna. L'uomo annuì, andando a sedersi accanto al letto. Virginia si voltò verso di lui, apprensiva, e il figlio ricambiò il suo sguardo per pochi istanti prima di tornare a guardare Simone con un certo dolore negli occhi.

"Mi ha spiegato un po' la tua situazione, mi ha detto della gamba rotta, dei lividi…di quelle ferite ai polsi. Insomma, sicuramente non mi ha detto nulla che tu non sappia già."

Simone strinse le labbra, annuendo appena. Il dottor Bonvegna, Riccardo, aveva semplicemente fatto il suo dovere di medico, doveva aspettarsi avrebbe informato la sua famiglia. Questo, però, voleva dire dover parlare di quei giorni bui, prima o poi.

"Però ci sono cose che nemmeno lui sa, cose che non si possono diagnosticare, vero?"

Chiese Dante con voce incrinata, dolce, ma anche carica di sofferenza. Simone annuì di nuovo, distogliendo lo sguardo. Se fosse servito a qualcosa, si sarebbe nascosto sotto il lenzuolo pur di non affrontare quel discorso.

"E tu lo sai che puoi parlarcene, sì?"

Simone fece un profondo respiro e annuì per la terza volta. Lo sapeva, sì, non era quello il problema.

"Io veramente sono un po' stanco, adesso…"

Dante e Virginia gli sorrisero comprensivi e il primo allungò una mano a fargli una carezza, come avrebbe dovuto fare molto più spesso.

"Allora ti lasciamo riposare un po', ok? Poi, se e quando ti sentirai pronto, noi saremo qui ad ascoltarti."

E così dicendo si alzò, seguito subito da sua madre che posò un bacio sulla guancia del nipote.

"Ah, prima che me ne dimentichi, il dottor Bonvegna ha anche detto che è il caso di lavarti un po', per quanto possibile. Magari gli chiedo di mandare adesso gli infermieri, così poi puoi dormire?"

Simone sgranò gli occhi, con il respiro che si bloccò a metà strada tra i polmoni e il naso. Gli bastò quella semplice frase per ritrovarsi a camminare di nuovo in quel labirinto di rottami, con le gambe che non reggevano i suoi stessi passi. Deglutì, cercando di scacciare quell'immagine dalla sua testa.

"Io veramente preferirei di no, ad essere sincero. È proprio necessario?"

Dante sbatté le palpebre, allibito, e anche Virginia mise su la stessa espressione perplessa.

"Beh Simone, questo dovresti dircelo tu, insomma. A me sembri parecchio sudato e sporco di polvere…non ti dà fastidio stare così?"

"Con questo caldo, tesoro, ci vuole un po' di refrigerio."

Virginia gli sorrise comprensiva.

"Non è che per caso hai vergogna?"

Simone annuì, lentamente. Ciò che provava era il naturale imbarazzo che chiunque proverebbe all'idea di doversi spogliare davanti a uno o più sconosciuti a cui però si univa il riflesso di quella paura che aveva provato quando Sbarra e Zucca avevano iniziato a parlare di lui come se fosse stato un pezzo di carne da mettere in vendita, perciò non si fece sfuggire la scusa che sua nonna gli aveva inconsapevolmente offerto.

"Sì, a dire il vero sì."

Mormorò con il capo chino e gli occhi rivolti verso i due membri della sua famiglia. Sperava bastasse a convincerli.

"Dai, Simone, non c'è nulla di cui vergognarsi! Questi infermieri aiutano decine di persone a lavarsi ogni giorno, non ti guarderanno neanche! Senti, se vuoi io e nonna restiamo qua, ma tu non puoi restare in queste condizioni, non ti fa bene."

Esclamò suo padre, cercando di rincuorarlo. Simone, se proprio doveva, preferiva restare da solo, perché non voleva che loro due vedessero tutti i lividi che aveva sul corpo.

"No, voi…voi andate, facciamo così."

"Ma ti vergogni anche di noi? Guarda che sia io che nonna ti abbiamo cambiato migliaia di pannolini, sappiamo benissimo come sei fatto…"

Cominciò a dire Dante, ma Virginia, notando che il nipote era visibilmente in imbarazzo, lo fermò con uno schiaffetto sul braccio.

"Dado, basta così! Facciamo come dice Simone, lasciamolo stare. Andiamo, su!"

Gli diede una leggera spinta per invitarlo a muoversi, cosa che in un altro momento avrebbe fatto ridere Simone, ma che adesso era troppo preso dall'ansia per farlo. Razionalmente sapeva di non avere nulla da temere, che nessuno in quell'ospedale gli avrebbe fatto del male, ma quando, dopo qualche minuto, vide due infermieri -non sembravano molto più grandi di lui, forse erano studenti universitari- entrare in stanza con tutto l'occorrente per lavarlo, si sentì soffocare. Cercò comunque di mostrarsi cordiale, si sforzò di ricambiare il loro sorriso e mormorò anche un saluto, con un filo di voce.

"Ciao anche a te Simone, io sono Pietro e lui è  Francesco. So che in questo momento stai provando un po' di imbarazzo, è normale, ma cerca di rilassarti, vedrai che non ci metteremo molto, ok? Quando sei pronto, appoggiati a me che ti sfiliamo il camice."

Simone sapeva che non sarebbe riuscito a rilassarsi nemmeno tra un'ora o due, quindi tanto valeva muoversi. Fece un profondo respiro e annuì, poggiandosi a Pietro mentre Francesco gli scioglieva i fiocchi che tenevano chiuso il camice dell'ospedale dietro la schiena. Nonostante il caldo, si sentì percorso da un brivido.

"Tutto bene?"

Domandò uno dei due e Simone si affrettò ad annuire, anche se non c'era nulla che andasse bene.

"Sì, sì, tutto a posto, era solo…era solo un brivido di freddo."

"Va bene, allora adesso ti scopriamo anche le gambe, ok?"

"Sì, ok."

Rispose Simone, anche se avrebbe soltanto voluto mandar via quei due e restare da solo fino al ritorno di Manuel, che sicuramente lo avrebbe fatto stare meglio. E invece era lì, nudo di fronte a due ragazzi sconosciuti, con il terrore che gli correva sotto la pelle costringendolo a trattenere i suoi brividi.

Sentiva di nuovo l'asfalto bollente bruciargli sotto le piante dei piedi, l'acqua gelida che lo prendeva a schiaffi e a pugni come se non ne avesse già ricevuti abbastanza e soprattutto sentiva gli occhi viscidi di Sbarra e Zucca sul proprio corpo nudo e ferito.

Perciò, quando Pietro e Francesco cominciarono a coprirgli quelle stesse ferite prima di lavarlo e Simone sentì le loro mani su di sé, non riuscì più a contenere la sua angoscia.

"Potreste fermarvi, per favore?"

Chiese con voce tremante, cercando al tempo stesso di sottrarsi al loro tocco.

"Certo, tranquillo. Che c'è?"

Simone afferrò il lenzuolo, riportandoselo sulle gambe per coprirsi, e poi vi si aggrappò come se ne dipendesse la sua vita. Anche i suoi occhi erano fissi sulla stoffa bianca, anche loro si stavano aggrappando.

"Niente, vorrei solamente essere lasciato solo. Sono...sono stanco e vorrei riposare. Scusatemi."

Percepiva la propria voce incrinarsi sempre di più, ormai era sull'orlo delle lacrime. I due ragazzi si scambiarono uno sguardo.

"Ma sei sicuro? Guarda che tra dieci minuti abbiamo finito e ti lasciamo in pace, davvero."

Replicò uno dei due, ma Simone non voleva sentire ragioni. Era divorato dalla paura, anche se cercava di non darlo troppo a vedere, e scosse ostinatamente il capo.
"Sì, sono sicuro! Vi prego, lasciatemi stare."

Alzò per un istante gli occhi lucidi verso i due infermieri e subito li riportò giù. Loro sospirarono.

"D'accordo, ce ne andiamo. Fatti almeno rivestire, prima…"

Simone strinse ulteriormente il lenzuolo, così tanto che le sue nocche divennero bianche. Voleva che restasse esattamente dov'era.

"No, grazie, faccio da solo."

Eppure, quando i due infermieri lasciarono la stanza, Simone non trovò la forza di indossare di nuovo quel camice. Si limitò a lasciarsi andare sul letto e a coprirsi fin sopra la testa, e avvolto in quel bozzolo sicuro prese a respirare a pieni polmoni, lasciando man mano scivolare via la sensazione di soffocamento che aveva avuto fino a poco prima. Si liberò anche delle lacrime che non aveva potuto versare quando lo avevano costretto a lavarsi allo sfascio, lacrime che adesso nessuno avrebbe potuto usare contro di lui.

                                                                  *****

Quando Manuel uscì dal commissariato, dopo più di un'ora trascorsa nell'ufficio dell’ispettore Liguori, prese un profondo respiro e gli sembrò che l'aria avesse un profumo nuovo, forse semplicemente perché puzzava di meno senza quel pezzo di merda di Sbarra in giro.

Sapeva di aver fatto la cosa giusta e si sentiva più leggero, come quando si era deciso ad aprire il proprio cuore a Simone nel salotto di Claudio, più di un mese prima. Doveva tornare da lui, da Simone, ma prima aveva bisogno di darsi una sistemata, ora che aveva la tranquillità giusta per farlo.

Appena tornò a Villa Balestra, quindi, corse nella loro stanza e notò con piacere che il letto a due piazze che avevano ordinato quando lui e sua madre si erano trasferiti lì era arrivato, mentre lui stava da Claudio: Simone, così, avrebbe avuto tutto lo spazio necessario per stare comodo anche con la gamba ingessata, era decisamente un'ottima notizia. Per resistere alla tentazione di collaudare quel letto in quell'istante -non voleva perdere ore preziose che avrebbe potuto trascorrere in compagnia di Simone- si infilò immediatamente sotto la doccia, lasciando che l'acqua lavasse via anche la stanchezza, insieme al sudore.

Una volta fuori, si asciugò accuratamente i capelli, cercando di dar loro una forma sensata per una volta, anche se con scarsi risultati, e si prese ancora qualche minuto per dare una rifinitina alla barba, regolandola nei punti in cui era cresciuta un po' troppo. Soddisfatto, si spostò canticchiando in camera e aprì l'armadio, alla ricerca di qualcosa da indossare.

Solitamente non impiegava più di cinque secondi per quella scelta, ma voleva che Simone per una volta lo vedesse più sistemato, un po' meno selvatico, insomma. Non aveva potuto farsi vedere così la sera del loro mesiversario e la notte precedente, quando era andato a trovarlo in ospedale, non aveva avuto il tempo né la voglia di cambiarsi, ma adesso non c'era niente e nessuno ad ostacolarlo.

Preferì non indossare la camicia, quella era meglio conservarla per il festeggiamento della loro giornata speciale -che ci sarebbe comunque stato dopo le dimissioni di Simone- e optò invece per una polo azzurra che nemmeno ricordava di avere, ma che gli sembrò un po' più elegante delle t-shirt o canotte che era solito indossare. Per lo stesso motivo si infilò dei jeans e non i pantaloni della tuta, spostandosi poi davanti allo specchio del bagno per darsi un'occhiata.

"Mazza però, so' figo!"

Esclamò a se stesso, sorridendo compiaciuto alla propria immagine riflessa. Era abbastanza sicuro che Simone sarebbe stato d'accordo, ma ciò non lo rendeva meno emozionato, anzi il suo cuore sembrava deciso a correre dal cuore suo compagno, per quanto batteva forte nel petto.

Manuel non attese ulteriormente e nel giro di due minuti fu di nuovo in sella alla sua moto, diretto verso l'ospedale dopo una piccola sosta in gelateria, un modo per rendere un po' più piacevole il pranzo di Simone, considerando che probabilmente sarebbe stato allo stesso livello di quella colazione da ospizio che aveva visto quella mattina.

"Manuel, proprio te cercavo!"

Esclamò il dottor Bonvegna non appena lo vide, trovandoselo praticamente davanti in corridoio.

Ma ancora qua sta questo? Nun ce l'ha una casa dove torna'?’, pensò il ragazzo, che voleva soltanto correre in camera di Simone. A guardarlo bene, però, il dottor Spaventapasseri sembrava preoccupato e di conseguenza anche lui si rabbuiò.

"Oh, che è 'sta faccia? È successo qualcosa a Simone?"

"No, non gli è successo niente, però prima ho mandato due infermieri a lavarlo e lui li ha cacciati, dicendo di voler essere lasciato in pace perché era stanco. Mi hanno detto che sembrava piuttosto scosso, tu hai idea del perché abbia reagito così?"

Manuel chiuse gli occhi per un istante, perché sì, un'idea ce l'aveva eccome. Simone gli aveva accennato che Sbarra gli aveva fatto fare una doccia, non aveva voluto dirgli di più, ma era sicuro che quell'episodio c’entrasse qualcosa. Sospirò.

"Ho una mezza idea, sì."

Si limitò a dire, dal momento che erano affari di Simone.

Riccardo lo fissò per qualche secondo, in attesa di una qualche aggiunta, ma quando capì che non sarebbe arrivata annuì pazientemente.

"Pensi di riuscire a convincerlo tu?"

Manuel scrollò le spalle, di certo non l'avrebbe costretto.

"Non lo so, ma vedrò che posso fare. A te ha detto qualcosa?"

Riccardo scosse il capo.

"No, prima sono entrato nella sua stanza, ma stava dormendo e ho preferito non svegliarlo. Deve anche pranzare, a dire il vero…"

"Eh, a proposito…"

Manuel sollevò la busta che aveva in mano, era meglio non fare cazzate e avvisare il medico.

"Gli ho preso una vaschetta di gelato, così, per fargli mangiare qualcosa di fresco. È artigianale, eh, senza quelle schifezze chimiche che mettono in quelli dei supermercati, e poi l' ho preso solo alla frutta, così è più sano. Se ne può magnare un po'?"


 
"E questo profumo buonissimo da dove viene?"

Domandò Lorenzo, annusando l'aria come un cane da tartufo. Era un giorno buono, si sentiva meglio del solito.

Riccardo ridacchiò furbescamente e gli mostrò la confezione che teneva nascosta dietro la schiena.

"Tu dici sempre che per capire se un pasticcere è bravo o meno bisogna provare la sua torta di mele, giusto? Ecco, questa viene dalla pasticceria che ci hanno consigliato. A parole son bravi tutti, ma voglio proprio vedere se sarà all'altezza del giudizio del massimo esperto di torte di mele al mondo. Che dici, ne taglio due fette?"

Lorenzo si illuminò di un sorriso che per Riccardo poteva far concorrenza al Sole, velato soltanto da qualche lacrima che si affacciava dagli occhi scuri. Annuì entusiasta, comunque, sforzandosi di ricacciarle indietro. Non valeva la pena dar spazio alla Morte, di fronte a tutto quell'Amore.

"Il mio medico che ne pensa?"

Domandò scherzosamente, facendogli segno di avvicinarsi. Riccardo obbedì immediatamente, lasciando la torta sul comodino, e gli sorrise sornione a poca distanza dalle sue labbra.

"Il tuo medico pensa che puoi mangiare tutta la torta che vuoi, se ti fa sorridere così."

 
Riccardo sorrise dolcemente alla premura di quel ragazzo, il cui unico crimine -per tornare alla discussione di quella mattina- gli sembrava essere soltanto l'Amore, e allungò una mano per farsi dare la busta.

"Può mangiarlo senza problemi dopo pranzo, intanto dammelo così lo faccio mettere in frigo."

Manuel gli porse la busta con un po' di titubanza, senza lasciarla definitivamente.

"Non è che se lo magna qualcun altro? Io c'ho speso dei soldi, eh!"

Riccardo ridacchiò e si portò la mano libera sul cuore.

"Ti giuro che non lo toccherà nessuno, mi basterà dire che è per Simone. Lo adorano tutti, in reparto."

"Com'è giusto che sia!"

Replicò Manuel, più tranquillo, lasciando andare il gelato. Prima che potesse allontanarsi, però, venne fermato di nuovo dal dottore.

"Giusto un'ultima cosa, poi ti lascio andare. Ho una buonissima notizia per te: ho parlato con la primaria e, vista la situazione delicata di Simone, si è convinta ad estendere il suo orario di visite. Diciamo che potrai restare con lui quanto vorrai e lo stesso vale per il resto della sua famiglia, a patto che non lo facciate stressare. Intesi?"

"Che? Sul serio? Grazie, sei…sei un grande!"

Esclamò Manuel, con gli occhi felici spalancati per la sorpresa.

Riccardo scrollò le spalle.

"Non mi devi ringraziare, come ti ho detto tutti quanti, in reparto, adorano Simone. Adesso va' da lui, dai, e per qualsiasi cosa fammi chiamare."

Manuel annuì rapidamente e senza farselo ripetere una seconda volta si diresse a passo svelto verso la stanza numero quindici. Entrò piano, quasi in punta di piedi, perché se Simone dormiva non voleva certo svegliarlo.

Si avvicinò al letto con la stessa accortezza, ma gli bastò uno sguardo per capire che Simone era sveglio, anche se aveva le palpebre abbassate.

"Hey, Cerbiattino…"

Sussurrò, facendogli una carezza sulla guancia. Istintivamente Simone sorrise e aprì gli occhi, portando subito una mano su quella di Manuel. Si sentiva già più calmo, così.

"Ciao, Paperotto. Mi sei mancato."

Mormorò con voce impastata, perché aveva dormito fino a qualche minuto prima. Manuel si accorse subito che doveva aver pianto, aveva gli occhi e le guance ancora leggermente arrossati, ma non disse nulla, facendogli invece un bel sorriso.

"Mi permetti di rimediare?"

Simone annuì piano, già pregustando il sapore delle labbra di Manuel sulle proprie. Il bacio non si fece attendere e fu morbido, lento, si prese tutto il tempo necessario a far sentire i loro cuori meno soli, di nuovo insieme.

"Anche tu mi sei mancato. Come ti senti?"

Simone accennò un sorriso e intanto prese ad accarezzare la mano di Manuel ancora poggiata sulla sua guancia. Si sentiva benissimo, dopo quel bacio.

"Mi fa un po' male la gamba, ma per il resto sto bene. Te?"

Rispose, preferendo evitare di menzionare sia la discussione che aveva avuto con suo padre -che del resto avevano risolto- sia soprattutto ciò che era successo con gli infermieri.

Queste sue accortezze non impedirono comunque a Manuel di ignorare la sua domanda e di guardarlo preoccupato.

"Vuoi che chiami qualcuno, così magari te danno qualche antidolorifico? Dai, ce metto un attimo…"

Ma Simone lo trattenne, afferrandolo per la maglietta con la mano libera. Notò in quel momento che non era una delle sue solite magliette e sorrise di nuovo pensando a Manuel che, probabilmente per la prima volta in vita sua, sceglieva con criterio qualcosa da indossare. Era l'ennesimo gesto che gli provava il suo amore per lui.

"Resta qua, ti ho detto che sto bene. E poi quei cosi mi fanno sentire tutto rincoglionito, voglio restare lucido."

Manuel sospirò, dandogli poi un bacio a fior di labbra.

"Sei sicuro, Simo'? Guarda che non devi dimostrare niente a nessuno…"

Simone annuì, deciso.

"Facciamo così, se dovesse peggiorare chiamiamo qualcuno, ok? Adesso basta parlare di medicine, fatti guardare un po'. Ti sei messo in ghingheri per me?"

Manuel si portò le mani sui fianchi e alzò gli occhi al cielo, incredulo. Praticamente tutto ciò che faceva lo faceva per Simone e lui ancora ne dubitava?

"E certo che l'ho fatto per te, Simo'! Per chi altri, sennò? Il Dottor Spaventapasseri? Dai, guarda."

Gli sorrise furbetto, poi indietreggiò di un paio di passi in modo da farsi guardare bene e Simone non si fece problemi a mangiarselo con gli occhi, quel suo bellissimo fidanzato. A dire il vero era un po' strano vederlo con i capelli in ordine, la barbetta sistemata e con addosso qualcosa che non fosse una tuta, quasi non sembrava lui...ma l'amore che vedeva nei suoi occhi e nel suo sorriso, quello era soltanto ed innegabilmente di Manuel.

"Allora? Come sto? So' un figurino, eh?"

Chiese divertito, ma con un tremolio nella voce che tradiva tutta la sua emozione. Ci teneva a fare bella figura con Simone, in quel momento, e dal modo in cui il suo fidanzato lo guardava poteva dire di aver colto nel segno. Simone ridacchiò, con gli occhi grandi che brillavano spensierati.

"Più che un figurino, sembri un modello!"

Esclamò con entusiasmo, continuando a catturare con gli occhi ogni singolo dettaglio del ragazzo di fronte a lui, come se gli stesse scattando infinite fotografie. Manuel mise una mano avanti, per fermarlo.

"E 'sto modello sfila solo per te, chiaro? Mo te faccio vede'..."

Sollevò un angolo delle labbra, guardando Simone quasi con sfida, e poi si mise a camminare avanti e indietro per la stanza. Non che fosse particolarmente capace di fare una camminata elegante, ma il suo obiettivo non era quello: ciò che voleva era cancellare il velo di tristezza che aveva visto negli occhi arrossati di Simone e doveva essere sulla buona strada, visto che riuscì a farlo ridere.

Simone era tenerissimo con le guance arrossate, non dal pianto stavolta, gli occhi strizzati con delle morbide rughette ai lati e i denti bianchi che quasi subito si coprì con una mano, scosso dalle risate.

"E vabbè, ho capito che faccio ride, però addirittura così…"

Commentò Manuel ironico, con un sorriso a trentadue denti che contrastava totalmente con le sue parole. Simone gli fece cenno di avvicinarsi.

"Sfila un po' qua, modello!"

Esclamò tra una risata e l'altra e Manuel non se lo fece certo ripetere. In un attimo gli fu accanto e gli portò una mano tra i capelli per accarezzarlo. Era ancora più bello, così da vicino.

"Certo che sei proprio uno scemo, come devo fare con te?"

Mormorò Simone, una volta ripresosi dalle risate, con gli effetti della felicità ben visibili sul suo viso. Manuel scrollò le spalle.

"Se 'sto modello nun te piace, lo puoi sempre sostitui' con uno più serio, più intelligente. Ce dovrebbe sta' ancora la garanzia…"

Simone sapeva che Manuel stava solo facendo una battuta, ma lui neanche per scherzo avrebbe potuto dire di sì ad una proposta del genere. Sollevò una mano per attirare il viso di Manuel a sé, facendolo fermare a poca distanza dal proprio.

"Quante cazzate che dici, non ti cambierei con nessuno al mondo."

Manuel accennò un sorriso, fissandolo incantato negli occhi.

"Nessuno nessuno?"

Simone scosse appena il capo, senza sciogliere il contatto visivo.

"Nessuno nessuno."

Fu Manuel ad annullare la distanza tra i loro volti, ma ebbe il tempo soltanto di iniziare un bacio prima che lo stomaco di Simone interrompesse il momento con un sonoro gorgoglio.

"Mh, in effetti è ora di pranzo."

Commentò Manuel sulle labbra dell'altro, che tuttavia non sembrava interessato a lasciarlo andare e riprese quel bacio che era stato così bruscamente interrotto. Aveva un altro tipo di fame, più urgente, da soddisfare.

"Lo so che il cibo de 'sto posto non deve essere granché, però manco te poi magna' me, Simo'."

Gli fece notare, dopo aver assecondato il bacio per qualche decina di secondi.

Simone sbuffò, ma sapeva che Manuel aveva ragione.

"Dopo riprendiamo da dove abbiamo lasciato, però."

Manuel annuì con decisione, gli posò un bacio sulla punta del naso e si separò da lui.

"Non fare 'sta faccia, però, che c'ho una sorpresa per te."

Annunciò sogghignando e Simone lo guardò incuriosito, con gli occhi che sembravano quelli di un bambino.

"Una sorpresa? Che cosa?"

"Eh, famme anda' a recuperarte il pranzo e poi vedi. Torno subito."

Non appena Manuel uscì, Simone fece sollevare lo schienale del letto e il lenzuolo con cui si era accuratamente coperto fino a quel momento scivolò in basso, scoprendogli il busto nudo. Sospirò guardando i lividi che ancora lo deturpavano, quei lividi che Manuel ancora non aveva visto e che era meglio non vedesse, e che ancora gli facevano un po' male, se provava a toccarseli.

Recuperò in fretta il camice dell'ospedale, finito appallottolato sotto il lenzuolo, e se lo infilò, sistemandolo per bene. Si portò poi una mano tra i capelli arruffati, cercando un po' alla cieca di dar loro un qualche tipo di ordine, ma erano troppo sporchi, sudati, e non era proprio possibile dar loro un aspetto migliore.

A questo, poi, si aggiungeva l'odore decisamente poco gradevole del suo corpo sudato e della sua bocca che da troppo tempo non vedeva del dentifricio -'Come ha fatto Manuel a baciarmi in queste condizioni?', si chiese, pieno di vergogna-, tutte cose che gli ricordavano quanto avesse bisogno di lavarsi e quanto desiderasse sentirsi pulito, soprattutto di fronte all'impegno che Manuel ci aveva messo a farsi bello -più bello- per lui.

Eppure, tutto ciò passava in secondo piano di fronte al ricordo di quella doccia in mezzo allo sfascio, così vivo da sembrargli il presente.

"Eccoci qua, oggi te tocca pasta al sugo, petto de pollo e insalata. Beh, poteva andarte peggio…"

Esclamò Manuel, allegro, mentre entrava in camera con il pranzo di Simone su un vassoio. Il suo sorriso però si spense quando vide che il suo ragazzo aveva un'espressione corrucciata. Si affrettò ad avvicinarsi a lui, a posare il vassoio sul tavolino e a fargli una carezza sulla guancia.

"Hey, Simo, tutto bene?"

Chiese con dolcezza, guardandolo apprensivo. Simone sollevò lo sguardo verso il suo e annuì, per non farlo preoccupare ulteriormente.

"Sì, scusami, stavo solo pensando…"

"Eh, pensi sempre, te…"

Mormorò Manuel, dandogli un bacio sulla fronte sperando che quel piccolo gesto potesse aiutarlo ad alleggerirgli la testa.

"A che pensi, mh?"

Aggiunse con la stessa dolcezza, passandogli una mano tra i capelli, sulla nuca.

Una vocina nella testa di Simone gli impose di scostarsi, che era troppo sporco per lasciarsi accarezzare, ma lui aveva bisogno di quelle attenzioni, di quelle carezze leggere che lo facevano sentire amato e protetto, per cui non si mosse.

"Pensavo al fatto che non mi hai ancora risposto. Non mi hai detto come stai."

Mentì, ma in fondo non era una vera e propria bugia, gli interessava davvero sapere come stesse il suo ragazzo.

Manuel intuì che c'era qualcosa di più dietro quegli occhi pensierosi, ma per il momento si limitò a sorridere e a sistemare il pranzo sul tavolino pieghevole, in modo che Simone potesse mangiare.

"Sto bene, Simo, sto davvero bene. Raccontare tutte quelle cose su Sbarra a Domenico, cioè all'ispettore Liguori, quello che ti ha portato via dallo sfascio, è stato liberatorio. Quello stronzo de Sbarra avrà ciò che si merita."

Simone sorrise, sentendosi più libero anche lui, e con un gesto della mano chiese a Manuel di sedersi accanto a lui.

"Quindi è…tutto finito? Possiamo stare tranquilli?"

Domandò forse con troppa ingenuità, mentre Manuel si sistemava sul letto e gli cingeva il busto con un braccio, dandogli subito un bacio tra i capelli.

"No, non è ancora tutto finito, ma Sbarra è in custodia da ieri. Dopo che ti hanno portato via da lì, con la scusa dell'incendio, è arrivata la polizia. Avrei voluto vede' la faccia de quel pezzo de fango…"

Rispose Manuel sogghignando e Simone annuì in accordo con lui, mentre cominciava a mangiare.

"A proposito, mi è stato detto che l'idea dell'incendio è stata tua, complimenti."

"Eh sì, lo so, sono un genio."

Disse sarcastico, facendo ridacchiare Simone. Anche lui si lasciò andare ad una risatina, ma più trattenuta.

"Scherzi a parte, Simo', sono solo felice che abbia funzionato. Anzi, avrei dovuto pensarce prima…"

Aggiunse con rammarico e Simone, che non voleva vederlo intristirsi, gli diede una leggera spallata.

"Non incominciare, è andato tutto per il meglio e va bene così. Senza la tua idea geniale, probabilmente a quest'ora non sarei stato qui, pensa a questo."

Manuel sospirò e lo strinse un po' di più a sé, dandogli un altro bacio tra i capelli. Doveva pensare al presente, Simone aveva ragione.

"Per fortuna che ce sei, Simo', per fortuna che ce sei…"

Sussurrò tra i suoi ricci, poi si voltò a guardare il suo pranzo.

"Allora? Com'è? Mangiabile?"

Simone annuì a bocca piena, mentre masticava. Era buono per essere cibo da ospedale, o forse era semplicemente lui che moriva di fame e avrebbe mangiato anche i sassi.

"Non è male, sai? A proposito, tu non mangi? Ne vuoi un po'?"

Manuel scosse il capo, accennando un sorriso.

"No, tranquillo, io c'ho questo."

E così dicendo prese una busta di carta che aveva poggiato sul vassoio insieme al pranzo di Simone e l'aprì, rivelando al suo interno un bel panino con la mortadella. Simone fece un fischio, ammirato.

"Ah però, ci credo che non vuoi la pasta. Da dove esce questa meraviglia?"

Chiese divertito e Manuel ridacchiò.

"Esce direttamente dalla mensa dei medici, me l'ha dato il dottor Spaventapasseri insieme al tuo pranzo. Purtroppo m'ha detto espressamente de non pote' fa' a cambio con te, altrimenti figurati, te lo facevo mangiare…"

Sbuffò, dando subito dopo il primo morso al panino.

"Che guastafeste."

Aggiunse e Simone, che già stava ridendo per il soprannome che ormai Manuel aveva scelto ufficialmente per il povero Riccardo, rise ancora di più per l'espressione da bambino contrariato che il suo ragazzo aveva assunto. Anche lui ridacchiò, contagiato dall'allegria dell'altro.

"Povero Riccardo, fa solo il suo lavoro. Guarda che ci sono medici molto più stronzi, eh…"

Manuel annuì, perché in fin dei conti Simone aveva ragione e lui ne era consapevole. Era soltanto un po' geloso, però.

"Sì, in fondo in fondo non è tanto male. M'ha pure detto che posso restare qui quanto me pare, te lo sapevi?"

Simone annuì, smettendo di masticare per un istante. Si chiese se Riccardo gli avesse detto anche di ciò che gli infermieri gli avevano senz'altro riferito.

"Me l'ha detto stamattina, sì. Quindi ci hai parlato?"

Manuel annuì, iniziando ad accarezzargli un fianco. Non gli era sfuggita quella sua esitazione.

"Sì, prima, appena so' arrivato. Sinceramente non mi aspettavo nemmeno de trovarlo qua, pensavo fosse andato a casa dopo er turno de notte."

"Mh…e ti ha detto altro, per caso?"

Chiese Simone, con gli occhi fissi nel proprio piatto. Manuel accennò un sorriso, comprensivo.

"Perché, secondo te me doveva di' qualcos'altro?"

Simone fece spallucce, riprendendo a mangiare.

"Non lo so, dicevo così per dire…"

Manuel annuì piano, preferendo lasciar correre per il momento. Non era il caso di mettergli pressione, specie adesso che stava mangiando. Meglio spostare la conversazione su altro e ricordare a Simone cose più leggere, più piacevoli.

"Beh, a dire il vero mi ha detto anche che posso darti la mia sorpresa, appena finisci qui la vado a prende."

Simone accennò un sorriso, apprezzando con tutto il cuore la delicatezza di Manuel. Era chiaro che sapesse tutto, ma gli era grato di non aver insistito, di rispettare i suoi spazi, i suoi tempi, come faceva sempre.

"Non mi puoi dire cos'è, prima? Guarda che piattone che c'ho!"

Manuel scosse il capo in risposta, ridacchiando.

"Oh, certo che te c'hai un'avversione per le sorprese! E prima la nostra serata speciale e mo’ questa…ma lasciati sorprendere, pe' 'na volta, Simo'!"

"Quella potresti rivelarmela, però, tanto ormai è andata, no?"

Replicò con una punta di malinconia nella voce, solo una minima parte di quella che realmente sentiva nel cuore.

Manuel roteò gli occhi, poi lo guardò furbescamente. La loro serata speciale non era andata manco per il cazzo.

"E 'sta cazzata chi te l'ha detta? Anzi, mo’ c'è anche una cosa in più da festeggia', te pare er caso de lascia' perdere?"

Simone si voltò a guardarlo, sinceramente stupito dalla cosa. Dopo tutto quel casino, e con il loro mesiversario che ormai era ampiamente passato, credeva che anche i festeggiamenti fossero stati messi da parte. Stupido lui, che non seguiva i suoi stessi consigli e non guardava al presente.

"Davvero, Manuel? Sei serio?"

"Eh, te pare che vengo a dirti palle proprio su questo? Devo cambia' qualcosa, ma ce sto già pensando. Te l'ho detto, sono un genio."

Rispose Manuel con sicurezza, mettendo su quel sorriso spavaldo che faceva girare la testa a mezza scuola, ma che adesso era solo per Simone e così sarebbe sempre stato. Dietro quel sorriso, nei suoi occhi, c'era un'infinità d'amore, lo stesso amore che spinse Simone a lasciar perdere il cibo e ad avvolgere Manuel tra le braccia, ridendo di pura gioia.

"Sì, lo sei davvero. Grazie, grazie, grazie."

Mormorò, lasciandogli più di un bacio sulla spalla, dove riusciva ad arrivare. Manuel portò una mano tra i suoi capelli, affettuoso.

“La smetti de ringraziarme? C’è sempre la possibilità che la mia sorpresa te faccia schifo, ti ricordo…”

Prima che Simone potesse obiettare, però, gli indicò il pranzo che aveva lasciato sul tavolino.

“Su, mo’ finisci lì, altrimenti se fredda e non se lo magnano manco i cani.”

Spostò l’indice verso di lui, come a volergli dare un avvertimento.

“Oh, guarda che se non mangi tutto, non ti porto la sorpresa! La lascio al Dottor Bonvegna…”

Simone scosse il capo, senza smettere di sorridere, e si voltò per riprendere a mangiare.

“Agli ordini!”

Manuel si allontanò quando a Simone mancavano soltanto pochi bocconi di pollo e andò a recuperare il gelato nella saletta degli specializzandi, come gli era stato indicato da Riccardo. Aprì la confezione per accertarsi che nessuno lo avesse toccato e, piacevolmente stupito della cosa, la richiuse e tornò nella stanza numero quindici trasportando quella vaschetta come se fosse stata un tesoro, già immaginando l’espressione felice e sorpresa di Simone. Poco prima di entrare, però, cambiò idea e nascose la vaschetta dietro la schiena.

“Eccoci qua! Chiudi gli occhi, Simo’!”

“No, dai, fammi vedere!”

Protestò l’altro, sporgendosi per cercare di capire cosa Manuel gli stesse tenendo nascosto.

“Eddai, fidate! Prima de vede’, devi assaggia’!”

Simone sollevò un sopracciglio e incrociò le braccia, incuriosito. Era qualcosa da mangiare, quindi.

“Non è che mi stai facendo uno scherzo ed è una roba disgustosa? Tipo non so, broccoli bolliti?”

Manuel alzò gli occhi al cielo, scuotendo il capo.

“Simo’, te forse i broccoli bolliti ce li hai al posto del cervello. Facciamo così, se è una cosa che non ti piace, me la rovesci in testa, mh? Mo’ però lasciame fa’, testone.”
Simone lo fissò per qualche altro secondo, poi fece una risatina e si decise a chiudere gli occhi, più rilassato. Se Manuel era tanto sicuro di sé, non poteva che essere una bella sorpresa…non che avesse mai avuto un reale dubbio su questo, in fin dei conti.

“Oh, bravo! Mo’ aspetta n’attimo, eh.”

Esclamò soddisfatto Manuel, avvicinandosi a fargli una carezza. Poggiò la vaschetta sul tavolino, la aprì e recuperò dallo zaino i cucchiaini e i bicchieri che aveva portato da casa.

“Tieni ancora gli occhi chiusi e apri la bocca, per favore.”

“Mi sto fidando, eh.”

Mormorò Simone prima di dischiudere le labbra, in attesa della mossa di Manuel.

Quelle labbra leggermente dischiuse, per Manuel, erano un invito fin troppo allettante a posarvi un bacio, ma preferì resistere alla tentazione –almeno per il momento- e far assaggiare il gelato a Simone.

Non appena il sapore freddo e dolce della fragola si posò sulla sua lingua, Simone si sciolse in un meraviglioso sorriso, degno di un bambino goloso.

“Ma è gelato!”

Esclamò, sgranando gli occhi pieni di stupore. Manuel ridacchiò, trovandolo a dir poco tenerissimo.

“Eh sì, è gelato. Te piace o me lo vuoi rovescia’ in testa?”

Domandò retoricamente, mentre Simone posava lo sguardo sulla vaschetta e si leccava istintivamente le labbra.

“Mi piace e voglio che lo mangi insieme a me!”

Rispose tornando a guardarlo, poi si sporse a dargli un bacio sulla guancia.

“È una sorpresa bellissima e non ti dico altro soltanto perché poi fai storie.”

Nei suoi occhi, però, c’era tutta la gratitudine che Manuel meritava di ricevere per il modo in cui non smetteva mai di prendersi cura di lui, quindi non c’era bisogno di parole superflue per ringraziarlo.

Manuel arrossì teneramente, travolto da quella gratitudine, che ricambiò con un dolce sorriso.

“I tuoi occhi parlano per te, però, lo sai?”

Intanto si mise a riempire i due bicchieri dei tre gusti di gelato che aveva comprato, fragola, cocco e limone: erano sapori che gli ricordavano l’estate che ormai li circondava e che voleva entrasse anche in quella stanza d’ospedale. Voleva che Simone sentisse l’estate.

“Ti do una notizia, Manuel, anche i tuoi occhi chiacchierano un sacco.”

Replicò l’altro, prendendo un bicchiere che il fidanzato gli porgeva e cominciando ad ispezionarne incuriosito il contenuto. Il gelato rosso era sicuramente quello alla fragola, che già aveva assaggiato, quello giallo era senza dubbio al limone, ne sentiva distintamente l’odore, mentre il terzo, bianco, aveva il profumo del cocco.

“Chiacchierano solo con i tuoi, per gli altri parlano una lingua incomprensibile.”

Manuel non pronunciò quella frase con malinconia o con tristezza, per lui era semplicemente un dato di fatto e gli andava più che bene così. Erano in pochi quelli che avevano provato a guardarlo negli occhi e quei pochi, ad eccezione di Simone, non erano riusciti a capirlo. In fondo, comunque, neanche a lui interessava chissà quanto parlare con gli occhi degli altri, non da quando aveva incrociato quelli di Simone.

Gli stessi occhi che, adesso, avevano smesso di guardare il gelato e guardavano lui, preoccupati.

“Dai Manuel, non dire così, non sono mica l’unico che ti capisce. C’è tua madre, c’è Chicca, c’è perfino mio padre! Forse anche Alice, no?”

Simone pronunciò quell’ultimo nome quasi con disgusto, ma da quanto ne sapeva era stata una storia importante per Manuel e si augurava che, almeno, quella donna lo avesse trattato come meritava.

Manuel scosse il capo, ridacchiando.

“No Simo’, te dico che sei l’unico.”
Così dicendo si mise seduto accanto a lui, su quel letto che sembrava troppo piccolo per ospitare due persone ma che magicamente diventava grande abbastanza per entrambi. Forse perché, in fin dei conti, loro erano un’unica cosa.

“Tanto per cominciare, mia madre me vuole un bene dell’anima, su questo nun ce piove, e su certe cose me capisce pure troppo, ma sono io che ogni volta devo aprirmi con lei, che le devo parlare. Non mi capisce solo con gli occhi, come fai tu.”

Fece spallucce e mandò giù un po’ di gelato, trovandolo veramente buono. Valeva decisamente i soldi che aveva speso.

“La stessa cosa vale per tuo padre, che però, a differenza de altri, almeno c’ha provato a capire cosa mi passasse per la testa, di questo lo devo ringraziare. Con Chicca, poi, ce vedevamo, ma nun ce guardavamo. Capisci la differenza?”

Simone annuì lentamente, mandando giù un cucchiaio di gelato al limone. Era la stessa differenza che c’era tra lui e Laura e tra lui e Manuel.

“Vedere è superficiale, guardare è profondo. Si vede con gli occhi e si guarda con il cuore…”

Rispose con timidezza, temendo di risultare un po’ troppo smielato, ma non sapeva come altro spiegare a parole quel complesso meccanismo di emozioni e sensazioni, che eppure diventava semplice quando lo si viveva.

Manuel allungò una mano ad arruffargli i capelli, sorridente, e Simone ricambiò il sorriso.

“Io te l’ho detto che me stai a diventa’ filosofo! Però sì, è come dici tu, niente de più e niente de meno.”

Fece un profondo respiro.

“E così arriviamo ad Alice. Lei non ha nemmeno mai fatto lo sforzo de guardamme, guardamme per davvero dico, come se dovrebbe fa’ con una persona non dico che ami, ma a cui almeno vuoi un minimo de bene. E dire che io le morivo dietro come un cagnolino…che coglione!”

“Beh dai…eri innamorato di lei, è comprensibile.”

Provò a rincuorarlo Simone, anche se il suo stomaco si contrasse in una fitta di gelosia e di disgusto ad associare quel sentimento a Manuel ed Alice, perché lei decisamente non se lo meritava.

Manuel però scosse il capo e con quel gesto scacciò via anche la gelosia.

“No Simo’, macché innamorato, al massimo ero arrapato!”

Ridacchiò di se stesso, sbattendo un paio di volte il cucchiaino nel bicchiere, prendendosela con il gelato per la propria stupidità.

“Me piaceva l’idea de ave’ conquistato una più grande, me faceva senti’ adulto, ma era tutta una cazzata. Claudio mi ha detto una cosa che mi ha fatto riflettere in questi giorni, sai?”

“Che cosa?”

Domandò Simone, incuriosito, e ancora una volta fu grato a Claudio per essersi preso cura di Manuel mentre lui non poteva.

“Mi ha detto che non c’è niente di male a vivere la propria età, ad essere un ragazzino, e c’ha ragione da vendere. Ho capito che cento giorni da grande…”

Sottolineò la parola facendo le virgolette con le dita.

“…con Alice non valgono un solo giorno, da pischello, con te. Ed è questo che voglio, Simo’, voglio fare il ragazzino con te e poi voglio crescere, sì, ma piano piano e…sempre con te.”

Gli occhi di Manuel, fissi in quelli di Simone, tremavano appassionati, mentre la sua voce era ferma e sicura, decisa.

“Tu che dici?”

Simone si sporse verso di lui, ruotando leggermente il busto, con la stessa passione negli occhi.

“Dico che vengo con te. Sempre.”

Sussurrò a poca distanza dalle sue labbra, prima di attirarlo in un bacio fresco, al sapore d’estate.

"Proprio sempre sempre? Sicuro?"

Sussurrò Manuel sulla bocca dell'altro, con un sorriso appena accennato.

Simone sorrise a sua volta e annuì, facendo accarezzare i loro nasi.

"Sono sicuro, Manuel. Anche tu sei l'unico che mi capisce veramente e io non voglio attraversare questa vita con nessun altro. Voglio crescere con te, piano piano come hai detto tu, mano nella mano. Me lo puoi chiedere altre mille volte e io ti risponderò allo stesso modo, sempre."

Gli diede un bacio sulla punta del naso.

"Sempre."

Ripeté, poggiando la fronte sulla sua, per sentire meglio i pensieri che gli vorticavano in testa: li sentiva sussurrare a Manuel di non essere degno d'amore, di essere rotto, sbagliato, e che non meritava altro che restare da solo. Simone aveva vissuto sulla propria pelle quelle voci che sembravano non voler smettere mai di parlare, finché non era arrivato Manuel a metterle a tacere. Ora avrebbe fatto la stessa cosa per lui ed era davvero disposto a ripetergli centinaia e migliaia di volte che non l'avrebbe lasciato come avevano fatto Alice e Chicca, se era questo ciò di cui aveva bisogno.

"Quanta pazienza che hai con me, Simo'. Te faranno Santo, un giorno."

Manuel sapeva di esagerare con quel suo continuo bisogno di rassicurazioni, di conferme e sapeva che chiunque altro si sarebbe già stancato di quella sua insicurezza da bambino, ma non Simone. Lui quelle debolezze le capiva, erano crepe che riempiva con il suo amore, infinitamente paziente.

"Non è pazienza, è amore. Io mi prendo cura di te e tu ti prendi cura di me, funziona così."

Replicò allegro Simone, dandogli un bacio sull'arco di Cupido prima di tornare a mangiare il gelato. Manuel sorrise dolcemente, imitandolo.

"Quindi se io adesso volessi ringraziarti per la pazienza, non potrei farlo, giusto?"

Chiese con una punta di malizia, guardandolo di sottecchi. Simone ricambiò lo sguardo, facendo una risatina.

"No, infatti, non c'è bisogno che mi ringrazi. Però una cosa che puoi fare per me, c'è."

Manuel fece un cenno di assenso, avrebbe fatto qualsiasi cosa. I baci che aveva in programma di dargli, per ringraziarlo, li avrebbe conservati per un altro momento.

"Stamattina, prima che te ne andassi, ti ho chiesto di riposarti un po' e sono sicuro che tu non l'abbia fatto. Mi sbaglio?"

"Mi dichiaro colpevole, però a casa mo’ nun ce torno!"

Era deciso, Manuel, a restare lì con Simone ora che poteva. Simone, dal canto suo, non aveva certo intenzione di cacciarlo.

"Non ti stavo mica mandando a casa! Però potresti usare quel letto lì…"

Indicò con il cucchiaino l'altro letto presente nella stanza, che era vuoto, prima di tornare a riempirlo di gelato e portarselo alla bocca.

"Se ti ci appoggi per un'oretta o due, non credo ti diranno qualcosa. Al massimo chiediamo il permesso…"

Manuel si sporse ad osservare il letto per qualche secondo, poi scosse il capo e tornò a guardare Simone.

"No, là non ci dormo. È scomodo."

Sentenziò, accompagnando la sua affermazione con un boccone di gelato. Simone sospirò.

"Ma no, è uguale al mio e ti assicuro che è comodissimo!"

Manuel scosse il capo, accennando un sorriso.

"Il tuo è comodo, quello no."

Gli rivolse uno sguardo eloquente, che Simone non fece fatica ad interpretare.

Bastò giusto il tempo di finire il gelato e di andare a posare quello restante per far farli accoccolare uno accanto all'altro: Manuel, disteso su un fianco, avvolgeva Simone con un braccio senza lasciare spazio tra i loro corpi e Simone ricambiava l'abbraccio come poteva, poggiando la propria mano sul braccio dell'altro ragazzo.

Così, uniti, stavano bene.
 

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Capitolo 16
*** Non c'è niente che ti assomigli ***


"Disturbo?"

Sussurrò il dottor Bonvegna entrando nella stanza. Simone si voltò verso di lui e gli fece segno, portandosi l'indice sulle labbra, di fare piano: Manuel si era addormentato da poco e non voleva che si svegliasse.

"Scusa, scusa, ti rubo giusto cinque minuti."

Disse a voce ancora più bassa il medico, avvicinandosi al letto. Gli spuntò un sorriso intenerito sulle labbra quando vide Manuel così stretto a Simone, gli diede l'impressione che volesse proteggerlo con il suo corpo e anzi, avendo conosciuto un po' il soggetto, era sicuro che non fosse soltanto una sua impressione. Spostò poi lo sguardo sul proprio paziente, rivolgendogli lo stesso sorriso.

"Va meglio, adesso?"

Simone annuì lentamente, arricciando un angolo delle labbra in una smorfietta d'imbarazzo. Non si era comportato bene con quei due infermieri, non ne andava fiero.
"Sì, adesso sì. Mi dispiace per prima, sono mortificato…puoi portare le mie scuse a quei due ragazzi? Ho esagerato."

Riccardo scosse appena il capo, comprensivo.

"Non ti preoccupare, non devi sentirti in colpa. Se ti fa stare meglio, chiederò scusa da parte tua a Pietro e Francesco, ma sono sicuro che anche loro abbiano capito la situazione."

Fece una breve pausa. Simone era un ragazzo gentile, buono, ma anche comprensibilmente spaventato, chiunque avrebbe capito che la sua reazione era stata dettata dalla paura e non dalla cattiveria.

 "È successo qualcosa in questi giorni, vero? Qualcosa che ti ha portato a rispondere così. Non devi raccontarmelo, se non vuoi, è solo per dirti che non hai niente di cui scusarti, va bene?"

Simone annuì di nuovo, lo sguardo fisso in quello di Riccardo. I suoi occhi verdi erano caldi, rassicuranti, senza alcun accenno di impazienza e di questo gli fu molto grato.

"Va bene, grazie. Grazie davvero."

Sospirò, voltandosi verso Manuel per qualche istante. Nella sua espressione distesa e serena trovò il coraggio necessario a fare un piccolo passo avanti. Si aggrappò un po' di più al suo braccio, che per lui in quel momento era un sostegno.

"È successa una cosa, sì, una cosa che mi sento ancora addosso, ma voglio superarla. Sarebbe possibile…insomma…lavarmi?"

Sentì le guance avvampare per l'imbarazzo, e forse non era il migliore degli inizi, ma non poteva e non voleva restare ancora così, sporco sia letteralmente che metaforicamente.

"Sono molto contento che tu me lo chieda, anche perché ero venuto a farti una proposta: ti sentiresti meglio se fossimo io e Manuel, a lavarti? Cioè, ti laverebbe Manuel, io gli darei soltanto qualche indicazione, nient'altro."

Spiegò Riccardo con un sorriso, indicando poi il ragazzo addormentato con un cenno del capo.

"L'idea è sua, comunque, me l'ha chiesto a pranzo."

Simone abbozzò una risatina che portava con sé ancora uno strascico di imbarazzo, ma soprattutto tantissima gratitudine. Non fece fatica a credere che l'idea fosse di Manuel, di quel genio del suo ragazzo, che continuava a prendersi cura di lui come un angelo custode.

"Per me sarebbe perfetto, però adesso non voglio svegliarlo e…e devo anche dirgli delle cose, prima…"

Riccardo interruppe quel discorso con un cenno della mano, in modo da evitare che Simone chiedesse scusa per l'ennesima volta senza motivo.

"Domani mattina va bene?"

Simone sospirò, rincuorato.

"È perfetto, grazie."

"Allora io adesso vado a casa, qui è tutto a posto…"

Replicò Riccardo, controllando i parametri di Simone sui macchinari.

"Ti lascio nelle mani dei miei colleghi e di Manuel, che mi sembra piuttosto determinato a non lasciarti affatto."

 
Lorenzo se ne stava disteso in quel letto da cui gli sembrava difficile rialzarsi ogni giorno di più, ma quella permanenza forzata era resa più dolce, più sopportabile, dal corpo caldo di Riccardo accanto al proprio. Si erano addormentati insieme, la notte precedente, abbracciati come adesso che si erano svegliati.

Beh, lui almeno era sveglio, Riccardo invece stava ancora sonnecchiando e Lorenzo avrebbe dato di tutto per farlo restare così, in quel mondo fatto di sogni in cui non c'era dolore, non c'era paura, non c'erano le lacrime che Riccardo si sforzava di nascondergli e che Lorenzo fingeva di non vedere.

Sapeva, però, che a breve quegli occhi verdi sarebbero tornati ad illuminare le sue buie giornate, puntuali come il Sole che sorge: era come se Riccardo sapesse che lui era sveglio e non volesse fargli trascorrere neanche pochi minuti da solo. La solitudine, era ciò che Lorenzo temeva di più.

Perciò se ne stava lì, in attesa che Riccardo si svegliasse, ad accarezzargli distrattamente una mano facendo scorrere con delicatezza i polpastrelli su quelle piccole cicatrici causate dal freddo -perché quel testardo si rifiutava categoricamente di indossare i guanti- senza seguire uno schema preciso. Quella mano, come ogni parte del corpo dell'altro, Lorenzo avrebbe potuto riconoscerla al buio o tra altre mille, senza esitare e senza sbagliare: ne conosceva la leggera ruvidezza al tatto, il calore che amava sentire sul proprio corpo e il tocco delicato, che neanche anni e anni di Medicina sono in grado di insegnare e che in Riccardo era semplicemente naturale.

C'era però una novità, in quel piccolo universo che non aveva più segreti per lui, ed era la fascetta metallica all'anulare sinistro, su cui Lorenzo soffermò le dita, accarezzandone la superficie fredda e perfettamente levigata. La fede era lì da appena un giorno e Lorenzo temeva di non aver abbastanza tempo davanti a sé per farci l'abitudine. Prima che potesse soffermarsi troppo su quel pensiero, Riccardo aprì gli occhi.

"Siamo sposati da nemmeno ventiquattr'ore e già ci stai ripensando?"

Mormorò con voce impastata, ma la complessità della frase rivelava che era già sveglio da un po'. Lorenzo rise e Riccardo, in quella risata, trovò la forza di affrontare un'altra giornata.

"No, ma che dici? Stavo controllando che non si sfilasse."

Replicò divertito, con la voce attutita dall'ormai onnipresente mascherina per l'ossigeno.

Riccardo si sporse a dargli un bacio sulla tempia, poi si sollevò per dargliene un altro in fronte e tornò a stringersi accanto a lui, cominciando ad accarezzargli il petto che si sollevava e si abbassava lentamente: ognuno di quei piccoli movimenti, per lui, era una perla preziosa.

"Non ti preoccupare, ho controllato le misure qualcosa tipo venti volte. Non si sfila, è più salda di un mio abbraccio."

"Ah, non credo esista niente di più saldo di un tuo abbraccio, koala che non sei altro."

Mormorò Lorenzo con tono di scherno, ma in realtà non era mai stanco di quegli abbracci. Riccardo sorrise affettuoso, con uno sguardo che però rivelava anche un certo orgoglio.

"Questo perché ti abbraccio ogni volta con l'intenzione di non lasciarti andare più, caro il mio micetto."

 
Manuel dormiva profondamente e Simone poteva sentirne il leggero russare. Capitava spesso che Manuel russasse, soprattutto quando aveva molto sonno -ulteriore conferma del fatto che non si fosse riposato quando era andato a casa quella mattina-, ed ogni volta Manuel non faceva altro che scusarsi per quel disturbo. Simone aveva perso il conto delle volte in cui gli aveva risposto che per lui quello non era un rumore, ma un suono. Non lo diceva tanto per dire, per lui quello era il suono della quotidianità, la stessa quotidianità da cui Sbarra lo aveva violentemente strappato, gettandolo in un mondo che di notte piombava nel più totale silenzio.

A Simone il silenzio di notte non era mai piaciuto, fin da quando era bambino: lo faceva sentire solo, gli ricordava di essere solo, ed era una sensazione che odiava. Quel respiro così profondo, quindi, gli diceva che insieme a lui c'era qualcuno, lo stesso qualcuno che lo teneva stretto tra le braccia senza alcuna intenzione di lasciarlo andare -come aveva sottolineato Riccardo-, ed era una sensazione che amava.

Manuel dormiva profondamente e Simone, stretto tra le sue braccia, non poteva fare a meno di accarezzarlo. Faceva scivolare su e giù due dita sulla sua guancia, lente e leggere per non svegliarlo, sentendo di volta in volta il contrasto tra la sua barbetta un po' ispida che gli faceva quasi il solletico e la sua pelle morbida poco sopra, intorno allo zigomo.

Poi, senza interrompere il contatto con il suo viso, spostò la mano dietro la sua testa, prendendo a tracciare cerchi tra i capelli dell'altro, di nuovo in disordine, pensando a quanto facesse ancora fatica a credere che la sua metà mancante non fosse più irraggiungibile come aveva pensato per tanto tempo e che anzi, adesso era così vicino da poterla toccare, accarezzare e baciare, cose che aveva osato vivere solamente nei propri sogni, invidioso di chi invece -Chicca, Alice- poteva viverle per davvero.
Manuel dormiva profondamente e Simone lo guardava. Da quando quel ragazzo ripetente aveva messo piede in 3°B, i suoi occhi avevano smesso di guardare tutto il resto. Perfino su Laura, che all'epoca era la sua ragazza, i suoi occhi non si posavano tanto spesso quanto sul nuovo arrivato e in ogni caso erano sguardi pallidi, privi di quell'intensità che riservavano solo e soltanto a lui, lasciando Simone confuso e smarrito.

Nel tentativo di darsi una spiegazione, aveva attribuito quel fuoco all'odio, alla rabbia, e aveva cercato continuamente in Manuel qualcosa che gli desse fastidio per giustificare il suo continuo guardarlo, dal modo in cui si vestiva all'espressione strafottente con cui affrontava l'ennesima interrogazione andata male. Ciò che lo infastidiva più di tutto, però, erano i baci che si scambiava senza pudore con Chicca, la sua ragazza, senza preoccuparsi che l'intera classe fosse lì ad osservarli. Anche Simone non si faceva problemi a baciare Laura di fronte ai loro compagni, di tanto in tanto, ma se erano Manuel e Chicca a baciarsi, sentiva il sangue pompargli con più forza nelle vene e arrivargli dritto al cervello, annebbiandogli la razionalità.

Solo dopo diverso tempo aveva capito che l'intensità nel suo sguardo era la manifestazione di un desiderio, un desiderio destinato a rimanere insoddisfatto. Da quel momento in poi, i baci che Manuel dava a Chicca, e quelli che Simone immaginava desse ad Alice, la sua nuova conquista, non gli davano più soltanto fastidio, gli incidevano solchi profondi e invisibili sulla pelle, senza che nessuno potesse accorgersi delle sue ferite. Eppure Simone non riusciva a smettere di guardare Manuel e quando Manuel ricambiava il suo sguardo, allora valeva la pena sopportare quel dolore.

Da un po' di tempo, però, il fuoco in quegli occhioni scuri era cambiato, era un fuoco le cui fiamme scaldavano senza bruciare, anche gettandocisi dentro. Da un po' di tempo, Simone non guardava più Manuel con odio o con desiderio, ma con amore, lo stesso amore da cui veniva investito ogni volta che Manuel posava i suoi occhi su di lui. Anche adesso, che Manuel aveva sollevato le palpebre per un istante prima di riabbassarle, Simone lo aveva sentito.

"Simo…"

Sussurrò Manuel con voce impastata, più addormentato che sveglio. Il suo primo pensiero era sempre Simone, anche quando il suo cervello doveva ancora attivarsi per bene.

Simone gli sorrise, anche se Manuel teneva ancora gli occhi chiusi e non poteva vederlo, e gli fece un grattino un po' meno leggero degli altri tra i capelli.

"Sono qui, sono qui. Puoi dormire ancora un po', se vuoi. Puoi dormire anche fino a domani mattina, se ne hai bisogno. Io di certo non vado da nessuna parte."

Disse divertito, a voce bassissima per non far esplodere la bolla di sonno di cui Manuel sembrava ancora necessitare.

Manuel mugolò in risposta, sonnacchioso, e posò dei bacetti pigri sulla sua spalla, sempre nello stesso punto perché non aveva intenzione di muoversi.

"Tu non dormi?"

Chiese tra un bacio e l'altro, in un borbottio comprensibile soltanto a Simone, che sorrideva beato per quei piccoli doni.

"No, non ho sonno, ma va tutto bene, non ti preoccupare."

"Sicuro? Niente brutti sogni?"

Domandò ancora, stringendolo un po' di più a sé in un gesto di protezione istintivo.

"No, tranquillo, niente brutti sogni. È che ho dormito tanto, prima, ed ora non ho proprio sonno."

Manuel, più tranquillo, annuì facendo strofinare il naso sulla stoffa del camice dell'ospedale e dopo qualche altro piccolo bacio, si decise ad aprire gli occhi.

"Sto a posto anch'io, sì. Ciao, Cerbiattino."

Si sollevò su un gomito, quanto bastava a sporgersi per posare un bacio sulle labbra di Simone. Notò che erano un po' troppo secche.

"Oh, devi bere! Me potevi sveglia', potevi chiama' qualcuno…"

Esclamò, spostandosi subito per riempirgli un bicchiere. Simone si mise a sedere e lasciò che Manuel lo aiutasse a bere un po', in modo da tranquillizzarlo.

"Ciao anche a te, Paperotto, e grazie anche se so che non vuoi che ti ringrazi."

Disse sorridendogli, per poi fargli cenno di tornare accanto a lui. Manuel si affrettò a riavvicinarsi, arrivando ad un centimetro dalle sue labbra.

"E infatti non ce n'è bisogno. Lo faccio per amore e con amore."

Tornò quindi dove era rimasto, a quel bacio che adesso potevano approfondire con tutta calma.

Simone, a dispetto delle parole di Manuel, era deciso a ringraziarlo ugualmente, ricambiando la sua premura con un'altra: infilò una mano sotto la sua polo e gli fece qualche carezza sulla pancia, che Manuel ritrasse istintivamente liberando una risatina.

"Scusa, ma me fai il solletico…"

Si giustificò, temendo che Simone potesse pensare che quelle attenzioni non fossero gradite. Simone, però, ne era perfettamente consapevole e anzi, era proprio dal solletico che voleva partire.

"Lo so, lo so, ma lasciami fare…"

Con la mano libera lo attirò nuovamente sulle proprie labbra, mentre con l'altra saliva un po' più su, sollevando la maglietta di Manuel al proprio passaggio. Sentì le sue costole sotto la mano, il suo petto in tensione che tratteneva il respiro e poi si fermò al centro. Lì prese a tracciare perfettamente con due dita il profilo del tatuaggio del serpente, senza bisogno di vederlo, seguendo soltanto la sua memoria e Manuel mugolò d'approvazione, liberando un sospiro. Gli avrebbe lasciato fare qualunque cosa, era in totale balìa delle carezze di Simone, delle sue dita che lo toccavano come se fossero nate per questo.

"Te piace proprio 'sto tatuaggio."

Sussurrò sulle sue labbra, permettendo ad entrambi di riprendere un po' di fiato. Simone liberò uno sbuffo divertito e annuì piano, facendogli una carezza tra i capelli.

"Ti ho spiegato il perché, ti ricordi?"

Fu Manuel ad annuire adesso, sorridendo.

"Certo che mi ricordo, mi ricordo tutto quello che dici. Riesci a sentirlo anche adesso, il mio cuore felice?"

Simone poggiò il palmo sul petto di Manuel e rimase fermo così per qualche istante, a scambiarsi uno sguardo affettuoso con l'altro ragazzo. Sorrise, poi, furbetto.

"Sì, lo sento. Ti ho fatto svegliare per bene, eh?"

Manuel ridacchiò, pensando che non avrebbe potuto desiderare un risveglio migliore.

"Sei pure meglio del caffè, guarda."

Fece toccare di nuovo le loro labbra, in un bacio veloce.

"Posso provare a sentire io il cuore tuo, adesso? Se ti va, ovviamente…"

Simone, che stava sorridendo fino ad un attimo prima, perse il sorriso e abbassò lo sguardo, imbarazzato. Manuel ovviamente si accorse subito del cambio d'umore e lo guardò preoccupato.

"Oh, guarda che se me dici de no mica m'offendo. Non ti deve anda' per forza…"

Simone scosse il capo, perché non era quello il problema.

"No, è che...come lo faresti?"

"Beh, io veramente volevo fare come fai di solito tu e riempirti di baci, ma ripeto che se non c'hai voglia non è un problema."

Spiegò Manuel, comprensivo. Forse Simone  temeva che qualcuno potesse vederli e non si sentiva a proprio agio.

"No Manuel, non è questo, è che...sono sudato, immagino te ne sia accorto, e non sarebbe piacevole per te, baciarmi. Anzi, a dirla tutta mi chiedo come tu riesca a starmi così vicino."

Ribatté Simone, accarezzando i ricci dell'altro per scusarsi di quella sua condizione. Se solo non avesse fatto tante storie per lavarsi, prima, se solo non avesse avuto tanta paura…

"Simo, io te l'ho detto, ti abbraccerei anche se fossi ricoperto di spazzatura e lo stesso vale per i baci."

Manuel si spostò per cercare il suo sguardo, sorridendogli quando i loro occhi si incrociarono di nuovo. Anche Simone sorrise, seppur ancora in imbarazzo, ma non poteva non sorridere di fronte a tutto quell'amore.

"Se la cosa non ti fa sentire a tuo agio mi sto fermo, ma se ciò che ti fa esitare è il pensiero che per me possa essere un problema, allora toglitelo dalla testa perché non è così."

Aggiunse, accarezzandogli la guancia. Simone come sempre si abbandonò a quelle carezze, sentendosi protetto e amato.

"Forse domani sarebbe meglio...se per te va bene aspettare."

Propose esitante, scusandosi con lo sguardo. Manuel annuì, accettando senza problemi.

"Simo, per me va bene tutto se va bene anche a te. Che succede domani, mh?"

Domandò, anche se aveva un'idea: probabilmente Simone aveva parlato con il dottor Bonvegna.

"Beh, ho parlato con Riccardo, prima, e mi ha detto della tua idea. Domani mattina, se tu sei ancora d'accordo, mi aiuti a lavarmi."

Rispose Simone, portando una mano sul collo di Manuel per ricambiare le carezze e il ragazzo mugolò d'approvazione. Era anche molto felice del fatto che Simone avesse preso coraggio, perché gli faceva male vederlo ancora in quelle condizioni, come se non fosse ancora libero.

"Certo che sono d'accordo, l'ho proposto io! E sono tanto fiero di te. No, non accetto obiezioni!"

Simone fece una risatina, un po' più tranquillo, capendo che quello era il momento giusto per parlargli, per raccontargli cosa fosse successo quella mattina allo sfascio e, sperava, per liberarsi di un peso.

"Se hai fatto quella proposta a Riccardo, vuol dire che lui ti ha raccontato di cosa è successo stamattina, vero?"

Manuel annuì e intanto continuava ad accarezzargli la guancia per fargli capire che gli era vicino.

"Mi ha detto di aver mandato due infermieri a lavarti e che tu li hai mandati via, spaventato. Qualunque sia il motivo che ti ha spinto a farlo, Simo', hai fatto bene. Ti conosco, nun te ne fa' 'na colpa."

Simone abbozzò un sorriso perché sì, Manuel lo conosceva davvero bene.

"È che...non sono soltanto il sudore e la polvere che mi fanno sentire sporco."

Sospirò, poi con entrambe le mani andò ad aggiustare la maglietta di Manuel che aveva sollevato, riportandola giù. Manuel gli diede un bacio a fior di labbra per incoraggiarlo, senza però mettergli fretta.

"Quel giorno che sei venuto a trovarmi allo sfascio, quando mi hai portato da mangiare e siamo stati un po' insieme…"

‘Quando Zucca t'ha spezzato una gamba per colpa mia’, pensò Manuel, preferendo far rimanere  quel pensiero nella propria testa Non voleva interrompere Simone e non voleva nemmeno ricordare momenti dolorosi che tanto erano ancora presenti, impressi nella mente di entrambi e sul corpo di Simone.

Simone si accorse di quel lampo di colpa che attraversò gli occhi dell'altro e portò di nuovo una mano sul suo collo, sperando di poter accarezzarla via.

"Quella stessa mattina, Sbarra e Zucca mi hanno portato fuori, in mezzo alle auto rotte, vicino ad un muro. Figurati, lì per lì ho pensato che volessero spararmi un colpo in testa per qualche motivo che non conoscevo, poi però mi hanno detto che mi avevano portato lì per farmi fare una doccia…"

Manuel si chinò a dargli un bacio sulla fronte, tenendo le proprie labbra ferme lì per qualche istante, in sostituzione di quel proiettile che Simone aveva immaginato. Capiva come doveva essersi sentito in quel momento, anche lui aveva creduto di essere sul punto di morire mesi prima, quando Sbarra l'aveva fatto picchiare per l'auto sfasciata, ed era una sensazione orribile, di assoluta impotenza perché vorresti scappare, ma non puoi, e di infinita solitudine, perché ripensi a tutte le persone che ami e che non rivedrai mai più. Era per questo che lui, mesi prima, aveva telefonato a Simone con quelle che credeva, temeva, fossero le sue ultime forze.

Simone accennò un sorriso a quel morbido bacio, un piccolo gesto di conforto che per lui valeva tantissimo.

"Mi hanno fatto spogliare e ho cominciato a lavarmi. C'era il Sole, mi faceva anche piacere sentirlo di nuovo sulla pelle dopo tutto quel tempo al buio e l'acqua era fredda, ma faceva caldo e quindi andava bene, però…"

Il suo sorriso si spense, sostituito da una smorfia angosciata, quasi di dolore, che gli contrasse tutto il viso facendogli chiudere gli occhi.

"Però loro erano rimasti lì e mi fissavano, guardavano ogni mio gesto, ogni centimetro del mio corpo ed io non potevo fare assolutamente niente per farli smettere. Mi sentivo nudo e non solo perché lo ero e...e mi sento ancora i loro occhi addosso, Manuel."

Si fermò e cominciò a fare qualche respiro profondo, come se avesse l'affanno e avesse bisogno d'aria.

Manuel si sentì montare da una fortissima rabbia, ma che non era nulla rispetto al senso di protezione nei confronti di Simone che lo portò a sistemarsi meglio su di lui per fargli da scudo contro quegli sguardi come se fossero ancora lì.

"Quei due stronzi non vedranno altro che il muro della loro cella per tanto tempo, puoi stare tranquillo. Sei al sicuro, Simo, sei al sicuro."

Simone annuì appena e si aggrappò a Manuel con le braccia, il suo rifugio.

"Li sentivo ridere e parlare di me e non mi sono mai sentito così umiliato. Tra le altre cose, ne hanno detto una che…che mi ha messo una gran paura. Credevo mi sarebbe successa una cosa orribile, non so neanche come dirlo."

Sentì gli occhi inumidirsi e deglutì, preso di nuovo da quella paura. Istintivamente si strinse a Manuel e Manuel, preoccupato, prese a baciarlo su tutto il viso per cercare di farlo stare meglio. Simone ebbe bisogno di parecchi baci prima di riuscire a parlare di nuovo e quando lo fece la sua voce tremava, rotta e spezzata dal pianto.

"Dicevano di voler...voler vendere il mio corpo. Che ero caruccio e che avrei potuto farli guadagnare molto…"

Esitò ancora un attimo, tirando su col naso.

"Non so se fossero seri o meno, ma non ho mai avuto così tanta paura in vita mia."

Manuel rimase pietrificato dall'idea che il suo Simone avesse dovuto sopportare tutto questo, dalla paura di cosa avesse rischiato e dallo schifo che gli facevano quei due mostri per cui adesso il carcere gli sembrava una punizione fin troppo leggera, ma si ridestò in pochi attimi perché Simone aveva cominciato a piangere e lui doveva fare qualcosa per farlo stare meglio. Si mise seduto e lo tirò delicatamente su, nella stessa posizione, portando un braccio intorno al suo busto e l'altra mano fra i suoi capelli, accarezzandoli piano.

Simone incastrò il viso nell'incavo della spalla di Manuel e si aggrappò a lui, cercando un punto fermo tra i singhiozzi che lo scuotevano, lasciandosi andare ad un pianto liberatorio che aveva trattenuto troppo a lungo.

"Sei al sicuro, sei al sicuro…"

Quella era l'unica cosa che, secondo Manuel, aveva senso dirgli e allora gliela sussurrò all'orecchio ancora e ancora, mentre piangeva insieme a lui.

In fin dei conti, erano due ragazzini spaventati che trovavano coraggio e conforto l'uno nell'altro. Piansero finché ne ebbero bisogno, ma anche dopo aver pianto tutte le loro lacrime non sciolsero il loro abbraccio, perché era quello il posto in cui si sentivano meglio.

"Ti ho bagnato tutta la maglia…"

Biascicò Simone, sollevando leggermente il capo. Manuel, con un gesto gentile, glielo fece poggiare di nuovo sulla spalla, fregandosene del resto e l'altro ragazzo sorrise appena, recependo il messaggio.

"Mi fa piacere che me l'hai raccontato, sai?  Cioè, ovviamente avrei preferito che non avessi niente da dirme, però te fa bene non tenerte tutto dentro. Però adesso c'è un'altra cosa che devi fa'..."

Sussurrò Manuel, posando un bacio tra i ricci scuri ed arruffati di Simone.

"Che cosa?"

Domandò l'altro con voce roca a causa del pianto, stringendosi un po' di più nell'abbraccio.

"L'ispettore Liguori mi ha detto di dirti che vorrebbe parlarti, non appena ti sentirai pronto. Questa cosa che hai raccontato a me, devi dirla anche a lui, insieme a tutto il resto che Sbarra ti ha fatto passare. Vuole sapere tutto sulle ultime due settimane, io gli ho detto quello che potevo, ma la tua versione è fondamentale, lo capisci, no?"

Manuel sapeva bene che non gli stava chiedendo una cosa facile, che probabilmente Simone avrebbe soltanto voluto lasciarsi alle spalle questa storia, ma per farlo era necessario presentare tutte le accuse possibili contro quell'uomo che aveva portato tanto dolore nelle loro vite.

Simone si aspettava che la polizia lo avrebbe interrogato, prima o poi, quindi quella richiesta non lo sorprese più di tanto. Fu un'altra cosa, invece, a fargli sgranare gli occhi per lo stupore.

"Due…due settimane? Sono rimasto lì dentro per due settimane?"

Mormorò incredulo, sollevando la testa per guardare Manuel in faccia. Aveva perso il conto dei giorni trascorsi in quello stanzino buio e afoso, che per lui erano quindi diventati infiniti, ma aveva pensato che si trattasse soltanto di una sua sensazione. La certezza di aver vissuto per quattordici giorni immerso nel buio, lontano dalle persone più care, con la continua paura di non farcela, lo colpì in pieno petto.

Manuel sentì il proprio cuore spezzarsi alla vista di quegli occhioni sbarrati e impauriti come quelli di un cerbiatto in tangenziale e di nuovo avvertì i morsi della colpa alla bocca dello stomaco. Aveva lasciato Simone da solo per troppo tempo, tanto che ne aveva perso il conto.

"Scusami Simo', avrei dovuto dirtelo come prima cosa, hai ragione. Come…come ti senti, ora che lo sai?"

Domandò, titubante. Se avesse potuto, sarebbe tornato indietro nel tempo per restituirgli quelle due settimane, ma ora come ora poteva soltanto lavorare sugli effetti di quella notizia. Era deciso a far sentire meglio Simone a tutti i costi.

"Beh, sono…sono piuttosto sorpreso, a dire il vero, non pensavo fosse passato tutto questo tempo…è la metà di quello che abbiamo vissuto da fidanzati, se ci pensi."

Fu il suo lato matematico a tirare fuori quel veloce calcolo, ma non lo presentò con la stessa allegria, lo stesso orgoglio, di quando mostrava alla professoressa un esercizio svolto correttamente alla lavagna. Due settimane, razionalmente, non sono praticamente nulla per un ragazzo che ha ancora tutta la vita davanti, eppure l'idea di averle perse per sempre gli lasciava un sapore amaro in bocca, quello del rammarico.

Manuel, di fronte alla prospettiva che il suo fidanzato gli aveva presentato, percepì lo stesso amaro sapore che andò ad unirsi a quello aspro della colpa, perché era soltanto colpa sua se entrambi avevano perso quei giorni. Simone però gli sorrise e gli posò un bacio in mezzo agli occhi costernati, lasciandolo sorpreso.

"Devi fare due cose per me, Manuel, per favore."

"Tutto quello che vuoi, Simo, lo sai."

Rispose, pronto anche a prendergli la Luna dal cielo, se gliel'avesse chiesta. Simone gli fece una carezza sul viso, riconoscente.

"La prima è che devi chiedere all'ispettore di venire qui domani, voglio dirgli tutto il prima possibile. La seconda, se non ti scoccia, è di andare a casa a prendere il Monopoli. Vorrei recuperare un po' di queste giornate perdute e passare un po' di tempo tutti insieme mi sembra un ottimo modo, no?"

Anche Manuel, a questo punto, si concesse il lusso di un sorriso. Lo baciò a fior di labbra, entusiasta.

"No che nun me scoccia, Simo', sei un genio pure tu! Io direi anche di finirce quel gelato, eh?"

"Mi sembra perfetto, sì."

Gli occhi di Simone brillavano euforici e tanto bastò a Manuel per saltare giù dal letto e infilarsi rapidamente le scarpe. Per prima cosa avvisò Claudio e Domenico, poi, dopo aver salutato adeguatamente il proprio ragazzo, filò a recuperare il gioco richiesto, non prima di aver detto al resto della famiglia che Simone si era svegliato -omettendo da quanto fosse sveglio in realtà- e che potevano andare a fargli compagnia mentre lui andava in ‘missione speciale per conto de Simone’.

In poco tempo si trovarono tutti intorno al suo letto, intenti a mangiare gelato e a litigare giocosamente su vie e vicoletti, casette colorate e soldi finti.

"Oh, hai visto? Li abbiamo stracciati!"

Commentò Manuel dopo la partita, euforico per la recente vittoria, mentre si stendeva accanto a Simone, il quale ridacchiò divertito per il suo entusiasmo. Era stata una serata bellissima, piena di gioia e di sorrisi, di cui tutti avevano un gran bisogno.

"Tu ci hai stracciati, Manuel. Io ho perso."

Manuel arricciò il naso, in un'espressione di disappunto.

"No Simo', te l'ho detto pure prima. Siamo associati, se vinco io vinci pure te!"

Simone sorrise, non potendo che concordare con Manuel. Pensò anche a quanto fosse vero anche l'inverso: se uno dei due perdeva, perdeva anche l'altro; se uno dei due soffriva, allora soffriva anche l'altro. L'amicizia ti permette di essere felice per la gioia di un amico o di soffrire per il suo dolore, l'amore, invece, ti fa gioire della stessa felicità e soffrire dello stesso dolore, perché due metà si uniscono e tornano ad essere un tutt'uno.

Il suo sorriso, allora, si velò di quella malinconica realizzazione, che tuttavia non lo rese più triste, solo più consapevole. Portò una mano sulla guancia di Manuel e l'altro subito posò la propria mano sulla sua per ricambiare la carezza, notando i pensieri dietro il sorriso.

"A che pensi, Simo?"

"Penso che, se fossi stato un po' più saggio, avrei accettato subito la tua proposta di formare una società."

Manuel ripensò a quel momento e fece una risatina. Aveva bisogno di soldi, come sempre, ma questa motivazione non rendeva meno strano il fatto che si fosse rivolto ad un ragazzo con cui non faceva altro che provocarsi e picchiarsi, l'unica persona in tutta la classe che gli stava proprio sul cazzo. Avrebbe potuto fare la stessa proposta a Giulio, ad esempio, un altro dei secchioni della classe, eppure no, aveva scelto proprio Simone, come se qualcosa dentro gli dicesse di potersi fidare solo di lui, nonostante tutti i litigi.

"Saresti stato un incosciente, altro che saggio: avresti dovuto fare tutto il lavoro tu e darmi pure una bella parte, hai fatto bene a non accetta'. Poi non facevamo altro che menarce, non c'erano proprio le basi. Perché lo stavi a pensa', comunque?"

Razionalmente il discorso di Manuel non faceva una piega e, razionalmente, Simone concordava con lui: non c'erano fondamenta solide su cui costruire una società, eppure loro due erano andati ben oltre. Quelle litigate, quelle provocazioni, quel continuo arrivare alle mani si erano trasformati in un'amicizia, contro qualsiasi previsione, e poi in amore, un amore che aveva trovato il terreno giusto in cui crescere e svilupparsi. Non c'era una spiegazione razionale a quel cambiamento così netto, così repentino, e a Simone, per una volta, andava più che bene mettere da parte la razionalità ed accettare la soluzione di un problema anche se il procedimento fatto per arrivarci era assurdo e andava contro ogni regola.

"Lo stavo pensando perché prima di te non ho mai avuto davvero nessuno, anche quando stavo con Laura mi sentivo solo. Non mi sentivo compreso, ma al tempo stesso non facevo nulla per aprirmi, avevo paura di mostrare agli altri i miei dubbi, le mie insicurezze, perché temevo che o avrebbero continuato a non capirmi o sarebbero scappati. Ho sempre preferito cavarmela da solo, sono cresciuto così, ci avevo fatto l'abitudine…"

Simone parlava sereno, non c'era traccia di turbamento nella sua voce o sul suo viso, perché tutta quella solitudine era passata. Ciononostante, Manuel sentì il bisogno di interrompere il suo racconto con un bacio a fior di labbra, perché lui adesso era lì, anche se era arrivato in ritardo, e non se ne sarebbe più andato.

"Non sei più solo, ce sto io qua accanto a te. Me spiace, ma non ti libererai facilmente de me! Rimpiangerai i tempi in cui ce menavamo, fidate."

Mormorò Manuel con tono scherzoso e occhi solenni e Simone fece una risatina che poi si trasformò in un sorriso grato. Spostò la mano che ancora gli accarezzava la guancia tra i suoi capelli, per ringraziarlo con i grattini che tanto gli piacevano.

"Questo non accadrà mai, fidati tu. Stavo giusto dicendo che da quando sei entrato in classe e di conseguenza nella mia vita, ho avuto qualcuno con cui condividere gioie e dolori ed è bello, tanto bello. So che ti dà fastidio quando lo faccio, ma per stavolta devi lasciarti ringraziare."

Manuel fece una risatina, annuendo leggermente. Anche lui aveva imparato a non poter contare su nessuno, se non su sua madre, che però aveva già troppo a cui pensare, a doversela cavare da solo. Anche quando stava con Chicca non le raccontava mai dei suoi problemi, non di quelli più seri almeno, non si apriva nemmeno con la ragazza che diceva di voler sposare: anche lui aveva paura di venire abbandonato da quelle poche persone con cui aveva un minimo di rapporto. Simone però non rientrava nella categoria, con lui era diverso: aveva fatto delle cazzate che avevano rischiato di farglielo perdere -l'ultima aleggiava ancora tra loro-, eppure erano lì, ancora insieme, a coccolarsi in un letto che anche se era di un ospedale andava più che bene lo stesso. A tale proposito, salì con la mano sul petto dell'altro, più o meno al centro, e prese a muoverla piano, in lente carezze.

"Te lo lascio fare soltanto perché devo ringraziarti anch'io, per gli stessi identici motivi. Hai ragione, è tanto bello ave' qualcuno accanto, e non un qualcuno qualsiasi, di cui ti accontenti per mille motivi e che poi domani nun ce sarà più, ma qualcuno che sai che resterà domani e dopodomani…"

Simone sorride teneramente.

"E il giorno dopo ancora e quello ancora dopo…"

Anche Manuel sorrise, con altrettanto affetto.

"Fino a quando nun ce saranno più giorni e ancora oltre."

Sussurrò, dandogli quella promessa mentre lo guardava negli occhi.

"Fino a quando non ci saranno più giorni e ancora oltre."

Ripeté Simone, a voce altrettanto bassa, mantenendo gli occhi nei suoi. Si sorrisero dolcemente e, senza dirsi altro, si lasciarono conquistare dal sonno, consapevoli che l'indomani si sarebbero ritrovati di nuovo.

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Capitolo 17
*** Guarire le ferite anche senza dare punti ***


"Simo?"

Sussurrò Manuel, facendogli una carezza tra i capelli. Lui si era svegliato qualche minuto prima, complice un raggio di Sole che entrava dalla finestra -che comunque non aveva niente a che vedere con l'astro che invece gli splendeva accanto-  e aveva seriamente valutato di tornare a dormire, ma poi aveva dato un'occhiata all'orario sul cellulare e aveva capito che non ne sarebbe valsa la pena.

Simone, dal canto suo, sembrava invece intenzionato a dormire ancora e rispose con un mugolio infastidito, facendo ridacchiare di tenerezza l'altro ragazzo.

"Me dispiace, ma te devi sveglia', pigrone! Tra poco ti portano la colazione e in più abbiamo un sacco di cose da fare."

Simone sbuffò, tirandosi il lenzuolo fin sopra la testa anche se faceva caldo. Manuel, trattenendo a stento una risata, si infilò con lui lì sotto e si avvicinò al suo viso ancora rilassato dal sonno. Lo fissò per qualche istante come si fissa una cosa bella, semplicemente incantato come se lo vedesse per la prima volta in vita sua.

"Quanto sei bello, Simo'. Bello da togliere il fiato."

Disse a bassa voce, prima di annullare la poca distanza tra loro per posare tanti piccoli baci sulla pelle calda della sua fronte. Ad ogni bacio, Simone si sentiva sempre più in estasi, come in un sogno bellissimo che però era completamente reale.

"Tu sei bello, tanto bello."

Bofonchiò con voce impastata, mentre sorrideva per i bacetti, ancora ad occhi chiusi.

"Ah, te sei svegliato…"

Commentò l'altro, divertito, smettendo solo per un attimo di baciarlo prima di ricominciare, stavolta sulla guancia.

"No, parlo nel sonno."

Replicò Simone con sarcasmo, in effetti più addormentato che sveglio. Manuel fece una risatina sulla sua pelle, tra un bacio e l'altro.

"Ho capito, vediamo che posso fa'..."

Mormorò con una punta di malizia, spostandosi subito dopo sulle sue labbra. Prima vi posò un bacio leggero, come a voler sondare il terreno, e poi le prese tra le proprie, senza fretta, per far svegliare Simone piacevolmente.

Simone era abbastanza sveglio da poter rispondere al bacio, ma non abbastanza da poter coordinare con precisione ciò che faceva e perciò la sua risposta fu lenta e impacciata, almeno in un primo momento, ma a Manuel sembrò comunque il bacio più bello dell'universo.

Fu Simone ad approfondire quel contatto, sfiorando con la propria lingua le labbra di Manuel il quale, piacevolmente sorpreso, si adeguò ben volentieri a quel nuovo ritmo, decisamente meno pigro.

"Mo’ non puoi di' che stai ancora dormendo…"

Commentò Manuel, quando si separarono per riprendere fiato. Simone ridacchiò e finalmente aprì gli occhi, che subito abbracciarono quelli di Manuel. Erano ancora molto vicini e le punte dei loro nasi si toccavano.

"Non posso dirlo, no, però mi fai venire voglia di tornare a dormire soltanto per essere svegliato di nuovo così!"

Sollevò una mano per accarezzare una guancia di Manuel, affettuoso, mentre lui rideva per la sua risposta.

"Guarda che non hai bisogno di farti svegliare per farti dare tutti questi baci, eh…"

Per sottolineare il concetto, posò le labbra sulla punta del naso di Simone, che lo arricciò in un'espressione tenerissima agli occhi di Manuel.

"Poi sinceramente avrei preferito lasciarti dormire, ma tra poco ti portano la colazione e ti saresti svegliato lo stesso. Ho pensato che così, magari, era un po' più piacevole…"

Simone annuì appena, sorridendo a trentadue denti. Manuel non smetteva mai di stupirlo, con le sue premure.

"E hai pensato benissimo."

Si sporse a dargli un bacio sulle labbra, senza smettere di accarezzargli la guancia. Dall'altra parte della porta l'ospedale era già in pieno fermento, ma ogni suono arrivava ovattato lì, nel loro piccolo bozzolo.

"Ti prometto che appena torniamo a casa, te lascio dormi' fino a mezzogiorno. Ne hai bisogno."

Sussurrò Manuel, accarezzandogli un fianco. L'immagine di Simone svenuto nello stanzino di Sbarra, come lo aveva trovato, che non riusciva nemmeno a fare un passo da solo perché gli mancavano le forze e che aveva le vertigini a causa della fame e della sete era ancora troppo nitida nella sua mente, tanto da coprirgli quella che aveva davanti agli occhi.

"Ma se io dormo fino a mezzogiorno, tu quando studi?"

Ribatté Simone con una punta di sarcasmo. Si era accorto che Manuel, seppur avesse gli occhi puntati su di lui, non lo stava realmente guardando, distratto da un'immagine nella sua mente che poteva immaginare benissimo anche lui. Lui però non era più il ragazzo debole ed esausto di qualche giorno prima, si sentiva ancora stanco e certamente aveva molto riposo da recuperare, questo sì, ma non voleva che Manuel -seppur a fin di bene, lo capiva- lo vedesse soltanto come una specie di fragile bambola di porcellana e allora, per dimostrargli che non lo era, lo baciò di nuovo, con foga, prima che potesse rispondere.

Manuel fu travolto da quella passione come una barca dal mare in tempesta, ma a differenza della barca a lui essere travolto piaceva e pure parecchio. Soltanto quando quel mare si decise a tornare sereno, dopo avergli dato prova della sua forza, riuscì a parlare.

"Te nun te preoccupa', studio pure mentre dormi, te lo giuro."

Simone era forte e questo Manuel non l'aveva mai messo in dubbio. Forte in senso fisico, certamente, -del resto era pur sempre un giocatore di rugby-, ma soprattutto dal punto di vista emotivo. La forza di Simone stava nel suo grande cuore, nella sua smisurata capacità di provare sentimenti, ed era solo grazie a questo se, nonostante il suo corpo avesse dato segni di cedimento, adesso era lì con lui.

Tuttavia, il fatto che Simone fosse forte non voleva dire che non avesse bisogno di riposare, di farsi delle dormite lunghissime in un letto vero, insomma di prendersi del tempo per rimettersi totalmente in sesto e Manuel avrebbe fatto del suo meglio e anche di più affinché ciò accadesse.

"Non lo metto in dubbio, ma questa soluzione non mi piace: ti ho promesso che ti avrei aiutato a studiare tutta l'estate e non voglio rimangiarmi la promessa. E poi hai bisogno di riposare anche tu, non dirmi che non è vero. Posso farti un'altra proposta?"

Chiese Simone, sorridendogli dolcemente mentre con il pollice gli faceva una leggera carezza sotto un occhio, poco sotto una delle occhiaie violacee che inequivocabilmente indicavano quanto poco e male avesse dormito Manuel, a sottolineare le sue parole.

Manuel annuì, abbozzando un sorriso.

"Facciamo che andiamo a dormire un po' prima, così riposiamo entrambi e non buttiamo mezza giornata. Tanto senza di te non dormirei comunque bene…"

Manuel lo baciò a fior di labbra, in segno di approvazione. Non fu difficile farsi convincere.

"Sì, va bene, annamo a dormi’ co' le galline."

Simone ridacchiò e Manuel un attimo dopo insieme a lui.

"A proposito de compiti, ti ricordi quegli esercizi di matematica che mi avevi detto di fare? Li ho fatti, ma ce ne stanno un paio che non me riescono proprio!"

Si lamentò, accompagnando il tutto con uno sbuffo di frustrazione.

Simone conosceva bene quell'espressione corrucciata, gli faceva sempre nascere un sorriso intenerito sulla bocca e anche questa volta non fece eccezione.

"Ho portato il quaderno, dopo se ti va…"

Continuò, ma Simone non gli diede il tempo di terminare la sua richiesta.

"Li guardiamo insieme, non ti preoccupare."

Lo rassicurò, con gli occhi che già brillavano incuriositi per la sfida che avevano davanti e la felicità di poter far proprio un altro angolo di normalità.

"Come farei senza de te, Simo'..."

E ovviamente non si riferiva solo allo studio.

"Non ci pensare, perché io sono qui."

E, ovviamente, anche lui non si riferiva solo allo studio. Gli diede un bacio a fior di labbra, proprio mentre sentirono la porta aprirsi.

"È permesso? Si può?"

Domandò il dottor Bonvegna, con voce bassa ma allegra come sempre.

Manuel trattenne Simone ancora per un istante, per dargli un altro bacio prima di liberare entrambi dal bozzolo di coperte. Simone sorrise per quel bacio e poi si voltò verso il medico, che portava con sé un vassoio.

"Buongiorno!"

Esclamò allegro e Manuel lo imitò, allegro a sua volta.

"Dormito bene, ragazzi?"

Chiese, avvicinandosi al letto per posare la colazione sul comodino.

"Sì, grazie. Tu?"

Domandò Simone, cordiale, e Riccardo rispose scrollando le spalle.

"Ho dormito."

Si schiarì la voce.

"Mi sono permesso di portarvi una colazione un po' diversa da quella di ieri…"

Aggiunse con l'aria di chi voleva cambiare discorso, mentre sistemava sul tavolino davanti a Simone delle bottigliette di succo di frutta e delle buste di carta da cui proveniva un meraviglioso odore di cornetti caldi e in cui Manuel sbirciò immediatamente, attirato proprio da quel profumo.

"Allora mi hai ascoltato! Guarda Simo', non sei più all'ospizio!"

Esclamò, mostrando trionfante il contenuto delle buste all'altro ragazzo, il quale alla vista dei cornetti si illuminò come un bambino. Riccardo fece una risatina intenerita.

"Grazie, Riccardo, non ti dovevi disturbare…"

Cominciò a dire Simone, ma il medico lo fermò con un cenno della mano.

"No, no, no, non iniziate con i ringraziamenti, non servono. E poi li ho presi perché devo fare colazione anch'io!"

Così dicendo prese una delle buste e una bottiglietta, e con un gesto spronò i due ragazzi a fare lo stesso.

Manuel non se lo fece ripetere una seconda volta: aprì una bottiglia di succo e prese un cornetto, avvicinandoli a Simone. Solo quando il suo ragazzo cominciò a mangiare, si preoccupò di pensare a se stesso.

"Oh, è bono!"

Commentò a bocca piena, dopo aver dato un bel morso al suo cornetto al cioccolato. Riccardo lo ringraziò con un cenno del capo, mentre Simone lo guardò divertito, notando che nella foga gli era finito dello zucchero a velo sulla punta del naso.

"Mh? Che è sta faccia, Simo'?"

Domandò incuriosito, accorgendosi della luce furbetta negli occhi dell'altro, che però fece spallucce.

"Niente, è la mia faccia. Vuoi un po' del mio? È alla crema ed è buonissimo."

Manuel annuì, avvicinandosi a dare un morso al cornetto dell'altro. Un istante prima di farlo, però, si voltò repentinamente a dargli un bacio a stampo, leccandosi poi le labbra.

Simone, che non si aspettava una mossa del genere, arrossì fino alla punta delle orecchie e Manuel non fu da meno, anche se era stata sua l'idea. Era un imbarazzo bello, però.

"Hai ragione, è proprio buono."

Mormorò guardando Simone negli occhi, ricambiato.

"Anche il tuo lo è."

Sussurrò l'altro, un po' impacciato, prima di tornare a mangiare.

Riccardo, che aveva assistito alla scena, nascose un sorriso intenerito e uno sguardo malinconico in un sorso di succo.

"Allora ragazzi, visto che qui mi sembra che abbiamo finito, direi che è ora del bagno. Simone, tu sei d'accordo?"

Domandò cordiale il medico, dopo diversi minuti, rivolgendo al suo giovane paziente un sorriso d'incoraggiamento.

Simone fece un profondo respiro e poi annuì, accennando un sorriso. Non avrebbe reagito come il giorno precedente, non questa volta.

Manuel gli fece una carezza tra i capelli e poi scese giù dal letto, accompagnando Riccardo a prendere tutto l'occorrente per lavare Simone. Cominciava ad avvertire una certa ansia, nella forma di un peso alla bocca dello stomaco che nulla aveva a che vedere con la colazione, all'idea di sbagliare qualcosa.

"E se gli faccio male?"

Domandò preoccupato a Riccardo, sulla via del ritorno.

"Simone c'ha una gamba rotta, sarà pieno de lividi... forse non è una buona idea."

Si fermò nel mezzo al corridoio e rivolse al medico uno sguardo ad occhi sbarrati, carico d'apprensione. Simone aveva già sofferto abbastanza e lui non voleva essere causa di ulteriori dolori, non se lo sarebbe mai perdonato.

"Tranquillo, Manuel, a meno che tu non voglia prendere Simone a schiaffi, cosa di cui dubito fortemente, non gli farai male. Lavalo come faresti con te stesso e andrà tutto bene, l'importante è non fargli muovere la gamba. Poi ci sono io, non ti preoccupare."

Manuel annuì, anche se poco convinto, riprendendo a camminare.

"Se faccio cazzate fermami, te prego."

Riccardo lo assecondò annuendo, ma era sicuro che proprio per tutta questa preoccupazione, Manuel non avrebbe fatto cazzate.

"Vedrai che non ce ne sarà bisogno."

Rientrarono nella stanza numero quindici dopo pochi minuti e Simone sorrise quando li vide, soprattutto in direzione di Manuel. Gli era estremamente grato per aver pensato a quella soluzione.

"Ok Simone, noi qui siamo pronti. Posso dare un'occhiata alla gamba, prima di cominciare?"

Il ragazzo annuì e lo lasciò fare, preferendo però concentrarsi su Manuel, che si stava strofinando le mani come faceva sempre quando era nervoso per qualcosa.

"Hey, tutto bene?"

Manuel, perso nei suoi pensieri, ebbe un leggero sussulto quando si sentì parlare. Si schiarì la voce e poi annuì.

"Sì, sì, stavo solo...no, niente."

Fece un gesto vago con la mano e poi si grattò distrattamente una guancia, sforzandosi di accennare un sorriso. Simone, però, lo conosceva fin troppo bene e non si bevve la sua flebile risposta.

"A me sembra che qualcosa ci sia, invece. Dai, Manuel, tanto lo so che riguarda me."

Sussurrò, facendogli cenno di avvicinarsi. Quando l'altro avanzò, gli prese una mano per dargli coraggio. Manuel buttò fuori un sospiro, decidendosi a parlare.

"È che nun te voglio fa' male e nun te voglio mette a disagio, tutto qua. Ci hanno già pensato altre persone e non voglio fini' sulla loro stessa lista."

Mormorò, accarezzando la mano del suo ragazzo per sfogarsi. Simone sorrise con affetto al suo dolce e premuroso Paperotto, che non aveva alcun motivo per temere cose simili.

"Tu, su quella lista, non sei nemmeno all'ultimo posto. Non c'è nessuno che sappia toccarmi con la tua stessa delicatezza e quindi no, non mi farai male."

Si portò la mano di Manuel sul viso per farsi fare una carezza e dimostrargli così sia quanto amasse il suo tocco, sia quanto fosse morbido e delicato.

"E poi sei il mio fidanzato, non mi vergogno a farmi lavare da te, non sarebbe nemmeno la prima volta."

Aggiunse, facendo poi un sospiro.

"Solo...ti avviso che ho lividi ovunque e la vista non è delle migliori. Non ti spaventare, ok?"

Manuel gli sorrise mestamente e si chinò a dargli un bacio sulla fronte. Lo aveva immaginato, quindi in un certo senso era pronto, ma sapeva anche che vedere dal vivo quei lividi sarebbe stato devastante.

"Ti fanno male?"

Sussurrò, perché quella era la sua unica preoccupazione. Avrebbe potuto dirgli che gli dispiaceva, ma non voleva mettere se stesso al primo posto, chiedendo implicitamente rassicurazioni che Simone non avrebbe esitato a dargli. Ciò che contava di più era sapere che lui stesse bene.

Simone scosse il capo, approfittando della vicinanza dei loro volti per accarezzargli una guancia. In quegli occhi scuri e bellissimi vedeva un senso di colpa che li rendeva malinconici e che avrebbe voluto strappare via, ma non sapeva come.

"No, non tanto, solo se ci premo forte."

Gli disse abbozzando un sorriso, che Manuel accarezzò con il pollice.

"Ti prometto che farò piano, ma se te faccio male dimmelo subito."

"Va bene, te lo dico, però, Manuel...non è colpa tua, hai capito? Non è colpa tua se sto così."

Replicò Simone, sollevando poi leggermente il capo, quanto bastava a farlo toccare con quello di Manuel. Si erano promessi di guardare insieme al presente e al futuro, ma sapeva bene che le ferite causate dai sensi di colpa impiegano molto tempo a guarire e che non smettono mai di sanguinare del tutto.

Manuel non poté fare altro che lasciare che quelle parole impregnassero il proprio cuore come una pomata, commosso ancora una volta dal modo in cui Simone gli aveva dimostrato di sapergli leggere nell'animo anche quando lui tentava di nasconderlo.

"Posso solo prometterti che mi prenderò cura dei tuoi lividi, adesso, e che farò di tutto per evitartene altri, in futuro."

Sussurrò con affetto, andando subito a suggellare la promessa con un bacio morbido sulle labbra dell'altro. Simone sorrise in quel bacio e annuì con decisione.

"Te lo prometto anch'io, Manuel. Gli unici segni che voglio sulla mia pelle e che voglio lasciare sulla tua sono quelli delle nostre labbra."

Soffiò piano, arrossendo per le sue stesse parole. Anche Manuel, che non si aspettava quella risposta, si sentì avvampare le guance.

"Oh, guarda che ce sta anche il dottor Bonvegna."

Gli ricordò, accennando con il capo verso la sua direzione. Il medico, che stava controllando la fasciatura della gamba di Simone, fece una risatina complice.

"Se volete vi lascio soli, eh."

Manuel sollevò il capo di scatto, per guardarlo allarmato.

"Non se ne parla! Tu me servi qua, me devi di' che devo fare! Anzi, cominciamo…"

Tornò a voltarsi verso Simone.

"Sicuro che per te va bene?"

E Simone, pazientemente, annuì per confermargli ancora una volta la propria decisione e intanto ridacchiava per la sua reazione.

"Sono sicurissimo, Manuel. Sarai un ottimo infermiere."

"Lo penso anch'io!"

Esclamò allegramente Riccardo, allontanandosi di qualche passo per dare spazio al ragazzo.

Manuel fece un profondo respiro e afferrò, con le mani un po' tremanti, gli estremi del nodo che teneva chiuso il camice di Simone sul retro.

"Questo, allora, te lo levo?"

Domandò, a costo di fare una domanda stupida. Voleva essere sicuro che Simone fosse assolutamente pronto, non voleva mettergli fretta. Simone sorrise dolcemente a quella premura, per lui quella domanda non era affatto stupida.

"Non posso lavarmi vestito, no? Sto bene Manuel, vai tranquillo."

Si guardarono negli occhi per qualche istante, dandosi sostegno a vicenda, e quando Manuel tirò il filo, i due lembi del camice si aprirono quasi come il sipario di un teatro, lasciando scoperta la schiena di Simone.

“Puoi iniziare così e dopo glielo togli. Ah, e non ti preoccupare di bagnare le lenzuola, dopo gliele faccio cambiare.”

Propose Riccardo, avvicinando la bacinella e il panno morbido che Manuel avrebbe dovuto usare. Il ragazzo annuì, intanto che versava un po’ di sapone sul panno e lo bagnava.

Simone teneva lo sguardo fisso su di lui, attento, ma nei suoi occhi non c’era il minimo accenno di timore. Si fidava di lui.

“Ok Simo’, fatte un po’ in avanti, ti tengo io.”

Così dicendo, Manuel portò un braccio intorno al suo busto per sostenerlo mentre l’altro si piegava. Non che ne avesse realmente bisogno, Simone non era così debole da necessitare di qualcuno che lo reggesse mentre se ne stava semplicemente seduto, ma Manuel lo faceva per dirgli che gli stava vicino e che lo sosteneva, e lo faceva anche per se stesso, perché aveva bisogno di un appiglio.

Simone era ben felice di sentire il braccio di Manuel intorno a sé, di sentire la sua presa salda che lo teneva ancorato in quel mondo sicuro, quel mondo fatto di luce e non di buio a cui non si era ancora riabituato del tutto. Chiuse gli occhi quando sentì il panno tiepido sulla propria pelle, liberando un sospiro.

“Tutto bene, Simo? È troppo calda? Troppo fredda?”

Domandò Manuel, immobilizzandosi all’istante. Simone ridacchiò tra sé e sé.

“Troppo tiepida?"

Lo prese in giro, ma solo per fargli capire che fosse tutto a posto.

"Non ti preoccupare, è perfetta. Sono solo felice.”

Aggiunse, e Manuel sorrise, più rilassato: se Simone era felice, allora lo era anche lui. Riprese immediatamente a lavarlo, facendo scivolare su e giù il panno sulla schiena di Simone con cura e attenzione, la stessa che metteva nelle sue carezze. Muoveva il proprio braccio lentamente, in modo che Simone potesse godersi il momento e rilassarsi senza pensare ad altro. Non c’era fretta nel loro mondo sicuro.

Simone, di tanto in tanto, si lasciava andare in qualche mugolio gutturale, come solitamente accadeva quando lui e Manuel si coccolavano nella loro stanza in quei momenti che riservavano solamente a loro stessi. Non erano soli in quella camera d’ospedale e normalmente si sarebbe trattenuto, ma stava così bene in quel momento che si ricordò della presenza del dottor Bonvegna soltanto una volta riaperti gli occhi, quando Manuel prese a tamponargli un asciugamano sulla schiena per asciugarlo, e sentì le guance farsi un po’ più calde, anche se non si vergognava di aver esternato il suo apprezzamento per le attenzioni del proprio ragazzo.

Il medico gli fece un sorriso, incoraggiante.

“Come ti sembra questo infermiere?”

Domandò scherzoso e Simone ridacchiò, voltandosi verso Manuel.

“È il migliore del mondo.”

Manuel fece uno di quei suoi piccoli sorrisi imbarazzati, che sbocciavano solo in un angolo delle labbra, e con lo sguardo gli disse che era il solito esagerato. Simone, però, era molto sicuro della propria affermazione e glielo disse con un occhiolino.

“Sì, eh? Allora lo assumo, che dici?”

Replicò giocosamente il medico, ma prima che Simone potesse rispondere intervenne Manuel.

“Non se ne parla proprio! Senza offesa pe’ gli altri, ma non c’ho tempo pe’ loro. Io penso solo a Simone.”

Affermò con una decisione alleggerita soltanto dal suo sorriso giocoso, posando subito dopo un bacio sulla guancia del suo Simone, che ridacchiò teneramente e lo trattenne per la maglia, in modo da potergli dare un bacio sulla guancia a sua volta.

“Simone ringrazia.”

Sussurrò a poca distanza dal suo viso, lasciandolo andare subito dopo.

Riccardo osservò quella scenetta con occhi malinconici e un sorriso appena accennato, ma si sforzò di ignorare le fitte che avvertì nel vuoto che aveva al centro del petto da ormai quasi un anno per tornare a fare il suo lavoro, a concentrarsi sul suo paziente.

Non riusciva a capire come fosse possibile che qualcosa che non c’era facesse così tanto male e probabilmente non l’avrebbe mai capito, nonostante ormai avrebbe dovuto essere una specie di esperto, dal momento che non era la prima volta che perdeva una parte di sé.

La differenza, tuttavia, era sostanziale: quando gli avevano dovuto amputare una gamba, anni prima, gliene avevano data una artificiale –all’avanguardia, super resistente, che ai suoi occhi di ragazzino sembrò uscita da un film di fantascienza sui robot- che tutt’ora lo aiutava a colmare quel vuoto, mentre per Lorenzo, per il suo Lorenzo, non esistevano protesi.

"Fai bene a pensare solo a lui, è un ragazzo d'oro. Lo siete entrambi."

Commentò, sorridente.

"Ora, se Simone è asciutto, possiamo andare avanti, se se la sente."

Manuel annuì e, dopo essersi assicurato che sulla schiena di Simone non ci fosse nemmeno più una goccia d'acqua, accennò al camice con il capo.

 “Posso?"

Simone, in risposta, se lo sfilò da solo, in un gesto apparentemente banale, ma che non era scontato davanti alla persona che amava, dato che aveva temuto di non poterlo più fare. Spogliarsi davanti al suo ragazzo non era un problema per lui, anzi la sua presenza gli dava coraggio, abbastanza coraggio da farlo davanti anche ad un altro paio d’occhi che, per quanto gentili, erano comunque quasi del tutto sconosciuti.

Manuel, orgoglioso del coraggio dell’altro, lo premiò con un bacio sulla fronte e lo aiutò ad appoggiarsi allo schienale del letto, lasciando che la sua mano scivolasse poi sul suo fianco in una morbida carezza.

“Così ti faccio male?”

Sussurrò, mantenendo gli occhi fissi nei suoi, dove cercava il coraggio necessario ad abbassarli verso quella vista sgradevole di cui Simone lo aveva avvertito.

Simone scosse appena il capo, sollevando una mano a fargli una carezza sulla guancia. Il tocco di Manuel era come una coperta calda in una giornata fredda e come un venticello fresco in una giornata calda: dava sollievo allo stesso modo.

“No, anzi, mi fai bene."

Manuel sorrise imbarazzato, dopo essersi fatto sfuggire una risatina. Desiderava fosse vero, desiderava di poter guarire i lividi e la gamba rotta di Simone con un semplice tocco, ma era perfettamente consapevole di quanto vano fosse quel desiderio quasi infantile. Non poteva guarirlo, ma se Simone diceva che le sue carezze gli facevano bene, non avrebbe mai smesso di accarezzarlo.

"Però avvisami se le cose dovessero cambiare, marpione."

Gli ricordò per l'ennesima volta e Simone per l'ennesima volta annuì, con pazienza, dandogli poi un buffetto sulla guancia prima di distendere il braccio sul letto.

Manuel prese un profondo respiro e si decise infine a spostare lo sguardo dagli occhi di Simone, facendolo scivolare lentamente in basso, prima sul suo petto immacolato che si sollevava e abbassava ritmicamente e poi più giù, verso la pancia e ciò che vide gli mozzò il respiro in gola.

La pelle bianca di Simone era quasi del tutto scomparsa, coperta da grandi chiazze di un orribile giallastro tendente al verdognolo in alcuni punti e ancora violacee in altri, che per qualche strano gioco mentale il suo cervello associò al colorito degli zombie che si vedono nei film o nelle serie tv. Qui di finto però non c'era niente, c'era il suo Simone, vero, davanti ai suoi occhi, con i segni del dolore sul suo corpo ed era tutto fin troppo reale, cazzo.

Manuel strinse con forza il panno che ancora teneva in mano per puro bisogno di aggrapparsi a qualcosa, terrorizzato. Sì, perché quei lividi per lui non erano semplicemente un'immagine sgradevole a vedersi, come aveva detto Simone nel tentativo di non farlo allarmare, non provava del banale disgusto a guardarli, ma vera e propria paura, perché Simone gli sembrava spaventosamente fragile in quel momento e temeva potesse sgretolarsi davanti a lui da un secondo all'altro.

La sua testa gli diceva che, razionalmente, la gamba rotta era più grave, che se proprio doveva esserci qualcosa a spaventarlo doveva essere quella, ma il suo cuore batteva tanto più forte quanto più i suoi occhi indugiavano su quegli ematomi, forse perché li aveva provati sulla propria pelle.

Simone guardava preoccupato il suo ragazzo, che se ne stava a fissarlo senza nemmeno respirare. Si disse che gli aveva chiesto troppo, che aveva sbagliato a lasciare che lo vedesse in quello stato -anche se prima o poi l'avrebbe inevitabilmente scoperto-, ricordandosi di quanta paura aveva provato lui quando era Manuel quello pieno di lividi, quando il terrore di poterlo perdere per sempre si era impadronito di lui, tanto da spingerlo a girare quel breve video come monito.

Si sentì terribilmente in colpa per quello sforzo che, egoisticamente, gli aveva chiesto di fare e allora, senza dire niente, chiese aiuto con lo sguardo a Riccardo, nei cui occhi trovò un'apprensione molto simile alla sua.

Simone non poteva saperlo, ma anche Riccardo trovava molto facile immedesimarsi in Manuel. Cogliendo la richiesta d'aiuto del ragazzo, si avvicinò all'altro e gli mise una mano sulla spalla per riportarlo delicatamente alla realtà.

"Lo so che questi lividi sono molto brutti, ma l'ho visitato, ho visto le sue radiografie e ti garantisco che sono soltanto lividi. Non aver paura, dammi la mano, dai."

Gli disse dolcemente, porgendogli una mano. Manuel alzò gli occhi tremanti verso di lui, poi verso Simone e solo quando quest'ultimo gli sorrise si decise a dare la propria mano a Riccardo.

"Ti faccio vedere, anzi, sentire."

Così dicendo, Riccardo accompagnò la mano di Manuel sui lividi di Simone, facendola scivolare delicatamente sulla sua pelle. Manuel trattenne il fiato, era un gesto che aveva compiuto chissà quante volte, ma mai con la paura che Simone potesse mettersi ad urlare.

Simone, però, non provava alcun tipo di dolore in quel momento, anzi era felice di poter sentire la mano di Manuel su di sé, con quella delicatezza che gli era propria e che non sapeva di possedere. Ridacchiò perfino, a causa del leggero solletico che avvertì ad un certo punto, e Manuel ebbe un sussulto, credendo si trattasse di un verso di dolore, ma quando si rese conto che invece era una risata -una bellissima risata- si distese in un sorriso.

"Hai visto, Manuel? Sto bene, non mi fai male."

Mormorò tranquillo Simone, avvicinando una mano a quella di Manuel, che Riccardo lasciò prontamente andare. La prese nella propria e continuò a fargliela muovere sui propri lividi ancora per un po', poi la portò su, al centro del proprio petto. Lì, c'era il suo cuore che batteva felice.

"Lo volevi sentire, no?"

Manuel annuì, facendo una risatina, e prese ad accarezzarlo in quel punto.

"Lo sento. È bello."

Simone annuì, facendo a sua volta carezze sulla mano di Manuel.

"Adesso sei più tranquillo? Te la senti di continuare?"

Domandò, guardandolo con i suoi occhioni pieni d'affetto. Manuel sapeva benissimo che se gli avesse risposto che non ce la faceva e che preferiva continuasse Riccardo, Simone per amor suo lo avrebbe accettato, ma lui non voleva proporgli una cosa del genere. Gli aveva promesso che si sarebbe preso cura dei suoi lividi e non aveva alcuna intenzione di tirarsi indietro, anche se un po' di timore di sbagliare c'era sempre.

"Ce la faccio, non ti preoccupare."

Si chinò a dargli un bacio sulla fronte.

"Grazie per la pazienza, Cerbiattino."

Sussurrò e Simone sorrise.

"Grazie a te per l'affetto, Paperotto."

Mormorò a sua volta e si vide ricambiare il sorriso. Manuel, non volendo perdere altro tempo, bagnò di nuovo il panno, ci versò il sapone e prese a passarlo sul collo di Simone, poi sulle sue spalle e sul suo petto, ignorando per il momento la zona più delicata con i lividi.

I suoi movimenti erano precisi e circolari, forse un po' troppo simili a quelli che compiva quando puliva il pezzo di una moto portata a riparare, ma sicuramente più lenti e meno energici. Non si stava prendendo cura di un pezzo di metallo o di plastica, la parola d'ordine era delicatezza e Manuel si impegnava a metterla in ogni suo gesto.

L'attenzione e la dedizione che ci stava impiegando, però, erano le stesse che riservava alle moto, tanto che Simone riconobbe l'espressione concentrata che aveva avuto modo di osservare diverse volte nel suo garage e che lo rendeva ancora più bello: gli occhi scuri fissi sulle mani ne seguivano perfettamente il percorso senza mai distrarsi, le sopracciglia leggermente aggrottate rivelavano tutta la sua concentrazione, le labbra erano serrate perché le uniche parole che contavano in quel momento erano quelle dei pensieri e infine i ricci ribelli ricadevano sulla fronte, contribuendo a dare a Manuel l'aria di un artista all'opera sul suo capolavoro.

Deve essere così che si sentono le moto che ripara’, pensò Simone, ed era una sensazione indescrivibile.

Era bello, Manuel, ed era bello sentirsi  nelle sue mani, abbandonarsi alle sue cure che erano una cura per il suo corpo e per il suo spirito. Simone non si sentiva più un rottame tra i rottami, ma una motocicletta un po' malandata -si immaginò come la sua Vespa bianca- che grazie alle giuste attenzioni sarebbe tornata presto come nuova, libera di godersi le strade della città.

Tuttavia, a differenza di qualsiasi veicolo che fosse capitato nel garage di Manuel, aveva non solo il privilegio di poter osservare all'opera il suo artista delle moto, ma poteva anche fargli sapere quanto gli stesse facendo del bene e quanto gli fosse grato attraverso qualche sospiro rilassato che di tanto in tanto lasciava andare e il sorriso che non se ne andava via dalle sue labbra.

Manuel, a quei sospiri, perdeva momentaneamente la sua espressione concentrata -ma non la concentrazione!- e sorrideva.

"Va un po' meglio, Simo'?"

Domandò, alzando gli occhi affettuosi verso di lui.

"Non sai quanto."

Rispose a voce bassa, poco più di un sospiro, mentre con lo sguardo gli faceva una carezza che, seppur incorporea, arrivò perfettamente a destinazione.

"Potrei farci l'abitudine, sai?"

Aggiunse più scherzoso, scatenando una risatina in Manuel che, per dispetto, bagnò una mano nella bacinella e gli schizzò qualche goccia d'acqua in faccia. Simone gli rivolse un'occhiataccia per finta, trattenendo una risata per il solo dispetto di voler mantenere la facciata offesa, mentre Riccardo osservava divertito la scena. Gli faceva piacere vederli così rilassati, gioiosi, in quella bolla speciale che si creavano tutti gli innamorati e che cercava di non disturbare con la sua presenza.

"Ma sei impazzito?"

Si lamentò Simone, o almeno ci provò, dato che la sua voce tradiva divertimento. Manuel annuì con convinzione.

"Sì, sono impazzito così tanto che potrei lasciartela prendere, quest'abitudine."

Che poi, a dire il vero, lavarsi a vicenda era una cosa che facevano spesso, perché spesso finivano a farsi la doccia insieme. Non stavano insieme da molto, eppure l'affinità che c'era tra loro aveva reso naturale compiere quei piccoli passaggi che solitamente arrivavano con il tempo, quasi a voler bruciare le tappe, ma senza consumare il loro amore.

Manuel accompagnò la sua affermazione con un occhiolino e Simone pensò di voler tornare a casa il più presto possibile.

"Alza un po' le braccia, per favore."

Gli disse Manuel, facendolo tornare con i piedi per terra, e lui subito obbedì, lasciandosi lavare anche sui fianchi e sulle braccia.

Manuel, mentre lo lavava, fissò lo sguardo sul tatuaggio con la formula della relatività di Einstein e sorrise pensando a quella sera di tanto tempo prima, che era stata l'inizio di tutto: se Simone non avesse deciso di seguire il suo consiglio e di tatuarsi per diventare meno stronzo –‘Che consiglio stupido’, pensò, considerando che Simone era la persona più dolce del mondo- loro probabilmente non avrebbero mai smesso di menarsi alla prima occasione, sprecando una vita di felicità.

Simone, che non staccava lo sguardo da Manuel, notò che stava fissando il tatuaggio e sorrise a sua volta, attraversato dagli stessi pensieri dell'altro. Quel giorno, mentre rifilava a Laura una scusa assurda per non vedersi -povera Laura, quanto l'aveva fatta penare-, stava prendendo la decisione più importante della sua intera esistenza e nemmeno lo sapeva.

"Contempli il tuo capolavoro?"

Chiese, prendendolo un po' in giro. Manuel annuì, mettendosi a seguire il profilo delle lettere con l'indice.

"Capolavoro me pare esagerato, considerando che so' quattro linee, però devo di' che m'è venuto bene. Non ti ha dato problemi, vero? Non te l'ho mai chiesto…"

E un po' si diede del coglione per la sua noncuranza, per non essersi preoccupato di eventuali infezioni, per aver lasciato un segno indelebile sulla pelle di Simone senza preoccuparsi delle conseguenze.

Simone scosse il capo e, con l'indice della mano opposta, prese a seguire il dito dell'altro nel suo percorso su quelle righe nere che componevano la E.

"No, niente, ha solo pizzicato un po' per qualche giorno. Perché, ho rischiato qualcosa?"

Domandò ingenuamente, così come ingenuamente aveva scelto di farsi fare un tatuaggio senza nemmeno aver ben chiaro quali complicazioni potesse comportare. In quel momento, gli importava solamente passare un po' di tempo con quel ragazzo che improvvisamente gli interessava, anche se fino a poche ore prima avrebbe considerato una tortura trascorrere più di cinque minuti nella sua stessa stanza.

"Beh, c'è sempre un po' de rischio quando ce se fa un tatuaggio, anche se so' stato attento, eh. Solo che, delicato come sei, poteva farte un po' d'infezione…"

Rispose Manuel, mentre le loro dita procedevano parallele sulla M, distanti, per poi incontrarsi rapidamente nel punto di contatto tra la M e la C. Simone accennò un sorriso.

"Sono stato fortunato, allora. Il mio corpo ha accettato senza problemi il tuo tatuaggio e il tuo tatuaggio si è fatto accettare senza problemi."

Spiegò con un tono leggero, quasi fanciullesco, come se stesse raccontando una sorta di fiaba. Manuel, invece, lasciò andare un pesante sospiro.

"Il mio tatuaggio è stato più intelligente di me."

Mormorò, accennando poi un sorrisetto malinconico. Aveva fatto penare Simone in un modo che non si meritava e anche se adesso stavano insieme ed erano felici, di tanto in tanto ci ripensava.

"Manuel, dai, non ricominciare. È andata come è andata, su."

Replicò Simone, comprensivo, cercando di non fargli pesare il passato.

"No vabbè, figurati, m'è venuto in mente così, lo dicevo tanto per dire…"

Tagliò corto Manuel, che non voleva appesantire il momento. Simone però non si fece ingannare e prima che Manuel sollevasse l'indice dalla propria pelle, dato che ormai erano entrambi arrivati sul piccolo 2 in alto, lo afferrò con il proprio.

"A me non interessa che tu ci abbia messo del tempo a capire cosa provavi per me, va bene? Mi basta sapere che, come questo tatuaggio, resterai per sempre."

Manuel sorrise con gli occhi lucidi vedendo le loro dita e ricambiò la presa, aggrappandosi a sua volta. Alzò lo sguardo verso Simone, poi, e gli diede un bacio sulla fronte.

"Sempre, Simo', sempre."

Sussurrò, tornando a guardarlo negli occhi. Non riuscì a resistere dal posare un bacio anche sulle sue labbra prima di riprendere a lavarlo, stavolta più in basso, sui lividi. Faceva scivolare la stoffa sulla pelle di Simone con estrema delicatezza, quasi come se volesse solo sfiorarla, per evitare danni.

Simone lo guardava sorridendo tranquillo, sapeva di essere in buone mani.

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Capitolo 18
*** Sotto cieli un po' più veri, sai, potremmo riposare ***


"Quindi questo bel tatuaggio è opera tua, Manuel?"

Domandò incuriosito Riccardo, che si era avvicinato per dare un'occhiata al tatuaggio di cui avevano parlato. Manuel annuì meccanicamente senza nemmeno alzare lo sguardo, concentrato su ciò che faceva.

"Sì, però te vacce piano co' gli occhi, ché me consumi il tatuaggio e pure Simone!"

Esclamò, un po' scherzoso e un po' serio, facendo ridere Simone e ridacchiare Riccardo. Quest'ultimo si allontanò di qualche passo, con le mani sollevate in un plateale gesto di resa.

"Non sia mai!"

Si rivolse, allora, a Simone.

"E dimmi, come mai proprio la formula della relatività? Sei un fan di Einstein anche tu come me?"

Simone accennò un sorrisetto e si grattò una guancia, imbarazzato. Certo, a lui il pensiero di Einstein piaceva molto, ma non era esattamente quello il motivo principale per cui si era fatto tatuare.

"Beh...sì, anche. Però il soggetto non era poi così importante."

Riccardo si accigliò, confuso, e anche Manuel gli rivolse un'occhiata perplessa. A lui era sembrato che invece Simone ci tenesse molto a farsi proprio quel tatuaggio, quella sera.

Simone sospirò, rendendosi conto di essersi un po' dato la zappa sui piedi, ma non era poi chissà che tragedia, dal momento che non si vergognava a fare quella confessione.

"Ciò che volevo davvero era passare un po' di tempo con Manuel, conoscerlo meglio…"

Spiegò a bassa voce, con il volto addolcito da un morbido sorriso, mentre guardava Manuel negli occhi.

"Simo…"

Sussurrò lui con tenerezza, interrompendo ciò che stava facendo. Era lusingato, da una parte, ma dall'altra si chiese come avesse fatto a pensare che un perfettone come Simone Balestra potesse davvero volersi far fare un tatuaggio da lui, con cui litigava continuamente, tra l'altro in un garage sporco che gli avrebbe fatto rischiare una brutta infezione, senza capire che forse c'era dell'altro dietro quella strana richiesta.

"Beh, scusami, ma allora non era meglio invitarlo a bere un caffè?"

Chiese Riccardo, con un mezzo sorriso divertito a incurvargli le labbra. Non l'aveva fatto di proposito e se ne rendeva conto solo adesso, ma aveva ripetuto la stessa obiezione che anni prima Alba, una sua cara amica, gli aveva fatto quando le aveva raccontato del modo che si era inventato lui per trascorrere del tempo con Lorenzo, all'epoca studente di Medicina come lui e futuro dottor Lazzarini.

Simone fece una risatina e scrollò le spalle.

"Non lo so, non c'ho pensato, mi sembrava la cosa più sensata da fare, sul momento. Anche perché la situazione era un po' strana…"

"Ah, è sempre così!"

Commentò Riccardo, ridacchiando.

"Strana come? Se vi va di raccontarmelo, ovviamente…"

Aggiunse e fu Manuel a prendere la parola, ricominciando a lavare Simone.

"Ci stavamo veramente sul cazzo."

Spiegò senza mezzi termini e Simone annuì per confermare. Riccardo mise su un'espressione meravigliata, non se lo aspettava, ma pensandoci bene non era poi così assurdo.

"Davvero? Non si direbbe, vedendovi ora…"

I due ragazzi ridacchiarono scambiandosi uno sguardo d'intesa, poi Manuel parlò di nuovo.

"Eh, ma se ci avessi visti prima non avresti mai detto che un giorno, manco chissà quanto lontano nel futuro, saremmo finiti insieme."

Scambiò il panno umido con l'asciugamano e cominciò a tamponare pian piano sul busto di Simone.

"Ogni scusa era buona per litigare, finivamo alle mani pure a scuola, a lezione, proprio nun ce potevamo vede'! Non avrei mai accettato de anna' a bere un caffè co' questo qua, come minimo avrei pensato che me l'avrebbe avvelenato!"

Spiegò scherzoso, concludendo con un occhiolino al suo ragazzo, che stava riempiendo la stanza con le sue risate.

Anche il dottor Bonvegna era molto divertito da quel racconto, ma non si permetteva di ridere.

"Grazie, eh!"

Commentò Simone, fingendosi offeso tra le risate. Manuel fece spallucce.

"Premia l'onestà, Simo'."

E l'altro annuì, concordando.

"Avrei pensato la stessa cosa di te, comunque."

"Eppure non hai esitato a mettergli un ago in mano e a farti punzecchiare…"

Gli fece notare Riccardo, mimando anche il gesto di infilzare qualcosa con uno spillo.

Eh sì, Simone doveva ammettere a se stesso di non essere stato molto coerente. Si era fatto guidare dall'istinto, che andava in conflitto con ciò che invece gli diceva il buonsenso.

"Beh, a mia discolpa posso dire che per prima cosa lo pagavo, quindi mi aspettavo un minimo di professionalità…"

"E io sono stato molto professionale!"

Lo interruppe Manuel, sorridente.

"Sì, è vero, non hai infierito, avresti potuto farmi molto più male."

Gli concesse Simone, che poi stava dicendo la verità: Manuel era stato molto delicato, in un modo che certamente non si sarebbe aspettato da lui, esattamente come lo era anche in questo frangente. Si voltò verso Riccardo, che ormai era appassionatissimo alla loro storia.

"E poi avevamo fatto tutto un discorso su come i tatuaggi rendessero meno stronzi e lui mi considerava uno stronzo, quindi volevo non esserlo più ai suoi occhi. Cioè, questo l'ho capito dopo, ma è sicuramente anche per questo che non gli ho proposto un caffè."

Manuel, approfittando del fatto che fosse ormai arrivato ad asciugargli il petto, si sporse a dargli un bacio sulla guancia, che colse Simone piacevolmente di sorpresa.

"Scemo io che non avevo capito niente de tutto questo. Te chiedo scusa, Simo."

"Ah, figurati, non potevi saperlo, non l'avevo capito nemmeno io! Scuse non necessarie, ma accettate."

Mormorò, arruffandogli i capelli che ricadevano sulla fronte.

Riccardo sospirò teneramente, come di fronte alla bella scena di un film. Erano proprio belli Simone e Manuel insieme, augurava loro ogni bene.

"Se ti può consolare, Simone, io per trascorrere un po' di tempo con il ragazzo che mi piaceva, mi sono fatto bocciare ad un esame."

Accennò un sorriso, felice ma malinconico, mentre i due ragazzi gli rivolgevano uno sguardo sorpreso.

"E mo’ ce devi di' de più, però!"

Esclamò Manuel e Simone lo guardò incredulo.

“Non fare l’impiccione, dai!”

Lo rimproverò scherzosamente e l’altro ragazzo sbuffò.

“È per parlare, mica pe' impicciarse…"

Replicò Manuel e Riccardo fece una risatina. Per lui non era un problema parlare di Lorenzo, anzi se avesse potuto non avrebbe mai smesso.

“Beh, se proprio ci tenete…”

Si sedette in una delle poltroncine accanto al letto e prese a raccontare con un sorriso. Era passato molto tempo, ma ricordava tutto di quel giorno.

"Il ragazzo per cui ho mandato a monte tre mesi di studio si chiamava Lorenzo ed era il ragazzo più bello di tutta la facoltà. Tutte le ragazze gli andavano dietro, attirate come api da un bel fiore, tanto che aveva la fama di essere uno sciupafemmine di prima categoria, mentre i ragazzi o erano attratti da lui, oppure volevano essere come lui."

Ridacchiò. Lui rientrava decisamente nella prima categoria.

"Girava perfino voce che avesse una tresca con una professoressa molto più grande di lui, il che era falso, poi glielo chiesi, ma all'epoca non lo sapevo."

Riccardo era rivolto verso i due ragazzi seduti davanti a sé, ma in realtà non li stava davvero guardando: i suoi occhi erano altrove, si posavano sul viso di Lorenzo baciato da Sole -che notoriamente si sa, bacia i belli e lui era in assoluto il più bello-, catturavano il modo in cui si ravvivava i capelli dopo essersi sfilato il casco e si perdevano nei sorrisi che rivolgeva a chiunque incrociasse sul suo cammino, quindi chiunque tranne Riccardo, che si limitava a guardarlo da lontano.

"Capirete che uno così, uno come me nemmeno lo vedeva, o almeno così pensavo, perché mi sembrava assurdo che, tra tutte le persone che lo circondavano ogni giorno, potesse accorgersi proprio di me. E invece mi sbagliavo, eccome se mi sbagliavo!"

Esclamò allegro, accompagnandosi poi con una risatina.

"C'era questo professore, un vecchio bacucco terrore degli studenti, che aveva l'odiosa abitudine di far fare gli esami in coppia e di farti rispondere alla domanda del tuo compagno di sventura, se lui non sapeva la risposta. Fece una domanda a Lorenzo, neanche troppo difficile a dire il vero, ma lui ebbe un vuoto di memoria, glielo lessi negli occhi, e fece scena muta. Il professore lo bocciò e poi mi chiese la stessa cosa ed io, nonostante conoscessi la risposta, dissi di non ricordarmela, sapendo che avrei subito la stessa sorte. In quel momento mi sembrò un modo per farmi notare, un modo per avere un argomento su cui fermarsi a fare due chiacchiere una volta usciti dall'aula e non m'importava d'altro."

Voleva soltanto che, per una volta, per una sola volta che si sarebbe fatto bastare per tutta la vita, Lorenzo gli rivolgesse uno dei suoi bei sorrisi, per poi tornare a dedicarsi alle sue compagnie, sicuramente più interessanti, e dimenticarsi completamente di lui.

"Non vi dico quindi che salto fece il mio cuore quando fu Lorenzo stesso a invitarmi a bere un caffè, dopo l'esame, e quando poi mi propose di studiare insieme per il prossimo appello. Mi disse anche che ero stato stupido a farmi bocciare di proposito, nonostante io tentai di negarlo, perché mi aveva visto sostenere altri esami e ammirava la mia preparazione."

Manuel e Simone ascoltavano quella storia con grande attenzione, e senza accorgersene si erano presi per mano. Ogni storia ha i suoi protagonisti e ogni amore non è uguale all'altro, eppure Manuel non faceva fatica a rivedere Simone in Riccardo, almeno in parte, perché entrambi sapevano -dolorosamente- cosa significasse sentirsi invisibili agli occhi della persona amata, e Simone, invece, rivedeva facilmente Manuel in Lorenzo, il ragazzo voluto da tutti, che non avrebbe fatto fatica ad avere per sé chiunque volesse, ma che in realtà aveva occhi solamente per una persona.

"Quindi lui ti vedeva, anzi…ti guardava."

Commentò Manuel con un sorriso appena abbozzato, rivolgendo per un attimo gli occhi verso Simone. Riccardo annuì, gli piaceva quella distinzione.

"Più di quanto immaginassi, da come poi mi raccontò. Figuratevi che addirittura mi disse che aveva sempre voluto parlarmi, ma che non aveva mai avuto il coraggio di farlo, perché si sentiva inadeguato. Ironia della sorte, eh?"

Riccardo ridacchiò e i due ragazzi insieme a lui, dato che quell'ironia la conoscevano bene.

"Beh, comunque, per non farvela troppo lunga, studiammo insieme per quell'esame, lo superammo brillantemente e così decidemmo di studiare insieme anche per i successivi."

Sorrise dolcemente al ricordo di quelle giornate trascorse sui libri, che lentamente e senza che nessuno dei due se ne accorgesse si erano trasformate in nottate trascorse a guardarsi sempre più da vicino, a sfiorarsi dapprima con le scuse più banali -a cui entrambi sceglievano di credere per non privarsi di quelle piccole scosse di felicità- e poi a toccarsi senza più nessuna scusa, a carte scoperte, semplicemente per il desiderio di sentire i loro corpi vicini. Erano nottate prive di sonno, ma piene di baci, di parole e di promesse.

"Neanche il tempo di dare un altro esame che già stavamo insieme e da allora…da allora non ci siamo più lasciati."

Il suo sorriso si fece più malinconico, e istintivamente si passò tra le dita la fede che teneva appesa al collo, eppure c'era più felicità che tristezza in quel sorriso. Non gli piaceva dire che Lorenzo 'non c'era più', perché non era vero: era morto, sì, ma continuava ad essere lì con lui, Riccardo lo sentiva accanto a sé ogni istante, proprio come gli aveva promesso.

Lorenzo era nel vento che gli scompigliava i capelli, nelle fusa di Meli, la sua gatta che gli augurava il buongiorno ogni mattina, nel bicchierino di questo o quel liquore che si concedeva la sera, nell'abbraccio di una coperta calda che, forse per davvero o forse per fantasia, ancora aveva il suo profumo.

"Siete sposati, quindi?"

Domandò Simone a bassa voce, quasi a non voler interrompere il flusso di pensieri che vedeva dietro gli occhi verdi del medico.

"Uniti civilmente è la dicitura corretta, ma sì, si può dire che siamo sposati."

Il loro matrimonio, legalmente, era durato appena quattro giorni, ma Riccardo parlava al presente perché quando avevano celebrato il rito civile -organizzato in fretta e furia nella camera di Lorenzo, con i parenti più stretti e gli amici medici a fare da testimoni- avevano espressamente chiesto al funzionario di saltare la formula 'finché Morte non vi separi', perché quella stronza non avrebbe mai avuto il potere di separarli, e loro non volevano conferirglielo.

"Anche lui lavora qui, come te?"

Chiese Manuel e Riccardo scosse il capo.

"No, Lorenzo lavora in un altro ospedale. È una cosa un po' brutta, però ci si abitua."

Preferì raccontare una piccola bugia, in modo da evitare ulteriori domande o far sorgere dubbi, perché Simone e Manuel avevano già vissuto un'esperienza fin troppo dura per la loro morbida età, avevano già conosciuto il terrore di perdersi e si erano da poco ritrovati, non era giusto che facesse ricordare loro quanto prepotentemente il destino può giocare con la tua vita o con quella di chi ami. Lorenzo non l'avrebbe voluto.

"Allora, la tua curiosità è soddisfatta, Manuel?"

Domandò divertito e il ragazzo annuì, accennando un timido sorriso. Aveva giudicato male e troppo in fretta il Dottor Spaventapasseri, senza nemmeno un motivo valido.

"Bene, mi fa piacere."

Disse il medico, alzandosi.

"Allora adesso finisci di lavare Simone, mh? Io intanto vado a controllare la stanza qui di fianco, se c'è bisogno, mi trovi lì."

Era una scusa per lasciarli soli, dal momento che restava da lavare soltanto una parte del corpo di Simone e non voleva che il suo paziente si sentisse in imbarazzo, del tutto scoperto e nudo davanti a lui.

Quella premura non sfuggì a Simone, che sorrise riconoscente al dottore, e nemmeno a Manuel, che accettò la cosa nonostante avesse insistito tanto per far restare Riccardo lì per il timore di sbagliare qualcosa.

"Non toccargli la gamba rotta, mi raccomando."

Si premurò il dottore prima di uscire, con un sorriso. Manuel, dopo aver detto un rapido “torno subito” a Simone, lo seguì e gli si parò davanti.

"Hey, che ti prende? Guarda che non hai bisogno di me, sei andato benissimo fino ad ora…"

Cominciò a dire Riccardo, ma Manuel lo fermò con un gesto secco della mano.

"Te volevo chiedere scusa per come me sono comportato con te in questi giorni."

Disse un po' impacciato, ma sincero.

"Soprattutto, volevo chiederti scusa per averti detto che non capivi un cazzo quando cercavo di convincerti a farmi vedere Simone. Tu una persona che ti fa ringraziare di essere nato ce l'hai, si vede da come parli di Lorenzo…scusami, ero io che non avevo capito un cazzo."

Concluse e Riccardo sorrise teneramente, con gli occhi un po' lucidi. Manuel aveva ragione, Lorenzo era quella persona speciale lì, per lui.

"Ah, non ti preoccupare, scuse accettate. C'è chi si è comportato peggio di te per motivi meno nobili dei tuoi, adesso pensa soltanto a Simone e…senti, ti posso dare un consiglio non richiesto?"

Manuel annuì, guardandolo incuriosito.

"Ti sembrerà assurdo, ma adesso tra voi due quello più forte è lui, anche se ti sembra debole e malato. Nonostante la sua forza, però, lui ha bisogno di te, quindi non privarlo delle tue carezze."

Manuel fece un profondo sospiro.

"Lo so, lo so che è forte, ma a vederlo ridotto così…me so' messo paura, ecco."

Mormorò ad occhi bassi, quasi vergognandosi di quella confessione. Riccardo gli sorrise comprensivo e mise una mano sulla sua spalla.

"Ascoltami, non hai niente di cui vergognarti, ok? È normale avere paura, lo capisco, credimi, lo capisco, ma credimi anche se ti dico che gli fai più male se non lo accarezzi."

Il ragazzo accennò un sorriso, sollevando di nuovo lo sguardo verso il medico.

"Anche io ce sto male…"

"E allora dai, va' da lui, su! Ordini del medico!"

Lo incoraggiò Riccardo, lasciandolo andare. Manuel annuì, senza farselo ripetere due volte, e dopo aver ringraziato il dottore, tornò in camera da Simone, che gli rivolse uno sguardo interrogativo.

"Tutto ok, Manuel?"

"Sì, sì, tutto ok…"

Rispose l'altro, avvicinandosi a dargli un bacio sulla fronte.

"Volevo solo chiedere scusa a Riccardo per come me so' comportato co' lui, tutto qua. Scusa se t'ho lasciato appeso…"

Simone gli sorrise orgoglioso e lo tirò a sé in un bacio a fior di labbra.

"Sei un tesoro, lo sai?"

Sussurrò e Manuel ridacchiò, imbarazzato.

"Sì, come no…dai, finiamo qua."

E così dicendo si spostò verso i piedi del letto.

"Posso?"

Chiese, sollevando leggermente un lembo del lenzuolo che copriva la parte inferiore del corpo di Simone. Simone annuì, facendo una risatina.

"E da quando hai bisogno del permesso? Vai tranquillo, Manuel."

Manuel spostò il lenzuolo e Simone avvertì le proprie guance farsi un po' più calde e, certamente, anche un po' più rosse. Non si sentiva a disagio o in imbarazzo, come quando era rimasto nudo davanti a Sbarra e Zucca o agli infermieri, quel calore era dovuto semplicemente all'emozione che gli dava il suo ragazzo.

"Anche tu devi sta' tranquillo, però, ok?"

Disse l’altro, avvicinandosi a dargli un bacio a fior di labbra e a fargli una carezza tra i capelli. Anche lui era emozionato, tuttavia il timore di fargli male era sempre lì, in un angolo.

"C'hai vergogna?"

Sussurrò mentre gli accarezzava i capelli, era un altro suo grande timore. Simone però gli rivolse un bel sorriso e scosse leggermente il capo.

"No, non lo pensare nemmeno. Tu non sei Sbarra, né uno sconosciuto…sei il mio Manuel."

Replicò con dolcezza e Manuel, con gli occhi un po' lucidi, ricambiò il sorriso e si avvicinò di nuovo a lui per baciarlo, stavolta per qualche secondo in più, che Simone sfruttò per ricambiare il bacio e fargli così capire quanto fosse felice di stare con lui.

"Non è poi tanto diverso da quando lo facciamo a casa."

Mormorò sulle sue labbra e Manuel fece una risatina.

"Allora devi sta' tranquillo in un altro senso, perché poi è un casino."

Replicò con una punta di malizia, facendogli una carezza sul naso con il proprio. Simone si fece un po' più rosso in viso, ma rimase sorridente.

"Con questa voce però non aiuti…"

Gli fece notare, con lo stesso tono malizioso. Manuel si separò da lui, anche se a fatica, perché non era il caso di continuare a provocarsi, ma Simone non sembrava essere d'accordo e sbuffò, perché voleva qualche altro bacio.

"Sta' bono, dai, guarda che nun me so dimenticato della promessa di ieri sera."

Disse Manuel per tranquillizzarlo e Simone recuperò immediatamente il sorriso. Già pregustava tutti quei baci e quelle carezze, scambiati con tranquillità in un momento soltanto loro.

"Ah, se è per questo nemmeno io."

Si sistemò meglio contro il cuscino, rilassato, mentre Manuel cominciava a lavargli con cura la gamba sana, facendo attenzione a non premere troppo sui lividi che c'erano anche lì. Inevitabilmente, però, lo sguardo finiva su quella rotta e si riempiva di preoccupazione.

"Paperotto, non guarisce prima se la fissi così."

Lo richiamò Simone, con voce morbida e dolce. Manuel, come un alunno trovato a distrarsi dall'insegnante, tornò a guardare l'altra gamba.

"Scusami, è che…lo sai."

Simone annuì, perché sapeva bene a cosa pensasse Manuel ogni volta che posava gli occhi sulle sue ferite -e anche quando non lo faceva-, ma ancora una volta fu pronto a rincuorarlo.

"Devi pensare a me come una moto scassata, come quelle che ti portano ad aggiustare, ok? Non sono da buttare, solo da riparare…e presto tornerò come nuovo, anche grazie a te."

Nonostante tutto, a Manuel sorse spontaneo un piccolo sorriso sul volto, di quelli che si posavano solo su un angolo delle labbra creando una morbida fossetta: Simone sapeva sempre cosa dire per farlo stare meglio, era incredibile.

"Mo' parli pure per metafore, hai visto che stai diventando un poeta? So' sicuro che diventerai pure più bravo di me…"

Simone ridacchiò, facendo spallucce.

"Adesso non esagerare, dai!”

Fece una piccola pausa.

“Forse però è vero che un po' sto imparando da te, che sei il migliore, ma anche tu stai migliorando con la matematica, no?"

"Beh, peggiorare sarebbe stato impossibile."

Replicò sarcastico l'altro, ma poi la sua voce si addolcì e riprese a parlare mentre gli asciugava la gamba.

"Forse succede così, quando se sta insieme: tu prendi un po' da me e io un po' da te, perché siamo meno un te e un me e più un noi. Non m'era mai successo."

Simone lo guardò con affetto, completamente rapito da quel suo modo di ragionare e di spiegare le cose, davvero degno di un filosofo o di un poeta.

"Nemmeno a me."

Manuel si voltò a guardare Simone ed entrambi si sorrisero, felici di condividere quell'amore bellissimo, il primo vero amore per entrambi e, ne erano certi, anche l'ultimo.

"Adesso però nun ce pensa' troppo, eh. Anzi, pensa a qualcosa de totalmente diverso."

Lo invitò a fare Manuel, spiritoso, per poi cominciare a lavare Simone tra le gambe. Non c'era malizia nei suoi gesti, voleva solo che il suo fidanzato si liberasse da tutto lo sporco che lo aveva tormentato in quei giorni.

Simone ridacchiò e per quanto non fosse in imbarazzo, preferì comunque spostare lo sguardo verso una delle pareti bianche della sua stanza, in modo che fosse più facile concentrarsi su altro. Optò per una noiosa lezione di Lombardi, una di quelle sulla lettura metrica che proprio non passavano mai.

"Ecco fatto, adesso sei tutto pulito. Ti prendo i vestiti."

Annunciò Manuel dopo un po' e Simone si ridestò quasi come da un sogno. Sorrise osservando Manuel -che in quel momento si stava avvicinando all'armadietto dove suo padre aveva posato il borsone con i cambi- perché gli era tornata in mente una cosa.

"Com'è che faceva quella poesia di Catullo?"

Domandò, intanto che Manuel sceglieva qualcosa da fargli indossare.

"Eh, dipende, ce ne sono talmente tante…"

Replicò l'altro, con un sorriso sghembo stampato in volto. In realtà aveva capito perfettamente a quale carme si riferisse Simone, voleva solo giocare un po'. Simone alzò gli occhi al cielo e poi sorrise, divertito.

"Eddai, lo sai quale! Quella dei mille baci!"

"Ah, quella! Non è proprio tra le migliori, se me lo chiedi…"

Manuel pronunciò quella bugia con la sua migliore faccia da schiaffi. Per lui quella era la poesia più bella mai scritta, solo perché grazie ad essa aveva capito cosa provasse davvero per il ragazzo davanti a lui, che adesso lo fissava con un sopracciglio alzato e l'aria di chi avrebbe voluto cancellare quell'espressione furbetta a suon di baci.

"Ah no? A me invece piace da impazzire…"

Allungò un braccio per tirare Manuel più vicino a sé e quando i loro visi furono abbastanza vicini, riprese a parlare.

"Dammi mille baci, poi cento,
poi altri mille, poi ancora cento,
poi senza sosta altri mille ancora, poi cento."

Sussurrò guardandolo negli occhi, baciandolo con lo sguardo. Quell'intensità era riservata soltanto a Manuel.

"Poi, quando ce ne saremo dati molte migliaia,
li rimescoleremo per non sapere quanti sono,
o perché nessun malvagio possa gettarci il malocchio,
scoprendo l’esistenza di così tanti baci."

Completò Manuel a voce altrettanto bassa e con sguardo altrettanto intenso.

Erano così presi l'uno dall'altro che se fosse entrato qualcuno in quell'esatto momento, non se ne sarebbero nemmeno accorti.

"Allora un po' ti piace, eh?"

Lo punzecchiò Simone, guadagnandosi una risatina da parte di Manuel.

"L'unica poesia più bella di questa, sei tu."

Mormorò, per poi accogliere la richiesta che Simone gli aveva implicitamente fatto con quei versi e baciarlo, e Simone lo accolse tra le braccia, portando una mano tra i suoi capelli ricci e l'altra sul suo fianco, invitandolo a sedersi sul letto perché lui, quei mille baci e più, li voleva tutti.

Manuel seguì il suo movimento e si accomodò sul materasso senza separarsi da lui, e insieme diedero materia e consistenza a quei versi incorporei, con baci e carezze che nessuno sarebbe stato in grado di contare.

"Che dici, te vuoi vesti' adesso o c'hai preso gusto a fa' er nudista?"

Mormorò divertito Manuel e Simone scoppiò a ridere, arrossendo leggermente. Si era perfino dimenticato di essere in un letto d'ospedale, preso da tutti quei baci.

"No, no, dammi qua!"

Esclamò, facendosi dare una maglietta che subito indossò.

"E comunque, per la cronaca, questi baci qua non rientrano nella promessa di ieri."

Specificò Manuel, mentre lo aiutava ad indossare gli slip per poi coprirgli di nuovo le gambe con il lenzuolo.

“Mi sembra naturale.”

Concordò l’altro, molto soddisfatto, e Manuel ridacchiò.

"Ah, Riccardo mi ha dato anche questi…"

Simone sorrise come un bambino che aveva appena ricevuto un gioco nuovo quando Manuel gli porse un tubetto di dentifricio e uno spazzolino, felice di poter finalmente rendere decisamente più piacevoli i baci per il suo ragazzo. Manuel, dopo aver sistemato una bacinella in grembo a Simone e avergli riempito un bicchiere d'acqua in modo che potesse lavarsi i denti, andò nel bagno della camera a fare lo stesso e poi, finalmente, si scambiarono un bel bacio al profumo di menta.

"Adesso sì che si ragiona…"

Commentò Simone, accarezzando una guancia di Manuel.

"Se ragionava anche prima, nun te preoccupa'."

Ribatté Manuel, con una risatina. Prese la mano con cui Simone lo stava accarezzando nella propria e la baciò.

"Sei più sereno, adesso?"

Chiese con dolcezza e Simone annuì, sorridente. Si sentiva decisamente meglio, ora che il suo corpo non era più sporco, sia fuori che dentro.

"Grazie, Paperotto."

"Ah, non lo pensa' nemmeno, Cerbiattino! Era il minimo che potessi fare…"

Anche lui si sentiva più sereno, ora che Simone si sentiva meglio. Voleva che si sentisse sempre così, senza paure a divorargli l'animo.

"E comunque guarda che non l'ho fatto mica gratis, poi te mando la parcella…"

Aggiunse con il suo modo di fare più cazzaro, e Simone rise, come faceva solo con Manuel.

"Va bene, va bene, segna tutto sul conto. A quanto ammonta questo pagamento?"

Gli resse il gioco, perché anche lui era un  po' cazzaro, dietro quell'aria da perfettone. Manuel mise su una finta espressione pensierosa.

"Ce devo pensa', non lo so ancora. Facciamo che intanto porto via questa roba e poi te dico?"

Simone annuì, lasciandolo andare. Gli avrebbe dato volentieri una mano, ma chiaramente non poteva farlo. Dopo qualche minuto, comunque, Manuel tornò in camera con un bel sorriso stampato in volto, segno che aveva trovato la risposta alla sua domanda. Simone lo guardò con gli occhi pieni di curiosità, mentre si avvicinava.

"Dalla tua faccia, mi sa che hai pensato a qualcosa…"

Manuel si mise a sedere sul bordo del letto e annuì. Non aveva immaginato un pegno imbarazzante, men che meno pericoloso, ma probabilmente Simone si sarebbe rifiutato ugualmente. Valeva comunque la pena tentare.

"Sì, in effetti sì, è una cosa che mi è mancata e che mi farebbe davvero piacere se tu facessi…"

Cominciò, mantenendosi sul vago, dopo aver preso la mano di Simone nella propria, accarezzandone il dorso.

L'altro ragazzo sollevò un sopracciglio, sempre più incuriosito, anche perché non aveva la minima idea di cosa potesse essere.

"Mi è mancato sentirti cantare, Simo', non sai quanto."

Rivelò, guardandolo negli occhi con immensa dolcezza.

Simone si ritrovò preso in contropiede, non si aspettava una richiesta simile, anche perché lui non è che proprio cantasse, semplicemente di tanto in tanto canticchiava qualcosa mentre era sotto la doccia o quando in radio passavano una canzone che gli piaceva particolarmente, non era nemmeno chissà quanto intonato. Non credeva, quindi, che Manuel potesse sentire la mancanza di una cosa simile.

"Dici…dici davvero? Non sono neanche bravo…"

Farfugliò imbarazzato e Manuel fece spallucce. Per lui, quei piccoli momenti in cui Simone si lasciava andare erano un po' la colonna sonora inaspettata delle sue giornate e non era importante che Simone non fosse il miglior cantante al mondo, non avrebbe sostituito la sua voce con quella di nessun altro.

"Certo che dico davvero, Simo'. Senti, se ti vergogni e non lo vuoi fa', nun fa niente, tanto non è che me devi paga' davvero per…"

"Preferenze?"

Simone non gli diede nemmeno il tempo di terminare la frase, gli parlò da sopra preso dall'entusiasmo di poter restituire al proprio ragazzo un altro pezzetto di normalità, che si rifletteva meravigliosamente nei suoi occhi luminosi. Manuel sorrise, scuotendo il capo.

"Scegli te, pure ‘Quarantaquattro gatti’ va bene."

Rispose, emozionato tanto quanto lui alla prospettiva di poter aggiungere un'altra piccola tessera a quel puzzle che Sbarra aveva stravolto.

Simone annuì rapidamente e intanto si mise a cercare nella sua testa una canzone che potesse andar bene, ma all'improvviso gli sembrò di non aver mai ascoltato musica in vita sua.

‘Pensa, Simone, pensa! Che cazzo, non ti ha chiesto di crearla, una canzone, ma solo di cantarla!’, pensò sbuffando, e alzò gli occhi al cielo, spazientito. Fu proprio il soffitto bianco della stanza a dargli un suggerimento e allora sorrise a trentadue denti, tornando a guardare Manuel.

"Ci provo, eh…"

Si schiarì la voce e prese un profondo sospiro.

"Quando sei qui con me
Questa stanza non ha più pareti
Ma alberi
Alberi infiniti…"

Abbassò lo sguardo per un istante, posandolo sulle loro mani intrecciate, che si erano strette un po' di più quando aveva cominciato a cantare, e quando lo rialzò intorno a loro non c'era più la stanza numero quindici dell'ospedale San Camillo, ma nemmeno alberi, come nella canzone. C'erano lui e Manuel e basta, nel loro mondo in cui avevano l'un l'altro e non avevano bisogno di nulla.

"Quando tu sei vicino a me
Questo soffitto bianco…"

Si permise di cambiare, per dare più verosimiglianza al testo, abbozzando un sorriso. Anche Manuel sorrise, mentre ascoltava rapito quella voce morbida e bassa, che timidamente gli accarezzava il cuore. Teneva gli occhi fissi in quelli di Simone e si lasciava immergere in quelle pozze di luce, in cui finalmente era tornata a splendere la vita.

"No, non esiste più
Io vedo il cielo sopra noi…"

Simone si avvicinò quanto bastava per eliminare la poca distanza tra loro e poggiò la fronte su quella di Manuel, lasciando che i loro capelli li solleticassero a vicenda. Portò poi la mano libera sul viso dell'altro, accarezzandolo con affetto e Manuel vi poggiò sopra la propria, sorridente e commosso.

'Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me', sosteneva Kant.

'Il cielo stellato sopra di noi, l'Amore dentro di noi', replicavano Manuel e Simone, che avevano scoperto una legge più forte e più bella di quella morale.

"Che restiamo qui, abbandonati
Come se non ci fosse più
Niente, più niente al mondo…"

Simone fece scivolare entrambe le mani intorno al busto di Manuel e piano piano se lo portò addosso in un abbraccio, facendolo appoggiare al proprio petto. Manuel non si oppose a quella forza dolcissima, si limitò soltanto a sistemarsi un po' meglio per far star comodi entrambi, mentre Simone, a voce ancora più bassa, cantava l'ultima strofa, anzi la sussurrava tra i capelli di Manuel, accarezzandoli un po' con la punta del naso e respirandone il profumo dolce.

"Suona un'armonica
Mi sembra un organo
Che canta per te e per me
Su nell'immensità del cielo…"

Ecco, per Manuel la voce timida di Simone era come quell'armonica che l'amore trasformava in organo. Vicini com'erano la sentiva benissimo, perché passava direttamente da un cuore all'altro. 

"Per te e per me
Nel cielo."

Cantò anche lui quel pezzettino finale, gli piaceva l'idea che le loro voci potessero arrivare insieme su in cielo, come due palloncini un po’ speciali, capaci di superare le nuvole senza scoppiare.

Simone lo guardò sorpreso, ma con un gran sorriso e occhi luccicanti a dimostrare che aveva apprezzato.

"Non pensavo fosse il tuo genere, sai?"

Manuel, prima di rispondere, sentì il bisogno impellente di posare un bacio sulla guancia di Simone, dove riusciva ad arrivare dalla sua posizione, per ringraziarlo di quel dono speciale.

"Credo che questa fosse una delle canzoni che mia madre usava pe' famme addormenta' quando ero piccolo, però non ne sono sicuro…"

Simone fece una risatina.

"Allora ho rischiato di farti addormentare senza saperlo?"

Manuel fece una smorfia di disappunto, scuotendo appena la testa.

"Ma che dici, sei stato bravissimo! Mi hai emozionato, dico davvero…però qualcosa in comune con mia madre ce l'hai."

Mormorò, spostando una mano sul fianco di Simone per accarezzarlo e, intanto, nella sua mente riaffiorò il rumore dei suoi stessi passettini un po' incerti quando correva nella stanza della madre e si rifugiava nel suo lettone perché aveva fatto un brutto sogno o perché fuori pioveva e lui aveva paura del vento che ululava e dei tuoni che squarciavano il cielo.

"E cioè? Che cosa?"

Domandò Simone, preso alla sprovvista. Era un gran complimento essere messo sullo stesso livello di una donna forte come Anita -e una madre a cui Manuel teneva tantissimo- ma proprio non sapeva cosa potessero avere in comune.

"La voce. Sia tu che lei avete la voce rassicurante."

Manuel sollevò leggermente il capo verso Simone, solo il tempo necessario a rivolgergli un sorriso dolcissimo e pieno di gratitudine. La serenità era tornata non appena la voce di Simone era rientrata nella sua vita.

"È una cosa bella, eh."

Specificò, anche se era sicuro che non ce ne fosse bisogno.

Simone si sciolse in un sorriso luminoso, con gli occhi che luccicavano commossi, pensando che sì, era decisamente una cosa bella sapere di poter tranquillizzare Manuel, che spesso si agitava e aveva bisogno di qualcosa che lo facesse stare meglio. Era una specie di superpotere, insomma.

"È molto bella, sì…"

Portò una mano tra i capelli del suo ragazzo, in modo da fargli poggiare la testa sulla sua spalla, e prese ad accarezzarglieli con delicatezza.

"Cos'era che ti spaventava, da piccolo?"

Manuel sospirò, perché erano davvero tante le cose che lo rendevano bisognoso di rassicurazioni, da piccolo, alcune delle quali se le portava ancora dietro, per quanto non gli piacesse ammetterlo e facesse di tutto per non dimostrarlo.

"Un mucchio de roba, Simo'. Sei sicuro de volerlo sape'?"

Simone annuì in risposta, deciso.

"Certo che ne sono sicuro. Se a te va di dirmelo, io sono qui per ascoltarti."

Manuel, ovviamente, non si aspettava una risposta diversa, e anche se una voce nella sua testa gli suggeriva di non rispondere, di chiudere la discussione, lui non le diede ascolto, come ormai faceva da tempo.

"Beh, pe' prima cosa ero terrorizzato dai temporali, specie quando ero molto piccolo: nun me piacevano le ombre che i lampi proiettavano nella mia stanza, la trasformavano in un posto mai visto, un posto che non era più mio. Poi i tuoni facevano trema' tutta casa, o almeno così me sembrava, e io pensavo che potesse crolla' da un momento all'altro. Altre volte, invece, me sognavo dei mostri strani perché magari li avevo visti in tv e capitava pure che bagnassi il letto, te lo confesso. Quand'era così, comunque, me facevo coraggio e correvo nell'altra stanza, dove dormiva mamma, e lei me faceva passa' tutto."

Raccontò a bassa voce, confidando a Simone quel piccolo pezzo del suo passato che non aveva mai raccontato a nessuno, nemmeno a Chicca e men che meno ad Alice, certo di consegnarlo alla persona giusta, che non lo avrebbe mai preso in giro o cose del genere.

Simone si sentì il cuore stringersi al pensiero di un Manuel bambino, piccolo e spaventato nella sua stanzetta e poi al sicuro tra le braccia di sua madre. Avrebbe voluto tanto abbracciarlo anche lui, dirgli che andava tutto bene, e allora si strinse meglio al petto il ragazzo che teneva tra le braccia, come se abbracciando il Manuel 'grande', potesse abbracciare anche il Manuel 'piccolo'.

Manuel sorrise, mentre il calore di quella stretta arrivava anche al se stesso bambino che ancora aveva dentro di sé, pensando a quanto fosse stato fortunato ad incontrare Simone.

"Poi c'erano giorni, quando mia madre andava a lavoro, che tornava a casa un po' più tardi del solito, e io avevo paura che le fosse successo qualcosa o che avesse deciso di abbandonarmi e che fossi rimasto solo al mondo. Quando tornava, nun me staccavo più da lei…"

Sussurrò, giocherellando con un lembo della maglietta di Simone.

Simone, senza smettere di accarezzargli i capelli, si voltò quanto bastava a posare un morbido bacio su quei ricci altrettanto morbidi. L'immagine che si proponeva davanti ai suoi occhi, in questo caso, era ancora più straziante perché la solitudine era reale, a differenza di ombre e mostri. 

"Mi dispiace, Manuel, mi dispiace così tanto…"

Sussurrò, pur sapendo che il suo dispiacere non poteva cambiare ciò che era stato.

"Dai Simo', è acqua passata, nun fa' così. E poi non è mica colpa tua, manco ce conoscevamo! Ero un marmocchio, lavoravo molto de fantasia…"

Replicò Manuel, che proprio non voleva che Simone si facesse carico di pesi non suoi.

Simone, però, si preoccupava anche e soprattutto di ciò che spaventava Manuel adesso, di quella paura che quasi gli aveva impedito di toccarlo per paura di fargli del male.

"E ora, invece…cos'è che ti fa paura?"

Domandò, anche se intuiva facilmente la risposta dal momento che i loro cuori erano in sintonia e condividevano anche le paure.

Manuel sospirò profondamente e restò in silenzio per qualche istante. La stessa voce di prima gli suggeriva di stare zitto, perché non era più un bambino che aveva bisogno della mamma per farsi consolare, ma le carezze di Simone gli dicevano invece di poter lasciarsi andare. Era una cosa che aveva imparato a fare proprio con lui.
"Ciò che mi spaventa di più, è l'idea de perderte, Simo'."

Confessò con un filo di voce, senza dare ulteriori spiegazioni che sarebbero risultate superflue.

"Tua madre come faceva a farti passare la paura quando eri piccolo, oltre che cantando?"

Simone non desiderava altro che aiutarlo e in quella sua domanda c'era tutta la sua determinazione. Manuel scosse appena il capo.

"Simo, ti ringrazio, ma lascia stare, ho appesantito inutilmente un bel momento…"

Protestò, ma l'altro non si fece convincere.

"Ti prego, insisto. È importante per te, ma anche per me, perché anch'io ho paura di perderti."

Disse con fermezza, anche se nella sua voce non c'era traccia di ordine o rimprovero. C'era soltanto amore.

 Manuel sospirò e alzò il capo per guardare Simone negli occhi. Gli sorrise  perché stava già facendo tutto il necessario e non lo sapeva.

"Mi stringeva tra le braccia e mi teneva vicino, esattamente come stai facendo tu adesso, e mi cullava un po'."

Simone ricambiò il sorriso e gli diede un bacio a fior di labbra, per poi fargli una carezza sulla guancia con una mano.

"E allora restiamo un po' così, ti va?"

"Sei sicuro? Non è che peso?"

Simone fece una risatina ripensando immediatamente a quando, nello stanzino di Sbarra, lui gli aveva fatto la stessa domanda e Manuel gli aveva dato una risposta con cui Simone concordava profondamente. L'amore non era un peso.

"Manuel, è il vuoto che pesa, non tu. Tu sei il peso più leggero del mondo."

“Non usa' le mie parole contro di me…"

 Protestò Manuel, scherzosamente.

"Non le sto usando contro di te, è che sono parole giuste e mi piace ripeterle."

Si difese Simone, con tono altrettanto leggero. Manuel ridacchiò e, senza fretta, posò prima un bacio sul collo di Simone e poi tornò ad appoggiare la testa sulla sua spalla.

Quanto era diversa la situazione, adesso, rispetto a quando gli aveva risposto in quel modo! Ora erano al sicuro, erano di nuovo insieme, liberi.

Subito Simone lo cinse di nuovo tra le braccia e, come prima, riprese a disegnargli piccoli cerchi tra i capelli. Manuel chiuse gli occhi, beato, e portò la sua mano sul suo petto, accarezzandolo allo stesso modo.

Erano insieme e non esisteva più niente al mondo.

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Capitolo 19
*** Le paure che sento come distanze da un centro ***


"Simone!"

Esclamò Floriana, mentre percorreva a passo svelto il corridoio per raggiungere suo figlio. Aveva lasciato l'ex marito, sua madre e Anita fuori, perché Dante stava cercando un parcheggio, ed era salita perché non ce la faceva più ad aspettare.

Simone era appena uscito dalla stanza insieme a Manuel e a Riccardo, che era andato a prenderlo per portarlo in sala gessi.

"Mamma!"

Il suo primo istinto fu quello di alzarsi dalla sedia a rotelle su cui lo avevano sistemato, ma venne fermato in tempo dalle mani degli altri due che si posarono sulle sue spalle, prima che ci provasse e cadesse. Sorrise comunque a sua madre, felice come un bambino, mentre lei si chinava ad abbracciarlo.

"Che bello rivederti, tesoro mio! Mi dispiace essere arrivata soltanto adesso, ma tuo padre non mi ha detto nulla, ti rendi conto?"

Simone ridacchiò e annuì, perché quello era un comportamento tipico di suo padre. Ricambiò subito l'abbraccio e le diede un bacio sulla guancia. Un altro pezzetto di normalità che tornava al suo posto.

"Non voleva farti agitare, immagino…"

Floriana un po' si sorprese a sentire che Simone stava difendendo Dante perché non era abituata, ma l'ex marito le aveva raccontato, tempo prima, che avevano ricucito il loro rapporto, dopo che gli aveva raccontato di Jacopo. Non poteva che farle piacere.

"Anche per me è bello rivederti, mamma. Come stai?"

La donna sorrise intenerita alla premura del figlio e si sollevò tanto quanto bastava per dargli un bacio tra i capelli.

"Sto bene, non ti preoccupare. Tu, piuttosto?"

"Anch'io sto bene, tranquilla. Mi stanno portando a mettere il gesso."

Spiegò Simone, con un certo entusiasmo. Riccardo gli aveva detto che lo avrebbe tenuto in osservazione per pochi altri giorni e che poi, salvo imprevisti, sarebbe potuto tornare a casa: lui e Manuel non vedevano l'ora. Solo in quel momento Floriana si accorse del medico e dell'altro ragazzo, presa com'era dalla gioia di rivedere suo figlio.

"Oh, mi perdoni dottore, non l'avevo vista! Sono Floriana, la madre di Simone…"

Mentre Floriana parlava con Riccardo, che prese ad aggiornarla sulla situazione di Simone, Manuel se ne stava in disparte -a dire il vero si era involontariamente allontanato di un passo da quando lei era arrivata-, sentendosi quasi di troppo. Teneva lo sguardo rivolto verso il basso, ma osservava la donna di sottecchi, curioso. Simone le aveva già raccontato della loro storia durante una delle sue tante videochiamate -almeno non avrebbe dovuto fingere, in sua presenza- e in una di queste lo aveva anche convinto a farle un breve saluto, riuscendo ad avere la meglio sul suo imbarazzo. Adesso, però, quell'imbarazzo era tornato, perché Manuel ci teneva tantissimo a dare una buona impressione alla madre del suo ragazzo e si ringraziò mentalmente per aver deciso, il giorno prima, di vestirsi un po' meglio del solito.
Simone, in qualche modo, percepì i pensieri di Manuel e si voltò verso di lui con un sorriso incoraggiante, facendogli segno di avvicinarsi.

"Guarda che non morde mica, eh…"

Manuel sospirò, chinandosi sui talloni per essere più vicino al viso dell'altro. Non poté fare a meno di notare quanto fossero felici i suoi occhioni da cerbiatto e ciò, naturalmente, rallegrava anche lui.

"Lo so, però è tua madre, non mi conosce…e non è esattamente la situazione ideale per conoscersi, considerando tutto quello che non sa."

La madre di Simone, infatti, non sapeva nulla dei trascorsi di Manuel, a stento conosceva il suo nome, e Manuel temeva che quando inevitabilmente sarebbe venuta a sapere dei suoi impicci con Sbarra e di ciò a cui avevano portato, lo avrebbe odiato e  lo avrebbe voluto lontano da Simone. Non poteva darle tutti i torti e lui quell'odio lo avrebbe sopportato, avrebbe sopportato le sue occhiatacce e i suoi insulti, si sarebbe impegnato a dimostrarle che era cambiato, che aveva messo la testa a posto. Ciò che non avrebbe potuto sopportare, era che se la prendesse anche con Simone.

Simone, dal canto suo, era invece tranquillo, perché sua madre era forse la persona più comprensiva e paziente al mondo -del resto aveva pur sempre sposato suo padre- ed era certo che avrebbe visto in Manuel la stessa luce che vedeva lui. Prese le mani del suo ragazzo nelle proprie, scorgendo i pensieri cupi che si rincorrevano dietro i suoi occhi, e se le portò alle labbra per mandarli via, per calmarlo.

"Calmo, Manuel, va tutto bene. È vero, mia madre non ti conosce, non sa praticamente nulla di te, ma non è cattiva. Ti vorrà bene, ne sono sicuro. È impossibile non farlo."

Gli diede un altro bacio sulle nocche, poi un altro ancora sulle dita. Manuel accennò un sorriso, grato a Simone di quelle piccole attenzioni e sempre più innamorato di lui.
"E poi hai già raccontato tutto a mio padre una volta, no? Non dico che tu debba farlo subito, ma che cambia dirlo anche a mia madre?"

Chiese, un po' per curiosità e un po' per ricordargli una situazione simile che, tutto sommato, era finita bene. Certo, suo padre gli aveva rivelato di essere arrabbiato con Manuel per la sua sconsideratezza, ma poi lui gli aveva parlato e lo aveva convinto a cambiare idea. Se necessario, avrebbe parlato anche con sua madre e le avrebbe spiegato quanto Manuel fosse stato importante per lui in quei giorni e quanto lo fosse sempre. Manuel scosse appena il capo, in risposta.

"Non è proprio la stessa cosa, Simo. Quando ho parlato co' tuo padre non stavamo ancora insieme, adesso parlerei da fidanzato, è una responsabilità diversa…"

Spiegò a bassa voce, con occhi preoccupati. Simone annuì, perché aveva capito il suo punto di vista e, in effetti, avrebbe potuto arrivarci da sé.

"Hai ragione, hai ragione…allora se vuoi le parliamo insieme, mh?"

Propose, ma Manuel scosse di nuovo il capo e sospirò.

"No, preferisco farlo da solo. Deve conoscere me per quello che sono, se me vede attraverso gli occhi tuoi è troppo facile, sarebbe una scorciatoia. Grazie, però."

Si sporse a dargli un bacio a fior di labbra, per rinforzare il ringraziamento. Simone sorrise orgoglioso del suo Manuel responsabile e coraggioso e decise di rispettare la sua scelta, riservandosi comunque di parlare con sua madre in caso di eventuali problemi, che comunque non credeva ci sarebbero stati.

"Di niente, figurati. Però non fasciarti la testa prima di rompertela, ok? Non pensare già al peggio, ancora non vi siete parlati!"

Esclamò incoraggiante e Manuel annuì, rivolgendo uno sguardo di sfuggita a Floriana, che ancora stava parlando con Riccardo, prima di tornare a guardare Simone.

"Senti, per te sarebbe un problema se non ti accompagnassi in sala gessi? Magari ne approfitto, sto un po' con lei…però se preferisci che stia con te, resto."

Solo pochi mesi prima, Manuel non avrebbe mai accettato di affrontare di petto una situazione che lo spaventava, sarebbe scappato come aveva sempre fatto e Simone lo sapeva meglio di chiunque, per cui non poteva fare altro che essere ancora una volta fiero di lui e della sua crescita, e appoggiarlo nella sua decisione.

"No, no, tranquillo, anzi è un'ottima idea. Sii te stesso e andrà tutto per il meglio, va bene?"

Manuel annuì, anche se a differenza di Simone riponeva decisamente meno fiducia in se stesso, ma comunque non aveva senso rimandare e non voleva nemmeno mentire, mostrandosi per ciò che non era. Baciò Simone a fior di labbra e Simone lo trattenne per qualche istante in più, portando una mano dietro la sua testa, per cercare di infondergli un po' di sicurezza. Quando Manuel si rialzò, sorridendo al suo ragazzo, Floriana aveva appena finito di parlare con il dottor Bonvegna.

"Adesso dobbiamo proprio andare, ve lo riporto presto."

Promise il medico, prima di avviarsi con Simone lungo il corridoio. Simone si voltò per fare un saluto con la mano, sorridente, e sia sua madre che Manuel lo ricambiarono. Il ragazzo poi sospirò, per farsi coraggio, e si avvicinò alla donna porgendole una mano.

"Non ci siamo mai presentati di persona, io sono Manuel, piacere…"

Disse, un po' esitante, ma comunque cercando di essere cordiale. Sperò di non apparire tanto stupido agli occhi di Floriana quanto si vedeva con i suoi, ma a giudicare dal bel sorriso che la donna gli rivolse e dalla sua stretta di mano, lei non sembrava del suo stesso parere.

"Ciao Manuel, è un piacere poterti finalmente incontrare. Sai che sei un po' più alto, dal vivo?"

Manuel fece una risatina e annuì leggermente, anche se in realtà non ne aveva idea, non si era mai posto il problema.

"Sembro più alto perché al momento non c'è Simone."

Scherzò, facendo ridere Floriana, il che poteva essere un buon inizio per lui. La madre di Simone aveva una bella risata, elegante ma non fredda, controllata ma sincera. In questo, Simone aveva preso più da suo padre, a voler fare un paragone, quando si lasciava attraversare dalla felicità e dall'euforia e finiva con illuminare un'intera stanza con le sue risate e i suoi sorrisi.

"Posso…posso offrirle un caffè? C'è un bar qui vicino…"

Propose, sentendosi ancora più stupido. Quelle formalità proprio non facevano per lui, ma non sapeva come altro rompere il ghiaccio.

"Il caffè lo accetto volentieri, ma te lo offro io e ti prego, dammi del tu, non sono mica così anziana!"

Rispose divertita lei e Manuel si morse un labbro, imbarazzato.

"Certo, va bene, come vuole…cioè, come vuoi."

Prese un profondo respiro e si incamminò, dopo averle indicato la strada con un cenno della mano, che poi finì in tasca insieme all'altra.

"Comunque non l'ho fatto perché pensavo fossi anziana, eh. Non lo sembri…cioè, non lo sei."

Tentò di giustificarsi, pentendosene un attimo dopo. Ma cosa diamine andava blaterando?

"Ah, ti ringrazio, sei molto gentile."

Disse Floriana e poi gli sorrise, un sorriso genuino, ma agli occhi di Manuel sembrò comunque un sorriso di cortesia.

'Perfetto, adesso penserà che suo figlio sta con un cretino!', pensò, mentre camminava a testa bassa nel corridoio.

Incrociarono Dante, Anita e Virginia, arrivati in quel momento, e spiegarono loro brevemente la situazione prima di uscire. Manuel rimase in silenzio per tutto il tragitto, camminava con le mani in tasca e di tanto in tanto rivolgeva un'occhiata veloce alla madre di Simone che camminava tranquilla accanto a lui.

"Com'è andato il viaggio?"

Domandò una volta arrivati al bar, dopo aver ordinato i due caffè.

"Il volo in sé è andato bene, a parte qualche piccola turbolenza, ma ti confesso che a stento le ho avvertite, tanto ero preoccupata per Simone."

E Manuel vide tutta quella preoccupazione tornare negli occhi azzurri della donna di fronte a lui, la stessa che spesso e volentieri riconosceva negli occhi di sua madre, alla cui base c'erano sempre i suoi comportamenti sconsiderati. Ecco che i morsi della colpa tornavano a farsi sentire.

"Per fortuna ora so che sta bene."

Aggiunse accennando un sorriso e Manuel le sorrise di rimando, curvando appena un angolo delle labbra.

"Sì, Simone sta bene, si sta riprendendo in fretta. È pieno di energia e vuole darla al mondo e il mondo, beh…il mondo è molto fortunato."

Il suo sorriso inevitabilmente si fece più dolce a parlare di Simone e a Floriana non sfuggì questo dettaglio. Quel ragazzo doveva davvero tenerci tanto a suo figlio. 

"Voi siete compagni di classe, giusto? Vi conoscete da tanto, quindi?"

"Sì, lo siamo, ma solo da quest'anno. Io prima ero in un'altra classe, poi m' hanno bocciato e ho ripetuto la terza. Non so' bravo come Simone a scuola, anzi, so' proprio n'asino fatto e finito. È solo grazie a lui se quest'anno non m'hanno bocciato de nuovo, mo' me sta pure aiutando a studia' per recuperare i debiti a settembre…"

Spiegò Manuel, abbozzando un sorriso impacciato. Voleva essere totalmente sincero con la madre di Simone e poi, in fin dei conti, il suo rendimento scolastico era ben poca cosa rispetto al resto, tanto valeva che glielo dicesse.

"Però dall'anno prossimo me metto a studia' seriamente, basta stronzate."

Affermò, bevendo un po' di caffè. Floriana curvò le labbra in un sorriso sghembo, perché adesso ricordava che Dante le aveva già parlato di Manuel, e le aveva accennato che fosse un po' una testa calda, anche se con una luce speciale negli occhi. Era passato parecchio tempo da allora e sembrava che le cose, intanto, fossero cambiate in meglio.

"Beh, sei ancora in tempo per riprenderti e sono sicura che tu ne abbia tutte le capacità. Dante mi ha detto che sei uno dei suoi studenti più brillanti, sai?"

"Il professore è troppo buono con me…decisamente troppo. Non me lo merito."

Mormorò Manuel fissando la propria tazzina, imbarazzato, mentre se la rigirava tra le mani.

"Però se ho capito cosa voglio fare nella vita, lo devo a lui."

Floriana fece una risatina, annuendo. Sì, Dante tendeva a fare questo effetto sui suoi studenti, soprattutto su quelli più persi: li prendeva per mano e li riportava sul sentiero della vita.

"Vorresti laurearti in filosofia, giusto? Simone me l'ha accennato…"

Manuel annuì, con un altro sorso finì il suo caffè e tornò a guardare Floriana.

"Sì, vorrei, poi se ce riesco non lo so. Però la filosofia me piace, non sono tutte chiacchiere inutili come pensa qualcuno, te aiuta a vede' il mondo con occhi diversi, te aiuta a ragiona' sulle cose…perché bisogna pensare a ciò che si fa, a ciò che ci circonda, altrimenti se vive male o peggio, nun se vive proprio."

Rispose con entusiasmo, ma poi si bloccò, rendendosi conto di essersi lasciato troppo andare.

"Scusa, a volte se inizio nun me fermo più…"

Ma Floriana non era disturbata da quella piccola divagazione, anzi ne era rimasta piacevolmente sorpresa. Gli sorrise, quindi, affettuosamente.

"Proprio come un filosofo che si rispetti!"

Scherzò, per fargli capire che fosse tutto a posto. Manuel fece una risatina e annuì, sollevato.

"Se proprio devo essere sincero, però…predico bene e razzolo male."

Sentì il suo cuore cominciare a battere più velocemente, in preda all'ansia, ma doveva e voleva raccontare tutta la verità alla madre di Simone e pensava che fosse più giusto farlo subito. Lei corrugò leggermente la fronte, un po' perplessa.

"Ma dai, cosa dici? Non mi sembri uno sconsiderato…"

Manuel sospirò. Sembrare era la parola chiave.

"Eh, appunto, non lo sembro, però lo sono. Sto cercando di migliorare, ma ho fatto tante cazzate proprio perché non pensavo…e ci è andato di mezzo pure Simone."

L'espressione di Floriana si fece più confusa, ma anche più preoccupata. Non sapeva niente di tutto ciò.

"In che senso, scusami?"

Manuel fece un respiro profondo, prendendosi qualche istante per riordinare le parole nella testa. C'erano così tante cose da dire e lui era così agitato che gli risultava difficile organizzare un discorso coerente.

"Intendo dire che…non voglio nascondermi o mentirti, io a Simone ho saputo fare tanto male, proprio perché non ho pensato."

Cominciò a dire e contemporaneamente una delle sue gambe cominciò ad agitarsi sotto al tavolino dove si erano accomodati.

"Qualche mese fa, quando è venuto a Glasgow, da te…ti ha detto da che scappava?"

Floriana tornò con la mente a quella notte invernale, quando improvvisamente Simone le telefonò per dirle, con voce rotta e flebile, che stava per prendere un aereo e a quando nel giro di poche ore, poco prima dell'alba, se lo ritrovò davanti alla porta di casa, portando con sé soltanto un piccolo zaino e se stesso. Non avrebbe mai dimenticato i suoi occhi arrossati, stanchi, smarriti. Quegli occhi le dicevano che i bagagli di Simone non erano fisici, ma erano molto pesanti. Sospirò, perché iniziava a capire.

"Mi disse che si trattava di una questione di cuore e che c'entrava un ragazzo che aveva un'altra e che lo aveva respinto, ma non fece nomi. Quindi eri tu, quel ragazzo?"

Manuel annuì, guardando la madre di Simone con la stessa espressione di un cane bastonato. Ecco, nei suoi occhi poteva cominciare a vedere le prime incrinature, i primi segnali di un risentimento che nasceva dal desiderio di proteggere suo figlio e che per questo non era da condannare. Se ripensava al modo in cui aveva trattato Simone, alle cattiverie che gli aveva urlato e all'odio che aveva riversato su di lui, si sentiva uno stronzo, oltre che un coglione. Meritava decisamente di peggio, da parte di Floriana.

"Sì, quel coglione ero io. La sera in cui è scappato, l'avevo chiamato…"

Si bloccò, perché quella parola non riusciva nemmeno a ripeterla. Sospirò.

"...in un modo orribile davanti a mezza classe. L'ho umiliato solo per ripicca, perché aveva detto alla ragazza mia…cioè, alla mia ex, che l'avevo tradita con un'altra. È un casino, lo so…"

Mormorò, con lo stesso tono colpevole di chi va a confessare un crimine o un peccato. I suoi occhi scuri e tristi fissavano quelli di Floriana, ma in essi non cercavano perdono, perché sapeva di non meritarselo.

Floriana fece un profondo respiro, prendendosi un paio di secondi per riordinare i pensieri. Adesso le era più chiaro il motivo che aveva spinto Simone a mettere quanta più distanza possibile tra sé e quel ragazzo: suo figlio non aveva dovuto affrontare solo una semplice delusione d'amore, si era sentito insultare dalla prima persona che gli era piaciuta per davvero, e non poteva nemmeno immaginare il dolore che doveva aver provato. Da quella persona, però, ci era tornato dopo a stento un giorno.

"Eppure Simone ti ha perdonato…"

Manuel annuì, accennando un sorriso mesto. Lui quel perdono lo aveva preso e lo aveva gettato via.

"Sì, m'è bastato chiamarlo, chiedergli scusa…anche Simone è troppo buono con me, m'ha perdonato troppo in fretta…e io non me so' reso conto de quanto fossi fortunato. Ho fatto di nuovo lo stronzo, con lui, qualche tempo dopo…"

Floriana sgranò gli occhi, stupita. Cominciava davvero a domandarsi come facesse suo figlio a voler bene un ragazzo che lo aveva ferito così tanto, eppure in fondo conosceva la risposta perché anche lei aveva voluto bene a Dante -e gliene voleva ancora, anche se in modo diverso-, nonostante i suoi continui tradimenti. Probabilmente anche Manuel, come Dante, aveva un dolore o una paura che lo spingeva a comportarsi in quel modo.

"Di nuovo? E stavolta cos'è successo?"

Chiese comprensiva, e Manuel si stupì della dolcezza nella sua voce e nel suo sguardo. Gli ricordarono quelli del figlio.

"La sera del suo compleanno, stavo incazzato nero perché me frequentavo co' una, una che me sembrava l'amore della mia vita, che m'aveva appena mollato."

"L'altra donna di cui mi ha parlato Simone?"

Manuel annuì.

"Sì, sempre la stessa. Lei, Alice, era l'architetta che si occupava dei lavori a scuola nostra. M'aveva lasciato e io nun ce vedevo più, volevo spacca' tutto er cantiere, nun me 'mportava de niente. Eppure nessuno dei nostri compagni di classe, neppure la mia ex, s'erano accorti che stavo così male, solo Simone lo aveva capito e pure che era la festa sua, mi ha seguito per impedirme de fa' cazzate."

Nonostante la rabbia, nonostante le troppe birre che aveva bevuto, Manuel ricordava ogni dettaglio di quella notte illuminata soltanto dalle luci rosse del cantiere. Sorrise sghembo al pensiero di ciò che gli aveva detto Simone, quella frase da cui era nato uno dei momenti più belli della sua vita, anche se non se ne era reso conto subito.

"Non ti lascio perché ti voglio bene. Così mi ha detto, quando gli ho urlato contro di lasciarme stare. In quel momento ho realizzato che, a parte mi' madre, nessuno me lo aveva mai detto e allora ho smesso di pensare, non che prima fossi proprio lucidissimo, e mi sono preso questo amore che Simone era disposto a darme, con un bacio e…e anche con qualcosa di più."

Preferì risparmiare a Floriana i dettagli, che tanto non sarebbero serviti a niente se non a mettere entrambi in imbarazzo -lui era già arrossito, anche se poco-, mettendoli da parte anche per se stesso. Non erano la cosa più importante, al momento.

"Il problema è stato dopo, quando…quando Simone ha cominciato a chiedermi del perché lo avessi fatto, del perché fossi stato con lui. Me lo chiedevo anch'io, ma al tempo stesso non volevo pensarci, perché dargli e darmi una risposta avrebbe significato mettere tutto me stesso in discussione, mettere le mie certezze in discussione, e non volevo farlo, il solo pensiero mi terrorizzava. Simone però insisteva e insisteva e più lui insisteva e più io lo allontanavo, fino a quando non si è allontanato abbastanza da me pe' farsi trova' da un altro e solo allora ho capito la cazzata che avevo fatto. Poi si è risolto tutto, come puoi intuire, ma intanto l'ho fatto sta' male."

Bevve un abbondante sorso d'acqua, svuotando il bicchiere più o meno a metà. Gli era venuta la bocca secca soltanto ripensando a quanto fosse stato male quando aveva visto Simone e Claudio insieme. Floriana gli rivolse un sorriso appena accennato, ma affettuoso, vedendosi confermata la sua ipotesi.

"Perché mi hai raccontato tutto questo, allora, se tu e Simone avete risolto?"

"Perché io sono il ragazzo di Simone e tu sei sua madre, hai il diritto di sapere sia le cose belle che le cose brutte sul mio conto. A dirti quelle belle ci penserà sicuramente Simone, ma quelle brutte…volevo le sapessi da me."

Rispose Manuel, che poi sospirò. Ora arrivava la parte davvero difficile.

“E a dire il vero, non sono nemmeno finite…”

“Ancora? Certo che con te non ci si annoia mai…”

Replicò la donna con un pizzico di divertimento, ma Manuel non ci trovava niente di divertente in ciò che stava per raccontarle ed era sicuro che anche lei avrebbe smesso di sorridere di lì a poco.

“Per caso, Dante ti ha detto qualcosa su…sul rapimento di Simone? Non so, ti ha detto chi lo ha preso?”

Floriana scosse appena il capo e il suo sorriso si spense. Non si aspettava che il ragazzo le avrebbe parlato di questo, non in relazione a se stesso almeno.

“Mi ha solo detto che è stato un certo Sbarra, ma quando gli ho chiesto cosa c’entrasse Simone con un delinquente così, ha rimandato la discussione ad un altro momento. Sinceramente, però, vorrei capire cosa sia successo…”

“Simone non c’entra niente co’ quello, puoi stare tranquilla. La colpa è mia, solo mia. C’avevo degli impicci con lui, non ho rispettato gli accordi e lui, per punirme, se l’è presa co’ Simone.”

Disse di getto Manuel, vomitando le parole tutte d’un fiato. Esattamente come se avesse vomitato, aveva gli occhi lucidi e il respiro corto per lo sforzo, e avvertiva un senso di nausea che gli faceva girare la testa, tanto che dovette aggrapparsi al tavolino per ritrovare un minimo di stabilità.

Floriana era stata colpita da quelle parole come da proiettili, che la attraversarono portando con sé la rabbia nei confronti di quel ragazzo per colpa del quale aveva rischiato di perdere suo figlio, eppure quando si accorse che Manuel improvvisamente non aveva una bella cera, quel sentimento passò in secondo piano.

“Manuel, che hai? Non ti senti bene?”

Domandò preoccupata, portando una mano sul petto del ragazzo per sorreggerlo.

“Me dispiace, me dispiace da impazzi’, davvero…è tutta colpa mia.”

Biascicò Manuel, senza rispondere alla sua domanda, dopo aver deglutito il groppo che sentiva in gola. Cercava di fare del suo meglio per trattenere il pianto, perché non voleva passare per uno che cercava compassione, non se la meritava. Floriana, Dante e Virginia avevano tutto il diritto di odiarlo.

“Dai, bevi un po’, calmati…”

Floriana gli porse il bicchiere ancora mezzo pieno d’acqua, premurosamente, e Manuel lo svuotò in un paio di sorsi. I suoi occhi finirono sul fondo di quel bicchiere, non osava alzarli per guardare la madre di Simone, e non posò l’oggetto perché aveva bisogno di rigirarsi qualcosa tra le mani.

La donna rimase in silenzio per qualche secondo, a fissare quel ragazzo che sembrava davvero dispiaciuto, anzi addirittura distrutto, per ciò che aveva fatto. Questo non bastava a cancellare i suoi sbagli, ma si disse anche che Simone lo conosceva meglio di lei e che se lui continuava a volergli bene, doveva esserci un motivo che andava oltre la semplice cotta adolescenziale.

“Senti, ce la faresti a spiegarmi un po’ meglio cos’è successo?”

Manuel annuì, darle una spiegazione più articolata era il minimo che potesse fare. Cominciò quindi a parlare, muovendo il pollice su e giù sulla superficie del bicchiere.

“Ho iniziato a lavora’ per Sbarra un po’ di tempo fa, mi servivano soldi per aiuta’ mia madre, che non ha un lavoro fisso. Sa tipo tre lingue, è bravissima, ma è sfortunata…”

Sospirò.

“Simone lo sapeva, ma io non ho mai voluto coinvolgerlo. Quello di Sbarra è un mondo pericoloso e Simone è un bravo ragazzo, non fa per lui…però una volta ha provato a difendermi da uno degli uomini di Sbarra che era venuto a minacciarme ed è così che quello stronzo ha saputo di lui.”

Alzò il capo verso l’alto, scuotendolo leggermente, ancora incredulo per quel colpo di sfortuna.

“Poi, circa un mese e mezzo fa, Sbarra mi ha chiesto di spacciare della roba, niente che non avessi già fatto…però di diverso c’era che adesso stavo con Simone e tutto il resto era passato in secondo piano. Ho sottovalutato Sbarra, so’ stato un coglione, me sarebbe bastata qualche serata per farlo contento ed evitare tutto questo. Non ho pensato alle conseguenze e Simone…Simone ci ha rimesso per me.”

Tornò a guardare Floriana, anche se sostenere il suo sguardo gli faceva male, ma lei meritava di venire a sapere cosa avesse vissuto suo figlio da qualcuno che avesse il coraggio di guardarla negli occhi.

“Sbarra l’ha tenuto per due settimane in una stanzetta minuscola, al buio, senza farlo muovere, senza dargli da mangiare, per poco non gli portava nemmeno l’acqua. Un giorno sono andato a trovarlo, ho insistito per vederlo e all’inizio sembrava che stesse andando tutto bene, ma poi Sbarra gli ha fatto spezzare una gamba perché avevo insistito troppo. Come un coglione, mi era sembrata una buona idea minacciarlo…anche di questo è tutta colpa mia.”

Floriana si sentì morire il respiro in gola al pensiero che suo figlio, il suo dolce Simone, avesse dovuto sopportare quella tortura per tutto quel tempo. Bevve un po' d'acqua per cercare di riprendersi e tornò a guardare il ragazzo di fronte a sé, che avrebbe dovuto odiare eppure non riusciva a farlo, forse a causa di quei due occhi scuri e tristi che trattenevano lacrime amare, gli occhi di un bambino con tanta paura e dolore nel cuore. Prese un profondo respiro.

"Volevi aiutare tua madre, hai fatto una cosa sbagliata per un motivo giusto, posso capirlo."

Disse per rincuorarlo, ma Manuel non si sentì meglio a quelle parole. Non capiva perché Floriana cercasse di giustificarlo, non capiva perché non gli stesse urlando contro, ma capiva che il cuore buono di Simone era un po' anche quello di sua madre. Non disse nulla, perché la donna riprese a parlare subito.

"E dopo quella volta, sei andato di nuovo dal mio Simone?"

Manuel scosse il capo, facendo agitare un po' i ricci.

"Non c'è stato tempo, quella sera stessa ho parlato con un ispettore e il giorno dopo sono andati a salvare Simone."

Floriana annuì appena, sollevata al pensiero che almeno suo figlio fosse stato portato presto in ospedale.

"Ma perché non l'hai fatto prima? Perché nessuno di voi l'ha fatto prima? Perché aspettare tutto questo tempo?"

"Quando Simone è scomparso, non sapevo che cosa fare, sapevo soltanto che andare subito alla polizia sarebbe stata una pessima mossa, perché Sbarra se ne sarebbe accorto. Allora sono andato da un nostro amico, mio e di Simone, che è un avvocato e gli ho chiesto aiuto. Sapevamo entrambi che mandare la polizia da Sbarra sarebbe stato un errore, dovevamo aspettare il momento adatto. Non è stato facile nemmeno per me, credimi, ma era la cosa migliore da fare."

Spiegò Manuel, cercando di essere il più chiaro possibile. Non era facile comunicare la confusione di quei giorni, il senso di impotenza, la paura che ogni gesto o parola potessero trasformarsi in una condanna per Simone, ma Floriana sembrò capirlo e annuì di nuovo, con un lieve movimento della testa.

"Quando hai visto Simone, come ti è sembrato? Come…come stava?"

Manuel prese un respiro profondo, ancora gli mancava l'aria se ripensava al momento in cui aveva visto Simone svenuto in quello stanzino.

"In realtà, io Simone l'ho visto due volte, una per pochi minuti e l'altra sono rimasto con lui per…non so, forse un'ora o qualcosa di più."

Era sempre difficile misurare il tempo trascorso insieme, perché le ore, i minuti e i secondi non contavano più nulla, tornavano ad essere costrutti umani senza importanza o significato.

"La prima volta, era svenuto contro il tubo a cui era ammanettato. Ho avuto solo il tempo di svegliarlo, fargli bere un po' d'acqua e cercare di rassicurarlo come potevo. La seconda volta, invece, sono riuscito a convincere Sbarra a fargli togliere le manette, gli ho portato da mangiare e l'ho aiutato a camminare un po' per la stanza. Ti posso dire che era debole, fisicamente, eppure aveva una forza dentro che avrebbe fatto concorrenza a quella di un leone! Se glielo chiedi, ti dirà che aveva quella forza grazie a me, ma secondo me l'ha sempre avuta. Anche adesso, si sta riprendendo in fretta perché è forte."

Gli occhi di Manuel erano lucidi per le lacrime che voleva a tutti i costi trattenere, ma se brillavano era per l'orgoglio che provava nei confronti di Simone, che si rifletteva anche nel piccolo sorriso spuntato sulle sue labbra.

"Potrebbero essere vere entrambe le cose, non credi?"

Replicò Floriana, più rilassata. Adesso capiva perché Simone voleva così bene a quel ragazzo, perché era evidente che il sentimento era ricambiato.

"Beh, sì, potrebbero…ed è vero anche che anche lui mi dà forza. Senza Simone, non so dove sarei adesso."

Se lui per Simone era la sua acqua, perché in quei giorni ne aveva sentito la mancanza, Simone per lui era la sua luce, perché aveva trascorso tutta la vita al buio, come l'uomo nel mito della caverna di Platone, e grazie a Simone ne era uscito fuori.

"Allora torniamo da lui, mh?"

Propose Floriana, alzandosi. Manuel la imitò subito, ma rimase fermo.

"Comunque ho raccontato alla polizia tutto quello che so su Sbarra, tutto. Non voglio più avere a che fare co' gente come lui."

Disse determinato e Floriana si permise di fargli una carezza sulla guancia, affettuosa. Manuel ne fu sorpreso, ma non si sottrasse a quel tocco delicato.

"Sei un bravo ragazzo, Manuel. Sono felice che tu e Simone vi siate trovati, davvero. Tu comunque avviati, se vuoi, io intanto pago qui e ti raggiungo."

Manuel sorrise, imbarazzato. Pensava che Floriana avrebbe dovuto dargli uno schiaffo e non una carezza, ma si ripromise di dimostrarsi degno anche di quel gesto d'affetto.

"Ne sono felice anch'io, più di quanto possa dire. E il caffè lo offro io, voglio prendere anche qualcosa di fresco da bere per Simone…è una cosa nostra, è importante."

Floriana poté soltanto arrendersi di fronte a tutta quella determinazione e lasciò il ragazzo libero di andare in cassa. Manuel prese una lattina di thè al limone per Simone e uno alla pesca per sé: normalmente non avrebbe pensato a se stesso, ma bere insieme quel thè significava tornare agli intervalli trascorsi insieme a scuola, ad una piccola routine che aveva il sapore del quotidiano. Significava ricollocare al suo posto un'altra tessera nel puzzle della loro normalità.

"Manuel, posso parlarti un attimo?"

Domandò Dante, a bassa voce, non appena lo vide tornare insieme alla sua ex moglie. Manuel sgranò gli occhi per un istante, colto un po' alla sprovvista, ma non poteva dire di essere davvero sorpreso. Lui e Dante non avevano realmente parlato da quando Simone era stato rapito, era comprensibile che adesso il professore volesse dirgli qualcosa, probabilmente voleva rimproverarlo. Si schiarì la voce e annuì.

"Sì, certo…"

Infilò una mano in tasca, mentre con l'altra stringeva il manico della busta con le due lattine, e seguì il suo professore in disparte, in un angolo del corridoio che dava sulla sala d'attesa.

"Simone è tornato in camera?"

Chiese dopo qualche istante di silenzio, dal momento che il suo professore sembrava temporeggiare.

"No, no, ancora non è uscito, ci vuole un po' di tempo."

Manuel annuì appena, approfittandone per distogliere lo sguardo. Gli era ancora difficile sostenere quello di Dante.

"Senti, Manuel…io ti devo e ti voglio chiedere scusa."

Cominciò a dire l'uomo, con voce gentile, e Manuel si accigliò, perplesso. Non aveva assolutamente nulla di cui scusarsi, dal suo punto di vista.

"No, professo', lei non mi deve proprio niente. Sono io che le dovrei chiedere scusa, ma non basterebbe…"

Replicò mestamente lui, ma l'altro lo fermò mettendogli una mano sulla spalla.

"Manuel, per favore, guardami."

E il ragazzo, seppur un po' titubante, alzò gli occhi come richiesto. Guardando quelli del professore, si accorse che non erano pieni di rabbia o di delusione, ma di dispiacere. Davvero non ne capiva il motivo. Dante gli rivolse un sorriso appena accennato, ma sincero.

"Ho sbagliato a trattarti in quel modo, non avrei dovuto…"

"No, no, questo non è vero."

Lo interruppe Manuel, scuotendo il capo.

"Me meritavo pure de peggio, lo so io e lo sa anche lei."

Dante sospirò pazientemente, mentre gli ritornavano in mente le parole di Simone. Suo figlio aveva ragione, Manuel si sentiva in colpa per ciò che gli era accaduto, lo vedeva dai suoi occhi smarriti che ne soffriva così tanto.

"Fammi finire, per favore. Ho sbagliato, non avrei dovuto prendermela con te, perché anche tu, come me, avevi paura di perdere una persona a cui tieni molto. Non so se Simone te l'ha già detto, ma abbiamo avuto una piccola ma accesa discussione mentre tu non c'eri…"

Gli occhi di Manuel si velarono di preoccupazione: l'ultima cosa che voleva era che Simone litigasse con suo padre a causa sua, proprio adesso che avevano riallacciato il loro rapporto.

"Cioè? Che è successo?"

Dante prese un profondo respiro prima di rispondere. A dire il vero, non si aspettava che il figlio avesse tenuto quell'episodio per sé.

"Non ti preoccupare, come ti ho detto è stata una discussione breve, abbiamo fatto pace in fretta. Detto sinceramente, Manuel, non credevo fosse una buona idea che tu vedessi Simone, non subito, almeno. Simone però mi ha fatto capire che mi sbagliavo, mi ha detto quanto gli sei stato d'aiuto in questi giorni terribili e…e, da padre, oltre che chiederti scusa, devo anche ringraziarti."

La voce, gli occhi e il sorriso di Dante traboccavano di gratitudine nei confronti di Manuel e Manuel, che si aspettava una discussione del tutto diversa, sorrise imbarazzato.

"Io ho solo cercato de dargli un po' de sollievo, per quanto possibile. Simone ce l'ha fatta perché è forte, l'ho detto anche a sua madre…"

Dante fece una risatina, annuendo appena.

"Simone è sicuramente forte, ma ti ricordi quando ti ho detto che anche tu avevi una forza, quella delle persone amate, ma irraggiungibili e che con una tua semplice parola potevi fargli molto male?"

Manuel annuì, quel discorso se lo ricordava fin troppo bene. Lo aveva colpito nel profondo, quel giorno, aveva smosso in lui qualcosa di strano, qualcosa che provava soltanto con Simone: la sensazione di essere amato, amato per davvero.

"Certo che me lo ricordo, sì…"

"Ecco, bene. Adesso immagina quale sia la forza che tu, persona amata…"

E così dicendo, Dante gli toccò il petto con l'indice.

"...hai adesso che sei raggiungibile e raggiunta."

Manuel accennò un sorriso, perché aveva capito. Non aveva bisogno di immaginare quella forza di cui parlava Dante, perché era la stessa che sentiva dentro di sé da quando stava con Simone, quella che Simone gli dava.

"Basta una mia parola per far aprire il cielo in una stanza chiusa."

Mormorò in risposta, ma con decisione.

"Anche Simone ha questo potere, con me. Mi ha aiutato a rimanere lucido."

Specificò subito e Dante annuì, felice di sapere -o meglio, di avere l'ennesima conferma- che quelle due metà vaganti nel mondo si fossero ritrovate.

"Non avevo dubbi! Guarda, se fossimo stati a scuola, ti avrei messo un bell'otto!"

Manuel ridacchiò e mise su un'espressione furbetta.

"Vabbè, se po' sempre conserva' per l'anno prossimo, no? Mica scade…"

Il professore scosse il capo, divertito, e gli diede una leggera spinta in avanti.

"No, questo non credo proprio che accadrà."

I due, ridacchiando, tornarono a sedersi accanto al resto della famiglia. Manuel era più sereno  ora che aveva parlato con i genitori di Simone, si era liberato di un peso non da poco. Non si sarebbe concesso di adagiarsi sugli allori, però, anzi avrebbe fatto del suo meglio per non tradire quella fiducia, per dimostrarsi meritevole del loro affetto e di loro figlio. Dopo qualche minuto, vide arrivare Claudio e Domenico che subito si avvicinarono a lui, entrambi con un bel sorriso che Manuel ricambiò.

"Come mai tutti qui? Ci aspettavamo di trovarvi nella stanza di Simone…"

Disse l'avvocato, senza nascondere un velo di preoccupazione nella voce.

"Sì, è che l'hanno portato a mettere il gesso. È tutto a posto, comunque, sta bene."

Rispose Manuel, tranquillo. Claudio sospirò sollevato, sedendosi accanto a lui, e un istante dopo Domenico lo imitò.

"E tu, invece, come stai?"

Chiese ancora l'avvocato, premuroso. Nei suoi occhi azzurri c'era l'affetto di un padre nei confronti di un figlio e Manuel se ne sentì investito come da un piacevole vento caldo.

"Simone sta bene, quindi sto bene anch'io."

Rispose sorridendo e i due adulti ridacchiarono, scambiandosi uno sguardo complice. Quanta saggezza in quella semplice frase!

"E poi ho parlato con la mamma di Simone, che non sapeva praticamente nulla di ciò che era successo, e le ho raccontato tutto, ma proprio tutto. Le ho anche spiegato che era colpa mia se il figlio stava così…"

"È merito tuo se Simone è sano e salvo."

Precisò Domenico, con voce e occhi decisi. Manuel era esattamente come il suo Claudio, legato ad un senso di colpa più grande di lui che gli impediva di vedere il bene che invece era in grado di fare e c'era bisogno di qualcuno che glielo ricordasse. Manuel accennò un sorriso, così come Claudio, perché entrambi stavano cominciando ad imparare quella lezione.

"Deve averlo capito anche lei, da quel poco che le ho detto, perché è stata davvero comprensiva con me, non me lo aspettavo."

Spiegò a bassa voce, per non farsi sentire dalla diretta interessata.

"Ho parlato anche con suo padre, mi ha chiesto scusa per il suo comportamento, che secondo lui è stato troppo duro."

Aggiunse, rivolto principalmente all'avvocato, con cui aveva già toccato il discorso. Claudio annuì, contento della notizia.

"Mi fa davvero piacere, Manuel, credimi."

E così, in un impeto d'affetto, avvolse un braccio intorno alle sue spalle. Manuel, sorpreso, scoppiò a ridere, ma non si sottrasse a quella specie di abbraccio e anzi, lo ricambiò. Domenico li osservava con divertito affetto.

"Io e Simone possiamo venirve a trova', ogni tanto? Quando ce viene voglia de una delle brodaglie tue, magari…"

Propose Manuel, quasi timidamente. Claudio ridacchiò e annuì, sorridente.

"Ma certo che potete! Vero, Domenico?"

Domandò al compagno, certo di una risposta positiva che non tardò ad arrivare. Anche Domenico, del resto, si era facilmente e velocemente affezionato a quei due ragazzi.

"Non c'era neanche bisogno di chiedere!"

Affermò l'ispettore, arruffando per gioco i capelli di Manuel, il quale passò i successivi minuti a lamentarsene -li aveva sistemati per Simone!- e a cercare di riportarli più o meno in ordine.

Dopo un bel po' di tempo, trascorso a parlare delle indagini su Sbarra con la famiglia di Simone, un'infermiera venne a chiamarli, dicendo che Simone era tornato in camera e che aveva qualcosa da mostrar loro.

Lì trovarono Simone in piedi, sostenuto da due stampelle, che sotto lo sguardo vigile del dottor Bonvegna, muoveva i primi passi incerti con il gesso. Gli sembrava di essere tornato ai tempi in cui, bambino, barcollava come un cerbiatto appena nato -volendo fare un paragone con il soprannome che Manuel gli aveva recentemente dato- dal divano alla poltrona del salotto aiutato da suo padre. Anche la soddisfazione e l'entusiasmo, riflessi sul suo volto sorridente, erano gli stessi di allora.

"Sei un grande, Simo!"

Esclamò Manuel, al settimo cielo, avvicinandosi di qualche passo. Gli sembrava un sogno poter vedere il suo ragazzo di nuovo in piedi e che per di più camminava con le sue gambe -per la precisione con la sua gamba e due stampelle, ma era pur sempre un traguardo-.

"Aspetta, Manuel, aspetta. Vengo io da te, torna indietro!"

Replicò Simone, euforico come un bambino che voleva mostrare una cosa che aveva appena imparato. Manuel, senza farselo ripetere di nuovo, tornò sui suoi passi e si riavvicinò al gruppo di adulti, che guardavano Simone con la sua stessa gioia e tutti, chi in maniera più evidente, chi meno, avevano gli occhi lucidi.

Simone prese un respiro profondo, si scambiò uno sguardo d'intesa con Riccardo e, un passo alla volta, attraversò l'intera stanza. Camminare per lui era sempre stata un'azione scontata, qualcosa a cui non aveva mai dato importanza, e così anche correre -ad esempio in un campo da rugby- gli veniva automatico, non aveva mai dovuto pensare a come muovere le gambe o a dove poggiare i piedi, il suo corpo era una sorta di macchina calibrata alla perfezione. In quel breve tragitto, invece, si rese conto che ogni passo non era più così automatico, così fluido, doveva stare ben attento a dove poggiava il piede sano e, soprattutto, a tenersi saldo alle stampelle con cui si sollevava leggermente per avanzare. Era lento, impacciato, come un meccanismo guasto, e faceva fatica a muoversi in quel modo, ma nel sorriso di Manuel trovò la perfetta ricompensa per il suo sforzo.

"Ti tengo io, tranquillo."

 Lo rassicurò Manuel, poggiando le mani sui suoi fianchi per sostenerlo. Aveva notato che Simone aveva il respiro affannato, forse si era affaticato troppo, aveva bisogno di riprendersi e lui era pronto ad essere il suo appoggio, il suo porto.

"Sei stato proprio bravo, lo sai? Ti meriti un premio…"

Lo baciò a fior di labbra e poi gli fece una carezza sulla punta del naso con il proprio. Simone fece uno sbuffo divertito e ricambiò il bacio, poi poggiò la testa sulla spalla di Manuel, lasciandosi andare tra le sue braccia. Sapeva che Manuel non lo avrebbe fatto cadere.

Non appena si sentì un po' più in forze, qualche decina di secondi dopo, si spostò verso la sua famiglia e si prese la sua dose di abbracci e di baci dal padre, dalla madre e dalla nonna, e gli sembrò ancora di più di essere tornato piccolo anche se, doveva ammettere, non gli dispiaceva affatto: la sua famiglia gli era mancata, anche con loro doveva recuperare il tempo perso.

Si avvicinò poi a Claudio e Domenico, che erano rimasti in disparte per lasciare spazio alla famiglia, e prima che potesse dire o fare qualsiasi cosa, l'avvocato lo abbracciò con tutto il suo affetto, liberando un sospiro di sollievo. Si era sforzato di mostrarsi tranquillo agli occhi di Manuel per non farlo agitare ulteriormente, ma anche lui aveva trascorso parecchie notti insonni, agitato dai pensieri e dalla paura, e adesso poter stringere tra le braccia quel ragazzo a cui si era affezionato come se fosse stato suo figlio, gli riempiva il cuore di gioia.

"Non sai quanto sono felice di vederti, Simone. Come ti senti?"

Domandò, rivolgendogli il suo tipico sguardo premuroso, e Simone accennò un sorriso.

"Anch'io sono felice di rivederti e sto bene, non ti preoccupare. Voglio ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me e soprattutto per Manuel, mi ha detto che l'hai aiutato tanto…"

Cominciò a dire, ma Claudio lo interruppe con una risatina leggera.

"Non c'è bisogno che tu dica niente, lo sai. Se proprio vuoi ringraziarmi, pensa solo a rimetterti in sesto, va bene?"

Simone annuì, poi si voltò verso l'ispettore.

"Ispettore, io…volevo ringraziare anche lei per avermi salvato e chiederle scusa per essere stato un po' brusco. Volevo anche dirle che sono pronto a fare la mia deposizione, Manuel mi ha detto che la voleva…"

Domenico sorrise sghembo, intenerito dalla gentilezza di quel ragazzo.

"Ah, non devi ringraziare nemmeno me, ho fatto solo il mio dovere, e non devi neanche scusarti, ci mancherebbe. Però non devi nemmeno darmi del lei, se a Claudio dai del tu, altrimenti mi offendo!"

Esclamò, scherzoso.

"E invece fai bene, Simone, perché tra noi due è lui quello più vecchio!"

Ribatté Claudio, con lo stesso tono scherzoso, e il compagno alzò gli occhi al cielo, con finta esasperazione.

"Sì, vabbè, di un anno! L’importante è essere giovani dentro!"

Esclamò, facendo ridacchiare i presenti, e poi sospirò, tornando più serio.

"Parlando di cose importanti, se vuoi posso ascoltarti adesso, ma se preferisci passare un po' di tempo con i tuoi, posso tornare più tardi."

Simone, che fino a quel momento aveva assistito divertito a quel finto battibecco, tornò serio e scosse il capo, deciso. Voleva dare il prima possibile il suo contributo, perché Sbarra aveva fatto soffrire le persone a cui teneva di più al mondo e se lui poteva fare qualcosa per fargliela pagare, voleva farlo subito.

"No, no, voglio farlo adesso. Solo...loro possono restare?"

Era giusto che la sua famiglia sapesse, anche perché prima o poi avrebbe scoperto come aveva vissuto in quelle due settimane, ed era meglio che lo sapesse da lui. Si sentiva pronto a raccontarglielo. L'ispettore si scambiò uno sguardo con l'avvocato e poi annuì.

"Sì, certo, non c'è problema."

Gli rispose, rassicurante. In pochi istanti, Simone tornò a letto, con Manuel seduto accanto a lui e tutti gli altri sistemati intorno, pronti ad ascoltare.
"Allora, Simone, adesso rilassati, concentrati e raccontami tutto dall'inizio, mh? Sei pronto?"

Chiese Domenico, con gentilezza, e Simone annuì, serrando la mascella in un gesto istintivo, perché sentiva la tensione cominciare a salire. Manuel se ne accorse e prese una sua mano nella propria, per fargli capire che gli era vicino, che doveva stare tranquillo. Simone la strinse, rivolgendogli un sorriso grato. Era fortunato ad averlo accanto.

"Comincia con il dire le tue generalità, per favore."

Disse Liguori, prima di avviare la registrazione dal proprio cellulare. Simone, dopo quella piccola formalità burocratica, prese a raccontare.

"Il trenta giugno, intorno alle diciotto, avevo appena finito gli allenamenti di rugby al campo sportivo, stavo per tornare a casa, quando mi sono accorto che la mia Vespa aveva una ruota a terra e, quasi subito dopo, ho perso conoscenza. Quando mi sono svegliato, ero in una stanza completamente al buio e non potevo muovermi, ero ammanettato ad una specie di tubo e poi mi avevano picchiato, mi faceva male dappertutto."

Spostò gli occhi su Claudio, chiedendogli con lo sguardo se stesse andando bene e lui annuì, accennando un sorriso incoraggiante. Guardò poi suo padre, sua madre, sua nonna, trovando tanta apprensione sui loro volti, e fece loro un mezzo sorriso, per cercare di rassicurarli.

"Dopo un po', non saprei dire quanto, gli uomini conosciuti come Sbarra e Zucca sono venuti da me e mi hanno spiegato che…che mi avevano preso per minacciare Manuel, il mio ragazzo."

Ricordò la paura che aveva provato quando aveva visto quei due uomini davanti a sé, gli sembrava quasi di tornare a sentire la voce di Sbarra infilarsi sotto la sua pelle fino a fargli venire i brividi mentre gli mostrava la foto di lui e Manuel e gli spiegava quanto era stato fortunato ad aver preso ‘un fidanzato, meglio di un amico’. Ricordò la rabbia del vedere il proprio amore insultato in quel modo, sfruttato per gli sporchi scopi di un criminale, e anche il senso di impotenza e di angoscia al pensiero di non poter fare assolutamente niente per aiutare Manuel, che era ostaggio di Sbarra tanto quanto lui. Strinse un po' di più la mano del suo ragazzo, per ricordarsi che era tutto passato, che adesso erano di nuovo insieme e stavano bene.

Manuel, intuendo i suoi pensieri e le sue paure, si portò la mano di Simone alle labbra e vi posò un bacio silenzioso, cercando di infondergli il coraggio necessario a continuare il racconto e ad affrontarne il ricordo. Simone gli sorrise, grato, e poi riprese a parlare.

"Da quel giorno sono rimasto lì per due settimane, da solo, al buio, tranne che per un altro breve incontro con Sbarra, per uno con sua figlia, che mi ha portato dell'acqua e…e per le due volte in cui mi hanno fatto incontrare Manuel."

"Puoi raccontare cos'è successo durante il secondo incontro con Sbarra?"

Domandò l'ispettore e Simone annuì.

"Avevo sentito la voce di Manuel, poco prima, e mi ero messo ad urlare per farmi sentire da lui, per fargli capire in qualche modo che ero vivo. Sbarra poi è venuto a minacciarmi di dovermi dare una lezione, perché mi aveva chiesto di starmene buono e io non l'avevo fatto."

"Ed è stata in quell'occasione che ti ha fatto colpire alla gamba, provocandoti una frattura?"

Chiese ancora l'ispettore, mantenendo il tono neutro e distaccato che il suo ruolo imponeva, anche se dentro di sé era tutt'altro che calmo.

"No, in quel momento non mi ha fatto nulla, gli ho tenuto testa e lui ne è rimasto sorpreso, almeno così mi ha spiegato sua figlia."

Rispose Simone, prendendo poi un profondo respiro. Il coraggio che aveva mostrato a Sbarra durante quell'incontro era tutto di facciata, aveva temuto davvero che gli avrebbe fatto rompere una gamba -come lo aveva minacciato- eppure quando poi quella minaccia era diventata realtà, qualche giorno dopo, lui era riuscito a pensare soltanto a Manuel, perché la paura che quello stronzo gli avesse fatto del male era più forte del dolore per le ossa spezzate.

"Sbarra mi ha fatto rompere la gamba da Zucca durante la seconda visita di Manuel, perché…perché, a suo modo di vedere, era stato insolente e doveva essere punito."
Domenico si scambiò uno sguardo veloce con Claudio, in cui poté cogliere una rabbia del tutto simile alla sua e sospirò.

"D'accordo Simone, può bastare così."

Prima che potesse spegnere la registrazione, però, venne fermato dal ragazzo con un gesto della mano.

"Vorrei aggiungere una cosa, se possibile…"

L'ispettore annuì, avvicinandogli di nuovo il cellulare. Simone fece un respiro profondo e si voltò verso Manuel, cercando nei suoi occhi la forza di raccontare un ultimo episodio, che l'altro già conosceva. Manuel non fece fatica a capire di cosa volesse parlare Simone e gli mise il braccio libero intorno al busto, stringendolo a sé. Posò anche un bacio tra i suoi capelli, tutto pur di fargli capire che era al sicuro.

'Va tutto bene, Simo', ce sto io.'

Simone si sistemò meglio tra le braccia di Manuel e avvertì il proprio cuore calmarsi.

'Va tutto bene, c'è Manuel con me.'

"Un giorno, Sbarra e Zucca mi hanno portato fuori, nello sfascio, e mi hanno fatto lavare davanti a loro. Mentre mi lavavo, ad un certo punto hanno detto che sarebbe stato redditizio, per loro…farmi prostituire."

Parlò lentamente, un po' perché ricercava le parole adatte ad una dichiarazione ufficiale fatta alla polizia, e un po' perché ripercorrere quel momento anche solo col pensiero lo faceva sentire come se avesse camminato in mezzo ai rovi e, una volta uscito, avesse ancora delle spine sotto la pelle che gli facevano male quando si muoveva. C'era Manuel, però, che gli accarezzava il fianco e con quelle carezze riusciva ad attenuare il dolore e a rimuovere le spine.

Alzò il capo verso di lui e notò che aveva gli occhi lucidi, ma gli sorrideva per dargli coraggio e di questo non lo avrebbe mai ringraziato abbastanza. Spostò di nuovo lo sguardo e vide sua nonna, sua madre e Anita portarsi una mano davanti alla bocca per trattenere un urlo, suo padre con gli occhi sgranati per il raccapriccio, mentre Riccardo -anche lui era rimasto- sembrava essersi paralizzato per l'incredulità.

Dall'altra parte del letto, Claudio si era aggrappato ad una poltrona e serrava la mascella per non gridare, mentre per Domenico era un po' più facile mantenere la calma, dal momento che purtroppo era abituato a questo tipo di storie. La tentazione di gettare la chiave della cella in cui in quel momento si trovavano quei due pezzi di merda -in custodia cautelare-, però, era davvero alta.

"Ed è mai successo qualcosa di simile, Simone?"

Gli domandò l’ispettore, con voce ed occhi gentili. Era rimasto sorpreso della lucidità con cui Simone aveva esposto i fatti, senza confondersi o inciampare nelle parole, come del resto sarebbe stato comprensibile, e di come fosse riuscito a non far trasparire l'agitazione che invece vedeva nei suoi occhi.  In questo, era molto diverso da Manuel, che invece aveva avuto qualche difficoltà nel raccontare la sua versione, pur facendolo volentieri e con convinzione. Forse la differenza stava nel fatto che Manuel non aveva avuto Simone accanto a sé, quando era andato a parlare con lui nel suo ufficio.

"No, mai. Forse l'hanno detto solo per spaventarmi, non lo so…"

Rispose il ragazzo, facendo spallucce. Liguori gli chiese se avesse altro da aggiungere e quando alla sua risposta negativa chiuse la registrazione, Simone liberò un sospiro sollevato. Era davvero finita.

"Simone, io ti giuro che quegli stronzi passeranno il resto della loro inutile vita in una gabbia!"

Ringhiò Claudio, furioso, dando uno scossone alla poltrona a cui si era appoggiato. Era un avvocato, ne aveva visti di criminali che non erano paragonabili nemmeno ai demoni dell'Inferno in quanto a cattiveria, ed era anche abituato ai giochetti mentali come quello che Sbarra aveva fatto a Simone -perché di quello si trattava, se avesse avuto davvero intenzione di vendere il suo corpo, non lo avrebbe avvisato prima-, ma proprio per il fatto che questa volta era toccato a Simone, non riusciva a rimanere distaccato.

"Questo se prima non li ammazzo io con le mie mani!"

Gli fece eco Dante, altrettanto protettivo. Adesso capiva fino in fondo cosa intendesse Simone quando gli aveva detto che Manuel era stato una salvezza per lui, adesso comprendeva davvero cosa fossero stati per lui quei quattordici giorni di buio e di incubo.

"Signor Balestra, capisco il suo stato d'animo, mi creda, ma devo chiederle di calmarsi. Le minacce non servono, la giustizia ha dalla sua parte un avvocato che può fare concorrenza ad un leone, come può vedere. Se vuole aiutare suo figlio, gli stia vicino, perché di questo ha bisogno."

Disse Domenico, per tranquillizzare un po' gli animi.

"Se è possibile, vorrei dare anch'io il mio contributo. In quanto medico di Simone, posso confermare ciò che gli è stato fatto, posso testimoniare anch'io. Non ho idea di chi siano questo Sbarra e questo Zucca, ma devono pagare per aver osato far del male a Simone e se posso aiutare, nel mio piccolo…lo faccio volentieri!"

Intervenne Riccardo, anche lui con un certo fervore nello sguardo. Lo avrebbe fatto per chiunque dei suoi pazienti, ma si era affezionato particolarmente a Simone, a quel ragazzo dagli occhi scuri che anche Lorenzo, da lassù, gli aveva fatto capire di aver preso in simpatia. Simone sorrise al suo medico, riconoscente.

"Grazie, Riccardo. Davvero, grazie…è importante per me, per noi."

"Lei mi ha preceduto, dottor Bonvegna, le avrei comunque chiesto di collaborare, ma la ringrazio anch'io perché mi ha risparmiato la fatica di convocarla ufficialmente."
Aggiunse l'ispettore, che si rivolse poi a Simone, sorridendogli.

"Tu sei stato davvero bravo, ora devi pensare solo a riposarti, va bene?"

Simone annuì, ma c'era ancora un pensiero che lo tormentava.

"Adesso ci sarà un processo, giusto?"

"Sì, ma ci vorrà del tempo prima che cominci. Tu e Manuel verrete chiamati a testimoniare, ma non dovete preoccuparvi, ci sarò io con voi. Andrà tutto bene."

Rispose Claudio, la cui rabbia di poco prima si era trasformata in premura.

"Sì, ma, a questo proposito…"

Simone si voltò verso Manuel per un istante, preoccupato.

"Lui rischia qualcosa? Ha fatto delle cose per Sbarra e…"

"Simo', nun ce pensa' ora. Ho sbagliato, è giusto che paghi."

Ribatté Manuel, ma Claudio lo interruppe con un gesto della mano e un sorriso rassicurante sul volto.

"No, no, state calmi tutti e due. A Manuel non  accadrà niente, avete la mia parola. È vero, ha lavorato per Sbarra, ma ha anche rivelato delle informazioni importanti sui suoi affari, il giudice ne terrà conto. Al massimo gli verrà assegnata qualche ora di servizi socialmente utili, niente di chissà che."

Simone sorrise, più tranquillo.

"Grazie, Claudio."

"È il mio lavoro, Simone, lo sai. Domenico però ha ragione, adesso devi pensare a riposare."

Simone non se lo fece ripetere due volte, anche perché si sentiva spossato dopo aver ripercorso in pochi minuti due intere e difficili settimane, quindi si lasciò  andare contro lo schienale del letto, portando Manuel con sé. Adesso poteva davvero rilassarsi. Manuel sorrise, avvicinandosi all'orecchio del suo ragazzo.

"Hai visto? Te vogliono tutti bene."

Simone scosse appena il capo, sorridente.

"Ci vogliono tutti bene. Sbarra ha fatto del male anche a te."

Sussurrò, facendogli una carezza sulla sua mano, ancora intrecciata alla propria. Manuel non osò replicare, perché Simone, come sempre, aveva ragione.

"Ah, guarda che ti ho preso! Tutto quel parla' t'avrà messo sete, no?"

Così dicendo fece segno alla madre di passargli la busta con le lattine di tè -l'avrebbe presa lui, ma non aveva nessuna intenzione di sciogliersi dall'abbraccio in cui stava così bene-, che Simone prese ad osservare incuriosito. Era un pozzo di sorprese, il suo ragazzo!

"Non starai esagerando con le sorprese?"

Chiese divertito e Manuel scosse il capo.

"Questa non è considerabile una sorpresa, ti ho solo preso una cosa da bere. Una a te…"

Prese la lattina gialla e gliela porse. Simone sorrise a trentadue denti, ai suoi occhi quella bibita era il regalo più bello del mondo.

"...e una a me."

Concluse Manuel, prendendo per sé la lattina arancione. Notò poi il sorrisone di Simone e sorrise a sua volta, ma imbarazzato. Non aveva fatto chissà cosa, quel sorriso era una ricompensa fin troppo grande.

"Se sorridi così, però, 'sto tè se emoziona, se riscalda e diventa brodo."

Simone ridacchiò, posando un bacio sulla guancia rossa del suo fidanzato. Non era decisamente il tè che rischiava di scaldarsi.

"Ma io non sorrido per il tè, sorrido per te."

Replicò, fiero del suo piccolo gioco di parole. Manuel sospirò, innamorato.

"Vabbè, poesia a parte, ce lo beviamo o ce lo guardiamo?"

"Facciamo a pranzo? Tanto non dovrebbe mancare molto…"

Propose e Manuel, ancora una volta, non trovò nulla da obiettare. Di lì a poco, come Simone aveva previsto, gli portarono il pranzo e il dottor Bonvegna fece in modo che anche gli altri potessero mangiare in stanza con Simone, adoperandosi per far arrivare il pranzo dalla mensa dei medici.

Simone trascorse il resto del pomeriggio in compagnia, circondato dalle persone che gli volevano bene e a cui voleva bene, e presto il velo di angoscia che il suo racconto aveva disteso sui loro cuori venne spazzato via.

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Capitolo 20
*** La matematica non sarà mai il mio mestiere ***


"Adesso mi fai vedere gli esercizi di matematica?"

Domandò Simone, dopo cena, una volta rimasti soli. Manuel gli rivolse uno sguardo perplesso.

"Eh?"

Simone alzò lo sguardo verso di lui, divertito, dalla sua comoda posizione, fianco contro fianco, con il braccio di Manuel intorno a sé.

"Ma sì, dai, quelli che non ti escono! Me l'hai chiesto tu stamattina, mi hai detto che li hai portati…"

"Ah, quelli!"

Esclamò Manuel, ricordandosene solo in quel momento. Liberò un piccolo sbuffo, perché proprio non aveva voglia di alzarsi e di parlare di matematica a quell'ora e dopo una giornata così piena.

"Vabbè dai, non è che so' urgenti. Possiamo pure fa' domani…"

"Eddai Manuel, non farti pregare! È tutto il giorno che ci penso!"

Ribatté Simone, dandogli un bacio sulla guancia per corromperlo. Manuel sospirò di nuovo.

"Tutto il giorno che pensi a due esercizi scemi di matematica? Ma non è che me devo ingelosi'?"

Domandò retoricamente, mentre già si alzava per recuperare il quaderno. Lui, ai bacetti di Simone e ai suoi occhi da cerbiatto, proprio non riusciva a dire di no.

"Sicuro che non sei stanco?"

Chiese ancora, porgendogli il quaderno, il libro e l'astuccio. Simone scosse il capo, entusiasta.

"No, la matematica non mi stanca. Grazie, Manuel."

Replicò, sorridente, per poi mettersi a cercare gli esercizi che aveva assegnato al suo ragazzo che, invece, con la matematica si stancava presto e facilmente. Manuel fece una smorfia indispettita.

"Se dici così me fai davvero pensa' che quei quattro numeri te interessino più di me."

Si lamentò, anche se era palese che lo stesse facendo per finta. Non c'era niente e nessuno che poteva fargli mettere in dubbio l'affetto che Simone provava per lui. Simone scosse il capo, voltandosi divertito verso di lui.

"E questa è una grandissima cazzata, lo sai, vero?"

"Eh, non lo so, devo ragionarce…"

Rispose Manuel, ironico.

"Mentre ce ragiono, tu vedi un po' che cazzate ho fatto là sopra."

Aggiunse, indicando il quaderno con un cenno del capo. Subito dopo si sfilò la polo e i jeans, perché si era portato un pigiama -o meglio, una vecchia maglietta e dei pantaloncini di tuta che usava per dormire- e già che era in piedi voleva approfittarne per indossarlo.

Proprio per questo motivo, però, Simone non aveva nessuna intenzione di staccargli gli occhi di dosso per spostarli sui libri: preferiva di gran lunga farli scivolare sui capelli in disordine di Manuel -in cui non vedeva l'ora di infilare le mani-, sul suo petto magro che si muoveva quasi impercettibilmente e sui tanti tatuaggi che lo decoravano -quanto gli mancava baciarli tutti!- e poi, senza imbarazzo, sui boxer neri che gli fasciavano le gambe.

Manuel avvertì sulla propria pelle quello sguardo di fuoco e curvò l'angolo delle labbra in un sorriso sghembo, lusingato.

"Ti godi lo spettacolino?"

Chiese divertito, decidendo di aspettare ancora un po' ad indossare il pigiama, per farsi guardare qualche altro momento: amava sentire gli occhi di Simone su di sé tanto quanto amava sentirne le labbra.

Simone ridacchiò e annuì, spostando lo sguardo in quello di Manuel. Anche i suoi occhi erano bellissimi, tanto quanto il resto del suo corpo, e amava perdersi in loro.

"Colpevole."

Rispose, facendo spallucce.

"È che mi interessi decisamente più tu di questi quattro numeri."

Aggiunse, rivolgendo a Manuel un sorriso a trentadue denti reso ancora più dolce dalle gote leggermente rosse poco sopra le fossette ai lati delle labbra.

Manuel sorrise di rimando -era impossibile non farlo- e si avvicinò al letto per prendere delicatamente tra le mani il viso di Simone, lo spettacolo più bello del mondo.

"Hai ragione, prima ho detto una cazzata. Un'enorme cazzata."

Affermò con decisione, per poi annullare la distanza tra loro con un bacio morbido, lungo tutto il tempo necessario per permettere a Simone di arruffare i capelli di Manuel più di quanto avesse fatto la maglietta che si era sfilato e a Manuel di sentire le labbra di Simone sulle proprie, calde come il suo sguardo.

"Allora, professo', adesso puoi vede' cos'altro ho sbagliato?"

Domandò Manuel con voce volutamente bassa e roca, quando si separarono per riprendere fiato. Simone avvertì distintamente quella voce calda scivolargli sotto la pelle, regalandogli un piacevole brivido.

"Se me lo chiedi così, però, mi rendi molto difficile concentrarmi."

Rispose, accennando un sorriso. Manuel fece una risatina, lo baciò in mezzo agli occhi e si allontanò per indossare il suo pigiama, rapidamente, mentre Simone cominciava a dare uno sguardo agli esercizi, poi si sedette sulla poltroncina accanto al letto. Da lì, poteva osservare il profilo perfetto di Simone, le sue sopracciglia leggermente aggrottate nello sforzo della concentrazione e le labbra che si muovevano piano, senza emettere suono, per ripassare tutti i calcoli, accompagnandosi con un dito che faceva scivolare rapidamente sulla carta. Ne era semplicemente incantato.

"Mi stai fissando, Manuel?"

Domandò Simone ad un certo punto, guardandolo sottecchi.

"Beh, adesso tocca a me godermi lo spettacolino, no?"

Ribatté Manuel, facendo poi un occhiolino.

"Non è esattamente la stessa cosa, ti accontenti di poco."

Gli fece notare Simone, senza però trattenere un sorrisetto lusingato. Manuel scosse il capo con decisione.

"Questo fallo decidere a me, Simo'. Te sei così bello quando sei tutto concentrato, che me fai veni' voglia de diventa' quel quaderno, anche se è di matematica, solo perché lo stai guardando e toccando!"

Simone, come sempre di fronte a quelle dichiarazioni improvvise del suo fidanzato, rimase totalmente spiazzato. Ogni volta si sorprendeva della facilità con cui Manuel tirava fuori quelle che per lui erano vere e proprie poesie, la cui bellezza delle parole rifletteva semplicemente quella che il suo ragazzo aveva dentro, e ogni volta si riteneva fortunato ad esserne il destinatario.

"Allora vieni qui, così prendi il posto del quaderno e ti spiego cosa hai sbagliato, marpione."

Manuel in un attimo scattò dalla sedia e si sistemò accanto a Simone, riprendendo quindi il suo posto naturale, che subito lo cinse con un braccio. Con l'altra mano, invece, gli indicava gli esercizi.

"Qui hai sbagliato a copiare la traccia, vedi? E qui invece hai fatto un piccolo errore di calcolo, perciò non ti trovavi. Sei solo stato un po' distratto, tutto qua, ma il procedimento era giusto, bravo."

Spiegò con entusiasmo, cercando di incoraggiarlo e Manuel sospirò. Doveva imparare ad essere più attento in vista dell'esame di recupero, ma a voler essere onesto, il giorno in cui aveva svolto quegli esercizi aveva la testa da un'altra parte, più precisamente alla serata speciale che stava organizzando.

"A mia discolpa posso dire che quando li ho fatti stavo pensando ad altro e che ti giuro che starò più attento?"

Simone annuì, sorridente, e gli diede un bacio sulla guancia.

"Poi ci sarebbe anche quest'altro…"

"Ma a questo me trovo, Simo. Guarda, il risultato è giusto!"

Gli fece notare Manuel, indicando il risultato sul libro.

"Sì, è vero, però è un caso, perché il procedimento è sbagliato. Non hai seguito tutti i passaggi."

Disse Simone, paziente, e Manuel sbuffò.

"No, questo non lo rifaccio, il risultato si trova! Scusa, eh, ma chi lo dice che bisogna pe' forza segui' un solo ed unico procedimento? Chi lo dice che non ce ne possono esse altri, altrettanto giusti? È come dire che c'è un solo modo di amare e gli altri sono sbagliati!"

Protestò con veemenza, giocandosi tutta la sua parlantina. Simone ne era profondamente ammirato, ma anche divertito.

"Mh, e alla Girolami dirai questo, all'esame?"

Manuel fece una risatina e scrollò le spalle.

"Beh, dipende. A te t'ho convinto?"

"A me sì, ma io non sono la Girolami."

Replicò Simone, con un dolce sorriso. Manuel gli si avvicinò, con quel suo ghigno furbetto che usava quando voleva essere particolarmente provocante -riuscendoci ogni volta-, arrivando a pochi centimetri dalle sue labbra. Gli prese il mento con due dita e Simone smise di respirare, i suoi occhi incantati si mossero da quelli di Manuel alle sue labbra in un gesto istintivo e poi di nuovo su, per tornare a guardarli.

"Per fortuna, perché co' la Girolami non ho proprio voglia de fa' questo."

Soffiò Manuel sulle sue labbra, poco più di un sussurro, e poi lo baciò.

Simone non si fece attendere e ricambiò il bacio, lasciando che le loro labbra si amassero per un po', ma poi fece scivolare le proprie sulla guancia di Manuel, che vennero piacevolmente stuzzicate dalla sua barba, seguendo un percorso che lentamente lo portò al lobo del suo orecchio.

"Per sfortuna, perché l'esame lo farai con la Girolami, quindi devi rifare gli esercizi."

Disse piano, con voce profonda, per ricordare a Manuel che anche lui sapeva provocare, quando voleva. Per sottolineare ulteriormente il concetto, posò qualche bacio poco sotto il suo orecchio, dove sapeva che il suo ragazzo era particolarmente sensibile.

Manuel aveva smesso di respirare nell'esatto momento in cui aveva capito le intenzioni dell'altro, ma ad essere onesti non aveva bisogno di ossigeno, quando Simone lo baciava così. I suoi polmoni tornarono a funzionare quando il suo ragazzo si separò da lui, eppure gli sembrava che gli mancasse l'aria.

"Devo…devo rifarli adesso? Davvero, Simo'?"

Si lamentò, affannato e con lo sguardo ferito. Simone scrollò le spalle, accennando un sorriso divertito.

"Adesso o al massimo domani, ma sì, devi rifarli tutti."


Portò una mano sulla sua guancia per accarezzarlo e l'espressione divertita divenne più dolce, premurosa. Voleva davvero che Manuel superasse i debiti delle tre materie in cui era stato rimandato, così i professori avrebbero smesso di definirlo una causa persa, un alunno che stava lì solo a scaldare la sedia, un somaro a cui era inutile tentare di spiegare qualsiasi cosa, come spesso lo avevano definito. Aveva tutte le capacità per farlo, Simone ne era certo.

"È importante, lo sai."

Aggiunse, teneramente. Manuel sospirò, prendendosi qualche secondo per godersi ancora quelle carezze. A lui del parere dei professori non fregava niente, aveva smesso di fregarsene proprio durante il suo terzo anno –la prima volta che lo aveva frequentato-, quando ormai ci aveva fatto l'abitudine ad essere definito un caso disperato e anzi aveva fatto propria quella definizione, applicandola a se stesso in tutti gli ambiti della sua vita, ma restare in classe con Simone, quello sì che era importante ed era una cosa per cui valeva la pena impegnarsi. Glielo doveva, poi, visto tutto il tempo che gli aveva dedicato per fargli entrare in testa formule e concetti. Si voltò, dunque, per tirare a sé libro, quaderno e matita.

"Li faccio adesso, perché domani ho da fare. Anzi, te volevo di'...te dispiace se vado via per qualche ora?"

Domandò, di nuovo rivolto verso Simone, che scosse il capo.

"No, tranquillo, non c'è problema. È tutto a posto?"

Chiese, con un leggero velo di apprensione negli occhi. Manuel annuì, sorridente.

"Sì, è solo che devo compra' delle cose per la nostra serata. Te l'ho detto che ho dovuto modifica' un po' i piani, no?"

Rispose, giocherellando distrattamente con la matita. Era sincero, aveva solo bisogno di un po' di tempo per girare tra i negozi, sperando di trovare ciò che gli serviva. Simone sorrise, di nuovo sereno, e si sporse a baciarlo sulla punta del naso.

"Allora prenditi tutto il tempo che ti serve, Paperotto. Sono sicuro che sarà tutto bellissimo."

E poteva affermarlo con così tanta convinzione perché passare del tempo con Manuel era già di per sé qualcosa di stupendo, soprattutto dopo ciò che era successo.
Manuel abbozzò un sorriso, perché per quanto anche a lui bastasse stare insieme per trascorrere del tempo meraviglioso, voleva con tutto il cuore che la loro serata fosse perfetta, soprattutto dopo ciò che era successo.

"Lo spero anch'io, Simo'."

Replicò, per poi voltarsi verso gli esercizi.

"Anche pe' questi me devi da' un po' de tempo, però."

Disse sconsolato e Simone ridacchiò, annuendo. Lo cinse con un braccio, affettuoso, facendogli una carezza sul fianco per incoraggiarlo.
"Tutto il tempo di cui hai bisogno, non preoccuparti. Né gli esercizi né io andiamo da nessuna parte."

Manuel sorrise a quella dolce promessa, a cui si aggrappò con tutto se stesso, e con l'entusiasmo che ne derivò si concentrò sugli esercizi da svolgere. 'A noi due, matematica.', si disse in mente.

Era il turno di Simone, adesso, riempirsi gli occhi dello spettacolo che era Manuel concentrato: lo sguardo che correva da un numero all'altro, da un rigo all'altro, così intenso che ebbe quasi paura potesse dare fuoco alla carta, la voce bassa, quasi impercettibile, che ripeteva una formula ripescata da chissà che angolo della sua mente, a volte con sicurezza, a volte in modo più incerto -ed in quel caso Simone interveniva facendogliela rivedere-, i ricci scomposti che si agitavano quando scuoteva il capo per cancellare qualcosa ed infine il sorriso trionfante quando il risultato coincideva con quello indicato sul libro.

"Ho fatto! E stavolta mi trovo, guarda!"

Esclamò Manuel, porgendo il quaderno a Simone con orgoglio. Simone, prima ancora di dare un'occhiata agli esercizi, guardò Manuel con occhi pieni d'amore e gli diede un bacio a fior di labbra.

"Bravissimo!"

Manuel ridacchiò, un po' imbarazzato.

"Vabbè, prima dacce comunque uno sguardo…può darsi che abbia comunque sbagliato qualcosa."

"Non importa, sei bravissimo perché ti ci sei applicato."

Ribatté Simone, dandogli poi un altro bacio prima di spostare lo sguardo sul quaderno. Mentre controllava gli esercizi, prese a fare dei grattini sulla nuca di Manuel, morbidi e leggeri, perché sapeva che al suo ragazzo veniva sempre un po' d'ansia quando gli ricontrollava i compiti e che quelle carezze lo aiutavano a rilassarsi. Manuel sospirò profondamente, ringraziando poi Simone con un bacio sulla guancia.

"Bravissimo di nuovo, stavolta non c'è neanche un errore! Hai capito dove avevi sbagliato?"

Chiese Simone, di nuovo rivolto verso di lui. Manuel sospirò di sollievo e annuì.

"Sì, non me devo distrarre e devo segui' tutti i passaggi del procedimento, ho capito. Adesso posso farte le coccole o te devo recita' er teorema de Pitagora, prima?"

Simone rise di gusto, sollevando poi un sopracciglio.

"Non sarebbe una cattiva idea. Com'è che fa?"

Manuel emise un mugolio di disappunto, pentendosi seduta stante di essersi dato la zappa sui piedi. 'E mo come cazzo faceva 'sto teorema?', pensò. Chiuse gli occhi, per concentrarsi.

"L'aria del quadrato costruito su un cateto…no, sull'ipotenusa de un triangolo…rettangolo, sì, rettangolo, è uguale alla somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti."
Rispose con qualche incertezza, ma quando riaprì gli occhi e vide Simone annuire soddisfatto, capì di non aver detto una cazzata.

"Contento mo', professo'? È finita l'interrogazione?"

Aggiunse, sarcastico. Simone annuì, perché anche lui preferiva concentrarsi sul suo ragazzo decisamente di più che sul libro di matematica.

"Sì, sì, è finita. Voglio andare un attimo in bagno e poi sono tutto tuo."

Si stava già spostando per scendere, anche se un po' goffamente, quando Manuel scattò rapidamente in piedi per aiutarlo.

"Aspetta, te do' 'na mano. Tanto ce devo anna' pur'io."

Ed era vero, ma anche in caso contrario avrebbe comunque aiutato Simone e questo lo sapevano entrambi. Simone gli sorrise grato e si appoggiò a lui per scendere dal letto.

"Grazie, Paperotto."

"Di niente, Cerbiattino."

Si prepararono per la notte, esattamente come facevano a casa -ed ecco che il puzzle della normalità si faceva sempre più completo- e poi si sistemarono a letto.
"Com'è andata con mia madre, alla fine? Ti vedo ancora tutto intero, quindi presumo non ti abbia mangiato."

Domandò Simone con leggero sarcasmo nella voce, mentre accarezzava la mano che Manuel aveva poggiato sul suo petto. Manuel ridacchiò, poi gli rivolse un morbido sorriso.

"Presumi bene e avevi ragione, tua madre è praticamente una Santa. Le ho detto tutto, perfino che ero io lo stronzo che ti ha fatto vola' a Glasgow in piena notte, e lei…lei è stata davvero buona con me, forse pure troppo. Almeno una sgridata me la meritavo e invece niente."

Fece una mezza risata, poco più di uno sbuffo in parte divertito e in parte incredulo.

"Figurati, m'ha pure detto che so' un bravo ragazzo, ma quando mai me l'ha detto qualcuno? A parte te, chiaramente…"

Simone sentì il proprio cuore riempirsi di gioia ad ascoltare quel racconto, soprattutto a sapere che qualcuno, per una volta, avesse compreso la vera natura di Manuel e glielo avesse fatto capire chiaramente. Quel qualcuno, poi, era sua madre, e la cosa lo rendeva ancora più felice, perché lei era una delle persone a cui voleva più bene al mondo. Si portò la mano di Manuel alle labbra e la baciò, per poi riposizionarla al suo posto sul proprio petto.

"Tu meriteresti di essere riempito di complimenti dalla mattina alla sera, ma a parte questo sono davvero contento di come è andata. Non che mi aspettassi un esito diverso, te l'ho detto, ma so che ti sei tolto un peso e questo mi rende felice."

Manuel si sporse a dargli un bacio sulla guancia, pensando a quanto fosse meraviglioso il potere dell'amore, che ti permette di essere felice per la felicità dell'altra persona.

"Beh, non so se me lo merito, ma ce sei te a riempirme de belle parole tutto il giorno, e io non potrei chiedere di meglio. Anche perché dei complimenti degli altri me ne farei molto poco…"

Replicò a bassa voce, dandogli poi un altro bacio prima di tornare con il capo sul proprio spazio del cuscino. Simone accennò una risatina e fu lui, ora, ad avvicinarsi al proprio fidanzato per baciarlo, stavolta sulle labbra.

"E io, allora, non smetterò mai. Proprio mai."

Sussurrò sulle labbra dell'altro, prima di baciarlo di nuovo. Manuel lo avvolse tra le braccia, in modo da sostenere il suo corpo in tensione, e dopo lo aiutò a ritornare disteso, sorridendogli grato.

"Sai, Simo, ho parlato anche con tuo padre. È stata la prima volta dopo giorni…"

Mormorò, dopo qualche istante passato solo ad accarezzarsi e a guardarsi negli occhi. Simone si accigliò leggermente, preoccupato, perché temeva che suo padre avesse potuto fare qualche tipo di rimprovero a Manuel anche se gli aveva dimostrato di aver compreso l'importanza della sua presenza per lui.

"Ah sì? E che ti ha detto?"

Manuel spostò la propria mano dal petto al viso di Simone, che prese ad accarezzare con lo stesso affetto. Aveva notato la sua espressione preoccupata, ma non c'era davvero nulla di cui preoccuparsi.

"Quando ti hanno rapito, tuo padre mi ha detto che ero stato un irresponsabile, che ero solo un ragazzino che pensava d'esse grande…e aveva ragione, Simo', aveva ragione da vende."

Simone scosse il capo, contrariato, ma prima che potesse ribattere e dire ancora una volta a Manuel che l'importante era aver capito i propri sbagli, lui riprese a parlare.

"Una cosa che mi colpì molto, fu la sua totale assenza di rabbia nel dirmelo. Te lo giuro, Simo', sembrava aver perso tutte le forze, e forse era davvero così, lo capisco. Eppure, nonostante ciò, mi ha chiesto scusa per avermi detto quelle che, in fondo, so' pure cose vere. Mi ha chiesto scusa per questo e anche per aver pensato che era meglio che nun ce vedessimo, io e te. Mi ha accennato alla vostra discussione…"

Spiegò tranquillo, continuando ad accarezzare la guancia del suo ragazzo. Simone sospirò, annuendo appena. Aveva sperato che Manuel non venisse a sapere di quel litigio tra lui e suo padre, perché sapeva che si sarebbe sentito in colpa, ma era più sereno a sapere che il padre si fosse scusato.

"Sì, scusami, non te l'ho detto perché…perché so quanta stima hai di mio padre, quanto gli vuoi bene, e non volevo che stessi male per una cosa che, ti giuro, si è risolta subito. È vero, era arrabbiato con te e non voleva che passassimo del tempo insieme, ma poi gli ho spiegato quanto tu sei stato fondamentale per me in questi giorni, gli ho detto che senza di te non ce l'avrei fatta e lui ha capito."

Manuel sentì i propri occhi inumidirsi, perché anche se erano cose che Simone gli aveva già detto, faceva sempre un certo effetto su di lui sapere che aveva rischiato di perdere di nuovo la sua metà, questa volta per sempre.

"Perché io sono la tua acqua, giusto?"

Sussurrò appena e Simone, sorridendo teneramente, annuì e poi lo baciò in mezzo agli occhi lucidi, come lucidi erano diventati anche i propri. Una mano prese il proprio posto tra i suoi capelli e con le dita cominciò a disegnare piccoli cerchi sulla nuca del compagno, in un morbido massaggio.

"Sì, lo sei. Non posso vivere senza di te."

Rispose, sussurrando.

"E tu sei la mia luce, Simo. Nemmeno io vivrei senza di te, perché se non fossi arrivato tu nella mia vita, sarebbe stata per sempre una vita buia e fredda e non sarebbe stata vera. Prima di conoscerti, ero come l'uomo del mito della caverna di Platone: guardavo le ombre proiettate sul muro e credevo fossero la realtà, poi quelle ombre le ho fatte mie, le ho portate dentro di me e sono diventato l'ombra di me stesso. Senza di te, non avrei mai cominciato a vivere davvero."

Simone, che aveva vissuto nel buio, nell'ombra, per due intere settimane e che ad avere quel buio dentro di sé era andato spaventosamente vicino, poteva solo immaginare quanto potesse essere tremendo vivere in quel modo da sempre. Istintivamente, come a proteggerlo, lo strinse un po' di più a sé e lo baciò.

"Adesso è tutto passato, non devi più guardare le ombre."

Manuel sorrise teneramente e anche i suoi occhi, fissi in quelli di Simone, sorridevano. Portò una mano tra i suoi ricci scuri, facendoci passare le dita in una morbida carezza. Sì, ne era certo, con Simone al suo fianco non c'erano più ombre che potessero trasformarlo in ciò che non era.
"E tu non devi più avere sete."

Gli posò un bacio sull'arco di Cupido, morbido come la sua carne che sentiva sotto le proprie labbra, seppur velata dalla leggera barba che gli era cresciuta in quei giorni.
"E non ti devi nemmeno agita', altrimenti te fai male!"

Simone sospirò, perché Manuel aveva ragione, ma avrebbe sopportato anche quello pur di sentirlo vicino, pur di non avere più sete. C'era però un'alternativa, decisamente meno rischiosa, che avrebbe dato modo a lui di sentire vicino Manuel e a Manuel di mantenere una certa promessa, che a sua volta era un modo per soddisfare un certo desiderio.

"Beh...tu sai come farmi stare buono, no? Se ti va, insomma..."

Propose a bassa voce, con gli occhi che brillavano emozionati. Manuel accennò una risatina, scoprendo appena i denti bianchi, e si sollevò su Simone, incastrandolo tra le proprie braccia tese e portandolo dolcemente a ruotare il busto in una posizione più comoda e adatta alla sua condizione. Il dottor Bonvegna infatti era stato categorico, Simone doveva restare disteso supino e tenere la gamba sollevata e Manuel era deciso a fare in modo che fosse così.

"Simo', se un giorno dovessi mai dirte che nun me va' de riempirte de baci, carezze e attenzioni varie, allora dovrai chiamare la neuro perché vorrà dire che me sarà andato totalmente in pappa il cervello, hai capito?"

Simone rise, riempiendo la stanza -oltre al cuore di Manuel, come sempre- con quel suono, e sollevò una mano ad accarezzargli il viso, tracciando il profilo della sua mascella con il retro dell'indice.

"Con un cervello come il tuo, non potrebbe mai succedere."

Manuel abbozzò un sorriso imbarazzato e i suoi occhi si velarono di insicurezza. Non pensava di avere chissà che grande mente, dato che per tutta la vita gli aveva suggerito solo cazzate.

Simone, che si era accorto di quel mutamento improvviso nel suo sguardo e che si era fatto carico di tutta la sua insicurezza già da tempo, spostò le carezze tra i suoi capelli, per scacciare quei pensieri. Gli si stringeva sempre il cuore, quando Manuel non riusciva a vedersi.

"Perché, com'è il mio cervello?"

Sussurrò timidamente Manuel e Simone, sorridendogli dolcemente, gli rispose con infinito amore.

"È pieno di cose belle e non credere a nessuno che ti fa credere il contrario."

Manuel sospirò, lasciando che quelle parole gli entrassero dentro come il calore di un fuoco e lo cullassero, almeno per un po'. A lui il suo cervello sembrava pieno di tutto, fuorché di cose belle, ma se era Simone a dirlo, allora ci credeva. Si chinò quanto bastava ad accarezzare il suo naso con il proprio, per ringraziarlo.

"Non posso garanti' per il mio cervello, ma il mio cuore è sicuramente pieno de cose belle, come dici tu, perché è pieno di te. E il cuore non va in pappa. Quindi sì, per rispondere alla tua domanda, certo che me va."

Simone sorrise, sentendosi protetto e al sicuro al pensiero di essere nel cuore di Manuel.

"Anche il mio cuore è pieno di te."

Sussurrò, prima di fargli un cenno con il capo per dirgli che aveva campo libero.

Manuel sollevò la testa per qualche istante, rivolgendogli un tenero sorriso mentre pensava a quanto fosse stato fortunato ad aver incontrato proprio il suo cuore, tra tutti quelli che ci sono in giro, e ad essere stato accolto da lui. Si chinò poi di nuovo sulle sue labbra, baciandole lentamente per fargli capire quale sarebbe stato il ritmo della serata e per chiedergli se gli andasse bene.

Simone ricambiò i baci con la stessa lentezza, approvava l'idea e del resto non c'era nessuno a metter loro fretta in quella stanza d'ospedale che già stava diventando più sbiadita intorno a loro.

Manuel, dopo un po', si spostò sul viso rilassato dell’altro, posando baci un po' dove capitava sulle guance morbide, in mezzo agli occhi, sugli zigomi, sulle palpebre, sulla fronte, senza seguire uno schema se non la voglia di non lasciare neanche un centimetro di pelle libero da baci.

Simone amava quei puntini d'amore e liberava piccoli squittii felici ogni volta che sentiva le labbra del suo amato posarsi sulla propria pelle. Manuel non poteva fare a meno di sorridere dinanzi a tutta quella felicità.

"Ah, quindi è questo il verso che fanno i cerbiattini?"

Domandò canzonatorio, ma Simone reagì semplicemente con una risatina un po' più lunga.

"Quando i paperotti li rendono felici, sì."

Rispose dolcemente, portando una mano ad accarezzare il fianco di Manuel, sotto la maglia. Era più forte di lui, proprio non sapeva stare fermo quando aveva la possibilità di coccolare il suo ragazzo. Manuel sorrise sghembo quando avvertì la mano calda del fidanzato sulla propria pelle, si stava giusto chiedendo per quanto tempo avrebbe resistito senza ricambiare le sue attenzioni.

"Non ce la fai proprio a farti coccola' e basta, eh?"

Sussurrò tra un bacio e l'altro, incamminandosi in un percorso che di lì a poco lo avrebbe portato nell'incavo del suo collo. Con calma, però, c'era tempo.

Simone mise su un sorrisetto colpevole, ma non smise di accarezzare Manuel, la sua mano continuava a muoversi lentamente su e giù sul suo fianco, disegnando figure astratte con le dita.

"Amo le tue coccole, ma che male c'è se le ricambio?"

Mormorò in risposta, e intanto salì all'altezza delle costole dell'altro, facendoci scivolare sopra le dita come se fossero state le corde di un'arpa. Manuel, esattamente come un'arpa, reagì con un mugolio d'approvazione che era vera e propria musica alle orecchie di Simone. No, in fin dei conti non c'era nulla di sbagliato.

"Nessuno, basta che nun te stanchi, capito?"

"Ricevuto."

Rispose Simone, sorridendo soddisfatto per la reazione dell'altro. Fu lui, poco dopo, a mugolare quando Manuel raggiunse il suo collo e avvertì le sue labbra caldissime sulla propria pelle. Dopo quella reazione istintiva, però, si impose di trattenersi, di non emettere alcun suono, per evitare che qualcuno li sentisse e venisse a controllare. Non era facile, perché amava i baci di Manuel tanto quanto amava Manuel e gli erano mancati da impazzire, voleva goderseli come era abituato a fare, ma erano pur sempre in un ospedale e non poteva dare spettacolo.

Manuel si accorse che qualcosa non andava, non solo perché solitamente Simone riempiva la stanza con i suoi versi d'approvazione, ma anche perché lo sentiva teso, come un elastico troppo tirato, e non era questo che voleva per lui. Temendo quindi che stesse sbagliando qualcosa, si risollevò per guardarlo in viso. Anche lì, lesse i segni di un notevole sforzo.

"Che c'è, Simo, mh?"

Domandò dolcemente, accarezzandogli una guancia. Simone sospirò e accennò un sorriso.

"Niente, è tutto a posto. Tutto perfetto, davvero. Lo sai che amo i tuoi baci…"

Rispose a voce bassa, ricambiando la carezza alla guancia. A Manuel, però, quella risposta non convinse.

"E proprio perché lo so che te lo chiedo. Ho fatto qualcosa che non avrei dovuto? Forse…ho esagerato, non te la senti?"

Chiese ancora, con gli occhi pieni di preoccupazione. Sarebbe stato tipico di Simone non dirgli una cosa del genere per non dargli un dispiacere. Simone, però, scosse subito il capo, e si scusò con gli occhi prima che con le parole. Ma cosa andava a pensare, il suo ragazzo!

"No, Manuel, ti giuro che è tutto a posto. Tu sei fantastico, i tuoi baci sono fantastici e te l'ho proposto io, me la sento…"

Cominciò a dire, lasciando cadere la frase prima di aggiungere altro.

"Però qualcosa che te blocca ce sta. Dai, lo sai che me puoi di' tutto."

Lo incoraggiò Manuel con un sorriso, deciso a fare in modo che Simone si godesse quelle coccole in tutto e per tutto. Simone, davanti a quel sorriso, era del tutto inerme.

"Niente, è che…e se poi qualcuno mi sente, viene a vedere e ci trova così? Meglio che faccia silenzio, no?"

Mormorò, con occhi pensierosi. Manuel fece una risatina, molto più tranquillo di lui.

"Ah, Simo', e mica stiamo facendo una cosa brutta, no? Se viene qualcuno glielo spiego io, tranquillo."

Gli diede un buffetto sulla guancia, affettuoso.

"Certo che le pensi tutte tu, Cerbiattino mio."

Simone abbozzò un sorrisetto un po' colpevole, consapevole di star esagerando, da un lato, ma dall'altro non riusciva a non preoccuparsi.

"Lo so, però…metti che viene un infermiere, o un medico, e ci dice che disturbiamo e ti manda via? Non c'è nemmeno Riccardo, stasera, a poterci aiutare…"

Spiegò Simone, rivelando il suo vero timore. Non gli importava che qualcuno entrasse e li vedesse mentre si prendevano cura l'uno dell'altro -certo, l'idea che un loro momento così intimo venisse disturbato non lo faceva impazzire, ma non la considerava neanche una tragedia-, il vero problema era che avrebbero potuto togliergli Manuel -e, viceversa, togliere lui a Manuel- e lui era stanco di vedersi separato dalla sua metà.

Manuel gli sorrise comprensivo, guardando quegli occhioni preoccupati con i propri pieni di fiducia e sicurezza. Anche lui non aveva la minima intenzione di separarsi dall'altra metà del suo essere, ma a differenza di Simone sapeva che nessuno li avrebbe strappati con la forza, almeno non in quell'ospedale.

"No Simo, tranquillo, questo non è possibile. Riccardo m'ha detto che sei praticamente er cocco del reparto, t'hanno tutti preso a cuore, giustamente, quindi pure se viene qualcuno basta che je fai gli occhioni tristi e vedi che se ne torna da dov'è venuto."

Lo baciò in mezzo agli occhi, per rimarcare il concetto. Simone lo guardò sorpreso, non si aspettava che addirittura tutto il reparto conoscesse la sua storia e che la prendessero così a cuore.

"Ma…ma sei sicuro? Dici davvero?"

Manuel annuì, pazientemente.

"Sì, te dico! E ti stupisci, poi? È normale volerte bene, Simo', è strano il contrario."

E così dicendo annullò di nuovo la distanza tra i loro visi, stavolta facendo unire le loro labbra per il tempo necessario a sentire Simone rilassarsi. Simone, in quel bacio, scaricò tutte le sue paure e quasi dimenticò perfino di averle pensate. Era questa la forza incredibile che aveva Manuel.

"Aspetta n'attimo, così te senti più tranquillo."

Sussurrò Manuel, poi, alzandosi dal letto un istante dopo. Si avvicinò alla porta, la aprì di poco e si affacciò in corridoio, voltandosi a guardare più volte da entrambi i lati come se stesse per attraversare la strada. Se qualcuno lo avesse visto in quel momento, avrebbe notato due occhi curiosi che ispezionavano un corridoio vuoto e due orecchie attente a captare il minimo rumore di passi.

Simone, dal suo letto, lo guardava sorridente e pensava che non esistesse persona più comprensiva e paziente di Manuel, al mondo, e che lui era stato davvero davvero fortunato.

"È tutto vuoto, nun ce sta nessuno. Si vede che c'è tempo prima del prossimo giro di controllo."

Spiegò Manuel, allegro, mentre si avvicinava a passo svelto al letto di Simone.

"Va meglio, adesso?"

Chiese quando fu di nuovo accanto a lui, facendogli una carezza tra i capelli. Simone annuì, sorridendo innamorato.

"Grazie, Paperotto."

"Ah, per così poco, Cerbiattino…"

Replicò Manuel, accompagnandosi con un gesto della mano per scacciare quel ringraziamento per niente necessario.

"Già che ci siamo, però, bevi n'attimo, che ti ho sentito le labbra un po' secche."

E così dicendo aprì una delle bottigliette sul comodino e gliela porse, poi fece lo stesso per sé e bevvero entrambi.

"E quindi, dov'è che eravamo rimasti?"

Domandò mentre saliva di nuovo sul letto e si sistemava su Simone -sempre stando ben attento a non gravargli eccessivamente-, rivolgendogli un sorriso furbetto. Simone fece una risatina e lo attirò a sé in un bacio, accarezzandogli il viso.

"Toglimi la maglietta."

Sussurrò sulle sue labbra, con gli occhi che brillavano felici. Manuel sollevò le sopracciglia, sorpreso ma non stupito. Non era certo la prima volta che Simone si mostrava intraprendente, ma era sempre una sorpresa gradita.

"Mo' sì che ragioniamo, Simo'."

Commentò, mentre lo aiutava a mettersi seduto. Simone, però, scosse il capo.

"No, non voglio ragionare, non voglio pensare. Voglio solo stare con te."

 Manuel gli sorrise dolcemente e annuì, trovandosi d'accordo con lui.

"Va bene, allora non pensiamo."

Gli diede un bacio a fior di labbra, poi afferrò i lembi della maglietta e la tirò lentamente su, seguendone il percorso con lo sguardo, accarezzando con gli occhi il corpo di Simone che veniva scoperto poco a poco. I lividi erano ancora lì, ovviamente, e sembravano anche più scuri nella penombra della sera, ma non rendevano Simone meno bello. Anzi, la sera vestiva il suo corpo di un morbido blu, che lo faceva sembrare ancora più etereo: Manuel era incantato.

Simone sorrise emozionato a quello sguardo così pieno d'amore, ogni volta Manuel lo guardava come se non l'avesse mai fatto prima, ed era bellissimo sentire il suo sguardo addosso. Era come una carezza calda e morbida.

"Sei tra noi, Manuel?"

Lo richiamò, un po' canzonatorio, agitando una mano davanti al suo viso. Manuel si ridestò con un piccolo sussulto e poi fece una risatina imbarazzata.
"Sì, è che sei bello e…beh, è sempre piacevole guardarte."

"Beh, però stasera mi hai promesso qualcosa di più…"

Sussurrò Simone, avvicinandosi a lui per posare un bacio sulle sue labbra. Intanto, fece scivolare le mani sui suoi fianchi, afferrando la maglietta e sollevandola leggermente.

"Posso?"

Chiese, baciandolo di nuovo subito dopo. Voleva sentire il calore del suo corpo sul proprio, senza niente a fare da ostacolo, nemmeno una sottile maglietta di cotone. L'unica risposta che Manuel diede fu sollevare le braccia, in modo che Simone potesse togliergli la maglia che finì a fare compagnia alla sua sulla poltroncina dove lanciò entrambe.

Anche Simone si prese del tempo per osservare il corpo del suo fidanzato, partendo dai tatuaggi delle due rondini che aveva sul bacino, salendo poi lentamente verso quell'occhio gigante poco sotto le costole -che a dire il vero un po' lo inquietava, ma ci aveva fatto l'abitudine- e infine sul suo preferito, il serpente al centro del petto. Anche Manuel, vestito del blu della notte, era ancora più bello, sembrava un angelo.

"Simo', ce sei?"

Esclamò Manuel, scherzoso, agitando una mano davanti a lui, per ripicca. Simone ridacchiò e annuì.

"Ci sono, ci sono."

Lo prese per una mano e si ridistese, accompagnandolo a riprendere il suo posto su di sé. Manuel fece subito in modo di bilanciare il proprio peso per non gravare su Simone e dopo avergli dato un bacio a fior di labbra tornò nell'incavo del suo collo, esattamente dove lo aveva lasciato. Questa volta Simone non si fece scrupoli a dimostrare tutta la sua approvazione con qualche mugolio sommesso e, istintivamente, inclinò il capo verso il lato opposto, in modo che Manuel avesse più spazio per muoversi.

Manuel sorrise sulla sua pelle quando lo sentì spostarsi e lo ricompensò con una scia di baci che da poco sotto l'orecchio arrivava fino alla spalla. Le sue narici, intanto, erano inebriate dal suo profumo delicato, che non era quello del bagnoschiuma che aveva usato per lavarlo, ma era proprio il profumo di Simone, quello che cullava le sue notti e che avrebbe riconosciuto tra mille.

Simone era in visibilio per quei baci, quasi credeva di star sognando, ma era tutto meravigliosamente reale, perché per quanto conoscesse i baci di Manuel, la sua mente non sarebbe stata in grado di replicarli così bene. Portò una mano tra i suoi capelli, facendola scivolare con una carezza fino alla base della testa che prese ad accarezzare con il pollice, tenendolo stretto contro di sé, ma allentò la presa quando capì che Manuel voleva spostarsi e lo lasciò libero di fare ciò che preferiva.
Manuel, allora, scese sul suo petto, dove voleva arrivare fin dall'inizio, e cominciò a distribuire piccoli baci ovunque capitasse, non avendo a disposizione tatuaggi di cui seguire il percorso. Simone trattenne il fiato per qualche secondo, poi si rilassò e riprese a riempire la stanza di sospiri e mugolii e più Manuel lo baciava, più il pensiero che qualcuno potesse sentirlo e interromperli sbiadiva, fino a scomparire del tutto quando sentì la lingua calda e umida di Manuel sulla propria pelle, un gesto e una sensazione che annullò ogni tipo di capacità mentale nel matematico e fecero sbocciare dalle sue labbra dei gemiti più acuti.

Se fosse entrato qualcuno in quel momento, fosse stato perfino il direttore dell'ospedale, Simone non avrebbe esitato a spiegare che Manuel, da poeta qual era, non stava facendo altro che comporre una poesia sulla sua pelle.

"Com'è bello sentire il tuo cuore che batte, Simo'..."

Sussurrò Manuel dopo aver posato l'ennesimo bacio al centro del petto dell'altro ed essercisi soffermato per qualche secondo.
"È solo merito tuo, se lo fa."

Rispose Simone con voce un po' roca, sorridendo al suo Manuel che non aveva smesso di guardare per un solo istante. Manuel alzò gli occhi verso i suoi e ricambiò il sorriso.

"Anche il mio lo fa solo per merito tuo."

Replicò, ed entrambi sapevano che nelle parole dell'altro non c'era alcuna esagerazione.

"Vieni qui, per favore…"

Chiese Simone, un po' affannato, e subito Manuel si avvicinò al suo viso, facendogli una carezza sulla guancia. Forse era il caso di dargli un po' di tregua, ma Simone per il momento non sembrava essere dello stesso parere, infatti lo attirò in un bacio affamato di vita e d'amore, portando una mano tra i suoi capelli. L'altra, invece, finì sulla sua schiena per spingerlo verso di sé, con dolcezza e determinazione al tempo stesso. Manuel, preso alla sprovvista, si lasciò guidare e i loro corpi si toccarono, unendo il loro calore.

"Simo, ti puoi far male così…"

Sussurrò Manuel, preoccupato, ma Simone scosse il capo, deciso.

"No, ti prego, non ti allontanare. Non pesi e non mi fai male, te lo giuro. Restiamo un po' così, per favore…ne ho bisogno."

Mormorò con voce flebile, quasi l'uggiolio di un cucciolo che voleva essere rassicurato e coccolato. Manuel non se la sentì di rifiutare quella richiesta e si rilassò, perché anche lui aveva bisogno di sentirlo vicino.

"Tutto il tempo che vuoi, Simo, tranquillo. Non mi devi prega'."

Simone, felice, lo avvolse tra le braccia e rimasero così per qualche minuto, in un silenzio interrotto solo dai loro respiri, dai baci morbidi che Manuel posava su di lui e dal leggerissimo fruscio dei ricci di Manuel accarezzati da Simone. Erano due metà che si univano, due pezzi di puzzle che si incastravano, due cuori che si incontravano di nuovo e riprendevano a battere insieme allo stesso ritmo. Erano Simone e Manuel, Manuel e Simone, ed erano felici.

Poi, ad un certo punto, Simone allentò la presa intorno al corpo di Manuel, sciogliendolo dall'abbraccio con una carezza sui fianchi. Il ragazzo sollevò il capo e guardò l'altro, che sembrava sereno.

"Va meglio, Simo?"

Domandò con dolcezza, facendo un sorriso, e Simone annuì piano, sorridendo a sua volta. Manuel, allora, prima accarezzò quel sorriso con il pollice e poi spostò la mano sulla sua guancia, accarezzando con delicatezza il livido che ancora si intravedeva poco sotto l'occhio.

"Com'è la situazione? È ancora molto nero?"

Domandò Simone, a voce bassa, e Manuel scosse leggermente il capo, continuando ad accarezzarlo.

"No, sta guarendo. Si vede solo un po', sono sicuro che tra qualche giorno non c'avrai più niente."

E così dicendo posò un bacio sul suo zigomo, in corrispondenza del livido, per poi tornare a guardarlo e riprendere le sue carezze. Simone sospirò, sollevato.

"È molto brutto, da vedere?"

Chiese ancora, timidamente. Se quel livido era come quelli che aveva sul resto del corpo, allora doveva essere davvero brutto. Manuel accennò un sorriso intenerito.

"Il livido sì, è brutto perché farti del male è una cosa brutta, ma tu sei sempre bellissimo, Cerbiattino."

Simone sorrise timidamente, rincuorato dalle sue parole.

"Ti credo solamente perché non ho uno specchio a disposizione, eh."

Replicò Simone, con una punta di sarcasmo, ma il suo sguardo era dolce e ringraziava Manuel di vederlo bellissimo anche conciato così.

"Allora permettimi d'essere il tuo specchio e di dirti come sei."

Sussurrò Manuel, morbidamente. Simone annuì, sorridente, curioso di sapere cosa si sarebbe inventato l'altro questa volta.

"Beh, il viso tuo è come il cielo de notte."

Affermò Manuel con decisione e Simone fece una risatina, un po' imbarazzato. Manuel sapeva sempre sorprenderlo con quei paragoni che si inventava.

"Come il cielo di notte, Manuel? Non starai esagerando?"

Domandò divertito e l’altro scosse il capo con decisione.

"No, no, è così, te dico! Pe' prima cosa, i tuoi capelli, i tuoi riccioletti morbidi…"

Nominandoli, li accarezzò.

"...so' come nuvole bianche che la notte ha tinto de scuro."

Simone, già a quella prima affermazione, venne totalmente rapito dalle sue parole e dal suo modo di vedere le cose. Era meraviglioso il mondo, visto dagli occhi di Manuel.

"Poi ce stanno i tuoi occhi…"

Con una mano, mentre con l'altra si reggeva al letto, lo accarezzò poco sotto l'occhio sinistro.

"...che sono due stelle, ma non due stelle qualunque, no no! Una è la Stella Polare, che guida i naviganti nell'ignoto del mare e l'altra è Sirio, la più luminosa di tutte!"

Simone, in un altro momento, avrebbe senz'altro distolto lo sguardo, imbarazzato, ma la convinzione e la dolcezza con cui Manuel paragonava il suo viso al cielo, lo teneva ancorato a lui, e al suo sguardo pieno d'amore.

"Ce manca solo una cosa, in questo cielo stellato…"

Continuò Manuel e Simone inclinò leggermente il capo, incuriosito.

"Che cosa?"

Manuel sorrise sghembo.

"Nun te viene in mente proprio nulla?"

Domandò e Simone scosse il capo.

"No…"

Manuel ridacchiò, divertito.

"Certo che per esse' un secchione perfettone te mancano le basi...ce manca la Luna, Simo'."

Simone annuì, accennando una risatina. Certo, mancava la Luna, come aveva fatto a non pensarci?

"È vero, hai ragione. E cosa si può fare per farla spuntare?"

Manuel sorrise, con l'aria di chi era consapevole di stare per dire una cosa davvero sdolcinata, ma che veniva dal cuore e che sapeva sarebbe stata gradita.
"Beh, non è troppo difficile. Famme un bel sorriso, per favore…"

E Simone, che aveva capito dove quel poeta voleva andare a parare, non esitò a sorridere a trentadue denti, anche perché non gli era difficile sorridere quando era con lui, anzi era la cosa più naturale del mondo.

"Ecco qua, ora c'è anche la Luna e il cielo è al completo."

Affermò Manuel a bassa voce, perso in quel cielo che solo lui aveva il privilegio di poter guardare. Si chinò a baciare Simone, non riuscendo a resistere. In fondo, chi altri poteva dire di poter baciare la Luna? Simone ricambiò immediatamente il bacio, e per lui fu come baciare il Sole. C'era una piccola eclissi in quella stanza d'ospedale, senza che nessun altro, oltre a loro due, lo sapesse.

"Ma queste cose te le studi di notte?"

Domandò poi Simone, mentre riprendevano fiato, accarezzandogli i capelli. Manuel ridacchiò, scuotendo il capo.

"No, sei tu che mi ispiri, Simo. Diciamo che me faciliti il compito…"

"Io...io non so che dirti, davvero, quando fai così mi lasci senza parole. So solo ringraziarti e dirti che mi sento onorato."

Mormorò Simone, un po' impacciato, con un dolce imbarazzo nella voce. Manuel gli sorrise e gli fece una carezza tra i capelli, affettuoso come sempre.

"Simo', ma tu non me devi di' niente, mica ti dico queste cose per farmi dire qualcosa in cambio, le dico perché sono vere, perché le penso, perché voglio che tu sappia che sai ispirarmi sia parole..."

Si infilò di nuovo nell'incavo della sua spalla, lasciando qualche bacio sul collo che fece sospirare Simone.

...che gesti."

Concluse, tornando a guardarlo.

"E a questo proposito, se pe' te va bene, vorrei darti qualche altro bacio."

Simone sorrise sghembo e annuì.

"Manuel, se mai un giorno dovessi rifiutare i tuoi baci, allora dovrai chiamare la neuro perché vorrà dire che mi è andato totalmente in pappa il cervello!"

Esclamò Simone, ripetendo la risposta che l'altro gli aveva dato poco prima. Manuel ridacchiò, perché aveva ovviamente colto. Senza aggiungere altro, se non un bacio a fior di labbra, tornò a baciargli il petto, scendendo lentamente lungo lo sterno, fino alla sua pancia dove era concentrata la maggior parte dei lividi. Aveva avuto paura a sfiorarli appena quella mattina, anche adesso ne aveva, ma sapeva che le sue carezze gli facevano bene, quindi a maggior ragione dovevano farlo i suoi baci.

"Posso, Simo?"

Domandò prima di cominciare a baciarlo in quei punti, gli occhi carichi di determinazione e di affetto di nuovo fissi nei suoi.

Simone era rimasto sorpreso quando aveva sentito Manuel scendere lungo il suo busto e aveva capito le sue intenzioni, non si aspettava che tornasse anche solo a guardare quei lividi che lo avevano spaventato così tanto e di questo certamente non lo biasimava. Era felice, però, che avesse trovato la forza di farlo, perché in questo modo -almeno sperava- si sarebbe perdonato più facilmente. Annuì, quindi, sorridendogli incoraggiante.

"Se te la senti sì, ma non devi per forza, se non vuoi."

Gli rispose, preferendo comunque ricordargli che fosse libero di scegliere. Manuel annuì appena e poi si chinò di nuovo sulla sua pelle calda, lasciando baci leggerissimi e lenti. Era sicuro di volerlo fare, perché sapeva che avrebbe fatto bene ad entrambi.

Simone liberò un sospiro di sollievo e chiuse gli occhi, completamente rilassato. I baci che Manuel adesso gli stava donando erano un po' diversi da quelli di prima, meno intensi e più leggeri, lo sfioravano come il piacevole venticello notturno che entrava dalla finestra semiaperta, ma gli entravano sotto la pelle con la stessa forza, lo stesso calore, lo stesso amore e lo avrebbero aiutato a guarire.

Manuel poteva sentire Simone rilassarsi sempre di più ad ogni suo bacio e non avrebbe potuto essere più felice. Prese coraggio, bacio dopo bacio, e, dopo un po', si sollevò sulle ginocchia e portò le mani sulla sua gamba sana, cominciando a tracciare delle carezze circolari come quando si facevano il bagno insieme dopo gli allenamenti di rugby. Simone riconobbe il gesto e sorrise, ancora ad occhi chiusi, mugolando d'approvazione.

"Ma che c'hai in queste mani, Manuel? E che c'hai nelle labbra?"

Mormorò, completamente rilassato. Manuel ridacchiò compiaciuto, più per il piacere di riuscire a far rilassare Simone che per orgoglio personale.

"Solo amore, Simo', solo amore."

Rispose, con dolcezza. Era così che avrebbe voluto vederlo sempre, sereno com'era in quel momento. Simone si abbandonò totalmente al tocco gentile di Manuel, così tanto che, dopo un po', si fece sfuggire un paio di sbadigli, uno dopo l'altro. Rise per quella sua pigra reazione e anche Manuel rise, con lui e non di lui.

"C'hai sonno, Cerbiattino?"

Chiese con tenerezza e Simone annuì piano.

"È stata una giornata abbastanza pesante, in effetti."

Replicò Manuel e Simone, dopo l'ennesimo sbadiglio, si sforzò di aprire gli occhi per guardare il suo ragazzo.


"Però tra i baci e le carezze mi hai fatto scaricare tutto. È merito tuo."

Disse con decisione, anche se la sua espressione era un po' quella di un bambino che lottava per tenere gli occhi aperti. Manuel sorrise sghembo, lusingato e felice.

"Non posso che esserne contento. Famo la nanna, allora?"

Simone annuì, facendogli cenno di avvicinarsi. Manuel, dopo un'ultima carezza alla sua gamba, si sistemò accanto al fidanzato, cingendolo con un braccio come aveva preso abitudine a fare da quando dormivano in ospedale.

"Buonanotte, allora..."

Sussurrò, ma Simone scosse il capo.

"Aspetta, prima...mi passi il cellulare? Voglio farci una foto."


Disse, indicando con una mano il comodino. L'ispettore Liguori, infatti, gli aveva restituito sia il cellulare che il portafogli, che erano rimasti nel borsone degli allenamenti, da Sbarra. Simone, quando si era visto ridare il portafogli, come prima cosa aveva controllato che la foto di Manuel vestito da Paperino fosse ancora lì e, con suo sommo sollievo, l'aveva ritrovata.

Manuel alzò gli occhi al cielo, fingendosi scocciato come ogni volta che Simone proponeva di fare una foto -abitudine che aveva preso da un po' e che, in realtà, risaliva al suo primo maldestro tentativo di bacio-, ma entrambi sapevano che era tutta scena: era ben felice, infatti, di fissare nel tempo qualche momento insieme, spesso anche lui proponeva di farlo, forse proprio perché aveva rovinato quel loro primissimo scatto rifiutando in malo modo quel bacio che, se potesse, ora tornerebbe indietro per accettare e ricambiare.

"Pure in ospedale? Nun te sembra un po' troppo?"

Domandò, ma intanto aveva già preso a sistemarsi meglio accanto a Simone, nella posizione spalla contro spalla che di solito assumevano per i loro selfie nel letto. Simone scosse il capo in risposta.

"Mi hai appena riempito di baci e di carezze, mi sembra un momento perfetto da immortalare."

Replicò e Manuel si ritrovò a sorridere, dandogli ragione.

"E non ti mettere così, poggiati su di me, come quando dormi."


Aggiunse, indicandogli il petto con un cenno della mano con cui teneva il telefono. Manuel evitò di chiedere per l'ennesima volta se ne fosse sicuro, dato che pesava, perché conosceva già la risposta e poggiò la testa su Simone, che prontamente lo cinse con il braccio, formando una figura unica, perfettamente incastrati.

"Comodo?"

Chiese Simone con un sorriso e Manuel annuì, solleticandolo senza volerlo con i propri ricci. Gli era mancato da impazzire, quel posticino lì.

"Come sempre, Simo'. Tu?"

Replicò, accarezzandogli intanto un fianco con il braccio che aveva steso lungo il busto dell'altro.

"Io mi sento a posto."

Rispose Simone, sollevando poi l'altro braccio per cercare l'inquadratura giusta.

"Anch'io, Simo, anch'io."

Sussurrò Manuel, sfoggiando poi un bel sorriso in favore di camera. Non ebbero neanche bisogno di controllare la foto dopo averla scattata, sapevano entrambi che era venuta bene semplicemente perché stavano insieme.

Si addormentarono in quella stessa posizione, senza alcun bisogno di mettersi d'accordo, perché per loro era la più naturale.

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Capitolo 21
*** Insieme un inganno non c’è (parte 1) ***


"Ma che, si è addormentato?"

Domandò teneramente Anita, sbirciando nello specchietto dell'auto di Dante. Era andata lei a prendere i ragazzi, su insistenza di suo figlio, quando Simone fu finalmente dimesso, dopo i tre giorni d'osservazione necessari a far indurire del tutto il gesso e a controllare che non ci fossero problemi.

"Sì, già da un po' a dire il vero…però è comprensibile."

Rispose Simone a bassa voce, abbassando teneramente gli occhi verso la testa riccioluta di Manuel che riposava sulla sua spalla, aggrappato alla sua mano come se non ci fosse un domani. Il ragazzo sveglio, con quella libera, accarezzava il fianco dell'altro, cingendolo con il braccio.

"Cioè? Non riusciva a dormire, in ospedale?"

Chiese la donna, un po' preoccupata, e Simone scosse il capo.

"No, no, a riuscirci ci riusciva…"

Scostò delicatamente con la mano un ricciolo ricaduto su un occhio di Manuel, che avrebbe potuto dargli fastidio.

"... è solo che si svegliava due o tre volte, impostando la sveglia con la vibrazione bassa per non svegliare anche me, per controllare che fosse tutto a posto. Meglio di un infermiere!"

Disse con affetto, poggiando un bacio delicato sulla testa di Manuel. Non lo avrebbe mai ringraziato abbastanza per tutte le sue premure. Anita sorrise dolcemente, immaginando la scena. Sì, era proprio una cosa da suo figlio, quella.

"Non l'ho mai visto tenere così tanto ad una persona come da quando sta con te, sai Simone? Ti vuole un bene indescrivibile, ma immagino che questo tu lo sappia già."

Simone annuì piano, sorridente, perché sì, non aveva alcun dubbio sull'amore che Manuel provava per lui. Glielo dimostrava ogni secondo.

"Sì, lo so, lo sento e anche per me è lo stesso…"

Esitò a continuare la frase, non sapendo se fosse il caso di dire certe cose ad Anita, che era sì la madre del suo ragazzo, ma anche la compagna di suo padre e non voleva mettere in cattiva luce quest'ultimo. Anche lui non aveva mai visto suo padre tenere tanto ad una persona come da quando stava con lei. Furono gli occhi morbidi della donna, così simili a quelli di Manuel, che incrociarono di nuovo i suoi attraverso lo specchietto a spingerlo a continuare.

"Sai, prima di conoscere Manuel, prima di innamorarmi di lui, credevo di non essere fatto per l'amore. Ovunque mi girassi, a scuola o per strada, vedevo coppiette che si tenevano per mano, si baciavano e si guardavano negli occhi come se il resto del mondo non esistesse. Io stavo con Laura e le volevo bene, le voglio ancora bene, e sentivo che lei mi guardava così, ma io non ci riuscivo, nonostante mi sforzassi con tutto me stesso."

Fece un profondo sospiro. Solo dopo, con Manuel, aveva capito che l'amore non era uno sforzo.

"Pensavo fosse una questione genetica, ero convinto di essere nato senza il gene dell'amore, se anche esiste una cosa del genere, e davo la colpa di tutto a papà. Credevo che nemmeno lui avesse questo gene e che mi avesse trasmesso questa mancanza insieme al colore degli occhi e dei capelli."

Ancora una volta, solo con Manuel aveva capito che l'amore non era neanche una questione genetica.

"Non fraintendermi, è che non conoscevo tutta la storia e pensavo che papà fosse uno stronzo e basta, poi ho capito che mi sbagliavo. E poi adesso sta con te e…e ti vuole bene, sì."

Aggiunse un po' impacciato e Anita ridacchiò con tenerezza. Simone si schiarì la voce e continuò.

"Manuel mi ha fatto cambiare idea sull'amore e su me stesso. Mi ha fatto capire che non ero incapace d'amare, ma che cercavo l'amore nel posto sbagliato. Mi ha fatto capire chi sono davvero, senza di lui non sarei Simone, ma Simone meno qualcosa. Gli devo davvero tutto."

Anita lo ascoltò con attenzione, poi annuì e gli sorrise.

"Te la posso dire io una cosa, adesso?"

Simone annuì.

"Certo!"

"Da quando Manuel sta con te, è tornato ad essere felice. Prima era sempre arrabbiato, sempre appesantito da qualcosa, forse anche per colpa mia, anzi quasi sicuramente, ma da quando state insieme…"

Fece una piccola pausa, alla ricerca delle parole giuste.

"Sai, una volta tuo padre mi ha detto che per innamorarsi ci vuole un cuore leggero. Ecco, tu hai restituito questa leggerezza al cuore di mio figlio ed io devo ringraziarti, Simone. Davvero, grazie per aver avuto la pazienza di aspettare quel testone cocciuto, so che non deve essere stato facile."

Simone accennò una risatina e spostò lo sguardo sui ricci di Manuel, sparpagliati sulla sua spalla, restando in silenzio per qualche secondo. Non era stato facile, ma ne era valsa la pena.

“Nemmeno io mi sono comportato sempre bene con lui, anche io, su certe cose, sono stato un po’ bastardo e qualche cazzata l'ho fatta. Non è stato facile per nessuno dei due, riuscire a capirsi e a capirci.”

Riprese a parlare, con voce bassa, senza spostare gli occhi dalla testa riccioluta che gli dormiva rilassata addosso, come se il suo corpo fosse il migliore dei cuscini.
“Però, al di là di tutto, innamorarsi è una delle cose più belle del mondo e…"

Sospirò profondamente, innamorato, poi sorrise.

“…e questo testone cocciuto è la cosa più bella della mia vita.”

E così dicendo, posò un bacio tra i ricci di Manuel. Anita sorrise teneramente, era bello sapere che ci fosse qualcuno che amava suo figlio tanto quanto lei, anche se in un modo naturalmente diverso, era bello vedere Manuel ricoperto d’affetto, di baci, di carezze e di parole dolcissime, come non era mai stato in vita sua.

“E tu lo sei per lui, credimi. Per esempio, non ha mai organizzato per nessuno una serata speciale come quella che ha preparato per te. Non parla d’altro!”

Simone ridacchiò, divertito.

“A questo proposito, non è che mi potresti dire qualcosa? Lui non mi ha voluto dare neanche un indizio!”

Si lamentò scherzosamente, ma Anita scosse il capo, irremovibile.

“No Simone, ti voglio bene, ma questo non me lo puoi proprio chiedere. Mio figlio è capace di togliermi il saluto, se lo viene a sapere!”

Esclamò divertita, poi dopo pochi istanti di silenzio si decise a dare una piccola informazione.

“Posso solo dirti che ha organizzato una cosa molto carina e che se qualcuno l’avesse organizzata per me, mi sarei sentita molto speciale.”

Simone prese un profondo respiro, immagazzinando quell’informazione. Manuel lo faceva sentire speciale tutti i giorni, cosa poteva essersi inventato, adesso?

“Va bene, va bene, me lo farò bastare. Grazie.”

Replicò con un sorriso, tornando poi a dedicarsi al suo fidanzato addormentato. Non smise un attimo di accarezzarlo, per tutto il tragitto e poi, quando si accorse che erano quasi arrivati, si decise a svegliarlo. C'era un solo modo per farlo.

"Hey, Paperotto? Sveglia, siamo arrivati a casa…"

Sussurrò con dolcezza, la voce simile a quella che si usa per parlare ai bambini, mentre gli solleticava una guancia con una mano. Manuel arricciò il naso e sbatté le palpebre un paio di volte, accecato dalla luce. Aperti definitivamente gli occhi, però, subito li rivolse verso Simone, sorridente.

"Ciao, Cerbiattino…"

Mormorò con voce impastata. Era assonnato e bellissimo, agli occhi di Simone.

"Ciao! Hai dormito bene?"

Manuel rispose annuendo e poi sbadigliò.

"Ciao, ma'."

Disse poi a sua madre, che intanto stava parcheggiando.

"Ciao, tesoro. Aspetta, che ti do una mano…"

"No, ferma, ferma, faccio da solo."

Appena l'auto fu ferma, Manuel scese, si stiracchiò e subito dopo aiutò Simone ad uscire.

"Ci sei?"

"Ci sono, ci sono!"

Rispose con sicurezza Simone, tenendo ben salde le sue stampelle. Sorrise a Manuel, sporgendosi a dargli un bacio sull'angolo delle labbra per ringraziarlo, poi prese a guardarsi intorno: i suoi occhi si riempirono del verde del vasto giardino, le sue orecchie del cinguettio degli uccelli nascosti sulle cime degli alberi e le sue narici del profumo dell'erba e dei fiori della nonna, che arrivava fino a lui trasportato dal leggero venticello estivo.

Tutto sembrava immutato, era come se non fosse passato neanche un giorno dall'ultima volta che era stato lì, eppure di giorni ne erano passati ed erano stati duri e interminabili. Aveva temuto di non poter mettere più piede in quel giardino e al pensiero sentì gli occhi inumidirsi e istintivamente li chiuse. Manuel, che lo aveva guardato per tutto il tempo, gli mise subito un braccio intorno alle spalle e con l'altra gli fece una carezza.

"So' sicuro che pure casa tua è contenta de vederti, Simo."

Mormorò morbidamente e Simone fece una risatina, guardandolo con affetto.

"Come farei senza le tue risposte perfette, Manuel?"

Replicò con lo stesso affetto che aveva negli occhi, con solo un pizzico di ironia in aggiunta, facendo poi cenno all'altro ragazzo di potersi incamminare verso l'ingresso. Manuel ridacchiò e cominciò a camminare accanto a Simone, mettendosi al suo stesso passo.

"Non lo so, ma tanto è una domanda che nun c'ha senso de esiste."

Per molto tempo le sue risposte erano state tutt'altro che perfette, soprattutto quelle che dava alle domande di Simone, a causa del solito vizio di far rispondere la testa, al posto del cuore, e l'orgoglio, al posto dell'amore. Fortunatamente, poi, aveva capito l'errore.

"E pure questo è vero."

Concordò Simone, allegro, preferendo poi concentrarsi sui propri passi. Doveva ancora abituarsi al gesso e alle stampelle e ad ogni passo gli sembrava di rischiare di inciampare, ma sapeva di non aver nulla da temere con Manuel al suo fianco. Lui l'avrebbe aiutato a rialzarsi, se fosse caduto, o l'avrebbe afferrato in tempo, impedendogli di cadere.

Quando furono abbastanza vicini alla porta di casa, vennero raggiunti da Dante, Floriana e Virginia, che accolsero Simone con baci, abbracci e sorrisi. La prima cosa che Simone notò -ed era impossibile non farlo-, entrando nel salotto che dava sul giardino, furono i festoni colorati che erano stati appesi su tutte le pareti e che pendevano anche dal soffitto, sfiorandogli i capelli al suo passaggio, insieme ad una quantità indefinita di palloncini attaccati un po' ovunque, piccoli arcobaleni che trasformavano la stanza in un mondo colorato.

"Non ci credo!"

Esclamò, con il viso illuminato in un'espressione di puro stupore e di pura gioia, mentre si guardava intorno estasiato. Non aveva dubbi su chi fosse l'artefice di quell'allestimento e infatti quando si voltò verso Manuel lo vide sorridere emozionato, rivolto verso di lui.

"Te…te piace?"

Chiese Manuel, un po' titubante, anche se la reazione di Simone non lasciava spazio a grandi dubbi. Aveva trascorso due ore buone insieme a Dante, il pomeriggio precedente, a gonfiare palloncini e ad aprire festoni, ed era stata una faticaccia, visto anche il caldo che faceva. La felicità che Simone dimostrava in quel momento, pura come quella di un bambino, però, valeva tutto.

"Se mi piace? È stupendo, davvero! Grazie!"

Esclamò Simone, avvicinandosi al suo fidanzato per ringraziarlo con un bacio, un bacio degno dell'accoglienza ricevuta, incurante della presenza del resto della famiglia che, comunque, era abituata a quelle effusioni.

"Vabbè, dai, non è niente di chissà che, so' due pezzi di carta e qualche palloncino…"

Minimizzò Manuel, rosso in viso per via del bacio, cercando anche di darsi un contegno.

"...e devi ringrazia' anche il professore, però, senza di lui stavo ancora a litiga' coi festoni."

"E saresti rimasto senza fiato, con tutti i palloncini che hai voluto gonfiare!"

Esclamò divertito Dante, indicando con un gesto della mano i palloncini appesi in giro. Simone ridacchiò e si avvicinò a suo padre, abbracciandolo un po' goffamente a causa delle stampelle. Dante, dopo un istante di confusione -non si era ancora abituato a quelle esternazioni affettuose da parte del figlio- ricambiò l'abbraccio, reggendolo saldamente a sé.

"Grazie anche a te, allora, papà. Avete fatto una cosa bellissima."

Disse Simone, con la voce carica di dolcezza e gli occhi di nuovo lucidi. Dante sorrise teneramente e gli fece una carezza sulla schiena.

"Scherzi a parte, è tutto merito di Manuel, io gli ho solo dato una mano. Ha scelto tutto lui e ha deciso tutto lui, per una volta sono stato io l'alunno!"

Simone scoppiò a ridere, immaginando la scena. Ce lo vedeva, Manuel, a dare ordini e a cambiare idea cento volte, perché voleva che fosse tutto perfetto.

"Ah, non lo metto in dubbio…"

 Tornò a voltarsi verso il suo ragazzo, che teneva lo sguardo in basso, imbarazzato.

"Anche questo fa parte della sorpresa?"

Domandò curioso e Manuel scosse il capo, alzando gli occhi verso di lui. Sul viso, adesso, aveva un sorrisetto furbo.

"No, no, questa è 'na cosa così, giusto per accoglierti. La sorpresa vera comincia stasera, c'è ancora tempo. Però, se vuoi, in camera nostra c'è una specie de sorpresa, anche se io non c'entro niente…"

Disse con tono vago, facendo poi un occhiolino. Si riferiva ovviamente al loro nuovo letto, il loro nuovo nido, di cui Simone non era a conoscenza e che lui non vedeva l'ora di inaugurare insieme, con una bella dormita o qualche coccola. Simone inarcò un sopracciglio, incuriosito, e si avvicinò di qualche passo.

"Beh, allora andiamo in camera nostra."

Sottolineò con un sorriso l'ultima parola, ripetendo quella definizione che aveva usato anche Manuel e che gli piaceva particolarmente. Era bello sentirsi un noi e avere delle cose nostre. Lo pensava anche Manuel, che percorse i pochi passi di distanza che ancora li separavano e posò un bacio sulla guancia di Simone, sorridente.
Dopo aver salutato velocemente il resto della famiglia, salirono fianco a fianco i gradini che portavano al piano di sopra, senza fretta, un passetto alla volta, con Simone che si reggeva al corrimano e Manuel che lo sosteneva tenendolo per il busto, reggendogli le stampelle con l'altro braccio. Non c'era bisogno di correre, se potevano percorrere la strada della vita insieme.

"Sembriamo due vecchietti…"

Commentò Simone, scherzoso, più o meno a metà della scala. Manuel ridacchiò, annuendo appena.

"Domani te porto a gioca' a bocce, infatti."

Replicò, causando una risata in Simone a cui presto si unì la sua. Si fermarono per dar sfogo alle loro risate giovani e leggere e, quando queste sfumarono, si guardarono sorridenti negli occhi. Non ebbero bisogno di parlare, bastò quello sguardo per dirsi che, anche a quell'età, sarebbero rimasti insieme.

Quando entrarono in camera, Simone si bloccò sui suoi passi. Con gli occhioni lucidi accarezzò ogni angolo di quella camera e notò che tutto era rimasto come l'aveva lasciato, per un attimo ebbe la sensazione di essere appena tornato dagli allenamenti e che tutto ciò che aveva vissuto fosse solo una specie di incubo, ma durò poco: la realtà era ben diversa e lui lo sapeva, la stanza lo aveva semplicemente aspettato.

Le pareti, con i loro colori azzurro, giallo e bianco -i colori del cielo- e con i vari poster appesi nel corso degli anni che rimandavano alle sue passioni -il rugby, principalmente, ma si poteva incrociare anche la faccia simpatica di Einstein che faceva una linguaccia- a cui, più recentemente, si erano aggiunti quelli che Manuel si era portato dalla sua cameretta -e le moto erano andate a far compagnia alle bandierine delle squadre di rugby-, gli sussurravano che non si trovava più né nello stanzino spoglio e buio di Sbarra, né nell'anonima stanza dell'ospedale, ma nel piccolo angolo di Manuel e Simone. L'unico elemento di novità era il grande letto matrimoniale che aveva sostituito il lettino singolo, senz'altro la sorpresa a cui aveva accennato Manuel, e che rendeva davvero quel mondo fatto su misura per loro due.

A Simone sembrò tutto troppo bello per essere vero e scoppiò a piangere, senza fare nulla per trattenersi o nascondersi. Manuel, che era rimasto al suo fianco in silenzio per dargli i suoi tempi, sapeva che quel pianto sarebbe arrivato e non esitò ad accogliere Simone tra le braccia, a farsi carico delle sue lacrime.

"Sei davvero a casa, Simo', sei davvero con me. È tutto a posto, è tutto a posto…"

Sussurrò con dolcezza, accarezzandogli i capelli e la schiena scossa dai singhiozzi. Simone tirò su col naso e mugolò contro la pelle di Manuel, il viso nascosto nell'incavo del suo collo.

"Ho paura che…che sia tutto un sogno. Ho paura di…di svegliarmi…e di trovarmi di nuovo nello sgabuzzino di Sbarra…da solo, lontano da te…"

Mugolò Simone tra le lacrime, lasciando cadere le stampelle a terra per aggrapparsi all'altro ragazzo con tutto se stesso. Manuel gli posò un bacio tra i capelli, dolcemente, e sospirò. Lui quei sogni li aveva fatti davvero mesi prima, quando non stavano ancora insieme, e sapeva che svegliarsi e ritrovarsi in una realtà del tutto diversa era peggio che addormentarsi in un incubo. Sapeva anche che quel tipo di esperienza rendeva più difficile accettare che un bel sogno potesse diventare realtà, lui ci era riuscito solo grazie all'aiuto di Simone e adesso era il suo turno di restituirgli il favore.

"No, non stai sognando, è tutto vero Simo, e se me lo permetti te lo posso dimostrare."

Simone allora alzò lo sguardo verso Manuel, incontrò il suo sguardo determinato e dolce, e annuì, affidandosi completamente a lui, perché solo lui poteva aiutarlo. Manuel gli diede un bacio tra i capelli, poi lo aiutò a spostarsi verso il letto e lo fece sedere su uno dei bordi. Prese una delle sue mani nella propria, la baciò e poi la fece poggiare sul lenzuolo pulito, tenendola sotto la sua.

"Senti come è fresco, Simo? Ce l'ho messo io qui sopra, proprio ieri, infatti se vedi bene pende un po' di più da quell'altro lato…"

Cominciò a dirgli, sorridendo incoraggiante. Simone, seguendo il suo invito, accarezzò lentamente il cotone, ad occhi chiusi per percepirlo meglio. Era soffice sotto il suo palmo e fresco, come aveva detto Manuel, e strofinandovi sopra la mano produceva un suono ovattato. Annuì, lentamente, e riaprì gli occhi, anche se continuava a piangere.

"Vediamo un po', ora…"

Mormorò Manuel, guardandosi intorno alla ricerca di qualcosa che potesse aiutare Simone, senza perdersi d'animo. La sua attenzione fu attirata da un pallone da rugby che faceva bella mostra di sé su una mensola e subito lo prese, sorridente.

"Tieni, Simo!"

Glielo lanciò, tanto la distanza non era poi molta, e Simone lo afferrò prontamente, abbozzando un sorriso. Se lo rigirò tra le mani, ne accarezzò le cuciture, la superficie tesa, la rotondità e gli spigoli come se non avesse mai visto niente del genere in vita sua. Cercava qualcosa che non quadrasse, come nei sogni spesso accade, ma tutto di quel pallone -dal peso alla dimensione- era perfetto all'esame del suo tocco esperto. Cominciò a sentirsi più sicuro, anche se i singhiozzi non davano segni di interruzione.

"Adesso guarda qui, eh."

Disse Manuel, andando a recuperare la chitarra in un angolo della stanza. Era di Simone, che però non sapeva suonarla, mentre Manuel sì, anche se non ne aveva mai avuta una tutta sua.

"Tieni, prendila."

Gliela porse e Simone la imbracciò, accennando un sorriso tra le lacrime.

"Dai, prova a suonare qualcosa."

Lo invitò Manuel, accompagnandosi con un gesto della mano. Simone scosse il capo.

"Ma non sono capace…"

"E che te frega, Simo! Strimpella qualcosa, fidate!"

E Simone, che di Manuel si fidava ciecamente, mosse le dita sulle corde nel vano tentativo di produrre qualcosa simile ad una musica, con scarsi risultati.

"Sono proprio una pippa…"

Commentò alla fine della sua piccola esibizione, ma aveva capito dove voleva andare a parare Manuel: l'importante era che sentisse il peso della chitarra sulle sue gambe, il legno contro il suo corpo e le corde vibrare sotto le sue dita. L'importante era che sentisse il vero che lo circondava.

"Sì, lo sei."

Replicò Manuel, curvando l'angolo delle labbra in un sorriso sghembo.

"Però magari in un sogno saresti stato più bravo, non ti pare?"

Gli fece subito notare, accarezzandogli una guancia. Simone annuì, approfittandone anche per strusciarsi contro il suo palmo, alla ricerca di un altro contatto con la realtà.

"Immagino di sì."

Mormorò per poi tirare su col naso, dopo l'ennesimo singhiozzo. Manuel rimase fermo ad accarezzarlo per un po', sentendo che l'altro ne aveva bisogno. Era anche un modo per asciugargli le lacrime che continuavano a rigargli il viso come pioggia incessante.

"Adesso ti do la prova definitiva, ok?"

Annunciò, allontanandosi il tempo necessario a prendere il libro di inglese sulla scrivania ed aprirlo ad una pagina a caso.

"Non so se te ne sei mai accorto, ma quando sogniamo non riusciamo mai a leggere qualcosa che ci troviamo davanti, lo dice la scienza. Le lettere si mischiano e cambiano in continuazione, le parole e le frasi non hanno senso…"

Si inginocchiò per portarsi al suo livello e gli mise il libro davanti, indicando con l'indice i primi versi di una poesia. Simone però non guardava le pagine, guardava Manuel con gli occhi pieni d'amore, perché ancora una volta stava facendo di tutto per farlo sentire bene.

"Dai, leggi qua. Tu sei molto più bravo di me, con l'inglese…"

Lo incoraggiò Manuel, con lo stesso amore negli occhi. Simone allora si decise ad abbassare lo sguardo e, dopo essersi schiarito la voce, cominciò a leggere.

"My mistress' eyes are nothing like the sun;
Coral is far more red than her lips' red;
If snow be white, why then her breasts are dun;
If hairs be wires, black wires grow on her head."

Leggere quella manciata di versi fu facile come bere un bicchier d'acqua: non c'erano parole confuse, lettere che si spostavano o frasi senza senso. A dire il vero, il cuore di Simone si era reso conto di non essere in un sogno già da un po', quando aveva sentito Manuel prendergli la mano, ma adesso anche la sua mente, la sua parte più razionale, aveva avuto la prova definitiva.

"Sei proprio bravo, Simo."

Sussurrò Manuel, che lo aveva ascoltato incantato, rapito dalla sua voce e dalla sua pronuncia perfetta.

"Va un po' meglio?"

Chiese con dolcezza e Simone annuì, poi mise il libro da parte e attirò Manuel a sé in un abbraccio, che subito venne corrisposto. I singhiozzi, a poco a poco, andarono via e le lacrime smisero di scivolare dagli occhi. Anche Manuel era più sereno, adesso.

"Grazie, Manuel. Ora so che questa è la realtà, la nostra realtà."

Mormorò Simone, accennando un sorriso, e Manuel annuì piano.

"E nessuno ce la porterà più via."

Promise, sorridendo di rimando.

"Che dici, ci andiamo a sciacquare un po' la faccia?"

Propose, dal momento che il viso di Simone, per quanto sereno, era ancora tutto arrossato. Simone annuì e liberò il fidanzato dal suo abbraccio, Manuel allora si alzò, posò un bacio tra i capelli dell'altro, e andò a recuperare le stampelle, che gli porse per poi aiutarlo ad alzarsi e ad andare nel bagno adiacente la stanza -una grande comodità, vista la situazione-.

"Eccoci qua..."

Disse sorridente, mentre aiutava Simone a posizionarsi davanti allo specchio, restando al suo fianco per sostenerlo. Simone si sciacquò il viso con acqua fredda e poi, dopo essersi asciugato, si prese del tempo per guardarsi, come non aveva avuto modo di fare per parecchio tempo, e quasi sussultò quando vide la sua immagine riflessa. A restituirgli lo sguardo trovò un volto scavato, solcato da due profonde occhiaie e adombrato da una barbetta scura che lo faceva sembrare quasi sporco: quello era il viso di uno sconosciuto, non il suo. Si portò una mano sullo zigomo, all'altezza del livido, che, come aveva detto Manuel, adesso non si vedeva quasi più, ne notava l'alone soltanto perché sapeva dove cercare, e poi la fece scivolare giù, sulla guancia e sotto il mento, seguendo il profilo di quella barba che non si era mai visto addosso, ed ebbe la conferma che la persona nello specchio era davvero lui. Non era sicuro che gli piacesse, però.

"Se vuoi la tagliamo, Simo, anche se non ti sta male..."

Propose Manuel con voce delicata, posandogli un bacio sulla spalla. Poteva solo immaginare quanto fosse alienante, per Simone, guardarsi per la prima volta allo specchio dopo giorno e trovarsi così diverso dall'ultima volta che lo aveva fatto. Lui gli sarebbe stato accanto e lo avrebbe aiutato a riappropriarsi della sua immagine, a riconoscere di nuovo se stesso.

"Non mi sta male? Quindi secondo te sono bello anche così?"

Domandò Simone, con voce triste. Più si guardava allo specchio e più si sentiva ferito. Manuel gli sorrise comprensivo e si voltò per guardarlo attraverso lo specchio: anche a lui faceva male vederlo così dimagrito e stanco, ma era sempre il suo Simone, in questo non era cambiato.

"Sei sempre bello, Simo. È la tua anima ad essere bella, non importa come sei fuori."

Rispose con dolcezza, incrociando il suo sguardo nei loro riflessi.

"Potresti ave' pure i capelli color giallo canarino e saresti comunque bellissimo."

Aggiunse scherzoso, con la speranza di farlo divertire un po', e Simone accennò una debole risatina. Apprezzava di cuore il tentativo di Manuel, ma lo specchio era davvero impietoso con lui, in quel momento. Manuel sospirò profondamente.

"Però, visto che questa barba proprio nun te piace, adesso la tagliamo. Facciamo che te siedi, così stai più comodo."

 Per Simone non c'erano dubbi, nessuno lo capiva meglio di Manuel: aveva compreso immediatamente quale fosse la sua necessità, non aveva cercato di sminuirla in alcun modo e si era messo subito in moto per aiutarlo, ma del resto Manuel era fatto così, si sarebbe strappato il cuore dal petto per le persone che amava. Gli sorrise, riconoscente, e si voltò a dargli un bacio a fior di labbra prima di accomodarsi sullo sgabellino che tenevano in bagno, in attesa.

"Mi raccomando, mo' che comincio nun te move, eh."

Lo avvertì Manuel, mentre gli distribuiva la schiuma da barba sul viso. Simone ridacchiò, per poi sollevare un po' il capo per dargli più spazio.

"Agli ordini, Figaro!"

Replicò, prendendolo scherzosamente in giro. Manuel fece uno sbuffo divertito.

"Non dovresti prende pe' culo uno che te sta per passare una lama addosso…"

 "So che posso fidarmi."

Ribatté Simone, facendo un occhiolino. Manuel sospirò, colpito nel profondo, mentre reggeva il rasoio a mezz'aria. Rimaneva ogni volta senza parole davanti a quelle risposte spontanee e sincere di Simone, che arrivavano inaspettate e gli entravano dentro senza fare male. Si limitò dunque a sorridergli dolcemente e a lasciargli un bacio sulla punta del naso, rivolgendogli poi uno sguardo innamorato, di quelli che erano solo per lui. Simone sorrise sghembo, divertito, ma anche nei suoi occhi c'era lo stesso amore.

"Che c'è, ti ho mangiato la lingua?"

Domandò scherzoso e Manuel ridacchiò.

"Statte zitto, che me devo concentra'.”

Rispose Manuel, senza davvero rispondere alla domanda, per poi spostare gli occhi sulla guancia di Simone e cominciare a fargli la barba. Faceva scorrere la piccola lama sulla sua pelle con movimenti precisi, senza fretta, seguendola con lo sguardo attento. Ogni tanto, con piccoli tocchi delicati dell'altra mano, faceva spostare delicatamente il capo a Simone, in modo da potersi muovere più liberamente.

Simone seguiva quei tocchi docilmente, affidandosi completamente a lui, e per il resto se ne stava fermo e zitto, in modo da non disturbare Manuel. Lo guardava, però, perché Manuel concentrato era una delle sue viste preferite: ancora una volta si sentì come una delle moto che aggiustava nel garage e ancora una volta si sentì riparato. I loro sguardi si incontravano di tanto in tanto, nei brevi momenti in cui Manuel allontanava il rasoio per sciacquarlo, e si sorridevano morbidamente.

"Ok, qua ho finito. Che te ne pare?"

Domandò Manuel, dopo avergli tamponato il viso con un asciugamano. Simone si voltò verso lo specchio e adesso riconobbe un po' di più il se stesso che ricordava, anche se quel viso scavato gli ricordava ancora tutto ciò che aveva trascorso. Si passò una mano sul volto, trovando ora una pelle liscia e morbida sotto al proprio tocco e annuì, sorridente.

"È perfetto, grazie. Adesso mi fai anche i capelli biondi?"

Manuel scoppiò a ridere, il suo cuore era felice perché se Simone scherzava voleva dire che si sentiva meglio, e annuì.

"Sì guarda, mo te vado a compra' la tinta."

Replicò, per prenderlo in giro a sua volta, facendolo ridere. Si chinò poi a dargli un bacio tra i capelli neri come la notte e tornò a guardarlo facendogli una carezza sul viso.

"Nun te preoccupa', Simo, tornerai come prima. Hai solo bisogno di riposare e di mangiare, ok?"

Disse, guardandolo con occhi carichi di dolcezza e Simone annuì, perché alle parole di Manuel ci credeva sempre.

"Allora adesso andiamo di là, così ti metti a letto e cominci a fa' la prima cosa, poi, vista l'ora, tra poco fai pure la seconda."

Si spostarono di nuovo in camera e Manuel aiutò Simone a mettersi seduto sul letto, sistemandogli un cuscino dietro la schiena e un paio sotto la gamba ingessata per tenerla sollevata come gli aveva detto Riccardo.

"Comodo?"

"Comodissimo!"

Rispose Simone, con un bel sorriso sul volto.

"Però manca qualcosa..."

Aggiunse vago, ma si batté le mani sulle cosce con sguardo eloquente. Mancava Manuel, perché fosse tutto perfetto. L'altro ridacchiò e fece il giro del letto per salire sul lato libero. Si avvicinò a Simone avanzando a quattro zampe e quando gli fu abbastanza vicino, gli diede un bacio sulle labbra.

"Sicuro, Simo'? Non ti faccio male?"

Sussurrò e Simone scosse il capo, prendendogli il viso tra le mani per dargli un altro bacio, più profondo. Questa era l'unica risposta che aveva intenzione di dargli, sicuramente più adatta di mille parole per far svanire le insicurezze di Manuel, e infatti Manuel, dopo quel bacio, si stese poggiando la testa sul grembo di Simone e l'agitò leggermente, come un gatto smorfioso in cerca di coccole.

"Però dimmelo se ti stanchi, eh."

Sussurrò ancora e Simone, che stava ancora ridacchiando per il suo gesto di poco prima, annuì pazientemente.

"Tranquillo."

Rispose e subito portò una mano tra i ricci di Manuel, cominciando ad accarezzarli lentamente. L'altra, invece, andò ad intrecciarsi con quella di Manuel, sul suo petto. Restarono così, in un silenzio interrotto soltanto dal cinguettio degli uccelli e dai sospiri rilassati che Manuel ogni tanto liberava, guardandosi negli occhi per dirsi parole d'amore senza parlarsi, fino a quando il cellulare di Manuel vibrò nella sua tasca. Inizialmente preferì ignorare quel messaggio -chiunque fosse avrebbe potuto aspettare, adesso aveva un momento perfetto da vivere insieme al suo ragazzo-, ma quando quelle vibrazioni cominciarono a susseguirsi insistentemente, prese il cellulare dalla tasca, sbuffando.

"Mo' lo spengo proprio questo coso..."

Borbottò e Simone sorrise alla sua espressione imbronciata.

"Se ti cercano così, hanno una cosa importante da dirti."

Propose, ma Manuel, che aveva dato uno sguardo all'anteprima dei messaggi, scosse subito il capo con un verso di stizza.

"Macché, Simo'! È un mio vecchio compagno di classe che me rompe er cazzo da giorni."

Spiegò, lanciando il cellulare con poca grazia in un angolo vuoto del letto, dopo averlo spento. Roberto, il ragazzo in questione, faceva parte di quel gruppo di persone che, nei corridoi, alle assemblee o durante qualsiasi altra occasione utile, fissava Simone come se volesse mangiarlo, ed era una cosa che Manuel poteva sforzarsi di tollerare -perché tanto Simone, a lui come a tutti gli altri, non rivolgeva nemmeno uno sguardo-, ma una decina di giorni prima gli aveva scritto e gli aveva fatto una proposta che gli aveva dato sui nervi. Anche ora, sentiva che quel momento perfetto di coccole era stato rovinato dalla sua intrusione virtuale.

Simone, notando che Manuel era in un attimo diventato davvero nervoso e infastidito, non poté fare a meno di preoccuparsi, pensando che fosse successo qualcosa di particolarmente grave.

"Ti va di spiegarmi che ha fatto questo ragazzo? Lo conosco?"

Chiese con voce calma, rassicurante, prendendo a disegnare cerchietti tra i capelli di Manuel, che funzionavano sempre quando c'era bisogno di calmarlo per qualcosa. Manuel sospirò, stringendo un po' di più la mano di Simone intrecciata alla sua.

"Non lo conosci, però è uno che ti viene dietro. Hai presente quando t'ho detto che mezza scuola stravede per te? Eh, diciamo che Roberto porta la bandiera..."

Cominciò a raccontare, tirando fuori le parole quasi a forza. Simone si concesse un piccolo sorriso, rassicurato dal fatto che si trattava soltanto di una piccola questione di gelosia, che sicuramente si poteva risolvere facilmente.

"E qualche giorno fa mi ha scritto per invitarme al suo diciottesimo. Anzi, per invitarce. Mi ha chiesto espressamente di invitare anche Simone Balestra, quello bello di classe tua, so che siete amici."

Citò testualmente, con una vocetta acida per fare il verso al ragazzo. Simone non riuscì a rimanere serio e scoppiò a ridere a quell'imitazione. Manuel era proprio geloso marcio!

"Oh, non ride! Guarda che questo ha proprio perso la testa pe' te!"

Protestò Manuel, mettendo il broncio. La sua testa e il suo cuore sapevano che non aveva nulla di cui preoccuparsi, e infatti non temeva che Simone potesse lasciarlo o cose del genere, ciò che gli dava davvero fastidio era la presunzione di Roberto, che non solo aveva messo bocca su di loro chiamandoli amici (anche se di ciò non gliene si poteva fare una colpa, dato che agli occhi della scuola loro erano ancora solo questo), ma che voleva anche usarlo come mezzo per arrivare ad uno scopo, che probabilmente, nella sua testa, erano le mutande di Simone, a giudicare dagli apprezzamenti che gli aveva spesso sentito fare. Forse la sua reazione era esagerata -forse-, ma che poteva farci se si sentiva così al pensiero che qualcuno volesse mettere le mani sul suo ragazzo?

"Scusa, scusa. Mi ha fatto ridere la voce che hai usato, ma riconosco la gravità della situazione..."

Disse Simone, mantenendo il sorriso. C'era passato anche lui, sapeva quanto i morsi della gelosia fossero velenosi, morsi che ogni tanto tornavano a farsi sentire quando anche Manuel diventava oggetto di occhiate e commenti inequivocabili tra i corridoi della scuola, quindi non si sarebbe mai permesso di ridere di lui. Razionalmente quella questione poteva apparire futile, ma certamente non lo era per un cuore innamorato.

"Però, alla fine, che ce frega di 'sto Roberto? E chi ci vuole andare alla sua pallosissima festa, poi! Preferisco mille volte stare con il mio Paperotto."

Aggiunse dolcemente, portandosi la mano di Manuel alle labbra per riempirla di baci.

"Lo so, questo lo so e te prego, non pensare che dubiti di te…"

Replicò Manuel, per poi sospirare. Simone gli sorrise, rassicurante.

"Non lo penso, tranquillo."

Gli disse per rassicurarlo, riprendendo poi a baciargli la mano. Manuel amava da vivere quei baci e si sentiva un po' stupido a continuare quel discorso, di fronte a tutto quell'amore. In fondo, che senso aveva parlare di gelosia se aveva accanto qualcuno con cui amarsi? Eppure, ne sentiva il bisogno e sapeva che Simone lo avrebbe ascoltato, come sempre.

"È solo che…odio sapere che c'è qualcuno che vorrebbe amarti come ti amo io."

Mormorò, guardando Simone con occhi mogi.

"Cioè, se lo volessi anche tu, te lascerei andare, però so che tu non lo vuoi e quindi…hai capito, no?"

Aggiunse e Simone annuì, perché aveva capito.

"E infatti io a questo Roberto non lo voglio e sai cosa? Penso che tu gli stia dando fin troppa importanza. Non se la merita."

Manuel sorrise, sentendosi più leggero, e spostò la mano sulla guancia di Simone, accarezzandolo morbidamente. Sì, Simone aveva decisamente ragione.

"Grazie, Cerbiattino. Anch'io preferisco mille volte stare con te…e pensare a te."

Si sollevò, mettendosi in ginocchio sul letto, e prese il viso di Simone tra le mani. Fece incontrare i loro nasi in qualche leggera carezza, poi le loro labbra in una serie di piccoli baci delicati. Le mani di Simone finirono una dietro il collo di Manuel, per infilarsi tra i suoi capelli, e l'altra sul suo fianco, sotto la maglietta, e le sue labbra inseguivano quelle del compagno, in un gioco di baci che scandiva il tempo e i battiti del loro cuore.

"E tu che gli hai detto, comunque?"

Sussurrò Simone, incuriosito, quando si separarono per riprendere fiato e rimasero fronte contro fronte. Manuel fece spallucce.

"E secondo te, co' tutti i pensieri che ho avuto in 'sti giorni, mi mettevo a rispondergli?"

"Ok, ma cosa avresti voluto dirgli?"

Insisté Simone, perché in fin dei conti c'era ancora tempo per rispondere a quei messaggi. Manuel ridacchiò.

"Certo che sei curioso, eh? Beh, gli avrei risposto volentieri che lui in tre anni non mi ha mai passato un compito de matematica, col cazzo che te portavo alla sua festa!"

Simone sogghignò, furbetto. Manuel gli aveva appena dato uno spunto per giocare un po'.

"Ah, quindi è bravo in matematica?"

Chiese, fingendosi interessato. Dai suoi occhi luccicanti d'amore che brillavano solo per Manuel però, si poteva chiaramente capire che fosse solo una provocazione.
"Sì, quasi quanto te. È pure carino, se proprio lo vuoi sapere. Che, ce stai a fa' un pensiero?"

Ribatté Manuel, decidendo di stare al gioco, perché solo di questo si trattava.

"Eh, quasi quasi sì, sai? Non mi dispiacerebbe poter parlare con qualcuno che ne capisce, di matematica."

Rispose Simone per punzecchiarlo un po', ma al tempo stesso lo accarezzava tra i capelli e sul fianco -come non aveva mai smesso di fare- per farsi perdonare. Manuel arricciò il naso, contrariato, anche se fu piuttosto difficile, sotto tutte quelle attenzioni.

"Oh ma guarda che pure io ce capisco!"

Esclamò e Simone liberò una risatina calda, direttamente dal profondo della gola.

"Sì, dopo che te la sei fatta spiegare almeno tre volte!"

Gli fece presente e Manuel, allora, decise di farsi valere e di sfruttare per bene la risposta di Simone.

"Ma per forza, non è colpa mia! Sei tu che mi distrai!"

Ribatté, lanciando l'amo.

"Ah, io? E come, sentiamo..."

Domandò dunque Simone, con un'aria da professorino che un po' ricordava suo padre, ma con sguardo sinceramente carico di curiosità. Manuel sorrise sghembo, perché il suo ragazzo aveva abboccato.

"Beh, la prima volta mi distraggono le tue labbra ed invidio le parole che dici perché le stanno toccando."

Sussurrò con voce profonda, accarezzandogli con il pollice quelle stesse labbra che aveva appena nominato e che ora si dischiudevano istintivamente sotto il suo tocco.

"La seconda volta mi distraggono i tuoi occhi, che brillano emozionati quando mi parli di equazioni e tutte quelle robe strane e allora capisco che deve essere proprio bella, la matematica, vista con gli occhi tuoi."

Aggiunse, passando stavolta il pollice sotto quegli occhioni stupendi per cui avrebbe dato la vita e che ora lo fissavano incantati e stupiti.

"La terza volta, invece, capisco quello che dici."

Concluse, dando al suo ragazzo un bacio a fior di labbra prima di tornare a stendersi sulle sue cosce, con un sorrisetto soddisfatto stampato in viso.

Simone era andato in cortocircuito, si sentiva le guance andare a fuoco, insieme a tutto il resto del corpo, e pensava che non gli erano mai state rivolte parole più belle di quelle, anche se Manuel gliene aveva dette tante e lui si ritrovava ad avere questo pensiero ogni volta. Si schiarì la voce, giusto per parlare e non per provare a darsi un contegno: voleva che Manuel vedesse gli effetti che aveva su di lui, effetti che nessun altro riusciva ad avere perché solo lui era la sua metà.

Manuel quegli effetti li vedeva e se ne beava, ma pensava anche che Simone era capace di scatenare in lui la stessa tempesta, Simone e nessun altro.

"La prossima volta ti faccio lezione con il passamontagna, allora."

Balbettò Simone, accennando un sorrisetto.

"Sarebbe appropriato, visto che sei un ladro."

Replicò Manuel, con convinzione.

"Un…un ladro? Per l'auto, dici?"

Domandò Simone, senza capire. Manuel scosse il capo, trattenendo una risata.

"No, perché m'hai rubato er core!"

Esclamò con enfasi, volutamente sdolcinato all'inverosimile, portandosi anche una mano al petto. Subito dopo scoppiò a ridere e Simone insieme a lui: Roberto era ormai un fastidio lontano e loro erano di nuovo nella loro bolla.

 
Come aveva previsto Manuel, non ci volle molto tempo prima che il pranzo fosse pronto. Andò lui a prendere i piatti giù in cucina, posandone uno per sé sulla scrivania della camera e un altro -in cui aveva fatto mettere della pasta in più, in modo che Simone recuperasse le forze e il peso perduti più in fretta- sul tavolino pieghevole che aveva sistemato sul letto.

"Hai visto Simo'? Hai pure il servizio in camera..."

Disse divertito, facendogli una carezza tra i capelli e Simone ridacchiò.

"Mi sembra di essere un principe, così servito e riverito..."

Commentò, prima di cominciare a mangiare con gusto: aveva molta fame e la pasta al pesto era tra i suoi piatti preferiti. Vedere Simone mangiare con così tanto appetito fece nascere un sorriso sulle labbra di Manuel, perché finalmente stava facendo un pasto che si poteva definire davvero tale, dopo settimane di digiuno e giorni di cibo da ospedale.

"Beh, un po' principino lo sei..."

Commentò, divertito.

"... però te lo meriti e a me nun me dispiace servirte e riverirte."

Aggiunse, guardandolo negli occhi. Grazie a Simone aveva capito che amare voleva dire proteggere e prendersi cura dell'altro e che non voleva far altro che questo. Era nato per questo.

Simone sostenne il suo sguardo e gli sorrise, prendendolo per la mano. Senza Manuel, non ce l'avrebbe mai fatta.

"Quindi non ti dispiace farmi da cameriere?"

Chiese con dolcezza, accarezzandogli il dorso della mano. Manuel sorrise e scosse il capo.

"No, non mi dispiace. Te posso fa' da infermiere, da cameriere, da chiunque tu abbia bisogno. Ce sto io pe' te, Simo'."

Rispose Manuel con la stessa dolcezza, portandosi le loro mani intrecciate alle labbra per posare un bacio su quella di Simone.

"Ho bisogno solo del mio fidanzato, che è dolcissimo e non deve stancarsi troppo…"

Ribatté Simone in un sussurro, tirandolo verso di sé. Nel farlo, Manuel venne investito dal Sole che entrava dal balcone della stanza e davanti agli occhi di Simone apparve di nuovo l'angelo di luce del suo sogno, quello che lo aveva salvato dal buio e che adesso continuava a prendersi cura di lui. Si accorse anche che Manuel stava per ribattere qualcosa, -probabilmente che non si stancava a prendersi cura di lui-, ma lo interruppe prima che potesse parlare.

"Però, se è possibile, vorrei comunque dare una mancia al cameriere, che è molto carino, oltre che molto gentile."

Aggiunse, guardandolo furbescamente. Manuel reagì con una risatina e si sentì andare a fuoco le guance, certamente non per il Sole. ‘Ah, Simone!’, pensò.

"Il cameriere accetta e ringrazia di cuore."

Sussurrò, sorridendo poi morbidamente. Simone coprì immediatamente la poca distanza che c'era tra loro e fece unire le loro labbra, in un bacio lento che Manuel potesse gustare nella sua pienezza. Quello era solo un piccolo modo per ripagarlo delle attenzioni che costantemente gli dava, ma era anche la sua promessa di fare lo stesso per lui, non appena ne sarebbe stato in grado.

"Comunque è proprio bona 'sta pasta."

Commentò Manuel, quando le loro labbra si separarono. Era ancora tutto rosso per l'amore che Simone gli aveva trasmesso e sorrideva, felice.

"Ma se non hai ancora toccato il tuo piatto…"

Replicò Simone, leggermente perplesso. Manuel ridacchiò.

"Lo so, ma l'ho assaggiata in un altro modo."

Accompagnò la sua affermazione con un occhiolino furbetto e Simone scoppiò a ridere. 'Ah, Manuel!', pensò.

"Mo' però vado a mangiarla davvero, prima che se faccia fredda."

Aggiunse, per poi spostarsi verso la scrivania e mettersi seduto. Preferì girare la sedia verso Simone, in modo che si potessero guardare, anche se era un po' più scomodo mangiare tenendo il piatto sulle gambe. Ne valeva decisamente la pena.

 
"Ora che facciamo? Ci prepariamo per la sorpresa?"

Chiese Simone quando i piatti di entrambi erano ormai vuoti, con il viso che brillava di curiosità. Manuel scosse il capo, accompagnandosi anche con un gesto dell'indice.
"Un po' di pazienza, Simo. Ti ricordo che è una serata speciale, non un pomeriggio speciale."

Rispose divertito, facendo poi una risatina. Era bellissimo, però, il suo fidanzato trepidante. Simone sbuffò.

"Ma io non ce la faccio più ad aspettare!"

Protestò, anche se non era davvero contrariato. Si fidava di Manuel e sapeva che aveva organizzato tutto per il meglio, quindi avrebbe seguito tutte le sue indicazioni... però non stava più nella pelle! Manuel ridacchiò, guardandolo pazientemente.

"Lo so, Cerbiattino, lo so... però fidate, col caldo che fa adesso non te la godresti nemmeno."

Fece una piccola pausa, per bere un sorso d'acqua.

"Propongo di farci un bel pisolino, così tu te riposi e il tempo scorre più in fretta. Che ne dici?"

Simone distese il volto in un sorriso, gli piaceva quella prospettiva che avrebbe senz'altro reso più piacevole l'attesa. E poi cominciava ad avere sonno, un po' a causa delle medicine e un po' perché aveva fatto il pasto più sostanzioso degli ultimi tempi, quindi annuì.

"E me lo chiedi pure? Dico che devi venire qui subito! Ordine del principe!"

Esclamò, battendo la mano sul lato libero del letto. Manuel si alzò, sorridente, e raccolse i piatti vuoti da bravo cameriere.

"Prima devo riportare questi di là. Torno subito, Vostra Altezza!"

Posò un bacio tra i suoi capelli morbidi, uscì e tornò in stanza nel giro di pochi minuti. Aiutò Simone ad alzarsi per andare in bagno, si lavarono i denti e poi sistemò Simone a letto, regolando i cuscini in modo che stesse comodo. Salì sull'altro lato del letto, avvicinandosi a gattoni.

"Eccoci qua…"

Mormorò, quando gli fu abbastanza vicino. Simone sorrise e, dal basso, allungò una mano ad accarezzargli il viso. Manuel, in risposta, inclinò leggermente il capo per farsi raggiungere meglio dalle sue carezze, un gesto completamente istintivo e naturale, per lui. Simone lo trovava particolarmente bello, quando si lasciava andare all'affetto.

"Eccoci qua…"

Ripeté, sollevando poi la testa per raggiungere Manuel in un bacio leggero. Quando tornò ad appoggiarla sul cuscino, Manuel seguì il suo movimento e raggiunse di nuovo le labbra di Simone, questa volta in un bacio più lungo che gli diede modo di distendersi e portare un braccio dall'altro lato del suo corpo, in modo da circondarlo. Come aveva fatto in ospedale, però, stava attento a non pesargli addosso e Simone, esattamente come in ospedale, se lo tirò meglio su di sé, afferrandolo per i fianchi.

"Ma tu non avevi detto che dovevamo dormire?"

Chiese Simone sulle sue labbra, mentre riprendevano fiato. Manuel sorrise sghembo.

"E infatti questo era il bacio della buonanotte."

Così dicendo gliene posò un altro in mezzo agli occhi, mentre Simone ridacchiava, e si sistemò accanto a lui, disteso su un fianco, con la testa riccioluta poggiata sul petto di Simone, che approvò il gesto con un sospiro. Si abbracciarono, come sempre, in quella che era ormai la loro posizione, indipendentemente dalle dimensioni del letto.

"Sappi che non protesto solo perché ho sonno e perché sono curioso di provare com'è dormire in questo letto."

Precisò Simone, concludendo con uno sbadiglio. Manuel sbadigliò a sua volta, contagiato da lui, e poi sorrise, trovandolo molto tenero.

"Bellissimo, Simo', come vuoi che sia? Dormire insieme era bello anche in quel lettuccio dell'ospedale, figurati qui…"

Simone annuì divertito, trovandosi in accordo con lui. Era sicuro, però, che quel letto sarebbe stato decisamente più comodo per Manuel, che non avrebbe dovuto preoccuparsi di lasciargli spazio, questa volta.

"Allora non ci resta che confermare questa teoria."

Mormorò, sentendo già gli occhi che si chiudevano. Manuel si sporse a dargli un bacio sulla guancia, poi tornò nella sua posizione e prese ad accarezzargli un fianco per conciliargli il sonno.

"Buon riposo, allora, Simo."

"Buon riposo, Manuel."

Replicò Simone, che cominciò a fare i grattini tra i capelli di Manuel per aiutarlo a rilassarsi, almeno finché sarebbe riuscito a restare sveglio.

Quelle carezze infatti non durarono a lungo, Simone precipitò in un sonno profondo dopo pochi minuti e solo allora Manuel -che si era dovuto sforzare per mantenere gli occhi aperti, dal momento che i grattini di Simone funzionavano eccome- si concesse di fare lo stesso.

"Spero che la mia sorpresa possa aiutarti a farti sentire a casa, Simo. Te lo meriti davvero tanto…"

Mormorò un po' a lui e un po' a se stesso, prima di abbassare le palpebre e abbandonarsi totalmente a quel riposino.

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Capitolo 22
*** Insieme un inganno non c’è (parte 2) ***


Quando Manuel riaprì gli occhi, un paio d'ore più tardi, trovò Simone ancora placidamente addormentato accanto a lui. Spense subito la sveglia che, come faceva di notte in ospedale, aveva impostato solo con la vibrazione, e si preoccupò di controllare che Simone non ne fosse stato disturbato.

Sorrise dolcemente vedendolo così sereno, con il viso accarezzato dal Sole e si prese qualche minuto per osservare i movimenti lenti del suo petto, che scandivano il ritmo del suo respiro e che gli ricordavano che Simone era lì, che non lo aveva perso.

Sarebbe rimasto a guardarlo per sempre, ma doveva proprio andare: aveva già tirato fuori tutto ciò che serviva alla loro serata speciale, ma non aveva ancora allestito nulla e doveva mettersi all'opera. Cercò di liberarsi dall'abbraccio di Simone nel modo più delicato possibile, ma Simone non sembrava intenzionato a lasciarlo andare e lo strinse di più a sé.

"Resta qui."

Mormorò con voce impastata, più addormentato che sveglio. Manuel sorrise, trovandolo di una tenerezza indescrivibile, e gli posò un bacio sulla punta del naso.

"Devo andare a preparare la sorpresa, Cerbiattino. Scusami, non ti volevo svegliare..."

Sussurrò, dandogli poi un altro bacio, stavolta in mezzo agli occhi.

"Tu riposati ancora un po', poi ti vengo a chiamare io, ok?"

Simone annuì pigramente, ancora ad occhi chiusi, ma non lo liberò dall'abbraccio.

"Bacio?"

Mugolò e Manuel, che non sapeva dirgli di no in situazioni normali, figurarsi quando sembrava un cerbiattino addormentato, ovviamente acconsentì.

"Bacio."

Rispose e si chinò a baciarlo nuovamente, a fior di labbra. Gliene diede tre, di baci, sperando fossero abbastanza per scusarsi del suo dover lasciare il letto e per farlo felice. Simone, soddisfatto, lo lasciò andare e Manuel si alzò, uscendo silenziosamente dalla camera.

Quando rientrò, nel tardo pomeriggio, trovò Simone esattamente come lo aveva lasciato, tranne per il cuscino che adesso stringeva al petto. Era quasi un peccato svegliarlo, ma Manuel sapeva che se lo avesse lasciato dormire, facendo saltare la serata, Simone ci sarebbe rimasto malissimo, quindi si decise a svegliarlo, optando per il modo più dolce che gli veniva in mente.

Attraversò la cameretta in punta di piedi per non rovinare il momento, recuperò la chitarra e si avvicinò al letto, sedendosi sul bordo, accanto a Simone. Cominciò ad accarezzare le corde, le sue dita si mossero automaticamente per riprodurre la canzone più adatta a descrivere ciò che erano lui e Simone, e la voce -bassa e dolce, ma decisa- seguì subito.

"In un mondo che
Prigioniero è
Respiriamo liberi io e te
E la verità
Si offre nuda a noi
E limpida è l'immagine
Ormai"

Manuel aveva nascosto la verità per troppo tempo sotto troppe bugie, creandosi da solo una prigione di paure in cui credeva di essere al sicuro, di essere libero, e nel farlo, senza rendersene conto, aveva costretto anche Simone in una gabbia, una gabbia di sofferenza. Erano entrambi liberi, adesso, e la verità del loro amore era lì, in mezzo a loro.

Simone aprì lentamente gli occhi, facendosi trasportare da quel canto che sembrava parte del suo sogno e sorrise immediatamente alla dolce vista di Manuel che cantava per lui, più bella del sogno più bello che avrebbe mai potuto fare.

"Ciao, Cerbiattino."

Sussurrò Manuel, vedendolo sveglio.

"Ciao, Paperotto."

Rispose Simone, liberando poi uno sbadiglio.

"Me ne canti un altro pezzetto, per favore?"

Biascicò, guardandolo con gli occhi resi lucidi dal sonno. Manuel annuì, senza farselo ripetere una seconda volta.

"Nuove sensazioni
Giovani emozioni
Si esprimono purissime in noi
La veste dei fantasmi del passato
Cadendo lascia il quadro immacolato
E s'alza un vento tiepido d'amore
Di vero amore
E riscopro te"

Simone era convinto che, in quanto miglior amico di Manuel, lo conoscesse meglio di chiunque altro, perfino più di sua madre, a cui certamente non raccontava tutto quello che invece diceva a lui. Eppure, quando Manuel si era liberato dalla pesante nebbia della paura e si era lasciato accarezzare dal vento dell'amore, Simone si era dovuto ricredere: Manuel era sempre Manuel, non era corretto dire che fosse cambiato, perché il suo animo poetico e un po' scapestrato era rimasto lì, ma la dolcezza aveva preso il posto della rabbia e della paura e Simone si era trovato a riscoprire il suo amico, che ora era ben più di un amico, esattamente come aveva riscoperto se stesso quando si era innamorato di lui. L'amore, quell'emozione così nuova per i loro giovani cuori, che avevano scoperto l'uno tra le braccia dell'altro, aveva portato alla luce la loro vera, bellissima, natura.

"Bravissimo!"

Esclamò mentre Manuel faceva sfumare la canzone con l'aria di un chitarrista esperto, accompagnandosi anche da un applauso che riecheggiò con forza nella stanza. Manuel sorrise imbarazzato, con le guance che si facevano un po' più rosse. Era felice, però, di essere riuscito a svegliare Simone in un modo che gli era piaciuto così tanto.

"Esagerato! Però, se vuoi, te sveglio così tutti i giorni…"

Propose, da bravo marpione, e Simone ridacchiò.

"È una bellissima idea, Manuel…"

Gli fece cenno di avvicinarsi e Manuel, in un attimo, mise da parte la chitarra e si sporse verso di lui come se volesse baciarlo, ma non lo fece perché Simone stava continuando a parlare.

"... però preferisco quando ci svegliamo insieme, abbracciati…"

Simone approfittò della vicinanza di Manuel per avvolgergli il collo con le braccia e Manuel assecondò il suo gesto, avvicinandosi ancora un po'. Così vicino, poteva vedere gli occhi di Simone ancora liquidi per il sonno e Simone poté accorgersi delle goccioline di sudore che imperlavano la pelle di Manuel e dei suoi ricci arruffati. Doveva essersi affaticato molto.

"...e ci riempiamo di baci."

Concluse, e il bacio che ne seguì fu iniziativa di entrambi, che si mossero come un meccanismo perfetto.

"Allora facciamo che ce svegliamo così, poi quando vuoi tu te suono qualcosa."

Propose Manuel sulle sue labbra, facendogli poi una carezza sul naso con il proprio.

"Come facciamo già, insomma."

Sottolineò Simone con un sorriso e Manuel ridacchiò.

"Oh, sempre precisino, tu!"

Esclamò divertito, dandogli un altro bacio per evitare che ribattesse. Simone infatti non aggiunse altro, limitandosi a portare una mano tra i capelli di Manuel per accarezzarli.

"Sei tutto sudato, Paperotto. Ma che hai combinato?"

Chiese, tradendo una certa preoccupazione nella voce e nello sguardo. Manuel sorrise.

"Ho solo fatto quello che bisognava fare, nun te preoccupa', sto bene. Mo ce annamo a fa' una bella doccia, così te rinfreschi pure tu, mh?"

Simone si accigliò, perplesso, e il suo sguardo si spostò idealmente verso la sua gamba ingessata, anche se la visuale era coperta da Manuel.

"Ma…ma io come faccio? Il gesso non si può bagnare e io non riesco a stare in piedi. Pensavo mi lavassi come hai fatto in ospedale."

Manuel sorrise e gli diede un bacio su quella fronte un po' aggrottata dai pensieri. Aveva già pensato a tutto lui, Simone non doveva preoccuparsi.

"No, te meriti de fa' una doccia come si deve, non ti preoccupare che un modo c'è."

Si separò dall'abbraccio e si avvicinò all'armadio, dove avevano gettato il borsone con le cose di Simone portate dall'ospedale. Da una delle tasche laterali estrasse una busta che al suo interno sembrava contenere un'altra busta. Tornò accanto a Simone, fermandosi all'altezza delle sue gambe.

"La vedi questa? È una protezione per il gesso, me l'ha data Riccardo. Si infila e si stringe un po' il cordino qui sopra, così rimane ferma e il gesso non si bagna. Posso?"
Simone annuì, entusiasta, e Manuel gli fece indossare con delicatezza quella specie di sacchetto, che però gli copriva alla perfezione la gamba e sembrava decisamente più resistente. Fatto questo, si spostò con decisione verso la scrivania, sollevò la sedia e la portò in bagno, dopodiché tornò ad aiutare Simone ad alzarsi e ad entrare in bagno insieme a lui.

Simone notò subito che la sedia era stata messa davanti al lavandino, mentre nella doccia, che per fortuna era molto grande, Manuel aveva infilato lo sgabello in plastica e sorrise, stupito.

"Hai pensato proprio a tutto tutto…"

Manuel annuì, fiero di se stesso.

"Te l'ho detto che un modo c'era. Ora vieni qua, dai…"

Lo fece avvicinare alla sedia e lo aiutò a sedersi.

"Ecco, così dovresti riuscire a spogliarti…"

Simone ridacchiò, scuotendo il capo. Alzò il capo per guardarlo negli occhi, rivolgendogli un sorriso sghembo, ma affettuoso. Capiva l'intenzione di Manuel, la sua premura, ma non era necessaria.

"E da quando ci dobbiamo spogliare da soli, io e te? Va tutto bene, Manuel, non ho vergogna. Non è cambiato nulla, ok?"

Disse dolcemente, allungando una mano per prendere la sua e portarsela verso la propria maglietta. Non voleva forzarlo, però, quindi si fermò un po' prima.

"Per te va bene?"

Chiese, temendo che Manuel potesse avere un timore di qualche tipo.

"Certo che per me va bene, Simo..."

Rispose Manuel, facendo poi un profondo sospiro.

"È che...stavo ripensando a quello che ti ha fatto fare Sbarra e pensavo che..."

Scrollò le spalle.

"Non lo so, che magari preferissi spogliarti da solo, con i tuoi tempi, ecco."

Simone guardò Manuel con occhi dolcissimi, pieni di riconoscenza e di affetto per il modo che aveva di prendersi cura di lui, sempre e comunque, anche nelle cose più semplici e banali, che non dava mai per scontate.

"Manuel, ti ringrazio davvero tanto per averci pensato, ma i miei tempi sono anche i tuoi e non c'è nessuno che sappia rispettarli meglio di te. Non c'è bisogno che ti preoccupi anche di questo, ok? Io con te sto bene sempre."

Disse, portandosi la mano di Manuel alle labbra per baciarla.

Manuel gli sorrise teneramente e, anche se non avrebbe mai smesso di preoccuparsi per Simone, sapeva che lui aveva ragione, che loro due camminavano insieme, allo stesso passo. Spostò la mano dalle sue labbra alla sua guancia, accarezzandolo, e poi tra i suoi capelli, quindi si chinò e vi posò un morbido bacio.

"Anch'io con te sto bene sempre. Sei la parte migliore della mia vita, Simo."

Sussurrò, tornando a guardarlo. Con un cenno, poi, gli indicò di sollevare le braccia e appena Simone lo fece, Manuel gli sfilò delicatamente la maglietta, che lasciò cadere a terra. Si abbassò sui talloni per aiutarlo con i pantaloncini e il suo sguardo inevitabilmente si posò sui lividi ancora prepotentemente presenti sul suo corpo, anche se stavano guarendo, ma stavolta ebbe meno paura e ricordò il consiglio di Riccardo, quindi portò una mano sulla sua pancia per fargli una carezza.

Simone si lasciò sfuggire una risatina per il leggero solletico, ma era tranquillo. Anzi, era felice di vedere Manuel più sicuro di toccarlo, era felice che avesse preso l'iniziativa.

"Non mi fanno neanche più male, sai? Sono solo brutti."

Manuel alzò gli occhi verso i suoi, contento di quella notizia, sfoggiando un sorriso sghembo.

"Tu sei sempre bello, però."

Lo rassicurò, anche in virtù di quella domanda che Simone gli aveva fatto quando si era visto allo specchio, sporgendosi a dargli un bacio a fior di labbra. Sì, lo trovava sempre bello, sempre.

Simone sorrise timidamente a quel complimento, ma il suo cuore batteva forte per l'amore che Manuel sapeva trasmettergli. Gli fece una carezza tra i capelli, prendendosi il divertimento di arruffarli ancora di più.

"Oh, ma che stai a fa'?"

Protestò Manuel per gioco, e Simone ridacchiò contemplando la sua opera.

"Anche tu sei sempre bello! Pure così!"

Esclamò, e Manuel si sciolse in una morbida risata.

"Me basta piacere a te, Simo, lo sai."

Fece scivolare le mani sui suoi fianchi, verso il bordo dei pantaloncini che l'altro indossava.

"Posso?"

Simone annuì e Manuel, con un po' di fatica, glieli sfilò e li abbandonò accanto alla maglietta che gli aveva tolto poco prima, poi fu il turno degli slip.

"Ti porto nella doccia, così non prendi freddo."

Gli propose Manuel, facendo per aiutarlo a rialzarsi, ma Simone scosse il capo.

"No, tu sei ancora vestito. Vorrei ricambiarti il favore..."

Disse con voce morbida, guardandolo dal basso verso l'alto. I suoi occhi erano carichi di affetto, di devozione e di voglia di prendersi cura di lui.

Manuel accennò un sorriso e reclinò lievemente il capo da un lato, conscio del fatto che era inutile cercare di convincerlo del contrario, che provarci avrebbe significato solo perdere tempo, e quindi annuì, accettando ben volentieri quella dimostrazione d'amore.

Si abbassò di nuovo, in modo che Simone potesse sfilargli senza problemi la maglietta, che fu ben felice di togliersi dal momento che era zuppa di sudore. Simone appallottolò l'indumento e lo lanciò via con ben poca accortezza, poi attirò Manuel a sé in un bacio veloce.

"Alzati adesso, per favore."

Sussurrò e Manuel obbedì, aspettandosi che Simone si limitasse a sfilargli anche i pantaloni. Ciò che non aveva previsto, e che gli fece sgranare gli occhi per lo stupore, fu che Simone gli tirò giù pantaloni e slip insieme, in un colpo solo.

"C'hai proprio voglia de farte 'sta doccia, eh?"

Domandò divertito, mentre lo aiutava ad alzarsi. Simone gli rivolse un sorrisetto furbo, curvando solo un angolo delle labbra, soddisfatto dall'effetto che il suo gesto aveva avuto su di lui.

"Ho voglia di farmi la doccia con te."

Specificò, guardandolo dritto negli occhi. Manuel annuì e si sporse a dargli un bacio a fior di labbra.

"Anch'io Simo, anch'io."

Senza attendere oltre, allora, entrò insieme a Simone nella cabina, lo fece sedere sullo sgabello e mise fuori le stampelle, in modo che non si bagnassero. Staccò il doccino dalla parete e aprì l'acqua, testandola sulla propria mano prima di cominciare a passarla sul corpo di Simone.

"Dimme se scotta o è fredda, eh..."

Simone scosse il capo, mugolando piacevolmente.

"È perfetta Manuel, non ti preoccupare."

Mormorò Simone, beandosi nel sentire l'acqua -né troppo calda, né troppo fredda- scorrere sulla propria schiena. Manuel fu molto attento, si aiutò a spargere l'acqua su Simone con la mano libera, facendogli delle carezze circolari sulla schiena che Simone dimostrò di apprezzare con dei sottili mugolii, amplificati dallo spazio chiuso della doccia.

Manuel gli posò poi un bacio tra i capelli -che avrebbe bagnato dopo, al momento dello shampoo- e spostò il doccino sulle sue spalle, aiutandosi sempre con l'altra mano, e poi sul suo busto e sulle sue gambe, in modo da non fargli sentire freddo in nessuna parte del corpo.

Per Simone, sentire le carezze di Manuel, la sua mano muoversi sapientemente sulla sua pelle, era uno dei più bei piaceri della sua vita e per Manuel, accarezzare la pelle calda di Simone, sentire i suoi muscoli che si irrigidivano e poi si rilassavano sotto al proprio tocco, era uno dei privilegi più grandi della sua vita.

"Ok, adesso ti insapono..."

Annunciò, un po' anche per ricordare a se stesso il programma che si era fatto e incastrò il doccino sull'apposito gancio, per poi prendere la spugna e versarci sopra del bagnoschiuma. Quando si avvicinò nuovamente a Simone, tuttavia, quest'ultimo lo afferrò per i fianchi tirandolo a sé con una decisione che per poco non lo fece cadere su di lui, e posò le labbra sul tatuaggio del serpente in un piccolo bacio, cosa che gli fece emettere un verso di sorpresa.

"Simo?"

Lo chiamò piano Manuel, abbassando lo sguardo verso di lui. Simone accennò un sorriso, ma non si mosse.

"Mh?"

Si limitò a replicare, continuando a posare baci sul tatuaggio. Con le braccia, intanto, andò a cingergli il busto.

"Che stai facendo?"

Domandò l'altro, anche se la risposta a quella domanda era piuttosto ovvia. Simone, infatti, ridacchiò.

"Mi era mancato poterlo fare."

Rispose, sereno. Manuel liberò un profondo sospiro: anche a lui erano mancati quei baci, da impazzire.

"Sono tutto sudato, però."

Gli fece notare e soltanto allora Simone alzò il capo per incrociare il suo sguardo.

"Non importa, ti bacerei anche se fossi ricoperto di spazzatura."

Rispose deciso, mettendo su un sorriso soddisfatto. Manuel ridacchiò, scuotendo appena il capo: Simone aveva imparato fin troppo bene ad usare le sue stesse parole contro di lui.

"Allora hai capito cosa intendevo quando te lo dicevo io?"

Simone annuì in risposta, facendo una carezza a Manuel sulla schiena.

"Certo che l'ho capito."

Tornò ad abbassare il capo, rivolgendosi di nuovo verso il busto del suo ragazzo. Era così vicino che Manuel poteva sentire il suo respiro sulla propria pelle, il che gli provocava dei leggeri brividi lungo la schiena.

"E l'ho anche capito subito, che ti credi?"

Aggiunse divertito Simone, per poi tornare a dedicarsi al tatuaggio. Questa volta, i baci si fecero più intensi, più lunghi e, di conseguenza, anche più caldi o almeno così li sentiva Manuel sulla propria pelle: ogni bacio era un piccolo fuoco che in un attimo diventava incendio. Deglutì, stringendo istintivamente la spugna da cui fece colare gran parte del bagnoschiuma che vi aveva versato.

"Simo...ci dobbiamo lavare. La sorpresa..."

Protestò debolmente, ma non credeva nemmeno lui alle sue stesse parole.

Simone si fermò per un attimo e gli accarezzò il petto con la punta del naso, riempiendosi le narici dell'odore forte, ma piacevole, del sudore di Manuel. Gli tornò in mente di aver letto da qualche parte che gli esseri umani sono predisposti ad apprezzare l'odore degli esseri umani con il patrimonio genetico più lontano dal proprio, per una questione di riproduzione ed evoluzione della specie.

Non sapeva fino a quanto questa teoria potesse applicarsi a lui e a Manuel, dal momento che la riproduzione non era alla loro portata, ma sapeva che il profumo di Manuel mandava al suo cervello tutta una serie di scariche positive e allora, per quanto l'amore fosse un sentimento astratto, impalpabile e non misurabile, il loro amore era in qualche modo scritto anche nella chimica.

"Posso smetterla, se proprio vuoi..."

Sussurrò con dolcezza, ed era vero: se Manuel davvero non aveva voglia, lui se ne sarebbe tornato buono buono e si sarebbero limitati ad usare quella doccia per il suo effettivo scopo.

Manuel fece una risatina e scosse appena il capo. No, non era esattamente una cosa che voleva.

"No, è più un...un avvertimento, per te. Insomma, prima eri tutto curioso de conosce 'sta sorpresa..."

Gli fece notare e Simone scrollò le spalle.

"La sorpresa ha pazientato per intere settimane, sono sicuro che possa attendere ancora un pochino. E poi, chi dice che questo momento non possa esserne parte?"
Replicò a voce bassa, con convinzione, continuando a fare quelle carezze leggere al centro del petto di Manuel -sul suo cuore che batteva forte- e Manuel, di fronte a quella logica schiacciante, non poté che concordare. Portò una mano tra i capelli di Simone per fargli capire che lo voleva sentire di nuovo su di sé, senza tuttavia esercitare troppa pressione, in modo che fosse libero di muoversi come preferiva.

Simone sorrise e posò quel sorriso sulla pelle di Manuel, prima di ricominciare a baciare il tatuaggio che tanto apprezzava. Andando contro la logica -come aveva imparato a fare grazie all'altro-, gli piaceva cominciare dalla fine, cioè partiva sempre baciando la coda del serpente e poi arrivava pian piano alla testa, seguendo quel percorso tortuoso simile ad una montagna russa.

Ora che le sue labbra erano di nuovo sulla pelle amata le dischiuse leggermente, quanto bastava a far uscire fuori la punta della lingua, ricordando che Manuel l'ultima volta aveva apprezzato. Era anche un modo per tornare a quella mattinata felice, quando i problemi, le paure e il dolore non sembravano neanche lontanamente un pericolo.

Manuel, non appena percepì la lingua calda e umida di Simone sulla propria pelle così ricettiva alle sue attenzioni, ebbe uno spasmo e si aggrappò istintivamente alla sua spalla con la mano libera -che aveva fatto cadere la spugna sul piatto della doccia- e artigliò i suoi capelli con quella che già si trovava lì.

Si disse che non avrebbe dovuto reggersi a Simone, che anche se seduto aveva comunque una gamba ingessata e avrebbe potuto fargli male, ma prima che potesse ordinare anche solo ad un muscolo del suo corpo di allentare la presa su di lui -complice anche il fatto che il suo cervello cominciava ad essere più lento, offuscato dal piacere-, Simone lo strinse di più a sé, come se gli avesse letto nel pensiero -e non era poi così improbabile-, avvolgendolo saldamente tra le braccia.

Si muoveva lentamente, riscoprendo il sapore della pelle di Manuel, che di solito era quasi dolce ma che ora invece era resa più salata dal sottile velo di sudore che la ricopriva, ed intanto, con una delle mani che teneva sulla sua schiena, scese quanto bastava ad arrivare poco sopra i glutei, dove prese a disegnare piccole forme astratte nello spazio della fossetta che si delineava quando Manuel irrigidiva i muscoli. Manuel, infatti, era molto teso e Simone lo percepiva distintamente anche grazie ai respiri affannati, quasi boccheggianti, che riempivano il piccolo spazio della doccia. Non era una reazione negativa, Simone poteva dire di conoscerla bene, ma era comunque meglio accertarsi che fosse tutto a posto.

"Manuel? Come va?"

Domandò con voce bassa, ma limpida, alzando il capo verso il suo ragazzo e dandogli così anche un po' di tregua. Vide che aveva gli occhi chiusi, la bocca aperta alla ricerca di ossigeno, e piccole righe di sudore che gli segnavano il viso: agli occhi di Simone era uno spettacolo divino, se il divino avesse accettato in sé l'erotico.
Manuel deglutì, cercando le parole insieme all'ossigeno: in quel momento, si sentiva come se fosse nel pieno di un giro sulle montagne russe.

"Va...va bene, Simo'...va più che bene..."

Biascicò, e non stava mentendo. Deglutì di nuovo.

"Solo... Simo'..."

Riaprì gli occhi e abbassò lo sguardo verso di lui, ritrovandosi davanti ai suoi occhioni che lo guardavano adoranti e carichi di desiderio, le sue gote arrossate che lo rendevano simile ad un angelo e i suoi ricci arruffati che ancora stringeva tra le dita.

Non riuscì ad aggiungere altre parole, non riuscì a formulare una frase intera, ma a Simone bastò guardarlo negli occhi per capire cosa non andasse, nulla di cui comunque non si fosse già accorto. Gli sorrise, rassicurante, e passò morbidamente una mano sulla sua schiena, in una carezza affettuosa e bastò questo a far mugolare Manuel, chiaro segnale di quanto avesse bisogno di attenzioni.

"Tranquillo Manuel, rilassati..."

Sussurrò morbidamente mentre portava una mano tra le sue gambe, trovandolo duro al proprio tocco. Manuel sussultò di nuovo, con un gemito più acuto ad accompagnare lo sfogo dei suoi muscoli.

"...ci penso io a te."

Aggiunse Simone, tornando a dedicarsi al tatuaggio. 'Sempre, Manuel, sempre', aggiunse ancora nel proprio cuore, in una promessa che superava quel momento di piacere fisico -che era comunque felice di donargli- e in cui stava mettendo tutto se stesso: era una promessa per il presente, per il futuro, per tutta la vita e oltre.
Manuel avrebbe voluto dire qualcosa, rispondere a Simone che non avrebbe mai smesso di prendersi cura di lui -perché, nonostante tutto, il senso profondo di quella frase gli era arrivato-, ma non riusciva praticamente a parlare: dalle sue labbra uscivano solo gemiti, sospiri e il nome di Simone –“Simo”-, che ripeteva senza quasi interrompersi, l'unica parola che riusciva a pronunciare, l'unica che avesse senso di esistere in quel momento, completamente in balìa delle carezze e dei baci di quel ragazzo che lo mandavano in estasi.

Non gli ci volle molto prima di sentirsi al limite e allora fece per spostarsi -senza neanche sapere dove avesse trovato la forza di farlo- perché era troppo vicino all'altro e non voleva sporcarlo, non voleva fargli una cosa così squallida.

"Va tutto bene, va tutto bene..."

Sussurrò Simone sulla sua pelle tatuata, ormai diventata rossa e sensibile sotto le sue labbra e la sua lingua, trattenendolo a sé per sottolineare il concetto. Sentiva i muscoli delle gambe dell’altro tremare nello sforzo di rimanere rigidi e fermi, segno che il suo ragazzo era ormai al limite.

Manuel emise un mugolio di protesta, scuotendo il capo.

"Simo..."

Mugolò, in un modo che significava inequivocabilmente 'Non riesco più a resistere', e Simone questo lo sapeva, lo capiva.

"Allora lasciati andare. Rilassati..."

Lo invitò ancora, accompagnandosi con delle carezze più veloci tra le sue gambe.

Manuel non riuscì ad opporsi a quell'invito, non volle opporsi, e come colpito da una scarica si irrigidì in tutto il corpo per un istante, gemendo il nome di Simone come non aveva mai fatto prima, per poi accasciarsi debolmente su di lui, privo di forze.

Simone non smise di sorreggerlo, lo tenne stretto tra le braccia anche in quel frangente, accarezzandogli lentamente la schiena. Manuel si lasciò accogliere e si ritrovò a pensare che Riccardo aveva ragione, tra i due era Simone quello che al momento era più forte.

Per un po', la doccia si riempì soltanto del respiro affannato di Manuel e dei baci leggeri e casti che Simone posava sul suo petto, niente in confronto a quelli che gli aveva dato fino a qualche minuto prima. Poi Manuel si separò da lui, tornando in una posizione più eretta anche se le gambe gli tremavano ancora un po', e lui e Simone poterono finalmente guardarsi negli occhi.

Simone sorrideva raggiante e Manuel non era da meno, considerando il piacere che ancora non lo aveva abbandonato. Subito dopo, però, il suo sguardo si fece mortificato non appena scese sul busto di Simone, sporco per colpa sua. Non fu l'unica cosa che notò, ma era la prima di cui avrebbe dovuto occuparsi.

"Merda, Simo', guarda che t'ho fatto, scusami..."

Balbettò costernato, spostandosi subito a prendere il doccino. Simone abbassò gli occhi su di sé e ridacchiò, per niente turbato da ciò che vide. Non era la prima volta che si ritrova addosso lo sperma di Manuel e Manuel avrebbe potuto dire lo stesso del suo.

"È solo amore, non ti devi vergognare."

Replicò, mentre l'altro si premurava di pulirlo con l'acqua, almeno per il momento.

"Chiamalo come te pare, però manco potevo lasciartelo addosso, no?"

Ribatté Manuel, più tranquillo, dopo averlo sciacquato. Posò il doccino al suo posto e subito dopo tornò a rivolgersi verso Simone, chinandosi a baciarlo a fior di labbra, lascivo. Era il suo momento di occuparsi di lui.

"E non è neanche l'unica cosa a cui voglio rimedia'..."

Annunciò, parlando direttamente al suo orecchio a cui nel frattempo si era avvicinato. Simone mugolò d'approvazione, già deciso a lasciargli campo libero.

"Vuoi che faccia qualcosa?"

Domandò con voce roca e Manuel scosse il capo, ridacchiando.

"No, Simo..."

Rispose, tornando a guardarlo.

"Te devi solo rilassa', adesso."
Aggiunse e, senza staccare gli occhi dai suoi, si inginocchiò davanti a lui, facendosi spazio tra le gambe che divaricò con estrema delicatezza, soprattutto quella ingessata.

Simone si sentì il respiro bloccarsi in gola, a metà strada tra i polmoni e il naso, e per un attimo ebbe paura di poter venire soltanto a quella vista e all'idea che portava con sé.

"Nun me guarda' così..."

Lo avvertì Manuel, pungente, cominciando a passare le mani sulle cosce toniche e tese in una sorta di massaggio. Ovviamente non era sfuggita al suo sguardo l'erezione che svettava tra di esse, ma di quella si sarebbe occupato a breve.

"Mo' ce sto io pe' te, ok?"

Aggiunse con più dolcezza, guardandolo dal basso, ricambiando la promessa che Simone gli aveva fatto. L'altro ragazzo annuì, accennando un morbido sorriso, e gli fece una carezza tra i ricci per dirgli che poteva fare ciò che meglio credeva.

"Se ne hai bisogno reggiti a me, nun te fa' problemi."

Disse ancora Manuel, prendendosi ancora un istante prima di sciogliere il contatto visivo. Chinò il capo tra le sue gambe, avvicinandosi però alla sua coscia sinistra, quella della gamba sana, che prese a baciare con devozione in un percorso immaginario che variava ogni volta che lo batteva, quando Simone tornava dagli allenamenti o dalle partite di rugby. Per lo stesso motivo, portò le mani intorno al suo polpaccio, massaggiandolo con vigore, come ormai aveva imparato bene a fare.

Bastò questo per far spegnere completamente il cervello a Simone, di solito sempre così razionale, ma a cui bastava una carezza giusta da parte di Manuel per lasciare che il suo istinto prendesse il controllo e il suo istinto, in quel momento, gli diceva di esternare tutta la sua approvazione con dei sospiri lunghi e lenti, che seguivano il ritmo scandito dalle mani dell'altro.

Manuel, dopo un po', si spostò sull'altra coscia, a cui dedicò più baci in sostituzione del massaggio che non poteva fare sul gesso e su cui fece delle carezze in punta di lingua, esattamente come l'altro aveva fatto sul suo petto.

Simone non si aspettava un'attenzione di questo tipo e, come Manuel, i suoi muscoli ebbero uno spasmo che si tradusse anche in un gemito acuto, di pura sorpresa.

"Impari in fretta, eh?"

Domandò retoricamente, con la voce resa più bassa dal piacere e un sorriso soddisfatto sull'angolo delle labbra: erano ormai lontani i tempi in cui Manuel si vergognava di ciò che faceva e di ciò che gli piaceva e di questo Simone non poteva che esserne orgoglioso.

Manuel sorrise sulla sua pelle allo stesso modo, annuendo appena.

"Beh, diciamo che ho un bravo insegnante, e non solo de matematica."

Rispose e per qualche secondo gli ansiti furono sostituite da risatine basse, che rimbombarono tra i vetri della doccia.

Manuel si dedicò ancora per un po' alla gamba del suo fidanzato, sperando che in qualche modo quei baci potessero aiutarla a guarire prima, ma quando si accorse che il respiro di Simone si era fatto troppo corto, si decise a spostarsi sulla parte del suo corpo che implorava attenzioni e che stava aspettando da troppo a lungo. Senza indugiare ancora, dunque, vi posò soltanto qualche bacio sulla punta -a cui seguirono altrettanti gemiti acuti di Simone, che non pensò neanche lontanamente a trattenersi- e poi l'accolse in bocca, senza ripensamenti di alcun tipo.

Simone, mosso dall'istinto, si spinse verso di lui con un profondo mugolio ad accompagnare il gesto e prima che potesse ritrarsi, pensando che stesse esagerando e che Manuel potesse trovarlo sgradevole, sentì le mani dell'altro stringersi intorno alle sue cosce per aggrapparsi meglio e farlo restare esattamente lì dov'era.
Manuel cominciò poi a dare a Simone le attenzioni che meritava, impegnandosi a fare in modo che l'attesa ne fosse valsa la pena, e Simone si aggrappò alle sue spalle, perché sentiva che altrimenti sarebbe caduto da quello sgabello che oscillava pericolosamente sotto di lui.

Chi lo conosceva soltanto in un contesto formale, o anche solo in amicizia, sarebbe rimasto scandalizzato dal modo in cui quel ragazzo sempre pacato e composto si trasformava quando riceveva il piacere che meritava: se era lui a darlo, restava il Simone dolce e premuroso che tutti conoscevano, ma se era Manuel a prendersi cura di lui, allora non si faceva remore a dimostrare tutta la sua approvazione, a sfogarsi in gemiti e sospiri che, spesso, diventavano quasi dei ringhi animaleschi che sapevano arrivare alle ossa di chiunque gli fosse vicino.

Manuel, che aveva il privilegio di vivere anche la sua sfera più intima, conosceva bene quel lato di lui, e non ne era scandalizzato, ne era innamorato: senza smettere di dedicarsi a lui, alzò lo sguardo e vide Simone con il capo reclinato all'indietro, gli occhi strizzati e la bocca aperta, in una posizione del tutto simile a quella di un lupo che ululava alla Luna.

La Luna di Simone era Manuel, era sempre Manuel, e a lui dedicava i suoi ululati di piacere, di eccitazione, di godimento e così Manuel si sentiva venerato anche quando era lui a venerare Simone, in uno scambio perfettamente equo.

"Manuel..."

Esclamò Simone in un tono diverso da come aveva pronunciato il suo nome fino a quel momento, era un tono d'avvertimento. Il diretto interessato però non si scompose e non si spostò di un millimetro, accogliendo il suo orgasmo dentro di sé. Era amore, del resto.

Il suo ultimo gesto fu di posare un bacio sulla sua pelle sensibile, prima di raddrizzare la schiena per accogliere Simone tra le braccia e, al tempo stesso, essere accolto tra le sue. Erano entrambi sudati, a corto di fiato e sconvolti dall'orgasmo, ma soprattutto erano felici, felici di stare insieme. C'era tanto affetto in quell'abbraccio e restarono così per un tempo indefinito, poco importava che fossero entrambi sudati e scossi talvolta da piccoli brividi che correvano nella carne, quando potevano accarezzarsi pigramente e posarsi qualche piccolo bacio sulla pelle, di tanto in tanto.

"Simo?"

Sussurrò Manuel ad un certo punto, con la voce roca e appesantita ancora dal fiato corto.

"Mh?"

Replicò l'altro, mentre strofinava la punta del naso sulla sua spalla in una morbida carezza.

"C'avevi ragione, questo momento può, anzi deve, decisamente far parte della sorpresa."

Commentò con un sorriso e Simone scoppiò a ridere, seguito da Manuel poco dopo di lui. La doccia, che fino a quel momento si era riempita di pesanti gemiti e sospiri, ora si riempì di risate leggere.

Si separarono quanto bastava a guardarsi e Simone fece toccare le loro fronti, facendole strofinare tra loro con un morbido scontro di ricci in un gesto che aveva quasi un sapore animalesco, ma i suoi occhioni erano quelli del dolce ragazzo di sempre.

"Adesso però voglio anche il resto..."

Mugolò, mentre Manuel saliva con la mano a fargli grattini sulla nuca e ridacchiava intenerito. Anche lui non vedeva l'ora di potergli regalare quella serata che aveva pensato per lui, per loro, e che si augurava fosse perfetta.

"E allora dobbiamo lavarci, stavolta pe' davvero."

E così dicendo fece per alzarsi, ma Simone lo trattenne prendendogli un polso.

"Mh? Che c'è, Simo?"

Domandò Manuel con curiosità e dolcezza, dandogli un bacio sulla fronte. Simone alzò gli occhi verso di lui, con un po' di apprensione.

"Ti volevo chiedere...come ti senti?"

Manuel sorrise a trentadue denti, intenerito dal suo Simone, sempre dolce e premuroso.

"Sto 'na favola, Simo'. Davvero, sto così bene che non te lo so nemmeno spiega'."

Sospirò profondamente, portando una mano sulla sua guancia per accarezzarlo.

"M'hai fatto sta' così bene che m'hai tolto le parole e i pensieri."

Sussurrò, per poi baciarlo a fior di labbra e Simone sorrise, rassicurato. Se solo ripensava al modo scontroso -che serviva a nascondere solo un animo impaurito, come poi aveva capito in seguito- con cui Manuel aveva risposto alla stessa domanda mesi prima accanto al cantiere, sentiva il proprio cuore gonfiarsi di gioia: Manuel era cresciuto tanto in poco tempo, aveva imparato ad accettarsi ed era una cosa semplicemente meravigliosa, come vedere un albero che fiorisce in primavera.

"E tu, Simo? Come stai? La gamba ti fa male?"

Domandò Manuel, con lo stesso timore. Aveva paura di aver esagerato, di aver fatto stancare troppo Simone e anche di avergli fatto male. Era forte, sì, ma il suo corpo aveva bisogno di riposo.

"Anch'io sto bene...sto 'na favola, come hai detto tu, e penso che...beh, che si sia anche capito, no?"

Rispose, facendo poi una risatina. Anche i suoi occhioni sembravano ridere, per quanto brillavano.

"E anche la gamba sta bene. Con il massaggio che mi hai fatto, non potrebbe stare meglio."

Aggiunse e Manuel sospirò, rasserenato. Era bello vedere Simone così appagato e tranquillo, l'esatto opposto del modo in cui lo aveva lasciato la sera del suo compleanno, imbarazzato e disorientato, perso tra domande a cui lui non voleva dare risposte. Era come vedere il mare tornare placido dopo una tempesta.

"Per un attimo ho temuto per questo sgabellino, tremava così forte che credevo si sarebbe rotto, ma a parte questo..."

Disse ancora Simone, lasciando in sospeso la frase solo per concluderla con un sorriso sghembo. Aveva già detto tutto e, a dire il vero, per parlare di certe cose non servivano parole.

Manuel, dal canto suo, non aveva bisogno di grandi spiegazioni quando gli occhioni vispi di Simone lo guardavano in quel modo: 'A parte questo, è stato tutto perfetto.', dicevano. Si avvicinò a dargli un bacio a fior di labbra per fargli capire che condivideva il pensiero e poi si alzò, prendendo il doccino.

"Ad esse sincero, Simo', pur'io ho temuto finissi col culo pe' terra, per quanto t'agitavi. Per fortuna non è successo."

Commentò mentre, di nuovo, bagnava la schiena dell'altro ragazzo con acqua tiepida e Simone ridacchiò.

"Sarò anche stato fortunato, ma non è che mi agitassi per conto mio, però!"

Puntualizzò, rivolgendo all'altro -che adesso gli stava passando il doccino sul petto- uno sguardo eloquente, con un sopracciglio alzato. Manuel reagì curvando le labbra in un sorrisetto colpevole, ma soddisfatto.

"Beh Simo', però non me ne puoi fa' 'na colpa: non si può fare l'amore educatamente, dai!"

Esclamò con fervore e Simone si ritrovò a concordare, annuendo a quell'obiezione inattaccabile mentre ridacchiava. E poi, per quanto era bello fare l'amore con Manuel, sarebbe volentieri finito con il sedere a terra mille volte.

"Beh, almeno adesso sappiamo che regge."
Replicò malizioso, a voce bassa per essere un po' più provocante, puntando gli occhi prima in quelli di Manuel e poi un po' più giù, sulle sue labbra, prima di farli ritornare su.

Manuel sorrise sghembo, mostrandosi sicuro di sé, ma intanto  aveva chiaramente avvertito il proprio cuore saltare un battito. Non si sarebbe mai abituato a quelle uscite così spudorate di Simone, ma del resto non voleva nemmeno farci l'abitudine.

Amava anche quel lato del suo ragazzo, che era uscito fuori piano piano, man mano che il loro rapporto si faceva più solido, così come anche lui aveva tirato fuori la sua parte più dolce, ma anche più nascosta, che non aveva mostrato mai a nessuno, nemmeno a sua madre, non del tutto.

Con Simone invece poteva farlo, non doveva mettere a tacere emozioni o frenare i propri gesti, perché Simone lo amava per ciò che era e lo faceva sentire amato.

"Per sicurezza gli do una controllata, e magari ce metto un paio de rinforzi. Non si sa mai."

Ribatté facendogli un occhiolino e Simone non disse altro, soddisfatto.

Amava quella complicità che c'era tra loro, che in realtà c'era sempre stata da quando avevano deciso che essere amici fosse meglio che passare le giornate a urlarsi contro per ogni minima cosa, ma che da quando stavano insieme non aveva fatto altro che aumentare, crescendo verso l'alto come i rami di un albero che aveva già radici profonde.

Con Manuel, Simone sapeva di poter essere se stesso, sempre e comunque, di non dover nascondere nessuna parte di sé, nessun pensiero, nessun timore o desiderio, perché Manuel lo amava per ciò che era e lo faceva sentire amato.

"Mh, senti che bel profumo!"

Esclamò Manuel dopo aver annusato il bagnoschiuma che aveva di nuovo versato sulla spugna, avvicinandolo a Simone. Prima, infatti, nessuno dei due aveva avuto modo di apprezzare la fresca fragranza al talco, presi com'erano uno dai corpo dell'altro. Simone avvicinò il naso alla spugna, chiuse gli occhi e annuì, sorridente.

"Sì, è vero, sa di buono. Mi piace!"

Replicò, tornando a guardare Manuel, che fece una risatina.

"Il Principe approva, quindi?"

Chiese divertito e Simone scoppiò a ridere.

"Il Principe approva!"

Confermò, con un tono che voleva essere solenne, ma che venne totalmente spezzato dal divertimento nella sua voce.

"Meno male, perché io non uscivo a prenderne un altro!"

Replicò Manuel, anche se non era minimamente vero.

"E se te l'avessi chiesto per favore?"

Chiese Simone con voce morbida, dolce, quasi infantile, mentre l'altro ragazzo cominciava a passargli la spugna sulle spalle e il profumo del bagnoschiuma si diffondeva nell'aria e sul suo corpo. Manuel accennò un sorriso, spostando gli occhi nei suoi.

"Simo', se me lo chiedessi, io per te salirei fino in cielo per portarti la Luna."

Rispose, intenso nella voce e nello sguardo.

Simone rimase interdetto per un istante, colpito da quell'intensità come da un lampo di fuoco -che bruciava senza fare male-, ma poi gli venne naturale sorridergli e cingerlo con le braccia.

"E che me ne faccio della Luna, se ho il Sole qui con me?"

Il sorriso di Manuel si fece più aperto, più luminoso, e agli occhi di Simone aveva davvero la potenza del Sole, in quel momento. Posò un bacio tra i ricci scuri del suo ragazzo per ringraziarlo, poi avvicinò il suo capo al proprio petto con delicatezza, in modo da farlo piegare quanto bastava per lavarlo dietro la schiena.

"Se io so' il Sole, te sei l'energia che lo fa splendere."

Sussurrò, cominciando ad accarezzare la pelle di Simone con la spugna, in gesti circolari lenti e decisi.

"Senza di te, Simo', sarei un Sole spento e quindi inutile."

Aggiunse e l'altro sospirò. Non voleva sminuire i sentimenti di Manuel dicendo che fosse il solito esagerato, consapevole che le sue parole, oltre ad essere belle, erano anche vere.

"Adesso non so cosa dirti, però."

Mormorò, strofinando la guancia contro il petto di Manuel e Manuel ridacchiò per il solletico che gli facevano i suoi capelli.

"E allora non mi dire niente, non è mica una gara a chi dice la frase più bella..."

"Ah no?"

Replicò Simone, ironico. Manuel scosse il capo.

"No, non lo è. Tranquillo, dai."

Simone annuì piano, ma non sapeva stare tranquillo se pensava di non aver dimostrato adeguatamente a Manuel quanto gli volesse bene. Non era in grado di farlo a parole, in quel momento, ma la posizione in cui stava gli permetteva di farlo in un altro modo, con dei piccoli baci che prese a distribuire sul petto dell'altro ragazzo, un po' ovunque. Lo faceva con tenerezza, sorridendo sulla sua pelle, per il semplice scopo di coccolarlo un po'.

Manuel dimostrò di apprezzare quelle dolci attenzioni con delle morbide risatine e delle carezze tra i capelli di Simone, mentre con l'altra mano percorreva la sua schiena larga e forte, prendendosi più tempo del necessario solo per il gusto di far durare quelle coccole un po' più a lungo.

"Me dispiace doverte ferma', però adesso mi devo spostare..."

Disse ad un certo punto e Simone, senza protestare, lasciò un ultimissimo bacio sul suo petto -sulla testolina del serpente, per l'esattezza- e sciolse l'abbraccio.

Manuel allora si abbassò per essere alla stessa altezza di Simone e anche se per un istante, inevitabilmente, entrambi pensarono a ciò che era successo poco prima -Manuel sentiva ancora nella propria bocca il sapore di Simone e Simone aveva ben chiara la sensazione delle labbra di Manuel che si prendevano cura di lui- nessuno dei due provò imbarazzo mentre la spugna, mossa con accortezza dalla mano di Manuel, percorreva il resto del corpo di Simone, dal petto alle gambe. La passione che prima aveva guidato i loro corpi, ora aveva ceduto il posto all'affetto.

"E adesso pensiamo ai miei riccioletti preferiti..."

Annunciò Manuel allegramente, alzandosi. Simone sorrise intenerito a sentirseli definire in quel modo -soprattutto perché sapeva in che stato pietoso fossero- e le sue guance si colorarono di rosso e si decorarono di due fossette, nonostante Manuel gli avesse dimostrato mille volte che far passare le proprie dita tra i suoi ricci fosse una delle sue attività predilette.

L'altro ragazzo non riuscì a resistere a quella vista tenerissima e si piegò per posare due baci proprio su quelle due fossette prima di riprendere il doccino.

"Adesso, però, più che riccioletti sembrano un cespuglio di rovi."

Constatò rassegnato Simone, passandosi una mano tra i capelli crespi e disordinati. Manuel gli sorrise pazientemente.

"Vedrai che adesso rimediamo, non disperare. Chiudi un po' gli occhi, per favore, così annaffio il cespuglio."

Simone obbedì ridacchiando e Manuel sollevò il doccino, portandolo sulla testa dell'altro per bagnargli i capelli. Con la mano libera li muoveva, morbido ma deciso, in modo che l'acqua arrivasse ovunque.

"E adesso un po' di fertilizzante."

Simone sollevò una sola palpebra, eppure anche così riuscì a rivolgere al suo ragazzo un perfetto sguardo da professorino.

"Guarda che il fertilizzante è composto da escrementi. Vuoi mettermi gli escrementi tra i capelli, Manuel?"

Domandò saccente, trattenendo a stento una risata che venne comunque tradita dal suo occhio divertito. Manuel sbuffò, fingendosi esasperato.

"Oh, guarda che sei tu che hai cominciato co' la metafora vegetale! Io faccio quello che posso pe' adeguarme!"

Portò una mano sotto il suo mento, facendogli sollevare leggermente il capo, gesto che Simone seguì mentre liberava quella risata che si era sforzato di trattenere.
"Eh, bravo, ridi...e chiudi gli occhi, che se ti va lo shampoo dentro poi brucia!"

Aggiunse Manuel, divertito. Simone abbassò la palpebra, obbediente, e mugolò d'approvazione quando sentì le dita di Manuel muoversi con energia sul cuoio capelluto, tra i suoi ricci.

"Te piace, eh, Cerbiattino?"

Commentò Manuel soddisfatto, sentendolo mugolare così. Il verso dei Cerbiattini quando i Paperotti li rendono felici, come si erano detti in ospedale.

"Mi piace da matti, Paperotto. E penso anche che sia la perfetta dimostrazione dell'unire l'utile al dilettevole!"

Mormorò Simone, beato. Manuel ridacchiò.

"Però qua il dilettevole lo stai ricevendo tutto tu e l'utile lo sto facendo tutto io, nun me sembra proprio un'equa distribuzione!"

Finse di protestare, in realtà per lui prendersi cura di Simone era una gioia e potergli toccare ed accarezzare i capelli -in qualunque situazione- un privilegio.

"Pensavo fossi contento di poterti dedicare ai tuoi riccioletti preferiti..."

Gli fece notare Simone, affettuosamente pungente. Manuel, allora, non poté fare altro che accettare la sconfitta.

"Punto pe' te, Simo'. Lo ammetto, mi sto divertendo anch'io."

Così dicendo riprese il doccino tra le mani e sciacquò via lo shampoo dai capelli dell'altro, che già gli sembravano più lucidi e morbidi. 'E ora me diverto ancora di più', pensò, versandosi il balsamo sulle mani.

Lo passò sulle lunghezze con estrema attenzione, proprio perché sapeva quanto Simone ci tenesse, ma si prese anche la libertà di lasciarlo con tutta una serie di spuntoni mentre il prodotto era in posa. Rise vedendo Simone conciato in quel modo e allora il diretto interessato aprì gli occhi, insospettendosi.

"Ma che ti viene? Che hai combinato?"

Esclamò e, istintivamente, si portò una mano in testa, trovando risposta alle sue domande. Non si arrabbiò, non aveva senso arrabbiarsi per una cosa così innocente, e anzi scoppiò a ridere a sua volta.

"Ora sembri un cactus, Simo! Te la posso fare una foto? Dai, ti prego!"

Domandò Manuel, giungendo perfino le mani come se stesse pregando.

"Va bene, ma solo perché è giusto che ti diverta anche tu!"

Acconsentì, mentre la risata sfumava dalle sue labbra. Si fidava di Manuel e sapeva che non l'avrebbe mostrata a nessuno, su questo poteva metterci la mano sul fuoco.
Manuel lo ringraziò con un bacio veloce a fior di labbra, poi come una scheggia si precipitò fuori dalla doccia, recuperò il telefono e chiese a Simone di voltarsi verso di lui. Scattò la foto e, soddisfatto, se ne tornò dal suo ragazzo a cui diede un altro bacio.

"È venuta bene?"

Chiese Simone, sinceramente curioso e Manuel annuì.

"Non so come tu faccia, ma te giuro che sei bellissimo pure così. Dopo te la faccio vedere."

Prese di nuovo il doccino e, dato che i minuti di posa del balsamo erano ampiamente passati, cominciò a lavarlo via dai capelli di Simone.

"La bellezza sta negli occhi di chi guarda."

Constatò l'altro, con tono saggio. Manuel scosse il capo, deciso.

"E allora anch'io non sono davvero bello, ma lo sono solo agli occhi tuoi?"

Ribatté, sapendo che Simone non avrebbe mai e poi mai confermato una cosa del genere. Il ragazzo, infatti, sospirò sconfitto.

"Punto per te, Manuel."

"Daje che recupero!"

Esclamò con un verso di gioia che fece poi ridere entrambi. I pochi minuti successivi passarono invece in un relativo silenzio, interrotto solo dallo scorrere dell'acqua.

"Direi che te sei a posto, no?"

Disse soddisfatto Manuel dopo essersi assicurato di aver lavato via ogni minima traccia di bagnoschiuma, shampoo o balsamo dal corpo del suo ragazzo. Simone annuì, si sentiva pulitissimo e finalmente libero dal sudore.

"Tu però no."

Ribatté con fare pratico, ma dai suoi occhi traspariva tutta la voglia di ricambiare a Manuel il favore.

"Eh, lo so! Damme n'attimo che me lavo anch'io!"

Replicò Manuel, divertito, cominciando a passarsi il doccino addosso.

"Veramente io intendevo altro."

Protestò Simone, incrociando le braccia. Manuel ridacchiò, perché ovviamente aveva inteso ed approvava. Al tempo stesso, però, non voleva farlo stancare troppo, quindi doveva trovare un compromesso.

"E secondo te non l'avevo capito? Arriverà il tuo momento, abbi pazienza e fiducia!"

E Simone, che con Manuel non mancava né dell'una né dell'altra, se ne restò in silenzio ad aspettare il momento promesso. Non era poi un'attesa così terribile, dal momento che poteva ammirare il corpo del suo ragazzo in tutto il suo splendore.

Manuel prese a passarsi la spugna sul collo, poi sulle spalle, lungo le braccia, sul petto, tra le gambe e lungo le gambe, tutto con studiata lentezza, liberando di tanto in tanto dei sospiri d'approvazione man mano che si rinfrescava e Simone si mise a seguire con gli occhi il percorso che la spugna tracciava sul suo corpo, come ipnotizzato dalla scia di schiuma bianca che si lasciava dietro, pregustando il momento in cui sarebbe stato lui a deciderne la direzione.

Manuel, naturalmente, si accorse degli occhi del suo ragazzo puntati su di sé e non si lasciò sfuggire l'occasione per stuzzicarlo un po'.

"Ti godi lo spettacolino, Simo'?"

Simone scrollò le spalle, curvando le labbra in un mezzo sorriso.

"Tu non faresti lo stesso, al mio posto? Se ti disturbo, però, mi metto a leggere l'etichetta dello shampoo."

Manuel ridacchiò, allargando le braccia per offrirsi meglio allo sguardo di Simone.

"Non per vantarmi, ma credo di essere un po' più interessante, no?"

Domandò retoricamente, per poi riprendere a lavarsi.

"Sì, ma giusto un pochino, eh, non ti montare la testa."

Replicò Simone, sarcastico, accompagnandosi da un gesto con le dita che mimava una piccola quantità. Manuel fece una risatina e si avvicinò a lui, porgendogli la spugna.

"Comunque anch'io farei lo stesso, però perché limitarsi solo a guardare? Mi laveresti la schiena, per favore?"

Domandò con un sorriso e Simone sospirò sollevato. Prese la spugna e nel farlo fece sfiorare le loro mani in una morbida carezza.

"Mi stavo giusto domandando quando me l'avresti chiesto."

Gli fece cenno di girarsi e Manuel obbedì subito, sereno.

"E infatti ti ho letto nel pensiero."

Ribatté, scherzoso.

"Non sarebbe poi così improbabile."

Disse Simone, concludendo con una risatina per poi cominciare a passare la spugna sulla sua schiena, lentamente. Decise di usare anche lui un movimento circolare come aveva fatto Manuel, ma ci mise un po' più di forza.

"Ti faccio male?"

Si fermò, sentendolo emettere un piccolo verso e Manuel scosse il capo. Il suo era solo stupore, ma stava bene.

"No, no, tutto a posto, mi hai solo colto di sorpresa. A cosa devo tutta questa energia?"

Chiese, curioso. Simone accennò un sorriso e riprese a lavarlo.

"A tutto il sudore che ti ho visto addosso. Ma si può sapere che diamine hai combinato?"

Manuel fece spallucce, facendosi scivolare addosso la domanda come schiuma.

"Niente di che, è solo colpa del caldo."

Rispose, intenzionato a non dargli nemmeno un indizio fino alla fine. Simone sospirò, rassegnandosi a dover restare con la curiosità a mille -ma del resto era anche meglio così- e gli fece una carezza su un fianco.

"Beh, adesso sei a posto, comunque. Puoi sciacquarti."

Manuel si voltò e gli stampò un bacio sulla guancia, sorridente.

"Grazie! Però il tuo momento non è ancora finito..."

Si abbassò, prese una sua mano e se la portò tra i capelli.

"Se ti va, se te la senti, potresti lavarmeli tu."

Propose, con voce dolce e occhi innamorati. Simone annuì, deciso e sorridente.

"Certo che mi va! Così uniamo di nuovo l'utile al dilettevole!"

Manuel fece una risatina e lo ringraziò con un altro bacio sulla guancia. Si spostò sotto il doccino per bagnarsi in fretta i ricci, poi tornò di fronte a Simone e si mise in ginocchio, dandogli le spalle, dopo avergli passato i flaconi dello shampoo e del balsamo. Subito Simone si mise al lavoro, infilando le dita tra i ricci di Manuel e massaggiandogli la cute, trovando il modo di fargli anche quei grattini che tanto gli piacevano.

Manuel chiuse gli occhi e mugolò, completamente rilassato. Da quando aveva scoperto quel tipo ti coccole non era più riuscito a farne a meno: strano a dirsi, ma nessuna delle sue fidanzate aveva mai avuto una grande passione per i suoi ricci, solo grazie a Simone aveva capito cosa si fosse perso per tutto quel tempo.

Simone ridacchiò dolcemente, sorridendo intenerito alla reazione di Manuel, anche se ormai la conosceva bene: si stupiva sempre, però, perché ogni volta reagiva come se fosse stata la prima. Quando, mentre gli faceva i grattini durante una pausa studio passata a coccolarsi, Manuel gli aveva confessato di non aver mai ricevuto quelle attenzioni prima, lui ci era rimasto di sasso perché per lui, con Laura, erano invece un'attenzione quotidiana ed erano una delle poche cose che apprezzava sinceramente di quando stavano insieme -anche se poi solo quando aveva sentito le dita di Manuel tra i propri capelli per la prima volta aveva capito quanto davvero ci fosse di meraviglioso in quel gesto-. In ogni caso, da quel giorno, era diventata sua missione personale fargli grattini ogni volta che poteva.



 
"Ok, mo' dobbiamo fa' una scelta importante: che te vuoi mette?"

Erano da poco usciti dal bagno, ancora avvolti nei rispettivi accappatoi, ma perfettamente asciutti: Manuel, nel suo accappatoio blu scuro stava in piedi davanti all'armadio aperto nel guardaroba, mentre Simone, in accappatoio bianco, era seduto sulla poltroncina di fronte e fissava i suoi stessi vestiti come se non li avesse mai visti prima. Settimane prima aveva accuratamente scelto l'outfit per quella serata speciale, ma adesso non lo convinceva più e non c'era niente che lo ispirasse particolarmente, considerando anche che con il gesso alla gamba non poteva indossare praticamente la metà dei suoi pantaloni. Manuel, notando il panico nei suoi occhi, si avvicinò fino a coprirgli la visuale dell'armadio e Simone si ridestò dai suoi pensieri.

"Vuoi la domanda di riserva?"

Gli chiese prendendolo un po' in giro, ma nei suoi occhi c'era tanta comprensione: anche lui aveva trascorso un brutto quarto d'ora quando aveva dovuto scegliere il proprio abbigliamento per quella serata. Accompagnò la sua domanda con una carezza sulla guancia, a cui Simone rispose poggiando la propria mano sulla sua, accarezzandone a sua volta il dorso. Ma come faceva Manuel a capirlo sempre al volo?

"Se c'è, sì."

Sospirò.

"È che...dobbiamo festeggiare tante cose importanti tutte insieme e mi sembra tutto troppo banale. Poi, con questo gesso, praticamente non mi entra nulla..."
Disse, con gli occhioni pieni di sconforto. Sapeva quanto Manuel si fosse impegnato ad organizzare tutto ed era certo che avesse preparato qualcosa di bellissimo, non voleva rovinare l'atmosfera con un abbigliamento poco bello. Forse era un pensiero troppo superficiale considerando tutto ciò che avevano vissuto, ma era anche per questo che voleva presentarsi al meglio e sfoggiare -per una volta- quella bellezza che sapeva di avere e che non ostentava mai, dopo giorni passati a sentirsi sporco in ogni senso possibile. E poi era un'occasione per far colpo sul proprio fidanzato, era un peccato sprecarla!

"Dai, Cerbiattino, non fare così. Vedrai che mo' qualcosa lo troviamo, mh?"

Mormorò Manuel con infinita dolcezza, senza smettere di accarezzarlo neanche un istante. In passato avrebbe etichettato una questione del genere come semplice frivolezza -aveva perso il conto delle volte in cui Chicca gli chiedeva un parere su questa o quella gonna e su come si abbinasse meglio a questa o quella maglia, tanto è vero che poi lei finiva sempre a fare quelle scelte da sola- ed era sempre andato contro tutte quelle stupidissime convenzioni che impongono di vestirsi in un determinato modo in determinate situazioni, ma questa volta era diverso: sapeva che Simone non si stava ponendo il problema né per puro e semplice narcisismo né perché si sentiva obbligato, ma perché sentiva che il momento fosse speciale ed importante. Lo stesso valeva per lui, del resto.

"Vuoi vedere cosa mi metto io, così magari ti fai un'idea?"

Aggiunse incoraggiante e Simone annuì, mettendo per un attimo da parte le sue preoccupazioni per sostituirle con una gran curiosità.

Manuel indossò in pochi minuti la camicia bianca e i jeans scuri, aggiungendo come tocco finale la cravatta, sperando che questa volta non l'avrebbe sentita come un cappio intorno al collo che lo faceva soffocare. Si voltò di nuovo verso Simone, infilando le mani in tasca e stringendosi nelle spalle, con un mezzo sorriso imbarazzato sulle labbra. Ci teneva davvero tanto al suo giudizio.

"Vedi, alla fine neanch'io ho messo chissà che..."

Simone, però, non era del tutto d'accordo con quell'affermazione. Manuel era bello e lo sarebbe stato anche indossando un sacco della spazzatura, ma con quei pantaloni che facevano risaltare le gambe -su cui fece scorrere gli occhi dal basso verso l'alto, arrampicandosi con lo sguardo-, invece delle solite tute che un po' le nascondevano, quella camicia bianca che gli fasciava il busto alla perfezione, senza però stringerlo eccessivamente, -'come un abbraccio', pensò- e infine con quella cravatta che mai e poi mai avrebbe anche solo immaginato di vedere intorno al suo collo -e che gli fece scappare uno sbuffo teneramente divertito, quando la vide- acquisiva un'eleganza nuova, che insieme ai suoi occhi magnetici, al suo viso perfetto e alle onde dei suoi capelli formava un connubio perfetto.

Eppure, allo stesso tempo, nella sua postura un po' curva, in quelle mani infilate nelle tasche perché altrimenti non avrebbero smesso di agitarsi un attimo -Simone questo lo sapeva bene-, in quegli occhi che lo guardavano tremanti, in attesa di chissà quale verdetto e infine in quei riccioli che ricadevano sulla fronte, c'era un dolce imbarazzo che gli restituiva la sua vera natura, quella di un ragazzo innamorato, a cui importava solo degli occhi del suo fidanzato.

"Sei bellissimo, Manuel. Sei...cazzo, sei davvero bello. Lo sei sempre, ma...stai benissimo."

Esclamò sognante, con un entusiasmo che gli tingeva gli occhi di gioia e gli faceva brillare la voce. Manuel fece una risatina, accompagnata dalle guance che si colorirono di una morbida sfumatura di rosso, e chinò il capo in segno di ringraziamento.

"Ad essere sincero, Simo', me sento un po' un pinguino, però so' contento che te piaccia."

Fu Simone a ridacchiare, adesso, e gli fece segno di avvicinarsi. Quando l'altro lo fece, gli prese il viso tra le mani a coppa, accarezzandogli le guance con i pollici.

"No, non sei un pinguino..."

Lo tirò un po' più verso di sé, facendogli avvicinare il viso al proprio. Erano vicinissimi e i loro respiri si intrecciavano, come ogni volta nell'attimo che precedeva un loro bacio. Arrivò anche quello, in un morbido incontro di labbra.

"Sei un Paperotto bellissimo."

Concluse, con dolce serietà. Manuel posò una mano su quella di Simone, voltandosi per baciarla. Si sentiva il ragazzo più bello del mondo, in quel momento.

"Se lo dici tu, allora è così. Adesso pensiamo a te, mh?"

Sussurrò, sereno. Simone, però, non aveva ancora intenzione di lasciarlo andare.

"Aspetta, aspetta...posso darti un consiglio, prima?"

Manuel annuì, chiaramente, già sapendo che lo avrebbe accettato. Simone, allora, prese la cravatta dell'altro tra le dita, accarezzandone la stoffa.

"Non sapevo nemmeno che ne avessi una, sai?"

Manuel abbassò lo sguardo, seguendo il movimento delle dita di Simone con gli occhi.

"Eh, infatti non ce l'ho! Me l'ha prestata tuo padre, gliel'ho chiesta io..."

Ammise, divertito. Simone ridacchiò e spostò la mano verso il nodo, raggiungendolo anche con l'altra.

"Ti dispiace se te la tolgo?"

Domandò, cercando lo sguardo di Manuel, che subito alzò gliocchi verso di lui, sorpreso.

"Perché? Non mi sta bene?"

Chiese, con una leggera nota di apprensione. Simone scosse la testa, sorridendo.

"No, no, ti sta bene come tutto il resto... però non è da te. Io voglio passare la serata con il mio fidanzato, non con un perfettone qualunque."

Rispose con affetto, guardandolo con infinito amore negli occhi. Manuel, che si sentì il cuore fare un salto nel petto, non poté fare altro che acconsentire. Non gli dispiaceva per niente togliersi quella cosa, ad essere onesto.

"Mi sembrano una richiesta assolutamente sensata e un ragionamento ineccepibile."

Rispose, per poi alzare il capo quanto bastava per permettere a Simone di sfilargli l'accessorio. Simone non si limitò solo a fare ciò, ma sbottonò anche un paio di bottoni della camicia, rendendola più sportiva.

"Adesso sì che sei il mio Manuel."

Commentò, soddisfatto. Manuel non ebbe bisogno di guardarsi allo specchio per sapere che stava bene, lo leggeva negli occhioni estasiati del suo meraviglioso ragazzo.
"Adesso te lo posso dare io un consiglio?"

Simone annuì, perché l'outfit di Manuel gli aveva fatto venire in mente molte idee, ma nessuna di queste aveva a che fare con ciò che avrebbe potuto indossare lui.
"Sì, ti prego, ne ho proprio bisogno."

Ammise con un sorrisetto. In un attimo, Manuel tirò fuori dall'armadio un pantalone beige che aveva visto mentre prendeva i vestiti per sé e glielo mostrò: arrivava alle ginocchia ed era abbastanza largo, non avrebbe dato problemi con il gesso. Forse non era il massimo dell'eleganza, ma non al momento non importava.
"Che ne dici? Secondo me te sta pure bene!"

Simone non ricordava nemmeno di avere quel pantalone, probabilmente glielo aveva comprato sua madre tempo prima e lui non l'aveva mai indossato o quasi, ma in quel momento gli sembrò il capo d'abbigliamento migliore del suo armadio. Sorrise, quindi, entusiasta.

"Sì, dico che può andare. Cos'altro propone il mio stilista?"

Domandò, un po' canzonatorio. Manuel ridacchiò e tornò di nuovo a frugare nell'armadio, cercando una camicia che aveva già adocchiato tempo prima.
"Questa!"

Esclamò, sollevandola come un trofeo. Non appena Simone vide quella camicia bianca a righine azzurrine, scoppiò in una fragorosa risata. 'Non ci posso credere!', esclamò nei suoi pensieri.

"Che c'è? Che ha che non va?"

Chiese Manuel, stupito, voltandosi a guardare l'indumento aspettandosi di trovarci qualcosa di strano. Eppure più la guardava e più gli sembrava una normalissima camicia.

"Niente, mi viene da ridere perché..."

Cominciò a rispondere Simone, interrotto però da un'altra risata. 'È così assurdo!', pensò ancora.

"Quindi a te questa camicia piace? Vorresti vedermela addosso?"

Domandò e Manuel lo guardò confuso.

"Beh, sì, ma se vuoi ne puoi sceglie n'altra."

Simone scosse il capo, ridacchiando ancora.

"Dammela, che me la metto subito!"

Manuel gliela porse, sempre più confuso, e lui la indossò rapidamente, premurandosi di abbottonarla con cura, senza stropicciarla. Gli stava bene, esattamente come mesi prima, in quella che sembrava un'altra vita.

"Allora? Soddisfatto?"

Chiese, guardando Manuel negli occhi con un sorriso sghembo stampato sulle labbra. Manuel annuì con decisione: quella camicia non gli stava semplicemente bene, gli stava da Dio.

"Molto! Sei stupendo, Simo'!"

Esclamò spontaneamente, senza freni.

"Beh, mi fa piacere che tu lo dica, significa che c'avevo visto bene..."

Replicò Simone, prendendo i pantaloni per indossarli. Manuel, intercettandolo, lo aiutò ad infilarli.

"In che senso? L'avevi già scelta?"

Domandò intanto, perplesso. Simone annuì.

"Sì, ma non per il nostro appuntamento. L'avevo messa alla festa di Chicca e... l'avevo fatto per te."

Spiegò, e a quella piccola confessione le guance si fecero più calde. Manuel sgranò gli occhi, sorpreso. Ricordava perfettamente di essere arrivato a quella festa troppo tardi, quando ormai tutti erano andati via e, soprattutto, ricordava il motivo di quel ritardo. 'Che coglione che so' stato!', si disse.

"Per me, Simo? Davvero?"

Balbettò impacciato, con la voce che usciva piccola dalle sue bocca. Simone sospirò profondamente.

"Sì, per te. Pensavo..."

Fece una risatina, scuotendo poi il capo.

"...pensavo che avrei potuto far colpo su di te, vestendomi un po' meglio del solito. Pensavo avresti potuto guardarmi in un modo diverso."

Confessò, senza provare imbarazzo. All'epoca si disse che era ingenuo pensare che Manuel, a cui non piacevano i ragazzi, potesse cambiare idea su di lui solo grazie ad una camicia, ma che valeva comunque la pena tentare, non avendo niente da perdere. Adesso che Manuel aveva scelto proprio quella camicia, quel piano non gli sembrava poi così campato in aria.

Manuel sentì il proprio cuore stringersi a quella storia, gli faceva troppa tenerezza pensare a Simone, così innamorato, che cercava di fare di tutto solo per farsi guardare da lui. Lo faceva per amore, solo per amore.

"Simo..."

Mormorò dolcemente, prendendogli il viso tra le mani e Simone, istintivamente, sorrise.

"...non so dirti come avrei reagito mesi fa, cosa avrei pensato, anche se so' sicuro che avrei fatto meglio a venirce a quella festa e vedere quant'eri bello con questa camicia. Posso dirti, però, che stasera te guardo...e sei bellissimo."

Lo baciò morbidamente, facendo accarezzare le loro labbra. Simone ricambiò subito il bacio e portò una mano tra i capelli, accarezzandoli piano per non arruffarli. La festa di Chicca era così lontana, che adesso non importava più cosa fosse successo quella sera.

"Ma adesso non pensiamo più al passato, pensiamo al presente."

Sussurrò sulle sue labbra e Manuel annuì.

"Hai ragione, pensiamo alla nostra festa."

Così dicendo lo aiutò a rimettersi in piedi e, pian piano, un passo alla volta, uscirono dalla stanza e scesero le scale insieme, a braccetto.

"Dove sono tutti quanti?"

Chiese Simone, una volta in soggiorno, notando il silenzio della casa intorno a loro. Manuel sorrise furbetto.

"La casa è vuota, ci siamo solo noi."

Simone si voltò a guardarlo, incredulo.

"Li hai cacciati? Sul serio?"

Manuel scacciò quell'obiezione con la mano libera.

"Ma no, mica li ho cacciati! Li ho solo convinti ad andare a fare un giro, poi al cinema e poi a cena. Non è nemmeno la prima volta..."
Simone scoppiò a ridere e gli stampò un bacio sulla guancia, in un moto d'affetto istintivo.

"Sei incredibile, lo sai?"

Manuel ridacchiò, facendo spallucce.

"Eh, capirai che ho fatto! Mo' andiamo, dai."

Condusse Simone fino alla porta d'ingresso, ma lì si fermò di colpo, anche se l'adrenalina che sentiva scorrergli dentro gli urlava di correre fuori. Si voltò a guardare il suo ragazzo, sorridente.

"Sei pronto, Simo?"

Simone si era voltato verso l'altro nello stesso istante in cui l'aveva fatto lui e sorrise, stringendosi un po' di più al suo braccio. Il suo cuore batteva così forte che sembrava sul punto di uscirgli dal petto.

"Prontissimo."

"E allora andiamo, va'."

Avevano atteso a lungo quella serata, troppo a lungo, ed ora era lì, ad attenderli dall'altro lato della porta.

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Capitolo 23
*** Un Sole intero di felicità (parte 1) ***


"Scegli un colore, Simo!"

Avevano appena messo piede in cortile quando Manuel si era fermato di nuovo e aveva preso il cellulare dalla tasca. Simone lo guardò con gli occhi che fremevano di curiosità, come ogni fibra del suo corpo. ‘E adesso cosa si è inventato?’, pensò.

"Un colore?"

Ripeté, per prendere tempo. Non sapeva cosa avesse in mente Manuel, quindi quella scelta alla cieca era ancora più difficile.

"Eh, sì, un colore! Uno qualunque, basta che non te ne esci co' 'na roba tipo terra di Siena bruciata!"

Rispose l'altro, allegro e altrettanto agitato. Desiderava da impazzire vedere gli occhi di Simone illuminarsi del colore che avrebbe scelto.

Simone fece una risatina e prese un profondo respiro.

"Beh, allora...rosso, va bene?"

Propose, ricordando che, in fin dei conti, quel colore era stato con loro nel primo vero momento trascorso insieme, un momento bellissimo, ma che non era finito nel migliore dei modi. Questa volta, però, sarebbe stato diverso, questa volta il rosso avrebbe portato loro fortuna. Era un'occasione per ricominciare.

Manuel sorrise sghembo, con i ricordi di quella notte al cantiere che riaffioravano nella sua mente. Non si era comportato bene quella volta, nello specifico quando si erano allontanati da quella luce rossa che aveva avvolto il primo incontro tra i loro corpi, ma questa era una seconda possibilità che Simone, nella sua immensa gentilezza, gli stava offrendo e lui aveva tutta l'intenzione di coglierla.

"E rosso sia!"

Esclamò con entusiasmo e, dopo aver armeggiato per qualche secondo con il cellulare, gli alberi di fronte a loro si illuminarono di quel colore. Le lucette che aveva acquistato facevano un effetto di tutto rispetto nella penombra della sera, ma lo spettacolo più bello per lui era l'espressione sorpresa sul volto di Simone, con gli occhi sgranati -e una meravigliosa sfumatura rossa che li rendeva ancora più belli- e le labbra dischiuse per lo stupore.

"Oddio, Manuel..."

Esclamò Simone, avanzando di qualche passo, attratto da quelle luci come una falena. In un attimo se ne era semplicemente innamorato.

"È stupendo! Sembra di stare in un giardino fatato!"

Aggiunse parlando velocemente, come sempre quando era entusiasta.

Manuel sorrise dolcemente e gli si avvicinò. 'E questa è andata', si disse in mente, mentre lo raggiungeva.

"Ti avevo promesso che la prossima passeggiata sarebbe stata in un posto bello, no? Un giardino fatato me sembrava adatto."

Disse, offrendogli il braccio. Simone non lo afferrò subito, prima preferì ringraziare Manuel con un bacio appassionato. Ora sì che cominciava ad avere un'idea di cosa intendesse Anita, quella mattina in auto.

"Se questo è solo l'inizio, non oso immaginare cos'altro mi aspetta."

Sussurrò sulle sue labbra, mentre Manuel gli accarezzava il bel viso tinto di un rosso che dipendeva solo in parte dalle luci degli alberi.

"Non lo devi immagina', non ne hai bisogno perché tra poco lo vivrai."

Mormorò, posando poi un bacio sul suo arco di Cupido. Simone sorrise teneramente.

"Lo vivremo. Siamo due metà, ricordi? Sempre insieme."

Corresse, spostandosi poi di lato per intrecciare il proprio braccio a quello del suo ragazzo, il quale annuì e sorrise. Sì, insieme gli piaceva, e tanto anche.

"Sempre insieme."

Ripeté, con dolcezza. Fecero giusto un paio di passi, quando Manuel pigiò un altro comando sullo schermo del suo cellulare prima di rimetterlo definitivamente in tasca e la leggera musica di una chitarra cominciò a diffondersi nell'aria. Di nuovo, Simone sgranò gli occhi per lo stupore: era tutto sempre più magico.

"Anche la musica? Ma come hai fatto?"

Manuel ridacchiò, sporgendosi a dargli un bacio sulla guancia morbida.

"Ho chiesto aiuto alle fate."

Sussurrò. In realtà, erano bastate delle piccole casse bluetooth ben posizionate, ma se fosse stato necessario chiedere aiuto alle fate, per Simone lo avrebbe fatto.

Simone ridacchiò e la luce rossa gli illuminò le fossette che si formarono sulle sue guance. Gli andava bene quella risposta, quella sera voleva sognare.

"Allora grazie, fate!"

Esclamò, felice. Manuel sorrise intenerito, non voleva altro che vederlo così spensierato, dopo l'incubo che aveva vissuto.

Camminarono tra quegli alberi magici ancora per un po', cullati dalla musica e dalle luci, quando Simone si fermò di colpo e Manuel insieme a lui. Nei suoi occhi grandi, c'era il luccichio di chi aveva appena realizzato una cosa.

"Questa canzone la conosco! È quella di Lilli e il Vagabondo!"

Manuel annuì in risposta: era una registrazione di lui che suonava alla chitarra 'Bella Notte', e quasi temeva che Simone non l'avesse riconosciuta. Non poté fare a meno di sorridere, orgoglioso.

"Sì, proprio quella. Non ti devo spiegare il perché, no?"

Simone scosse dolcemente il capo, poi si spostò davanti a lui per guardarlo negli occhi. Abbandonò le stampelle a terra, sapendo che non sarebbe caduto perché Manuel lo avrebbe sorretto, e Manuel subito lo cinse con le braccia per essere il suo punto fermo. Simone sorrise e solo allora lo imitò, portando le mani sui fianchi dell'altro. Prese ad ondeggiare lentamente sul posto, non potendo fare di più con una gamba ingessata, guardando intensamente Manuel negli occhi.

Manuel si mise ad ondeggiare a sua volta, seguendo la musica che li avvolgeva, e poggiò la testa sulla spalla di Simone dopo avervi posato un bacio, il viso incastrato nell'incavo del suo collo. In un attimo anche le labbra di Simone si posarono prima sulla spalla di Manuel e poi sul suo collo, in quello spazio caldo che lo accolse come il proprio aveva accolto l'altro.

Erano perfettamente incastrati, perfettamente uniti in un ballo soltanto loro, a cui forse avrebbero assistito anche le fate.

"È davvero meraviglioso, Manuel. Resterei così per sempre..."

Sussurrò Simone, dopo un bel po', direttamente sul collo di Manuel e Manuel, sentendo il respiro di Simone così vicino alla propria pelle, avvertì un piacevole brivido e sorrise.

"Sono felice che ti piaccia, Simo."

Mormorò, e Simone avvertì chiaramente quelle parole attraversargli la pelle, mozzandogli il fiato per un istante.

"E possiamo restare così per tutto il tempo che vogliamo, nessuno ci mette fretta."

Disse ancora, tenendo stretto a sé l'altro per rimarcare il concetto.

"Il tempo di un bacio, magari?"

Propose Simone, sollevando il capo.

"Il tempo di un bacio mi sembra perfetto."

Rispose Manuel, alzando la testa. Il loro fu un incontro prima di occhi, che sorridevano d'amore, così diversi da quegli occhi impauriti e confusi che si incrociarono in quella notte di Marzo, e poi di labbra che si cercavano piano, perché sapevano che si sarebbero trovate e ritrovate, così diverse da quelle labbra frenetiche che provavano a prendere tutto ciò che potevano, spinte dall'incertezza del futuro. Il colore che li circondava in quel momento era lo stesso che li aveva illuminati sotto il muro della scuola, ma loro erano diversi: non più separati, ma uniti.

Senza dirsi nulla, solo con uno sguardo ed un sorriso, ripresero a camminare seguendo il percorso che Manuel aveva tracciato con le luci e arrivarono in uno spazio più ampio, dove c'era un tavolo ad attenderli. Un tavolo, una sedia e un lettino da giardino che era stato coperto da un lenzuolo. Fu proprio quello ad attirare lo sguardo incuriosito di Simone, ma prima che potesse parlare, Manuel intercettò i suoi pensieri.

"Sei pronto a diventare Imperatore, Simo'?"

Chiese e Simone si voltò a guardarlo, stupito.

"Imperatore? Ma in che senso?"

Manuel ridacchiò e con un cenno lo invitò ad avanzare insieme a lui.

"Eh, ora vedi."

Si avvicinarono al lettino e Manuel aiutò Simone a distendersi.

"Ho preso spunto dai banchetti dei Greci e dei Romani, che li facevano sdraiati. Così non ti stanchi…"

Spiegò, intanto.

"Poi dici che il professore sono io..."

Commentò Simone, sorridente. Era ammirato dal modo in cui Manuel riusciva a portare nella vita di tutti i giorni le cose che studiava e per questo riteneva che fosse lo studente migliore di tutto il liceo, erano i professori a non capirlo.

"Eh, lo sai che quando voglio so studiare anch'io."

Ribatté Manuel, poi gli sistemò un cuscino dietro la schiena e altri due sotto la gamba, in modo da tenerla sollevata come aveva raccomandato il dottor Bonvegna.

"Comodo?"

Simone annuì, tranquillo.

"Comodissimo."

Manuel gli posò un bacio tra i capelli, poi si avvicinò alla sedia e prese una delle due coroncine di fiori -in plastica- che vi aveva poggiato, mostrandola a Simone, che la guardò come se fosse stata d'oro.

"In teoria questa doveva essere una corona di foglie d'alloro, ma non l'ho trovata e ho dovuto improvvisare. Posso?"

Domandò Manuel, avvicinandola al capo riccioluto dell'altro senza ancora fargliela indossare. Simone annuì, con grande entusiasmo.

"È anche più bella di una corona d'alloro."

Commentò dolcemente e Manuel sorrise, felice che gli piacesse. Subito dopo si schiarì la voce.

"Nel nome del Senato e del Popolo romano, ti nomino Imperatore!"

Esclamò, con il tono più solenne che riuscì a darsi, per poi posare la coroncina sulla testa di Simone, fissandola bene in modo che non si muovesse. Simone, in un gesto automatico, sollevò gli occhi per seguire il movimento.

"Come mi sta?"

Domandò, passandosi una mano sul capo. Gli occhi di Manuel si riempirono d'amore -più di quanto già non fossero, se possibile- a quella vista: Simone, con quei fiorellini colorati che spuntavano tra i ricci scuri, e le gote colorate di un morbido rosso per l'emozione, forse non somigliava molto ad un austero imperatore romano, ma era quanto di più bello e di più tenero avesse visto in vita sua.

"Ti sta d'incanto, davvero Simo'. Anzi, ora dovrei chiamarti Cesare..."

Rispose, mimando un inchino alla fine. Simone ridacchiò, emozionato.

"No, no, Simone va bene! Al massimo Cerbiattino, come fai sempre."

Si voltò verso la sedia, che era giusto accanto al suo lettino, perché aveva notato che le coroncine erano due.

"Quell'altra è per te?"

Manuel scosse il capo, accennando un sorriso.

"No, no, quella è de riserva. Ne ho prese due perché magari una se rompeva. L'imperatore sei solo tu, io al massimo posso fa' er servo."

Simone storse il naso, non gli piaceva quella risposta. Era anche la serata speciale di Manuel, non soltanto la sua, anche lui meritava un trattamento speciale!

"Posso emanare il mio primo decreto?"

Chiese, fissando Manuel con occhi furbi. L'altro ragazzo sospirò, perché tanto aveva già capito dove volesse andare a parare il suo fidanzato, che aveva il cuore troppo grande per tenere per sé tutte le attenzioni.

"Puoi fa' tutto quello che te pare, sei l'imperatore."

Simone sorrise, estremamente soddisfatto.

"Allora, per i poteri che la mia carica mi conferisce..."

Allungò un braccio a prendere l'altra coroncina e indicò a Manuel di abbassarsi un po'. Quando l'altro lo fece, gli posò un bacio tra i capelli.

"...io ti nomino imperatore, mio pari in tutto e per tutto!"

Esclamò solenne, fissando la coroncina tra i capelli di Manuel. Subito dopo portò una mano sotto il suo mento e gli fece alzare il viso, in un gesto delicato.

"Tu non sei secondo a nessuno, nemmeno a me, hai capito?"

Manuel non poté fare a meno di sorridere, con gli occhi che luccicavano commossi. Come faceva a dirgli che per praticamente tutta la vita si era sentito l'ultimo in tutto -l'ultimo bambino a ricevere il regalo da Babbo Natale perché, come gli diceva sua madre, Babbo Natale non ce la faceva a girare tutto il mondo in una notte e allora arrivava qualche giorno dopo dai bambini più buoni e pazienti (poi aveva capito che quel tempo serviva soltanto a fare in modo che i prezzi dei giocattoli si abbassassero e sua madre potesse comprargli la macchinina o l'orsacchiotto che aveva chiesto e da quel momento in poi aveva smesso di chiedere regali, ma per tanti anni aveva creduto che il suo nome fosse l'ultimo sulla Lista dei Bambini Buoni), l'ultimo ragazzo ad entrare in aula praticamente ogni giorno, come Lombardi e altri professori non si stancavano mai di ricordargli, l'ultimo studente della classe, quello con i voti più bassi, che veniva costantemente richiamato perché non stava attento o perché non studiava, forse addirittura l'ultimo studente dell'intero liceo, e infine perfino l'ultimo scagnozzo di Sbarra, quello a cui venivano affidati gli incarichi più ingrati, pericolosi e stancanti, e che veniva maltrattato senza rimorsi- e che solo grazie a lui aveva iniziato a capire di valere qualcosa in più?

Non sapeva come farlo, ma alla fine non ne ebbe bisogno, perché Simone capì tutto dal suo sguardo e dalla piccola goccia che, dall'occhio destro, scivolò lungo la sua guancia. Senza dire nulla, semplicemente portando una mano dietro la sua testa e l'altra sul suo fianco, lo tirò verso di sé, senza però forzarlo -non avrebbe mai potuto- per avvolgerlo tra le braccia. Manuel si lasciò trasportare da quella corrente, come una nave che segue la rotta verso il porto, e incastrò il capo nell'incavo del collo dell'altro.

Simone, per accoglierlo meglio, gli fece un po' di spazio sul bordo del lettino e lo aiutò ad appoggiarsi, almeno per dargli un minimo di stabilità. Prese ad accarezzargli i capelli morbidi, posandovi qualche bacio di tanto in tanto, e Manuel si abbandonò a quelle carezze e a quei baci, lasciandosi avvolgere dal profumo della pelle di Simone, che poi era lo stesso della propria. Uno accanto all'altro, quello era il loro posto.

"Lo sai che sei proprio bello con questa coroncina, Paperotto?"

Sussurrò Simone con voce carica di tenerezza, dopo qualche momento di coccole silenziose. Manuel accennò una risatina e posò un bacio sulla mascella di Simone.

"Sembro un imperatore?"

Chiese scherzoso, sollevando il capo per farsi guardare. Simone, anche se la domanda di Manuel non era seria, sentì il bisogno di rispondere seriamente e si prese qualche istante per guardarlo: il viso di Manuel era decisamente troppo giovane per ricordare quelli degli imperatori di cui aveva memoria -sul libro di storia o nei musei, infatti, aveva sempre visto visi di uomini adulti ed austeri-, e anzi quella coroncina di fiori unita alla sua barbetta e ai suoi ricci ribelli gli dava più l'aspetto di un satiro che di un Augusto, eppure qualcosa in comune con loro c'era ed era lo sguardo. Simone era sempre molto colpito dagli sguardi di quegli uomini potenti che un tempo avevano governato il mondo, nei loro occhi vedeva tutto il peso della vita che, a volte, notava anche in quelli di Manuel. In questo senso sì, Manuel sembrava un imperatore.

Sempre più spesso, però, gli occhi di quel ragazzo si illuminavano di allegria, di affetto o di serenità, esattamente come brillavano in quel momento e Simone li preferiva decisamente così, leggeri e non pesanti. Per rispondere alla sua domanda, dunque, scosse il capo.

"Un po' sì, ma non troppo...ed è meglio così, credimi."

Disse, posandogli un bacio in mezzo agli occhi. Manuel, che aveva atteso in silenzio i pensieri dell'altro, lo guardò incuriosito.

"Perché? Gli imperatori erano troppo brutti e io so’ troppo bello?"

Domandò divertito mentre gli accarezzava distrattamente il fianco. I suoi occhi, però, erano sinceramente interessati alla risposta. Simone accennò un sorriso e portò una mano sulla sua guancia, ormai asciutta, facendogli una carezza.

"Perché un imperatore porta sulle sue spalle il peso del mondo e per troppo tempo te ne sei fatto carico anche tu, tutto da solo, poi. Perciò, preferisco che tu sia un ragazzo e non un imperatore... è molto meglio così."

Manuel sorrise dolcemente a quelle parole e si avvicinò di nuovo a Simone, al suo amato Simone che non smetteva mai di amarlo in ogni sua parola, ogni suo gesto, e lo baciò con tenerezza. Da quando stava con lui, quel peso non lo sentiva più.

"Simo, tu mi fai sentire leggero leggero, come una piuma."

"Non te ne volare via, però!"

Ribatté scherzosamente Simone che, di riflesso, lo strinse di più a sé. Anche lui si sentiva leggero, però, sapendo che l'altro stava meglio. Manuel ridacchiò.
"Non volo da nessuna parte."

Disse a bassa voce, di nuovo vicinissimo alle sue labbra. In un attimo tornò a baciarlo, cingendolo a sua volta tra le braccia, per dirgli anche con il corpo che era lì che voleva rimanere, per sempre.


 
"Che ne dici, passiamo alla portata principale?"

Propose Manuel con entusiasmo, quando ebbero finito di mangiare praticamente tutti gli antipasti e gli stuzzichini che aveva preparato. Simone sgranò gli occhi, stupito: non se lo aspettava.

"C'è una portata principale?"

Manuel annuì, facendo una risatina.

"Te pare che questa possa essere considerata cena?"

Replicò, indicando con un gesto vago della mano il tavolo. Simone sospirò.

"Se me l'avessi detto, non mi sarei abbuffato..."

Manuel si sporse a dare un bacio sulla guancia dell'altro, facendogli una carezza tra i capelli.

"Devi mangiare, Simo. Se non ti va tutto lo lasci, però devi mangiare anche qualcosa di più sostanzioso. Così ti rimetti in forze presto presto, mh?"

Disse dolcemente, e Simone si voltò a guardarlo, sorridente. Annuì, perché voleva rimettersi in sesto con tutto se stesso e poi perché, in fin dei conti, aveva ancora fame.
"Va bene, io ti aspetto qui."

Sussurrò, poi gli diede un bacio a fior di labbra.

"Ci metto cinque minuti."

Lo rassicurò Manuel per poi allontanarsi e tornare nel giro di poco. Simone lo vide avvicinarsi con una teglia di cui non poteva scorgere il contenuto, ma l'altro la stava trasportando con entusiasmo.

"Cazzo Simo', venendo qua me so' ricordato che me stavo dimenticando di una cosa importantissima!"

Annunciò Manuel, poggiando il pollo con patate sul tavolo. L'attenzione di Simone fu catturata per un istante dalla pietanza -che era decisamente invitante-, ma poi subito si spostò sul suo ragazzo.

"Che cosa?"

Domandò, ma mentre parlava Manuel gli aveva già avvicinato il proprio cellulare, aperto sull'applicazione che gestiva le lucine.

"Ho messo le lucette anche qua intorno, scegli tu."

Simone diede una rapida occhiata ai tanti colori che l'applicazione proponeva, ma subito restituì il cellulare a Manuel con un sorriso sghembo stampato in viso.

"Sei un imperatore anche tu, scegli tu il colore."

Manuel fece una risatina che sfumò in un morbido sorriso, contornato da due fossette seminascoste dalla barba. Doveva aspettarselo, da Simone.

"Scelgo io? Ok, va bene, allora..."

Armeggiò con l'applicazione e gli alberi intorno a loro si puntellarono di lucette bianche, che catturarono gli occhi di entrambi.

"Così sembra di stare in mezzo alle stelle, no? Te piace?"

Simone sorrise entusiasta a quel piccolo cielo che Manuel aveva creato solo per loro e annuì, deciso.

"È magico, Manuel. Era già tutto bellissimo, ma adesso...wow!"

Si voltò a guardarlo e gli diede un bacio sulla guancia, più precisamente su una fossetta, facendolo ridacchiare.

"Anche se le stelle più belle ce le hai tu negli occhi."

Sussurrò, accarezzandogli la guancia.

Manuel ridacchiò, teneramente imbarazzato, sentendosi le guance farsi più calde.

"È un po' scontata come frase, lo sai?"

Ribatté scherzoso e Simone sbuffò, mettendo su un broncio altrettanto scherzoso. Ne era consapevole, ma era altrettanto consapevole di aver comunque fatto colpo su Manuel, le sue gote rosse non mentivano.

"Scusami se non sono un poeta come te!"

Manuel scoppiò a ridere e abbracciò il suo ragazzo accanto a lui, che subito ricambiò l'abbraccio, ridacchiando a sua volta.

"Non ho detto di non averla gradita, però."

Aggiunse, stampandogli un bacio su quel broncio ormai praticamente scomparso e che non era mai stato realmente vero, lo sapeva.

"Amo tutto ciò che dici, Simo."

Sussurrò delicatamente, guardandolo innamorato. Simone arrossì, investito da quelle parole dolci come da un vento caldo che gli accarezzò il cuore, e incastrò il capo nell'incavo del suo collo, non per nascondersi, ma per baciarlo.

"Sei un marpione, lo sai?"

Mormorò al suo orecchio, divertito. Manuel fece uno sbuffo divertito, ma prima che potesse dire qualcosa, Simone parlò di nuovo.

"Ma anch'io amo tutto quello che dici, anche quando fai il marpione. Tanto lo so che sei sempre sincero..."

"Sempre, Simo', sempre."

Sottolineò Manuel mentre gli accarezzava la schiena, lasciandogli poi qualche pacca leggera sullo stesso punto.

"E sono sincero anche a dirti che ora dovremmo magna', altrimenti 'sto pollo diventa freddo e sarebbe un vero peccato."

Simone annuì, concorde, e si separò dall'abbraccio dopo aver posato un ultimo -per il momento- bacio sul suo collo. Si mise ad osservare Manuel che riempiva i piatti come un cane incuriosito ed affamato, perché in effetti quel buon profumo gli aveva fatto venir l'acquolina in bocca.

Manuel gli rivolse uno sguardo di sbieco, profondamente compiaciuto.

"Questo è perché ti eri abbuffato e non avevi più fame, eh?"

Disse ironico, porgendogli il piatto. Nel farlo, Simone venne investito in pieno da quell'aroma che lo aveva conquistato.

"Beh, ma sarebbe un peccato non mangiarlo, no?"

Ribatté, riprendendo le parole dell'altro, che fece una risatina e tornò ad accomodarsi al proprio posto, sulla sedia accanto al lettino.

"Allora non attendiamo ancora, mh? Buon appetito, Simo."

Simone allungò una mano a dargli un buffetto sulla guancia.

"Buon appetito anche a te, Manuel."

Cominciarono a mangiare, insieme, e Simone non si trattenne dal fare dei versetti d'apprezzamento.

"Deduco te piaccia..."

Commentò Manuel, masticando. Simone invece ingoiò il boccone prima di rispondere.

"È buonissimo! L'hai preparato tu?"

Domandò, prendendolo un po' in giro. Manuel, naturalmente, scosse il capo.

"Seh, Simo, se l'avessi preparato io, i piatti sarebbero stati più commestibili! Ho chiesto il favore a mia madre..."

Simone ridacchiò, divertito.

"... però io ho sbucciato e tagliato le patate, guarda!"

Continuò Manuel, infilzandone una nella forchetta che poi sollevò.

"Guarda, so' perfette! Queste non so' patatine, so' sculture! Non per vantarme, ma so' perfette!"

Esclamò con entusiasmo, facendo un po' il burlone per far divertire Simone, che infatti scoppiò a ridere.

"Sì, hai ragione..."

Disse, osservando con attenzione una delle patatine che aveva preso con la forchetta.

"Sono davvero perfette... geometricamente perfette, direi."

Aggiunse, con un sorriso sghembo e sguardo furbo. In Manuel scattò come un allarme, perché aveva già capito dove volesse andare a parare quel matematico del suo fidanzato.

"Così perfette che potresti calcolarne il volume."

Concluse Simone e Manuel sospirò. Ecco, era esattamente ciò che si aspettava.

"Dobbiamo proprio mette in mezzo i compiti pure mo'? Ti prego, Simo..."

Si lamentò, guardandolo come un animale ferito. Simone a quegli occhi non sapeva dire di no, ma era sicuro che con il giusto compromesso Manuel avrebbe risposto alla sua domanda.

"Eddai, voglio sapere solo questo. Facciamo così: se tu rispondi bene, io ti do un bacio, se rispondi male il bacio lo dai tu a me."

Propose, guardandolo incoraggiante. Manuel sospirò, ma poi si ritrovò a sorridere per il modo in cui Simone sapeva sempre prenderlo per il verso giusto.

"Ti ho mai detto che sei il miglior insegnante del mondo?"

Chiuse gli occhi, poi, per concentrarsi un attimo.

"Allora, diciamo che queste patatine sono dei parallelepipedi...rettangoli, giusto?"

Chiese incerto, riaprendo gli occhi. Simone annuì, pazientemente.

"Esatto, bravo. Quindi come ne calcoliamo il volume?"

Manuel si passò la lingua sulle labbra e si schiarì la voce.

"Per calcolarne il volume dobbiamo…moltiplicare le sue dimensioni, quindi...larghezza, lunghezza e altezza."

Rispose lentamente, ma abbastanza sicuro di ciò che diceva. Ciò, tuttavia, non gli impediva di guardare il suo professore con un po' di apprensione. Simone gli rivolse uno di quei sorrisoni che erano riservati solo a lui, orgoglioso del suo studente, e gli prese il viso tra le mani a coppa.

"Vedi che sei bravo? Anzi, sei bravissimo..."


Disse con affetto, avvicinandosi subito per dargli il bacio promesso, un bacio da dieci, come il voto che gli avrebbe dato se avesse potuto.

Manuel, in quel bacio, scaricò la leggera tensione per quell'interrogazione improvvisa, si lasciò completamente andare, e ritrovò anche un po' di fiducia in se stesso: se dopo settimane come quelle, riusciva a ricordarsi una stupida formula di geometria, allora poteva riuscire a superare quei debiti che gli avevano appesantito l'estate. Gran parte del merito senz'altro spettava a Simone, l'insegnante migliore del mondo, ma anche lui ci metteva del suo, si impegnava, e poteva dire di essere fiero di se stesso, almeno un po'.

"Ammazza Simo', m'hai fatto suda'..."

E, così dicendo, agitò un po' la camicia per farsi aria. Simone, guardandolo compiere quel buffo gesto, ridacchiò divertito.

"Ho bisogno di bere qualcosa, vuoi?"

Aggiunse subito Manuel, avvicinando la bottiglia di tè al limone al bicchiere dell'altro. Certo, una birra sarebbe stata più appropriata, ma per il momento era meglio che Simone stesse lontano dall'alcool, doveva prima riprendersi del tutto, e Manuel aveva deciso di stargli accanto anche in questo, per solidarietà. Non gli dispiaceva fare quella piccola rinuncia, se era per il ragazzo che amava.

"Sì, grazie. E guarda che se vuoi puoi andare a prenderti una birra in frigo, eh. Non mi offendo, se la bevi."

Rispose lui, avendo già notato da un po' che il suo ragazzo non aveva portato nemmeno una lattina di birra nella borsa frigo che aveva sistemato accanto al tavolo per tenere le bibite al fresco. Sapeva che l'aveva fatto solo per lui, per non fargli venire il desiderio di qualcosa che non poteva avere -anche se si trattava di una semplice birra-, temendo di intristirlo, ma la verità era che Simone in quel momento stava così bene che la birra -o qualsiasi altro tipo di alcolico- non rientrava nemmeno nell'insieme dei suoi pensieri. La compagnia di Manuel, il suo affetto, le sue premure, i suoi baci, erano più che sufficienti ad inebriarlo.

Manuel annuì, accennando un sorriso.

"Lo so che posso, ma nun me va. La prima birra, ce la berremo insieme."

Promise guardandolo negli occhi e Simone non poté fare altro che ricambiare lo sguardo e la promessa, con la stessa intensità.

"E sarà la birra più buona che avremo mai bevuto."

Sussurrò, sporgendosi verso l'altro, che lo raggiunse a metà strada e, insieme, suggellarono la promessa con un bacio.

 


"Vuoi qualche altra cosa, Simo?"

Domandò Manuel, con gentilezza, una volta finito il pollo. Simone scosse il capo, portandosi alle labbra il bicchiere con il tè fresco e zuccherino.

"No, ti prego, sono pieno come un uovo, davvero..."

Posò il bicchiere sul tavolo e posò una mano sul proprio stomaco, muovendola su e giù, per sottolineare il concetto.

"Sicuro? Neanche un po' di frutta? Ho preparato una macedonia che è la fine del mondo! So' andato al mercato, ieri, e ho trovato delle fragole grandi così..."

Cominciò a dire Manuel, con l'entusiasmo di chi aveva fatto qualcosa per la persona che amava, mimando con pollice e indice la dimensione di quelle fragole.

"...e dolcissime! Dai, te giuro che ce torni!"

Simone, messo davanti a tutto quel dolce e meraviglioso entusiasmo e ormai incuriosito da quelle fragole tanto decantate, si decise ad accettare.

"Se me lo dici così, ne mangio volentieri un po', grazie."

Allungò un braccio a dare un buffetto sulla guancia di Manuel.

"Soprattutto perché l'hai preparata tu."

Aggiunse, per poi sollevare l'angolo delle labbra in un sorriso sghembo. Manuel ridacchiò e, prima che l'altro potesse allontanare la mano, la prese e se la portò alle labbra per un bacio veloce. Era una tentazione troppo forte baciare le mani di Simone ogni volta che se ne presentava l'occasione -ma questo valeva per ogni parte del suo corpo-, non riusciva proprio a resistere.

Il sorriso di Simone si fece più ampio: lui, per quei baci improvvisi, perdeva la testa ma ritrovava sempre il cuore e ogni volta che poteva faceva lo stesso, mosso da un identico desiderio.

"Vado a prenderla, ce metto poco."

Disse Manuel, alzandosi. Si chinò subito a posare un bacio e una carezza tra i capelli di Simone, che prese la sua mano libera e se la portò alle labbra come aveva fatto lui pochi istanti prima. Dovevano separarsi solamente per pochi minuti, ma ciò non voleva dire che non dovevano salutarsi in modo adeguato.

Manuel si allontanò e tornò dopo poco, portando con sé una grossa scodella bianca decorata a fiori, da cui proveniva il profumo dolce della frutta e dello zucchero e che posò sul tavolo.

"Ecco qua, Simo."

Disse, porgendogli un bicchiere dopo averlo riempito.

"Grazie!"

Esclamò l'altro, i cui occhi curiosi furono subito attratti dai colori accesi dei pezzi di frutta che si trovò in mano, ma attese che anche Manuel ebbe la propria porzione prima di iniziare a mangiare.

"Hai ragione, sono dolcissime!"

Esclamò, non appena assaggiò un pezzo di fragola. Gli ritornarono in mente i pomeriggi d'estate, da bambino, in cui sua madre gli dava la macedonia per merenda e accennò un sorriso al ricordo.

"Eh, mica dico cazzate, io!"

Ribatté Manuel, scherzoso, facendo una risatina che subito raggiunse anche le labbra di Simone.

"Su questo avrei da ridire..."

Commentò Simone, per punzecchiarlo, guardandolo sottecchi. Manuel sbuffò contrariato, ma sapeva che il suo fidanzato non aveva tutti i torti. Rimestò un po' con la forchettina nel bicchiere, prendendosela con le fragole, le banane e le mele, dal momento che non poteva prendersela con se stesso.

"Vabbè, a te non le dico, oh..."

Borbottò, rivolgendo lo sguardo verso il suo. Simone sorrise teneramente e scosse il capo.

"E invece ogni tanto lo fai..."

Gli occhi di Manuel si tinsero di una sfumatura di confusione e, soprattutto, di  timore. Di cazzate ne aveva dette tante a Simone, una fra tutte che lui non gli piaceva, ma adesso non gliene diceva più e proprio non capiva a cosa si riferisse l'altro. Alle sue parole dolci? Ai suoi complimenti? Ma quelli non erano cazzate e Simone lo sapeva senz'altro!

"Tipo...tipo quando, scusa?"

Domandò, con una certa apprensione. Simone sorrise, rassicurante, perché aveva intercettato i suoi timori, e si scusò con lo sguardo per averglieli fatti provare. Portò anche una mano tra i suoi capelli, accarezzandoli con delicatezza per tranquillizzarlo, e Manuel si sentì subito sollevato a quel tocco.

"Io lo so che mi hai sempre detto la verità, che non mi hai mai tenuto nascosto niente anche quando avresti dovuto..."

E ripensò a quella mattina in palestra, durante la premiazione del concorso di poesia, quando Manuel gli rivelò che Laura non era incinta nonostante le minacce di Chicca. Gli aveva tolto un gran peso, quel giorno.

"...ma quando mi dici che non sei adatto a me, che merito di meglio, che sei guasto, spari un sacco di cazzate. Sono le uniche che dici, per il resto lo so che sei sempre sincero."

Manuel tirò un sospiro di sollievo e poi accennò un sorrisetto colpevole.

"Ogni tanto il pensiero me viene..."

Ammise, abbassando lo sguardo. Simone, però, cercò subito i suoi occhi e li abbracciò con i propri, teneramente.

"E non ci devi neanche pensare, Manuel, perché non è vero niente."

Disse con dolcezza, senza smettere di accarezzargli i ricci. Manuel sospirò di nuovo, stavolta il suo sospiro fu più pesante, come se portasse con sé qualcosa.

"È che...pe' tanti anni me so' sentito dire solo quello e..."

Cominciò a spiegare impacciato, quasi balbettava.

"...e adesso me fa strano sentirme dire qualcosa de diverso. Con te però sto imparando davvero a...a credere d'esse un po' meglio di quanto m'hanno sempre detto, te lo giuro. Ti chiedo solo un po' di pazienza, Simo, anche se so che co' me ne hai già tanta."

I suoi occhi scuri e lucidi cercavano affetto, amore, e li trovarono in quelli di Simone, altrettanto scuri e lucidi, che mai avrebbero smesso di darglieli.

"Non è pazienza, è amore, e con te non è mai troppo."

Si sporse a dargli un bacio a fior di labbra, al sapore di frutta. Mentre si separava da lui, poi, prese un pezzetto di fragola dalla scodellina dell'altro e se lo portò tra le labbra, tenendolo fermo con i denti in modo che una buona metà uscisse dalla sua bocca, sapendo che quel piccolo gioco che avevano fatto proprio fino a farlo diventare una specie di tradizione avrebbe tirato su il morale a Manuel. Ottenne l'effetto sperato, infatti Manuel fece una risatina e sorrise, illuminando il giardino più delle lucette disposte tra gli alberi.

"Aspetta solo un momento, Simo'..."

Prese il cellulare e, dopo un paio di secondi, vennero accarezzati dalle note di 'Bella Notte' in lontananza. Simone trattenne il sorriso sulle labbra per non perdere la fragola, ma i suoi occhi mostrarono tutta la sua gioia.

"Così è più adatto, no?"

Domandò Manuel, retoricamente, portando una mano sulla sua guancia per accarezzarlo e dare poi un morso al pezzetto di frutta, dividendolo a metà in modo che entrambi potessero mangiare la propria parte.

"Così è perfetto."

Sussurrò Simone, in risposta. Andarono avanti così, circondati da musica e stelle, scambiandosi frutta dolcissima e baci ancora più dolci fino a quando i loro cuori ne sentirono il bisogno.

"Come ti senti, Simo?"

Sussurrò Manuel quando si separarono per riprendere fiato, facendo strofinare il naso contro il suo. Simone sorrise, imitando il suo movimento.
"Sto con te, non potrei stare meglio."

Mormorò, accarezzandogli il collo. Manuel fece una risatina.

"Dico sul serio, non fare il marpione! Sei stanco?"

Chiese ancora, prendendo una sua mano nella propria per accarezzarla. Simone scosse il capo, facendo toccare di nuovo i loro nasi.

"Anch'io dico sul serio! Sto bene e non sono stanco, davvero...ho dormito tutto il pomeriggio!"

Manuel sorrise, rassicurato.

"Allora ascoltami, io adesso vado a portare questi piatti sporchi in cucina, poi torno da te e andiamo a fare una cosa, ok?"

Disse, con una nota di entusiasmo della voce che cercò di smorzare, ma che Simone notò ugualmente.

"Ma a quante cose hai pensato?"

Domandò, incuriosito ed incredulo. Manuel scosse il capo, ridacchiando.

"Non te lo dico!"

Gli posò un bacio sulla punta del naso e si alzò, cominciando a raccogliere i piatti e le posate sporchi. Simone si alzò un attimo dopo, reggendosi alle stampelle.

"Oh, ma che fai? Torna a sederti, non ti sforzare..."

Esclamò Manuel, con un po' di apprensione. Simone, però, avanzò di un passo verso di lui.

"Vengo con te, ti accompagno."

Disse, deciso.

"Così ne approfitto per andare in bagno..."

Aggiunse, cercando di essere credibile. In realtà aveva tutt'altro in mente.

Manuel lo fissò per qualche secondo e poi annuì. Non pensò che si potesse trattare di una scusa, dal momento che Simone aveva bevuto parecchio durante la cena ed era normale che avesse bisogno del bagno.

Si avviarono quindi verso la villa e Manuel non poté fare a meno di notare che Simone, anche in quel momento in cui non stavano facendo nulla di particolare, sorrideva, era felice e, di conseguenza, lo era anche lui.

Appena entrati in casa, Simone si diresse a passo svelto -per quanto gli era possibile- verso le scale che conducevano al piano superiore. Si sentiva euforico, ubriaco quasi, pur non avendo bevuto alcolici, e dovette mordersi l'interno delle guance per non ridacchiare.

"Simo ma che fai? Guarda che er bagno sta pure qua, nun c'è bisogno che sali!"

Gli disse Manuel, rivolgendogli uno sguardo perplesso.

"Lo so, però...voglio mettermi un po' di profumo e ce l'ho sopra!"

Ribatté, arrabattando la prima scusa che gli veniva in mente e che, doveva ammettere, era davvero penosa. Anche in questo sembrava un po' ubriaco.

Il viso di Manuel si contrasse in una smorfia accigliata e perplessa, cominciava a sospettare qualcosa.

"Vabbè, non ti preoccupare, te vai in bagno e io salgo su a prendertelo, ce metto un attimo..."

Propose, ma Simone scosse il capo.

"No, no, vado io, tranquillo, ce la faccio! Tu pensa ai piatti!"

Esclamò, cominciando a salire le scale. Manuel sospirò, incredulo.

"Aspetta, fatte almeno accompagna'!"

Posò rapidamente i piatti in cucina e subito dopo gli fu accanto, per aiutare quel testardo del suo ragazzo a superare i gradini. Arrivati sul piccolo pianerottolo, però, Simone si diresse verso la stanza di sua nonna, che era accanto alla loro, e Manuel allora capì che né il bagno né il profumo erano davvero nei suoi pensieri.

"Camera nostra è quell'altra, ma so' sicuro che lo sai..."

Commentò, seguendolo. Simone accennò una risatina.

"Sì, però quello che cerco sta qua."

Si avvicinò all'armadio della nonna, lo aprì girando la piccola chiave nella serratura e venne investito da un inebriante odore di lavanda, che arrivò anche a Manuel ormai accanto a lui e lo guardava a braccia incrociate.

"Che, te vuoi mette il profumo de tu' nonna?"

Domandò, prendendolo in giro, e Simone reagì voltandosi a fargli una linguaccia che, inevitabilmente, fece poi ridacchiare entrambi. Senza alcuna difficoltà prese una busta dal ripiano in alto e la mostrò a Manuel, sorridendo trionfante.

"Cercavo questo."

Disse, porgendogliela. Manuel sciolse le braccia e guardò la busta con stupore, ma anche con una certa rassegnazione. La prese, sbirciò il suo contenuto all'interno, sospirò e tornò a guardare il suo fidanzato, accennando un sorriso.

"S'era detto niente regali..."

Gli fece notare, con una punta di imbarazzo nella voce. Simone, però, respinse l'obiezione scuotendo il capo.

"Non è un regalo, è un pensiero!"

"Simo', è impacchettato co' tanto de fiocco, al paese mio questo è un regalo..."

Ribatté Manuel, sfilando il pacco rettangolare dalla busta. A prima vista, poteva sembrare un libro. Simone alzò gli occhi al cielo a quella puntualizzazione, poi tornò a fissarli su Manuel, impaziente.


"E allora è un regalo per tutti e due, va bene? Tu ci hai regalato questa serata splendida e io... non volevo presentarmi a mani vuote. Vieni qui, apriamolo!"

Così dicendo si spostò verso il letto di sua nonna e si sedette sul bordo. Manuel gli si sistemò subito accanto, poggiando il regalo -perché era un regalo, punto e basta- sulle proprie gambe e vi posò lo sguardo, osservandolo meglio. Subito gli saltò all'occhio che tutto, in quel pacchetto, rivelava la mano di Simone, la sua cura per i dettagli, la sua precisione: la carta blu scuro avvolgeva il libro -o quel che era- senza nemmeno una grinza o una piega, i bordi erano accuratamente ripiegati su se stessi e fermati da piccoli pezzi di scotch perfettamente tagliati e il nastrino argentato chiuso in un fiocco i cui due lembi finali formavano due boccoli perfetti che avvolgeva ed abbelliva il tutto.

"È quasi un peccato aprirlo..."

Accennò un sorriso, accarezzando distrattamente la carta. Simone avvicinò una mano alla sua.

"Ti assicuro che il vero regalo è dentro. Secondo te cos'è?"

Domandò curioso e Manuel fece una smorfia dubbiosa, accompagnandosi con una scrollata di spalle.

"Boh, non lo so, me sembra un libro..."

Spostò lo sguardo dal pacchetto agli occhi del suo fidanzato.

"Non è che m'hai preso un libro di esercizi de matematica, vero?"

Chiese scherzoso, con gli occhi vispi che cercavano indizi nei loro compagni. Simone scoppiò a ridere, scuotendo il capo.

"No, ti posso giurare che la matematica non c'entra nulla. Per quanto mi riguarda, qui dentro c'è qualcosa di molto meglio..."

Le sue labbra si curvarono spontaneamente in un morbido sorriso e i suoi occhioni si illuminarono d'amore. Manuel lo guardò sorpreso per un istante, sollevando leggermente le sopracciglia, e poi tornò alla sua espressione incuriosita. ‘Ma che s'è inventato?’, pensò.

"Meglio della matematica? Mo' sì che m'hai convinto ad aprirlo!"


Esclamò, anche se stava cominciando ad avere un'idea più chiara: non erano molte le cose che Simone amava più della matematica, del resto.

Simone ridacchiò e voltò il palmo verso l'alto, in un tacito invito a farsi dare la mano, che Manuel subito accolse. La condusse, dunque, verso uno dei lembi del fiocchetto mentre lui afferrò l'altro.

"Lo apriamo insieme?"

Propose, trepidante, e Manuel annuì in risposta. Tirarono insieme il filo argentato, strapparono la carta blu e davanti ai loro occhi si rivelò un libro la cui copertina in pelle sintetica era dello stesso colore. Era un libro particolare, però, e quando Manuel lo realizzò liberò un verso di puro stupore.

"Ti piace?"

Domandò Simone, con la voce che tremava per l'emozione. Manuel annuì con entusiasmo, accarezzando l'album fotografico con la punta delle dita, come se avesse paura di rovinarlo.

"È un'idea stupenda, Simo'! Lo riempiamo di foto!"

Esclamò, felice, voltandosi a guardare il suo ragazzo. Simone si sciolse in un dolce sorriso alla vista degli occhi gioiosi dell'altro.

"Beh, veramente ce n'è già qualcuna dentro, mi sembrava brutto regalare un album vuoto."

Specificò, facendogli segno di aprirlo.

"Le ho scelte io, ma le altre puoi sceglierle tu, ovviamente..."

Manuel, curiosissimo, sollevò la copertina dell'album e la prima cosa che vide furono le parole 'Manuel & Simone Associati' al centro della prima pagina -un foglio bianco che serviva per proteggere le foto- scritte nell'elegante e precisa grafia di Simone, inconfondibile per il modo particolare che aveva di fare le M e le N, con le gobbette verso il basso e non verso l'alto. Accarezzò quelle parole con riverenza, sorridendo, e sentì gli occhi pizzicargli, il che lo spinse a sbattere le palpebre un paio di volte. Simone se ne accorse e lo cinse con un braccio, posandogli un bacio sulla tempia, in un silenzioso modo per stargli vicino.

Manuel lo ringraziò con lo sguardo e poi tornò a posare gli occhi sull'album, questa volta sulle fotografie: la prima li ritraeva stesi a letto, Simone con le labbra poggiate sulla guancia di Manuel e Manuel che sorrideva a trentadue denti, con i capelli arruffati che Simone aveva descritto come un 'nido di rondini'. Era la stessa fotografia che gli aveva mostrato Sbarra per fargli capire che sapeva tutto di loro, e il cuore di Manuel sussultò al ricordo, ma poi tornò sereno perché questa volta era Simone a mostrargliela.

La seconda, subito accanto, li vedeva invece davanti al muro dell'amore, più o meno in corrispondenza del punto in cui avevano scritto le loro iniziali, a scambiarsi un bacio di mattina presto, prima che arrivassero tutti. L'avevano scattata il penultimo giorno di scuola -consapevoli del fatto che il giorno successivo sarebbero stati troppo coinvolti nei festeggiamenti della chiusura dell'anno scolastico per avere un momento tutto per sé- perché avevano voluto ritrarre quell'anno speciale, che li aveva fatti prima conoscere, poi odiare -poco- e infine amare -tanto-.

La terza non era stata scattata né da Manuel né da Simone, ma da Aureliano, che molto saggiamente si era preso il compito di filmare e fotografare la battaglia di gavettoni di fine anno in cui era impegnato tutto il liceo e che per questo non era stato colpito da una singola goccia d'acqua. Tra le tante foto che aveva scattato quella mattina, ce n'era una che riprendeva Simone e Manuel, schiena contro schiena, impegnati a lanciare gavettoni ad un gruppetto di ragazzi della quarta B che li aveva circondati. Si guardavano le spalle a vicenda, sicuri della protezione dell'altro, e ridevano, travolti da quel momento di euforia collettiva del liceo Da Vinci.

La quarta e per ora ultima foto, mostrava le immediate conseguenze di quella battaglia d'acqua: si trattava di nuovo di un selfie, in cui Simone e Manuel, con i capelli zuppi d'acqua che ricadevano scomposti sui visi arrossati dal Sole e dall'attività fisica, sorridevano allegri alla fotocamera e facevano il segno della vittoria con le dita.

Le pagine successive, tutte vuote, erano promesse per il futuro.

"Mi piacciono tanto le foto che hai scelto, le avrei scelte anch'io."

Commentò Manuel, con la voce che si incrinava per l'emozione, rivolto verso il suo ragazzo.

"E ho già qualche idea sulle prossime da far stampare..."

Aggiunse, con un sorriso furbetto. Si riferiva senz'altro alla foto che aveva scattato a Simone in bagno qualche ora prima, e poi ad un loro selfie scattato quasi a tradimento durante un pomeriggio di studio: Simone si stava arrovellando da mezz'ora su un problema di geometria che proprio non sembrava voler risolversi e Manuel aveva deciso che avesse bisogno di una pausa, quindi gli si era avvicinato da dietro, aveva messo il cellulare davanti a loro e nel momento esatto in cui gli aveva posato un bacio sulla guancia aveva scattato la foto, catturando la risata sorpresa di Simone.

Simone, i cui occhi non si erano staccati un attimo da Manuel e si erano riempiti dei sorrisi e delle risatine che aveva fatto guardando le foto, si sentì investito dalla sua stessa emozione e si sporse a dargli un bacio in mezzo agli occhi.

"Non posso vederle in anteprima, vero?"

Domandò, incuriosito, e Manuel naturalmente scosse il capo.

"Solo un paio, poi le altre le scegliamo insieme, promesso."

Simone sollevò una mano e la portò sulla sua guancia, accarezzandolo poco sotto gli occhi.

"Puoi sceglierne quante ne vuoi, tanto quando l'album si riempirà ne prenderemo uno nuovo."

Disse dolcemente e Manuel sorrise, poggiando la propria mano su quella dell'altro.

"E mica uno solo! Ce riempiamo una libreria intera de album de foto nostre, Simo'!"

Esclamò, divertito. Simone annuì, ridacchiando.

"Una? Almeno tre!"

Ribatté, allegro, e in un attimo la stanza si riempì delle loro risate, che si spensero solo quando i due ragazzi si ritrovarono labbra contro labbra, in un bacio carico di quella stessa allegria.

"Ci hai fatto un regalo bellissimo, Simo...e veramente anch'io avevo pensato ad una cosetta..."

Sussurrò Manuel, abbozzando un sorrisetto timido.

"Cioè, tu oltre ad aver organizzato questa serata fantastica hai anche comprato un regalo?"

Esclamò Simone, incredulo e divertito. Si sporse, poi, a baciare Manuel a fior di labbra, accarezzandogli il viso.

"Hai proprio deciso di essere il fidanzato perfetto, eh?"

Sussurrò sulle sue labbra, innamorato. Manuel scosse il capo, arrossendo leggermente e facendo un sorrisetto imbarazzato.

"No, macché...anzi, non è nemmeno un regalo, è un simbolo. Davvero, è una sciocchezza..."

Specificò, anche perché dopo il regalo di Simone il suo gli sembrava ben poca cosa.

Simone liberò uno sbuffo divertito e gli rivolse uno sguardo pieno d'affetto: era certo che quel regalo sarebbe stato bellissimo.

"Se è un simbolo che hai pensato tu, non può essere una sciocchezza."

Disse rassicurante, dandogli un altro bacio. Manuel sospirò e si alzò, prendendo l'album con sé.

"Dobbiamo tornare in giardino, si trova lì. Portiamo questo in camera e andiamo, ok?"

Disse, riferendosi all'album. Simone annuì e si alzò, sentendosi montare sempre più dalla curiosità. Da che aveva memoria, non ricordava di aver mai avuto un debole particolare per le sorprese, anzi a stento le tollerava. Non gli piaceva non avere un quadro chiaro della situazione, eppure da quando stava con Manuel aveva cominciato ad apprezzarle e a capire che non c'era niente di male o di brutto a lasciarsi trasportare dagli eventi, di tanto in tanto.

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Capitolo 24
*** Un Sole intero di felicità (parte 2) ***


Spazio autrice:
Salve a tutt*, vi rubo pochi istanti per qualche piccola comunicazione di servizio.
Siamo arrivat* all’ultimo capitolo “ufficiale”, ma non disperate perché sto preparando un’appendice (che, specifico, sarà esclusivamente su Claudio e Domenico) e un epilogo. Vi chiedo però un po’ di pazienza, mi manca ancora un bel po’ per terminare di scriverli, ma sono molto presa dalla tesi e non ho a disposizione tutto il tempo che vorrei per dedicarmi alla loro stesura; da questa settimana, quindi, la pubblicazione si ferma momentaneamente e spero di riprenderla quanto prima.
Non voglio tediarvi ulteriormente, colgo soltanto l’occasione per ringraziarvi di tutto l’affetto che avete dato a me, a Simone e Manuel, a Riccardo e Lorenzo e a Claudio e Domenico in questi mesi.
Vi voglio bene,
Anto

Tornarono in giardino, più precisamente nella zona in cui nonna Virginia si prendeva cura delle piante, e Manuel gli porse una busta bianca, una di quelle per le lettere, su cui era stata accuratamente disegnata una decorazione formata da tanti piccoli girasoli.

"Lo so che la rima fiore-amore è piuttosto scontata, però... però te giuro che in mezzo ce passa il cuore."

Mormorò, guardando il suo ragazzo con  occhi trepidanti.

Simone gli sorrise dolcemente e aprì la busta con curiosità, anche se si era fatto un'idea del contenuto, e al suo interno trovò una busta un po' più piccola di semi di girasole, pronti per essere piantati.

"Ho pensato ai girasoli perché seguono il Sole, no? E alla fine il Sole è luce, è calore...e anche l'amore lo è. Noi, allora, siamo come i girasoli, sempre rivolti verso l'amore."

Spiegò Manuel, agitando una mano in aria per accompagnarsi, poi fece una risatina imbarazzata.

"Nella mia testa aveva più senso, giuro."

Eppure Simone sentì il senso di quelle parole, di quel simbolo così speciale, arrivargli fino al cuore e non ebbe problemi a farlo proprio. L'espressione del suo viso, se possibile, si fece ancora più dolce.

"Ha senso, Manuel, ed è un pensiero bellissimo. Te l'avevo detto che non poteva essere una sciocchezza!"

Manuel venne folgorato dalla bellezza di Simone in quel momento, con i suoi occhioni luminosi e il suo sorriso dolcissimo, come spesso accadeva. Simone era un bel ragazzo sempre, su questo non c'erano dubbi, ma c'erano delle situazioni, anche le più semplici e quotidiane  -quando ad esempio sorrideva in un certo modo oppure il Sole faceva un riflesso particolare nei suoi capelli-, in cui sembrava davvero una visione divina. Aveva una bellezza pulita ed era proprio questo che lo rendeva uno dei ragazzi più desiderati della scuola.

"Lo sai che sei proprio bello?"

Le parole uscirono dalle labbra di Manuel senza che lui avesse il tempo di controllarle, ma del resto anche se avesse potuto non l'avrebbe fatto.

Simone ridacchiò timidamente e si avvicinò a Manuel di quei pochi passi che li separavano.

"Anche tu. Proprio tanto."

Mormorò, stampandogli un bacio a fior di labbra, che ebbe l'effetto di far ridestare Manuel dal suo incanto. Il ragazzo si schiarì la voce, un po' impacciato.

"Comunque possiamo piantarli adesso, se te va..."

Disse, indicando la bustina con un cenno del capo.

"Ho già preparato le buche, ci mettiamo poco."

Simone annuì, entusiasta, e si lasciò condurre in angolo di quel piccolo ritaglio di giardino dove, grazie alla torcia del cellulare, poté distinguere sei piccole buche, tutte ad una certa distanza tra loro e profonde qualche decina di centimetri. Gli sarebbe piaciuto davvero tanto prepararle insieme a lui, ma era impensabile con la gamba ingessata, purtroppo, e per un attimo il suo viso gioioso si velò si malinconia.

"Ho scelto questo punto perché si vede dalla nostra stanza, così quando ci affacciamo al balcone possiamo vede' i nostri bei girasoli."

Spiegò Manuel, sorridente. Era stato molto preciso, aveva seguito le indicazioni di Virginia alla lettera, perché ci teneva che quei girasoli spuntassero e crescessero alti e forti.

"Sarà bellissimo, hai avuto un'idea meravigliosa...come tutte le altre, del resto."

Replicò Simone, orgoglioso, e Manuel fece una piccola smorfia.

"Dai, pe' così poco?"

Scosse appena il capo, divertito.

"Piuttosto, vie' qua e apri la bustina, per favore..."

Aggiunse, intercettando i pensieri dell'altro. Non voleva che si sentisse inutile o isolato, non era questo lo scopo della serata. Simone si avvicinò e lo ringraziò per la premura con un bacio sulla guancia, perché sapeva che Manuel gli aveva in qualche modo letto del pensiero. Manuel sorrise teneramente al piccolo bacio e poi cinse l'altro con un braccio, in modo che potesse reggersi in piedi e avere le mani libere.

"Ecco, tieni..."

Disse Simone, dopo essere riuscito ad aprire la bustina, seppur con qualche piccola difficoltà, porgendola all'altro. Manuel scosse il capo, divertito.

"Io ho scavato, te pianti. Devi mette tre semini in ogni buca, così ha detto tua nonna."

Simone sorrise come un bambino, quella piccola cosa lo rendeva enormemente felice. La premura di Manuel non smetteva mai di stupirlo.
"Grazie, Paperotto. Sei il fidanzato migliore del mondo."

Disse dopo aver piantato i semini, aiutato da Manuel che lo aveva sorretto, strofinando il naso contro la sua guancia. Manuel si sentì semplicemente al settimo cielo.

"E io dico che lo sei tu, Cerbiattino."

Rispose, accarezzandogli il fianco che ancora cingeva. Simone sorrise sghembo.

"Allora era proprio destino che ci incontrassimo!"

Disse morbidamente, guardando il suo ragazzo negli occhi. Non riusciva nemmeno ad immaginare una vita intera senza Manuel, l'aveva provata per sedici anni e non gli era piaciuta.

Manuel sorrise sghembo, perché Simone non aveva proprio idea -almeno per ora- di quanta verità ci fosse in quella frase.

"Destino, dici? Quindi ce credi?"

Domandò, interessato. Simone annuì, e intanto si chiese a cosa stesse pensando Manuel, perché era chiaro che dietro il suo sorriso ci fosse qualcosa.

"Sì, ci credo. Penso che siamo stati noi a scegliere di costruirci sopra, però le basi già c'erano."

Rispose tranquillo, ma con decisione. Manuel si spostò davanti a lui, lo prese per i fianchi e gli diede un bacio a fior di labbra, puntando poi gli occhi pieni d'amore nei suoi. Simone aveva indubbiamente ragione, e Manuel sapeva che aveva fatto la scelta migliore della sua vita quando aveva deciso di mettere il suo primo mattone accanto a tutti quelli che Simone aveva già posizionato per loro. Insieme, si erano costruiti una bellissima casa.

"È curioso che tu lo dica, sai?"

Mormorò, mantenendo il sorriso. Simone si accigliò appena, sempre più intrigato.

"Perché?"

Manuel fece una risatina e gli diede un altro bacio.

"Sei pronto all'ultima parte di questa serata?"

Chiese, con gli occhi che luccicavano emozionati e il cuore che batteva veloce nel petto. Simone annuì, completamente perso in quello sguardo luminoso, e sorrise di rimando.

"Guidami tu."

Sussurrò, senza esitare. Manuel lo condusse alla piscina, che nel suo progetto originale doveva essere la protagonista di un tuffo notturno, ma per forza di cose aveva dovuto scartare questa idea. Non si era perso d'animo, però, perché la parte più importante era rimasta invariata, quindi andava più che bene così. Accanto alla piscina aveva sistemato un materasso gonfiabile su cui fece sedere Simone, per stare un po' più comodi del solito -quando si sdraiavano semplicemente a terra- mentre guardavano le stelle. Prima, però, c'era da fare un'altra cosa.

"Comodo?"

Chiese con premura, accovacciato accanto a Simone, accarezzandogli il viso. Simone sorrise e strofinò la guancia contro la sua mano per fargli capire quanto stesse bene. Aveva capito che di lì a poco si sarebbero stesi a guardare le stelle, come la prima volta che avevano dormito insieme e come ancora altre, abbastanza da far diventare anche questo una loro piccola tradizione.

"Manchi solo tu..."

Sussurrò dolcemente, invitandolo con gli occhi a stendersi accanto a lui. Manuel, però, declinò l'invito scuotendo dolcemente il capo.

"Manca anche un'altra persona."

Si sporse a posare un bacio tra gli occhi perplessi di Simone e poi si alzò.

"Torno subito."

Disse, prima di spostarsi verso la casetta a pochi passi dalla piscina ed entrarvi. Simone lo seguì con lo sguardo, chiedendosi cosa volesse dire con quella frase, e dopo qualche secondo lo vide uscire e avvicinarsi con in mano un palloncino dalla forma strana, che non riusciva a distinguere bene al buio.

Quando gli fu accanto capì che si trattava di un dinosauro, un tirannosauro per la precisione, tutto verde e con un ringhio feroce sul muso. Era decisamente la cosa più strana che Manuel gli avesse mostrato quella sera e ridacchiò, vedendola.

"Ah, è lui che mancava all'appello?"

Domandò allegro, spostando gli occhi dal palloncino al suo fidanzato. Manuel fece una risatina un po' malinconica e poi scosse la testa. Simone perse il sorriso e si accigliò, notando il velo triste negli occhi dell'altro.

"Tutto bene?"

Chiese, un po' preoccupato, e Manuel annuì.

"Sì, va tutto bene, tranquillo, però te devo di' una cosa."

Si sedette sul materasso accanto a Simone, così vicino che i loro fianchi si toccavano, poggiando a terra il sasso a cui aveva legato il palloncino per non farlo andare via e di lato, accanto a sé, un tirannosauro di plastica, dei foglietti e una penna.

Simone seguì tutto con i propri occhi e, anche se Manuel non gli aveva ancora detto nulla, avvertì la propria gola chiudersi a causa di un groppo che stava cominciando a formarsi e che lo costrinse a deglutire.

Manuel prese la sua mano tra le proprie, accarezzandola con il pollice, e gli rivolse un sorriso mesto, ma dolce.

"Simo, io al destino non c'ho mai creduto. Me rifiutavo de pensa' che nella vita fosse tutto già scritto, che noi non avessimo il potere de cambia' anche solo una virgola di quel libro e che vivessimo giorno dopo giorno nell'illusione della libertà. Non lo potevo concepi', me sembrava troppo riduttivo, me sembrava una prigione, una condanna, ed è per questo che ho sempre voluto fa' de testa mia, in tutto, anche se voleva dire sbagliare o ficcarsi nei casini."

Cominciò a spiegare, cercando di recuperare le parole di un discorso che si era preparato da tempo, ma finendo per andare a braccio.

Simone lo ascoltava con attenzione, tenendo gli occhi fissi nei suoi, anche se la pensava un po' diversamente: lui, per mesi e mesi, era stato tormentato dalla confusione e avrebbe dato qualsiasi cosa per avere una strada già segnata, chiara e precisa, da dover semplicemente seguire senza la paura di scegliere o l'angoscia di aver fatto una scelta sbagliata. Capiva, però, il punto di vista di Manuel: lui era uno spirito libero, affamato di vita, fatto per esplorare. Gli sorrise, quindi, per fargli capire che lo sosteneva e l'altro lo ringraziò con lo sguardo.

"Poi è successa una cosa che mi ha fatto cambiare idea. Cioè, è successa più de dieci anni fa, però io l'ho scoperta da poco…"

Così dicendo spostò una mano per prendere il dinosauro in plastica che aveva portato con sé e lo porse a Simone, che lo prese con delicatezza e cominciò ad osservarlo, rigirandoselo tra le mani. Era chiaro che quel pupazzo avesse visto molti pomeriggi di giochi, aveva qualche graffio sul dorso, il muso un po' consunto rivelava la plastica gialla sotto la vernice verde che era venuta via ed aveva un artiglio spezzato alla zampa sinistra. Tutti quei segni d'usura, però, paradossalmente non lo rovinavano, perché erano la prova di quanto quel giocattolo fosse stato amato e di quanto, molto probabilmente, lo fosse ancora.

"È tuo?"

La domanda poteva sembrare banale, dal momento che era stato Manuel a portarglielo, eppure c'era qualcosa di famigliare in quel tirannosauro che non sapeva spiegarsi. Manuel accennò un sorriso.

"Sì, è stato mio per tanto tempo, non sai quanto c'ho giocato! Me lo portavo anche a letto, e certe volte, quando mi' madre non se ne accorgeva, lo infilavo nello zainetto e lo portavo pure a scola. Non lo tiravo mai fuori, però, per paura che qualcuno lo vedesse e lo rubasse. Me sentivo al sicuro se ce stava lui co' me, non me ne volevo mai separa'."

Spiegò, con la voce piena d'affetto per quel suo piccolo compagno d'avventure.

Simone sorrise teneramente all'immagine di un piccolo Manuel -l'angioletto biondo che aveva visto nella foto di Carnevale- che si stringeva al suo giocattolo preferito, in cerca di protezione, e si commosse.

"Ha anche un nome, questo piccoletto?"

Domandò, con il tono innocente di un bambino. Manuel annuì e fece una carezza con un dito sulla testolina del tirannosauro, sentendo le scaglie incise solleticargli i polpastrelli esattamente come quando era piccolo.

"Se chiama Dino di nome e Sauro di cognome…però non sono stato io a chiamarlo così, Simo."

Rispose, sollevando gli occhi verso l'altro, che subito li incrociò con i propri. Trattenne il respiro, perché il suo cuore aveva appena ricordato una cosa che la sua testa aveva dimenticato.

"Jacopo."

Sussurrò, mentre una lacrima gli scendeva sulla guancia. Manuel annuì e lo cinse con un braccio, posandogli un bacio sulla tempia.

"La sera in cui il tuo fratellino è stato portato in ospedale, c'eravamo anche io e mia madre ed è stato tuo padre a regalarmelo, il mattino dopo. Io non me lo ricordavo, me l'ha raccontato lei proprio mentre mettevamo Dino in uno scatolone, durante il trasloco."

Cominciò a raccontare, parlando lentamente e a bassa voce, con la testa di Simone poggiata sulla spalla e una sua mano stretta nella propria -mentre con l’altra Simone teneva stretto al petto il tirannosauro-.

"Quel pomeriggio eravamo andati al parco ed io ero caduto da un'altalena, sbattendo la testa. Poi mi conosci, so' un capoccione e nun me feci quasi niente…"

Simone interruppe il racconto con una risatina, tra le lacrime, e Manuel sorrise perché era esattamente quello il suo intento.

"Stavo in ospedale già da un bel po' quando portarono Jacopo, lo misero nel lettino accanto al mio. Quando mamma me l'ha raccontato, mi so' tornati in mente dei ricordi, qualche flash e niente di più, però…però mi ricordo bene che non piangeva, ed era strano perché in quella stanza i bambini piangevano un po' tutti, me compreso."

Fece una piccola pausa, il tempo di posare un bacio tra i capelli di Simone, che singhiozzava silenziosamente contro il proprio corpo.

"Lui invece no, se ne stava buono buono nel suo lettino, tenendosi stretto il suo pupazzo, e quasi sembrava che non ci fosse. Non ho idea di cosa pensasse, non so se in qualche modo sapesse cosa gli sarebbe successo, ma te posso di' che l'ospedale, quando sei così piccolo, sembra la casa degli orrori: fa paura, perché sei solo e circondato da gente che non conosci, che co' quei camici bianchi sembrano quasi fantasmi…eppure Jacopo era sereno, non aveva paura. Forse perché non era nemmeno solo."

Concluse, con voce morbida, accennando con il capo al dinosauro. Simone non aveva ricordi di quella notte, li aveva cancellati tanto tempo prima e, a differenza di altri, non erano più tornati. Questo scherzo del suo cervello lo faceva sentire terribilmente in colpa, perché non ricordava nulla degli ultimi momenti di vita di suo fratello e per questo motivo si aggrappò alle parole di Manuel con tutto se stesso: cercò di visualizzare quelle immagini davanti a sé, cercò di vedere il suo fratellino che dormiva tranquillo nel letto, come centinaia di volte doveva aver fatto insieme a lui, e fu felice di sapere che non avesse trascorso le sue ultime ore nella paura e nella solitudine.
Il pensiero lo rassicurò abbastanza da placare, seppur lentamente, i suoi singhiozzi e fargli riprendere il controllo del proprio respiro, anche se le lacrime non si fermarono. Manuel non smise un attimo di accarezzarlo e di posargli baci tra i capelli, dandogli tutto il tempo necessario a calmarsi, paziente e protettivo come Dino era stato con Jacopo, prima, e con lui, poi.

"Io al destino non c'ho mai creduto, ma Jacopo a modo suo ci ha uniti, ci ha dato le basi su cui abbiamo scelto de costrui', come hai detto tu, e vorrei ringraziarlo restituendogli il dinosauro in questa serata che è nostra, ma anche un po' sua."

Disse Manuel, con dolcezza, e Simone annuì, totalmente d'accordo con lui. Gli porse il giocattolo, accennando un sorriso, ma Manuel vi posò una mano sopra e lo portò di nuovo contro il suo petto.

"Simo, questo dinosauro mi ha aiutato tanto quando ero piccolo, ma era di Jacopo e adesso voglio darlo a te. Sono sicuro che anche lui lo vorrebbe. Pe' lui ho preso questo."

Avvicinò la mano al filo del palloncino e lo tirò un po', facendolo muovere. Simone se ne era quasi dimenticato, ma quando lo vide di nuovo fece una risatina, perché aveva capito cosa volesse fare Manuel, ed era una cosa molto bella.

"Grazie, Manuel, davvero. Grazie per avermi parlato di Jacopo, per aver pensato anche a lui..."

Mormorò con voce ancora appesantita dal pianto, ma con occhi felici che, come due pozzi neri in cui si rifletteva la Luna, brillavano nella notte.

"Adesso lo sento un po' più vicino e ne avevo tanto bisogno..."

Sospirò.

"Ho pochissimi ricordi di lui, eppure mi manca tanto. Ho vissuto praticamente tutta la mia vita senza di lui, ma a volte mi chiedo come sarebbe averlo qui con me, tutti i giorni. Mi chiedo cosa mi direbbe in certe situazioni, come reagirebbe in altre, cosa invece penserebbe, cosa si terrebbe dentro...e non so rispondermi."

Proseguì, rigirandosi il dinosauro tra le mani, su cui aveva puntato gli occhi. Ogni volta che si poneva una di quelle domande si rendeva conto di non essere in grado di darsi una risposta, anche se Jacopo era suo fratello, perché lui non lo conosceva. Non aveva avuto il tempo di conoscerlo.

"È così strano, secondo te?"

Domandò timidamente, accennando un sorriso imbarazzato.

"No, non è strano, Simo...non lo è per niente."

Rispose Manuel, con voce bassa e dolce, portando una mano su quelle dell'altro, sul dinosauro.

"Hai vissuto una perdita terribile, è normale che pensi a lui. Le domande che ti fai, anche se non conosci la risposta, sono un modo per tenerlo vivo nel tuo cuore, e non è una cosa strana, ok? È normale che ti manchi, anzi..."

Si separò un attimo da lui, il tempo di prendere un bigliettino e una penna, e glieli porse.

"...perché non gli scrivi qualcosa?"

Propose, incoraggiandolo con lo sguardo. Simone guardò il pezzo di carta bianca e sorrise, gli sembrava un'idea carina. Jacopo non avrebbe mai letto quel biglietto e lui ne era perfettamente consapevole, ma metter giù qualche parola per suo fratello, buttare fuori un po' di quel senso di colpa che si portava dentro, poteva solo fargli bene. Annuì, quindi, e prese gli oggetti che l'altro gli porgeva, posando Dino accanto a lui.

"Grazie, Manuel."

Disse semplicemente, con la voce che ancora tremava e con gli occhi lucidi che traboccavano di quella gratitudine. Manuel sorrise teneramente e gli accarezzò le guance con le dita, prendendogli il viso a coppa tra le mani, un po' per asciugarle e un po' per fargli una coccola. Sentiva che Simone aveva bisogno di entrambe le cose.

"Non c'è bisogno che mi ringrazi, Simo. Soprattutto per questo, ok?"

Simone annuì piano, accennando un sorriso, e poi quando Manuel abbassò le mani si concentrò sul biglietto. Aveva così tante cose da dire a Jacopo che non sapeva nemmeno da dove cominciare, ma si potevano riassumere tutte in una sola frase che, con mano sicura, scrisse al centro del biglietto:

'Ti voglio bene, fratellino mio.'

Senza dire nulla lo mostrò a Manuel che, dopo averlo letto, gli posò un bacio tra i capelli.

"Bene, adesso glielo spediamo. Puoi arrotolarlo, per favore? Tipo pergamena, hai presente?"

Disse con entusiasmo, mimando il gesto di arrotolare il foglietto con le dita. Simone sgranò gli occhi, sorpreso.

"Spedirglielo? In che senso?"

Manuel alzò agli occhi al cielo, divertito.

"Ma mi ascolti quando parlo? Ti ho detto che voglio restituirgli il dinosauro, no?"

E così dicendo avvicinò il palloncino, con sguardo eloquente. Simone scoppiò a ridere, estasiato, e la sua dolce risata risuonò in tutto il giardino.

"Tu, Manuel Ferro, sei un vero genio!"

Esclamò, procedendo finalmente ad arrotolare il biglietto. Manuel ridacchiò compiaciuto, ma più del complimento lo rendeva felice il fatto che Simone fosse felice.

"Io lo tengo fermo e tu leghi il bigliettino, ok?"

Così dicendo gli porse il capo del filo, che aveva provveduto a sfilare dal sasso, mentre con l'altra mano lo teneva saldamente. Simone avvolse il biglietto con lo spago, fece diversi giri in modo che fosse saldo e altrettanti nodi, perché voleva che arrivasse a destinazione. Una vocina nella sua testa gli suggeriva che si trattava di un pensiero stupido e infantile, ma il suo cuore non fece fatica a metterla a tacere. Se Manuel era riuscito a portarlo in un giardino fatato, a farsi aiutare da quelle stesse fate che lo abitavano per regalargli una canzone e a rendere entrambi imperatori, allora poteva anche far arrivare davvero quel messaggio a Jacopo.

"Ci sei, Simo'? Te lo posso lascia'?"

Chiese Manuel e Simone annuì, rafforzando la presa sul filo del palloncino che ondeggiava leggermente sulle loro teste, agitato dal venticello notturno.

"Quando ti senti pronto, lo fai volare."

Sussurrò Manuel, lasciandogli una carezza tra i capelli. Non aveva intenzione di mettergli fretta, come del resto non faceva mai, ma soprattutto in un momento intimo come quello.

Simone lo ringraziò con gli occhi e con un 'grazie' appena mimato con le labbra, poi spostò lo sguardo sul palloncino, sollevando il capo. Il cielo era limpido, c'erano pochissime nuvole, si vedevano le stelle e la Luna quasi del tutto piena illuminava la notte: il dinosauro non avrebbe incontrato difficoltà nel suo volo e certamente avrebbe trovato facilmente la strada che lo avrebbe portato da Jacopo.

 Fece un paio di respiri profondi e aprì la mano, liberando il filo e con esso il palloncino. Lo osservò sollevarsi con le labbra curvate in un sorriso e sentì di nuovo le lacrime scorrergli sulle guance, ma erano lacrime di felicità, di pace.

"Buon viaggio, Dino!"

Sussurrò Manuel, agitando una mano in segno di saluto verso il palloncino che saliva sempre di più. Simone venne attirato dalla sua voce e tornò a guardarlo, sorridendogli.

"Vieni Simo, guardiamolo volare."

Lo invitò l'altro, dopo essersi alzato in piedi per aiutarlo a stendersi, sistemandogli sotto la gamba rotta i due cuscini che aveva preparato.

"Comodo?"

"Manchi solo tu."

Rispose Simone, accarezzando il lato libero del materasso. In un istante Manuel si distese accanto a lui e le loro mani, in mezzo a loro, andarono ad intrecciarsi in un gesto istintivo. La sagoma del palloncino, in alto nel cielo, si poteva ancora distinguere anche se cominciava a farsi davvero piccola.

"È stata una serata stupenda, Manuel, sul serio. Davvero pensavi che potesse non piacermi?"

Esordì Simone, dopo qualche istante di silenzio. Manuel ridacchiò, imbarazzato, perché solo adesso cominciava a capire quanto fosse stato insensato quel pensiero.
"Sì, lo pensavo davvero. Temevo potesse esse troppo esagerata, troppo smielata, capisci che vojo di'? Oppure a volte pensavo che fosse troppo poco, troppo semplice, troppo banale...insomma, ogni giorno una paranoia diversa."

Simone prese ad accarezzargli il dorso della mano, intenerito da quei suoi timori. Li capiva, però, perché Manuel non lasciava troppo spesso vivere il suo lato più dolce, più poetico, non era abituato a quel lato di sé ed era naturale che un po' lo temesse. Si sarebbe abituato presto, però, ne era sicuro.

"E invece è perfetta, davvero perfetta."

Si voltò a guardarlo.

"Ora, per favore, potresti venire a darmi un bacio? Lo farei io, ma so già che se provo a muovermi inizi a dare di matto..."

"E infatti nun te move, vengo io!"

Esclamò Manuel, sollevandosi immediatamente. Lo sovrastò, portando un braccio sull'altro lato del suo busto e Simone lo seguì con lo sguardo. Rimasero a guardarsi per qualche secondo, a perdersi e ritrovarsi negli occhi dell'altro, poi si unirono in baci morbidi, lenti, interrotti soltanto da qualche risatina innamorata.

"Secondo te Dino è arrivato da Jacopo?"

Chiese Simone quando Manuel tornò steso accanto a lui, accarezzando il dinosauro di plastica che teneva accanto. Con l'altra mano, invece, accarezzava quella del suo ragazzo.

"Mh..."

Mormorò Manuel pensieroso, scrutando il cielo. Ne indicò un punto, poi, all'improvviso.

"No, vedi? È ancora lì, vicino a quella nuvola!"

Simone seguì l'indicazione del suo dito e, in effetti, scorse una minuscola figura che si librava nel cielo che, forse, era il palloncino.

"Ah sì, lo vedo, hai ragione. Beh, del resto deve essere un viaggio lungo..."

Commentò tranquillo e Manuel annuì.

"Ma ce la farà, vedrai. È un dinosauro forte, Dino, e la via è libera. Non avrà problemi."

Rispose, sicuro di ciò che diceva.

Rimasero poi in silenzio per un po' ad osservare il cielo stellato, piccoli piccoli sotto quel manto di stelle, ma con un amore più grande del mondo nei loro cuori, fino a quando il palloncino fu visibile in cielo. Proprio nell'esatto momento in cui scomparve alla vista, piccole gocce cominciarono a venire giù, picchiettando sul materasso e sui loro vestiti.

"No, che cazzo! La pioggia no!"

Esclamò Manuel, preoccupato, scattando a sedere.

"Sono due gocce, Manuel!"

Gli fece notare Simone, sorridente, ma l'altro gli era già andato vicino per aiutarlo ad alzarsi.

"Sì, ma il gesso nun se po' bagna'! Me spiace Simo, fine della bella serata..."

Disse, sconsolato, mentre gli dava una mano a tirarsi su.

"Beh dai, può tranquillamente continuare a casa."

Replicò l'altro, con voce allegra, porgendogli il dinosauro di plastica che doveva tornare a casa con loro, dal momento che lui aveva le mani occupate dalle stampelle e non poteva tenerlo. Manuel lo prese e gli sorrise, trovandosi in accordo con lui.

"Però mo' annamo che sta cominciando a peggiorare!"

Quando arrivarono in camera da letto, infatti, avevano entrambi i capelli e i vestiti bagnati, anche se per fortuna non completamente zuppi.

"Che palle, 'sta cazzo de pioggia nun ce voleva proprio..."

Borbottò Manuel, uscendo dal bagno dove era andato subito a recuperare degli asciugamani dopo aver fatto sedere Simone sul letto. Gli si avvicinò, cominciando a sbottonargli la camicia umida.

"Non te la prendere, Manuel..."

Disse Simone, senza perdere quel sorrisetto dolce e divertito che aveva decorato il suo viso da quando era cominciata la pioggia.

"...si vede che Dino è arrivato a destinazione."

Manuel si fermò per un istante, poi gli sorrise e liberò gli ultimi bottoni dalle asole.

"Pensi che sia opera di Jacopo?"

La domanda gli suonava quasi strana in bocca, era come se avesse un sapore che non conosceva, ma non era sgradevole. Da quando aveva pregato Dio di aiutare Simone ed era riuscito a salvarlo, a quelle cose ci credeva un po' di più.

"Ne sono sicuro!"

Esclamò Simone, deciso.

"Ti ricordi quando abbiamo visto quei video di me e Jacopo da piccoli?"

Manuel annuì mentre gli tamponava l'asciugamano sulla schiena, in modo da togliergli l'umidità da dosso.

"E ti ricordi che c'era quello in cui ci facevamo il bagnetto? Non smettevamo un attimo di schizzarci e secondo me questo è il suo modo per farmi capire che..."

Scrollò le spalle.
"...che mi vuole bene anche lui."

Sussurrò con voce morbida e dolce, piena di quell'affetto che provava per il fratello. Non era mai stato particolarmente credente, anzi riteneva che dopo la morte non ci fosse più nulla, eppure, in quel momento, aveva bisogno di credere alle sue stesse parole.

Manuel gli fece una carezza sulla guancia e gli posò un bacio tra i capelli -fin troppo bagnati!-, tornando poi a guardarlo.

"Sono sicuro anch'io che sia così. E ritiro tutto, questa pioggia è bellissima."

Disse, passandogli l'asciugamano sul petto. Simone abbassò lo sguardo, seguendo il percorso della stoffa arancione.

"Lo sai che posso farlo da solo, vero? Dovresti pensare a te stesso, anche tu sei tutto bagnato..."

Manuel scosse leggermente il capo e nel farlo qualche goccia d'acqua schizzò via dai suoi ricci, quasi a confermare le parole dell'altro.

"Certo che lo so, hai una gamba rotta, mica un braccio!"

Sorrise sghembo.

"Ma mi va, quindi lo faccio."

Così dicendo si alzò e scomparve in bagno per qualche secondo, tornando con il phon. Attaccò la presa alla spina vicino al comodino e cominciò ad asciugare i ricci scuri di Simone -dopo avergli sfilato la coroncina- che si agitavano come piccole onde sotto il getto d'aria calda, accarezzandoli con l'altra mano perché proprio non sapeva rinunciarci.

Simone chiuse gli occhi, un po' perché quelle carezze riuscivano sempre a farlo rilassare e un po' perché cominciava a sentirsi stanco, tra le emozioni della serata e l'effetto delle medicine che prendeva. Sorrideva, però, beato.

Manuel, rendendosi conto che l'altro rischiava di addormentarsi, direzionò il phon verso la sua faccia e Simone sussultò, sbarrando gli occhi.

"Ma sei coglione?"

Esclamò, allontanando il phon con una mano mentre Manuel ridacchiava.

"E tu te stai 'a addormenta'? Un po' de pazienza, ho quasi fatto..."

Rispose, riprendendo ad accarezzarlo. Simone, stavolta, si impegnò a tenere gli occhi aperti, e il sorriso tornò presto a farsi strada sulle sue labbra, era la costante di quella serata.

"Direi che sei asciutto."

Sentenziò Manuel, dopo avergli posato un bacio tra i capelli.

"Lo stesso non si può dire di te, invece."

Sottolineò Simone, preoccupato.

"Sì, lo so, n'attimo..."

Ribatté l'altro, mentre prendeva il pigiama di Simone. Lo aiutò ad indossarlo, stando ben attento alla gamba rotta, ovviamente, e poi sorrise, soddisfatto.

"Lavate i denti e poi te puoi mette a dormi', ok?"

Simone scosse il capo e prese il phon che Manuel aveva lasciato sul letto.

"Prima aiuto te, che ti conosco e so che saresti capace di andare a dormire con i capelli bagnati. Mettiti qualcosa di asciutto e poi siediti qua."

Disse, con sguardo eloquente e un tono che non ammetteva repliche, pur mantenendo quella nota dolce che sempre lo caratterizzava. Manuel non poté ribattere, e in realtà non aveva nemmeno intenzione di farlo, per cui indossò velocemente anche lui il pigiama e si accomodò sul letto, sorridente.

Simone non attese oltre, gli sfilò la coroncina e cominciò a prendersi cura dei suoi capelli che erano rimasti bagnati troppo a lungo, sperando in cuor proprio che non si prendesse un malanno, muovendoli un po' con la mano per farli asciugare meglio, ma anche per fargli qualche carezza di tanto in tanto. Manuel, dopo qualche minuto, si ritrovò a chiudere gli occhi, completamente rilassato sotto le cure dell'altro, e Simone naturalmente non perse l'occasione di ripagarlo con la stessa moneta, puntandogli il phon in faccia.

"Ma che fai, oh?"

Esclamò l'altro, colto di sorpresa, e Simone sorrise sghembo.

"Te stai 'a addormenta'?"

Domandò, imitando il tono che l'altro aveva usato prima. Manuel gli diede una leggera spinta -che nemmeno lo mosse-, divertito.

"No, me stavo 'a gode' le carezze del ragazzo mio, prima che decidesse de trasformarsi in un bambino dispettoso!"

Ribatté, pungente e sarcastico, guadagnandosi un altro getto d'aria calda in piena faccia, che cercò di parare con le mani. Simone rise e allontanò il phon, sostituendolo con le proprie labbra che posò su quelle dell'altro in un rapido bacio.

"Mi sono semplicemente abbassato al livello del ragazzo mio, dato che ha cominciato lui."

Gli diede un altro bacio, prima che potesse ribattere.

"Ora siamo pari."

Così dicendo riaccese il phon e riprese a passarlo sui ricci di Manuel, senza dimenticare le carezze.

"Direi di sì."

Mormorò l'altro, per fargli intendere che non avrebbe fatto altri dispetti, per quella sera. Voleva solo accoccolarsi accanto a lui, approfittando anche della temperatura un po' più fresca –‘grazie, Jacopo’- e dormire sereno tutta la notte. Simone era animato dallo stesso identico desiderio, perché il ritmo dei loro cuori era sulla stessa lunghezza d'onda.

"Sei asciutto anche tu, ora."

Annunciò Simone, facendo un'ultima carezza tra i ricci dell'altro per accertarsene.

"Grazie, Simo."

Disse Manuel, con un sorriso, sporgendosi a dargli un bacio sull'angolo delle labbra prima di alzarsi.

"Adesso bagno e poi nanna."

Aggiunse allegramente, aiutando Simone a tirarsi su. Si prepararono per la notte, e perfino un'attività banale come lavarsi i denti diventava speciale se fatta uno accanto all'altro, e poi, tornati in stanza, Manuel aiutò Simone a sistemarsi nel loro nuovo letto, assicurandosi che stesse comodo e che la gamba fosse nella posizione corretta. Si stese poi accanto a lui, tirando un sospiro di sollievo mentre si stiracchiava. Simone lo guardò un po' preoccupato.

"Sei esausto, non è vero?"

Sapeva che era solo colpa sua se l'altro era arrivato così stanco a fine giornata, era senz'altro molto pesante stargli continuamente dietro, accompagnarlo da una parte all'altra e aiutarlo in ogni cosa.

Manuel, intercettando cosa si nascondesse dietro quella domanda, gli sorrise e, giratosi su un fianco, portò una mano sulla sua guancia per accarezzarlo.

"Sono solo un po' stanco, niente che una bella nottata de sonno accanto a te nun possa fa' passa'."

Disse, guardandolo negli occhi.

"E lo so a cosa stai pensando, non è colpa tua. Nun te fa' paranoie inutili, per me non è un peso aiutarte, nun me stanco."

Simone abbozzò un sorriso, come sempre il suo ragazzo gli aveva letto nel pensiero -ma del resto ora erano due metà riunite come l'uomo all'origine dei tempi secondo Platone, e in quanto tali avevano un pensiero unico-, ma restava comunque preoccupato. Sarebbe rimasto con quel gesso alla gamba per mesi e Manuel non poteva andare avanti così.

"Non puoi continuare a fare tutto da solo, Manuel, finirai con lo stancarti davvero. Da domani fatti aiutare da mio padre ogni tanto, te lo chiedo per favore."

Disse, portando una mano sulla sua per accarezzarla. Manuel sospirò e, pur di far sparire la preoccupazione da quegli occhioni che quasi lo guardavano imploranti, acconsentì annuendo.

"Va bene, se ti fa stare più tranquillo lo faccio. Mo' però vediamo de dormi', che sei stanco pure tu..."

Quasi non fece in tempo a terminare la frase, che il suo cellulare cominciò a vibrare con insistenza a causa di una telefonata. Manuel si voltò in direzione del fastidioso rumore, sbuffando, e si maledì mentalmente per aver lasciato il telefono sulla scrivania -lontana- e non sul comodino -vicino-. Doveva rispondere, però, perché era sicuramente sua madre -del resto, chi mai avrebbe potuto fargli una telefonata invece di mandargli un messaggio?- e quindi si trascinò fuori dal letto, sospirando.

"Ciao, ma'... sì, tutto a posto...no, siamo rientrati, lo so pur'io che piove, guarda che stamo a Roma anche noi, sai? Ce stavamo mettendo a dormi'...ok, va bene...sì, te lo saluto... buonanotte anche a te...ciao, ciao."

Chiuse la telefonata e sbuffò, avvicinandosi di nuovo al letto. Simone, che aveva osservato tutta la scena sogghignando divertito, subito allargò le braccia per accoglierlo.

"Spegni quel coso e vieni qui, ti faccio tornare il sorriso."

Manuel, che già stava sorridendo solo a quella proposta, tornò ad accigliarsi quando vide le numerose notifiche di messaggio proprio mentre stava per spegnere il telefono. Si sedette sul suo lato del letto, aprì l'icona dell'app e quando lesse il nome del mittente della maggior parte di quei messaggi, l'impulso di scaraventare l'oggetto dalla finestra si fece davvero forte.

"Che palle, ma ancora insiste, questo?"

Borbottò, nervoso. Simone gli rivolse uno sguardo comprensivo, intuendo chi potesse aver scatenato quella reazione in Manuel -anche se l'aveva praticamente rimosso- e allungò una mano verso di lui, ad accarezzargli il braccio.

"Roberto?"

Manuel annuì, sbuffando di nuovo.

"M'ha mandato più di venti messaggi da quello che t'ho fatto vede' oggi. Possibile che non capisca?"

"Beh, se lui non capisce tanto vale rispondergli, no? Così smetterà di rompere..."

Propose Simone, paziente, ma Manuel fece un verso di disappunto.

"Lo so, però non volevo dargli tutta quest'importanza, non se la merita...e poi un po' lo conosco, quando se fissa su una cosa insiste finché non la ottiene. Continuerebbe comunque ad assillarmi."

"Beh, allora o lo blocchi oppure gli diamo una risposta che gli faccia perdere ogni speranza..."

E così dicendo Simone allungò una mano per farsi dare il cellulare, con un sorriso sghembo stampato in viso: aveva già un'idea. Manuel lo guardò intrigato e, senza esitare, gli diede il telefono.

"Che hai in mente?"

Domandò incuriosito, stendendosi accanto a lui.

"Posso...posso dirgli che sei il mio fidanzato?"

Chiese l'altro, prima di fare qualunque cosa, guardandolo negli occhi. Dire alla loro famiglia della loro relazione era stata quasi una necessità, parlarne con i compagni di classe era stato naturale -e tutti si erano dimostrati molto accoglienti nei loro confronti, perfino Matteo dopo un breve periodo di incredulità aveva accettato la cosa-, ma quella sarebbe stata la prima volta in cui avrebbero detto del loro rapporto ad una persona che non faceva parte del loro cerchio più intimo e che, anzi, era praticamente uno sconosciuto. Dire a Roberto che lui e Manuel erano fidanzati significava dirlo al mondo intero e non sapeva se Manuel fosse pronto a compiere questo passo. Non l'avrebbe certo forzato per una cosa così stupida, in ogni caso.

Manuel sorrise e prese la mano libera di Simone nella propria, posandovi un bacio. Se avessero detto a Roberto della natura della loro relazione in breve tempo la notizia si sarebbe diffusa in tutta la sua vecchia classe e poi senz'altro anche in tutto il resto della scuola, forse anche prima dell'inizio del nuovo anno scolastico o comunque immediatamente dopo...e lui sorrideva, perché non gli importava minimamente. Per troppo tempo aveva avuto paura di rivelare la verità sul proprio cuore perfino a se stesso, in parte anche per paura dei giudizi della gente, ed era certo che questi non sarebbero mancati, che il chiacchiericcio nei corridoi del liceo li avrebbe seguiti come un'ombra per un bel po' di tempo, ma lui non aveva più intenzione di nascondersi. Se Simone era pronto a farlo, come gli stava dimostrando, allora lui lo era altrettanto.

"Urlaglielo, Simo'! Facciamolo rosica' come se deve!"

Esclamò convinto, cingendo l'altro con un braccio e dandogli un bacio sulla guancia. Simone ridacchiò, rivolgendogli uno sguardo orgoglioso, e poi tornò a concentrarsi sulla chat. Come aveva deciso, selezionò l'icona del messaggio vocale.

"Ciao Roberto, sono Simone, quello bello della classe di Manuel. Ti chiedo scusa a nome del mio ragazzo se non ti ha risposto subito, ma la colpa è solo mia perché era impegnato con me. Immagino che adesso tu non ci voglia più al tuo compleanno, ma ti libero da ogni imbarazzo dicendoti che non ci saremmo venuti in ogni caso, senza offesa. Divertiti, comunque, eh!"

Disse pungente, con finta cordialità. Prima che potesse inviare il messaggio, però, Manuel gli fece segno di aspettare un attimo. Aveva una cosa da dire.

"Robbe', giusto pe' esse chiari, sappi che Simone non solo me passa i compiti de matematica, ma me la spiega pure! Il giorno della tua festa c'è una lezione, me spiace ma nun possiamo proprio veni'! Stamme bene!"

Aggiunse, altrettanto pungente, per poi far segno a Simone di inviare il messaggio. Non appena questo partì, entrambi scoppiarono a ridere senza riuscire a fermarsi per un bel po', tanto da avere le lacrime agli occhi.

"Oh, certo che sai essere uno stronzetto, quando vuoi! Meno male che a me me vuoi bene!"

Esclamò Manuel, con la voce ancora piena di risate. Simone sollevò le sopracciglia, sorpreso, ridendo ancora.

"Ah, dici a me? E tu, allora, che ti sei messo a parlare delle lezioni di matematica?"

Replicò con tono allusivo, ridendo poi di nuovo a sua volta.

"Oh, se deve rosica', deve rosica' bene!"

Si difese Manuel, prendendo il telefono dalle mani di Simone. Lo spense e lo mise da parte, portandosi poi su di lui.

"Beh, direi che possiamo considerare definitivamente chiuso il capitolo 'Roberto'."

Mormorò soddisfatto Simone, sollevando una mano per accarezzargli il viso.

"Sono tanto orgoglioso di te, per questa cosa che hai fatto."

Sussurrò più dolcemente, rivolgendogli uno dei suoi dolci e morbidi sorrisi che riservava solo a lui. Anche Manuel si sciolse in un sorriso, più timido, e fece incontrare quelle due mezze lune di felicità in un bacio leggero.

"Far rosica' Roberto? Beh sì, capisco perfettamente."

Scherzò, come sempre poco abituato a prendersi i complimenti, e Simone gli diede un leggero buffetto con la mano che lo stava accarezzando.

"Dai, non fare lo scemo! Lo sai che intendo!"

Manuel sospirò e annuì, lentamente.

"Sì, lo so, lo so...me lo dici sempre che sei orgoglioso di me."

Restò in silenzio per qualche secondo, facendo scorrere gli occhi su quel volto che amava con ogni briciolo del suo essere e che aveva sempre amato, fin dal primo attimo in cui lo aveva visto, anche se aveva impiegato mesi a realizzarlo.

"E anch'io lo sono di te, sai?"

Mormorò, accompagnando le carezze dei propri occhi a quelle del dorso del suo dito indice, che prese a far scivolare sulla guancia liscia dell'altro, lentamente, su e giù.
"Per quello che ho detto a Roberto?"

Domandò Simone, incuriosito e divertito, guadagnandosi uno sbuffo di disappunto da parte di Manuel.

"Adesso sei tu che stai facendo lo scemo, eh!"

Gli fece notare, e Simone ridacchiò.

"Dico sul serio, non lo so!"

Esclamò, con gli occhi grandi che traboccavano di curiosità, ma anche di un certo imbarazzo. Manuel gli sorrise, dandogli un altro bacio.

"Sono orgoglioso di te perché hai sempre avuto il coraggio di seguire il tuo cuore, sempre, nonostante tutto."

Le labbra di Simone si curvarono su un solo lato, in un piccolo e timido sorriso.

"Beh, di certo non stavo seguendo la testa quando ho deciso di provare a baciarti così, dal nulla, al museo di Zoologia..."

Replicò, con voce bassa e piena di vergogna. Manuel accennò una risatina, dandogli l'ennesimo bacio per tranquillizzarlo.

"Forse sul momento non è stata una decisione molto saggia, ma se non l'avessi presa, io non avrei mai capito che provavi qualcosa per me. Col senno de poi, so' stato più stupido io a rifiutarte."

Simone inclinò leggermente il capo da un lato, verso la sua mano. Con la propria, invece, salì ad accarezzargli un fianco, sollevando quanto bastava la maglietta.

"Davvero non l'avevi capito? Proprio per niente?"

Domandò, curioso. Manuel scosse leggermente il capo, ridacchiando imbarazzato.

"Zero totale, Simo', te lo giuro. Da quanto ne sapevo io te piacevano le ragazze, c'era stata pure la questione di Laura, che t'aveva fatto crede d'esse rimasta incinta..."
Sorrise sghembo, gli occhi illuminati da un lampo di malizia.

"E per fartelo credere, qualcosa dovevate aver combinato, no?"

Sottolineò con voce provocante, e Simone annuì, arrossendo leggermente. Manuel sentì la sua guancia farsi un po' più calda sotto la propria mano.

"E poi, sinceramente, anche se non fosse stato per questo, non avrei mai pensato che un perfettone come te se potesse innamora' de un disastro come me..."

Continuò, ma Simone subito lo interruppe.

"Tu non sei un disastro, non lo dire più."

Disse con dolcezza, sollevando il capo per baciarlo. Manuel si sciolse in un dolce sorriso, era incredibile il modo in cui Simone non perdeva occasione di difenderlo, perfino da se stesso.

"Lo so, o meglio, lo sto capendo... però mesi fa la pensavo così. Vedi, Simo..."

Fece una pausa e spostò lo sguardo verso il muro alla ricerca delle parole giuste, che però trovò solo quando tornò a fissare gli occhi in quelli dell'altro. Simone attese le sue parole in silenzio e gli sorrise incoraggiante quando si accorse che era di nuovo pronto a parlare: a volte i pensieri di Manuel si comportavano ancora come cuffiette annodate e sapeva che per lui non era sempre facile districarli. Valeva sempre la pena attendere, però, perché poi da quei pensieri -così come dalle cuffiette- veniva fuori musica bellissima.

"La mia unica relazione seria era stata con Chicca, e anche lei c'ha i suoi casini esistenziali, anche lei a modo suo è un disastro come me, e questo lo dico con affetto, eh."

Cominciò a spiegare Manuel, riprendendo anche ad accarezzare Simone, ma stavolta si spostò più in alto, sulla sua tempia, dove prese a tracciare figure astratte tra i capelli. Parallelamente, come in un meccanismo preciso, anche Simone spostò la mano dal fianco alla schiena di Manuel, il quale liberò un sospiro d'approvazione che gli rese anche più facile proseguire il suo discorso.

"Stare con Chicca era facile, quindi, perché siamo simili, forse anche troppo."

Fece una risatina, a cui si aggiunse quella dell'altro.

"Poi c'è stata Alice e lei...beh, lei era l'opposto di Chicca, l'opposto mio. Era più simile a te, almeno in apparenza."

Simone fece una smorfia.

"Guarda che così mi offendi, eh!"

Esclamò scherzoso, e Manuel subito provvide a cancellare quella smorfia a suon di baci, ridacchiando.

"Ho detto in apparenza! Avevate tutti e due una bella casa, una vita tranquilla, senza impicci, te eri bravo a scuola e lei nel suo lavoro, insomma eravate due perfettoni."

Sospirò.

"E un disastro come me, davanti ad una perfettona come lei, nun se sente all'altezza, mai."

Concluse con voce più mesta, abbassando lo sguardo. Aveva parlato di Alice, ma il discorso si riferiva anche a Simone, nella misura in cui era stato proprio quel pensiero a fargli credere di non essere degno del suo amore, pensiero di cui ogni tanto sentiva ancora gli strascichi.

Simone, in verità, aveva capito fin da subito il senso di quel paragone, anche se si era permesso di scherzarci su, ma era proprio per questo che non gli piaceva: Alice aveva respinto la diversità di Manuel, lui invece l'aveva abbracciata. Lo avvolse tra le braccia, facendo toccare i loro corpi più di quanto già non facessero, e lo baciò morbidamente. Manuel, in quel bacio, liberò un sospiro di sollievo.

"Ed è per questo che non pensavi potessi amarti, prima, e che non fossi adatto a me, poi."

Sussurrò Simone sulle sue labbra, guardandolo negli occhi. Manuel accennò un sorriso, completamente rilassato in quell'abbraccio.

"Però, siccome te sei infinitamente meglio de Alice, m'hai fatto capi' che non è così. È per questo che siete simili solo in apparenza, te e lei."

Simone sorrise, più sereno, e lo tirò a sé per un altro bacio. Manuel, però, si fermò un istante prima, posando l'indice sulle sue labbra.

"Quindi, alla luce di tutto questo, sii orgoglioso del tuo cuore avventato, Simone Balestra, perché senza adesso saremmo entrambi molto più tristi."

Simone annuì, sorridendo sotto il suo dito, su cui posò un piccolo bacio.

"Molto più soli..."

Aggiunse, e subito dopo Manuel fece scivolare via la mano, che portò in alto, tra i suoi ricci scuri, e annullò la già poca distanza tra i loro visi.

"E non potremmo fare questo..."

Mugolò quando si separarono per riprendere fiato e Simone ridacchiò.

"E nemmeno questo..."

Replicò, sollevando la testa quel poco che bastava a posare un bacio sulla punta del suo naso. Si spostò poi a destra, su uno zigomo, e a sinistra, sull'altro, e poi in mezzo agli occhi, sulla fronte, ancora e ancora ovunque riuscisse ad arrivare. Manuel era gioioso e mugolava di conseguenza.

"Mi stai riempiendo di stelle, Simo..."

"Beh, è giusto così..."

Mormorò Simone, fermandosi un attimo per parlargli guardandolo negli occhi, innamorato.

"... perché tu sei il mio cielo, Manuel."

Manuel sorrise e strofinò il naso contro il suo in una morbida carezza.

"E tu il mio, quindi vorrei ricambiarti il favore..."

Sussurrò piano, e quando Simone gli sorrise di rimando gli diede un bacio in mezzo agli occhi, poi un altro sulla punta del naso e poi più di uno su ciascuna guancia. Simone si rilassò completamente sotto quelle attenzioni e chiuse gli occhi, lasciandosi cullare. Manuel, allora, gli posò un bacio su una palpebra e poi sull'altra, affettuoso.

"Sei proprio stanco, Cerbiattino, eh?"

Chiese teneramente e Simone mugolò in risposta, ancora ad occhi chiusi.

"Bacio della buonanotte?"

Domandò ancora, con il medesimo affetto, e Simone sollevò le palpebre perché voleva guardarlo prima di addormentarsi definitivamente.

"Bacio della buonanotte."

Rispose, con voce già piena di sonno, e dischiuse leggermente le labbra, invitando così quelle di Manuel che non si fecero attendere. Manuel, poi, si sistemò accanto a lui, cingendolo con un braccio, ma Simone scosse il capo.

"Vieni più qua, se vuoi..."

Disse, toccandosi il petto con una mano.

"Ora non ci sono fili fastidiosi, lo puoi fare."

Aggiunse con un sorriso. Era così, non stavano più in ospedale, ma a casa loro, nella loro stanza, nel loro letto, e potevano dormire come preferivano, senza che nessuno potesse dire nulla.

Manuel ridacchiò, allegro, e dopo aver posato un bacio all'altezza del cuore di Simone -era sicuro che fosse in quel punto preciso, ormai l'aveva imparato per tutte le volte che lo aveva ascoltato battere- vi si sistemò con la testa, mantenendo però il braccio intorno a lui.

"Sei il cuscino migliore del mondo, Simo'."

Simone fece una risatina e portò una mano tra i suoi ricci, che prese ad accarezzare pigramente, mentre l'altra finì sul suo braccio, per ricambiare l'abbraccio.

"E tu la coperta migliore del mondo, Manuel."

Ridacchiarono insieme, felici e sereni, e quella risata sfumò piano piano in respiri profondi, lenti, ma altrettanto pieni di gioia. Si addormentarono così, stretti l'un l'altro, in un abbraccio che nessuno avrebbe più potuto sciogliere.

L'Amore era tornato al proprio posto.

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Capitolo 25
*** Piccolo extra - Cerbiattino e Paperotto ***


Spazio autrice: come suggerisce il titolo, questo è un piccolo momento extra nato da un meraviglioso disegno regalatomi da quel pezzo di cuore che è Bluebandit16 (purtroppo non riesco a caricarlo, ma vi lascio il link del profilo IG con tutti i suoi disegni perché meritano https://www.instagram.com/bluebandit16/ ). Sto lavorando ad un'appendice vera e propria su Claudio e Domenico, purtroppo è un periodo un po' pieno e non riesco a dedicarci molto tempo, ma arriverà, promesso. Buona lettura ❤

“Hey, guarda un po’ qua cosa mi è uscito tra i suggeriti…”

Disse Domenico, sorridendo, indicando con un piccolo cenno del capo un angolo dello schermo del pc. Claudio, seduto sul divano accanto a lui, seguì con lo sguardo la sua indicazione e fece una risatina, profondamente divertito.

“Dobbiamo assolutamente prenderle ai ragazzi.”

Commentò, deciso. Domenico spostò lo sguardo verso di lui, sollevando leggermente la testa.

“Lo sai che rischiamo di perdere i nostri testimoni, vero?”

Fece notare, ma con leggerezza. Era un rischio che era ben disposto a correre, in fondo sapeva che fosse del tutto inesistente. Claudio scacciò l’obiezione con un vago gesto della mano, ridacchiando teneramente.

“Tu hai presente come si chiamano quei due tutto il tempo, sì? Non possono permettersi di dire o fare nulla!”

Replicò, con lo stesso tono deciso che usava quando era praticamente sicuro di vincere una causa prima ancora che iniziasse il processo, ma ammansito dall'affetto che provava per Simone e Manuel.

Domenico scrollò ridacchiando le spalle e annuì; non aveva bisogno di molto per essere convinto, dato che anche lui aveva tutta l’intenzione di fare quel regalo ai due ragazzi, a cui voleva un gran bene.

“Le aggiungo alle nostre, allora.”

E così dicendo modificò l’ordine, confermandolo un attimo dopo.

“Ecco fatto! Arriverà tutto lunedì prossimo.”

Esclamò, soddisfatto. Claudio si sporse a dargli un bacio sulla guancia per ringraziarlo e Domenico mugolò, felice.

“In tempo per la festa e per il vero regalo. Ho già preparato tutti i documenti…”

Sussurrò l’avvocato, accarezzando la pelle dell’altro con la punta del naso. L’ispettore liberò un sospiro rilassato.

“Siamo proprio efficienti…”

Commentò, la voce resa un po’ più bassa dalla profonda beatitudine che gli infondevano sempre, senza mai fallire, quelle piccole attenzioni che la propria metà sapeva riservargli. Claudio annuì, e così facendo mosse di nuovo il naso sulla guancia coperta di morbida barba, volutamente.

“Siamo una società perfetta.”

Mormorò, prima di schioccare un altro bacio su quel viso tanto amato. Subito dopo prese il portatile poggiato sulle gambe dell’altro, lo posò sul tavolino di fronte a loro e ne prese il posto, ricongiungendosi con la propria metà.

“Peso?”

Chiese a bassa voce, accarezzandogli il collo con una mano. Immediatamente, i loro occhi si incontrarono e si persero, innamorati, gli uni negli altri.

“Neanche un po’.”

Rispose Domenico, che lo avvolse con le braccia e lo tirò un po’ di più su di sé per invitarlo a smetterla di fare leva sulle ginocchia per non pesargli, non era necessario. Claudio colse l’invito e si lasciò andare con una risatina leggera, posandogli un bacio in mezzo agli occhi verdi che splendevano di felicità e da lì si spostò ovunque capitasse, riempiendolo di baci ancora e ancora. Domenico, istintivamente, reclinò il capo sullo schienale del divano per offrirsi meglio a quei baci, e portò una mano tra i capelli di Claudio per ricambiare quelle attenzioni con le proprie.

Nessuno dei due aveva intenzione di smettere di amarsi, quella sera e per sempre.

*****

“È tutto a posto, Cerbiattino? Possiamo anda'?”

Chiese Manuel con dolcezza, gli occhi pieni di premura rivolti al ragazzo che gli stava di fianco e Simone annuì, sorridente, rivolgendogli uno sguardo vispo.

"Sì, Paperotto, non ti preoccupare. Sto bene, è anche per questo che festeggiamo, no?"

Erano trascorsi quattro mesi da quella brutta avventura che aveva segnato le loro vite, ma adesso potevano dire di averla superata del tutto. Appena una settimana prima, infatti, erano andati in ospedale per rimuovere il gesso, la sua ultima testimonianza. Simone aveva ancora bisogno di una stampella per muoversi e doveva indossare un tutore, ma stava molto meglio e con un po' di fisioterapia, aveva assicurato il dottor Bonvegna, sarebbe tornato come nuovo.

Manuel allora aveva insistito per organizzare una piccola festa, niente di esagerato, e Simone naturalmente aveva accettato, a patto che cogliessero l'occasione per festeggiare, essendo ormai Novembre inoltrato, anche i suoi diciott'anni, che Manuel non riteneva così importanti, ma che secondo Simone invece andavano celebrati, perché tutto ciò che riguardava Manuel, per lui, era importante. Così per quel giorno, il 16, avevano organizzato un pranzo alla Villa con qualche amico, preferendo evitare locali o ristoranti per non far stancare troppo Simone, aiutati del fatto che il giorno successivo avrebbero avuto assemblea a scuola e che quindi non avrebbero avuto bisogno di fare i compiti.

Manuel ricambiò il sorriso, annuendo appena.

"Scusa, scusa, c'hai ragione...so' er solito apprensivo."

Si passò una mano tra i capelli, dispiaciuto, e Simone mugolò di disappunto.

"No, non fare così, te li arruffi tutti!"

Esclamò, e subito con la mano libera, quella che non reggeva la stampella, si mise a sistemare i ricci ribelli, sfruttando il momento anche per accarezzarli. A dire il vero, non gli importava molto che i capelli del suo fidanzato non fossero in perfetto ordine -li amava in qualsiasi stato-, ma lo faceva perché sapeva che invece per Manuel era molto importante non mostrarsi trasandato in quell'occasione speciale, tanto che erano rimasti in bagno per più di mezz'ora dopo aver fatto lo shampoo per farli asciugare con calma.

Manuel sospirò sconfortato, alzando gli occhi per seguire con lo sguardo la mano di Simone che si muoveva con precisione, pazienza e affetto tra i suoi ricci. Liberò poi una risatina, perché in effetti la situazione era comica.


"Me sa che me devi da' qualche lezione in più de Perfettonologia, ne ho proprio bisogno..."

Simone scosse il capo e abbassò la mano, dato che i capelli ora erano a posto, portandola sulla sua guancia barbuta e morbida per accarezzarla. Fissò gli occhi nei suoi.

"No, non è vero. Sei bellissimo così, sai?"

Sussurro, innamorato. Naturalmente Manuel era bellissimo sempre, ma con il maglione nero a collo alto che aveva scelto di indossare lo era ancora di più.
Manuel sorrise sghembo e ruotò il viso quanto bastava a posare un bacio sul suo palmo, posando intanto la propria mano sulla sua. Tornò poi a guardarlo, fermo in quella posizione, occhi negli occhi.

"E perché, tu no?"

Sospirò, sognante.

"Sei illegale, cazzo."

E lo era davvero con quel maglione identico al suo, ma bianco.

Simone ridacchiò imbarazzato, per niente abituato ai complimenti del suo fidanzato.

"Sì, così illegale che stasera Domenico mi arresta."

Replicò ironico, cercando di dissimulare con una battuta. Per Manuel, però, fu l'occasione perfetta per rincarare la dose, mai stanco di riempire di complimenti il suo ragazzo.

"Eh, nun scherza', che potrebbe benissimo farlo! Lui se occupa de droga, no?"

"Sì, e allora?"

Chiese Simone, tra il divertito e l'incuriosito, decidendo di dargli corda perché voleva sapere cosa si fosse inventato adesso.

"E allora, tu sei stupefacente."

Rispose Manuel, smielato e serissimo al tempo stesso, con gli occhi che brillavano divertiti. Subito si fiondò a posare un bacio sulle labbra dell'altro, per sottolineare la cosa, da un lato, e non dargli modo di replicare, dall'altro.

Simone, infatti, impiegò qualche secondo a capire il gioco di parole, ma quando lo fece arrossì ancora di più, e al tempo stesso sorrideva a trentadue denti.

"Non l'hai detto davvero!"

Esclamò, divertito. Manuel sollevò un sopracciglio, furbescamente.

"Invece l'ho detto e se vuoi te lo ripeto pure!"

Scoppiarono a ridere insieme, allegri ed innamorati, così forte da farsi sentire dai primi ospiti che erano arrivati e che li aspettavano di sotto, testimoni della loro bolla d'amore.

*****

"Oh, mi raccomando, devi esprime un desiderio!"

Esclamò Chicca dopo aver acceso le candeline con l'1 e l'8 sulla torta del suo amico, sottolineando le sue parole con un vago gesto dell'indice.

Anche se era Novembre, l'inverno sembrava essersi preso una pausa in quella settimana, c'era un bel sole caldo che accarezzava piacevolmente la pelle e così avevano potuto allestire la festa in giardino.

Manuel fece uno sbuffo divertito e scosse appena il capo, quasi impercettibilmente.

"Non ne ho bisogno, Chi'."

Rispose a voce bassissima, ed era vero. Per prima cosa, lui ai desideri di compleanno non ci credeva molto, e comunque anche quelli che aveva espresso nel corso degli anni, solitamente soldi o serenità per sua madre -le due cose erano sovrapponibili-, non si erano mai avverati. In secondo luogo, non c'era davvero nulla che desiderasse al momento, perché tutto ciò di cui aveva bisogno era lì davanti a lui e perciò soffiò su quelle candeline tenendo gli occhi fissi su Simone, il suo unico desiderio diventato reale. Ecco, l'unica cosa che si sentiva di desiderare era che il suo ragazzo stesse bene, ma come gli aveva ricordato proprio lui una manciata di ore prima, stavano festeggiando anche per quel motivo.

Simone, naturalmente, raggiunse con i propri occhi i suoi, e i loro sguardi restarono così, abbracciati, per un tempo che sembrò infinito, mentre le figure degli amici e dei famigliari intorno a loro perdevano i contorni e le voci che cantavano Tanti Auguri a Te si facevano sempre più ovattate.

Non appena le due piccole fiamme si spensero, Simone si avvicinò al tavolo con il passo più deciso che il tutore e la stampella gli permettevano di avere e avvolse Manuel con il braccio libero, attirandolo in un bacio che l’altro ricambiò subito, prendendogli il volto tra le mani.

Matteo fece partire un coro di fischi e di applausi, ma loro non ci badarono. Non c'era spazio per altro, nella loro bolla sospesa.

Soltanto quando si separarono, dopo diversi secondi, si accorsero del fracasso che li circondava e si scambiarono uno sguardo divertito, senza una traccia di imbarazzo sui loro volti. Il loro amore era puro, sincero, e loro ne andavano fieri.

"Ao, ma mo' 'sta torta ce la fate magna' sì o no?"

Domandò Matteo con il suo solito tono scherzoso,incontrando il consenso degli altri compagni di classe, tranne di Chicca che invece gli diede una gomitata sul fianco.

"Ahia! Ma che ho fatto, oh?"

Si lamentò il ragazzo, facendo ridacchiare tutti gli altri.

"Lascialo sta', Chicca, er bimbo vuole la torta..."

Intervenne Manuel, sarcastico, ma non cattivo. Era troppo felice per esserlo.

"Vie' qua, la prima fetta è la tua."

Aggiunse, prendendo già il coltello per tagliare la torta, ma Simone lo trattenne afferrandogli il braccio.

"Aspetta! Facciamo qualche foto, prima. Dai, ci mettiamo poco..."

Disse guardandolo negli occhi, desideroso di riempire qualche altra casella del loro album di ricordi. Manuel gli sorrise, non potendo resistere a quegli occhioni grandi da cerbiatto, né alla prospettiva di aggiungere qualche foto. Lo baciò a fior di labbra, per dirgli che era d'accordo.

"Aurelia', ce pensi tu per favore?"

Chiese, allungando il proprio cellulare al suo amico. Nel giro di una decina di minuti venne realizzato un servizio fotografico di tutto rispetto, innanzitutto con fotografie ai due festeggiati da soli -che ne scattarono una guardando in camera, sorridenti, e un'altra baciandosi, perché la tentazione era troppo forte- e poi accompagnati dalla famiglia -Dante, Anita, Virginia e Floriana, che si era presa qualche giorno per stare con il figlio-, dagli amici di classe -un selfie in piena regola- ed infine da Claudio e Domenico -felici quanto loro-; fatto questo, finalmente, tutti ottennero la propria fetta di torta, anzi anche più di una visto che non restò nemmeno una briciola, e cominciarono a dare i regali ai festeggiati, anche se questi ultimi avevano fatto espressamente richiesta di non volerne.

"Manca solo il nostro, adesso!"

Esordì Claudio con un bel sorriso, sedendosi insieme a Domenico -altrettanto sorridente- al tavolino di Manuel e Simone, mentre tutti gli altri invitati erano sparsi un po' in giro per il giardino.

"Ma no, non dovevate!"

Esclamò Simone, sorpreso.

“Proprio voi, non ne avevate bisogno!”

Aggiunse Manuel, altrettanto stupito. Domenico fece una risatina.

"Fidatevi, dovevamo."

Accennò al compagno di tirare fuori il regalo e Claudio, dopo essersi scambiato un sorriso d'intesa con lui, estrasse dalla tasca della giacca un piccolo scatolino bianco, chiuso da un nastrino di stoffa dorato.

"Avanti, aprite. È per entrambi."

Disse sorridente, invitandoli a farlo con un gesto della mano.

I due ragazzi si guardarono, incuriositi, poi spostarono la loro attenzione sul pacchetto che Manuel avvicinò a loro. Tirarono un lembo del nastro ciascuno, Simone sollevò il coperchio ed entrambi liberarono un verso di puro stupore quando videro il contenuto all'interno.

"Ma...ma queste sono...?"

Esclamò Manuel, incredulo, prendendo il mazzo di chiavi nella scatola e stringendolo tra le mani per assicurarsi che fosse vero.

"Che...che significano?"

Chiese Simone, gli occhi fissi su quelle chiavi scintillanti che andò a sfiorare con le dita, facendole tintinnare, per lo stesso motivo.

"Significano che tu, Simone, non hai più la Vespa e noi abbiamo cercato una valida sostituta."

Replicò Claudio, con un sorriso soddisfatto sul volto.

"Praticamente è una moto con le ruote, potete guidarla con la patente che avete già. È per entrambi."

Aggiunse Domenico, altrettanto felice del fatto che il loro regalo fosse andato a segno.

I due ragazzi si scambiarono uno sguardo.

"Grazie, davvero, però non avreste dovuto, è troppo..."

Mormorò Simone, tornando a guardarli.

"Con tutto quello che già state facendo per noi, poi..."

Aggiunse Manuel, riferendosi al processo di Sbarra ancora in corso. Claudio scosse il capo, ridacchiando teneramente.

"Ma che c'entra? Quella è un'altra questione, che non riguarda solo voi. Questo regalo, invece, ve lo siete meritato, fidatevi. E poi anche voi avete fatto molto, per noi..."
Spostò lo sguardo su Domenico, che lo incontrò con il proprio e si sorrisero, prendendosi per mano.

Manuel e Simone non poterono obiettare, sapevano che era -anche- grazie a loro se si erano riavvicinati ed era bellissimo vederli uniti e felici, ma quel regalo...pensavano comunque che fosse esagerato.

"Che dite, vi va di vederlo, adesso? Può anche darsi che non vi piaccia..."

Propose l'ispettore, guardandoli di nuovo . I due ragazzi sgranarono gli occhi.

"Ma...ma perché, è qui? E dove?”

Chiese Manuel, incredulo, dando voce ai pensieri di entrambi, e i due uomini ridacchiarono.

"Certo che è qui, l'abbiamo portata stamattina, mentre eravate a scuola. Andiamo, su."


Rispose Domenico, alzandosi insieme a Claudio. Condussero alla rimessa  Manuel e Simone, che si avvicinarono all'auto ciascuno da un lato e ci girarono intorno, incontrandosi di nuovo dove erano partiti. Era piccola, giusto due sedili, di un bel colore nero metallizzato, ma sembrava fatta proprio per loro e già immaginavano i posti in cui sarebbero potuti andare, scambiandosi un bacio appena entrati e un attimo prima di uscire.

"Certo che però...se mi' madre la vede, dà de matto."

Commentò Manuel, grattandosi una guancia. Anita, infatti, non gli avrebbe mai permesso di accettare un regalo così costoso.

"E pure mio padre, come minimo ci farebbe una lezione sopra..."

Aggiunse Simone, sospirando sconfortato.

"Non vi dovete preoccupare, i vostri genitori già lo sanno. Non l'avremmo mai presa se non fossero stati d'accordo."

Li rassicurò Claudio, incoraggiante.

"Sì, l'avvocato, qui, ha fatto un discorso di tutto rispetto!"

Confermò Domenico, mettendogli un braccio intorno alle spalle e dandogli un bacio sulla guancia. Claudio ridacchiò, imbarazzato. Era abituato a ricevere i complimenti dei suoi colleghi o di altre persone dell'ambiente, tanto che non ci faceva quasi più caso, ma quelli di Domenico riuscivano sempre a mandargli il cuore in subbuglio.
"Ho soltanto esposto i vantaggi che avrebbe comportato, niente di che. Con questa, ora che Simone può uscire un po' più spesso, potete stare più comodi."

Spiegò, cercando di ridimensionare la portata del proprio intervento. Domenico se ne accorse e gli diede un altro bacio, incoraggiante. Aveva assistito alla discussione, che anche se si era sempre mantenuta educata e civile, era stata comunque abbastanza sentita.

"Sta facendo il modesto, fidatevi."

Simone e Manuel ridacchiarono, annuendo. Non facevano fatica ad immaginare la scena.

"Non è difficile crederci, conoscendolo..."

Disse il primo.

"E conoscendo anche i nostri genitori!"

Aggiunse il secondo, dando vita ad una risatina generale.

"Comunque, battute a parte, avete pensato proprio a tutto. Non sappiamo cosa fare, se non dirvi grazie."

Mormorò Simone, gli occhi grandi pieni di gratitudine, così come quelli di Manuel. Claudio sorrise, morbidamente.

"Voi non dovete fare proprio niente, solo godervi la libertà che vi spetta, mh?"

Replicò, dando un buffetto sulla guancia ad entrambi, che ridacchiarono.

"Però con prudenza, mi raccomando, perché all'ospedale non vogliamo più vedervi!"

Aggiunse Domenico, le labbra ricurve nello stesso sorriso dolce. Manuel guardò Simone con la coda dell'occhio, ripensando ai mesi passati che a volte sembravano ancora troppo vicini.

"Nun ce vogliamo fini' neanche noi, fidateve."

Simone intercettò il suo sguardo e si sporse a dargli un bacio sulla guancia, per tranquillizzarlo e ricordargli che erano lì, a casa, nel presente.

"E questa è una promessa."

Aggiunse rivolto a lui, che lo ringraziò con gli occhi, ma anche ai due adulti.

Si strinsero, tutti e quattro, in un abbraccio affettuoso e pieno di sorrisi.

"Ah, comunque, nel bagagliaio c'è un'altra cosa per voi!"


Fece presente Domenico, quando si sciolsero dall'abbraccio.

"Ah sì, fossi in voi aprirei!"

Gli diede man forte Claudio, scambiandosi con lui uno sguardo d'intesa.

Manuel e Simone si scambiarono uno sguardo perplesso ed incuriosito, ma preferirono fare quanto detto invece di perdersi in domande che tanto non avrebbero ricevuto risposta. Manuel aprì dunque il bagagliaio con le chiavi della -loro- auto e all'interno trovò un pacco regalo, incartato con una carta rossa brillante e chiuso da un fiocco dorato, abbastanza grande. Lo prese e notò che era piuttosto leggero, nonostante le dimensioni, ma questo non fece altro che aumentare la curiosità sua e di Simone, non appena lo vide a sua volta.

Si spostarono di nuovo in giardino, al tavolino che avevano occupato prima, e Manuel mise su un sorriso sghembo, furbetto.

"Ma nun è che niente niente m'avete fatto er pacco pieno de zozzerie? Guardate che poi ce vendichiamo al matrimonio!"

Commentò pungente, e Simone gli diede un leggero buffetto sulla schiena, ridacchiando. Claudio e Domenico scoppiarono a ridere, scuotendo il capo.

"Purtroppo devo ammettere che non ci abbiamo pensato! Eh, siamo noiosi, che ci vuoi fare."

Rispose l'ispettore, facendo spallucce.

"Forza, adesso aprite, su!"

Aggiunse l'avvocato, incoraggiante.

I due ragazzi non se lo fecero ripetere e, come due bambini a Natale, sciolsero il fiocco e strapparono via la carta senza ritegno, così come il nastro adesivo che teneva ferma l'apertura della scatola. La prima cosa che videro fu una busta di plastica trasparente, chiusa da una zip, che al suo interno conteneva una stoffa marrone a puntini bianchi, già molto morbida alla vista.

Claudio e Domenico si guardarono di sottecchi, d'intesa, con le labbra curvate in due mezzi sorrisetti furbi.

"Ma cos'è, una coperta?"

Chiese Simone, prendendo il pacchetto tra le mani. Non ebbe bisogno di ottenere una risposta perché, girandolo, si accorse che c'era una foto esplicativa, stampata su cartoncino, di ciò che stava guardando e no, decisamente non era una coperta. Dopo un attimo di confusione dovuta alla sorpresa scoppiò a ridere di cuore, gli occhi seminascosti da due fessure, le labbra che scoprivano i denti bianchi, ma che lui si coprì con una mano, e il busto che tremava, scosso dalla felicità.

Manuel, stupito da quella reazione, si sporse a guardare meglio e capì. Liberò una risata anche lui, profondamente divertito.

"No, vabbè, un costume da cerbiatto! Ma è perfetto pe' te, Simo'! Sai quanto te sta bene?"

Esclamò, affettuosamente canzonatorio, accompagnandosi da una perfetta faccia da schiaffi.

"Ridi, ridi, che tanto ce n'è anche per te..."

Ribatté Simone, un po' a fatica per via di tutto quel ridere. Aveva notato, infatti, che sotto il primo pacchetto ce n'era un altro, e se quello era da Cerbiattino, l'altro non poteva che essere da...

"...Paperotto!"

Concluse, esibendo anche lui un'espressione soddisfatta, anche se un po' smorzata dagli occhi ancora pieni di risate. Manuel sgranò gli occhi e li posò su Claudio e Domenico, allarmato.

"Non l'avete fatto davvero, vero?"

"Guarda tu stesso, no?"

Replicò Claudio, accennando con il capo alla scatola. Manuel sospirò, guardò nella scatola ed emise un mugolio di puro fastidio quando vide la stoffa di color giallo acceso nella seconda busta, che quindi prese con una certa riluttanza.

"Era proprio necessario, 'sto regalo?"

Si lamentò, posando di nuovo la busta nella scatola, per poi incrociare le braccia.

"Dai, non te la prendere. Le abbiamo viste e abbiamo subito pensato a voi, era  impossibile non farlo."

Rispose Claudio, con divertito affetto.

"Secondo me ce potevate riusci' benissimo."

Borbottò Manuel in risposta, e allora Simone lo avvolse con un braccio e lo tirò un po' più verso di sé, dandogli un bacio sulla guancia.

"Sono sicuro che starà benissimo anche a te."

Disse affettuoso, e sul viso imbronciato di Manuel apparve lo spiraglio di un sorriso, ma solo per il bacio. Per il resto, era convinto che sarebbe stato ridicolo.

"Dai, ti va se li proviamo? Io sono curioso..."

Proseguì ancora Simone, accarezzandogli la guancia con la punta del naso per prenderlo con le buone. Manuel sbuffò di nuovo, ritrovandosi a cedere molto facilmente.
"E va bene, però dopo, quando se ne saranno andati gli altri. E comunque questo è giocare sporco, Simo'."

Simone sorrise sghembo, sulla pelle dell'altro.

"Ne sono consapevole, sì."

E così dicendo gli diede un altro bacio, poi ancora un altro. Era per una buona causa.

*****

Attesero che in Villa Balestra-Ferro non restasse più nessuna traccia degli alunni dell'ormai quarta B e si spostarono in casa -precisamente in camera di Dante e Anita, che era al piano terra, così da non far fare inutilmente le scale a Simone- per cambiarsi.

"Guarda, Manuel, ha i cuoricini! È carino, no?"

Esclamò Simone, con voce ed occhi allegri. Aveva aperto la busta e sistemato sul letto la tutina, in modo da vederla per bene, e aveva notato che alcuni dei pallini bianchi che ricoprivano il manto marrone del cervo avevano appunto quella forma. Oltre a questo, sul retro c'era una codina bianca, all'insù, morbidissima, e in alto un cappuccio con le orecchie e il musetto dell'animale, corredato da due occhioni grandi e dolci. Era davvero molto carino.

Manuel si avvicinò per guardare e, nonostante tutto, ridacchiò quando notò quel particolare.

"Si vede che è un cerbiattino romantico come te!"

Mormorò, con la voce piena di tenerezza e gli occhi carichi di affetto, dando poi un bacio sulla guancia di Simone, che mugolò felice.

"Allora un po' ti piacciono, questi costumi!"

Manuel scosse il capo.

"Me piace er tuo, anzi mo' siediti che t'aiuto ad infilarlo."

Simone sospirò pazientemente e si mise a sedere sul lato corto del letto, non prima di aver rivolto a Manuel uno sguardo a sopracciglia inarcate, come a dire 'Guarda che non me la fai.'.

Manuel ignorò volutamente quell'occhiata per non darsi la zappa sui piedi, e dopo aver fatto cenno Simone di togliersi il maglione -avrebbe fatto troppo caldo con anche quello indosso, e poi sarebbe stato scomodo- aprì la zip che attraversava il pancino chiaro del costume aiutò il ragazzo ad infilarlo, stando ben attento alla gamba con il tutore.

Simone poi si alzò, reggendosi un po' a Manuel e un po' alla stampella, e si mise davanti allo specchio. Ridacchiò, perché si sentiva un po' buffo, ma non era una sensazione spiacevole.

"Come sto?"

Domandò, curioso, guardando il proprio ragazzo attraverso lo specchio mentre si sistemava una delle orecchie. Manuel, già abbastanza vicino a lui, si avvicinò ancora di qualche passo e gli diede un bacio sulla guancia, abbracciandolo da dietro.

"Avevo ragione, ti sta benissimo e sei bellissimo. Ma come fai, pure co’ questo coso addosso?"

Rispose dolcemente, incrociando il suo sguardo nello specchio con occhi innamorati. Simone abbozzò un sorriso, timido, arrossendo perfino un po', poi si schiarì la gola per cercare di ricomporsi.

"Vogliamo vedere se ho ragione anch'io?"

Manuel lasciò andare un sospiro, che conteneva tutta la rassegnazione nei confronti del proprio destino.

"Se proprio dobbiamo..."

Gli diede un ultimo bacio sulla guancia e si separò dall'abbraccio.

"Te però siedite 'n po', nun te sforza' troppo."

Simone fece una risatina, intenerito da quella sua premura che non aveva mai smesso di dimostrargli.

"Va bene, va bene..."
Si accomodò di nuovo sul letto, gli occhi fissi sul suo fidanzato.

Manuel si passò una mano tra i capelli, grattandoseli nervosamente, ed aprì la busta trasparente, tirando fuori la tutina. Osservò con le labbra arricciate in una smorfia di disappunto la coda piumata, le zampe palmate e il becco arancione che si rivelavano ai suoi occhi e per lui fu come fare una specie di viaggio nel tempo tornando, con qualche differenza, a quando aveva cinque anni e indossava quel costume di Carnevale.

Si sfilò rapidamente il maglione e si infilò nella tutina, chiudendola sul davanti, ma aveva qualche problema con il cappuccio, che sembrava essere scomparso. Si dimenava, allungando le braccia alla cieca per raggiungerlo, ma proprio non ce la faceva e Simone, vedendolo, decise di andare in suo soccorso.

"Aspetta, vieni qui, fermo!"

Esclamò, ridacchiando piano.

"Si è solo infilato dentro, aspetta..."

Spiegò, avvicinandosi. Manuel si fermò esattamente dov'era e lasciò che Simone gli sistemasse il cappuccio sulla testa. Simone, dal canto suo, sfruttò il momento anche per accarezzargli un po' i ricci ed il viso, sorridendogli con dolcezza. Si allontanò di un paio di passi, poi, per guardarlo meglio.

"Allora? Come sto? Me sembra troppo grande..."

Domandò Manuel dopo qualche istante di silenzio, sbattendo le braccia -anzi, le ali- sui fianchi.

"No, ti calza a pennello e stai benissimo, guarda tu stesso!"

Rispose Simone, entusiasta, indicando lo specchio. Manuel alzò gli occhi al cielo e, anche se non aveva poi chissà quanta voglia di vedersi in quello stato, si voltò solo perché l'entusiasmo di Simone era bellissimo. Ecco, lui invece di certo non lo era.

"Me sento ridicolo, Simo', guarda qua..."

Fece una piccola torsione su se stesso, da un lato e dall'altro, per avere un quadro più completo della situazione.

"Sembro un pollo."

Sentenziò, sconsolato. Simone scosse il capo, le labbra curve in un sorriso sghembo, e gli si avvicinò da dietro, avvolgendolo con il braccio libero.

"Non sei un pollo, sei un Paperotto e sei bellissimo, ti dico. Anzi, sai cosa? Hai anche un non so che di sexy."

Disse convinto, con voce bassa e profonda, prima di posargli un bacio sulla guancia. Manuel fu scosso da una risata cristallina, spontanea, e le sue guance si tinsero di una leggera sfumatura di rosso.

"No però nun me poi pija' pe' culo, dai! Questo no!"

Simone scosse il capo e gli sorrise attraverso lo specchio.

"Ma io sono serissimo, giuro!"

Manuel sollevò un sopracciglio, dubbioso.

"Ma se me trovi davvero sexy vestito così, sinceramente me inizio a preoccupa'."

Replicò, e Simone ridacchiò, malizioso. Sapeva esattamente cosa dire.

"Ma che posso farci, io, se anche con questo coso addosso sei bellissimo..."

Gli posò un bacio sulla guancia.

"...illegale..."

Un altro bacio.

"...e stupefacente?"

Un ultimo bacio, poi tornò ad incrociare il suo sguardo, sorridendo furbescamente.

Manuel rise di nuovo e le sue guance si fecero un po' più rosse, come accadeva solo con i complimenti di Simone.

"Sai qual è il guaio di quando fai così? Che nun te posso manco di' che so' stronzate, perché usi le stesse parole mie. Sei veramente troppo scaltro."

Simone ridacchiò, poi si spostò davanti a lui, guardandolo negli occhi per fargli capire quanto fosse sincero.

"Ho imparato dal migliore, ma comunque non ho detto stronzate, lo penso davvero."

Annullò la distanza tra loro per baciarlo e Manuel, che non aveva dubitato neanche un istante di quella sincerità, ricambiò e approfondì il bacio, tenendolo per la schiena e per la testa, perché anche se erano vestiti in quel modo assurdo, era passato decisamente troppo tempo dall'ultimo. Poi, in fondo, quei costumi non erano così male.

"Adesso immagino che ce dovemo fa' vede' da Claudio e Domenico..."

Mormorò Manuel quando si separarono e Simone annuì leggermente, accennando un sorriso.

"Immagino stiano morendo di curiosità."

Manuel emise un piccolo sbuffo.

"Speriamo de nun mori' noi pe' la vergogna."

Replicò, più scherzoso che realmente serio. Simone ridacchiò, dandogli un leggero buffetto sul braccio, poi insieme tornarono in giardino. Claudio e Domenico, appena li videro, si illuminarono di un sorriso un po' divertito, ma soprattutto molto affettuoso.

"Ma quanto siete belli! Un Paperotto e un Cerbiattino in piena regola!"

Esclamò Domenico, teneramente.

"Qui ci vuole una bella foto!"

Aggiunse Claudio con entusiasmo, estraendo già il telefono dalla giacca, ma Manuel si affrettò a dire la sua per fermarlo.

"No, la foto no! Non esiste!"

Esclamò, incrociando le braccia, accigliato. Simone gli mise il braccio libero intorno al busto, tirandolo un po' a sé.

"Dai, Manuel, è una cosa carina."

Manuel però scosse il capo, ostinato.

"Se è così carina se la facessero loro, piuttosto!"

Borbottò, e i due uomini si scambiarono uno sguardo divertito, ridacchiando.

"Beh, veramente l'abbiamo già fatto."

Replicò Domenico, per poi mettersi a cercare una foto nella galleria del proprio cellulare. La trovò dopo pochi istanti e la mostrò ai ragazzi, che si avvicinarono per guardarla: era un selfie di lui e Claudio, sorridenti, che indossavano due tutine dello stesso tipo di quelle che indossavano loro, ma di animali diversi. L'ispettore, infatti, aveva un costume da husky nero e bianco, con gli occhi azzurri, e l'avvocato da gatto arancione, con gli occhi verdi. A completare il quadro c'era Ulisse, il gatto grigio che avevano adottato, accoccolato tra le braccia di Claudio.

Simone si sciolse in una morbida risatina.

"Ma che carini! Vi stanno proprio bene!"

Esclamò, con un dolce sorriso. Rivolse poi al fidanzato uno sguardo pieno di comprensione: gli sarebbe piaciuto fare quella foto insieme a lui, ma non avrebbe insistito perché non voleva forzarlo.

Manuel sostenne il suo sguardo per un po', rivolse un'ultima occhiata alla foto -doveva ammettere che i due uomini erano davvero teneri- e poi sospirò. Il problema non era farsi fotografare e non era nemmeno il costume in sé per sé, ma i ricordi. Il suo Simone, però, sembrava così entusiasta all'idea, che non ebbe proprio il cuore di dirgli di no.

"E va bene, facciamo questa foto! Però se la usate contro di noi, me vendico!"

Esclamò risoluto, indicando con l'indice i due uomini, i quali alzarono le mani in segno di sincerità.

"Promettiamo solennemente di non divulgarla o utilizzarla per scopi impropri!"

Disse Claudio, con voce solenne e sguardo divertito, a nome di entrambi.

Simone, allora, abbandonò la stampella accanto ad un tavolino, non voleva che si vedesse in foto. Manuel subito gli fu accanto per sorreggerlo, senza bisogno di fargli domande. Insieme, si spostarono di qualche passo, in modo da avere un angolo libero del giardino alle spalle.

"Falla tu, lo sai che a me con questi aggeggi escono sempre male."

Disse Claudio, rivolto al compagno. Domenico ridacchiò e annuì, poi prese di nuovo il proprio cellulare.

"Fate un bel sorriso!"

Esclamò, e se Simone effettivamente mise su un sorrisetto morbido a curvargli le labbra, piccolo ma sincero, Manuel invece aveva un'espressione più corrucciata, per fare un po' il duro.

"Ah, guardate quanto siete belli anche voi!"

Disse Domenico, avvicinandosi per mostrare la foto, sorridente. Simone si mise subito a guardarla, gli occhi grandi che luccicavano di curiosità. Sorrise con dolcezza, trovando estremamente tenero il suo Paperotto imbronciato e molto carina la foto, nell'insieme.

"Guarda, Manuel, siamo venuti proprio bene!"

Esclamò, invitando il compagno ad avvicinarsi con un gesto. Manuel si sporse a guardare lo schermo, un po' titubante, eppure le sue labbra cedettero ad un minuscolo sorriso, appena visibile a dire il vero, perché la foto non era male e il suo Cerbiattino sorridente era quanto di più dolce avesse mai visto.

"Beh, la macchina è sicuramente meglio, però...anche 'sti costumi non sono malaccio."


Disse, cercando di fare il sostenuto, ma comunque gli altri tre scoppiarono a ridere alle sue parole e Simone, felice, si aggrappò a lui per dargli un bacio sulla guancia.

*****

"Ma che hai fatto, te la sei messa n'altra volta?"

Chiese Manuel, rientrando nella loro stanza dal bagno, vedendo che Simone aveva indossato di nuovo la tutina da cerbiatto, dopo essersi lavato. Se le erano tolte entrambi qualche ora prima, quando Claudio e Domenico erano andati via e la festa era finita del tutto, e adesso si stavano preparando per la notte, quindi gli sembrava strano che il proprio ragazzo volesse indossarla di nuovo.

Simone fece spallucce e annuì.

"Beh sì, tanto è praticamente un pigiama, che male c'è?"

Rispose, già disteso a letto. Manuel si prese qualche istante per guardarlo, fece scorrere gli occhi sul suo corpo rilassato, senza neanche un muscolo in tensione, sul suo viso sereno e su quegli occhi dolcissimi e luminosi, perfino più di quelli riprodotti sul cappuccio, e pensò che non avrebbe mai e poi mai potuto fare qualcosa che rovinasse il momento.

"Assolutamente niente."

Mormorò con voce dolce, e Simone allargò le braccia per accoglierlo, perché non vedeva l'ora di sentirlo accanto a sé. Era il momento della giornata che preferiva -o i momenti, quando era possibile-, accoccolarsi insieme a lui sotto le coperte.

"Bene, allora adesso vieni qui e rendiamo tutto perfetto!"

Manuel fece una risatina, poi gli rivolse uno sguardo furbetto.

"Attento che mi tuffo, eh!"

Esclamò, giocoso, e prese una piccola rincorsa, come se avesse voluto davvero gettarsi a peso morto sul letto, ma si fermò all'ultimo istante, ridacchiando, e salì a quattro zampe sul materasso, raggiungendo così l'altro ragazzo.

Simone, che non aveva creduto nemmeno per un istante di essere in pericolo, lo avvolse tra le braccia, ridendo insieme a lui.

"Allora, festeggiato, ti sei divertito?"

Chiese a bassa voce, accarezzandogli una guancia. Manuel annuì, facendo una risatina bassa.

"Sì, soprattutto quando Matteo ha avuto la bella idea de caccia' quelle canne e Domenico gli ha fatto vede' er distintivo."

Simone scoppiò a ridere ripensando alla scena, che era stata decisamente comica.

"La sua faccia, penso che me la ricorderò per sempre!"

Manuel, scosso a sua volta dalle risate, annuì di rimando.

"Sembrava avesse visto un fantasma!"

Commentò, e poi per qualche secondo non fecero altro che ridere, riempiendo la stanza solo delle loro risate. Quando si calmarono, Manuel accarezzò la punta del naso di Simone con il proprio.

"E tu, festeggiato, te sei divertito? Sei stanco?"

Sussurrò, con dolcezza. Simone curvò l'angolo delle labbra in un piccolo sorriso, portando una mano tra i suoi ricci per accarezzarlo.

"Mi sono divertito tanto e sono stanco solo un pochino. Possiamo darci qualche altro bacio, prima di metterci a dormire..."

Mormorò, lo sguardo innamorato perso in quello dell'altro. Manuel, che non sapeva resistere a quegli occhioni dolci e che amava quelle coccole pigre con tutto se stesso, decise naturalmente di assecondarlo.

"Mi sembra un'ottima idea."

Disse a bassa voce, facendo strofinare di nuovo i loro nasi subito dopo. Si spostò poi sulla sua fronte, in mezzo agli occhi, e vi posò tanti piccoli baci e ad ogni bacio Simone mugolava felice, disegnando cerchietti tra i suoi capelli morbidi in una sorta di massaggio. Alzò un po' il capo, poi, per cercare le sue labbra e Manuel lo raggiunse, facendole incontrare in baci morbidi e leggeri, lenti, seguendo il ritmo dei loro cuori sereni e innamorati.

"Lo sai che te sta proprio bene, 'sta tutina?"

Commentò ad un certo punto, prima di dargli un altro bacio.

"Te rende ancora più tenero de quello che sei già."

Aggiunse, sorridendo. Simone ridacchiò appena e sollevò la testa per dargli un bacio sulla punta del naso.

"Ti ringrazio, ma sappi che stava bene anche a te, comunque. Te l'ho detto, sei un Paperotto molto sexy!"

Replicò, un po' ironico, ma al tempo stesso con tanto affetto.

Manuel capiva le buone intenzioni di Simone, e come sempre amava i suoi complimenti, eppure le immagini che tornarono nella sua testa lo portarono a far spegnere il suo sorriso, rendendolo più malinconico, e ad abbassare lo sguardo, come preso da un senso di colpa. Si sentiva così, in effetti, perché si trattava di una storia vecchia, eppure non riusciva a metterla da parte e così facendo appesantiva la storia nuova.

Simone, notando il suo improvviso incupirsi, si accigliò preoccupato e gli portò una mano sulla guancia per fargli sentire che gli era vicino.
"Ho detto qualcosa che non va? Ti prego, dimmelo..."

Manuel scosse il capo, sospirando. Non era colpa sua.

"No, tu non potresti mai, Simo. È che..."

Sospirò di nuovo e si spostò, mettendosi a sedere sul letto con le gambe incrociate.

"Sai perché me vergogno tanto di quella foto, Simo? Quella che tieni nel portafoglio..."

Simone avvertì una fitta allo stomaco, come se si fosse stretto all'improvviso. Dal suo tono, capiva che si trattava di qualcosa di serio.

"Mi hai detto che non ti piace perché il costume ti stava largo, ma credo ci sia dell'altro, vero? Se me lo vuoi dire, io ti ascolto."

Manuel gli sorrise, anche se quel sorriso aveva un retrogusto amaro, perché su questo non aveva il minimo dubbio. Lo ascoltava sempre, lui.

"Devi sape' che quel costume non era proprio mio, mamma se l'era fatto prestare da una signora che abitava nel nostro palazzo. Era di suo figlio, che era un po' più grande de me e quindi non era della mia taglia. A me nun fregava più de tanto, anche perché capirai, c'avevo cinque anni e manco ce facevo caso a 'ste cose, però dei bambini al parchetto dove eravamo andati io e mamma, dove lei mi ha scattato quella foto, a quanto pare ce facevano caso eccome e je sembrava un motivo giusto pe' pijarme in giro."

Spiegò a bassa voce, per poi indicare con un cenno del capo la tutina da papero, abbandonata sulla sedia della scrivania.

"Quella me l'ha solamente ricordato."

Concluse, per poi sospirare profondamente.


Simone, pur non avendo davvero avuto idea di quale fosse la storia dietro quella foto fino a quel momento, si sentì tremendamente in colpa per averle dato tutto quel risalto. Era evidente che Manuel volesse solo tenerla nascosta, in modo da tenere lontani quei ricordi, e invece lui l'aveva costretto a tenerla in giro, sempre presente.

"Ma potevi dirmelo prima, così non l'avrei mai presa!"

Si mise a sedere, lentamente, e allungò una mano ad accarezzargli il viso amato, con affetto e dispiacere.

"Adesso che lo so, però, è meglio che non ti chiami più Paperotto, così eviterai di ripensarci."

Disse, deciso. Qualcosa scattò dentro Manuel sentendo quella frase, qualcosa che gli diceva di non inquinare il presente ed il futuro con il passato, perché non ne valeva la pena. Lui si sentiva bene quando Simone lo chiamava in quel modo speciale, non pensava a cose brutte, e sapeva anche quanto lui ci tenesse a chiamarlo così, quanto andasse fiero di quel soprannome, quindi perché rinunciarvi?

"Ma che sei matto, Simo'? Non esiste proprio!"

Esclamò, infervorato d'amore.

"Anzi, sai cosa?"

Si alzò di scatto e, in pochi minuti, indossò la sua tutina da papero per poi tornare a sedersi sul letto.

"Io sono il tuo Paperotto e te sei il mio Cerbiattino, e questa cosa nun deve cambia', mai e poi mai!"

Disse con decisione e affetto, poggiando una mano sulla sua guancia per accarezzarlo. Simone accennò un sorriso, morbido e cauto, e portò una mano sulla sua.

"Sei sicuro, Manuel? Perché davvero, se ti dà fastidio..."

Cominciò a dire, ma Manuel non gli diede il tempo di finire la frase e la interruppe con un bacio a fior di labbra, rapido ma sufficiente a spegnere ogni timore. Gli sorrise, poi, convinto.

"Ne sono sicuro, come so' sicuro che ti amo, Cerbiattino."

Mormorò, allegro, accarezzandogli il viso.

Simone avrebbe rispettato la sua decisione in ogni caso, anche se gli avesse chiesto di non chiamarlo più in quel modo, ma non poteva che essere orgoglioso di lui, che era riuscito a staccare un altro pezzetto del suo passato per vivere meglio il presente e il futuro. Gli sorrise a trentadue denti e lo tirò verso di sé per baciarlo di nuovo, ma stavolta lo trattenne con una mano tra i suoi capelli e, cautamente, si abbassò fino a distendersi, portando l'altro con sé, senza separarsi.

"Ti amo anch'io, Paperotto, e questa è un'altra cosa che non cambierà mai e poi mai."

Sussurrò a pochissima distanza dalle sue labbra, fronte contro fronte, con i respiri che si mischiavano in quel piccolo spazio. Non era la prima volta che se lo dicevano, ma ogni volta era come la prima.

"Lo stesso vale anche per me. Mai e poi mai."

Replicò Manuel, accarezzandogli di nuovo la punta del naso con il proprio. Si scambiarono un altro bacio, per iniziativa di entrambi, e poi Manuel si sistemò sul petto di Simone, che lo avvolse con un braccio, prendendo entrambi quella posizione che ormai era loro propria.

"Buonanotte, Cerbiattino."

"Buonanotte, Paperotto."

Si sussurrarono a vicenda, e poi nella stanza calò il silenzio, almeno per qualche minuto. Avevano entrambi gli occhi chiusi e poteva sembrare dormissero, ma la mano di Simone che accarezzava il fianco di Manuel e quella di Manuel che accarezzava la pancia di Simone rendeva chiaro che avevano ancora un po' di energia e non c'era modo migliore per usarla.

"Simo?"

Sussurrò Manuel, riaprendo gli occhi.

"Sì?"

Replicò Simone, ancora con le palpebre abbassate.

"La foto che ci hanno scattato Claudio e Domenico, la mettiamo nel nostro album? Che ne dici, ti va?"

Propose Manuel, con la voce che un po' tremava per la piacevole agitazione che provava all'idea. Simone sorrise, riaprendo gli occhi, e due stelle e una piccola Luna illuminarono la stanza buia.

"Certo che sì! Allora facciamo due stampe, voglio metterne una vicina alla tua, nel mio portafogli."

Manuel ridacchiò appena e si sollevò per raggiungere le labbra del suo amato, ancora una volta.

"Mh, facciamo tre."

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Capitolo 26
*** Appendice, Capitolo 1 - Quella notte blu come te (parte 1) ***


Spazio autrice: vi rubo giusto due minuti di tempo per dirvi che da questo momento comincia l’appendice su Claudio e Domenico (che spero possa piacervi). Simone e Manuel non saranno presenti, ma torneranno nell’epilogo, quindi nel caso in cui la storia dell’avvocato e dell’ispettore non dovesse interessarvi vi suggerisco di tornare direttamente quando lo pubblicherò (non vi preoccupate, non mi offendo). A chi resta, invece, auguro buona lettura <3
 
 
Napoli, 20 luglio 2002

Claudio era arrivato a Napoli nel tardo pomeriggio, dopo che il treno aveva accumulato un discreto ritardo a causa di un guasto non meglio specificato della linea ferroviaria, fermandosi in un punto imprecisato tra Roma e Napoli.

In breve tempo, complice anche il caldo che aveva conquistato il vagone in un attimo, il malcontento si era diffuso tra i passeggeri: c'era chi inveiva contro lo Stato e la compagnia ferroviaria, chi fermava continuamente i controllori per avere informazioni sul guasto e sul ritardo, chi al cellulare si preoccupava di raccontare nei minimi dettagli quella disavventura  e, in ultimo, c'era un bambino -o meglio una bambina, a giudicare dal vestitino rosa che indossava- di pochi mesi che piangeva disperata proprio di fronte a lui, sicuramente l'unica persona in quel treno che avesse davvero diritto di lamentarsi.

I suoi genitori erano una coppia molto giovane, ad occhio e croce dovevano essere suoi coetanei, e ciò che si notava subito era quanto fossero innamorati. Per tutto il viaggio si erano tenuti per mano, avevano riso e scherzato insieme a bassa voce di cose che solo loro potevano capire, complici di un amore che non era un crimine, e per una certa tratta lei si era addormentata sulla spalla di lui, che teneva in braccio la figlia. Sembravano usciti da una favola o da una poesia e Claudio, ad essere onesto con se stesso, li invidiava.

La bambina aveva cominciato a piangere pochi attimi dopo che il treno si era fermato e subito aveva attirato su di sé gli sguardi insofferenti e i bisbigli acidi degli altri passeggeri, rivolti soprattutto alla ragazza, che con i suoi grandi occhi azzurri implorava di stare tranquillo il suo ragazzo, i cui occhi di un dolce color nocciola sembravano bruciare come due braci, mentre entrambi cercavano di placare in qualche modo quel pianto.

Non potevano riuscire a calmare la figlia, però, se erano loro i primi ad essere agitati -seppur comprensibilmente-, per cui Claudio pensò che fosse il caso di dar loro una mano.

"Perdonatemi l'intrusione, ma per caso posso fare qualcosa per aiutarvi?"

Gli occhi nocciola del ragazzo scattarono su di lui, diffidenti.

"No, facciamo da soli, grazie."

La ragazza guardò prima il compagno, poi rivolse i suoi occhi azzurri verso Claudio, con un sorriso di scuse sul volto.

"Scusaci per la creatura, di solito è tranquilla, non piange mai. Non so cosa le è preso..."

Claudio le sorrise, comprensivo.

"Il treno si è fermato e si sarà spaventata, non vi dovete scusare. Poi, con tutta questa gente agitata intorno, viene quasi da piangere anche a me."

Disse scherzoso e la ragazza ridacchiò.

"Vuoi provare a calmarla tu? Non mi pari agitato, magari ci riesci..."

Il ragazzo le mise una mano sul braccio, guardandola preoccupato.

"Ninù, ma si' sicur?"

Sussurrò e lei annuì, guardandolo sorridente.

"Tranquillo Ca', si vede che è un bravo ragazzo. E poi noi stiamo qua, no?"

Disse a bassa voce, ma sicura, e il ragazzo dagli occhi nocciola non poté fare altro che fidarsi degli occhi azzurri di lei, cosa che, da come li guardava, era chiaro che facesse sempre.

Claudio, che aveva captato il discorso, accennò un sorriso malinconico per il complimento: quella sconosciuta sul treno aveva una considerazione più alta di lui di quanta ne avesse suo padre.

La ragazza si sporse allora verso di lui per dargli la piccola, sorridendo incoraggiante, e lui si alzò per prenderla, con delicatezza, per poi tornare a sedersi con lei in braccio, il tutto sotto lo sguardo vigile del padre.

"Dai piccolina non piangere, adesso ripartiamo, vedi?"

Sussurrò con voce tenera e al tempo stesso cominciò ad agitare lentamente le braccia per simulare l'andamento del treno, avendo capito che era quello a rilassare la bambina. Come per magia, infatti, lei smise quasi immediatamente di piangere e gli rivolse una smorfietta felice, aprendo la boccuccia e strizzando gli occhietti, che lo portò a sorridere a sua volta -il primo, vero sorriso da qualche giorno a quella parte.

"Ma come hai fatto?"

Domandò Carmine, incredulo, con gli occhi pieni di sorpresa.

Claudio ridacchiò imbarazzato, non sapendo bene cosa dire. Era naturalmente bravo con i bambini, non sapeva se ci fosse un motivo preciso, ma loro lo adoravano.

"Non ho mica fatto una magia, eh! È lei che è bravissima…"

Fece una smorfia buffa alla bambina, che rise di nuovo.

"A proposito, com'è che si chiama questa principessa bravissima?"

Domandò, senza smettere di cullare la piccola.
"Futura!"

Rispose subito la madre e Claudio alzò gli occhi per un attimo verso di lei, piacevolmente sorpreso. Era senz'altro un nome particolare, ma dal significato bellissimo: un augurio per un futuro pieno di speranza.

"Ah, come la canzone?"

Domandò retoricamente, tornando a concentrarsi sulla bimba.

"Si muoverà e potrà volare
Nuoterà su una stella
Come sei bella."

Canticchiò con voce leggera, incurante delle occhiate stranite che attirava.

"Piacere Futura, io sono Claudio."

Mormorò poi, avvicinando un dito alla sua piccola mano, che subito si mosse per stringerlo con quel bene incondizionato che i bambini hanno nel cuore e che poi crescendo, inevitabilmente, finiscono per perdere. Lui nemmeno ricordava quand'era stata l'ultima volta che qualcuno gli aveva dimostrato affetto sincero, se mai davvero c'era stata.

"E come mai stai andando a Napoli, Claudio?"

Chiese cordiale Nina, con gli occhi vispi che brillavano di curiosità e Claudio fece un profondo respiro, come se si stesse preparando a compiere uno sforzo fisico. Rispondere a quella domanda gli costava una grande fatica, anche se certamente lei questo non poteva saperlo.

"Vacanza per festeggiare il diploma, mi fermo una decina di giorni."

Rispose, senza guardarli. Non c'era la minima traccia di allegria o di entusiasmo nella sua voce e nel suo sguardo, più simili a quelli di un condannato che a quelli di un diciottenne fresco di maturità con una città intera a disposizione e senza nessuno a controllarlo.

Nina e Carmine, infatti, si scambiarono uno sguardo perplesso.

"Beh scusami, ma ci vai da solo? I tuoi compagni di classe non sono con te?"

Chiese Carmine, dando voce al pensiero di entrambi.

Claudio scosse il capo, sperando in cuor suo che accadesse qualcosa -qualsiasi cosa, anche Futura che ricominciava a piangere sarebbe andata bene, perché sapeva come gestirla- che stroncasse quella conversazione. Non si sentiva a suo agio ad affrontarla, ma non voleva essere scortese con quella coppia che, in fin dei conti, non stava facendo niente di male.

"Meglio soli che male accompagnati, no?"

Rispose laconico, con una freddezza che di solito non gli apparteneva, eppure i due ragazzi gli risposero con uno sguardo caldo, affettuoso.

"Claudio, te la posso dire una cosa?"

Domandò ancora Carmine, cauto, ma con l'aria di chi avrebbe parlato comunque, quindi Claudio annuì.

"Stai in vacanza, goditela. Napoli è grande e piena di gente, secondo me qualcuno che t'accompagna lo trovi."

E così dicendo la sua mano cercò istintivamente quella della compagna e le loro dita si intrecciarono.

"Sì, forse…"

Replicò Claudio, abbozzando un sorriso di circostanza, ben poco convinto. Apprezzava lo sforzo, ma era facile parlare per loro, mentre per lui…per lui era tutto più complicato.

Sceso dal treno salutò Futura, Carmine e Nina, che si incontrarono con la madre di lei, e si diresse senza fretta verso l'uscita, trascinandosi dietro il suo trolley preparato in fretta e furia appena un giorno prima. Uscito dalla stazione venne accolto dal caldo e dal vociare di Napoli, che non la rendevano poi così diversa da Roma, e salì immediatamente sul primo taxi libero: voleva assolutamente raggiungere l'albergo, o meglio l'hotel a cinque stelle che sua madre gli aveva prenotato, stanco morto com'era.

Giunto a destinazione fece rapidamente il check-in e salì nella sua camera, una grande suite elegantemente arredata divisa in una zona giorno e in una zona notte, con un terrazzino che si affacciava sul mare e bagno con vasca idromassaggio: sicuramente meravigliosa, ma che ai suoi occhi appariva soltanto come una gabbia d'oro in cui trascorrere quella vacanza forzata che aveva il sapore di un esilio.

Lasciò la valigia esattamente dov'era entrato, appena chiusa la porta e, preso da una forte urgenza, si sfilò rapidamente la camicia senza neanche darsi il tempo di arrivare in camera da letto, abbandonandola sul divano della zona giorno. Il sudore gliel'aveva fatta aderire al corpo come una seconda pelle e la sensazione di sollievo che provò era imparagonabile. Liberò un rumoroso sospiro, carico di dolore, e si prese qualche istante per riprendere fiato, fermo in mezzo al salotto, beandosi del venticello fresco che gli accarezzava la schiena dolorante.

Ciò che ci voleva davvero, però, era una doccia, quindi si diresse verso il bagno e, tenendo lo sguardo in basso per non incrociare lo specchio, raggiunse la cabina -dell'idromassaggio non gli importava niente-, si sfilò velocemente pantaloni ed intimo e vi si infilò dentro. Non appena l'acqua fresca entrò in contatto con la sua pelle, liberandolo dal sudore che si era infilato nei solchi sulla sua schiena che gli aveva dato il tormento per ore come un acido che gli bruciava la carne sempre più in profondità, emise un sospiro ancora più forte del precedente, ancora più carico di dolore, e poi un altro e un altro ancora, che in breve si trasformarono in singhiozzi affannati.

Non aveva pianto mentre suo padre, poco più di ventiquattrore prima, infieriva ripetutamente con la cintura su di lui, fendendo prima l'aria e poi la sua carne a ripetizione, senza pietà, impassibile perfino di fronte alle lacrime di sua madre che invano gli chiedeva di smetterla, e non aveva pianto neppure dopo, nel buio della sua stanza, abbandonato sul letto come un giocattolo rotto, quando il dolore non gli permetteva di trovare sollievo nel sonno, perché nemmeno lì si sentiva al sicuro: sapeva che, se avesse pianto, suo padre se ne sarebbe accorto e lui non aveva voluto dargli questa soddisfazione. Ora, però, c'erano più di duecento chilometri a separarli, e non aveva nulla da dimostrargli.

Uscito dalla doccia si asciugò sommariamente e senza nemmeno prendersi la briga di rivestirsi si gettò sul letto, rigorosamente a pancia in giù -l'unica posizione che poteva assumere senza soffrire-, con tutta l'intenzione di trascorrere così la sua permanenza a Napoli.

Per quanto fosse stanco, però, fece molta fatica ad addormentarsi, e in ogni caso il suo sonno fu breve e agitato: quando, all'ennesimo incubo, sgranò gli occhi in un'espressione di puro terrore, respirando affannosamente, la sveglia sul comodino segnava le ventidue da poco passate, il che voleva dire che aveva dormito -o almeno, ci aveva provato- per circa tre ore. Si mise a sedere e si passò una mano sul viso e poi tra i capelli, più stanco di prima.

Era esausto, eppure la sua mente e il suo corpo, con le loro ferite, non gli permettevano di dormire, o quantomeno di riposare. L'unica soluzione era annullarsi totalmente, annebbiare i pensieri fino a dissiparli e impigrire la carne fino a renderla insensibile, e conosceva un unico modo per farlo.

In uno scatto si alzò dal letto e, determinato, svuotò una dopo l'altra le piccole bottiglie di liquori selezionati messi a disposizione dall'hotel -di cui non apprezzò né il sapore, né il pregio-, ma sentiva che non era abbastanza e allora aprì la valigia, si rivestì, e si diresse verso il bar più vicino.

Chissà, forse lì avrebbe trovato anche qualcuno disposto ad accompagnarlo, come gli aveva detto Carmine, anche solo per una notte.

*****

Domenico fu accarezzato dal profumo deciso di caffè che gli stuzzicò piacevolmente il naso, regalandogli un risveglio decisamente gradevole. Aprì quindi gli occhi senza tergiversare e si mise a sedere, prendendosi qualche istante per stiracchiarsi un po', sbadigliando. Il suo sguardo si mosse poi subito in direzione del comodino, da cui proveniva l'aroma, e accanto alla tazzina trovò anche un piattino con qualche biscotto -con le gocce di cioccolato, i suoi preferiti- ad attenderlo.

Ridacchiò, perché aveva un'idea molto precisa di cosa significasse quella piccola sorpresa, ma ciò non voleva dire che non potesse godersela. La sveglia segnava qualche minuto alle diciassette, aveva tutto il tempo per concedersi quella merenda inattesa prima di prepararsi per il turno.

Si alzò poi dal letto e uscì dalla stanza, con la tazzina e il piattino tra le mani, e andò a bussare alla porta accanto, quella della camera di sua sorella minore, di quattro anni più piccola di lui. Era certo che ci fosse lei dietro quel dolce risveglio, quella ruffiana di prima categoria per cui stravedeva.

"Sara, sono io, posso entrare?"

"Vieni!"

Rispose lei, allegra, dall'altra parte. Domenico entrò e la trovò seduta sul letto, mentre richiudeva il libro che stava leggendo. Inclinò leggermente il capo per coglierne il titolo –‘Il Barone Rampante’- e ridacchiò quando lo vide.

"Non l'hai già letto tipo quattro volte, quello?"

Lei alzò un sopracciglio, furbetta.

"E tu non l'hai letto tipo otto?"

Replicò e Domenico alzò una mano in segno di resa.

"Touché."

Sara ridacchiò, soddisfatta.

"Che mi dovevi dire?"

Chiese, ritraendo le gambe per far spazio sul letto al fratello, che si sedette di fronte a lei.

"Che mi è successa una cosa strana, sai?"

Cominciò a dire, vago, mostrando la tazzina e Sara accennò un sorriso divertito.

"Stavo dormendo e quando mi sono svegliato ho trovato un bel caffè e i miei biscotti preferiti sul comodino ad aspettarmi."

Continuò lui, guardando la sorella con divertito sospetto.

"Una sorpresa molto apprezzata, ma che mi fa sorgere una domanda spontanea: che ti serve?"

Sara alzò gli occhi al cielo e si avvicinò per abbracciare il fratello, affettuosa, e lui ridacchiò, cingendola con un braccio, di rimando. Sua sorella era l'incarnazione del detto 'Quando il Diavolo accarezza, vuole l'anima', ma lui non sapeva mai dirle di no.

"Volevo chiederti un passaggio, per stasera, prima che vai a lavoro. Enzo mi ha invitata a casa sua...e resterei a dormire lì. Mamma ha detto che va bene."

Rispose lei, con la vocetta che usava sempre quando avanzava qualche richiesta.

Domenico sospirò profondamente sentendo quel nome: Enzo era un compagno di classe di sua sorella nonché suo fidanzato da qualche mese. Un bravo ragazzo, educato e gentile, che veniva da una famiglia perbene -se n'era accertato personalmente, non appena aveva saputo della loro relazione-, quindi non era un problema che lei andasse da lui...ma non poteva negare che vedere la sua sorellina crescere, anche se era giusto, un po' gli faceva stringere il cuore.

"E tu per così poco hai pensato di dovermi comprare con il caffè a letto? Certo che ti ci porto, dai."

Rispose lui, dandole un bacio tra i capelli.

"Vuoi che ti passi anche a prendere, domani mattina?"

Domandò con premura e lei scosse il capo, sorridente.

"No, non c'è bisogno, prendo l'autobus."

Gli scoccò un bacio sulla guancia e Domenico rise, allegro.

"Sei il fratello migliore del mondo!"

"Sì, certo, perché sono il tuo unico fratello!"

Puntualizzò scherzoso, dandole un altro bacio tra i capelli prima di alzarsi.

Andò in bagno a lavarsi, optando per una doccia veloce e fresca che lo liberasse dal torpore che ancora sentiva avvolgergli le membra e altrettanto velocemente si spostò in camera per vestirsi, preferendo lasciare il bagno libero a Sara.

"Lo sai che la divisa ti sta proprio bene?"

Commentò la sorella, affacciandosi per un attimo nella sua stanza. Domenico sorrise sghembo.

"Guarda che ho detto che da Enzo ti ci porto, non hai bisogno di continuare a fare la ruffiana…"

Replicò, mentre si dava una sistemata ai capelli davanti allo specchio. Non era particolarmente vanitoso, ma ci teneva a mostrarsi in ordine sul posto di lavoro.

"Guarda che dico davvero! Ti sta bene perché non la indossi come se fosse soltanto un simbolo, ma perché credi davvero in ciò che rappresenta e fai sempre la cosa giusta. Per gli altri poliziotti non è così."

Ribatté lei, con decisione, e Domenico fermò il movimento della propria mano a metà. Guardò negli occhi la ragazza attraverso lo specchio e poi si voltò per guardarla in viso, con un mezzo sorriso accennato sulle labbra.

Sua sorella, essendo di qualche anno più piccola, l'aveva sempre visto come una specie di eroe e anche adesso che era cresciuta abbastanza da sapere che gli eroi non esistevano, non aveva perso la fiducia nei suoi confronti. Lui ce la metteva tutta per fare sempre la cosa giusta, come diceva lei, e fare attivamente la differenza era uno dei motivi per cui si era arruolato in Polizia, ma non era sicuro di riuscirci sempre.

"Ci provo, ma anch'io faccio i miei sbagli…"

Si avvicinò per darle un buffetto sulla guancia.

"Neanche il tuo fratellone è perfetto, sai?"

Aggiunse con malinconica dolcezza, indicandole poi il bagno con un cenno del capo.

"Dai, mo' vatti a lavare o facciamo tardi tutti e due."

Sara lo guardò negli occhi per qualche istante, senza dire nulla perché il suo sguardo affettuoso parlava per lei, e dopo aver dato un bacio sulla guancia del fratello fece quanto detto, sparendo in bagno.

Non appena fu pronta, uscirono insieme e salirono sulla moto di Domenico, diretti verso casa di Enzo.

"Allora io vado, grazie del passaggio!"

Esclamò Sara una volta arrivati, con gli occhi che brillavano di gioia alla prospettiva di passare una serata insieme al suo ragazzo, mentre si sfilava il casco. Domenico, però, la trattenne per una mano.

"Aspetta n'attimo, aspetta!"

Prese il portafoglio dalla tasca dei pantaloni, lo aprì e le porse i due preservativi che portava sempre con sé. Non era stupido, sapeva perfettamente cosa avrebbero fatto due quindicenni che dormivano insieme, però non era nemmeno bigotto -nella maniera più assoluta- e pensava che fosse sacrosanto che lo facessero, ma nel modo giusto.

"Tieni, prendi questi, e se Enzo dice che non vuole usarli tu insisti o rifiutati, hai capito?"

Sara, in tutta risposta, gli fece una risatina in faccia, anche perché aveva notato che le sue guance si erano fatte un po' più rosse e di certo non a causa del caldo.

"Mimmo, non sono necessari, davvero…"

Rispose, divertita, e lui si accigliò.

"Ma che dici? Guarda che è importante…"

Cominciò a dire, ma Sara intanto aveva aperto una tasca interna dello zaino che si era portata dietro, mostrando che era ben fornita a sua volta. Domenico si ammutolì, rimanendo di sasso.

"Quelli tienili tu, magari ti possono servire…"

Commentò divertita, facendogli un occhiolino, e lui sbuffò mentre riponeva le due bustine al loro posto.

"Guarda che sto andando a lavorare, mica a divertirmi! E da quando sei diventata così maliziosa, tu?"

Sara fece spallucce, sorridendo innocentemente.

"Mai dire mai, la vita è imprevedibile! Ci vediamo domani!"

Si limitò a commentare, allontanandosi subito dopo. Domenico si accertò che entrasse nel portone e poi, con un sospiro, si infilò nuovamente tra le strade rumorose di Napoli. Sarebbe stato ipocrita negare che spesso e volentieri quei due preservativi gli servissero davvero, ma sicuramente non li avrebbe usati quella notte. Come aveva detto, ad attenderlo c'erano dei lunghi giri di pattuglia, non una serata di conquiste sfrenate.

Prima di arrivare in commissariato, però, si fermò ad un supermercato per comprare una nuova busta di croccantini per i gatti che gironzolavano lì intorno e a cui si era rapidamente affezionato. Se avesse potuto li avrebbe adottati tutti, ma era conscio del fatto che fossero spiriti liberi e che non avrebbero sopportato stare in una casa, per cui se ne prendeva cura così, riempiendo le loro ciotole e portandoli dal veterinario quando ce n'era bisogno. Loro, poi, lo ripagavano con tante fusa affettuose ed era impegnato proprio a coccolarli -aveva ancora un po' di tempo prima dell'inizio del turno- quando venne raggiunto da Massimo, un suo collega che era entrato in Polizia insieme a lui.

"Sempre appresso a ‘sti gatti, stai?"

Commentò il poliziotto, con un tono divertito che tuttavia non prendeva in giro e denotava anche un certo affetto. Domenico ridacchiò, alzando lo sguardo verso di lui.

"E se non lo faccio io, chi lo fa? Oggi ne è pure arrivato un altro…"

Rispose, indicando con un cenno del capo un gatto arancione tutto intento a mangiare come se non lo facesse da secoli -e probabilmente era così-. Lo avrebbe portato dal veterinario, una volta conquistata la sua fiducia.

"La cosa ti fa onore, ma secondo me non puoi occuparti di ogni animaletto abbandonato che trovi e prima o poi lo capirai anche tu."

Domenico scosse il capo, mantenendo il sorriso.

"Forse non posso aiutarli tutti, ma aiutarne anche uno solo può fare la differenza. È questo il nostro lavoro, no?"

Massimo sospirò, rassegnato.

"Sempre idealista tu, eh? Vabbuò, ti aspetto dentro."

E così dicendo si allontanò, lasciando Domenico ai suoi gatti. Lui solitamente andava d'accordo con Massimo, ma non condivideva quel modo cinico di affrontare la vita, trovava che la rendesse più sbiadita, come se così facendo perdesse colore.

In ogni caso, dopo essersi assicurato che i gatti avessero cibo e acqua sufficienti, entrò in commissariato per cominciare il suo turno e, dopo aver salutato gli altri colleghi, salì in auto proprio con Massimo per cominciare i loro giri.

I sabati sera come quello erano solitamente particolarmente impegnativi, perché tra movida e feste diffuse ricevevano diverse chiamate per i disturbi più vari, oltre alle situazioni che incontravano in prima persona, girando per le strade in cui si concentravano i bar e i locali: schiamazzi, risse, persone in stato alterato e piccoli spacciatori non mancavano mai, eppure quella notte sembravano essersi presi tutti -o quasi- una pausa.

Erano da poco passate le due quando Domenico e Massimo, che si erano fermati a fumare una sigaretta fuori dall'auto, vennero avvicinati da un ragazzo dall'aria preoccupata. Indossava una maglietta con il logo del bar in cui faceva il cameriere e Massimo lo salutò con un cenno della mano, perché evidentemente lo conosceva.
"Oh, Massimo, grazie a Dio stai qua! Mi devi dare una mano, ci sta uno che si è bevuto di tutto e di più, noi qua dobbiamo chiudere e non riusciamo a farlo andare via!"
Spiegò il ragazzo, concitato. Massimo annuì e gettò via la sigaretta.

"Ci pensiamo noi, Fra', tranquillo."

Così dicendo fece segno a Domenico di seguirlo e si avvicinarono al locale.

"Me ne occupo io, tu resta qua nel caso in cui quello provi a scappare."

Domenico annuì e si mise davanti alla porta, tenendo gli occhi puntati sull'ubriaco in questione: non fu difficile individuarlo, dal momento che erano rimasti pochi clienti all'interno del bar e lui era l'unico ancora seduto e che non sembrava avere intenzione di andarsene. Se ne stava mezzo accasciato sul bancone, con una mano si reggeva la testa e con l'altra teneva un bicchiere, forse vuoto, che fissava con sguardo perso.

Ad occhio, doveva avere più o meno la sua età e notò anche che la sua camicia e i suoi pantaloni, oltre a sembrare molto costosi, erano perfettamente in ordine nonostante la notte passata a bere, segno che non avesse fatto molto altro, quella sera. Si chiese cosa lo avesse spinto a trascorrere così il suo tempo e a ridursi in quello stato, ma poi si disse che non era così strano trovare un ragazzo ubriaco il sabato sera in un bar, anzi non c'era niente di più tipico, e non c'era praticamente mai una motivazione che andasse oltre la voglia di sballarsi. Eppure, qualcosa gli diceva anche che quel ragazzo in particolare non fosse semplicemente alla ricerca di euforia.

"Guaglio', forza, te ne devi andare da qua."

Quella voce, decisa ed autoritaria, riportò Claudio alla realtà. Era entrato in quel bar un numero imprecisato di ore prima -non avrebbe saputo quantificarle perché aveva perso la cognizione del tempo- e poteva dire di aver, almeno in parte, raggiunto il suo scopo: la sua testa era annebbiata -in un modo spiacevole, che faceva male, ma era comunque meglio del tormento dei suoi pensieri- e il suo corpo era intorpidito, pesava come un macigno, e anche solo alzare il capo in direzione di quella voce gli costò un'immensa fatica. Impiegò qualche secondo a mettere a fuoco la persona davanti a sé, e non ci riuscì neanche del tutto, ma abbastanza da capire che si trattava di un poliziotto. Non che la cosa gli importasse.

"No, pago e voglio restare."

Biascicò, per poi tornare a dedicare tutta la sua attenzione al bicchiere e, notando che era vuoto, lo allungò verso il barista.

"Me ne versi un altro?"

Non era nemmeno sicuro di cosa fosse questo 'altro' che stava chiedendo, dopo tutto quello che aveva mischiato -ed in più non era mai stato un grande bevitore e non se ne intendeva di alcolici- ma qualunque cosa fosse stava facendo il suo effetto. Il poliziotto, però, gli strappò il bicchiere dalla mano, con violenza.

"Ti ho detto che te ne devi andare."

Disse, visibilmente più alterato di prima, e gli afferrò il polso, stringendolo forte.

Claudio, a quel gesto, si sentì montare da una rabbia istintiva ed irrazionale, che il dolore che gli era stato inflitto e l'umiliazione che aveva subito in quei giorni avevano covato dentro di lui, e reagì d'impulso.

"Che cazzo fai? Lasciami!"

Esclamò, scattando in piedi. Diede uno spintone al poliziotto, il quale reagì afferrandolo per la camicia e gettandolo a terra, per poi mettersi a cavalcioni su di lui e rigirargli il braccio dietro la schiena. Claudio non fece in tempo a difendersi, anche perché era ubriaco, e non riuscì nemmeno a trattenere un verso di dolore. Domenico, assistendo alla scena, corse verso di loro.

"Oh, Massimo, basta! Lascialo sta', gli fai male!"

Li separò, tirando via il collega e frapponendosi tra i due.

"Mi ha spinto, 'sto stronzo!"

Si difese Massimo, indicando Claudio con il braccio teso e la mano aperta. Domenico gli scoccò uno sguardo di fuoco.

"E tu gli stavi per spezzare un braccio! Dovresti essere migliore di così."

Si voltò poi verso il ragazzo ubriaco, chinandosi per aiutarlo a risollevarsi.

"Stai bene?"

Domandò, con gentilezza. Claudio, dopo quell'impeto di rabbia improvviso, era rimasto senza forze e non era nemmeno riuscito ad alzarsi da terra.

"Stavo meglio prima."

Biascicò, spostando lo sguardo negli occhi del poliziotto più gentile. Notò che erano di una meravigliosa sfumatura di verde, che quasi diventava marrone e che non aveva mai visto prima. C'era un bosco, in quegli occhi, un bosco in cui Claudio, in qualche modo, sentiva che se ci si fosse perso, non avrebbe corso alcun pericolo, ma forse era semplicemente l'alcool a farlo delirare.

Domenico, dal canto suo, rimase abbagliato dal blu degli occhi di quel ragazzo sconosciuto, un blu che faceva invidia al mare più limpido e che, come il mare, sentiva che nascondesse un abisso.

"Mi dispiace, ma adesso devi venire con noi. Non fare storie, lo dico per te."

Claudio annuì, lentamente, e si aggrappò istintivamente al poliziotto perché non riusciva a reggersi in piedi. Domenico lo sostenne, senza esitare, e lo aiutò a sedersi sullo sgabello accanto al bancone.

"Piano, piano, mettiti seduto..."

Si voltò poi verso il barista, continuando comunque a reggere lo sconosciuto con un braccio, dal momento che non gli sembrava comunque molto stabile.

"Scusa, mi daresti una bottiglietta d'acqua? Grazie."

Massimo lo guardò incredulo, scuotendo il capo a braccia incrociate.

"Gli vuoi prendere pure un caffè, a questo?"

Claudio, sentendo quella voce così tuonante, avvertì una fitta alla testa già pulsante e di suo e mugolò di dolore, contraendo il volto in una smorfia. Se avesse potuto, si sarebbe staccato volentieri il capo.

"Non lo vedi che sta male? Un attimo di pazienza!"

Replicò Domenico, contrariato, ma con un tono più basso, mentre svitava il tappo della bottiglietta.

"Doveva pensarci meglio prima di bere anche l'acqua del cesso!"

Ribatté Massimo, senza scomodarsi a parlare a voce più bassa. Domenico sospirò, facendo appello a tutta la sua pazienza mentre porgeva la bottiglia al ragazzo. Quando Massimo faceva così, era meglio ignorarlo.

"Tieni, bevi un po'. Piano piano, mi raccomando..."

Disse gentile e Claudio buttò giù qualche sorso, ma la sua mira non fu molto precisa e dell'acqua finì sulla camicia, bagnandola un po'.

Domenico, allora, lo aiutò ad avvicinarla meglio al viso, chiedendosi ancora una volta cosa avesse spinto quel ragazzo a ridursi in quelle condizioni.

"Adesso dobbiamo andare via. Vieni, ti portiamo fuori..."

Claudio, troppo stanco per protestare ancora, si alzò e di nuovo per poco rischiò di perdere l'equilibrio, ma ancora una volta fu sorretto dall'altro che lo afferrò per i fianchi.

"Reggiti a me, dai."

Gli disse Domenico, consapevole che Massimo non lo avrebbe aiutato. Claudio si aggrappò a lui, mettendogli un braccio intorno alle spalle, ma non appena sentì che l'altro lo stava cingendo a sua volta, passando un braccio sulla sua schiena, ebbe un sussulto di dolore e paura insieme ed emise un verso simile al ringhio di un animale ferito.

"Non mi toccare!"

Urlò, e per lo sforzo si sentì la testa cominciare a girare vorticosamente, il che lo portò -paradossalmente- ad aggrapparsi di più al poliziotto.

Domenico allontanò immediatamente il braccio, sorpreso da quella reazione.

"D'accordo, d'accordo, tranquillo, non ti tocco. Facciamo che mi dai il braccio, va bene così?"

Propose, paziente, e Claudio cambiò subito la sua posizione, anche se con non poche difficoltà di movimento, facendo intrecciare le loro braccia. Inevitabilmente, anche il resto del suo corpo finì attaccato a quello del poliziotto, perché gli risultava quasi impossibile stare dritto. Una volta fuori, Domenico lo fece appoggiare contro l'auto.

"Respira un po', l'aria fresca ti fa bene."

Fece un paio di respiri profondi, che Claudio imitò immediatamente, guardando il poliziotto negli occhi. Si sentì un po' meglio, anche se la testa continuava a girargli ed in più aveva i brividi, perché era sudato e il venticello notturno diventava più freddo sulla sua pelle, per cui si portò le braccia intorno al busto, nel tentativo di farsi calore.

Domenico se ne accorse e lo guardò preoccupato, portandosi le mani sui fianchi.

"Senti, dov'è che abiti?"

"A Roma…"

Biascicò Claudio, troppo confuso per capire il senso di quella domanda. Domenico sospirò.

"Va bene, e ce l'hai un posto in cui stare, qua? Ti ci portiamo..."

Massimo, ascoltando quella proposta, alzò gli occhi e le braccia al cielo, esasperato.

"Certo, mo' gli facciamo pure da taxi!"

Domenico sbuffò, voltandosi a guardarlo.

"Ti ricordo che siamo qui per aiutare."

Claudio rivolse a quel poliziotto gentile, che per il momento era girato verso quell'altro, uno sguardo confuso. Non capiva perché insistesse tanto per aiutarlo.

"Allora? Ce l'hai o no?"

Ripeté Domenico, riportando Claudio alla realtà. Si schiarì la voce.

"Sì, alloggio al Grand Hotel..."

Rispose, con voce strascicata. Domenico non si stupì di quella risposta, l'aveva capito già dai suoi vestiti che quel ragazzo non aveva certo problemi di soldi, ma l'espressione preoccupata non abbandonò il suo viso.

"E stai solo tu? Non sei venuto qui con qualche amico o una fidanzata?"

Claudio buttò fuori dell'aria, pesantemente. 'Perché sono tutti fissati con la mia compagnia?', pensò.

"No, da solo."

"E a Napoli non conosci nessuno?"

Chiese ancora Domenico, con insistenza. Di quel ragazzo non sapeva nulla, neanche il nome, ma nei suoi occhi blu solcati da due profonde occhiaie scure aveva letto una richiesta d'aiuto che non poteva e non voleva ignorare.

Claudio scosse il capo in risposta e Domenico sospirò, rivolgendo al collega un'occhiata veloce con cui gli diceva di non provare a protestare, prima di tornare a concentrarsi sul ragazzo.

"Allora senti, per stanotte ti portiamo in commissariato da noi, ok? Così ti teniamo d'occhio."

Claudio abbozzò un sorriso, pensando che quello fosse l'arresto più gentile della storia, fatto da quello che probabilmente era il poliziotto più gentile del pianeta. Se non fosse stato assolutamente certo di essere sveglio -perché incapace di dormire-, avrebbe pensato di star sognando.

"Ho alternative?"

Disse debolmente e Domenico fece una risatina.

"In teoria sì, come ti ho detto possiamo portarti in hotel oppure in ospedale, se preferisci. Non è un arresto."

Rispose, intercettando inconsapevolmente i pensieri dell'altro.

"Solo che in hotel rimarresti da solo e in ospedale hanno già abbastanza problemi al Pronto Soccorso, non prendono gli ubriachi che hanno solo bisogno di smaltire la sbornia. Dimmi tu che vuoi fare."

Concluse, facendo spallucce.

Claudio, messo davanti a quella scelta, si disse che non poteva fare altro che accettare quella strana proposta, anche perché sentiva davvero di potersi fidare di quel giovane poliziotto. Probabilmente, pensò per la seconda volta nel giro di poco tempo, era l'alcool che aveva in circolo a non permettergli di pensare lucidamente.

"Va bene, vengo con te."

Rispose, a voce bassa. Domenico lo aiutò a salire sul sedile posteriore dell'auto e invece di sedersi davanti, al posto del passeggero, si accomodò accanto a lui, nel caso in cui avesse avuto bisogno di qualcosa.

Massimo, al posto di guida, scosse incredulo il capo.

"Tu questo lo dovevi solo multare e allontanare da quel cazzo di bar, lo sai, sì?"

Gli ricordò con tono rassegnato, e Domenico fece spallucce.

"Dovremmo fare ciò che è più giusto fare, non limitarci ad attenerci ad un codice."

Rispose, con decisione.

A Claudio, seppur pesantemente stordito, non sfuggì quella risposta, che lo sorprese in positivo e lo portò ad abbozzare un sorriso, anche se non aveva idea del perché quel poliziotto ritenesse che preoccuparsi per lui fosse la cosa giusta da fare. Era solo un ragazzo ubriaco come tanti, in fin dei conti.

Arrivati a destinazione, Massimo si diresse automaticamente verso una delle celle di custodia preventiva, che ospitava già qualche spacciatore portati dentro durante la notte. Domenico, che aiutava il ragazzo a reggersi in piedi, fermò il collega prima ancora che girasse la chiave nella serratura.

"Fermo, apri l'altra."

Accennò con il capo a quella vuota, giusto di fronte. Massimo si voltò a guardarlo, sempre più incredulo.

"E perché? Ci sta ancora spazio, qua!"

Domenico fece un cenno d'assenso con la testa, ma rimase fermo nella sua idea.

"Sì, ma questi se lo mangiano se lo mettiamo in cella con loro."

Rispose, con sguardo eloquente. Massimo sospirò e si spostò verso la cella vuota.

"Ho capito, ti sei trovato un altro gatto."

Commentò, aprendo la porta sbarrata.

"Prego principessa, la sua suite!"

Esclamò pungente, rivolto verso il ragazzo ubriaco, invitandolo ad entrare con un gesto.

Claudio alzò lo sguardo verso l'altro poliziotto, in cerca di conferme, e lui annuì incoraggiante. Era quasi come se si conoscessero da sempre.

"Grazie Massimo, da qui in poi me la vedo io."

Disse, accompagnando il ragazzo in cella.

"Perché ho la sensazione che dovrò finire il giro da solo?"

Ribatté il collega, ormai del tutto rassegnato. Domenico fece una risatina e gli rivolse un sorriso sghembo, di chi ha già una soluzione pronta.

"No, non da solo. Giovanni mi deve un favore, chiedi a lui di accompagnarti."

Massimo annuì e gli porse le chiavi della cella, voltandosi poi verso il ragazzo.

"E tu, vedi di ringraziare l'agente Liguori, che per qualche motivo ha deciso di salvarti il culo, stasera. Se fai cazzate, però, poi te la vedi con me!"

Esclamò, perentorio, puntando l'indice verso di lui per sottolineare il concetto.

Claudio annuì, lentamente. 'Agente Liguori', ripeté in mente.

"Hey, lascialo perdere, Massimo è un cane che abbaia, ma non morde, almeno il più delle volte. Non ti preoccupare, ok?"

Disse Domenico, una volta rimasti soli. Claudio annuì di nuovo e si lasciò condurre verso una delle lunghe panche sistemate lungo le pareti della cella e vi si lasciò cadere, mettendosi seduto.

"Ti posso lasciare?"

Chiese Domenico, puntando gli occhi nei suoi. Lo vedeva debole, troppo debole, anche solo per stare seduto.

"Sì, ce la faccio..."

Rispose Claudio con voce fioca, poggiando la testa contro il muro.

Domenico lo lasciò andare con cautela, pronto ad afferrarlo in caso di necessità, ma il ragazzo non ne ebbe bisogno. Respirava lentamente, però, ed era visibilmente sudato: aveva bisogno di acqua.

"Torno subito, cerca di non muoverti troppo."

Claudio si limitò soltanto ad annuire, quel rischio non c'era proprio. Il corpo gli pesava troppo, ogni tipo di movimento era fuori discussione.

Domenico uscì e rientrò dopo appena un minuto, tenendo in mano due bottigliette d'acqua.

"Queste te le lascio qui, ne avrai bisogno."

Disse, mettendogliele accanto. Claudio si passò la lingua sulle labbra secche e si schiarì la gola.

"Grazie, agente Liguori..."

Il poliziotto gli rivolse un sorriso gentile e sincero.

"Chiamami Domenico, mh?"

"Domenico..."

Ripeté piano Claudio, come ad assaporare il suono di quel nome nella propria bocca. Anche da ubriaco non dimenticava le buone maniere, per cui si presentò a sua volta.

"Io sono Claudio, Vinci, ma puoi chiamarmi Claudio..."

Domenico annuì, mantenendo il sorriso.

"Allora ascoltami, Claudio: questo sicuramente non è il Grand Hotel, ma cerca comunque di dormire un po'. Io starò in una stanza, se hai bisogno di qualcosa non esitare a chiamarmi, va bene? Non farti problemi, sono qui per aiutarti."

Claudio annuì ancora, ringraziandolo con lo sguardo, anche se non era del tutto sicuro che sarebbe riuscito a dormire.

"Ti lascio riposare, buonanotte."

Disse Domenico, accennando anche un saluto con la mano. Subito dopo uscì, chiudendo la cella dietro di sé e Claudio rimase solo. Si guardò un po' intorno, cercando di non muovere la testa in modo troppo brusco, e provò a mettere a fuoco i segni sulle pareti spoglie e grezze, ma con scarso successo.

Riconobbe qualche insulto e, quasi per ironia della sorte, dei cazzi disegnati in modo più o meno realistico, ma che in ogni caso erano la perfetta rappresentazione del crimine di cui secondo suo padre si era macchiato e per il quale lo avrebbe volentieri chiuso in una cella come questa. Paradossalmente, tuttavia, quella cella non gli sembrava una gabbia come la camera d'hotel, forse perché qui aveva davvero scelto di starci.

'Devo essere davvero disperato per ragionare in questo modo', pensò mentre liberava un pesante sospiro.

Prese una delle bottiglie che il poliziotto gentile -'Domenico, si chiama Domenico'- gli aveva portato, impiegandoci quella che gli sembrò un'eternità, e bevve avidamente, svuotandola per quasi la metà. Sentiva gli ospiti nella cella di fronte alla sua parlottare tra loro e chiamarlo insistentemente, ma lui non aveva né la forza né la voglia per alzarsi e rispondere, per cui semplicemente li ignorò, preferendo mettersi disteso sulla panca dura che scricchiolò sotto di lui.

Si rannicchiò su un fianco, quasi in posizione fetale, e chiuse gli occhi che sentiva pesanti già da un po', provando a seguire il consiglio che gli era stato dato. Il suo piano doveva aver funzionato, perché dopo un po' riuscì effettivamente ad addormentarsi; l'ultimo pensiero coerente che gli attraversò la mente furono gli occhi di bosco dell'agente Liguori -'Chiamami Domenico, mh?'- che lo guardavano gentili e una domanda, che gli ronzò in testa fino a quando non perse del tutto conoscenza: 'Perché mi sta aiutando?'.

Domenico aveva preso il posto di Giovanni, il collega che aveva mandato a completare il proprio turno con Massimo, nella stanza del centralino, dove arrivavano le telefonate con le più varie segnalazioni. Ebbe l'accortezza di lasciare la porta leggermente socchiusa, di accomodarsi alla postazione più vicina all'uscita e di posizionare le cuffie su un orecchio solo, in modo da essere pronto a reagire ad un'eventuale richiesta d'aiuto da parte di Claudio, che sperava non arrivasse. Era evidentemente stanco e distrutto dall'alcol -'Non deve essere abituato a bere così tanto', pensò-, aveva bisogno di dormire per rimettersi in sesto.

Le telefonate che arrivarono da quel momento in poi lo colsero tutte di sorpresa, in un paio di casi facendolo perfino sobbalzare come se non avesse mai svolto quel tipo di compito prima d'ora e non fosse abituato ai continui trilli del telefono.

La verità era che la sua mente era altrove, era rimasta nella cella che aveva chiuso alle proprie spalle, e i suoi pensieri erano occupati da quegli occhi di mare che sembravano troppo pesanti, incastonati come zaffiri in un viso leggero e giovane tanto quanto il proprio.

Imploravano soccorso, quegli occhi, portavano con sé una storia e Domenico voleva conoscerla, non per mera curiosità, ma perché sentiva che nessuno si era mai degnato di ascoltarla. Massimo non si era sbagliato del tutto quando aveva detto che Domenico si era trovato un altro gatto, in fin dei conti. Ecco, Claudio era come un gatto randagio che nessuno si era mai preso la briga di accarezzare, o almeno così gli sembrava.

Furono degli schiamazzi, diverse ore più tardi, a distoglierlo dai propri pensieri e a spingerlo a correre in direzione delle celle, da cui provenivano. Quando arrivò, vide che gli spacciatori della cella numero uno si erano ammassati contro le sbarre per guardare in quella di fronte, a cui subito si avvicinò per fare lo stesso. I commenti dei detenuti gli arrivavano attutiti alle orecchie, tutta la sua attenzione era completamente rivolta a Claudio, che tremava disteso sulla panca dove l'aveva lasciato.

"Claudio! Oh!"

Lo chiamò, spaventato, mentre armeggiava con le chiavi per aprire la porta, senza ottenere risposta. In un attimo gli fu vicino e gli si accovacciò accanto, osservandolo preoccupato: Claudio dormiva, ma tremava come una foglia e sudava freddo, balbettando nel sonno parole che non riuscì a cogliere.

"Claudio, forza, svegliati! Non farmi scherzi, dai!"

Esclamò concitato, mentre gli passava una mano sulla guancia in una serie di carezze impacciate che sperava lo facessero tornare lì da lui.

Claudio spalancò le palpebre, reagendo inconsciamente a quella voce e a quel tocco gentile, e la prima cosa che vide furono gli occhi verdi dell'altro e tanto bastò a far svanire l'incubo dalla sua testa.

Domenico sospirò e sorrise, sollevato di vedere di nuovo quel mare davanti a lui, anche se era in tempesta.

"Mi hai fatto prendere un colpo!"

Disse con voce più calma, ma Claudio quasi non lo sentì, perché all'improvviso fu preso da una forte sensazione di nausea e scattò a sedere. Pessima idea, la testa prese a girargli di nuovo come una trottola impazzita e lui si accasciò in avanti, ma Domenico lo afferrò prontamente per i fianchi.

"Piano, piano, piano, resta con me, oh..."

Cercò di non far trasparire tutta la sua preoccupazione dalla voce, ma poco poté fare per gli occhi, che parlavano per lui.

Claudio si aggrappò alle sue spalle con una mano, il braccio teso gli tremava per la tensione e teneva gli occhi chiusi perché la cella gli sembrava girare su se stessa.

"Mi viene da vomitare..."

Disse con voce graffiata, la gola era secca e in fiamme al tempo stesso.

Domenico si voltò istantaneamente verso la porta del piccolo bagno della cella, ma era praticamente certo che fosse guasto o comunque mal funzionante e di conseguenza usarlo sarebbe stato un disastro, per cui non esitò ad alzarsi -cercò di non essere troppo brusco, dato che l'altro si stava reggendo a lui- e lo aiutò a fare lo stesso, in modo da poterlo accompagnare fuori, sostenendolo per il braccio.

"Ti porto in bagno, andiamo."

Claudio non poté far altro che seguirlo per inerzia, sia perché non aveva idea di dove andare, sia perché il suo unico pensiero era di trattenere il vomito il più possibile, almeno fino al bagno. Si affidò completamente a Domenico, quindi, e non trovò difficile farlo.

Domenico avanzava fermamente, liquidando con poche parole le contestazioni dei suoi colleghi di cui in quel momento non gli importava nulla, e di tanto in tanto rivolgeva a Claudio degli sguardi preoccupati. Quando finalmente arrivarono davanti alla porta del bagno, gli sembrò un miracolo.

Claudio si gettò immediatamente sulla tazza e cominciò a buttare fuori tutto ciò che aveva in corpo, cioè sostanzialmente solo alcolici e bile, dato che non mangiava da due giorni.

Domenico non lasciò il suo fianco, gli fu vicino per scostargli i capelli dalla fronte e mantenergli la testa, in attesa che si liberasse di tutto, così sarebbe stato meglio. Non poté fare a meno di notare che non c'erano tracce di cibo in quel vomito, segno che Claudio non mangiava da un po', e la cosa non andava per niente bene.

Tra un conato e l'altro, Claudio cominciò a lamentarsi con dei mugolii strozzati per il dolore causato dai suoi muscoli contratti e a Domenico quei versi fecero uno strano effetto, come se fossero stati dei pugni in pieno petto, ma per il momento non poté fare nulla per aiutarlo, se non sussurrargli qualche parola che sperava potesse essergli di conforto.

"Stai andando bene, vedrai che tra poco starai meglio..."

Claudio si aggrappò a quelle parole con tutto se stesso, esattamente come stava facendo con i bordi di quel water, con le nocche diventate bianche per la forza impiegata. C'era qualcosa in quella voce morbida, che riusciva a dargli sollievo anche se apparteneva ad uno sconosciuto. Sputò gli ultimi residui di schifo nella tazza e poi raddrizzò la schiena, mugolando. Si sentiva a pezzi e respirava affannosamente.

Domenico, ancora una volta, era accanto a lui per sorreggerlo.

"Come ti senti? Va un po' meglio?"

Domandò, puntando gli occhi sul suo viso imperlato di sudore. Claudio si umettò le labbra prima di parlare.

"Mi sento vuoto, ma immagino sia un bene..."

Rispose, abbozzando un sorriso che presto si trasformò in una smorfia di dolore. Portò una mano all'altezza dello stomaco, nel punto in cui gli faceva male, e Domenico seguì quel movimento con lo sguardo.

"Senti, che ne dici se ti porto in infermeria? Così ti stendi, ti riposi meglio..."

Propose, e Claudio lo guardò cauto, quasi con sospetto.

"In infermeria... c'è un medico?"

Chiese, pronunciando lentamente le parole. Domenico annuì.

"Sì, così ti fai dare un'occhiata, ti dice se stai bene..."

Cominciò a rispondere, ma l'altro lo interruppe immediatamente. Non aveva la minima intenzione di farsi visitare perché non voleva far vedere a nessuno i segni sulla sua schiena. Avrebbero fatto troppe domande, domande a cui non voleva rispondere. Si vergognava di quelle cicatrici che lo avevano sfigurato per sempre.

"Sto bene, non ho bisogno di un medico."

Ribatté, brusco, e per sottolineare il concetto si liberò dal sostegno di Domenico, cercandolo però nel lavandino a cui si appoggiò con la scusa di lavarsi la faccia.

Domenico sospirò pazientemente e gli si avvicinò di nuovo. Doveva cercare di convincerlo.

"Non fare il testardo, anche se stai bene che male può farti una visita di pochi minuti? E poi così avresti una scusa per riposare in un letto più o meno decente!"

Claudio, però, era irremovibile e scosse il capo, facendo cadere qualche gocciolina d'acqua per terra e sulla camicia.

"Ti ho detto di no, ti chiedo di non insistere."

Replicò con freddezza e Domenico si stupì di vedere del ghiaccio in quegli occhi blu, che fino a quel momento gli erano sembrati così caldi. Decise di non insistere ulteriormente per non farlo agitare, ma anche perché gli era venuta un'altra idea.

"Va bene, come vuoi tu..."

Fece spallucce.

"Se ti senti meglio, usciamo da qui. Non ti fa bene stare in uno spazio così stretto..."

Usciti dal bagno, Domenico imboccò una direzione diversa nel corridoio, opposta rispetto a quella da cui erano venuti e in cui c'erano le celle. Claudio, che camminava aggrappato a lui, se ne rese conto soltanto quando si ritrovò davanti ad una normale porta di legno e non alle inferriate della cella. Si fermò sul posto, costringendo anche l'altro a fermarsi.

"Ti avevo chiesto di non portarmi in infermeria."

Disse, risentito. Domenico scosse appena il capo.

"Non è l'infermeria, guarda..."

Così dicendo aprì la porta, rivelando una piccola stanza con quattro brandine sistemate all'interno.

"Qui ci veniamo a fare un'oretta di sonno quando facciamo il turno di notte. Siccome però è quasi finito, adesso non c'è nessuno ed è tutta tua."

Spiegò, chiudendo subito la porta alle loro spalle, dopo essersi accertato che nessuno li avesse visti.

Claudio si diede un'occhiata in giro, sorpreso, ma lo sguardo più stupito lo rivolse al ragazzo accanto a lui. Per l'ennesima volta nel giro di qualche ora si chiese perché si stesse dando così tanto da fare per lui.

"Non rischi qualcosa, se mi trovano qui?"

Domandò, mentre Domenico lo aiutava a sedersi su una brandina. Era sicuro di non poter stare lì, che ci fosse qualche regola che lo vietava. Domenico scacciò quell'obiezione con un sorriso.

"Non ti preoccupare, me la vedo io."

Rispose, tranquillo. Era perfettamente consapevole del fatto che niente e nessuno gli avrebbe tolto un richiamo formale se qualcuno si fosse accorto di ciò che stava facendo, ma la sua condotta era sempre stata impeccabile e valeva la pena correre il rischio per aiutare quel ragazzo che sembrava averne così tanto bisogno.
Claudio si prese qualche istante per guardarlo negli occhi, che sembravano così sicuri di sé e così limpidi, sinceri, alla ricerca di una risposta alla sua domanda che però non trovò. Sospirò e si mise disteso, su un fianco perché stendersi di schiena era fuori discussione, ma anche mettersi a pancia in giù come faceva di solito non gli era possibile, dal momento che i muscoli ancora gli dolevano per lo sforzo di vomitare.

"Ma ti fa male la schiena, per caso? È per questo che ti ho fatto male prima, al bar?"

Domandò Domenico, in piedi accanto a lui. Claudio deglutì.

"No, è che...sto più comodo così."

Tagliò corto, e Domenico colse immediatamente l'antifona. 'Certo che ci vuole pazienza, con te.', pensò, ma in fondo la pazienza non gli mancava. Claudio era davvero come uno dei suoi gatti randagi, così diffidenti quando lo vedevano per la prima volta, ma lui sapeva come conquistarne la fiducia.

"E la pancia, invece, ti fa ancora male?"

Chiese, premuroso. Claudio rimase in silenzio per un paio di secondi, valutando la risposta da dargli, e decise che almeno su quello poteva evitare di omettere la verità, quindi annuì lentamente.

"Non mi capita molto spesso di vomitare, non sono abituato..."

Rispose, portandosi una mano sulla zona interessata. Domenico accennò un sorriso e indicò la brandina con una mano.

"Posso?"

"Prego..."

Rispose l'altro e il poliziotto si sedette sul bordo, cercando di non occupare troppo spazio. Avvicinò poi una mano alla sua pancia, senza però toccarla.

"Permetti?"

Chiese con gentilezza, guardandolo negli occhi.

"Sì..."

Si ritrovò a rispondere Claudio senza accorgersene, ancor prima di pensarci.

Un istante dopo Domenico poggiò delicatamente la mano su di lui e cominciò a fargli delle lente carezze circolari, simili ad un massaggio. Sentì che la sua pelle, anche se coperta dalla camicia, era caldissima contro la propria mano.

Claudio si irrigidì per un attimo, timoroso, per poi cominciare immediatamente a rilassarsi, liberando un sospiro. Il tocco di Domenico era leggerissimo, eppure poteva sentire i suoi muscoli tesi sciogliersi sotto di esso e il dolore svanire pian piano. Chiuse gli occhi, senza nemmeno rendersene conto.

"Va meglio?"

Domandò Domenico dopo un po', cercando di non pensare a quanto quel calore che aveva sentito sulla sua pelle avesse viaggiato dentro di lui, attraverso il proprio braccio, arrivando dritto al petto.

"Molto meglio, grazie."

Sussurrò Claudio, con voce impastata dal sonno, ma molto più serena.

Domenico sospirò soddisfatto e allontanò la mano, premurandosi di aggiustare un po' la camicia che aveva stropicciato con le sue carezze, anche se era già abbastanza stropicciata di suo.

"Non mi devi ringraziare, devi solo pensare a riposarti. Il mio turno finisce tra un'oretta, poi ti passo a prendere e ti riporto in albergo."

Sospirò.

"E senti, nella malaugurata possibilità che ti veda qualcuno, tu non esitare a dire che ti ci ho messo io qua, capito?

Claudio avrebbe voluto protestare e dirgli che non valeva la pena correre un rischio del genere, ma l'intorpidimento generale ebbe la meglio su di lui e riuscì solo a biascicare un “Va bene” appena accennato. Per l'ennesima volta, la domanda che gli girava in testa da quando aveva lasciato quel bar, restò inespressa.

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Capitolo 27
*** Appendice, Capitolo 1 - Quella notte blu come te (parte 2) ***


Furono fortunati, nessuno si accorse della presenza di Claudio nella stanzetta e, di conseguenza, nessuno andò a rimproverare Domenico. Quando quest'ultimo entrò nella stanza alla fine del turno, facendo attenzione a non essere visto, trovò l'altro che dormiva placidamente nella stessa posizione in cui lo aveva lasciato.

"È quasi un peccato svegliarlo..."

Mormorò tra sé e sé notando il suo viso rilassato e sereno, così diverso da come lo aveva visto nelle ore precedenti. Si avvicinò lentamente, senza far rumore, perché anche se doveva svegliarlo non voleva farlo in maniera troppo brusca.

"Claudio? Hey?"

Disse piano, con la stessa delicatezza che usava con sua sorella quando la svegliava per andare a scuola.

Claudio strizzò gli occhi per un istante, poi li aprì. Impiegò qualche secondo a ricordare dove fosse, ma ciò che più lo stupì fu che, finalmente, fosse riuscito a dormire in modo soddisfacente. Aveva anche fatto un sogno molto piacevole, una passeggiata in un bosco che sembrava uscito da un dipinto, ma di cui poteva cogliere i suoni -il cinguettio degli uccelli, il ronzio delle api, il fruscio delle foglie-, i profumi -dei fiori e dei frutti più vari- e le sensazioni fisiche -il venticello che gli accarezzava i capelli, l'erba morbida e fresca di rugiada sotto i piedi, il calore del Sole sulla pelle nuda e liscia, senza nemmeno un graffio-. Gli aveva fatto bene all'anima, quel sogno, e dormire, anche se per poco, gli aveva fatto bene al corpo.

"Ciao, Domenico... c'è qualche problema?"

Domandò, con la voce impastata dal sonno e gli occhi di nuovo mezzi chiusi, stretti in due piccole fessure. Domenico scosse piano il capo, accennando un sorriso.

"No, no, è solo che il mio turno è finito e dobbiamo uscire. Tu come ti senti? Ce la fai ad alzarti?"

Chiese, già pronto ad aiutarlo.

Claudio si passò una mano sul viso, sbadigliando, e liberò un lungo sospiro che sperava potesse aiutarlo a scrollarsi di dosso il torpore. Si mise a sedere, evitando movimenti bruschi.

"Sto un po' meglio, grazie..."

Allungò una mano verso l'altro, che subito l'afferrò dandogli l'appoggio che cercava per rimettersi in piedi.

"Eh, te l'ho detto che ti saresti sentito meglio, vomitando. È sempre così..."

Commentò Domenico, lieto di saperlo. Claudio gli rivolse uno sguardo incuriosito, accompagnato da un sorriso furbetto, anche se stanco.

"Parli per esperienza personale?"

Domenico ridacchiò, e ricambiò il suo sguardo con divertimento, piacevolmente sorpreso di essere stato preso in contropiede. Si rese conto che quegli occhi blu sapevano essere pungenti, se lo volevano.

"Mi dichiaro colpevole, anche se è acqua passata. Sono un poliziotto, adesso, devo dare il buon esempio."

Rispose, con una punta di orgoglio nella voce. Claudio notò che gli occhi verdi brillavano fieri, segno che ci credeva davvero in quelle parole. Per quel poco che lo conosceva, poi, era sicuro che non fossero vuote.

"L'acqua c'entra poco mi sembra, credo sia più appropriato dire che è birra passata, o vino, magari?"

Commentò scherzoso, e Domenico reagì con una risatina divertita, a cui seguì quella più contenuta di Claudio, poco più di uno sbuffo.

"Lo è decisamente, sì."

Concordò il poliziotto, con la risata che sfumava sulle labbra, per poi fare segno all'altro di non fare rumore. Aprì leggermente la porta, in modo da controllare che non ci fosse nessuno nei dintorni, e trovando la via libera uscirono entrambi dalla stanza.

In pochi minuti lasciarono anche il commissariato -Domenico si fermò a salutare qualche collega nei corridoi- e, appena fuori, trovarono ad accoglierli sia l'aria ancora fresca del primo mattino, sia un Sole già abbastanza deciso che portò Claudio a pararsi gli occhi con una mano, infastidito dalla luce. Domenico lo vide e, con un sorriso, gli porse i propri occhiali da Sole.

"Tieni, sempre per esperienza personale so che ti servono anche questi..."

Claudio accettò con un sorriso riconoscente l'ennesima premura che quel ragazzo gli stava facendo e indossò le lenti scure senza esitare.

"Ancora una volta, grazie."

Domenico fece spallucce.

"Per così poco? Eddai!"

Si voltò a guardarlo e indicò gli occhiali con un cenno veloce della mano.

"E poi stanno meglio a te che a me."

Claudio si ritrovò ad arrossire e ad abbassare lo sguardo- sperando che l'altro non lo notasse- a quel complimento, che poteva sembrare banale, ma come tutti i complimenti fatti dalle persone belle valeva di più e Domenico...beh, era molto bello.

Domenico, però, se ne accorse e accennò un sorriso, trovando molto tenera quella reazione. Pensò che forse Claudio non fosse abituato a ricevere complimenti, eppure era strano perché...beh, perché era molto bello. Forse non sapeva di esserlo, però.

"Ti va di fare colazione? Avrai fame, immagino..."

Era da quando lo aveva accompagnato in bagno che pensava al suo stomaco praticamente vuoto, pieno solo di alcolici, ed era deciso a fargli mettere qualcosa sotto i denti.

"Solo se mi permetti di offrirtela!"

Rispose Claudio, con voce bassa, ma divertita e decisa. Avvertiva ancora una discreta nausea, ma al tempo stesso aveva fame e non aveva idea di dove finisse una e iniziasse l'altra, per cui preferì comunque accettare la proposta. Senza contare, poi, che in qualche modo doveva sdebitarsi di tutta la gentilezza che gli era stata dimostrata.

"Ah, questo è da vedere!"

Ribatté Domenico, per poi fare un cenno con il capo verso un bar-pasticceria dall'altra parte della strada.

"Ti faccio assaggiare una sfogliatella che è la fine del mondo, vieni."

Aggiunse entusiasta, offrendogli il braccio con discrezione, nel caso in cui ne avesse avuto bisogno. Claudio non esitò ad accettare quell'aiuto: era vero che si sentiva meglio, ma non abbastanza da poter camminare da solo, per cui gli venne estremamente naturale aggrapparsi al braccio di Domenico come aveva fatto qualche ora prima.

Entrati nel locale, vennero investiti dal profumo di dolci caldi e Domenico salutò cordialmente la ragazza al bancone.

"Vengo sempre qui a fare colazione dopo il turno di notte, così mi ricarico."

Spiegò, mentre accompagnava Claudio ad un tavolino e lo aiutava a sedersi.

"Riccia o frolla?"

Domandò con un sorriso e Claudio gli rivolse uno sguardo perplesso.

"Ehm...cosa?"

Chiese, confuso. L'altro ridacchiò.

"La sfogliatella, la vuoi riccia o frolla?"

Claudio si grattò una guancia, un po' imbarazzato. Lui neanche sapeva come fosse fatta, una sfogliatella.

"Io, veramente...non l'ho mai mangiata."

Il sorriso di Domenico si trasformò in una risatina, che però non aveva un briciolo di cattiveria o di presa in giro.

"E non ti devi mica vergognare! Anzi, è meglio così, perché in altre città non la sanno fare..."

E per sottolineare il concetto fece oscillare l'indice in segno di negazione. Claudio ridacchiò, più rilassato.

"Faccio io, non ti preoccupare. Ti prendo anche un caffè?"

Chiese ancora Domenico, pensando che potesse aiutarlo a smaltire la sbornia. Claudio, però, scosse il capo. Aveva già abbastanza problemi a dormire senza il caffè, non era il caso di aggiungerne un altro.

"Preferirei una camomilla, se possibile, altrimenti niente, grazie."

"Ok, ci penso io."

Disse il poliziotto, per poi andare ad ordinare. Restò lì per qualche istante in più a scambiare quattro chiacchiere con la ragazza e quando lei, dopo pochi minuti, venne a portare l'ordine al loro tavolino, salutò Domenico con un bacio sulla guancia, anzi due, uno per lato, che portarono Claudio a distogliere lo sguardo per quei pochi secondi, ma non prima di notare che Domenico aveva anche poggiato una mano sul suo fianco, segno che si conoscevano davvero bene.

"Queste sono tue, buon appetito."

Annunciò Domenico, una volta rimasti soli, avvicinandogli uno dei due piattini. Claudio tornò a guardare davanti a sé e vide quelle che dovevano essere senza dubbio due sfogliatelle, anche se avevano un aspetto molto diverso tra loro. La prima era quasi tonda e perfettamente liscia, l'altra invece di forma più allungata e dalla superficie piena di scanalature regolari. Non fu difficile capire quale fosse la riccia e quale la frolla, a quel punto. Spostò gli occhi sul piattino di Domenico, poi, e notò che lui invece ne aveva prese due ricce. Dovevano essere le sue preferite.

"Grazie e buon appetito anche a te."

Disse, accennando un sorriso. Per prima cosa bevve un po' di camomilla e sospirò felice quando sentì il sapore caldo e dolce della bevanda scivolargli dentro, decisamente meglio di tutto ciò che aveva ingurgitato la notte precedente, poi passò all'assaggio dei due dolcini davanti a sé, pieno di curiosità. Fu metodico, ne mangiò prima metà di una -e venne colpito dalla sfoglia fragrante che scrocchiava piacevolmente sotto i suoi denti- e poi metà dell'altra -la cui consistenza così morbida da sciogliersi in bocca lo conquistò in un attimo- e poi mangiò le due metà rimaste, alternandole, per avere una conferma delle sue prime impressioni.

Domenico lo osservò con attenzione e sincera curiosità, tanto che diede soltanto un paio di morsi ad una delle sue due sfogliatelle per poi dimenticare entrambe nel piatto, tutto preso da quegli occhi blu che si tingevano di stupore al primo assaggio e dal quel sorriso beato che faceva capolino tra un morso e l'altro e che restituivano a Claudio la sua età, la sua spensieratezza. Lui non poteva che esserne felice.

"Ti piace di più la frolla, vero?"

Chiese, anche se non era prettamente una domanda. Era pur sempre un poliziotto, del resto, e aveva colto quella preferenza nelle sue reazioni e micro-espressioni. Claudio sgranò gli occhi, stupito come se avesse appena assistito al trucco di un mago, e annuì.

"Come hai fatto a capirlo?"

Domenico fece una risatina e sorrise sghembo, furbescamente.

"Osservando."

Bevve poi un sorso di caffè e ricominciò a mangiare le sue sfogliatelle, soddisfatto. Claudio abbozzò un sorriso e, per qualche motivo, sentì le proprie guance farsi più calde all'idea che quegli occhi di bosco si fossero soffermati così tanto su di lui, quindi cercò di nascondere quel rossore in un lungo sorso di camomilla. Subito dopo, fece per alzarsi.

"Dove vai? Tutto ok?"

Domandò Domenico, seguendo il suo movimento. Claudio annuì, anche se si teneva ancora appoggiato al tavolino perché non era molto sicuro dei propri passi.

"Sì, voglio solo andare a pagare."

Rispose, e il poliziotto ridacchiò, indicandogli la sedia con la mano.

"Allora torna a sederti, perché ho già fatto io."

Claudio si accigliò, contrariato, e sbuffò. Aveva detto che voleva essere lui ad offrirgli la colazione!

"Hai detto che vieni spesso qui, no? Allora ti lascio pagata la prossima, anche se avrei preferito offrirti questa."

Rispose, risoluto. Domenico, che ormai aveva finito di mangiare, si alzò a sua volta e gli andò vicino.

"Ho già detto a Silvia che avresti provato a fare qualcosa del genere e che non doveva accettare nulla, quindi perderesti il tuo tempo a provarci."

"Posso dirti che sei un po' stronzo o mi riporti in cella per oltraggio a pubblico ufficiale?"

Ribatté scherzosamente Claudio, arrendendosi all'evidente sconfitta. Domenico ridacchiò, poi scosse il capo.

"Non sono nell'esercizio delle mie funzioni, quindi puoi farlo."

Fece spallucce.

"È che sei nella mia città, non esiste nel modo più assoluto che io mi faccia offrire qualcosa da te. Dai, adesso ti riporto in hotel, così ti riposi."

Aggiunse con voce morbida ed occhi gentili, fissi in quelli dell'altro.

'Ma perché fa così?', si chiese Claudio ancora una volta.

"Non c'è bisogno, posso anche prendere un taxi..."

Domenico scosse il capo con decisione.

"No, con il traffico che c'è impiegheresti il doppio del tempo, con me fai prima."

Rispose, facendogli cenno di uscire. Claudio si chiese in che modo la sua presenza avrebbe potuto limitare il traffico e trovò una risposta quando, entrati nel parcheggio del commissariato, si avvicinarono ad una moto. Era evidente che Domenico ci tenesse molto, perché non aveva un graffio e si poteva dire che brillasse sotto il Sole ora un po' più alto nel cielo.

"Solo un secondo..."

Lo avvertì Domenico, per poi abbassarsi verso la moto e risalire un attimo dopo con un gatto in braccio.

"Lo sapevo che ti avrei trovata qui! Non puoi venire a casa mia, come te lo devo dire?"

Mormorò con dolcezza, mentre coccolava la palla di pelo tricolore, che subito prese a fargli le fusa. Claudio si avvicinò, incuriosito da quella tenerissima visione -più dolce perfino delle sfogliatelle che aveva appena mangiato- e Domenico gliela mostrò con un sorriso.

"Puoi accarezzarla se vuoi, non ti fa niente. Anzi, è una coccolona."

Claudio non se lo fece ripetere due volte e allungò una mano verso il dorso della micia, accarezzandola delicatamente.

"Ce l'ha un nome?"

Domenico annuì.

"Partenope.”

“Ah, come la sirena? Bello!”

Commento Claudio, allegro, e Domenico fece uno sbuffo divertito.

“Sì, come la sirena. È una dei gatti che gironzolano qua intorno e di cui mi prendo cura. La trovo sempre sulla mia moto quando finisco di lavorare, è proprio decisa a voler venire a casa mia. Figurati, io me la prenderei pure, ma nel palazzo dove abito io non sono ammessi animali..."

"E non c'è nessun altro che potrebbe adottarla?"

Propose Claudio, con cautela. Domenico scosse il capo.

"Ci ho provato, ho chiesto a chiunque, ma vedi il fatto è che lei, come tutti questi gatti, è una randagia. Ha vissuto per tutta la vita in strada, ha già i suoi annetti sulle spalle e ha bisogno di cure, sta diventando cieca ad un occhio. Nessuno vuole un gatto così, capisci?"

Spiegò, per poi liberare un sospiro con gli occhi fissi sulla gatta. Claudio, che aveva spostato lo sguardo su di lui, vide che quegli occhi verdi erano pieni di malinconia e avrebbe tanto voluto fare qualcosa per fargliela passare.

"Dai, non ti crucciare troppo, Partenope mi sembra molto felice anche così, senti che fusa che fa! E sono sicuro che anche per gli altri gatti sia lo stesso."

Gli mise una mano sulla spalla e gli sorrise.

"Si vede che ci tieni tanto a loro e che te ne prendi cura con tutto il cuore. Fai una cosa che nessun altro è disposto a fare e devi esserne fiero, perché anche se a te sembra poco, per questi mici è tutto."

Aggiunse, nel tentativo di dargli un po' di sollievo. Domenico si voltò verso di lui, con un mezzo sorriso sulle labbra, ma pieno di gratitudine. Nessuno aveva mai capito così a fondo quanto aiutare quei gatti fosse importante per lui, nemmeno sua sorella che lo capiva in tutto, e soprattutto nessuno gli aveva mai detto parole così belle a riguardo. Nessuno prima di quel ragazzo conosciuto per caso e che a tutti gli effetti era ancora uno sconosciuto, ma che quasi non sembrava esserlo. Si schiarì la voce, un po' imbarazzato.

"Grazie, Claudio...davvero, non sai quanto avessi bisogno di sentirmelo dire."

Fece una piccola pausa.

"Ora è meglio che riporti Partenope dagli altri, così poi accompagno te."

Così dicendo si incamminò verso un vicoletto dove sapeva che i gatti erano soliti rifugiarsi e Claudio lo vide allontanarsi senza mai staccare gli occhi da lui. Se avesse potuto avrebbe portato volentieri Partenope con sé, a Roma, ma aveva già abbastanza problemi a casa sua ed era certo che suo padre non gli avrebbe mai dato il permesso di tenerla. Senza contare, poi, che ciò avrebbe voluto dire separarla da Domenico, mettendo tra loro una distanza di molti chilometri, ed era altrettanto sicuro che ne avrebbero sofferto entrambi. Forse, però, poteva aiutarlo dandogli i soldi necessari a pagare le cure di cui avevano bisogno lei e gli altri mici. Sì, questo poteva decisamente farlo, i soldi non gli mancavano e sicuramente quei gatti ne avevano bisogno molto più di lui. Gliel'avrebbe proposto una volta tornati in hotel, dove aveva lasciato il blocchetto degli assegni. Era un buon compromesso, tutto sommato.

"Eccomi qua, ci sono..."

Annunciò Domenico, riemergendo dal vicolo. Si avvicinò alla propria moto e, aperto il sedile, porse un casco a Claudio, che subito lo indossò, mentre lui faceva lo stesso con il proprio.

"Aspe', così soffochi..."

Disse divertito, avendo notato che il laccio gli andava stretto sotto al mento perché quel casco di solito lo usava Sara, che aveva la testa più piccola. Si avvicinò, dunque, e prese ad armeggiarvi, aumentando la lunghezza della fascia. Inevitabilmente le sue dita sfiorarono la pelle dell'altro, solo per una manciata di istanti, ma che furono abbastanza da permettergli di assaggiarne il calore, che gli attraversò la pelle come una scossa.

Claudio, dal canto suo, sentì un brivido percorrergli la schiena a quei tocchi rubati, ma si impose di imputarlo alla leggera nausea che stava cominciando ad avvertire.
"Così va meglio, grazie."

Sussurrò, accennando un sorriso. Domenico alzò gli occhi verso il suo volto, sorrise di rimando, e si accomodò in sella. Claudio lo imitò un attimo dopo, un po' più impacciato, e sistemò le mani sulle apposite maniglie ai lati del sedile. Domenico si voltò quanto bastava ad accorgersene e scosse il capo.

"Reggiti a me, non a quelle."

Era abbastanza sicuro, infatti, che Claudio non fosse molto avvezzo alle moto e temeva, considerando anche la sua condizione di debolezza fisica, che potesse perdere la presa sulle maniglie. Non aveva intenzione di superare il limite di velocità, ovviamente, ma era comunque meglio non rischiare.

"Va...va bene!"

Rispose Claudio, un po' imbarazzato, per poi avvolgergli il busto con le braccia. Cercò di mantenersi morbido e di non stringerlo troppo, ma al momento della partenza, quando la moto scattò in avanti, si aggrappò istintivamente a lui, preso alla sprovvista, liberando anche un urletto di sorpresa. Domenico, quando se lo sentì stretto addosso come un koala, ridacchiò bonariamente.

"Me lo potevi dire che avevi paura di andare in moto."

Disse ad alta voce per farsi sentire, comprensivo. Claudio deglutì.

"Non ho paura, è che non sono abituato!"

Rispose, e al tempo stesso fece per separare i loro corpi. Domenico, però, lo trattenne portando una mano sul suo polso.

"Resta così, non mi dai fastidio. E per qualsiasi cosa avvertimi, va bene?"

Era serio, sentire il corpo di Claudio così vicino al proprio non gli dava fastidio, anzi. Lo stava riaccompagnando in hotel e si rendeva perfettamente conto di quanto ciò fosse patetico, ma desiderava tenerlo accanto a sé il più possibile in quell'ultimo tratto prima che le loro strade si dividessero definitivamente.

Claudio non poteva vederli dalla sua posizione, ma percepiva lo stesso perfettamente la determinazione in quegli occhi verdi, che tuttavia, ne era certo, rimanevano comunque gentili. Annuì, dunque, muovendo il capo sulla sua spalla, e prese a respirare profondamente per cercare di calmare il suo cuore agitato che, anche dopo che gli fu passato quel piccolo spavento, non accennava a calmarsi. Sperava con tutto se stesso che Domenico non lo sentisse battergli contro la schiena, vicini com'erano.

Ciò che Claudio non sapeva, e che Domenico sperava non scoprisse, era che anche il suo cuore aveva preso a correre all'impazzata. Su quella moto aveva trasportato un'infinità di persone, con molte delle quali aveva avuto anche delle relazioni più o meno lunghe, eppure nessuno di loro lo aveva mai fatto sentire così. Forse perché non avevano gli stessi occhi blu di Claudio.

 
"Domenico..."

Mormorò Claudio ad un certo punto, dopo un tratto in cui avevano dovuto superare diverse auto facendo slalom tra esse. Domenico, nonostante la sua voce fosse poco più di un sussurro, la sentì perfettamente, così come lo sentì allentare la presa su di lui. Senza esitare, si fermò sul lato della strada appena gli fu possibile.

"Hey, che c'è? Non ti senti bene?"

Chiese preoccupato, già in piedi vicino a lui per aiutarlo a scendere dalla moto. Claudio fece giusto in tempo a mettere i piedi a terra, ma non a rispondere: vomitò lì dov'era, senza riuscire ad avvisare l'altro, dritto dritto sulle sue scarpe e, in parte, sulla divisa. Non appena si rese conto del disastro che aveva combinato impallidì, più di quanto già non fosse, e imprecò mentalmente contro se stesso.

"Oddio Domenico, perdonami, io...non sono riuscito a trattenermi..."

Balbettò rapidamente, ma venne interrotto dalla fragorosa risata di Domenico, che non era per niente turbato dall'accaduto.

"Tranquillo Claudio, dai, sono cose che capitano..."

Disse placidamente, sorridendogli.

"Mo’ stai meglio?"

Claudio annuì, stupefatto. Possibile che non si fosse arrabbiato nemmeno un po'?

"E questo è l'importante. Ti dispiace se passiamo da casa mia prima di andare in hotel, così mi cambio?"

"No, no, certo...anzi, se...se poi mi lasci i vestiti, te li faccio lavare io e le scarpe te le ricompro!"

Rispose Claudio, mangiandosi un po' le parole. Domenico liquidò la questione con un gesto della mano.

"Sì, poi a quello ci pensiamo..."

'Anche se potrebbe essere un modo per rivederci...', aggiunse in mente, e al pensiero il suo sorriso si allargò.

"No, facciamo così e basta. Stavolta non mi freghi!"

Precisò Claudio, guardandolo negli occhi con fermezza. Domenico non poté che concordare e annuì.

"D'accordo, d'accordo, facciamo come dici tu. Te la senti di andare?"

Claudio annuì ed entrambi salirono in moto. Questa volta Domenico fu più attento a non eseguire manovre brusche, era anche colpa sua se lo stomaco di Claudio aveva reagito male e non voleva accadesse di nuovo.

Arrivati a casa sua, al terzo piano di un condominio, fece segno a Claudio di fare silenzio, ma da uno sguardo veloce al tavolino all'ingresso, dove non vide neanche un mazzo di chiavi, si rese conto che la casa era vuota: vista l'ora, sua madre doveva essere andata a messa, e sua sorella non era ancora tornata.

"Via libera."

Disse scherzoso, invitandolo a seguirlo con un cenno del capo.

"Non è che arriva il tuo amico di stanotte ad arrestarci? Sembriamo due ladri."

Commentò Claudio, ironico, e Domenico ridacchiò.

"Ma non è che sotto sotto hai preferito la cella al Grand Hotel?"

Claudio non rispose, limitandosi a fare una risatina, ma era esattamente così. A Domenico quel silenzio bastò come risposta, unito a quegli occhi che parlarono per lui, e non fu una risposta che gli piacque.

'Cos'è che ti porti dentro?', pensò, guardandolo di sottecchi.

Arrivati in fondo al corridoio, aprì la porta della sua stanza e vi entrarono.

"Accomodati pure, io mi do una sistemata e torno."

Disse indicandogli il letto, per poi recuperare velocemente qualcosa da indossare.

"Grazie."

Replicò Claudio, sedendosi sul bordo del materasso, composto. Quando Domenico uscì, lasciandolo solo, si rese conto della semplicità con cui gli aveva permesso di entrare nella sua stanza, che poteva sembrare un gesto banale, ma non lo era: lì c'erano tutte le sue cose, piccole e grandi parti di sé che raccontavano la sua storia, c'erano i suoi sogni che aleggiavano nell'aria, c'erano le sue paure in agguato sotto quello stesso letto su cui ora era seduto e c'erano senz'altro i suoi segreti nascosti chissà dove, forse nell'armadio come nel più scontato dei cliché. Non tutti avrebbero concesso ad uno sconosciuto di poter vedere quel mondo, lui stesso non l'avrebbe fatto a causa della troppa vergogna che provava nei confronti di se stesso, eppure quel ragazzo non aveva esitato. Doveva essere davvero speciale.

Domenico, entrato in bagno, si sfilò rapidamente scarpe e vestiti, e altrettanto rapidamente entrò in doccia. Non era arrabbiato con Claudio, ma doveva ammettere che non vedeva l'ora di liberarsi della puzza di vomito acido che inevitabilmente si portava addosso. Prese a lavarsi velocemente, cominciando anche ad avvertire il peso della notte insonne, e intanto non riusciva a smettere di pensare alla considerazione fatta poco prima: se Claudio aveva davvero preferito una cella spoglia e sporca all'elegante stanza di uno sfarzoso hotel, voleva dire che qualcosa non andava. Aveva bisogno d'aiuto e lui voleva aiutarlo, ma come? Prima o poi se ne sarebbe tornato a Roma e con più di duecento chilometri a separarli, diventava un'impresa impossibile.

Rientrò in camera dopo aver indossato i vestiti puliti e si bloccò poco oltre la porta, sorridendo spontaneamente per ciò che gli si presentò davanti agli occhi. Forse aveva impiegato un po' troppo tempo a scervellarsi sotto la doccia, perché Claudio si era addormentato sul suo letto, probabilmente senza neanche volerlo.

Gli andò vicino per assicurarsi che fosse tutto a posto -stava effettivamente dormendo, non era svenuto o cose simili- e, facendo attenzione a non svegliarlo, gli sfilò le scarpe e gli portò le gambe, che erano rimaste un po' penzoloni, sul materasso. Era meglio lasciarlo dormire, era più giusto così.

Prima di lasciare la stanza si preoccupò di scrivergli un breve biglietto che lasciò sul cuscino, in modo che potesse leggerlo se si fosse svegliato all'improvviso, e preparò un rudimentale avviso di 'NON DISTURBARE' scrivendolo semplicemente su un foglio, che bucò e appese alla maniglia esterna della porta, così che nessuno entrasse.

Lui, invece, si sistemò sul letto di Sara, nell'altra stanza, e crollò addormentato nel giro di pochi minuti. Fu proprio lei a svegliarlo entrando, appena un'oretta dopo, e lui mugolò, stanco.

"Oddio, scusami, non credevo di trovarti qui. Pensavo fossi nella tua stanza, hai pure scritto di non disturbare..."

Commentò la ragazza, sorpresa. Domenico sospirò e si rassegnò ad aprire gli occhi.

"No, quello non era per me..."

Rispose, per poi sbadigliare. Sara, allora, gli si avvicinò e gli rivolse uno sguardo incuriosito, che lui conosceva fin troppo bene.

'Interrogatorio in arrivo.', si disse.

"No? E per chi? Chi hai portato di così segreto nella tua stanza, tanto da non volerci far entrare nessuno?"

Chiese, enfatizzando particolarmente la domanda. Domenico sospirò di nuovo.

"Si chiama Claudio e non è segreto, è solo stanco e non volevo che qualcuno lo svegliasse mentre dormiva."

Rispose con sguardo eloquente, sollevando un sopracciglio. La sorella, però, si illuminò a quella notizia e fece passare in secondo piano la provocazione.

"Ma allora vedi che avevo ragione? I preservativi servivano più a te che a me!"

Esclamò, e Domenico sgranò gli occhi, arrossendo leggermente.

"Ma che dici? Che vai a pensare? E non gridare, va a finire che ti sente!"

Rispose, mantenendo un tono basso, ma deciso. Si mise a sedere, passandosi una mano sul volto assonnato.

"Se proprio lo vuoi sapere, stanotte l'abbiamo portato in commissariato perché era ubriaco e lo stavo riportando al suo hotel quando mi ha vomitato addosso. Allora siamo venuti qui perché volevo cambiarmi, ma lui intanto si è addormentato e ho preferito non svegliarlo."

Spiegò, cercando di riassumere al meglio delle sue possibilità da persona con appena un'ora di sonno in corpo. Sara annuì, con l'aria di chi la sapeva lunga.

"Beh, certo, in effetti se vi foste dati da fare, tu non te ne saresti venuto a dormire qui."

"Dormire è un parolone..."

Ribatté Domenico, piccato, cercando di ignorare la prima parte del commento di sua sorella. Lei ridacchiò.

"È carino?"

Chiese a bruciapelo e Domenico sgranò gli occhi per un istante.

"Ma che domanda è? Che c'entra adesso?"

Sara fece un verso di impazienza.

"Eddai, rispondimi! È carino?"

Domenico sospirò per l'ennesima volta, un sospiro più pesante degli altri, ma non fece fatica ad annuire. Claudio non era semplicemente carino, era proprio bello.

"Molto, molto carino, sì."

Rispose, accennando un sorriso imbarazzato. Lei si voltò verso la porta, come una cagnolina curiosa.

"Vado a verificare di persona!"

Esclamò, per poi uscire.

"No! Sara, che cazzo fai? Ferma!"

Ribatté lui, alzandosi in fretta e furia per seguirla. Lei, però, era già entrata nell'altra stanza -questa volta senza fare rumore, almeno- e stava osservando Claudio dormire.

"Esci subito!"

Sussurrò Domenico, perentorio, con gli occhi sgranati, indicando la porta. Sara, però, lo ignorò.

"È molto carino."

Commentò a bassa voce, divertita.

"Ti ricordo che sei fidanzata."

Replicò lui, tirandola leggermente per una mano.

"Infatti lo dico per te."

Disse lei, quasi impercettibilmente. Domenico si sentì avvampare di nuovo, anche se non ne capiva il motivo. Da quando l'aveva realizzato, un paio di anni prima, non aveva mai nascosto a sua sorella di essere bisessuale, e lei non l'aveva mai giudicato, anzi. Parlavano sempre abbastanza liberamente delle sue conquiste più o meno durature, così come parlavano anche di Enzo. Forse quella reazione era solo dovuta alla stanchezza.

"Smettila, su...non è come pensi."

Replicò semplicemente, non trovando cos'altro dire. Sarebbe stato ipocrita a negare che, se avesse conosciuto Claudio in un altro modo -sempre in un bar, magari, ma in una situazione completamente diversa-, ci avrebbe provato con lui, eppure anche solo pensare di inserirlo nell'elenco di persone con le quali aveva trascorso qualche notte di passione e nulla più gli sembrava sbagliato.

"Beh, comunque è destino che vi siate incontrati."

Disse ancora Sara e lui alzò gli occhi al cielo: quando sua sorella cominciava con quelle tiritere quasi non la sopportava.

"Dai Sara, per favore, non dire stronzate. Il destino non esiste, è stato solo un caso..."

Lei scosse il capo, decisa.

"E quante possibilità c'erano che a Napoli, di sabato sera, tu incontrassi proprio lui?"

Prima che Domenico potesse provare a dare una risposta, Claudio aprì gli occhi. Tutto quel chiacchiericcio, di cui comunque non aveva colto una sola parola, lo aveva svegliato. Vide davanti a sé Domenico e una ragazza che non conosceva e poi una stanza, che certamente non era la sua in hotel. Impiegò qualche secondo a ricordare che erano andati a casa di Domenico, doveva essersi addormentato lì.

'Bella figura, complimenti.', pensò mentre sospirava.

Immediatamente, Domenico si voltò verso di lui, allarmato.

"Hey, scusaci, non volevamo svegliarti...togliamo subito il disturbo!"

Disse, facendo cenno alla sorella di seguirlo, ma lei non si mosse e anzi, rivolse a Claudio un bel sorriso cordiale.

"Ciao, io sono Sara, la sorella di questo brontolone qui!"

Disse allegra, porgendogli la mano, e Claudio ridacchiò, mettendosi a sedere per stringerla.

"Piacere, io sono Claudio."

Le disse ricambiando il sorriso, poi si voltò verso Domenico, e il suo sorriso si spense un po'.

"Sono io che dovrei togliere il disturbo. Chiamo un taxi e torno in hotel..."

La prospettiva non lo allettava per niente, ma prima o poi avrebbe dovuto farlo. Domenico sentì un tonfo al cuore a quella notizia e, soprattutto, alla malinconia che vide nei suoi occhi, ma ci pensò sua sorella a parlare.

"Oppure potresti restare qui per pranzo, così intanto ti riposi un altro po'! Tu che dici, Mimmo? Può restare?"

Domenico, sorpreso, sorrise a quella proposta e annuì.

"Se vuole, certo che può."

Rispose guardando Claudio, il cui sorriso era tornato a farsi più luminoso, più caldo.

"Non vorrei essere di troppo..."

Provò a contestare, ma Domenico lo fermò subito con un gesto della mano.

"A tavola non si è mai di troppo! Davvero, se ti fa piacere resta, altrimenti ti riaccompagno..."

Claudio scosse il capo.

"No, no, certo che mi fa piacere."

"Perfetto, allora torna a dormire. Ti giuro che non ti disturberemo più!"

Replicò Domenico, entusiasta. Claudio, però, si rese conto che anche lui aveva passato una notte pesante e che sicuramente aveva bisogno di dormire. Si alzò, in modo da lasciargli il letto.

"No, sei tu che dovresti riposare. Il letto è tuo, io posso appoggiarmi sul divano..."

Domenico scosse il capo con decisione, incrociando le braccia.

"No, non se ne parla proprio! Io torno sul letto di Sara, non ti preoccupare..."

"Eh no, non puoi! Anch'io voglio dormire un po' e il mio letto è troppo piccolo per me e te! Il tuo invece è più grande, ci state entrambi!"

Esclamò subito lei, rivolgendo al fratello uno sguardo furbetto.

'Non lo stai facendo davvero.' pensò lui, incredulo.

"E quindi io vado, a dopo!"

Concluse lei, lasciando subito la stanza per andare a chiudersi nella propria. Domenico sospirò, imbarazzato e Claudio, invece, fece una risatina.

"Che tipetto..."

Commentò, con affettuoso divertimento.

"Eh, puoi dirlo forte..."

Replicò Domenico, abbozzando un sorriso.

"Senti, comunque ci vado io sul divano, così tu stai più tranquillo. A breve mia madre tornerà dalla messa e sicuramente ti sveglierebbe..."

Aggiunse e Claudio si grattò distrattamente una guancia in un gesto nervoso, un po' incerto sul da farsi. O meglio, sapeva benissimo quale fosse la cosa migliore da fare e cosa volesse fare, il problema era come proporla.

"Sveglierebbe anche te, però."

Si schiarì la gola.

"Resta, non mi dai fastidio. Tua sorella non ha tutti i torti."

Fece spallucce, accennando un sorriso.

"Se ti va bene, insomma."

Domenico, in risposta, andò a sedersi sul letto, senza però stendersi.

"Sicuro che per te non sia un problema?"

Claudio fece lo stesso, mettendosi disteso sul lato libero, girato su un fianco. Lo guardava, sorridente e tranquillo, e quella fu la sua risposta.

Domenico si lasciò convincere -non che ci volesse poi molto- e si posizionò anche lui su un fianco, in modo che stessero faccia a faccia. Anche se a breve Claudio avrebbe chiuso gli occhi, gli sembrava sgarbato dargli le spalle.

"In questi casi che si dice? Buonanotte o buongiorno?"

Domandò Claudio a bassa voce, divertito. Domenico fece una risatina.

"Credo che buon riposo vada bene."

"Buon riposo, allora."

Sussurrò Claudio, con un morbido sorriso appena accennato sull'angolo delle labbra. Qualcosa gli diceva che sarebbe stato davvero un buon riposo, per lui...forse erano quegli occhi verdi così rassicuranti.

"Buon riposo."

Ripeté Domenico, a voce altrettanto bassa e con un sorriso luminoso. Per un singolo istante fu attraversato dall'istinto di accarezzarlo, come da un lampo, ma dissimulò scaricando il movimento sul cuscino su cui fece passare la mano -in modo apparentemente distratto- come a volerlo ammaccare un po'. Di solito non si faceva problemi a dimostrarsi particolarmente fisico con chi gli stava intorno, ma si manteneva sempre entro i limiti del rispetto dell'altra persona e Claudio gli aveva fatto capire di non apprezzare il contatto fisico, per cui non l'avrebbe sfiorato. Eppure, quegli occhi blu così malinconici sembravano chiedere a gran voce una carezza.

 
Si addormentarono insieme nel giro di pochi minuti, come due orologi sincronizzati, e dormirono a lungo, indisturbati. Il letto era abbastanza grande per entrambi, eppure durante il sonno si erano avvicinati, come due satelliti inconsapevoli che gravitavano nella stessa orbita. Claudio se ne stava rannicchiato contro Domenico, con il capo nascosto nell'incavo del suo collo e Domenico, che l'aveva percepito mentre dormiva, aveva poggiato una mano sul suo fianco per tenerlo vicino.

Anche il risveglio fu all'unisono, aprirono gli occhi quasi nello stesso momento, e Claudio, non appena si rese conto della posizione in cui si trovava, si scostò rapidamente, pieno di vergogna e imbarazzo.

"Ti...ti chiedo scusa, non me ne sono accorto..."

Balbettò, con gli occhi sgranati puntati in basso. Domenico gli sorrise rassicurante e allontanò la mano, per non creargli disagio. Anche lui era rimasto sorpreso del modo in cui si erano ritrovati, ma non era allarmato. Non era certo la prima volta che si svegliava con un'altra persona così vicina a sé.

"Hey, tranquillo, va tutto bene, non ti agitare. Non è successo niente..."

Claudio sospirò, cercando di calmarsi. Guardava ancora in basso, ma per un istante alzò gli occhi verso quelli dell'altro e vi trovò una calma che coincideva perfettamente con quella delle sue parole, era sincero.

"Pensavo di averti dato fastidio..."

Mormorò e Domenico scosse appena il capo.

"E perché mai? Non hai fatto niente di male! Piuttosto, hai dormito bene?"

Claudio annuì e le sue labbra si curvarono in un dolce sorriso. Non dormiva così bene da un po'.

"Questo è l'importante! Sono comodo, quindi?"

Commentò Domenico, allegro. Era felice di sapere che avesse riposato bene, perché ne aveva bisogno, ed era felice di vederlo sorridere, finalmente. Non poté fare a meno di pensare che quel ragazzo, già bello normalmente, in quel momento lo fosse ancora di più, con un sorriso stupendo che arrivava agli occhi blu rendendoli più limpidi e luminosi.

Claudio fece una risatina e annuì, un po' imbarazzato.

"Sì, lo sei. Anzi, si potrebbe dire..."

Si interruppe, scuotendo il capo. Non era il caso.

"No, niente."

"E no, dai, ora voglio sapere!"

Protestò scherzosamente Domenico, con gli occhi vispi -nonostante si fosse svegliato da pochissimo- che luccicavano di curiosità: voleva conoscere il suo modo di vedere le cose, anche se presto avrebbero avuto chilometri e chilometri a separarli.

"Ma no, sul serio, era una scemenza!"

Cercò di difendersi Claudio, minimizzando. Domenico, però, non era intenzionato a demordere.

"Un motivo in più per dirla! Poi riguarda me, ho il diritto di saperla!"

Esclamò con enfasi, facendo poi una risatina.

"Davvero, mi interessa."

Aggiunse, più calmo. Claudio prese un profondo respiro e, trovando impossibile resistere a quegli occhi verdi così magnetici, decise di esternare il suo pensiero.
"Sei accogliente, ecco."

Riteneva, infatti, che quello fosse l'aggettivo migliore per descrivere Domenico: ad esempio, un divano può essere comodo, ma se messo nel mezzo di una stanza in cui c'è una festa piena di sconosciuti, resta un divano comodo e basta. Domenico, invece, era stato in grado di annullare il mondo circostante e Claudio, così vicino al calore del suo corpo e al suo profumo, si era sentito semplicemente accolto.

Domenico sollevò leggermente le sopracciglia e sgranò gli occhi, in un gesto involontario di stupore. Aveva dormito con tante ragazze e anche con un discreto numero di ragazzi negli ultimi anni, ma era la prima volta che qualcuno gli faceva quel complimento.

"Non me l'ha mai detto nessuno, sai? Ti ringrazio."

Disse con un sorrisetto sghembo, lusingato. Claudio si schiarì la gola, cercando di non pensare a quanto fosse bello Domenico in quel momento, con i capelli arruffati dal sonno, gli occhi illuminati dal Sole e le labbra curvate in quel modo furbetto, e accennò un sorriso.

"E tu, invece, come hai dormito?"

Domandò, preferendo cambiare argomento e anche perché gli interessava davvero saperlo.

"A suonno chino."

Rispose Domenico, facendo poi una risatina all'espressione perplessa dell'altro.

"Significa 'a sonno pieno', cioè profondo. Ho dormito benissimo, insomma."

Spiegò e Claudio sorrise, più disteso. Ne era felice, dopo la nottataccia che gli aveva fatto passare.

"Allora direi proprio che possiamo dirci 'buongiorno', adesso."

Domenico annuì, mantenendo il sorriso.

"Buongiorno."

Sussurrò.

"Buongiorno."
Ripeté l'altro. Domenico, poi, si voltò a dare un'occhiata alla sveglia sul comodino ed emise uno sbuffo leggero.

"E direi che dobbiamo anche alzarci, è mezzogiorno passato."

Tornò a rivolgersi a Claudio.

"Se vuoi, però, hai il tempo di farti una doccia prima di pranzo, così stai più fresco."

Claudio, in effetti, sentiva davvero il bisogno di farsi una doccia dopo quella notte così agitata, puzzava d'alcool e di sudore e odiava sentirsi così, per cui preferì non rifiutare la gentile offerta.

"Beh, se non disturbo, sinceramente accetterei volentieri..."

Disse, con un mezzo sorriso.

"La smetti di dire che disturbi? Tu faresti lo stesso al mio posto, no?"

Replicò Domenico, per poi alzarsi. Claudio annuì, senza esitare.

"Sì, certo."

Lo avrebbe fatto per lui, ma anche per chiunque altro. Ogni tanto gli sembrava che il mondo avesse dimenticato cosa fosse la gentilezza o come ci si prendesse cura l'uno dell'altro, ma lui no, anche se a volte era rimasto fregato.

"E allora non dirlo più!"

Disse Domenico, con un bel sorriso. Gli si avvicinò, porgendogli dei vestiti puliti.

"Metti questi, dovrebbero andarti."

Claudio si alzò, li prese, e subito venne accarezzato da un leggero odore di lavanda, molto piacevole.

"Grazie, poi ti faccio lavare anche questi..."

"Intanto pensa a lavarti tu."

Ribatté l'altro, divertito.

"Vieni, ti faccio strada."

Lo accompagnò fino al bagno, un paio di porte più in là rispetto alla sua stanza, e poi si spostò in soggiorno per parlare con sua madre, che doveva essere tornata, e spiegarle la situazione. Era una delle persone più buone che esistessero sulla faccia della Terra, Domenico era certo che non avrebbe protestato riguardo la presenza di Claudio, anche perché era capitato altre volte che qualcuno che aveva dormito lì si fermasse anche a pranzo. Dopo averla salutata, cominciò ad apparecchiare il tavolo al centro della sala -era una loro piccola tradizione della domenica mangiare lì, invece che in cucina- e ne approfittò per introdurre l'argomento.

"Mamma, oggi c'è una persona in più a mangiare. Scusa se non ti ho avvisato prima, ma è successo all'improvviso..."

Disse, mentre prendeva un piatto in più dalla credenza. Sua madre, che si stava occupando del ragù, si voltò a guardarlo con un sorriso.

"E che problema c'è? Dove mangiano in tre, mangiano anche in quattro!"

Replicò lei, sbrigativa ma gentile, perché ormai era abituata a quelle sorprese improvvise. Domenico le sorrise, grato, e le scoccò un bacio sulla guancia.

"Sei la migliore, mamma."

Lei ridacchiò, divertita.

"La conosco, questa persona?"

Chiese poi, curiosa, anche se conosceva già la risposta. Domenico scosse il capo, senza imbarazzo, perché anche lui era abituato a quel tipo di domanda.

"No, e veramente fino a ieri non la conoscevo nemmeno io. Si chiama Claudio, comunque..."

Spiegò, per poi allontanarsi e andare a sistemare il piatto e le posate sul tavolo del soggiorno. Tornò indietro, poi, perché aveva dimenticato il bicchiere.

"Devo aspettarmi di vederlo ancora, nei prossimi giorni, o quando uscirà da quella porta potrò anche dimenticarmi di lui?"

Chiese la donna, con una certa rassegnazione nel viso e nello sguardo. Suo figlio portava continuamente a casa ragazze e ragazzi, ma nessuno di loro restava abbastanza a lungo. Non lo giudicava per quel suo modo di vivere e, immaginava, di divertirsi, aveva solo paura che non trovasse qualcuno che gli stesse accanto o che, peggio, non volesse trovarlo per qualche motivo che lei ignorava.

Domenico conosceva le preoccupazioni della madre, avevano affrontato quel discorso tante volte e lui, anche se le voleva bene e la capiva, ogni volta le aveva ripetuto che aveva diciannove anni e che aveva tutta la vita davanti per trovarsi una relazione stabile, per il momento voleva soltanto godersela. In quel momento, però, i suoi occhi verdi si fecero tristi e le sue labbra si curvarono in un sorrisetto malinconico, rammaricato.

"Non lo vedrai più, ma non è come pensi. Claudio... è diverso, non c'entra niente con le persone che di solito ti porto qua."

Lei si accigliò leggermente, stupita.

"In che senso, tesoro?"

Chiese dolcemente e Domenico sospirò, appoggiandosi al lavello della cucina.

"Nel senso che ieri sera hanno chiesto a me e a Massimo di intervenire in un bar perché c'era un ubriaco che dava fastidio. Claudio è l'ubriaco."

Spiegò, ma subito si affrettò ad aggiungere altro, non voleva che sua madre di facesse una brutta idea di quel ragazzo.

"Però, mamma, io di gente ubriaca ne ho vista tanta e lui non è come potresti pensare. È un bravo ragazzo, secondo me aveva solo bisogno di un po’ di conforto e l’ha solo cercato nel posto sbagliato, ma non gliene si può fare una colpa. Ha pure vomitato, non è proprio abituato a bere così tanto...anzi, a questo proposito, forse è meglio se gli fai qualcosa di più leggero, magari un po' di riso in bianco, per favore."

Non voleva che Claudio si sentisse di nuovo male, e sicuramente il pranzo domenicale di sua madre era troppo pesante per il suo stomaco scombussolato. La donna annuì, sorridendo premurosamente.

"Non c'è problema, tranquillo."

"Grazie, ma'."

Replicò Domenico, poi fece spallucce.

"Poi comunque è qui in vacanza, non so quanto si tratterrà, quindi..."

Lasciò in sospeso la frase, perché la sua conclusione era chiara. L'unica persona che avrebbe voluto continuare a vedere, dopo l'incontro di una notte, era anche l'unica che non avrebbe più visto. Sua sorella gli avrebbe detto che era il karma, quello.

"Beh, scusami, ma questo Claudio poi parte per l'America, per caso?"

Domandò la madre, con una dolcezza condita da un pizzico di sarcasmo, vedendo il figlio così abbattuto. Lui scosse il capo, sospirando.

"No, torna a Roma..."

E Roma gli sembrava lontana quanto l'America, anche se era un paragone assurdo. La donna sorrise, scrollando le spalle.

"Ah, da come ne parlavi sembrava l'altro capo del mondo! Guarda che ci si arriva col treno, eh! E se è per questo, il treno da Roma arriva anche qua!"

Gli ricordò, per tirargli su il morale. Domenico abbozzò un sorriso, grato alla madre per ciò che stava cercando di fare, ma aveva dei grossi dubbi a riguardo. Non era certo che un'amicizia alimentata a distanza potesse funzionare, perché lui era abituato ad avere le persone a cui voleva bene sempre intorno a sé, sempre a portata di abbraccio per così dire, e di conseguenza non sapeva se valesse la pena anche solo provarci. Poi, soprattutto, non sapeva se Claudio avesse voglia di rivederlo e addirittura di essergli amico.

"Dici?"

Chiese, in cerca di sostegno. La madre si avvicinò con una risatina intenerita e gli fece una carezza sulla guancia.

"Io dico che se si vuole, si può fare tutto!"
 

Claudio, appena entrato in bagno, aveva atteso qualche secondo che Domenico si allontanasse un po' e aveva chiuso la porta a chiave, in modo da non essere disturbato. Aveva appoggiato i vestiti sul bordo della vasca e poi si era avvicinato al lavandino per sciacquarsi il viso ancora intorpidito dal sonno.

L'acqua fredda, però, non era bastata a restituirgli un aspetto presentabile, come si accorse quando sollevò il capo -con un certo timore- e si vide allo specchio: aveva i capelli arruffati, come se non avessero mai visto un pettine in vita loro e il viso pallido che faceva risaltare ancora di più le occhiaie scure che contornavano gli occhi spenti. Si sfilò la camicia e si voltò, poi, per guardarsi la schiena e ovviamente le sue ferite erano ancora lì, nella forma di cicatrici vivide e rosse che lo attraversavano. Il suo aspetto esteriore, insomma, rispecchiava perfettamente il suo aspetto interiore: spossato e ferito.

Finì di svestirsi con un profondo sospiro e si infilò sotto la doccia, e per un lungo attimo desiderò che quell'acqua -fresca, piacevole- si trasformasse in acido e lo sciogliesse del tutto, fino a non far rimanere più niente di lui, nemmeno le ossa. Riempirsi d'alcool non era servito a nulla, perché tutto il suo dolore era ancora lì, e non lo aveva mai lasciato, mai, neanche per un istante.

Il flusso dei suoi pensieri venne interrotto da un bussare alla porta, discreto.

"Sì?"

Disse ad alta voce, per farsi sentire.

"Claudio, sono Domenico! Tutto bene?"

Chiese lui, dall'altra parte.

"Sì, tutto a posto, grazie!"

"Ok, volevo solo sapere questo. A dopo!"

"A dopo!"

A pensarci con attenzione, il dolore non lo aveva mai lasciato, neanche per un istante...tranne quando si era addormentato. E l'alcool sicuramente non aveva merito, in questo.

Si ritrovò a sorridere pensando ai gentili occhi verdi che lo avevano rassicurato e che, in qualche modo, lo avevano aiutato a spegnere il dolore, almeno per un po'. In effetti quel ragazzo sul treno, Carmine, non si era sbagliato: aveva davvero trovato qualcuno che lo accompagnasse ed era stato molto fortunato perché quel qualcuno era Domenico.

'Casualità o destino?', si chiese mentre usciva dalla doccia.

Si asciugò in fretta e si rivestì, indossando la t-shirt e i jeans che gli erano stati prestati, e guardandosi allo specchio cercò di sistemarsi un po' i capelli. Accennò un sorriso, abbastanza soddisfatto: era già qualcosa.

Mise poi in ordine il bagno -aveva già dato troppo disturbo a quella famiglia- ed uscì, seguendo il corridoio sul lato opposto rispetto a quello da cui era venuto -dove c'era la stanza di Domenico- e raggiunse la porta del soggiorno. Vi si affacciò quasi con timidezza, come un bambino in una casa che non conosceva, ma ci pensò Domenico a toglierlo da quell'impaccio. Gli si avvicinò, sorridente, e gli fece cenno di entrare.

"Che fai, reggi la porta?"

"È la porta che regge me."

Replicò Claudio con rassegnato sarcasmo, abbozzando un sorriso. Domenico sospirò e gli sorrise dolcemente, comprensivo.

"Mangiando starai meglio, ne sono sicuro. Vieni a sederti, dai."

Claudio ricambiò il sorriso e si lasciò accompagnare alla tavola. Automaticamente, fece per sedersi ad uno dei due lati lunghi, ma Domenico lo fermò ponendo una mano tra lui e la sedia.

"No, hai sbagliato posto."

Disse sornione e Claudio gli rivolse uno sguardo interrogativo.

"Non vedo il tuo nome scritto qui sopra."

Replicò scherzoso mentre indicava la sedia con un cenno della mano, pensando che quello fosse il posto solitamente occupato dall'altro. Domenico fece una risatina.

"No, ma se vedi il tuo nome è scritto lì."

Indicò una delle sedie a capotavola, il posto d'onore: era un ospite, era giusto che si mettesse lì. Claudio accennò un sorriso.

"Non c'è bisogno, dai..."

"E invece sì, perché lo dico io."

Replicò Domenico con fermezza, mantenendo il sorriso. Claudio sospirò e si sedette al posto indicato, anche se con un certo imbarazzo.

"E tu dove ti metti?"

Chiese, alzando lo sguardo verso di lui.

"Qui."

Rispose l'altro toccando la sedia perpendicolare alla sua, in modo da stargli comunque vicino. Claudio lo ringraziò con lo sguardo di quella premura e si sedette poggiando le braccia incrociate sul tavolo, in cerca di sostegno, per poi liberare un pesante sospiro.

Domenico lo guardò con lo stesso affetto, ma anche con una certa preoccupazione.

"Senti, cazzate a parte, come stai?"

Claudio scrollò le spalle.

"Sicuramente meglio di ieri, ma ho lo stomaco ancora sottosopra e la testa mi fa un po' male. Niente di insopportabile, comunque."

Rispose, considerando che stava sopportando di peggio.

"Però non puoi stare senza mangiare, non ti fa bene. Ho chiesto a mia madre di farti del riso in bianco, so che non è il massimo, ma è meglio del digiuno."

Ribatté Domenico con premura e Claudio accennò un sorriso, lasciandosi accarezzare ancora una volta da quella gentilezza.

"Poi magari, quando sto meglio, andiamo a mangiare una pizza."

Propose senza pensarci, e Domenico sgranò gli occhi per un istante, preso alla sprovvista. Claudio, interpretando negativamente quella reazione, subito si affrettò ad aggiustare il tiro.

"Cioè, se ti va, ovviamente...dicevo tanto per dire, non sentirti obbligato..."

Domenico, prima che Claudio decidesse di rimangiarsi la proposta, lo fermò.

"No, no, anzi, mi fa piacere! Davvero, mi piacerebbe molto! Ti porto a mangiare la pizza più buona di Napoli, giuro!"

Replicò con entusiasmo e Claudio sorrise a trentadue denti, mosso da un improvviso calore che sentì al centro del petto e che non seppe spiegarsi.

"Però offro io!"

Disse perentorio, accompagnandosi con un gesto dell'indice che andò ad indicare l'altro ragazzo. Domenico scoppiò a ridere e poi scosse il capo.

"Questo te lo puoi scordare! Te l'ho detto, sei ospite nella mia città, non esiste che ti faccia mettere mano al portafoglio!"

Rispose con decisione, mettendo su un ghigno furbetto.

"Ora scusami, vado ad aiutare di là con i piatti."

Aggiunse, per togliergli ogni possibilità di replicare. Si allontanò con un sorriso stampato in volto, lo stesso che Claudio aveva sulle proprie labbra.

Dopo qualche minuto si ritrovarono tutti a tavola, compresa Sara e una donna che Claudio immaginò fosse la madre dei due ragazzi. Notò che il padre non c'era, ma non si permise di chiederne il motivo.

"Mamma, lui è Claudio. Claudio, lei è mia madre, Rosa."

Disse Domenico, entusiasta, mentre i due si salutavano con una stretta di mano.

"Piacere!"

Esclamò la donna, sorridente, e Claudio notò che aveva gli stessi occhi verdi e lo stesso sorriso gentile del figlio.

"Il piacere è tutto mio! Anzi, credo sia solo mio, dato che mi sono presentato qui, all'improvviso, piombandovi tra capo e collo..."

Domenico lo interruppe con un sonoro sbuffo, ma affettuoso.

"Tu non sei piombato proprio da nessuna parte, ti ci ho portato io qui."

"Claudio, non ci disturbi, davvero. È bello avere un po' di compagnia, ogni tanto."

Disse Rosa, per rassicurarlo a sua volta.

"Visto? Te lo dice anche mia madre! Mo' mangia, su!"

"Ed è anche una bella compagnia."

Commentò in aggiunta Sara, con un sorriso furbetto rivolto al fratello, il quale sgranò impercettibilmente gli occhi e reagì cercando di darle un calcio sotto al tavolo, ma fallì perché lei spostò la gamba, aspettandosi quella risposta. Il tutto avvenne con i due che mantennero un'aria impassibile, frutto di anni di allenamento per bisticciare senza farsi vedere dalla madre.

Claudio ridacchiò, lusingato dal complimento, e ringraziò chinando leggermente il capo.

"Posso dire assolutamente lo stesso."

Replicò, spostando gli occhi per un minuscolo istante su Domenico, che in quel momento era ancora rivolto verso sua sorella e non lo notò, prima di concentrarsi sul proprio piatto e cominciare a mangiare.

Era un pasto semplice, adatto alle condizioni del suo stomaco, eppure quel frugale riso in bianco gli sembrò il cibo più buono che avesse mai mangiato, perché sapeva che era stato preparato appositamente per lui, con la volontà di farlo stare meglio, e a lui quell'affetto arrivava ad ogni boccone. Non credeva nemmeno di esagerare a pensarla così, perché Domenico gli aveva ampiamente dimostrato che, per qualche motivo che gli sfuggiva, ci teneva ad aiutarlo.

Anche l'atmosfera che si respirava intorno a quel tavolo, poi, era carica d'affetto, tra i battibecchi dei due fratelli -che non perdevano occasione per punzecchiarsi- e i rimproveri bonari della madre, che raramente riusciva a trattenere un sorriso, guardandoli. Claudio si ritrovava a sorridere a sua volta, istintivamente, e talvolta interveniva anche se non faceva parte di quella famiglia, ma sul momento non ci pensava.

Quando Claudio non parlava, però, Domenico non mancava mai di rivolgergli un sorriso, per non farlo sentire escluso, e Claudio ricambiava sempre, con occhi felici e leggeri.

Arrivati alla fine, Claudio si offrì di lavare i piatti per sdebitarsi, ma gli fu vietato all'unanimità.

"L'unica cosa che devi fare, adesso, è tornare in hotel e riposarti. Mimmo, perché non lo accompagni?"

Aveva detto Rosa, e così Domenico aveva riaccompagnato Claudio al Grand Hotel.

"Eccoci qua..."

Disse dopo aver parcheggiato la moto a poca distanza, un po' a malincuore perché aveva sperato di poter passare con Claudio un po' più di tempo.

"Grazie per il passaggio..."

Replicò Claudio dopo essere sceso dalla moto, mentre si sfilava il casco e glielo restituiva. In mano teneva una busta con i vestiti di Domenico che avrebbe consegnato subito alla lavanderia dell'hotel, eppure non sembrava intenzionato a muoversi. Guardò l'altro negli occhi per qualche istante, poi si schiarì la voce e parlò.

"Senti, Domenico, è da stamattina che sto pensando a Partenope e vorrei fare qualcosa per lei..."

Domenico gli rivolse un dolce sorriso, colpito da quel gesto gentile, e scosse il capo.

"Ti ringrazio, ma non c'è bisogno, davvero..."

Claudio, però, lo interruppe.

"E invece sì, perché lo dico io!"

Replicò, riprendendo le sue stesse parole, cosa che fece ridacchiare entrambi.

"Se potessi me la prenderei io, ma purtroppo...diciamo che i miei genitori non sarebbero d'accordo, ecco, però vorrei contribuire alle spese necessarie alle sue cure."
Indicò l'hotel con un vago gesto della mano.

"Ho lasciato il libretto degli assegni in camera, se sali te ne firmo uno..."

Propose, e intanto dovette mettere a tacere una vocina nella sua testa che gli faceva notare quanto quella proposta potesse suonare fraintendibile. Non c'era niente da fraintendere, non c'era nessun secondo fine, voleva solo aiutare quella gatta...e sperò che Domenico lo capisse, perché non voleva fare brutte figure con lui.

"Sei sicuro? Perché davvero, se pensi di doverlo fare solo per sdebitarti, sappi che è tutto a posto, non mi devi niente."

Chiese Domenico, che per un attimo aveva pensato che la proposta di Claudio nascondesse altro, ma poi aveva accantonato subito quell'idea, sia perché non gli sembrava il tipo, sia perché nei suoi occhi non c'era un briciolo di malizia, ma solo una sincera bontà.

"Sì, sì, ne sono sicurissimo! Non lo faccio per sdebitarmi, giuro!"

Replicò Claudio con decisione e Domenico, allora, scese dalla moto, si sfilò il casco e seguì l'altro all'interno, fino alla sua camera.

"Scusa il disordine, mi sono cambiato di fretta ieri sera e..."

Disse Claudio, lasciando cadere in sospeso la frase, mentre si affrettava a raccogliere i vestiti che aveva lasciato sparsi nel salotto la sera precedente. Domenico a dire il vero non se n'era nemmeno accorto, distratto da tutta quell'eleganza che lo circondava, ma fece una risatina intenerita di fronte all'imbarazzo di Claudio.

"La sbornia non ti ha fatto notare lo stato della mia stanza, se per te questo è disordine..."

Commentò, tranquillo. Claudio ridacchiò, più sereno, e subito prese il libretto degli assegni che aveva lasciato in uno scomparto della valigia. Si appoggiò al tavolo per compilarne uno e solo allora si rese conto di aver perso un anello. Sospirò, rassegnato.

"Qualcosa non va?"

Chiese Domenico con una punta di preoccupazione, avvicinandosi di qualche passo, e Claudio alzò lo sguardo verso di lui, sorridendogli per rassicurarlo.

"No, niente, è tutto a posto. Mi sono solo accorto di aver perso un anello, ma non è niente di grave. Pensiamo alle cose importanti, adesso."

Gli mostrò l'assegno compilato.

"Questi possono bastare?"

Domenico sgranò gli occhi quando lesse la cifra a quattro zeri che Claudio aveva scritto e poi sollevò lo stesso sguardo stupito verso di lui.

'Ma è davvero così ricco?', pensò.

"Questi…questi bastano e avanzano, cazzo! Tu…tu ne sei proprio sicuro, Claudio? Sono…sono davvero tanti soldi."

Balbettò emozionato e Claudio, in risposta, staccò l'assegno e glielo porse con un morbido sorriso.

"I tuoi gatti ne hanno tanto bisogno. Ne sono più che sicuro."

Domenico attese ancora prima di prendere quel foglietto, puntando gli occhi lucidi nei suoi. Non vide traccia di dubbio in quei due pezzi di mare.

"Chi ti dice che adesso io non li usi per fare altro? Come fai a fidarti?"

Claudio curvò le labbra su un solo lato, era perfettamente consapevole di ciò che faceva ed era certo che la sua fiducia non sarebbe stata tradita. Il motivo era molto semplice.

"Non me lo dice nessuno, ma ho visto con che affetto tratti i tuoi gatti e vedo i tuoi occhi in questo momento, e questo mi basta a potermi fidare di te."

Scrollò le spalle.

"Se poi scegli di spenderli in un altro modo, resta tra te e la tua coscienza."

Concluse, avvicinando di nuovo l'assegno all'altro. Domenico fece una risatina e finalmente lo accettò, infilandolo nel portafoglio.

"Ti ringrazio dal profondo del cuore, davvero, anche da parte di Partenope. Se tornerà a vedere, sarà solo grazie a te."

Disse sincero, con il cuore che da un lato già volava alle fusa felici che avrebbe fatto Partenope dopo l'operazione e dall'altro si stringeva all'idea che un ragazzo così buono e generoso stesse soffrendo per qualche motivo.

"Sarà solo grazie a te, che hai scelto di prenderti cura di lei."

Gli fece notare Claudio con gentilezza, perché non riteneva giusto che tutto l'impegno e l'affetto che lui aveva dato venissero spazzati via da un suo unico gesto.

"Allora diciamo che sarà grazie ad entrambi, mh?"

Disse Domenico e Claudio annuì, approvando l'idea.

"Posso offrirti qualcosa per festeggiare? Dobbiamo scendere giù al bar, però…"

Propose, anche se di bere non gli andava, sentendo come una sensazione di morsa allo stomaco di fronte ai saluti che aleggiavano nell'aria. Domenico scosse il capo, con fermezza. Desiderava davvero tanto passare del tempo con l'altro, ma al momento era più importante che si rimettesse del tutto in sesto.

"No, guarda, è meglio di no. Devi solo pensare a riposarti adesso e…ti prego, fammi un favore, non toccare alcolici, almeno per oggi."

Claudio abbozzò un sorriso, che aveva ben poco di allegro.

"Puoi stare tranquillo, credo che non ne berrò più per il resto della mia vita."

Fece un profondo respiro.

"Se mi lasci un tuo contatto, mi faccio sentire io per restituirti i tuoi vestiti…"

"Oh, certo!"

Domenico prese la propria agendina dalla tasca, scrisse il numero di casa su un foglietto e lo strappò, dandolo all'altro.

"Per quanto tempo ti fermi a Napoli, più o meno?"

Chiese, cercando di non mostrarsi troppo trepidante.

"Riparto tra dieci giorni."

Rispose Claudio, e di nuovo avvertì quella morsa allo stomaco al solo pensiero. Probabilmente Domenico aveva ragione, era meglio che si riposasse finché poteva.

"Allora ci sentiamo…mi fai sapere tu."

Disse Domenico, pronunciando lentamente quelle parole come se gli pesassero in bocca. Claudio annuì quasi impercettibilmente, come se la testa pesasse troppo e non riuscisse a muoverla.

"Certo, ti chiamo io, tranquillo. Guida piano, eh."

"Tranquillo."

Replicò l'altro dopo aver fatto una risatina e si allontanò. Arrivato davanti alla porta si voltò per salutare Claudio con un cenno della mano e lui ricambiò, senza esitare. Lo vide chiudersi la porta alle spalle, ma pochi istanti dopo lui era già corso a riaprirla, preso improvvisamente da una domanda che gli frullava in testa dalla sera precedente e che aveva bisogno di sentirsi rispondere. Raggiunse Domenico che era già arrivato all'ascensore e la stava aspettando.

"Domenico, aspetta un attimo per favore! Devo chiederti una cosa!"

Domenico si voltò, ignorando l'ascensore che aveva raggiunto il piano, stupito.

"Oh, piano, non correre! Dimmi tutto."

Claudio fissò gli occhi in quelli dell'altro, trepidante.

"Volevo chiederti... perché ti sei dato così tanto da fare per me? Potevi benissimo lasciarmi in strada o, al massimo, riportarmi qui e basta, no?"

Domenico ridacchiò appena e poi quella risatina rimase sul suo volto, nella forma di un piccolo sorriso.

"Sì, avrei potuto, certo, ma vedi, Claudio..."

Sospirò.

"Io faccio questo lavoro perché voglio fare la cosa giusta e..."

L'ascensore chiuse le sue porte e partì verso un altro piano, vuota.

"...e, molto semplicemente, darmi da fare per te era la cosa giusta. Ho capito che avevi bisogno d'aiuto, non potevo restare indifferente."

'I tuoi occhi urlavano, non potevo non ascoltarli.', pensò.

Claudio non si aspettava parole morbide come carezze, abituato com'era a parole dure come schiaffi, e un sorriso pieno di stupore sbocciò sulle sue labbra. I suoi occhi, poi, luccicavano riconoscenti.

"E invece avresti potuto, ma non l'hai fatto e di questo ti ringrazio."

'Ti ringrazio per avermi ascoltato senza che io dicessi una parola. Non l'ha mai fatto nessuno.', aggiunse nella propria testa.

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Capitolo 28
*** Appendice, Capitolo 2 – Le tue profondità verdi come gli occhi tuoi (parte 1) ***


Nei giorni seguenti si videro più spesso di quanto entrambi avevano sperato, ogni occasione era buona: la prima volta, Claudio aveva chiamato Domenico per restituirgli i vestiti che gli aveva fatto lavare; la seconda, poi, lo aveva accompagnato a comprare delle scarpe nuove -che, come gli aveva giurato, gli aveva anche pagato- e infine la terza, Domenico aveva riportato a Claudio l'anello che aveva perso, dopo essere tornato personalmente al bar per chiedere se l'avessero trovato -aveva dovuto insistere un po', ma il sorriso che aveva fatto Claudio quando l'aveva rivisto ne era valsa decisamente la pena-.

Finite le occasioni, erano cominciate le scuse che Domenico continuamente inventava per passare di lì e che Claudio accettava pur sapendo benissimo che lo fossero, fino a quando non ci fu più bisogno di dare una motivazione a quei piccoli incontri che si ritagliavano ogni giorno, quando Domenico finiva il suo turno: se aveva il turno di notte, il mattino dopo portava con sé un piccolo vassoio di sfogliatelle -ricce e frolle, naturalmente- in hotel, e lui e Claudio, che gli faceva sempre trovare un caffè forte ad aspettarlo, facevano colazione insieme nella sua camera; quando invece aveva il turno di giorno, prima di tornare a casa si fermava a prendere un tè, una bevanda che per lui era praticamente sconosciuta, ma di cui Claudio andava pazzo, oltre ad esserne un esperto, e che si rivelò una piacevole scoperta.

In poco tempo e senza neanche accorgersene avevano creato una loro routine, che però era praticamente già finita: il giorno dopo Claudio sarebbe partito di nuovo per Roma e allora, per salutarsi, avevano deciso di andare a mangiare la pizza più buona di Napoli, come aveva assicurato Domenico.

Il locale era molto semplice, ma curato, i colori prevalenti erano il bianco e l'azzurro che richiamavano il mare ed era proprio il mare il punto di forza di quel posto: Domenico si era assicurato di prenotare un tavolo all'esterno, su un terrazzo che affacciava direttamente sulla spiaggia, e lo spettacolo del mare di notte che si proponeva davanti ai loro occhi era semplicemente mozzafiato. La Luna -che quella notte era piena- giocava con i suoi riflessi argentati sull'infinita distesa d'acqua sotto di sé, le onde si infrangevano placide sulla spiaggia scandendo un tempo lento, dove non c'era spazio per la fretta, e il piacevole venticello estivo da un lato accarezzava la loro pelle, gentile, e dall'altro stuzzicava l'olfatto, dispettoso, con il suo profumo di salsedine.

Claudio -elegantissimo nel suo completo di lino blu- e Domenico -più informale, con un jeans scuro e una camicia bianca, idea di sua sorella, a cui aveva risvoltato le maniche e sbottonato i primi bottoni per non sentirsi soffocare- se ne stavano seduti uno di fronte all'altro. Si erano parlati poco da quando erano arrivati, ma si erano guardati molto, portando avanti una conversazione fatta di soli sguardi: Domenico aveva notato che quegli occhi blu adesso erano più leggeri di quando li aveva visti per la prima volta -ed erano così già da qualche giorno-, mentre Claudio aveva colto un velo di malinconia in quegli occhi verdi, di solito così allegri e vivaci, di cui non poteva fare a meno di chiedersi la causa.

"È o non è la pizza più buona che tu abbia mai mangiato?"

Chiese Domenico, a colpo sicuro, avendo notato la soddisfazione con cui il ragazzo di fronte a lui aveva mangiato la prima fetta. Claudio annuì con convinzione, mentre ancora masticava, rispondendo con un verso d'approvazione.

"A Roma non ne ho mai mangiata una così!"

Aggiunse, entusiasta. Domenico ridacchiò, con l'aria di chi la sapeva lunga.

"Non prenderla come un'offesa, ma a Roma non sapete fare né la pizza né il caffè. Non è colpa vostra, il segreto sta nell'acqua."

Claudio fece una risatina, onestamente dopo aver assaggiato quella pizza non se la sentiva di replicare, e annuì.

"Sei stato a Roma, quindi?"

Chiese, incuriosito, e Domenico fece un cenno d'assenso.

"Due o tre volte, sì. È una città meravigliosa, se si escludono la pizza e il caffè."

"Quindi...ci torneresti?"

Chiese ancora Claudio, guardandolo intensamente negli occhi. Domenico curvò le labbra in un sorriso sghembo, ricambiando il suo sguardo con la stessa intensità.

"Molto volentieri."

Rispose con decisione, prima di bere un sorso di birra.

"E tu, invece, eri mai stato a Napoli?"

Domandò poi e Claudio scosse il capo.

"No, è la prima volta che ci vengo. È stata mia madre a consigliarmi di farlo."

Rispose, abbassando lo sguardo con la scusa di mangiare un altro boccone di pizza. Sua madre era stata a Napoli diverse volte, almeno da quanto gli aveva detto, ma non era per la bellezza della città che lo aveva mandato lì: semplicemente, era abbastanza vicina da raggiungere, ma al tempo stesso abbastanza lontana da poter mettere una certa distanza tra lui e suo padre.

A Domenico non sfuggì il tono mesto di quella risposta, anche se l'altro aveva cercato di dissimularlo. Non sembrava il tono di chi era felice di fare quella vacanza, ma sospettava che la vacanza in sé c'entrasse poco e che invece -lo aveva capito già da un po'- i problemi fossero su a Roma.

"Beh, se ti è piaciuta puoi tornarci quando vuoi, sai?"

Disse con gentilezza, ricambiando l'implicito invito a rivedersi, ma aggiungendovi qualcosa in più, la promessa di un posto sicuro, se ne avesse avuto bisogno.

Claudio ritrovò il sorriso -anche se piccolo, in un angolo della bocca- e si lasciò accarezzare il cuore da quella proposta. Napoli, che al momento del suo arrivo gli era apparsa come una terra d'esilio, stava diventando un rifugio.

"Napoli è indescrivibile, dire che mi ha conquistato è poco. È una città con un cuore grandissimo."

Rispose, con voce leggera. Tuttavia, non era di Napoli che stava parlando -anche se da quel poco che aveva avuto modo di conoscere aveva captato la magia di quel posto splendido-, ma non poteva dirlo al diretto interessato, anche se parlava guardandolo negli occhi.

"Ed è per questo che ho deciso di fermarmi per altri dieci giorni. Vorrei...vorrei conoscerla un po' meglio, per quanto possibile."

Aggiunse e Domenico, che già sorrideva per i complimenti riservati alla sua amata città, si illuminò alla notizia che Claudio gli aveva appena dato. Non poteva chiedere di meglio!

"Ma è fantastico! Allora sai che facciamo? Mi prendo qualche giorno di riposo e ti porto al mare!"

Esclamò con entusiasmo, ma poi si calmò improvvisamente, leggermente imbarazzato, credendo di aver esagerato. Si schiarì la gola.

"Sempre se vuoi, ovviamente. È che penso ti farebbe bene prendere un po' di Sole..."

Disse, più pacato. Claudio ridacchiò intenerito e poi abbozzò un sorriso, non sapendo bene cosa fare: spiaggia significava costume e costume voleva dire scoprirsi e lui non era nelle condizioni di farlo, ma d'altro canto non voleva nemmeno rifiutare una proposta così premurosa e rinunciare alla possibilità di trascorrere del tempo con Domenico, il quale evidentemente lo desiderava quanto lui. Respirò a fondo e poi annuì, decidendo di accettare.

"Mi farebbe un immenso piacere."
 

 
Due giorni dopo, Domenico passò a prendere Claudio in hotel di buon'ora, come avevano stabilito per non trovare la spiaggia già affollata. Arrivò con un po' di anticipo, perché proprio non riusciva più ad aspettare in casa, ma anche Claudio era già sceso nella hall, altrettanto impaziente. Appena vide -o meglio, sentì- la moto dell'altro, si affrettò ad uscire con un sorriso allegro stampato sul volto. Gli occhi blu, coperti dagli occhiali da Sole, erano altrettanto felici.

"Buongiorno!"

Domenico, voltatosi verso di lui, ricambiò il sorriso. Anche lui indossava le lenti scure, ma anche i suoi occhi verdi sorridevano.

"Buongiorno a te! Dormito bene?"

Chiese, facendogli segno di dargli la borsa termica che l'altro teneva con una mano. Claudio gliela porse e poi annuì.

"Abbastanza, te?"

Domenico scrollò le spalle.

"Non mi lamento."

Sistemò la borsa termica di Claudio nel bagagliaio sotto al sedile e poi gli porse il casco. Mentre lui lo indossava, si spostò lo zaino sul davanti, in modo che non gli desse fastidio, e tornò a sedersi, facendo attenzione a lasciargli abbastanza spazio per stare comodo.

Claudio salì in sella e siccome stavolta era sobrio, si impose di reggersi alle maniglie, mettendo a tacere il desiderio di sentire di nuovo i loro corpi vicini.

Domenico impiegò qualche secondo a capire che Claudio non aveva intenzione di aggrapparsi di nuovo a lui, avendo dato per scontato che l'avrebbe fatto, ma accettò la sua decisione -seppur con un po' di dispiacere- e partì verso la loro destinazione. Solitamente frequentava la spiaggia libera, ma per questa volta preferì scegliere un lido attrezzato, dal momento che Claudio era probabilmente abituato a quel tipo di comfort.

Raggiunsero il mare abbastanza rapidamente e al loro arrivo non c'erano ancora molti bagnanti, per cui poterono sistemarsi ad un ombrellone -corredato da lettino e sdraio- abbastanza vicino al bagnasciuga, ma non troppo da essere disturbati dal continuo passeggio delle persone. Una posizione perfetta, insomma, di cui Domenico fu molto soddisfatto e Claudio...beh, a lui sarebbe andato bene di tutto, a dire il vero.

"Ti piace qui? Altrimenti chiedo di spostarci."

Chiese Domenico, premuroso come sempre, e Claudio annuì entusiasta, sorridendo prima verso di lui e poi verso il mare che si stendeva placido davanti ai suoi occhi, e si sfilò gli occhiali per godere appieno di quella meraviglia della Natura.

"Tranquillo, Domenico, non devi preoccuparti sempre."

Prese un profondo respiro, per riempirsi i polmoni di quell'aria salata così piacevole.

"È bellissimo."

Aggiunse, sognante. Domenico, incantato dal suo sorriso luminoso, dai suoi capelli leggermente accarezzati dal venticello fresco e dai suoi occhi gioiosi che sembravano dello stesso colore del mare, si ritrovò a sorridere di rimando.

"Sì, è davvero bellissimo."

Commentò con voce leggera e poi, come per svegliarsi da un sogno, scosse il capo e si mise a sistemare i teli sulla sdraio e sul lettino, ripetendosi mentalmente di darsi un contegno. Subito dopo, prese il flacone di crema solare e lo diede a Claudio.

"Tieni, questa ti serve."

Claudio accettò quel flaconcino perché, un po' stupidamente, aveva dimenticato di portarne uno con sé, ma del resto quel viaggio non era nato come una vera e propria vacanza ed era già tanto che si fosse ricordato -spinto da sua madre, più che altro- di buttare in valigia un paio di costumi. Si spalmò la crema prima sulle gambe, dopo essersi tolto i pantaloncini, e poi cominciò a stenderla sulle braccia, fin dove arrivavano le maniche della sua polo verde che non aveva intenzione di sfilarsi: era questa la soluzione che aveva trovato al suo problema e gli sembrava un compromesso tutto sommato accettabile.

"Guarda che così fai le cozze, eh."

Gli fece notare Domenico, prendendolo bonariamente in giro e poi, come a sottolineare le sue parole, si liberò dai vestiti con un sospiro di sollievo, restando con i boxer blu del costume.

Claudio alzò gli occhi verso di lui e, preso alla sprovvista, si sentì avvampare, ma si impose di non darlo a vedere e gli rivolse invece uno sguardo leggermente perplesso.

"E che vuol dire, scusa?"

Domenico ridacchiò.

"Che ti fai un bagno di sudore e non di mare!"

Voleva che Claudio si prendesse la libertà di godersi le carezze dell’acqua e i baci del Sole sulla pelle -era per questo che aveva deciso di portarlo in spiaggia, del resto-, ma come poteva essere libero se restava vestito?

Claudio fece una risatina, divertito da quel modo di dire di cui ora capiva il significato, e poi scosse leggermente la testa, mentre si stendeva la protezione solare sul viso. Apprezzava il tentativo di Domenico, ma preferiva sudare un po' o soffrire il caldo rispetto al mostrare quelle brutture che portava su di sé, che perfino lui faceva fatica a guardare.

"Ti assicuro che non farò le cozze, sto bene così, davvero. Carina come espressione, comunque."

Domenico lo guardò in silenzio per qualche secondo, indeciso sul da farsi. Ecco che di nuovo quegli occhi blu tornavano ad essere un mare che nascondeva segreti e ragioni che conosceva soltanto lui, e capì allora che avrebbe fatto meglio a non insistere. Si chiese se, in qualche modo, dietro quella scelta ci fosse una qualche insicurezza legata all'aspetto o al fisico, ma gli sembrava improbabile per quanto era bello Claudio. Doveva esserci altro, qualcosa che gli sfuggiva. Sospirò.

"D'accordo, come vuoi, non insisto."

Alzò simbolicamente le mani in segno di resa e Claudio gli donò un piccolo sorriso grato, proprio perché aveva compreso la sua esigenza anche senza conoscerla. Gli porse poi il flacone di crema, dato che aveva finito di usarla.

"Tieni e grazie."

Domenico prese l'oggetto dalle sue mani e al tempo stesso liberò una risatina affettuosa. L'immagine che aveva davanti a sé era decisamente tenera.

"Non te la sei spalmata bene..."

Indicò con un cenno della mano i grumetti bianchi che l'altro si era lasciato sulla pelle.

Claudio sbuffò appena, imbarazzato, e si portò una mano sul viso, alla cieca, cercando di rimediare. Era passato un bel po' di tempo dall'ultima volta che era stato in spiaggia, ecco.

"Meglio?"

Domenico scosse il capo, con una risatina di gola, appena accennata, che non uscì dalle labbra chiuse.

"Permetti?"

Chiese con voce più bassa, avvicinando entrambe le mani alle sue guance, ma senza toccarlo. Non l'avrebbe fatto, senza il suo permesso.

Claudio, vedendo le sue mani avvicinarsi, fu preso per un attimo dal pensiero -irrazionale, lo sapeva- di doversi aspettare uno schiaffo e istintivamente si ritrasse, trattenendo il fiato. Poi però annuì e quelle mani gli regalarono solo un tocco morbido e gentile, sotto il quale tornò a rilassarsi e a respirare. L'espressione concentrata dell'altro, con le sopracciglia leggermente aggrottate e gli occhi che seguivano attenti i movimenti delle dita, poi, gli fece nascere una risatina spontanea e Domenico, incuriosito, alzò lo sguardo verso il suo.

"Perché ridi?"

Domandò con un sorriso e Claudio scosse appena il capo, per minimizzare.

"Niente, è che sei tutto concentrato, sembra che tu stia facendo chissà che di importante..."

"Beh, non farti prendere una scottatura è una cosa molto importante! O vuoi tornare in hotel con il naso che sembra un gambero?"

Rispose Domenico, scherzoso, sollevando un sopracciglio. Claudio scoppiò a ridere per il paragone, arricciando leggermente il naso, e Domenico si ripromise di farlo ridere più spesso, in qualsiasi modo, perché in quella risata –che aveva conosciuto da poco- aveva trovato un suono più bello di quello delle onde del mare –che invece conosceva da sempre- e non credeva che sarebbe mai potuto accadere.

"No, non ci tengo, grazie."

Replicò Claudio, con la voce che ancora un po’ tremava per le risate, e Domenico annuì con decisione.

"Bene, allora lasciami fare."

Tornò a concentrarsi su di lui e riprese a far scorrere con delicatezza le dita sul suo viso, un po' sulle sue guance lisce, senza un accenno di barba, un po' sul naso, che poi si divertì a stringere come si fa con i bambini -"Eddai, non fare lo scemo!" "Scusami, non ho resistito!"- e Claudio rise di nuovo, esattamente come un bambino, e infine sulla sua fronte, scostandogli i capelli con l'altra mano.

Si prese un po' più di tempo del necessario, mosso dall'istinto di appagare in questo modo quella fame di carezze che aveva letto nei suoi occhi, sperando di riuscirci almeno per una piccola parte.

Claudio, intanto, si chiese cosa sarebbe successo se avesse permesso a quelle carezze -perché era solo così che poteva definire ciò che Domenico stava facendo- di scivolare sulla sua schiena, di toccare i solchi rossi che la riempivano, ma accantonò il pensiero per la vergogna della spiegazione che avrebbe dovuto dare e, soprattutto, per la paura del giudizio che ne sarebbe seguito.

"Ecco, ora sei a posto."

Annunciò Domenico, sollevando lo sguardo verso quello di Claudio, che non si era mai staccato da lui.

"Grazie."

I loro occhi si incontrarono e si sorrisero.

"Non c'è di che, figurati. Questa la prendo io, ora."

Recuperò la crema che aveva appoggiato sul tavolino che circondava l'ombrellone e, allontanatosi di qualche passo, prese a stendersela sul corpo.

Claudio, che si era seduto sul lato lungo del lettino, fu attratto dai suoi movimenti e si ritrovò a guardarlo di sottecchi, pur sapendo che non fosse una cosa molto educata da fare. Si sentiva come se avesse rivolto lo sguardo verso il Sole e, pur essendone rimasto abbagliato, non riuscisse a distoglierlo. Seguiva come incantato il percorso che  le sue mani, le stesse che poco prima gli avevano accarezzato il viso, tracciavano, quasi ad invitarlo a posare lo sguardo su ogni parte di quel corpo che ai propri occhi -e probabilmente non solo ai suoi- appariva perfetto: le gambe toniche, prima, poi le braccia salde che lo avevano sorretto quando non era in grado di reggersi in piedi, le spalle larghe e il suo petto accogliente, come lo aveva definito, contro cui si era inconsapevolmente addormentato.

Notò, tuttavia, che i suoi gesti erano privi di quella delicatezza che prima aveva usato su di lui, come se adesso l’altro ragazzo fosse soltanto impegnato in un compito noioso da portare a termine il prima possibile.

"Hey, scusa, non è che mi potresti dare una mano, per favore? Non ci arrivo da solo."

Disse ad un certo punto Domenico, che impegnato a ricoprirsi di crema solare non si era accorto dello sguardo dell'altro, e Claudio quasi sobbalzò.

"Ehm... sì, certo."

Si alzò, andandogli vicino, e l’altro si voltò di schiena, passandogli il flacone.

"Neanch'io ci tengo a diventare un gambero."

Disse scherzoso, per stemperare la trepidazione che sentiva dentro all’idea di sentire le mani dell’altro su di sé, e Claudio fece una risatina. Si mise un po' di crema su una mano e cominciò a passarla sulla pelle liscia dell'altro, facendo dei lenti movimenti circolari per farla assorbire bene.

Il corpo di Domenico era caldo sotto la sua mano, come se quel figlio di Napoli avesse dentro quel Sole che splendeva solo su quella città e in nessun altro posto, ma in fondo non fu una sorpresa per Claudio, perché era lo stesso calore -lo stesso Sole- che aveva visto nei suoi occhi.

Domenico, dapprima teso, si rilassò a poco a poco e si lasciò sfuggire un profondo sospiro. Claudio si fermò, non sapendo come interpretarlo.

"Tutto ok?"

"Sì, si, tutto a posto. È che la crema è un po' fredda..."

Disse la prima scusa che gli venne in mente, sollevando anche una mano con il pollice alzato per rimarcare il concetto. Claudio si mise un altro po' di crema sulle mani e riprese a stenderla sull'altro, ma non era molto convinto della sua risposta.

"Non mi sembrava un lamento, però..."

Gli fece notare con voce calma, anche se il suo cuore aveva iniziato a battere più velocemente. Domenico si morse un labbro, imprecando mentalmente contro se stesso. Era bravo a controllarsi, di solito, perché proprio adesso non c'era riuscito?

"Hai ragione, non lo era."

Ammise, in un sussurro. Fece una piccola pausa, il tempo di passarsi la lingua sullo stesso punto che si era morso un attimo prima.

"È stata una settimana pesante al lavoro, sono un po' stanco e...perdonami."

Aggiunse, abbozzando una mezza verità. Era stanco, sì, e quella sorta di massaggio aveva fatto senz'altro bene ai suoi muscoli stanchi, ma l'avrebbe apprezzato anche se non fosse stato stanco. Non poteva certo dirgli che avrebbe voluto che quel momento durasse per sempre, chissà cosa avrebbe pensato di lui! Però era quella la verità completa, e in un mondo più giusto non ci sarebbe stato niente di male a dirla ad alta voce.

"E di cosa? Guarda che non hai fatto niente di male."

Disse Claudio, sorridendogli comprensivo. Nei suoi occhi, tuttavia, si fece largo una piccola crepa di delusione, anche se avrebbe dovuto aspettarselo. Ma cosa credeva, che a Domenico facessero piacere le sue carezze perché era lui a fargliele? La sua era stata una semplice reazione dovuta alla stanchezza, niente di più.

"Anzi, sono contento che ti sia sciolto un po'."

E non era una bugia, era davvero felice di aiutarlo e di dargli un po' di sollievo, come aveva fatto lui.

"Va meglio?"

Domandò ancora, e in tutto questo non aveva smesso un attimo di massaggiargli la schiena, ormai per il solo scopo di scacciare la stanchezza dal suo corpo, dato che la crema si era ampiamente assorbita. Domenico annuì, più tranquillo dal momento Claudio gli aveva creduto, e più rilassato.

"Decisamente molto meglio, sì."

Claudio accennò un sorriso.

"E anche la crema è a posto."

Separò le mani dal corpo dell'altro, lentamente per godersi quel contatto fino all'ultimo istante e Domenico chiuse gli occhi mentre lo faceva, in modo da catturare quella sensazione fino alla fine. Si voltò verso di lui, poi, con un luminoso sorriso e gli occhi verdi che brillavano di gratitudine.

"Grazie."

Gli disse, con un piccolo cenno del capo. Claudio sorrise a sua volta, perché era impossibile non rispondere allo stesso modo ai sorrisi di Domenico, e fece spallucce.

"Adesso sono io a dirti di non dovermi ringraziare. Anzi, se magari hai bisogno di parlare di questa settimana pesante, di sfogarti un po'...io ti ascolto volentieri."

Propose, desideroso di aiutarlo. Domenico, di solito, quando aveva un peso di cui liberarsi, parlava con Sara o con sua madre, ma c'erano cose che teneva segrete anche a loro, ed erano quelle che pesavano di più. Amava il suo lavoro, amava aiutare le persone, ma a volte si trovava davanti a situazioni che gli facevano stringere il cuore e a cui ripensava spesso, ma che proprio per questo non poteva raccontare a sua sorella o a sua madre, per non angosciarle o farle preoccupare. Per lo stesso motivo decise di rifiutare la proposta di Claudio, non voleva rovinare quella giornata.

"Ti ringrazio, ma non ti preoccupare, hai già fatto più che abbastanza, davvero."

Unì le mani, strofinandole tra loro, pronto a cambiare argomento.

"Direi di cominciare ufficialmente questa gita al mare. Facciamo colazione, ti va?"

"Molto volentieri, sì. Ho una fame..."

Rispose Claudio, sorridente. Avrebbe preferito che Domenico si fosse aperto un po' con lui, liberandosi di quel peso che si portava dentro, ma pensò che anche trascorrere una giornata leggera, piacevole, senza pensieri, potesse aiutarlo a rilassarsi, quindi preferì non insistere.

"Ottimo, perché ho portato le sfogliatelle!"

Annunciò Domenico con gli occhi che luccicavano furbi e un sorriso sghembo ad accompagnarli, sapendo che Claudio ne sarebbe stato molto felice, per poi avvicinarsi allo zaino ed estrarne la busta di carta della pasticceria, che perfino da chiusa emanava un profumo buonissimo di dolci.

Claudio si affacciò oltre la sua spalla, curioso, perché in effetti era decisamente lieto della notizia. Oltre alla fame, era sopraggiunta anche la curiosità. Domenico, quando si voltò, di nuovo in piedi, e lo vide, fece una risatina.

"I miei gatti hanno la stessa espressione quando arrivo con i croccantini, lo sai?"

Commentò divertito, facendogli segno di sedersi. Claudio ridacchiò, senza provare imbarazzo o vergogna, come invece sarebbe successo con qualsiasi altra persona al posto di Domenico, perché sapeva che l'altro non lo stava giudicando. Anzi, essere paragonato ai suoi gatti era praticamente un complimento, un onore.

"Se non me le fai mangiare subito, mi metto anche a miagolare!"

Annunciò scherzoso, mentre andava a sedersi di nuovo sul lato lungo del lettino. Domenico ridacchiò e poi rivolse a Claudio uno sguardo pieno di curiosità mentre gli si avvicinava. Chissà se l'avrebbe fatto davvero.

"Non nego che adesso sarei curioso di sentirti."

Disse, sedendosi accanto a lui. Claudio non se lo fece ripetere due volte e, spinto anche dal fatto che tutte le persone intorno a loro fossero impegnate a fare altro, si schiarì la gola ed emise un miagolio basso, sottile, simile a quello di un gattino.

Domenico sgranò gli occhi per la sorpresa e poi scoppiò a ridere, affettuosamente. In un istante, anche la risata di Claudio si unì alla sua.

"Allora? Vado bene a fare il gatto?"

Chiese, quando le loro risate sfumarono. Domenico annuì.

"Sei identico!"

Prese una sfogliatella frolla dalla busta, con tanto di fazzolettino, e gliela porse.

"Direi che te la sei proprio meritata."

Claudio l'afferrò con entusiasmo, ma non prese subito a mangiarla.

"Grazie!"

Esclamò contento e poi, con la mano libera, avvicinò la propria borsa termica e la aprì.

"Io ho portato da bere. Scegli: zenzero e mirtillo o menta e liquirizia?"

Propose, indicando le bottigliette di infusi freddi che aveva preparato. Domenico ci buttò uno sguardo, ma poi tornò a guardare Claudio con un sorriso sornione nell'angolo delle labbra.

"Mi affido all'esperto."

Claudio fece uno sbuffo divertito e poi prese una delle bottigliette con un liquido rosso all'interno e gliela porse.

"L'esperto suggerisce zenzero e mirtillo, che farà da contrasto al sapore dolce della sfogliatella."

Domenico annuì e subito ne bevve un sorso, intrigato. Subito avvertì lo zenzero pizzicargli la gola, ma era una sensazione piacevole.

"Mh, è buono..."

Commentò e Claudio sorrise soddisfatto.

"C'è un motivo se sono l'esperto, no?"

Replicò fingendo di darsi delle arie, al che Domenico rise e Claudio insieme a lui, leggeri come solo due amici sanno essere.

Cominciarono finalmente a mangiare e il viso di Claudio, al primo morso di dolce, si dipinse di una beatitudine e di una felicità che per Domenico erano una gioia per gli occhi. Era così che avrebbe voluto vederlo sempre, non come lo aveva visto al bar quando lo aveva conosciuto. Sapeva, però, che un desiderio del genere era del tutto irrealizzabile.

"Certo che ti piacciono proprio, eh?"

Gli disse quando l'ebbe finita, già porgendogliene un'altra che Claudio accettò senza fare cerimonie.

"Sono ufficialmente diventate il mio dolce preferito e non esagero!"

Domenico ridacchiò e fece un leggero inchino con il capo.

"Sentirtelo dire è un onore, per me."

Disse, dando poi un ultimo morso alla propria sfogliatella e prendendone un'altra.

"L'onore è mio, di averle conosciute!"

Replicò Claudio, tra un morso e l'altro.

"Queste le hai prese in un posto diverso dal solito, vero? Sono un po' più dolci."

Aggiunse, con una leggera aria da intenditore. Domenico gli rivolse uno sguardo divertito e ammirato al tempo stesso, poi annuì.

"Le ho prese vicino casa perché oggi la nostra pasticceria di fiducia è chiusa."

Gli occhi di entrambi vennero attraversati da un lampo di stupore al suono di quella semplice parolina, 'nostra', che al suo interno racchiudeva un 'noi' che si era formato rapidamente, con naturalezza, come quando si uniscono due pezzi di puzzle che sono fatti per incastrarsi.

Aveva senso parlare di un 'noi' quando, presto o tardi, avrebbero avuto chilometri e chilometri a separarli? Nei sorrisi che si scambiarono i due ragazzi c'era la risposta a quella domanda e c’era la volontà di superare quella distanza.

"Certo che sei un po' poliziotto anche tu, eh?"

Aggiunse ancora Domenico e Claudio mise su un sorrisetto timido, un po' imbarazzato.

"No, sono solo molto goloso."

Rispose sinceramente e Domenico ridacchiò, affettuoso.

"Non mi ci vedo a fare il poliziotto, però... però fare la cosa giusta, aiutare gli altri, come dici tu, è una cosa che vorrei fare anch'io."

Confessò poi Claudio, quando ebbero finito di mangiare, curvando le labbra in un sorrisetto mesto. Era un sogno destinato a rimanere tale, ma gli faceva piacere parlarne con qualcuno, non l'aveva mai fatto prima.

Domenico prese un profondo respiro e gli sorrise incoraggiante, accorgendosi che qualcosa non andava.

"Beh, nessuno ti dice che tu debba per forza fare il poliziotto, sai? Non è l'unico modo per aiutare le persone."

"Pensi davvero che ci riuscirei? Che ne sarei in grado?"

Chiese Claudio, con gli occhi fissi nei suoi, pieni di malinconia. Domenico annuì, convinto.

"Sai, mia madre dice sempre che se si vuole, si può fare tutto. E poi, con quel cuore gentile che hai, è impossibile che tu non ci riesca."

Rispose, con una voce così morbida che a Claudio quelle parole arrivarono come una carezza. Nessuno gli aveva mai detto una cosa così bella, nessuno si era mai preso la briga di leggergli dentro, arrivare al suo cuore e vederci qualcosa –qualcosa di bello, addirittura!-, tanto che per un attimo rimase interdetto. Sospirò e bevve un sorso di infuso prima di ribattere e neanche ne sentì il sapore, in bocca aveva soltanto tanta amarezza.

“Sai, mio padre ha un'azienda edile molto importante. Intendo davvero molto, molto, molto importante, praticamente ogni grande appalto nel Lazio viene affidato a lui. L'ha fondata il mio bisnonno, poi è passata a mio nonno, adesso a lui e in futuro dovrebbe passare a me.”

Non era nemmeno del tutto sicuro che suo padre, dopo le recenti scoperte, fosse ancora disposto a lasciargli l'azienda in eredità, ma l'alternativa era cederla, venderla a terzi, e quindi macchiarsi dell'onta di rompere una catena che ad ogni generazione aggiungeva un anello, il che probabilmente era peggio che affidarla ad un figlio frocio. Un anello debole era sempre meglio di nessun anello.

"Ma io la odio e non voglio averci niente a che farci e questo, ai suoi occhi, mi rende un fannullone e un parassita, solo perché odio il modo in cui la gestisce e gli espedienti che adotta per arricchirsi sempre di più, al limite della legalità!"

Sputò con odio, velenoso, anche se i suoi occhi tremavano, lucidi. Domenico, in quegli abissi, vide di nuovo quel peso, quel dolore che avrebbe voluto solo strappargli via, anche a costo di farsene carico in prima persona. Non era una cosa che era possibile fare, purtroppo, perché solo Claudio poteva vivere la propria vita, nel bene e nel male. 

"Senti, Claudio...io non posso dire di sapere come ti senti o come sia vivere con un padre così. Il mio ci ha lasciati due anni fa, ma è sempre stato molto comprensivo con me e Sara, ci ha sempre lasciati liberi di scegliere, liberi di vivere. Ci dava qualche consiglio, questo sì, ma l'ultima decisione spettava sempre a noi. Diceva che la vita è nostra, solo nostra, e che non dobbiamo farci condizionare da nessuno, neppure dalle persone a cui vogliamo più bene."

“Mi dispiace per la vostra perdita. Le persone così non dovrebbero morire mai.”

Mormorò Claudio, sinceramente dispiaciuto. Anche se non aveva un buon rapporto con suo padre, e probabilmente non avrebbe versato neanche una lacrima al suo funerale, poteva comunque immaginare il dolore che Domenico si portava dentro, insieme al resto della sua famiglia, e doveva essere straziante.

Domenico lo ringraziò con un cenno del capo. 

"Era malato da tempo e da un lato è stato meglio così. E poi, sarà anche una frase fatta, ma sono convinto che nessuno muoia davvero, finché resta vivo nei ricordi di chi gli ha voluto bene.”

Accennò un sorriso malinconico pensando a suo padre, ma la sua attenzione era tutta rivolta verso l'amico, così come i suoi occhi verdi pieni di comprensione, in cui Claudio trovò un immediato rifugio.

“Il suo è lo stesso consiglio che voglio dare a te: la tua vita è troppo preziosa per farla vivere ad altri, devi prenderti la tua libertà. Tanto, qualsiasi cosa deciderai di fare a tuo padre non andrà bene, quindi fregatene e falla!"

Prese una sua mano nella propria, senza pensarci troppo, spinto soltanto dall'istinto di fargli sentire che non era solo, che lui gli era vicino. Non la strinse, però, preferendo lasciargli la libertà di sottrarsi a quel contatto se non gli piaceva.

"E poi, se hai bisogno di aiuto o di qualsiasi altra cosa, ci sono io per te."

Promise, guardandolo intensamente negli occhi. Claudio, dopo un istante di sorpresa, non allontanò la sua mano e anzi ricambiò la presa, aggrappandosi a lui con tutto se stesso. Gli sorrise, con infinita riconoscenza. Si sentiva decisamente meno solo e più compreso.

"Ti ringrazio davvero tanto e...scusami, non volevo appesantire questa bella giornata."

Mormorò, timidamente. Domenico scosse il capo, perché per l'ennesima volta l'altro lo stava ringraziando e si stava scusando senza motivo.

"Non hai appesantito proprio niente, però hai ragione, è una bella giornata. Ti va di fare qualcosa?"

Propose, allegro, e Claudio annuì.

"Volentieri, sì..."

Rispose un po' vago, poi si schiarì la voce.

"Di solito cosa si fa in spiaggia?"

Domandò grattandosi nervosamente una guancia. Lui al mare c'era stato poche volte e si era sempre annoiato da morire, per cui non aveva un'attività in particolare da proporre. Domenico fece una risatina, ma non era per prenderlo in giro. I suoi occhi, infatti, erano pieni di comprensione.

"Beh, di solito ci si rilassa, quindi se vuoi possiamo semplicemente restarcene qui a sonnecchiare e a prendere il Sole oppure, se preferisci, possiamo andare a fare un bagno o una passeggiata sulla riva."

Per Claudio, gettarsi in acqua era fuori discussione -anche se non poteva negare a se stesso che gli sarebbe piaciuto, visto il caldo-, perché non aveva intenzione di togliersi la maglia. Al tempo stesso, erano arrivati da poco e non era stanco, sarebbe stato uno spreco di tempo mettersi a dormire. L'idea di fare una passeggiata, invece, gli piaceva e gli sembrava la migliore, ma non fece in tempo a comunicare la sua scelta perché Domenico si voltò, sentendosi chiamare da una voce femminile, proveniente da un ombrellone poco distante.

"Ragazze, che sorpresa! Anche voi qui?"

Esclamò, alzandosi per andare da loro, poco distanti. Claudio lo seguì con lo sguardo e lo vide salutare con due baci sulla guancia -uno per lato- due ragazze, di cui una aveva un'aria famigliare. Quando vide che si stavano avvicinando, si alzò a sua volta.

"Claudio, queste sono Viola e Silvia."

Annunciò Domenico, sorridente, indicando rispettivamente una ragazza dai capelli rossi e dagli occhi verdi e una dai capelli neri e dagli occhi scuri. Erano tutte e due molto belle, pensò Claudio, anche se non erano decisamente il suo tipo.

"E lui è Claudio."

Concluse, e lui fece un sorriso per salutarle.

"Piacere di conoscervi."

Disse, portando in avanti una mano per stringere le loro. Le ragazze, però, preferirono salutarlo con due bacetti con la guancia, esattamente come avevano fatto con Domenico, anche se non si conoscevano. Claudio fu preso alla sprovvista per un paio di secondi, poi si adeguò al loro saluto e lo ricambiò.

Domenico, che aveva trattenuto il respiro quando si era reso conto di cosa stessero facendo le sue amiche, tirò un sospiro di sollievo quando vide che Claudio non sembrava esserne disturbato e sorrise sghembo, più tranquillo.

'Beh, a quanto pare apprezza...', commentò, in mente.

"Ma io a te ti ho già visto da qualche parte!"

Esordì Silvia, quella che in effetti Claudio pensava di aver già visto a sua volta, e Domenico prese la parola.

"Sì, l'ho portato al tuo bar qualche giorno fa."

Si spostò accanto all’amico e fece per poggiare una mano sulla sua spalla, come avrebbe fatto normalmente con chiunque, ma poi la ritrasse perché ricordava fin troppo bene il modo in cui aveva sussultato quella notte al bar.

Claudio seguì il movimento della sua mano con gli occhi e quando la riportò giù sentì come un peso dentro di sé che scendeva insieme ad essa. Avrebbe voluto dirgli che poteva farlo, che il suo tocco non gli dava fastidio -anzi-, ma poi avrebbe dovuto spiegargli anche tutto il resto e, ovviamente, ciò era impensabile.

"Devi sapere che questo qua si è innamorato delle vostre sfogliatelle!"

Continuò Domenico, rivolto verso la ragazza con un sorriso che era sempre bello, ammaliante, anche se si era spento un po'. Silvia batté le mani, allegra.

"Ma davvero? Quanto mi fa piacere!"

Claudio annuì, riportato in quella discussione mentre ancora fissava l'amico, e le rivolse un sorriso di circostanza.

"Mi dichiaro colpevole, sì. Sono molto buone, complimenti davvero."

Rispose, cordiale. Quella conversazione fu interrotta da Viola che, con aria annoiata, fece segno a Domenico di avvicinarsi.

"Mi aiuti con la crema?”

Gli chiese con un sorriso mellifluo e una voce morbida che in realtà nascondevano un ordine. Domenico accennò una risatina, riconoscendo il modo di fare tipico di quella ragazza, abituata ad ottenere tutto ciò che voleva con il suo fascino, e che anche stavolta non aveva atteso a lungo per sfruttarlo. Sapeva benissimo che lei, con quella richiesta, gli stava chiedendo anche altro e lui in un altro momento non avrebbe esitato ad accettare, ma adesso c'era qualcosa di diverso che non lo rendeva così sicuro di essere disposto a darglielo.

Per il momento decise comunque di accontentarla e le andò vicino, cominciando a stenderle la crema solare sulla schiena bianca, e lei non mancò di dimostrare tutto il suo apprezzamento con qualche mugolio, come una gatta che faceva le fusa. Anche questo era un comportamento che Domenico conosceva bene, ma che stavolta non ebbe un grande effetto su di lui. Di solito, quando si prendeva cura di una persona, si dedicava a lei anima e corpo, mentre adesso -e non gli era mai successo prima- stava vivendo uno strano conflitto: il suo corpo era lì, con le mani che si muovevano precise sulla pelle liscia di Viola dove fino a neanche troppo tempo prima aveva lasciato dei baci, ma la sua anima era rimasta ferma al viso di Claudio, alle sue guance morbide, alla sua risata e al suo sorriso che gli avevano riempito il cuore. La sua anima desiderava accarezzare l'unico corpo che, per rispetto, non voleva toccare.

Claudio osservò di sottecchi i loro corpi erano vicini che si sfioravano attraverso i costumi -e non gli sfuggirono i leggeri movimenti di bacino che Viola faceva per spingersi contro Domenico-, mentre si impegnava a portare avanti una conversazione con Silvia, e quei pochi minuti gli parvero infiniti. Vide le mani di lui muoversi sapientemente sul suo corpo come se lo conoscessero a memoria -e probabilmente era così-, con la stessa cura che aveva sentito sulla propria pelle, ed era certo che quegli occhi verdi, anche se non riusciva a vederli bene dalla posizione in cui si trovava, fossero carichi di quella stessa attenzione che avevano riservato a lui -e certamente anche di quel desiderio che era normale scorresse tra un uomo e una donna- e si rese conto, con un senso di oppressione allo stomaco, di non essere speciale. Ma del resto, perché avrebbe dovuto esserlo? Domenico era gentile con tutti, perché avrebbe dovuto riservargli un trattamento di favore? Anzi, si disse che doveva ritenersi già abbastanza fortunato ad averlo conosciuto e che doveva farselo bastare.

"Andiamo in acqua."

Si sentì sussurrare Domenico all'orecchio, dopo che Viola si voltò tra le sue braccia. Ancora una volta una richiesta che non accettava un 'no' come risposta e che, come tutte le richieste di Viola, nascondeva qualcosa di più, ma Domenico non era disposto a concederglielo, non questa volta, per cui anche se annuì -con ben poca convinzione-, si voltò subito verso Silvia e, soprattutto, verso Claudio, trovandoli a chiacchierare.

"Noi andiamo a farci un bagno, venite anche voi?"

Domandò sorridente, aspettandosi una risposta affermativa. Quando Claudio scosse il capo, però, mormorando un "No, grazie, non mi va", il suo sorriso si spense e si trasformò in un'espressione corrucciata. Lasciò andare la mano di Viola, con cui la ragazza stava cercando di tirarlo un po', e si avvicinò all'amico. Che si stesse annoiando? Forse era stata una pessima idea portarlo lì, forse a Claudio il mare non piaceva -gli aveva fatto capire che c'era stato poche volte- e aveva accettato di andarci solo per cortesia. Non voleva rovinargli la giornata, era disposto anche ad andare via se a lui non piaceva stare lì.

"Hey, va tutto bene?"

Domandò a bassa voce, premuroso.  Claudio abbozzò un sorriso, lasciandosi accarezzare da quella dolcezza che Domenico riservava a tutti, sì, ma che non per questo avrebbe respinto.

"Sì, tutto bene, tranquillo, è che l’acqua adesso è un po’ troppo fredda per me. Andate voi e divertitevi, non ti preoccupare."

Rispose, cercando di essere convincente. Domenico però non era tranquillo, perché nei suoi occhi vide di nuovo qualcosa che li appesantiva, che li rendeva tristi, e sentì quello stesso peso nel proprio cuore. Non poteva essere solo noia.

"Sei sicuro? Guarda che ce ne possiamo anche andare, se ti stai scocciando..."

Propose, e Claudio scosse il capo con decisione. No, non sarebbe stato quello che gli avrebbe rovinato una giornata di relax, soltanto perché desiderava ciò che non poteva avere.

"Ma che dici, dai? Certo che ne sono sicuro, mi piace stare qui. È solo che non mi va di fare un bagno troppo freddo, tutto qui."

Domenico sospirò, ancora poco convinto, ma prima che potesse replicare in qualche modo, intervenne Silvia, sorridente come sempre.

"Non ti preoccupare Mimmo, resto io con Claudio!"

Si voltò verso il diretto interessato.

"A te va bene, no?"

Chiese e Claudio non esitò ad annuire, allargando un po' il sorriso come se non avesse aspettato altro nella vita. Che poi, comunque, non gli dispiaceva la compagnia di Silvia, da quel poco che avevano parlato gli sembrava una ragazza molto simpatica.

Domenico guardo prima l'una e poi l'altro, e anche a causa delle insistenze di Viola, che aveva iniziato a dirgli di muoversi, si lasciò convincere.

"D'accordo, comunque torniamo presto. Poi se cambiate idea potete sempre raggiungerci."

Disse, guardando Claudio negli occhi. Si allontanò, poi, insieme all'altra ragazza.

"Scusa se te lo chiedo, ma non è che mi aiuteresti con questa? Da sola è proprio impossibile."

Chiese Silvia a Claudio, agitando un po' la crema solare, una volta rimasti soli.

"Certo, eccomi."

Le rispose lui, facendole un sorriso. In un attimo le fu vicino e prese a stenderle la crema sulla schiena. Silvia era una bellissima ragazza ed era sicuro che qualunque altro ragazzo presente sulla spiaggia in quel momento avrebbe pagato per essere al suo posto. Anche lui, come loro, avrebbe dovuto apprezzare quel corpo perfetto, dalle forme sinuose, e fantasticare di stringerlo a sé, facendolo incontrare con il proprio, di posare le labbra sulla farfalla tatuata sulla sua spalla sinistra, di accarezzare quei lunghi capelli neri che sembravano fili del manto notturno, di sussurrarle promesse all’orecchio e di perdersi in quegli occhi scuri che l'avrebbero guardato con amore, ma il suo pensiero volava altrove, verso un corpo che ora era lontano, così tanto da essere irraggiungibile.

"Credo che tu sia a posto, ora."

Commentò con gentilezza, dopo essersi accertato di aver steso bene la crema. Non voleva certo che Silvia prendesse insolazione, ovviamente!

"Grazie mille, sei proprio un angelo!

Esclamò lei, voltandosi sorridente, e gli scoccò un bacio sulla guancia, troppo vicino alle labbra per essere casuale, ma che comunque non gli diede fastidio.
'Non si può dire che non sia intraprendente.', commentò Claudio in mente, e quel pensiero si tradusse in un sorrisetto divertito.

"Se vuoi ti ricambio il favore..."

Propose ancora lei, guardandolo ardentemente negli occhi, e Claudio in effetti vide il fuoco di quelle due braci nere, ma non ne avvertì il calore.  Accennò un sorriso, sollevando i palmi aperti verso di lei per fermarla.

"Sei gentilissima, ma ho già fatto, grazie."

Lei ridacchiò, avvicinandosi un po' di più.

"Ne sei proprio sicuro? Guarda che qua il Sole è forte, eh..."

Disse ancora e Claudio sospirò, ma mantenne il sorriso. Suo malgrado, piaceva molto alle ragazze e ne era perfettamente consapevole, per cui era anche abbastanza abituato a quel tipo di situazione.

"Ne sono sicurissimo, ma se dovessi cambiare idea sarai la prima a saperlo."

Replicò con gentilezza, anche se dal suo sguardo fermo si poteva perfettamente capire che ciò che aveva detto non sarebbe mai avvenuto. Silvia soppesò quello sguardo per qualche secondo, poi fece spallucce e annuì.

"Come preferisci."

Commentò semplicemente, per poi andare a stendersi al Sole su un telo sistemato appena fuori il perimetro dell'ombrellone. Messo da parte quel tentativo di flirt, Silvia si rivelò una ragazza davvero simpatica, come Claudio aveva immaginato, e si trovò bene a chiacchierare un po' con lei. Parlarono soprattutto di scuola, perché entrambi avevano fatto il liceo classico -Silvia, infatti, gli spiegò che lavorava nel bar pasticceria dei genitori, che non era nemmeno l'unico che avevano, solo in estate, quando c'erano più clienti, e che aveva intenzione di iscriversi alla facoltà di Lettere Classiche- e si ritrovarono a parlare di quanto fosse noioso Senofonte con la sua Anabasi infinita e sempre uguale, di come trovare la proposizione principale in un'orazione di Cicerone fosse più difficile del cercare un ago in un pagliaio e di quanto fosse bello, struggente e reale l'amore descritto da Saffo e Catullo -anche se in realtà questo lo pensava solo Claudio, per Silvia quelle poesie erano troppo sdolcinate e preferiva di gran lunga Giovenale e Marziale, con la loro satira pungente. In questo modo, il tempo trascorse più velocemente.

"Certo che Viola è proprio fortunata..."

Sospirò Silvia guardando verso il mare, in un momento di pausa del loro scambio di ricordi e opinioni, mentre Claudio le passava una bottiglietta d'acqua. Anche lui si voltò e i pensieri che fino a quel momento era riuscito ad accantonare tornarono a farsi sentire con prepotenza, investendolo come un'onda colpisce uno scoglio durante un temporale.

Il suo sguardo si strinse solo su Domenico e Viola, escludendo ed ignorando tutti gli altri bagnanti, e li vide nitidi, anche se distanti. Stavano giocando a schizzarsi con l'acqua come due bambini e ridevano spensierati, così felici che gli sembrava di poter sentire le loro risate fin lì, nonostante il rumore delle onde, il vociare diffuso e la musica di sottofondo. Erano belli, davvero belli.

"Lei e Domenico sono fidanzati?"

Domandò, fingendo una nonchalance che non aveva, per poi bere un sorso d'acqua, di nuovo seduto accanto a Silvia. Lei scoppiò a ridere, scuotendo il capo come se Claudio avesse appena raccontato la barzelletta più divertente del mondo. Lui si accigliò, confuso.

"Che ho detto di così buffo?"

Chiese ancora e Silvia, troppo scossa da quella risata, gli fece cenno con la mano di attendere un secondo perché aveva bisogno di riprendersi.

"Scusami, ma tu non sei un amico di Domenico?"

Domandò la ragazza, guardando l'altro con gli occhi che ancora luccicavano per il tanto ridere.

"Beh, sì, ma che c'entra?"

Ribatté lui, ignorando la vocina nella sua testa che gli faceva notare quanto fosse ridicolo definire Domenico suo amico dopo appena una decina di giorni di conoscenza. La sua amicizia, almeno quella, era una cosa che poteva avere e a cui non avrebbe rinunciato.

“Allora perdonami, ma non lo conosci per niente.”

Rispose Silvia, per poi sospirare.

“No, Viola e Domenico non sono fidanzati. Diciamo che Domenico non è proprio il tipo da avere una fidanzata...”

Claudio sgranò gli occhi per un istante, un barlume di speranza li attraversò come un lampo.

'Che sia uno come me?', si chiese, con il cuore che cominciò a battere forte.

"Che...che intendi dire?"

Silvia fece una risatina e poi scrollò le spalle.

"Che a Domenico piacciono troppo le femmine, per avere una sola ragazza."

Quel barlume di speranza negli occhi di Claudio si spense con la stessa forza e velocità con cui si era acceso. Che idea stupida che si era fatto, che film mentale da premio Oscar! Che illuso che era!

"Sai, in confidenza, anche se non è un segreto, è stato con praticamente tutte le ragazze che conosco, anche con me ha avuto una piccola storia. È per questo che dico che Viola è fortunata, perché so di che parlo."

Aggiunse, continuando inconsapevolmente a gettare benzina sul fuoco che aveva già ridotto in cenere il cuore di Claudio.

"È fortunata il doppio, a dire il vero, dato che si sono frequentati per qualche mese un annetto fa e lui adesso mi sembra deciso a ripetere l'esperienza."

Disse ancora, indicandogli la coppia con un cenno del capo. Claudio ruotò faticosamente il capo e vide Viola avvinghiata a Domenico, una mano tra i suoi capelli e l'altra intorno al suo collo, e Domenico che la teneva per i fianchi, stretta a lui, mentre si scambiavano un bacio appassionato. Silvia aveva ragione, Viola era fortunata e Claudio la invidiava, perché lei poteva avere tutto questo, mentre lui poteva solo guardare.

 
"Hey, guarda che io sono qui..."

Domenico sentì la voce cantilenante di Viola arrivargli come da lontano, e a stento percepì la sua sotto il proprio mento che lo tirava leggermente per farlo voltare verso di lei. Era di nuovo nel pieno di quel suo conflitto tra anima e corpo, con il corpo che era mezzo immerso nel mare piacevolmente freddo a ridere e giocare con lei, a muovere le mani nell'acqua per generare spruzzi sempre più alti con cui colpirla o che si spostava per evitare i suoi, e l'anima che era rimasta ferma sulla sabbia asciutta, sotto l'ombrellone, e che stavolta spingeva anche il corpo a reagire, facendogli spostare lo sguardo ogni volta che poteva lì, in direzione di Claudio e Silvia. Li vedeva chiacchierare animatamente, chissà di cosa, e ridere tra loro come due vecchi amici.

'È una cosa buona...', si disse più volte, '...Claudio ha bisogno di svagarsi.'.

Seguì allora la sua voce e la sua mano, tornando a guardarla con un sorriso appena accennato sull'angolo delle labbra, quello che sapeva le piaceva tanto.

"Scusami, mi sono distratto un attimo."

Sussurrò, facendole una carezza sulla guancia con il pollice per farsi perdonare.

"Più di un attimo."

Replicò lei, quasi con severità, per poi sciogliersi in un sorriso malizioso. Si avvicinò per ridurre ulteriormente la distanza tra i loro corpi e gli avvolse il collo con le braccia.

"E le scuse non bastano. Non devo dirti io come farti perdonare, no?"

Sussurrò ancora, a pochi centimetri dalla sua bocca, lasciando la propria leggermente dischiusa.

Domenico prese un profondo respiro e cercò di accontentarla con tutto se stesso, fece incontrare le loro labbra come aveva fatto mille altre volte e si impegnò a darle il bacio che desiderava, a spegnere i pensieri e dedicarsi solo a lei, la cinse perfino per i fianchi per tenerla più vicina, ma la testa -l'anima- non era disposta a spegnersi e questa volta nemmeno il corpo sembrava intenzionato a collaborare, e così quell'incontro divenne uno scontro, con lei che spingeva la lingua contro le sue labbra per costringerle a dischiudersi, e lui che proprio non riusciva ad accoglierla.

"Ma si può sapere che ti viene? Cos'è, all'improvviso non ti piaccio più?"

Esclamò lei, piccata, dopo essersi separata bruscamente da lui.

Domenico era mortificato e abbassò gli occhi verdi smarriti e imbarazzati, non sapendo cosa dirle. Viola era indubbiamente una ragazza bellissima, gli piaceva, non avrebbe dovuto fare fatica a baciarla, eppure...

"No, non è questo, figurati. Ho qualche pensiero per la testa, diciamo così..."

Si limitò a dire, portandosi intanto una mano all'altezza del capo e facendo roteare l'indice per simulare il vortice dei pensieri.

Viola gli tornò vicino e, come prima, lo costrinse a sollevare la testa per guardarla negli occhi. Le sue labbra erano curvate in un sorriso appena accennato, ma seducente, e gli occhi chiari luccicavano maliziosi.

"Allora vediamo di fare qualcosa per mandarli via, questi brutti pensieri..."

Sussurrò, facendo scivolare una mano verso il basso, sfiorandogli il costume, ma Domenico si ritrasse. Non aveva alcuna voglia di liberarsi dai suoi pensieri, che non erano brutti, come lei non aveva esitato a definirli, e anzi voleva raggiungerli di nuovo.

"No, Viola, dai...magari un'altra volta."

Ribatté, cercando comunque di essere gentile. Lei ridacchiò, e il suo sguardo si fece ancora più penetrante.

"Ti metti a fare il prezioso, ora? Dai, come se non ti piacesse..."

Si avvicinò di nuovo e prima che l'altro potesse allontanarsi lo cinse con un braccio, in modo da tenerlo stretto a sé. Domenico scosse il capo e sospirò.

"Non è questo, è che non mi va. E poi c'è gente, ci vedrebbero tutti..."

Viola ridacchiò di nuovo, quasi non credeva alle sue orecchie.

"Non ti ricordavo così pudico, sai? Ma a tutto c'è una soluzione: io e Silvia abbiamo affittato una cabina, possiamo andare a chiuderci lì dentro, soli soletti, senza nessuno che ci disturbi, mh?"

Propose, melliflua, e Domenico sospirò, decidendo di dirle la verità, o almeno una sua parte.

“Ascoltami, io sono venuto qui con Claudio e sinceramente non mi sembra bello lasciarlo da solo, come un baccalà.”

Rispose, facendo appello a tutta la sua pazienza. Viola sbuffò, alzando gli occhi al cielo.

“Ah, ecco perché sei così distratto, oggi! Guarda che il tuo amichetto non è da solo, c’è Silvia con lui, e sono sicura che non gli farà sentire la tua mancanza!”

Sospirò e tornò ad assumere un’espressione dolce, che contrastava con il suo sorriso provocante.

“Dai, Mimmo, non ci pensare a lui. Pensa a me…”

Sussurrò al suo orecchio, per poi spingersi di nuovo a baciarlo. Domenico era abituato alle provocazioni di Viola, in passato le aveva anche trovate piacevoli e le aveva perfino cercate, ma in quel momento non provò assolutamente nulla, se non un leggero senso di fastidio che lo spinse a ritrarsi con decisione.

“Viola, davvero, ti chiedo scusa, ma non mi va.”

Replicò con fermezza, guardandola negli occhi. Non poteva pensare a lei se i suoi pensieri erano presi da un’altra persona, né, a dire il vero, era a lei che voleva pensare.

“Adesso mi lasci andare, per favore?”

Aggiunse, accennando al braccio che lei ancora teneva stretto intorno al suo busto. Era più alto di lei e anche più forte, non gli sarebbe stato difficile spingerla via, ma sarebbe stata una reazione spropositata, che non rientrava nel suo modo di agire, e in più avrebbe potuto farle male, cosa che comunque non voleva. Viola sgranò gli occhi, incredula.

"Guarda che se te ne vai adesso, puoi anche scordarti di me."

Disse, giocando l'ultima carta a sua disposizione. Domenico liberò uno sbuffo divertito e poi fece spallucce.

"Ci farò l'abitudine."

Rispose pungente, negli occhi c'era la sicurezza di chi non aveva alcun ripensamento o rimorso e sapeva che non ne avrebbe avuti. Viola, sbuffando, si separò da lui e Domenico, dopo averle rivolto un "Grazie mille" altrettanto sarcastico, si diresse velocemente verso la riva. Una volta arrivato all'ombrellone rivolse a Silvia e Claudio, che stavano chiacchierando, un ampio sorriso.

"Ah, eccovi! Com'era l'acqua?"

Domandò Silvia, rivolta sia a Claudio che a Viola, arrivata pochi istanti dopo di lui.

"Pulitissima, però Claudio aveva ragione, era bella fredda."

Rispose Domenico, per poi andare a sedersi accanto all'amico, su un telo steso sulla sabbia, imitandone anche la posizione a gambe incrociate.

Claudio si morse l'interno del labbro inferiore per trattenere il sorriso che gli spuntò sul cuore non appena sentì il corpo di Domenico così vicino al suo, il suo calore che gli accarezzava la pelle e che evidentemente neanche l'acqua fredda era riuscita a mitigare. Si voltò a guardarlo e rimase semplicemente incantato: il corpo di Domenico era costellato da innumerevoli goccioline che gli imperlavano la pelle, disposte senza uno schema preciso, di cui lui provò a seguire gli strani percorsi con lo sguardo -alcune scivolavano sulle sue guance, scomparendo tra la barbetta accennata che le ricopriva; altre, invece, facevano una strada diversa e correvano lungo il suo collo, fermandosi sulla spalla o continuando fino al petto, dove si univano ad altre goccioline e proseguivano ancora più giù, lungo la sua pancia che si muoveva al ritmo del suo placido respiro, fermandosi sul bordo del costume blu; altre ancora, poi, gli accarezzavano la schiena e a Claudio sembrò che avessero la stessa accortezza che aveva usato lui; i capelli arruffati, nonostante fossero appiattiti dal peso dell'acqua mantenevano la forma di morbidi ricciolini e sembravano le onde di quello stesso mare da cui era appena uscito, formando una specie di coroncina sulla sua fronte; infine gli occhi verdi, che incrociarono i suoi blu, erano illuminati dal Sole e assumevano una sfumatura nuova, più brillante, come le foglie degli alberi in Primavera. Tutto questo contribuiva a dare a Domenico l'aspetto di un giovane Poseidone uscito dal suo regno e Claudio non aveva mai visto nessuno di più bello.

"Sì, anch'io l'ho trovata molto fredda. Praticamente ghiacciata."

Rispose Viola, a braccia incrociate e con gli occhi puntati su Domenico, che però scelse di ignorare la provocazione e non la degnò di uno sguardo.

"E qua invece com'è andata? Avete fatto amicizia?"

Domandò, mantenendo un tono allegro. Claudio rivolse uno sguardo di sottecchi a Viola, capendo che qualcosa non andava, ma subito tornò a guardare gli altri due.

"Sì, abbiamo scoperto che abbiamo fatto entrambi il liceo classico e se metti due classicisti nello stesso posto è la fine, vero Silvia?"

Rispose, accennando un sorriso piccolo, ma sincero, e Silvia ridacchiò, annuendo.

"Tu mi devi spiegare dove hai tenuto nascosto questo ragazzo fino a mo', Mimmo! In tutto il mio liceo non ce ne sta uno così, eh!"

E sottolineò io concetto muovendo un indice. Domenico ridacchiò.

"Eh, a Roma! E se è per questo, stava nascosto anche da me."

Guardò Claudio di sottecchi, con un sorrisetto dolce appena accennato. Aveva capito che il motivo che lo aveva spinto a venire a Napoli non era dei più piacevoli, ma era davvero felice di averlo incontrato e sperava che anche lui condividesse almeno una piccola percentuale di quella felicità.

Gli occhi di Claudio subito andarono ad incrociarsi con quelli di Domenico e lo stesso sorriso comparve sulle sue labbra. Se solo avesse saputo in anticipo quanta felicità avrebbe incontrato a Napoli, avrebbe lasciato la sua città molto prima.

"Ah, sei di Roma, ecco perché sei così testardo!"

Esclamò Silvia, sollevando una mano e poi battendola giù, sul telo. Claudio si voltò a guardarla, con un sorrisino imbarazzato sul volto.

"Dai, non ricominciare, su..."

"Eh ma è vero, sei una capa tosta!"

Replicò lei, scherzosa, rivolgendosi poi a Domenico.

"È da mezz'ora che sto cercando di convincerlo a togliersi quella maglietta, e lo dico per lui perché sta facendo le cozze, guardalo! Digli qualcosa pure tu, Mimmo!"

Claudio rivolse a Domenico gli occhi sbarrati, imploranti. Non voleva affrontare ancora quel discorso, perché lo sapeva che Silvia dal suo punto di vista aveva ragione e cercava di fargli un favore, ma a lui ricordava soltanto il motivo per il quale non poteva proprio togliersi quella maglietta e non voleva pensarci.

Domenico si voltò a guardare l'amico, che effettivamente aveva il viso ricoperto da un leggero strato di sudore e la maglietta appiccicata addosso in un modo che doveva essere insopportabile, personalmente sarebbe impazzito e se la sarebbe strappata di dosso il prima possibile. Se quindi lui era disposto a sopportare quella situazione doveva avere un motivo più che valido, come leggeva nei suoi occhioni preoccupati. Gli rivolse un sorriso comprensivo e, senza smettere di guardarlo, rispose a Silvia.

"Sarà anche testardo, ma è libero di fare ciò che meglio crede. Se preferisce stare così va bene, l'importante è che si diverta."

Claudio sospirò, e il suo viso si distese in un sorriso riconoscente, gli occhi si svuotarono di imbarazzo e si riempirono di gratitudine per quella premura che l’amico ancora una volta mostrava nei suoi confronti. 'Il mondo è fortunato ad averti.', pensò mentre lo guardava.

Domenico gli fece un occhiolino, in un modo silenzioso per dirgli che, come sempre, non doveva ringraziarlo, e Claudio ridacchiò.

"Silvia però ha ragione, fa un caldo assurdo. Ci vuole qualcosa di fresco."

Annunciò, alzandosi. Andò sotto il loro ombrellone, poco distante, e prese dalla propria borsa termica uno degli infusi che aveva portato -optò per menta e liquirizia, più rinfrescante-, approfittandone anche per recuperare un asciugamano per Domenico che sì, sembrava un dio greco uscito dalle acque, ma era un essere umano e non era il caso che restasse completamente bagnato, anche se faceva caldo. Tornato di nuovo dal suo gruppetto, per prima cosa porse asciugamano all'amico, il quale lo accettò con un sorriso.

"Grazie."

Disse, cominciando a passarselo tra i capelli, per asciugarli un po'.

"Non c'è di che."

Rispose Claudio, cordiale, per poi mettersi a distribuire bicchieri di bevanda fresca a tutti.

"E io che pensavo ti piacessero i gatti, Mimmo, e invece ti sei preso proprio un bel cagnolino."

Commentò Viola, rimasta in disparte per tutto quel tempo, mentre accettava il suo bicchiere. Claudio si sorprese di quella presa in giro, immotivata dal suo punto di vista, ma pensò che forse lei avesse un modo particolare di scherzare e allora accennò una risatina, credendo volesse semplicemente fare una battuta. Domenico, invece, sbuffò e alzò gli occhi al cielo.

"O magari è solo un buon amico, mh?"

Ribatté, pungente, dopo essersi voltato di scatto verso di loro. Il suo sguardo era freddo, duro, e fu quella reazione far capire a Claudio che ci fosse qualcosa dietro e a metterlo in allarme, tanto da far passare in secondo piano il fatto che lo avesse appena definito amico. Lo conosceva da poco, ma non l'aveva mai visto così innervosito.
Viola fece spallucce e curvò le labbra in un sorrisetto malizioso, puntando gli occhi su Claudio, ancora abbastanza vicino a lei.

"Io comunque un collare glielo metterei volentieri."

Claudio sostenne il suo sguardo, decidendo di riuscire a quella che si era rivelata una provocazione vera e propria, e due paia di occhi azzurri si scontrarono come cielo e mare durante una tempesta. Mise su un sorrisetto provocatorio per rispondere al suo, sapeva rispondere a tono quando voleva o ne aveva bisogno.

“Mi hai preso per un disperato? Risparmiati l’imbarazzo, Viola.”

Domenico fu piacevolmente sorpreso da quella risposta, -'E bravo Claudio!, pensò- e liberò una risatina compiaciuta. Era molto raro vedere qualcuno che riuscisse a resistere alle provocazioni di Viola e ancor più raro era vedere qualcuno che le rispondesse a tono. Doveva essere un durissimo colpo, per lei, che era abituata ad avere qualsiasi ragazzo ai suoi piedi con uno schiocco di dita.

La ragazza gli scoccò un'occhiataccia offesa e poi tornò a focalizzarsi su Claudio, ridacchiando con freddezza.

"E se provassi a toglierti la maglietta, invece? Magari sarei più fortunata...o non vuoi che provi, così da risparmiarti l’imbarazzo?"

Ribatté, velenosa come un serpente e colpendo -mordendo- con la stessa precisione. Aveva capito che l'amico di Domenico doveva avvertire qualche tipo di disagio nei confronti del suo fisico, che il suo corpo, per qualche motivo che nemmeno le interessava, era il suo punto debole.

Claudio sgranò gli occhi, smarrito come un animale che all'improvviso si trova davanti i fari di un'auto, e in un attimo gli tornarono in mente gli insulti di suo padre, il dolore della pelle che si lacerava lentamente sotto le cinghiate ripetute per ore e ore e l'odore ferroso del sangue che riempiva la stanza rendendo l'aria irrespirabile, e tutto si fece terribilmente reale, come se stesse rivivendo l'esperienza in quel momento.

'Lei non sa niente di tutto questo, ti sta solo provocando. Non cedere.', si disse in mente, cercando di mantenere la calma, ma l'invasione di quei pensieri rendeva impossibile concentrarsi. Spinto da un bisogno istintivo, cercò con gli occhi quelli di Domenico, che erano già puntati su di lui e lo guardavano allarmati.

"Basta, Viola!"

Tuonò Domenico, scattando in piedi. Poteva farsi scivolare addosso le sue provocazioni, se rivolte a se stesso, ma non poteva tollerare che Claudio venisse trattato così, soprattutto perché Viola lo stava facendo solo per ripicca nei propri confronti. Non riusciva a sopportare quel peso nei suoi occhi, di nuovo lì dopo che finalmente era riuscito a scacciarlo. Si frappose tra i due, facendo scudo all'amico con il proprio corpo.

"Non ti rendi conto di essere ridicola?"

Disse ancora, con gli occhi che sembravano un bosco in fiamme. Lei rispose con una scrollata di spalle.

"Non ho fatto chissà cosa, volevo solo essere gentile e convincerlo a stare un po' più fresco, tutto qui.

Disse, placidamente. Domenico scosse il capo, incredulo della sua faccia tosta, e sbuffò di disappunto.

"Tu non sai nemmeno cosa sia la gentilezza, sai pensare solo a te stessa e io non voglio più avere niente a che fare con te. Mi fai schifo!"

Sputò, duro come forse non era mai stato in vita sua, e stavolta fu lui a colpire un suo punto debole, lasciandola esterrefatta. Si voltò subito verso Claudio, lo prese per mano e senza aggiungere altro si diresse verso il loro ombrellone per portarlo al sicuro, lontano da quella serpe di Viola.

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Capitolo 29
*** Appendice, Capitolo 2 – Le tue profondità verdi come gli occhi tuoi (parte 2) ***


"Ecco qui, siediti. Piano, piano..."

Mormorò Domenico, aiutandolo a sedersi sulla sedia a sdraio con la stessa cura che aveva usato quella notte al bar e Claudio si lasciò guidare, affidandosi a lui come aveva fatto fin dal primo momento. Si appoggiò allo schienale di stoffa, che si curvò leggermente sotto il suo peso, anche se la schiena gli bruciava, ma sapeva che era solo frutto della sua immaginazione, scatenata dalle parole di Viola.

"Come ti senti?"

Chiese Domenico, preoccupato, con la voce incrinata e gli occhi, fissi sull'altro, che tremavano. Lo aveva portato lì, al mare, per farlo stare bene e invece adesso stava male, e gli si stringeva il cuore a vederlo così. Non se lo sarebbe mai perdonato.

Claudio non poté fare a meno di sorridere, un sorriso timido, ma luminoso, perché la voce di Domenico era tornata ad essere la morbida carezza e i suoi occhi il bosco assolato che aveva imparato a conoscere e a cui si era rapidamente affezionato.

"Sto bene, non ti preoccupare. Mi gira un po' la testa, sarà che mi sono agitato, ma adesso mi passa, ho solo bisogno di un attimo. E tu, invece?"

Mormorò, con la bocca un po' impastata, passandosi poi la lingua sulle labbra secche.

Domenico sospirò profondamente e mise da parte quella domanda perché, al momento, non era lui quello pallido come un lenzuolo, e si chinò a prendere una delle bottiglie che Claudio aveva portato, versò poi l'infuso in un bicchiere e glielo porse, sperando che la bevanda fresca e dolce lo aiutasse a rimettersi in sesto. 

"Grazie..."

Disse Claudio, mentre accettava il bicchiere che l'altro gli porgeva per poi berne un sorso, sentendosi subito un po' meglio. Teneva gli occhi fissi nei suoi, perché anche se non aveva risposto alla domanda, era chiaro che anche lui fosse agitato.

"Prenditene un po' anche tu."

Lo invitò, accennando alla bottiglia con il capo. Non era l'unico ad avere bisogno di un momento per riprendersi.

Domenico annuì appena e fece quanto detto, ma solo perché era stato lui a chiederglielo. Si portò il bicchiere alla bocca, ma intanto osservava l'amico, ancora pallido per lo spavento. Dallo sguardo terrorizzato che gli aveva rivolto mentre Viola lo provocava, aveva capito che qualsiasi cosa fosse a spingerlo a non mostrare il suo corpo andasse oltre il semplice imbarazzo, doveva trattarsi di un vero e proprio trauma. La tentazione di chiedergli di più sarebbe stata forte per chiunque, ma non per lui, che invece la trovava morbosa. Lo avrebbe ascoltato, se fosse stato lui a decidere di raccontargli quel pezzo della sua storia, ma per adesso gli bastava sapere che Claudio doveva essere trattato con più cura di quanto avesse immaginato.

"Mi dispiace. Mi dispiace più di quanto riesca a dire. Nessuno dovrebbe vivere un'esperienza del genere."

Disse, dopo qualche istante di silenzio, pur sapendo che il suo dispiacere non avrebbe cambiato le cose. Poteva sembrare che si stesse riferendo a ciò che era appena accaduto, ma in realtà parlava di quel buio che l'amico si portava dentro, nascosto nell'abisso dei suoi occhi e che le provocazioni di Viola avevano riportato in superficie.

Claudio, dall'intensità con cui quegli occhi verdi lo guardavano, capì che Domenico aveva letto qualcosa nel proprio cuore, ma non si sentì violato perché si muoveva dentro di lui con delicatezza, senza far danni, come una piuma.

"Mi dispiace e vorrei chiederti scusa, ma sinceramente non so come farlo, perché le scuse non bastano. È colpa mia, solo colpa mia."

Aggiunse Domenico, tornando a parlare dell'episodio più recente, con il tono e lo sguardo che si fecero più duri, ma era una severità che rivolgeva solo a se stesso.

"No, non dire così..."

Replicò Claudio scuotendo appena il capo, gli occhi blu si fecero più malinconici. Non gli piaceva che l’altro si incolpasse di ciò che non aveva fatto.

"Non è colpa tua, Viola ha fatto tutto da sola. Non puoi sentirti responsabile."

Replicò con decisione, ma Domenico scosse la testa.

"E invece sì, perché se l'è presa con te..."

Lo indicò con un veloce gesto della mano in cui stringeva il bicchiere.

"...solo per ripicca, perché io l'ho fatta incazzare."

Indicò se stesso allo stesso modo e poi sospirò.

"Potrei dirti che non immaginavo avrebbe reagito così, ma mentirei, perché la conosco fin troppo bene. È abituata ad ottenere ciò che vuole, da sempre, e io non gliel'ho dato. Dovevo aspettarmi che avrebbe combinato qualcosa."

Sollevò il capo verso l'alto, prendendo un profondo respiro. 'Che cazzo di coglione!', si disse in mente.

Claudio aveva capito che avessero litigato, ma non era riuscito a spiegarsi il motivo, dal momento che li aveva visti giocare e baciarsi -'soprattutto baciarsi', sottolineò la vocina dei suoi pensieri- con grande affiatamento mentre erano in acqua, non aveva assistito a nessun litigio. Si grattò una guancia, pensieroso.

"Se non sono troppo indiscreto, posso chiederti cos'è successo? Insomma... cos'è che voleva?"

Domandò, un po' incerto, temendo di non essere molto delicato. Non voleva impicciarsi, anche se doveva ammettere che un po' curioso lo era, ma aveva bisogno di tutta la storia per aiutare l'amico ad osservarla da un altro punto di vista e quindi aiutarlo a scagionarsi dalla colpa che si dava.

Domenico, in ogni caso, non aveva problemi a raccontargli la verità, un po' perché di natura era una persona abbastanza aperta, e un po' perché, dopo ciò che aveva dovuto sopportare, Claudio aveva il diritto di chiedergli tutto ciò che voleva.

"Me."

Rispose, secco.

Claudio non riuscì a trattenere un'espressione di leggera meraviglia, con occhi appena sgranati e sopracciglia lievemente sollevate. Ciò che lo stupiva non era tanto il desiderio di Viola in sé -non era un bigotto e non si scandalizzava di fronte al sesso- quanto il fatto che Domenico si fosse rifiutato di esaudirlo perché, da quanto aveva visto, gli era sembrato molto ben disposto nei suoi confronti, anche se naturalmente ciò non voleva dire che non potesse cambiare idea.

Domenico abbassò il capo e tornò a guardare l'altro, abbozzando un sorriso che non aveva nulla di allegro.

"Detto così, mi rendo conto che debba darti un po' di contesto: l'anno scorso siamo stati per un paio di mesi insieme, ma senza nessun impegno particolare. Insomma, cercavamo solo un modo divertente per passare il tempo, hai capito, no?"

Spiegò, schietto, e Claudio annuì, capendo alla perfezione il tipo di rapporto che li legava. Domenico sospirò e poi fece spallucce.

"Poi questo nostro rapporto è finito come è iniziato, in maniera tranquilla, ma qualche volta è capitato che siamo finiti di nuovo a letto, diciamo così."

In realtà erano finiti solo una volta in un letto vero, quello di Domenico, ma il mattino dopo Viola era sparita ancor prima che lui si svegliasse. Si schiarì la voce.

"Viola voleva che capitasse anche oggi, ma io non ne avevo voglia."

Si bloccò, non sapendo se fermarsi lì oppure proseguire e dire a Claudio che era lui il motivo per il quale non riusciva a dedicarsi a Viola, a concentrarsi sul suo corpo, a godersi le sue attenzioni. Di fronte a quegli occhi blu che sembravano incollati ai suoi -e viceversa- e che ciononostante lo guardavano discreti, senza un'ombra di giudizio, trovò facile dire la verità, anche se non esattamente in quei termini.

"C'eri tu e non mi sembrava molto cortese nei tuoi confronti lasciarti da solo per...beh, per pensare ai fatti miei, ecco."

Disse, e il suo sorriso si fece un po' più luminoso, anche se timido.

"Purtroppo ho fatto l'errore di dirglielo e così lei se l'è presa con te, per questo è colpa mia."

E in un attimo, le sue labbra tornarono a spegnersi.

Claudio, questa volta, restò davvero sorpreso. Nessuno al mondo avrebbe rinunciato a del sano e piacevole sesso solo per far compagnia ad una persona che conosceva da pochi giorni -anche se Domenico non aveva esitato a definirlo amico, e ora che aveva un attimo di tempo in più per pensarci, poteva gioirne-. Non poté che sorridergli, riconoscente.

"E tu ti incolpi di questo? Avevi tutto il diritto di rifiutare la proposta di Viola, non potevi accontentarla solo per paura di ciò che avrebbe fatto, avresti fatto una violenza a te stesso! Anzi, ti dirò di più, hai fatto bene a non cedere al suo ricatto, le persone come lei non possono sempre averla vinta!"

Esclamò con fervore, convinto così tanto di ogni sua parola che non si rese conto di aver alzato un po' troppo la voce.

Domenico liberò uno sbuffo divertito, colpito da quell'irruenta convinzione con cui Claudio aveva deciso di difenderlo da se stesso, e anche se era ancora convinto che avrebbe dovuto prevedere e prevenire la reazione di Viola, si sentì molto più disteso.

"Ti metti a fare il mio avvocato contro me stesso, ora?"

Chiese divertito, sollevando un sopracciglio, anche se gli occhi erano pieni di riconoscenza. Claudio ridacchiò.

"No, no, non voglio fare l'avvocato. Sto solo cercando di dirti che tu avevi il diritto di agire come preferivi e che solo Viola può essere ritenuta responsabile del suo comportamento."

Fece spallucce.

"E poi comunque hai preso le mie difese, te ne sei dimenticato?"

Domandò retoricamente, e Domenico scosse appena il capo, abbozzando un sorriso.

"Oh, bene! Quindi consideriamo chiusa la questione e godiamoci questa bella giornata, non permettiamo a nessuno di rovinarcela, ok?"

Propose Claudio con entusiasmo e Domenico annuì, ma nel farlo il suo sguardo incrociò l'ombrellone di Silvia e Viola e si accorse che quest'ultima li stava ancora fissando.

"Hai ragione, dobbiamo godercela, ma non qui."

Rispose, tornando a guardarlo. Era calmo, però, e sorrideva. Claudio si accigliò leggermente.

"No, restiamo qui, invece. Non diamole questa soddisfazione..."

Ribatté, mentre Domenico aveva già cominciato a rivestirsi.

"No, non è questo, è che su una cosa aveva ragione: qui fa troppo caldo, voglio portarti in un posto più fresco. Tutto qui, davvero."

Anche se Claudio stava meglio -le sue guance avevano ripreso colore e i suoi occhi erano tornati limpidi-, infatti, il Sole batteva troppo forte per lui che voleva restare in maglietta, e non soffiava un filo di vento. Conosceva un luogo più adatto.

Claudio gli sorrise, e anche se non avrebbe più dovuto stupirsi per le premure che quel cuore gentile non smetteva di rivolgergli, sentì comunque il proprio petto sussultare, perché non era abituato a tutte quelle attenzioni e probabilmente non lo sarebbe mai stato.

"D'accordo, allora andiamo. E non ti ringrazio solo perché fai storie..."

Disse, concludendo con un occhiolino. Si alzò, poi, e recuperò i propri pantaloncini dallo zaino, che infilò rapidamente. Domenico fece una risatina.

"Vedo che stai cominciando a capire, bravo!"

Rispose mentre sistemava i teli mare nel proprio zaino.

"Però...ti avviso, il posto che ho in mente è una spiaggia libera, io di solito vado lì. Non so se a te va bene..."

Aggiunse, con più incertezza. Claudio, che stava piegando un asciugamano, si voltò a guardarlo con un'espressione confusa.

"E perché non mi dovrebbe andare bene?"

Domenico si mordicchiò un labbro, un po' in imbarazzo, cercando di trovare un modo gentile per dare una risposta che poteva risultare piuttosto antipatica. Non era facile.

"Perché tu, insomma...sei abituato agli hotel di lusso, quindi..."

Balbettò, incerto, ma fu interrotto dalla risatina di Claudio, limpida e morbida.

"Quindi è per questo che mi hai portato qui? Perché pensavi che fossi un riccone con la puzza sotto al naso?"

Domandò, con gli occhi che brillavano divertiti, e Domenico annuì, troppo in fretta per cogliere la domanda nella sua interezza.

"Sì..."

Strizzò gli occhi per un istante, rendendosi conto della cattiveria che aveva appena detto e che certamente non pensava.

"Cioè, no! No, ovviamente no, non penso che tu lo sia!"

Si affrettò ad esclamare, agitando un palmo aperto davanti a sé come se stesse cancellando quell'affermazione. Agli occhi di Claudio, era di una tenerezza inaspettata.

"Però, insomma, pensavo fossi abituato ad un certo... livello, ecco."

Concluse Domenico, un po' più rosso in viso, profondamente in imbarazzo, rivolgendo poi all'altro uno sguardo degno di un bambino colto a rubare i biscotti nella credenza.

Claudio gli rivolse un ampio sorriso, di quelli che erano tornati a splendere sulla sua bocca solo grazie a lui, e gli si avvicinò di qualche passo.

"Domenico, per favore, non sentirti in difetto per un atto di empatia. Hai cercato di farmi sentire a mio agio, ed è una cosa che non tutti avrebbero fatto, quindi..."

Scrollò le spalle.

"...lo sai."

E con questo, intendeva dire che lo stava ringraziando. Domenico recuperò il sorriso e fece un sospiro di sollievo, felice che non si fosse offeso.

"E, per inciso..."

Continuò Claudio.

"...io preferisco di gran lunga le cose semplici, quindi sappi che adesso fremo dalla voglia di conoscere questa spiaggia fresca e libera come il vento!"

Esclamò allegro e Domenico rise, annuendo. Era una bellissima similitudine, quella che l'amico aveva appena scelto. Semplice, ma bellissima.

"E allora non aspettiamo un minuto di più, perché adesso anch'io ho davvero voglia di fartela conoscere!"

Raccolsero in fretta i loro zaini e le loro borse, e altrettanto in fretta lasciarono il lido, senza rivolgere un solo sguardo a Viola, che invece li seguì con il proprio. Non avevano intenzione di darle importanza, non più.

Arrivati alla moto ebbero qualche difficoltà ad allacciarsi i rispettivi caschi, troppo presi a sorridersi a vicenda, e quando partirono i loro cuori cominciarono a fremere al pensiero di poter essere finalmente liberi di godere l'uno della compagnia dell'altro, senza che nessuno interferisse. La stessa Napoli sembrava emozionata all'idea, liberò le sue strade e permise ai due ragazzi di raggiungere la loro meta nel più breve tempo possibile.

Parcheggiarono la moto e, dopo qualche minuto di camminata, arrivarono alla spiaggia. Un piacevole venticello accarezzò i loro visi, dando loro il benvenuto. Domenico sorrise soddisfatto, notando che era quasi tutta per loro.

"Nei fine settimana è molto più affollata, ma oggi è giovedì, quindi..."

Scrollò le spalle.

"Beh, scegli il punto che preferisci, così ci sistemiamo."

Claudio si guardò intorno, di fronte a sé aveva ampia scelta. C'erano pochi altri bagnanti oltre a lui e Domenico, per cui fu facile trovare un angolino in disparte, un po' all'ombra grazie alla presenza di alcuni edifici nei dintorni.

"Lì?"

Propose, indicando il posto prescelto con un dito. Domenico annuì -per lui l'unica cosa che contava era che Claudio fosse contento- e si incamminarono in quella direzione. Dopo aver preso possesso di quello spazio, posando gli zaini e le borse e stendendo i teli sulla sabbia a marcare la loro presenza, Domenico si strofinò le mani e rivolse a Claudio un bel sorriso.

“Cos’è che mi volevi dire, prima? Non hai avuto il tempo di rispondermi…non me ne sono dimenticato, sai?”

Claudio si voltò verso di lui, ricambiando il sorriso, felice che Domenico si fosse ricordato di quella piccola cosa. Ne era stupito, perché nessuno aveva mai dato così tanta importanza a ciò che diceva, ma al tempo stesso non lo era, perché aveva ormai capito che Domenico non era come chiunque altro.

“Ah, figurati, niente di che…mi piacerebbe fare una passeggiata sulla riva, tutto qui.”

“Mi sembra un’ottima idea, ma…posso farti un’altra proposta, prima?”

Chiese Domenico, mantenendo il sorriso, e Claudio annuì, sicuro che gli avrebbe proposto qualcosa di bello.

"Certo, sono tutt'orecchi."

"Stavo pensando che sarebbe il caso di darci una rinfrescata..."

Rispose l’altro, parlando volutamente al plurale per non causargli imbarazzo, ma era principalmente a lui che si stava riferendo. Si era agitato ed era convinto che l'abbraccio del mare lo avrebbe aiutato a calmarsi, oltre a dargli refrigerio.

Claudio si morse un labbro, titubante, perché per quanto quella distesa d'acqua fosse invitante, il fatto di aver cambiato spiaggia non lo rendeva più disposto a sfilarsi quella maglia che per lui era come un'armatura.

"Domenico, io..."

Balbettò, ma Domenico gli sorrise dolcemente.

"Non ti preoccupare, non ti sto chiedendo di nuotare. Restiamo dove si tocca, facciamo giusto qualche passo. Hai la mia parola."

Era una promessa che passò anche attraverso i suoi occhi, che cercarono quelli più timorosi dell'altro con pazienza.

"Anzi, sai che ti dico?"

Si sfilò i pantaloncini, che gettò alla rinfusa nel proprio zaino, rimanendo in maglietta. Allargò anche le braccia, con un gesto un po' teatrale, in attesa di una sua reazione, di una sua risposta.

Claudio liberò una risatina dolce, commossa, come commossi erano i propri occhi che avevano incontrato suoi. Si lasciò convincere da quello sguardo limpido e da quel sorriso rassicurante, per cui annuì e lo imitò rapidamente, togliendosi solo i pantaloncini. Sapeva di potersi fidare.

Attraversarono fianco a fianco il tratto di sabbia asciutta e una breve striscia di sassi prima di raggiungere il bagnasciuga, dove si fermarono senza essersi messi d'accordo. Le onde del mare, che ritmicamente giungevano su quella sabbia per poi ritrarsi, solleticando i loro piedi, sembravano invitarli ad avanzare ed era un richiamo a cui solitamente Domenico non opponeva resistenza, mentre per Claudio era una sensazione quasi del tutto nuova.

"Quando ti senti pronto entriamo, senza fretta."

Mormorò Domenico per rassicurarlo, rivolgendogli ancora una volta uno dei suoi luminosi sorrisi, disposto a dargli tutto il tempo che gli serviva.

Claudio curvò appena le labbra, annuendo lentamente. Non aveva intenzione di aspettare un minuto di più, per una volta voleva sentirsi libero, voleva stringere quel poco di libertà che gli era concessa, anche se prima o poi avrebbe dovuto lasciarla andare. Sul momento, però, non voleva pensarci. Non voleva pensare.

"Andiamo."

Annunciò, guardando Domenico negli occhi.

Avanzarono ancora e nel giro di pochi passi sentirono l'acqua alle caviglie. Claudio si fermò e si lasciò andare in una risatina leggera, quasi infantile, mentre guardava in basso con stupore e muoveva un po' le dita dei piedi, come ad accertarsi che fosse davvero lì. Domenico, accanto a lui, sorrise teneramente e custodì quella risata cristallina nel cuore, senza nemmeno accorgersene.

"È fredda?"

Chiese, premuroso, pur sapendo che non era per questo che l'amico rideva. Claudio scosse il capo, sollevandolo poi verso di lui.

"Un po', ma mi piace. Per te è fredda?"

Domandò con la stessa premura, pur immaginando la risposta.

"Per me è perfetta."

Replicò l'altro, allegro. Claudio, allora, gli fece cenno di andare un po' più avanti e così fecero, fino a quando sentì l'acqua lambire il bordo della maglietta, bagnandolo appena.

"Fermiamoci qui, per favore."

Disse, con voce appesantita dal dispiacere. Quello doveva essere il loro limite, perché se fossero andati oltre l'acqua salata si sarebbe scontrata con le sue cicatrici e non sarebbe stato piacevole.

Domenico si limitò ad annuire, senza fare domande, e si fermò insieme a lui. Si bagnò le mani e se le passò sul collo, poi le immerse di nuovo e se le passò sul viso, sorridendo per la piacevole sensazione.

“Anche tu, dai.”

Così dicendo, invitò l’amico a fare lo stesso con un cenno. Claudio annuì piano e cominciò ad imitarne i movimenti, fissandolo sempre con la coda dell’occhio. Era come guardare il dio del mare nel suo regno -baciato dal Sole e accarezzato dall’acqua in modi che lui poteva solo invidiare- e gli dispiaceva averlo costretto a non goderselo pienamente. Si chiese se, nel suo profondo, quel cuore gentile si fosse pentito di averlo portato con sé, se ora lo considerasse un peso che gli stava rovinando una giornata di pieno relax –una giornata di cui aveva bisogno, tra l’altro, perché aveva avuto una settimana pesante, come gli aveva raccontato-, e al pensiero gli venne quasi voglia di inventare una scusa e tornarsene in hotel, ma la voce di Domenico, ancora una volta, lo distolse dai suoi stessi pensieri.

“Bagnati bene anche i capelli, mi raccomando.”

Disse tranquillamente, mentre si passava le mani tra i suoi, bagnati, che così risultavano ancora più neri e lucenti. Claudio prese a fare anche questo, ma i suoi movimenti erano impacciati, incerti, un po’ perché era distratto e un po’ perché non riusciva ancora a muovere le braccia senza provare qualche fitta alla schiena, e a Domenico sembrò che avesse paura di fare un torto al mare. Non gli disse nulla, per non metterlo a disagio, preferendo rivolgergli semplicemente un sorriso incoraggiante.

“Non è che mi potresti dare una mano?”

Chiese Claudio, con la voce velata da un lieve imbarazzo che si rifletteva nel leggero rossore delle sue guance. Dovette ripetersi più di una volta, in mente, che non stava chiedendo niente di male.

Domenico si stupì della richiesta, ma non se la fece ripetere: Claudio gli stava mostrando fiducia, come quando uno dei suoi gatti gli si avvicinava spontaneamente per la prima volta per chiedergli una carezza, e lui non l’avrebbe tradita.

“Certo!”

Ad ognuno di quei pochi passi che gli servirono a raggiungerlo sentì il proprio cuore prendere a battere un po’ più velocemente e temeva che l'altro lo avrebbe sentito. Claudio, però, in quel momento aveva le orecchie piene del proprio, di cuore, che si agitava impazzito nel petto, ed era troppo impegnato a preoccuparsi che l'altro lo sentisse per accorgersi della sua situazione, identica alla propria.

Quando furono abbastanza vicini, quei due cuori solisti, in perfetta ma inconsapevole armonia tra loro, si unirono in una sinfonia che solo il mare riusciva ad ascoltare.

"Forse è meglio se chiudi gli occhi, potrebbe finirci un po' d'acqua..."

Suggerì Domenico, a bassa voce, perché voleva risparmiargli perfino quel leggero bruciore che l'acqua salata gli avrebbe provocato, ma Claudio scosse il capo.

"So che non succederà."

Replicò, anche lui a bassa voce, con un sorriso morbido, da cui traspariva quella fiducia. Per un istante il suo pensiero tornò a Viola.

'E se ti baciassi adesso, Domenico, come ha fatto lei? Cosa faresti? Scapperesti via? Mi insulteresti? Mi picchieresti?', si chiese, lasciando che quelle domande venissero portate via dalle onde.

Domenico annuì, lentamente, e dopo aver bagnato le mani prese a far scorrere le dita tra i suoi capelli, che si rivelarono soffici al tatto, con estrema delicatezza. Subito Claudio liberò un sorriso di apprezzamento per il refrigerio che percepì, ma anche per la morbidezza di quelle carezze, che avrebbe custodito per sempre nei propri ricordi per riportarla alla mente quando sarebbero stati lontani.

“A te il mare piace molto, vero?”

Domandò, con una voce sottile che quasi scompariva nel rumore delle onde, ma Domenico la udì e annuì, sorridente.

“Dirti di sì sarebbe riduttivo. Ci sono praticamente cresciuto, mio padre aveva una piccola barca a vela ed ogni occasione era buona per portare me, mia sorella e mia madre lontano dal caos della città, tra le onde. Ho praticamente imparato prima a nuotare che a camminare, o almeno così sostiene mia madre.”

Lasciò andare una risatina malinconica, ripensando ai gridolini felici di sua sorella che agitava le gambe in acqua, al sorriso di sua madre che era sempre più spensierato quando erano in mezzo al mare, e a suo padre, fermo e sicuro, mentre manovrava con destrezza la barca, facendo sembrare semplice una cosa che non lo era.

“A te invece no, eh?”

Aggiunse poi, senza però accusarlo.

Claudio sospirò e mise su un’espressione imbarazzata, quasi colpevole, umettandosi le labbra prima di parlare.

“Ad essere sincero ci sono venuto poche volte e non mi ha mai entusiasmato, ma adesso è diverso! Non so il perché, ma qui mi piace, forse il segreto è l’acqua, come con la pizza e il caffè…”

Esclamò con convinzione, senza mentire, e Domenico fece una risatina per il paragone.

“Non ci sono abituato, tutto qui.”

Concluse Claudio, stringendosi nelle spalle. Domenico annuì appena.

“Ti fa paura?”

Domandò comprensivo, guardandolo negli occhi.

"Un po' sì, come tutto ciò che è sconosciuto..."

Rispose Claudio, per poi sospirare. 'Ma mi farei anche inghiottire dalle onde per preservare questo momento per sempre.', pensò.

Domenico gli sorrise, dolcemente, e passò ancora una volta una mano tra i suoi capelli, con più lentezza, facendola restare lì per qualche istante in più, solo per accarezzarlo. 'E allora perché ho la sensazione che ciò che ti spaventa di più è qualcosa che invece conosci bene? Cos'è che ti fa paura, Claudio?', si chiese, con il cuore appesantito dalla preoccupazione.

"Capisco che questa enorme distesa d'acqua, profonda e misteriosa, possa intimidire, ma...credimi, non hai motivo di averne paura. Il mare non ti farebbe mai del male."
Claudio accennò una risatina, poi lo guardò incuriosito.

"Non che non ti creda, ma come fai ad esserne così sicuro?"

"Perché gliel'ho chiesto io."

Rispose Domenico, con il tono leggero di chi stava facendo una battuta, e gli occhi fermi di chi stava dicendo la verità.

Claudio sentì il proprio respiro uscire dai polmoni e poi non entrarvi più, completamente disorientato da quell'affermazione, eppure al tempo stesso non si era mai sentito più presente di così, fermo in quell'acqua che gli accarezzava la pelle e che improvvisamente non era più così spaventosa. Deglutì non appena fu in grado di respirare di nuovo e si schiarì la voce.

"E...cosa ti fa pensare che il mare ti dia ascolto?"

Domandò ancora, anche se se c'era qualcuno che poteva dare ordini al mare, quello era proprio quella divinità che gli stava di fronte e le cui carezze erano morbide e gentili come le onde placide di quella bella giornata.

"Sei Poseidone in incognito, per caso?"

Aggiunse, scherzoso, per nascondere la tempesta che aveva dentro.

Domenico ridacchiò, scuotendo il capo.

"No, niente del genere, anche se non mi dispiacerebbe essere il dio del mare, sai?"

Replicò con lo stesso tono leggero, poi fece spallucce.

"È solo che io il mare lo conosco bene e so che è buono, ascolta sempre le richieste di chi lo rispetta."

Sospirò, abbozzando un sorriso imbarazzato. Stava facendo la figura del cretino, senza dubbio.

"So che per te probabilmente tutto questo non ha senso, ma..."

Claudio subito lo interruppe, sollevando una mano. Non doveva neanche pensarlo!

"No! No, ha molto senso, invece, e se lo dici tu, allora è vero! Io devo solo imparare a vedere il mare come lo vedi tu, tutto qui."

Disse, sorridendogli sinceramente. ‘Deve essere davvero bello il mondo, visto con i tuoi occhi’, pensò.

Il sorriso di Domenico si fece più disteso, più rilassato, e mentre gli passava per un'ultima volta le dita tra i capelli si ritrovò a pensare che Claudio il mare ce l'aveva dentro, non aveva bisogno di imparare a vederlo, doveva solo riconoscerlo. Si voltò alla propria destra e posò gli occhi sulla distesa azzurra per qualche istante, poi si rivolse di nuovo verso l'amico.

"Potrei...potrei suggerirti un modo per farlo?"

Propose, incerto, perché non voleva metterlo in difficoltà. Claudio annuì con entusiasmo.

"Certo! Che devo fare?"

"Devi chiudere gli occhi."

Rispose Domenico, sicuro, e Claudio gli rivolse uno sguardo perplesso.

"E come faccio a vedere, scusa?"

Chiese e Domenico ridacchiò dolcemente.

"Hai ragione, ma vedere non basta, bisogna guardare e fidati, non è una cosa che si fa con gli occhi. Devi entrare in sintonia con il mare, se vuoi conoscerlo."

Spiegò con voce morbida, la stessa che un bel po' di anni prima aveva usato suo padre con lui e sua sorella per rispondere a quella stessa domanda.

Claudio accennò un sorriso, gli piaceva quella distinzione, e chiuse gli occhi, preparandosi a guardare.

"Per prima cosa, devi sapere che il mare è vivo, come te e me, e come tutte le creature vive, respira. Riesci a sentire il suo respiro? Com'è?"

Mormorò Domenico, piano, e Claudio annuì, sentendo il respiro del mare, la brezza, accarezzargli il viso.

"Sì, lo sento e...ed è leggero. Né troppo caldo, né troppo freddo... è molto piacevole."

Inevitabilmente pensò alle mani di Domenico sul suo viso e tra i suoi capelli, che lo avevano accarezzato con la stessa leggerezza, e le sue labbra si curvarono in un sorriso senza che se ne accorgesse.

"Hai ragione, lo è. E senti anche che ha un profumo meraviglioso?"

Chiese ancora Domenico, sorridendo di rimando al pensiero che Claudio trovasse piacevoli le carezze del vento, perché quelle lo avrebbero seguito anche a Roma e non lo avrebbero lasciato solo.

"Sì, sa di sale, però è più buono."

Rispose Claudio, con entusiasmo.

"Ecco, adesso fa' dei profondi respiri, riempiti i polmoni di questo profumo, e cerca di respirare insieme al mare, come se vi steste amando."

A Domenico quella similitudine uscì spontanea, non rientrava certamente nella spiegazione che gli aveva dato suo padre, ma non si sentì in imbarazzo per essersela fatta sfuggire, anzi la trovava particolarmente adatta. Quando due persone si amano, infatti, i loro respiri si fondono in un tutt'uno, e non si capisce più dove inizia quello dell'una e dove finisce quello dell'altra, ma del resto non è nemmeno importante.

Claudio si morse impercettibilmente un labbro, messo un po' in difficoltà da quella richiesta: non aveva mai fatto caso al respiro dei ragazzi con cui aveva fatto sesso, in quelle situazioni c'era più una ricerca d'aria scomposta, frenetica, che ognuno faceva per conto suo. È così che prese a respirare, allora, a grandi boccate affamate.

"Aspetta, aspetta, non avere fretta. Hai detto anche tu che il respiro del mare è leggero, il tuo invece è pesante. Qualcosa non va?"

Chiese Domenico, premuroso e paziente.

Claudio arricciò l'angolo delle labbra in una piccola smorfia, leggermente imbarazzato.

"È che non ho idea di come si faccia. Ho respirato con qualcuno, ma insieme...quello proprio no."

Una morsa ghermì il cuore di Domenico, stringendogli il petto -o almeno, lui così si sentì-, al pensiero che quel ragazzo così dolce non avesse davvero idea di cosa volesse dire avere qualcuno accanto. Dalla sua risposta capiva che perfino in quei momenti in cui ci si dovrebbe soltanto affidare a chi ti sta vicino, lasciandosi andare tra le sue braccia e sotto i suoi baci, era sempre rimasto solo. Non era giusto, non se lo meritava, e gli augurava di trovare presto qualcuno che potesse riempire quei vuoti che, forse, nemmeno sapeva di avere.

"Non ti preoccupare, segui me allora, ok? Vedrai che è facile."

Replicò, incoraggiante, per poi cominciare a respirare con lentezza, riempiendosi i polmoni di quel familiare profumo di sale e Claudio subito prese ad imitarlo, a seguirlo, lasciando che a poco a poco l'odore di sale che stava imparando a conoscere gli riempisse i polmoni.

I due ragazzi erano così vicini che i loro respiri si intrecciavano.

"Va meglio, ora?"

Sussurrò Domenico dopo un po', quando vide che l’altro sembrava essersi calmato e Claudio annuì in risposta, sorridente. Si sentiva molto più rilassato e avvertiva una piacevole sensazione di pienezza, anche se leggera, come se avesse ritrovato una sorta di equilibrio.

"Molto bene, mi fa piacere."

Replicò Domenico, sorridente.

"Mi daresti le mani, per favore?"

Chiese, porgendogli le proprie anche se non poteva vederle. Claudio, senza esitare, sollevò le mani, curioso di scoprire un altro aspetto del mare e Domenico le prese tra le proprie, con delicatezza.

"Sai qual è un'altra cosa che accomuna tutti gli esseri viventi?"

Claudio non ebbe bisogno di riflettere sulla risposta. Accennò un sorriso.

"Il cuore."

Sussurrò, e Domenico annuì.

"Esatto. Anche il mare ha un cuore, sai? Questo qua è il tuo..."

Così dicendo, gli fece portare una mano sul suo stesso collo, facendogli poggiare due dita all'altezza dell'arteria.

"...e questo il suo."

Gli immerse l'altra mano in acqua, più o meno a metà, in modo da fargli percepire il movimento delle onde. Le lasciò andare entrambe con lentezza, perché in realtà non avrebbe voluto sciogliere quel contatto, e Claudio fu quasi mosso dall'istinto di trattenerlo, ma se lo impedì appena in tempo. Adesso sentiva l'acqua muoversi lentamente contro la sua mano, da un lato, e le sue stesse pulsazioni scorrere sotto le proprie dita, dall'altro. In entrambi i cuori c'era vita, che sarebbe rimasta lì a battere, e c'era pace, che invece, almeno per uno dei due, era destinata a venir meno presto, ma per il momento era abbastanza da far diventare il suo sorriso più luminoso.

"Sono molto simili."

Sussurrò, appena percettibile, per non interrompere quella sincronia.

Per Domenico, quel sorriso che arrivava ai suoi occhi anche se erano chiusi -vicini com'erano, poteva vedere qualche piccola rughetta d'espressione sui lati- era la prova che aveva fatto bene a portarlo lì. Il mare si stava occupando delle ferite che Claudio si portava dentro, le stava curando, esattamente come gli aveva chiesto di fare.
"Questo perché il mare e le persone non sono molto diversi tra loro: entrambi hanno un lato che mostrano a tutti, una superficie...

Così dicendo, tracciò una linea a mezz'aria, anche se Claudio non la vedeva.

"... che a volte può essere calma e altre volte più agitata, a volte a causa di ciò che c'è fuori e altre volte a causa di ciò che c'è dentro."

Claudio lo ascoltava rapito, con gli occhi chiusi la sua voce morbida sembrava quasi avere un corpo di cui percepiva il calore direttamente all'orecchio e da lì al centro del petto. Sentì il proprio battito accelerare sotto le dita, mentre quello del mare restava sempre placido, pacato. Era una causa esterna o una causa interna a farlo sentire così?

Domenico riprese a parlare dopo una breve pausa, il tempo di passarsi la lingua sulle labbra in un gesto spontaneo.

"Sotto questa superficie, poi, c'è una parte che tengono nascosta, spesso anche molto in profondità, che però ogni tanto viene fuori. Secondo me è la parte più bella."
Concluse, con la voce che sorrideva. Spesso, per il mestiere che faceva, incontrava tante persone che all'apparenza sembravano stagni putridi o pozzanghere, ma che alla fine, guardando con attenzione oltre la superficie, si rivelavano mare. Era lo stesso abisso che aveva scorto dietro gli occhi di Claudio, il quale adesso teneva le braccia strette intorno al busto, in segno di chiusura. Sperava soltanto che, prima o poi, trovasse qualcuno con cui aprirsi.

Claudio si morse un labbro e se avesse avuto gli occhi aperti avrebbe abbassato lo sguardo per evitare che Domenico lo incrociasse, ma dato che erano chiusi li strinse ancora di più. Quella parte di sé che teneva nascosta, doveva rimanere tale: Domenico si sbagliava, non era la sua parte migliore, ma la sua parte peggiore e nessuno doveva vederla. Non c'era niente di bello dentro di lui, era guasto, rotto, e i suoi pezzi erano sparsi alla rinfusa dietro una facciata apparentemente in perfetto ordine.

"C'è... c'è qualcos'altro che dovrei conoscere, del mare?"

Domandò, mangiandosi le parole per la fretta di cambiare discorso. Temeva che se fossero rimasti su quella strada, Domenico sarebbe arrivato nel suo abisso e ciò non poteva accadere. Si fidava di lui, si era affezionato e lo considerava un amico, ma proprio per questo non voleva deluderlo. Non gli sarebbe piaciuto, ciò che i suoi occhi verdi avrebbero visto.

Domenico sospirò pazientemente, capendo i timori di Claudio, e ovviamente scelse di rispettarli, di non insistere.

"Certo, c'è la sua voce. Prova ad ascoltarla, mh?"

Rispose, con il suo solito tono leggero.

Claudio fece un respiro profondo e provò a concentrarsi soltanto sul rumore delle onde, ma gli risultava molto difficile. La spiaggia non era molto affollata, ma gli arrivavano gli schiamazzi di un gruppo di ragazzini che stavano giocando con un pallone a qualche metro di distanza, il vociare di un gruppetto di signore che chiacchieravano tra loro e lo strombazzare dei veicoli sulla strada poco distante. Sbuffò, rassegnato, mantenendo gli occhi chiusi.

"Non ci riesco."

Mormorò, triste al pensiero di star deludendo il suo amico, per il quale il mare era così importante.

Domenico, però, non era deluso e curvò un angolo delle labbra in un sorriso paziente.

"Cerca di non usare solo le orecchie, altrimenti ti lasci distrarre da altro. Lasciala entrare dentro di te, non averne paura, ok? Sono certo che ce la farai e sicuramente il mare avrà qualcosa da dirti."

Gli disse con gentilezza, a voce bassa per non coprire quella del mare.

Claudio, che sorrise timidamente all'incoraggiamento di Domenico, inspirò ed espirò di nuovo, più lento, e poi lo fece ancora altre due volte prima di tornare al suo respiro regolare. Più che concentrarsi, questa volta, preferì rilassarsi, in modo da liberare la mente, e gli schiamazzi dei ragazzini, il vociare delle signore e il frastuono dei clacson svanirono un po' alla volta, come se stesse girando progressivamente una manopola per abbassarne il volume.

La sua mente era libera, adesso, c'era solo il suono delle onde a riempirla, costante e all'apparenza sempre uguale, ma in realtà con qualche piccola variazione che rendeva le onde simili a parole e ne trasformava il suono in un discorso tutto pronunciato con lo stesso tono -che in questo caso era pacato e gentile-, ma non per questo noioso. 'Non c'è niente che non vada in te.' gli stava sussurrando il mare, e anche se Claudio sapeva che fosse tutta suggestione e che in quei suoni stava solo proiettando qualcosa che desiderava sentirsi dire, non poté fare a meno di sorridere, sereno, e non riuscì a trattenere una lacrima che gli rigò il viso, scivolando giù fino a raggiungere altre infinite gocce come lei.

Domenico sorrise dolcemente a vedere Claudio così tranquillo, qualsiasi cosa gli avesse detto il mare doveva avergli fatto bene e di questo, naturalmente, ne era più che contento.

"Come ti senti?"

Chiese, dopo qualche altro istante di silenzio.

"Calmo. Non è strano, vero?"

Rispose Claudio con un filo di voce e Domenico fece una risatina, scuotendo il capo.

"Sai, quand'ero molto piccolo, c'erano certe notti in cui non volevo proprio saperne di dormire, non facevo altro che piangere e allora mio padre mi portava fuori, vicino al mare, e non appena sentivo il suono delle onde mi sentivo anch'io così, esattamente come te. Quindi no, non è strano, è solo l'effetto del mare."

Claudio ridacchiò intenerito all'immagine di un piccolo Domenico avvolto in una copertina, stretto tra le braccia di suo padre, che un attimo prima rompeva i timpani con il suo pianto e poi si tranquillizzava cullato dal mare. Capiva, allora, il suo legame così forte con quell'elemento: se una cosa ti fa star bene, devi tenertela stretta. Sospirò, poi, sereno.

"E dire che io lo trovavo noioso! Non avevo capito proprio niente..."

Ribatté, con un divertito tono di rimprovero.

"Ah, non fartene una colpa, adesso! Avevi solo bisogno di qualcuno che ti desse qualche indicazione..."

Replicò Domenico, incoraggiante.

"Per fortuna ho trovato te."

Confessò Claudio con voce morbida, aiutato anche dal fatto che in quel momento non si stessero guardando, sfruttando l'occasione per dirgli una cosa che già pensava da giorni.

Domenico sentì il proprio respiro mozzarsi in gola, colto totalmente alla sprovvista. Si sciolse in un piccolo sorriso, poi, perché sentiva che Claudio non si stesse riferendo solo a quella piccola presentazione del mare, e in quel caso la fortuna era stata anche sua.

"Ah, esagerato! E poi, se vogliamo essere precisi, sono io che ho trovato te, quindi 'per fortuna' lo dico io."

Claudio, a quelle parole, sentì come un balsamo caldo avvolgergli il cuore, ma al tempo stesso la testa gli ricordò che senz'altro il suo amico non l'avrebbe pensata così, se avesse scoperto la verità sul suo conto, quella che gli era costata lacrime e sangue, il che era un motivo in più per tenere quel lato di sé nascosto in profondità.

"Puoi aprire gli occhi, ora. C'è solo un'ultima cosa che devi conoscere..."

Aggiunse Domenico, distogliendo Claudio dai suoi pensieri. Sollevò le palpebre, sbattendole un paio di volte perché accecato dal Sole, e si ritrovò davanti l'immensa distesa blu che luccicava cristallina e che si perdeva in un punto indefinito, unendosi con il cielo.

"Il colore del mare, anche se in fondo lo conosci già. È lo stesso che c'è nei tuoi occhi."

Mormorò Domenico, un po' rosso sulle guance, indicandogli il volto.

Claudio liberò una risatina imbarazzata, ma sincera. Non gli erano mai piaciuti i propri occhi, uguali a quelli di suo padre, ma da quel giorno li avrebbe certamente apprezzati di più. Quel cambio di prospettiva era un altro piccolo dono che gli aveva fatto l'amico.

"Il mare è uno spettacolo, Domenico. È un incanto, davvero, e non capisco come abbia fatto a privarmene per tutta la vita!"

Esclamò, con la voce che tremava per l'emozione e gli occhi che si riempivano entusiasti di quella meraviglia, insieme alle sue orecchie, alle sue mani e al suo cuore.
Domenico, invece, era rivolto verso l'altro e pensava le stesse cose, ma, con tutto il dovuto rispetto per il mare, di un soggetto diverso.

"Non ti crucciare, è che non lo conoscevi, un po' ne avevi paura, ed è normale stare lontane dalle cose che non si conoscono e che ci spaventano. Mi sembra che adesso, però, la paura sia passata, no?"

Claudio annuì, sorridente.

"Decisamente!"

"Questo è ciò che conta di più, allora."

Indicò la spiaggia con un cenno del capo.

"Possiamo andare a fare quella passeggiata, ora."

Claudio si voltò a guardare l'amico e scosse appena il capo.

"Io, veramente...preferirei restare ancora un po' qui."

Domenico gli sorrise, comprensivo, e liberò uno sbuffetto intenerito. ‘Come cambiano in fretta le cose!’, pensò.

"E allora restiamo."
 

 

"Eccoci qua..."

Disse Domenico, fermando la moto poco distante dall'ingresso del Grand Hotel.

Erano rimasti in spiaggia per un altro paio d'ore ma poi, poco dopo aver pranzato, Domenico si era accorto che aveva cominciato a fare troppo caldo per Claudio e così gli aveva proposto di rientrare in hotel e tornare in spiaggia più tardi, con il fresco.

"Ripasso verso le cinque, ok?"

Domandò ancora e Claudio, che intanto era sceso dalla moto, annuì con ben poca convinzione, mordendosi un labbro. Si sfilò il casco e, mentre glielo porgeva, si fece coraggio a proporgli ciò che avrebbe voluto dirgli quando, ogni volta che passava a trovarlo, inevitabilmente doveva andarsene e la leggerezza che portava con sé se ne andava con lui. Stavolta poteva farlo, aveva una scusa adatta.

"Oppure potresti restare qui anche tu, per...per comodità, ecco. Risparmieresti di fare due viaggi."

Scrollò le spalle, timidamente.

"Se ti va, ovviamente..."

Precisò, per poi schiarirsi la voce.

Domenico dischiuse le labbra in un sorriso morbido, stupito, e sgranò leggermente gli occhi, illuminato di una gioia che non aveva nulla a che fare con la prospettiva di evitare di fare avanti e indietro, ma che dipendeva da ben altro. Era sempre difficile separarsi da Claudio, lo aveva capito fin dalla prima volta che l'aveva riaccompagnato in hotel, e dopo una mattinata piacevole come quella allontanarsi da lui anche solo per una manciata di ore sarebbe stato insopportabile.

"Parcheggio la moto."

Rispose subito, con un entusiasmo probabilmente fuori luogo, ma che comunque non riuscì a contenere, e Claudio annuì, con le labbra e gli occhi che brillavano della stessa gioia per la prontezza con cui aveva accettato la sua proposta. Continuò a sorridergli anche mentre lo guardava sistemare la moto, qualche metro più in là, cercando intanto di far calmare il suo cuore agitato, ma era molto difficile spegnere la felicità. Anche Domenico, mentre posava i caschi nel bagagliaio e armeggiava con la catena chino accanto alla ruota, era impegnato nella stessa difficilissima impresa.

Impresa in cui fallirono entrambi, come dimostravano le labbra dolcemente curvate e gli occhi luminosi che si incrociavano continuamente in ascensore, come ogni volta che stavano insieme.

Entrati in camera, Claudio condusse Domenico verso la zona notte, perché entrambi concordavano nel voler riposare un po' prima di tornare in spiaggia.

"Il bagno è lì, se vuoi farti una doccia. C'è un armadio, dentro, dove puoi trovare gli asciugamani puliti."

Spiegò, indicando una porta oltre il letto. Domenico seguì la sua indicazione con lo sguardo, ma subito tornò a portarlo su di lui, con un sorriso appena accennato sul volto. Sì, aveva decisamente voglia di darsi una rinfrescata, ma sapeva anche che Claudio ne aveva più bisogno di lui.

"La stanza è tua, va' prima tu."

Il suo tono, anche se era gentile, non ammetteva repliche e Claudio ormai lo conosceva abbastanza da riconoscerlo, per cui abbozzò un sorriso, annuendo.

"D'accordo, non ci impiegherò molto."

E così dicendo si avvicinò al mobile a cassettoni intagliato per scegliere dei vestiti puliti.

"Ti dispiace se...se mi fumo una sigaretta, intanto?"

Gli chiese Domenico, agitando leggermente il pacchetto che aveva preso dalla tasca dei pantaloncini.

Claudio si accigliò appena, perché in tutti quei giorni non aveva visto Domenico fumare nemmeno una volta e non sapeva avesse il vizio. A lui la puzza di tabacco dava tremendamente fastidio, ma in quel momento passò in secondo piano.

"Certo, sul tavolo di là c'è un posacenere, fa' come se fossi a casa tua. Io...vado a lavarmi, intanto."

Dopo un cenno di saluto entrò in bagno, chiudendosi la porta alle spalle, poggiò i vestiti puliti su una mensola libera e si spogliò rapidamente. Entrò direttamente nella cabina della doccia, senza fermarsi davanti allo specchio per guardare le cicatrici che portava sulla schiena, il pensiero non lo sfiorò nemmeno. Per una volta, si sentiva così bene che non voleva pensare al dolore, non voleva dargli spazio anche adesso che non lo provava. Era felice.

Domenico, invece, si era spostato in terrazzo perché anche a casa era abituato a fumare all'esterno. Aveva cominciato poco dopo la morte di suo padre, anche lui fumatore, come un modo per sentirlo più vicino, anche se erano state proprio le sigarette ad ucciderlo. Ben presto aveva scoperto che fumare lo aiutava anche a distogliersi dai pensieri, da quelle cose del suo lavoro che non poteva raccontare a sua madre e a sua sorella e che quindi non diceva a nessuno, come se anche loro prendessero fuoco insieme alla nicotina e al tabacco. Certo, dopo un po' tornavano lì, ma il sollievo seppur momentaneo era ben accetto.

Da un po', tuttavia, aveva cominciato a fumare anche per semplice desiderio di farlo, ed era già da qualche mese che si era accorto di farlo sempre più spesso, ma non riusciva a darsi una regolata. Anche adesso, aveva estratto la sigaretta dal pacchetto e se l'era portata alla bocca in un modo del tutto automatico, senza nemmeno pensare al movimento che stava facendo, e così aveva avvicinato l'accendino alla punta, già aveva fatto scattare la fiamma, ma un istante prima di farla incontrare con il tabacco i suoi occhi incrociarono il mare, perfettamente visibile da quel terrazzo, e si fermò. Per una volta, lasciò andare il pollice dal pulsante e sorrise, ancora con la sigaretta tra le labbra, perché si rese conto di non averne bisogno. Era felice.

"Io di là ho fatto, il bagno è libero."

Annunciò Claudio dopo un po’, allegro, affacciandosi oltre l'ingresso della terrazza. Domenico, poggiato contro la ringhiera, si voltò subito verso di lui e gli sorrise.

"Vado subito, grazie."

Così dicendo si allontanò, passandogli accanto.

Claudio, prima di rientrare, si accorse che il posacenere era rimasto sulla balaustra e si avvicinò per recuperarlo, notando che era vuoto. Sicuramente un ragazzo accorto come Domenico non ne aveva gettato il contenuto giù, in strada, quindi era chiaro che non avesse fumato, il che non poteva che fargli piacere. Notò poi che accanto c'erano anche l'accendino e il pacchetto di sigarette.

"Mh, deve esserseli dimenticati..."

Disse tra sé e sé, prendendo anche quelli per poi tornare in camera. Lasciò gli oggetti sul comodino e si sistemò sul letto a pancia in giù, come ormai era abituato a dormire anche se la schiena non gli faceva più tanto male, e chiuse gli occhi, lasciandosi accarezzare dal venticello caldo che entrava dal balcone aperto.

Quando Domenico uscì dal bagno, una quindicina di minuti dopo, sorrise teneramente vedendo Claudio abbracciato al cuscino, come un bambino stretto ad un peluche. Il viso era in parte nascosto da un braccio, ma gli fu comunque possibile vedere che gli occhi erano chiusi e le labbra leggermente dischiuse e che aveva un'espressione rilassata, il che gli fece pensare che fosse immerso in un sonno profondo. Doveva essersi stancato parecchio per essersi addormentato così in fretta, per cui si avvicinò al letto senza far rumore e, lentamente, si distese accanto a quella figura che coniugava la tenerezza di un bambino e la bellezza di un ragazzo, ma non ebbe il tempo neanche di fare un respiro che un paio di occhi blu fecero capolino tra le palpebre pigre.

"Scusami, non ti volevo svegliare..."

Mormorò, con le labbra curvate in un sorrisetto imbarazzato. Claudio rispose con un sorriso appena accennato, ma luminoso.

"Tranquillo, non stavo dormendo. Non ancora, almeno. Ti ho messo le sigarette e l'accendino sul comodino, li avevi dimenticati in terrazzo..."

"Ah, grazie, non me n'ero nemmeno accorto..."

Replicò Domenico, ricambiando il sorriso.

"Di niente, figurati. Ho visto che il posacenere era vuoto, non hai fumato più?"

Domandò Claudio, guardando l'altro con occhi curiosi -anche se soltanto uno era effettivamente visibile, con metà del viso immersa nel cuscino-. Domenico scosse appena il capo, per poi fissare gli occhi leggeri nei suoi.

"No, mi era passata la voglia e mi sono messo a guardare il mare."

Il sorriso di Claudio si allargò, lieto di vedersi confermata la propria ipotesi.

"Meglio così, il mare è decisamente più bello e, soprattutto, non fa male!"

Replicò, con un tono di leggero rimprovero.

Domenico accennò una risatina per il suo tono, ma sapeva che l'amico aveva ragione. Glielo diceva sempre anche suo padre, di non fare come lui e non prendere il vizio, perché sarebbe stato un risparmio sia per il portafoglio che per la salute.

"Eh lo so, lo so, ma è l'unico vizio che ho, giuro!"

Sollevò leggermente un sopracciglio, poi, incuriosito.

"Tu invece non ne hai, eh?"

Chiese, pur immaginando perfettamente la risposta. Era decisamente troppo perfetto, lui, per avere qualche tipo di vizio.

Claudio scosse il capo, sentendo l'imbarazzo montargli dentro al ricordo degli sguardi che i suoi compagni di classe gli rivolgevano quando gli proponevano di andare a bere qualcosa insieme o gli allungavano qualcosa da fumare e lui, tutte le volte, rifiutava. Erano gli sguardi di chi non riusciva a concepire che un ragazzo adolescente potesse avere modi diversi per svagarsi e che per questo erano carichi di diffidenza, quasi di disgusto. Negli occhi di Domenico, però, non c'erano quei sentimenti, ma la dolcezza che gli aveva sempre rivolto e quindi, per la prima volta, Claudio non si sentì in imbarazzo.

"No, nessuno. Niente sigarette, niente droga e niente alcolici, anche se può sembrarti assurdo visto come ci siamo incontrati."

Liberò una risatina e quella di Domenico subito la raggiunse.

"Insomma...sono noioso."

Concluse Claudio, con un sospiro rassegnato.

Domenico si accigliò contrariato per un istante, ma subito si sciolse in uno dei suoi morbidi sorrisi.

"Non sei noioso, sei una delle persone più interessanti che conosca...e considera che ne conosco tante!”

Disse con dolcezza, ma convintissimo delle proprie parole.

Claudio arrossì leggermente e sulle sue labbra sbocciò un timido sorriso.

"Lo pensi davvero?"

Domenico annuì con decisione.

"Certo, altrimenti non lo direi. Quello che penso io non è poi così importante, però, così come non è importante ciò che gli altri pensano di te. Ciò che conta è cosa tu pensi di te stesso e non è qualcosa che puoi cambiare a causa dei giudizi altrui, ok? Tu sei tu e se a qualcuno non vai bene...beh, il peggio è per loro."

"Grazie..."

Riuscì appena a mormorare Claudio che, ancora una volta, percepì quelle parole come carezze sul cuore. Erano così belle, nessuno gli aveva mai detto qualcosa del genere, tanto da fargli riempire gli occhi di lacrime che premevano per uscire e che lui si sforzava di trattenere.

Domenico se ne accorse e, per non metterlo in imbarazzo, fece finta di niente e gli diede un modo per nasconderle. Quegli occhioni lucidi, però, erano l'ennesima prova di quanto fosse speciale quel ragazzo.

"Sai cos'altro penso? Che dovremmo metterci a fare ciò per cui siamo venuti qua! Il mare sarà anche bello, ma stanca!"

Propose, allegro, e Claudio accennò una risatina, grato in cuor suo per la possibilità che Domenico gli stava dando. Annuì, piano.

"Buon riposo.

Sussurrò, sorridente.

"Buon riposo."

Replicò Domenico, con lo stesso sorriso.



 
Al risveglio, Claudio si ritrovò da solo nel letto. Per un attimo immaginò di essere tornato in hotel da solo e di aver sognato il resto, ma il cuscino sprimacciato e le lenzuola spiegazzate erano testimoni del fatto che lì c'era stato qualcuno, Domenico nello specifico, ed era certo che non fosse andato via, sapeva che non l'avrebbe lasciato solo.

Si mise a sedere e liberò uno sbadiglio, stiracchiandosi pigramente, e si accorse che il Sole, fuori e nella stanza, non splendeva con la stessa intensità di quando si era addormentato. Si alzò e, uscito dalla zona notte -la porta che la divideva dalla zona giorno era stata chiusa- vide Domenico in piedi accanto al tavolo intento a sistemare delle bottiglie nella borsa termica e sorrise, istintivamente.

Domenico si accorse immediatamente della presenza dell'altro e alzò lo sguardo verso di lui, sorridente.

"Buonasera!"

Esclamò, allegro, facendogli anche un cenno con la mano, che Claudio ricambiò.

"Se ci salutiamo così, vuol dire che ho dormito troppo. Potevi svegliarmi..."

Mormorò, dispiaciuto al pensiero che adesso, per colpa sua, non sarebbero tornati in spiaggia. Domenico scrollò le spalle e con un gesto secco chiuse la borsa termica.

"Dormivi così bene che sarebbe stato un peccato farlo."

Ribatté, con tenerezza. Si erano addormentati praticamente insieme, ma lui si era svegliato un po' prima dell'altro e non aveva avuto il cuore di disturbarlo. Una delle prime cose che aveva notato su di lui, infatti, erano le occhiaie scure che circondavano gli occhi blu, e non c'era bisogno di essere un poliziotto per capire che fossero un chiaro indizio di quanto poco dormisse.

"Hai dormito bene, vero?"

Chiese, preso da un dubbio improvviso, con gli occhi verdi puntati nei suoi.

Claudio annuì, con un sorriso appena accennato sulle labbra nato dal calore che sentì dentro per quella premura, passandosi poi distrattamente una mano tra i capelli.

"Ho dormito benissimo, un ghiro in piena regola."

Domenico ridacchiò, divertito dal paragone. Lui, per puro gusto personale, l'avrebbe paragonato ad un gatto più che ad un ghiro, ma in fin dei conti anche quell'animaletto andava bene.

"Beh, non credere che io sia stato meno ghiro di te. Ho avuto giusto il tempo di preparare gli infusi da portare in spiaggia...e spero sinceramente di non aver fatto un disastro!"

Claudio si accigliò appena, perplesso.

"Quindi...quindi torniamo in spiaggia? Non è tardi?"

Domenico scacciò l'obiezione agitando una mano.

"Ma certo che ci torniamo! Ti devo ancora una passeggiata, no?"

Disse deciso, per poi rivolgergli un sorriso morbido e uno sguardo luminoso, carico d'emozione. Claudio annuì piano e sorrise più timidamente, ma il suo sguardo brillava allo stesso modo.

Il mare e il bosco erano illuminati da un unico Sole.



 
Erano arrivati da poco in spiaggia, la stessa di prima, che adesso era ancora più vuota di come l'avevano lasciata. Avevano da poco cominciato a passeggiare sul bagnasciuga, fianco a fianco, quando Domenico fece una risatina.

"Ma che fai, cammini come i vecchi?"

Chiese, accorgendosi del modo in cui Claudio camminava, con le mani dietro la schiena. Nella sua voce, seppur divertita, non c'era scherno, ma solo una sincera curiosità.

Claudio gli rivolse uno sguardo di sfida, con un sopracciglio sollevato e gli occhi che scintillavano di una forte sicurezza di sé.

"Guarda che è comodo, eh! Gli anziani hanno l'esperienza dalla loro parte, che credi?"

Ribatté, continuando a camminare tranquillamente in quella posizione, senza scomporsi.

"Dici, eh? Potresti pure avere ragione, in effetti..."

Commentò Domenico, che poi si aggiustò meglio la borsa termica in spalla, osservandolo con attenzione.

"Mo' provo anch'io."

Così dicendo unì le mani dietro di sé, esattamente come aveva fatto Claudio.

"Vado bene, esperto?"

Chiese ironico, e Claudio si voltò a controllare mettendo su un'espressione serissima, che nascondeva una risata trattenuta a tutti i costi.

"Rilassa le spalle e vai benissimo."

Domenico seguì il suo consiglio e dopo qualche altro metro ridacchiò di nuovo.

"C'avevi ragione, è proprio comodo."

Ammise e Claudio sorrise soddisfatto.

"Te l'avevo detto!"

Esclamò, mantenendo l'aria sostenuta.

Si scambiarono uno sguardo con la coda dell'occhio e scoppiarono a ridere insieme, uniti in una sola risata, leggera come i loro cuori.



 
Passeggiarono per un tempo indefinito, che non avevano interesse a misurare, scambiandosi sorrisi e sguardi silenziosi ma pieni di un affetto che non aveva bisogno di parole per essere espresso, e sfiorandosi di tanto in tanto, concedendosi soltanto qualche tocco fugace tra le spalle coperte dal tessuto delle magliette perché nessuno dei due osava fare di più. La spiaggia era del tutto vuota, insieme a loro c’era soltanto il mare.

"Vieni, sediamoci qui, ti va?"

Propose Domenico a voce bassa, perché tanto non c'era bisogno di parlare a voce alta per farsi sentire, indicando un lembo di sabbia asciutto appena fuori dalla portata delle onde.

"Perché?"

Chiese Claudio, ma intanto si era messo a sedere e gli bastò guardare davanti a sé per capire. Il Sole stava per toccare la linea dell'orizzonte e l'azzurro del cielo era sfumato in un morbido arancione, quasi rosa, ancora molto tenue.

"Oh..."

Si lasciò sfuggire dalle labbra, stupito, e Domenico ridacchiò teneramente.

"Già."

Replicò, accomodandosi accanto a lui, vicini come lo erano stati fino a quel momento. Tirò poi a sé la borsa termica e riempì due bicchieri di infuso alla menta, porgendone uno all'altro ragazzo.

"Vuoi? Non garantisco nulla sul sapore, eh..."

Claudio lo accettò con un sorriso e con quello stesso sorriso se lo portò alle labbra, godendosi il sapore fresco che gli scivolava in gola.

"È bevibile?"

Chiese Domenico, tra il divertito e il preoccupato. Claudio annuì con convinzione, voltandosi a guardarlo.

"Di più, è buono! Avresti potuto rovinare tutto mettendoci troppo zucchero e invece sei stato bravissimo!"

Domenico liberò uno sbuffo divertito, ma rincuorato.

"Si vede che ho avuto un bravo maestro..."

Mormorò, guardandolo negli occhi sorridente. Claudio sorrise a sua volta e negò muovendo il capo.

"Non essere troppo severo con te stesso, dai, un bravo maestro non serve a molto se l'allievo non si applica. Guarda che potresti anche superarmi, eh!"

Domenico sollevò le mani, in segno di rispetto.

"Ah no, non mi permetterei mai!"

Ridacchiarono insieme, scambiandosi felicità con gli occhi, poi tornarono a guardare il cielo ed il mare sorseggiando la bibita fresca.

"Sai, vengo spesso qui al tramonto, anche in inverno. Mi piace tanto."

Mormorò Domenico dopo un po', con lo sguardo perso verso l'orizzonte.

Claudio sentì un sorriso mesto formarsi sulle labbra, nato da pensieri che non riuscì a frenare, ma che fece in modo di non far arrivare alla lingua. Immaginava che l'altro portasse lì anche le ragazze -che gli piacciono tanto, troppo, come gli ricordò una voce nella sua testa molto simile a quella di Silvia- e immaginava anche che non si limitassero soltanto a guardare l'orizzonte, per quanto fosse bello.

"Ci vengo sempre da solo, mi dà pace."

Continuò Domenico, intercettando inconsapevolmente i pensieri di Claudio, che sgranò gli occhi, sorpreso, e si voltò a guardarlo. Domenico, percependo il suo sguardo su di sé, lo raggiunse con il proprio.

"Tutto bene?"

Chiese, preoccupato, e Claudio si affrettò ad annuire.

"Sì, sì...mi chiedevo solo perché ci avessi portato me, tutto qui."

Rispose, un po' incerto. Domenico notò gli strascichi di quell'ombra sul suo viso e decise di doverla scacciare. Sorrise, dolcemente.

"Perché tu a Roma il mare non ce l'hai."

'E voglio darti la stessa pace che dà a me.', aggiunse con la voce dei propri pensieri.

Claudio sorrise, più sereno, e l'ombra sul suo volto scomparve. Davanti a sé aveva uno spettacolo meraviglioso, che, in effetti, dava una gran pace. Una pace che a Roma non aveva. Tornò a guardare il cielo, ora di un color arancio più deciso perché il Sole aveva cominciato la sua discesa oltre la linea dell'orizzonte.

"È proprio bello, il mare di Napoli. Vorrei portarlo con me..."

Sussurrò, facendo poi una risatina per l'assurdità della cosa che aveva appena detto.

"Ma tranquillo, non te lo rubo, lo so che non si può."

Aggiunse, liberando un profondo sospiro.

Domenico lo osservò per qualche secondo, poi si voltò verso la striscia di pietre e sassi appena dietro di loro, mettendosi alla ricerca di qualcosa. Non poteva dargli il mare, ma poteva dargli una cosa che lo aiutasse a ricordarlo.

"Che fai?"

Domandò Claudio, incuriosito, rivolto verso di lui.

"Eh, mo' vedi, aspetta un attimo..."

Rispose Domenico, rovistando freneticamente in un mucchietto di sassolini.

"Oh, ecco qua!"

Esclamò dopo qualche secondo, mostrando a Claudio proprio uno di quei sassolini o meglio, un pezzetto di vetro verde levigato dalle onde.

"Non è proprio il mare, ma se vuoi puoi portarlo con te..."

Così dicendo glielo porse e Claudio allungò una mano per accettarlo. Se lo rigirò tra le dita con estrema delicatezza, ammirandone i riflessi lucidi con stupore. Quel pezzetto di vetro, per lui, era più prezioso di uno smeraldo.

"Da piccolo facevo così: ne sceglievo uno e quando mi mancava il mare, ma era inverno e non potevo venirci, lo guardavo e così mi sembrava di averlo più vicino. Forse è una stupidaggine, ma con me funzionava."

Spiegò Domenico, per poi grattarsi una guancia mordendosi un labbro, un po' imbarazzato.

Claudio sollevò il capo per guardarlo, il volto illuminato da un sorriso che partiva dal cuore e arrivava alle labbra e agli occhi. Non era una stupidaggine, era la cosa più bella che gli avessero mai regalato.

"È un pensiero meraviglioso, Domenico, e sono sicuro che funzionerà anche con me. Grazie, lo custodirò con cura, te lo prometto."

E così dicendo infilò la pietruzza in uno dei taschini della camicia a mezze maniche che indossava, chiudendo accuratamente il bottone per evitare di perderla. Ci passò sopra la mano, come in una carezza, pensando che stava davvero bene, lì, vicino al cuore.

"Ah, figurati, è una sciocchezza..."

Mormorò Domenico, sorridendo dolcemente mentre lo guardava. Pensò che il sorriso luminoso di Claudio, i suoi occhi entusiasti, la sua felicità, in quanto a bellezza, facessero concorrenza al tramonto sul mare. Si schiarì la voce.

"Dai, adesso torniamo a vedere ciò per cui siamo venuti qui, così ti sarà anche più facile ricordarlo."

Propose e Claudio, dopo aver annuito, si voltò di nuovo verso l'orizzonte, imitato subito da Domenico.

Ad illuminare quei due cuori vicini, che continuarono a scambiarsi occhiate e sorrisi fugaci, c'era un tramonto che aveva il sapore di un'alba.

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Capitolo 30
*** Appendice, Capitolo 3 – È grazie a te che ho imparato a stare bene (parte 1) ***


Roma, 11 Marzo 2003

Domenico aveva raggiunto l'appartamento più in fretta che aveva potuto, considerando che già in situazioni normali il traffico di Roma non aveva nulla da invidiare a quello di Napoli, ma quel giorno ci si era messa anche la pioggia e così il taxi che aveva preso alla stazione era stato più fermo, bloccato dalle altre auto, che in movimento.

Stufo di quell'andatura a dir poco singhiozzante, si era deciso a percorrere l'ultimo tratto di strada a piedi e, dopo aver pagato la corsa -se così si poteva definire-, era sceso dalla vettura e si era messo a camminare a passo svelto verso la propria destinazione, approfittando del riparo offerto dai balconi dei vari palazzi per non bagnarsi eccessivamente.

Era già stato lì una volta, e anche se non ricordava alla perfezione la strada non impiegò molto tempo a raggiungere il palazzo grigio come il cielo sopra la propria testa, del tutto uguale a quelli nei dintorni, ma al tempo stesso diverso ai propri occhi.

Aprì il portone e salì rapidamente i gradini fino al quinto piano -non c'era l'ascensore-, si avvicinò alla seconda porta sulla destra e infilò la chiave nella toppa della serratura.

"Ehilà, sono io, non vi spaventate!"

Annunciò allegro, aprendo la porta d'ingresso che dava direttamente su un piccolo salotto. La prima cosa che vide fu una palla di pelo tricolore che si era messa davanti alla porta ad aspettarlo e che ora si stava strofinando contro le sue gambe facendo le fusa.

"Partenope, ciao! Anche tu mi sei mancata tantissimo!"

Esclamò con la voce piena di dolcezza, mentre si chinava a prenderla in braccio per accarezzarla, dopo aver abbandonato il borsone a terra. La seconda cosa che vide, poi, fu Claudio, avvolto nella sua vestaglia blu, seduto alla scrivania sul lato destro della stanza. Sospirò, preoccupato, avvicinandosi a lui.

"Che ci fai lì?"

Domandò, con la stessa apprensione. Si erano sentiti al telefono appena il giorno prima e si era accorto che l'amico aveva una voce strana, nasale, e quindi, allarmato, gli aveva chiesto informazioni circa il suo stato di salute. Inizialmente Claudio aveva negato di stare male, ma poi, insistendo un po', Domenico era riuscito a fargli confessare la verità: aveva un po' di raffreddore ed una leggera febbre, niente di oggettivamente preoccupante, ma Domenico sapeva che Claudio, vivendo da solo, non aveva nessuno che avrebbe potuto prendersi cura di lui, anche perché era sicuro che non si sarebbe mai rivolto alla sua famiglia. Lo conosceva abbastanza, poi, da sapere anche che si sarebbe trascurato ed infatti era seduto lì, a studiare, invece che a riposare!

Claudio non si spaventò affatto quando sentì qualcuno aprire la porta d'ingresso, perché sapeva che poteva trattarsi solo di una persona ed in un certo senso la stava aspettando. Si era trasferito in quell'appartamento ad Ottobre, quando ormai era diventato lampante che continuare a vivere sotto lo stesso tetto dei propri genitori sarebbe stato impossibile. Suo padre lo avrebbe cacciato volentieri fuori a calci senza dargli un soldo, questo lui lo sapeva bene e comunque non sarebbe stato un problema pur di poter lasciare quella che ormai non considerava più casa sua, eppure gli aveva proposto –concesso- di avere un tetto sulla testa a sue spese.

Accettare quella proposta era stato umiliante, ma l'aveva fatto pensando a se stesso: si era da poco iscritto all'università e aveva tutta l'intenzione di proseguire gli studi, e certamente ritrovarsi improvvisamente per strada non sarebbe stato d'aiuto. Suo padre, allora, gli aveva comprato in fretta e furia un piccolo e poco costoso appartamento in periferia, certamente non per una questione economica, ma perché pensava che così gli avrebbe fatto uno sfregio, lo avrebbe messo a disagio, considerando che aveva conosciuto sempre e solo l'agiatezza.

Quel posticino, però, a Claudio non gli dispiaceva affatto, a dimostrazione del fatto che suo padre non lo conoscesse per niente, anzi ci si trovava bene: aveva appena un salottino, una piccola cucina subito dopo, un bagno e una camera da letto, ma non aveva problemi strutturali o danni agli impianti, il che era più che sufficiente per lui e per Partenope, che aveva deciso di adottare per toglierla dalla strada e dai suoi rischi -anche se l'operazione agli occhi era andata a buon fine- e che Domenico gli aveva portato quando era stato lì per dargli una mano con gli scatoloni.

Domenico era anche una delle tre persone che, oltre a lui, avevano le chiavi di quell'appartamento. Anche se viveva lontano, era l'unico su cui Claudio sapeva di poter contare per le emergenze più gravi, l'unico di cui si fidava ciecamente e che avrebbe voluto accanto a sé in quelle situazioni, -un'altra copia, invece, l'aveva data ad una coppia di mezza età che viveva sul suo stesso pianerottolo per le emergenze più urgenti- per cui non si stupì nemmeno quando se lo ritrovò davanti, preannunciato da Partenope che si era messa in attesa davanti alla porta già da qualche minuto. La sua situazione al momento, però, non era certo un'emergenza, come gli aveva ribadito al telefono più volte, ma del resto il suo amico era testardo -un 'pappice', come aveva imparato che si diceva a Napoli-, per cui sapeva che sarebbe andato lì comunque,
era solo questione di tempo.

"Che ci fai tu qui? Ti avevo detto di restare a Napoli!"

Replicò, puntando gli occhi nei suoi che subito lo accarezzarono con la loro gentilezza. Gli era mancata, così come gli era mancato lui negli ultimi due mesi.

Dall'estate precedente erano sempre riusciti a vedersi almeno una volta al mese, incontrandosi nella città dell'uno o dell'altro, ma poi lui era stato impegnato a studiare per i suoi primi esami -si era iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza, aveva capito che quello era il suo modo per poter fare la cosa giusta- e così non erano riusciti ad incontrarsi, anche se si erano telefonati spesso, quasi ogni giorno.

Era molto felice, quindi, di vederlo di nuovo e di conseguenza non poté fare a meno di sorridergli, anche se lo stava rimproverando. Notò anche che aveva i capelli bagnati e il cappotto umido, perché evidentemente aveva camminato sotto la pioggia, e questo lo rendeva decisamente meno entusiasta.

Domenico sorrise sghembo, scuotendo leggermente il capo. Anche lui era felicissimo di rivederlo di nuovo.

"E meno male che non ti ho ascoltato! Adesso alzati e va' a letto, su! La scrivania non è posto per un malato!"

Ribatté, con dolce decisione. Ora che gli stava vicino poté notare che Claudio era pallido, l'abbronzatura che aveva guadagnato in estate e che ancora gli aveva visto addosso a Dicembre, prima di Natale, quando si erano visti l'ultima volta, era ormai del tutto scomparsa, e quel pallore non faceva altro che mettere in risalto le preoccupanti occhiaie scure di nuovo presenti sotto gli occhi blu -segno che non dormisse o che comunque dormisse male- e la punta del naso arrossata, senz'altro colpa del raffreddore, che però lo rendeva più tenero, specie se affiancata dai capelli un po' arruffati.

Claudio sospirò e scosse il capo. Gli esami della sessione erano andati più che bene, era anche riuscito a terminarli in anticipo, ma solo perché aveva studiato ogni giorno, costantemente, e non poteva permettersi di interrompere quel ritmo. Perfino suo padre si era ammutolito davanti ai suoi risultati, non voleva perdere tutto.

"Io a letto non ci vado, non ne ho bisogno, è da malati e io non sono malato, ho solo un po' di febbre. Sto qua, alla scrivania, perché se non posso andare a seguire le lezioni, almeno studio!"

Disse calmo, ma risoluto.

"Tu invece dovresti andare in bagno ad asciugarti, sei fradicio!"

Aggiunse, e per ironia della sorte proprio in quel momento fece uno starnuto, poi un altro, e si sentì attraversare da un brivido di freddo che lo portò a stringersi meglio nella vestaglia.

A Domenico, naturalmente, ciò non sfuggì e lo preoccupò non poco. Avrebbe portato Claudio nel letto anche a costo di caricarselo in braccio, pur di farlo riposare!

"Solo un po' di febbre, eh?"

Fece per avvicinare una mano alla sua fronte, ma subito la riabbassò, ricordando che all'amico non piaceva il contatto fisico. Claudio vide il suo gesto con la coda dell'occhio, ma non disse nulla. In tutti quei mesi avevano legato ancora di più, ma i segreti erano rimasti tali. 

"Quand'è che te la sei misurata l'ultima volta?"

Chiese Domenico, riportando la mano su Partenope, che ancora teneva in braccio. Claudio fece spallucce.

"Ieri, quando ti ho chiamato. Te l'ho detto, è solo qualche decimo..."

Domenico sospirò, incredulo, ma non stupito. Sapeva benissimo che quel testardo si sarebbe trascurato!

"Dove tieni il termometro? Potrebbe essere salita."

"Ma no, ti dico che sto bene! Tu, piuttosto, ti devi asciugare!"

Replicò Claudio, preoccupato. Domenico sorrise furbetto, sollevando un sopracciglio.

"Ho preso due gocce, niente di che, ma possiamo fare che se tu ti misuri la febbre, io vado ad asciugarmi. Che dici?"

Claudio ridacchiò, piacevolmente colpito dal suo spirito d'iniziativa, un lato di lui che aveva imparato a conoscere praticamente subito e a cui non sapeva dire di no. 'Furbastro', pensò.

"Questo è un ricatto!"

Sottolineò, con un sopracciglio alzato che andava ad imitare perfettamente l'espressione dell'altro. Domenico scosse appena il capo.

"È una proposta."

Ribatté, mantenendo lo sguardo furbo fisso nei suoi occhi. Era consapevole di star giocando sporco, ma lo stava facendo per una buona causa. Claudio abbozzò un sorriso, tra il divertito e il rassegnato, e annuì.

"Va bene, va bene, come vuoi."

Si alzò, andando a recuperare il termometro che aveva lasciato sul tavolo della cucina la sera prima e tornò a sedersi alla scrivania, mostrandolo all'amico.

"Adesso ti dimostro che non ho niente."

Aggiunse, per poi infilarlo sotto al braccio. Dopo i canonici cinque minuti d'attesa lo tirò fuori e sorrise, soddisfatto.

"Trentasette e sette. Te l'avevo detto."

Annunciò, porgendolo all'altro. Domenico lo prese, controllò il risultato e lo poggiò sulla scrivania. Non era una febbre molto alta, questo era vero, ma era comunque febbre.

"Ieri sera era più bassa, salirà ancora e sarà solo peggio se non ti riguarderai. Dai, chiudi 'sti libri e vai, su..."

Disse, accennando con una mano alla scrivania. Claudio incrociò le braccia e scosse il capo, testardo.

"Questo non rientrava nei patti. Adesso devi fare la tua parte e andare ad asciugarti, o per caso vuoi ammalarti anche tu?"

Si morse un labbro e chiuse gli occhi, rendendosi conto di ciò che si era appena fatto sfuggire. Molto male per un futuro avvocato!

Domenico sorrise sghembo, con aria vittoriosa.

"Anche io, quindi stai ammettendo di essere malato? E se sei malato, allora, devi metterti a letto, perché il letto è un posto per malati, giusto?"

Ribatté canzonatorio, con una perfetta faccia da schiaffi. Claudio sbuffò, messo alle strette.

"Non mi va di stare lì da solo. Tu sei qui..."

Mormorò, senza sentirsi in imbarazzo ad ammettere quella verità, perché fin dal loro primo incontro non si erano più nascosti -in maniera più o meno esplicita- quanto stessero bene in compagnia dell'altro. Era una cosa bella.

Domenico sorrise, intenerito da quegli occhioni blu a cui non sapeva dire di no normalmente, figurarsi ora che erano resi languidi dal raffreddore! E poi anche lui aveva lo stesso desiderio, non voleva che Claudio stesse solo e...beh, nemmeno lui voleva restare da solo.

"Sistemati sul divano, allora, mh? Io mi asciugo e vengo a farti compagnia..."

Propose, allegro, e Claudio si aprì in un sorriso luminoso e grato. Senza dire niente, perché il suo sorriso parlava da sé, andò a stendersi sul divano rosso al centro del piccolo salotto, come un bambino ubbidiente. Domenico lo raggiunse in un attimo e, dopo aver fatto scendere Partenope dalle proprie braccia, gli sistemò addosso la coperta che stava poggiata sullo schienale, in modo che stesse caldo.

"Comodo?"

Domandò e Claudio annuì, accennando un sorriso.

"Comodissimo. Ora però devi pensare a te!"

"Sì, sì, vado! Comunque te l'ho detto, ho preso solo due gocce!"

Ribatté Domenico, ma Claudio non era dello stesso avviso.

"Ma la situazione può peggiorare, se ti trascuri!"

Replicò indispettito e Domenico rise di gusto. Doveva aspettarselo!

"Devo cominciare ad abituarmi a chiamarti Avvocato Vinci, perché di questo passo lo diventerai presto!"

Disse divertito, ma con un orgoglio immenso negli occhi verdi. Lo aveva capito fin dal primo momento che Claudio era speciale e che era destinato a fare molto di più che gestire l'azienda di suo padre, quei mesi di amicizia gliene avevano solo dato la conferma.

Claudio sorrise, imbarazzato, e le sue guance arrossirono per motivi che non c'entravano nulla con la febbre o con il raffreddore: Domenico credeva in lui, era stato il primo a farlo, e senza i suoi consigli e il suo supporto non avrebbe mai capito quale fosse la sua strada e quindi vederlo orgoglioso di lui lo faceva sentire appagato.

"Tu per me sei sempre stato Domenico, io per te sarò sempre Claudio."

Mormorò con voce morbida, rivolgendogli uno sguardo pieno di affetto smisurato mentre ripensava a quella notte in cui, travolto dalla tempesta della propria confusione, della propria paura e del proprio dolore, aveva trovato un porto sicuro in cui ripararsi. Da quel momento, non si era più sentito solo.

Fu Domenico, ora, a sorridere imbarazzato, con in mente le immagini di quella notte lontana, eppure così vicina, in cui aveva visto quel ragazzo così solo, così perso, e aveva deciso di dargli una mano, di accoglierlo come poteva. Da quel momento, aveva cominciato a sentire dentro di sé una fiamma che non aveva mai smesso di scaldarlo.

"Anche Avvocato Vinci, però, non è così male, sai?"

Ribatté scherzoso, ma con sguardo affettuoso. Claudio ridacchiò.

"Sì, anche Agente Liguori non suona male...ma queste cose meglio lasciarle agli altri, concordi?"

Domenico annuì, senza esitare.

"Concordo, concordo."

Sorrise.

"Io vado ad asciugarmi, allora, ci metto poco. Partenope, tu tienilo d'occhio. Mi raccomando non farlo alzare!"

Esclamò, rivolgendosi poi alla gatta, la quale rispose con un miagolio deciso che fece ridacchiare i due ragazzi.

Domenico si allontanò dal divano e finalmente si sfilò il cappotto umido che aveva dimenticato di togliersi per tutto quel tempo, appendendolo all'attaccapanni accanto alla porta, poi raccolse il proprio borsone e, approfittando del divano che occultava la vista a Claudio, si infilò in cucina per posare il vassoio di sfogliatelle che aveva portato con sé e che doveva essere una sorpresa.

Soltanto dopo aver fatto questo andò in bagno ad asciugarsi i capelli e dopo qualche minuto tornò di nuovo nel salottino. Si avvicinò al divano, senza però sedersi perché immaginava che l'amico volesse mantenere il suo spazio, e sorrise spontaneamente vedendo Partenope acciambellata sul petto di Claudio e Claudio che le faceva le carezze. C'era un sorriso sereno sotto quegli occhi blu che era un qualcosa di meraviglioso, per lui.

Claudio, sentendolo arrivare, alzò lo sguardo verso di lui, rivolgendogli quello stesso morbido sorriso.

"Ti sei asciugato bene?"

Chiese e Domenico annuì con decisione.

"Sì, tranquillo! Sono stato attento."

Claudio assottigliò lo sguardo per qualche istante, dubbioso.

"Vieni qua, fammi controllare."

Domenico, un po' titubante, si avvicinò ancora un po' al divano e, al cenno dell'altro, si chinò verso di lui. Claudio allontanò una mano da Partenope e la posò tra i capelli di Domenico, accarezzandoli lentamente per accertarsi che non fossero ancora umidi.

I loro visi erano così vicini che i loro respiri si sarebbero mischiati se solo i due ragazzi si fossero ricordati di respirare, se non fossero stati così presi dal guardarsi negli occhi. Non sembravano aver bisogno di ossigeno in quel momento che sembrava impresso nel tempo e nello spazio, fermo intorno a loro mentre il mondo continuava a scorrere veloce.

Partenope, dopo un po', si alzò e, camminando sul petto di Claudio, arrivò al viso di Domenico, che prese a toccare con una zampetta, facendo scoppiare la bolla che aveva avvolto i due ragazzi. Claudio e Domenico però furono molto divertiti dalla cosa e ridacchiarono, seppur un po' imbarazzati e storditi, come quando ci si sveglia da un bel sogno.

"Che dite, sono abbastanza asciutto?"

Chiese Domenico, dopo essersi schiarito la voce. Claudio annuì e allontanò la mano, lentamente.

"Sì, sei a posto..."

Rispose e Domenico si rimise dritto, sospirando. Notò, però, che Partenope lo fissava.

"Mh? Che c'è? Mi vuoi dire qualcosa?"

Partenope, in risposta, emise un lungo miagolio e Claudio accennò una risatina.

"Vuole che le fai le coccole anche tu, devi esserle mancata molto. Vieni, c'è spazio."

Toccò un paio di volte il bordo del divano, invitando così l'altro a sistemarsi accanto a loro. Domenico, senza farselo ripetere, si sedette in quello spazietto e subito Partenope si acciambellò di nuovo sul petto di Claudio -quasi sulla pancia a dire il vero, per stare vicina ad entrambi-, felice. I due ragazzi si scambiarono uno sguardo sorridente e poi, insieme, cominciarono a fare carezze alla loro micetta, che in cambio prese a fare le fusa.

"È bello vedervi così, sai? Core a core..."

Mormorò Domenico dopo qualche minuto, con grande tenerezza, piegando leggermente il capo da un lato per godersi meglio quella visione. Claudio ridacchiò teneramente, poi gli rivolse uno sguardo incuriosito.

"Che significa?"

Domenico accennò un sorriso.

"Beh, vuol dire ‘vicini, abbracciati’, però ha un senso più profondo."

Fece un attimo di pausa, passandosi la lingua sulle labbra per cercare le parole giuste. Claudio, da quelle labbra, ci pendeva.

"Letteralmente significa ‘cuore a cuore’, perché ciascuno di noi ha il proprio cuore, da un lato, e un vuoto dall'altro..."

Così dicendo, Domenico indicò prima il lato sinistro del proprio petto e poi il destro.

"Quando due persone si abbracciano, però, quel vuoto viene riempito dall'altro cuore, quindi i due cuori si avvicinano..."

Per sottolineare il concetto unì le proprie mani, stringendole leggermente, prima di riprendere ad accarezzare la gatta.

"...e secondo me non c'è modo migliore per descrivere un momento del genere."

Concluse, con voce morbida. Claudio rimase colpito da quell'espressione: non aveva ricevuto tantissimi abbracci in vita sua, ma gli piaceva quell'idea di incastro perfetto. Sorrise, dolcemente.

"È un concetto bellissimo ed è bellissimo stare così con Partenope."

La gatta, sentendosi chiamata in causa, miagolò come a confermare quel sentimento anche da parte sua, e Claudio le fece un grattino, ridacchiando dolcemente. Anche Domenico lasciò andare una risatina divertita mentre accarezzava la micia. L'aveva affidata ad ottime mani, ma di questo non aveva avuto dubbi quando l'aveva portata lì, mesi prima.

"Non ti ringrazierò mai abbastanza per aver deciso di prenderti cura di lei, dall'operazione a...a questo."

Mormorò guardando Claudio negli occhi, mentre con un gesto della mano accennava alla casa.

"So che può essere pesante, a volte."

Aggiunse con tono di scuse, ma Claudio scosse appena il capo, mettendo subito freno a quelle preoccupazioni. Partenope l'aveva aiutato a sentirsi leggero, in quei mesi.

"No, no, ti assicuro che non è così. Per me non è un disturbo o un peso occuparmi di Partenope, anzi! E poi lei è la gatta più buona del mondo e..."

Accennò una risatina.

"...forse la fatica è più sua, che si prende cura di me."

Domenico liberò un piccolo sospiro, rincuorato, e poi sorrise sghembo. Non aveva avuto dubbi nemmeno su questo.

"Perché, cosa fa?"

Chiese, sinceramente incuriosito. Claudio ridacchiò.

"Se mi vede studiare se ne sta buona e non mi dà fastidio, al massimo mi salta in braccio per dormire sulle mie gambe, almeno per la maggior parte della giornata. Quando però si arriva ad una certa ora sale sulla scrivania e comincia ad andare avanti e indietro, miagolando a più non posso, e non la smette finché non chiudo tutto!"

Spiegò allegro e Domenico scoppiò a ridere, immaginando perfettamente la scena. Avrebbe pagato per assistervi!

"Sì, diciamo che sa farsi valere..."

"Mh, chissà chi mi ricorda..."

Replicò Claudio, vago, ma puntando gli occhi in quelli dell'amico con un sorriso furbetto.

"Che vorresti dire, scusa?"

Chiese Domenico, ironico, sollevando leggermente un sopracciglio.

"Ah, niente, solo che anche a lei piace fare la cosa giusta... che per lei è starsene accoccolati su questo divano!"

Rispose Claudio, facendo un grattino dietro un orecchio della gatta. Domenico accennò uno sbuffo divertito, ma in cuor suo era davvero contento che Claudio avesse qualcuno con cui scambiarsi affetto, ne aveva tanto bisogno. Pazienza se quel qualcuno, poi, non era lui, perché il suo benessere era molto più importante dei propri desideri.

"E direi che ha ragione! Anche perché non puoi studiare in continuazione, hai bisogno di staccare, di distrarti..."

Disse con convinzione e Claudio fece una risatina.

“Ah beh, se è per questo Partenope mi fa distrarre parecchio. Passiamo intere serate -dopo cena chiaramente, perché quella proprio non si può saltare!-, sistemati qui sopra, così, a guardare un film, ascoltare un po' di musica, oppure ti telefoniamo... è davvero bello.”

Quello era per lui il momento più bello della giornata e non faceva fatica ad ammettere a se stesso che spesso chiudeva gli occhi e immaginava che Domenico fosse lì, accanto a lui e Partenope come stava adesso, a raccontargli del suo lavoro, ad ascoltarlo parlare dei suoi corsi in università, o semplicemente a condividere il respiro in silenzio, avvolti da una canzone o da un film. Poi, inevitabilmente, la telefonata giungeva a conclusione, il disco si ammutoliva o i titoli di coda cominciavano a scorrere sullo schermo, lui riapriva gli occhi e la distanza tornava a farsi sentire. Avere il proprio amico così vicino in quel momento -poteva sentire il suo peso che schiacciava leggermente il divano e il calore del suo corpo direttamente sul proprio fianco, velato soltanto dalla coperta che quasi sembrava un insormontabile muro, rendeva quell'assenza ancora più presente e perciò un sorriso mesto fece la comparsa sulle sue labbra.

Domenico lo notò immediatamente e vi lesse una solitudine che gli strinse il cuore. Sapeva che Claudio non era in buoni rapporti con la sua famiglia e che anche se vivevano nella stessa città non si vedevano praticamente mai, e vista la situazione questo era un bene. Sapeva anche che andava d’accordo con i suoi compagni di università, eppure non gli aveva mai parlato di incontri che non fossero strettamente legati alle lezioni o allo studio, nemmeno una volta. Claudio era solo e la compagnia di un gatto, per quanto affettuoso, non poteva bastare: se lui avesse avuto la fortuna di vivere a Roma, non avrebbe fatto trascorrere un solo giorno senza vederlo, ma dato che questa possibilità non c'era, riteneva che l’amico dovesse necessariamente trovarsi qualcuno con cui andare a fare una passeggiata, mangiare una pizza -anche se quella romana lasciava molto a desiderare-, guardare un film, ascoltare un disco o con cui semplicemente stare insieme, godendo della reciproca compagnia. Qualcuno che non era lui. Sospirò.

"È sicuramente molto bello, però...sai che se per qualche sera la lasci da sola, Partenope sa come cavarsela?"

Propose, cauto, senza smettere di accarezzare il pelo della gatta, ma prese a farlo più lentamente, perché il gesto lo aiutava a misurare le parole.

Claudio corrugò la fronte, confuso, non capendo cosa intendesse l'amico. O meglio, forse lo capiva, ma non era un'idea che voleva prendere in considerazione.

"Che intendi?"

Chiese, e Domenico prese un profondo respiro.

"Beh, intendo dire che magari, qualche volta, puoi anche uscire con...non so, con qualche compagno di università. Hai detto che sono ragazze e ragazzi molto simpatici, no?"

Propose incoraggiante, con le sopracciglia leggermente inarcate e gli occhi un po' più aperti di conseguenza, cercando di rendergli quella possibilità il più invitante possibile.

Claudio sospirò pesantemente, anche a causa del raffreddore che gli tappava il naso, e si prese un paio di secondi per guardare l'amico negli occhi. Come faceva a dirgli che l'unica persona con cui voleva effettivamente passare del tempo, tutto il proprio tempo, era anche l'unica che poteva incontrare soltanto una o al massimo due volte al mese? Che non gli importava niente dei propri compagni di università, che erano simpatici e gentili, certo, -almeno la maggior parte-, ma che non erano lui?

"È che...con loro mi vedo già praticamente tutti i giorni e tra le lezioni e lo studio, trascorriamo parecchie ore insieme. Non mi va di vederli anche di sera..."

Mormorò in risposta, tirando su col naso perché sentiva che gli colava. Domenico si sporse a prendere il pacchetto di fazzoletti lasciato sul tavolino e glielo porse.

"Soffia, non ti tenere dentro quella schifezza, che è peggio."

Claudio abbozzò un sorriso e accettò il pacchetto, scaldato da quella piccola premura come da un fuocherello che però donava un grande calore.

"Grazie."

Disse, prima di soffiarsi il naso.

"Di niente."

Rispose Domenico, per poi ritornare al discorso precedente.

"Però scusami eh, non è che si può stare con gli amici solo per un certo numero di ore in una giornata. Anzi, più tempo si passa insieme e meglio è!"

Claudio abbozzò una risatina, che poi divenne l'accenno di un sorriso. Quelle parole erano vere, ma non valevano per i propri compagni di corso.

"Sì, è vero, con gli amici è così...ma loro non lo sono. Non fraintendermi, mi ci trovo bene, e mi fa piacere scambiarci due chiacchiere tra una lezione e l'altra o studiare insieme, confrontare gli appunti, cose così...ma l'amicizia è un'altra cosa."

Rispose, sereno. Domenico si morse l'interno del labbro inferiore, perché se da un lato quella risposta lo rendeva felice -non aveva il minimo dubbio che Claudio parlasse di loro, erano diventati amici nel giro di pochi giorni e non era mai stato un segreto-, dall'altro lo preoccupava perché l’altra faccia di quel sentimento così forte era una profonda solitudine.

"E cosa sarebbe l'amicizia, allora?"

A Claudio non sfuggì quella punta di preoccupazione negli occhi verdi, ma l'amico non aveva motivo di sentirsi così: la vita gli andava più che bene, era felice, soprattutto adesso che erano insieme. Gli sorrise dolcemente, allora, per tranquillizzarlo.

"Potrei fare molti esempi, ma per citare il più recente posso dirti che l'amicizia è...sei tu che ti precipiti qui perché vieni a sapere che ho un po' di febbre."

Domenico lasciò andare un piccolo sbuffo divertito e affettuoso al tempo stesso. Annuì appena, perché Claudio aveva ragione.

"Oppure tu che resti al telefono con me anche se è tardi, hai sonno e il giorno dopo devi svegliarti presto, perché ho bisogno di sfogarmi su qualcosa."

Claudio annuì a sua volta, -‘perché so che poi non dormi, se resti con quei pensieri nella testa’-, pensò- contento del fatto che Domenico avesse compreso cosa intendesse.

"Esatto! E con loro tutto questo non ce l'ho."

Prese coraggio e sfiorò con l'indice la mano di Domenico, prendendo a pretesto il fatto che le loro mani fossero vicine sul pelo caldo di Partenope.

"Ce l'ho con te."

Sussurrò con infinita dolcezza, guardando l'altro negli occhi. Domenico sentì quel contatto, seppur leggero come una piuma, arrivargli fino al cuore e perciò fu certo di non esserselo immaginato. Abbassò lo sguardo verso le loro mani così vicine e il suo cuore gli urlò di prendere quella di Claudio nella propria e stringerla forte perché era vero, il loro rapporto era unico e speciale, non ce l'avevano con nessun altro, ma ebbe paura di prendersi troppo, di spaventarlo, e allora si limitò ad avvicinare timidamente il proprio dito al suo, facendoli sfiorare un po' di più.

Il cuore di Claudio saltò un battito a quel tocco impacciato, perché non si aspettava che Domenico lo ricambiasse. Anche adesso, poteva vedere nei suoi occhi il timore di esagerare, di fare un passo falso che aveva sempre quando lo toccava, senza sapere che non c'era niente di sbagliato nelle sue carezze gentili.

"E questo lo capisco, credimi, ma lo sai anche tu che non posso venire sempre qui, né tu puoi sempre scendere a Napoli e...e perciò, magari...potresti provare ad approfondire qualche conoscenza e...scoprire che può diventare un'amicizia. Non voglio che tu resti troppo solo."

Mormorò Domenico, quasi supplichevole, tornando a far incontrare i loro sguardi. Claudio scosse pazientemente il capo, perché non poteva accettare quel discorso. Il proprio vuoto non poteva essere riempito da nessun altro, non aveva senso nemmeno provare...ma per tranquillizzare Domenico l'avrebbe fatto.

"Ma io non sono solo, qui con me innanzitutto c'è Partenope e ci sei anche tu, anche se sei lontano. Posso prometterti che farò qualche prova, ma credimi, una telefonata con te vale più di mille serate con tutti i miei compagni di corso messi insieme."

Replicò sorridente e Domenico accennò una risatina mesta, abbassando lo sguardo. Non era sicuro che quella proporzione fosse giusta, temeva che Claudio si sacrificasse troppo e che non ne valesse la pena.

Claudio si morse un labbro, non gli piaceva quella reazione. Quasi gli sembrava di poter sentire i pensieri del proprio amico, la persona a cui teneva di più al mondo e che in quel momento non sapeva di esserlo. Doveva assolutamente rimediare.

"Ti voglio bene."

Disse con voce ferma, ma calda come l'affetto che provava nei suoi confronti. Una frase semplice, lontana da quei discorsi complessi e pieni di artifici retorici che un buon avvocato deve saper articolare, una frase di appena tre parole, ma che dicevano tutto: era fermamente convinto che quando si trattava di sentimenti non ne servissero poi tante.

Domenico sgranò gli occhi, come colpito da qualcosa, e li rialzò verso l'amico, guidato da quelle tre parole che scacciarono le apprensioni come la luce fa con le tenebre. Sorrideva e il cuore gli batteva all'impazzata.

"Anch'io ti voglio bene."

Replicò immediatamente, più impacciato, ma mosso dallo stesso profondo affetto. Avrebbe voluto dire qualcosa di più, fare un bel discorso magari, perché quella risposta gli sembrava troppo misera, ma non era mai stato molto bravo con quelle cose.

"Più di quanto riesca a dire."

Si affrettò allora ad aggiungere, sperando di rendere l'idea, almeno in parte.

Claudio sorrise dolcemente, perché non aveva bisogno né di altre parole, né di certezze: Domenico avrebbe potuto anche restare in silenzio, e lui l'avrebbe capito lo stesso.

"Sono molto felice che tu sia qui."

Mormorò, teneramente.

"Lo sono anch'io."

Confermò Domenico, meno agitato. Era bastato lo sguardo di Claudio a fargli capire che aveva capito e, quindi, a calmarlo.

"E allora, visto che ci vogliamo bene e siamo entrambi felici di stare qui, pensiamo a vivere questi momenti, invece di pensare a cose tristi. Carpe diem, no?"

Propose Claudio, facendogli un occhiolino.

"Ah, oggi pesce? Partenope sarà contenta!"

Scherzò Domenico, per fare una battuta ed alleggerire il momento. Claudio scoppiò a ridere, ma ben presto quella risata si trasformò in violenti colpi di tosse che lo fecero scattare a sedere, e che lo scuotevano con violenza, come tuoni che fanno tremare un cielo altrimenti sereno.

Per Domenico, preoccupato e spaventato da quei versi sordi e profondi che sembravano provenire dalle viscere della Terra, più che dal corpo dell’amico, fu naturale alzarsi e andargli vicino per cingergli le spalle con un braccio e tenerlo vicino a sé, in attesa che l'attacco passasse. Era come quella notte al bar, quando gli sembrava che Claudio potesse volare via da un momento all'altro, tanto era fragile.

"Hey, piano, piano...segui me, tranquillo, va tutto bene."

L'attacco di tosse sembrava essere passato, ma Claudio boccheggiava, come se faticasse a riprendere il controllo del proprio respiro, e aveva gli occhi strabuzzati per lo sforzo. Domenico prese a respirare lentamente e profondamente, come aveva fatto la notte del loro primo incontro, in modo che lui potesse seguirlo.

Claudio si sentiva stordito, aveva la gola che bruciava come se stesse andando a fuoco e la testa che un po' gli girava, ma per fortuna Domenico lo teneva stretto a sé, quindi era certo che non sarebbe caduto. Seguì il suo consiglio e il suo respiro e nel giro di pochi istanti si sentì meglio, molto più tranquillo. Partenope, che si era spostata in fondo al divano quando lui era scattato a sedere -non l'aveva perso di vista un istante, però!- gli tornò vicino e prese a fargli le fusa strofinandosi contro il suo petto, anche lei molto preoccupata. Claudio abbozzò un sorriso e l'accarezzò, per tranquillizzarla.

"Va meglio?"

Chiese Domenico, premuroso. Claudio mosse lentamente il capo in un cenno d'assenso.

"Sì, è passato, potete stare tranquilli tutti e due. Era solo un po' di tosse."

Rispose, abbozzando un sorriso. Domenico sospirò e sciolse quella specie di mezzo abbraccio in cui l'aveva avvolto senza accorgersene. L'ultima cosa che voleva era dargli fastidio.

"A me sembrava un po' tanta tosse, me lo potevi dire che ce l'avevi."

Claudio seguì il suo movimento con lo sguardo e di nuovo vide quel sottile timore nei suoi occhi, mentre i propri si facevano un po' più tristi. Anche stavolta, però, non ebbe il coraggio di dire nulla.

"Non te l'ho detto perché ieri non ce l'avevo, mi è venuta stamattina..."

Rispose, per poi schiarirsi rumorosamente la gola graffiata.

"Aspetta, ti porto un po' d'acqua."

E così dicendo Domenico si spostò velocemente nella piccola cucina, riempì un bicchiere d'acqua fresca -non fredda, che avrebbe potuto fargli male- e tornò nel salottino, porgendolo all'amico.

"Grazie..."

Mormorò Claudio, alzando il viso sorridente verso di lui, accettando quella premura.

"Di niente, e bevi a piccoli sorsi..."

Si raccomandò Domenico, un attimo prima che l'altro cominciasse a mandare giù l'acqua. Claudio non poté fare a meno di sorridere a quell'avvertenza, decisamente più adatta ad un bambino che ad un ragazzo -tra l'altro maggiorenne e quindi legalmente adulto-, ma era nella natura di Domenico prendersi cura di chiunque gli stesse intorno e forse fu anche per questo che l'acqua, per la sua gola, fu come una morbida carezza che lo aiutò a lenire il bruciore almeno un po'.

"Senti, ho visto che c'è una farmacia qui vicino, vado a prenderti qualcosa per questa tosse e per la febbre, nel caso in cui dovesse salire, ok?"

Annunciò Domenico, con tono gentile ma deciso. Claudio fece una risatina.

"Io ti ringrazio, ma non è nemmeno una febbre vera, vedrai che tra un paio di giorni mi passa da sola.

Domenico scosse il capo, non si sarebbe fatto convincere. Era andato lì proprio per aiutarlo a non trascurarsi!

"No, non si discute!"

Esclamò, indicandolo con un indice, perentorio, in un gesto del tutto simile a quello che sua madre faceva con lui e Sara in situazioni simili.

"Tu adesso ti metti disteso e te ne stai buono, io ci metto pochissimo."

Disse ancora, deciso. Claudio, piacevolmente rassegnato, tornò disteso e gli rivolse un sorrisetto divertito.

"Va bene così?"

Domenico annuì e gli si avvicinò per sistemare meglio la coperta su di lui e su Partenope, che gli si era raggomitolata accanto. Gli sorrise, affettuoso.

"Lascia che mi prenda cura di te, ok? Sono qui apposta."

Mormorò, combattendo contro l'impulso di fargli una carezza tra i capelli in disordine. Claudio liberò un sospiro e il suo sorriso si addolcì. 'Tu ti prendi cura di me da quando mi conosci...', pensò.

"D'accordo, faccio il bravo, promesso. Il mio portafoglio è nella tasca del cappotto, prendilo..."

"Torno tra poco."

Replicò Domenico, ignorando totalmente quella richiesta. Claudio alzò gli occhi al cielo, rassegnato.

"Almeno l'ombrello prendilo, però."

"Sì, quello sì."

Lo rassicurò Domenico, alzandosi. Gli riempì di nuovo il bicchiere d'acqua e glielo mise sul tavolino vicino, in caso di bisogno, e poi uscì, diretto verso la farmacia che aveva visto giusto all'angolo della strada. Non aveva intenzione di restare sotto la pioggia, che non accennava a diminuire e che cadeva rumorosa e fitta sull'ombrello, un minuto più del necessario, anche perché Claudio non stava bene e non voleva lasciarlo troppo solo.
 

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Capitolo 31
*** Appendice, Capitolo 3 – È grazie a te che ho imparato a stare bene (parte 2) ***


Domenico impiegò più tempo del previsto a tornare all'appartamento, perché nella piccola farmacia trovò un discreto numero di persone in fila davanti a lui e poi perché, sulla via del ritorno, si fermò nel negozietto di un fruttivendolo a comprare un po' di verdure e qualche arancia, in modo da poter preparare a Claudio un buon brodino caldo e una bella spremuta, come sua madre faceva con lui e con Sara quando erano malati.

"Eccomi qua, scusa se ci ho messo tanto, ma c'era gente..."

Annunciò entrando in casa, ma non ricevendo alcuna risposta, si avvicinò al divano, allarmato. Sorrise, però, quando si accorse che Claudio stava semplicemente dormendo, con Partenope accanto che vegliava su di lui. Gli ricordò un angelo, di quelli che solitamente si vedono nelle scene sacre, con i suoi capelli arruffati che mantenevano comunque un loro ordine, le palpebre morbidamente abbassate che nascondevano sogni -sperava che fossero belli-, le gote rosse a causa della febbre e le labbra appena dischiuse, quanto bastava a fargli immaginare una cosa che non avrebbe dovuto pensare nei confronti del suo miglior amico e che quindi si affrettò a scacciare dalla testa.

"Sembra uno degli angioletti dipinti nella chiesa vicino al commissariato, eh? Tanto lo so che qualche volta ci sei entrata pure tu..."

Disse a bassissima voce alla gatta, sicuro che l'amico non avrebbe sentito perché aveva il sonno pesante. Partenope fece un piccolo movimento con il capo, come a dare conferma, e Domenico ridacchiò piano.

"Quelli però non russano."

Aggiunse con una punta di divertimento, riferendosi al respiro pesante di Claudio, il quale evidentemente aveva il naso chiuso per via del raffreddore. Per fortuna in farmacia gli aveva preso anche una pomata alla menta che lo avrebbe sicuramente aiutato, ma per il momento preferì lasciarlo riposare perché gli sembrava sereno e gli dispiaceva svegliarlo.

Si spostò in cucina e cominciò a preparare il pranzo, gettando di tanto in tanto un'occhiata verso il salottino per controllare che fosse tutto a posto e a sua volta era controllato da Partenope che si infilò in cucina un paio di volte, non per chiedere cibo, ma soltanto per strofinarsi un po' tra le sue gambe, facendo le fusa, prima di tornare sul divano. La terza volta, però, si mise a miagolare insistentemente e Domenico, che stava apparecchiando la tavola, lasciò tutto per seguirla in salotto, preoccupato.

Avvicinatosi al divano, vide che Claudio era ancora addormentato, ma aveva il viso imperlato di sudore, gli occhi si muovevano freneticamente sotto le palpebre e mugolava, agitato, come se stesse soffrendo. Anche la notte del loro primo incontro l'aveva trovato in quello stato, preso da un incubo, e lì per lì aveva pensato che si trattasse di un episodio isolato, dovuto magari alla sbronza, ma con il tempo aveva capito che gli incubi per Claudio erano una costante. Si chinò accanto a lui e, senza pensarci troppo su, avvicinò una mano alla sua guancia per accarezzarlo dolcemente. Aveva funzionato in quella notte d'estate, sperava funzionasse anche adesso.

"Va tutto bene, Claudio. Dai, svegliati..."

Claudio si lasciò guidare da quella voce gentile, da quelle carezze morbide, e riaprì gli occhi lentamente, le palpebre pesavano come macigni. Gli incubi, che erano iniziati quando suo padre aveva scoperto tutto, erano decisamente diminuiti nell'ultimo periodo -precisamente da quando aveva preso Partenope con sé e lei gli si acciambellava accanto ogni volta che andava a dormire-, ma nei momenti in cui era sotto stress o agitato per qualcosa -nei giorni che precedevano un esame, ad esempio- tornavano a tormentarlo. Aveva il fiato corto, come se avesse corso per chilometri, e gli occhi vagavano spaesati e frenetici per la stanza, come se non la riconoscessero, alla ricerca di un appiglio. Lo trovò in un paio di dolci occhi verdi pieni di preoccupazione, che ormai erano diventati il suo porto sicuro.

"Sei con me?"

Sussurrò Domenico, accennando un sorriso piccolo, ma rassicurante. Claudio annuì lentamente, e quel gesto gli fece percepire con più forza la mano di Domenico sulla sua guancia: era una sensazione che gli piaceva tanto, lo faceva sentire al sicuro.

"Sarà stata la febbre..."

Sussurrò, con voce roca.

Quel piccolo movimento, però, fece anche rendere conto a Domenico di aver fatto una cosa che non avrebbe dovuto fare, perché a Claudio non piaceva essere toccato, doveva ricordarselo!

"Forse...forse è il caso che te la misuri."

Così dicendo allontanò la mano dalla guancia dell'altro, ma Claudio fu veloce e con uno scatto, senza pensarci, la afferrò con la propria, anche se debolmente. Nel suo incubo c'erano mani che gli facevano male, ora aveva bisogno di mani che gli facevano bene.

"Ti prego..."

Mugolò, implorante. Domenico sgranò gli occhi, sorpreso, e sentì il proprio respiro bloccarsi per un istante. Non esitò, però, a posare di nuovo il proprio palmo sul viso di Claudio, non gli negò le carezze che chiedeva. Non avrebbe mai potuto farlo.

"Non mi devi pregare..."

Sussurrò teneramente, riprendendo a tracciare morbide scie sulla sua guancia calda. Sotto le dita sentì la fossetta che decorava il sorriso, appena accennato, dell'amico.

"E tu non devi avere paura di toccarmi."

Mormorò Claudio, più sereno. Poteva dire di conoscere bene Domenico e gli era chiaro che non fosse uno di quei ragazzi che provava vergogna o disgusto ad abbracciare altri ragazzi, anzi le volte che era stato a Napoli lo aveva visto molto espansivo con i suoi amici -sembrava averne davvero tanti- che spesso incontravano passeggiando. Lo era con tutti tranne che con lui e sapeva che gli riservava un trattamento diverso solo per quel timore che gli leggeva negli occhi anche in quel momento.

"Non ho paura di toccarti..."

Disse Domenico, per poi sospirare. Il suo modo di dimostrare affetto era sempre stato il contatto fisico, non risparmiava mai carezze, abbracci o solletico alle persone a cui teneva, e anzi gli era difficile trattenersi con Claudio -a cui voleva un bene dell'anima-, ma i suoi occhi terrorizzati e la sua voce ferita quando aveva provato per la prima volta a toccarlo -semplicemente per aiutarlo a stare in piedi, dato che era ubriaco-, gli tornavano in mente ogni volta e allora si fermava.

"...ho paura di farti sentire a disagio o...o di farti male. Una delle prime cose che mi hai detto quando ci siamo incontrati è stata 'non toccarmi' e perciò... perciò non lo faccio."

Claudio chiuse gli occhi per qualche istante, il tempo necessario a richiamare alla memoria quelle immagini offuscate dall'alcool, ma abbastanza nitide nella sua mente. Aveva agito d'istinto e il suo istinto gli aveva suggerito di temere quel contatto, ma solo perché non lo conosceva. Riaprì gli occhi, rivolgendo a Domenico uno sguardo affettuoso.

"Non mi piace essere toccato, non lo nego, ma con te questa cosa non vale...e non è mai valsa. Scusami, avrei dovuto dirtelo prima."

Per sottolineare il concetto, mosse lentamente il viso contro la sua mano, esattamente come avrebbe fatto un gatto ed un gatto era esattamente ciò che sembrava agli occhi di Domenico, pieni di tenerezza. Approfondì la propria carezza, con un po' di coraggio in più, per fargli capire che fosse tutto a posto. Era felice di sentirsi dire quella cosa, era felice di sentirsi un po' speciale, ma era consapevole che si trattasse di un grande atto di fiducia da parte di Claudio e lui non l'avrebbe deluso. Mai.

"No, non ti devi scusare, ok? A me basta solo sapere che per te va bene e che posso scompigliarti i capelli, ogni tanto."

Rispose con una punta di scherzo e un sorriso ampio sul volto. Claudio fece una risatina, gli piaceva quella prospettiva, ma venne interrotto da qualche colpo di tosse. Domenico lo guardò con apprensione, non gli piaceva che stesse male.

"Vuoi bere?"

Chiese, premuroso, e Claudio annuì, facendo per tirarsi su a sedere. Domenico lo aiutò e gli porse il bicchiere d'acqua poggiato sul tavolino.

"Va un po' meglio..."

Disse Claudio dopo aver bevuto, per poi schiarirsi la voce. Rivolse all'altro ragazzo un sorriso morbido, con gli occhi languidi che accompagnavano le labbra. Domenico lo ricambiò immediatamente.

"Prendo il termometro, ok?"

Prima di farlo, però, gli sistemò meglio la coperta sulle gambe -su cui Partenope riprese posto all'istante- e Claudio annuì piano in risposta. 'Non so cos'abbia fatto di buono per meritarmi te nella mia vita, ma sono felice che tu ci sia.', pensò, mentre lo vedeva allontanarsi quel poco che bastava a raggiungere la scrivania.

"Cinque minuti di pazienza."

Disse Domenico con tono scherzoso, sedendosi sul bordo del divano dopo aver recuperato il termometro, che porse all'altro. Claudio fece una risatina e si sistemò lo strumento sotto ad un braccio mentre, in un impeto di coraggio, allungò la mano libera verso Domenico, con il palmo rivolto verso l'alto, in una muta richiesta che sperava venisse accolta.

Domenico abbassò lo sguardo verso la sua mano ed ebbe un attimo di esitazione, ma solo perché non era ancora abituato all'idea di quel contatto, poi la prese nella propria, sorridente. Si accorse che era fredda, quindi la strinse un po' di più per farle calore. Claudio, nonostante l'iniziativa fosse partita da lui, doveva a sua volta abituarsi a quella piacevole novità e rimase sorpreso dal modo in cui l'amico gli strinse la mano, ma poi sorrise perché era felice.

"Perché mi vorresti spettinare i capelli, comunque?"

Domandò, dopo qualche istante. Domenico fece una risatina imbarazzata.

“No, niente, era solo una battuta…è che sei un perfettone. Hai sempre tutto in ordine, mai un capello fuori posto, mai una camicia spiegazzata...e penso che ti farebbe bene scioglierti un po', ecco tutto. Ad essere sincero, vederti così mi fa quasi strano."

Rispose, gesticolando con la mano libera in direzione dell'amico, indicandone vagamente i capelli arruffati e il pigiama coperto da una morbida vestaglia. A volte temeva che Claudio, stretto in quella perfezione, non fosse abbastanza libero da godersi la vita e lui voleva aiutarlo.

"Fidati, fa quasi strano anche a me. Mi rendo conto di non essere nelle mie migliori condizioni...sono brutto, eh?"

Replicò Claudio, facendo poi una risatina che rimase sulle labbra nella forma di un sorrisetto rassegnato. Domenico non aveva tutti i torti, per lui quell'aspetto sempre ordinato era un'armatura dietro la quale nascondere il disordine che aveva dentro, era un modo per presentarsi nel modo giusto agli occhi della gente ed evitare così di essere giudicato, ormai ci aveva fatto l'abitudine.

"No, questo no. Sei sempre bello."

Ribatté istintivamente Domenico, rendendosi conto solo in un secondo momento di aver dato voce ai propri pensieri e di averlo fatto anche troppo velocemente. Claudio iniziò a sentire il proprio cuore battere più rapidamente e sgranò leggermente gli occhi, sorpreso.

"Cioè, io... intendevo dire che mi fa un po' strano vederti in pigiama, ma...ma non stai male, ecco."

Balbettò imbarazzato Domenico, cercando di sistemare la situazione.

Claudio curvò l'angolo delle labbra in un piccolo sorriso emozionato, che gli rivolse sperando capisse che non ci fosse bisogno di quelle giustificazioni. Non aveva fatto niente di sbagliato, anzi. Nessuno gli aveva mai detto che fosse bello, non con quella spontaneità -che, addirittura, aveva tinto le guance dell’altro di un rossore che quasi non si notava sulla pelle baciata dal Sole, ma lui era sempre stato un osservatore attento- e senza secondi fini, almeno.

"Beh, sappi che...non mi sarei fatto vedere in questo stato da chiunque, quindi...quindi se ogni tanto vuoi scompigliarmi i capelli, per me va bene, ecco."

Disse, esitando un po' perché era emozionato, ma guardandolo negli occhi perché era sincero. Domenico tornò a respirare e distese le labbra in un morbido sorriso. Era così facile capirsi, con lui.

"Ed io, in cambio, ti prometto che ogni tanto mi impegnerò a mettermi una camicia, così siamo pari."

Replicò divertito e Claudio ridacchiò, scuotendo il capo.

"Ti stanno bene, ma non ne hai bisogno. Non devi sentirti obbligato..."

Precisò, ma ora fu Domenico a scuotere il capo, irremovibile.

"Lo faccio con piacere, dai, non è la fine del mondo!"

Diede uno sguardo all'orologio da polso.

"Sono passati i cinque minuti, diamo un'occhiata a questa febbre."

Aggiunse, prima che il futuro avvocato cominciasse con l'arringa.

Claudio alzò gli occhi al cielo, cogliendo l'antifona, e prese il termometro, leggendovi la temperatura indicata dalla colonnina. Sbuffò.

"Trentotto e tre."

Annunciò, mettendo su un piccolo broncio. Odiava stare male, si sentiva inutile!

Domenico strinse un po' di più la sua mano, incoraggiante.

"Hai bisogno di energie e di riposo, tutto qui. Vieni a mangiare, è quasi pronto."

"Mi hai preparato il pranzo? Non avresti dovuto..."

Replicò Claudio, ben poco sorpreso ormai, ma decisamente grato. Domenico minimizzò muovendo la mano libera come a scacciare una mosca.

"Sono venuto qui per te, potevo mai lasciarti senza mangiare, scusa? E poi ho fame anch'io, sai?"

Ridacchiarono insieme e si alzarono, ma prima di spostarsi in cucina Domenico prese la coperta, la piegò in due metà e la poggiò sulle spalle di Claudio, a mo’ di mantello, in modo che stesse più caldo.

"Ecco qua, un vecchietto pronto per l'ospizio..."

Commentò Claudio sconsolato, guardandosi. Domenico, però, scosse il capo: non doveva avvilirsi così.

"Ma no, non sei un vecchietto, sei un nobile principe, pronto per un’altrettanto nobile impresa!"

Replicò con enfasi mentre attraversavano il salottino -seguiti da Partenope- e Claudio ridacchiò. Gli piacevano molte cose di Domenico, ma il suo riuscire sempre a trovare un lato positivo era decisamente tra quelle che preferiva.

"E quale sarebbe questa nobile impresa in cui sarei impegnato?"

Chiese incuriosito, sollevando un sopracciglio. Domenico ci pensò su per un istante, il tempo di attraversare la soglia della cucina.

"È un'impresa di conoscenza! Vuoi imparare le leggi del regno, così da poter difendere meglio il tuo popolo, ma diciamo che adesso ti trovi in un momento di sosta in una modesta locanda perché hai bisogno di rifocillarti."

E così dicendo si avvicinò al tavolo e scostò la sedia a capotavola.

"Prego, principe, si accomodi!"

Esclamò, facendo un piccolo inchino. Claudio rise, gli sembrava di essere tornato a quando, da bambino, giocava con i suoi amichetti, ed era una cosa bellissima, un regalo che solo Domenico avrebbe potuto fargli. Alzò un sopracciglio, poi, furbetto, perché si ricordò di una cosa.

"Quel posto però non va bene."

Disse indicandolo, riferendosi al fatto che il posto a capotavola fosse riservato agli ospiti, come l'amico gli aveva insegnato. Domenico ridacchiò, pensando che avrebbe dovuto aspettarselo dato che Claudio era uno che imparava in fretta. Scostò quindi un'altra sedia, sul lato lungo, e Claudio si avvicinò con uno splendido sorriso sul volto e si accomodò.

"Sono sicuro che questa locanda faccia proprio al caso mio. Sono un po' stanco..."

Mormorò, incrociando lo sguardo di Domenico, il quale gli sorrise morbidamente.

"Qui troverà cibo e riposo, glielo posso garantire."

Si spostò quanto bastava a farsi vedere mentre lo indicava con un indice.

"Però non deve fare il testardo!"

Aggiunse, perentorio. Claudio ridacchiò e alzò le mani in segno di resa.

"Promesso!"

Domenico, soddisfatto, gli riempì il bicchiere d'acqua e poi tornò accanto ai fornelli per controllare la pasta.

"Ma se io sono il principe, tu chi sei?"

Chiese Claudio, incuriosito, dopo aver mandato giù qualche sorso. Domenico accennò un sorriso e scrollò le spalle.

"Direi che sono il locandiere, no?"

Da bambino, quando anche lui giocava con i suoi amici per le strade di Napoli, non gli sarebbe passata nemmeno per l'anticamera del cervello l'idea di interpretare un simile ruolo, ma adesso era cresciuto e aveva capito che non gli importava di essere un principe, se poteva prendersi cura di lui.

Claudio scosse il capo, contrariato. Meritava decisamente di più!

"Io dico che sei un principe anche tu, invece."

Domenico accennò una risatina e si voltò a guardarlo. Apprezzava il complimento, ma non era necessario. Era felice così.

"Ma se sono un principe, non posso prepararti da mangiare..."

Claudio scosse il capo, con decisione.

"E questo chi lo dice? Un principe può fare ciò che vuole!"

"Allora mi va bene."

Acconsentì Domenico, intento a riempire i piatti. Claudio, soddisfatto, si alzò per dargli una mano a metterli in tavola, ma non appena Domenico sentì il rumore della sedia che strisciava sul pavimento, lo fermò.

"Sta' buono, non ti devi sforzare."

Claudio tornò a sedersi, sospirando.

"Come se prendere un piatto fosse faticoso..."

"Infatti non lo è, quindi posso farlo anche da solo."

Replicò Domenico, facendogli un occhiolino. Claudio fece una risatina, piacevolmente preso in contropiede.

"Guarda che qua il futuro avvocato sono io, eh."

Disse scherzoso, indicandosi. Domenico ridacchiò e portò in tavola i piatti pieni di brodo caldo per poi sedersi vicino a lui, ma a capotavola, dato che l’altro aveva insistito tanto.

"Pensa a mangiare, adesso. Spero sia buono."

Claudio sorrise, spostando lo sguardo dal piatto all'amico.

"Non ho alcun dubbio a riguardo. Buon appetito."

Domenico ricambiò il sorriso con dolcezza.

"Buon appetito anche a te."

Non ebbero nemmeno il tempo di immergere i cucchiai nei rispettivi piatti che Partenope, seduta tra le sedie dei due ragazzi, emise un sonoro miagolio, come a voler augurare anche lei buon pranzo...ma anche per farsi notare. Ottenne il risultato desiderato, dal momento che entrambi spostarono subito gli occhi su di lei, ridacchiando.

"Fa sempre così, quando è ora di mangiare. Io però le do qualcosa solo quando so che non le fa male..."

Spiegò Claudio e Domenico sospirò, come se si aspettasse un simile comportamento, per poi curvare le labbra in un sorriso malinconico. Indietreggiò con la sedia, in modo che ci fosse abbastanza spazio, e poi si batté una mano sulla coscia.

"Vieni qui Partenope, dai!"

La gatta non se lo fece ripetere e con un salto gli fu in grembo -aveva i suoi anni, ma era ancora agile- e il ragazzo prese a farle le carezze con una mano, mentre con quella libera tagliava una carota bollita con la forchetta.

Claudio lo osservava incuriosito, ma anche un po' preoccupato perché si era accorto dell'ombra sul suo viso.

"Qualcosa non va?"

Chiese, premuroso. Domenico scosse il capo.

"No, no, è tutto a posto. È solo che...lei non è sempre stata randagia, sai? È per questo che chiede cibo dalla tavola, si vede che era abituata a riceverlo anche... prima."

Claudio sgranò leggermente gli occhi, sorpreso e addolorato.

"Ne sei proprio sicuro?"

Chiese e Domenico annuì, porgendo a Partenope un pezzetto di carota che lei prese a mangiare con entusiasmo.

"Sì, quando l'ho trovata aveva ancora il collare, figurati! Privo di targhetta, ovviamente, ma si vede che avevano davvero fretta di abbandonarla. Capirai, poi, una gatta anziana come lei, buttata in mezzo ad una strada in pieno inverno... praticamente l'hanno condannata a morte!"

Quasi ringhiò, pieno d'odio verso quegli esseri viscidi che avevano commesso quell'atto ignobile. Partenope, però, gli fece capire di volere un altro po' di carota avvicinando il musetto al tavolo e in un attimo l'incendio che gli era scoppiato negli occhi si spense. Si calmò, perché lei stava bene.

"Quando l'ho vista probabilmente girovagava già da giorni, era affamata perché non sapeva procurarsi il cibo da sola...per fortuna si è ripresa abbastanza in fretta."
Proseguì, e così dicendo le diede il pezzetto di carota richiesto, continuando ad accarezzarla con l'altra mano.

Claudio ascoltò tutto il racconto in silenzio, e più ascoltava più sentiva crescere dentro di sé una grande tristezza e una grande rabbia. In un certo senso c'era passato anche lui e sapeva cosa voleva dire essere abbandonati dalla propria famiglia così, da un giorno all'altro. Era sicuro che anche Partenope, come lui, avesse passato giorni interi a chiedersi cosa avesse sbagliato o cosa ci fosse di sbagliato in lei, cosa avesse fatto per deludere così tanto i suoi padroni dal portarli a cacciarla via. Sospirò, allungando una mano per farle delle carezze morbide. Se le meritava.

"Secondo te perché l'hanno abbandonata?"

Chiese, mesto, e Domenico scrollò appena le spalle.

"Non posso saperlo con certezza, ma a certe persone gli animali piacciono solo quando sono cuccioli, poi quando crescono, invecchiano, e diventano bisognosi di più attenzioni, li vedono come un peso e li abbandonano, senza pensare che anche loro sono creature viventi e senza ricordare i sorrisi che hanno sicuramente portato nelle loro vite."

Curvò le labbra in un morbido sorriso, tutto rivolto alla micia che si godeva le coccole sul suo grembo.

"Eppure, nonostante tutto il male che queste persone le hanno fatto, di me si è fidata subito, non appena ci siamo incontrati. Degli altri gatti invece all'inizio era diffidente perché non era abituata a frequentarli, soffiava e cercava di allontanarli tirando graffi...ci è voluto un bel po' prima che facesse amicizia. Vero, signorina?"

Aggiunse con voce allegra e Partenope si mosse quanto bastava a strofinare il capo contro la sua pancia, affettuosamente. Claudio osservò la scena con gli occhi pieni di tenerezza, ritrovandosi a pensare che anche in questo lei e la gatta erano molto simili. Anche lui si era fidato subito di Domenico, come non aveva mai fatto con nessuno prima, e Domenico si era preso cura di lui senza chiedere nulla in cambio.

"È stata fortunata ad incontrarti. Senza di te, chissà che fine avrebbe fatto..."

Mormorò, guardando l'altro di sottecchi. Domenico incrociò il suo sguardo e gli bastò questo a capire che Claudio non stava parlando solo di Partenope. Gli sorrise, dolcemente.

"Non pensiamo a cosa sarebbe potuto succedere, pensiamo invece a cosa è successo davvero."

Disse, anche per se stesso. Non voleva neanche prendere in considerazione l'ipotesi di cosa avrebbe potuto fare Claudio, ubriaco e triste com'era, se non fosse stato lui a trovarlo. Avvicinò la propria mano alla sua, entrambe sul dorso di Partenope, e la prese per ricordarsi che era lì con lui e che non era accaduto niente di brutto.
Claudio si aprì in un caldo sorriso e ricambiò la stretta perché Domenico aveva ragione, era meglio soffermarsi sulla realtà e sul presente, che erano così belli.

"È stata fortunata anche ad incontrare te, sai?"

Aggiunse Domenico, e anche lui adesso non stava parlando solo di Partenope. Claudio sgranò leggermente gli occhi, stupito.

"Me?"

Domenico annuì, piano.

"Sì, te...perché tu non te ne andrai come hanno fatto gli altri. Le hai dato un amico che resterà per sempre e...e non poteva capitare in un posto migliore."

Quella di perdere Claudio, quel ragazzo che aveva conosciuto per puro caso, era stata la sua più grande paura per i primi mesi della loro amicizia. Credeva che prima o poi quel rapporto si sarebbe affievolito a causa della distanza fino a scomparire del tutto, senza lasciare dietro di sé nemmeno un cenno di saluto per strada, dato che le strade che percorrevano ogni giorno erano diverse e non erano fatte per incrociarsi, o almeno così credeva. Si era sbagliato, però, e non poteva esserne più felice: con il tempo quel legame speciale si era rafforzato sempre di più ed era diventato indissolubile.

"Adesso però devi fare come lei e mangiare, mh? Altrimenti non guarisci più!"

Aggiunse, indicando il piatto con un cenno del capo. Claudio annuì, ma prima di lasciarlo andare strinse un po' di più la sua mano per fargli capire che sì, era lì, e non sarebbe mai andato via.

"Ci puoi contare, non vado proprio da nessuna parte!"

Esclamò, allegro, e Domenico fece una risatina, rivolgendogli poi uno sguardo riconoscente che Claudio ricambiò con lo stesso affetto. Cominciò a mangiare con gusto e pensò che quel brodo caldo fosse proprio ciò che ci voleva in una giornata come quella, in cui la pioggia non smetteva di imperversare al di là del balconcino della cucina, ma che non lo disturbava e anzi rendeva quel momento ancora più piacevole, perché lui se ne stava al calduccio, accanto ai suoi affetti più cari. Sarebbe stata la persona più felice della Terra, se avesse potuto trascorrere tutti i suoi giorni così.

"Per caso ne è rimasto un po'?"

Domandò, dopo aver svuotato per bene il proprio piatto. Domenico annuì, sorridente.

"Ne vuoi ancora?"

Claudio annuì a sua volta e fece per alzarsi, ma venne prontamente fermato dall'altro, che scattò in piedi -poté farlo senza impedimenti perché Partenope era scesa a mangiare i suoi croccantini-.

"A cuccia, ci penso io!"

Esclamò scherzosamente, già diretto verso i fornelli. Prese la pentola e il mestolo e si avvicinò al tavolo, riempiendo di nuovo il piatto di Claudio, che nel frattempo non aveva potuto fare altro che tornare a sedersi.

"Grazie! Tu non ne vuoi?"

Chiese, notando che la pentola era ormai vuota. Domenico scosse il capo.

"No, io sto a posto così. Tu mangia, fanne salute."

Disse, accompagnandosi con un occhiolino che fece ridacchiare Claudio.

"Comunque ci tengo a precisare che non sono un cane."

Precisò divertito, per poi cominciare a mangiare.

"Ah, non preoccuparti, non l'ho nemmeno pensato."

Ribatté Domenico, mentre sistemava la pentola nel lavello. Subito dopo, tornò a sedersi.

"Avevi fame, eh?"

Commentò teneramente, guardandolo mangiare. Claudio annuì ancora con la bocca piena, poi deglutì e rispose.

"Sì, mi è venuta all'improvviso. Stamattina non ho mangiato perché proprio non ne avevo, ora invece mi si è aperto lo stomaco..."

E aveva anche un'idea abbastanza chiara del perché: era Domenico, con la sua presenza, che lo aveva fatto sentire meglio...e poi quel brodino era proprio buono!

"Allora deduco che ti sia piaciuto..."

Disse Domenico, con un pizzico d'orgoglio che gli fece brillare gli occhi verdi. Sua madre gli diceva sempre che non c'era sensazione più appagante del vedere le persone soddisfatte di mangiare ciò che hai preparato e aveva ragione, ma sapere che era proprio Claudio quella persona gli scaldava il cuore in un modo che non sapeva descrivere, sapeva solo che gli piaceva prendersi cura di lui.

"Puoi dirlo forte, è buonissimo!"

Rispose Claudio, con convinzione.

"Sai, io a cucinare me la cavo, ma tra i corsi e lo studio ho poco tempo e vado sempre di fretta quando si tratta di preparare il pranzo o la cena. Anche se so che non vuoi, ti ringrazio per avermi donato un pasto calmo."

Aggiunse, con voce più morbida, come morbido era il sorriso che rivolse all'amico subito dopo.

Domenico gli sorrise a sua volta, con lo stesso affetto. Non poté dirsi sorpreso, conosceva molte persone che andavano all'università e si trovavano in quella stessa situazione, ma anche lui stesso, con i turni che aveva, non seguiva esattamente degli orari regolari, eppure se solo avesse potuto gli avrebbe preparato un pasto calmo a colazione, a pranzo e a cena, tutti i giorni, e sarebbe stata la persona più felice della Terra.

"Accetto il ringraziamento solo se mi prometti di non saltare più la colazione. È il pasto più importante della giornata!"

Lo indicò con l'indice, in un gesto eloquente, guardandolo dritto negli occhi. Claudio fece una risatina e annuì, sollevando solennemente una mano.

"Promesso!"

"Mh, bravo, così ti voglio!"

Esclamò soddisfatto Domenico, per poi alzarsi.

"Tanto ci pensa Partenope a dirmi se sgarri..."

Aggiunse, mentre apriva le ante della credenza alla ricerca di qualcosa. Claudio lo guardò con curiosità.

"Ti posso dare una mano? Sai com'è, è casa mia..."

Disse con una punta di ironia e Domenico arricciò leggermente il naso, in una piccola smorfia.

"Sto cercando lo spremiagrumi. Dovrebbe essere qui, da qualche parte!"

Ed era sicuro che Claudio l'avesse, perché l'aveva visto di sfuggita l'ultima volta che era stato lì, ma non riusciva a trovarlo.

"Aspetta, arrivo..."

Disse Claudio, alzandosi. In un attimo gli fu accanto, appena dietro di lui, e dopo un paio di secondi individuò la scatola bianca dello spremiagrumi praticamente nuovo, che non sapeva nemmeno perché si fosse portato dietro.

"Eccolo, è lì sulla destra, lo vedi?"

E con una mano indicò l'area in questione. Domenico liberò un piccolo "ah!", prese la scatola e poi si girò con un sorriso soddisfatto sulle labbra. Non si era accorto, però, di quanto Claudio gli fosse vicino e così si ritrovò a pochi centimetri dal suo viso -dal suo bellissimo viso-, incastrato tra lui e il ripiano dietro di sé.

'Dio, quant'è bello.', pensò, con un'intensità tale che quasi ebbe paura che il pensiero gli uscisse dalle labbra. Non si stavano nemmeno sfiorando a dire il vero, ma tanto era bastato a mozzargli il fiato e a fargli andare in tilt il cervello, come non gli era successo nemmeno quando era ancora alle prime esperienze, alle prime armi. La verità era che sarebbe rimasto volentieri lì, intrappolato in quel piccolo spazio per sempre, e non faceva fatica ad ammetterlo, ma non poteva. Doveva darsi un contegno. Si schiarì quindi la voce.

"L'ho... l'ho preso."

Biascicò, agitando leggermente la scatola bianca -che miracolosamente non aveva fatto cadere- per mostrargliela, ma anche per creare una sorta di barriera tra di loro, per quanto gli dispiacesse.

Quelle parole furono per Claudio come una sveglia che con il suo trillo ti tira fuori da un sogno, con la differenza che la voce di Domenico era decisamente più piacevole. Non si era accorto di quanto gli si fosse avvicinato, non l'aveva fatto di proposito -forse il suo corpo aveva agito da sé, attratto come un magnete da un pezzo di ferro- e prima che potesse rendersene conto si era ritrovato bloccato davanti a lui. In realtà gli sarebbe stato molto facile uscire da quella situazione, tutto ciò che doveva fare era spostarsi di un paio di passi all'indietro, eppure non c'era nulla di più difficile. Non voleva farlo, ma doveva.

"Che... cos'è che ci vuoi fare, poi?"

Chiese, cercando di mostrarsi disinvolto e di nascondere il suo tumulto interiore. Faceva fatica anche solo a respirare, ma si impose di muovere le gambe e indietreggiare un po', il minimo indispensabile a dare un po' di spazio all'altro ragazzo.

Domenico gli diede le spalle per un istante, il tempo di riprendere fiato con la scusa di chiudere l'anta.

"Ho preso delle arance, volevo farti una spremuta..."

Rispose, di nuovo rivolto verso l'altro, con l'immancabile sorriso premuroso che non mancava mai di rivolgergli. Claudio curvò l'angolo delle labbra in un sorrisetto timido, rosso in viso, e si grattò distrattamente l'attaccatura dei capelli sul collo, piegandolo leggermente verso la propria mano.

"Ti ringrazio per il pensiero, ma posso farlo da solo..."

Domenico fece una risatina e gli rivolse uno sguardo furbo, con le sopracciglia leggermente inarcate, ma affettuoso, che ancora portava con sé l'emozione di poco prima nel leggero rossore che gli tingeva le guance.

"Ormai dovresti conoscere la risposta, no?"

Claudio annuì facendo una risatina e si rimise seduto con Partenope che, ormai sazia, prese posto sulle sue gambe e miagolò per richiedere carezze che non tardarono ad arrivare.

Domenico tagliò a metà quattro arance e subito nella piccola cucina si diffuse un piacevole profumo di agrumi, che Claudio avvertì nonostante avesse il naso abbastanza tappato dal raffreddore. Fece girare più e più volte le mezze arance sulla cupoletta dello spremiagrumi, in modo da estrarne tutto il succo, e così facendo riempì due bicchieri quasi fino all'orlo, che portò in tavola.

"Grazie!"

Disse subito Claudio, spostando lo sguardo sul bel succo arancione decisamente invitante. Domenico si sedette e fece una carezza a Partenope.

"Di nulla, lo sai. Mia madre me la prepara sempre in inverno, dice che aiuta più di qualsiasi medicina. Non credo sia proprio vero, ma certamente male non fa, no?"

Spiegò, per poi fare una risatina a cui si unì quella di Claudio, più malinconica, che buttò giù un sorso di spremuta prima di parlare.

"Anche mia madre me le preparava ogni tanto, quando ero piccolo, poi sono cresciuto e ha smesso."

Mormorò, lo sguardo fisso sul bicchiere di cui accarezzava il vetro con una mano. Aveva smesso di fare tante cose, sua madre, da quando lui era cresciuto e non poteva fare a meno di pensare che fosse anche colpa sua, che l'avesse delusa -non era difficile immaginare il motivo- e che per questo si fosse rotto qualcosa tra loro.

Domenico sospirò, dispiaciuto. Quando Claudio parlava di suo padre, le rare volte che lo faceva, ne parlava con odio e con un dolore che nasceva dalla rabbia, invece quando parlava di sua madre era semplicemente triste, rammaricato, ed era da lì che nasceva un altro tipo di dolore. Da quanto aveva potuto capire, sua madre non era una cattiva persona e voleva bene a suo figlio, ma non aveva mai imparato a dimostrarglielo e gli si stringeva il cuore all'idea che Claudio, come leggeva chiaramente nel suo sguardo, se ne facesse una colpa. Aveva bisogno di qualcuno che gli dimostrasse affetto e allora, senza dire una parola, si alzò e prese la busta della pasticceria, da cui estrasse il vassoio, accuratamente avvolto in una carta lucida blu, che posò sul tavolo. Sperava potesse aiutarlo a farlo sentire apprezzato.

Immediatamente, un sorriso stupito e dolce sbocciò sul viso di Claudio, come un fiore in mezzo alla neve.
"Sono...sono per me?"

Chiese, anche se conosceva perfettamente la risposta. Domenico fece una risatina e annuì.

"Vedi qualcun altro in giro?"

Replicò con una punta di sarcasmo, indicando la cucina vuota all'infuori di loro due e di Partenope, che comunque sembrava più interessata a stare in braccio al ragazzo che ai dolci perché sentiva che lui ne aveva bisogno. Claudio ridacchiò appena e scosse il capo, avvicinando timidamente le mani alla confezione.

"Posso?"

"Certo, li ho presi per mangiarli, non per guardarli!"

Esclamò allegro Domenico, invitandolo anche con un cenno della mano. Claudio non se lo fece ripetere una seconda volta e aprì la carta colorata stando attento a staccare delicatamente il nastro adesivo che la teneva chiusa, senza sfasciarla. Il vassoio era abbastanza grande e se da un lato era pieno di sfogliatelle -ricce e frolle, naturalmente, anche se le seconde prevalevano-, dall'altro c'erano tanti altri tipi di dolci dal profumo altrettanto invitante, e dal sapore sicuramente buonissimo. Istintivamente si leccò le labbra, in un gesto quasi felino, e Domenico, che non gli aveva staccato gli occhi di dosso, ridacchiò divertito: 'Altro che cane!', pensò.

"Ho pensato di variare un po', anche perché dobbiamo festeggiare, no?"

Claudio sollevò lo sguardo verso di lui, perplesso, con la fronte leggermente corrugata.

"E cosa?"

Domandò, perché davvero non ne aveva idea. Domenico alzò gli occhi al cielo e liberò un sospiro prima di tornare a guardarlo.

"Ma come cosa? Il tuo compleanno, no? Lo so, siamo un po' in ritardo, ma meglio tardi che mai! Guarda, ti ho preso anche queste..."

Estrasse una confezione di candeline -di quelle semplici, sottili e rosse- dalla busta in cui aveva trasportato il vassoio e gliele mostrò. Era certo, infatti, che l'amico non avesse festeggiato in nessun modo e aveva pensato che questa fosse anche l'occasione giusta per rimediare.

Claudio non aveva mai ritenuto particolarmente necessario festeggiare il proprio compleanno, non era una cosa a cui teneva e ogni anno l'aveva fatto solo perché era ciò che i suoi genitori volevano e che i suoi compagni di classe si aspettavano da lui.

Il problema non erano le feste in sé, ma l'ipocrisia che si portavano dietro: appena l'anno precedente aveva festeggiato i suoi diciotto anni in pompa magna, in un locale esclusivo -scelto da suo padre-, con gran parte della gioventù della Roma bene a parteciparvi e perfino fuochi d'artificio finali -tutte cose a cui avrebbe volentieri rinunciato- e invece quest'anno nessuno si era degnato di fargli gli auguri, dimostrazione evidente che quelli non erano rapporti veri, men che meno amicizie.

L'unica eccezione, naturalmente, era stata Domenico, che gli aveva telefonato con grande entusiasmo di mattina presto perché voleva essere il primo a fargli gli auguri, senza sapere che sarebbe stato anche l'ultimo e che, non contento, adesso gli stava regalando anche una festa, piccola e semplice, ma sincera.

Scoppiò a piangere, senza riuscire a trattenersi, ma al tempo stesso sorrideva, un controsenso che non aveva creduto possibile fino a quel momento.

Domenico, che non si aspettava quella reazione, gli andò accanto e gli mise una mano sulla spalla, leggero, senza fare troppa pressione, solo per fargli sapere che era lì.

"Eh, lo so, le sfogliatelle fanno questo effetto anche a me..."

Mormorò con tenera ironia, non per prenderlo in giro, ma per farlo ridere. Claudio infatti liberò una risata tra i singhiozzi e poi, dopo aver alzato per qualche istante gli occhi verso di lui, si lasciò andare contro il suo petto, poggiandovi una guancia.

"Tu sei davvero un angelo..."

Disse, con voce un po' spezzata dal pianto. Domenico si avvicinò ancora un po' per farlo stare comodo, dandogli tutto il sostegno di cui aveva bisogno, e lo avvolse con cautela tra le braccia, portandone una intorno alle sue spalle e un'altra sul davanti, coinvolgendo anche Partenope che intanto si era alzata su due zampe per lasciare qualche leccatina sul viso di Claudio. Gli sorrise, poi, dolcemente.

"Andiamo, per così poco?"

"Non è poco...hai fatto una cosa bellissima! Non...non l'aveva mai fatto nessuno per me, prima d'ora."

Mormorò Claudio in risposta, con un filo di voce che usciva dal sorriso. Domenico fece una risatina e lo strinse un po' di più a sé, facendogli una carezza sul braccio.

"Direi che era ora di rimediare, no?"

Claudio fece una risatina e si abbandonò al profumo di quei dolci, ai bacetti affettuosi di Partenope e soprattutto all'abbraccio caldo e accogliente di Domenico. Si abbandonò all'affetto, come mai aveva potuto fare prima.

Domenico lasciò che Claudio si sfogasse per tutto il tempo necessario, non gli mise fretta e non gli disse nemmeno una volta di non piangere o di smettere di farlo perché quella reazione andava rispettata, tutto ciò che fece fu accogliere le sue lacrime, era lì per quello.

Dopo diversi minuti, quando le lacrime erano cessate e al loro posto erano rimasti un timido sorriso, due guance rosse e bagnate e due occhi altrettanto arrossati ed umidi, Claudio tirò su col naso e si schiarì la voce.

"Se devo festeggiare io, però, devi festeggiare anche tu..."

Mormorò. Per una strana coincidenza, infatti, erano nati un giorno dopo l'altro -rispettivamente il due e il tre Marzo-, anche se ad un anno di distanza.

"...anche se probabilmente l'avrai già fatto."

Aggiunse, sollevando il capo quanto bastava per guardare l'altro.

Domenico gli rivolse un morbido sorriso. Aveva festeggiato, sì, sia perché sua madre e sua sorella gli avevano preparato una buonissima torta, sia perché il suo gruppetto di amici lo aveva praticamente trascinato fuori di casa, la sera stessa, per andare a bere qualcosa, ma per quanto entrambe le cose fossero state piacevoli c'era qualcosa che mancava, o meglio qualcuno, che adesso invece era lì con lui.

"Ho fatto qualcosina, ma niente mi impedisce di festeggiare di nuovo, basta che non mi conti due volte gli anni!"

Esclamò scherzoso e Claudio ridacchiò, scuotendo il capo.

"Tranquillo, venti sono e venti restano!"

Domenico fece una risatina.

"Ecco, bravo. Che dici, apro le candeline?"

Era un modo velato, quello, per chiedergli se poteva lasciarlo andare o se aveva ancora bisogno del proprio abbraccio. Claudio annuì, perché si era calmato, e Domenico allora si separò da lui, non prima di avergli dato un buffetto sulla guancia, al quale Claudio reagì istantaneamente con un sorriso caldo e felice.

"Dove metto la tua?"

Domandò Domenico dopo aver aperto la confezione di candeline, facendone volteggiare una in senso circolare sul vassoio. Claudio, che si stava asciugando il viso con un fazzoletto, gli rivolse uno sguardo eloquente.

"C'è anche bisogno di chiederlo?"

Ribatté, con una punta di sarcasmo. Domenico annuì, divertito.

"Hai ragione, errore mio."

E senza aver bisogno d'altro, infilò la base di una candelina in una sfogliatella frolla e l'altra in una riccia.

"Non saranno due torte, ma possono andare, no?"

Commentò, e Claudio annuì con entusiasmo.

"Sono perfette!"

Gli fece cenno di attendere con una mano, preso da un pensiero improvviso.

"Aspetta un attimo, devo prendere una cosa!"

Spostò con delicatezza Partenope sulla sedia accanto alla propria -dopo averle dato un bacino sulla fronte- e poi si diresse nel salottino verso un cassetto della grande libreria che ricopriva quasi interamente una parete, dove sapeva che avrebbe trovato ciò che cercava. Tornò in cucina qualche istante dopo, mostrando una macchina fotografica in una mano.

"Ti va se immortaliamo il momento?"

"Ma certo!"

Rispose Domenico, con un gran sorriso pieno di entusiasmo. Si fece passare la macchinetta e, dopo aver acceso la candelina di Claudio con il proprio accendino, si mise davanti a lui.

"Ricordati di esprimere un desiderio, eh."

Claudio non ebbe dubbi su cosa chiedere, perché non c'era altro che volesse: era felice e sereno come non mai con Domenico accanto a sé e desiderava soltanto che riuscissero a vedersi più spesso. Pensò a questo con tutte le sue forze mentre soffiava sulla piccola fiamma e l'amico scattava la foto, cantando Tanti Auguri a Te.

"Adesso vieni tu qua."

Disse, e così si diedero il cambio.

"Mi raccomando, il desiderio."

Gli ricordò, mentre si sistemava davanti a lui.

Domenico sorrise, fissando per qualche istante la fiamma della candelina davanti a sé. Ne aveva già spenta una, appena una manciata di giorni prima, e il suo unico desiderio era stato di rivedere presto Claudio perché gli mancava da morire. Quel desiderio si era già avverato e non se la sentiva di esprimerne un altro, per cui mentre soffiava -e Claudio gli ricambiava il favore cantandogli la canzoncina- si limitò a ringraziare per ciò che aveva ricevuto, ma se proprio gli era concesso fare un'altra piccola richiesta, voleva che non trascorressero altri tre mesi prima del loro prossimo incontro, tutto qua.

"Ti va se ce ne facciamo una tutti insieme?"

Propose indicando la macchina fotografica, e Claudio non se lo fece certo ripetere una seconda volta.

"Certo che mi va!"

Si avvicinò a Domenico e girò la macchina in modo che l'obiettivo inquadrasse tutti e tre. Non ebbero bisogno di mettersi in posa, perché la loro felicità era naturale: Domenico, con il viso illuminato da un sorriso aperto, pieno di gioia, che poteva fare invidia al Sole, teneva in braccio Partenope, la quale guardava lo strano oggetto con il capo leggermente piegato da un lato, incuriosita.

Claudio, invece, aveva messo un braccio intorno alle spalle dell'amico per tenerlo più vicino e aveva un sorriso più timido -le labbra leggermente dischiuse lasciavano solo intravedere i denti-, simile alla Luna un po' nascosta dalle nuvole, ma altrettanto sincero e luminoso. Scattò più di una fotografia, per sicurezza. Non vedeva l'ora di farle sviluppare!

"Spero sia venuta bene..."

Commentò speranzoso e Domenico gli sorrise.

"È un bel ricordo, quindi sarà in ogni caso una bella foto."

Disse, per rassicurarlo. Claudio annuì, in accordo con lui, e ricambiò il sorriso.

Si sedettero di nuovo, uno vicino all'altro, e mangiarono qualche dolce -erano davvero tanto buoni quanto belli-, accompagnandosi con la spremuta rimasta. Nessuna festa al mondo avrebbe potuto renderli più gioiosi e sereni di così.

"Senti, perché non vai a riposare un po', adesso, mentre io faccio i piatti?"

Propose Domenico con gentilezza dopo aver posato i dolci rimasti in frigo, dal momento che si era accorto che l'amico aveva sbadigliato più di una volta, aveva le palpebre pesanti ed era insomma visibilmente stanco. Claudio, in effetti, aveva sonno -un po' per la febbre e un po' perché aveva mangiato- e sentiva il bisogno di riprendere la dormita che era stata interrotta prima di pranzo, ma non voleva andare a dormire. Aveva paura di fare un altro incubo.

"No, non mi va. Ti aiuto a lavare i piatti, ok?"

Domenico sospirò pazientemente, perché intuiva perfettamente cosa ci fosse dietro quella richiesta che a chi non conosceva bene Claudio poteva sembrare un capriccio immaturo, ma di cui lui intendeva bene le ragioni.

"E se vengo di là con te e ti faccio compagnia?"

Ribatté tranquillamente, sicuro che avrebbe funzionato. Claudio, infatti, accennò un piccolo sorriso e annuì, grato che l'amico avesse colto la sua esigenza.

"Grazie..."

Mormorò, alzandosi. Domenico lo imitò e gli sorrise.

"Lo sai. Dai, adesso andiamo."

Si lavarono i denti a turno nel piccolo bagno e si spostarono in camera da letto. Claudio si stese sotto alle coperte, rabbrividendo perché il letto era freddo, e subito Partenope, che ovviamente li aveva seguiti, gli si acciambellò accanto e lui la cinse con un braccio. Domenico, invece, si sedette semplicemente sul bordo.

"Resti finché non mi addormento?"

Chiese Claudio con voce piccola, simile ad un miagolio. Qualcuno non avrebbe esitato a definirlo patetico, ma per Domenico non era affatto così. Gli sorrise, quindi, rassicurante, e portò una mano ad aggiustargli un ciuffo di capelli, lasciandovi una carezza.

"Sì, non ti preoccupare. Chiudi gli occhi e cerca di rilassarti, va tutto bene."

Claudio, però, ignorò quel consiglio e puntò gli occhi nei suoi.

"È da stamattina che parliamo di me, ma tu come stai? Com'è andato il viaggio?"

Da quando era entrato in casa sua, ormai diverse ore prima, non gliel'aveva ancora chiesto. Era stato troppo superficiale e non gli piaceva esserlo, soprattutto con Domenico che si era fatto in quattro per lui.

Domenico accennò una risatina, intenerito dalla sua premura. Un po' ci aveva sperato, a dire il vero, che per un giorno Claudio riuscisse a pensare solo a se stesso, ma perfino quando stava male non riusciva a farlo.

"Io sto bene, tranquillo, e il viaggio è stato piacevole, non ci sono stati ritardi o interruzioni. Ad essere sincero, ho sonnecchiato per la maggior parte del tempo..."

Rispose tranquillo, ma Claudio non era convinto. Sospirò.

"Non mi dire bugie, però. Quando menti abbassi lo sguardo e ti mordicchi il labbro, lo sai che me ne accorgo."

Gli fece notare, ma nella voce non c'era una briciola di rabbia. Non si sentiva preso in giro, sapeva che l'amico gli aveva mentito per proteggerlo, era semplicemente preoccupato per lui perché sapeva quanto le cose non raccontate potessero appesantirgli il cuore.

Domenico prese un profondo respiro e tornò a guardarlo, con gli occhi mesti di un cane colto a fare una marachella.

"Scusa, hai ragione, non lo faccio più. Sto facendo molti turni di notte e sono un po' stanco, ma non te lo volevo dire per non farti preoccupare, non mentre sei malato. Sono venuto qua per farti stare meglio, non peggio."

'E ci stai riuscendo benissimo.', pensò Claudio, accennando un sorriso.

"Questo non vuol dire che tu debba stare male, però. E poi mi fai preoccupare di più se non me lo dici, quindi...che succede?"

Chiese poi, più serio e preoccupato. Domenico rimase in silenzio per qualche istante, passandosi nervosamente una mano sul collo perché non era sicuro di volerglielo dire. Non aveva molta scelta, però.

"Succede che alcune famiglie si stanno facendo la guerra per controllare delle piazze di spaccio e ogni notte è una battaglia."

Liberò un pesante sospiro, come pesante era il macigno che si portava dentro. Claudio lo guardava, attentissimo.

"E come ogni battaglia, anche queste hanno i loro morti e i loro feriti. Li ho visti, sai? E alcuni li ho pure arrestati..."

Proseguì il poliziotto scuotendo poi il capo, affranto.

"Molti di loro sono dei ragazzini, Claudio, ma pensano di essere adulti. Hanno l'età di Sara, o magari sono anche più piccoli, ma per giocattoli hanno coltelli e pistole. Si riempiono la bocca di parole come onore e vendetta, pensano che siano degli ideali giusti per i quali dare la vita e poi muoiono e non sanno nemmeno loro perché, ma hanno paura, tutti. Tornano ad essere ragazzini quando ormai, spesso, è troppo tardi."

La voce, bassa, era piena di dolore e tristezza. Era straziante vedere quelle vite spezzarsi nelle stesse strade in cui la sua vita aveva preso forma, tra un tiro ad un pallone ed una corsa a perdifiato, e che ora si tingevano di sangue.

Claudio ascoltò quelle parole sentendo una morsa stringersi sempre di più intorno al proprio cuore. Non aveva una reale conoscenza di quel mondo, ne aveva solo sentito parlare ai notiziari o letto sui giornali, ma capiva quanto l'altro vi fosse legato e quanto ci tenesse.

"Mi dispiace, non so cosa dire, solo che...che non è giusto."

Mormorò, rendendosi conto da solo di quanto ridicole fossero quelle parole di fronte alla sofferenza che vedeva negli occhi dell'amico. Domenico gli rivolse un dolce sorriso e portò una mano sopra le coperte, all'altezza del suo braccio, per accarezzarlo.

"Non ti dispiacere, hai ragione a dire che non è giusto."

Sospirò.

"Però a volte qualcosa di giusto succede, sai? A volte riusciamo ad intervenire in tempo o addirittura prima che accada qualcosa di irreparabile e li salviamo. Certo, la parte difficile viene dopo perché non è facile farli uscire da quei giri, non conoscono altro e spesso sono loro stessi a non volerlo fare, ma con un po' di impegno ci si riesce."

Il suo sorriso si fece un po' più ampio, un po' più sicuro, ripensando alle volte in cui aveva visto quei ragazzini, che potevano davvero essere suoi fratelli minori, riaprire gli occhi in ospedale, confusi ma vivi, e a come quegli sguardi ostili al momento del fermo si erano già trasformati in timidi sorrisi quando, un po' di tempo dopo, passava a fare un controllo presso le strutture a cui venivano affidati.

Claudio recuperò un piccolo sorriso sull'angolo delle labbra, perché sapeva quanto fare la cosa giusta fosse importante per Domenico, sapeva quanto ci tenesse ad aiutare gli altri e sapeva anche che questi ragazzini erano fortunati ad incontrare lui sulla loro strada.

"Ah, se c'è qualcuno che può salvarli, quello sei tu."

Disse con sicurezza e Domenico scosse il capo, umile. Non era certo tutto merito suo.

"Io faccio la mia parte, ma come tutti i miei colleghi..."

Si schiarì la voce.

"…beh, più o meno tutti. Ma comunque, non sono l'unico che fa il suo dovere."

"Questo non lo metto in dubbio, ma tu non sei come gli altri poliziotti. Innanzitutto sei rassicurante, che non è una qualità che molti dei tuoi colleghi hanno, e ti assicuro che per un ragazzino spaventato e confuso non è poco."

Cominciò Claudio, e ovviamente parlava per esperienza. Se avesse potuto gli avrebbe prestato i propri occhi per fare in modo che si vedesse come faceva lui, ma non potendolo fare, decise di ricorrere alle parole.

"In secondo luogo, tu non lo fai per senso del dovere, perché altrimenti ti atterresti al vostro codice e basta, invece vai oltre! Tu lo fai perché ci credi davvero e se non ci riesci ci stai male per giorni senza darti pace! Anche adesso, mi parli di questi ragazzini e io lo so che tu ti getteresti nel fuoco, se fosse necessario ad aiutarli! In quanti dei tuoi colleghi lo far-"

Continuò con foga, troppa foga, infatti fu preso da un violento attacco di tosse. Domenico, che fino ad un attimo prima stava sorridendo timidamente per quelle parole così belle, scattò accanto a lui, preoccupato, lo aiutò a mettersi seduto e a mantenersi dritto, reggendolo con un braccio intorno al corpo.

"Piano, dai, calmo..."

Mormorò, in attesa che l'episodio passasse. Claudio, quando riprese il controllo del proprio respiro, accennò un sorriso colpevole.

"Mi sono lasciato prendere dalla foga oratoria, scusa, però era tutto sincero."

Disse, con voce gracchiante a causa della tosse. Domenico gli fece una carezza sull'avambraccio, strofinando più volte la mano.

"Ah, si sentiva che era sincero e si sentiva anche l'oratoria!"

Commentò, divertito e riconoscente.

"Queste cose me le dice sempre anche Sara, sai?"

Aggiunse, e Claudio fece una risatina fioca, ma i suoi occhi brillavano allegri.

"Tua sorella è molto saggia, dovresti darle più ascolto."

"Ma non è che vi siete messi d'accordo?"

Replicò Domenico, sarcastico, sollevando un sopracciglio.

"No, no, è solo che le grandi menti pensano allo stesso modo!"

Rispose Claudio usando il suo stesso tono, per poi cominciare a schiarirsi prepotentemente la gola, che gli prudeva e bruciava in modo insopportabile.

"No, non fare così che è peggio. Ti vado a prendere lo sciroppo, aspetta un attimo."

Disse premuroso Domenico, che proprio non ce la faceva a vederlo così, prima di andare in salotto per recuperare la medicina. Claudio buttò giù lo sciroppo senza protestare, aveva anche un sapore gradevole, vagamente fruttato, sentendosi subito meglio.

"Tu hai un cuore buono, Domenico, non dubitarne mai. Me lo prometti?"

Mormorò, il viso disteso in un sorriso sereno.

Domenico era abituato a ricevere complimenti, ma quelli di Claudio gli facevano un effetto unico, forse per l'intensità del suo sguardo e la morbida sicurezza della sua voce, o forse perché erano sinceri e senza secondi fini, ma in ogni caso lo scaldavano come un fuoco, fino a fargli arrossire le guance. Annuì per rispondergli, comunque, ricambiando il sorriso.

"Va bene, te lo prometto. Tu però adesso mettiti giù e dormi, ok?"

Claudio tornò a stendersi, abbracciando di nuovo Partenope che prontamente si era accoccolata accanto a lui, ma non chiuse gli occhi.

"Mi prometti anche che starai attento?"

Sussurrò, guardando l'amico con occhi preoccupati. Non poteva e non voleva chiedergli di smettere di fare il suo lavoro, ma la paura che gli succedesse qualcosa era una costante nel suo cuore, sempre in un angolino, pronta a fargli immaginare scenari tremendi. Domenico gli sorrise, rassicurante.

"Ti prometto anche questo. Fidati, non sono uno spericolato e non ho proprio intenzione di farmi ammazzare."

Disse divertito, ma con sguardo serio. Claudio sorrise, un po' più tranquillo, e annuì piano.

"E poi ho un portafortuna infallibile, non mi succederà niente."

Aggiunse mentre si sporgeva a rimboccargli le coperte, affettuoso, facendogli un occhiolino. Claudio si accigliò leggermente, incuriosito.

"La fortuna però non sempre basta..."

Domenico annuì, in accordo con lui.

"Infatti il mio portafortuna è infallibile proprio perché non si basa sulla fortuna."

"E quale sarebbe questo portafortuna infallibile? Il cornetto rosso che tieni attaccato alle chiavi?"

Domandò Claudio, con una punta di sarcasmo, e Domenico scosse il capo, ridacchiando.

"Ah, anche quello non è da sottovalutare, ma io parlo di un'altra cosa."

Fece una piccola pausa, il tempo di prendere un respiro profondo.

"Il mio portafortuna sono i tuoi occhi blu."

Sussurrò morbidamente, e un caldo sorriso si formò subito sulle proprie labbra. Era conscio del fatto che non fosse esattamente la tipica dichiarazione che fa un amico -per certi versi poteva essere anche rischiosa-, ma lui e Claudio avevano un rapporto diverso dalle altre amicizie e si dicevano tutto, quindi poteva dirgli anche questo.
Claudio sgranò gli occhi, sorpreso. Non si fece nemmeno prendere dal dubbio di essersi immaginato tutto perché quella risposta, anche se sussurrata, gli era arrivata forte e chiara alle orecchie, facendogli tremare il cuore. Per questo motivo, era altrettanto sicuro che non si trattasse di una battuta o di una presa in giro: Domenico era serio, glielo leggeva nello sguardo.

"Non so quanto ti convenga fare affidamento su di me. Il cornetto è decisamente più affidabile, in quanto a fortuna."

Mormorò, abbozzando un sorriso timido. Non era mai stato così importante per qualcuno ed era bello sentirsi dire una cosa del genere, ma Domenico aveva bisogno decisamente di qualcosa -qualcuno- di meglio.

"Ah, te l'ho detto, non è questione di fortuna..."

Replicò Domenico, un po' impacciato, prendendo ad accarezzare distrattamente la coperta per sfogare l'ansia. Non si stava pentendo, però, di avergli fatto quella confessione.

"È che i tuoi occhi mi aiutano a non fare cazzate, perché voglio rivederli e quindi...quindi sto più attento a ciò che faccio."

Spiegò, inciampando su quelle poche parole che sperava bastassero a spiegare ciò che provava nel suo cuore in tumulto.

Claudio, in un istante, si sciolse in un morbido sorriso e poggiò una mano sulla sua per fermare quel movimento agitato, sperando che in quel modo potesse placare anche l'agitazione del suo cuore che vedeva riflessa nelle iridi verdi. Non era sicuro di meritare tutta quella considerazione, ma era una responsabilità che accettava e che non avrebbe tradito.

"Anche io voglio rivedere i tuoi, lo sai, sì?"

Sussurrò, con affetto. Quegli occhi gli avevano cambiato la vita e lo aiutavano ogni giorno ed era giusto che l'altro lo sapesse.

Domenico recuperò il sorriso, dolce e luminoso.

"Un motivo in più per non fare cazzate."

Sussurrò, girando la propria mano con il palmo verso l'alto per trasformare quel tocco in una sorta di abbraccio, senza timori.

Le loro mani sembravano fatte per unirsi, ma anche per giocare come presero a fare dopo essersi scambiati uno sguardo d'intesa, attraversato da una luce fanciullesca: cominciarono ad inseguirsi, si allontanavano e si ricongiungevano per poi allontanarsi e ricongiungersi di nuovo, sempre, perché non riuscivano a stare lontane troppo a lungo; scivolavano leggere sulla coperta morbida come piume portate dal vento, in un gioco che non aveva vincitori o vinti, ma il cui premio erano le risate dei due ragazzi, cristalline e spensierate, che riempirono la stanza fin quando decisero di terminare quel gioco con la stessa naturalezza con cui l'avevano iniziato.

"Ci vediamo dopo allora, eh? Cerca di riposare anche tu..."

Mormorò Claudio, combattendo contro le palpebre che volevano abbassarsi a tutti i costi. Domenico sorrise intenerito e annuì, ma aveva già messo in conto di non dormire, quel pomeriggio.

"Sì, non ti preoccupare. Buon riposo."

Sussurrò, aggiustandogli le coperte. Claudio liberò un sospiro e si decise finalmente a chiudere gli occhi, sorridente.

"Buon riposo."

Replicò a bassa voce, cedendo infine alla stanchezza.

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Capitolo 32
*** Appendice, Capitolo 3 - È grazie a te che ho imparato a stare bene (parte 3) ***


Domenico non si mosse subito, restò accanto a lui fino a quando lo vide cambiare posizione, voltandosi a pancia in giù, e sentì il suo respiro regolarizzarsi, segni inequivocabili -lo aveva visto dormire così tante volte che oramai li riconosceva- che fosse scivolato in un sonno più profondo.

Si alzò lentamente e senza far rumore si avvicinò a lasciare una carezza leggera sulla testolina di Partenope -anche lei serenamente addormentata- e una sulla guancia di Claudio. Era davvero felice che quei due si fossero trovati, si facevano bene a vicenda. Rimase ancora qualche secondo in piedi lì accanto per fotografare con gli occhi quella tenera immagine, poi uscì dalla stanza e chiuse la porta dietro di sé, perché sapeva che Claudio non riusciva a dormire se restava aperta, anche se non conosceva il motivo.

Si spostò in cucina e lavò i piatti prendendosi tutto il tempo necessario, del resto non aveva alcuna fretta, e fu in quell'azione così quotidiana che, nel silenzio scandito solo dal rumore dell'acqua e dei piatti che toccavano tra loro quando li metteva ad asciugare, fu colpito dal pensiero che gli sarebbe davvero piaciuto vivere così.

Si lasciò andare ad una risatina che aveva un retrogusto amaro, ripensando a tutte le volte in cui lui e sua madre avevano discusso sull'argomento e lui aveva sempre ribadito con fermezza che fosse troppo presto per una relazione stabile, che per il momento volesse solo godersi la vita e tutta una serie di altre cose che adesso, con ancora l'immagine di Claudio addormentato davanti agli occhi, gli sembravano una marea di cazzate.

Sospirò profondamente, sforzandosi di spegnere quella fantasia che gli faceva pensare a lui e Claudio che mangiavano il pranzo o la cena che lui aveva preparato e che poi lavavano i piatti insieme, come vedeva fare ai propri genitori quando suo padre era ancora vivo, e poi andavano a riposare nello stesso letto, magari abbracciandosi, oppure che uscivano a fare una passeggiata, magari mano nella mano, accompagnando il tutto da qualche bacio sparso qua e là nei vari momenti della giornata...

"Smettiamola, la vita non è un filmetto romantico."

Si disse a bassa voce, per poi scuotere il capo. Non doveva assolutamente pensare a quelle cose, non avevano senso: vivevano vite troppo diverse, in due città distanti, e anche se nonostante ciò riuscivano a portare avanti un'amicizia, per una relazione non sarebbero bastati le telefonate quotidiane e uno o due incontri al mese. Una relazione di questo tipo sarebbe morta sul nascere e avrebbe seppellito con sé anche la loro amicizia, che era quanto di più bello gli fosse capitato nella vita e doveva tenersela stretta...lo doveva anche a Claudio.

Era decisamente meglio lasciare le cose come stavano anche perché lui non aveva mai avuto una relazione seria -anche se erano mesi che aveva smesso di frequentare persone in quel senso- e certo, aveva una vaga idea di come ci si comportasse, ma non era sicuro di riuscirci e Claudio, invece, aveva bisogno di qualcuno con cui potersi vedere ogni giorno, che sapesse esattamente cosa fare, che sapesse prendersi cura di lui nel modo giusto, che lo riempisse di quell'affetto che meritava tanto e che non aveva mai ricevuto...qualcuno che non era lui, insomma.

E poi, comunque, se anche avessero trovato il modo di funzionare con tutte le difficoltà del caso e se anche lui fosse stato il fidanzato ideale, c'era un fattore non da poco, da non trascurare: era abbastanza sicuro che a Claudio non piacessero i ragazzi. Gli aveva accennato ad una ragazza, una certa Elena, con cui era stato per un po', poi c'era il modo in cui era riuscito a tenere testa a Viola qualche mese prima, probabilmente perché era abituato ad avere molte ragazze intorno, ed infine le volte in cui era venuto a Napoli e per caso si erano trovati in compagnia di Silvia, lui gli era sembrato molto a suo agio con lei: rideva, scherzava, si lasciava accarezzare senza problemi, quasi sembrava un'altra persona, ma evidentemente gradiva la sua compagnia e le sue attenzioni. Per il resto non sapeva molto della sua vita sentimentale, anzi quando si toccava l'argomento Claudio trovava sempre un modo per sviare il discorso perché era comunque un ragazzo riservato, ma per quanto ne sapeva lui, Claudio era etero. Per tutti questi motivi, quindi, Claudio era irraggiungibile e doveva farsene una ragione, per il bene di entrambi.

Posò l'ultimo piatto al suo posto e poi si avvicinò al balconcino di cui aprì leggermente le ante, quanto bastava a creare un piccolo spiraglio. Aveva smesso di piovere, ma il cielo era ancora nuvoloso e grigio e l'aria era a dir poco gelida. Ciononostante, lui aveva bisogno di fumare e non poteva farlo in casa, anche se Claudio dormiva in un'altra stanza, lontana dalla cucina. Infilò automaticamente una mano nella tasca alla ricerca del pacchetto, ma non lo trovò e allora provò nell'altra, vuota anch'essa. Tornò all'ingresso, cioè praticamente in salotto, si avvicinò all'attaccapanni e frugò nelle tasche del cappotto, ma solo allora si rese conto che non aveva portato le sigarette con sé e liberò un profondo sospiro, chiudendo gli occhi per un istante. Non l'aveva fatto perché solitamente non sentiva la necessità di fumare quando era in compagnia di Claudio, come se il suo vizio andasse momentaneamente in pausa, eppure in quel momento una sigaretta era tutto ciò che ci voleva per distendere i pensieri.

Pensò di uscire un attimo a comprare un pacchetto, aveva visto un tabacchino giusto dall'altra parte della strada, ma poi pensò che Claudio non si sentiva bene e avrebbe potuto aver bisogno di lui proprio in quei pochi minuti, non voleva e non poteva lasciarlo solo, quindi accantonò subito quell'idea.
Andò allora in cucina e chiuse il balcone -era inutile far entrare il freddo-, poi di nuovo in salotto, dritto verso la libreria in cerca di una distrazione alternativa. Sapeva quanto Claudio tenesse ai suoi libri, che aveva organizzato con cura in base all'argomento -la sua libreria a Napoli, al confronto, era molto più disordinata-, ma non si era mai fatto problemi a prestarglieli -anzi, se li scambiavano continuamente- e sicuramente non si sarebbe arrabbiato se lui ne avesse preso uno per un po'. Scartò immediatamente i libri di Giurisprudenza, non erano proprio la lettura che cercava, e dopo una rapida occhiata preferì evitare anche i romanzi, non perché non gli piacessero -anzi- ma perché voleva qualcosa da poter finire nel tempo che Claudio avrebbe passato a dormire o che comunque avrebbe potuto interrompere in qualsiasi momento senza lasciar nulla in sospeso. Si concentrò dunque sui ripiani dedicati ai libri di poesie e tra i tanti catturò la sua attenzione uno di Catullo perché ricordava che a Claudio piaceva molto, mentre lui ne aveva solo qualche ricordo dalle lezioni di latino fatte a scuola.

Si sistemò sul divano e cominciò a leggere con curiosità e man mano che andava avanti scoprì -o meglio, ricordò- che la maggior parte di quei versi parlavano di un amore finito, il che era piuttosto ironico considerando che il suo cuore soffriva per un amore mai iniziato, ma ogni tre o quattro poesie si alzava per andare a controllare che Claudio stesse bene. Era quello il suo pensiero fisso, l'unica cosa che gli importava, specialmente dopo l'incubo che lo aveva disturbato quella mattina. Fortunatamente non ebbe bisogno di intervenire neanche una volta, Claudio dormiva sereno disteso a pancia in giù e Partenope era altrettanto tranquilla accanto a lui.

Dopo circa un paio d'ore, però, proprio mentre stava andando a dargli uno sguardo ancora una volta, lo sentì andare in bagno e, pensando che potesse sentirsi poco bene, lo raggiunse, trovandolo proprio nel momento in cui stava uscendo.

"Hey, tutto bene?"

Domandò, premuroso. Claudio annuì lentamente, accennando un sorriso e passandosi una mano tra i capelli arruffati. Erano un vero disastro.

"Sì, tutto a posto, dovevo solo...solo andare in bagno. Te, invece?"

Rispose con voce impastata, più addormentato che sveglio. Gli bastò un'occhiata un po' più attenta, giusto il tempo di mettere a fuoco, per capire che Domenico non stesse seguendo il consiglio che gli aveva dato: a differenza sua, infatti, aveva un aspetto fin troppo composto, per niente diverso da quello con cui l'aveva lasciato quando aveva chiuso gli occhi. Ormai lo conosceva abbastanza, e soprattutto lo aveva visto dormire un discreto numero di volte, da sapere che Domenico appena sveglio aveva gli occhi spenti fino a quando non beveva un caffè, un ciuffo in particolare di capelli che si alzava dispettoso, e che soprattutto non sarebbe mai e poi mai riuscito a dormire con il maglione ed i jeans che indossava, perché gli piaceva stare comodo quando riposava. Tutto ciò poteva voler dire una sola cosa.

"Non ti sei messo a riposare, eh?"

Chiese incrociando le braccia e sollevando un sopracciglio, anche se non era una vera domanda perché conosceva la risposta. Domenico fece una risatina colpevole, poi curvò le labbra in un mezzo sorriso e fece spallucce.

"Guarda che ci sono molti modi per riposare..."

Rispose, passandosi una mano sul collo.

"...io ho scelto di leggere un po'."

Claudio sospirò, ma poi gli sorrise e gli rivolse uno sguardo incuriosito.

"Che libro hai scelto?"

Non era affatto un problema, per lui, che Domenico avesse preso un libro senza il suo permesso -del resto i libri sono fatti per essere letti-, anzi gli faceva piacere. Domenico si schiarì la voce.

"Le poesie di Catullo."

Claudio sgranò leggermente gli occhi, sorpreso. Non ebbe il tempo di dire niente, però, perché subito Domenico riprese la parola.

"Tu invece tra tutti i modi che ci sono per riposare, devi proprio continuare a dormire. Devi recuperare le forze come Dio comanda!"

Disse un po' per sviare il discorso, ma soprattutto perché l'amico era ancora palesemente stanco. Claudio colse l'antifona e decise di non insistere, anche perché non aveva tutti i torti.

"Buon proseguimento di lettura."

"E a te buon proseguimento di sonno."

Replicò Domenico e così ridacchiarono insieme. Dopo un piccolo cenno di saluto si allontanarono in due direzioni opposte nel piccolo corridoio e Claudio, rientrato in stanza, chiuse la porta dietro di sé guadagnandosi un'occhiata luminosa di Partenope, i cui occhi luccicavano nel quasi totale buio della camera. Era stato attento a non disturbarla mentre usciva, ma evidentemente lei aveva captato comunque la sua assenza e si era allarmata. Lo fissava, ora, con quel suo musetto curioso e Claudio le rivolse un sorrisetto di scuse.

"Perdonami, non ti volevo svegliare..."

Si sedette sul bordo del letto e le fece una carezza per farsi perdonare, a cui la micia rispose strofinandosi contro la sua mano facendo le fusa. Il sorriso di Claudio si fece più allegro, più luminoso.

"Vieni, dai, torniamo a dormire..."

Le disse, spostandosi per mettersi disteso, anche se dubitava che lui ci sarebbe riuscito. Aveva dormito bene per un bel po' -due ore piene, stando alla sveglia sul suo comodino-, ma poi si era svegliato all'improvviso perché aveva bisogno del bagno e si era ritrovato con il naso tappato dal raffreddore e un mal di testa perforante che lo aveva lasciato immobile nel letto, talmente frastornato da non riuscire ad alzarsi subito. Forse esagerava, ma se c'era una cosa che proprio non riusciva a sopportare era il mal di testa, lo mandava totalmente al tappeto.

Sospirò, rassegnandosi all'insonnia nonostante la stanchezza, e sentì Partenope avvicinarsi e strofinare il capo contro il suo, delicata, prima di accoccolarsi accanto a lui. Era come se avesse capito che la testa gli facesse male, anzi Claudio era sicuro che l'avesse capito davvero, perché lei riusciva a capirlo sempre. La considerava una vera e propria amica e la sua compagnia era preziosa, ma non sempre bastava.

Nel tentativo di respirare meglio si girò su un fianco, verso il lato libero del letto, e lo trovò tristemente vuoto. Era così tutte le sere e ormai ci aveva fatto l'abitudine, ma quel vuoto pesava di più adesso che dall'altra parte del corridoio c'era una persona -l'unica- che avrebbe potuto riempirlo. Pensò a quanto sarebbe stato bello scambiarsi il primo e l'ultimo bacio della giornata -con tanti altri nel mezzo- proprio tra quelle coperte che adesso gli sembravano così fredde, ma che era certo sarebbero state calde e accoglienti se le avesse condivise con Domenico, e un sorriso amaro si affacciò sul suo volto.

Non era un esperto di relazioni, l'unica che forse poteva definire tale era stata quella con Elena, una ragazza della sua classe -molto carina, anzi proprio bella, con i suoi lunghi capelli biondi che circondavano un viso morbido e sempre sorridente, impreziosito da due occhi azzurro chiaro-, ed era stata un totale disastro. Lei si era dichiarata durante le vacanze estive tra il quarto e il quinto anno, e lui -col senno di poi- era stato parecchio stronzo ad accettare, dal momento che aveva già capito di essere gay. Lo aveva fatto solamente perché i suoi genitori insistevano affinché si fidanzasse e sperava che in questo modo lo lasciassero in pace, come in effetti era stato. Suo padre e sua madre erano entusiasti di quella relazione -che andò avanti per quasi un anno- e lui tutto sommato non si lamentava perché Elena, oltre ad essere bella, era anche molto simpatica ed intelligente, era piacevole passare il tempo con lei.

Tuttavia, quando lui aveva preso coraggio e aveva fatto coming out, rivelandole anche di aver avuto qualche breve, brevissima relazione con dei ragazzi -solo prima di mettersi con lei, perché nonostante tutto non l'aveva mai tradita-, Elena si era sentita presa in giro e aveva reagito male, molto male. La capiva, però, e non gliene faceva una colpa, anzi pensava che forse la sua situazione attuale, con le sue difficoltà, potesse essere una specie di punizione per ciò che le aveva fatto, una punizione meritata.

In primo luogo c'era la distanza, che certamente poteva essere un problema, ma non gli faceva paura: gli sarebbe bastato anche vivere così per pochi giorni al mese perché ne sarebbe valsa la pena, sempre e comunque.

Il vero problema in quella sua fantasia, che non poteva essere trascurato e che l'avrebbe fatta rimanere tale, era però un altro, ben preciso: a Domenico non piacevano i ragazzi e di questo era sicuro. Gli piacevano le donne, e molto anche –‘troppo per avere una sola ragazza’, come gli aveva detto Silvia-, quindi doveva mettersi l'animo in pace, Domenico era irraggiungibile.

Forse sarebbe stato più facile riempire quel vuoto con qualcun altro di più disponibile -più raggiungibile-, come ad esempio Luca, un ragazzo che frequentava Giurisprudenza come lui e che gli aveva fatto capire chiaramente di essere interessato, ma non sarebbe stato giusto e, soprattutto, sapeva che qualsiasi altra relazione non sarebbe stata altrettanto bella, se lo sentiva dentro. Preferiva tenersi il vuoto, anche se questo voleva dire girarsi e rigirarsi nel letto alla ricerca di un sonno che non sembrava voler farsi trovare, pur di preservare l'amicizia che c'era tra lui e Domenico. Lo doveva ad entrambi.

Dopo un po' di tentativi vani decise di alzarsi, stanco e spossato da quel mal di testa che non accennava a diminuire -gli sembrava ci fosse un martello pneumatico che cercava di perforargli il cranio-, da quel respiro affaticato, quasi rantolante, che poteva passare solo attraverso la bocca -causandogli un fastidioso pizzicorio o a volte anche un vero e proprio bruciore alla gola- e da quel dolore sordo che sentiva un po' ovunque -quasi come un freddo glaciale che aveva preso possesso delle sue ossa-. Era inutile restare in quella stanza se non riusciva a riposare, e soprattutto non voleva rimanere in quel letto vuoto un istante di più, per cui si mise seduto lentamente, cercando di non alzarsi in maniera troppo brusca, e si prese qualche istante prima di mettere i piedi a terra. Infilò distrattamente la vestaglia e ciabattò lungo il corridoio -più freddo rispetto alla camera da letto- entrando in soggiorno accompagnato da Partenope che gli camminava accanto, per niente intenzionata a lasciarlo.

Domenico gli si avvicinò immediatamente quando lo vide arrivare, preoccupato dal modo in cui si trascinava -come se ogni passo gli costasse fatica-, dal suo aspetto stanco -eppure era sicuro che avesse dormito-, e dal suo pallore. Lo prese a braccetto per sostenerlo, gli sembrava che potesse cadere da un momento all'altro.

"Piano piano, dai..."

Lo condusse verso il divano, facendolo accomodare e aiutò anche Partenope a salirci. Claudio si aggrappò a lui, lasciandosi guidare, e un minuscolo sorriso fece capolino sulle sue labbra. Sapeva di essere in buone mani.

"Grazie."

Mormorò con voce flebile mentre si sedeva, guardandolo con gli occhi blu un po' spenti, ma grati.

"Lo sai. Adesso mi dici che tieni?"

Chiese Domenico dopo essersi seduto accanto a lui e alla micia, con gli occhi verdi pieni di dolcezza. Claudio liberò un profondo sospiro, per poi poggiarsi meglio allo schienale del divano, reclinando leggermente il capo.

"Ho il naso chiuso, la testa mi scoppia e mi fa male ovunque..."

Bofonchiò.

"E perché hai lasciato il letto, allora?"

Ribatté Domenico, a cui quelli sembravano tre validi motivi per restare sotto le coperte.

"Perché ho il naso chiuso, la testa che mi scoppia e mi fa male ovunque. È il mal di testa il problema principale..."

Rispose Claudio, lamentoso, per poi coprirsi il volto con le mani.

Domenico si ritrovò ad abbozzare un sorriso intenerito di fronte a quella specie di bambino ammalato troppo cresciuto e si sporse a sistemargli la vestaglia che evidentemente aveva indossato di fretta e che gli ricadeva lungo un braccio, in modo da farlo stare più caldo.

"È buon segno se ti fa male la testa, sai?"

Claudio, incuriosito, abbassò le mani per guardarlo.

"Illuminami, perché io non ci vedo niente di buono."

"Beh, vuol dire che ce l'hai ancora."

Disse Domenico, serissimo, ma dopo un istante Claudio scoppiò a ridacchiare e lui gli andò subito dietro.

"Sei pessimo, lo sai, sì?"

Gli fece notare Claudio, ancora con la risata sulle labbra. Domenico fece spallucce, gli occhi vispi e allegri per una felicità che non aveva niente a che fare con la propria battuta.

"Però intanto hai riso."

Claudio si stupì di quella risposta, era come se non si fosse accorto di aver riso, lo stava realizzando solo in quel momento. Solitamente quando aveva il mal di testa diventava intrattabile e non rideva mai.

"Adesso fammi sentire un po' se scotti, posso?"

Aggiunse Domenico, avvicinando una mano a Claudio, che così venne riportato alla realtà.

"Certo..."

Rispose a bassa voce, lasciandolo fare. Domenico gli scostò leggermente i capelli che gli ricadevano sulla fronte per poi toccargliela delicatamente. Era decisamente calda, troppo.

"Credo sia salita, ma è meglio se te la misuri."

Disse, abbassando la mano.

"Intanto ti porto una medicina per il mal di testa, ok?"

Aggiunse, ma Claudio scosse il capo, rassegnato.

"No, è inutile, quella non fa mai effetto."

Domenico aggrottò le sopracciglia, confuso e preoccupato.

"È strano, però. Ma ti sei fatto controllare?"

Claudio annuì, lentamente. Aveva consultato più di un medico, aveva fatto tutte le analisi possibili, non aveva niente di fisico. Il problema stava nei pensieri.

"Sì, sì, non ho niente. È solo una reazione psicosomatica allo stress. Sai com'è, con gli esami..."

Spiegò muovendo vagamente la mano, anche se non era agli esami o allo studio che stava pensando quando gli era venuto mal di testa.

"Allora devi rilassarti."

Annunciò Domenico, più tranquillo, curvando le labbra in un sorriso morbido. Quella era la conferma che il suo amico si stancava troppo sui libri, si era spinto troppo oltre e il suo corpo gli aveva mandato un segnale. Per fortuna c'era lui a coglierlo.

"Misurati la febbre, io intanto ti preparo una tisana. Preferenze?"

Aggiunse, alzandosi. Claudio gli rivolse un sorriso riconoscente, davvero non sapeva come avrebbe fatto senza di lui.

"Stupiscimi."

Lo provocò scherzosamente, gli occhi luccicavano divertiti. Domenico ridacchiò abbassando leggermente il capo, preso in contropiede dal modo in cui il suo sguardo e la sua voce lo avevano attraversato, lasciando una parte di loro dentro di lui.

"Farò del mio meglio."

Così dicendo si spostò verso la cucina e Claudio si voltò a guardarlo, accennando un sorriso.

'Ti basta davvero poco, credimi.', pensò, prima di prendere il termometro e misurarsi la temperatura, sbuffando quando lesse il risultato.

Domenico tornò poco dopo, portando con sé due tazze fumanti. Si era messo a leggere le proprietà di tutte le tisane che l'amico teneva in cucina, alcune delle quali non conosceva, per selezionare accuratamente quale preparare. Era abbastanza sicuro della propria scelta, per cui era entrato in salotto con un sorriso soddisfatto sul volto, che però si fece più mesto quando vide l'altro piegato in avanti, i gomiti poggiati sulle ginocchia, che si massaggiava le tempie con le dita.

"Hey?"

Lo richiamò a bassa voce, delicato, per non dargli fastidio. Claudio sollevò il capo verso di lui, sforzandosi di mostrargli un sorriso, anche se appena accennato, e prese la tazza che l'altro gli porgeva.

"Grazie."

"Ti fa molto male?"

Chiese Domenico, sedendosi accanto a lui. Claudio scrollò le spalle.

"Non ti angosciare, è solo che davvero non sopporto il mal di testa. E avevi ragione, comunque, mi è salita la febbre: è quasi arrivata a trentanove."

Spiegò, accarezzando distrattamente la superficie liscia della tazza che teneva tra le mani, poggiata sulle gambe. Domenico sospirò, pensando che se avesse potuto si sarebbe fatto volentieri carico di quel fastidio.

"Dopo ti prendi una Tachipirina, vedrai che si abbasserà. Intanto bevi quella..."

Accennò con il capo alla tisana, sorridendo incoraggiante.

"...dovrebbe aiutarti."

Claudio posò lo sguardo sulla bevanda calda, con curiosità.

"Che mi hai preparato?"

"Sei tu l'esperto, indovina."

Replicò Domenico facendo un po' lo sbruffone, pur essendo perfettamente conscio del fatto che l'altro avrebbe indovinato facilmente, e Claudio curvò le labbra in un piccolo sorriso sghembo.

"Va bene, vediamo un po'..."

Avvicinò la tazza al naso nel tentativo di cogliere l'aroma, ma senza successo. Se la portò allora alle labbra, ne bevve un piccolo sorso e dopo l'assaggio non ebbe dubbi.

"Valeriana."

Disse sicuro, e Domenico annuì ridacchiando.

"Ah, mannaggia, stavolta pensavo di avertela fatta e invece niente, non ti smentisci mai, neanche con la febbre!"

Esclamò sarcastico e Claudio ridacchiò, stanco ma divertito.

"L'hai detto tu, sono io l'esperto. Se non ricordo male, però, a te questa tisana non piace, avresti potuto sceglierne un'altra. C'era quella alla vaniglia, non l'hai vista?"

Domandò, ricordando che fosse il suo gusto preferito. Domenico scrollò le spalle, bevve un sorso dalla propria tazza -non era malaccio, in fin dei conti- e poi sorrise all'amico.

"L'ho vista, ma questa mi sembrava più adatta per il tuo mal di testa. Ci ho aggiunto anche un po' di miele, così ti si addolcisce la gola. Mia madre lo fa sempre, quando io e Sara stiamo male..."

Spiegò, e Claudio sorrise a quella piccola premura. Era davvero incredibile il modo in cui in ogni gesto di Domenico ci fossero cura e attenzione, anche in quelli più banali e apparentemente insignificanti. Aveva davvero il cuore più buono del mondo.

"Immagino di non poterti ringraziare, vero?"

Domenico scosse il capo, un sorriso affettuoso stampato sulle labbra. Gli era ormai chiaro da tempo che Claudio non fosse abituato a ricevere gentilezza ed era per questo che lo ringraziava in continuazione, anche per quelle piccole cose. Anche se ferito, aveva il cuore più bello del mondo.

"Non ci devi nemmeno provare. L'unica cosa che devi fare è pensare a stare meglio."

Disse prendendo la sua mano nella propria, giusto il tempo di stringerla, come se potesse in questo modo trasmettergli un po' di forza.

Claudio abbassò lo sguardo sulle loro mani e sorrise di nuovo. Gli veniva facile, quando stavano insieme.

"Facciamo un brindisi alla mia salute, allora?"

Propose scherzosamente, tornando a guardare l'amico. Domenico sorrise sghembo, divertito.

"Mi pare un'ottima idea."

E così fecero tintinnare le loro tazze, bevendo poi un lungo sorso ciascuno.

Il piccolo salotto, per un po', fu pieno solo di un silenzio caldo e confortevole come la tisana che riscaldava i loro corpi, e delle fusa di Partenope che, furbetta, si era distesa tra i due ragazzi per farsi coccolare.

"Comunque non pensavo fosse il tuo genere, sai?"

Mormorò Claudio accennando al libro poggiato sul tavolino e Domenico scrollò le spalle in risposta, poi si portò una mano tra i capelli per grattarsi distrattamente.

"Infatti non lo è, ma te ne ho sentito parlare così tante volte con Silvia che...beh, mi è venuta la curiosità."

Spiegò, con una punta di imbarazzo dovuta all'aver quasi origliato quelle conversazioni, anche se si trovavano nella stessa comitiva. Probabilmente adesso Claudio avrebbe pensato che fosse un impiccione e non avrebbe avuto nemmeno tutti i torti, ma cosa poteva farci se il suono della sua voce arrivava così chiaro e distinto alle proprie orecchie anche nel chiacchiericcio generale?

"Oh, bene, la curiosità è la linfa della vita!"

Rispose Claudio con voce bassa, ma da cui traspariva una certa allegria. Era piacevolmente sorpreso, in realtà, che Domenico avesse prestato attenzione a ciò che diceva -non erano in molti a farlo- e si sentiva lusingato per essere stato proprio lui a fargli nascere dentro quella curiosità.

"E che ne pensi?"

Chiese, di nuovo rivolto verso di lui.

Domenico accennò un sorriso, gli occhi puntati nella tazza di tisana mezza vuota, come se lì dentro avesse potuto trovare una risposta. In realtà non aveva bisogno di cercarla, sapeva cosa dire, ma così era più facile parlare.

"Penso che...che ci sono cose che non cambiano mai e l'amore è tra queste. È una favola bella che però fa male."

Rispose, liberando poi un profondo sospiro. Anche Claudio sospirò, ma dalla bocca perché aveva il naso chiuso.

"Io penso che ne valga comunque la pena, sai? Amare, anche se fa male."

Mormorò curvando le labbra in un mezzo sorriso, gli occhi blu puntati su quel ragazzo che era la sua favola bella.

"Secondo Catullo non è così, però. Lui arriva a chiedere agli dei di estirpargli l'amore dal petto, pur di non soffrire..."

Replicò Domenico, che in quei versi si era rivisto, almeno in parte. Non aveva mai provato amore, non nel senso romantico del termine, prima di conoscere Claudio e se da un lato era disposto a soffrire per quel sentimento non corrisposto -ne valeva la pena, su questo concordava-, dall'altro sapeva che in qualche modo doveva toglierselo dal cuore. Doveva rinunciare all'amore per non rinunciare a Claudio.

"Allora forse l'amore non cambia, ma cambia il modo in cui noi ci approcciamo ad esso."

Ribatté Claudio, che con Catullo proprio non concordava, non su questo. Lui aveva conosciuto l'amore quando aveva conosciuto Domenico e non avrebbe potuto rinunciare a nessuno dei due. Faceva male, certamente, ma il dolore era già parte della propria realtà, questo aveva soltanto un sapore più dolce. Rabbrividì, improvvisamente, e bevve un lungo sorso di tisana per scaldarsi.

Domenico se ne accorse, perché anche se non lo stava guardando direttamente era sempre pronto a tenerlo d'occhio, allora posò la tisana sul tavolino, si alzò e prese la coperta poggiata sullo schienale del divano, avvolgendola sulle spalle dell'altro per scaldarlo.

Claudio sorrise, istintivamente, pensando che sì, ne valeva decisamente la pena.

"Grazie."

Mormorò, e Domenico fece un cenno del capo.

"Non c'è bisogno, lo sai."

Disse, ricambiando il sorriso. Tornò a sedersi accanto a lui e riprese a parlare, stavolta con gli occhi verdi, mesti ma risoluti, fissi nei suoi.

"Sai qual è il fatto, Claudio? Che se ami davvero una persona, non vuoi farla soffrire. Vuoi proteggerla, vuoi che stia bene...amore e dolore non possono essere compatibili."

Ed era da questa sofferenza che voleva proteggere l'altro ragazzo, la sua favola bella, che ne aveva già conosciuta fin troppa, probabilmente più di quanto immaginasse. Era per questo che doveva chiudere da qualche parte ciò che provava per lui e non pensarci più.

"Beh, però se ami davvero una persona, non puoi farla soffrire. Catullo è stato sfortunato, si è innamorato di chi non ricambiava...ma se l'amore è ricambiato, non può esserci dolore."

Replicò Claudio, le labbra curvate in un sorriso malinconico. In parte parlava per esperienza perché anche lui, come Catullo, era finito in un amore non ricambiato, eppure Domenico gli dava così tanto anche solo con la sua amicizia che, a differenza di quanto aveva detto appena detto per il poeta, proprio non riusciva a ritenersi sfortunato.

Domenico scosse il capo, rassegnato, sorridendo amaramente. Non era così facile, non lo era per niente. Bevve un po' di tisana prima di rispondergli.

"A volte non è questione di amare o non amare. A volte ami, ma non sei capace di farlo...e fai solo soffrire chi ti sta accanto."

Claudio si accigliò leggermente, confuso. Il mal di testa, ancora prepotentemente presente, non aiutava a ragionare meglio.

"Perdonami, ma non capisco. Se ami, sei automaticamente capace di amare...proprio perché ami! È nel concetto stesso di amare."

Replicò, fermamente convinto di ciò che diceva. Non era ingenuo, sapeva che spesso le persone finiscono con il far soffrire chi dicono di amare, ma per lui quello non era amore. L'amore vero, nella sua forma più pura, era protezione, in questo concordava con l'amico, e quindi non portava dolore con sé.

Domenico scosse di nuovo il capo, sospirando. Non era semplice da spiegare.

"Intendo dire che a volte, anche se si è innamorati di una persona, non si sa amare perché non si ha mai imparato come fare."

Sollevò un dito per bloccare la sua obiezione prima che potesse pronunciarla.

"E non venirmi a dire che l'amore non ha una serie di regole, perché sai anche tu che non è così."

Claudio sgranò leggermente gli occhi, sorpreso. Davvero quel cuore così buono, che era in grado di dare a lui, un semplice amico, tutto quell'affetto -la cui ultima dimostrazione era la coperta che gli teneva al caldo le spalle-, credeva di aver bisogno di imparare ancora qualcosa? Era questo il motivo che lo spingeva ad avere tante ragazze, senza però restare con nessuna?

"Se ne sei proprio convinto...si è sempre in tempo per imparare però, no? Come per tutte le cose."

Gli disse, sorridendogli incoraggiante. Domenico scosse di nuovo il capo, respingendo quella possibilità. L'amore era un qualcosa di perfetto, procedere per tentativi era l'esatto opposto, non erano due cose conciliabili.

"No, non in questo caso. Imparare comporta fare errori e fare errori significa ferire l'altra persona..."

"In due, però, è più difficile sbagliare."

Ribatté subito Claudio, con dolcezza. Non voleva nel modo più assoluto che l'amico rimanesse da solo per un timore che non aveva senso di esistere, non lo meritava. Subito dopo aver espresso il suo pensiero venne scosso da una breve scarica di starnuti e Domenico, immediatamente, gli porse un fazzoletto.

"Scusami, qua mi sono messo a divagare e mi so' dimenticato delle cose importanti."

Mormorò, con occhi dispiaciuti e un sorriso piccolo, di scuse. Avrebbe dovuto semplicemente rispondere che il libro gli era piaciuto, senza andare oltre.
"Vado subito a prenderti la Tachipirina."

Aggiunse, alzandosi.

Claudio avrebbe voluto dirgli che anche ciò di cui stavano parlando era importante -anzi, più importante- e che senz'altro un giorno avrebbe incontrato una ragazza che gli avrebbe fatto cambiare idea -era sicuro che sarebbe accaduto, e quella ragazza sarebbe stata davvero molto fortunata-, ma non ne ebbe il tempo perché si era già allontanato. Capì che quel gesto era anche un modo per lasciar perdere il discorso e decise che non avrebbe insistito per riaprirlo, non sarebbe servito. Sospirò, facendo una carezza a Partenope che nel frattempo si era messa seduta, anche lei rivolta verso il corridoio.

"Come dobbiamo fare con lui, eh?"

Mormorò, e la micia rispose ricambiando la carezza, strofinando il musetto contro la sua mano, e Claudio accennò un sorriso.

"Mi sa che hai ragione, sì. Dobbiamo stargli vicino."

Domenico tornò con il bicchiere di medicina nel giro di poco e lo porse a Claudio -che lo svuotò in un paio di sorsi- con un mezzo sorriso. Era lì per prendersi cura di lui e basta, non doveva pensare ad altro, anche perché non c'era altro a cui pensare.

"Vedrai che tra un po' la febbre si abbassa. Come va la testa, invece?"

Claudio si lasciò andare contro lo schienale del divano, liberando un mugolio.

"Come prima, la tisana deve ancora fare effetto...credo ci vorrà un po'."

Rispose a voce bassa, curvando appena le labbra. Domenico, che avrebbe fatto di tutto per aiutarlo, prese coraggio, perché gli era venuta in mente un'idea.

"Sai...anche a Sara a volte vengono dei brutti mal di testa quando studia troppo, e ho imparato a farle delle carezze, una specie di massaggio, per aiutarla. Potremmo provare anche noi...sempre se ti va, naturalmente."

Propose, un po' impacciato, rigirandosi tra le mani il bicchiere vuoto che l'amico gli aveva restituito. Claudio, dopo qualche istante di sorpresa, allargò il proprio sorriso e annuì. Era proprio quella cura che rendeva Domenico perfettamente pronto ad amare, come faceva a non rendersene conto?

"Se per te va bene, io accetto molto volentieri, anche perché temo che l'unica alternativa rimasta sia la decapitazione e sinceramente non mi va di provarla."

Disse divertito, e Domenico ridacchiò a quella battuta.

"Sinceramente non va nemmeno a me. Troppo sangue, si farebbe un casino."

Replicò arricciando il naso con finto disgusto, e fu Claudio ora a ridacchiare.

"Che devo fare?"

Chiese, pronto ad affidarsi completamente a lui. Domenico fece un profondo respiro, per organizzare un attimo i pensieri.

"Per prima cosa vado a posare queste, torno subito."

Raccolse le tazze vuote e, insieme al bicchiere che già teneva in mano, andò a posarle nel lavandino in cucina per poi tornare in salotto.

"E adesso mettiti un attimo questo..."

Gli mostrò la confezione di Vicks che aveva portato prima con sé dal bagno.

"... così riesci anche a respirare meglio. Va bene?"

Claudio annuì di nuovo, gli sembrava decisamente un'ottima idea, e così si allentò la vestaglia e si sbottonò un po' il pigiama, liberando il petto nudo.

"Me lo passi?"

Chiese, allungando una mano per farsi dare lo scatolino. Fu in quel momento, mentre glielo porgeva, che Domenico notò una collana spuntare tra i lembi morbidi del pigiama, con un ciondolo che avrebbe riconosciuto tra mille, e gli venne spontaneo sorridere teneramente.

"Ma quella è...?"

Non ebbe bisogno di terminare la domanda che Claudio annuì, con lo stesso sorriso, e si sfilò la collana in modo che da un lato non gli desse fastidio mentre si spalmava la pomata e dall'altro non si sporcasse.

"Proprio lei."

Disse, porgendola all'amico. Domenico la prese con delicatezza e la osservò, rigirandosela in mano. Il ciondolo di quella collana era la pietra che aveva dato a Claudio la prima volta che erano stati al mare insieme, mesi prima. In alto era stato praticato un piccolo foro, in cui passava un cordoncino nero dall'aria resistente. 'La porta sempre con sé.', pensò, e al tempo stesso sentì un morbido calore nascergli dentro.

"L'hai davvero conservata?"

Mormorò, tornando a guardare l'altro.

"Non avrei mai potuto buttarla via."

Rispose Claudio con voce morbida mentre apriva la pomata, per poi cominciare a stendersela sul petto. Avvertì subito un piacevole odore di menta, abbastanza pungente da entrargli anche nel naso chiuso, e una sensazione di fresco sulla pelle.

"Il mare mi è mancato molto e questa pietra mi ha aiutato a sentirlo più vicino, come avevi detto tu."

Aggiunse, sorridendo a capo chino per seguire il movimento della propria mano. Aveva portato quel pezzetto di vetro da un gioielliere non appena tornato a Roma e da quel momento non era mai stato un giorno senza indossarlo. Spesso si ritrovava ad accarezzarlo con le dita o a stringerlo nella mano, e tanto gli bastava a riportare un po' di Sole anche nei giorni più bui.

Domenico si sentì un po' più sollevato sapendo che la sua idea avesse funzionato, ma sapeva anche che non era abbastanza. Avrebbe voluto poter fare di più.

"Anche tu sei mancato tanto al mare."

Disse, e Claudio alzò la testa verso di lui.

Si guardarono per qualche istante e fu chiaro ad entrambi che nessuno dei due parlava davvero del mare, o almeno non solo, e si sorrisero, perché non c'era bisogno di aggiungere altro.

Domenico, poi, prese con l'indice un po' di pomata e l'avvicinò al suo viso.

"Posso?"

Chiese, e l'altro annuì, anche se non sapeva cosa avesse in mente. Domenico, con tocco leggero, stese la crema sull'arco di Cupido del ragazzo, accarezzando la leggera barbetta che cominciava a spuntare.

"Ecco, così dovresti essere a posto."

Commentò soddisfatto mentre eseguiva l'azione. Claudio, di rimando, arricciò leggermente il naso, divertito più che infastidito.

Partenope, in quel momento, si avvicinò ad ispezionare la pomata, incuriosita ma diffidente, e gli occhi dei due ragazzi si spostarono su di lei.

"No, vedi che quello non è cibo per te."

Le disse Domenico, tranquillo, perché conosceva la gatta e sapeva che, oltre ad essere molto esigente su ciò che mangiava, non era incosciente. La micia, infatti, annusò la pomata e starnutì, infastidita dal forte odore, per poi ritrarsi emettendo un miagolio indignato. I due ragazzi ridacchiarono alla buffa scenetta, inteneriti.

"Sì, mi sa che l'ha capito."

Commentò Claudio, divertito, chiudendo la confezione.

"E certo! È gatta, mica è fessa!"

Replicò Domenico, altrettanto divertito, e intanto prese in braccio la gatta, dandole un piccolo bacio per farle passare il cattivo umore.

"Dai, dai, non è successo niente."

Le mormorò affettuoso, accarezzandola, e lei si rilassò tra le sue braccia nel giro di pochi secondi. Claudio li osservava sorridendo dolcemente, incantato da quel quadretto, dalla loro bellezza, dal calore che gli riscaldava il cuore.

"Che dici sirenetta, mi aiuti a far passare il mal di testa al nostro amico?"

Sussurrò ancora Domenico, indicando l'altro ragazzo con un cenno del capo e Partenope rispose con un miagolio limpido, guadagnandosi un altro bacetto.

"Possiamo?"

Domandò, rivolto verso di lui, avvicinandosi allo spazio vuoto sul divano e Claudio naturalmente annuì, senza smettere di sorridere.

"Certo che sì."

Rispose, spostandosi un po'. Domenico si accomodò, tenendo Partenope stretta a sé.

"Ok, adesso se vuoi puoi stenderti..."

Indicò le proprie gambe con un cenno del capo.

"...oppure, se preferisci, resta seduto. Come...come vuoi, insomma."

Disse impacciato, accennando poi un timido sorriso. Era stato lui a proporglielo e non era certo la prima volta che si trovava così vicino ad un ragazzo, ma con Claudio era diverso. Con gli altri ragazzi aveva sempre fatto del semplice sesso -bello, per carità-, mentre adesso stavano per approcciarsi a qualcosa che forse era ancora più intimo e lui non era abituato a quel genere di intimità. Oltre a questo, la paura di fargli male, in qualsiasi modo, era sempre presente, anche se era stato proprio Claudio, qualche ora prima, a dirgli che non aveva nulla di cui preoccuparsi. Tradire quella fiducia era proprio ciò che temeva di più.

Claudio si schiarì la voce, un po' per il mal di gola e un po' per darsi coraggio.

"Preferirei stendermi, ho dolore un po' ovunque..."

Rispose, a voce bassa. Da un lato era vero, quella febbre aveva portato con sé dei doloretti vari piuttosto fastidiosi, ma dall'altro non voleva perdere l'occasione di stare così vicino a Domenico, di poter finalmente sentire il calore del suo corpo, perché era sicuro che si sarebbe preso cura di lui nel modo giusto. Era anche un modo per fargli capire, poi, di essere capace di un'infinita dolcezza.

Domenico, senza esitare, si sistemò meglio sul divano, in modo da potergli fare da cuscino.

"Allora accomodati pure, tranquillo."

Gli disse, accompagnandosi con un piccolo cenno del capo. Claudio, allora, si mise disteso, con il capo poggiato sulle gambe dell'altro, coprendosi con la coperta che poco prima teneva sulle spalle. Soltanto un braccio spuntava fuori da quel morbido bozzolo, perché la mano gli serviva ad accarezzare Partenope.

Domenico si bloccò a metà respiro quando lo vide -o meglio, lo sentì- su di sé e solo quando, pochi istanti dopo, l'ossigeno riprese a circolare nei suoi polmoni si decise a sistemare Partenope, che ancora teneva tra le braccia, sul divano e lei naturalmente andò subito ad acciambellarsi in quello che ben presto era diventato uno dei suoi posti preferiti: il petto di Claudio.

"Comodo?"

Chiese Domenico a bassa voce, e Claudio annuì, sorridente. Non poteva trovarsi in un posto migliore.

"E tu? Peso?"

Domenico scosse il capo. Erano ben altri i pesi che doveva sopportare.

"Sei leggerissimo. Non ti preoccupare, sto comodo anch'io."

Rispose, curvando le labbra in un sorriso morbido. Con una mano andò ad accarezzare Partenope, aggiungendo le proprie coccole a quelle che Claudio le stava già facendo, e l'altra invece finì sui capelli dell'amico, accarezzandoli con leggerezza. Erano arruffati, ma morbidissimi, tanto da fare concorrenza alla pelliccia della gatta.

Claudio, quando avvertì quel tocco leggero, si lasciò sfuggire un ansito spezzato, di sorpresa. Domenico, allora, si fermò immediatamente.

"Qualcosa non va?"

Chiese, preoccupato, ma Claudio scosse leggermente il capo, le labbra curvate in un sorrisetto di scuse.

"No, no, anzi...sono io che non sono abituato, scusami."

Domenico gli rivolse un sorriso luminoso, caldo, e gli spostò un ciuffo di capelli dalla fronte con affetto.

"Non ti devi scusare, non è colpa tua, capito? So che per te è difficile, ma prova a spegnere il cervello per un po'. Cerca solo di rilassarti, adesso."

Il sorriso timido di Claudio si trasformò prima in una risatina bassa, ma sincera, e poi si fece più sicuro, più felice. Ancora una volta si sentiva capito.

"Grazie..."

Sussurrò, e Domenico scosse il capo.

"Non me lo devi dire, lo sai."

Vedendolo più tranquillo, riportò una mano sui suoi capelli e prese a muoverla dall'alto verso il basso, senza fretta. Pian piano approfondì il contatto, infilando le dita tra i capelli per massaggiargli la cute con piccoli movimenti circolari, estremamente delicati perché Claudio era prezioso e andava maneggiato con cura.

Claudio si rilassava sempre di più ad ogni carezza e non gli fu poi così difficile mettere da parte tutti i pensieri, dato che riusciva a concentrarsi solo su quegli occhi verdi che lo guardavano attenti, senza lasciarlo, e che gli davano tutta la serenità di cui aveva bisogno. Erano il suo posto sicuro in cui rifugiarsi, quegli occhi di bosco.

"Ti rilassi di più se chiudi gli occhi, sai?"

Suggerì Domenico, a bassa voce. Stava andando contro il proprio interesse, perché per lui poter perdersi in quel blu era un privilegio ed un piacere, si sentiva libero di nuotare in quegli occhi di mare, ma in quel momento era più importante che il suo amico riposasse.

Claudio rispose con una risatina breve, ma profonda.

"Ah, lo so bene...ma c'è anche il rischio, anzi la certezza, che io mi addormenti come un ghiro."

Domenico fece spallucce, non vedeva cosa ci fosse di male in quella prospettiva, anzi!

"Beh e che male c'è, scusa? Anzi è meglio, così recuperi un po' di forze e guarisci prima!"

Gli fece notare, per poi sorridergli. Claudio alzò gli occhi al cielo e subito dopo lo guardò indispettito, sollevando un sopracciglio.

"Di male c'è che ti conosco e so che non mi sveglieresti, rimarresti qui immobile con me che ti dormo a peso morto addosso per chissà quanto tempo! Guarda che conosco la sensazione, con Partenope succede sempre, solo che io a lei posso prenderla in braccio!"

La sua voce era sicura e negli occhi c'era una luce determinata.

 'Colpito in pieno.', pensò Domenico e poi, subito dopo, 'È proprio un avvocato.' mentre ridacchiava divertito per quell'arringa.

"Se la metti così, allora prometto che ti sveglierò, ma solo se tu mi prometti che dopo filerai di nuovo a letto."

Propose, sollevando leggermente le sopracciglia. Claudio, però, non era ancora del tutto convinto perché, come aveva detto, conosceva il proprio amico.

"E come faccio ad essere sicuro che non ti dispiacerai troppo e mi sveglierai?"

Chiese, inquisitorio. Domenico sospirò pazientemente.

"Perché il letto è più comodo del divano e perché non infrangerei mai una promessa."

Replicò con occhi limpidi, sinceri. A Claudio bastò uno sguardo per capire che stava dicendo il vero e annuì, soddisfatto.

"Va bene, andata."

Prima che potesse chiudere gli occhi, però, Domenico si premurò di aggiungere una cosa.

"E comunque non sfidarmi, guarda che vado in palestra, sarei perfettamente capace di prenderti in braccio!"

Esclamò in risposta, enfatizzando volutamente ciò che diceva per renderlo divertente, ed infatti Claudio ridacchiò.

"Ah, e ti alleni anche o ci vai e basta?"

Replicò per punzecchiarlo -era solo una presa in giro giocosa, in realtà aveva constatato con i propri occhi gli effetti di quell'allenamento sul fisico dell'amico-, con un sorriso sghembo da sbruffone e gli occhi vispi che, insieme, formavano una perfetta faccia da schiaffi.

Domenico liberò uno sbuffo di sorpresa, ma in fondo si aspettava che Claudio rispondesse alla provocazione, era un po' il loro modo di scherzare e lui adorava le sue risposte acute, che sapevano sempre colpire nel segno, ed il modo in cui lasciavano completamente disarmato chi non sapeva di doversele aspettare.

"Sì, mi alleno, ma non te ne do dimostrazione perché sei malato e mi dispiacerebbe infierire ulteriormente."

Ribatté, ma dietro al suo tono pungente si nascondeva una risata che scalpitava per uscire. Claudio aveva lo stesso problema, tanto che fu costretto a mordersi l'interno delle guance per non ridere.

"Ah, grazie, in effetti non ci tengo a finire con il culo a terra."

Commentò sarcastico, alludendo al fatto che l'amico non avrebbe avuto la forza necessaria a tenerlo sollevato. Bastò uno scambio di sguardi a far scoppiare a ridere entrambi, che finivano sempre così quando stavano insieme.

"Che dici, abbiamo finito di fare gli scemi?"

Chiese Domenico, con la voce ancora piena di quella risata e gli occhi verdi che luccicavano per la gioia. Claudio annuì mentre gli ultimi strascichi di quella felicità uscivano ancora dalle sue labbra.

"Direi proprio di sì!"

Rispose, con il fiato corto per il troppo ridere da un lato e per il raffreddore dall'altro. Gli occhi azzurri, però, brillavano felici e per Domenico non c'era niente di più bello che vederli così.

"Allora fa' il bravo, su, chiudi gli occhietti..."

Mormorò con tenerezza, un po' scherzoso, facendogli una carezza leggera sulla guancia. Claudio fece un profondo respiro e si prese ancora qualche secondo per contemplare quegli occhi verdi in cui vedeva la stessa felicità che sentiva dentro di sé e che li rendeva leggeri e più belli del solito, poi ubbidì e abbassò le palpebre.

"Mi raccomando, se mi addormento svegliami."

Domenico sospirò, pazientemente.

"Buon riposo, Claudio."

Sussurrò con voce morbida, per poi riportare la mano tra i suoi capelli e riprendere a fargli quelle carezze che sperava davvero lo aiutassero a stare meglio.
Claudio inspirò profondamente -l'odore di menta gli solleticò il naso, fu molto piacevole- e poi espirò lentamente, lasciandosi andare, lasciandosi accogliere, perché Domenico era accogliente e anche a distanza di mesi quella restava una delle parole più adatte a descriverlo. Le sue gambe, più comode di qualsiasi cuscino avesse mai provato in vita sua, erano lo spazio perfetto per la propria testa dolorante e il suo corpo, vicinissimo, lo riscaldava perfino più della coperta che teneva stesa su di sé, come un fuoco che scalda, ma non brucia, e tocca, ma non scotta.

Anche se teneva gli occhi chiusi, poteva avvertire la carezza del suo sorriso e dei suoi occhi, che erano in grado di farlo sentire la persona più importante del mondo quando si posavano su di lui, e sentiva le sue dita che si muovevano delicate, ma decise -non aveva idea di come fosse possibile- sulla sua pelle e tra i suoi capelli, come se sapessero esattamente quali punti toccare.

Forse in effetti era davvero così, perché nessuno lo conosceva bene tanto quanto lui e quindi non era poi così strano che fosse in grado di individuare dove gli facesse più male. Non si stupì quando cominciò a sentire quel dolore, fino ad un attimo prima così persistente, scivolare via senza insistenze, sostituito da una morbida sensazione di benessere che gli fece spuntare un sorriso beato sulle labbra, di cui nemmeno si accorse tanto si sentiva bene.

Domenico lo sentiva rilassarsi a poco a poco sotto il suo tocco, come accadeva con quei gatti sfortunati che la vita aveva maltrattato ma che meritavano solamente di ricevere affetto, e non poteva fare a meno di sorridere. Claudio era alto -più o meno quanto lui-, disteso occupava praticamente tutto il divano, eppure gli sembrava così piccolo mentre se ne stava quasi del tutto nascosto sotto la soffice coperta di pile blu decorata da stelle bianche, e gli tornò di nuovo in mente un angioletto dipinto, con i capelli che ricadevano in un composto disordine sulla fronte, quasi come piccole onde e le gote tinte da una punta di rossore, proprio come quelle di un putto, ora che aveva ripreso un po' di colore, probabilmente perché la medicina stava facendo effetto.

La cosa più bella da vedere, però, era la sua serenità, celata dietro le palpebre abbassate oltre le quali gli occhi non si muovevano agitati, come quando aveva un incubo. Per una volta, era contento di non poter immergersi in quel mare blu. Poteva sembrare che dormisse, insomma, ma c'erano le carezze lente e pigre che faceva a Partenope -e le loro dita di tanto in tanto si sfioravano e si accarezzavano- e quel morbido sorriso stampato in volto a tradirlo.
Domenico, però, era sicuro che a breve si sarebbe addormentato davvero, e per quanto ritenesse che dovesse riposare, aveva una promessa da mantenere...e c'era un letto molto più comodo nell'altra stanza.

"Come mai sorridi? Ti è passato il mal di testa?"

Mormorò con voce morbida, appena sussurrata.

"Anche, ma sorrido perché stiamo core a core."

Rispose Claudio a bassa voce, scoprendo che il sapore di quelle parole era tanto dolce quanto il loro significato. Avvertiva un certo torpore e sicuramente ciò rendeva più sciolta la lingua, più libera dai freni dei timori, ma era sicuro che anche se non avesse avuto sonno avrebbe comunque fatto quella piccola rivelazione. Era quello, dopotutto, il motivo per il quale gli era passato il mal di testa: una cura migliore di qualsiasi medicina.

Il sorriso di Domenico, se possibile, si fece ancora più luminoso, e il ragazzo sentì gli occhi inumidirsi, ma non di tristezza. Anche lui era felice di stare così, e tanto.

"Sto sorridendo anch'io, sai? Piace anche a me stare così, con te."

Confessò in un sussurro dolce che arrivò perfettamente alle orecchie di Claudio, nel silenzio ovattato della stanza.

"Sai qual è stata un'altra delle prime cose che ti ho detto?"

Chiese, riprendendo in parte ciò che si erano detti quella mattina, ma non diede all'altro il tempo di rispondere. Riaprì gli occhi, perché voleva guardarlo mentre glielo diceva.

"Ti ho detto che ero solo. Poi ho incontrato te e adesso non lo sono più."

Sussurrò, con uno sguardo dolcissimo ad accompagnare le sue parole, pieno di gratitudine e di affetto.

Domenico avvertì una stretta alla bocca dello stomaco quando si vide confermare ciò che aveva sempre temuto, e cioè che Claudio si sentisse solo, così tanto da trovare un amico in un perfetto sconosciuto in una circostanza improbabile, perché...non era giusto. Non sapeva come altro descrivere quella situazione e non riusciva a capire come mai nessuno, prima di lui, avesse voluto bene a quel ragazzo così buono. Prese la sua mano nella propria e la strinse leggermente, sorridendogli. Ci sarebbe stato per lui, sempre, in qualunque modo.

"Io ti prometto, Claudio, che non sarai più solo. Non ti lascerò mai."

Disse guardandolo dritto negli occhi, e Claudio ricambiò la stretta, sentendosi al settimo cielo.

"Anch'io ci sarò sempre, te lo prometto."

E così, occhi negli occhi, mare e bosco si incontrarono in un piccolo appartamento di periferia.

Restarono così ancora per un po', avvolti in un confortevole silenzio interrotto solo dai loro respiri e dalle fusa di Partenope, a cui le loro mani vicine, con i palmi rivolti verso il basso e le dita intrecciate, continuavano a dispensare piccole carezze con i pollici.

Domenico, intanto, aveva ripreso a tracciare quei morbidi cerchi tra i capelli di Claudio, anche se il mal di testa gli era passato, e Claudio si ritrovò, dopo diversi minuti, a dover combattere contro le palpebre che non ne volevano proprio sapere di stare sollevate, appesantite dal sonno. Domenico, al suo ennesimo tentativo, ridacchiò teneramente.

"Io ti ho fatto anche un'altra promessa, però, poco fa...e mi sa che è arrivato il momento di onorarla, eh?"

Claudio arricciò leggermente il naso, contrariato. Stava così bene, lì, non gli andava proprio di mettersi a letto, da solo...anche se l'aveva promesso.

"No, guarda che non sto dormendo! Sono sveglissimo!"

Esclamò, lamentoso. Domenico sollevò un sopracciglio, divertito.

"Ah sì, si vede."

Replicò, sarcastico. Prese Partenope in braccio, con delicatezza.

"Dai, avviati con lei, il tempo di mettermi qualcosa di più comodo e vi raggiungo."

Aggiunse, più dolcemente. Del resto, gli aveva appena promesso di non lasciarlo mai e aveva tutta l'intenzione di onorare quell'impegno.

Non fu necessario aggiungere altro, bastò un incontro di sorrisi, riflessi di due cuori felici, a dire tutto ciò di cui c'era bisogno.

Claudio si alzò, prese la gatta tra le braccia e si spostò nella propria stanza. Prima di mettersi a letto, però, preferì dargli una sistemata, anche se poteva sembrare un'azione inutile dal momento che a breve si sarebbero messi a dormire, ma non voleva che Domenico si ritrovasse a stendersi in un letto completamente disfatto. Solo dopo si mise a sedere sotto il piumone caldo, poggiando la schiena alla testata del letto, con Partenope subito accanto a lui, in attesa.

Domenico si diresse verso il borsone che aveva lasciato in un angolo del salottino, dove solitamente dormiva quando andava da Claudio, lo aprì e prese il pigiama e le pantofole, per stare più comodo. Nel farlo, vide anche una il regalo che avrebbe dovuto dare all'amico e, tutto sommato, gli sembrò un momento adatto per farlo, dato che stava un po' meglio. Si spostò in bagno, si preparò per la notte e ridacchiò guardandosi allo specchio: il suo pigiama, blu a rombi grigi, era un po' da vecchio -e sua sorella non mancava mai di prenderlo in giro per questo-, ma era un regalo di sua madre ed era anche molto morbido, due motivi che per lui erano più che sufficienti ad indossarlo. Tornò in salotto, mise da parte i vestiti che si era tolto, prese il pacchetto e si diresse verso la camera da letto. Prima di entrare, però, decise di nascondere il regalo dietro alla schiena, per fare un po' di effetto sorpresa. Appena mise piede nella camera, Claudio spostò subito lo sguardo verso di lui.

"Ah, eccoti! Cominciavamo a pensare che fossi rimasto chiuso dentro!"

Esclamò sorridente, ma poi si accigliò, incuriosito, quando si accorse che l'amico teneva le mani nascoste.

"Che tieni, lì?"

Domandò, facendo un cenno con il capo. Domenico ridacchiò, avvicinandosi di qualche passo, e il suo cuore cominciò a battere forte.

"Una cosa per te..."

Rispose timidamente, mostrando il sottile pacchetto di forma quadrata, avvolto da una carta blu mare. Claudio sgranò gli occhi, sorpreso, ma poi ridacchiò. Per fortuna era stato previdente!

"Non avresti dovuto, ma... anch'io ti ho preso un pensierino."

"Non avresti dovuto nemmeno tu."

Ribatté Domenico, divertito. Claudio reagì a quell'obiezione con un leggero sbuffo e si alzò per prendere una busta -chiusa con un bel fiocco verde foglia- che aveva posato nell'armadio. Tornò a sedersi sul letto e Domenico si sistemò accanto a lui. Si scambiarono i regali lì, un po' impacciati a causa dell'emozione, ma sorridenti.

"Chi apre per primo?"

Domandò Claudio, dato che nessuno dei due sembrava fare la prima mossa.

"Tu, mi pare ovvio!"

Rispose Domenico, deciso. Era abbastanza certo di essere andato a colpo sicuro con il regalo che aveva scelto, e proprio per questo voleva vedere la reazione dell'amico. 

"Ovvio?"

Ripeté Claudio, divertito. Domenico alzò gli occhi al cielo.

"Certo! Il tuo compleanno viene prima del mio e poi stai poco bene, quindi hai la precedenza! Dai, aprilo, su!"

Esclamò, impaziente. Claudio accennò una risatina e obbedì, strappando con delicatezza i lembi della carta, partendo da un pezzetto di scotch. Pian piano, venne fuori un grande quadrato bianco, sottile, con sopra i quattro Beatles in pose diverse vestiti di una mantellina blu, il nome del gruppo scritto in nero, in alto, e il titolo dell'album -Help!- un po' più in basso, a sinistra, in lettere bianche a contorno rosso. Quando capì che si trattava proprio di quel vinile, un grande sorriso luminoso gli riempì il volto e gli occhi blu, sgranati, non riuscivano a contenere la felicità che provava.

"Non ci credo! Ma come hai fatto a trovarlo? L'ho cercato ovunque!"

Domenico ridacchiò teneramente alla sua reazione stupita e felice, valeva decisamente tutti i giri che aveva fatto per trovare quel disco.

"Eh, non l'hai cercato a Napoli."

Rispose divertito, con un sorriso sghembo a curvargli le labbra. Claudio ridacchiò, poi indicò il regalo che gli aveva comprato con un cenno. Anche lui era andato sul sicuro con l'acquisto che aveva fatto, sperava solo di non essere stato troppo banale.

"Dai, adesso tocca a te."

Domenico, allora, aprì la busta cercando di non distruggerla e tirò fuori un maglione verde scuro, identico a quello che indossava quando aveva portato Partenope da Claudio e che lei gli aveva praticamente rubato, tirandoselo nella cuccia quando lui se l'era sfilato, e che ancora stava lì a farle da copertina. Lui, ovviamente, non aveva avuto cuore di riprenderselo, perché Partenope accoccolata nel proprio maglione era uno spettacolo tenerissimo e poi perché gli faceva piacere lasciarle un qualcosa di suo.

"Grazie, Claudio, è proprio identico! Sai che non sono riuscito a trovarlo da nessuna parte?"

Disse Domenico, accarezzando delicatamente la lana morbida, quasi con riverenza. Claudio colse la palla al balzo e gli rivolse un sorriso furbetto, obliquo.

"Eh, non l'hai cercato a Roma."

Rispose, ripetendo la sua risposta. Che poi, a dirla tutta, non aveva dovuto cercarlo più di tanto: l'aveva visto nella vetrina di un negozio un pomeriggio mentre tornava dall'università e subito gli era stato chiaro che avrebbe dovuto comprarlo.

Domenico lasciò andare uno sbuffo divertito, annuendo. Sì, avrebbe dovuto aspettarsi quella risposta.

"Va bene, avvocato, ho colto l'antifona. Vado a metterlo in valigia, prima che qualcuno decida di fregarsi anche questo."

Si rivolse verso la gatta che al momento, comunque, era molto più interessata alla busta che conteneva l'indumento: l'aveva rovesciata con una zampata e ci si era infilata dentro, suscitando una risatina intenerita nei due ragazzi.

"Mi poseresti anche questo, per favore? Sai dove va, no?"

Chiese Claudio, allungandogli il vinile. Domenico annuì e lo prese, sorridente.

"Certo che lo so, ti ho aiutato io a mettere a posto gli altri!"

Si allontanò il tempo necessario di sistemare il disco nel ripiano della libreria dedicato alla musica e il maglione in valigia, poi tornò in camera da letto. Vide che Claudio era ancora seduto e si accigliò.

"Che fai ancora così? Mettiti sotto le coperte, che prendi freddo!"

Esclamò preoccupato, ma con dolcezza, indicandolo con una mano. Claudio accennò un sorriso, timido. Avrebbe potuto inventare una scusa oppure non rispondere affatto, ma voleva essere sincero con lui, almeno su ciò che poteva.

"Aspettavo te."

Mormorò, quasi impercettibilmente. Domenico, dopo un istante di stupore, si ritrovò a sorridere e senza attendere -e farsi attendere ulteriormente- alzò un lembo del piumone e si distese. Claudio lo imitò dopo un istante e liberò un sospiro di sollievo, avvolto da quel piacevole calore, poi però fu scosso da un piccolo brivido per il passaggio dal freddo al caldo. Domenico, allora, con una mano gli rimboccò meglio le coperte, coprendogli per bene il collo.

"Hai freddo?"

Chiese, premuroso come sempre, e Claudio annuì appena. Sorrideva, però, perché adesso il letto non era più vuoto.

"Poco, e sicuramente ora mi passa."

"Se vuoi, puoi farti un po' più vicino. Giuro che non mordo."

Propose Domenico, sorridendo timidamente. Claudio fece una risatina, poi tornò a sorridergli.

"Core a core?"

Domandò retoricamente e Domenico ridacchiò, annuendo.

"Core a core."

E così dicendo si mise a pancia in su, in modo da dargli più spazio, e allargò un braccio per accoglierlo. Neanche il tempo di farlo, che Partenope si accovacciò su di lui, un altro dei suoi posti preferiti.

"Ma sì, tanto c'è spazio per tutti!"

Esclamò divertito e Claudio fece una risatina, per poi poggiare il capo sul suo petto, sentendo il pigiama morbido accarezzargli la guancia, ed abbandonarsi totalmente a quell'abbraccio caldo e accogliente. Gli stava affidando le sue cicatrici, anche se l'altro non poteva saperlo.

Domenico, dal canto suo, cercava di non stringerlo troppo, per non opprimerlo, ma nemmeno troppo poco, per non risultare freddo e distaccato. Voleva dargli la libertà di spostarsi, se ne avesse avuto bisogno, ma anche la sicurezza di poter restare lì per tutto il tempo che riteneva necessario.

"Comodo?"

Domandò, e Claudio sorrise.

"Comodissimo, e tu?"

Alzò lo sguardo verso di lui, per quanto gli era possibile, e Domenico ricambiò il sorriso.

"Comodissimo anch'io."

"Buon riposo, allora."

Sussurrò Claudio, che già cominciava ad avvertire di nuovo un certo sonno.

"Buon riposo anche a te."

Replicò Domenico, con voce altrettanto bassa, pensando che in effetti non sarebbe stata una cattiva idea dormire un po'.

Si scambiarono un ultimo, morbido sorriso e chiusero gli occhi, con le immagini di quella bella giornata che facevano capolino come tanti piccoli flash.

La festa più grande, il regalo più bello, però, era stare insieme.

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Capitolo 33
*** Appendice, Capitolo 4 – E ad amarmi un po’ di più (parte 1) ***


Roma, 24 Dicembre 2003
 
Claudio se ne stava seduto alla scrivania, intento a studiare per un esame che avrebbe dovuto dare a Gennaio, subito dopo le vacanze. Partenope, seduta sulle sue gambe, osservava con occhi attenti i movimenti della sua mano, che ogni tanto si spostava per sottolineare con la matita o con l'evidenziatore qualche concetto particolarmente importante. La casa sarebbe stata immersa nel silenzio più totale -del resto non c'erano altre persone lì con loro che avrebbero potuto disturbare- se non fosse stato per il vociare caotico e il rumore delle auto che venivano da fuori, ma del resto era la Vigilia di Natale ed era normale che in strada ci fosse un po' di confusione. Lui, invece, aveva trascorso tutto il giorno a studiare e adesso, alle cinque di pomeriggio da poco passate, poteva permettersi una pausa. Finì di leggere il paragrafo, chiuse l'evidenziatore e lo posò sulla pagina aperta, a mo' di segnalibro, poi si alzò in piedi dopo aver fatto cenno a Partenope di scendere a terra.

Si spostò in cucina con lei al seguito, chiaramente, e venne attraversato da un leggero brivido, perché era stato troppo fermo in un solo posto. Si preparò, allora, una tazza di thè caldo e, tenendola in mano, si avvicinò al balcone chiuso, mettendosi a guardare al di là del vetro: dalla sua posizione non riusciva a vedere le persone in strada -per farlo sarebbe dovuto uscire e ciò era fuori discussione per via della bassa temperatura esterna-, ma riusciva perfettamente a vedere le luci che decoravano i balconi e le finestre degli altri palazzi del quartiere, che spiccavano nel buio che cominciava a calare. Ce n'erano di vari colori, bianche, gialle, rosse, verdi o blu, alcune a luce fissa, altre lampeggiavano e potevano o mostrare sempre lo stesso colore oppure colori diversi, che si alternavano con fantasia. Anche le forme erano variegate, c'erano delle semplici strisce che decoravano le ringhiere, in orizzontale sul bordo o in verticale seguendo le sbarre, ma anche decorazioni vere e proprie appese alle pareti dei balconi, a forma di stella, di albero di Natale e perfino di presepe stilizzato, con la sola Natività. Gli piacevano le luci di Natale, gli davano un senso di calore, anche se solamente per qualche secondo, anche se era solo un'illusione.

Da qualche finestra, poi, intravedeva altre luci, immerse in stanze più o meno buie, quelle colorate degli alberi di Natale e ne fu uno in particolare ad attirare la sua attenzione, perché era più grande degli altri, almeno da quanto riusciva a vedere. Un sorriso amaro si fece largo sulle sue labbra mentre gli tornò alla memoria l'albero che, quand'era piccolo, svettava nel grande salotto di casa sua. Era un albero altissimo, immenso, o almeno così sembrava ai suoi occhi da bimbo, e lo decorava insieme ai suoi genitori, disponendo con cura e attenzione i piccoli frutti rossi che sua madre prediligeva al posto delle più classiche palline, i fiocchi di seta rosso scuro, le campanelle in ceramica che tintinnavano mentre le appendevano, i fili di luci ed infine il puntale, un angelo biondo vestito di bianco con le ali dorate, che suo padre gli faceva posizionare prendendolo in braccio. Sotto quell'albero, poi, si aggiungevano nuovi regali ogni giorno ed aprirli tutti insieme la mattina di Natale era una festa.

Allestivano sempre anche il presepe, che a differenza dell'albero era più piccolo, più discreto, si limitava alla grotta, posta sotto ad una specie di montagna su cui disporre qualche personaggio, e ad un po' di spazio intorno in cui mettere gli altri. I suoi pezzi preferiti erano le pecorelle perché, anche se erano in ceramica come tutte le altre statuine, avevano il manto realizzato in rilievo, come da tante piccole palline una vicina all'altra, ed era bello da sentire sotto le dita, sembrava morbido. Si divertiva a creare delle vere e proprie scenette, mettendone qualcuna in mezzo all'erba sintetica, come se stesse brucando, altre vicino ad una fontana, come se stessero bevendo, e altre ancora sparse sulla montagna o nascoste in qualche cantuccio, con i pastori che le cercavano o andavano loro dietro.

Erano stati dei bei momenti, quelli, almeno finché li aveva vissuti, perché il ricordo li aveva resi meno belli. Da qualche anno, infatti, i suoi genitori avevano smesso di aiutarlo e lui, pur di rivivere l'ombra di quelle emozioni, preparava da solo sia l'albero che il presepe, prendeva quei frutti finti che in realtà non gli erano mai piaciuti e quelle pecorelle avventuriere dal musetto simpatico che invece tanto adorava e si sforzava di non piangere mentre li sistemava.

Per questo motivo, quando l'anno precedente era andato a casa dei suoi genitori per trascorrere il Natale -e l'aveva fatto soltanto perché sua madre lo aveva pregato in ogni modo possibile-, pensava che non avrebbe trovato alcun tipo di decorazione in quella casa e invece si era ritrovato davanti ad un albero altissimo -sembrava immenso anche ai suoi occhi da ragazzo maturo-, completamente bianco e abbellito dalle solite decorazioni, mentre il presepe che ricordava non c'era più, era stato sostituito da un gruppo di statue, quasi a grandezza naturale, che riproducevano la Sacra Famiglia e qualche altro pastore, ma non c’era nemmeno una pecorella da accarezzare.

Aveva capito subito che quello era il modo dei suoi genitori -suo padre in particolare- di dimostrargli che le loro vite andavano benissimo anche senza di lui, anzi che andavano perfino meglio di prima, e ciò gli sarebbe dovuto bastare per fare dietrofront e tornare al suo appartamento -tra l'altro, non gli andava molto giù l'aver lasciato da sola Partenope, anche se sapeva cavarsela-, ma aveva deciso comunque di restare, per non cedere alle provocazioni.

La cena era stata un completo disastro, immersa in un silenzio glaciale interrotto soltanto da suo padre che, di tanto in tanto, tirava fuori qualche ragione per rimproverarlo o screditarlo, e lui sopportava in silenzio, cercando di non tradire alcuna emozione, anche se avrebbe voluto soltanto urlare e lanciare piatti in giro per il salone. Inevitabilmente il suo pensiero era volato a Domenico e questo un po' era riuscito a calmarlo, allontanandolo dalle parole di suo padre, perché sperava che almeno lui stesse trascorrendo un buon Natale. Aveva lasciato casa dei suoi poco la mezzanotte, non aveva intenzione di trascorrervi altro tempo, ed era esattamente per questo motivo che aveva rifiutato l'invito che gli avevano fatto anche quest'anno, dicendo che era troppo impegnato a studiare per poterci andare.

Era quasi arrivato a metà della sua tazza di thè quando i suoi pensieri vennero interrotti da un lungo miagolio di Partenope, la quale poi si allontanò verso la porta d'ingresso, e dal campanello che suonò un attimo dopo. Si accigliò leggermente, confuso.

"E adesso chi può essere?"

Borbottò tra sé e sé. Del resto era pur sempre la vigilia di Natale, chi poteva pensare a lui in quel momento? Forse, ipotizzò, poteva trattarsi della coppia al piano di sotto a cui aveva affidato una copia delle chiavi e che erano saliti un attimo a fargli gli auguri. Quando si avvicinò allo spioncino, però, non si trovò davanti un signore o una signora di mezza età e anzi, ciò che vide -'Non può essere, forse sto sognando.', pensò- lo spinse ad aprire la porta in una frazione di secondo.

"Domenico! Che ci fai qui? Ti aspettavo per il mese prossimo..."

Esclamò, con un'espressione di pura incredulità e gioia sul volto.

Partenope non si fece attendere e subito prese a fare le fusa, strofinandosi vicino a Domenico, il quale si chinò immediatamente per prenderla in braccio. Tornato su, sorrise sghembo all'amico, sollevando leggermente un sopracciglio. Anche i suoi occhi verdi brillavano di felicità.

"Sì, lo so, ma questa è una cosa chiamata sorpresa, Claudio, sono cose che si fanno."

Rispose, con una punta di ironia. Era per questo motivo che aveva preferito bussare, invece di usare le chiavi.

Claudio ridacchiò di gusto, spostandosi per farlo entrare.

"E non fraintendermi, è una sorpresa molto gradita...ma pensavo che il Natale si trascorresse in famiglia."

Il suo sguardo e la sua voce si tinsero di una sfumatura malinconica, che Domenico colse immediatamente. Posò il borsone a terra e andò un po' più vicino all'amico, sorridendogli morbidamente.

"Ed è per questo che sono qui."

Domenico aveva, effettivamente, sempre trascorso il Natale con la sua famiglia ed era sempre stata una grande festa per loro. I preparativi cominciavano dall'albero, che non era molto grande -lui lo superava in altezza di almeno una trentina di centimetri-, ma era pieno di decorazioni di ogni tipo, a partire dalle palline colorate, di varie dimensioni, passando per dei piccoli orsetti in plastica ma ricoperti di velluto, morbidissimi al tatto, che Sara adorava fin da quando era bambina, per poi arrivare ai suoi preferiti, una serie di piccoli strumenti in legno -arpa, cetra, violino, chitarra, tromba, ce n'era per ogni gusto!- che non suonavano davvero, ma erano fatti così bene che sembravano fare musica solo a guardarli. Il tutto, poi, era completato da un filo di luci dai colori allegri e da un puntale a forma di stella dorato che lui e sua sorella, di anno in anno, facevano a turno per posizionare.

Il pezzo forte del loro Natale, però, era il presepe, che richiedeva almeno due giorni per essere allestito del tutto! Montavano in soggiorno un tavolo apposito, che per il resto dell'anno se ne stava ripiegato nello sgabuzzino, e lo circondavano su tre lati con una carta lucida blu scuro piena di stelle, mantenuta da una sorta di impalcatura costruita da suo padre, anche questa tenuta da parte quando non serviva. Oltre alla classica grotta che ospitava la Sacra Famiglia, si sviluppava una vera e propria città con strade, case, botteghe e perfino una cascata -alimentata con acqua vera!- da cui partiva un fiume che si snodava lungo tutto lo spazio.

Ogni pastorello, poi, aveva il suo posto designato e qualcuno di loro era anche alimentato da un meccanismo che ne permetteva il movimento, ad esempio la lavandaia che lavava i panni al fiume, oppure l'avventore della locanda che si portava il bicchiere di vino alla bocca, o ancora il pizzaiolo che infornava la sua bella pizza Margherita -un tratto anacronistico, certo, ma che non poteva mancare-, e per quanto conoscesse quelle statuine da anni, non mancava mai di stupirsi per quella che continuava ancora a sembrargli una magia. Lui e Sara, da sempre, si divertivano anche ad inserire, nascosti qua e là, dei pupazzetti e delle macchinine, e i loro genitori invece si divertivano a scovarli, anche se non li toglievano mai.

Oltre a questo, anche la casa veniva riempita di decorazioni e avevano l'usanza di aggiungere ogni anno qualcosa di nuovo, solitamente comprato da suo padre, ma era Domenico che se ne occupava da quando lui era morto, ed infine preparavano tutti insieme i piatti tipici della tradizione, salati e dolci.

Eppure, nonostante tutto ciò, quest'anno aveva sentito di dover essere lui la famiglia di Claudio, di lasciare la propria -che poi, comunque, Sara e sua madre sarebbero state ospiti da una zia insieme a tanti altri parenti, quindi non sarebbero rimaste sole- e di andare da lui. Ci aveva già pensato l'anno precedente, ma prima che potesse proporglielo, Claudio gli aveva detto che sarebbe andato dai suoi genitori e lui aveva preferito farsi da parte, ma se avesse saputo come sarebbero andate le cose -Claudio non gli aveva raccontato i dettagli quando ne avevano parlato al telefono, l'unica volta in cui avevano tirato in ballo l'argomento, ma gli era bastato il suo tono per capire che la serata non fosse andata per niente bene- avrebbe decisamente insistito un po' di più. Questa era un'occasione per rimediare.

Claudio sentì il proprio cuore accelerare, scalpitare per uscire dal petto per quella risposta di cui coglieva l'implicazione -Domenico voleva essere per lui ciò che la sua famiglia biologica non era stata, stava mantenendo la promessa fatta mesi prima- e, non riuscendo a trattenere quel moto di gioia, gli si tuffò addosso, stando però attento a non schiacciare Partenope in braccio a lui.

"Sono davvero felice che tu sia qui."

Sussurrò, con la voce che quasi si spezzava per la contentezza, aggrappato al suo collo in un abbraccio.

Domenico rise affettuosamente a quella reazione così spontanea e così bella, e con il braccio libero lo strinse a sé, tenendolo per il busto.

"Anche io sono davvero felice di essere qua."

Mormorò a sua volta, e a riprova di ciò che diceva c'era un cuore altrettanto scalpitante.

Restarono così per qualche secondo, per il solo gusto di sentirsi vicini, poi Claudio venne attraversato da un lampo di realizzazione e sgranò gli occhi, allarmato, separandosi un po' per guardarlo.

Domenico, notando il panico nei suoi occhi, lo guardò preoccupato.

"Qualcosa non va?"

Chiese, gentile, e Claudio annuì rapidamente. Non aveva intenzione di festeggiare il Natale in grande stile e di certo non aspettava ospiti, quindi non aveva comprato niente per la serata!

"Sì! Tra poco i supermercati chiudono e io devo andare a fare la spesa, non ho praticamente nulla da offrirti!"

Esclamò agitato, liberandosi dall'abbraccio per andare ad infilarsi il cappotto.

Domenico scoppiò a ridere, poi lo guardò con tenero divertimento. Ovviamente, lui aveva già pensato a tutto!

"Invece non devi fare proprio niente, sono venuto preparato. Il cappotto però tienitelo, così mi aiuti a scaricare la macchina..."

Claudio, che già stava per uscire dalla porta di casa, si fermò di colpo e si voltò verso di lui, si liberò dell'agitazione con un sospiro e poi gli sorrise, rilassato.

"Domenico, se non ci fossi dovrebbero inventarti, grazie! Certo che ti aiuto, andiamo!"

Lo guardò con occhi che vibravano di gratitudine, per poi fargli cenno di seguirlo e avviarsi avanti.

Domenico quindi non ebbe il tempo di ribattere, ma poté nascondere il sorriso imbarazzato che gli era spuntato tra le guance improvvisamente arrossate a causa di quel complimento così inaspettato e, soprattutto, a causa di quello sguardo che lo aveva investito come un vento caldo, entrandogli dentro.

Arrivati fuori fece strada verso l'auto, parcheggiata poco distante, e Claudio sgranò gli occhi quando vide quanto fosse piena. Non che la cosa lo stupisse, conoscendo l'amico.

"Ma quanta roba hai portato?"

Esclamò con una punta di divertimento nella voce, notando sia gli scatoloni che le buste di cui era pieno non solo il portabagagli, ma anche i sedili posteriori.
Domenico si portò una mano sul retro del collo, abbozzando un sorrisetto.

"Credimi, è il minimo indispensabile. Ho pensato che servisse un po' di tutto e così..."

"...hai portato tutto."

Completò Claudio, sorridente. Gli era davvero grato per aver avuto quel pensiero.

Domenico dapprima annuì, con aria un po' colpevole, ma quando poi si voltò a guardare l'amico e capì che era contento, si sentì più leggero.

Liberarono insieme una piccola risata, che si perse nei rumori del quartiere in piena attività, ma al tempo stesso li sovrastò, almeno per quanto riguardava la loro bolla.

Ci vollero tre viaggi per portare tutto nell'appartamento di Claudio, considerando che il condominio non aveva l'ascensore e che le scale erano tante, e alla fine dell'ultimo, dopo aver sistemato in frigo il pesce da cucinare, i due ragazzi si concessero un attimo di sosta sul divano per riprendersi.

"Senti, ti va un thè? Lo stavo bevendo poco prima che tu arrivassi..."

Propose Claudio, gentile, e Domenico ovviamente annuì, perché gli erano mancati gli infusi del suo amico. Aveva preso l'abitudine di berne anche a Napoli, ma per qualche motivo non erano la stessa cosa.

"Volentieri, grazie."

Rispose, accarezzando Partenope che gli era prontamente salita in grembo.

Claudio allora si alzò e dopo qualche minuto tornò con due tazze fumanti, sedendosi di nuovo accanto all'amico. Con lui, quelle bevande calde, prendevano tutto un altro sapore.

"Ecco a te."

Disse porgendogliene una, che Domenico subito prese tra le mani e da cui respirò il profumo. Era sicuro che ci fosse dell’arancia, unita alla cannella e a qualcos'altro, forse della vaniglia...una miscela decisamente natalizia!

"Grazie."

Mormorò sorridente, bevendone poi un sorso. Era buonissimo.

Claudio lo imitò, portando la tazza alle labbra, ma senza distogliere lo sguardo dall'altro ragazzo. Era davvero felice che fosse lì.

"Com'è andato il viaggio?"

Domenico scrollò leggermente le spalle, facendo una piccola smorfia di noncuranza.

"Beh, c'era parecchio traffico, considera che sono partito stamattina dopo colazione e sono arrivato qua praticamente adesso, ma comunque niente di insopportabile."

Rispose, rivolgendogli un sorriso caldo. 'Non alla prospettiva di venire qui.', aggiunse dentro di sé.

Claudio si morse un labbro, allarmato, e sospirò. Non poteva permettere che, dopo quel viaggio così lungo, il suo amico si stancasse ulteriormente!

"Ma è terribile, devi essere esausto! Pensa a riposarti, ci penso io a sistemare le cose che hai portato..."

Cominciò a dire, ma Domenico lo interruppe scuotendo il capo e facendo una risatina. Certo, non poteva aspettarsi di meno da quel cuore gentile.

"Ti ringrazio, ma non c'è bisogno, non sono stanco. Sono abituato a certi ritmi..."

Replicò, tranquillo. Claudio, però, non trovava che quella fosse una ragione valida.

"E che c'entra, scusa? Lo so che con il lavoro che fai sei abituato a riposare poco, ma adesso che puoi dovresti approfittarne!"

Domenico ridacchiò nuovamente, perché non era al suo lavoro che si riferiva, affatto.

"Guarda che io non sto parlando del mio lavoro, anzi quello sembra un villaggio vacanze in confronto a ciò che diventa casa mia in questo periodo. È lì che mi sono temprato!"

Esclamò, piegando un braccio per mostrare scherzosamente i muscoli.

Claudio liberò una risatina leggera a quel buffo gesto, ma non sarebbe bastato a farsi convincere.

"Non ci credo, dai, non puoi essere serio."

Domenico portò la mano libera sul petto, con fare teatrale, ma non per questo meno sincero.

"Te lo giuro su quello che vuoi, sembra di stare nell'officina di Babbo Natale! Tra addobbi, decorazioni e piatti da cucinare, i tempi sono serratissimi e deve tutto filare alla perfezione!"

Esclamò, con decisione.

"E poi non posso lasciarti addobbare casa tutto da solo, si perderebbe il senso del Natale, no? Dai, ti prego!"

Aggiunse, morbidamente. Lo sguardo, carico d'affetto, era riservato solo a lui.

Claudio si morse un labbro, perché non era in grado di resistere a quegli occhi languidi, così simili a quelli di un cucciolo implorante. Tanto gli era bastato a cedere, senza dignità.

"E quale sarebbe il senso del Natale?"

Chiese a bassa voce, un po' titubante. Non era sicuro di saperlo, forse un tempo lo conosceva, ma ora lo aveva dimenticato.

Gli occhi di Domenico si tinsero di una nota di malinconia a quella domanda, ma gli sorrise, luminoso e caldo, perché era pronto a dargli una risposta, a dirgli ancora una volta che non era solo.

"Stare insieme."

Rispose con semplicità, dandogli un buffetto affettuoso sulla guancia.

Claudio sentì la propria pelle farsi un po' più calda in quel punto e sollevò un angolo delle labbra, in un sorrisetto timido, ma pieno di gratitudine. Aveva trascorso tanti Natali da solo, ma adesso non lo era più.

"E va bene, d'accordo, lo facciamo insieme. Adesso però finiamo il thè, così ti riposi ancora un po', e se dopo ad un certo punto dovessi stancarti, me lo dici così facciamo una pausa."

Domenico annuì, sorridendo soddisfatto. Non poteva chiedere di meglio.

Si alzarono dopo una decina di minuti, una volta che le loro tazze furono del tutto vuote, e Claudio diede uno sguardo agli scatoloni che avevano portato su.

"Da quale cominciamo?"

Domenico, però, non si avvicinò a nessuno di essi, ma al proprio borsone.

"Aspetta, non avere fretta. Per prima cosa bisogna creare la giusta atmosfera."

Così dicendo, estrasse un cd da una delle tasche laterali.

"Posso?"

Chiese, indicando lo stereo con un cenno del capo. Claudio rivolse al disco uno sguardo incuriosito e sorrise quando vide la copertina rossa con un albero decorato, che non lasciava spazio a dubbi circa il suo contenuto. Annuì, aprendo platealmente un braccio in direzione del proprio stereo, per invitare così l'amico a fare ciò che voleva.

"Prego!"

Domenico fece una risatina, divertito da quel gesto -ma soprattutto felice di sapere che Claudio fosse abbastanza sereno da mettersi a scherzare un po'-, ed andò ad inserire il disco nel macchinario, regolandone il volume perché non voleva che la musica andasse a sovrastare le loro voci, doveva essere solo un accompagnamento. Le prime note -anzi, le prime campanelle- di Jingle Bells cominciarono a farsi strada nella stanza e i due ragazzi si scambiarono un sorriso il cui calore dipendeva solo in parte dall'atmosfera che si stava creando.

"Andiamo sul classico, eh?"

Domandò Claudio, scherzosamente. In realtà a lui piacevano molto le canzoni natalizie, ma era da parecchio che non le ascoltava, perché avevano cominciato a fargli venire un forte senso di nostalgia, lo intristivano. Almeno fino a quel momento.

Domenico ridacchiò e scrollò le spalle, leggero.

"Eh, i classici non tramontano mai, è per questo che si chiamano così. Si potrebbe dire che sono sempreverdi come l'abete che stiamo per montare!"

Rispose con entusiasmo, gli occhi vispi e il sorriso furbo di chi era molto orgoglioso del suo gioco di parole.

Claudio fece uno sbuffo divertito e poi alzò un sopracciglio, pronto a fare una precisazione.

"Ma scusa, non è di plastica?"

Domenico annuì con decisione.

"Certo! E proprio per questo è sempre-verde!"

Claudio, a quel punto, reagì con una risata spontanea, che non fu più in grado di trattenere, così forte che si ritrovò a portare una mano sulla pancia e a chiudere gli occhi, umidi di lacrime allegre. Solo con Domenico riusciva a ridere così di cuore.

Domenico non sapeva di essere l'unico a fargli quell'effetto, ma in ogni caso non gli importava: ciò che contava per lui era vederlo e sentirlo ridere, perché sapeva che c'erano state poche risate nella sua vita e non era giusto. In più, era così bello da fargli tremare il cuore.

"Ma questa te la sei preparata durante il viaggio, per caso?"

Domandò Claudio dopo qualche secondo, ancora piacevolmente scosso. Domenico scosse il capo e sorrise, sornione.

"No, no, è tutto talento naturale, il mio!"

Esclamò, fingendo di vantarsi. Claudio scosse il capo sollevando gli occhi verso il cielo, fingendosi esasperato, poi tornò a guardarlo.

"Pensiamo all'albero, che è meglio!"

Esclamò, indicando lo scatolone con un cenno della mano. Domenico si prese ancora un secondo per ammirare quegli occhi allegri, poi ridacchiò, soddisfatto.

"Agli ordini!"

Mimò un gesto militare, portandosi il palmo aperto in orizzontale alla tempia, per poi spostarsi e chinarsi accanto al lungo scatolone. Claudio non poté fare a meno di ridacchiare di nuovo, come se avesse necessità di recuperare tutte le risate che non l'aveva fatto nelle settimane in cui non si erano visti.

"Ma che hai, oggi? Non è che sei ubriaco?"

Domandò scherzosamente, avvicinandosi a lui e mettendosi in ginocchio a sua volta per aiutarlo. Domenico scosse il capo, divertito.

"Sono solo felice."

Rispose, con un morbido sorriso che Claudio subito ricambiò.

"Lo sono anch'io."

Si scambiarono uno sguardo e il sorriso sui loro volti divenne il Sole che risplendeva tra le fronde degli alberi del bosco verde e sulla superficie cristallina delle onde del mare blu. Luminosi, questo erano insieme.

Stracciarono lo scotch che teneva chiuso lo scatolone sotto la supervisione di Partenope, che intanto si era avvicinata e aveva cominciato a studiare incuriosita quell'oggetto, sfiorandolo con il muso o con una zampa, ed infatti non appena tirarono fuori tutti i componenti dell'albero lei ci saltò dentro, causando la risata intenerita dei due ragazzi. Prese ad esplorare un po' quel lungo scatolone, sotto lo sguardo incuriosito dei suoi padroncini, andando avanti e indietro più di una volta, ma alla fine così come vi era entrata ne uscì.

"Che c'è, non è di tuo gradimento?"

Chiese scherzosamente Claudio, le labbra curve in un morbido sorriso, e Partenope gli rispose con un miagolio deciso.

Domenico ridacchiò dolcemente a quel tenero scambio: era meraviglioso il legame che si era formato tra loro, era a conoscenza di quanto fosse prezioso per Claudio e, ne era certo, anche per Partenope.

"È troppo grande e ai gatti piacciono gli spazi piccoli."

Spiegò all'amico, per poi voltarsi verso la micia.

"Non ti preoccupare, ti rifarai con la scatola delle decorazioni, abbi pazienza."

Le disse sorridente e la gatta, allora, miagolò di nuovo e si acciambellò vicino a loro, in attesa.

Claudio rivolse ad entrambi uno sguardo intenerito, il suo cuore non poteva essere più felice all'idea che il loro legame fosse rimasto intatto, nonostante la distanza: sapeva che per Domenico era importante e, immaginava, lo fosse anche per Partenope.

I due ragazzi ebbero adesso modo di sistemare la base dell'albero, montarvi sopra i tre piccoli pali che formavano il tronco e che incastrarono uno sull'altro ed infine i vari rami, che infilarono negli appositi sostegni e che presero ad allargare con pazienza, in modo da dare all'albero un aspetto più naturale. Forse un po' troppo naturale, perché Partenope, mossa dal suo istinto, si era avvicinata e aveva preso a giocherellare con uno di quei rami, in piedi sulle zampe posteriori, acchiappandolo con le anteriori ed era quasi come se stesse seguendo il ritmo di Jingle Bells Rock, proveniente dallo stereo. Domenico e Claudio si scambiarono uno sguardo e tanto bastò a decidere di lasciarla fare, anche se sapevano che non avrebbero dovuto, ma era bello vedere che nonostante l'età abbastanza avanzata la loro micetta avesse ancora tutte quelle energie.

"Ma guarda qua che tigrotta!"

Commentò Claudio con voce carica d'affetto e Domenico annuì, accennando un sorriso morbido.

"In piena regola! E con le palline, ci sarà da divertirsi..."

Ridacchiò, teneramente.

"A questo proposito, direi di non mettere le lucine sull'albero, così non rischiamo che le mangiucchi."

Aggiunse, più serio.

"Ma figurati, per me non c'è problema! Tanto, la lucina più luminosa è lei!"

Replicò Claudio, con allegra dolcezza. Domenico sollevò un sopracciglio, divertito.

"E tu questa te la sei studiata stanotte?"

Chiese con una punta di ironia, cogliendo l'occasione per riprendere le parole che l'altro gli aveva rivolto poco prima, anche se doveva ammettere -ma non era difficile farlo- che il paragone calzava a pennello.

Claudio ridacchiò, riconoscendo il suo intento, e scosse il capo.

"No, il mio è un talento naturale!"

Domenico liberò una risata cristallina, di cuore, che gli fece reclinare il capo all'indietro e scoprire i denti bianchissimi, e Claudio avvertì distintamente un sussulto al cuore dinanzi a quello spettacolo, che per lui era facilmente uno dei più belli -se non addirittura il più bello- offerti dalla Natura.

"E allora, visto che sei così bravo con le parole e hai la stoffa per fare l'avvocato, almeno a Natale evita di studiare, ok?"

Disse Domenico tornando serio, ma comunque con dolcezza. Non gli era sfuggito il libro aperto sulla scrivania del salotto e si preoccupava che l'amico si stancasse eccessivamente.

Claudio, che da quando Domenico era entrato in casa si era completamente dimenticato di avere un capitolo da finire, venne improvvisamente colpito da quella realizzazione e sospirò pesantemente, chiudendo gli occhi per un istante, ripromettendosi di recuperare tutto il prima possibile.

"Beh, tanto, prima che arrivassi tu, non è che avessi chissà cos'altro da fare...mi stavo portando un po' avanti."

Cercò di usare un tono più neutro possibile, in modo da celare l'amarezza dietro la propria affermazione perché non voleva né appesantire il momento né che l'amico si preoccupasse e, per lo stesso motivo, teneva gli occhi fissi sui rami davanti a sé, che stava ancora sistemando.

Domenico, tuttavia, colse quei sentimenti che l'altro tentava di nascondergli perché lui quegli occhi azzurri li cercava, sempre. Lasciò andare un pesante sospiro, che rivelava tutta la sua preoccupazione.

"I tuoi genitori non si sono fatti sentire?"

Chiese, ma il suo non era un tentativo di cercare di ricongiungere il figlio ai genitori, anzi. Sapeva benissimo che per lui era meglio stare lontano da quella famiglia che non lo amava -come fosse possibile, poi, proprio non riusciva a capirlo!-, voleva solo essere sicuro che lo avessero lasciato in pace.

Claudio fece un piccolo sbuffo, amaro più che divertito, e annuì appena, perché tanto Domenico aveva già capito -ed era già preoccupato!-, quindi era inutile continuare a fingere.

"Certo, mi hanno invitato a passare di nuovo il Natale a casa loro, ma dopo quello che è successo l'anno scorso..."

Si morse un labbro, lasciando in sospeso la frase: non c'era bisogno di continuarla e, anche se avesse voluto, non ce la faceva. Il solo ripensare a ciò che era successo gli faceva ribollire il sangue nelle vene, di rabbia, sì, ma anche di un’altrettanto rovente vergogna. Si spostò, poi, per prendere la scatola con le decorazioni e poggiarla sul tavolino, in modo che fosse più vicina, e sfogò la sua frustrazione sullo scotch che la teneva chiuso e che tirò via con un gesto secco, nervoso.

Domenico lo seguì con occhi mesti, si sentiva terribilmente dispiaciuto. Sapeva benissimo che i rapporti tra Claudio e la sua famiglia non erano dei migliori, l’anno precedente avrebbe dovuto invitarlo comunque a passare il Natale con lui, perché forse l'amico aveva accettato quell'invito solo perché non ne aveva ricevuti altri e allora, pur di non restare da solo, era andato da quelle persone che non lo amavano e che Domenico sapeva lo avessero trattato male, anche se non conosceva i dettagli di quella serata.

"Mi dispiace, Claudio, davvero. Io...volevo chiederti di passare il Natale insieme l'anno scorso, ma poi tu mi hai detto che saresti andato dai tuoi e quindi non te l'ho chiesto più. Avrei dovuto insistere."

Mormorò, tormentandosi le mani.

Claudio sospirò, pensando che sì, il suo Natale sarebbe stato decisamente migliore se lo avesse trascorso con Domenico, ma poi gli rivolse un sorriso caldo, rassicurante, perché era esattamente ciò che stava accadendo adesso e non aveva senso rimuginare sul passato.

"Ma no, dai, tu non lo potevi sapere. Sono io che non ci sarei dovuto andare, sono stato stupido..."

Rispose, sperando in questo modo di riaccendere quegli occhi verdi così tristi e spenti, che invece meritavano di brillare.

Domenico, a quella risposta, avvertì un moto dentro di sé che in effetti portò nuova luce nei suoi occhi, una vera e propria fiamma.

"No, questo non lo devi nemmeno pensare! Sono loro, gli stupidi, a non volerti bene, non tu!"

Esclamò con fervore, tendendo un braccio verso l’esterno ad indicare ipoteticamente i genitori dell'amico.

Claudio quasi si sentì travolto da quella foga un po' inaspettata, ma in un modo piacevole, come quando si applica una pomata su un punto che fa male e dopo poco il dolore passa. Ecco, questo furono le parole di Domenico per lui: una pomata fresca su un dolore che lo divorava da tempo. Erano loro a sbagliare, non lui. Nessuno gliel'aveva mai detto, ma in quel momento capì che invece aveva un gran bisogno di sentirselo dire. Si schiarì la gola, cercando di mandare giù il groppo che sentiva, e spostò lo sguardo commosso sullo scatolone.

"Dai, adesso pensiamo a questo Natale qua. Vieni a darmi una mano con le palline, per favore..."

Domenico gli si avvicinò, un dolce sorriso sulle labbra si unì agli occhi lucidi per la voce incrinata dell'altro, e gli passò una mano tra i capelli, affettuoso e anche un po' giocoso, in un gesto che un po' li andava ad accarezzare e un po' ad arruffare. Era il proprio modo per dirgli che lui, invece, gli voleva bene e per dargli quell'affetto che non aveva mai ricevuto.

Claudio reagì con una risatina morbida, sincera, e si prese tutto l'affetto che l'altro gli stava dando, ma voleva anche ricambiarlo e allora mosse la testa contro la sua mano, anche lui un po' giocoso, in un movimento simile a quello che spesso faceva Partenope, per dimostrargli che gli voleva bene sua volta e che per lui ci sarebbe sempre stato.

Domenico ridacchiò teneramente a quella risposta, senza smettere di accarezzare l'amico.

"Fai il gattino, ora?"

Chiese con voce morbida, senza alcuna volontà di prenderlo in giro, e Claudio annuì appena.

"Miao!"

Rispose, imitando il verso dell'animale.

I due ragazzi scoppiarono a ridere insieme e bastò quello scambio d'affetto a far tornare la serenità nei loro animi e a farli concentrare sul presente, lasciandosi alle spalle il passato.

Cominciarono allora a disporre sui rami le palline di varie dimensioni e decorate in innumerevoli modi: c'erano quelle più semplici, dipinte di un solo colore, che potevano essere più lucide o più opache, e addirittura alcune erano molto particolari perché non erano dipinte, ma avvolte da una stoffa colorata; poi c'erano quelle più fantasiose, con disegni di vario tipo, che potevano essere degli ordinati cerchi concentrici o stelline sparse qua e là, oppure più elaborati, come un Babbo Natale panciuto e sorridente, una renna dal naso rosso, un pupazzo di neve con sciarpa e cappello e tanti altri ancora.

Domenico conosceva quelle decorazioni a menadito, le aveva prese da casa sua, per cui era abbastanza rapido nell'agganciarle a questo o a quel ramo, dando loro solo un veloce sguardo, che comunque talvolta bastava a riaccendere un felice ricordo e a far spuntare un piccolo sorriso sul suo volto.
Claudio, invece, si prendeva del tempo per guardarle una ad una, le ammirava rigirandosele tra le mani, catturandone con gli occhi i colori, i tratti dei disegni o il modo in cui riflettevano la luce. Le studiava, in un certo senso, come si fa con le cose che non si conoscono.

Per questo motivo, il suo lato di albero era molto più spoglio di quello di Domenico, il quale si accorse della discrepanza e notò anche il comportamento dell'amico. Fu lui a prendersi del tempo, adesso, per osservare la sua espressione concentrata, seppur con la coda dell'occhio per non risultare eccessivamente indiscreto. Non era la prima volta che lo vedeva in quello stato di attenzione massima, quando guardavano un film insieme -al cinema e non-, ad esempio, oppure quando l'amico si metteva a leggere qualcosa che lo attirava particolarmente, ma lui rimaneva sempre incantato dinanzi a quello sguardo così magnetico: Claudio, infatti, era quasi del tutto immobile, ad eccezione della mano che si muoveva per rivelare sotto ogni angolazione la pallina che teneva delicatamente tra le dita e degli occhi che la seguivano, attentissimi, quasi senza sbatter ciglio per non perdersi neanche un dettaglio. Quel pezzo di plastica -o poco più- doveva essere davvero meraviglioso visto attraverso quegli occhi, che sembravano ancora più scuri, più blu, quando si dedicavano totalmente all'oggetto del proprio interesse.

"Ti piacciono?"

Claudio ebbe un piccolo sussulto, come se si stesse svegliando da un sogno o come se fosse stato beccato a fare qualcosa che non avrebbe dovuto fare, ma poi accennò un sorriso timido, puntando gli occhi prima sull'amico e poi di nuovo sulla pallina che prese a rigirarsi tra le mani.

"Sì, sono molto carine...e poi non le ho mai viste."

Rispose, ma subito aggiunse altro per correggersi.

"Cioè, ovviamente le ho viste, ma non ho mai avuto occasione di appenderle, ecco."

Spiegò, alzando di nuovo gli occhi verso l'altro ragazzo. Inconsapevolmente, lui gli aveva regalato un altro pezzetto di vita.

Domenico si spostò dal lato dell'albero che stava decorando, avvicinandoglisi. Lo guardò, poi, incuriosito.

"Non hai mai fatto l'albero, a Natale?"

Claudio scosse il capo, poi appese la pallina ad uno dei rami.

"No, non è questo. Lo facevamo..."

Ne prese un'altra, di cui cominciò ad accarezzare distrattamente la superficie morbida, ricoperta di stoffa rossa, con il pollice.

"...ma non usavamo le palline. A mia madre piacevano delle piccole mele rosse, in ceramica, e appendevamo quelle."

Domenico si accigliò leggermente, perplesso.

"Ognuno usa le decorazioni che vuole, ma... perdonami, cosa c'entrano le mele con il Natale?"

Chiese, con una punta di divertimento nella voce. Claudio scrollò le spalle e accennò una risatina, che però era spenta, malinconica.

"Assolutamente niente, ma una volta gliel'ho chiesto e lei mi ha risposto che così era più naturale."

Spiegò, posando la pallina poco più in basso rispetto a quella di prima. A sua madre, infatti, non piaceva ciò che usciva dall'ordine naturale delle cose, che percepiva come sbagliato o difettoso, ed era sicuro che, nonostante rispetto a suo padre gli mostrasse un po' più di affetto, in fondo disprezzasse anche lui.
Domenico non fece fatica a capire che dietro quelle parole c'era qualcos'altro, qualcosa che gli aveva spento gli occhi e il sorriso, ed era certo che fosse lo stesso qualcosa che gli aveva visto dentro fin dal primo istante. Il perché non volesse rivelarglielo rimaneva un mistero per lui, ma mai e poi mai avrebbe insistito per farglielo confessare. La cosa giusta da fare era sostenerlo, aiutarlo, ed eventualmente aspettare. Gli si avvicinò ancora un po', con un sorriso gentile e lo sguardo pieno d'affetto, e prese una delle palline dallo scatolone.

"Beh, non so che abeti conosca tua madre, ma con le mele proprio non ne ho mai visti, in natura."

Prese la mano di Claudio nella propria, con estrema delicatezza, e con l'altra gli porse la pallina bianca, lucente, posandola nel suo palmo.

"E comunque, in ogni caso, io l'albero lo preferisco così."

Aggiunse, morbidamente.

Claudio, in quella risposta, ritrovò facilmente l'allegria, che si manifestò in una risata cristallina, simile al tintinnio delle campanelle di Winter Wonderland provenienti dallo stereo, ed in un sorriso sereno, disteso. Era sempre così con Domenico, riusciva a tornare a farlo sorridere anche quando lui stesso non lo credeva possibile, sembrava quasi una magia il cui trucco erano quei suoi occhi verdi, luminosi e gentili, oppure quella sua voce calda dall'inconfondibile cadenza leggermente partenopea che trasformava ogni discorso in una melodia leggera, ma la verità era che non c'era nessun trucco: Domenico riusciva a farlo stare bene semplicemente perché era lui, senza nessun inganno o artificio. Piegò le dita in modo da afferrare la pallina, delicato, e così facendo sfiorò la mano dell'altro, in un contatto leggero, ma sentito.

"Anch'io lo preferisco così."

Replicò a bassa voce, facendo incontrare i suoi occhi ed i propri, che erano tornati a brillare. Si voltò un istante, il tempo di appendere la decorazione, poi tornò a guardarlo.

"Infatti, da piccolo, cercavo praticamente ogni anno di rompere qualche pezzo di quella frutta finta!"

Aggiunse divertito, con voce più alta.

Domenico non trattenne una risata, sia per l'immagine che l'informazione gli aveva fatto nascere in testa -vedeva chiaramente Claudio in una sua versione più piccola, ovviamente vestito di tutto punto con un completino elegante più adatto ad un bambolotto da esposizione che ad un bambino, che posava i suoi occhi vispi su uno di quegli addobbi e lo gettava a terra, fingendo un incidente-, sia perché era lieto di vederlo di nuovo sorridente e pieno di luce.

"Ah, ma allora anche tu hai fatto qualche marachella! Non ti credevo capace!"

Esclamò scherzoso, sollevando un sopracciglio e curvando le labbra in un sorrisetto sghembo, per prenderlo bonariamente in giro.

Claudio ridacchiò sotto ai baffi, scuotendo il capo, poi sollevò leggermente le mani in segno d'innocenza.

"Ci tengo a precisare che era l'unico tipo di marachella che facevo e infatti la passavo sempre liscia!"

Ed era assolutamente vero, per il resto era stato un bambino tranquillissimo, non aveva mai dato problemi di alcun tipo né a scuola né altrove. Si comportava sempre con educazione, faceva tutto ciò che gli veniva detto, non strillava mai -anzi, era molto silenzioso- e solitamente tutto ciò portava gli adulti intorno a lui a fare molti complimenti ai suoi genitori -e quindi anche a lui, di riflesso- perché lo trovavano un bambino molto maturo per la sua età. Lui, lo ricordava bene, sentiva il cuore riempirsi di gioia quando vedeva i sorrisi orgogliosi della sua mamma e del suo papà quando le persone dicevano loro quelle parole che lui non capiva del tutto, ma capiva che continuando a comportarsi così avrebbe reso i suoi genitori felici e tanto bastava. Col senno di poi, avrebbe dovuto compiere qualche marachella in più.

Domenico liberò un piccolo sbuffo divertito, annuendo. Sì, era una cosa che non faceva fatica a credere, anche perché gli era difficile immaginare un Claudio capriccioso o dispettoso, dato che era la persona più buona del mondo. Si chiese, però, se vivere in quel modo lo avesse portato a diventare adulto troppo presto ed era praticamente certo della risposta.

"Su questo non ho dubbi! Sei troppo buono per fare il discolo, tu."

Replicò, mantenendo un tono scherzoso che però aveva un sottofondo affettuoso, lo stesso affetto che gli si poteva leggere negli occhi.

Claudio accennò un sorriso, timidamente, e appese un'altra pallina per tentare di nascondere il proprio rossore.

"E tu, invece, che bambino eri? Perché, se tanto mi dà tanto, anche tu sei troppo buono per fare il discolo."

Ribatté, con la stessa dose di scherzo e d'affetto.

Domenico scosse il capo e liberò una risatina, con le gote rosse che le facevano da cornice. Si accompagnò con l'indice, agitandolo in segno di diniego.
"No, macché, io mi sono aggiustato per strada. Ero terribile, da piccolo..."

Gli passò un'altra pallina da appendere, preferendo che fosse lui a divertirsi un po' con la decorazione dell'albero, dato che non l'aveva mai fatto. Era più giusto così.

Claudio gli rivolse un sorrisetto grato mentre prendeva ed appendeva la pallina, intuendo le sue intenzioni. Non riusciva proprio a pensare che Domenico potesse comportarsi male, anche soltanto da bambino, dal momento che era la persona più gentile e premurosa del mondo.

"Non ci credo, dai! Non ti ci vedo proprio..."

"Eh, credici, invece! Mia madre può confermare, e forse qualcosa se la ricorda anche Sara. È tutto vero!"

Replicò Domenico, divertito, dandogli un'altra pallina. Claudio la prese e lo guardò incuriosito, leggermente accigliato.

"Adesso però sono curioso, che combinavi?"

Domenico fece un'altra risatina, prendendosi qualche istante per navigare tra i ricordi.

"Un po' di tutto! Per prima cosa, correvo, sempre. Ho imparato a correre prima di camminare e non mi fermavo mai, sia dentro casa sia, soprattutto, fuori casa! I miei genitori erano esasperati, oltre che molto preoccupati, visto che ero troppo piccolo per capire quali fossero i pericoli della strada...e alla fine mio padre comprò un guinzaglio, proprio di quelli per cani, che mi agganciavano al cappotto quando uscivamo, così non potevo allontanarmi!"

Raccontò con voce leggera, accompagnandosi da qualche gesto che finiva per coinvolgere anche le palline che teneva in mano prima di passare all'amico.

Claudio ascoltò il suo racconto senza smettere di sorridere e, alla fine, ridacchiò di cuore. Gli era fin troppo facile immaginare quel bambino dagli occhi verdi che sgambettava in giro -magari anche con una scarpa slacciata, lo vedeva così- ansioso di conoscere il mondo che lo circondava e che gli sembrava troppo bello per essere pericoloso. Immaginava anche la sua faccina imbronciata quando, attaccato al guinzaglio come un cagnolino, non poteva andare dove desiderava. Ah, se avesse potuto, avrebbe portato quel bimbo anche sulla Luna!

"Beh, dai, questo non è essere discoli! Questa è semplice curiosità, voglia di conoscere il mondo!"

Domenico sollevò un sopracciglio, liberando uno sbuffetto divertito. 'Proprio non ce la fai a trovarmi un difetto, eh?', pensò, ma la cosa non lo stupiva, era tipica dell'amico. Lo scaldava dentro, però.

"Mi fai da avvocato, ora?"

Domandò, con una punta di ironia. Claudio fece spallucce, sollevando gli occhi e le sopracciglia per un istante.

"Dico solo che se questo è il tuo peggio, la mia idea rimane."

Rispose deciso, fissando lo sguardo nel suo. Domenico non lo distolse, anzi lo sostenne, e curvò le labbra in un sorrisetto sghembo.

"No, no, figurati, anzi forse questo è il minimo! Fammi pensare un attimo..."

E così dicendo si prese qualche altro istante per pensare, o meglio per cercare una marachella, tra le tante, che fosse indifendibile.

"Ah, ecco! Giocavo a calcio, costantemente, anche in casa. Ne ho rotti di soprammobili e vasi, sai? Eppure nonostante ciò e nonostante i rimproveri dei miei genitori, non ho smesso. Non so, forse mi sentivo Maradona..."

Fece una risatina ripensando alle sgridate di sua madre -quella santa donna!- ogni volta che sentiva il rumore di qualcosa che andava in frantumi.

Claudio si unì presto a quella risatina con la propria, anche lui preso da un'immagine mentale, perfettamente chiara: quella di un bambino scalmanato che inseguiva il suo pallone credendo di essere il suo calciatore del cuore. E pazienza se qualche suppellettile ci rimetteva, poi, perché quel semplice pallone era molto di più, era un sogno!

"Mi stai descrivendo la naturale espressione di un talento..."

Cominciò a dire, quasi come se fosse davvero in tribunale a difendere il proprio cliente, ma Domenico lo fermò subito mettendo una mano avanti, scosso da una risata.

"No Cicerone, frena, frena...apprezzo il tentativo, ma mi dispiace dirti che non c'era proprio nessun talento. I miei mi iscrissero a calcio, pur di non vedermi più devastare casa, e giocai per qualche anno, ma ero completamente negato e quando lo capii mollai da solo."

Scrollò le spalle. Ci era rimasto parecchio male, all'epoca, e per un po' aveva anche smesso di guardare le partite in televisione, ma aveva abbondantemente superato la delusione.

"Si vede che la mia strada era un'altra."

Aggiunse, porgendo un'altra pallina all'amico. ‘Una strada che mi ha portato a conoscere te, per fortuna.’, aggiunse con la voce dei propri pensieri.

Claudio incrociò il suo sguardo e gli fece un sorriso dolce. 'Sono contento che la tua strada ti abbia portato in quel bar, quella sera.', pensò mentre prendeva la decorazione dalla sua mano.

"In ogni caso, queste cose fanno di te semplicemente un bambino che in quanto tale vuole correre e giocare, non un discolo. Un po' come Partenope, vedi?"
Indicò la gatta con un cenno del capo e Domenico lo seguì con gli occhi. Se ne stava distesa sotto l'albero, con le zampine in aria a giocherellare con le palline colorate, toccandole e facendole traballare. Domenico ridacchiò.

"Te l'avevo detto che con le decorazioni ci sarebbe stato da divertirsi..."

Claudio annuì, lentamente.

"Sì, ma è normale. Partenope è una gatta ed è naturale per lei seguire il suo istinto predatorio e curioso, ma ciò non fa di lei una discola!"

Commentò, con un bel sorriso sul volto. Domenico sospirò, completamente arreso, e sorrise a sua volta, osservando la scenetta.

"Hai ragione, non lo fa. Ci sai davvero fare con le parole sai?”

Dopo qualche istante, si voltò verso l'amico, sorridente.

"E per essere l’avvocato Vinci non te ne frega molto delle regole."

Sottolineò quella specie di titolo con un tono quasi lascivo, ma al tempo stesso dolce, pieno dell'orgoglio che provava per lui: era certo che sarebbe diventato un ottimo avvocato. Come prevedibile, Claudio non tardò ad arrossire e fece una risatina imbarazzata.

“Beh, diciamo che ho imparato che a volte non bisogna limitarsi ad attenersi ad un codice…e poi smettila lo sai che per te sono solo Claudio!”

Indicò l'albero con un cenno del capo.

"Adesso mi dai una mano a finire di decorare qui o devo convincerti con la mia parlantina?"

Aggiunse scherzoso e Domenico ridacchiò, per poi avvicinarsi subito un po' di più a lui.

"Pensavo preferissi divertirti un po' da solo..."

Claudio scosse appena il capo e gli porse una pallina, di un bel giallo oro.

"Non è divertente se lo faccio da solo. Il senso del Natale è stare insieme, no?"

Replicò dolcemente, guardandolo negli occhi. Erano abbastanza vicini, adesso, e poteva incamminarsi in quel bosco sereno. Domenico sorrise e accettò la pallina -come avrebbe potuto fare diversamente?-, che appese ad un ramo libero mantenendo lo sguardo fisso in quello dell'altro, immergendosi in quel mare più limpido che mai.

Non impiegarono molto a svuotare la scatola delle decorazioni -erano rimaste poche palline e qualche fiocchetto colorato-, di cui Partenope prese immediatamente possesso, raggomitolandosi al suo interno con grande soddisfazione.

"Non dimentichiamoci una cosa importante!"

Disse Domenico, prendendo dalla scatola delle decorazioni una confezione di plastica trasparente, mostrandola all'altro. Claudio, vedendo all'interno il puntale a forma di stella, sorrise.

"Lo appuntiamo insieme?"

Propose subito, senza doverci pensare e Domenico, senza doverci pensare, annuì. Non avrebbero potuto pensare ad un modo diverso per farlo, se non così.

Presero l'oggetto ciascuno da un lato e, uno accanto all'altro, sollevarono le braccia per dare il tocco finale all'abete decorato, che finalmente era davvero completo.

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Capitolo 34
*** Appendice, Capitolo 4 – E ad amarmi un po’ di più (parte 2) ***


Toccava pensare al presepe, adesso, e Domenico si avvicinò ad un altro scatolone, più piccolo di quello che aveva contenuto l'albero, senza riuscire a trattenere un sorriso. Gli piaceva decorare l'albero di Natale, ma la sua cosa preferita di quella festività era proprio il presepe, allestirlo gli dava un senso di pace che non sapeva spiegarsi e poterlo fare con Claudio lo rendeva felice, per motivi che invece sapeva spiegarsi per filo e per segno.

"Che te ne pare?"

Chiese, emozionato, tirando fuori il pezzo unico di cui si componeva il presepe che aveva comprato: era costituito da una grotta, tutta realizzata in sughero, poggiata su una base che aveva un po' di spazio libero per sistemare i pastori. Avrebbe preferito di gran lunga preparare con Claudio il grande presepe che c'era a casa sua, a Napoli, e che per lui aveva un significato speciale, ma lì a Roma non aveva potuto certo trasportarlo -sia perché non voleva toglierlo a sua madre e sua sorella, sia per motivi logistici- e quindi aveva dovuto accontentarsi. L'anno prossimo, però, magari...

"Visto così non è chissà che, lo so, però con qualche pastorello migliora..."

Aggiunse, un po' imbarazzato.

Claudio però ribatté ancor prima di sentire la fine della frase, praticamente parlandogli sopra, una cosa che non avrebbe mai fatto normalmente, ma era troppo preso dall'entusiasmo per frenare la lingua. Erano anni che non si sentiva felice a Natale, tanto che aveva praticamente dimenticato la sensazione.

"È perfetto!"

Esclamò, allegro. Per uno strano gioco del destino, quel presepe gli ricordava molto, nella sua forma semplice, quello della sua infanzia e la coincidenza lo fece sorridere. Erano trascorsi anni dall'ultima volta che l'aveva allestito con qualcuno e ovviamente l'aveva fatto con la sua famiglia, che certamente non considerava più tale, ma adesso c'era Domenico, -era lì per questo, come gli aveva detto appena arrivato- e con lui...con lui era tutto più speciale, più giusto. E in cuor proprio sapeva il perché.
Domenico sorrise dolcemente a quell'eccesso di entusiasmo che gli rendeva gli occhi ancora più luminosi, che così sembravano davvero quelli di un bambino a Natale, e gli si avvicinò di qualche passo.

"Dove lo vuoi mettere?"

Chiese, gentile.

Claudio si prese qualche istante per pensarci e guardarsi intorno, mordendosi leggermente il labbro inferiore, alla ricerca di un posto adatto. Il tavolino che stava lì vicino, davanti al divano, era troppo basso e rischiavano che Partenope ci salisse sopra. La scrivania non era adatta perché oltre ad essere la sua base d'appoggio per lo studio -e quindi essere piena di libri- era anche messa un po' in disparte rispetto al resto del salottino, non avrebbe dato la giusta visibilità al presepe. Metterlo in un'altra stanza -e quindi scegliere tra la sua camera da letto e la cucina- ovviamente era fuori discussione. I suoi occhi, poi, si posarono sulla grande libreria a muro, proprio dietro l'albero che avevano appena finito di sistemare, e gli venne un'idea: scelse uno degli scomparti di cui era composta -né troppo in alto, né troppo in basso-, lo svuotò dei libri che conteneva, spostandoli un po' dove capitava negli altri, e vi batté il palmo della mano sopra un paio di volte, guardando l'amico con un sorriso.

"Qui mi sembra vada bene, no? Tu che dici?"

Domenico in un primo momento si stupì a vedere quel ragazzo, di solito così preciso, muovere e posare quei libri senza un criterio, rompendo l'ordine che caratterizzava quella libreria e tutto ciò che faceva, ma poi sorrise, perché era bello vederlo lasciarsi andare, era bello vederlo libero.

"Se va bene a te, va bene anche a me."

Si avvicinò alla libreria e posizionò il presepe nel ripiano vuoto, scoprendo che ci entrava alla perfezione, sembrava fatto apposta. Nel farlo, vide sul ripiano accanto tre piccole cornici, ciascuna delle quali conteneva una delle foto che avevano scattato a Marzo, quando avevano festeggiato i loro compleanni: al centro c'era la foto che avevano scattato insieme, con Partenope in braccio, e ai due lati quelle che ritraevano il momento del soffio delle candeline sulle torte improvvisate.

Era stato altre volte in quella casa e le aveva già notate, ma era sempre piacevole soffermarsi su di esse: erano la prova, per lui, di far davvero parte della vita di Claudio, una cosa che non avrebbe mai creduto possibile. Per lo stesso motivo, e siccome anche Claudio faceva parte della propria vita, lui aveva messo quelle stesse foto sul comodino accanto al proprio letto, in modo che fossero la prima cosa che vedeva appena sveglio e l'ultima prima di addormentarsi. Una soluzione un po' ridicola, forse, ma l'aiutava a cominciare e finire bene ogni giornata.

"Anch'io le ho sistemate nella mia stanza, sai? E più le guardo e più mi sembra che siano venute bene."

Commentò indicandole con un cenno del capo, l'angolo delle labbra sollevato in un sorriso sincero, spontaneo.

Claudio si avvicinò di qualche passo e sorrise a sua volta, annuendo appena. Le aveva sistemate lì in modo da averle sempre a portata di sguardo ed infatti aveva perso il conto delle volte in cui, ogni giorno, vi posava gli occhi, a volte solo per pochi secondi, altre per qualche istante in più. C'erano perfino dei giorni in cui prendeva quella foto con tutti e tre e la posava sulla scrivania mentre studiava oppure, addirittura, se la portava in camera da letto e la posava sul comodino nelle notti in cui si sentiva particolarmente solo. Un espediente patetico, lo riconosceva, ma lo aiutava a ricordare che c'era chi gli voleva bene.

"Perché è un bel ricordo, come dicesti tu.”

Replicò con voce dolce, a cui seguì una risatina morbida da parte di Domenico, per poi schiarirsi la voce.

"Magari potremmo scattarne altre, dopo...se ti va."

Propose, un po' più incerto, ma il sorriso luminoso che gli rivolse l'amico spazzò via ogni timore come la luce fa con il buio e allora gli sorrise anche lui, di rimando.

"Stavo per chiedertelo io, sai?"

Ribatté Domenico, che non aspettava altro, facendo nascere una risatina in entrambi, mentre si scambiavano uno sguardo che valeva più di mille parole. Avevano pensato la stessa cosa, anche se poteva sembrare banale, ma non avevano quella sintonia con nessun altro.

Domenico si spostò di nuovo e prese un’altra scatola, per la precisione una scatola da scarpe, accuratamente chiusa con del nastro adesivo sui quattro lati. Sollevò il coperchio rivelando all'interno dei fogli di giornale accartocciati, messi a protezione delle statuine che avvolgevano per evitare che subissero urti.

Claudio prese uno di quei pacchetti con estrema delicatezza, lo aprì e all'interno trovò la statuina di un angelo. Gli bastò uno sguardo per capire che fosse nuova e di ottima fattura: non aveva graffi né pezzetti smussati -come spesso capitava con le statuine in ceramica-, tutti i colori -dal rosa chiaro del volto dell'angelo all'azzurro della sua tunica- erano vividi e brillanti e ogni dettaglio -come il contorno delle singole piume delle ali o le lettere che componevano la scritta GLORIA sulla fascia che il messaggero celeste tendeva tra le mani- era tracciato con grande accortezza, considerando che si trattava di una statuina di pochi centimetri.

Era sicuro che anche tutte le altre fossero di quella qualità, avrebbe potuto metterci la mano sul fuoco, ed era quindi altrettanto certo che non fossero economiche. Tra queste, le altre decorazioni e il cibo che aveva portato con sé, l'amico doveva aver speso molti soldi e, conoscendolo, era certo che non si fosse nemmeno posto il problema, che invece lui si poneva eccome. Mentre pensava a cosa dirgli per convincerlo a farsi rimborsare la spesa, appese la statuina dell'angelo poco sopra la grotta, sul gancetto apposito.

"No, aspetta, non possiamo metterlo ancora."

Intervenne Domenico, poggiando delicatamente una mano sul suo braccio per trattenerlo. Claudio si voltò verso di lui, leggermente confuso.

"Come mai?"

Domenico accennò un sorriso timido, sapeva che ciò che stava per dire poteva sembrare sciocco, ma per lui era importante ed era sicuro che Claudio l'avrebbe capito.

"Perché l'angelo annuncia la nascita di Gesù ai pastori, ma Gesù non è ancora nato, quindi non ha nulla da annunciare. Lo mettiamo a mezzanotte, insieme al bambinello e alla cometa."

Spiegò, un po' imbarazzato. Claudio sollevò leggermente le sopracciglia, sorpreso. In effetti, avrebbe dovuto pensarci.

"Oh... sì, ha senso. Perdonami, io... non sono molto ferrato sull'argomento."

Ripose la statuina nella scatola dopo averla avvolta nella carta di giornale.

"Tu invece sì, vero?"

Domenico annuì, prendendo un foglio ripiegato da cui estrasse la statuina dell'asino, che mise al suo posto nella grotta.

"Beh, non per vantarmi, ma mi davano sempre la parte dell'angelo alle recite di Natale dell'oratorio!"

Esclamò divertito, facendo poi una risatina a cui si unì quella più piccola di Claudio. Subito dopo, riprese a parlare.

"Però, oltre a questo c'è di più. È la mia Fede, questa."

Disse con voce più seria, ma comunque leggera e tranquilla. Di nuovo, sapeva che l'amico l'avrebbe capito.

Claudio annuì piano e raccolse una statuina che, una volta liberata dal suo involucro, si rivelò essere quella del bue. Sollevò l'angolo delle labbra in un sorriso di scuse.

"Non ti nego che per me questi..."

Indicò la statuina con un cenno del capo, per poi posizionarla nella grotta.

"...sono solo dei pupazzetti."

Spiegò un po' incerto, guardando l'altro di sottecchi. I suoi genitori erano molto religiosi, andavano in chiesa anche più di una volta a settimana e spesso e volentieri pregavano anche in casa. Si riempivano le bocche della parola di Dio ed ogni volta dicevano qualcosa che a lui non piaceva -e non erano solo loro a dargli quella sensazione- per cui non aveva mai avuto interesse ad avvicinarsi a quel mondo. Era certo, però, che Domenico fosse migliore di tutti loro messi assieme, gliene aveva dato prova infinite volte.

"E non lo sto dicendo con disprezzo, non voglio offenderti o giudicarti, davvero, dico solo che... io non ci credo, ecco."

Si affrettò ad aggiungere, perché non voleva che l'amico si sentisse mancato di rispetto.

Domenico ridacchiò, calmo, e gli rivolse uno sguardo gentile e sereno, come sempre. Gli sembrava buffo che proprio Claudio, così simile ad un angelo ai propri occhi, fosse ateo, ma non si sentiva né giudicato né offeso e rispettava il suo punto di vista.

"Tranquillo, è tutto a posto. Avrai i tuoi motivi e nemmeno io ti giudico."

Gli disse rassicurante, invitandolo -ma senza forzarlo- con lo sguardo ad aprirsi con lui, se avesse voluto.

Claudio lasciò andare un sospiro e poi voltò di poco la testa per guardarlo. A quegli occhi verdi, proprio non sapeva dire di no.

"È che...ho conosciuto persone molto religiose e non mi piace il modo in cui la pensano su molte questioni, se non tutte. Tu, ovviamente, sei un'eccezione."

Spiegò, abbozzando un sorrisetto timido alla fine.

Domenico annuì, comprensivo, perché capiva esattamente cosa intendesse dire e anche lui la pensava allo stesso modo. Prese una decorazione, una brocca d’acqua in miniatura per l’esattezza, e la posò poco fuori la grotta, poi tornò a rivolgersi verso l’amico.

"Sai, Claudio, per come la vedo io, Dio ci ha dato una sola indicazione, molto semplice ma fondamentale..."

Accompagnò le sue parole sollevando un dito, poi riportò la mano giù e sorrise, morbidamente, guardando l'altro negli occhi.

"Ama il prossimo tuo come te stesso. Sinceramente, non mi sembra un principio così brutto da seguire, no?"

Chiese con un tono un po' scherzoso, sollevando leggermente un sopracciglio.

Claudio scosse il capo, senza distogliere lo sguardo dal suo. No, non era per niente un brutto principio, ma era evidentemente seguito da pochi e certamente non dalle persone che conosceva lui, ad eccezione di Domenico che invece lo incarnava alla perfezione. Ecco un ulteriore motivo per cui era del tutto diverso dagli altri.

"No, anzi, è molto bello. Tu...si vede che lo segui, sai? E lo fai anche bene..."

Disse con voce sincera, parlando direttamente dal cuore.

Domenico liberò una piccola risata, subito rosso in viso per quel complimento. Detto da lui, acquisiva più valore.

"Non so se lo faccio bene, ma cerco di fare del mio meglio. Posso dirti, però, che anche tu segui questo principio, anche se forse lo fai senza saperlo, il che ti rende automaticamente più vicino a Dio di tutte quelle persone che Lo usano come scusa per giustificare le loro idee."

Gli sorrise, dolcemente.

"Credimi, in pratica sei più credente tu di loro."

Aggiunse con tono leggero, ma non per questo meno convinto di ciò che diceva.

Claudio liberò un piccolo sbuffo divertito e poi sorrise, guardando l'altro con affetto. Gli piaceva il suo modo di vedere le cose e anche se non gli avrebbe fatto cambiare idea -ma del resto sapeva che non era quella l'intenzione dell'amico-  adesso anche lui riusciva a vederle sotto un'altra prospettiva.

"Mi sa che hai ragione: queste statuette non sono semplici pupazzetti, in fin dei conti."

Domenico ricambiò immediatamente il sorriso e prese una statuetta, quella della Madonna, porgendone un'altra all'altro ragazzo proprio mentre dal cd cominciava Adeste Fideles.

"Ti va di sistemarle insieme, allora?"

Claudio annuì con entusiasmo, accettando l'altra statuina. Vi posò gli occhi sopra e non gli ci volle molto a capire -anche se quello non era il suo campo- che si trattasse di San Giuseppe: la barba, il bastone e il sincero affetto che trasparivano dai suoi occhi -seppur solo dipinti- erano inconfondibili. Pensò, tra sé e sé, che suo padre aveva smesso di guardarlo in quel modo da tempo e che quell'idea di famiglia che quelle statuette rappresentavano non gli apparteneva più, ma in quel momento non era importante: Domenico gli stava offrendo un'altra famiglia, -'Sono qui per questo'-, gli aveva detto entrando in casa-, gli stava offrendo se stesso e, per Claudio, era più di quanto potesse desiderare. Sperava di potergli ricambiare il favore in qualche modo e di non fargli pesare la lontananza dalla sua, di famiglia, giù a Napoli.

I due ragazzi si scambiarono uno sguardo e posarono insieme le due statuette nella grotta, sorridenti, poi cominciarono a posizionare le altre, riempiendo man mano tutto lo spazio disponibile. Nel giro di pochi minuti il presepe si animò di tutti i suoi abitanti: il pescivendolo e il panettiere, con i loro rispettivi banchetti, la lavandaia con il suo catino di legno, il maniscalco intento ad inchiodare i ferri agli zoccoli di un asinello, il ragazzo che trasportava due secchi pieni d'acqua su un'asta poggiata sulle spalle, l'ubriacone che tracannava vino da una bottiglia ed infine un gruppo di pastori, per il momento sprovvisti di pecore a cui badare, tra cui ne spiccava uno addormentato, che attirò l'attenzione di Claudio.

"Mh, qui c'è qualcuno che non ha molta voglia di fare il suo lavoro..."

Commentò scherzoso, sollevando leggermente la statuina che teneva in mano, e Domenico ridacchiò.

"Ah, non farti ingannare dall'aspetto, ha un ruolo molto importante!"

Replicò divertito, ma con il tono di chi la sapeva lunga. Tanto bastò ad attirare la curiosità di Claudio, che si voltò a guardare l'amico, attento.

"Cioè?"

Domenico accennò un sorriso, sfiorando la statuetta con un dito.

"Beh, si dice che Benino, si chiama così lui, stia sognando proprio il presepe di cui fa parte e quindi non va assolutamente svegliato, altrimenti il sogno terminerà e il presepe scomparirà! E nessuno vuole che accada una cosa del genere, no?"

Claudio, pur sapendo perfettamente che fosse impossibile svegliare un oggetto inanimato come quella statuetta, scelse di lasciar perdere la razionalità e scosse rapidamente il capo. Era la Vigilia di Natale e voleva credere ad un po' di magia.

"Oh no, assolutamente! Buonanotte, Benino..."

Sussurrò, posando la statuina in un angolo del ripiano, un po' in disparte dal resto della scena, dove era rimasto un po' di spazio.

"Quindi sta sognando anche la nascita di Gesù?"

Domandò, con gli occhi che brillavano di curiosità. Domenico sorrise teneramente vedendolo stare al gioco, proprio come faceva lui da piccolo quando allestiva il presepe con suo padre, e si disse che se era riuscito a farlo tornare un po' bambino poteva ritenersi soddisfatto, aveva fatto una cosa bella. Annuì, piano.

"Secondo la leggenda sì, mentre invece nel Vangelo si dice che gli angeli annunciano la nascita di Gesù ai pastori addormentati, dando loro il compito di diffondere la notizia. Quindi Benino, simbolicamente, rappresenterebbe l'essere umano che dal sonno dell'ignoranza si sveglia nella verità."

"Un po' come l'uomo della caverna di Platone, quindi."

Commentò Claudio, che era familiare con quel concetto e gli fu spontaneo ricollegarlo a qualcosa che conosceva bene.

"Mi devi perdonare, ma ho avuto un pessimo professore di Filosofia e non mi ricordo quasi niente..."

Replicò Domenico, con le labbra curvate in un sorrisetto e gli occhi pieni di curiosità. Claudio ricambiò immediatamente il sorriso e si schiarì la voce prima di parlare. Di solito, a scuola ma anche all'università, veniva additato come secchione per questi interventi, invece Domenico sembrava davvero interessato a sentire ciò che aveva da dire...ma del resto, che lui fosse diverso dagli altri, lo sapeva già.

"In pratica Platone, per descrivere lo stato di ignoranza in cui vive l'essere umano, usa l'allegoria di una caverna in cui sono legati degli uomini in modo che possano vedere soltanto il muro di fronte a loro, sul quale vengono proiettate delle immagini che per questi uomini rappresentano la realtà. Un giorno, uno di essi riesce a liberarsi e ad uscire dalla caverna e dunque scopre la verità, come...come Benino, appunto."

Spiegò, per poi schiarirsi di nuovo la voce.

"Non so se mi sono fatto capire..."

Aggiunse, incerto, ma Domenico gli scacciò via ogni dubbio con un sorriso.

"Ah, ti sei spiegato benissimo, sicuramente meglio del mio vecchio professore di Filosofia. Se avessi avuto te al suo posto, sono sicuro che ad oggi mi ricorderei tutto!”
Replicò allegro, facendo ridacchiare Claudio che era anche leggermente arrossito.

"Sei il solito esagerato!"

Esclamò, ma Domenico scosse il capo, risoluto.

"Vorresti saperlo meglio di me? Ti dico che è così, accettalo!"

Ribatté, serio e giocoso al tempo stesso. Il proprio sorriso, poi, si fece più morbido.

"Comunque alla fine i nostri modi di vedere le cose non sono poi così diversi, eh?"

Aggiunse con voce dolce, porgendogli la scatola con le ultime statuine. Claudio guardò prima quella e poi sollevò gli occhi, rivolgendo all'amico un sorriso affettuoso.

"Non lo sono affatto."

Disse, per poi prendere uno dei pacchetti di carta rimanenti, che siccome erano più piccoli degli altri erano finiti tutti sul fondo. Aprendolo, vide che all'interno era contenuta una pecorella dal bel manto bianco -che sarebbe stata una nuvoletta perfetta se non fosse stato per gli occhietti e il musetto scuri- con il capo rivolto verso il basso, nell'atto di brucare l'erba o qualcosa del genere. In un attimo fu investito dai ricordi che gli mozzarono il fiato per un istante e gli riempirono la bocca di un sapore dolceamaro -soprattutto amaro-, per poi fargli liberare un sospiro malinconico, pesante. Voleva allontanarsi il più possibile dai propri genitori, eppure inevitabilmente il pensiero tornava sempre lì e al modo in cui avevano smesso di volergli bene da un giorno all'altro.

Domenico, che onestamente si aspettava una reazione ben diversa di fronte a quelle statuette -di cui si era innamorato fin dal primo momento in cui le aveva viste-, si sentì travolgere da un timore che lo portò a posare gli occhi sulla statuina che l'amico aveva in mano alla ricerca di un difetto o di qualsiasi altra cosa che avesse potuto giustificare quel tipo di risposta, ma non trovò niente. Ai suoi occhi preoccupati quelle statuine apparivano perfette, quindi necessariamente doveva esserci qualcos'altro, di invisibile alla vista.

"Qualcosa non va? Non ti piacciono?"

Domandò, con la voce carica di apprensione. Voleva che quel Natale, per Claudio, fosse il più perfetto possibile, se lo meritava dopo quello dello scorso anno e che ogni cosa fosse di suo gradimento. Pretenzioso, forse, ma riteneva che l'amico meritasse solo cose belle e dove la vita non sembrava voler arrivare, avrebbe provveduto lui.
Claudio alzò lo sguardo verso di lui e fu colpito in pieno da quegli occhi che così feriti e preoccupati, specchio di un'anima infinitamente gentile. Subito gli sorrise, allora, per rassicurarlo.

"No, no, anzi, mi piacciono molto, sono molto carine!"

Così dicendo posò la pecorella sulla base della grotta e ne prese un'altra, cominciando a liberarla dal suo involucro di carta. Domenico, però, non poteva dirsi soddisfatto di quella risposta e gli sollevò leggermente il viso con una mano, con infinita gentilezza, per ricordargli che non era solo.

"E allora qual è il problema? Dai, non tenerti tutto dentro, non ti fa bene. Lo sai che mi puoi dire tutto, no?"

La sua voce era bassa e morbida e arrivò alle orecchie di Claudio come una carezza delicata, come delicato era il suo tocco che, tuttavia, gli aveva mozzato il respiro. Certo che sapeva di potersi confidare con lui, era l'unico con cui lo faceva. Scrollò le spalle.

"Forse è una cosa stupida, ma...mi hanno ricordato quelle che avevo nel mio presepe. Mi piacevano tanto, da piccolo, e anche crescendo l'affetto è rimasto, ma i miei genitori hanno comprato delle statue più grandi, l'anno scorso..."

Indicò sommariamente con una mano l'altezza dei pezzi in questione.

"...e credo abbiano buttato tutto il resto."

Abbozzò un sorriso, che però non aveva nulla di allegro. Domenico si sentì stringere il cuore a quel racconto, perché era chiaro che dietro quel gesto c'era l'ennesimo tentativo, da parte dei genitori di Claudio, di umiliare ed allontanare loro figlio e il senso di fastidio che provava nei loro confronti aumentò ancora di più. L'affetto -anzi, l'amore- che provava per il suo amico, però, era molto più forte.

"No, hey, non è una cosa stupida, ok?"

Gli disse con dolcezza, dandogli un buffetto su una guancia.

"Se lo avessi saputo te ne avrei prese di più, ma adesso sono tue e nessuno te le porterà via. Nessuno ti porterà più via niente, te lo prometto."

Aggiunse, rivolgendogli uno sguardo deciso, ma morbido. Claudio avvertì un piacevole calore dentro di sé sia per le parole che per il gesto affettuoso dell'altro e, come sempre e come solo Domenico era in grado di fare, si sentì compreso.

"E come fai ad esserne così sicuro?"

Chiese preoccupato, guardandolo negli occhi. Nonostante nella vita non gli fosse mai mancato nulla, infatti, aveva ben presto realizzato, nella maniera più dura, di non aver mai avuto niente che fosse realmente suo e l'idea che potessero portargli via anche quel poco che si era conquistato lo spaventava molto.

Domenico gli sorrise, dolcemente, e portò una mano tra i suoi capelli, scompigliandoli un po' -non troppo- con una carezza che sperava potesse scacciare il timore che vedeva nei suoi occhi.

"Perché se dovessero provarci di nuovo, li arresterei."

Rispose determinato, forse esagerando un po' nei termini, ma non nella sostanza. Aveva scelto di proteggere quel ragazzo ormai più di un anno prima e non avrebbe mai smesso.

Claudio, rincuorato, liberò una risatina che gli rimase poi sulle labbra nella forma di un sorriso. Era facile ritrovare la serenità, con Domenico.

"Grazie, davvero."

Mormorò, grato. Quelle pecorelle erano ben più di semplici pupazzetti, simboleggiavano la sua libertà, l'ennesimo dono che l'amico gli aveva fatto. Non gli sarebbe mai stato abbastanza riconoscente, per questo.

Domenico minimizzò con una scrollata di spalle ed un sorriso, non aveva bisogno di essere ringraziato. La ricompensa più grande per lui era vedere di nuovo i suoi occhi blu brillare sereni, come il mare quando il Sole si riflette sulla sua acqua.

"Ah, lo sai."

Disse accompagnandosi da un occhiolino e Claudio ridacchiò di nuovo.

"Lo so, però sicuramente ti saranno costate molto, insieme alle altre decorazioni e al cibo, quindi...permettimi di rimborsarti, per favore."

Disse mentre ultimavano il presepe, gentile e risoluto al tempo stesso. Domenico liberò un piccolo sbuffo divertito e scosse il capo.

"No, non c'è bisogno, non farti il problema!"

Raccolse la scatola delle statuine e lo scatolone che conteneva il presepe e si spostò verso quello più grande, dell'albero, per inserirli al suo interno e occupare così meno spazio. Quello delle decorazioni, invece, sarebbe rimasto fuori perché ormai monopolizzato da Partenope, che dormiva beata al suo interno.

"Se proprio lo vuoi sapere, non ho nemmeno speso molto."

Aggiunse, sedendosi sul divano per riposarsi un po'.

"L'albero me l'ha dato Silvia, ne ha preso uno più grande e questo l'avrebbe buttato, quindi non me l'ha fatto pagare. Le decorazioni, poi, sono mie, a casa ne abbiamo così tante che potremmo addobbarne dieci di alberi, figurati!"

Fece una risatina.

"Il presepe e i pastori, invece, li ho comprati, ma il negoziante era un vecchio amico di mio padre e mi ha fatto un prezzo di favore, praticamente me li ha regalati, credimi."

Concluse, accennando un sorriso sornione, con le mani intrecciate in grembo. Claudio sbuffò, ovviamente non si sarebbe fatto bastare quelle risposte, e si sedette accanto a lui, ma prestando il fianco allo schienale del divano in modo da poter guardare il suo testardo amico.

"E tutto quel pesce che hai comprato, allora? Guarda che lo so che a Natale costa di più, fatti pagare almeno quello!"

Domenico, che intanto aveva imitato la sua posizione, scacciò quell'obiezione con un gesto della mano.

"Beh, devo mangiare anch'io, no? Quindi non c'è bisogno che me lo paghi."

Claudio alzò gli occhi al cielo.

"E siccome è anche per me, è giusto che ti rimborsi!"

Domenico, allora, fece spallucce, con fare dispiaciuto.

"Anche volendo, non è possibile. Nella fretta devo aver dimenticato lo scontrino in pescheria e non ricordo quanto ho speso. Sarà per la prossima volta, dai."

Rispose con un tono che avrebbe convinto chiunque, ma non Claudio. Lui lo conosceva bene e sapeva quanto fosse meticoloso e scrupoloso, non avrebbe mai dimenticato lo scontrino di qualcosa che avrebbero dovuto mangiare, perché nel caso in cui non fosse stato buono o peggio li avesse fatti stare male, avrebbe avuto la prova per dimostrarlo in una contestazione.

"Mi spieghi perché sei così restio a farti pagare?"

Domenico sospirò, decidendo subito di arrendersi e di non portare avanti ancora quella piccola bugia, perché tanto era inutile. Ci aveva provato, ma in cuor proprio sapeva che sarebbe stato inutile, perché non sapeva non essere sincero davanti a quei due pezzi di mare. Accennò un sorriso, poi, curvando appena un angolo delle labbra.

"Perché voglio che una volta tanto tu abbia qualcosa senza dover per forza dare qualcos'altro in cambio."

Rispose con voce morbida e dolce, piena d'affetto e premura. Ad un occhio esterno e superficiale, infatti, poteva sembrare che Claudio avesse avuto una vita facile, agiata, con tutto ciò che potesse desiderare ad uno schiocco di dita, ma Domenico aveva presto imparato che non era così e che l'amico fosse costretto a vivere una vita che non sentiva sua, a soddisfare degli standard imposti da altri e che fosse insomma prigioniero di una gabbia dorata da cui aveva deciso di liberarsi e per questo era stato punito, come dimostrava il trattamento ignobile che i suoi genitori gli avevano riservato. Lui voleva soltanto che questo ciclo si interrompesse e che l'amico potesse godere di cose belle, come meritava, senza dover sentirsi in debito.

Claudio fu colpito dalla sincerità di quelle parole e degli occhi che le accompagnavano ed avvertì immediatamente e distintamente la familiare sensazione degli occhi che si gonfiavano di lacrime pronte ad uscire. Per istinto abbassò le palpebre, strizzandole in modo da non darlo a vedere come aveva fatto innumerevoli volte, ma poi si ricordò che in quel momento non aveva bisogno di nasconderle, né di nascondersi, e allora riaprì gli occhi senza paura o vergogna a mostrare quel suo momento di fragilità -che invece secondo suo padre avrebbe dovuto celare perché 'gli uomini non piangono.'-, sicuro che l'altro non l'avrebbe giudicato, ma protetto.

"Così non vale, però."

Mugolò con voce carica di pianto e un mezzo sorriso sull'angolo delle labbra. Domenico gli sorrise dolcemente, intenerito da quei lucciconi blu che non facevano altro che confermare la propria idea.

"Dai, vieni qua."

Mormorò mentre lo avvolgeva tra le braccia, tenendole però morbide per permettergli di allontanarsi se non avesse gradito quel gesto, non voleva costringerlo.
Claudio, dal canto proprio, non si sentiva affatto costretto, anzi si aggrappò a Domenico con tutta la forza che aveva, stringendo la sua felpa nera tra le mani fino a far diventare bianche le nocche, e in quell'abbraccio trovò ancora una volta il rifugio che non aveva mai avuto.

Domenico, sentendolo così in bisogno, lo tirò un po' più a sé -con estrema delicatezza, come Claudio meritava di essere trattato-, portando una mano sulla sua schiena e l'altra tra i suoi capelli, prendendo a tracciare piccole carezze in entrambi i punti.

"È tutto a posto, Claudio, tranquillo. Rilassati, mh? Ci sto io con te..."

Sussurrò piano, voltandosi leggermente verso il suo orecchio.

Claudio trasse un sospiro di sollievo, che uscì tremolante dalle sue labbra, ed incastrò il viso nell'incavo del suo collo caldo, lasciato in parte scoperto dalla felpa, su cui ricaddero le lacrime ormai libere di scivolare giù. Furono poche, accompagnate da pochi singhiozzi, forse perché aveva già pianto abbastanza, ma gli permisero di respirare il profumo dolce della pelle dell'altro, che lo aiutò a distendere i muscoli e a rilassare la presa su di lui, senza però abbandonarla del tutto.

Domenico non smise un attimo di accarezzarlo, sarebbe rimasto così anche per sempre se fosse stato necessario, ed intanto canticchiava a bassissima voce, poco più di un mormorio, qualche strofa delle canzoni che si diffusero dallo stereo, come a volerlo cullare, e non si fermò nemmeno quando lo sentì calmarsi.

"Possiamo restare ancora così se vuoi, ma dopo perché non ti vai a riposare un po', mentre io preparo la cena? Studi dalla mattina alla sera, sarai stanco..."

Claudio scosse leggermente il capo, per quanto la posizione gli permetteva e poi lo sollevò per guardare l'altro negli occhi.

"No, non sono stanco, e poi voglio darti una mano, se proprio non vuoi farti pagare."

Disse, con un bel sorriso che Domenico fu ben felice di vedere.

"Sicuro? Guarda che non sei obbligato, non mi devi niente."

Gli aggiustò, con la mano, i capelli che gli aveva spettinato con le proprie carezze e Claudio sorrise teneramente per la premura.

"Lo so, ma voglio che una volta tanto tu ottenga qualcosa, in cambio di ciò che fai."

Domenico ridacchiò di gusto per il modo in cui gli aveva rigirato contro le sue stesse parole -ma del resto stava parlando con un futuro avvocato- e poi gli rivolse un sorriso morbido, riconoscente. Ciò che Claudio aveva detto non era falso e a lui andava bene così, non era per riconoscenza che rivolgeva alle altre persone atti di gentilezza, ma non poteva negare che, per una volta, gli facesse piacere riceverne.

"Non credo di poter obiettare alle mie stesse parole, quindi va bene, quando vuoi andiamo di là."

Rispose divertito, mantenendo ancora saldo il proprio abbraccio per fargli capire che non gli stesse dando alcuna fretta.

Claudio gli sorrise e poi si rifugiò di nuovo contro il suo corpo. Non riceveva abbracci da un po', preferiva ricaricarsi finché ne aveva l'occasione...e poi quelli di Domenico erano speciali.

"Un altro minutino, per favore..."

Mugolò, piano. Domenico ridacchiò intenerito -Claudio avvertì il suo corpo vibrare contro il proprio, era una sensazione bellissima- e annuì lentamente.

"Anche due."

Rispose leggero -mentre la sua testa pensava ‘Anche tutta la vita’-, riprendendo ad accarezzarlo.

Trascorsero così, abbracciati, ben più di due minuti e quando si separarono lo fecero scambiandosi un sorriso morbido che illuminava gli occhi.

Senza dire nulla, perché non ce n’era bisogno, si spostarono in cucina e cominciarono a preparare la cena, dividendosi i compiti in maniera spontanea, con qualche cenno e poche frasi. Come era successo con le decorazioni, anche in questo caso cucinare insieme venne loro naturale, come se non avessero fatto altro che funzionare insieme tutta la vita.

Furono raggiunti anche da Partenope, attirata dai rumori degli utensili e soprattutto dal profumo del pesce, la quale si fece notare miagolando insistentemente e strofinandosi contro le gambe dei due ragazzi, che ridacchiarono divertiti.

"Ah, la principessa s'è svegliata!"

Esclamò Claudio allungandole un boccone, sorridente.

"Non poteva certo farsi sfuggire l'occasione."

Replicò Domenico, imitandolo, per poi rivolgersi direttamente alla gatta.

"Sarai anche la nostra principessa, però adesso basta, eh! Se ne parla dopo, a cena, altrimenti stai male!"

Le disse con affettuosa decisione, e lei sembrò capire, infatti si strofinò di nuovo contro le loro gambe, come a volerli ringraziare, e poi si mise in disparte, semplicemente ad osservarli.

Dopo un po' il sughetto di vongole per la pasta era ormai pronto, il baccalà con le patate era a cuocere in forno, gli anelli di calamaro erano stati infarinati per la successiva frittura e la tavola era stata apparecchiata, con tanto di antipasti pronti per essere mangiati.

"Qui mi sembra tutto a posto, io andrei un attimo a cambiarmi..."

Disse Domenico, accennando un sorriso. Non era mai stato particolarmente attento al proprio modo di vestire, ma ci teneva a fare bella figura con Claudio e non gli andava di festeggiare il Natale con lui indossando una semplice ed anonima felpa. Non voleva fargli pensare che, in qualche modo, lo stesse dando per scontato, perché non era affatto così. Voleva fargli capire, anche solo con un semplice cambio d'abito, che aveva pensato a tutto nei dettagli...perché a lui ci pensava, sempre.

Claudio conosceva abbastanza l'amico da sapere che quell'affermazione non fosse frutto di chissà quale vanità personale -che in Domenico era praticamente inesistente, pur essendo un bellissimo ragazzo- ma al tempo stesso da non rimanerne stupito. Era il suo ennesimo modo di dargli attenzioni, di fare una cosa che sapeva gli avrebbe fatto piacere e di farlo sentire in qualche modo importante. Non l'avrebbe mai ringraziato abbastanza, per questo.

"Certo, vai tranquillo. Io e Partenope terremo d'occhio la situazione!"

Rispose con voce leggera, per poi fargli un occhiolino e sorridergli. Domenico ridacchiò in risposta, poi si allontanò per prendere il proprio borsone e andò in bagno, dove si fece una lavata veloce e si cambiò i vestiti, avendo cura -ah, se Sara lo avesse visto in quel momento lo avrebbe preso in giro a vita!- di controllarsi davanti allo specchio prima di uscire e tornare in cucina.

Quando lo vide, Claudio non poté trattenere un sorriso a trentadue denti, luminoso. Stava indossando il maglione verde che lui gli aveva regalato per il compleanno qualche mese prima e che, per un motivo o per un altro, non era mai riuscito a vedergli addosso. Ora, invece, poteva apprezzarne le sottili costine che gli accarezzavano il corpo ed il collo alto che gli fasciava morbidamente la gola, appuntato da un bottoncino marrone sul lato. Sembrava fatto appositamente per lui.

"Ti sta benissimo!"

Esclamò, entusiasta ed un po' sognante, 'E sei da togliere il fiato.', pensò.

Domenico sorrise sghembo, un po' imbarazzato, ma al tempo stesso lusingato, e scrollò le spalle.

"Mi sembrava l'occasione giusta per metterlo."

Claudio annuì e sorrise con gli occhi che gli brillavano per la felicità.

"Allora vado a cambiarmi anch'io!"

Annunciò, facendo per andare in camera sua.

"Guarda che stai benissimo anche così, eh!"

Gli fece notare Domenico -mordendosi la lingua appena in tempo per non dirgli che fosse bellissimo anche così-, posando gli occhi più del dovuto sul suo maglioncino beige.

Claudio si voltò a guardarlo di nuovo, con lo stesso sorriso, anche se più timido. Era certo che Domenico lo dicesse più per cortesia e gentilezza che per altro, dato che quello era un maglione abbastanza vecchiotto, che ormai usava soltanto per stare in casa -era comunque molto comodo e caldo- e lo aveva indossato già per qualche giorno, quindi era anche piuttosto sgualcito. Il Natale meritava decisamente dei vestiti migliori, specie se passato con la persona che amava.

"Ma hai ragione tu, è un'occasione speciale e ci vuole un abbigliamento adatto, che ne sia all'altezza. Ci metto poco, promesso."

Replicò con decisione e gentilezza, per poi dirigersi verso la propria stanza. Non impiegò molto tempo a prepararsi perché sapeva esattamente cosa indossare, in compenso si prese qualche minuto in più per pettinarsi i capelli, dato che erano un po' arruffati. Un istante prima di uscire, tuttavia, decise di portare in quell'ordine un po' di disordine -controllato, chiaramente- e passò le dita tra i capelli che aveva appena pettinato, ricordandosi di quanto a Domenico facesse piacere vederlo un po' più sciolto. Soddisfatto, tornò in cucina dall'amico, che stava controllando qualcosa ai fornelli.

"Eccomi qua! Scusami, spero di non averti fatto aspettare troppo! Posso aiutarti in qualcosa?"

Esclamò, sorridente. Domenico si voltò per guardarlo e rispondergli, ma nell'istante in cui posò gli occhi su di lui gli mancarono le parole, perché gli mancò il fiato. Fu un attimo, per fortuna, e poi sulle sue labbra comparve un profondo sorriso di fronte a ciò che poteva definire soltanto come il trionfo del blu: Claudio, infatti, indossava un maglioncino blu scuro e, subito sotto, una camicia azzurra abbottonata fino al colletto, tra i quali spiccava il nodo di una cravatta dello stesso colore del primo decorata a piccoli pois del colore della seconda. Nulla era lasciato al caso, come c'era da aspettarsi da Claudio, e tutto contribuiva a far risaltare i suoi splendidi occhi, che brillavano davvero come due zaffiri preziosi.

"Ah, non ti preoccupare, da me la cena di Natale inizia assai più tardi! Ed è tutto pronto, quindi siediti che cominciamo."

Disse rassicurante, anche se le parole gli uscirono un po' troppo veloci dalle labbra e per poco non inciamparono su loro stesse, scostando una sedia per farlo accomodare.

"Comunque stai...stai davvero bene anche tu."

Aggiunse mentre l'altro si avvicinava, perché proprio non gli era possibile tenerselo dentro, con voce più timida, ma dolce e leggera, come se stesse fluttuando.

Claudio sorrise, timidamente lusingato, pensando di aver fatto bene ad indossare quel maglione che gli era stato regalato proprio un anno prima da Elena -ma su consiglio della propria madre, ne era certo, che aveva sempre avuto buon gusto, doveva concederglielo- e che aveva abbandonato in un cassetto fino a questo momento che gli era sembrato il più adatto a riscattare quel regalo, a dargli il significato che voleva lui e non quello che gli avevano imposto gli altri.

"Ti ringrazio. Diciamo che anch'io ho trovato l'occasione giusta."

Disse con voce morbida e Domenico gli rispose con un sorriso, per poi riempire la ciotola di Partenope con un po' del merluzzo bollito che avevano preparato appositamente per lei e accomodarsi a tavola.

Senza dirsi nulla avevano entrambi deciso di ignorare le futili convenzioni sulle gerarchie dei posti a sedere e avevano preferito sedersi uno accanto all'altro perché tutto il resto non contava: le rispettive sedie erano talmente vicine da far sfiorare le loro gambe e le loro braccia ad ogni minimo movimento, che divennero sempre più ricercati per avere il pretesto di toccarsi fugacemente, non potevano farne a meno. Allo stesso modo, non potevano fare a meno di sorridersi tra un boccone e l'altro, mentre si godevano la pace assoluta di quel momento.

"Avrei preferito fare la spesa a Napoli, ma durante il viaggio si sarebbe rovinato tutto."

Cominciò a dire Domenico, con un tono di scuse, mentre riempiva i piatti di spaghetti alle vongole, dopo che ebbero finito gli antipasti.

"Però mi sono fatto consigliare una pescheria da alcuni colleghi che hanno dei parenti qua, mi hanno assicurato che è tutto fresco e buono."

Aggiunse, per spiegare la situazione. L'intento era sempre quello di offrire a Claudio il meglio e se fossero stati a Napoli non avrebbe avuto dubbi su dove acquistare ciò che avrebbero mangiato, ma viste le circostanze si era dovuto affidare a consigli esterni e il timore di aver sbagliato si faceva sentire.

Claudio, che stava riempiendo la ciotola di Partenope di un'altra porzione di merluzzo, si alzò e gli rivolse un sorriso caldo, rassicurante. 'Sempre il solito premuroso.', pensò.

"Hey, guarda che non ti devi giustificare, hai fatto la scelta più sensata e sono anche sicuro che ti abbiano consigliato bene."

Così dicendo si mise a sedere.

"Insomma, fossi stato in loro non avrei rischiato."

Aggiunse con una punta di sarcasmo e le sopracciglia leggermente sollevate in un’espressione eloquente che fece ridacchiare Domenico e di riflesso anche Claudio, il quale gli indicò poi l'altra sedia con un cenno del capo.

"Dai, adesso mangiamo prima che questi spaghetti diventino colla, questa sì che sarebbe una tragedia!"

Disse ancora, facendogli un occhiolino. Domenico si accomodò accanto a lui, accennando un sorrisetto.

"È che...hai già passato un brutto Natale l'anno scorso, vorrei che questo fosse bello, per te. Tutto qui."

Spiegò, guardando l'altro negli occhi con tutto l'affetto di cui era capace.

Claudio si ritrovò a sorridere pensando che Domenico non poteva sapere fino a che punto quel Natale fosse stato brutto, dato che lui non gli aveva raccontato tutto, eppure anche così aveva reso questo Natale perfetto, semplicemente perfetto. Gli prese la mano, morbidamente ma senza paura, per fargli capire il più possibile quanto fosse grato.

"Non ti devi preoccupare, hai reso questo Natale meraviglioso già soltanto avendo avuto l'idea di organizzare tutto, anzi già solo venendo qui a farmi compagnia. L'importante è stare insieme, almeno per come la vedo io."

Domenico non si sottrasse a quel tocco e anzi voltò la propria mano in modo da poter stringere quella dell'altro a sua volta. Ecco, per quel sorriso lì che ora vedeva sul suo volto, luminoso e contornato da due occhi blu meravigliosi, valeva la pena fare tutto ciò che aveva fatto -che poi, dal proprio punto di vista, non era chissà cosa- e anche di più.

"Lo stesso vale anche per me."

Replicò, con decisione. Si scambiarono un altro sorriso per poi cominciare a mangiare e Domenico ebbe la prova che quel pesce fosse esattamente come gli avevano promesso, con grande sollievo perché sì, certo, la cosa più importante era stare insieme, ma non si sarebbe mai perdonato l'aver fatto mangiare una schifezza all'amico. Claudio notò la soddisfazione sul suo volto e fece una risatina dandogli poi una leggera spallata.

'Hai visto? Non c'era motivo di preoccuparsi.'

Domenico ridacchiò a sua volta.

'Scusami, avevi ragione tu.'

Si dissero, semplicemente guardandosi.
*****
"Ce l'hai un po' di spazio per il dolce, vero?"

Esordì Domenico, a cena conclusa, liberando da due buste di plastica i vassoi, accuratamente chiusi dalla pellicola in alluminio, che aveva portato da Napoli.

Claudio, leggermente reclinato sulla sedia, si lasciò andare ad un profondo respiro, ma poi annuì, sorridente.

"Ho sempre spazio per il dolce, io."

Rispose, con l'entusiasmo di un bambino goloso. Domenico ridacchiò teneramente, lieto di sentirglielo dire.

"Anche perché li ha fatti mia madre, se non li mangi si offende!"

Indicò il primo vassoio, ricolmo di piccole palline di pasta ricoperte di miele e decorati da confettini dai tanti colori.

"Questi qua si chiamano struffoli..."

Indicò poi il secondo, che invece era pieno di dolcetti più grandi, dalla forma rotonda e dai bordi merlettati, palesemente ripieni di qualcosa, a loro volta coperti di miele e confettini colorati.

"...e questi calzoncelli. Li hai mai mangiati?"

Claudio scosse il capo, gli occhi luccicanti di curiosità erano puntati su quei vassoi come quelli di un segugio. Aveva un vero e proprio debole per i dolci.

"No, ma sono pronto a rimediare alla mia ignoranza!"

Esclamò, alzandosi per prendere i piattini ed i cucchiaini necessari.

Domenico liberò uno sbuffo compiaciuto, conosceva bene quella sua passione per i dolci e, ogni volta che poteva, cercava sempre di soddisfarla. Era così bello portare un po' di dolcezza nella sua vita e vederlo liberarsi dai pensieri, anche se solo per il tempo di dare qualche morso.

"Dalle mie parti, nel periodo di Natale, sono da tradizione. Poi ti ho portato anche le sfogliatelle comunque, eh!"

Claudio, che era nascosto dall'anta aperta della credenza, riemerse con un sorriso sghembo, rivolto verso di lui. Le sue parole gli arrivarono come una carezza in pieno viso. 

"Che io sappia, le sfogliatelle non sono tipici dolci natalizi..."

Fece notare, con una punta di divertimento nella voce morbida. Domenico annuì, ridacchiando, poi allungò una mano per farsi dare i piattini, che l'altro subito gli porse.

"E lo vuoi dire tu a me? Certo che lo so, ma le tradizioni non devono mica essere seguite proprio sempre! A te piacciono? E questo è l'importante!"

Replicò allegro, cominciando a riempirli.

"Poi, oh, possiamo sempre inventare noi una nuova tradizione, no?"

Aggiunse, sollevando le sopracciglia in un'espressione complice.

Claudio liberò una risatina, portandosi una mano davanti alle labbra non tanto per nasconderla, quanto per frenarla in modo da darsi un contegno e continuare quel gioco di provocazioni.

"Noi, dici? Ma ci hai visti?"

Ribatté, ma solo per scherzare. In realtà, dentro di sé, stava già fantasticando sulla possibilità di avere un piccolo rituale tutto loro, ignoto al resto del mondo. Gli sarebbe piaciuto davvero tanto.

Domenico, che non l'aveva detto tanto per dire, annuì con convinzione.

"Sì, e che problema c'è? C'è qualche legge che ce lo vieta, per caso?"

Domandò, retoricamente, con una perfetta faccia da schiaffi o da baci, a seconda dei punti di vista.

Claudio, il quale rientrava decisamente in quest'ultimo, avrebbe volentieri cancellato con le proprie labbra quel sorriso smargiasso sul viso dell'altro e si sarebbe un po' meno volentieri preso a schiaffi soltanto per averlo pensato. Sospirò, ma fece in modo di liberare solo un sospiro leggero, per non appesantire il momento o far preoccupare Domenico, e sorrise, scuotendo il capo.

"No, nessun divieto."

Domenico annuì, soddisfatto.

"Allora per me va bene. Per te?"

Domandò con la consueta voce calda e leggera e un po' per dare enfasi alle sue parole e un po' per zittire l'avvocato prese un piccolo struffolo tra il pollice e l'indice, porgendolo all'altro.

Claudio seguì il suo movimento e per un istante venne attraversato dal pensiero di avvicinare la bocca e prendere il piccolo dolcetto direttamente dalla sua mano, magari soffermandosi per qualche secondo a leccare le piccole gocce di miele -gli sembrava già di assaporarle- che gli stavano colando sulle dita, ma fortunatamente intervenne il proprio lato più razionale -'Che penserebbe di te se facessi una cosa tanto oscena?'- ad evitare il disastro. Si schiarì la voce, dunque, e -un po' a malincuore, prese lo struffolo con le proprie dita e se lo portò alla bocca per assaggiarlo. Era buono, davvero tanto, eppure qualcosa gli diceva che dalla mano di Domenico lo sarebbe stato di più.

"Anche per me va bene."

Domenico, che sul momento non aveva pensato alle implicazioni che quel gesto potesse avere, all'improvviso venne investito dall'immagine di Claudio che si sporgeva a mangiare il boccone che gli stava offrendo direttamente dalle proprie dita e fu così vivida che gli sembrò quasi di sentire le sue labbra a contatto con la propria pelle -'Come sarebbero le sue labbra? Morbide, nonostante le piccole screpolature dovute al freddo, oppure proprio per questo un po' ruvide? Calde, sicuramente calde.'-, ma non era ciò che voleva. O meglio, lo desiderava tantissimo, ma non era con quest'intenzione che aveva usato quell'approccio, non voleva imporre nulla a Claudio e soprattutto non voleva metterlo a disagio. Per questo motivo, in cuor proprio, si sentì in parte sollevato quando l'altro si limitò a prendere lo struffolo con le dita.

"Aggiudicato, allora. Abbiamo creato una tradizione."

Mise su un bel sorriso, che Claudio subito ricambiò.

"La seduta è tolta."

Ribatté scherzoso ed entrambi condivisero una risata.

Poco prima di mettersi a sedere, Claudio prese dal frigo una bottiglia di vino rosso molto pregiato -o almeno così faceva intendere il certificato di accompagnamento, lui non era né un esperto né un estimatore- che con i dolci, a differenza che con il pesce, si sarebbe sposato bene. Gliel'aveva fatta recapitare suo padre giusto il giorno prima come regalo di Natale...un regalo abbastanza inutile, considerando che lui era praticamente astemio, ma questo suo padre lo sapeva benissimo e Claudio non aveva dubbi che l'avesse fatto di proposito.

Domenico, a dirla tutta, non si aspettava che Claudio tenesse alcolici in casa, era stato lì tante volte e ad eccezione di qualche birra che comprava appositamente per lui non ne aveva mai visti in giro.

"Non ti facevo intenditore di vini, sai?"

Claudio fece una risatina, scuotendo il capo, per poi sedersi.

"Infatti non lo sono nemmeno un po', ma questo dovrebbe andare bene con i dolci, no?"

Domandò un po' titubante, ma ogni timore venne fugato dal mezzo sorriso di Domenico.

"Beh, neanch'io sono un grande esperto, ma questo vino, con i dolci, dovrebbe essere proprio perfetto. Ti sarà costato una fortuna..."

Notò, con una punta di apprensione che gli fece aggrottare leggermente le sopracciglia. Sperava davvero che non l'avesse comprato per fare bella figura con lui, in previsione dell'incontro che in teoria avrebbero dovuto avere il mese successivo.

"Ah no, in realtà no, non l'ho pagato una lira. È un regalo."

Rispose Claudio, sorridendo soddisfatto. Quello era decisamente il modo migliore per sfruttarlo. 

"Un regalo da parte di qualcuno che non ti conosce proprio per niente..."

Commentò Domenico, senza riuscire a trattenersi dal contorcere un poco le labbra in un'espressione di disapprovazione. Non ne aveva le prove, ma sentiva che quella bottiglia provenisse dalla famiglia dell'amico, che di sicuro rientrava nel profilo che aveva tracciato.

Claudio rispose con una scrollata di spalle, non aveva proprio voglia di addentrarsi in quel discorso. Era felice, stava passando una serata più che piacevole e non voleva cambiare assolutamente nulla.

"Non è importante chi me l'ha regalato, adesso. Ciò che conta è che possa condividerlo con qualcuno che, invece, mi conosce benissimo. Lo assaggiamo?"

Disse con voce morbida, guardando l'altro dritto negli occhi, per poi prendere in mano il proprio calice. L'espressione contrariata di Domenico si trasformò immediatamente in un sorriso caldo e al tempo stesso avvertì come un qualcosa di altrettanto caldo sciogliersi dentro di sé.

"Assaggiamo."

Prese a sua volta il proprio calice e lo fece tintinnare con quello dell'altro, per poi bere un discreto sorso. Claudio fece contemporaneamente la stessa cosa, ma preferì prenderne un sorso più piccolo, dal momento che non era molto abituato a bere.

Il vino era effettivamente molto buono, dal sapore fruttato, così come erano buoni i dolci che i due ragazzi presero a mangiare, ma ben presto l'attenzione di Domenico fu catturata da Claudio, facendogli dimenticare ciò che aveva nel piatto. Gli venne da sorridere a vedere le sue guance un po' gonfie -perfettamente lisce, senza un filo di barba-, che gli ricordarono quelle di uno scoiattolo, i suoi occhi chiusi in un'espressione di completa beatitudine e a sentire i suoi mugolii d'approvazione che, di tanto in tanto, rendevano inequivocabile con quanto gusto stesse mangiando -gli struffoli e i calzoncelli di sua madre avevano decisamente colpito nel segno-. Non lo trovava buffo, anzi per lui non poteva essere più bello di così, libero di essere se stesso senza alcuna imposizione.

Claudio, dal canto suo, sapeva di potersi concedere quella libertà, perché con Domenico era al sicuro.

"Sono così pieno che credo potrei rotolare!"

Esclamò divertito, reclinandosi leggermente sulla sedia e liberando un profondo sospiro, soddisfatto. Domenico ridacchiò e si alzò in piedi, raccogliendo i due piattini sporchi con i relativi cucchiaini.

"Allora rotola di là e vatti a mettere sul divano, io intanto sistemo qua e poi ti raggiungo."

Claudio scosse il capo, in disaccordo.

"No, non esiste proprio. Il minimo che possa fare è darti una mano, così in due facciamo anche prima."

Ribatté, alzandosi e raggiungendolo.

"Guarda che non è necessario, davvero. Se sei stanco..."

Cominciò a dire Domenico, ma Claudio lo interruppe.

"Non sono stanco, ma ti pare? Io lavo e tu asciughi?"

Gli disse sorridente, mentre si arrotolava le maniche del maglione e della camicia.  Domenico sospirò, non potendo far altro che annuire.

"Fattelo dire, tieni proprio 'a capa tosta, tu."

Commentò ironico, con le labbra curvate in un mezzo sorriso, facendogli spazio al lavandino. Claudio prese posto accanto a lui, ridacchiando, e cominciò a lavare i piatti.

"Ma ho anche dei difetti!"

Domenico fece una risatina, poi mise su un'espressione dubitativa.

"Se ce li hai, li devo ancora scoprire...ma secondo me non ce ne sono."

Disse, rivolgendogli un sorriso morbido.

Claudio reagì dandogli una leggera spallata, imbarazzato. Era tutt'altro che perfetto, lui.

"Ruffiano!"

Esclamò un po' rosso in viso, ma divertito.

Domenico sollevò un sopracciglio, furbescamente.

"Sincero."

Lo corresse, facendo poi un occhiolino.

Claudio alzò gli occhi al cielo, fingendosi esasperato.

"Dici così solo perché ci vediamo per pochi giorni al mese, fidati."

Domenico scosse il capo, risoluto. No, non poteva accettare una risposta del genere.

"Mi piacerebbe vederci tutti i giorni, ma sono sicuro che anche così non ti troverei nemmeno un difetto, perché non ne hai."

Rispose con voce morbida, che però portava con sé il peso di quel desiderio irrealizzabile.

Claudio si voltò a guardarlo e notò che i suoi occhi verdi si erano fatti più malinconici.

"Piacerebbe tanto anche a me."

Abbozzò un sorriso, carico dello stesso fardello.

"E sono certo che neanch'io riuscirei a trovarti dei difetti."

Aggiunse, e Domenico ridacchiò piano, passandogli una mano tra i capelli per arruffarglieli un po'. L'amico si sbagliava, però, perché lui, a differenza sua, di difetti ne aveva eccome.

"Chi è che sta facendo il ruffiano, adesso?"

Chiese scherzoso, per alleggerire il momento, e Claudio in risposta gli allungò delle posate da asciugare, sbuffando giocoso dietro ad un sorriso felice.

"Asciuga queste, va!"

Si scambiarono uno sguardo affettuoso, che nel giro di un attimo sfociò in una risatina condivisa perché era sempre molto facile ridere insieme. Continuarono ad asciugare e a lavare piatti, poi, in un piacevole silenzio, interrotto soltanto dal rumore dell'acqua e delle stoviglie che toccavano tra loro.

Domenico, però, dopo un po' cominciò ad asciugare gli oggetti con movimenti automatici, perché il pensiero era altrove. Era andato lì a Roma con uno scopo -oltre al voler trascorrere il Natale insieme-  e si chiedeva, tra un battito e l'altro del proprio cuore agitato all'idea, come riuscire a raggiungerlo. Ne aveva anche parlato con sua madre e con Sara, ma non era sicuro di essere capace di mettere in pratica i loro consigli, per quanto preziosi.

Claudio, notando quanto fosse pensieroso, raccolse un po' di schiuma con due dita e le avvicinò furtivamente alla punta del naso dell'altro, depositandola lì con un gesto fulmineo, in un modo simpatico per richiamarlo alla realtà e sottrarlo a quei pensieri che, a giudicare dalla sua espressione corrucciata, dovevano essere piuttosto pesanti.

Domenico ebbe un piccolo sussulto e arricciò il naso, contrariato.

"Oh, ma che fai?"

Sbottò, ma il suo tono era leggero, allegro.

"Ah, allora ci sei!"

Esclamò Claudio, con gli occhi che brillavano divertiti. Domenico annuì, pulendosi il naso con la mano.

"Certo che ci sono! Scusami, ero sovrappensiero..."

Claudio accennò un sorriso, morbido e gentile.

"L'ho notato. Ne vuoi parlare?"

Domenico scosse il capo, non era proprio il caso. Parlavano di tutto, loro due, ma non poteva dirgli ciò che gli passava per la testa in quel momento...o meglio, non sapeva come farlo.

"No, sono cose di lavoro...ma niente di grave, non ti preoccupare. Grazie, comunque."

Disse, accennando un mezzo sorriso. Claudio, però, non era molto convinto, aveva fiutato la bugia, ma non capiva perché non volesse dirgli la verità, dato che si dicevano sempre tutto.

"Sicuro?"

Chiese, sollevando appena un sopracciglio. Domenico annuì, allargando un po' di più il proprio sorriso per risultare più convincente.

"Sicuro. Non è niente, davvero."

Claudio lo fissò per qualche istante, poi scrollò le spalle, preferendo non insistere ulteriormente per non risultare pesante.

"Come vuoi. Se cambi idea, sono qui."

"Ah, lo so. Di poter contare su di te, intendo."

Replicò Domenico, un po' impacciato, ma sincero.

Claudio gli donò un sorriso, accompagnandosi con un cenno d'assenso, felice di poter essere, nel suo piccolo, un punto di riferimento per una persona a cui teneva così tanto e tornò alla sua mansione.

"Claudio?"

Lo richiamò Domenico dopo poco, mettendo da parte i piatti che stava asciugando.

"Sì?"

Rispose Claudio, ma non fece in tempo a voltarsi che gli arrivò in faccia uno schizzo d'acqua inaspettato che lo portò ad arricciare il naso e a sussultare.

"Lestofante!"

Urlò, senza però essere davvero arrabbiato, mentre Domenico rideva per quella reazione degna di un gatto che aveva subito il suo stesso trattamento.

"Adesso siamo pari!"

Esclamò trionfante, porgendogli un tovagliolo per asciugarsi. Claudio lo accettò ridacchiando e se lo passò sul viso senza smettere di guardare l'amico di sbieco, ma era uno sguardo che celava un sorriso. Era da tempo che non giocava così.

Domenico lo guardava a propria volta, con gli stessi occhi allegri e il cuore che gli diceva di avvicinarsi ancora un po', spostare quel pezzo di stoffa e raggiungere le sue labbra...ma non lo fece. Preferì, piuttosto, tornare ad occuparsi dei piatti ancora bagnati che aveva lasciato in sospeso.

"Comunque avevi ragione, in due abbiamo fatto prima."

Disse, dopo un po'. Claudio annuì, soddisfatto.

"Ti va se ci facciamo una foto, adesso? Prima che ci venga l'abbiocco..."

Propose con un sorriso e Domenico, naturalmente, si illuminò a sua volta.

"Sì, mi sembra un'ottima idea!"

Si guardò intorno, con gli occhi puntati verso il basso, alla ricerca di qualcosa o meglio di qualcuno.

"Ma Partenope dov'è finita?"

Claudio indicò il soggiorno con un cenno del capo.

"Ah, probabilmente è nella sua cuccia, di solito a quest'ora stiamo già sotto le coperte, ma non è detto che stia dormendo. Vediamo..."

Si spostarono nell'altra stanza e, in effetti, la gatta era acciambellata nella sua cuccia, sistemata ben bene sotto la sua copertina -il vecchio maglione di Domenico, per la precisione-, ma non appena vide i due ragazzi sollevò il capo, puntando gli occhi gialli verso di loro, e miagolò. Claudio e Domenico si avvicinarono e si chinarono a farle un po' di carezze, sorridenti, ricevendo in cambio tante fusa, poi il primo si spostò per prendere la macchina fotografica.

"Partenope, ci facciamo una foto?"

Chiese rivolto verso di lei, con voce allegra, e la micia subito scattò fuori dal suo rifugio caldo per andare a sedersi ai piedi del padroncino, osservandolo con impazienza. Domenico scoppiò a ridere osservando la scena e, senza spostare lo sguardo da quella coppia, si alzò in piedi e si avvicinò.

"Le piace farsi fotografare?"

Non nutriva dubbi circa l'intelligenza di quella gatta, per cui non era sorpreso dalla cosa. Claudio annuì, facendo una risatina.

"È una vera diva, quando prendo questa in mano..."

Agitò leggermente la macchina fotografica che reggeva.

"...inizia a mettersi in posa e non la smette più! L'abbiamo scoperto da poco, ma ho già quasi un album pieno solo di foto sue!"

Spiegò, con gli occhi che brillavano affettuosi.

"Ah, dopo le voglio vedere allora! Adesso però non facciamo attendere la diva, non è educato. Dove mi metto?"

Chiese Domenico, che da un lato non voleva scontentare Partenope e dall'altro non vedeva l'ora di aggiungere un'altra foto alle loro cornici dei ricordi.

Claudio indicò l'albero con una mano, deciso: aveva già la foto in mente.

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Capitolo 35
*** Appendice, Capitolo 4 – E ad amarmi un po’ di più (parte 3) ***


Tw: omofobia, descrizione dettagliata di cicatrici 

"Siediti lì a terra, con Partenope in braccio. Io inserisco l'autoscatto e vi raggiungo."

Disse Claudio, con sicurezza. Prima di tutto, però, spostò una sedia dalla cucina e la portò in salotto, posizionandola ad una certa distanza dall'albero e per creare un po' di altezza in più vi impilò sopra qualche libro. Controllò l'inquadratura per assicurarsi che fosse precisa e, dopo qualche piccolo aggiustamento, inserì l'autoscatto e si precipitò accanto a Domenico, seduto a gambe incrociate con Partenope in braccio, imitandone la posizione. Pochi secondi dopo un inconfondibile suono segnalò che la foto era stata scattata.

"Facciamone un'altra per sicurezza."

Propose, e Domenico annuì. Claudio dunque si alzò per inserire nuovamente il comando automatico, ma questa volta, quando andò a sedersi sotto l'albero, mise un braccio intorno alle spalle di Domenico senza realmente deciderlo, mosso soltanto dall'esigenza di farsi un po' più vicino a lui. Domenico, naturalmente, non si sottrasse e assecondò il movimento come era solito fare con le onde del mare.

"Secondo me è venuta meglio questa."

Commentò a bassa voce, dopo il suono dello scatto. Claudio, rendendosi conto solo in quel momento di ciò che aveva fatto, sgranò leggermente gli occhi per un istante, ma poi annuì, piano.

"Anche secondo me."

Si scambiarono quei sorrisi che non avevano lasciato i loro volti perché non erano di circostanza, fatti solamente per la foto, ma venivano dai loro cuori, guardandosi negli occhi pieni d'affetto, e sciolsero il loro contatto, lentamente: in realtà nessuno dei due avrebbe voluto separarsi, ma ne erano rispettivamente all'oscuro.

Partenope invece si incamminò in avanti e salì sul divano, miagolando poi nella loro direzione per attirarli e i due ragazzi ridacchiarono.

"La diva ci reclama."

Commentò Domenico con una punta di affettuoso sarcasmo, alzandosi. Claudio fece lo stesso un istante dopo e annuì, facendo una risatina per la sua battuta.

"Accomodati, ti faccio vedere le sue foto."

Disse, ma Domenico, prima di andare a sedersi, andò a mettere a posto i libri e la sedia che avevano usato come cavalletto improvvisato per evitare che l'altro ripetesse lo sforzo.

Claudio si avvicinò, con un sorriso,  a recuperare la macchina fotografica che l'amico gli porgeva.

"Non c'era bisogno, l'avrei fatto io."

"Lo so, perciò ti ho preceduto."

Replicò Domenico facendogli un occhiolino, andando infine a sistemarsi accanto a Partenope, che prese ad accarezzare.

Claudio poté soltanto dirgli "Grazie", sia con la voce che con lo sguardo, e si sedette accanto a lui dopo aver recuperato l'album fotografico. Aveva una copertina bianca, vellutata al tatto, in cui al centro era disegnato un gatto del tutto simile a Partenope intento a sonnecchiare in una cuccia sotto la scritta Sweet Dreams. Decisamente appropriato al suo contenuto, insomma.

"Mi sembra quasi di vedere già una sua foto."

Disse Domenico, divertito, dopo aver fatto una risatina dolce e Claudio annuì.

"Non ti nascondo che, in effetti, ce n'è una molto simile qui dentro."

Replicò, con un sorriso sghembo sull'angolo delle labbra.

"Ah, conoscendo il soggetto non mi stupisco..."

Commentò Domenico, affettuosamente sarcastico, e Partenope emise un miagolio acuto, piccata, offesa da quelle parole. Domenico, però, provvide subito a farsi perdonare con qualche grattino.

"Non te la prendere, dai! Fai bene a dormire tanto, tu che puoi! Se potessi lo farei anch'io, che ti credi?"

Replicò, rivolto direttamente a lei con un sorriso giocoso, e la gatta si calmò, cominciando addirittura a fare le fusa: una scena che Claudio osservò con occhi e sorriso innamorati.

Presero dunque a sfogliare l'album, in cui effettivamente comparivano molte foto di Partenope che dormiva nei posti e nelle posizioni più varie -a pancia in giù sul divano, raggomitolata sul letto, accoccolata sulle gambe di Claudio, perfino tra i libri della libreria- ma anche molte altre in cui, ad esempio, stava seduta e guardava in camera con il capo leggermente inclinato e occhi vispi, giocava con un topolino di stoffa, si leccava una zampetta, se ne stava accucciata, tesa, pronta a scattare per fare un agguato ad un giocattolino o provava a raggiungere con le zampe la macchina fotografica stessa. Partenope, accomodata tra i due ragazzi, le osservava tutte con attenzione e non c'era dubbio che capisse di essere proprio lei la protagonista di quegli scatti.

Ad ogni foto, poi, corrispondeva un tenero commento da parte di Domenico -"Che classe, che eleganza!", "Ah, quelle zampe me le mangerei di baci!", "È proprio una diva!", "Guarda qua, sembra Sophia Loren!"- oppure una sua tenera risata e Claudio avrebbe tanto voluto, davvero con tutto se stesso, posare un bacio -piccolo, casto, appena accennato, niente di eccezionale- su una delle fossette che gli si formavano sulle guance quando rideva. Un bacio che dovette tenere per sé ed inghiottire anche se era già arrivato alla punta delle labbra.

"Sono davvero meravigliose, ci si potrebbe fare una mostra!"

Commentò infine Domenico chiudendo l'album, rivolgendo all'amico uno sguardo sinceramente ammirato. Claudio abbozzò un sorriso, lusingato, scrollando le spalle.

"Ah, non sono niente di che... sicuramente il soggetto aiuta, però."

Ribatté, modesto, accarezzando la copertina vellutata su cui teneva fissi gli occhi.

"Questo è senz'altro vero, ma è altrettanto vero che hai talento! Prenditi un complimento per una volta, su!"

Replicò Domenico, incoraggiante, cercando il suo sguardo con il proprio. Gli era ormai chiaro da tempo che l'amico non ne avesse ricevuti molti e lui era deciso a rimediare, anche perché se li meritava!

Claudio abbozzò un sorriso, sollevando un sopracciglio.

"Tu me li fai sempre!"

Ed ogni volta sentiva il proprio cuore fare un salto, e nemmeno questa aveva fatto eccezione.

Domenico annuì, con un cenno profondo del capo. Non aveva certo intenzione di smettere!

"E sono tutti meritati!"

Puntualizzò, portando una mano ad arruffargli i capelli. Claudio scoppiò a ridere, gioioso, e il suo cuore fece un ulteriore salto.

"Va bene, va bene, ho capito, le foto sono bellissime!"

Esclamò, ancora scosso dalle risate, e Domenico lo lasciò andare dandogli un buffetto sulla guancia.

"Oh, vedi che non era difficile?"

Esclamò, con un sorriso soddisfatto.

"Diciamo che sai essere convincente."

Replicò Claudio, che di sfuggita, posò lo sguardo sull'orologio appeso al muro mentre si dava una sistemata ai capelli.

"Senti, che ne diresti se ci bevessimo un bicchiere di vino mentre aspettiamo la mezzanotte? Non manca molto."

Domenico si voltò in direzione dell'orologio, poi tornò a guardare Claudio e diede un cenno d'assenso.

"Solo un bicchiere però, eh."

Precisò, rafforzando le parole con un indice leggermente sollevato, sforzandosi di non lasciar trasparire preoccupazione -quella notte d'estate a Napoli era stato il momento più importante della sua vita, il ricordo era ancora fresco e limpido nonostante fossero passati mesi e proprio per questo ricordava perfettamente lo stato in cui versava Claudio quando l'aveva trovato-, ma Claudio la colse ugualmente da una sottile increspatura della voce e da un'ombra nei suoi occhi verdi. Anche lui ripensava a quella notte -i cui ricordi, quelli importanti almeno, erano straordinariamente lucidi nonostante tutto l'alcool che aveva mandato giù- e se fosse stato necessario si sarebbe ubriacato altre mille volte pur di incontrare Domenico, ma non era questo il caso. Gli sorrise, quindi, rassicurante.

"Tranquillo, non ho intenzione di ubriacarmi. Voglio solo festeggiare il Natale con te, insieme."

Domenico, più tranquillo, ricambiò il sorriso e dopo aver mormorato un "Torno subito" si diresse in cucina per poi tornare di lì a poco, portando la bottiglia in una mano e i calici, stretti tra le dita, nell'altra. Anche lui voleva festeggiare quel Natale insieme e sapere che l'amico fosse della stessa idea lo rendeva felice, gli scaldava il cuore, e gli dava anche un po' di coraggio. Da un lato, infatti, una vocina nella sua testa gli suggeriva che quello potesse essere il momento adatto a dire a Claudio ciò che si era ripetuto in auto per una buona parte del viaggio, ma dall'altro subito un'altra vocina interveniva a fermarlo, ricordandogli che fosse meglio tacere per non rovinare tutto. Il suo cuore e la sua testa erano, insomma, molto combattuti.

"Ecco a te."

Disse porgendo all'altro un bicchiere, per poi riempirglielo.

"Grazie."

Replicò Claudio, accennando un sorriso. Si prese quei preziosi secondi per osservare con attenzione il volto dell'amico e constatò che ciò che preoccupava Domenico -qualsiasi cosa fosse- si trovava ancora lì, dietro quegli occhi di bosco, che sembrava più illuminato da una flebile Luna che da un Sole splendente. Attese che l'altro si accomodasse accanto a lui -erano entrambi seduti di lato, con un fianco poggiato sullo schienale del divano in modo da guardarsi negli occhi, e con la mano libera su Partenope, stesa in mezzo a loro, per accarezzarla- e sollevò leggermente il calice per proporre un brindisi.

"Al nostro Natale!"

Esclamò e Domenico ricambiò il gesto, concordando con un cenno del capo ed un sorriso.

"Al nostro Natale!"

Ripeté.

Fecero tintinnare delicatamente i rispettivi calici l'uno con l'altro, poi appoggiarono per un istante la base sul tavolino prima di sollevarli di nuovo e bere un sorso di vino. Subito dopo, Claudio puntò gli occhi sull'amico.

"Senti, ma...secondo te fossimo stati a Napoli, cosa staremmo facendo adesso?"

Domandò, apparentemente senza un motivo preciso, ma in realtà ipotizzava che dietro quell'incupimento improvviso dell'umore di Domenico c'entrasse in qualche modo l'essere lontano da Napoli e, di conseguenza, dalla sua famiglia.

Domenico liberò un piccolo sbuffo divertito e non ebbe bisogno di pensare per molto ad una risposta, giusto il tempo di bere un sorso di vino. Aveva trascorso così tante feste con la propria famiglia che praticamente poteva vedere l'immagine davanti ai propri occhi.

"Staremmo sicuramente giocando a tombola, con mio zio Gennaro che russa alla grossa sul divano perché ha alzato un po' troppo il gomito e mio cugino Pasquale che urla ambo dopo un solo numero estratto, come tutti gli anni, credendo di essere simpatico. Alla fine, comunque, vincerebbe Sara. Ha una sfortuna sfacciata, a tombola."

Inevitabilmente, al termine della spiegazione, le labbra si curvarono in un mezzo sorriso carico d'affetto.

Claudio, nel suo tono, colse un guizzo di nostalgia, che andava a confermare i propri dubbi. Quel modo di vivere il Natale gli sembrava tutto sommato divertente, soprattutto per una persona così legata ai propri cari, e forse Domenico si era pentito di andare lì, da lui, per trascorrerlo in un modo decisamente più noioso. In fondo, lo capiva perfettamente.

"Ti mancano molto, eh? Vorresti essere lì con loro in questo momento, non è vero? Me lo puoi dire, non mi offendo."

Rispose, cercando di non mostrare quanto fosse dispiaciuto da quella possibilità e sforzandosi anche, per questo motivo, di accennare un sorriso.

A Domenico, però, non sfuggirono i suoi occhi tristi ed immediatamente il suo sorriso si trasformò in un'espressione corrucciata, con le sopracciglia leggermente aggrottate e gli occhi preoccupati. Si sentì anche in colpa perché, chiaramente senza volerlo, doveva aver fatto qualcosa per fargli pensare di non essere all'altezza di trascorrere il Natale insieme e che con lui non si stesse trovando bene. Doveva rimediare subito.

"No, Claudio, non dire così..."

Gli prese la mano -sul fianco di Partenope- e gli occhi verdi trepidanti corsero dai suoi.

Claudio abbassò per un attimo lo sguardo, attratto dal calore della sua mano che adesso sentiva così chiaramente sulla propria, ma poi lo sollevò di nuovo, richiamato da quello dell'altro. Non fece in tempo a dire nulla, perché Domenico riprese subito a parlare.

"Se sono qui è perché ho scelto di farlo, perché lo voglio. Non avrei potuto fare una scelta migliore e certamente non me ne pento. Mi manca la mia famiglia, è vero, ma solo perché penso che anche tu ti saresti divertito tanto, con loro."

Un sorriso sbocciò sul viso di Claudio, come un fiore in un prato accogliente, all'idea che qualcuno -e non una persona qualsiasi- lo avesse scelto, in qualche modo, nonostante le alternative disponibili. Lui e Domenico erano amici ormai da più di un anno, non avrebbe più dovuto stupirsi di simili dimostrazioni d'affetto, eppure ogni volta il suo cuore accelerava come la prima.

Domenico sorrise di rimando, ritrovandosi a pensare a quanto fosse puro il sorriso di Claudio, e l'immagine che la sua mente gli offrì fu quella di una rosa bianca. Riprese a spiegare con decisione, senza staccare lo sguardo dal suo e senza lasciargli la mano, deciso a scacciare a tutti i costi quei pensieri dalla sua testa.

"Ti chiedo scusa per averti dato un'impressione diversa, ma sono davvero, davvero felice di essere qui, ok? Mi dispiace solamente di non poter restare più a lungo."

Quel fiore appassì così come era sbocciato, come se lo avessero tolto dal suo prato per metterlo in un vaso con pochissima acqua: per Claudio era sempre difficile separarsi dall'amico, anche se naturalmente non gliene faceva una colpa, ma era un'altra cosa a cui era difficile abituarsi.

"Quando riparti?"

Domenico si morse un labbro, dispiaciuto. Anche per lui non era mai facile tornare ad una vita senza l'altro.

"Domani pomeriggio, perché dopodomani lavoro. Le decorazioni, però, restano a te, sono tue, eh..."

Si fermò, per un istante, perché gli era venuta un'idea per far fiorire di nuovo quella purissima rosa bianca.

"Senti, ma perché non vieni con me? Passiamo insieme il resto delle feste e poi ti riaccompagno un paio di giorni prima del tuo esame. Ti porti i libri, così puoi studiare, e sai che anche per Partenope non c'è problema."

Propose, con trepidante entusiasmo.

Claudio sgranò leggermente gli occhi, sorpreso, ma poi liberò uno sbuffo felice e in un attimo tutta la tristezza scomparve. Ormai conosceva abbastanza bene la famiglia Liguori per sapere che sì, senza dubbio si sarebbe divertito con loro, e poi avrebbe trascorso più tempo con Domenico, che già da solo era un motivo più che valido a partire. Sapeva che anche Partenope sarebbe stata felice della cosa, lo era sempre quando la portava a Napoli con sé -nel condominio di Domenico non erano ammessi animali, ma fortunatamente per qualche giorno non succedeva niente-, il che era un altro ottimo incentivo.

"Beh, se io e Partenope non disturbiamo..."

Cominciò a dire, ma Domenico lo interruppe subito alzando gli occhi al cielo e sbuffando.

"Ma ti pare? Ma quando mai avete disturbato, voi due! Lo sai che mamma e Sara ti adorano!"

Scosse il capo, divertito.

"Allora, lo prendo per un sì?"

Claudio annuì, ridacchiando di cuore. Sì, era perfettamente consapevole di quanto le due donne gli volessero bene, lo avvertiva dentro e non nutriva il minimo dubbio. La prima non mancava mai di dimostrarglielo con uno sguardo gentile o, soprattutto, con il cibo -la misura più vera dell'amore, come aveva sentito dire da qualche parte-, o per meglio dire con quei manicaretti che lei preparava appositamente per lui perché, col tempo, aveva capito quali piatti fossero i suoi preferiti. La seconda, invece, gli parlava, tantissimo, gli chiedeva consigli -anche sulle questioni più private- oppure lo ascoltava con attenzione -cosa non da poco-, dandogli consigli a sua volta, ed insomma cercava in tutti i modi di non farlo sentire solo quando il fratello non c'era. Non sapeva se Domenico avesse raccontato loro del rapporto che aveva con la propria famiglia -ma era quasi sicuro di no, l'amico non era un pettegolo-, ma era come se loro avessero intuito qualcosa e si adoperassero per porre rimedio agli errori di qualcun altro. In questo erano molto simili a Domenico, il quale si comportava esattamente allo stesso modo con lui.

"Certo, certo che è un sì!"

Esclamò felice, stringendo con leggera forza la mano di Domenico, il quale sorrise a trentadue denti.

"Oh, bene! Non voglio avvisare a casa, però. Facciamo una sorpresa, ti va?"

"Ah, per me va bene. Se vuoi, posso anche mettermi un bel fiocco rosso in testa, che dici?"

Replicò Claudio con una punta di sarcasmo, pieno di allegria. Domenico scoppiò a ridere e dovette fare attenzione a non rovesciare il vino sul divano.

"Non scherzare, che secondo me ci staresti pure bene. Quasi quasi..."

Lasciò la frase in sospeso, accompagnandosi con un sorrisetto furbo, giocoso, e fu Claudio, ora, a riempire il salottino con la propria risata. Stavano scherzando, sì, ma sarebbe davvero stato disposto a farlo se a chiederglielo fosse stato lui.

La campana della chiesa del quartiere li avvisò che era ormai scoccata la mezzanotte ed entrambi, per pochi istanti, si misero all'ascolto, attenti. Si sorrisero, poi, dolcemente, e solo con uno sguardo decisero di posare i bicchieri di vino, ancora mezzi pieni, sul tavolino e avvicinarsi al presepe. Claudio prese la scatola dei pastori, recuperò la statuetta di Gesù bambino e la porse a Domenico: gli sembrava la cosa più logica, visti il suo legame con il Natale e la sua Fede.

"Tieni."

Disse a bassa voce, con un sorriso. Domenico accettò la statuina, a cui rivolse uno sguardo affettuoso. Vi posò un piccolo bacio e la passò di nuovo all'altro: era il suo modo di restituirgli il Natale e con esso, sperava, dargli ricordi belli e serenità.

"Mettilo tu, dai."

Disse, incoraggiante, ma Claudio non era molto convinto e si morse un labbro, indeciso.

"Non credo sia il caso..."

Mormorò, ma Domenico non si tirò indietro.

"E invece ti tocca, sia perché è tradizione che la persona più giovane metta il Bambinello nella grotta, sia perché te lo meriti."

Gli sorrise, teneramente.

"Su, vediamo di non fare Pasqua!"

Aggiunse, più giocoso. Claudio fece una risatina e riprese la statuina tra le mani, con delicatezza, per poi rivolgere all'amico un sorriso morbido -'Sei troppo buono con me.', pensò- prima di replicare il suo gesto di poco prima e poggiare le labbra, per qualche attimo, sul capo del Bambinello. Subito dopo lo collocò al suo centro della grotta, tra il bue e l'asinello e i suoi genitori, e sentì che qualcosa dentro di sé era tornata al proprio posto.

Domenico tenne lo sguardo fisso sulla grotta per qualche istante e si fece il segno della Croce, ma poi lo spostò sull'amico accanto a lui, discretamente, senza farsi vedere. I suoi occhi blu erano un mare limpido, placido, e gli angoli delle labbra erano sollevati in un sorriso piccolo, ma presente e capace di illuminare tutta la stanza. 'Ti prego, fa' che questa serenità non lo abbandoni mai.', disse in cuor proprio.

"Se per te va bene vorrei sistemare io l'angelo, in onore del mio passato da attore!"

Esclamò giocosamente, riferendosi alle recite della scuola e della parrocchia, e Claudio annuì, ridacchiando. 'Forse chissà, è questo che sei davvero: un angelo...' pensò, mentre gli passava la statuina.

"Una carriera brillante stroncata troppo presto!"

Ribatté, affettuosamente ironico.

"Scherza, scherza, guarda che ero bravino, sai? Mia madre ha qualche filmino, in questi giorni te li faccio vedere e poi mi dirai!"

Replicò, fingendosi offeso. Claudio trattenne a stento una risatina.

"E noleggeremo un cinema per farlo?"

Domandò con bonario sarcasmo, ma naturalmente stava solo giocando, anzi in realtà si sentiva onorato di poter entrare ancora un po' di più nella vita dell'amico.
Domenico, pur sapendo che l'altro stesse scherzando, in tutta risposta gli fece una linguaccia, per scherzare a sua volta.

A quel punto fu impossibile per entrambi trattenersi ancora dal ridere e così, tra una risata e l'altra, vennero messi al loro posto anche l'angelo, sulla grotta, la stella cometa, un po' più in alto, e i tre Re Magi, sul fondo della mensola: il presepe era ufficialmente completo.

Anche Partenope si era avvicinata, intanto, e aveva miagolato, incuriosita, perché voleva conoscere l'oggetto di tanto interesse da parte dei suoi padroncini e così Domenico, dopo essersi scambiato un sorriso d'intesa con Claudio, prese in braccio la gatta e l'avvicinò alla mensola.  Lei fu bravissima, si limitò ad osservare tutto con occhi attenti, avvicinando un po' il musetto di tanto in tanto, e non fece alcun danno o dispetto. Quando fu soddisfatta miagolò di nuovo per essere messa giù e, dopo essersi strofinata un po' contro le gambe di entrambi i ragazzi, tornò sul divano.

"Tu quando scarti i regali, di solito? A mezzanotte o di mattina?"

Domandò Claudio, a bruciapelo, dopo essere tornati al divano. Lui era rimasto in piedi mentre Domenico, che invece si era seduto -e subito Partenope aveva preso possesso delle sue carezze-, alzò quanto bastava il capo verso di lui, assottigliando leggermente lo sguardo.

"Perché me lo chiedi?"

Domandò, anche se intuiva la risposta. Claudio scacciò l'obiezione con una mano.

"Dai, rispondimi e basta!"

Domenico sollevò l'angolo delle labbra e liberò uno sbuffo divertito.

"A mezzanotte, non resisto fino alla mattina."

Claudio sorrise a trentadue denti, entusiasta, e annuì.

"Aspetta un attimo!"

Esclamò, per poi dirigersi a passo rapido verso la camera da letto. Non vedeva l'ora di dargli il proprio regalo.

Domenico fece una risatina intenerita quando lo vide schizzare via, ma siccome non era venuto impreparato si alzò a sua volta -con Partenope in braccio, perché sarebbe stato difficile separarsi da lei- e prese un pacchetto dal proprio borsone proprio mentre Claudio tornava in salotto, il quale sospirò e scosse leggermente il capo quando lo vide.

"Non avresti dovuto. Mi hai già regalato tanto, questa sera..."

Domenico sollevò l'angolo delle labbra. Lo rasserenava sapere che l'amico fosse felice di come avevano trascorso la serata, ma ciò non cambiava il fatto che meritasse comunque un regalo vero.

"Potrei dire la stessa cosa di te e per inciso lo faccio, ma dubito che ti farebbe cambiare idea, no?"

Chiese, accennando al pacchetto tra le sue mani con il capo. Claudio fece una risatina, colto in flagrante, e scosse il capo.

"No..."

Domenico scrollò le spalle.

"Bene, quindi risparmiamoci i convenevoli, dai."

Gli fece cenno di sedersi e si accomodarono sul divano, di nuovo l'uno di fronte all'altro e si scambiarono i rispettivi pacchetti.

"Prima tu!"

Esclamò immediatamente Claudio, con impazienza e Domenico gli fece un sorriso.

"Va bene, però calmo, eh..."

Disse con divertita dolcezza, per poi spostare lo sguardo sul pacchetto rettangolare che teneva in mano. La carta rossa scintillava, lucida, così come il nastrino dorato che teneva chiuso il tutto, ma presto quel bagliore lasciò spazio ad un libro dalla copertina nera su cui spiccava il viso, quasi di profilo, di una statua di un giovane uomo dai capelli ricci impreziositi da una coroncina vegetale. Poco più in alto era riportato il titolo, Memorie di Adriano, in una sfumatura azzurrina.

Domenico accennò un sorriso: non aveva mai letto quel libro, ma conosceva per sommi capi la storia, così come sapeva che il ritratto del ragazzo in copertina non era quello dell'uomo che dava il nome all'opera stessa, come invece si sarebbe potuto pensare.

"Grazie Claudio, non vedo l'ora di leggerlo!"

Esclamò, con un sorriso entusiasta. Claudio gli sorrise di rimando, ma più incerto.

"Sicuro? Perché se non ti ispira posso cambiarlo."

"Ne sono sicurissimo. È nella lista dei libri che voglio leggere già da un po', e poi se me lo consigli tu vuol dire che è davvero bello."

Ribatté Domenico, facendogli un occhiolino, e Claudio aprì un po' di più le proprie labbra, sentendosi più rilassato.

"Sinceramente sono un po' di parte, perché è il mio libro preferito, sai?"

E quella che adesso Domenico teneva tra le mani era la propria copia, che aveva divorato mille volte, anche se l'aspetto non lo dimostrava. Ne aveva acquistata un'altra per sé, ma era importante che Domenico ricevesse proprio quella perché -come sempre succede con i libri- aveva lasciato un pezzettino del proprio cuore tra quelle pagine e voleva che lui lo trovasse.

Domenico sorrise morbidamente e, in cuor suo, giurò che avrebbe avuto un'immensa cura di quel libro e che lo avrebbe letto con il doppio dell'attenzione che solitamente riservava alla lettura, perché se era il preferito di Claudio, allora sfogliarne le pagine sarebbe stato come accarezzargli il viso o i capelli.

"Un motivo in più per leggerlo, allora."

Disse sorridendogli, per poi indicare con un cenno del capo l'altro pacchetto.

"Tocca a te ora."

Claudio spostò lo sguardo sulla sottile confezione, ricoperta da una carta decorata da piccoli disegni di scenette natalizie -Babbo Natale che guida la sua slitta trainata dalle renne, bambini felici che scartano i regali sotto l'albero, un pupazzo di neve dal sorriso un po' sbilenco ma allegro- che si prese qualche istante per osservare, rigirandosela tra le mani. C'era una piccola coccarda rossa ad ornare il tutto che, probabilmente, stava ad indicare la facciata superiore del regalo, quindi Claudio lo scartò senza capovolgerlo, rivelando una scatola bianca. Sollevò il coperchio, curioso, e all'interno, protetto da un panno sottile i cui lembi si potevano sollevare a metà, trovò un acchiappasogni. Il suo volto si illuminò di un sorriso, istantaneamente.

"Grazie Domenico, è bellissimo."

Disse, sollevandolo con delicatezza. Il cerchio, realizzato in legno scuro, era percorso all'interno da una ragnatela di filo blu che pendeva anche dai lati e dalla parte inferiore, dove scendeva decorata da perline bianche e conchiglie che tintinnarono al suo movimento.

Domenico accennò un sorriso, adombrato da un certo grado di preoccupazione.

"Spero possa essere anche utile, oltre che bello."

Una delle cose che gli pesava della loro distanza -probabilmente quella che gli pesava maggiormente- era il non poter essere lì quando le notti di Claudio si popolavano di incubi e sperava che quell'oggetto potesse davvero aiutarlo, in qualche modo. Era stato lui stesso a realizzarlo, seguendo le indicazioni di una donna che li intrecciava con maestria nella sua bottega -vi era capitato per caso, mentre era in giro a cercare un regalo adatto all’amico-, la quale gli aveva spiegato che se lo avesse fabbricato con le sue stesse mani, l'acchiappasogni sarebbe stato più efficace.

Claudio gli rivolse uno sguardo pieno d'affetto, anche un po' lucido, e annuì piano.

"Non ho dubbi che lo sarà, non ti preoccupare. Devo appenderlo in un posto specifico?"

Chiese, riponendo l'oggetto nella sua confezione per non rovinarlo, e Domenico scosse il capo.

"In camera da letto andrà più che bene...attento, però, che è un attimo che Partenope lo scambia per un giochino."

Concluse scherzoso, indicando con un cenno la gatta che al momento era troppo sonnacchiosa per pensare a quello strano affare. Claudio fece una risatina e annuì.

"D'accordo, domani magari mi aiuti a sistemarlo, se ti va..."

Domenico non esitò a fargli un cenno d'assenso, era ovvio che l'avrebbe aiutato!

"Certo, non devi nemmeno chiedermelo! Ah, poi avrei anche preso delle palline per Partenope, ma non credo che al momento apprezzerebbe. Anzi, mi sa che è il caso di metterla nel suo lettino."

Si alzò, tenendo la micia in braccio con delicatezza, per poi adagiarla nella cuccia assicurandosi di coprirla per bene, in modo che non prendesse freddo durante la notte.
Claudio curvò appena le labbra, morbidamente, mentre osservava intenerito la scena.

"Ti ringrazio anche a nome suo, non avresti dovuto..."

Disse, quando l'amico tornò a sedersi accanto a lui.

"Sciocchezze, dai, per così poco."

Replicò Domenico, per poi prendere in mano il bicchiere ancora un po' pieno. Ne bevve un piccolo sorso e nel farlo posò lo sguardo su Claudio che stava sistemando con cura l'acchiappasogni nella confezione, accarezzando la stoffa che lo ricopriva per eliminarne ogni minima piega, e in un altro momento quell'atto da perfetto precisino lo avrebbe fatto sorridere, ma adesso proprio non ci riusciva. Sara gli aveva consigliato -dopo che lui le aveva bocciato categoricamente l'idea del vischio con un sonoro "Tu guardi troppe commedie di Natale!" a cui lei aveva replicato un altrettanto deciso "E tu le guardi insieme a me!"- di dichiararsi al momento dello scambio dei regali ed anche la loro madre aveva approvato quella proposta. I regali se li erano scambiati, quindi...

"Claudio, io...avrei anche un'altra cosa da darti."

Mormorò, dopo aver finito in un unico sorso il vino rimanente.

Claudio, in un'altra situazione, avrebbe fatto un sorrisetto imbarazzato dicendogli che lo stava viziando e che non c'era bisogno di dargli un ulteriore regalo, ma c'era un qualcosa nella sua voce che gli arrivò strano alle orecchie e quando si voltò si accorse che quel qualcosa era anche nei suoi occhi che sembravano spaventati. Si accigliò, preoccupato.

"Domenico, stai bene?"

Domenico ignorò volutamente la domanda e prese un profondo respiro, ostinato, perché anche se aveva una paura matta, anche se immaginava i peggiori scenari che sarebbero potuti scaturire da un rifiuto, sapeva benissimo che se non lo avesse baciato adesso se ne sarebbe pentito per tutta la vita.

"Promettimi solo che se non ti piace, che se non lo vuoi, farai finta che non ti abbia mai dato nulla. Ti prego, promettimelo."

Gli risultò difficile dare quella risposta, finì per mangiarsi le sue stesse parole, mentre sentiva il cervello che lo stava abbandonando e il cuore che batteva all'impazzata.
Claudio annuì guardandolo dritto negli occhi, anche se non aveva davvero idea di cosa stesse parlando l'amico, non riusciva a pensare ad un regalo che potesse farlo agitare così tanto. Lui stesso, poi, avvertiva una forte stretta allo stomaco dovuta alla preoccupazione perché non aveva mai visto Domenico in quello stato. Non aveva mai visto così tanta paura nei suoi occhi verdi.

"Te lo prometto, tranquillo."

Domenico rimase per una manciata di secondi a guardarlo negli occhi, a immergersi in quel mare blu che, se da un lato lo spaventava, dall'altro gli dava coraggio. Fece un altro sospiro, alla ricerca di un'aria che sembrava improvvisamente mancare in quella stanza, e si sporse lentamente verso Claudio, dandogli eventualmente tutto il tempo di ritrarsi, senza nemmeno toccarlo con le mani per non togliergli in alcun modo vie di fuga, fino a posare un bacio leggerissimo sulle sue labbra, sfiorandole appena. Un breve contatto, ma abbastanza lungo da fargli capire che avrebbe voluto durasse per tutta la vita.

Claudio non si era mosso, non aveva cercato di scappare né mentre vedeva Domenico avvicinarsi né quando aveva sentito le sue labbra sulle proprie e anche adesso che non c'erano più era rimasto immobile, ad eccezione del cuore che si agitava nella cassa toracica come un uccello in gabbia. Per un attimo si chiese se per caso si fosse addormentato e stesse sognando, ma la risposta negativa arrivò subito: nei sogni che faceva era sempre lui a cominciare, sempre lui a baciare Domenico per primo e mai il contrario, quindi quel piccolo bacio doveva per forza appartenere alla realtà. Una realtà senz'altro diversa da quella a cui era abituato, in cui Domenico baciava solo e soltanto ragazze bellissime -anche se non lo aveva visto farlo da un bel po'-, ma non perse tempo ad interrogarsi su quella stranezza, le domande potevano aspettare. Lui voleva un altro po' di quella realtà.

Domenico, non vedendo una reazione da parte dell'altro, capì di aver commesso un errore gigantesco e il panico si impossessò di lui. Come aveva potuto essere così stupido da dargli un bacio senza nemmeno avvisarlo?

"Cazzo, Claudio, perdonami, ti prego...mi dispiace, io..."

Cominciò a balbettare nel tentativo -senz'altro vano- di rimettere le cose a posto, ma venne interrotto da Claudio, che posò le proprie labbra sulle sue.

Un altro bacio leggero, che fece sorridere entrambi come non avevano mai sorriso.

"Ma quindi anche tu...?"

Mormorò Domenico, i cui occhi erano sgranati per lo stupore, ma tanto felici. Claudio accennò una timida risatina, annuendo.

"Non vedevo l'ora di baciarti, sì. Praticamente fin dal primo momento in cui ti ho visto."

Rivelò in un sussurro leggero, finalmente libero da quel peso che si portava dentro da un anno e mezzo.

Domenico non riuscì a trattenere una piccola risata, un po' amara ed un po' incredula, perché quella situazione era quasi surreale. Ma del resto, come Sara gli aveva fatto notare mesi e mesi prima, il loro incontro non aveva nulla di normale e andava più che bene così.

"Anche per me è stato così."

Claudio buttò fuori un sospiro, ripensando a tutte le volte in cui aveva desiderato baciarlo e non l'aveva fatto. Non aveva capito proprio niente!

"Ed io che pensavo ti piacessero le ragazze..."

Replicò, un po' imbarazzato. Domenico si umettò le labbra con la lingua e si schiarì la voce prima di parlare.

"Beh, mi piacciono anche le ragazze. Sono bisessuale."

Rispose, tutto sommato tranquillo. Non si vergognava di ciò che era, anche se doveva stare attento a chi lo diceva, ed era abbastanza sicuro, a questo punto, che Claudio non lo avrebbe giudicato e non avrebbe sminuito il suo orientamento, intimandogli -come gli era successo altre volte- di fare una scelta perché non era concepibile che fosse attratto sia dai ragazzi che dalle ragazze.

"Scusami se non te l'ho detto prima..."

Aggiunse, più dispiaciuto.

Claudio, dal canto suo, ebbe una reazione assolutamente tranquilla e dopo un brevissimo attimo di realizzazione fece propria quell'informazione che, in effetti, lo aiutava a costruire meglio il quadro generale, ma di certo non gli faceva cambiare opinione su chi gli stava davanti. Immaginava, però, che non tutti la pensassero come lui e che Domenico avesse per questo motivo incontrato molta incomprensione sulla sua strada, anche in un ambiente che avrebbe dovuto accoglierlo, perciò gli sorrise con dolcezza, per rassicurarlo.

"Non ti preoccupare, neanch'io ti ho detto che sono gay. È tutto a posto."

Non ebbero bisogno di darsi tante altre spiegazioni o di farsi domande, era inutile chiedersi perché non avessero agito prima, lo sapevano benissimo entrambi: era stata la paura, soltanto quella, ad avvolgerli come fango e ad impedire loro ogni movimento, facendoli restare impantanati in una melma di apparenze. Adesso, però, non c'era più spazio per quella, adesso erano liberi e senza dirsi nulla, semplicemente guardandosi, si avvicinarono di nuovo l'uno all'altro, insieme, attratti come due stelle in collisione.

Domenico portò una mano dietro la testa di Claudio, affondando le dita tra i suoi capelli morbidi, e l'altra sul suo fianco, mentre Claudio ne posò una sul suo viso, accarezzando la barbetta curata, e l'altra sulla sua schiena, entrambi con l'intenzione di non lasciarsi più, al di là di qualsiasi distanza.

Si cercavano con le labbra, con le lingue, con i respiri che si toccavano, si intrecciavano, si mischiavano fino a rendere impossibile distinguere cosa appartenesse all'uno o all'altro, fermandosi solo di tanto in tanto per il tempo strettamente necessario a riprendere un po' di fiato -lasciandosi andare a piccole risatine cariche d'amore-, senza però mai separarsi del tutto.

Tra un bacio e l'altro, mossi da un'unica forza, si spostarono in camera da letto -impiegandoci più tempo del necessario perché non riuscivano ad allontanarsi nemmeno per quel breve tratto- e siccome non avevano occhi che per l'altro e non guardavano dove mettevano i piedi, Domenico non si accorse di essere finito vicinissimo al materasso fino a quando, nel tentativo di indietreggiare ancora, vi cadde sopra, trascinando Claudio con sé. Scoppiarono in una risata cristallina per quella situazione degna di un cliché da film romantico.

"Ti sei fatto male?"

Chiese Claudio, sollevando appena la testa per guardare l'altro negli occhi. Domenico scosse il capo, ancora ridacchiando.

"Per niente. Tu?"

Claudio rispose con lo stesso gesto, anche lui stava benissimo.

"Non avrei potuto desiderare atterraggio migliore."

Sollevò l'angolo delle labbra in un'espressione dolce, ma languida al tempo stesso, da cui Domenico si sentì colpito in pieno, tanto da rimanere stordito da quello sguardo felino -la somiglianza tra Claudio ed i gatti era stata appurata già da tempo- capace di entrarti dentro e rimanere lì per sempre, come gli era successo fin dal primo momento in cui l'aveva incrociato, con la differenza che prima d'ora non aveva mai avuto modo di sperimentare quel guizzo di malizia, ma si trattava senza ombra di dubbio di una piacevolissima scoperta.

Claudio, in un attimo, si tuffò di nuovo sulle labbra dell'altro -stentava ancora a credere di poterlo fare!- dando vita ad un bacio caotico, scomposto, a cui Domenico rispose immediatamente, prendendo senza problemi il ritmo di quella danza. Gli venne però un'idea e così, dopo un po', portò le mani tra i loro corpi, precisamente all'altezza del collo di Claudio e alla cieca, con qualche difficoltà, sciolse il nodo alla cravatta che ancora indossava e la sfilò via per poi aprire anche il primo bottone della camicia, immaginando che sarebbe stato più comodo –più libero- così.

Claudio inspirò fino a riempirsi i polmoni e poi espirò altrettanto profondamente, come se avesse imparato a respirare soltanto adesso -ed in effetti era così- e sorrise sulla sua bocca.

"Grazie."

Sussurrò, senza sollevare il capo. Domenico curvò appena le labbra e allargò ancora un po' il colletto, in modo da fargli arrivare più aria.

"Non mi devi ringraziare."

Mormorò, salendo con una mano a sfiorargli il collo con le dita, gesto che produsse in Claudio una risatina per il lieve solletico, carica però di un'eccitazione leggera. Per Domenico, quella era musica.

"Posso baciarti qui?"

Chiese con voce bassa, ma chiara e morbida. Sapeva che Claudio non aveva problemi a farsi toccare -e, stando ai recenti sviluppi, anche baciare- da lui, ma quella era una situazione nuova e non voleva mettergli fretta in alcun modo o peggio, causargli un disagio.

Claudio avvertì chiaramente le proprie guance, già rosse, farsi ancora più calde solo a sentire quelle parole e il suo cervello andò in tilt nel tentativo di immaginare come sarebbe stato un bacio del genere, perché era sicuro che non ci fosse un metro di paragone adatto a farsi anche solo una vaga idea. Eppure, il contenuto e gli effetti di quella proposta contrastavano con la dolcezza con cui gli era stata fatta -ancora una volta Domenico gli dimostrava una premura rara-, tanto da farlo sorridere teneramente. Annuì in risposta, sollevandosi quanto bastava per guardarlo negli occhi, per fargli capire di essere tranquillo.

"E me lo chiedi anche?"

Domenico accennò un sorriso, morbido come sempre, sostenendo il suo sguardo.

"Certo che te lo chiedo, e tu sei libero di dirmi di no in qualunque momento. Ricordatelo sempre, va bene?"

Rispose, con voce dolce e paziente: forse l'altro non se ne rendeva conto, ma era un concetto molto importante.

Claudio ridacchiò piano, tutto di gola: apprezzava davvero tutta quella cura, ma non era necessaria.

"Va bene, ma non credo accadrà mai una cosa del genere, sappilo."

Domenico, allora, sollevò un sopracciglio con aria di sfida.

"Mh...allora che dici se adesso andiamo a farci una doccia ghiacciata?"

Propose, esagerando volutamente.

"No! Non ci penso proprio!"

Esclamò Claudio, ridendo per quel giochetto.

"Ecco, visto? Mi hai detto di no ed è giusto così."

Replicò Domenico, soddisfatto, per poi posare un bacio leggero sul naso di Claudio, il quale lo arricciò in risposta.

"Ti ho detto di no perché hai fatto lo scemo!"

Domenico scrollò leggermente le spalle, per quanto la posizione gli permettesse, mettendo su una faccia da schiaffi.

"Eh, purtroppo nel pacchetto è compreso anche questo. Sei ancora in tempo per ripensarci, se vuoi!"

Rispose scherzoso e poi, dato che l'espressione che Claudio aveva fatto poco prima era troppo tenera e voleva rivederla, gli diede un altro bacio sulla punta del naso.

"Ah, non ci penso proprio!"

Esclamò Claudio, con una smorfietta divertita ad illuminargli il viso, per poi fiondarsi sulle labbra dell'altro e sottolineare il concetto con un bacio appassionato. Domenico non poté far altro che lasciarsi travolgere dalla corrente, seguendone il ritmo e rispondendo allo stesso modo.

"Va bene, va bene, ti sei fatto capire. Adesso lasciami fare qui, mh?"

Sussurrò, muovendo leggermente il pollice sul suo collo. Claudio annuì, anche se il suo movimento fu quasi impercettibile perché non voleva rovinare il momento in nessun modo.

"Hai campo libero."

Ribadì, quasi mugolando.

Domenico dunque non volle farlo attendere oltre e riprese a baciarlo come prima, ma stavolta un po' più di lato, sull'angolo delle labbra, spostandosi via via lungo parte della guancia e poi sulla mascella, seguendo un breve percorso che lo portò all'inizio del collo. Prima di continuare, però, si aiutò con una mano a scostare il colletto della camicia, in modo da avere un po' più di spazio, mentre poggiò semplicemente l'altra mano sul suo fianco, senza costringerlo, così da dargli modo di scostarsi in qualsiasi momento se avesse voluto, seppur la possibilità sembrasse piuttosto remota. Soltanto ora lasciò un primo bacio in quel punto, poco sotto l'orecchio.

Claudio sentì mancargli il fiato a quel primissimo contatto che gli tolse il respiro che gli aveva dato solo pochi istanti prima. Era questo il potere che Domenico aveva su di lui, ma lui glielo lasciava volentieri, perché sapeva di essere in buone mani.

Domenico percepì la tensione dei suoi muscoli sotto le proprie labbra, ma era una reazione naturale ed era certo che a breve Claudio si sarebbe rilassato, sapeva come aiutarlo: cominciò dunque a muovere la bocca su di lui e posava ogni bacio con calcolata lentezza, facendo sostare le labbra per qualche secondo prima di passare al successivo, perché desiderava che Claudio si godesse ogni istante, ogni minima frazione di attimo, come forse non aveva mai avuto modo di fare in vita sua. In questo modo, poi, anche lui poteva assaporare con calma la sua pelle caldissima, già imperlata da un leggero strato di sudore che catturava con gioia sulle proprie labbra, lasciandosi inebriare dal suo profumo dolcissimo, simile alla cannella ma ancora più buono. 

Claudio riprese a respirare con sospiri profondi, seguendo il ritmo lento di quei baci che erano in breve tempo diventati il proprio ossigeno, mentre sentiva la barbetta di Domenico stuzzicargli piacevolmente la pelle, pizzicandola un po' quando si spostava su di sé, e al tempo stesso le sue labbra calde, morbidissime e umide, accarezzargliela, dandogli sollievo. Il contrasto era sufficiente a dare vita ad una serie di brividi che si rincorsero sulla propria schiena fino ad uscirgli dalla bocca nella forma di un gemito, poi un altro ed un altro ancora e ancora, a cui si lasciò completamente andare. Anche se una vocina nella sua testa gli diceva di controllarsi perché era osceno, lui proprio non riusciva a fermarsi e anzi, più l'altro lo baciava e più era facile metterla a tacere.

Domenico non poteva dirsi sorpreso da quei versi di approvazione, non era certo la prima volta che qualcuno reagiva così ai propri baci, ma il modo in cui gli accarezzarono l'orecchio, entrandogli dentro e attraversandolo da parte a parte come una scossa elettrica -senza però lasciare dolore o ferite al passaggio- era del tutto nuovo per lui, segno evidente di quanto Claudio non fosse come gli altri. Li prese comunque come un incentivo a fare di più, era chiaro che Claudio apprezzasse e lo sentiva anche più rilassato, come aveva previsto, per cui aprì leggermente la bocca e poi la richiuse prendendo tra i denti un po' della sua carne, in un morso leggero -non voleva in alcun modo fargli male- che poi levigò con la punta della lingua in una morbida carezza.

Claudio emise un gemito più acuto degli altri, completamente annebbiato dal piacere che provò sentendo i denti di Domenico pizzicarlo, prima, e la sua lingua turgida lenire quel piccolo morso subito dopo. Si spinse involontariamente contro di lui, in un moto istintivo che fece scontrare i loro bacini già attaccati, rendendosene conto solamente un attimo dopo, quando udì il mugolio di sorpresa dell'altro, che gli vibrò attraverso la pelle.

"Scusami..."

Balbettò imbarazzato, facendo per ritrarsi un poco, ma Domenico riteneva che non avesse nulla per cui chiedere scusa, anzi. Gli sorrise sul collo, spostando la mano dal suo fianco alla schiena, proprio all'altezza del bacino, esercitando una leggera pressione: non voleva costringerlo, solo comunicargli che non c'era nulla di male nella sua reazione e che potevano restare vicini, se lo desiderava. Intanto, si fece strada fino al suo orecchio a suon di baci.

"Non scusarti, sei stupendo. Davvero stupendo."

Sussurrò, infilando la mano sotto il maglione -così facendo si accorse che la camicia di Claudio era rovente e anche lui, a dirla tutta, stava cominciando a sudare nonostante il freddo invernale- muovendola in una lenta carezza. Scese poi di nuovo con la bocca nell'incavo della sua spalla, tirando il colletto della camicia fino a che gli fu possibile, e ripeté il procedimento che l'altro ragazzo aveva tanto apprezzato, più di una volta.

Claudio era troppo provato per rispondere con parole sensate, dalla sua bocca si diffondevano soltanto sospiri e mugolii, ma al tempo stesso non riusciva a godersi totalmente quel momento a causa dalle carezze che Domenico gli stava facendo in quel punto specifico del proprio corpo e che, ai propri occhi, era tutt'altro che stupendo. Non voleva però che Domenico lo scoprisse per caso, all'improvviso, voleva essere lui a dirglielo e allora radunò le sue forze, deglutì, e biascicò una sola parola.

"Aspetta..."

Domenico, se fosse dipeso da lui, non avrebbe mai smesso di dare attenzioni al collo di Claudio, sarebbe rimasto letteralmente ore a bearsi di quei versetti d'approvazione che esprimevano tutta la sua felicità, tuttavia gli bastò cogliere quella richiesta appena appena soffiata per fermarsi all'istante, senza esitare. Se Claudio gli aveva fatto quella richiesta, voleva dire che forse non era poi così felice. Si allontanò immediatamente dall'incavo del suo collo e sollevò lo sguardo, guardandolo preoccupato per il timore di aver sbagliato qualcosa. Si accorse così che sul viso di Claudio era possibile cogliere gli effetti che le proprie attenzioni avevano avuto su di lui -un ciuffo di capelli gli ricadeva scomposto sulla fronte, le guance erano rosse, quasi paonazze, gli occhi lucidi, bagnati da una patina di godimento, e le labbra semidischiuse alla ricerca d'aria- e che lo rendevano ancora più bello di quanto già non fosse, ma forse stava proprio lì il problema: doveva aver esagerato, essersi spinto troppo oltre, in un modo a cui Claudio non era abituato.

"Stai bene? Ti porto un po' d'acqua?"

Chiese premuroso, scostandogli il ciuffo dalla fronte con una carezza quasi impalpabile.

Claudio non rispose subito, prima si mise seduto -anche se non fu facile separarsi dall'altro- e prese un profondo respiro. Immaginava già le paranoie che si affollavano nella testa di Domenico e allora mise su un sorriso, nel tentativo di rassicurarlo.

"No, sto bene, tranquillo. È tutto a posto, però... c'è una cosa che devi sapere."

Disse, tormentandosi le mani. Domenico, che era scattato a sedere a sua volta, lo guardò preoccupato e prese le sue mani nelle proprie, cercando di farlo calmare.

"Mi puoi dire tutto, lo sai..."

Replicò con voce morbida, guardandolo negli occhi.

Claudio annuì appena perché sì, lo sapeva, e questo, in effetti, rendeva le cose decisamente più facili. Si portò le mani di Domenico alle labbra, posandovi un bacio leggero, poi si alzò, accese l'abat-jour sul comodino per fare un po' di luce, e si allontanò dal letto di qualche passo. Le sue cicatrici erano orribili da vedere e non gli sembrava piacevole piazzarle direttamente davanti agli occhi di Domenico, che meritavano di posarsi solo su solo cose belle. Un po' di distanza, forse, le avrebbe rese un po' più guardabili.

Domenico lo seguì con lo sguardo sormontato dalle sopracciglia leggermente aggrottate, confuso, ma lo lasciò fare e non si mosse.

Claudio temporeggiò per qualche secondo, mordicchiandosi un labbro e guardando ovunque tranne che in direzione di Domenico, poi inspirò profondamente e afferrò i lembi del maglione, sollevandolo fino a sfilarselo.

"Claudio, aspetta, guarda che non dobbiamo per forza..."

Intervenne Domenico, pensando che l'altro si sentisse in qualche modo obbligato a fare l'amore con lui in quel momento e quindi a spogliarsi -e lui non l'avrebbe mai forzato né all'una né all'altra cosa-, ma Claudio lo bloccò con un cenno di diniego del capo.

"Lo so, lo so, non è questo il problema."

Sospirò.

"Devo avvisarti, non è un bello spettacolo, ma sarebbe peggio se lo venissi a sapere in un altro modo, in un altro momento. Ti prego, lasciami fare."

Continuò deciso, puntando gli occhi nei suoi.

Domenico rimase fermo a guardarlo per qualche istante e dopo annuì. 'Se il mare decide di fare qualcosa gli uomini non possono impedirglielo.', gli diceva sempre suo padre ed era esattamente così che si sentiva lui in questo momento.

Claudio lo ringraziò con un piccolo sorriso, poi sistemò il maglione sull'appendiabiti su cui solitamente riponeva i vestiti e su cui c'erano già quelli che si era tolto prima di cena, e così anche la camicia e la canottiera; lo fece con cura, seguendo il suo solito ordine, quello che gli faceva avere sempre la situazione sotto controllo, o almeno di ciò si illudeva.

Era rimasto soltanto in pantaloni -con l'immancabile collana verde che gli spiccava sul petto-, la stanza era piuttosto fredda -se ne accorgeva soltanto adesso, che era lontano da Domenico- e allora si portò le braccia intorno al busto, nel tentativo di scaldarsi un po', ma venne comunque scosso da qualche brivido.

Domenico, vedendolo tremare, dovette combattere contro l'istinto di alzarsi ed andargli vicino per scaldarlo con un abbraccio: se l'altro lo voleva lontano, doveva esserci un motivo.

Claudio fece un ultimo respiro, più profondo, inspirò fino a riempirsi i polmoni ed espirò fino a svuotarli per poi fare un giro su se stesso e dare le spalle a Domenico. Portò lo sguardo sulla maniglia dell'armadio di fronte a sé, aveva bisogno di un punto fermo, e rimase in silenzio, in attesa della sua reazione.

Domenico scattò in piedi, senza però avvicinarsi, allarmato: non ebbe bisogno neanche di un secondo per elaborare la visione che aveva davanti, ai suoi occhi fu subito chiaro ciò che stavano guardando. Chiunque altro, probabilmente, sarebbe rimasto disorientato dinanzi a quella vista e avrebbe avuto bisogno di un po' di tempo per razionalizzare, per capire, ma non lui. Lui, con la violenza, ci faceva i conti ogni giorno e aveva imparato a conoscerne anche le manifestazioni più cruente, eppure quella di fronte a lui gli sembrava la peggiore di tutte e non solo perché aveva colpito una persona che avrebbe meritato di conoscere soltanto amore.

In un attimo, la reazione di Claudio al bar quando aveva provato a sostenerlo per aiutarlo a camminare, la sua repulsione per il contatto, le magliette indossate in spiaggia anche con il Sole a picco, acquisirono pieno significato e lui si chiese come avesse fatto a non capirlo prima. Certo, aveva ipotizzato un qualche tipo di imperfezione fisica di cui Claudio si vergognava, ma mai avrebbe immaginato ciò che effettivamente era. Sulla sua schiena, infatti, si estendeva una porzione di pelle scarlatta che ne copriva quasi l'intera superficie, in netto contrasto con il candore del resto del corpo, segnata da solchi più o meno profondi, ma tutti delle stesse dimensioni, che le davano un aspetto coriaceo.

"Oh mio Dio..."

Mormorò inorridito, mentre gli occhi vagavano su quella ragnatela di cicatrici come a volerne venire a capo, ma erano così tante che si trattava di un'impresa impossibile.
"Ti fanno male?"

Domandò, perché quella era la sua principale preoccupazione al momento.

"No, non più..."

Rispose Claudio, scuotendo leggermente la testa, e Domenico poté tirare un sospiro di sollievo.

"...sono solo molto brutte da vedere. Mi dispiace, lo so, sono orribile..."

Aggiunse mestamente, chinando un po' il capo e mordendosi un labbro. Non gli era sfuggita la sfumatura di disgusto nel suo tono, ma dopotutto non poteva biasimarlo: lui stesso era disgustato da quei segni, nonostante tutto il tempo che aveva avuto per abituarsi.

Domenico, però, non poteva permettere che pensasse quelle cose.

"No, Claudio, ascoltami, tu non ti devi assolutamente scusare! Posso venire lì?"

Claudio annuì, piano, e Domenico avanzò di quanto bastava a raggiungerlo. Così da vicino, quelle ferite erano ancora più impressionanti...e devastanti. In un certo senso, ricordavano quegli angoli di Terra sempre arsi dal Sole e mai nutriti dalla pioggia, completamente privi di vita. Allungò una mano verso la sua guancia, per chiedergli il permesso di accarezzarlo.

"Tu sei stupendo, è la persona che ti ha fatto questo ad essere orribile. Ti va di dirmi chi è stato?"

Domandò, con infinita dolcezza. Ne aveva viste tante da quando era entrato in Polizia ed era sicuro che quelle cicatrici non fossero frutto di un qualche brutto incidente, ma della volontà di qualcuno che, probabilmente, si era servito di una cintura, data la regolarità delle dimensioni dei colpi. Il dolore doveva essere stato indescrivibile, ai limiti della sopportazione umana e forse, temeva, quei limiti erano anche stati superati. Era anche abbastanza sicuro, poi, del fatto che l'artefice di quella tortura -perché solo così si poteva definire- fosse da ricercare all'interno della famiglia Vinci e aveva già un'idea della sua identità.

Claudio sospirò, abbandonando il viso contro la sua mano, bisognoso dell'affetto che l'altro gli offriva. Aveva chiuso gli occhi per ricacciare indietro le lacrime, e deglutì un paio di volte prima di rispondere.

"Mio padre. L'anno scorso. Quando ha scoperto che sono gay."

Sussurrò con un filo di voce, telegrafico. Di più non riusciva a raccontare, almeno per adesso.

Domenico, vedendosi confermati i propri sospetti, si sentì montare da una rabbia cieca, che non aveva mai provato, ed era certo che non avrebbe risposto di se stesso se avesse avuto davanti quell'uomo, il quale poteva ritenersi fortunato -molto fortunato- a non trovarsi lì. Fu anche preso dal desiderio di salire in macchina e attraversare la città per andare a cercare quello stronzo e fargli pentire di aver osato fare del male al ragazzo che amava, ma fu proprio quel ragazzo, con il modo in cui si era abbandonato alla sua carezza a mettere a tacere quel pensiero: aveva bisogno di lui e lui non poteva abbandonarlo.

"Claudio...so che è difficile, ma tu devi denunciarlo, non può passarla liscia. Anche se è passato tanto tempo, possiamo ancora riuscire a fare qualcosa. Ti accompagno io, eh?"

Propose, con voce calma e dolce. Claudio, però, scosse il capo e si voltò, stringendosi a lui e nascondendo il viso contro la sua spalla.

"Non posso, non posso farlo...ti prego, non mi va di parlarne."

La voce, appesantita da un groppo alla gola, faticava ad uscire e somigliava ad un pigolio triste e dolorante.

Domenico liberò un sospiro e portò le mani sui suoi fianchi per tenerlo vicino -non sapeva se poteva toccarlo sulle cicatrici e non voleva rischiare-, posandogli un bacio tra i capelli. Non avrebbe insistito.

"Va bene, va bene, come vuoi tu. Hai ragione, scusami..."

Gli rispose, rassicurante, dandogli un altro bacio sul capo.

"Magari tra qualche giorno ci riesco..."

Sussurrò Claudio, in risposta. Si sentiva stanchissimo, quasi gli mancavano le forze per stare in piedi e anzi, forse se non avesse avuto l'altro a sorreggerlo sarebbe crollato.

Domenico se ne accorse, naturalmente, e lo tirò delicatamente un po' più contro di sé, sempre per i fianchi.

"Non ti preoccupare, non ci pensare adesso. Piuttosto, ti va di tornare sul letto? Così ti riposi, mh?"

Propose, delicato, e Claudio annuì appena. Fece per separarsi da lui, ma Domenico non glielo permise.

"Senza fretta, piano..."

Gli offrì il braccio con un sorriso dolce, esattamente come aveva fatto quella notte estiva di tanto tempo prima, e Claudio lo accettò con la stessa fiducia, che nel tempo era solo accresciuta, ricambiando il sorriso anche se con meno forza. Istintivamente, allungò l'altro braccio verso l'appendiabiti lì vicino per riprendere il maglione -era il caso di nascondere quelle brutture-, ma anche in questo caso Domenico lo fermò.

"Non coprirti, sei stupendo."

Gli disse, parlando direttamente dal cuore. Claudio si voltò a guardarlo e sospirò, mesto.

"Non è vero, lo dici solo perché sei troppo buono."

Domenico scosse il capo, senza perdere il suo sorriso pieno d'amore, e poi accennò al letto con un altro gesto.

"Sono sincero, invece. Andiamo, dai."

Claudio spostò di nuovo lo sguardo sull'indumento, combattuto. Non stava mai a lungo con le cicatrici esposte e, soprattutto, non le aveva mai mostrate a nessun'altra persona...ma Domenico non era certamente una persona qualunque. Si lasciò guidare al letto, allora, e si mise seduto, poggiandosi alla testiera. Quando vide, però, che l'altro non accennava a fare lo stesso, gli rivolse uno sguardo perplesso e preoccupato.

"Tu...tu non vieni?"

Domenico gli sorrise e annuì.

"Certo, dammi solo un attimo, però. Devo fare una cosa."

Con un gesto rapido slacciò il bottone che chiudeva il collo del proprio maglione e poi se lo sfilò, rivolgendo all'altro un sorriso a trentadue denti, emozionato.
Claudio, che non si aspettava proprio una cosa del genere, arrossì immediatamente.

"Ma...ma che fai?"

Balbettò, impacciato, e Domenico accennò una risatina intenerita.

"Così siamo pari, sullo stesso livello."

Si sporse a dargli un bacio a fior di labbra, leggero.

"Voglio prendermi cura di te, stasera, se me lo permetti."

Disse più serio, guardandolo negli occhi.

Claudio fu certo di sentire il proprio cuore saltare un battito, ma sapeva che non avrebbe corso rischi addentrandosi in quel bosco, e istintivamente si protese di nuovo verso di lui, per baciarlo ancora.

"Tu sei troppo buono, te l'ho detto."

Sussurrò, tornando ad appoggiarsi alla testiera del letto. Domenico alzò gli occhi al cielo e liberò uno sbuffo divertito.

"Lo prendo per un sì!"

Si risollevò e andò ad appoggiare il maglione sull'appendiabiti, cercando di sistemarlo al meglio delle sue capacità di disordinato cronico, perché era pur sempre un regalo della persona speciale che lo stava aspettando sul letto e non voleva certo che si rovinasse.

Claudio, dal canto suo, era ben poco interessato al maglione e molto preso da quel ragazzo prezioso e, non gli costava fatica ammetterlo, bellissimo. 'Tu sì che sei stupendo.', pensava, senza staccargli di dosso gli occhi che, seppur stanchi, non volevano saperne di separarsi da lui.

Domenico se li sentiva addosso, quegli occhi di mare dallo sguardo di fuoco, e non poteva certo dire che la cosa gli dispiacesse, anzi. Gli facevano tremare lo stomaco, ma in senso buono, in un modo che non aveva mai vissuto prima di conoscere Claudio. Si voltò verso di lui e, notando il suo rossore -'Ma come si può anche solo pensare di fare del male a qualcuno di così puro?', commentò nella propria testa-, gli fece un occhiolino mentre si avvicinava.

Claudio reagì con una risatina imbarazzata per quell'essere stato beccato in pieno, come un bambino con le mani nella scatola dei biscotti. L'avrebbe rifatto mille altre volte, però: del resto lui amava moltissimo i dolci.

"Cosa devo fare?"

"Nulla, solo stenderti e rilassarti. Al resto ci penso io."

Rispose Domenico, sorridente, mentre saliva sul letto e si metteva in ginocchio, così da lasciargli più spazio.

Claudio percepì un piacevole fremito a quella richiesta e si ritrovò a sorridere, timidamente, perché non era abituato ad avere qualcuno che pensasse a lui, ma fece quanto detto, mettendosi steso -con un po' di impaccio- supino.

Domenico scosse leggermente la testa.

"No, scusami, non così...a pancia in giù, per favore."

Mimò un gesto con la mano.

Claudio, che si fidava di lui e che lo amava con ogni fibra del suo essere, trovò sorprendentemente semplice compiere quel piccolo gesto e voltarsi, sistemando le braccia incrociate sotto la testa, in modo da mostrargli la parte di sé che odiava di più. Lo fece sorridendo, perfino.

Domenico ricambiò il sorriso, lieto di vederlo un po' più sereno, e gli si avvicinò, muovendosi a carponi sul materasso.

"Se per te va bene, vorrei darti qualche bacio qui, sulla schiena..."

Disse a voce bassa, ma chiara e morbida, anche se un po' tremava per l'emozione. Sapeva che le ferite più dolorose non erano quelle visibili, marcate dalle cicatrici, ma quelle che non si vedevano, nascoste sotto la pelle, che ancora sanguinavano. Sperava che con un po' di amore -anzi con tantissimo amore, tutto quello che provava per Claudio- anche quelle potessero richiudersi.

Claudio rimase interdetto, si aspettava qualunque cosa -delle carezze, al massimo, per prendere un po' di confidenza con quello spettacolo orrendo- ma non dei baci. Era impensabile, per lui, che qualcuno volesse accostare le proprie labbra a qualcosa di tanto rivoltante.

"Ne sei proprio sicuro? Guarda che non devi per forza..."

Lo avvertì, con voce fioca, cercandolo con gli occhi. Temeva che Domenico, buono com'era, si stesse offrendo di fare qualcosa che in realtà gli faceva ribrezzo solo per farlo stare bene.

Domenico si distese accanto a lui per raggiungere i suoi occhi con i propri e annuì, sorridendo tranquillo.

"Ne sono sicuro, davvero. Non ho problemi, se per te va bene."

Rispose deciso, accarezzandogli delicatamente i capelli morbidi. Claudio sospirò e optò, allora, per fargli la domanda diretta.

"Ma non ti fa schifo?"

Domenico fece una risatina dal retrogusto amaro e scosse il capo. No, a lui non faceva schifo, ma era Claudio stesso a trovarsi orribile, a schifarsi, appunto, forse addirittura ad odiarsi, e quei baci allora erano ancora più necessari, perché potevano aiutarlo a capire d'essere bello e degno d'amore.

"Claudio, tu non potresti mai farmi schifo e non potrebbe mai farmi schifo baciarti."

Rispose, senza smettere di passargli le dita tra i capelli, in un lento massaggio.

Claudio rimase a fissarlo per qualche istante, cercando un segno di legittima incertezza in quegli occhi verdi, ma non ne trovò e allora non poté far altro che annuire, dandogli campo libero.

Domenico si sollevò, sovrastandolo leggermente, e si portò su di lui, in modo da coprirlo per fargli calore. Si manteneva con le braccia, stese in avanti quasi a mo' di sfinge, per non schiacciarlo eccessivamente.

"Puoi chiudere gli occhi, se vuoi, così ti rilassi meglio. E puoi chiedermi di smetterla in qualsiasi momento se non dovessi sentirti a tuo agio, va bene?"

Sussurrò al suo orecchio, lasciandovi poi un bacio.

Claudio chiuse gli occhi e liberò un sospiro, godendosi la piacevole sensazione di calore che il corpo dell'altro gli dava. Era meglio di una coperta, in quella stanza fredda.

"Anche tu puoi fermarti quando vuoi, se dovessi cambiare idea..."

Mormorò, perché era giusto che glielo ricordasse. Domenico ridacchiò piano e quel suono meraviglioso arrivò direttamente all'orecchio di Claudio, vibrandogli dentro.

"Va bene, ma non credo che accadrà una cosa del genere."

Rispose, ripetendo le sue stesse parole di poco prima. Subito dopo chinò il capo a posare qualche bacio tra i suoi capelli, il cui profumo leggermente fruttato a causa dello shampoo gli accarezzò piacevolmente l'olfatto, e poi si spostò sulla sua guancia e di nuovo al suo orecchio.

"So che ti è difficile, ma cerca di non pensare, adesso."

Sussurrò. Claudio, già abbastanza inebriato da quelle prime piccole attenzioni, riuscì soltanto ad annuire.

Domenico sorrise, intenerito, e scese sul suo collo, muovendosi di bacio in bacio, fino ad arrivare all'altezza delle spalle. Lì la pelle era ancora liscia e morbida, e proprio per questo preferì soffermarvisi per un po', in modo da far prendere famigliarità a Claudio alla sensazione di avere qualcuno così vicino a quella sua parte tanto vulnerabile. Si spostava lentamente su quella striscia di pelle, da un capo all'altro delle spalle, lasciandovi ora un bacio, ora una carezza con la punta del naso, ora un leggero tocco di lingua.

Non passò molto tempo prima che Claudio cominciasse a riempire la stanza di sospiri, piccoli mugolii, gemiti appena accennati, rilassandosi sotto le labbra di Domenico e completamente rapito dai suoi baci, di cui seguiva il ritmo per respirare.

Domenico, dunque, non esitò a tracciare più di una volta quello stesso percorso, ben lieto di dargli tutta quella felicità, fino a quando non sentì Claudio del tutto rilassato. Solo quando ne fu sicuro si spostò più in basso, dove iniziava la chiazza più scura ed irregolare che, illuminata dalla luce della lampada sul comodino, creava strisce d'ombra in corrispondenza delle cicatrici più marcate. Preferì procedere in maniera graduale, in modo da non sottoporre Claudio ad uno sbalzo improvviso che avrebbe potuto traumatizzarlo e posò il primo bacio, con estrema cura, su un segno poco profondo, sul lato destro in alto, uno dei pochi che, tra i tanti, doveva essere stato inflitto con minore intensità.

Claudio si irrigidì non appena avvertì quel contatto, contraendo i muscoli e di conseguenza anche il respiro. Fu una reazione spontanea, dettata dall'istinto e dai brutti ricordi che, inevitabilmente, riaffioravano alla mente.

Domenico si arrestò immediatamente e sollevò il capo, capendo che qualcosa non andasse, per dargli il tempo di elaborare, riprendersi ed eventualmente decidere di non voler proseguire.

Claudio allora si affrettò a parlargli, perché se la testa aveva paura, il cuore al contrario gli diceva che poteva fidarsi, che non stava accadendo niente di brutto e che Domenico non gli avrebbe mai fatto del male.

"Sto bene, sto bene, tranquillo. Non ti fermare, ti prego, va' avanti..."

Domenico, rassicurato, sorrise sulla sua pelle -un modo per farglielo capire, dato che Claudio teneva gli occhi chiusi e non poteva vederlo- e annuì piano, accarezzandogli delicatamente il corpo con la punta del naso. Si era accorto che la pelle ferita di Claudio era dura e ruvida, come aveva immaginato guardandola, ma anche inaspettatamente fredda, e allora cercò anche di riscaldarla con il proprio respiro mentre riprendeva a percorrergli la cicatrice con le labbra, seguendone il corso fino alla fine.

Si spostò poi su un'altra, un po' più profonda, che tagliava la precedente in diagonale, e da lì ne baciò un'altra ancora, quasi parallela a questa, che lo portò a spostarsi leggermente più in basso. Scese ancora un po' più giù e poi risalì, spostandosi all'altezza della spalla sinistra, per poi tornare sulla destra e scendere di nuovo, parallelo al suo fianco. Tornò sull'altro lato, salendo e scendendo lungo quel percorso intrecciato di carne, arrivò poco sopra il bordo dei pantaloni e poi risalì ancora, lungo la spina dorsale.

Baciava Claudio con devozione e dedizione, perché voleva farlo sentire amato e, tra un bacio e l'altro, gli sussurrava "Sei stupendo", "Sei meraviglioso" direttamente sulla pelle, come una litania sacra, perché voleva farlo sentire bello.

Claudio cominciò, lentamente, ad abbandonarsi a quelle attenzioni, a rilassarsi poco a poco, a liberare qualche sospiro o mugolio stanco, forse pigro, ma carico d'approvazione. Gli tornò in mente la pomata che sua madre gli aveva applicato quel giorno -così lontano nello scorrere assoluto del tempo eppure così vicino in quello relativo- ed anche in quelli successivi per favorire la cicatrizzazione: era ghiacciata e aveva un odore nauseabondo, ma ciò che più c'era di peggio era il bruciore che gli causava sulla pelle viva e sensibile. Sua madre gli diceva che era per il suo bene, che doveva sopportare, così come doveva sopportare il dolore dei punti che lei gli applicava sui segni più profondi -perché di andare in ospedale, naturalmente, non se ne parlava- infilando e sfilando quell'ago sottile nella carne già martoriata mentre lui stringeva e mordeva il cuscino nello sforzo di sopportare.

Ecco, i baci e le parole di Domenico erano completamente diversi: erano soffici, caldi e penetravano sì nella propria pelle -o meglio, quella corazza che, suo malgrado, gli era cresciuta addosso-, ma lo facevano senza arrecargli dolore, anzi, lo accarezzavano, delicati e al contempo decisi. Lo curavano dall'interno, meglio di quanto qualsiasi unguento o sutura, e gli facevano dimenticare le cicatrici stesse, gli facevano sentire l'Amore, quello vero.

Per mesi aveva associato a quelle cicatrici solo cose brutte -gli insulti ringhiati di suo padre, le lacrime di sua madre, l'umiliazione che gli stava attaccata come una seconda pelle, le notti passate ad interrogarsi su cosa ci fosse di sbagliato in lui, la vergogna di stare al mondo- ma da oggi, grazie a Domenico, anche se quei ricordi non sarebbero mai scomparsi, era certo che sarebbe stato in grado di associare a quei segni qualcosa di bello.

Domenico ascoltava con attenzione i respiri ed i gemiti con cui Claudio riempiva la stanza e, in cuor suo, se ne beava. Considerava ciascuno di essi una piccola vittoria, non per se stesso -non era uno di quei ragazzi che, magari in un gruppo di amici, amava vantarsi di riuscire a scatenare un qualche tipo di reazione estatica altrui soltanto con il tocco, le parole o perfino con la forza del pensiero-, ma per Claudio che, ad ogni mugolio, sospiro o muscolo che rilassava, avanzava un po' di più verso la sua libertà. Non c'era niente di più appagante, per lui, che vederlo finalmente sganciarsi da quel senso di ordine e di perfezione in cui si era rifugiato e mostrare finalmente la sua vera natura, quella di un ragazzo felice ed emozionato di ricevere amore.

Così, di bacio in bacio, era arrivato a ricoprire ogni centimetro della schiena di Claudio, ad eccezione di un gruppo di cicatrici che aveva volutamente lasciato per ultime perché, vedendole così da vicino, si era accorto che fossero diverse dalle altre: si concentravano tutte nella parte centrale, corrispondente alla spina dorsale, erano più squadrate, presentavano dei solchi più profondi ed avevano un colore più scuro, quasi livido. 

Si trattava senz'altro dei segni di impatto -o meglio, di ripetuti impatti- lasciati da qualcosa di pesante e aveva ben ragione di credere che questo qualcosa fosse la fibbia, probabilmente metallica, della cintura stessa, che in alcuni casi si era conficcata con il suo gancio nella pelle di Claudio -tanto era stato forte il colpo- tirando con sé la carne al fendente successivo. Per questo motivo posò i baci più lunghi su quelle strisce di pelle e cercò di essere il più morbido possibile nel poggiarvi le labbra -si maledì mentalmente di non essersi rasato la barba-, sperando di aiutarlo a sentirsi almeno un po' meglio.

Claudio ricordava perfettamente, una ad una, tutte le cinghiate che aveva ricevuto da suo padre -aveva letto da qualche parte che il corpo umano, quando prova un dolore molto forte, per difendersi fa di tutto per rimuovere il trauma dalla memoria, ma lui non aveva avuto questa fortuna- e conosceva con precisione la posizione di ciascuna delle sue cicatrici, per cui si accorse che Domenico, adesso, si stava prendendo cura proprio di quelle. Era stata l'ultima sfilza di percosse e per il gran finale suo padre aveva utilizzato l'altra estremità della cintura, quella con la massiccia fibbia in oro, accanendosi contro un corpo già ampiamente provato.

'Sto per morire.' aveva pensato ad ogni colpo, ma non era successo, non era morto.

'Sono vivo.' pensava adesso, grazie a Domenico che glielo ricordava ad ogni bacio.

Come quando si viene alla vita, così adesso Claudio era scoppiato a piangere, ma era un pianto sereno, un pianto d'amore, che prima di questo momento non sapeva nemmeno potesse esistere; non pensava si potesse piangere per qualcosa di diverso dalla sofferenza, ed invece ora piangeva di gioia. Stava lì, a riempire la federa del cuscino di lacrime come aveva fatto innumerevoli volte, ma stavolta era felice di piangere.

Domenico, sentendolo singhiozzare, si fermò un attimo e alzò il capo per controllare che fosse tutto a posto, ma quasi subito si ritrovò a sorridere perché, anche se il viso era un po' nascosto dal braccio, vide che anche Claudio stava sorridendo tra le lacrime e capì, quindi, che quel pianto non era di dolore o di paura. Tornò a posare le labbra sul suo corpo, che sentiva tremare sotto di sé, perché quei baci, in qualche modo, gli facevano bene.

Claudio piangeva sempre di più ad ogni bacio, ma più piangeva e più si sentiva meglio: si stava liberando di quel peso che lo aveva oppresso in una morsa di sofferenza, di vergogna e di paura, e con ogni lacrima ne scorreva via un pezzetto, fino ad esaurirsi del tutto. Si sentiva svuotato, ma era una sensazione positiva: per la prima volta dopo tanto tempo, era tornato a sentirsi leggero.

"Vieni...vieni qui, per favore..."

Sussurrò con voce roca, ancora scosso da singhiozzi involontari, con la testa leggermente sollevata per rivolgersi a quel ragazzo meraviglioso che lo aveva liberato.

"Arrivo subito, ma non me lo chiedere per favore."

Rispose Domenico a bassa voce, per poi percorrere ancora una volta con le labbra la schiena di Claudio, fino a raggiungere l'incavo del suo collo, dove posò un bacio, e la sua guancia, dove ne posò un altro. Si spostò leggermente e si sollevò, tirando via il piumone per permettere ad entrambi di infilarsi al di sotto, e si distese sul fianco, accanto a Claudio che aveva assunto la sua stessa posizione, portando una mano ad accarezzargli il braccio mentre con lo sguardo gli accarezzava il viso arrossato e gli occhi che, lucidi com'erano a causa del pianto, facevano invidia al mare per il loro blu profondo. Era davvero stupendo.

"Qualcosa non va?"

Chiese, gentile, e Claudio scosse leggermente il capo. Come poteva esserci qualcosa che non andava quando aveva un meraviglioso angelo dagli occhi verdi accanto a sé?

"No, è tutto a posto, però vorrei baciarti. Posso?"

Domandò, sorridendo timidamente. Aveva apprezzato tantissimo, più di quanto riuscisse a dire, i baci con cui Domenico l'aveva ricoperto, ma gli mancava il contatto tra le loro labbra: anche se ne aveva fatta esperienza solo da poco, gli era già chiaro che non poteva più farne a meno. In più, quelle arrossate e umide dell'altro -immaginava a causa del modo in cui si era dedicato a lui-, appena appena dischiuse, erano impossibili da resistere.

Domenico fece una risatina dolce, che gli illuminò il volto -era arrossito per la proposta, come non gli era mai successo- di uno splendido sorriso, fino agli occhi verdi.

"E me lo chiedi pure?"

Si avvicinò un pochino, lentamente, per ridurre la distanza tra loro, ma fu Claudio ad annullarla del tutto, posando le proprie labbra sulle sue con uno scatto repentino.
Insieme diedero vita ad un bacio affamato, frenetico, fatto di labbra che si cercavano tra pesanti respiri e mugolii affannosi, mani che si accarezzavano e braccia che si stringevano, ma che lentamente si fece più pacato, più morbido, perché in fondo non c'era nessuno a metter loro fretta.

Potevano, quindi, prendersi tutto il tempo per strofinare la punta dei nasi tra loro ridacchiando a bassa voce, accarezzarsi i capelli già arruffati guardandosi negli occhi di mare e di bosco e posare qualche bacetto sporadico ciascuno sul viso dell'altro prima di tornare a dedicarsi alle labbra.

Fu estremamente semplice, per Claudio, scivolare a poco a poco nel sonno, senza accorgersene; non ebbe bisogno di girarsi e rigirarsi nel letto, come ogni notte, perché aveva trovato il suo posto, lì, stretto tra quelle braccia che lo avevano sempre fatto sentire al sicuro, avvolto da un piacevole tepore.

Domenico si accorse che l'amato stava crollando -era impossibile non notare la sua ostinazione nel tenere gli occhi aperti, che però puntualmente si richiudevano, che gli fece sbocciare un sorriso di tenerezza sulle labbra- e allora prese a baciarlo sulle palpebre assonnate e ad accarezzargli lentamente i capelli, per aiutarlo ad addormentarsi. Anche lui era stanco e aveva sonno, ma fu solo quando si accertò del tutto che l'altro dormisse serenamente e profondamente e che non avesse incubi, che si concesse di chiudere gli occhi, senza sciogliere l'abbraccio.

Il mondo esterno era stato messo completamente da parte e se avessero potuto, Claudio e Domenico si sarebbero fusi in un'unica entità pur di non lasciarsi più.

*****

Claudio, il mattino dopo, fu il primo a svegliarsi: non aveva idea di che ore fossero -doveva essere mattina, comunque, perché c'era un po' di luce che filtrava dalla finestra- ma la sveglia era dall'altro lato del letto e al momento non aveva voglia di muoversi, rischiando di perdere il torpore che piacevolmente lo avvolgeva, anche perché non gli interessava poi più di tanto. La prima cosa che vide, appena aperti gli occhi, fu la parete di fronte, su cui spiccava la porta lasciata aperta e per un attimo credette che fosse una giornata normale, come tante altre, e che tutto ciò che c'era stato la notte precedente fosse stato soltanto un sogno, bellissimo, ma pur sempre un sogno. Anche la presenza di Partenope, accoccolata accanto al proprio petto, contribuiva a dargli quell'impressione.

Poi, però, avvertì un respiro caldo accarezzargli il collo, quasi facendogli il solletico, ed il calore di un corpo a coprirgli la schiena nuda e in quel calore trovò il primo sorriso della giornata, perché capì che era tutto vero. Abbassando un po' lo sguardo, vide anche il braccio di Domenico avvolgergli il busto e, a sua volta, il proprio braccio a coprirlo: si tenevano per mano, con le dita intrecciate in un abbraccio.

Stando attento a non disturbare la gatta e a non svegliare l'altro ragazzo, sciolse quella presa e si voltò lentamente dall'altra parte, come doveva aver fatto inconsciamente durante il sonno, per ritornare nella posizione in cui ricordava essersi addormentato.

Il secondo sorriso della giornata fu offerto dal volto addormentato di Domenico, con le sue labbra appena dischiuse in un leggero russare, le palpebre placide che ricoprivano gli occhi, accentuati da una fila di ciglia nerissime e che nascondevano i suoi sogni -'Chissà cosa sta sognando.', pensò con tenerezza- ed i capelli arruffati, di cui spiccava un ciuffo particolarmente elettrizzato e sollevato che lo costrinse a mettere a tacere una risatina con la mano, la stessa che poi portò sulla sua guancia, accarezzandola delicatamente con il dorso delle dita. Nel complesso, Domenico ricordava un po' Benino, il pastore dormiente del presepe, con la sua bellezza sorprendentemente umana e naturale, eppure eterea al tempo stesso.

Domenico, avvertendo quella leggera carezza che sembrava provenire da un sogno stupendo, mosse un po' il capo per seguirla e mugolò, come un cane appagato, avvicinandosi verso la fonte di quella coccola senza pensare a trattenersi -ma del resto stava ancora dormendo e si sa, mentre si dorme i pensieri non funzionano-, e così il suo sonno si fece ancora più piacevole e beato.

Claudio sgranò appena gli occhi, sorpreso, ma poi sorrise di nuovo -per la terza volta nel giro di qualche minuto, un record per lui!- e con la mano, che andò ad immergere tra i suoi capelli neri, lo mantenne accanto a sé.

Ci volle ancora una buona mezz'ora prima che Domenico si svegliasse e quando riaprì gli occhi si ritrovò confuso dal buio che si vide davanti. Sbatté le palpebre un paio di volte ed in quei pochi secondi si accorse di essere avvolto da un profumo dolcissimo –cannella, ma più buono- e da un calore inconfondibile che nulla avevano a che fare con il buio della notte e che invece dovevano riguardare la mano che gli stava accarezzando i capelli: tutto l'insieme era troppo inconfondibile per avere ancora dei dubbi e realizzò che i suoi sogni avevano molto da imparare dalla realtà.

Si mosse un po', sollevando il capo, e trovò un sorriso morbido e luminoso ad accoglierlo che intravide tra le palpebre solo leggermente aperte.

"Buongiorno..."

Biascicò, in un suono più simile ad un mugolio che ad una parola vera e propria, mentre aggiustava il capo sul cuscino.

Claudio ridacchiò teneramente per la sua buffa espressione assonnata, e si sporse a dargli un bacio a fior di labbra. Forse avrebbe aiutato a farlo svegliare un po'.

"Buongiorno anche a te. Dormito bene?"

Domenico non esitò a ricambiare il bacio -i suoi pochi neuroni attivi fecero un ottimo lavoro-, che fu anche meglio di un caffè, e così gli occhi verdi andarono a fare compagnia a quelli blu.

"Benissimo!"

Si schiarì la voce, per renderla un po' più umana e meno animalesca.

"Non è stato tutto un sogno, quindi?"

Chiese, allungando una mano ad accarezzare la guancia di Claudio come aveva fatto lui prima. Claudio liberò uno sbuffo divertito, scuotendo appena il capo contro la sua mano.

"No, no, è tutto vero. Anche perché, se fosse un sogno, lo starei facendo anch'io e sarebbe un po' strano fare entrambi lo stesso sogno, no?"

Chiese, allegro.

Domenico fece una smorfia confusa, socchiudendo un occhio -era sveglio, sì, ma aveva bisogno di un attimo per carburare ed elaborare tutte quelle parole!-, ma poi tornò rilassato e annuì, ridacchiando.

"Sì, sarebbe strano."

Si limitò a rispondere, per poi prendere un profondo respiro e sorridergli dolcemente.

"Tu come hai dormito?"

Domandò, scostandogli un ciuffo di capelli dalla fronte prima di tornare ad abbracciarlo. La domanda poteva sembrare banale, ma non era stata buttata lì per convenzione: sapeva che Claudio aveva problemi a dormire e temeva che l'argomento toccato la notte precedente potesse aver scatenato degli incubi.

Claudio intuì le sue intenzioni, capì che non glielo stava chiedendo tanto per, ma perché si preoccupava per lui, come sempre. Non aveva niente di cui preoccuparsi, però, perché nemmeno ricordava l'ultima volta che aveva dormito così tranquillamente. Gli sorrise, allora, rassicurante e leggero.

"Una meraviglia, davvero. Non mi vergogno a dire che è stata la notte migliore della mia vita, questa...e mi sento davvero bene, adesso.

Si sporse a dargli un bacio a fior di labbra e rimase lì, vicinissimo a lui, per parlargli ancora.

"Tutto merito tuo, Domenico, e non ti ringrazierò mai abbastanza per questo."

Domenico curvò le labbra in un sorriso rasserenato, ma anche imbarazzato, e lo baciò a sua volta.

"Io non ho fatto niente, sei tu che ti sei fidato...io posso solo dirti che farò di tutto per essere degno della tua fiducia."

Rispose con voce morbida, ma Claudio scosse il capo, risoluto.

"E invece qualcosa l'hai fatta perché io, di solito, non mi fido degli altri, non da quando è successo...quello che è successo. Tu sei la prima persona a cui abbia mostrato le mie cicatrici."

Ribatté guardandolo negli occhi con i propri che fiammeggiavano d'amore, per fargli capire quanto fosse raro e prezioso, lui con quel suo cuore gentile.

Domenico si accigliò leggermente, impensierito, e gli accarezzò la guancia morbida. Non voleva si sentisse forzato a raccontare quella parte del suo passato.

"Hey, non devi parlarne se non vuoi. Non è necessario..."

Claudio prese un profondo respiro e buttò fuori l'aria.

"Ma lo voglio, voglio raccontarti tutto. È necessario, perché sono proprio queste cicatrici che ci hanno fatti incontrare."

Domenico non mancava certo d'intuito e da quando, la sera prima, Claudio gli aveva rivelato che quelle percosse risalivano all'anno precedente, aveva ipotizzato che in qualche modo c'entrasse anche la sua vacanza a Napoli, ma averne la certezza lo fece rimanere interdetto. Non aveva mai creduto nel destino, eppure adesso gli sembrava la cosa più sensata che ci fosse. Accantonò subito il pensiero, però, perché non era fondamentale al momento interrogarsi su certe questioni, aveva altro di molto più importante a cui pensare.

"Ti ascolto, ma se ad un certo punto non ce la fai più, fermati, va bene?"

Disse, rassicurante. Claudio annuì appena, si schiarì la voce e fece un profondo respiro. Si strinse un po' meglio a lui, per sentirlo più vicino, e Domenico ricambiò la stretta, sorridendogli incoraggiante. Claudio, allora, cominciò a raccontare.

"Ti ricordi di Elena?"

Domenico annuì, certo che se la ricordava. Era l'unica ragazza di cui Claudio gli avesse mai parlato.

"La tua...ex fidanzata."

Disse dopo un attimo di esitazione passato a cercare il termine più adatto.

Claudio sospirò, per lui era assurdo definire Elena in quel modo, anche se tecnicamente era ciò che era stata. Per lui, tuttavia, l'essere fidanzati con qualcuno presupponeva almeno un minimo di sentimento, che da parte sua non c'era mai stato, non in quel senso. Non si era comportato bene con lei, lo sapeva, e se ne pentiva.

"Sì, esatto, lei. Era una mia compagna di classe, ma anche la figlia di uno dei più importanti industriali di Roma, con cui mio padre ha concluso parecchi affari e che, in qualche modo, rispetta, forse perché condividono valori e mentalità. Non mi azzardo a dire un suo amico perché non credo che mio padre sia capace di provare simili sentimenti..."

Fece una risatina amara, a cui Domenico rispose con un dolcissimo bacio in mezzo agli occhi, percependo il suo dolore. Claudio lo ringraziò con un piccolo sorriso e riprese a raccontare.

"Elena, invece, era diversa da suo padre: simpatica, gentile, eravamo amici. Mi piaceva stare con lei e a lei piaceva stare con me, così...così ci fidanzammo. Non sono stato un buon fidanzato per lei, però..."

Abbassò lo sguardo e Domenico gli sorrise, comprensivo, facendogli una carezza leggera sul fianco.

"Dai, non essere troppo duro con te stesso. Fin da piccoli cercano di imporci in tutti i modi che se sei un uomo devi stare con una donna e che se sei una donna devi stare con un uomo, senza alternative. Tu hai solo cercato di seguire ciò che ti sembrava la normalità, succede a tante persone..."

Claudio scosse il capo, non era convinto da quelle parole. Non che non avessero senso, anzi, ma non erano giuste per lui.

"Domenico, io sapevo già di essere gay quando mi sono messo con Elena. Figurati che avevo anche avuto delle...delle piccole, disastrose esperienze con qualche ragazzo, e non ero confuso. L'ho fatto soltanto perché mio padre aveva cominciato ad insistere affinché mi fidanzassi e sapevo che io a lei piacevo, me l'aveva detto una sua amica, quindi mi sembrava...la candidata migliore. Sono stato un orribile stronzo, lo so, e me ne pento ogni giorno."

Replicò, con voce bassa e piena di rammarico. Ricordava ancora, perfettamente, la piccola dichiarazione che le fece un pomeriggio, mentre studiavano insieme, pronunciata con voluto imbarazzo per renderla più reale. Ricordava anche lo splendido sorriso che lei gli aveva rivolto mentre gli confessava di ricambiare i suoi sentimenti -o almeno, quelli che lui fingeva di provare- e il bacio che si erano scambiati subito dopo: probabilmente il cuore di lei batteva a mille, lui invece non provava assolutamente niente, se non una sensazione di sporco e di fastidio.

Domenico fece un profondo sospiro, per elaborare il racconto. Non era stato giusto nei confronti di Elena comportarsi in quel modo e sfruttarla per quello che in fondo era un tornaconto personale, lo capiva, ma cercare una copertura era un meccanismo di sopravvivenza che aveva visto adottare da tante persone, lui stesso in un certo senso lo faceva, mostrandosi in pubblico soltanto con ragazze e riservando i suoi incontri con ragazzi a luoghi più protetti. Non se la sentiva di incolpare Claudio solo perché aveva provato a sopravvivere.

"Hai agito per paura, non te ne puoi fare una colpa. Considerando come ha reagito tuo padre, dopo, avevi anche le tue ragioni."

Gli rispose con dolcezza, salendo con la mano a disegnare piccoli cerchi tra i suoi capelli per cercare di farlo stare un po' meglio.

Claudio sospirò e si prese del tempo per lasciarsi attraversare da quelle carezze morbide: Domenico era sempre troppo buono con lui, per questo parlava così, ma avrebbe dovuto essere più coraggioso e prendersi le proprie responsabilità, invece di illudere così una persona innocente.

"Ad un certo punto, dopo quasi un anno, non ce l'ho fatta più e le ho detto la verità. Da un po' di tempo aveva iniziato a trovare ogni scusa possibile per restare da soli, era palese che volesse un contatto più...intimo dei semplici baci che ci scambiavamo di solito e di certo non gliene faccio una colpa, ma non era una cosa che riuscivo a darle, pur volendomi sforzare. Così, un pomeriggio che eravamo a casa sua, da soli, colsi l'occasione per parlarle e dirle la verità. Lei rimase sconvolta, giustamente, e mi mandò via."

Fece un profondo respiro. Le sue lacrime, ancora se le ricordava.

"Forse fu proprio quella sera stessa che raccontò cosa fosse successo ai suoi genitori, o al più tardi il mattino dopo, e loro sicuramente lo dissero a mio padre, che entrò in camera mia come una furia e mi impose di dargli una spiegazione. Non so cosa scattò in me, forse ero semplicemente stanco di vivere come voleva lui, e gli dissi che era tutto vero, che ero gay, che Elena non mi piaceva e che non mi sarebbe mai piaciuta nessuna ragazza al mondo. Per un attimo mi sentii davvero padrone di me stesso, ma poi lui mi costrinse a togliermi la maglietta, si sfilò la cintura e cominciò a..."

Strinse le labbra e chiuse gli occhi, irrigidendosi in una smorfia di dolore. Domenico intervenne immediatamente, preoccupato, vedendolo in difficoltà. Rivivere quell'esperienza terribile, anche solo con il pensiero, doveva essere decisamente troppo per lui.

"Non devi raccontarmelo, se non te la senti. Va bene così, Claudio..."

Disse con dolcezza, mentre gli accarezzava morbidamente il collo.

Claudio però scosse il capo, aveva evitato il discorso fin troppe volte, anche con se stesso, ed era stanco di scappare. Con Domenico accanto, sentiva di essere in grado di affrontarlo.

"Cominciò a darmela sulla schiena, ancora e ancora, mentre mi insultava, mi urlava contro di essere un fallimento, un disonore, un frocio, ma diceva anche che l'avevo costretto a fare quello che stava facendo e che lo faceva per il mio bene, per farmi capire quanto fossi sbagliato, per aggiustarmi perché ero rotto ed io ero lì a pensare che sarei morto e a sperare che mi uccidesse con l'ennesimo colpo perché non era così che volevo vivere!"

Liberò tutto d'un fiato, tanto che poi si ritrovò a respirare a grandi boccate, con gli occhi blu sgranati e pieni di lacrime.

Domenico vedeva fin troppo chiaramente l'immagine di Claudio ridotto ad un ammasso di dolore e sangue da quel mostro che infieriva su di lui senza pietà -la sua compassione nei confronti di Elena svanì in un batter d'occhio, perché se non avesse raccontato quella storia ai quattro venti, Claudio non avrebbe sofferto in quel modo- e non sapeva cosa dire, ogni parola gli sembrava inadatta e allora, in un gesto istintivo, lo accolse ancora di più nell'abbraccio, spingendolo delicatamente sul materasso fino a farlo distendere supino, in modo che potesse coprirlo totalmente con il proprio corpo: voleva proteggerlo dal mondo, a qualunque costo, e se avesse potuto si sarebbe fatto carico del suo dolore.

Anche Partenope, svegliata da tutto quel trambusto, ricercò uno spazietto accanto a Claudio e si accoccolò contro il suo fianco, strofinandovi il capo.

Claudio cominciò a piangere, un pianto liberatorio, mentre con un braccio raggiungeva la micia per accarezzarla e con l'altro si aggrappava al suo amato: erano loro la sua famiglia, adesso, e lui era felice di essere vivo.

Per un po' gli unici rumori che riempirono la stanza furono i singhiozzi di Claudio, il suono delle labbra di Domenico che accoglievano ogni sua lacrima in un bacio, e le fusa di Partenope.

"Tu hai ragione, la cosa migliore da fare sarebbe denunciarlo, ma ci ho provato e non è andata bene."

Cominciò a dire Claudio ad un certo punto, quando si sentì un po’ più in forze.

"Appena tornato da Napoli, sono andato in un commissariato e ho raccontato tutto, ma l'ispettore che era lì invece di redigere la mia denuncia ha chiamato mio padre, perché evidentemente lo conosceva."

Sospirò.

"Mi hanno obbligato a restare lì in attesa del suo arrivo e poi ci hanno lasciato da soli per parlare. Lui evidentemente sapeva di star rischiando troppo, perché anche se fosse riuscito a corrompere il giudice, un caso del genere avrebbe fatto scandalo e la sua immagine ne sarebbe uscita compromessa, quindi mi ha promesso che non l'avrebbe più fatto e si è offerto di continuare a mantenermi. Io volevo iniziare l'università, lo sai, e allora ho accettato."

Si morse un labbro, pieno di vergogna.

"Ti prego, non giudicarmi."

Aggiunse, imbarazzato. Domenico, però, aveva ben altri pensieri per la testa.

"L'ha più fatto? Ti ha più picchiato?"

Domandò, preoccupato, guardandolo negli occhi. Claudio scosse il capo.

"No, mai. È stato di parola."

"Neanche lo scorso Natale? Mi hai detto che è stata una brutta serata..."

Chiese ancora Domenico, temendo ci fosse un preciso motivo per il quale Claudio avesse evitato di raccontargli i dettagli. Claudio abbozzò un sorriso, piccolo ma rassicurante.

"No, non mi ha neanche sfiorato. Mi ha solo fatto passare delle ore orribili, ma solo psicologicamente. C'era anche Elena lì, con tutta la sua famiglia, ed era chiaro che in qualche modo mio padre sperasse di farci rimettere insieme, ma non posso denunciarlo per questo, no?"

Domenico sospirò, rincuorato almeno in parte, anche se certamente non approvava nemmeno quel modo di fare.

"Io non ti giudico, non potrei mai farlo, però tu mi devi promettere che se lo rifà me lo devi dire, va bene? Così, anche a costo di girarci tutti i commissariati di Roma andiamo insieme a denunciare quello stronzo e poi te ne vieni a vivere a Napoli da me!"

Disse con fervore, per poi dargli un bacio in mezzo agli occhi.

"Un modo lo troviamo, Claudio, te lo giuro."

Aggiunse con più dolcezza, accarezzandolo con lo sguardo. Claudio sorrise, gli occhi che un po' brillavano per le lacrime e un po' per la felicità si perdevano nei suoi, e annuì.

"Te lo prometto, va bene."

Domenico si chinò a dargli un altro bacio, stavolta a fior di labbra, e poggiò la fronte sulla sua, morbidamente.

"Non devi più preoccuparti, non devi più avere paura. Adesso ci sono io a guardarti le spalle."

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Capitolo 36
*** Appendice, Capitolo 5 – Capitolo 5 – Rimangono le impronte (parte 1) ***


Napoli, 1 Gennaio 2004

Claudio fu svegliato dal rumore, divenuto familiare nel giro di pochi giorni, della chiave che girava nella serratura. Non che stesse realmente dormendo, in effetti, il suo era più un riposare profondo -aveva il sonno leggero quando dormiva da solo- quindi a poco servirono la discreta distanza tra l'ingresso e la camera e i tentativi della persona dall'altra parte della porta di essere silenziosa.

Partenope, raggomitolata accanto a lui, invece, dormiva beatamente, e lui fu ben felice di constatarlo, soprattutto dopo tutta la fatica che aveva fatto per tranquillizzarla la notte precedente -una manciata di ore prima, immaginava-.

Stando attento a non svegliarla si alzò, sorridente, perché sapeva esattamente chi aspettarsi all'ingresso della casa, e mentre si infilava la vestaglia calda si diresse lì. Come aveva immaginato, trovò Domenico davanti alla porta, intento a sfilarsi le scarpe, bagnato da capo a piedi.

Domenico si accorse della presenza dell'altro e alzò lo sguardo verso di lui, accennando un sorriso.

"Hey, ciao...scusami, non volevo svegliarti."

Claudio gli si avvicinò, allarmato.

"Non ti preoccupare, sono andato in bagno poco fa, ero già sveglio."

Si affrettò a mentire, per non dargli preoccupazione.

"Tu, piuttosto, sei bagnato come un pulcino..."

Aggiunse, con voce preoccupata. In effetti, ora che ci faceva caso, fuori si sentiva il frastuono di una tempesta in piena regola.

Domenico sospirò, scrollando le spalle, per poi passarsi una mano sul viso esausto e bagnato, anche nel tentativo di asciugarsi un po', e tirò su col naso.

"Eh, proprio mo' è venuta a fa' 'na scaricata e me la sono presa tutta."

Spiegò, liberando un sonoro sbuffo subito dopo. Quel temporale improvviso era stato l'apice di una nottata terribile, piena di chiamate che l'avevano fatto correre da un capo all'altro della città, senza dargli modo di riposarsi un attimo. Era distrutto, voleva solo buttarsi a letto con il proprio fidanzato e la loro gatta e dormire.

"Non mi stare troppo vicino, che altrimenti ti bagni anche tu. Torna a dormire, ti raggiungo tra poco."

Gli disse ancora, con voce stanca ma dolce, facendogli cenno di allontanarsi.

Claudio, però, scosse il capo. Non poteva lasciarlo solo, stanco, bagnato ed infreddolito com'era; doveva e voleva prendersi cura di lui, dunque gli porse una mano.

"Vieni, andiamo in bagno. Ti aiuto."

Gli disse con ferma dolcezza, sorridendogli, e Domenico non poté fare altro che sorridergli di rimando, prendere la sua mano -caldissima e asciutta, al contrario della propria- e seguirlo.

Appena entrati, Claudio chiuse la porta dietro di sé e lo accompagnò allo sgabellino, senza lasciarlo andare.

"Siediti qui, dai..."

Domenico si lasciò cadere quasi a peso morto, liberando un pesante sospiro, e Claudio lo osservò con le labbra contratte in un'espressione preoccupata, ma non si perse d'animo: senz'altro il proprio ragazzo aveva trascorso un turno massacrante, ma lui avrebbe fatto di tutto per farlo rilassare. Recuperò un paio di asciugamani ed una grossa bacinella che posò accanto a lui, e gli rivolse un sorriso rassicurante.

"Questa la togliamo, eh..."

Portò le mani sulla pesante giacca blu della divisa, completamente zuppa d'acqua, prendendo la zip ma senza ancora tirarla giù.

"Posso?"

Chiese, guardandolo negli occhi, e Domenico annuì piano -facendo cadere qualche gocciolina d'acqua dai capelli- ma sorridente.

"Certo che puoi, anche perché da solo non sono molto sicuro di riuscirci..."

Rispose un po' scherzoso, sostenendo il suo sguardo con occhi pieni di serenità.

Claudio gli posò un bacio proprio in mezzo a quei due pezzi di bosco e poi, con un colpo deciso, aprì la cerniera e gli sfilò l'indumento, lasciandolo nella bacinella. Fece la stessa cosa con il maglioncino che portava al di sotto e con la canottiera, perfino quella era bagnata!

Domenico, rimasto a torso nudo, fu scosso da un brivido di freddo per il contatto tra l'aria e la pelle umida, che lo portò istintivamente a stringersi nelle braccia.

Claudio, senza esitare, prese l'asciugamano e glielo mise sulle spalle a mo' di mantello. Si spostò un po' di lato rispetto a lui e cominciò ad accarezzargli la schiena così coperta con piccoli movimenti circolari -si accorse che era molto teso- in modo da asciugarlo, mentre lo sosteneva con l'altro braccio.

Domenico liberò un sospiro di sollievo, sia per il piacevole calore che quel movimento gli trasmetteva, sia perché gli era mancato quel contatto.

"Ti devo proprio ringraziare..."

Mormorò, con una punta di divertimento. Claudio fece una risatina.

"E invece no, non devi. Va un po' meglio?"

Domenico annuì, alzando lo sguardo verso di lui.

"Decisamente."

Rispose, accompagnandosi da un sorriso carico di stanchezza, ma anche decisamente innamorato.

Claudio si ritrovò a sorridere di rimando, con le guance un po' più rosse e lo stesso amore ad animargli il cuore.

"Ti va di raccontarmi cos'è successo?"

Domandò incuriosito, ma soprattutto desideroso di aiutarlo ad alleggerirsi, perché non gli faceva bene portarsi tutti i pesi dentro. Domenico emise un piccolo sbuffo divertito, poi sospirò.

"Farei prima a dirti cosa non è successo."

Alzò il capo verso di lui, voltandosi leggermente.

"La maggior parte dei miei colleghi erano impegnati con il concertone di fine anno e a chi era rimasto è toccato il resto. E il resto, beh..."

Sospirò.

"Hai presente le notizie che i telegiornali danno il primo dell'anno? Ecco, praticamente non me ne sono fatta mancare nemmeno una!"

Sollevò leggermente il dito indice, ad indicare il numero uno, poi lo riportò giù per tornare ad afferrare i lembi dell'asciugamano che si teneva stretto addosso.

"Risse dentro e fuori ai locali, proiettili sparati in aria che per poco non ammazzavano qualcuno, chiamate da parte di chi, mentre passeggiava per strada, si è ritrovato colpito da un piatto, o qualcosa di peggio, gettato via per festeggiare l'anno nuovo, e poco prima che tornassi a casa sono anche cominciate le prime segnalazioni di incidenti causati da botti inesplosi...insomma un casino dietro l'altro, credimi."

Spiegò, con la voce che si trascinava un po' a fatica. Ciononostante, in essa non c'era il minimo segno di disprezzo o scocciatura, non si stava lamentando -anzi era contento di aver potuto fare la propria parte anche quella notte-, era solo parecchio stanco e grazie al ragazzo che in quel momento lo stava asciugando con tanta cura -salvandolo da un malanno assicurato- aveva capito che non c'era nulla di male a mostrarsi così.

Claudio lo ascoltò con attenzione, senza smettere di asciugargli la schiena e le spalle neanche per un attimo, e alla fine del suo racconto gli fece una carezza tra i capelli -che avrebbe dovuto assolutamente asciugare a breve!-, rivolgendogli un sorriso carico di comprensione -gliene avevano fatte passare fin troppe quella notte ed era evidente che fosse esausto-, ma anche di orgoglio, perché aveva sicuramente aiutato tante persone. Prese un altro asciugamano e lo avvicinò al suo petto, facendogli segno di allargare le braccia.

"E scommetto che in tutto questo c'era anche qualche ubriaco che non voleva lasciare il bar che aveva occupato, mh?"

Domandò con una punta di ironia, per alleggerire un po' il momento. Funzionò, perché Domenico fece una risatina e annuì piano mentre obbediva placidamente alla sua richiesta.

"Ah, ce n'erano parecchi, però nessuno come te! Tu sei unico!"

Si morse il labbro inferiore, rendendosi conto di quanto fosse contorto e fraintendibile quel concetto. Era così stanco da non riuscire nemmeno a fare dei complimenti decenti al proprio ragazzo!

"Cioè, lo sei come persona, non come ubriaco. Aveva più senso nella mia testa, giuro."

Si affrettò a precisare, imbarazzato, accompagnandosi da un vago gesticolare di una mano.

Claudio rise di cuore, sforzandosi però di non fare troppo rumore, trovando tenerissima sia quella precisazione -assolutamente non necessaria, in quanto aveva colto il senso della sua frase- sia la sua espressione.

"Tranquillo, avevo capito. È una bella cosa da sentirsi dire, ti ringrazio."

Rispose con voce morbida, cominciando a passargli l'asciugamano sul petto per catturare le prime goccioline.

"Nessuno me l'aveva mai detto prima, sai?"

Aggiunse, spostando gli occhi grati nei suoi. Nessuno, del resto, lo aveva mai fatto sentire tanto amato quanto faceva lui.

Domenico liberò un sospiro, rassicurato, e gli sorrise morbidamente.

"Allora te lo dirò io, sempre, perché tu per me lo sei."

Rispose, accarezzandogli la guancia. Era l'unica persona di cui si fosse mai innamorato e l'unica, ne era certo, che avrebbe amato per tutta la vita.

Claudio liberò una piccola risatina imbarazzata, ma allegra.

"Per adesso pensa soltanto a farti asciugare, altrimenti qui di unico ci sarà soltanto il febbrone che ti prenderai!"

Esclamò scherzoso, per poi posare un bacio sulla mano con cui l’altro gli stava ancora accarezzando la guancia.

Domenico si sciolse in un sorriso teneramente emozionato -quanto era piacevole sentire le calde labbra di Claudio sulla propria pelle fredda!- e poi fece una risatina.

"Oh no, non sia mai! Prego, non ti interrompo..."

Mormorò divertito, guardandolo languidamente.

"Però ti prego, intanto raccontami com'è andata la tua serata. I miei parenti ti hanno fatto il terzo grado?"

Chiese, con una punta di preoccupazione. Le uniche persone della sua famiglia che sapevano della loro relazione erano sua madre e sua sorella, mentre a tutte le altre avevano deciso di presentarsi come semplici amici, non per vergogna, ma per sopravvivenza: Domenico non era sicuro di come avrebbero potuto reagire alla notizia e non voleva che Claudio corresse il rischio di sentirsi giudicato per l’ennesima volta. Temeva però, comunque, che i suoi parenti invadenti avessero potuto metterlo a disagio con qualche domanda di troppo o, peggio, commento fuori luogo.

Claudio scosse il capo, sorridente.

"Diciamo che un po' ci hanno provato,ma tua madre non gliene ha dato modo. Per il resto, ho mangiato tanto e ho anche vinto qualcosa a tombola, è stata una serata piacevolissima."

Spiegò allegro, mentre gli asciugava il viso. Era la verità, si era trovato davvero bene con la famiglia di Domenico, sicuramente meglio che con la propria, ed era quindi molto facile perdonare qualche piccola invadenza, che comunque era stata stroncata sul nascere.

Domenico portò una mano alla sua guancia per accarezzarla e gli sorrise, felice di sapere che avesse trascorso una bella serata. Se lo meritava.

"Sicuro? Non hanno messo in mezzo discorsi strani?"

Chiese ancora, e Claudio scosse il capo, ridacchiando.

"No, davvero, è andato tutto bene, te l'avrei detto altrimenti. Adesso rilassati, mh?"

Rispose dolcemente, guardandolo negli occhi, e Domenico annuì, più tranquillo all'idea che, nel caso, ne avrebbero parlato, e riportò la propria mano in grembo.

Claudio, allora, tornò a dedicarsi al suo busto, asciugandolo per bene intorno al collo, sul petto che si muoveva al ritmo del suo respiro ed un po' più giù, sulla pancia e sui fianchi, fino al bordo dei pantaloni. Fu attraversato dal pensiero di percorrere con i propri baci il percorso che tracciava con l'asciugamano, ma accantonò subito l'idea perché non era il caso di perder tempo, almeno non in questo frangente.

Domenico ad un certo punto, senza rendersene conto, chiuse gli occhi, affidandosi totalmente a quelle carezze morbidissime -peccato solo che ci fosse l'asciugamano di mezzo!- che lo aiutarono a rilassarsi un po'. Era come se, insieme all'acqua, asciugassero anche le sue preoccupazioni.

"Posso toglierti anche i pantaloni?"

Domandò Claudio dopo un po', quando si sentì soddisfatto del proprio operato, senza imbarazzo. Per Domenico fu come ridestarsi da un sogno e riaprì gli occhi lentamente, mentre sulle labbra comparve subito un sorriso sghembo, furbetto e giocoso.

"E me lo chiedi così, senza neanche un invito a cena?"

Ribatté scherzoso, cogliendo l'occasione servitagli su un piatto d'argento. Claudio alzò gli occhi al cielo con finta esasperazione.

"Ti faccio notare che sono zuppi, come tutto il resto."

Ribatté, per poi fare una risatina che rivelava quanto in realtà gli fosse piaciuta quella risposta che un po', in effetti, avrebbe dovuto aspettarsi.

"E comunque non è colpa mia, e neanche tua chiaramente, se non è stato possibile cenare insieme stasera."

Aggiunse, e subito dopo sollevò un sopracciglio, con gli occhi blu leggermente velati di malizia.

Domenico ridacchiò, piacevolmente impressionato dalla sua obiezione che, non fu difficile ammetterlo, gli causò anche un brivido lungo la schiena che non aveva niente a che vedere con il freddo. Anzi, era un brivido caldo.

"Dopo questa, sarei davvero folle a dirti di no..."

Rispose divertito, ma poi tornò più serio e gli sorrise premuroso.

"Sempre se per te va bene, eh."

Aggiunse, non volendo causargli imbarazzi di nessun tipo. Claudio ricambiò il sorriso, grato per l'accortezza, e annuì per rassicurarlo.

"Fidati, non mi scandalizzo a vederti in intimo, altrimenti non te l'avrei proposto!"

Ribatté, serenamente risoluto.

Domenico, allora, liberò una risatina e gli fece cenno di proseguire: nemmeno lui si vergognava a farsi vedere così, non si era mai vergognato di fronte alle tante persone con cui aveva vissuto passioni più o meno travolgenti e durature, figurarsi se la persona che amava poteva essere un problema!

Claudio dunque si chinò ad armeggiare con la cintura, che slacciò rapido, e poi gli sfilò delicatamente l'indumento, una gamba alla volta, posandolo accanto agli altri nella bacinella. Nonostante le battute scambiatesi poco prima, non c'era alcuna malizia in lui mentre, rapido e ordinato, si spostava con l’asciugamano lungo le sue gambe toniche e stanche: aveva come unico scopo il prendersi cura dell'altro e scacciare il freddo dal suo corpo il più in fretta possibile.

Domenico seguiva i suoi movimenti con lo sguardo, rapito dalla precisione con cui si occupava di lui, e le labbra curvate in un piccolo sorriso beato. Gli sfuggì anche una risatina quando Claudio gli toccò la piega del ginocchio, sul retro della gamba.

Claudio, sentendolo ridere, accennò un sorrisetto.

"Solletico?"

Chiese, curioso, e Domenico annuì.

"Sì, lo soffro solo lì. Sono strano, lo so..."

Rispose divertito, scrollando le spalle. Claudio alzò lo sguardo verso di lui, gentile.

"No, sei unico."

Domenico, piacevolmente preso alla sprovvista, reagì con un leggero sbuffo imbarazzato e timido, che subito gli fece sciogliere le labbra in un sorriso morbido, contornato da due guance rosse.

Claudio, proprio su una di quelle gote, fece una carezza morbida.

"E sei anche asciutto."

Aggiunse, sfilandosi la vestaglia che poi gli porse.

"Mettiti questa mentre ti asciugo i capelli. Così stai più caldo."

"Sicuro? Non è che poi hai freddo tu?"

Replicò Domenico, un po' preoccupato, ma Claudio scosse il capo e gli avvicinò leggermente l'indumento per sottolineare il concetto.

"No, tranquillo, io sto bene. E poi è solo per poco, su!"

Domenico accennò un sorriso e, non potendo opporsi ulteriormente, indossò la vestaglia mormorando un "Grazie.".

Claudio gliela sistemò meglio addosso, chiudendola accuratamente sul davanti in modo che Domenico stesse ben caldo e poi, soddisfatto, prese il phon e cominciò ad asciugargli i capelli. Con la mano libera, invece, andò ad accarezzare la sua guancia, facendo piccoli movimenti con il pollice.

Domenico, per quanto adorasse quelle carezze, ne approfittò per prendere la sua mano nella propria, senza stringerla, solo per sentirlo ancora più vicino, e posarvi qualche piccolo bacio di ringraziamento per quelle cure che gli stava riservando.

Claudio, ad ogni bacio, sentiva un piacevole calore avvolgergli il corpo -il freddo non riuscì a disturbarlo nemmeno per un attimo- e sorrideva, felice e leggero. Non aveva bisogno di ringraziamenti per ciò che stava facendo, ogni suo gesto partiva dal cuore, ma mai e poi mai avrebbe rifiutato i baci di Domenico, sarebbe stato un sacrilegio.

"Ok, direi che anche qui abbiamo fatto..."

Disse dopo un po', una volta accertatosi che i capelli dell'altro fossero asciutti, passandoci più volte la mano.

"Va' pure a letto, io metto a posto e ti raggiungo."

Continuò, mentre si allontanava per posare il phon nel mobiletto dove solitamente era riposto.

Domenico si alzò, avvertendo distintamente la protesta dei suoi muscoli indolenziti, ma non ci pensò nemmeno ad uscire dal bagno e piuttosto si avvicinò all'altro ragazzo, che al momento gli dava le spalle, con un sorriso sghembo e trepidante sul volto, già pregustando l'idea di ciò che stava per fare.

"Claudio?"

Lo chiamò dolcemente, e Claudio subito si voltò, trovandosi Domenico a pochi centimetri di distanza.

"Sì?"

Chiese a bassa voce, con le labbra che automaticamente si curvarono in un sorriso.

Si guardavano emozionati, l'uno immergendosi negli occhi dell'altro senza paura ad addentrarsi sempre più in profondità in quel mare e in quel bosco che erano ormai un rifugio.

Domenico portò le proprie mani sui suoi fianchi, con leggerezza per non farlo sentire costretto, e poi si avvicinò ancora di più al suo viso, per quanto possibile.

"Buon anno."

Sussurrò direttamente sulle sue labbra, che andò ad incontrare in un bacio che finalmente poteva dargli senza bagnarlo e di cui aveva sentito terribilmente la mancanza, quella notte.

Claudio non attese neanche un istante a raggiungerlo, anche lui non aveva desiderato altro che quel bacio da quando, troppe ore prima, si erano scambiati l'ultimo prima di separarsi, e lo avvolse tra le braccia, innamorato, spingendosi verso di lui per fargli capire di poter fare lo stesso: voleva sentirlo e voleva fargli capire che non doveva avere paura di fargli male, perché i suoi abbracci non erano costrizione, e che lui poteva toccarlo, perché le sue carezze non erano dolore.

Domenico capì, come lo capiva sempre, e si lasciò guidare dal cuore mentre lo avvolgeva tra le braccia con tutto l'amore che provava per lui, facendo riunire finalmente quelle due metà che erano state lontane per troppo tempo.

Quando si separarono, diversi minuti dopo, liberarono all'unisono un sospiro appagato e si sorrisero.

"Buon anno anche a te."

Sussurrò Claudio, facendo toccare le punte dei loro nasi.

"È iniziato proprio bene..."

Mormorò Domenico, muovendo leggermente il proprio naso per accarezzare il suo.

"Decisamente sì!"

Replicò Claudio, assecondando il suo gesto per un po'.

"Adesso però va’ di là, dai. Io arrivo tra un attimo."

Aggiunse, poi, allontanando i loro volti. Domenico sospirò e mise su un mezzo sorriso.

"Non c'è proprio la possibilità che io possa convincerti a farti dare una mano, vero?"

Claudio scosse il capo, risoluto, ma sorridente.

"No, anche perché devo sistemare giusto due cose, è più il tempo che sprecheresti a cercare di convincermi che quello che impiegherei io."

Gli diede un bacio a fior di labbra.

"Su su!"

Esclamò, rivolgendogli uno sguardo eloquente. Domenico liberò una risatina e lo lasciò andare.

"Va bene, capa tosta che non sei altro, ti aspetto..."

Posò un bacio tra i suoi capelli e poi uscì dal bagno, tornando in camera da letto senza far rumore. Aprì lentamente la porta lasciata socchiusa e si accontentò della fioca luce che entrava dalle persiane leggermente sollevate per farsi strada all'interno, perché era sicuro che Partenope fosse lì da qualche parte e non voleva svegliarla accendendo la luce. Non doveva essere stata una notte facile, per lei, con tutto il frastuono tipico della Vigilia di Capodanno e l'ultima cosa che voleva era essere un ulteriore elemento di disturbo. Si sfilò dunque la vestaglia di Claudio, sistemandola accuratamente sulla sedia -esattamente come avrebbe fatto lui- ed indossò il pigiama, per poi avvicinarsi al letto.

Gli bastò sollevare di poco il piumone per scoprire che, esattamente come aveva immaginato, Partenope era lì, più precisamente distesa con il pancino all'insù al centro del letto -dove poco prima doveva esserci stato Claudio, e che quindi era la zona più calda- e sorrise teneramente alla sua espressione beata, in cui spiccava la punta della linguetta all'infuori: era davvero bellissima.

Le fece qualche carezza leggerissima, in punta di dita, su un fianco -sapeva che, anche addormentata com'era, la micia avrebbe riconosciuto il suo tocco- e poi, con tutta la delicatezza di cui era capace, la spostò un po' più in là, in modo da fare abbastanza spazio per sé e per Claudio. Ebbe giusto il tempo di distendersi che Partenope gli si accoccolò accanto, probabilmente attratta dal suo calore, e lui, allora, portò un braccio intorno a lei per accoglierla e darle tutte le carezze che non aveva potuto darle quella sera.

"Anche tu mi sei mancata tantissimo."

Sussurrò piano, accennando un sorriso.

Claudio entrò in camera qualche istante dopo, con passo felpato, certo del fatto che Partenope stesse dormendo e ipotizzando che, forse, Domenico si fosse assopito. Quando si avvicinò, però, notò che quest'ultimo era ancora sveglio e vederlo abbracciato alla loro micetta gli fece nascere un sorriso dolcissimo ed innamorato in volto. 'Quanto sono fortunato ad avervi nella mia vita!', pensò.

"Ma quanto siete belli, così, core a core."

Sussurrò, teneramente. Domenico gli sorrise a sua volta, stanco, ma felice ed affettuoso.

"Manchi solo tu, che sei il più bello. Vieni qua..."

Mormorò, facendogli ancora un po' di spazio. Claudio non attese un istante di più e, dopo aver sollevato le coperte quanto bastava, si infilò a letto, sistemandosi sul fianco, e liberò una risatina leggera, quasi silenziosa.

"Beh, dipende dai punti di vista. Dal mio, vedo il ragazzo più bello di tutta Napoli!"

Mormorò, con le labbra ricurve in un sorriso sghembo, da vero marpione, e gli occhi pieni d'amore puntati sul viso dell'altro, in contemplazione. Di ragazzi belli ne aveva visti tanti, ma la fiamma del proprio cuore ardeva solo per lui, che era diverso da tutti gli altri.

Domenico distese il volto in un sorriso luminoso, accompagnato da un piccolo sospiro innamorato, completamente pervaso da quel calore che aveva cominciato a scaldarlo da quando Claudio era entrato nella sua vita. Era uno degli effetti più fisici dell'amore, che non tocca solo l'anima ma anche il corpo.

"E io, dal mio, vedo il ragazzo più bello di tutta Roma!"

Ribatté a bassa voce, estasiato. Claudio, in risposta, si sollevò per raggiungerlo in un bacio, avvolgendolo con un braccio, mentre Domenico portò una mano tra i suoi capelli morbidi ed un'altra sulla sua schiena, accogliendolo su di sé.

Si incontravano con le labbra a piccoli tocchi, prima lenti, poi rapidi, poi di nuovo lenti e rapidi e così via, come un fuoco scoppiettante che segue un ritmo imprevedibile. Ogni tanto riaprivano gli occhi -Domenico con un po' più di fatica a causa della stanchezza, ma era uno sforzo che faceva volentieri- spinti da un desiderio irrefrenabile di guardarsi, così vicini com'erano, e allora si sorridevano prima di riprendere a baciarsi, di nuovo ad occhi chiusi, ma non per questo guardandosi di meno.

Con le mani, intanto, non smettevano mai di cercarsi: Domenico faceva scorrere le dita tra i capelli di Claudio, ed era come immergerle nelle onde morbide del mare, mentre Claudio aveva fatto scivolare la propria mano sotto la sua maglia e gli accarezzava un fianco, resistente come il tronco di un albero, con movimenti circolari e profondi.

"Scusami se sono diretto, ma potrei farti un massaggio? Hai tutti i muscoli tesi, me ne sono accorto prima..."

Sussurrò Claudio con dolcezza, sollevando leggermente il capo per guardarlo meglio. Domenico sgranò leggermente gli occhi, stupito: nemmeno ricordava quando era stata l'ultima volta che qualcuno gli avesse fatto una simile offerta, perché il più delle volte era a lui che la proponeva a chi condivideva il suo letto.

"Ti ringrazio, ma non sei costretto a farlo. Con una bella dormita mi passerà tutto, tranquillo."

Rispose con un sorriso, accarezzandogli una guancia.

"Guarda che io non mi sento costretto, è che mi sembra che a te servirebbe proprio, invece. Hai lo sguardo distrutto, amore mio..."

Replicò con voce morbida e dolce, posando un bacio sulla sua mano. Domenico sospirò profondamente, lasciando uscire fuori anche un piccolo mugolio. Non aveva senso tentare di trattenersi.

"Core mij, mentirei se ti dicessi il contrario...e mentirei anche se ti dicessi che non mi farebbe piacere riceverlo."

Rispose, con le labbra curvate in un sorriso timido e gli occhi che brillavano emozionati, anche se stanchi.

Claudio accolse la risposta con un battito in più del proprio cuore, che subito si tradusse in un sorriso ampio e affettuoso. Si chinò a baciarlo a fior di labbra, con dolcezza.

"Mettiti su, ti aiuto a togliere la maglietta."

Gli disse subito dopo, spostandosi per fargli spazio. Domenico si tirò a sedere, stando attento a non sfiorare Partenope, e Claudio gli diede una mano a sfilare la maglia, con estrema delicatezza, poi si sporse a baciarlo e così, tenendolo avvolto tra le braccia, lo accompagnò di nuovo sul materasso.

Domenico si lasciò guidare morbidamente, del resto era così facile, limitandosi soltanto a voltarsi di schiena una volta giù. Claudio, in ginocchio al suo fianco, lo aiutò a stendere le braccia lungo i lati del corpo, passandovi poi sopra le mani in una lunga carezza.

"Comodo?"

Chiese a bassa voce e Domenico annuì un po', per quanto la posizione gli permettesse.

"Comodissimo."

Mormorò in risposta. Gli rivolse un ultimo sguardo sorridente e poi chiuse gli occhi, un chiaro segnale di completo affidamento nei confronti dell'altro.

Claudio, senza attendere oltre, cominciò a far scorrere le mani sulla sua schiena, da sotto a sopra e poi da sopra a sotto. Non si trattava ancora un massaggio vero e proprio, ma di carezze che, sperava, potessero restituirgli il calore che il temporale gli aveva tolto: la pioggia, in qualche modo, aveva spento il fuoco che scorreva sotto la pelle di Domenico, ma era necessaria soltanto una piccola carica per riaccenderlo. Del resto anche il peggiore dei nubifragi non può nulla contro il Sole e il Sole, Domenico, ce l'aveva dentro.

"Hai freddo?"

Domandò dopo un po', con voce quasi impercettibile, ma nella stanza c'era silenzio e Domenico sorrise morbidamente.

"Con te che mi accarezzi così? Impossibile."

Rispose, soffiando un lungo sospiro d'approvazione, l'ennesimo in poco tempo. Si beava di quelle carezze caldissime che scioglievano il freddo dal proprio corpo come il Sole fa con la neve ed il ghiaccio e lui era fortunato ad avere il Sole così vicino a sé.

Sentiva le mani di Claudio -'Che siano benedette le tue mani, core mij.', pensò- scorrere con decisione sul proprio corpo e ciò che provava era imparagonabile rispetto a tutto ciò che aveva vissuto fino a quel momento: ne aveva conosciute di mani che lo avevano accarezzato, braccia che lo avevano stretto e labbra che lo avevano baciato, ma tutte insieme non riuscivano ad eguagliare il tocco di Claudio, di qualsiasi natura esso fosse. Era come se non fosse mai stato accarezzato, stretto e baciato prima di conoscere Claudio, e stesse scoprendo tutto per la prima volta.

Non c'era stato nulla prima di Claudio -non per davvero, lo aveva capito da tempo- e non ci sarebbe stato nulla dopo di lui, ne era certo.

"Se è così, ti prometto che non smetterò mai di accarezzarti."

Replicò Claudio, sorridente. Non era solo una promessa che faceva a Domenico, ma anche un giuramento che faceva a se stesso: lo amava, lo avrebbe amato per sempre -lui e nessun altro-, e avrebbe fatto di tutto per farlo stare bene. Cominciò, così, a mettere più energia nelle proprie carezze, a renderle più profonde, e prese a dedicarsi alle sue spalle, che sicuramente portavano il peso di quella lunga nottata.

Domenico mugolò a denti stretti, attraversato da una fitta improvvisa, irrigidendo i muscoli già tesi sotto quel tocco più intenso, ma fu solo per pochi istanti. Poco dopo, infatti, quel dolore prese a scemare, a farsi sempre meno presente, e venne gradualmente sostituito da una morbida sensazione di piacere che gli fece soffiare un sospiro rilassato.

Claudio abbozzò un sorriso, lieto di sentirlo più morbido sotto le proprie mani.

"Scusami, so di averti fatto male, prima, ma succede quando i muscoli sono molto rigidi..."

Domenico sorrise sghembo e si umettò le labbra con la lingua prima di parlare.

"Non ti scusare, tu mi fai sempre bene..."

Mormorò, mangiandosi un po' le parole che tuttavia arrivarono chiare e limpide al cuore di Claudio, facendolo tremare di gioia perché non c'era altro che desiderasse, e curando tante piccole ferite invisibili causate da mesi e mesi in cui si era sentito dire di non essere altro che un fallimento, un peso, una disgrazia. Si chinò a posare un bacio tra i capelli del proprio ragazzo e poi riprese a massaggiargli il corpo, scendendo un po' più giù lungo la schiena.

Domenico, a poco a poco, si sentì sempre più leggero, quasi incorporeo pur avvertendo perfettamente tutte le sensazioni del proprio corpo -percepiva distintamente il piumone pesante che gli copriva le gambe, il pelo di Partenope che gli solleticava un fianco e, naturalmente, le mani di Claudio che si muovevano sapientemente su di sé-, era come se fosse stato ubriaco senza tuttavia aver toccato neanche un goccio d'alcool in quella serata -gli era severamente vietato bere in servizio, del resto-. Si stava abbeverando, però, alla fonte di un qualcosa di molto più potente di qualsiasi alcolico del mondo, ossia l'amore, che sgorgava direttamente dal petto di Claudio e si riversava su di lui, entrandogli dentro e facendolo sentire amato.

Quel massaggio, poi, era così piacevole che ben presto la stanza si riempì dei suoi sospiri, sempre più profondi, e dei suoi mugolii che a volte gli rimanevano in gola ed altre, invece, sfuggivano tra labbra, senza che lui provasse a darsi un contegno o a trattenersi, dal momento che non ne aveva né la forza né la volontà.

Per Claudio, quei versi che qualcuno non avrebbe esitato a definire osceni, erano invece meravigliosi -e assomigliavano tanto alle fusa di un gatto-, una vera e propria musica, oltre che un incentivo a proseguire: si riempiva le mani e gli occhi di quel corpo meraviglioso, privo di qualsivoglia bruttura -non aveva neanche un minuscolo graffio, a differenza del proprio-, che chissà quante altre persone avevano toccato prima di lui -da un lato il pensiero lo faceva ardere di gelosia ed inevitabilmente pensava a Viola e alle parole che Silvia gli aveva detto sulla spiaggia qualche mese prima, ma dall'altro sperava che quelle persone, qualsiasi fosse il loro numero, lo avessero toccato con almeno la metà dell'amore che ci metteva lui, perché Domenico non meritava di essere trattato diversamente- e che adesso era morbido e rilassato sotto al proprio tocco.

"Va meglio, ora?"

Sussurrò piano, avvicinandosi al suo orecchio.

Domenico mosse leggermente il capo, quasi impercettibilmente, ed il cuscino gli sembrò una nuvola.

"Decisamente. Adesso però vieni qua, per favore: ho bisogno di baciarti."

Ormai il sonno stava per avere la meglio su di lui e gli fu molto difficile articolare quella risposta, ma voleva a tutti i costi ringraziare per bene il proprio ragazzo prima di cedere definitivamente.

Claudio abbozzò una piccola risata e annuì piano.

"Devo prima fare un'ultimissima cosa, abbi ancora un po' di pazienza."

Replicò a bassissima voce, direttamente al suo orecchio, prima di abbassarsi a posare un bacio in mezzo alle sue spalle. Domenico si sentì mancare il fiato, eppure respirava lo stesso.

"Tu vuoi proprio farmi sentire in Paradiso, stasera."

Mormorò, accennando un sorriso. Claudio sorrise, di rimando, sulla sua pelle.

"È dove meritano di stare gli angeli come te."

Sussurrò, e per sottolineare il concetto tracciò, con i propri baci, la curva naturale delle spalle di Domenico: lì, ne era certo, trovavano posto le sue ali.

Domenico, a dispetto di ciò che diceva il suo dolcissimo ragazzo dalla risposta sempre pronta, non sentiva di avere un paio di candide ali piumate che gli spuntavano dalla schiena, eppure in quel momento gli sembrava di volare.

"E come te."

Mormorò con un filo di voce, e Claudio sorrise, timidamente lusingato: se era Domenico a dire certe cose, lui ci credeva molto più di quanto fosse abituato a pensare. Si spostò, sollevandosi quanto bastava per dare all'altro un po' di spazio.

"Ti aiuto a rimetterti la maglia."

Disse con dolcezza, prendendola dalla testiera del letto, dove l'aveva precedentemente appoggiata. Domenico liberò un sospiro pesante, con aria afflitta.

"Non li vuoi proprio i miei baci, eh?"

Mormorò, tristemente, fingendosi sconsolato. Claudio scosse il capo, facendo una risatina.

"No, questo non è proprio possibile! Non potrei mai e poi mai rifiutare i tuoi baci, sono fiori nel prato della mia vita!"

Rispose, dolcemente accorato.

"È solo che non voglio che tu prenda freddo."

Aggiunse, con voce morbida che tradiva una leggera preoccupazione. Domenico gli rivolse un morbido sorriso, innamorato di lui e del suo modo di parlare, che trasformava anche la cosa più banale in una poesia.

"Ma lo vuoi capire che con te vicino è impossibile che io senta freddo?"

Sussurrò, guardandolo negli occhi.

Claudio si morse un labbro, piacevolmente imbarazzato: lui e Domenico stavano insieme da appena una settimana, decisamente troppo poco per abituarsi ai suoi complimenti così puri e sinceri. Annuì, in risposta, sorridendogli grato.

"Lo capisco, ma la maglietta aiuta. Vieni qui, dai."

Gli porse una mano per aiutarlo a tirarsi su e Domenico vi si aggrappò con la propria, mettendosi a sedere lentamente per non svegliare Partenope, alla quale rivolse uno sguardo per controllare che fosse tutto a posto e accennò un sorriso quando si rese conto del fatto che la gatta non sembrava minimamente disturbata né dai loro movimenti né dal loro parlare. Doveva avere davvero molto sonno.

"È stata una brutta serata per lei, vero?"

Claudio spostò lo sguardo sulla micia, così serena adesso, e annuì, sospirando.

"Sì, hanno iniziato a fare baccano ben prima di mezzanotte, fuori. Eravamo ancora in soggiorno e lei non sapeva dove nascondersi, ad ogni fuoco d'artificio tremava sempre di più, era terrorizzata, poverina. Allora me la sono presa in braccio e l'ho portata qui, ho chiuso la finestra e ci siamo messi sotto le coperte, al riparo. L'ho tenuta stretta stretta a me, accarezzandola e cercando di rassicurarla come meglio potevo...e alla fine si è calmata."

Spiegò, e un dolce sorriso gli comparve spontaneamente sul viso.

Domenico lo guardava ammirato ed orgoglioso, con gli occhi che brillavano e l'angolo delle labbra sollevato. Non aveva dubbi che, con la sua dolcezza, Claudio sarebbe stato in grado di placare l'animo di chiunque.

"Se c'era qualcuno che poteva farlo, eri tu. Sei speciale, l'ho sempre pensato."

Sussurrò, e Claudio tornò a guardarlo, sorridendo imbarazzato.

"Ma dai, che dici? Ci saresti riuscito benissimo anche tu..."

Replicò, facendogli segno di sollevare le braccia. Domenico obbedì, senza staccargli gli occhi di dosso.

"Forse sì, ma io non c'ero. Guarda che non è facile far calmare un animale spaventato, eh."

Gli fece notare, mentre indossava la maglia del pigiama, aiutato dall'altro. Claudio gli sorrise, innamorato, guardandolo negli occhi.

"Tu con me ci sei riuscito, però."

Domenico portò una mano a fargli una carezza tra i capelli, rivolgendogli un sorriso morbido, dolcissimo.

"Beh, tu non sei un animale..."

Claudio fece una smorfietta di dissenso, sollevando leggermente le sopracciglia.

"Con tutto quello che avevo bevuto, un po' lo ero."

Ribatté, scherzoso. Domenico abbozzò una risatina, che trattenne per non fare rumore.

"Cerca di non miagolare però, che per quanto mi piaccia quando lo fai, adesso non è il caso..."

Così dicendo si mise disteso, allargando le braccia per accoglierlo. Claudio, senza attendere oltre, si chinò su di lui, coprendolo con il proprio corpo, facendo avvicinare i loro volti.

"Ah, quindi ti piace? Me lo ricorderò..."

Sussurrò mellifluo, con una luce furbetta negli occhi e nel sorriso che attraversò Domenico con un piacevolissimo brivido.

Presero a baciarsi, incontrandosi con un movimento uguale e sincronizzato, entrambi affamati e al tempo stesso mossi dal desiderio di nutrire l'altro: c'era equilibrio, tra loro, come solo può essere in un qualcosa di perfetto.

Soltanto quando, dopo un po', si sentirono entrambi sazi e appagati si decisero a separarsi -non ci fu bisogno di parole, bastò uno sguardo ed un sorriso-: Claudio scese un po' più in basso e sistemò il capo sul petto di Domenico, tirando con sé il piumone per sistemarlo su tutti i presenti. Con lo stesso braccio, poi, andò a cingere il busto dell'altro, stringendosi a lui che era meglio di qualunque cuscino. Da quella posizione poteva anche arrivare a Partenope, e infatti le fece una carezza. Domenico, invece, portò un braccio intorno a Claudio, che era meglio di qualsiasi coperta, e l'altro intorno alla gatta, che sistemò la testolina nell'incavo della sua spalla.

Dall'esterno, sembravano davvero un incastro perfetto.

"Buonanotte, amore mio."

Sussurrò Claudio, nel silenzio generale, posandogli poi un bacio sul petto, anche se era coperto dal pigiama. Domenico ricambiò con una carezza tra i capelli morbidi, che poi sfumò sul suo collo caldo.

"Buonanotte a te, core mij."

Si addormentarono quasi istantaneamente, felici di essere di nuovo vicini, con un sorriso morbido a dimostrare quanto la loro realtà fosse molto più bella dei sogni.

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Capitolo 37
*** Appendice, Capitolo 5 – Rimangono le impronte (parte 2) ***


Il mattino seguente -o, per meglio dire, appena qualche ora dopo che si erano addormentati-, Claudio fu il primo ad aprire gli occhi, ma appena mise a fuoco i dintorni, dopo aver sbattuto le palpebre un paio di volte, si rese conto di essere stato in realtà il secondo: proprio di fronte a lui, dall'altra parte del petto di Domenico, c'erano due occhietti gialli che lo fissavano attentissimi.

"Buongiorno, sirenetta. Hai dormito bene?"

Partenope, appena si accorse che lui era sveglio, gli fu accanto con un piccolo balzo e prese a sfiorargli il viso con il muso facendo le fusa. Claudio ridacchiò teneramente e allungò una mano a farle i grattini dietro le orecchie, dove piaceva a lei.

"Lo prendo per un sì, mh?"

La micia rispose con un sottile miagolio e strizzò lentamente gli occhi, gesto che Claudio imitò subito: era quello il modo con cui i gatti dimostravano affetto ed era giusto che anche lui, pur essendo umano, si esprimesse nella sua lingua.

Partenope, allora, si accoccolò sul suo petto e prese ad impastargli la maglia con le zampine, senza smettere di fare le fusa, e Claudio si sciolse in un tenero sorriso, continuando ad accarezzarla con affetto.

Dopo qualche minuto di coccole, però, Partenope rivolse il proprio sguardo su Domenico, che ancora dormiva, e Claudio la seguì con i propri occhi.

"È ancora presto per dare il buongiorno al papà, aspettiamo un altro po'. Lasciamolo dormire, è parecchio stanco..."

Spiegò a bassa voce, cercando di trattenere la gatta con le proprie carezze.

"Sì, bravi, lasciate dormire il papà ancora un po'..."

Mormorò Domenico in risposta, con la voce impastata dal sonno ed un sorriso sghembo appena accennato sulle labbra. Era già sveglio, anche se da pochissimo, e non aveva aperto gli occhi perché sperava di poter sonnecchiare ancora, ma sentire che i suoi più grandi amori erano svegli era stato un motivo sufficiente per spingerlo ad iniziare quella giornata.

Subito Partenope gli balzò addosso, camminando sul suo petto fino a raggiungere il viso, su cui prese a lasciare tante piccole leccatine, era tanto felice. Domenico scoppiò a ridere, gioioso, e le prese la testolina tra le mani, accarezzandola prima lì e poi lungo il corpo.

"Anch'io sono contento di vederti, sirenetta, ma la doccia volevo farmela dopo!"

Protestò scherzoso, chiudendo e riaprendo lentamente gli occhi, perché anche lui conosceva il suo linguaggio.

Partenope, allegra, continuò ancora un po' a dargli i propri personalissimi bacetti prima di stendersi su di lui e fargli le fusa, e Domenico portò immediatamente una mano su di lei, accarezzandola dolcemente.

Ciò diede modo a Claudio, che aveva osservato tutta la scena con occhi pieni d'amore, di sollevarsi verso l'altro e di stampargli un bacio sulle labbra.

"Buongiorno amore mio!"

Esclamò, per poi cominciare a riempire di baci il viso amato senza darsi una regola: si muoveva sulle guance, in mezzo agli occhi, sulle palpebre assonnate -su cui si concentrò un po' di più per alleggerirle dal peso del sonno- e tra i capelli scomposti che ricadevano sulla fronte, ovunque potesse arrivare, seguendo soltanto il proprio istinto.

Domenico rideva, sopraffatto dalla felicità, e, un po' alla cieca, lo avvolse con un braccio, quello libero, cercando di accarezzarlo come meglio poteva.

"E che bel buongiorno, core mij! Ma se non ti fermi un attimo, non riesco a ricambiartelo..."

Propose, tra una risata morbida e l'altra. Claudio si arrestò immediatamente, posando un ultimo bacio sulla punta del naso, e gli sorrise, furbetto.

"Sono tutto tuo!"

Disse a bassa voce, allegro. Domenico ridacchiò, poi dischiuse le labbra in un sorriso appena accennato, ma luminoso.

"E io sono tutto tuo."

Sussurrò, poi sollevò il capo quanto bastava per dargli un bacio a fior di labbra. Da lì si spostò in alto -aveva un percorso ben preciso nel cuore-, tracciando una scia di baci dall'arco di Cupido lungo tutto il setto nasale. Arrivò tra gli occhi e percorse parte della fronte, poi scese lungo una guancia -soffermandosi in particolar modo sulla fossetta da cui sorgeva il suo bellissimo sorriso- e tornò sulle labbra, stavolta per fermarsi. Cominciò ad accarezzarle con le proprie, senza fretta, e Claudio ricambiò subito sfiorando le sue con la punta della lingua, delicatamente.

I piccoli schiocchi che si propagarono nella stanza da quel momento in poi, erano come scintille di fuochi d'artificio.

Partenope, che li osservava curiosa, ad un certo punto attirò la loro attenzione con un lungo miagolio e i due ragazzi si separarono, scambiandosi una risata e uno sguardo divertito.

"Un po' ha ragione, si sente messa da parte..."

Commentò Domenico, intenerito, e Claudio annuì, sorridente, per poi spostarsi di lato e sistemarsi su un fianco.

"Vieni qui, principessa!"

Esclamò, battendo con una mano sul materasso. La gatta subito lo raggiunse e Domenico, ora libero, poté imitare la posizione dell'altro, voltandosi su un fianco.
Cominciarono entrambi ad accarezzare Partenope, che si beava di quelle carezze e rispondeva con morbide fusa, ed intanto coglievano l'occasione per far incontrare anche le loro mani sul suo pelo morbido, che in effetti da sempre aveva ospitato quei timidi scambi affettuosi, ora molto più consapevoli. Si guardavano, persi l'uno nell'altro, e si sorridevano, splendenti d'amore.

"Ma come fai ad essere così bello anche appena sveglio, mh? Me lo spieghi?"

Mormorò Domenico, la cui voce fluttuò leggera nell'aria.

Claudio ridacchiò, con timido imbarazzo, e anche la sua risata cristallina prese il volo nella stanza.

"Potrei dire lo stesso di te, eh."

Replicò, sollevando appena le sopracciglia in un'espressione complice.

Domenico sospirò, morbidamente.

"Secondo me il segreto sta nei tuoi occhi."

Disse, con sicurezza. Erano stati quegli occhi profondi a chiamarlo a sé, dall'istante in cui li aveva visti.

Claudio sorrise, timidamente: non amava particolarmente i propri occhi, troppo simili a quelli di suo padre, e di certo non li considerava il segreto di quella bellezza che pur sapeva di avere, ma se Domenico diceva che erano belli, allora un po' -un po' tanto- ci credeva anche lui. Anzi, Domenico li considerava addirittura un portafortuna e per lui, questo, era il vanto più grande. Se c'erano degli occhi particolarmente degni di merito, però, quelli erano senz'altro i suoi.

"Di nuovo, potrei dirti la stessa cosa..."

Replicò, deciso. Erano stati quegli occhi pieni di luce ad accoglierlo, infatti, fin dal primo momento in cui si erano incontrati.

Domenico scosse appena il capo, senza perdere il sorriso.

"No, no, i miei occhi non sono niente di che! I tuoi, invece, sono speciali!"

Claudio aggrottò le sopracciglia, contrariato. Apprezzava ed accettava le belle parole che il proprio ragazzo gli rivolgeva, ma non poteva assolutamente tollerare quelle che riferiva a se stesso. Era intollerabile che anche solo le pensasse!

"Queste cose non le voglio proprio sentire! Forse non ti sei guardato molto allo specchio ultimamente, diciamo negli ultimi vent'anni, ma c'è un bosco meraviglioso, nei tuoi occhi."

Esclamò, dolce e accorato al tempo stesso, trovando assurdo che Domenico non ne fosse consapevole: sapeva quanto fosse modesto e che certamente non passava il suo tempo ad auto-elogiarsi, questo lo capiva, ma possibile che nemmeno una delle tante persone che aveva frequentato negli anni -perfino Viola gli sarebbe andata bene!- glielo avesse mai fatto notare?

Domenico, quegli stessi occhi, li spalancò, stupito: aveva perso il conto degli apprezzamenti, più o meno espliciti, che aveva ricevuto dalle proprie storie di una notte o poco più -che poi non ne ricordasse nemmeno uno, era la semplice dimostrazione di quanto poco contassero adesso che c'era Claudio nella propria vita-, eppure era la prima volta che il proprio sguardo ne riceveva uno -se si escludevano, naturalmente, i complimenti affettuosi di cui lo riempiva mamma Rosa, la quale non si stancava mai di dirgli quanto i suoi occhi fossero vispi ed intelligenti, e che lui, per quanto gli facesse piacere riceverli, non aveva mai considerato più di tanto, ritenendoli semplicemente espressione del suo cuore di madre-. Le parole di Claudio, però, erano sincere, non dettate dal desiderio di passare un momento di passione insieme o da un legame di sangue, e lui se le sentiva dentro, ci credeva. Se, però, bisognava proprio parlare di occhi belli, allora erano senz'altro i suoi ad avere il primato.

"Nei tuoi, però, c'è il mare più bello che io abbia mai visto."

Mormorò, innamorato.

Eppure, quel mare, al suono di quelle parole si rabbuiò, divenne tempestoso, fu attraversato da fulmini che portarono Claudio ad abbassare lo sguardo per un istante prima di tornare in controllo di se stesso, ma Domenico se ne accorse ugualmente. Sollevò il braccio libero, quello che teneva appoggiato sul cuscino e che non era impegnato ad accarezzare Partenope, e lo portò sulla guancia dell'altro, accarezzandolo delicatamente con il pollice.

"Ho detto qualcosa che non va? Scusami, non volevo..."

Sussurrò, sinceramente mortificato.

Claudio scosse subito il capo, ancora prima che finisse di parlare, perché non era certamente colpa sua e non voleva che lo pensasse. Posò un bacio sul suo palmo, inclinando il volto quanto bastava, poi tornò a guardarlo e sospirò.

"No, non hai detto niente che non va, anzi la tua definizione è bellissima...sono io che penso troppo."

Domenico gli sorrise, facendogli un'altra carezza. Non c'era dubbio che spesso, purtroppo, Claudio fosse preso da insicurezze e timori che potevano apparire ingiustificati all’esterno, ma per lui che conosceva la sua storia avevano un senso eccome, e profondo, anche! Non era colpa sua se li provava e lui avrebbe fatto di tutto per aiutarlo a dissiparli.

"L'unico modo per liberarsi dei pensieri è parlarne. Dimmi tutto, dai."

Disse, incoraggiante.

Claudio si morse il labbro inferiore e restò in silenzio per qualche istante, perché gli sembrava una cosa tremendamente stupida da dire ad alta voce...ma poi, come sempre, sentì di non dover aver paura di essere giudicato o deriso, avvertì quel senso di sicurezza e protezione che solo Domenico sapeva dargli e allora trovò la forza di parlare.

"Il paragone è bello, davvero molto bello, però ad essere sincero non mi piace."

Cominciò a spiegare con voce sottile -a cui Domenico dedicò tutta la propria attenzione-, poi deglutì.

"Non mi piace perché i tuoi sono occhi di bosco e se i miei sono di mare, allora sono destinati a stare lontani, come il mare ed il bosco. Io, invece, vorrei che fossero sempre vicini, come lo sono adesso..."

Prese la mano di Domenico nella propria, stringendola con tutto il bisogno che provava.

"...come siamo noi, adesso."

Concluse, senza staccare gli occhi dai suoi.

Domenico, per prima cosa, ricambiò la stretta con affetto, per sostenerlo, e poi, subito dopo, gli rivolse un luminoso sorriso. Il problema poteva essere risolto facilmente, per fortuna.

"E tu hai ragione, nemmeno io voglio che stiano lontani. Mi rimangio tutto, allora, e ti dico che nei tuoi occhi c'è il cielo più bello che io abbia mai visto! Può andare bene, no? In fondo, il cielo e il mare si riflettono a vicenda e il bosco tocca il cielo, con le punte dei suoi alberi altissimi..."

Spiegò con entusiasmo e Claudio, finalmente, si sciolse in un sorriso liberatorio e commosso: il cielo era limpido e libero da nubi scure, c'era solo qualche nuvoletta bianca che lasciava cadere una pioggerella sottile, ma anche quella era passeggera. Si sentiva molto più leggero, adesso.

"Sì! Sì, può andare benissimo! Mi piace tantissimo!"

Esclamò, felicissimo, e si avvicinò a baciarlo, stando naturalmente attento a non schiacciare la povera Partenope.

"E a te...a te piace?"

Domandò, un po' più titubante, e Domenico ridacchiò, annuendo.

"A me piace tutto quello che piace a te, quindi non c'è problema."

E così gli diede a sua volta un bacio, per sottolineare il concetto.

"Ora, visto che abbiamo trovato una soluzione, che ne diresti di festeggiare andando a fare colazione? Non ti nascondo che ho un certo languorino..."

Claudio annuì e si sollevò, mettendosi a sedere e allungò il braccio nella sua direzione, per fermarlo prima che provasse anche solo ad alzarsi.

"Tu non ti muovere, ci penso io! Torno subito!"

Esclamò, entusiasta, per poi indossare velocemente la vestaglia e uscire dalla stanza, chiudendo la porta dietro di sé.

Domenico ridacchiò, dolcemente, non potendo fare altro che tornare ad appoggiare la testa sul cuscino.

"Certo che sono proprio fortunato ad averlo nella mia vita, eh Partenope? Chissà cosa ho fatto di buono per meritarmelo..."

Mormorò innamorato alla gatta, accarezzandola morbidamente. Lei non rispose, non direttamente almeno, ma si strofinò contro la sua mano, miagolando beata: era lì, nell'affetto che il suo padroncino sapeva dare a tutti, la risposta a quella domanda.

Claudio attraversò rapidamente il corridoio -ignorando il leggero brivido di freddo che provò lasciando la stanza da letto calda di sonno- ed il salotto, dove c'era già la tavola apparecchiata -'Deve essere parecchio tardi...', pensò, un po' preoccupato. Gli sarebbe dispiaciuto scoprire di non poter portare la colazione al proprio ragazzo perché erano ormai troppo vicini all'orario del pranzo.-, fermandosi soltanto una volta arrivato alla soglia della cucina.

La porta era aperta e sorrise vedendo Rosa e Sara tutte intente ed affaccendate a preparare chissà quale leccornia -in particolare, fu una scodella piena di piccole polpettine ad attirare la propria attenzione-, tanto da non accorgersi nemmeno della sua presenza.

"Buongiorno, ragazze, e di nuovo buon anno!"

Esclamò, per annunciarsi. Subito le due si voltarono verso di lui, sorridenti, e ricambiarono il saluto.

"Ma già vi siete svegliati? Potevate restare a dormire ancora un po'...ma mica abbiamo fatto rumore?"

Chiese poi Rosa, un po' preoccupata. Claudio cercò di rassicurarla con un sorriso, scuotendo il capo.

"No, no, assolutamente! Ci siamo svegliati da soli e anzi, considerando lo splendido allestimento della tavola di là credo che abbiamo dormito fin troppo..."

Rispose, mentre salutava entrambe con un bacio sulla guancia. Anche loro, esattamente come Domenico, erano ormai per lui una famiglia -una famiglia vera, più della propria-, e gli veniva quindi naturale comportarsi di conseguenza.

Fu Sara, adesso, ad intervenire e scacciò l'obiezione con un gesto della mano.

"Macché, figurati! Abbiamo detto a tutti di arrivare più tardi proprio perché Mimmo aveva il turno di notte, puoi stare tranquillo!"

Claudio tirò un sospiro di sollievo, decisamente rasserenato.

"Oh bene, grazie, siete state davvero gentili."

Avanzò di qualche passo, dirigendosi verso la credenza.

"Allora, visto che sono ancora in tempo, gli porto la colazione e poi veniamo ad aiutarvi..."

Aggiunse, prendendo un piattino ed un cucchiaio.

Sara fece una risatina, affettuosa e non di scherno.

"Pure la colazione a letto gli porti? Certo che Mimmo ha proprio tutte le fortune..."

Claudio sorrise scoprendo i denti, teneramente innamorato, mentre cominciava a riempire il piatto di struffoli.

"Credimi, la fortuna è anche e soprattutto mia."

Rispose dolcemente, con gli occhi che luccicavano d'affetto. Distolse, poi, per un attimo, la propria attenzione dai dolci per rivolgere alla ragazza uno sguardo complice, sollevando leggermente un sopracciglio.

"Ma poi scusa, a te Enzo non ti porta mai la colazione a letto?"

Chiese a bassa voce -sapeva perfettamente che la madre fosse al corrente della relazione della figlia, tuttavia immaginava che quest'ultima non volesse farle sapere proprio tutto-, ma con tono eloquente.

Sara fece segno di no con la testa, accennando un sorriso.

"Macché, manco una volta!"

E si accompagnò con un gesto dell'indice, sollevandolo.

"Per carità, lui è un bravissimo ragazzo e mi vuole bene...ma le sorprese non sono esattamente il suo forte, ecco."

Continuò a spiegare, con tono pieno di divertito affetto nei confronti del proprio dolce ragazzo, ma un po' imbranato.

Claudio ridacchiò, intenerito, e le diede un buffetto sulla guancia prima di tornare a riempire il piatto.

"Ho capito, ci parlo un po' io con lui e gli spiego un paio di cose, non ti preoccupare. Tanto, oggi viene a pranzo da noi, giusto?"

Sgranò gli occhi, resosi conto del lapsus che aveva appena avuto, e si fermò con il cucchiaio a mezz'aria.

"Cioè...da voi. A pranzo da voi."

Si affrettò a correggere, incespicando un po' con le parole per l'imbarazzo.

Rosa e Sara si scambiarono uno sguardo d'intesa, sorridenti, e subito la ragazza lo abbracciò, mentre la donna gli si avvicinò per prendergli il volto tra le mani, delicata, in modo da guardarlo negli occhi.

"Da noi, hai detto bene. E per il resto non ti preoccupare, tu e Domenico dovete solo pensare a stare insieme, qui ce la vediamo noi, ché tanto abbiamo quasi finito. Hai capito?"

Claudio fu catturato dal suo sguardo -verde come quello del figlio eppure un po' diverso, di prato primaverile più che di bosco autunnale- e annuì, sorridendo commosso.
"Sì, sì, ho capito...e grazie ancora, davvero. Di...di tutto."

Si schiarì la voce e, poggiato nel piatto il cucchiaio che ancora teneva sollevato, ricambiò l'abbraccio che gli era stato dato senza che lo chiedesse, come ormai gli stava capitando sempre più spesso.

Tornò in camera da letto poco dopo e Domenico, non appena lo vide, gli rivolse un bellissimo sorriso, come se fossero rimasti lontani per giorni.

"Ah, eccoti qua! Cominciavo a pensare che fossi caduto nel sugo di mia madre!"

Esclamò scherzoso, mettendosi a sedere.

Claudio lasciò andare una risata di vero cuore, e subito dopo lo guardò divertito, con un sorrisetto sghembo sulle labbra.

"Non scherzare, ne ha preparato così tanto che sarebbe potuto succedere davvero!"

Si rivolse poi a Partenope la quale, sentendo l'odore dei dolci, si era avvicinata e adesso guardava il padroncino con curiosità, leccandosi il muso.

"No, Partenope, questi non li puoi mangiare, ti fanno male. Per te c'è la tua pappa in cucina, se hai fame vai pure!"

Spiegò, risoluto quanto bastava -si era occupato lui stesso, infatti, di riempirle le ciotole di cibo e di acqua prima di tornare lì- e Domenico, guardandolo, non poté fare a meno di ridacchiare teneramente. La gatta, comunque, se ne fece presto una ragione e uscì fuori, in tutta fretta.

Claudio, allora, socchiuse la porta -in modo che lei potesse tornare, se lo voleva, una volta finito di mangiare- e si avvicinò con il vassoio in mano al letto, su cui poi si inginocchiò per sistemarsi.

Domenico lo raggiunse subito, ancora con il sorriso sulle labbra per la scenetta di poco prima che gli aveva fatto davvero bene al cuore.

"Si vede proprio che tra gatti vi capite..."

Cominciò a dire, con tono scherzoso, ma poi si accigliò lievemente, preoccupato, quando di accorse che Claudio aveva gli occhi lucidi.

"Hey, che hai?"

Chiese a bassa voce, prendendogli il viso tra le mani con infinito amore.

Claudio sorrise e posò le proprie mani sulle sue, tranquillo.

"Niente di brutto, davvero. È che tu, tua madre e tua sorella mi fate sentire...meglio che a casa e la cosa mi rende felice, tanto felice...e se sono felice, mi commuovo."

Scrollò leggermente le spalle.

"Che piagnone, eh?"

Aggiunse, accennando una risatina.

Domenico, a sentirlo parlare così, avvertì distintamente i propri occhi inumidirsi a loro volta e non fece nulla per nasconderlo, anzi sorrise, luminoso: tutto ciò che voleva, per Claudio, era che si sentisse amato, voluto, apprezzato, e saperlo così lo rendeva enormemente felice...e anche lui, quando era felice, si commuoveva.

"Siamo due piagnoni, direi, e non c'è nulla di male ad esserlo, capito?"

Replicò, guardandolo negli occhi. Claudio annuì piano, ma deciso e sorridente, senza staccare lo sguardo dal suo: no, non c'era decisamente nulla di male a mostrare se stessi, così come si era, ed era una lezione che aveva imparato da poco, ma che aveva appreso bene.

Si diedero un bacio leggero, ma affettuoso, e poi si separarono quel tanto che bastava a poter fare colazione. Immediatamente Claudio, rapido, afferrò il cucchiaio prima che potesse farlo l'altro.

"Ops, che sbadato, ne ho preso uno solo..."

Disse, fingendosi vago, e mentre parlava lo riempì di struffoli, avvicinandolo alla bocca del proprio ragazzo. Domenico ridacchiò, un po' preso alla sprovvista, ma piacevolmente sorpreso.

"Vorrà dire che faremo a turni."

Gli fece un occhiolino, per poi accettare con un sottile mugolio d'approvazione il dolce dono che l'altro gli offriva. Ancora con la bocca piena, stese la mano per farsi passare il cucchiaio, ma Claudio lo avvicinò un po' di più a sé, sorridendo furbescamente.

"Tu ti meriti un turno doppio."

Affermò, riempiendo per bene il cucchiaio di struffoli e assicurandosi di raccogliere anche una buona dose di miele. Domenico liberò uno sbuffo divertito e incrociò le braccia al petto.

"Non mi sembra molto equo, sinceramente."

Claudio gli avvicinò il cucchiaio alla bocca, deciso.

"Sei tu quello che ha lavorato tanto, ieri sera, e per cena hai mangiato appena un panino! È più che equo!"

Domenico gli rivolse un sorriso affettuoso -per non farlo preoccupare ulteriormente preferì evitare di dirgli che aveva avuto il tempo di mangiare solo metà di quel panino-, abbandonò le mani in grembo e mangiò anche quel boccone di struffoli.

Claudio sorrise, decisamente sollevato a vedere che, finalmente, Domenico accettasse che qualcuno si prendesse cura di lui, ed era un onore poter essere quel qualcuno.

"Sono buoni, eh?"

Domandò retoricamente, con voce leggera, notando la sua espressione soddisfatta. Domenico, che stava ancora masticando, annuì in risposta, ma dopo qualche secondo mise su un sorriso sghembo. Gli era venuta in mente un'idea o meglio, gli era tornata.

"Sono ancora più buoni mangiati con le mani, sai?"

Disse con tono vago, come se non stesse dicendo nulla di che, ma al tempo stesso un po' più basso del solito, come se invece stesse rivelando un segreto. Intanto raccolse uno struffolo tra pollice ed indice, che poi sollevò quanto bastava ad avvicinarlo alla bocca di Claudio, ma mantenendosi ad una certa distanza per non risultare opprimente.

"Vuoi?"

Domandò, più morbido, perché comunque non voleva costringerlo a fare nulla.

Claudio aveva seguito con lo sguardo tutto il percorso che la sua mano aveva compiuto, dal grembo alla ciotola fino ad arrivare di fronte alle proprie labbra, e ne era rimasto quasi ipnotizzato. Inevitabilmente, ricordò il desiderio che lui stesso aveva provato appena qualche giorno prima, quando si erano trovati in quella stessa situazione, e realizzò che anche Domenico doveva averlo desiderato. Accennò un sorriso pensando all'ironia del destino e poi annuì, con un sorriso più ampio, guardando Domenico negli occhi.

"Molto volentieri, grazie."

Rispose, usando anche lui un tono più basso, per poi avvicinare la bocca -ecco che il cuore cominciava a battere a mille- alla sua mano e catturare il piccolo dolcino tra le labbra, ma stando ben attento a posarle anche sulle sue dita, graffiate e ruvide a causa del freddo. Il contatto durò poco, ma abbastanza per far sparire il resto della stanza -anzi, il resto del mondo-, privo di importanza.

Domenico trattenne il fiato, sentendosi attraversare da una scarica di calore elettrico in tutto il corpo: le labbra di Claudio erano esattamente come le aveva immaginate, caldissime ed appena un po' ruvide al contatto, anzi erano esattamente come le conosceva e riconosceva, ormai, dato che si scambiavano effusioni di ogni tipo da una settimana piena -erano anche un vero piacere da baciare- eppure lo catturarono totalmente, come del resto facevano sempre e come sempre avrebbero fatto. In quel fugace attimo, non esisté altro che Claudio, per lui.

Quando Claudio si separò, allontanando il capo quel poco che bastava per tornare a guardare l'altro, aveva le labbra dispiegate in un morbido sorriso e vi passò sopra la lingua per catturare la tenue ombra di miele che vi si era depositata.

"Hai ragione, sono decisamente più buoni così. Non è che potrei averne un altro?"

Non era abituato a chiedere cose per sé, quindi quella richiesta fu pronunciata con voce bassa ed un po' incerta, timida, come se avesse avuto paura di sbagliare qualcosa.

Domenico sorrise, dolce e comprensivo: trovava tenerissimi i suoi occhi brillanti come quelli di un bambino che aveva scoperto un nuovo pezzetto di mondo e le sue guance arrossite per l'imbarazzo, ma per quanto quell'immagine fosse dolce, era anche frutto di un senso di vergogna radicato in profondità, rigoglioso perché annaffiato e nutrito costantemente nel corso degli anni, e pregò in cuor proprio che presto Claudio capisse che non doveva provare nessun imbarazzo e nessuna vergogna a volere qualcosa per se stesso, che non c'era nulla di male. Un modo per farglielo capire, sicuramente, era soddisfare la sua richiesta e così annuì, deciso.

"Ma certo che puoi! Puoi avere tutti quelli che vuoi!"

Esclamò allegro mentre recuperava uno struffolo e lo ripassava nel miele depositatosi sul fondo del piattino, in modo che ne fosse bello pieno, per poi avvicinarlo alla bocca dell'altro, mantenendo il sorriso.

Claudio dischiuse istintivamente le labbra, ma prima di fare suo il dolcetto, si prese un istante per ringraziare Domenico con lo sguardo, sinceramente grato. Questa volta non si limitò solamente a sfiorargli appena le dita e, subito dopo aver masticato e deglutito la pallina dolce, vi passò la punta della lingua, delicato, raccogliendo le gocce dorate che scivolavano fluide e lente. In questo modo il sapore del miele si mischiò a quello della pelle di Domenico, che era comunque infinitamente più dolce al confronto per lui, ma fu anche ben attento a non staccare gli occhi dai suoi per accertarsi di non starlo mettendo a disagio.

Quell'intraprendenza poteva sembrare in contrasto con la timidezza mostrata poco prima, ma non per Domenico, il quale sapeva benissimo che nel cuore di Claudio ardeva una forte passione che aveva solo bisogno di essere lasciata libera di esprimersi e lui, vedendolo così sicuro di sé, non poté fare a meno di sorridergli mentre dimostrava tutta la propria approvazione con un sospiro lungo e placido, di pura beatitudine. Non si era mai sentito così coinvolto, così travolto, prima d’ora: tutto ciò che aveva vissuto e provato prima di conoscere Claudio non era davvero nulla in confronto. 

Claudio, sentendosi accarezzato da quel vento quieto e riscaldato da quel Sole caldo, sorrise sulla sua pelle e continuò a leccare via il miele fino a quando non ne rimase più nemmeno una goccia e anche un po' oltre, lasciando qualche piccolo bacio sui suoi polpastrelli prima di separarsi da lui.

"Ti andrebbe di provare tu, adesso? Mangiati così sono davvero tanto più buoni."

Chiese, mantenendo il sorriso, porgendogli uno struffolo. Stavolta gli fu un po' più facile dare ascolto all'intraprendenza invece che alla vergogna.

Domenico gli sorrise di rimando e annuì con decisione: fino a quel momento si era sentito in Paradiso e non vedeva l'ora di poter restituire a Claudio le stesse sensazioni per cui, senza esitare, si avvicinò alla sua mano e, dopo avergli chiesto il permesso definitivo con lo sguardo, accolse le sue dita ed il dolcetto tra le labbra: mandato giù quello, si dedicò soltanto alla sua pelle, soffice come velluto, su cui faceva muovere la lingua in lente carezze per assaporarne il gusto dolce che poco aveva a che fare con il miele, fermandosi di tanto in tanto per far sostare le labbra in piccoli baci.

Claudio aveva tanto sognato e desiderato le labbra di Domenico, ma da quando le aveva conosciute si era reso conto che nemmeno una delle proprie costruzioni mentali era andata lontanamente vicino ad indovinare quanto fossero morbide, caldissime, e quanta cura impiegassero in ciascuna delle attenzioni che gli davano. Erano labbra accoglienti che, dalle proprie, facevano uscire sommessi mugolii e lenti sospiri, di totale pace.

Domenico non voleva che quella dolce melodia terminasse, era quanto di più bello avesse mai udito, e allora si separò da lui, ma solo il tempo necessario ad avanzare una piccola richiesta.

"Mi daresti un altro po' di miele, per favore?"

Claudio, un po' frastornato da quelle sensazioni, non capì immediatamente cosa stesse dicendo, ma poi notò lo scintillio nei suoi occhi e capì che l'altro doveva senz'altro avere qualcosa in mente ed era certo che gli sarebbe piaciuta da impazzire.

"Così?"

Chiese, immergendo la punta dell'indice e del medio nel laghetto di miele lasciato dagli struffoli che avevano già mangiato. Domenico annuì, sorridente.

"Solo un pochino in più se non ti dispiace..."

Chiese con voce gentile e Claudio fece una risatina.

"Ah, figurati se mi dispiace!"

Esclamò divertito -ed anche leggermente malizioso- mentre piegava le dita per farle sporcare ancora un po', tanto che quando le sollevò per avvicinarle alla bocca dell'altro il miele rischiava di gocciolare.

Domenico le raggiunse immediatamente e, a differenza di ciò che aveva fatto poco prima, questa volta tenne la lingua a posto, preferendo far scorrere le labbra sulla pelle per raccogliere tutto il miele, di cui però fu molto attento a non assaggiare nemmeno una goccia.

Claudio si sentì scuotere da una serie di brividi per tutto il corpo, ma erano brividi caldi, piacevoli, che scorrevano sotto la propria pelle come una carezza, esattamente come sentiva fare alle labbra di Domenico, dal cui movimento lento e preciso era come incantato. Osservandolo con così tanta attenzione, si accorse che il proprio ragazzo non stava mangiando il miele che aveva richiesto, era ancora tutto sulle sue labbra, ma non fece in tempo ad interrogarsi circa il motivo di quella scelta che subito quelle stesse labbra gli si avvicinarono rapidamente e lasciarono un bacio sulla propria guancia, con tanto di schiocco. Scoppiò, dunque, in una fragorosa risata.

"Ecco qual era il tuo piano!"

Esclamò allegro, senza alcuna intenzione di ritrarsi. Domenico rise a sua volta, ma subito tornò all'attacco e prese a stampare tanti baci zuccherosi sulle guance dell'altro, la cui risata per lui era il suono più bello del mondo.

"Dici sempre che ti piacciono i dolci, no? Ed io adesso ti faccio diventare un dolce!"

Replicò, scherzosamente serio, tra un bacio e l'altro. Quando sentì di non avere più miele sulle labbra, perché era finito tutto sulle guance di Claudio, cominciò a ripassare sui punti che aveva baciato, accarezzandoli sia con le labbra che con la punta della lingua, mugolando soddisfatto per il dolce sapore che incontrò su quella pelle liscissima e morbida.

Claudio si ritrovò a fare un respiro più profondo degli altri, scosso da un fremito, anch'esso caldissimo, a cui ne seguirono molti altri. Era come se la propria pelle, già naturalmente sensibile, fosse stimolata ancora di più dalla bocca di Domenico, in un modo che non aveva mai provato prima ma che, neanche a dirlo, già amava.
Domenico, sentendolo tremare in quel modo, decise di dargli un attimo di tregua, anche per controllare che non ci fossero problemi.

"Sei ancora più buono così, sai?"

Sussurrò scherzoso, ma lasciando trasparire una punta di leggera malizia, dopo essersi spostato a guardarlo negli occhi che, comunque, gli apparivano limpidi e luminosi, senza l'ombra di una nuvola.

Claudio accennò una risatina morbida, che poi restò sulle sue labbra nella forma di un sorriso sghembo.

"Ma non è che per caso vuoi mangiarmi?"

Domandò, ironico, anche se, in ogni caso gliel'avrebbe lasciato fare.

Domenico annuì, ridacchiando, e gli si avvicinò di nuovo.

"Sì, ma solo di baci."

Rispose sorridente, perché gli unici morsi che Claudio meritava di ricevere, erano fatti d'amore.

Claudio sorrise, luminoso, e annullò del tutto la distanza che li separava, con Domenico che subito gli andò incontro. Il bacio che si scambiarono in quel momento non aveva più il sapore del miele, ma un sapore che era soltanto loro.

La colazione proseguì così, tra baci, risate e dolcissimi struffoli imboccati reciprocamente, ed una volta che il piattino fu del tutto vuoto, lo misero da parte e si distesero nuovamente l'uno accanto all'altro, abbracciati ed occhi negli occhi, per concedersi ancora qualche minuto di pigrizia.

"Allora, amore mio, ti sei ripreso da ieri sera? Va meglio?"

Domandò Claudio accarezzandogli i capelli, con un sorriso morbido a curvargli le labbra.

Domenico annuì lentamente in modo da non rischiare di perdere quelle carezze nemmeno per un secondo, mentre a sua volta faceva passare delicatamente la mano sulla schiena dell'altro.

"Decisamente sì, core mij. Sarebbe assurdo il contrario, dopo tutto quello che hai fatto per me..."

Rispose, sorridendogli grato.

"...anche se vorrei sapere perché l'hai fatto. Voglio dire, asciugarmi da capo a piedi, il massaggio, portarmi la colazione a letto...non era necessario. Mi basta stare con te per stare bene, lo sai."

Claudio, questo, lo sapeva bene, perché era esattamente la stessa cosa che pensava e provava lui, ma aveva imparato che l'Amore era anche andare oltre il necessario ed era stato proprio Domenico ad insegnarglielo. Posò un piccolo bacio sulle sue labbra e poi gli rispose, con voce leggera ed innamorata.

"Perché tu sei bravo a stare attento agli altri, ma non lo fai mai con te stesso. Adesso ci sono io a prendermi cura di te, è la promessa che ti faccio."

*****

Roma, 7 Gennaio 2004

L'Epifania tutte le Feste porta via, come recita un noto modo di dire, e riporta con sé la vita normale, quella che per Claudio e Domenico prevedeva una sola cosa: distanza.

Una Roma notturna, che svettava intorno a loro con le sue vestigia antiche e con il suo immancabile traffico che ci si mischiava perfettamente, rendeva quella mancanza già reale nonostante fossero ancora nella stessa auto, a pochissimo spazio l'uno dall'altro.

Non era la prima volta che si separavano, ma non l'avevano mai fatto da fidanzati ed erano entrambi certi che questa volta sarebbe stata molto più difficile, ma non per questo si sarebbero lasciati abbattere. Si erano ripromessi, infatti, di sentirsi ancora più spesso di quanto già facessero e di sfruttare ogni occasione buona per rivedersi, come già facevano. Sarebbero rimasti vicini, in un modo o nell'altro.

"Ti dispiace fare una piccola deviazione? Vorrei portarti in un posto, ma se sei stanco evitiamo..."

Chiese Claudio, rivolgendosi verso l'altro, dopo averci pensato un po' su. Aveva una cosa in mente, ci stava riflettendo da giorni, ma il viaggio era stato piuttosto lungo a causa del traffico tipico del rientro dalle vacanze e l'indomani Domenico avrebbe dovuto riaffrontarlo, di conseguenza non voleva che si stancasse eccessivamente.
Domenico annuì, accennando un sorriso. Non si sentiva stanco, anche se aveva guidato più del previsto -ad onor del vero, Claudio si era offerto di dargli il cambio più di una volta, ma lui aveva categoricamente rifiutato l'offerta, preferendo dargli modo di utilizzare quelle ore per ripassare per l'esame che avrebbe dato a breve-, ma la compagnia aveva decisamente reso tutto più piacevole.

"Possiamo andare dove ti pare, anche sulla Luna! Non si direbbe, ma questa..."

Indicò l'abitacolo dell'auto facendo roteare l'indice in aria.

"...si può trasformare anche in un'astronave!"

Esclamò, scherzoso.

Claudio scoppiò a ridere, tanto divertito che addirittura un po' tremava, ma subito si portò una mano alla bocca per attutire il suono dal momento che Partenope, accoccolata nel trasportino che lui teneva sulle gambe, stava dormendo. Scosse poi il capo, sorridente.

"Il posto che dico io è molto più vicino, per fortuna. Ti faccio strada..."

Impiegarono meno tempo del previsto, nonostante il traffico, ad arrivare a destinazione: davanti a loro c'era una stradina piuttosto stretta, delimitata da un muretto in salita sulla destra e da un edificio vecchio stampo, costruito sicuramente almeno una cinquantina di anni prima, sulla sinistra.

"Ecco, fermati qui, facciamo subito."

Disse Claudio, con la voce che gli tremava per l'emozione.

A Domenico non sfuggì quel sottile tremolio -era sempre molto attento a cogliere ogni minimo cambiamento nell'altro, per capire come si sentisse-, ma anche a volersi sforzare non riusciva a ricollegarlo al posto in cui si trovavano. La stradina era completamente anonima, infatti, e ad eccezione di qualche piccolo locale che si erano lasciati alle spalle, non c'era nulla che potesse destare particolare curiosità. Aveva imparato, però, che anche un cielo vuoto poteva essere uno spettacolo mozzafiato, per cui accostò e spense il motore.

"Allora, dov'è che mi hai portato di bello?"

Chiese, guardandosi meglio intorno attraverso i finestrini. Notò che l'edificio bianco aveva una targa dorata all'ingresso su cui, anche da quella distanza, riuscì a leggere l'intitolazione in nero incisa sopra: LICEO SCIENTIFICO STATALE LEONARDO DA VINCI.

"Non è la tua vecchia scuola questa, vero?"

Domandò retoricamente, indicando l'edificio con un vago gesto della mano, dato che conosceva già la risposta. Ricordava perfettamente, infatti, che Claudio avesse frequentato il liceo classico.

Claudio scosse rapidamente il capo, accennando un sorriso al pensiero che Domenico ricordasse perfino quel piccolo dettaglio -a cui doveva avergli accennato non più di una volta, mesi e mesi prima-, l'ennesima dimostrazione di quanto fosse giusta la scelta di portarlo lì.

"Vero, però è quella che ti volevo mostrare..."

Rispose, guardandolo con infinito amore. Domenico accennò una risatina, poi sollevò un sopracciglio, incuriosito.

"Aspetta, mi stai proponendo di entrare lì dentro? Guarda che poi dovrei arrestarti e non sarebbe un buon punto a favore per un futuro avvocato..."

Ribatté, scherzoso. Claudio ridacchiò e scosse il capo, per poi sporgersi verso di lui.

"Ma ti pare? No, restiamo fuori, promesso... è quella la parte bella."

Gli diede un bacio a fior di labbra, e nel contatto Domenico si accorse che anche quelle tremavano, proprio come la sua voce.

Claudio non poteva farci molto, anche perché aveva deciso di non cercare più di domare il proprio cuore quando era felice, aveva imparato che quella felicità se la meritava tutta e non voleva metterle un freno.

"Andiamo?"

Disse ancora, accennando con il capo allo sportello dietro l'altro ragazzo. Domenico annuì ed uscì, ma non prima di aver lasciato un altro bacio sulle sue labbra, e Claudio lo seguì subito dopo, lasciando il trasportino di Partenope sul sedile in modo che non prendesse freddo e che il suo sonno non venisse disturbato.

In un attimo i due ragazzi furono di nuovo uno vicino all'altro, ben infagottati nei rispettivi cappotti e sciarpe per cercare di proteggersi dal freddo, e si sorrisero, dolcemente. Domenico si guardò intorno più di una volta e quando fu certo che non ci fosse nessuno in giro -probabilmente a causa dell'ora tarda e del freddo- tirò fuori la mano sinistra dalla tasca del cappotto, avvicinandola a Claudio mentre gli rivolgeva un sorriso emozionato.

"Ti andrebbe?"

Chiese semplicemente, a bassa voce.

Claudio sorrise, animato dalla stessa emozione come solo con due cuori in perfetta sintonia poteva accadere, e la prese nella propria con una stretta salda, che Domenico subito ricambiò, infilando poi entrambe le loro mani -così intrecciate da sembrare un'unica cosa- nella tasca del proprio cappotto, in modo da non farle ghiacciare. Avevano preso da un po’ l'abitudine di tenersi per mano ed era partita per puro caso, durante i pranzi e le cene piene di parenti: nascondevano il loro amore in bella vista, con il tavolo e la tovaglia come unici custodi di quel segreto.

"Allora, dov'è questa cosa bella?"

Chiese Domenico, con allegra dolcezza, e Claudio accennò con il capo all'area davanti a loro.

"Proprio qui di fronte."

E così dicendo condusse Domenico un po' più avanti rispetto a dove avevano lasciato l'auto, costeggiando il muro bianco del liceo. Ecco, ad un certo punto quel muro smetteva di essere bianco e cominciava a riempirsi di colori, disposti in modo caotico, e una volta arrivati più o meno al centro, Claudio si fermò.

"Domenico, questo è il Muro dell'Amore."

Annunciò, usando un tono che avrebbe voluto essere solenne, ma la voce gli si incrinò ancora di più: non gli sembrava vero di essere lì davanti con la persona che amava al proprio fianco e, in un moto istintivo, strinse ancora di più la mano nella sua tasca.

Domenico, allora, vi passò sopra il pollice, sul dorso, in tante piccole e dolci carezze che servivano a dirgli 'Sono qui, non me ne vado.'. Si voltò a guardarlo e vide che i suoi occhi blu erano come incantati di fronte a quel muro, lo guardavano come se fossero stati davanti a qualcosa di sacro e lui, allora, tornò a fissarlo per cercare di vederlo attraverso i suoi occhi, perché sicuramente quel muro doveva essere speciale. Si accorse subito che quelle che gli erano sembrate a prima vista macchie colorate senza senso, erano in realtà graffiti e per la precisione scritte; non scritte qualunque -fu stupito dal non leggervi nemmeno una parolaccia o una bestemmia-, ma nomi o lettere -a questo punto immaginava fossero iniziali di nomi- che viaggiavano sempre in coppia, talvolta inscritte in un cuore o circondate da più cuori più piccoli. Accennò un sorriso e soffiò un piccolo sbuffo divertito, perché cominciava a capire.

"Muro dell'Amore, eh? Sembra importante..."

Disse, vago, e Claudio annuì con decisione.

"Non è semplicemente importante, è una vera e propria istituzione per tutte le innamorate e gli innamorati di Roma! Dicono addirittura che sia magico, sai?"

Rispose, con voce dolce e leggera, senza temere di risultare sciocco, perché sapeva che l'altro avrebbe capito.

"Perché? Cos'è che fa?"

Chiese Domenico, sinceramente incuriosito ed interessato, mentre faceva scorrere gli occhi su tutte quelle lettere che ricoprivano la superficie un tempo bianca: erano tutti nomi di persone innamorate, esattamente come lo era lui, esattamente come lo erano loro, tutte legate dallo stesso sentimento senza neppure conoscersi. Già questa era una magia, a proprio modo di vedere.

Claudio si voltò verso di lui, sorridendogli morbidamente.

"Beh, dicono che se sei innamorato di qualcuno e scrivi il tuo nome ed il suo nome qui sopra, il muro ti aiuta a farti mettere insieme a quella persona."

Era stato tentato, anche più di una volta, di scrivere i loro nomi su quel muro, ma non l'aveva mai fatto. Non voleva che la loro relazione, per quanto la desiderasse, nascesse da una forzatura, da una specie di incanto: non credeva alla magia e a tutte quelle storie, ma c'era comunque una remotissima possibilità che potessero essere vere e non voleva rischiare di intrappolare Domenico in qualcosa che non desiderava davvero. Preferiva tenersi un'amicizia vera e voluta al posto di ottenere un amore falso ed imposto.

"O anche, dicono che se due persone stanno già insieme e scrivono qui i loro nomi, allora resteranno insieme per sempre e nulla potrà mai separarli."

Continuò, e gli era molto più facile credere a questo, ma certamente non per meriti della magia: soltanto chi era davvero innamorato poteva desiderare e decidere di scrivere i propri nomi su quel muro che avrebbe garantito una vita intera insieme ed era proprio in virtù di quell'amore che poi non si lasciavano più. Inconsciamente, con quel piccolo e semplice gesto -pochi segni tracciati su una lastra di marmo e nulla più- ci si scambiava una promessa d'amore eterno.

Scrollò leggermente le spalle, sospirando.

"Per come la vedo io, poi, è anche un modo per portare alla luce un amore che molti vorrebbero restasse al buio."

Concluse, voltandosi verso l'altro con un sorriso morbido a tracciargli il viso. Non si vergognava dell'amore che provava per il ragazzo che gli stava accanto, finalmente aveva capito che i propri sentimenti non erano sbagliati, ma molte, troppe, persone -come suo padre, ad esempio- la pensavano così e allora bisognava tenerli nascosti, al sicuro come si fa con le cose preziose, perché lo erano. Quel muro, però, poteva essere un modo per dare un po' di giustizia a quell'amore.

Domenico strinse un po' di più la sua mano con la propria, facendo una carezza sul dorso, voltandosi a guardarlo a propria volta, sorridendo teneramente. Per propria cultura, era più abituato a quel mondo di credenze magiche di cui quel muro era una particolare espressione ed era anche un po' più propenso a crederci, seppur entro certi limiti. Lui stesso aveva sentito parlare di formule e rituali -persi nella memoria popolare e tramandati di generazione in generazione- che avrebbero potuto assicurargli l'amore di Claudio, ma per quanto l'idea fosse stata allettante, non aveva mai provato ad approfondire la questione. Amava Claudio con tutto se stesso e proprio per questo voleva la sua libertà, quella che per troppo tempo gli era stata negata, perché solo da essa dipendeva la sua felicità. Gli piaceva, però, l'idea di scrivere insieme i loro nomi, di promettersi di esserci sempre l'uno per l'altro, entrambi consapevoli e desiderosi di farlo, e di mostrare al mondo il loro amore, nonostante il mondo non fosse pronto ad accettarlo.

"Se lo avessi saputo prima, mi sarei portato una bomboletta spray..."

Ribatté, pur essendo totalmente certo che Claudio fosse venuto preparato; gli aveva risposto così solo per fargli capire che era d'accordo, che anche per lui andava bene -anzi, più che bene-, ed era così emozionato che la voce gli tremò in gola.

Claudio, a colpo sicuro, infilò la mano libera nella tasca interna del cappotto, tirandone fuori un pennarello rosso, di quelli indelebili e dalla punta sottile che usava per sottolineare i termini o i concetti più importanti nei propri appunti. Non era appariscente come la vernice, ma sarebbe andato bene ugualmente.

"Beh, io ho questo."

Rispose, mostrandoglielo. Domenico, dopo un rapido controllo nei dintorni, si sporse a dargli un bacio a fior di labbra.

"Allora cerchiamo un posticino tutto nostro, vieni."

Sussurrò, conducendolo un po' più avanti, per cercare un punto in cui la parete fosse più libera.

Dopo pochi minuti intercettarono un piccolo spazio tra scritte più grandi, proprio davanti ai loro occhi, che sembrava essere stato lasciato apposta. In fondo, era questo tutto ciò che volevano: uno spazietto di mondo solo per loro.

Disegnarono un cuore, tracciando ciascuno una delle due metà che si incastrarono perfettamente tra loro, e aggiunsero un + nel mezzo, un trattino a testa. Mancavano solo le lettere -non c'era abbastanza spazio per i nomi interi, ma del resto era meglio così, perché sarebbe stato più discreto- ed entrambi avevano un'idea ben precisa dell'ordine in cui dovevano essere scritte...ma erano due idee completamente opposte.

Domenico, che era rimasto con il pennarello in mano, lo avvicinò allo spazio vuoto che seguiva il segno di unione, ma non fece in tempo a scrivere la propria iniziale perché Claudio lo fermò, trattenendolo per il braccio.

"No, che fai?! Tu vai per primo!"

Esclamò, deciso, e Domenico si voltò a guardarlo, scuotendo il capo.

"Assolutamente no! È stata tua l'idea di venire qui, quindi il tuo nome va al primo posto!"

Claudio scosse il capo, categorico, liberando un sonoro sbuffo.

"Ma sei tu che hai fatto il primo passo, che ti sei dichiarato per primo! Senza la tua iniziativa, non ci saremmo proprio venuti qui!"

Ribatté, con l'aria di chi non ammetteva repliche, ma la sua voce era comunque carica d'affetto.

Domenico sollevò gli occhi al cielo, ma le labbra tradivano un sorriso divertito ed innamorato. Posò di nuovo gli occhi su di lui ed intanto chiuse il pennarello, infilandolo in tasca.

"Vabbuò, allora risolviamola democraticamente. Sasso, carta, forbici: ci stai?"

Propose e Claudio subito annuì, tendendo una mano avanti; gli sembrava una buona soluzione.

Contarono insieme fino a tre mentre agitavano le mani e poi le fermarono a mezz'aria: quella di Claudio era aperta, ad indicare la carta, e quella di Domenico era del tutto chiusa ad eccezione dell'indice e del medio tesi, a forma di forbici. Dopo un istante passato a verificare il risultato, alzarono entrambi gli sguardi, scambiandosi una risatina che poi divenne un sorriso.

Senza aggiungere altro, scrissero rispettivamente le proprie iniziali nell'ordine che era uscito -in fondo, l'importante era che stessero vicine, il resto non contava nulla- tra quelle miliardi di altre, in quella confusione che non era altro che Amore.
 

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Capitolo 38
*** Appendice, Capitolo 6 – Nella vernice fresca dei miei ricordi (parte 1) ***


Roma, 24 Dicembre 2017
 
Domenico aveva trascorso l'intera mattinata in commissariato e tutto il pomeriggio in un rifugio per animali dove svolgeva regolarmente volontariato -durante le feste ricevevano sempre molte donazioni, da un lato, e molte richieste di adozione dall'altro, quindi c'era bisogno di tutto l'aiuto possibile-, e adesso stava tornando al proprio appartamento.

Per quanto si sforzasse, sia nei pensieri che nelle chiacchiere quotidiane, non riusciva proprio a definirlo 'casa', -non diceva, ad esempio, 'ho dimenticato le chiavi a casa.', ma 'ho dimenticato le chiavi al mio appartamento.'- nonostante vivesse lì ormai da molti anni: per lui una casa, una casa vera, era molto più del semplice posto in cui si abita. Non era nemmeno un posto, a dire il vero, e purtroppo era lontana.

Ad accoglierlo, comunque, non trovò il solito buio ed il solito silenzio, ma un fascio di luce in corrispondenza della porta della cucina ed un chiacchiericcio accompagnato da un rumore di pentole sempre da quella stessa stanza.

Superò quindi il piccolo atrio d'ingresso, dove lasciò il cappotto e le chiavi, per poi incamminarsi nel corridoio verso quella direzione, e più si avvicinava più un allettante profumo di cibo andava a stuzzicargli il naso, riuscendo perfino a fargli venire un po' di acquolina in bocca, il che non era cosa da poco, considerata la situazione.
Affacciatosi appena oltre la porta vide sua madre, sua sorella ed Enzo indaffarati a preparare il cenone di Natale, sembravano proprio degli elfi di Babbo Natale all'opera -erano arrivati da un paio di giorni, come ormai facevano ogni anno per non lasciarlo solo durante le feste-, e quella vista, che un po' aveva il sapore di casa, fu sufficiente a fargli spuntare un sorriso sulle labbra, piccolo, che non arrivava agli occhi, ma sincero. Era davvero felice e grato che fossero lì e si sentiva in colpa di non essere capace di dimostrarlo meglio, come avrebbero meritato.

"Buonasera!"

Mormorò timidamente, quasi avesse paura di disturbare, salutando con un rapido gesto della mano.

Subito tre sorrisi belli e luminosi, si voltarono verso di lui, felici di vederlo ed in grado di dimostrarlo.

"Ah, Mimmo, eccoti qua! Ti stavamo per chiamare, non tornavi più!"

Esclamò sua madre, con la voce piena di preoccupazione, mentre gli si avvicinava.

Domenico la salutò con un bacio su ciascuna guancia, mettendo una mano sul suo braccio, su cui fece muovere un po' il pollice in una carezza di scuse, per poi soffermarsi a guardarla, abbozzando un sorrisetto. Adesso, sul suo viso, c'era qualche ruga in più ed i capelli erano del tutto bianchi, del resto gli anni erano passati anche per lei, ma era sempre bellissima ai propri occhi.

"Scusami, hai ragione, avrei dovuto avvisare..."

Replicò, sinceramente dispiaciuto, ma Rosa subìto gli rivolse un gran sorriso -tutta la preoccupazione era sparita- e gli diede un buffetto affettuoso sulla guancia ricoperta da uno strato di barba.

"La cosa importante è che ora stai qua, anche perché..."

Si allontanò verso il tavolo, da cui prese un vassoio pieno di frittelle d'alghe fumanti.

"...mi devi dire come sono venute! Le ho fatte mo' mo', so' belle calde calde, anzi sta' attento che ti scotti!"

Domenico aveva lo stomaco chiuso, anche se a pranzo non aveva mangiato, ma quelle frittelline tonde e dorate, striate di verde, con il loro profumino delizioso, avrebbero fatto venire fame anche ai sassi, quindi ne prese una e la divorò in un paio di bocconi.

"E che vuoi che ti dica, ma'? Sono buonissime, perfette come sempre!"

Diede un altro bacio sulla guancia di sua madre, la quale stava sorridendo soddisfatta, e poi si spostò verso Enzo per salutare anche lui.

"Ue Enzì, come va?"

Chiese, dandogli una pacca sulla spalla. Enzo sorrise, sollevando una mano ad indicare il tavolo pieno di cibo, in parte già pronto ed in parte da cuocere, ma solo perché l'avrebbero mangiato in un secondo momento e quindi c'era ancora tempo.

"Va come vedi! A te, invece, com'è andata coi micetti tuoi?"

Domenico accennò un sorriso che, almeno per qualche istante, gli illuminò anche gli occhi.

"Ah, è andata benissimo! Molti di loro oggi hanno trovato una casa, è davvero un bel Natale. Ovviamente, prima di approvare queste adozioni, sono stati fatti tutti i controlli e gli incontri del caso, quindi...sono fiducioso, ecco."

Spiegò, gesticolando: gli faceva sempre piacere parlare dei gatti che aiutava ed era lieto che Enzo gliel'avesse chiesto.

Enzo si mostrò un caloroso sorriso, che gli arrivava fino agli occhi azzurri e gli illuminava tutto il viso contornato dai riccioli biondi che gli ricadevano sulla fronte e ai lati.

"Ma che bello! So' contento, so' contento!"

Rispose, allegro, e Domenico era certo che lo intendesse davvero. Lo conosceva ormai da anni e non aveva dubbi che fosse una persona di buon cuore, non avrebbe potuto chiedere di meglio per sua sorella. Fu proprio verso di lei, impegnata a tagliuzzare il baccalà da friggere, che si diresse lentamente, conscio di quanto sua sorella odiasse essere disturbata mentre lavorava o cucinava.

"Ti posso salutare o rischio di fare la fine del baccalà?"

Domandò con una punta di scherzo nella voce, sforzandosi di mostrarsi sereno e giocoso anche se l'umore era di tutt'altro tipo.

Sara si passò la lingua sul palato, facendola scattare in un verso di incredulità. Posò subito il coltello e si pulì le mani, rivolgendo al fratello un gran sorriso.

"Certo che puoi, anzi devi! Vieni qua!"

Esclamò affettuosa e, senza dargli il tempo di muoversi, fu lei a stringerlo tra le braccia con tutta la forza che aveva.

Domenico lasciò andare un sospiro non appena se la sentì addosso, e avvertì i propri occhi inumidirsi: aveva ricevuto molti abbracci da quando la propria famiglia era salita a Roma, e Dio solo sapeva quanto lo aiutassero a scaldare quel corpo che, ormai, sembrava essere fatto di ghiaccio, eppure non bastavano mai perché il freddo, prima o dopo, ritornava sempre.

Cinse a propria volta Sara tra le braccia, dolcemente, e le posò un bacio tra i capelli neri raccolti in una morbida coda, sfruttando quella differenza d’altezza di pochi centimetri che avevano.

"Come stai? Ti sei fermata un attimo, oggi?"

Domandò anche se, conoscendola, era certo che non si fosse riposata nemmeno un istante. Sara ridacchiò e alzò il capo verso di lui, sorridente.

"Sto bene, sto benissimo! Lo sai che quando cucino non mi stanco. Tu, invece, come ti senti?"

Domenico sollevò l'angolo delle labbra nell'ombra di un sorriso, scrollando appena le spalle. Gli sarebbe piaciuto poter dire che si sentiva bene, ma avrebbe mentito e Sara naturalmente se ne sarebbe accorta. Stava male, questa era la verità, il dolore era ormai parte integrante della propria vita, lo sentiva agitarsi dentro di sé ogni giorno come un animale in gabbia, era un ospite indesiderato dal quale tuttavia non voleva liberarsi: l'alternativa era l'apatia, era l'essere completamente anestetizzato a qualsiasi emozione e sensazione, piacevoli o meno, e allora preferiva soffrire, pur di sentire qualcosa. Preferiva soffrire, perché quel dolore gli ricordava tutto l'amore che c'era stato prima.

"Si può avere una domanda di riserva?"

Mormorò in risposta, rassegnato.

Sara fece un piccolo sospiro e addolcì lo sguardo che posava sul fratello, portando una mano sulla sua guancia per fargli la carezza. Un po' si pentì di aver posto quella domanda, ma decise di sfruttare l'occasione per parlargli di tutta quella situazione. Sapeva che Domenico stava male, era da dieci anni che stava così, ormai divideva la sua vita in un prima ed in un dopo l'avvocato Claudio Vinci, e se il prima era stato privo di significato -da come diceva lui, almeno-, il dopo era un completo disastro. Non avrebbe mai e poi mai perdonato il famoso avvocato per aver ridotto così il sangue del proprio sangue e non capiva come facesse Domenico a provare ancora qualcosa per lui.

"Mimmo, lo so che non ti va di parlarne, ma dopo tutto questo tempo non puoi stare ancora così per lui, quello stronzo non se lo merita!"

Disse, parlando con il cuore in mano, ma Domenico serrò la mascella, in un gesto istintivo, e si sottrasse alla sua carezza. Sapeva che fosse il suo affetto fraterno a parlare e non era arrabbiato con lei -anzi, a parte inverse avrebbe detto ben di peggio nei confronti di Enzo-, ma non poteva sopportare che lei definisse Claudio in quel modo, che era di quanto più lontano dalla realtà potesse esserci: Claudio aveva il cuore più buono del mondo, lo pensava ancora nonostante tutto, ma era anche spaventato -ricordava perfettamente i suoi occhi blu sgranati, impauriti e pieni di colpa che si posavano sulla sua ferita rossa- ed era per questo, solo per questo, che lo aveva lasciato.

"Senti, ma 'a piccirella dove sta? Vorrei salutare anche lei..."

Replicò, perché su una cosa sua sorella aveva ragione: non voleva parlarne.

Sara sospirò di nuovo e si morse la lingua per evitare di insistere, aveva colto l'antifona.

"In camera da letto, sta facendo il riposino. Sono sicura, però, che le fa piacere se vai a rimboccarle le coperte."

Rispose, con dolcezza. Domenico annuì, accennando un sorriso.

"Allora vado da lei e poi vengo a darvi una mano, torno subito."

Fece per allontanarsi, ma Sara lo trattenne.

"Perché non vai a riposare anche tu? Qui siamo già in tre, ce la facciamo. Tu hai avuto una lunga giornata, sarai stanco..."

Domenico scosse il capo e le fece una carezza sulla guancia, anche per scusarsi del gesto di poco prima.

"Non ti preoccupare, non sono stanco. Mi fa piacere darvi una mano, davvero."

Preferiva tenersi impegnato, che fosse con il lavoro, il volontariato o in questo caso la cena di Natale, così da non avere troppo tempo per lasciarsi prendere dai pensieri. Se avesse provato a dormire, invece, quei pensieri lo avrebbero raggiunto e lui comunque non si sarebbe riposato, quindi tanto valeva rendersi utile.

Lasciò la cucina, passò in bagno a lavarsi accuratamente le mani -era comunque stato tutto il giorno fuori casa, doveva stare attento prima di avere a che fare con una bambina piccola- e poi, senza fare rumore, entrò in quella che era la propria stanza da letto, che aveva ceduto a Sara, Enzo e alla piccola Lucia -lui e sua madre, invece, dormivano provvisoriamente in salotto, sul divano letto-.

Come suggeriva il nome, quella scriccioletta di appena un anno era la luce degli occhi dei suoi genitori, ovviamente -Sara ed Enzo si erano sposati sei anni prima ed erano riusciti ad averla soltanto dopo anni ed anni di tentativi e visite mediche-, ma anche dello zio, che stravedeva per lei.

Si sciolse in un morbido sorriso a vederla rannicchiata stretta stretta al suo coniglietto di peluche azzurro, regalo che le aveva fatto lui stesso in occasione del suo battesimo e da cui lei non si era più separata, che era quasi più grande di lei, tanto da farla sembrare ancora più piccola di quanto fosse.

Le si avvicinò, dunque, senza fare il minimo rumore, per rimboccarle le coperte: il suo corpicino sembrava quasi scomparire sotto il piumone che l'avvolgeva e che si sollevava e abbassava quasi impercettibilmente al ritmo del suo respiro, spuntava fuori soltanto il visino circondato da riccioletti neri ed illuminato dalla lucetta da notte che avevano messo sul comodino, dal momento che Lucia, come un po' tutti i bambini, aveva paura del buio.

Il suo sonno, però, al momento sembrava tranquillo e sereno, senza alcuna traccia di quella o altre paure, immerso probabilmente in un sogno bellissimo. Lui avrebbe dato qualsiasi cosa per fare in modo che non conoscesse mai gli incubi, perché sapeva quale effetto potevano avere sulle persone e non voleva che lei patisse in quel modo, ma sapeva anche che prima o poi sarebbe accaduto, perché non poteva proteggerla per sempre.

"Buon riposo, passerottina mia."

Sussurrò a bassissima voce -le aveva dato quel soprannome perché quando era molto piccola, ed in parte anche adesso, emetteva sempre dei versetti acuti del tutto simili ai pigolii di un passerotto per cercare di comunicare con loro-, mentre le faceva una carezza leggerissima sulla guancia, sfiorandola appena con il dorso dell'indice.
Lasciò la camera con la stessa cura con cui era entrato e chiuse la porta dietro di sé non prima di aver posato gli occhi un'ultima volta su Lucia, per poi tornare in cucina. Lì, come promesso, si rimboccò le maniche e aiutò gli altri nella preparazione del cenone -nessuno, nemmeno Sara, gli chiese più di Claudio, cosa di cui li ringraziò in cuor proprio- poi si spostarono tutti in salotto per mangiare e festeggiare il Natale, anche se per lui da anni ormai quella festa non aveva più alcun significato. Ciononostante, solitamente riusciva almeno a godersi la compagnia della propria famiglia che aveva il magico potere di farlo stare un po' meglio, ma quest'anno proprio non ce la faceva e perfino il trascorrere l'intero cenone con l'adorata nipotina seduta in grembo non era riuscito a strappargli più di qualche sorriso, per quanto sinceri.
La mancanza della persona più importante della propria vita era troppo forte, la ferita che si era coperta di una sottile cicatrice nel corso del tempo era ora tornata a riaprirsi: lui e Claudio si erano incontrati, appena un paio di giorni prima, per un sadico scherzo del destino, se si poteva definire incontro quello che era avvenuto. Lo aveva incrociato in uno dei corridoi del commissariato, senza saperlo camminava in direzione di Claudio, il quale invece veniva dall'altra estremità, ma quando si era accorto di averlo davanti era ormai troppo tardi per fare dietrofront e il corridoio era troppo vuoto per fingere di non averlo visto.

Anche se avesse avuto modo di farlo, comunque, non credeva che sarebbe stato capace di distogliere lo sguardo da lui, dal suo elegante completo blu scuro che lo avvolgeva come se ci fosse nato dentro -e che tuttavia non rendeva giustizia alla bellezza del suo corpo nudo, quella che lui conosceva bene-, dalla barba curata che gli copriva le guance e quasi gli nascondeva le labbra che aveva baciato mille volte e da cui era stato baciato altre mille -avrebbe dato qualsiasi cosa per aggiungere solo un altro bacio a quel conto e sentire per un'ultima volta quelle labbra screpolate dal freddo posarsi sulle proprie-, dai suoi capelli perfettamente in ordine -senz'altro adatti all'avvocato Vinci, ma non al suo Claudio, il ragazzo che da lui se li faceva arruffare- e, naturalmente, dai suoi occhi blu, un mare sempre più distante.

Si accorse, però, che anche Claudio lo aveva guardato e quel singolo sguardo gli aveva dato il coraggio di andare a parlargli, ma prima che potesse anche solo salutarlo, l'avvocato si era infilato in un ufficio, rendendo impossibile qualunque approccio.

Non era la prima volta, in quei dieci anni, che in un modo o nell'altro si incrociavano in tribunale o in commissariato -dati i loro mestieri sarebbe stato strano il contrario-, ma non era mai successo in momento così vicino a quella data che, un tempo, avrebbero festeggiato come anniversario. Quella coincidenza non poteva essere casuale, non riusciva a fare a meno di pensarci, e più ci pensava e più credeva che potesse essere un'occasione da sfruttare per...per riallacciare un minimo di rapporto, anche se non di natura romantica -non era così disilluso da credere che Claudio avrebbe potuto cambiare idea-, anche solo di banale conoscenza.

Così, un po' dopo mezzanotte, si congedò dal resto della famiglia e si spostò sul terrazzino, dove sarebbe stato più tranquillo, portando con sé la birra -la terza o la quarta da quando era cominciata la cena, non ci aveva fatto caso- per darsi coraggio. Si appoggiò al muretto, estrasse il cellulare dalla tasca, e non gli ci volle molto ad arrivare alla lettera C della propria rubrica, che non era poi riempita da chissà quanti nomi.

Fece un respiro profondo e bevve un sorso di birra prima di premere sull'icona verde ed avvicinare il telefono all'orecchio: gli avrebbe augurato buon Natale e poi gli avrebbe chiesto come stava, gli interessava sapere solo questo, e magari avrebbe aggiunto di potersi incontrare per prendere un tè insieme, uno dei prossimi giorni, con la scusa del lavoro. Sì, poteva andare, doveva solamente dire queste esatte cose e nulla più.

Negli istanti di pausa tra uno squillo e l'altro sentiva il proprio cuore accelerare, speranzoso di ascoltare quella voce così famigliare dall'altra parte, e ad ogni nuovo squillo si abbatteva, deluso.

"Questa è la segreteria telefonica dell'avvocato Claudio Vinci. Al momento non sono disponibile, lasciate un messaggio dopo il segnale acustico e verrete richiamati al più presto."

Si sentì dire dopo diversi squilli a vuoto e la voce che parlava era quella che tanto desiderava udire, ma era registrata e per questo gli suonò terribilmente fredda ed impostata, quasi come se non fosse stata la sua. Sospirò e chiuse la telefonata premendo sull'icona rossa, ma non si perse d'animo.

"Forse è al telefono con qualcun altro, oppure è lontano e non lo sente..."

Si disse, quasi per autoconvincersi, prima di fare un secondo tentativo: avrebbe potuto registrare un messaggio, certo, ma non sarebbe stato come parlargli davvero e lui ne aveva un disperato bisogno.

Questa volta, tuttavia, gli squilli furono molti di meno e la telefonata venne interrotta ancor prima che potesse avviarsi il messaggio registrato, segno che era stata chiusa volontariamente da chi era dall'altra parte, cioè da Claudio.

Fece ancora una prova, poi un'altra ed ancora una, e tutti quei rifiuti furono per lui come proiettili che gli laceravano il corpo, prima di rendersi conto di quanto fosse inutile tutto ciò: Claudio non aveva voluto parlargli di persona e non voleva farlo neanche adesso, era fin troppo chiaro.

Trangugiò ciò che restava della propria birra in un unico sorso e tornò dentro, accasciandosi sul divano, dove fu subito raggiunto da Sara.

"Non risponde?"

Chiese con infinita dolcezza, comprensiva, senza aver bisogno di domandare chi fosse il destinatario di quelle telefonate, perché poteva essere soltanto una persona.

Domenico scosse il capo, guardandola con occhi gonfi di lacrime. Se non fosse stato completamente distrutto, si sarebbe sentito ridicolo.

"No..."

Mormorò, con voce appena percettibile. Lei, senza aggiungere nulla, si mise seduta accanto a lui e lo avvolse con un braccio, tirandolo accanto a sé. Domenico liberò un singhiozzo e si strinse contro Sara, facendosi così piccolo che tra i due sembrava lei quella più grande, immergendosi in quell’abbraccio caldo e bello. Erano ben altre, però, le braccia di cui sentiva il bisogno.
*****

Claudio era seduto alla scrivania del proprio ufficio, come ogni giorno da quando era diventato avvocato: non era stato facile, ma se aveva una qualità, quella era la perseveranza -capa tosta, avrebbe detto qualcuno- e così, negli anni, da dipendente in uno studio altrui era arrivato ad essere titolare di uno studio che portava il proprio nome e di cui non poteva che essere orgoglioso.

Dava tutto se stesso, anima e corpo, alle persone che difendeva con il proprio lavoro e nemmeno la Vigilia di Natale faceva eccezione: era un giorno come un altro e non valeva più degli altri, anche se c'era stato un tempo in cui per lui, quel giorno era stato tutto.

Sentì un leggero bussare alla porta che lo costrinse a sollevare lo sguardo, spostandolo dallo schermo del computer e dagli appunti.

"Entra pure, Arthur!"

Disse a colpo sicuro -non c'erano altre persone in quegli uffici oltre a loro-, e quando, un istante dopo, la porta venne aperta, vide spuntare la figura longilinea di Arthur Peirò, un giovane e promettente futuro avvocato che aveva preso come praticante, il quale in teoria non avrebbe nemmeno dovuto trovarsi lì in quel momento, dato che era pur sempre la Vigilia di Natale, ma quando aveva saputo che lui sarebbe andato allo studio aveva insistito per "dare una mano e fare compagnia", così tanto che alla fine Claudio aveva dovuto lasciarlo fare.

Quel ragazzo, a differenza della maggior parte dei suoi colleghi universitari, non proveniva da una famiglia per così dire blasonata, in cui da generazioni ci si tramandava il titolo e lo studio legale, ma da una famiglia di operai che aveva anche un altro figlio, più piccolo, a carico e riusciva a pagarsi gli studi solo attraverso molti sacrifici e qualche lavoretto che, per forza di cose, lo avevano rallentato nel regolare svolgimento del percorso universitario.

Ciononostante era stato l'unico, tra tutti i presenti alla conferenza che lui aveva tenuto l'anno precedente presso la sua Facoltà, a porgergli una domanda che non fosse banale, ma anzi quasi scomoda, segno di quanto fosse preparato e, soprattutto, motivato. Per questa ragione, Claudio si era ricordato di lui quando aveva ricevuto la sua richiesta di praticantato qualche mese prima e l'aveva accettata molto volentieri, senza doverci pensare su due volte. Ora, a distanza di tempo, poteva affermare con sicurezza di non essersene assolutamente pentito.

Arthur avanzò di qualche passo nell'ufficio del proprio superiore, al quale rivolse un sorriso composto, ma sincero. Era infinitamente grato a quell'uomo, che non era solo un ottimo avvocato -il migliore di Roma, ne era sicuro!-, ma anche una persona buona e gentile alla quale doveva molto: era stato l'unico ad accettare di prenderlo lì, mentre tutti gli altri avvocati a cui si era rivolto l'avevano rifiutato in malo modo quando erano venuti a sapere del ritardo che aveva accumulato negli esami, ed in più si era anche offerto di coprire tutte le spese che gli rimanevano per il completamento degli studi, il che gli aveva permesso di non dover più barcamenarsi tra due lavori diversi e lo studio, così da potersi concentrare soltanto sull'università. Senza di lui, sarebbe stato ancora in alto mare.

"Mi perdoni avvocato Vinci, non volevo disturbarla, ma ho pensato che forse era il caso facesse una pausa e le ho portato questa..."

Spiegò, mostrando la tazza fumante che teneva tra le mani. Lavorava al fianco di quell'avvocato da mesi e non ci aveva messo molto a capire che quando si buttava sul lavoro si dimenticava di tutto, anche e soprattutto di se stesso, e che quindi avesse bisogno di qualcuno che lo tirasse fuori da quella specie di abisso in cui si immergeva. Gli aveva sempre dato l'impressione di essere una persona molto sola, in questo senso.

Claudio si ritrovò a curvare le labbra in un sorriso appena accennato -non aveva molte cose per cui sorridere, ormai da un bel po'- ed allungò una mano per prendere la tazza, che subito lo investì con un piacevole odore fruttato. Avrebbe dovuto essere abituato alle attenzioni di Arthur, senza il quale sicuramente avrebbe saltato moltissimi pasti in quelle infinite giornate di lavoro che si imponeva, ma riuscivano sempre a coglierlo di sorpresa. In fondo, non credeva nemmeno di meritarsele.

"Grazie, sei gentile...ma anche capa tosta!"

Esclamò, con tono bonario. Arthur sgranò gli occhi, leggermente confuso.

"Io...ehm...cosa sarei?"

"Una testa dura! Ti ho detto mille volte che puoi darmi del tu e chiamarmi Claudio, possibile che tu abbia memorizzato interi volumi di diritto e questo semplice concetto proprio non ti entri in testa?"

Rispose Claudio, rimproverandolo scherzosamente, ed Arthur fece una risatina, scrollando le spalle.

"Non è che non mi entra in testa, è che la rispetto troppo per rivolgermi a lei in un altro modo, avvocato."

Spiegò, guardandolo con ammirazione. Claudio liberò uno sbuffo divertito, ma dal retrogusto amaro, e poi sospirò.

"Ti assicuro che c'è ben poco da rispettare, qui, oltre all'aspetto professionale. Dammi del tu, va bene così."

Rispose, per poi portarsi la tazza alle labbra. Non fece nemmeno in tempo ad assaporare quella tisana ai frutti di bosco che si rese conto, spostando casualmente lo sguardo sull'orologio del proprio computer, di quanto fosse tardi.

"Ma sono le otto passate, che ci fai ancora qua?"

Esclamò, guardandolo preoccupato. Arthur, in risposta, lo indicò con un rapido cenno del capo.

"Anche lei è ancora qui, quindi sono rimasto anch'io."

Replicò, come se fosse stata la cosa più ovvia e naturale del mondo. Claudio prese un profondo respiro e poi curvò l'angolo delle labbra in un sorriso che non arrivava agli occhi.

"Ed io ti ringrazio davvero tanto per la dedizione, ma non è necessaria. Va' a casa, non voglio che la tua famiglia mi denunci per sequestro di persona."

Rispose, con una punta di sarcasmo, ed intanto pensava 'Torna da loro, tu che puoi'.

Arthur fece una risatina, ma poi si morse un labbro, indeciso sul da farsi. Aveva voglia di tornare a casa, certo, ma non gli sembrava una buona idea lasciare l'avvocato da solo.

"E lei, invece, che fa? Non torna a casa?"

Si permise di domandare, lasciando trasparire una leggera nota di preoccupazione nella voce. A Claudio non sfuggì ma, di nuovo, non gli sembrava meritata.

"Io mi trattengo ancora un po', il tempo di finire di leggere un paio di cose..."

Rispose, indicando il pc con un gesto vago della mano libera.

"...ma ci metto poco, promesso. Non ti preoccupare, non c'è bisogno che mi aspetti, davvero."

Aggiunse, accompagnandosi con un sorriso rassicurante.

Arthur sospirò, rassegnato. Non era per niente convinto di quella promessa, ma non poteva certo trascinare via l'avvocato -dal suo stesso studio, tra l'altro- con la forza.

"Va bene, d'accordo. Torno il ventisette, allora?"

Domandò, sicuro che l'altro sarebbe tornato a lavorare il prima possibile, forse perfino il giorno dopo, ma che al tempo stesso non gli avrebbe mai permesso di seguirlo anche il giorno di Natale.

Claudio liberò uno sbuffo divertito e scosse il capo, poi tornò a guardare il ragazzo con affetto.

"Hai lavorato bene in questi mesi, hai fatto più di quanto fosse tuo dovere e meriti decisamente più di un paio di giorni di riposo. Goditi queste feste, goditi i tuoi affetti, per il resto mi faccio sentire io."

Arthur annuì, grattandosi distrattamente una guancia coperta da un leggero strato di barba molto curato.

"D'accordo, grazie. Allora io...io recupero le mie cose e poi vado..."

Replicò, indicando la porta con un gesto vago della mano. Claudio si alzò, fermandolo con un cenno.

"Aspetta..."

Si avvicinò all'appendiabiti accanto alla porta dell'ufficio e prese la propria sciarpa ed il proprio cappello, che poi porse ad Arthur.

"Prendi questi. Fa freddo, fuori."

Disse, con tono dolce. Si era accorto, infatti, che il ragazzo era arrivato lì quel giorno indossando soltanto un cappotto che poteva andar bene per l'assolata mattina, ma non per la buia sera.

Arthur sgranò gli occhi per un istante, sorpreso, poi scosse il capo.

"Ma no, avvocato Vinci...grazie, ma non è necessario..."

Balbettò, timidamente. Claudio non era minimamente dello stesso avviso e alzò gli occhi al cielo.

"Ah, sciocchezze! Non lo sai che la testa e la gola sono fondamentali per un avvocato? Devi tenerli protetti!"

Esclamò, con un tono che non ammetteva repliche ma al tempo stesso manteneva una sfumatura affettuosa, ed intanto gli calcò il cappello sul capo, aggiustandolo per bene sui suoi folti capelli castani che gli arrivavano al collo, e gli avvolse la sciarpa blu intorno allo stesso.

Arthur si ritrovò così sistemato ancor prima che potesse accorgersene, e per un attimo gli sembrò di essere tornato a quando, da bambino, sua madre lo aiutava a prepararsi per andare a scuola.

"Eh, ma allora servono anche a lei! Più a lei che a me, se vogliamo dirla tutta..."

Provò a dire, ma Claudio liquidò l'obiezione con una pacca sulla spalla.

"No, servono di più a te perché tu sei venuto con la motocicletta, io in auto. Dai, poi me li restituisci appena ci vediamo, non è la fine del mondo!"

Sorrise, per concludere la propria opera di convincimento. Arthur sospirò profondamente e annuì appena, accennando un sorriso.

"Allora...buon Natale, avvocato Vinci."

Claudio inarcò leggermente le sopracciglia, in un'eloquente espressione di richiesta.

"Dai, per favore, è Natale, fammi questo regalo: chiamami Claudio almeno una volta!"

Arthur ridacchiò appena, annuendo leggermente.

"D'accordo, d’accordo, mi correggo: buon Natale, Claudio!"

Esclamò, arrossendo automaticamente. Claudio accennò un sorriso, soddisfatto, e dopo un'ultima sistematina alla sciarpa lo lasciò andare.

"Scrivimi non appena arrivi a casa, eh!"

Disse, più serio, perché anche se il tragitto che l'altro avrebbe dovuto fare non era molto lungo, lui era comunque preoccupato a causa del traffico.

Arthur ridacchiò, annuendo per rassicurarlo. Ecco, anche in questo gli ricordò un po' la propria madre.

"E faccia lo stesso anche lei! E non si attardi troppo..."

Replicò, con una certa apprensione nel tono di voce che cercò di dissimulare adottandone uno più scherzoso. A Claudio, però, non sfuggì quella piccola sfumatura nascosta, essendo abituato a cogliere tutti i più piccoli mutamenti in chi gli stava intorno, e annuì per tranquillizzarlo.

"Promesso."

Arthur, dopo avergli rivolto un'ultima occhiata, lo salutò ancora una volta e poi uscì dall'ufficio.

Claudio liberò un pesante sospiro non appena l'altro chiuse la porta e si passò una mano sul volto, che cominciava a sentire stanco, prima di tornare alla scrivania. Si concesse la piccola pausa che Arthur gli aveva praticamente imposto, il tempo di mandare giù i sorsi di tisana ancora abbastanza caldi nella tazza, e poi tornò a concentrarsi sul proprio lavoro, fermandosi solo per leggere e rispondere al messaggio che Arthur gli aveva inviato circa mezz'ora dopo che se n'era andato, con cui lo informava di essere arrivato a destinazione.

Subito dopo riprese a studiare studiando i fascicoli degli ultimi clienti che aveva accettato pro bono -la più recente era appena di un paio di giorni prima- e continuò finché si rese conto che andare avanti sarebbe stato deleterio, dato che la testa e gli occhi gli facevano così male da non capire nemmeno cosa stesse leggendo e che dunque era meglio rincasare.

Se ne convinse ancora di più dando un'occhiata all'orologio appeso alla parete, che segnava le ventidue da poco passate e che gli ricordava di non aver mantenuto la promessa fatta ad Arthur appena un paio d'ore prima, ma in fondo sapevano entrambi che sarebbe accaduto. Si affrettò a sistemare la propria scrivania -spense il computer, riportò al loro posto i faldoni, infilò l'agenda con gli appunti nella valigetta e lavò la tazza da cui aveva bevuto la tisana- e ad infilarsi il cappotto, per poi lasciare lo studio legale.

La strada era deserta, chiaramente erano tutti a festeggiare nelle case da cui proveniva un vociare indistinto, e a fargli compagnia Claudio trovò soltanto le luci dei lampioni e delle luminarie ed un vento gelido che lo portò a stringersi bene nel cappotto lungo il tragitto -non troppo breve, ma abbastanza lungo da fargli entrare quel gelo nelle ossa- che lo separava dalla propria auto.

Si prese qualche minuto per scaldarsi, strofinando le mani tra loro, soffiandovi in mezzo e passandosele sulle braccia, e poi mise in moto il veicolo che, vista la quasi totale assenza di altre persone in giro, non impiegò molto tempo a riportarlo al condominio in cui abitava.

Arrivato al pianerottolo, si premurò di scattare una foto alla propria porta d'ingresso, facendo attenzione ad inquadrare la targhetta con il nome sopra al campanello, che inviò ad Arthur come prova dal proprio rientro, accompagnata da un breve messaggio di scuse -Come al solito ho perso il senso del tempo, spero di non averti fatto preoccupare troppo. Auguri a tutti.- e solo allora entrò in casa.

Aveva senso definire casa un luogo che non lo accoglieva con suoni, calore o luci, ma solo con un freddo e silenzioso buio che ricopriva ogni cosa? Probabilmente no, ma, come si ripeteva ogni giorno, era meglio che fosse così.

Lui una casa vera l'aveva avuta, in un certo senso l'aveva ancora, ma era lontana -e doveva restare tale-, quindi preferiva adottare quel termine convenzionale, per quanto stridente, per aiutarsi a non pensarci, anche se non ci riusciva mai.

Si sfilò rapidamente il cappotto, lasciandolo sull'appendiabiti all'ingresso, e attraversò il soggiorno giusto il tempo di lasciare la ventiquattrore sulla poltrona, ma il suo vero obbiettivo era la cucina: non aveva molta fame e non aveva nemmeno fatto una spesa adatta al Natale -che senso avrebbe avuto farla, se lui nemmeno lo festeggiava?-, ma era il caso che mangiasse comunque qualcosa, dopo la giornata di lavoro che aveva passato.

Optò per una carbonara nutriente e veloce, che poi divenne una pasta all'uovo dal momento che gli mancava il guanciale, ma andava più che bene così. Non valeva nemmeno la pena sforzarsi di preparare qualcos'altro, tanto qualunque piatto, anche il più raffinato, non sarebbe stato gustato a dovere dalla sua bocca che, ormai da tempo, accettava il cibo solo per necessità.

Era diventato ancora più difficile mangiare dopo l'incontro di appena due giorni prima a cui adesso, mentre se ne stava seduto al tavolo della cucina in totale solitudine e silenzio e senza nulla -né il lavoro e né la preparazione di quel semplice piatto di pasta- che potesse distrarlo il proprio cuore era libero di tornare: si era offerto di aiutare personalmente una giovane donna, la quale si era rivolta a lui tramite un'associazione dedicata, a denunciare il marito violento -era uno di quegli incarichi pro bono di cui stava consultando i documenti in ufficio- e quando lei gli aveva dato appuntamento proprio in quel commissariato, che era il più vicino a casa sua, gli sembrò di essere oggetto di un pessimo scherzo del destino che accettò con amara rassegnazione. Certo, avrebbe potuto mandare uno dei tanti avvocati o avvocatesse che lavoravano insieme a lui, e di cui si fidava ciecamente, ma aveva dato la propria parola e non voleva tirarsi indietro.

Stava appunto raggiungendo la propria cliente quando, in un corridoio che sembrava essere stato lasciato libero dal sadico destino, aveva incrociato Domenico. Gli erano bastati pochi secondi, che si erano dilatati all'infinito nel tempo, per venire catapultato di nuovo in quel bosco da cui si sentì immediatamente accolto, ma da cui di sbrigò ad uscire al più presto per non devastarlo, per non incendiarlo. Se si allontanava da lui, era solo per il suo bene.

Quella fuga lo portò, fisicamente, ad attraversare la porta più vicina, che per fortuna dava su un ufficio momentaneamente vuoto, in cui si fermò per un po', non avrebbe saputo dire quanto, facendo del suo meglio per domare il proprio cuore imbizzarrito che scalpitava per tornare da dove era appena venuto, ma riuscendo soltanto a nascondere i propri tumulti interiori dietro la maschera dell'avvocato, che però era sufficiente a fargli fare il proprio lavoro e ad aiutare quella donna, ed era questo tutto ciò che importava.

Alla fine, quasi metà della pasta rimase nel piatto, perché gli si era stretto lo stomaco a ripensare a quegli occhi verdi e non riusciva a mandare giù neanche più un boccone, per cui, anche se a malincuore -odiava gli sprechi-, la gettò nella pattumiera.

Lavò le poche cose che aveva usato per cucinare e mangiare, poi andò in bagno a lavarsi i denti, cercando come sempre di non soffermarsi troppo sul proprio riflesso –era diventato difficile sopportarlo-, e subito dopo tornò in salotto, dove si accasciò con poca grazia sul divano.

Accese la televisione, più per bisogno di distrazione che per vero interesse a guardare qualcosa, e cominciò a scorrere tra i vari canali, cimentandosi nell'impresa praticamente impossibile di evitare qualsiasi cosa avesse a che fare con il Natale, dalle commedie romantiche ai concerti e solo dopo tanto vagare, finalmente, trovò la replica di un programma di cucina che faceva decisamente al caso suo. Non gli importava granché di quegli aspiranti chef e delle ricette che proponevano, ma si sforzò comunque di dedicarvi tutta la propria concentrazione, con la speranza che il sonno lo avrebbe colto presto in modo da poter concludere anche quella giornata.
Era talmente assorto e concentrato che ebbe un sussulto quando sentì l'Estate di Vivaldi -la suoneria del proprio cellulare- risuonare in lontananza. Mentre si alzava, diede un'occhiata veloce all'orologio da polso e notò che era da poco passata la mezzanotte, tipico orario in cui ci si scambiava gli auguri di Natale e pensò che forse poteva trattarsi di qualche collega che lo chiamava per quel motivo -se avesse dovuto scommettere, avrebbe puntato tutto su Arthur-, quindi si affrettò a raggiungere l'ingresso dove aveva lasciato il cappotto per recuperare il cellulare nella tasca interna, ma non fece in tempo ad intercettare la chiamata.

Tornando in soggiorno, sbloccò lo schermo per richiamare a propria volta, ma il respiro gli si mozzò in gola quando lesse il nome sulla notifica delle chiamate perse: Domenico Liguori.

L'aveva salvato in rubrica in quel modo freddo, impersonale, nel tentativo di cancellare anche quella traccia di ciò che c'era stato tra loro, ma a dimostrare che avesse fallito c'erano le sue mani che tremavano, insieme al suo cuore.

Con dei movimenti meccanici si portò di nuovo a sedere sul divano e posò il cellulare sul tavolino davanti a sé, su cui fissò gli occhi che già sentiva pizzicare, con buona pace del filetto alla Wellington che stava preparando il concorrente in televisione.

"Forse ha sbagliato numero..."

Mormorò a sé stesso, perché non voleva pensare agli altri motivi per i quali Domenico -'L'ispettore Liguori', si corresse in mente- avrebbe voluto telefonargli in piena notte proprio alla Vigilia di Natale, che per loro era stata ben più di questo.

Quell’ipotesi venne confutata in un attimo, quando le note di Vivaldi ripresero a diffondersi nella stanza, e sullo schermo illuminato comparve nuovamente quel nome.
Questa volta Claudio ebbe modo di reagire e, senza doverci pensare troppo, trascinò l'icona rossa in modo da rifiutare la chiamata.

Era chiaro a questo punto che non si fosse trattato di un caso e che l'altro avesse cercato intenzionalmente un contatto; adesso stava a lui proteggerlo da una scelta sbagliata, metterlo al riparo dalla sofferenza che, inevitabilmente, gli avrebbe causato ancora.

Si ritrovò a doverlo fare una seconda volta, poi una terza ed una quarta, e più andava avanti più la vista gli si appannava, fino a quando si decise a spegnere il cellulare, dando così una conclusione definitiva a quello stallo. Lo faceva per lui.

Chiuse gli occhi, si lasciò cadere sullo schienale del divano, e cominciò a singhiozzare, dilaniato da un dolore straziante che lo squarciava da dentro, ma non c'era nessuno che potesse accorgersi delle sue lacrime e dei suoi lamenti: era circondato da una solitudine opprimente, che lo avvolgeva e stringeva fino a togliergli il fiato, ma in cuor proprio sapeva che fosse giusto così. Non meritava niente di meglio.

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Capitolo 39
*** Appendice, Capitolo 6 – Nella vernice fresca dei miei ricordi (parte 2) ***


Claudio si svegliò di soprassalto -non ricordava nemmeno di essersi addormentato-, disturbato da un trillo meccanico, elettrico, che perforava i timpani. Pensò di esserselo sognato, ma poi lo sentì ripetersi altre due, tre volte, e adesso era certo di essere sveglio. Si tirò a sedere, controllò l'ora -era l'una e mezza da poco passata- e sospirò, mentre nella sua mente si faceva viva e chiara l'immagine di chi potesse essere andato a casa sua a quest'ora. Sperò di sbagliarsi, sperò che fosse qualcuno che aveva voglia di fare uno scherzo di cattivo gusto, sperò perfino, per quanto assurdo, che si trattasse di Babbo Natale in ritardo venuto a portargli chili e chili di carbone; insomma, sperò che fosse chiunque, tranne la persona che poi vide attraverso il piccolo schermo del videocitofono.

Si accigliò, preoccupato, intuendo che qualcosa non andasse: Domenico, infatti, se ne stava appoggiato alla parete in cui era incastrata la pulsantiera mentre bussava nuovamente e con una certa insistenza al citofono, ed ebbe la sensazione che non riuscisse a reggersi bene in piedi. Non era pronto a parlargli, non aveva nulla di nuovo da dirgli, ma al tempo stesso non poteva né voleva lasciarlo lì. Un conto, infatti, era rifiutare le sue telefonate sapendolo, presumibilmente, a casa, mentre una cosa del tutto diversa era lasciarlo fuori, nella notte -perché era certo che Domenico non se ne sarebbe andato-, soprattutto considerando che non indossava un cappotto o qualsiasi altra cosa potesse proteggerlo dal freddo, ma soltanto camicia e pantaloni.

C'era solamente una cosa da fare, dunque afferrò rapidamente le chiavi e salì in ascensore per raggiungerlo più velocemente, considerando che il proprio appartamento era all'ultimo piano del condominio.

"Domenico! Cosa ci fai qui?"

Esclamò, con tono di rimprovero, una volta aperto il portone.

Domenico, non appena vide Claudio proprio davanti a sé, si illuminò di un sorriso splendente, innamorato, che partiva dagli occhi e arrivava fino al cuore, e subito raddrizzò la propria postura staccandosi dal muro al quale aveva avuto necessità di appoggiarsi, gesto che gli causò una leggera vertigine, ma era troppo felice per badarci.

Dopo i tentativi falliti di mettersi in contatto con lui, era rimasto per un po' in compagnia della famiglia, ma poi erano andati tutti a letto e anche lui aveva provato a dormire, ma senza riuscirci. Si era alzato, allora, e senza far rumore si era spostato in cucina dove, mentre la casa era immersa nel silenzio più totale, aveva cominciato a buttare giù una birra, come faceva sempre quando faceva difficoltà a prendere sonno. Non si era fermata a quella, però, ne aveva buttate giù un altro paio, poi era passato al vino ed infine ad una bottiglia di grappa, che solitamente si apriva per le occasioni speciali.

Fu nel fondo dell'ennesimo bicchiere che trovò l'idea di andare a casa di Claudio e la mise in pratica senza pensarci, lasciando il bicchiere ancora mezzo pieno sul tavolo, dandosi il tempo di afferrare solo le chiavi della moto. Quando era arrivato lì sotto aveva pensato che avrebbe dovuto aspettare tutta la notte -e lo avrebbe fatto!-, ma così non era stato, forse perché quella era pur sempre una notte magica.

"Ti ho chiamato, ma non mi hai risposto. Volevo...volevo augurarti Buon Natale!"

Spiegò, mangiandosi qualche parola, con gli occhi fissi in quelli dell'altro.

Claudio sentì il proprio cuore stringersi e la colpa assalirlo al pensiero che Domenico si fosse ridotto in quelle condizioni -era palesemente ubriaco, oltre che triste- soltanto per causa sua: ancora una volta gli aveva fatto del male.

"Buon...Buon Natale anche a te."

Mormorò in risposta, spostando lo sguardo per non entrare di nuovo nel bosco. Prima che potesse aggiungere altro, anche se non sapeva esattamente cosa dire, Domenico fece un piccolo cenno d'assenso con il capo, e riprese a parlare.

"Allora adesso vado... buonanotte!"

Fece per allontanarsi, come un robot che aveva portato a termine il compito per il quale era stato progettato -era contento così, tutto ciò che desiderava era quello e l'aveva ottenuto, non voleva disturbare ulteriormente Claudio-, ma i suoi passi erano molto incerti e rischiò di inciampare.

Claudio, con uno scatto istintivo, lo raggiunse e afferrò appena in tempo, cingendolo con le braccia.

"Aspetta, fermo, ti accompagno! Ma quanto hai bevuto?"

Domandò, preoccupato.

Domenico liberò una risatina -era così bello sentire di nuovo l'abbraccio di Claudio!- e sollevò una mano a mimare una piccola quantità con le dita.

"Poco! Poca birra, poco vino e poca grappa!"

Spiegò, con un sorriso allegro stampato sulle guance arrossate.

Claudio sospirò, non gli piaceva quel miscuglio che l'altro aveva fatto ed era certo che a breve si sarebbe sentito male. 'Ed è solo colpa tua!', gli sottolineò la voce della propria coscienza.

"E come sei venuto qui? Chi ti ha portato?"

Chiese, guardandosi intorno alla ricerca di Sara o di Enzo all'interno delle auto che riusciva a raggiungere con lo sguardo, anche se in piena notte era piuttosto difficile.

Domenico ridacchiò di nuovo, come se l'altro avesse detto qualcosa di estremamente divertente, ma in realtà era solo contento di sapere che anche a distanza di anni Claudio si preoccupasse ancora così tanto per lui.

"Nessuno, a casa dormono tutti! Sono venuto in moto!"

Rispose, come se fosse stato ovvio, indicando la propria moto con un vago cenno della mano.

Claudio, seguendo con gli occhi quell'indicazione, avvertì una fitta di paura allo stomaco mentre nella sua testa venivano proiettate immagini di incidenti stradali che avevano Domenico come unica vittima. Se gli fosse successo qualcosa del genere non se lo sarebbe mai perdonato.

"Tu...tu sei venuto qui da solo, a quest'ora e ubriaco per giunta? Ma cosa ti è saltato in mente? È pericolosissimo!"

Esclamò, concitato. Domenico sbuffò e scacciò quell'obiezione agitando goffamente una mano.

"Non c'è nessuno a Roma adesso! E poi so guidare! Dai, fammi andare, così puoi dormire...che io ti conosco, lo so che non dormi!"

Farfugliò, cercando di liberarsi dalla presa, ma Claudio lo trattenne a sé con maggiore insistenza.

"No, tu adesso sali sopra con me. Resti a dormire qui e poi domani torni a casa."

Affermò, con decisione. Non era la soluzione ottimale per se stesso -non aveva il coraggio di parlare al telefono con Domenico, figurarsi passare tutta la notte nella stessa casa!-, ma era la migliore per Domenico: certo, avrebbe potuto riaccompagnarlo personalmente in auto, ma l'altro si sarebbe potuto sentire male lungo il tragitto a causa degli scossoni dovuti alle buche; per lo stesso motivo non poteva chiamargli un taxi -ammesso che ce ne fossero di disponibili la notte di Natale-, né contattare Sara per venire a prenderlo. In questo modo, invece, avrebbe potuto tenerlo d'occhio.

Domenico sgranò gli occhi per un istante, sorpreso, ma poi sorrise e annuì. Non aveva un gran bisogno di essere convinto, Claudio gli mancava così tanto che poter passare tutto quel tempo con lui era il più bel regalo di Natale che potesse ricevere. E poi, così, avrebbe anche potuto accertarsi che dormisse.

"Va bene!"

Esclamò, mantenendo il sorriso. Claudio, allora, lo portò dentro e lo condusse nell'ascensore che, per fortuna, era abbastanza grande da alloggiare una panchetta su cui fece accomodare Domenico, mentre lui rimase in piedi, giusto lì accanto.

Domenico aveva fatto scorrere rapidamente lo sguardo, seppur un po' appannato, nel vano rivestito da pannelli bronzei intarsiati e con un grande specchio sulla parete di fondo, ma poi l'aveva posato su Claudio, che gli appariva più nitido che mai, senza vergogna. Ora che poteva, voleva riempirsi gli occhi di lui, e dunque si soffermò sui suoi capelli senza neanche un ciuffetto fuori posto in cui avrebbe voluto immergere le mani per arruffarli, sulla barba curata di cui tracciò il profilo con lo sguardo mentre immaginava di poterlo fare con le labbra, ed infine sugli occhi blu che gli parvero tanto stanchi quanto profondi, come un cielo tormentato da una tempesta, e che avrebbe tanto voluto incrociare con i propri per farsi carico di quei nuvoloni, ma continuavano a sfuggirgli.

Claudio avvertiva distintamente quello sguardo su di sé che lo accarezzava morbido e caldo, come un raggio di Sole: era una sensazione che non aveva dimenticato, ma solo sopito, e che solo in quel momento realizzò quanto gli fosse mancata. Non doveva farci l'abitudine, però. Non doveva.

"Perché mi guardi?"

Domandò, piano. Domenico scrollò appena le spalle, sorridendo dolcemente.

"Perché sei bellissimo."

Rispose con naturalezza, aiutato da tutti gli alcolici che aveva bevuto.

Claudio si sentì avvampare come un adolescente alla prima cotta -anzi, fu esattamente come tornare indietro di quindici anni-  e prima che potesse controllarlo, un piccolo sorriso timido gli fece capolino sulle labbra.

"E tu sei ubriaco."

Replicò, con una leggera nota di provocazione, nel tentativo di ridimensionare quel complimento. In verità, se c'era qualcuno di bellissimo, quello era Domenico, ma non gliel'avrebbe detto ad alta voce. Non poteva e non voleva illuderlo.

Domenico arricciò il naso, contrariato. Non poteva permettere che l'altro si sminuisse così!

"Te lo direi anche da sobrio! Te lo direi sempre, perché lo sei!"

Esclamò, accorato. Erano trascorsi dieci anni da quando si erano lasciati, anni in cui erano cresciuti e cambiati, eppure Claudio restava quanto di più bello su cui avesse mai posato gli occhi.

Claudio liberò un sospiro mesto che gli lasciò un sapore amaro in bocca, quello del rimorso. 'No, Domenico, ti sbagli, non sono bellissimo come dici tu. Se lo fossi, non t'avrei fatto così male.', replicò, ma solo nella propria mente. Non voleva affrontare di nuovo quel discorso, anche perché sarebbe servito a poco con Domenico in quelle condizioni.

"Allora ammetti di essere ubriaco."

Ribatté invece, sollevando un sopracciglio, sforzandosi di mostrarsi giocoso.

Domenico sbuffò sonoramente, rendendosi conto di essersi dato la zappa sui piedi. Forse, di ciò, si poteva incolpare l'alcool.

"Sei proprio un avvocato."

Borbottò, incrociando le braccia e mettendo su un'espressione corrucciata, con tanto di sopracciglia aggrottate e labbra leggermente sporgenti.

Claudio non poté fare a meno di ridacchiare dinanzi a quel tenero spettacolo, dimenticando per un attimo tutto il resto, e proprio in quell'istante l'ascensore spalancò le sue porte a destinazione.

"Dai, andiamo."

Disse con dolcezza, aiutando l'altro ad alzarsi.

Domenico si aggrappò a lui con tutto se stesso e si rimise in piedi, ma a causa di un improvviso giramento di testa gli finì addosso senza volerlo, rischiando di travolgerlo e di far finire entrambi a terra. Claudio lo afferrò saldamente, fermo e sicuro nella propria posizione come uno scoglio in mezzo alla tempesta, e gli sorrise, rassicurante.

"Piano piano, dai..."

Mormorò, con dolcezza. Domenico abbozzò un sorriso timido, ma caldo, e riacquistò un po' di equilibrio, rimettendosi dritto.

Uscirono lentamente dall'ascensore e attraversarono il pianerottolo senza fretta, Claudio offriva sicurezza ai passi incerti di Domenico e Domenico si lasciava guidare da Claudio senza paura, fino ad arrivare in casa, più precisamente nel soggiorno.

"Eccoci qua, adesso siediti, eh..."

Disse Claudio, aiutando l'altro ad accomodarsi sul divano.

Domenico si lasciò andare contro lo schienale con un piccolo sbuffo, ma era restio a mollare la mano di Claudio, che aveva preso mentre camminavano e che ancora teneva stretta. Era così bello poter sentire la sua pelle così vicina alla propria.

Claudio abbassò lo sguardo verso le loro mani intrecciate -era stato naturale, per lui, offrire la mano a Domenico mentre lo teneva stretto a sé, in modo da tenerlo ancora più vicino-, che sembravano essere state create per incastrarsi, ma non potevano restare così, anche se gli sarebbe piaciuto, anche se gli mancava da impazzire quella sensazione di vicinanza, così semplice eppure così intima: aveva perso quel diritto tanti anni prima. Si schiarì la voce.

"Senti, vado a prepararti una camomilla, ti va? Avrai preso tanto freddo venendo qui, ti ci vuole qualcosa di caldo..."

Propose, con voce morbida. Era, quella, in parte una scusa per sciogliere quel nodo di pelle, ma era anche e soprattutto una sincera preoccupazione, perché non voleva che l'altro si ammalasse.

Domenico annuì, piano, e si passò la lingua sulle labbra prima di rispondere, sentendole particolarmente secche.

"Va bene, grazie..."

Mormorò, aprendo lentamente le dita per mollare la presa. Aveva colto l'antifona, anche se era ubriaco: non dubitava che Claudio ci tenesse davvero a farlo riscaldare un po', ma lo conosceva abbastanza da sapere che quel contatto, seppur relativamente breve, lo aveva messo a disagio.

Claudio abbozzò un sorriso e ora che aveva le mani libere -avvertiva distintamente una leggera sensazione di freddo a quella che fino ad un attimo prima era stata in compagnia della sua metà- poté prendere la coperta che teneva poggiata sullo schienale del divano e stenderla su Domenico, in modo che stesse al caldo.

"Non devi ringraziarmi, lo sai."

Sussurrò guardandolo negli occhi, prima di allontanarsi in cucina.

Domenico si ritrovò a sorridere, malinconico, per quella risposta che sembrava provenire da un passato lontano eppure vicino al tempo stesso, e si strinse un po' di più in quella coperta dalla fantasia scozzese che non aveva mai visto prima, ma che aveva un profumo familiare: come quello della cannella, ma più buono.

Prese a guardarsi intorno -anche se quel salone, come il resto dell'appartamento, non gli era del tutto nuovo, dal momento che era già stato lì qualche volta per questioni di lavoro-, facendo vagare lo sguardo: le pareti erano bianche ed ospitavano dei quadri di varie dimensioni dai soggetti astratti, ma nemmeno una fotografia; su un lato esse si interrompevano per dare spazio ad un balcone con un'ampia vetrata dal quale, vista l'altezza in cui si trovava, era possibile ammirare Roma in tutto il suo splendore, mentre su un altro erano coperte da un'immensa libreria dallo stile minimale e moderno. Proprio davanti a sé, poi, c'era una televisione dallo schermo grande e sottile che al momento trasmetteva ciò che sembrava un documentario -non si soffermò molto a guardarlo- direttamente appeso alla parete anche se al di sotto vi correva un lungo mobiletto con dei cassetti sopra al quale erano disposti piccoli soprammobili, e lui era seduto su un divano grigio, il cui schienale aveva una forma leggermente ondulata, con davanti a sé un tavolino.

In un certo senso, quella stanza, era simile al salottino del vecchio appartamento di Claudio, che poi era diventato il loro, ma al tempo stesso diversa: al di là delle dimensioni -probabilmente il loro vecchio salotto era grande la metà, se non meno, di questo-, presentava le stesse tipologie di oggetti d'arredo, seppur con piccole differenze nella disposizione, ma nella loro versione migliorata, più elegante, più curata. Era un po' come se Claudio, da quando si erano lasciati, fosse riuscito a migliorare la sua vita e quella ne fosse la dimostrazione materiale. Non poteva che fargli piacere, perché Claudio meritava di essere circondato solo da cose belle, e si ritrovò a sorridere, orgoglioso di lui.

Osservando per bene la stanza, però, si accorse anche che lì il Natale non sembrava essere arrivato, infatti non c'era traccia di decorazioni di alcun tipo -nemmeno una lucina!- e questo non andava affatto bene, bisognava rimediare!

Claudio, in piedi davanti al ripiano cottura della propria cucina, si strinse le braccia intorno al corpo, nella vana speranza di scaldarsi un po' -casa sua era molto grande, ma anche molto fredda, e lui non aveva acceso l'impianto di riscaldamento quando era rientrato- mentre osservava il bollitore pieno d'acqua sul fornello. Sul viso gli comparve un sorriso mesto, malinconico, mentre alla memoria ritornavano le immagini e le sensazioni dei Natali trascorsi con Domenico, certamente i più belli della sua vita: ricordava le tavolate di cibo buonissimo che sembravano immense ed infinite, il presepe con i giochi d'acqua e i pastorelli meccanici, i giochi tradizionali a cui lui non vinceva mai ma non se ne faceva un cruccio perché, come gli diceva sempre Rosa, "Sfortunato al gioco, fortunato in amore!" -e lui, in amore, era stato fortunatissimo-, in poche parole tutte quelle cose che contribuivano a tessere un calore di cui, con un po' di sforzo, riusciva a recuperare la fiammella sbiadita in un angolo del proprio cuore.

Ecco, era così che si doveva trascorrere il Natale: in una casa calda, mangiando cibo buono ed in compagnia degli affetti più cari, in cui erano compresi quei parenti che, con un processo che era stato molto più rapido e indolore di quanto lui e Domenico avessero immaginato, avevano imparato a conoscere ed accettare la loro relazione. Lui era stato tanto stupido da lasciarsi scappare tutto questo dalle mani, ma se fosse stata solo questa l'unica conseguenza delle proprie azioni se ne sarebbe fatta una ragione, anche perché se lo meritava; il problema era che, adesso, anche Domenico se ne stava privando, ed infatti era seduto nella stanza accanto, per di più ubriaco, in una casa fredda, con una misera camomilla come unica portata ed in compagnia di una persona che non aveva saputo amarlo nel modo in cui meritava, invece di godersi ciò che aveva a casa. Per colpa sua, Domenico si stava rovinando il Natale e questo non poteva perdonarselo, anche perché non c'era un modo per rimediare.

Fu il fischio del bollitore a distoglierlo dai pensieri e riportarlo alla realtà, in un modo così brusco che quasi lo fece sobbalzare. Versò l'acqua calda nelle due tazze che aveva precedentemente sistemato su un vassoio e tornò in soggiorno -non prima di essere passato in corridoio per attivare il riscaldamento dall'apposita pulsantiera-, trovando Domenico esattamente dove l'aveva lasciato: gli si avvicinò, posò il vassoio sul tavolino di fronte al divano, e gli porse una tazza fumante.

"Attento, scotta. Ce la fai a bere da solo?"

Domenico annuì, allungando una mano fuori dalla coperta per afferrare l'oggetto e poi, aiutandosi con l'altra, se lo portò alla bocca. Subito venne investito da un profumo dolce e morbido, e al tempo stesso avvertì un piacevole calore accarezzargli le labbra e scivolare pian piano dentro di sé, scacciando il freddo man mano che avanzava. Non era soltanto merito della camomilla, ne era certo.

Claudio si era seduto accanto a lui ed osservava con attenzione ogni suo movimento -aveva lasciato sul tavolino la tazza che aveva preparato per sé, ignorandola del tutto-, pronto ad aiutarlo se, ad esempio, gli fosse tremata un po' la mano a causa dell'ubriachezza. Non era solo per questo che lo guardava, ma anche perché non riusciva a staccare gli occhi dall'altro: era già successo altre volte che Domenico si trovasse in quella stessa stanza -anche se solamente per questioni di lavoro urgenti e solo per il tempo necessario a discuterne-, ed era già successo che si incrociassero, proprio come era accaduto due giorni prima, ma questa volta era diverso. Questa volta aveva l'opportunità di riempirsi gli occhi di lui, di accarezzarne con lo sguardo i capelli neri con qualche linea di grigio qua e là, arruffati come sempre, le guance coperte da una corta barba di cui, senza sforzarsi molto, poteva richiamare la ruvidezza al tatto, e le labbra che in quel momento accoglievano il bordo in ceramica della tazza. Si ritrovò immediatamente a pensare che avrebbe voluto essere al posto di quella tazza, per quanto si rendesse conto di quanto quel pensiero fosse sciocco e soprattutto inappropriato, ma era più forte di lui: non riusciva a smettere di domandarsi se quelle labbra fossero ancora morbide come le ricordava o se, invece, con il tempo fossero in qualche modo cambiate.

Domenico si portò la tazza in grembo e voltò leggermente il capo verso di lui, accennando un sorriso.

"Ho notato che non hai preparato l'albero ed il presepe, quest'anno..."

Claudio spostò immediatamente lo sguardo, come se si sentisse colto in flagrante, ed afferrò rapidamente la tazza lasciata sul tavolino.

"Non ho avuto tempo."

Abbozzò in risposta, nascondendo il viso in un sorso. Aveva appena fatto una cosa che, solitamente, non riusciva a fare e cioè mentirgli, motivo per il quale non era estremamente convinto della riuscita della propria impresa. Di tempo, infatti, se ne sarebbe potuto ricavare a sufficienza per addobbare l'intera casa senza lasciare nemmeno uno spazietto esente dallo spirito natalizio, se avesse voluto, ma la verità era che erano ormai dieci anni che non festeggiava più il Natale, in nessun modo possibile. Era una festa che, ormai, non aveva più niente di felice per lui.

Domenico, nonostante fosse ubriaco, non ebbe difficoltà a capire che Claudio non fosse stato sincero. Era anche possibile immaginare che l'altro, essendo uno degli avvocati più importanti di Roma, non avesse avuto il tempo di metter su quelle decorazioni per davvero, ma era stato tradito dal suo linguaggio del corpo che lui, nonostante tutti quegli anni passati separati, sapeva ancora interpretare alla perfezione: privarsi di qualcosa di bello era solo un ulteriore modo con il quale Claudio, terribile giudice e carceriere di se stesso, trascorreva la pena a cui si era sentenziato per espiare una colpa che, in realtà, non aveva.

"Ce li hai ancora quelli che ti ho regalato io?"

Domandò, dopo essersi umettato le labbra. Claudio annuì, sospirando.

"Sì, certo..."

Quell'albero e quel presepe, seppur non vedevano la luce del Sole da tutto quel tempo, portavano con loro tanti ricordi bellissimi e in un certo senso buttarli via sarebbe stato come cancellare anche quei ricordi e lui non ne aveva il coraggio. Voleva conservarli per sempre, invece, perché erano l'ultima briciola di felicità che gli era rimasta.

"...ma no, non possiamo allestirli adesso."

Continuò con voce ferma, intuendo i pensieri dell'altro.

Domenico a stento lo ascoltò, quel divieto gli entrò da un orecchio e gli uscì dall'altro, e liberò un sonoro sbuffo, alzandosi in piedi.

"Ma sì che possiamo! Andiamo a prenderli, dai!"

Esclamò con deciso entusiasmo e fece per dirigersi verso lo sgabuzzino -ricordava vi si accedesse dalla cucina-, ma dopo appena un paio di passi incerti Claudio lo bloccò e lo fece tornare a sedere.

"No, non possiamo! È tardi, tardissimo anzi, e tu dovresti dormire!"

Ribatté, guardandolo negli occhi con preoccupazione. Nelle sue condizioni, era meglio che riposasse il più possibile.

Domenico mugolò, contrariato, e fissò i propri occhi nei suoi.

"E tu non puoi passare il Natale così! Siamo ancora in tempo, ti prego!"

Gridò, con una voce che all'improvviso si era fatta carica di dolore, dal quale era straziata, e con uno sguardo ferito, implorante.

Claudio non riuscì a distogliere il proprio sguardo dal suo, quella supplica lo aveva paralizzato sul posto. Non sapeva dire di no a quegli occhi, non aveva mai imparato a farlo e mai aveva voluto imparare, e adesso che sembravano liquidi a causa dell'alcool e della stanchezza gli era ancora più difficile resistere. Voleva davvero che Domenico riposasse, però, vista l'ora tarda, quindi dovevano trovare un compromesso.

"Facciamo così, prepariamo solo il presepe, va bene? E poi andiamo a dormire, me lo prometti?"

Propose, muovendo istintivamente una mano a fargli una carezza sul braccio.

Domenico subito si sentì più calmo, un po' grazie a quegli occhi sinceri ed un po' grazie a quel tocco gentile che quasi gli sembrava di star sognando, e annuì piano.
Claudio lasciò andare un sospiro sollevato e accennò un sorriso.

"Aspettami qui che vado a prenderlo, ci metto un attimo."

Si separò da lui cercando di non essere troppo brusco e si allontanò, ma solo dopo essersi accertato che l'altro non lo seguisse. Non fece fatica a trovare ciò che stava cercando, tutto in quella specie di piccolo deposito era collocato meticolosamente, e come promesso tornò in soggiorno dopo qualche attimo, reggendo uno scatolo più grosso, quello del presepe, ed uno più piccolo, che conteneva i pastori. Sperò, da un lato, che Domenico si fosse addormentato -non sarebbe stato troppo strano, dal momento che aveva bevuto-, ma fu felice di vederlo voltarsi verso di lui, con le labbra curvate in un piccolo sorriso.

"Eccomi qua!"

Disse sorridendogli di rimando, mentre gli si avvicinava. Domenico lo seguiva con lo sguardo e quando gli fu abbastanza vicino si schiarì la voce per cercare di mandare giù il groppo che gli si era formato in gola.

"Scusami per averti urlato contro, prima. Non avrei dovuto farlo..."

Mormorò, guardandolo con sincero e profondo dispiacere. Non aveva mai alzato la voce con lui, mai, nemmeno le rarissime volte in cui avevano litigato e nemmeno quando l'altro aveva deciso di lasciarlo, perché Claudio ne aveva già sentite abbastanza di urla cattive in vita sua e lui non voleva nel modo più assoluto che se ne aggiungessero altre. Per questo, adesso, si sentiva tremendamente male e gli veniva da piangere.

Claudio fece un piccolo sospiro, intenerito, e poi gli sorrise rassicurante: anche se erano passati anni il cuore gentile di Domenico non era cambiato e continuava a preoccuparsi per lui -più di quanto lui sentisse di meritare-, anche quando non ce n'era motivo come in questo caso. Aveva perfettamente capito, infatti, che la sua non era stata una reazione dettata dalla rabbia, ma dal desiderio di prendersi cura di lui e di fargli vivere dei bei momenti, come aveva fatto fin dal primo momento in cui l'aveva visto.

"Hey, non ti preoccupare, è tutto a posto. E poi hai ragione, il Natale richiede di essere festeggiato, quindi..."

Si avvicinò al basso mobile che correva lungo la parete e lo indicò con un cenno del capo.

"...ti va bene se lo mettiamo qui?"

Propose, e Domenico annuì, tirando su col naso, senza realmente prestare attenzione a dove Claudio indicasse.

"Sì..."

Mugolò, abbassando lo sguardo. Claudio posò rapidamente le scatole sul pavimento e attraversò in pochi passi la distanza che c'era tra loro.

"Ti prego, non fare così."

Si sedette accanto a lui, senza lasciare nemmeno un po' di spazio tra loro, e prese la sua mano nella propria, stringendola quel tanto che bastava a fargli capire che non era arrabbiato con lui. Avrebbe voluto fare molto di più, avrebbe voluto accarezzargli il viso per asciugare le piccole lacrime che lo stavano rigando, avrebbe voluto abbracciarlo e non lasciarlo andare mai, avrebbe voluto baciarlo fino a perdere il fiato, ma non aveva alcun diritto di farlo: quelle carezze, quegli abbracci, quei baci, sarebbero stati proiettili.

Domenico rimase sospeso in un respiro quando avvertì quel contatto caldo e gentile, come a voler bloccare il tempo in quell'istante e trasformarlo in eternità. Alzò lo sguardo, incredulo, temendo di scoprire che fosse l'ubriachezza a farglielo immaginare, a farglielo sognare, e spostò gli occhi lentamente per cercare di ritardare il momento in cui avrebbe scoperto la verità. Quando, però, posò lo sguardo sulle loro mani intrecciate, ed in particolare sulla propria che sembrava scomparire in quella di Claudio, riprese a respirare con un sospiro affannato. Increspò le labbra in un sorriso un po' tremolante per lo sforzo di trattenere le lacrime, ma sincero.

Claudio tracciò un piccolo movimento sul dorso della sua mano, in una lenta carezza che sperava potesse dargli conforto.

"Tu non sei come mio padre, non pensarlo mai."

Affermò con voce chiara, sicura, e gli occhi fissi nei suoi. Era certo che fosse quello il paragone scattato nella mente dell'altro, che fosse quella la sua paura, e voleva mettere a tacere quella voce prima che cominciasse a logorarlo nel pensiero.

Domenico deglutì, con una certa fatica, e aprì poco la bocca per parlare.

"Ma ti ho urlato contro come faceva lui..."

Mormorò, con gli occhi ancora bassi. Claudio scosse il capo, accarezzandogli di nuovo il dorso della mano.

"No, non come faceva lui. Tu non l'hai fatto con odio o con rabbia, ma solo perché vuoi farmi festeggiare il Natale. Figurati, lui pensa che io non sia proprio degno di farlo."

Ribatté con tono leggero, sfumato di ironia, per poi rivolgergli un caldo sorriso. Domenico cambiò rapidamente espressione e si accigliò, irritato al solo pensiero.

"Pat't è n'omm 'e nient."

Borbottò adirato, quasi ringhiando, e Claudio annuì, ridacchiando.

"Puoi dirlo forte!"

Esclamò.

"E tu certamente non sei come lui, no?"

Aggiunse, con più dolcezza. Solo allora Domenico liberò un sospiro, rilassandosi un po' da quella tensione che in un attimo aveva accumulato senza accorgersene, e trovò il coraggio di sollevare lo sguardo, incrociando quello di Claudio. Gli sorrise, scuotendo appena il capo.

"No..."

Rispose, a bassa voce. Claudio gli sorrise di rimando e strinse un po' di più la sua mano.

"Oh, bene! Ora, appurato questo..."

Si sporse a prendere con la mano libera, e senza lasciare quella di Domenico, la tazza che l'altro aveva posato sul tavolino e gliela porse.

"...finisci questa, così ti rilassi un po' e poi mi aiuti a fare il presepe."

Disse, allegro. Domenico annuì con entusiasmo e, con la mano libera, accettò la tazza ancora abbastanza calda, cosicché Claudio poté recuperare la propria.

Entrambi cominciarono a sorseggiare la camomilla che vi era contenuta e sorso dopo sorso si creò intorno a loro un'atmosfera di pace, di tranquillità, che sembrava riportare indietro le lancette dell'orologio e le pagine dei calendari, fino a quegli anni in cui erano stati felici. Sembravano di nuovo quei due ragazzi, con le rispettive mani che non volevano proprio saperne di lasciare andare l'altra.

Come il passato era tornato a far loro visita, forse per effetto della magia del Natale, così nell'esatto istante in cui in quelle tazze non ci fu più nemmeno una goccia di liquido dorato il presente tornò prepotentemente nelle loro vite, ricordando che non ci sarebbe stato un futuro. Claudio fu il primo ad udirne il monito e, schiarendosi la gola per dissimulare l'imbarazzo, sciolse la presa sulla mano di Domenico.

"Il presepe..."

Mormorò, accennando appena con il capo agli scatoloni.

Domenico chiuse istintivamente la mano a pugno, così fredda ora che non aveva più la sua metà a scaldarla, e liberò un sospiro. Quella voce era arrivata anche a lui, e per quanto non gli piacesse non poteva far altro che ascoltarla, soprattutto se l'altro sembrava così deciso a darle ascolto.

"Certo, certo. Meglio darci una mossa se non vogliamo arrivare a Pasqua."

Replicò con una punta di divertimento e le labbra sollevate in un sorrisetto sghembo. Claudio ridacchiò e si alzò per primo.

"Sarebbe piuttosto anacronistico, in effetti. Aspetta solo un attimo..."

Disse, accompagnandosi con un cenno della mano. Domenico rimase seduto, anche perché era certo che senza il suo aiuto non sarebbe riuscito ad alzarsi, mentre liberava un piccolo sbuffo divertito per la sua risposta. Claudio, intanto, mise, in modo da stare più comodi, due cuscini a terra in corrispondenza del punto del ripiano su cui sistemò la struttura del presepe dopo averla liberata dallo scatolo. Si riavvicinò poi a Domenico e lo aiutò a sedersi lì, su uno dei cuscini, mentre lui prese posto su quello accanto. Domenico, allora, aprì la coperta con cui si era cinto le spalle e ne distese una metà su quelle di Claudio, in modo che non prendesse freddo.

"Così stai caldo anche tu."

Mormorò, mentre gliela sistemava per bene sulla schiena. Claudio lo guardò negli occhi e gli sorrise, dolcemente.

"Grazie."

Domenico curvò appena le labbra, timido, ed emise un piccolo mugolio.

"Lo sai."

Erano vicini, molto vicini, tanto che i loro fianchi si toccavano, e solo la scatola degli abitanti del presepe -posizionata a terra, un po' più avanti rispetto ai cuscini- era ammessa nel loro spazio. Da essa, una ad una, cominciarono ad estrarre tutte le statuine, liberandole dalla carta di giornale che le avvolgeva per ripararle dagli urti, e a poco a poco il presepe prese forma davanti ai loro occhi: c'erano innanzitutto Maria e Giuseppe, con il loro sguardo pieno d'amore rivolto ad una culla per il momento vuota, e appena dietro di loro il bue e l'asinello dagli occhi buoni e mansueti che, a loro volta, aspettavano il santo bambinello. Giusto al di là di quella scena sacra c'era la pescivendola con il suo bancone di pesci di ogni tipo, dalle sardine alle anguille, e poco distante c'era il panettiere con in mano un vassoio di pagnotte appena sfornate e gli occhi fissi in quelli di lei, entrambi protagonisti di un amore muto e che viveva per una manciata di giorni all'anno ma che, almeno, viveva. C'era poi il pizzaiolo, in una piccola bottega, accanto al suo fidato forno, con lo sguardo fiero di chi aveva appena preparato una squisita bontà, c'era il pastore con tutte le sue pecorelle dal manto morbido su cui Claudio fece scorrere il pollice in una piccola carezza ed infine c'era l'immancabile Benino, disteso su un fianco, che sognava tutto il resto.

A dire il vero, era soprattutto Claudio a sistemare le statuette, Domenico si era limitato a passargliene un paio, poi aveva appoggiato il capo sulla spalla dell'altro e si era messo a guardare il presepe godendosi il calore del corpo di Claudio che lo riparava dal freddo più della coperta che stavano condividendo, troppo ubriaco per interrogarsi su quando quel momento sarebbe finito, e perciò era sereno.

Claudio, naturalmente, non aveva nemmeno lontanamente pensato a dirgli di spostarsi, un po' perché sapeva che era ubriaco e stanco e un po' perché gli piaceva sentirlo così vicino, era una sensazione che gli mancava ogni giorno e voleva farla propria ancora per un po', pur sapendo perfettamente che da lì a pochi minuti avrebbe dovuto rinunciarvi di nuovo e questa volta per sempre. Con un sospiro tirò fuori uno degli ultimi involucri di giornale che era rimasto nella scatola, lo aprì delicatamente e accennò un sorriso quando si rese conto di cosa, o meglio, chi, teneva tra le mani, e con un gesto gentile avvicinò la statuina a Domenico, ricordando quella loro piccola tradizione.

"Questo devi proprio sistemarlo tu."

Mormorò, dolcemente.

Domenico la prese, con la mano che un po' gli tremava, e sorrise quando, posandovi sopra gli occhi, riuscì a mettere a fuoco il soggetto che rappresentava: era l'angelo, con la sua tunica azzurra, il nastro dorato con scritto GLORIA a chiare lettere, le ali bianche su cui fece passare l'indice, sentendone le piume in rilievo, e lo sguardo estatico, pieno d'amore.

"Mi sa proprio di sì."

Ribatté, per poi separarsi dall'altro quel tanto che bastava ad appendere l'angelo al suo gancio, proprio sopra la grotta. Ecco, in quell'istante gli sembrò di essere tornato indietro di anni, a quando erano felici e addobbavano insieme il loro piccolo appartamento per le feste. Poggiò nuovamente il capo sulla spalla di Claudio e sospirò, godendosi l'illusione ancora per qualche istante.

Claudio, naturalmente, lo lasciò fare e accennò un sorriso al ricordo che gli era appena tornato in mente, più precisamente ad un Domenico bambino, tra i sei e i dieci anni, vestito con una lunga tunica azzurra, le bianche ali piumate sulle spalle e una stellina argentata, di quelle adesive, incollata al centro della fronte, appena sfiorata dai capelli neri un po' ribelli.

"Com'è che facevi?"

Domandò, divertito, riferendosi al suo ruolo da angioletto nelle recite di Natale di cui, ogni volta che scendevano a Napoli dalla famiglia Liguori per le festività, riguardavano i video. Era uno dei suoi momenti preferiti!

Domenico fece una risatina, scrollando appena le spalle.

"Sinceramente, in questo momento non me lo ricordo proprio..."

Rispose, inciampando un po' nelle parole. L'alcool, infatti, rendeva molto difficile recuperare dalla memoria un ricordo così lontano, che gli appariva piuttosto sbiadito.

"Ah, me lo ricordo io!"

Replicò Claudio, preso da un improvviso entusiasmo.

"Maria, tu non mi conosci, ma non devi avere paura di me. Mi chiamo Gabriele, sono un angelo del Signore, e sono qui per portarti un importante messaggio!"

Aggiunse, dandosi un tono pomposo, estremamente formale, ma soprattutto alzando un po' la voce in modo da renderla più acuta per imitare quella di un bambino.

Domenico arricciò il naso, contrariato, e si separò da lui per guardarlo.

"Io non parlavo così!"

Esclamò, piccato, e Claudio ridacchiò, scuotendo il capo. Subito dopo tornò a sorridergli.

"Un po' sì, credimi, poi sei cresciuto e hai cambiato voce, come succede sempre."

Fece una brevissima pausa.

"Eri un attore nato, comunque, non capisco perché non ti abbiano dato un Oscar!"

Aggiunse con un tono un po' di scherno, ma comunque affettuoso.

Domenico sbuffò, ma solo per scherzare con lui, non era davvero risentito, anzi! Anche quei commenti, che in fondo erano pieni d'affetto, lo riportavano al passato.

"Non la smetterai mai di prendermi in giro per questa cosa, vero?"

Domandò, fingendosi esasperato. Claudio scosse il capo, deciso, accompagnandosi con una perfetta faccia da schiaffi.

"Mh, no, credo proprio di no!"

Una scintilla attraversò gli occhi di entrambi e scoppiarono nel fuoco di una risata che avvolse tutta la stanza con il suo calore: la felicità era tornata e poco importava se, forse, il suono di quelle voci felici andava a disturbare la quiete di quella notte santa, perché per loro, in quel momento, non c'era nulla di più sacro. Tuttavia, non bastò la loro intensità a far durare le fiamme per sempre ed esse a poco a poco si spensero, facendo precipitare nuovamente la stanza nel silenzio.

Claudio sospirò e poi si schiarì la voce, posando un leggero tocco sulla spalla di Domenico.

"Dai, andiamo a dormire..."

Propose, con delicatezza. Domenico scosse il capo e gli fece cenno di attendere, sollevando una mano.

"Aspetta, dimentichi la statuetta più importante!"

Gli fece notare, sorridente. A colpo sicuro, poi, raccolse l'ultimo mucchietto di carta di giornale e appena l'aprì, si ritrovò faccia a faccia con un bambino dall'espressione serena, i boccoli castani che ricadevano morbidamente sulla fronte e le mani aperte in un gesto antico di preghiera o, anche, di accoglienza. Mantenendo il sorriso, gli diede un piccolo bacio sulla fronte e poi lo passò a Claudio.

"Tocca a te, sei tu il più giovane."

Claudio accettò la statuina, ma non la posò subito nella grotta. Si prese qualche istante, prima, per osservarla con un'espressione dubbiosa.

"Sei proprio sicuro che debba farlo io?"

Il suo timore era di non essere degno di depositare nella mangiatoia Gesù bambino, simbolo di purezza per eccellenza, considerando quanto aveva fatto soffrire Domenico. Non che ci credesse effettivamente a Dio e a tutto il resto, non aveva cambiato opinione nel corso degli anni, ma l'uomo accanto a lui ci credeva eccome e non voleva certo rovinargli il momento.

Domenico, in risposta, annuì con convinzione e con un bel sorriso sul volto: Claudio si incolpava e di conseguenza si puniva troppo, non riusciva a vedersi per ciò che era, mentre lui vedeva chiaramente quanto buono fosse il suo cuore e quanto gentile il suo animo e non c'era ferita che potesse offuscargli il giudizio. Per questo motivo era assolutamente sicuro di affidargli ancora una volta quel compito e anzi sperava che in qualche modo potesse aiutarlo a capire di non essere così corrotto come credeva.

"Al cento per cento! Avanti, su, non facciamo tardare ancora questa nascita!"

Esclamò, indicando con un cenno della mano il presepe. Claudio sospirò e fece per avvicinare la statuina alla grotta senza posarvi un bacio, come invece aveva sempre fatto, perché temeva di corromperla, ma Domenico lo fermò trattenendogli un braccio.

"Aspetta, dagli un bacetto, prima! È tradizione, si fa così!"

Gli fece notare pacatamente, incoraggiante. Claudio scosse il capo, sorridendo mestamente.

"Non credo che Gesù bambino voglia un mio bacio, sai? Temo sarebbe peggio di quello di Giuda."

Replicò, con voce carica di dolore e amarezza. Domenico scacciò quell'obiezione con un verso contrariato, stringendosi meglio accanto a lui.

"Fidati, invece, ti dico che lo vuole! Io, al suo posto, lo vorrei eccome..."

Rispose, sfacciatamente onesto -merito degli alcolici-, sperando in cuor proprio che l'altro cogliesse l'antifona.

Claudio si voltò ed incrociò il suo sguardo di bosco e per un istante e fu davvero tentato di accontentarlo, ma fece appello a tutto il proprio autocontrollo e non gli si avvicinò, preferendo tenere distanti il bosco ed il mare che in effetti non erano fatti per stare vicini. Si limitò a poggiare le labbra solo sulla statuina e la posò nell'apposito spazio. Per un istante gli parve di essere tornato ragazzo, in quell'appartamentino decorato a festa in modo fin troppo sfarzoso per le sue piccole dimensioni insieme a Domenico, e avrebbe dato qualsiasi cosa pur di tornare a quegli anni, ma non si poteva: aveva già sprecato la propria occasione.

Domenico si morse un labbro, un po' deluso, perché in fondo ci aveva sperato di ricevere quel bacio, ma poi aprì le labbra in un sorriso soddisfatto perché in ogni caso Claudio, accettando di compiere quel gesto all'apparenza banale, aveva fatto un piccolo passo in avanti. Inoltre, avevano fatto il presepe insieme come non accadeva da anni e anche questo era un ottimo motivo per sorridere.

"È bellissimo."

Mormorò, accarezzando con lo sguardo il presepe finalmente completo. Claudio annuì, piano, con un sorriso appena accennato ad ammorbidirgli le labbra.

"Piace tantissimo anche a me."

Disse a bassa voce. Quel presepe, in effetti, gli aveva fatto il più bel regalo di Natale che avrebbe mai potuto ricevere: trascorrere un po' di tempo insieme a Domenico, e non poteva che esserne felice. Si alzò in piedi, stando attento a non far scivolare la coperta dalle spalle dell'altro, e gli porse le mani per aiutarlo a fare lo stesso.

"Andiamo, dai. Se siamo fortunati, stanotte lo sogniamo."

Disse, parlando al plurale anche se lui non aveva intenzione di chiudere occhio, nelle ore a venire, perché doveva badare a Domenico che per il momento sembrava stare abbastanza bene -probabilmente merito del fatto che non avesse bevuto a stomaco vuoto-, ma la notte era ancora lunga e chissà cosa sarebbe potuto accadere.
Domenico afferrò le sue mani e si portò in piedi, aiutato da lui, ridacchiando.

"Come Benino?"

Claudio annuì, rivolgendogli un caldo sorriso, e si premurò di aggiustargli la coperta sulle spalle, in modo che non avesse freddo nel tragitto fino alla stanza da letto.

"Esattamente, sì."

Gli offrì il braccio, a cui Domenico si aggrappò prontamente. Lasciarono il salone e attraversarono il corridoio, senza fretta, e una volta in camera Domenico cominciò a guardarsi intorno con le sopracciglia leggermente aggrottate, alla ricerca di qualcosa o meglio, di qualcuno. A Claudio, naturalmente, ciò non sfuggì.

"Va tutto bene, Domenico? Hai bisogno di qualcosa?"

Chiese con voce gentile, mentre lo aiutava a sedersi sul letto. Domenico riportò lo sguardo su di lui, ancora confuso, ma sereno.

"Mi stavo solo chiedendo dove fosse Partenope. Pensavo di trovarla qua..."

Domandò, con naturalezza ed una punta di curiosità.

Claudio avvertì una morsa alla bocca dello stomaco a quella domanda, tanto forte che gli mozzò il fiato e fu costretto a fare un profondo respiro prima di rispondere.

"Domenico, lo sai... è da tanti anni che Partenope non c'è più."

Replicò con gentilezza, la voce gli tremava un po' nonostante fosse trascorso molto tempo. Ricordava quel giorno come se fosse stato il precedente: Partenope se n'era andata un soleggiato pomeriggio dell'Aprile di undici anni prima, quando vivevano ancora tutti e tre insieme nel loro piccolo appartamento. Già da un anno circa, purtroppo, le sue condizioni di salute erano peggiorate e tutti i veterinari che avevano consultato avevano dato lo stesso responso, e cioè che ormai Partenope era anziana, aveva molti acciacchi, e non c'era niente che si potesse fare a riguardo, se non darle delle medicine per evitare che soffrisse troppo, ma nulla di più.

Loro l'avevano fatto, si erano presi cura di lei giorno dopo giorno, dandole le medicine prescritte, aiutandola a saltare sul divano o sul letto perché ormai non ce la faceva più da sola, e senza mai farle mancare una coccola. Solitamente, o almeno da quanto aveva sentito dire in giro, i gatti preferiscono nascondersi quando sentono che sta per arrivare la loro ora, e dunque si rifugiano in uno spazio in cui si sentono protetti e al sicuro, come ad esempio sotto al divano o dietro ad un mobile, ma Partenope non aveva fatto niente del genere.

Dal divano sul quale ormai trascorreva gran parte delle giornate, li aveva chiamati con una serie di sottili miagolii ed entrambi avevano lasciato perdere ciò che stavano facendo -fortunatamente quel giorno erano tutti e due a casa- per accorrere da lei. Domenico l'aveva presa in braccio, avvolta nella sua copertina, stringendosela al petto mentre l'accarezzava e anche Claudio aveva preso ad accarezzarla per farle sentire che le era vicino. I loro occhi si riempirono presto di lacrime e le loro voci si spezzavano continuamente mentre le sussurravano frasi dolci come "Sei la gatta più brava del mondo, lo sai, sì?" oppure "Ti vogliamo bene e non smetteremo mai di volertene.", e lei di rimando si sforzava di tenere gli occhi aperti per guardarli come se avesse voluto portare con sé la loro immagine come ultimo ricordo, e faceva le fusa come se avesse voluto consolarli e far capire che era serena, perché aveva vissuto una vita felice grazie a loro.

Ad un certo punto, dopo un tempo indefinito, le flebili fusa erano cessate, Partenope aveva chiuso gli occhi e non li aveva più riaperti. Da un lato, forse, era stato meglio così, perché di lì a qualche mese le cose tra loro due si sarebbero deteriorate e lei ne avrebbe sofferto tantissimo.

Era certo, comunque, che Domenico ricordasse tutto questo perché era impossibile dimenticarsene, e che la sua memoria fosse soltanto offuscata dall'alcool.
Gli occhi di Domenico, da che erano pieni di curiosità, si fecero assenti, vuoti, devastati come un bosco bruciato da un incendio -così, almeno, li vide Claudio-, poi furono attraversati da un lampo, come un'illuminazione. Passare del tempo con Claudio, fare il presepe insieme a lui, lo aveva davvero riportato indietro nel tempo -anche a causa del fatto che non fosse proprio lucidissimo-, e gli era quindi venuto naturale cercare anche la loro micia, non vedendola in giro. Gli era bastato poco per tornare alla realtà, tuttavia, e ricordava ogni cosa, sia quelle belle che quelle meno belle. Annuì, abbassando un attimo le palpebre per ricacciare indietro le lacrime.

"Ah... sì, sì, hai ragione."

Sospirò, per poi sollevare di nuovo lo sguardo verso Claudio, con un sorriso malinconico sulle labbra.

"Ti ricordi quanto era bello quando c'era anche lei, eh? E stavamo tutti insieme, dormivamo insieme..."

Mormorò, la voce era pregna di nostalgia. Afferrò una mano di Claudio, stringendola tra le proprie per supplicarlo.

"Ti prego, dormi con me stanotte?"

Claudio si ritrovò abbagliato da quei due occhi verdi mesti ed imploranti, ma nei quali era possibile scorgere una fiammella di speranza che sembrava decisa a non spegnersi, e sopraffatto dalla forza con la quale quelle mani stringevano la propria, come se lui fosse stato un Santo al quale richiedere una grazia. Non lo era certamente, ma non se la sentì di lasciare inesaudita quella preghiera così accorata e annuì subito, senza doverci pensare troppo, perché sì, era davvero bello quando stavano tutti insieme e dormivano insieme, e anche se quei tempi non potevano ritornare, poteva concederli a Domenico -e a se stesso- per una manciata di ore. Era soltanto colpa sua, del resto, se l'altro si trovava in quelle condizioni -se avesse risposto ad una delle sue chiamate, Domenico probabilmente non avrebbe bevuto fino ad ubriacarsi, non si sarebbe messo alla guida rischiando di fare un incidente e non avrebbe preso freddo- e voleva rimediare come poteva. Glielo doveva.

"Sì, va bene."

Disse, sorridendogli.

"Ti prendo un pigiama pulito, mh?"

Propose, sapendo bene quanto l'altro ci tenesse a dormire comodo, cosa che certamente la camicia ed i pantaloni che indossava non erano.

Domenico, che si aspettava un rifiuto, non poté fare a meno di sorridere alla sua risposta e non poté nemmeno fare a meno di notare quanto fosse stata celere. 'Che ci stia ripensando, su noi due?', si domandò e perfino la propria voce interiore tremò d'emozione formulando quel pensiero.

"Se...se ti va, insomma...grazie."

Claudio scosse appena il capo, sospirando amaramente.

"Ah, è il minimo! Non devi ringraziarmi, davvero. Non devi."

'Non dopo tutto quello che ti ho fatto.', aggiunse nella propria testa. Indicò le loro mani con un cenno del capo.

"Mi fai muovere, per favore?"

Chiese con una punta di divertimento nella voce, dal momento che l'altro ancora gli stringeva la mano.

Domenico sgranò leggermente gli occhi e la lasciò andare immediatamente. Non si era accorto di tenerlo ancora così stretto.

"Oh, sì, hai ragione...scusa."

Mormorò, imbarazzato. Claudio gli sorrise, rassicurante.

"Non hai niente di cui scusarti, tu, tranquillo."

Domenico lo trattenne ancora per un istante, afferrandogli di nuovo la mano, giusto il tempo di rivolgergli uno sguardo carico di un amore disperato.

"Nemmeno tu."

Gli disse, deciso, prima di lasciar andare di nuovo la sua mano. Gli aveva ripetuto innumerevoli volte, fin da quando si era svegliato in ospedale con lui accanto al letto, che non aveva niente di cui incolparsi, che non poteva sapere cosa sarebbe accaduto accettando quel caso che l'avvocato presso il quale stava ultimando la sua formazione -una persona di cui era naturale che si fidasse- gli aveva affidato, e che in ogni caso non c'era bisogno di disperarsi perché lui stava bene, ma Claudio non aveva mai voluto sentire ragioni. Lui, però, non avrebbe mai smesso di ripeterglielo.

Claudio lasciò che i propri occhi venissero accarezzati dai suoi per ancora un momento, poi li separò con uno scatto deciso, voltandosi per avvicinarsi al comò dall'altro lato della stanza. Non meritava l'amore che aveva visto in quello sguardo, non meritava la sua compassione, perché non era vero che non aveva nulla da farsi perdonare, nulla di cui incolparsi. Una cosa c'era, ed era anche grave: era stato superbo, non aveva dato ascolto a Domenico, non aveva seguito i suoi consigli né fatto tesoro dei suoi avvertimenti -perché l'epilogo della situazione in cui si stava invischiando era più che prevedibile ed infatti Domenico l'aveva capito, mentre lui era stato cieco e sordo-, nonostante lo amasse e continuasse ancora ad amarlo. L'amava, eppure gli aveva fatto del male ugualmente: l'amore non era bastato.

Recuperò in uno dei cassetti un pigiama bianco, ben caldo, e si avvicinò nuovamente al letto, posandolo vicino a lui.

"Questo dovrebbe andarti bene. Se vuoi esco fuori mentre ti cambi..."

Domenico sollevò appena l'angolo delle labbra in un sorriso amareggiato che gli arrivava fino agli occhi e li spegneva.

"Davvero credi che ce ne sia bisogno?"

Chiese, mesto. Non era arrabbiato, ma intristito da quella proposta, che poteva voler dire soltanto che si era sbagliato e che Claudio non stava avendo ripensamenti su loro due. Gli suggeriva anche, però, che aveva cancellato -o che stesse provando a cancellare- tutto ciò che c'era stato tra loro e questo, se possibile, gli faceva ancora più paura perché, almeno, finché c'era il ricordo del passato poteva esserci la speranza di un futuro anche se lontano, ma se veniva meno il primo, inevitabilmente anche la seconda si sgretolava.

Claudio liberò un lungo sospiro, scuotendo il capo. Non c'era cosa peggiore che trattarsi da estranei dopo aver conosciuto l'altro così bene da farlo diventare una parte di sé, ma era la cosa migliore da fare, soprattutto per il bene di Domenico. Tuttavia, perfino quando si incrociavano per caso e si limitava a rivolgergli appena un cenno di saluto oppure quando, per motivi di lavoro, si ritrovavano a condividere più tempo e faceva di tutto per discutere solo e soltanto di questioni professionali, non riusciva a mettere da parte gli anni trascorsi insieme come se fossero stati una cosa di poco conto, né a fingere che non fossero mai esistiti. Era ancora più difficile farlo adesso, che non aveva nemmeno la scusa del lavoro a fargli da scudo e tutte le difese erano più basse.

"Hai ragione, è che pensavo..."

Scrollò le spalle, sospirando. 'Pensavo fossi tu ad averne bisogno. Pensavo non volessi mostrare il tuo corpo a chi l'ha ferito, pensavo non volessi farti vedere da chi non è capace di amarti.', continuò, in mente.

"Niente, lascia stare."

Mormorò, invece.

Domenico gli sorrise, morbidamente. Non era necessario che lo spiegasse ad alta voce, aveva intercettato il suo pensiero -lo conosceva così bene, ormai- e non c'era niente di più sbagliato.

"Volevi essere gentile, l'ho capito. Perché è questo che sei, tu...gentile!"

Disse, puntando leggermente un indice nella sua direzione. Subito dopo si chinò per slacciarsi le scarpe, ma un improvviso giramento di testa lo fece barcollare.
Claudio, istintivamente, lo afferrò tra le braccia e lo aiutò a rimettersi dritto.

"Piano, piano! Sei ubriaco, non puoi fare questi movimenti bruschi..."

Gli disse, gentile, tenendolo ancora fermo. Aveva paura che sarebbe crollato di nuovo, se lo avesse lasciato.

Domenico chiuse gli occhi e posò il capo sulla sua spalla, respirando profondamente e lentamente. Il suo profumo, che gli era sempre piaciuto tanto, pian piano lo aiutò a far fermare il mondo che ruotava intorno a lui.

"È passato."

Mormorò, dopo un paio di minuti.

Claudio annuì, ma si prese ancora una manciata di secondi prima di lasciarlo andare -era così difficile farlo!- e lo fece lentamente, in modo da assicurarsi che stesse davvero meglio.

"Ci penso io, tranquillo. Tu resta fermo."

Lo ammonì. Domenico sospirò.

"E chi si muove..."

Mormorò, abbozzando un sorriso.

Claudio, allora, si chinò per sfilargli le scarpe, sciogliendo accuratamente i nodi e mettendole da parte, oltre il comodino, per evitare che si sporcassero in caso di improvvisi attacchi di vomito.

Domenico lo osservava senza muoversi, immobile come l'altro gli aveva chiesto, e con un sorriso un po' più ampio sul volto.

"Gentile."

Ripeté, quasi sussurrando, e Claudio curvò appena l'angolo delle labbra, mestamente. No, non era gentile come diceva lui, perché se lo fosse davvero adesso non si sarebbero trovati in quella situazione. Sarebbero stati ancora insieme.

"Ce la fai a toglierti la camicia?"

Chiese, accennando all'indumento con una mano. Domenico liberò uno sbuffo divertito ed annuì, cominciando ad armeggiare con i bottoni.

"Non sono molto abituato ad indossarle, ma dovrei..."

Neanche il tempo di finire la frase, che i fatti smentirono le parole che aveva appena pronunciato. Non riusciva a mettere bene a fuoco le asole su cui aveva posato gli occhi e le dita non sembravano voler collaborare, rendendogli molto difficile quell'operazione, tanto che sbuffò, spazientito.

Claudio ridacchiò leggero, intenerito da quei suoi buffi tentativi, e si avvicinò di nuovo, portando le proprie mani sulle sue per fermarle.

"Posso aiutarti?"

Domandò, con voce morbida, e Domenico alzò gli occhi verso i suoi, che avevano già catturato tutta la propria attenzione. L'espressione corrucciata che aveva avuto fino a quell'attimo si trasformò in un sorriso disteso, sereno, e annuì.

"Sì, grazie. Facciamo mattina, altrimenti..."

Mormorò, per poi sospirare. Claudio, allora, cominciò con il liberare i bottoni dei polsini, prima di un braccio e poi dell'altro che fece poi adagiare ai rispettivi lati, in modo che non fossero d'intralcio. Subito dopo salì al colletto e da lì scese e sbottonò una ad una ogni asola con rapidi movimenti che avrebbe potuto compiere anche ad occhi chiusi. Aveva perso il conto delle volte in cui aveva spogliato Domenico: l'aveva fatto per passione, quando i loro corpi fremevano per unirsi, ma anche per affetto, quando dopo una lunga giornata si concedevano un bagno caldo e i loro corpi si univano ugualmente, ma in un modo diverso. In ogni caso, in qualunque situazione, aveva sempre agito con amore, esattamente come in questo momento.

Ciò che era cambiato, tuttavia, era il rapporto tra loro e dunque, ora, doveva combattere contro l'impulso di baciare e accarezzare il petto di Domenico che, a poco a poco, si mostrava ai propri occhi, e che sembrava così pronto ad accoglierlo ancora una volta: era meglio non innescare situazioni di cui entrambi si sarebbero pentiti.
Domenico lo osservava far scorrere le mani sulla propria camicia e sperava, bottone dopo bottone, di sentirle ad un certo punto anche sul proprio corpo che bramava solamente il tocco dell'altro, il quale però non lo sfiorò nemmeno con lo sguardo, che si spostava continuamente sul bottone successivo. Se il ricordo non fosse stato così vivido, conservato nel proprio cuore e impresso sulla propria pelle con un marchio invisibile, gli sarebbe stato difficile credere che c'era stato un tempo in cui aveva accolto Claudio, un tempo in cui aveva potuto stringerlo tra le braccia ed amarlo. Ora, a distanza di anni, sembravano due estranei.

Claudio fece scivolare la camicia verso il basso, liberando del tutto il corpo di Domenico, ma prima che potesse coprirlo nuovamente con la maglia del pigiama che già aveva preso in una mano, inevitabilmente il suo sguardo fu attratto da quel cerchietto di pelle più chiara e leggermente in rilievo, quasi invisibile ad un occhio disattento, ma che invece appariva più evidente che mai al proprio.

"Questa è una cosa per la quale non ti chiederò mai scusa abbastanza."

Sospirò, mesto, senza staccare lo sguardo dall'emblema della propria colpa.

Domenico scosse il capo, lentamente, e curvò appena l'angolo delle labbra in un sorriso piccolo, ma rassicurante.

"Non sanguina più, non fa neanche più male. È solo un segno."

Disse, con dolcezza. Lui stesso, a dire il vero, si era abituato abbastanza presto a quel segno sulla propria pelle, l'unico motivo per il quale ci faceva ancora caso era perché gli ricordava costantemente che lui e Claudio non stavano più insieme -e questa consapevolezza era più dolorosa di mille proiettili sparati tutti insieme-, altrimenti non l'avrebbe neanche guardato.

Claudio sospirò pesantemente, come se tutto ad un tratto l'aria fosse diventata più densa, gli occhi ancora fissi sul fianco dell'altro.

"Una cicatrice non è mai solo un segno."

Disse con voce bassa, ma chiara e decisa. Lui, di cicatrici, ne sapeva qualcosa, soprattutto che a livello fisico smettono di far male dopo un po', perché il corpo prima o poi guarisce anche se rimane il segno, ma il dolore che simboleggiano te lo porti sempre dietro.

Domenico prese la sua mano, quella libera, e con delicatezza l'avvicinò alla cicatrice, facendogliela sfiorare con le dita. Quel contatto appena accennato fu sufficiente a trasmettergli un calore sereno, che in un secondo lo pervase tutto.

"Lo è se c'è qualcuno che la cura."

Replicò con voce morbida, rivolgendogli uno sguardo pieno d'affetto. Non stava dicendo sciocchezze, aveva sperimentato in prima persona quanto l'amore fosse in grado di estirpare anche il più radicato dei dolori come la migliore delle medicine possibili perché lui era riuscito a farlo con Claudio -ne era consapevole e non lo pensava per presunzione, ma perché era stato lo stesso Claudio a dirglielo, anni prima-, adesso Claudio avrebbe potuto fare la stessa cosa con lui, se solo avesse voluto, perché chi ama non può causare dolore nella persona amata. Sarebbe bastato un bacio, anche piccolo, e ricucire quel legame che era stato strappato da tempo; più facile a dirsi che a farsi, naturalmente, visto il muro di colpa che Claudio aveva innalzato intorno a sé, rendendo impossibile costruire qualsiasi ponte, e che Domenico non riusciva ad abbattere in alcun modo.

Claudio sollevò lo sguardo e, nonostante si dicesse che non avrebbe dovuto dargli corda, si ritrovò ad annuire di fronte a quell'affermazione perché era vera e lui meglio di tutti lo sapeva: era stato curato dall'amore di Domenico, lo stesso che adesso vedeva nei suoi occhi che si incontravano con i propri, e questa era una verità troppo grande e troppo pura per fingere che non esistesse, ma purtroppo lui non poteva ricambiargli il favore. Avrebbe potuto tentare, ma avrebbe fallito e il motivo era estremamente semplice quanto lapidario.

"È diverso, però, quando questo qualcuno è la stessa persona che te l'ha causata."

Allontanò la mano dalla sua cicatrice con uno scatto repentino, come se si fosse scottato, e prese nuovamente la maglia del pigiama, stavolta con entrambe le mani.

"Solleva le braccia, per favore, così ti aiuto ad indossarla."

Disse gentile e Domenico obbedì, sospirando deluso e triste. Anche quel tentativo era fallito, ma lui non perdeva la speranza: prima o poi gli avrebbe fatto capire di non doversi sentire in colpa, e non voleva riuscirci solo perché voleva tornare con lui -ci sperava, certo, ma avrebbe accettato, seppur con sofferenza, un rifiuto da parte sua se motivato da altre ragioni-, ma perché non poteva tollerare che Claudio si angosciasse per sempre, che si vedesse per ciò che non era e che si punisse per una colpa che non aveva.

Claudio lo aiutò ad infilarsi la maglia, premurandosi di sistemargli il colletto in modo che non gli desse fastidio -tutti i pigiami che aveva erano molto simili a camicie, purtroppo, e sapeva quanto l'altro le trovasse insopportabili, quindi lasciò aperti i piccoli bottoncini che in teoria avrebbero dovuto stringere e chiudere la zona del collo- cercando di non reagire alla nota malinconica che aveva colto nel suo sospiro, il che fu piuttosto difficile dato che il proprio cuore piangeva ad udirla. Domenico era ancora convinto che lui potesse fargli del bene, che potessero essere felici insieme, ma prima o poi si sarebbe reso conto di essere nel torto, avrebbe capito quanto male gli aveva fatto, quanto fosse profondamente cattivo, e avrebbe trovato qualcuno che lo amava quanto lo amava lui, ma che fosse in grado di adoperare quell'amore nel modo giusto: era solo questione di tempo.

A Domenico non sfuggì quella piccola ma dolce premura, l'ennesima prova di quanto Claudio fosse in grado di guarire le proprie ferite -ed era assurdo che proprio lui, un avvocato capace ed affermato, non riuscisse a vedere né quella né tutte le altre o forse si rifiutasse di prenderle in considerazione- e gli sorrise, morbidamente, guardandolo con il capo rivolto all'insù.

"Grazie."

Claudio ricambiò il sorriso, ma più timidamente, perché tutta quella riconoscenza e tutto quell'affetto gli sembravano eccessivi. Non se li meritava.

"Non devi, lo sai."

Ripeté, come sempre.

"Preferisci che ti aiuti anche con i pantaloni?"

Domandò poi, sempre con tono gentile, scostandosi un po' da lui. Lo aveva aiutato ad indossare il primo pezzo del pigiama e non aveva più motivo di stargli così vicino, non un motivo oggettivo e dunque valido, almeno.

Domenico fece un respiro profondo e tirò a sé l'altro pezzo del pigiama, voleva indossarlo da solo per evitare di mettere Claudio a disagio, ma gli bastò piegarsi leggermente in avanti per avvertire di nuovo sopraggiungere un giramento di testa che lo portò a strizzare forte gli occhi.

"Se mi aiuti mi fai un favore..."

Mormorò, a denti stretti.

Claudio gli fu subito accanto, seduto accanto a lui a sorreggerlo di nuovo. Non avrebbe dovuto chiederglielo, non nelle condizioni in cui l'altro versava, avrebbe dovuto farlo e basta, ma al tempo stesso pensava che avrebbe potuto metterlo in imbarazzo e aveva dunque preferito evitare.

"Tranquillo, tranquillo, ci penso io. Stenditi, piano piano..."

Disse con voce morbida, aiutandolo a portarsi giù, con la testa sul cuscino e le gambe stese sul letto.

Domenico si umettò le labbra prima di parlare.

"Posso anche dormire così, non è un problema..."

Provò a dire, ma Claudio lo interruppe immediatamente con un cenno deciso della mano.

"No, devi stare comodo. Questi jeans sono belli, ti stanno bene, ma mi sembrano un po' troppo stretti per dormire, no?"

Replicò allegro, sollevando un sopracciglio, e Domenico annuì lentamente. 'Allora mi guardi ancora.', pensò intanto, non riuscendo a trattenere l'accenno di un sorriso soddisfatto.

"Mi stanno bene?"

Domandò con voce un po' incerta, che vibrava per l'emozione, perché era da tanto che non glielo sentiva dire e desiderava sentirglielo dire ancora.

Claudio liberò un piccolo sbuffo divertito, sollevando gli occhi al cielo solo per un istante prima di riportarli nei suoi che brillavano al buio per quanto apparivano felici. Forse non avrebbe dovuto farsi sfuggire un apprezzamento del genere, ma ormai il danno -se così si poteva definire- era fatto e poteva solo sperare che l'alcool avrebbe lavato via questo momento dalla sua memoria.

"Come se non lo sapessi! Non giocarti la carta del finto tonto solo perché sei ubriaco, non funziona con me!"

Ribatté, con lo stesso tono leggero. Quando stavano ancora insieme, ogni qualvolta che Domenico manifestava un dubbio o un’incertezza circa un capo d'abbigliamento, lui non si stancava mai di rassicurarlo con qualcosa che era sempre molto simile a 'Amore mio, bello come sei staresti bene anche con un sacco della spazzatura addosso.', ed immaginava che, a furia di ripeterlo, il messaggio fosse arrivato a destinazione e fosse stato recepito.

Domenico fece una risatina leggera, spensierata, perché Claudio non aveva sbagliato: ricordava benissimo quei complimenti ed erano anche gli unici a cui credeva! La risata, nel giro di poco, sfumò in un sorriso sghembo, ma morbido.

"Lo pensi ancora? Che mi starebbe bene qualsiasi cosa..."

Chiese ancora, più incerto di poco prima. In fondo era un dubbio legittimo, perché erano passati tanti anni e Claudio avrebbe potuto cambiare idea, nel frattempo, e non considerarlo più bello come allora. Doveva averne senz'altro conosciuti tanti di uomini, in quegli anni, e fra questi qualcuno più attraente di lui.

Claudio, per un istante, valutò la possibilità di mentirgli per evitare di illuderlo in qualche modo, ma ricordò quanto i propri complimenti, per qualche motivo, lo facessero sentire bene, e mise da parte quell'idea. Annuì, sorridendogli dolcemente.

"Sì, lo penso ancora."

'E penso ancora che tu sia l'uomo più bello del mondo, amore mio.', aggiunse con la voce della propria mente, guardandosi bene dal far uscire questo pensiero dalla bocca.

"Vediamo se ti sta bene anche il mio pigiama, dai."

Disse ancora, con leggerezza, per sviare il discorso, ed avvicinò le mani alla sua cintura.

"Posso?"

Chiese, per essere davvero sicuro di non metterlo in imbarazzo. Domenico annuì, sereno, ma solo dopo averlo guardato bene ed essersi accertato che non fosse a disagio.

"Certo, tranquillo."

Claudio, nel giro di poco, gli sfilò i jeans e gli fece indossare i pantaloni più comodi, cercando di essere rapido ma al tempo stesso non eccessivamente impersonale -non stava certo vestendo una bambola- e di far passare un po' del tanto affetto che provava per lui anche in quei gesti.

Domenico assecondò i movimenti dell'altro, sollevando leggermente le gambe ed il bacino per facilitargli il passaggio della stoffa quando necessario, e stavolta non si fece illusioni su ciò che sarebbe potuto accadere. Come previsto, non sentì le mani di Claudio toccargli la pelle, ma gli arrivò comunque una piacevole sensazione di tranquillità che solo una cura affettuosa è in grado di trasmettere e che si tradusse in un placido sorriso sul proprio volto.

"Allora, come mi sta?"

Claudio accennò una risatina e si alzò, raccogliendo i vestiti dell'altro.

"Ti sta benissimo."

Rispose con sicurezza, per poi allontanarsi il tempo necessario a sistemare la camicia ed i jeans sull'appendiabiti poco lontano dal letto e prendere un ulteriore cuscino dall'armadio.

Domenico, intanto, ancora sorridente, si sistemò sotto le coperte, senza però staccare gli occhi da lui. Non gli sembrava vero che, almeno per quella notte, avrebbero dormito di nuovo insieme.

Claudio gli si avvicinò di nuovo e gli sistemò il secondo cuscino sotto la testa, in modo da fargliela tenere sollevata e cercare così di evitargli la nausea e poi, pieno d'affetto, gli rimboccò le coperte per assicurarsi che stesse ben caldo.

Domenico, grazie a quei piccoli gesti premurosi e non scontati, provò un calore che non sentiva da anni.

"Grazie."

Mormorò, sorridendo morbidamente, e Claudio fece un piccolo sbuffo divertito.

"Lo sai. Senti, adesso vado a prendere una cosa, torno tra un attimo."

Annunciò, prima di uscire dalla stanza. Andò in bagno per recuperare un secchio ed un asciugamano, che sarebbero potuti servire in caso di un improvviso conato di vomito, ed una volta tornato li posò entrambi sul comodino, pronto ad usarli se necessario.

"Speriamo non servano, ma è meglio che stiano qui."

Commentò, accennando un sorriso, rivolto nuovamente verso l'altro. Teoricamente avrebbe dovuto stendersi accanto a lui come gli aveva promesso, ma faceva fatica a credere di poterlo fare davvero, anche se solamente per una notte, e perciò si sentiva insicuro e temporeggiava.

Domenico, che aveva seguito ogni suo movimento con lo sguardo nonostante gli occhi facessero fatica a restare aperti, arricciò il naso e annuì con grande convinzione.

"Speriamo, sì."

Mugugnò, perché odiava vomitare e sperava davvero di non doverlo fare. Guardò Claudio, poi, con occhi incuriositi e preoccupati.

"Qualcosa non va?"

Chiese, un po' incerto. Claudio scosse subito il capo, sorridendo per rassicurarlo.

"No, no, è tutto a posto. Mi ero solo...perso un attimo nei miei pensieri."

Domenico si morse un labbro, aveva un po' paura di quei pensieri o meglio, aveva paura che potessero intrappolare Claudio più di quanto non avessero già fatto.

"Ne vuoi parlare?"

Domandò allora, ma Claudio scosse la testa. Apprezzava il tentativo, davvero, ma non voleva tenerlo ancora sveglio, vedeva chiaramente quanto fosse stanco.

"No, non c'è bisogno, grazie. Non è niente di grave."

Così dicendo, spostò leggermente il piumone dal lato libero del letto e vi si infilò sotto, disteso su un fianco, anche per dimostrare all'altro che non aveva ripensamenti sulla promessa che gli aveva fatto. Non era il lato su cui era abituato a coricarsi, eppure stendersi lì gli sembrò il gesto più naturale del mondo.

"Comodo?"

Gli chiese, con un sorriso morbido.

Domenico si girò su un fianco, in modo da poterlo guardare in viso, e gli rivolse un sorriso luminoso, pieno di gioia. Si sentiva beato, avvolto da quel pigiama profumato -non aveva l'odore di Claudio, purtroppo, ma quello di un ammorbidente al profumo di fiori, che era comunque gradevole- e morbido, non troppo caldo forse, ma ci pensava il piumone a sopperire al calore mancante, -e quello sì che invece profumava di Claudio!-; poi, proprio accanto a lui -così vicino che poteva perdersi in quel cielo solitamente chiaro ma che adesso, a causa del buio circostante, si era fatto più scuro e che tuttavia brillava ugualmente grazie alla forza delle sue stelle- c'era Claudio stesso, che lo riscaldava e lo inebriava più di qualsiasi altra cosa. Non poteva stare meglio, insomma.

"Comodissimo. Tu?"

Domandò, sinceramente desideroso di saperlo. Sperava che anche l'altro si sentisse bene almeno quanto si sentiva lui.

Il sorriso di Claudio si fece più ampio a quella risposta, che non era solamente quella data a voce, ma anche quella che leggeva negli occhi splendenti e felici di Domenico, un vero e proprio bosco illuminato dalle stelle e dalla Luna. Se lui stava bene, lo stesso valeva per sé.

"Comodissimo anch'io. Adesso cerca di dormire però, va bene? Io, per qualsiasi cosa, sono qua."

Disse, a bassa voce. Domenico scosse leggermente il capo, e nel farlo sentì la morbida federa del cuscino accarezzargli il viso. Quanto avrebbe voluto che al posto di quella stoffa ci fosse stato il petto di Claudio!

"Non ho sonno."

Replicò, cercando di mostrarsi sicuro di sé. Claudio fece uno sbuffo divertito e sorrise sghembo, sollevando un sopracciglio, ben poco convinto da quelle parole.

"A me sembra che tu ne abbia, invece. Perché non vuoi dormire?"

Chiese, addolcendo la propria espressione. Domenico sospirò e strinse il lembo del cuscino in cerca di qualcosa a cui aggrapparsi.

"Perché dormendo sprecherei questo tempo insieme e non voglio."

Mormorò, con gli occhi fissi in quelli dell'altro. Tutto ciò che gli chiedeva era più tempo, una seconda occasione, niente di più.

Claudio si sentì attraversare da quella risposta da parte a parte -anche se l'aveva messa in conto-, come da un vento gelido -che puoi mettere in conto, certo, ma non smetterà di ghiacciarti-, e prese un profondo respiro prima di rispondergli.

"Nella condizione in cui ti trovi, dormire ti fa bene, non è tempo sprecato..."

'È a stare con me che lo sprechi, inguaribile romantico che non sei altro.', aggiunse in mente, evitando di dirlo.

"Io resto qua, promesso..."

Disse invece, ed intanto avvicinò la mano che teneva adagiata sul cuscino alla sua, con il palmo rivolto verso l'alto, mantenendo un po' di distanza per non farle toccare.

"Se vuoi, ci possiamo tenere per mano."

Propose, sentendo immediatamente le proprie guance farsi un po' più calde per quell'idea dal sapore infantile, un gesto che avrebbero potuto condividere due bambini spaventati dal buio e non di certo due uomini adulti, eppure gli sembrava il modo più adatto per sentirsi vicini.

Domenico guardò la sua mano con sorpresa -'Forse sto già sognando?', si chiese-, ma non esitò ad accoglierla nella propria, stringendola appena, con delicata forza. Sorrise a quel contatto, perché era reale, ne era certo!

Claudio gliela strinse di rimando, con la stessa delicatezza, sorridendogli a propria volta. Forse, a guardare bene, non erano altro che due adulti che avevano ancora un po' paura del buio.

"Adesso però dormi, mh? Buonanotte."

Domenico annuì piano e, rasserenato da quell'abbraccio simbolico, chiuse gli occhi senza perdere il sorriso.

"Buonanotte a te, core mij."

Replicò con voce impastata, già carica di sonno.

Claudio avvertì la vista annebbiarsi a sentire quel soprannome che non udiva da anni e che gli era sempre piaciuto -lo faceva sentire amato, importante-, ma che ora trovava sbagliato ed inadatto a descriverlo: non poteva essere il cuore di Domenico, che era così puro e buono, lui che non lo era affatto. Avrebbe voluto dirglielo, farglielo notare -anche se immaginava che sarebbe stato inutile-, ma Domenico era già scivolato in un sonno profondo, segnalato da un respiro più pesante e regolare, perché evidentemente si era spinto fino al limite della stanchezza. Si permise, allora, di portare la mano libera tra i suoi capelli neri -in cui tuttavia cominciavano a vedersi i primi riflessi argentati- e vi depositò una morbida carezza.

"Buonanotte, amore mio."

Sussurrò quasi impercettibilmente per non rischiare di svegliarlo, con l'angolo delle labbra appena sollevato in un sorriso intenerito da ciò che aveva davanti agli occhi. Riportò la mano al proprio posto, nello spazio vuoto tra i loro corpi, e lasciò andare un pesante sospiro: lo attendeva una notte insonne, ma non era un problema, un po' perché, da un lato, ormai era più facile tenere il conto delle notti in cui dormiva più o meno bene che di quelle in cui non o dormiva oppure lo faceva molto male, ma soprattutto perché, dall’altro, voleva vegliare su Domenico, sul suo sonno, ed intervenire in caso di necessità.

Sarebbe stato il suo angelo custode per quella notte, anche se avrebbe meritato decisamente di meglio, un angelo vero, magari, che sarebbe stato davvero in grado di proteggerlo, e non l'uomo che aveva già dato prova di non esserne capace.

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Capitolo 40
*** Appendice, Capitolo 6 – Nella vernice fresca dei miei ricordi (parte 3) ***


Ciò che Claudio non aveva tenuto in conto, però, era la facilità con la quale si lasciava andare quando era vicino all'altro, forse perché era trascorso troppo tempo dall'ultima volta che lo era stato e la mente l'aveva dimenticato, ma il corpo evidentemente no: come se si fosse attivata una sorta di memoria muscolare, infatti, nel giro di poco cominciò a sentirsi pervadere da un morbido torpore che pian piano lo attraversò tutto facendosi sempre più intenso e rendendogli sempre più difficile mantenere gli occhi aperti. Si sentiva pesante, ma leggero al tempo stesso, e sapeva che se solo avesse ceduto e si fosse addormentato avrebbe dormito un sonno ristoratore come non gli accadeva da tempo, ma non poteva permetterselo in quella situazione. Cercò di combattere ancora e ancora l'istinto di assecondare quel torpore, ma quando capì che non ci sarebbe riuscito realizzò che c'era un'unica cosa da fare: allontanarsi dalla sua fonte.

Separò, a malincuore, la propria mano da quella di Domenico, si alzò dal letto senza far rumore, indossò la vestaglia per stare un po' più caldo -faceva freddo, lontano da lui- ed in quel momento realizzò che sicuramente Rosa e Sara si sarebbero preoccupate da morire quando, il mattino dopo, non avrebbero trovato Domenico in casa, dunque era il caso che le avvisasse.

Cercò il cellulare di Domenico nella tasca dei suoi pantaloni, ma non trovandolo -del resto c'era da aspettarselo date le condizioni in cui era uscito di casa, ma valeva la pena fare un tentativo- uscì a passo felpato dalla stanza ed andò a recuperare il proprio, che aveva lasciato in salotto. Erano trascorsi anni e non aveva più il numero di Sara, ma per una volta Facebook si rivelò utile e così, dopo una breve ricerca, le inviò un messaggio in chat:

-Domenico è venuto a casa mia, sta bene. Domattina lo riporto da voi.-

Si limitò a scrivere, senza troppi fronzoli che sarebbero risultati inappropriati.

Fatto questo, decise di prendere i documenti di una causa che aveva in corso e tornò nuovamente in camera, portando con sé il cellulare nel caso in cui Sara gli avesse risposto. Si accomodò su una sedia che teneva poco distante dal letto e cominciò a leggere il fascicolo alla luce della Luna: il suo studio aveva preso in carico il processo di unione tra due aziende e dunque aveva l'incarico di stilare un contratto sulla base dei termini dell'accordo già preso, nulla di particolarmente complicato in verità, ma comunque ben pagato e costituiva dunque uno di quei casi che decideva di assumere per poter lavorare pro bono ad altri, molto più importanti dal proprio punto di vista. Era anche, al momento, un modo perfetto per tenersi sveglio, esattamente come voleva.

Per un po' andò tutto bene, gli unici rumori che si sentivano nella stanza erano il sottile fruscio delle pagine che Claudio sfogliava, segnando qualche appunto a penna su un taccuino di tanto in tanto, e il sonoro russare di Domenico, al quale spesso e volentieri Claudio rivolgeva uno sguardo attento per assicurarsi che stesse bene. Dopo circa un'ora, però, Domenico cominciò ad agitarsi, mugugnando, e Claudio non esitò a lasciare tutti i fogli e gli appunti sulla sedia e a precipitarsi accanto a lui, preoccupato.

Non fece nemmeno in tempo a provare a svegliarlo che Domenico sbarrò gli occhi nel buio della stanza, liberando un mugolio turbato, e subito li rivolse verso l'altro lato del letto, dove in teoria avrebbe dovuto esserci Claudio, ma che trovò invece vuoto, ed un senso di panico si impadronì di lui.

Claudio, accortosi che lo stava cercando, portò una mano sul suo petto per attirare la sua attenzione.

"Hey, sono qui. Che hai?"

Chiese, mostrandosi il più calmo possibile.

Domenico seguì la sua voce ed il suo tocco e si voltò verso di lui, deglutendo prima di parlare. Per il momento non si chiese perché non l'avesse trovato nel letto, aveva un'altra preoccupazione a cui badare, più urgente, che aveva le sembianze di un orribile senso di nausea alla bocca dello stomaco.

"Mi...mi viene da vomitare..."

Annunciò con voce flebile, mentre un sottile ma penetrante tremolio lo attraversava in tutto il corpo.

Claudio, prontamente, prese il secchio che aveva sistemato sul comodino e glielo mise davanti.

"Mettiti seduto, dai."

Propose con delicatezza, ma Domenico non era intenzionato a muoversi e scosse il capo, con un movimento appena accennato ma deciso.

"Se lo faccio, vomito..."

Protestò, mugolando. Eraperfettamente consapevole di quanto fosse ridicolo che un uomo fatto e finito come lui, con un mestiere che lo portava a confrontarsi, tra le altre cose, anche con situazioni di un certo grado di pericolosità, avesse una paura stupida come quella, ma se la portava dietro fin da quando era bambino e non era mai riuscito a superarla.

Claudio sospirò, pazientemente, e gli fece una leggera carezza sul petto. Non era la prima volta che si trovava in uno scenario del genere, anche quando stavano insieme era capitato che Domenico si sentisse male a causa di un'abbuffata o di un'influenza, ed oggi come allora voleva soltanto aiutarlo a liberarsi, per quanto fosse difficile: se per la maggior parte delle persone vomitare costituiva poco più di un disagio momentaneo e tutto sommato non aveva grandi problemi a farlo, per Domenico la sola idea era causa di un panico che lo portava a preferire di restare preda della nausea invece di assecondare l'istinto e buttare tutto fuori, infliggendosi da solo un tormento che poteva durare anche piuttosto a lungo. Sapeva, tuttavia, che stargli vicino e sostenerlo, cercando di trasmettergli la calma che al momento gli mancava, solitamente bastava a farlo sbloccare.

"E se vomiti ti sentirai meglio. È questione di un attimo..."

Disse con voce morbida, senza smettere di accarezzarlo al centro del petto.

Domenico contrasse il viso in un'espressione disgustata, chiudendo gli occhi ed arricciando naso e labbra, mentre si sforzava di mandare giù il groppo dal sapore acido che gli era risalito lungo la gola. Era perfettamente consapevole che sarebbe stato meglio se avesse vomitato, ma proprio non ce la faceva, era più forte di lui.

"Non voglio, ho paura..."

Biascicò, fissando i propri occhi spaventati nei suoi.

Per Claudio vederlo così era una vera e propria sofferenza e se solo avesse potuto si sarebbe volentieri fatto carico di quel suo malessere pur di farlo stare meglio. Passò la mano libera tra i capelli un po' sudati, in una lenta carezza, rivolgendogli uno sguardo rassicurante.

"Lo so, lo so, ma andrà tutto bene. Ci sono io qui con te, ti posso aiutare."

Disse, con dolcezza.

Domenico si sentì accarezzato da quelle parole tanto quanto dalla mano di chi le aveva pronunciate e accennò un minuscolo sorriso, mentre un po' di coraggio si faceva strada dentro di lui.

"Sì?"

Mormorò speranzoso, e Claudio annuì, guardandolo con affetto.

"Sì, tranquillo. Quando ti senti pronto tirati su, va bene?"

Domenico si prese ancora qualche istante per fare dei respiri profondi prima di mettersi seduto, aiutato dall’altro. Come previsto, vomitò quasi immediatamente nel secchio che Claudio prontamente gli aveva messo davanti e a cui lui si aggrappò istintivamente con entrambe le mani mentre veniva scosso dai conati che sembravano volerlo svuotare di tutto, perfino dell'anima. Si sentiva in balia di un mare acido, le cui onde lo scuotevano ed investivano con il loro odore e sapore acre, privo di qualsiasi tipo di controllo. L'unico punto fermo in quella tempesta era Claudio -l'avvocato, in piedi accanto a lui, infatti, gli stava reggendo la testa con una mano e accarezzando la schiena con l'altra- e quando, stremato, sputò l'ultimo grumo di saliva pastosa, fu a lui che si affidò, mugolando dolorante.

"Mi fa male qui..."

Biascicò, portandosi una mano al fianco sinistro.

Claudio lo avvolse tra le braccia come se fosse stato in bambino, accogliendolo al proprio petto. Sembrava davvero stremato.

"Ti sei sforzato, è normale, vedrai che tra qualche minuto ti passa. Per il resto, come ti senti? Ti è passata la nausea?"

Domandò premuroso, spostando una mano ad accarezzarlo in quel punto dolente per fargli una sorta di massaggio.

Domenico fece un profondo respiro prima di parlare, anche se il naso gli pizzicava. Le carezze di Claudio, però, erano davvero piacevoli.

"Sì, quella sì, ma mi brucia la gola e mi sembra di avere in bocca una discarica."

Mugugnò, accigliato.

Claudio sorrise intenerito a quella sua espressione da bambino lamentoso, che non era affatto cambiata da quando stavano ancora insieme.

"Per adesso, l'importante è che tu abbia buttato tutto fuori. Appena te la senti ti porto in bagno, così ti sciacqui via quel saporaccio."

Disse, continuando ad accarezzargli il fianco.

"E poi, comunque, non mi hai vomitato sulle scarpe, il che è già un bel traguardo.

Aggiunse, con un tono più scherzoso, per cercare di risollevargli il morale.

Domenico ridacchiò morbidamente, per poi sollevare gli occhi verso di lui.

"Quella cosa non è mai stata un problema per me, lo sai, sì?"

Mormorò con voce dolce, ripensando a quel momento che, in fin dei conti, era stato un po' l'inizio di tutto: se Claudio non gli avesse vomitato addosso, lui non avrebbe avuto una scusa per rivederlo e dunque lo avrebbe semplicemente riaccompagnato in hotel, dividendo le loro strade per sempre. Senza Claudio, però, avrebbe continuato a saltare da una persona all'altra, senza trovare mai il pezzo che lo completasse davvero, vivendo così nella solitudine più infelice. L'amore che aveva -anzi, che avevano- vissuto era stato breve, decisamente troppo breve, ma così intenso da bastargli per sempre e dunque valeva ben più di un banale paio di scarpe.

Claudio espirò un piccolo sbuffo e annuì, mentre le labbra si curvarono un sorrisetto dal retrogusto dolceamaro, come era il ricordo di quell'attimo e di tutto ciò che aveva portato con sé. Erano stati gli anni più belli della propria vita, non era un bilancio difficile da fare, ma se avesse saputo come si sarebbero conclusi non avrebbe mai accettato quel passaggio in moto e la notte precedente si sarebbe fatto riportare in hotel, dove avrebbe smaltito la sbronza da solo -probabilmente avrebbe vomitato su un tappeto o sul divano- per poi trascorrere in completa solitudine il resto di quella vacanza forzata e tornare a Roma, dove alla fine si sarebbe rassegnato ad intraprendere la strada che suo padre aveva tracciato per lui e forse chissà, avrebbe fatto pace con Elena e, per quieto vivere, l'avrebbe anche sposata. Sarebbe stata una vita profondamente infelice, certo, ma almeno non avrebbe rovinato quella di Domenico.

"Lo so, lo so...sei sempre stato fin troppo gentile con me."

Sussurrò, pieno di sincera gratitudine, ma subito si schiarì la voce percambiare argomento.

"Ti fa ancora male?"

Domandò, riferendosi al fianco che gli stava ancora massaggiando.

Domenico annuì lentamente, strofinando di conseguenza il viso contro il petto di Claudio -o meglio, contro la sua vestaglia, ma era comunque meglio del cuscino-.

"Un po'."

Mentì, ma solo perché voleva restare così ancora per qualche minuto.

Claudio sorrise, rassicurante, avvicinandosi ancora un po’ per stringerselo meglio al petto.

"Vedrai che tra poco ti passa, tranquillo."

Mormorò, con dolcezza.

Domenico annuì di nuovo, per poi chiudere gli occhi e lasciarsi avvolgere dal suo calore, cercando di goderselo più che poteva perché gli mancava tanto, mentre il suo dolce profumo gli riempiva le narici e le liberava da quell'odore acre che lo disturbava da impazzire.

Claudio continuò a tenerlo stretto a sé con delicata forza, abbastanza da sostenerlo, ma non troppa da opprimerlo e grazie a quel perfetto equilibrio poteva sembrare che non avesse mai smesso di abbracciarlo, ma in realtà era accaduto ed il vuoto si faceva sentire ogni giorno.

"Mi è passato."

Annunciò Domenico dopo qualche minuto, un po' a malincuore a dire il vero, ma al tempo stesso non poteva pretendere di restare in quella posizione -che doveva essere piuttosto scomoda per Claudio, tra l'altro- per tutta la notte. 

Claudio annuì e lentamente lo lasciò andare, ma se avesse potuto lo avrebbe tenuto così fino al mattino dopo, aiutandolo però ad adagiarsi allo schienale del letto.
"Ce la fai ad alzarti? Così ti porto in bagno."

Chiese, e Domenico annuì, appoggiandosi al comodino per rimettersi in piedi.

Claudio lo sostenne per tutto il tragitto lungo il corridoio, fino al lavandino del bagno ed una volta lì gli porse uno spazzolino nuovo, che sicuramente gli sarebbe stato utile.

"Tieni."

Domenico lo accettò volentieri, ringraziandolo con un cenno del capo accompagnato da un sorriso. 

"Ah, mi hai proprio letto nel pensiero."

Non vedeva l'ora di liberarsi di quel saporaccio e per questo versò una generosa quantità di dentifricio sulle setole bianche e verdi. Cominciò a lavarsi i denti con fervore, stando ben attento però a tenere lo sguardo rivolto verso il lavandino per non guardarsi mai allo specchio, non aveva proprio voglia di vedere le pessime condizioni in cui versava, e pian piano si rilassò sentendo il fresco sapore di menta riempirgli la bocca. Si sciacquò poi il viso con dell'acqua fresca e liberò un pesante sospiro, soddisfatto.

Claudio, a pochi passi dall'altro, inclinò leggermente il capo per sbirciare la sua espressione e istintivamente sorrise, vedendolo più tranquillo.

"Va meglio, eh?"

Domenico annuì con decisione e si voltò verso di lui, sorridendo a propria volta.

"Decisamente, sì."

Claudio gli porse un asciugamano, avvicinandosi un po'.

"E la nausea? Te la senti ancora?"

Chiese, con una punta di preoccupazione.

Domenico scosse il capo, prese l'asciugamano e cominciò a passarselo sul viso, rapidamente.

"No, mi è passata. Avevi ragione tu, non avrei dovuto fare tutte quelle storie..."

Rispose, un po' imbarazzato, poiché si rendeva conto, a posteriori, di aver esagerato.

Claudio non era dello stesso avviso e scosse il capo, accennando una risatina morbida.

"Ah, non te ne fare una colpa, Domenico! Siamo esseri umani con le nostre emozioni, la paura è semplicemente una di esse! E proprio perché sono emozioni, che vengono dall'istinto..."

Si portò una mano all'altezza del cuore.

"...non possiamo pretendere di viverle con raziocinio!"

Spostò quella stessa mano alla testa.

"Ma è proprio questo che ci rende umani, immagino, no?"

Concluse abbassando la mano ed abbozzando un sorriso timido.

Domenico lo ascoltò in silenzio, senza nemmeno respirare, pendendo semplicemente dalle sue labbra. Annuì, poi, ridacchiando.

"Immagino che tu abbia ragione, Avvocato Vinci..."

Sottolineò quel soprannome -che ormai non era più un soprannome ma un titolo vero e proprio- con una punta di affettuoso sarcasmo, come aveva sempre fatto, che passò anche attraverso il luccichio divertito degli occhi pieni di affetto ed ammirazione.

Claudio non aveva idea di quante persone lo chiamassero Avvocato Vinci ogni giorno, erano così tante che anche volendo non avrebbe saputo tenerne il conto, e se all'inizio gli aveva fatto un po' strano, poteva dire di averci fatto l'abitudine in tutti quegli anni che esercitava la professione; eppure sentirlo dire da Domenico gli causò un tuffo al cuore che poco c'entrava con la carica e molto invece aveva a che fare con il ricordo di giorni più spensierati. Quel titolo, poi, nella sua bocca suonava come un complimento, complice anche il modo in cui Domenico lo guardava -come se avesse fissato personalmente le stelle e la Luna in cielo- e da cui lui era stato ovviamente colpito, che lo portò a mordersi l'interno del labbro inferiore per frenare il sorriso emozionato che gli stava spuntando sul volto e che non era il caso di mostrare. Indicò poi la porta del bagno con un cenno del capo.

"Torniamo a letto, dai."

Disse gentile avvicinandosi a lui per sostenerlo.

Domenico si aggrappò al suo braccio senza dire nulla, pur essendo in cuor proprio felice della reazione che Claudio aveva avuto -il sorriso che aveva provato a nascondere, infatti, non era sfuggito al proprio sguardo attento e poi perfino Claudio stesso poteva fare poco contro quei due mari espressivi che si ritrovava come occhi e che brillavano pieni d'emozione-, perché voleva dire che c'era ancora speranza per loro.

Raggiunsero la camera da letto in pochi minuti e Claudio aiutò Domenico a risistemarsi.

"Vado a sciacquare questo, torno subito."

Disse prendendo il secchio, da cui proveniva un pessimo odore, in una mano.

Domenico annuì appena, sistemandosi meglio il piumone addosso.

"Ti aspetto qui."

Mormorò piano, fissando gli occhi nei suoi. Lo avrebbe aspettato per altri dieci anni, anche per sempre se fosse stato necessario, si sarebbe sempre fatto trovare da lui.
Claudio, che colse facilmente anche le parole non dette, gli restituì lo sguardo e sospirò, restando in silenzio per un paio di secondi semplicemente a guardarlo, e dovette compiere un grande sforzo per sostenere la forza di quei pezzi di bosco.

"Dovresti cercare di riposare, non preoccuparti per me."

Anche lui gli stava dicendo molto di più di quanto non sembrasse, ma era certo che Domenico avrebbe colto -ed ignorato- il messaggio sotteso. Si allontanò rapidamente in bagno, dove lavò il secchio con accortezza, e fece una piccola deviazione in cucina prima di tornare in camera da letto.

Come previsto, Domenico era ancora perfettamente sveglio, quindi gli si avvicinò reggendo il secchio in una mano -non credeva avrebbe vomitato di nuovo, ma era sempre stato dell'idea che prevenire fosse meglio che curare- ed un barattolo di miele con un cucchiaino nell'altra.

Fu in particolare quest'ultimo a catturare l'attenzione di Domenico, che lo seguì con lo sguardo con particolare interesse.

"È miele?"

Chiese, anche se era piuttosto ovvio.

Claudio ridacchiò teneramente alla sua reazione degna di un cagnolone incuriosito e, dopo aver adagiato il secchio sul comodino, annuì e svitò il barattolo.

"Ho pensato che ti potesse aiutare con la gola dolorante. Vuoi?"

Domandò, ma certo di una risposta affermativa aveva già riempito il cucchiaino di liquido ambrato, tanto che in parte gocciolava nel barattolo.

Domenico annuì senza esitare e si mise a sedere, in modo da potersi avvicinare quanto bastava per soddisfare sì un'esigenza -lenire il bruciore alla gola-, ma anche la propria golosità -non era solo Claudio, infatti, ad avere un debole per i dolci-! Mugolò d'approvazione, senza ritegno, quando sentì la dolcezza inconfondibile del miele riempirgli la bocca che da lì poi, morbidamente, scese ad accarezzargli la gola dall'interno. Il sollievo fu immediato.

"Potrei averne un altro po'?"

Domandò, accennando un sorriso un po' impacciato.

Claudio annuì, sorridendogli pieno d'affetto. Ecco, questo era un tipo di premura che poteva concedergli senza rischiare di fargli del male.

"Ma certo! Tieni qui, Winnie!"

Esclamò con dolce ironia, che non era fatta per schernire, avvicinandogli di nuovo un cucchiaino ben pieno, anche più del precedente.

Domenico non poté trattenere una risatina a quel paragone, che gli sembrava parecchio azzeccato, e solo qualche istante dopo riuscì a far proprio anche quel boccone di miele. Si rimise disteso, poi, sospirando soddisfatto.

Claudio, che non gli tolse gli occhi di dosso, dovette imporsi di accantonare l'idea di baciare quelle labbra al sapore di miele -come invece non avrebbe esitato a fare in un'altra vita-  e chiuse per bene il barattolo.

"Questo lo lascio qui, nel caso in cui dovessi averne bisogno o voglia più tardi..."

Disse posando l'oggetto sul comodino, ma così facendo buttò lo sguardo sulla sveglia e si accorse che, ormai, erano le cinque del mattino da poco passate e sospirò pesantemente.

"Guarda qua che ore sono! Devi proprio dormire, adesso."

Aggiunse, un po' apprensivo, voltandosi a guardarlo.

Domenico guardò prima lui, poi la sveglia -anche se ebbe un po' di difficoltà a mettere a fuoco i numeretti e le lancette- e poi di nuovo lui.

"Anche tu, però."

Ribatté, con sguardo fermo e un tono che non ammetteva repliche.

Claudio, che poteva dire di conoscere più che bene la sua fermezza, decise di annuire, di assecondarlo, sia perché si sentiva effettivamente stanco e sia perché, soprattutto, era il modo più veloce per convincere l'altro a riposare.

"E infatti ti raggiungo subito!"

Disse allegro, con le labbra curve in un mezzo sorriso, per poi infilarsi a letto subito dopo.

Domenico, come un pezzo di ferro attratto da una calamita, si voltò su un fianco per guardarlo. Aveva sonno, sì, ma aveva anche un timore in particolare che gli rendeva difficile addormentarsi.

"Posso chiederti una cosa?"

Domandò a bassa voce e Claudio annuì, senza esitare.

"Certo, anche due."

Rispose, con dolcezza. Domenico prese un profondo respiro prima di parlare.

"Ti fa...schifo dormire con me?"

Sputò fuori con voce tremante, preferendo essere diretto perché tanto anche da lucido non sarebbe stato in grado di formulare quella domanda in un modo più elegante, non con il cuore che si agitava, lo stomaco che si stringeva e la mente che si annebbiava.

Claudio sgranò gli occhi, preso completamente alla sprovvista da quella domanda o meglio, dalla particolare parola che Domenico aveva utilizzato. Certo, con il proprio comportamento gli aveva sicuramente dato un'idea opposta, ma tra le tante sensazioni che gli provocava il dormire con lui -come la nostalgia per un passato lontano e la paura di fargli di nuovo male- lo schifo senz'altro non era presente. Gli si stringeva il cuore a sentirgli usare proprio quell'espressione perché indicava chiaramente che Domenico si sentiva in difetto, come se fosse stato lui quello a sbagliare qualcosa, segno di quanto fosse facile colpire un cuore grande come il suo. Si affrettò a scuotere il capo e gli rivolse un sorriso rassicurante.

"Ma no, certo che no..."

'Se solo fossi stato più attento, non avrei mai dovuto smettere di farlo.', si rimproverò in mente, come spesso accadeva.

Domenico sospirò di nuovo, stavolta mandando fuori una quantità maggiore di aria. Si sentiva appesantito da quella risposta che in teoria avrebbe dovuto rallegrarlo -se Claudio non provava disgusto a stargli vicino, allora poteva esserci ancora una speranza!- ma che nella pratica non faceva altro che confonderlo ancora di più -se Claudio non era disgustato all’idea, perché lo aveva evitato?-. Decise, allora, di fargli una seconda domanda.

"Allora perché...perché prima ti sei spostato?"

Chiese semplicemente, preferendo lasciare sottesa la naturale prosecuzione di quella domanda -nonostante tutto, non voleva rinfacciargli niente- che tuttavia trasparì dal proprio sguardo mesto: 'Avevi detto che saresti rimasto qui, accanto a me.'.

Claudio sapeva di aver tradito la sua fiducia, ma l'aveva fatto per una buona causa, l'aveva fatto per il suo bene. Del resto, quella era la stessa ragione che lo aveva portato a lasciarlo. Deglutì a vuoto, in modo da darsi qualche altro secondo per rispondere.

"Hai ragione e ti chiedo scusa, ma stavo per addormentarmi e mi sono alzato per restare sveglio e controllarti. Temevo che non sarei riuscito ad intervenire se tu ne avessi avuto bisogno, altrimenti."

Spiegò, a voce bassa ma chiara, senza distogliere i propri occhi dai suoi.

Domenico non ebbe bisogno di molte prove per capire che fosse sincero, lo conosceva abbastanza bene da sapergli leggere negli occhi -e in più se Claudio avesse voluto chiudere in fretta la questione avrebbe potuto rispondergli in maniera affermativa alla prima domanda in modo da liberarsi da una situazione scomoda-, ma proprio per questo motivo non poté trattenere un piccolo sbuffo, carico d'amarezza.

"Ti ringrazio, ma io avevo bisogno che tu restassi vicino a me."

Fece un respiro profondo.

"Io...io ho bisogno di te, Claudio! Possibile che, intelligente come sei, tu non riesca proprio a capire una cosa così semplice?"

Aggiunse, stanco: stanco fisicamente, certo -era stata una lunga giornata e non aveva quasi chiuso occhio-, ma stanco soprattutto di quella situazione che ormai si trascinava da anni, ma che al tempo stesso si sarebbe potuta risolvere in un attimo, se solo Claudio non avesse deciso di imporgliela.

Claudio scosse il capo, rifiutava quelle parole. Non era come diceva Domenico, non poteva esserlo, perché se fosse stato così allora l'amore non aveva alcun senso, diventava un gioco sadico e contorto in cui ci si fa nient’altro che male e non poteva accettare una spiegazione del genere. Nessuno ha bisogno di qualcuno che sa causare soltanto sofferenza, tantomeno lui che era così buono. Gli aveva promesso, in una mattina di Capodanno che sembrava perdersi nel tempo, che si sarebbe sempre preso cura di lui ed era ciò che stava facendo anche adesso: stargli lontano era quanto di più giusto potesse fare per lui.

"No, Domenico, ti stai sbagliando: tu non hai bisogno di me, hai bisogno di qualcuno che ti tratti bene, che non ti faccia soffrire, che non ti faccia del male..."

Rispose con tono calmo, pacato, che tuttavia non servì a trasmettere la stessa serenità all'altro.

Domenico, infatti, si sentì ribollire qualcosa dentro che lo portò ad interrompere l'altro come non aveva mai fatto prima: Claudio ancora si incolpava per quella ferita, per quella pallottola come se l'avesse sparata di suo pugno, senza capire che, invece, era stato soltanto grazie al pensiero di rivederlo che lui aveva resistito su quel tavolo operatorio e che si era ripreso tanto in fretta. Claudio l'aveva salvato.

"Ma tu mi fai male se non mi tocchi! Mi mancano le tue carezze, i tuoi baci, i tuoi abbracci, mi manca fare l'amore con te!"

Urlò, disperato più che arrabbiato, come un incendio che divampava all'improvviso e distruggeva tutto ciò che lo circondava, ma al tempo stesso dai suoi occhi in fiamme cominciò a sgorgare acqua che si univa a quel fuoco e lo rendeva liquido.

Claudio rimase impietrito, non l'aveva mai visto reagire così davanti a niente e, soprattutto, non l'aveva mai sentito gridargli contro prima di quella sera, ma accettò quelle urla disperate che facevano male come pallottole -ironia della sorte- senza replicare perché, lo sapeva, se le meritava. Schiuse leggermente le labbra, si sentiva in dovere di dire qualcosa, ma tutto gli sembrava inadatto, in quel momento. Era rimasto senza parole, ad eccezione dell'unica che non avrebbe mai dimenticato.

"Domenico..."

Mormorò appena, e la sua voce si perse subito nel vuoto.

Domenico aveva preso a respirare a pieni polmoni. In un attimo rese conto di ciò che aveva appena fatto –per la seconda volta nel giro di poco tempo, tra l’altro- e i suoi occhi si riempirono di spavento e dispiacere.

"Claudio, perdonami, io...ti chiedo scusa, non avrei dovuto..."

Cominciò a balbettare, ma Claudio lo interruppe con un cenno della mano.

"No, hey, tranquillo, è tutto a posto, davvero..."

Disse con voce morbida ed occhi comprensivi, umidi di lacrime che si sforzava di cacciare indietro. Avrebbe voluto accarezzarlo, baciarlo, fare l'amore con lui e sapeva perfettamente che, volendo, gli sarebbe bastato fare un gesto, la prima mossa, e Domenico gli avrebbe lasciato campo libero, ma sarebbe stato un comportamento egoista. No, Domenico meritava di più.

"...anzi, hai fatto bene a dirmi quelle cose, però devi cercare qualcuno che te le faccia dimenticare. Sono sicuro che non ti sarà difficile trovare la persona giusta."

Aggiunse, impegnandosi con tutto se stesso per mostrarsi sicuro di sé, per non rivelare quanto quelle parole gli facessero male -sembravano aghi o spine che si insinuavano sottopelle- e quanto il proprio cuore gli gridasse, lo implorasse, di non pronunciarle. Ne era davvero sicuro, però, che Domenico sarebbe riuscito a trovare la sua vera metà se solo si fosse convinto a cercarla, e lui sarebbe stato felice della sua felicità. Per quanto riguardava la propria, di metà, era chiaro che non fosse destinato ad averla: evidentemente, era nato incompleto e dispari.

Domenico lo fissò incredulo con gli occhi pieni di lacrime, mentre lo ascoltava pronunciare quelle parole senza senso. Non voleva cercare qualcun altro, lui la propria metà l'aveva già trovata e gli stava di fronte! Se anche si fosse messo a cercare e se anche avesse incontrato ogni singolo abitante della Terra, non sarebbe cambiato niente, non aveva dubbi che poi sarebbe tornato da lui. Si avvicinò a Claudio, in uno slancio un po' impacciato dettato dal cuore e aiutato dall'alcool che, evidentemente, ancora un po' gli circolava in corpo, e si rannicchiò al suo petto, aggrappandosi alla sua vestaglia.

"Ma sei tu la persona giusta per me...mi manchi così tanto..."

Mormorò con voce spezzata dalle lacrime, implorante.

Claudio, istintivamente, sollevò un braccio per stringere a sé Domenico, per cullarlo e rassicurarlo, ma prima ancora che potesse toccarlo si fermò e lo ritrasse. Questo gesto apparentemente semplice gli costò in realtà una grande fatica, perché non c'era niente di peggio che vedere Domenico così vulnerabile, indifeso e non poter fare nulla per aiutarlo, ma del resto era stato lui a ridurlo in quelle condizioni -ancora una volta gli aveva fatto del male- e certamente il veleno e la medicina ad esso corrispondente non potevano coincidere.

Capì, allora, che l'unica cosa che restava da fare, da tentare, era non reagire e mostrarsi freddo, distaccato, perché solo in questo modo Domenico avrebbe potuto credere che di lui non gli importava più niente e sarebbe riuscito ad andare avanti. Doveva farsi odiare e sperava che Domenico capisse di poter provare un sentimento del genere -solo nei propri riguardi, però, perché il suo cuore non doveva avvelenarsi-, così da liberarsi per sempre di lui ed andare avanti.

Si sforzò di restare impassibile, ad occhi chiusi e la mascella serrata per non cedere alla tentazione di guardarlo o parlargli, mentre Domenico piangeva e si aggrappava a lui -"Mi manchi, ti prego...mi manchi...", non smetteva di ripetere, come una preghiera, con voce sempre più flebile-, riuscendoci soltanto grazie al ricordo del corpo di Domenico che cadeva all'indietro sul pavimento sporco di quel magazzino, dei suoi occhi che si facevano sempre più distanti man mano che la sua ferita perdeva sangue -tanto sangue, troppo sangue, che lui non riusciva ad arrestare in nessun modo- e della sua voce debole che lo chiamava e gli diceva di scappare perché era pericoloso.
Domenico si addormentò qualche minuto dopo, forse perché aveva finito le lacrime, forse perché la stanchezza aveva preso il sopravvento, forse perché dormendo poteva sognare quei ricordi che ormai gli sembravano appartenere ad un'altra persona.

Claudio, sentendo il silenzio nella stanza, si decise a riaprire gli occhi e a spostarli sull'altro, che ora dormiva -il respiro regolare, seppur appesantito dal pianto, ne era una prova- e che, almeno all'apparenza, sembrava sereno. Gli asciugò la guancia con una mano, leggero, stando attento a non svegliarlo, e solo allora si concesse di piangere, di buttar fuori quelle lacrime amare che partivano dal cuore, ingoiando i singhiozzi per non fare rumore. Senza accorgersene, senza nemmeno volerlo in realtà, cadde addormentato a propria volta.

Quando si svegliò, si accorse che Domenico non si era mosso neanche di un centimetro, gli era rimasto accoccolato accanto esattamente come l'aveva lasciato, ma lui, invece, si era mosso eccome: nel sonno, o forse sarebbe stato meglio dire nel sogno, aveva concluso il movimento che aveva arrestato poche ore prima, e adesso cingeva Domenico in un abbraccio perfetto.

Da anni, ormai, era diventato sempre più difficile per lui trovare motivi per sorridere, sorridere davvero, ma in quella figura addormentata davanti a sé trovò tutte le ragioni che poteva desiderare e allora si aprì in un sorriso sincero, morbido, mentre l'accarezzava con lo sguardo.

Tutto era al proprio posto come in un puzzle perfettamente ricostruito, si respirava un'aria di pace, di quiete -perfino Roma, al di là del muro, era silenziosa nonostante fosse la mattina di Natale-, e cominciò a pensare di aver soltanto sognato quegli ultimi dieci anni, compresa la notte precedente, così come li ricordava, di aver fatto un incubo insomma, e che lui e Domenico non si fossero mai separati: doveva solo riprendersi dal torpore e lasciare che il sogno sfumasse per ricordarsi cos'era successo realmente e tornare alla realtà.

Ancora immerso in quella pace, e preso da quell'idea che gli sembrava sempre più sensata più a lungo ci rifletteva sopra, spostò la mano che teneva sulla schiena di Domenico tra i suoi capelli, lasciandogli una pigra carezza che, immediatamente, stimolò un sorriso rilassato sul volto dell'altro, una scena davanti alla quale gli fu impossibile trattenere un piccolo sospiro carico di tenerezza. 

Ecco, questa doveva essere la loro quotidianità: tra poco Domenico avrebbe aperto gli occhi, si sarebbero scambiati il buongiorno, un bacio -probabilmente più di uno- e sarebbero rimasti a coccolarsi a letto ancora un po' prima di fare colazione insieme ed aprire i rispettivi regali. Poi avrebbero preparato il pranzo insieme -non ricordava di aver fatto la spesa, ma anche questo doveva essere un ricordo che aspettava di riaffiorare-, in attesa della famiglia Liguori che sicuramente li avrebbe raggiunti e...sentì un suono fastidioso, un ronzio per la precisione, provenire dal comodino alla propria sinistra e subito si voltò per afferrare il proprio cellulare, non voleva che Domenico venisse svegliato da quel rumore.

Gli bastò leggere il nome sul display per realizzare che non c'era nessuna realtà da ricordare e che quei dieci anni erano passati esattamente come credeva: il mittente della chiamata, infatti, era Domenico, il quale però non poteva trovarsi dall'altro capo del telefono dato che era proprio lì accanto a lui -e ancora ronfava alla grossa- e dunque poteva trattarsi solamente di una persona. Fece un respiro profondo e lasciò rapidamente il letto e la stanza, chiudendosi la porta alle spalle, e solo allora trascinò l'icona verde.

"Ciao, Sara..."

Ebbe appena il tempo di dire, perché subito una voce femminile dall'altra parte prese la parola.

"Ho letto il tuo messaggio, Domenico è ancora da te?"

Domandò, brusca, senza nemmeno salutare. Claudio si schiarì la gola.

"Sì, è ancora qui. Al momento dorme, ma non appena si sveglia..."

Rispose, o almeno provò a rispondere, ma di nuovo Sara lo interruppe.

"Ah, non vorremmo essere di troppo disturbo all'Avvocato Vinci..."

Ribatté, con freddo livore. Probabilmente se una voce avesse potuto avvelenare, Claudio sarebbe stato già morto.

"Mandami l'indirizzo di casa tua e veniamo a prenderlo noi."

Aggiunse, il tono sbrigativo aveva ripreso il posto di quello acido, con la decisione di una tempesta.

Per Claudio era perfettamente chiaro che non poteva far altro che assecondarla e poi, in fin dei conti, era meglio così per Domenico: gli aveva detto certe cose, da ubriaco, che probabilmente non avrebbe detto da lucido e preferiva, quindi, risparmiargli l'imbarazzo di doversi giustificare.

"Va bene, te lo scrivo..."

Rispose, per poi trovarsi la chiamata chiusa in faccia. Un gesto sgarbato, certamente, ma non poteva prendersela con Sara: ai suoi occhi, e a ragione, era lo stronzo che aveva rovinato suo fratello, era semplicemente naturale che lo odiasse.

Inviò il proprio indirizzo a Sara, infilò il cellulare nella tasca dei pantaloni, si passò una mano sul viso -quando lo riportò in basso diede uno sguardo all'orologio, accorgendosi che erano le otto e trentasette del mattino- e tornò nella camera senza far rumore.

Vide che per fortuna Domenico dormiva ancora e fece per andare a recuperare le scarpe, lasciate ai piedi del lato opposto del letto, ma cambiò idea e tornò sui propri passi, avvicinandosi di nuovo a Domenico. Era pur sempre Natale e voleva fargli un regalo, anche se era sicuro che non gli sarebbe piaciuto, ma altrettanto certo che gli fosse servito per capire, per andare avanti. Lo lasciò sul cuscino, accanto al suo viso placido -avvertì il suo respiro caldo accarezzargli la pelle della mano ed attraversarla, trasformandosi in un brivido che lo lasciò senza fiato- poi recuperò le scarpe ed uscì, tornando in soggiorno dove indossò sia quelle che la giacca abbandonata sul divano, che si scambiò di posto con la vestaglia: nonostante i vestiti eleganti, aveva un aspetto trasandato di cui però, al momento, non gli importava.
Non aveva fame, sentiva lo stomaco talmente chiuso che sicuramente non avrebbe accettato nemmeno una briciola di pane, per cui si accomodò in poltrona in attesa dell'arrivo di Sara e tendendo l'orecchio ad eventuali rumori che potevano provenire dalla camera da letto, di cui aveva lasciato la porta leggermente socchiusa proprio per questo motivo.

Quando il citofono trillò, non troppo tempo dopo, tutto era ancora avvolto nel silenzio, se si escludevano i rumori della Città Eterna che sembrava essere tornata alla sua realtà. Andò subito ad aprire e nel giro di pochi minuti si ritrovò davanti alla porta di casa Sara, con uno sguardo che sembrava lanciare saette -anche lei aveva gli occhi verdi, proprio come Domenico, e Claudio provò una fitta allo stomaco a sentirsi guardare in quel modo da occhi così famigliari che non l'avevano mai guardato così- ed Enzo, il quale certamente non era meno arrabbiato.

Accennò un sorriso, sincero, e si spostò per farli entrare.

"Prego, accomodatevi. Posso offrirvi qualcosa?"

Chiese, cordiale, ma quella gentilezza non lo salvò dall'ennesima saetta. Sara, infatti, oltre a fulminarlo con lo sguardo, si avvicinò anche minacciosamente e gli puntò un indice contro.

"Tu ringrazia che sono qui solo per mio fratello! Dov'è?"

Domandò, diretta, per poi allontanarsi da lui e guardarsi intorno come se si aspettasse di trovarlo nell'ingresso.

Claudio si schiarì la voce ed accennò al corridoio con il capo.

"In camera da letto, l'ultima porta in fondo. Sta ancora dormendo, a dire il vero."

Sara si voltò di nuovo verso l'altro, stavolta sul viso aveva un'espressione di puro shock, che andava a mischiarsi con la rabbia già presente.

"Non avete dormito insieme, vero?!"

Esclamò, a voce così alta che Claudio ebbe paura che Domenico potesse sentirla e si voltò istintivamente verso la camera, seppur lontana, per captare qualche suono o movimento.

"Sì, ma...non nel senso che pensi tu."

Rispose tornando a guardarla.

Sara incrociò le braccia e sollevò un sopracciglio, impaziente di ricevere una spiegazione.

Claudio prese un profondo respiro e si affrettò a chiarire.

"Ieri notte, quando è arrivato qui, era ubriaco ed infreddolito, quasi non si reggeva in piedi, era evidente che avesse bisogno di riposare e così l'ho portato in camera e..."
Sara sbuffò, interrompendolo. Ecco che l'avvocato cominciava con l'arringa!

"Tu lo dovevi portare a casa, non in camera tua! Lì sì che si sarebbe riposato!"

Claudio sospirò, portandosi una mano sul fianco.

"Ci ho anche pensato, a dire il vero, ma poi ho pensato anche che Roma è piena di buche, che non fanno certo bene ad uno che ha bevuto tanto. Non volevo stesse male, tutto qui...anche se poi ha vomitato comunque."

Scrollò le spalle.

"Poi è stato meglio e mi ha chiesto di dormire accanto a lui e io...io ho accettato. Ma non abbiamo fatto altro, te lo giuro."

Concluse semplicemente, guardando la donna negli occhi senza un minimo di esitazione.

Sara soppesò il suo sguardo per qualche istante di silenzio ed in esso vide la sicurezza del mare: le venne in mente proprio l'immagine della vasta distesa d'acqua blu ferma ed immobile come a volte sapeva essere -sicuramente tutta colpa di Domenico e dei suoi mille elogi agli occhi di Claudio!- e capì, allora, che non stava mentendo. Dovette anche ammettere a se stessa che era stato anche gentile -il che era strano, dato che dietro quella faccia da principe si nascondeva uno stronzo!- ad avere il pensiero di fargli evitare le buche, cosa a cui lei sinceramente non aveva pensato, ma ciò non toglieva che si era comunque messo a letto con lui, il che non andava affatto bene dopo il modo in cui aveva trattato Domenico! Poteva sempre coricarsi da un'altra parte!

"E tu potevi rifiutare, no? Così l'hai illuso!"

Esclamò sbattendo le mani lungo i fianchi in un gesto di stizza, poi prese a respirare lentamente per calmarsi e subito Enzo le fu accanto, cingendola con un braccio.
Claudio abbassò lo sguardo e si morse l'interno del labbro inferiore perché sì, Sara in questo aveva ragione, terribilmente ragione. Aveva dato a Domenico qualcosa che non aveva più intenzione di dargli e questo, a conti fatti, era peggio di un rifiuto netto.

"Lo so, hai ragione, non avrei dovuto. Ho cercato di...di mettere le cose in chiaro il più possibile, però, per quanto ho potuto."

Spiegò anche se, se ne rendeva conto da solo, non si trattava di una grande difesa.

Sara sospirò amaramente ed un sorriso ancora più amaro si fece largo sul proprio volto. Lasciò andare l'abbraccio di Enzo, in modo da potersi avvicinare di più all’avvocato.

"Sai qual è il fatto, Claudio? Che mio fratello è buono, così tanto che molti lo scambiano per fesso e provano pure ad approfittarsene, ma Domenico fesso non è, è intelligente, quindi se ne accorge e allontana quelle persone, ma poi ci sta male..."

Cominciò a dire, con tono molto più calmo, ma appesantito da una forte malinconia.

"Con te pensava di aver trovato l'amore della sua vita, sapessi quante cose belle diceva di te, anche quando non stavate ancora insieme, anzi perfino quando ti ha portato a casa la primissima volta e a stento sapeva il tuo nome ci ha tenuto a dire a nostra madre che tu eri un bravo ragazzo, che l'aveva capito subito...e invece stavolta non aveva capito niente, e non ha capito niente neanche ora, che continua a difenderti come se tu non gli avessi fatto nulla!"

Claudio, ancora a capo chino, ascoltava senza emettere un suono. Gli occhi si riempirono di lacrime e lui li richiuse, strizzando le palpebre con forza per non farle uscire. Erano lacrime di colpa e bruciavano più del normale: aveva ricevuto tutto quell'amore e lo aveva gettato via come nulla, per uno stupido atto di superbia!

"E guardami in faccia quando ti parlo, almeno!"

Lo rimproverò Sara, e Claudio si affrettò a riportare lo sguardo in alto.

"Hai ragione, scusami..."

Disse, passandosi il palmo sulle guance, ora rigate dalle lacrime.

Sara, comunque, non si lasciò impietosire da quella reazione che, per quanto ne sapeva, poteva benissimo essere finta: del resto, gli avvocati dovevano essere anche un po' attori per risultare convincenti, no?

"Tu gli hai spezzato il cuore, lo sai, vero? Avresti potuto almeno inventarti una scusa migliore per lasciarlo!"

Claudio si accigliò, confuso.

"Come? Una...una scusa?"

Sara sbuffò, spazientita

"Eh, la storia della pallottola. Ci crede solo lui, sappilo."

Disse, sbrigativa.

Claudio scosse il capo e prese un profondo sospiro, asciugandosi di nuovo le guance bagnate.

"Non è una scusa, è la verità. È stato ferito per colpa mia, è come se fossi stato io a premere quel dannato grilletto...non sono un bene, per lui."

Spiegò, cercando di non far tremare eccessivamente la voce. Ripetere quella storia, ogni volta, significava rivedere quelle immagini, rivivere quei momenti, e dire che fosse doloroso era poco.

Sara, che non poteva credere alle proprie orecchie, si scambiò uno sguardo d'intesa col marito per essere davvero sicura di ciò che aveva appena sentito prima di tornare a guardare l'altro.

"Quindi tu davvero gli hai rovinato la vita per questo motivo insensato?"

Claudio si sentì pungere da quell'affermazione come se un ago gli fosse appena entrato sotto la pelle. La paura che aveva provato credendo di vedere Domenico morire non era insensata, la consapevolezza che se ciò fosse accaduto sarebbe stata solamente colpa sua non era insensata, l'amore -e che cos'era l'amore se non la volontà di proteggere nella sua forma più pura?- che provava per Domenico non era futile, non era insensato e dunque, di conseguenza, quel motivo non era insensato. Sara non sapeva tutto questo, quindi non poteva capire e non gliene faceva una colpa, ma non aveva nemmeno la forza di mettersi a spiegarle tutto per filo e per segno e non voleva nemmeno litigare con lei, ovviamente.

"Senti, Sara, non ti offendere, ma ne ho già parlato con lui e non ho voglia di riaprire il discorso. Vado a farmi un giro, se volete mangiare qualcosa in cucina c'è un po' di tutto, non fate complimenti. Ti chiedo solo di lasciare le chiavi al portiere quando avete finito, grazie."

Si sbrigò a dire, indossando rapidamente il cappotto per poi uscire senza darle possibilità di replica. Un gesto poco galante, sicuramente, ma che almeno evitava discussioni inutili -l'unica persona che doveva conoscere le proprie motivazioni le sapeva già- e che permetteva a Sara di fare ciò per cui era venuta, cioè riportare il fratello a casa.
 
*****
 
"Buongiorno, Mimmo. Svegliati, dai."

Domenico sentì quelle parole, pronunciate da una voce dolce e famigliare, accarezzargli le orecchie e, contemporaneamente, il tocco morbido e leggero di una mano sottile, conosceva bene anche questo, accarezzargli i capelli. Rispose, però, con un mugugno stanco, rintanandosi ancor di più sotto il piumone caldo: se riusciva a riaddormentarsi in fretta, forse avrebbe ripreso quel sogno bellissimo che stava facendo, in cui Claudio lo teneva stretto a sé e lo accarezzava, guardandolo con infinito amore.

Sara ridacchiò intenerita alla reazione del fratello, ma non poteva lasciarlo dormire: insomma, non potevano rimanere in quella casa per sempre e, onestamente, non ne aveva nemmeno voglia!

"Dai, Mimmo, non fare il bambino! Non vorrai trascorrere tutto il giorno di Natale a letto, no?"

Domenico liberò un profondo sospiro, pesante e assonnato. ‘Ah già, è Natale.’, pensò, e si decise ad aprire gli occhi, tanto sapeva che Sara non gliel'avrebbe data vinta. Gli bastò un'occhiata per rendersi conto, o meglio per ricordare, di non trovarsi in casa propria, ed un sorriso amaro si fece largo sulle proprie labbra quando ricordò dov'era.

Si voltò sulla schiena, in modo da poter vedere la sorella in faccia, e le rivolse un sorriso un po' più cordiale.

"Buongiorno a te, Sara..."

Disse, allungando una mano ad accarezzare la sua.

Sara ricambiò la carezza e gli sorrise, allegra.

"Ti va un caffè? Enzo lo sta già preparando, così ti rimetti in sesto..."

Domenico rifiutò scuotendo il capo. C'era anche Enzo, quindi, e non ci volle molto a capire che doveva essere stato Claudio ad avvisarli in qualche modo. Aveva fatto bene, in fin dei conti, considerando quanto si sarebbero spaventati -soprattutto sua madre!- a non trovarlo a casa.

"No, grazie, sono a posto..."

Rispose, ed in effetti era vero: a parte un leggero mal di testa e un trascurabile intorpidimento generale, stava benissimo. Aveva decisamente avuto doposbornia peggiori.

"Senti, ma...Claudio dov'è?"

Domandò, senza preoccuparsi di nascondere una leggera apprensione nella voce e nello sguardo. Voleva almeno salutarlo, prima di andar via.

Sara scrollò le spalle, sforzandosi con tutta se stessa di rispondere in modo pacato. Sapeva bene che il fratello si chiudeva a riccio quando lei -o chiunque altro, a dire il vero- parlava male dell'avvocato Vinci e non era il caso di farlo indispettire, non sarebbe servito a niente.

"È uscito, ha detto che andava a fare un giro. Adesso alzati, dai, dobbiamo andare anche noi. C'è Lucia che aspetta solo te!"

Esclamò, sperando di coinvolgerlo con il proprio entusiasmo.

Domenico sorrise morbidamente al pensiero della nipote, ma non voleva ancora lasciare quelle lenzuola, anche se Claudio era andato via. Voleva restare avvolto nel suo odore ancora per un po', quanto bastava a portarlo con sé. Annuì appena, guardando la sorella negli occhi.

"Mi puoi dare qualche altro minuto? Per favore..."

Sarà lo fissò per qualche istante, le labbra leggermente arricciate in un'espressione pensierosa, ma alla fine decise di assecondarlo.

"D'accordo, ma non troppo, va bene? Ti aspetto di là."

Disse, alzandosi.

Domenico accennò un sorriso, riconoscente.

"Grazie."

Rispose, per poi guardarla andare via chiudendosi la porta alle spalle.

Non appena la porta si chiuse, spostò lo sguardo e lo portò in alto, sospirando rumorosamente. Lì, su quel soffitto bianco, gli sembrò di rivedere uno ad uno tutti i ricordi della notte precedente, come se fosse stato il telo di un cinema, ed erano nitidi, perfetti, perché evidentemente nemmeno l'alcool era riuscito ad annebbiarli:

c'erano le luci della città che gli sfarfallavano davanti come piccole galassie mentre lui sfrecciava tra di esse in sella alla propria moto con il cuore che batteva all'impazzata non per la velocità, ma per l'emozione;

c'era lo sguardo sorpreso di Claudio quando l'aveva visto sotto casa, la sua presa delicata eppure salda quando l'aveva afferrato per aiutarlo a reggersi in piedi e c'era la sua camomilla dal sapore dolce e caldo;

c'erano le mani di Claudio che, con precisione, disponevano le statuine nel piccolo presepe e da cui lui non riusciva a staccare lo sguardo, era come incantato, e c'era una sensazione di pace indescrivibile, c'era il Natale;

c'erano mani che si stringevano come se non avessero mai smesso e c'era poi un ricordo più brutto, dal sapore acido, che solo a ripensarci gli fece arricciare il naso, ma che venne presto sostituito da un ricordo assai più bello, le carezze morbide di Claudio che gli davano coraggio e gli facevano passare ogni dolore;

c'erano parole, tante parole, forse troppe, che si era tenuto dentro troppo a lungo e risposte che, a sentirle, facevano male dentro;

c'erano lacrime e c'era il calore del corpo di Claudio -che mai avrebbe pensato di poter sentire di nuovo- che però gli arrivava distante, lontano, come se ci fosse stato qualcosa a separarli;

c'era poi un abbraccio, caldo per davvero, ma questo, sicuramente, più che un ricordo era un sogno.

Chiuse gli occhi, strizzandoli forte, e si portò entrambe le mani sul viso.

"Dio, che coglione che sono stato!"

Borbottò tra sé e sé, riferendosi alle confessioni che, involontariamente, aveva buttato fuori.

"Proprio un coglione...un ridicolo coglione!"

Aggiunse ancora, imprecando contro se stesso, mentre portava giù le mani.

"Ci credo che se n'è andato, stamattina..."

Sospirò, e la vergogna fu un motore sufficiente per alzarsi.

Si spogliò in fretta del pigiama ed indossò i vestiti altrettanto rapidamente, scervellandosi intanto per trovare il modo adatto a scusarsi con Claudio, ma ogni frase, ogni parola, gli sembrava insensata, inutile o banale.

Decise anche di piegare il pigiama e rifare il letto, perché aveva già dato troppo fastidio a Claudio e non voleva lasciargli anche la stanza in disordine, e proprio mentre sistemava il cuscino il suo sguardo venne attirato da un piccolo oggetto che era scivolato sul materasso ma che, precedentemente, doveva trovarsi lì.

Lo prese in una mano e non fece fatica a riconoscerlo: era, infatti, la pietra verde che aveva regalato a Claudio quando si erano conosciuti. Se la rigirò più volte davanti agli occhi, con la delicatezza che sarebbe spettata ad una reliquia, incredulo nonostante potesse toccarla e guardarla.

Pensava che Claudio non l'avesse più, che magari l'avesse buttata o persa -non si trattava di un gioiello di valore, dopotutto-, ed invece l'aveva conservata per tutto questo tempo, il che doveva necessariamente significare qualcosa e lui, in cuor proprio, sperava volesse dire che di tanto in tanto Claudio ancora la guardava e lo pensava; la sola idea fu abbastanza per fargli spuntare un gran sorriso sulle labbra.

Il sorriso, tuttavia, si spense in fretta perché se, da un lato, cosa significava il fatto che Claudio avesse conservato quel ciondolo poteva saperlo per davvero solo il diretto interessato, dall'altro il fatto che fosse stato lasciato lì volontariamente -il cordino era intatto, non si era strappato, ed inoltre era avvolto intorno alla pietra stessa, e questa sicuramente non poteva essere una disposizione dovuta al caso- poteva capirlo anche lui, e anzi lo capiva perfettamente, perché del resto era il messaggio che Claudio gli aveva ripetuto per tutta la notte e cioè che non voleva più avere legami con lui.

Se lui, nelle ore precedenti, aveva provato e riprovato a ribattere a quella richiesta, ora non poteva più farlo perché Claudio non era lì, se n'era andato, e con la sua assenza l'avvocato che non perdeva mai una causa aveva avuto l'ultima parola.

Domenico sorrise amaramente all'idea, ma non c'era altro che potesse fare, doveva accettare quella situazione. Conoscendosi, sapeva che non sarebbe riuscito ad andare avanti come Claudio voleva che facesse, sapeva che non avrebbe cercato un'altra persona perché tanto sarebbe stato inutile, ma non poteva nemmeno forzarlo ad una relazione che, evidentemente, non desiderava.

"Va bene, Claudio, come vuoi tu..."

Sussurrò, rassegnato, nella stanza vuota. Indossò la collana, nascondendo il ciondolo sotto la camicia, si affrettò a risistemare il letto e poi uscì dalla camera dopo averci dato un ultimo sguardo, raggiungendo Sara ed Enzo in soggiorno.
 
*****
 
Claudio si portò la sigaretta alle labbra -era la terza o la quarta da quando era uscito, non ci aveva fatto caso-, fermo sul marciapiede come un fantasma che nessuno poteva vedere. Non era andato a fare una passeggiata come aveva detto a Sara -del resto, dove mai sarebbe potuto andare?-, si era limitato semplicemente ad attraversare la strada, ad allontanarsi un po' e, dopo aver trovato un punto riparato da qualche automobile parcheggiata, lì era rimasto, stretto nel suo lungo cappotto e con gli occhi fissi puntati sul portone di fronte.
 
Da lì, dopo qualche minuto, vide uscire Sara, Enzo e Domenico tra i due -gli sembrò quasi che lo stessero scortando- e trattenne il fiato, dimenticandosi della sigaretta che si stava portando nuovamente alle labbra e da cui cadde un po' di cenere, dritta sul cappotto, ma di cui non si accorse nemmeno.

Domenico, che stava camminando a testa bassa verso l'auto della sorella, sollevò il capo e si fermò, facendo un giro su se stesso per guardare dietro di sé: la sensazione di quegli blu addosso, infatti, era inconfondibile. Anche Claudio lo vide, non finse nemmeno di guardare altrove perché tanto non poteva sfuggire a quegli occhi verdi, e rimasero lì, fermi, a scambiarsi uno sguardo silenzioso.

Non si fecero cenni di saluto, non si scambiarono un'ultima parola gridata da un capo all'altro della strada, perché non ce ne fu bisogno: entrambi sapevano che si stavano dicendo addio, che da quel momento in poi le loro vite sarebbero state esattamente come erano loro adesso, a pochi metri di distanza, ma lontani ed irraggiungibili.

"Dai Mimmo, andiamo..."

Mormorò Sara, toccando il braccio del fratello. Domenico annuì distrattamente, senza prestarle davvero attenzione.

"Sì...sì, arrivo..."

Rispose, ma non si mosse subito. Si prese ancora il tempo di un respiro per riempirsi gli occhi di Claudio e poi si voltò, seguendo la sorella ed il cognato.

Claudio attese che Domenico salisse in auto -che presumeva fosse quella di Sara dato che Enzo, invece, era salito sulla moto di Domenico- e che l'auto sparisse dietro l'angolo della strada prima di fare un altro tiro di sigaretta ed accorgersi che fosse arrivata al filtro. La spense, gettandola in un cestino apposito nei paraggi, e se ne accese un'altra: non aveva fretta di tornare in un appartamento vuoto.

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Capitolo 41
*** Appendice, Capitolo 7 – Tu mi guardi e ci scappa da ridere (parte 1) ***


Roma, Ottobre 2022

"Amore mio, facciamo che la prossima volta che mi trascini a correre controlli almeno il meteo?"

Mugolò Claudio, scosso dai brividi e stretto nelle braccia su cui faceva scorrere le mani nel tentativo di scaldarsi un po' -anche se con scarsi risultati, visto lo stato in cui versavano i propri vestiti- seguendo a passo svelto Domenico, che aveva appena aperto la porta, dentro casa.

Erano usciti per la loro corsetta mattutina, abitudine che avevano preso da quando erano andati a vivere insieme -per la precisione era già da tempo parte della routine di Domenico, in cui quest'ultimo, in un modo che Claudio ancora non riusciva a spiegarsi, era riuscito a coinvolgere anche lui-, ma dopo appena un paio di giri del parchetto del quartiere erano stati interrotti da un temporale improvviso che li aveva costretti a rincasare.

"L'ho fatto, core mij, figurati se volevo farci finire così, ma non portava pioggia!"

Replicò Domenico, sinceramente dispiaciuto. La giornata, fatta eccezione per il risveglio che li aveva visti abbracciati esattamente come si erano addormentati, era partita decisamente male ed aveva il timore che potesse finire peggio. Era poco più di una sensazione, lui non era certo un indovino che leggeva nel futuro, ma certi giorni si fanno riconoscere subito come peggiori di altri e questo ne aveva tutte le possibilità.

"Immagino si chiamino previsioni e non certezze per un motivo."

Aggiunse, con voce più leggera, nel tentativo di farlo sorridere ed in effetti ci riuscì, perché Claudio accennò una piccola risata -amava il modo in cui Domenico riusciva sempre a tirargli su il morale tanto quanto amava lui- e gli si avvicinò di qualche passo, posandogli un bacio leggero sulle labbra. Dal canto proprio, aveva la certezza che quel giorno sarebbe finito bene, pioggia o meno non avrebbe fatto differenza.

"Allora è un segno del destino, dobbiamo tornare a letto! Le forze della Natura hanno deciso così!"

Esclamò, volutamente enfatico, con le labbra ricurve in un sorriso furbo e vispo, e gli occhi illuminati da una luce eloquente.

Domenico scoppiò a ridere ed una morbida luce gli arrivò fino agli occhi che, anche se socchiusi dalle risate, non rinunciavano a guardare Claudio con infinito amore. Non voleva sprecare nemmeno un istante ora che lo riaveva con sé ed era infinitamente grato di poterlo fare.

"Quanto la fai tragica! Ora ci asciughiamo e ci torniamo, mh? Che dici?"

Claudio sorrise dolcemente, perso nei suoi occhi luminosi che ogni giorno ringraziava di riavere nella propria vita.

"Dico che ci tornerei anche bagnato!"

Domenico rise di nuovo e gli passò una mano tra i capelli umidi, arruffandoli un po'. Claudio ridacchiò, lasciandolo fare: era ben felice di farsi scompigliare.

"No, non mi sembra proprio il caso!"

Sentenziò Domenico, divertito, per poi accennare con il capo ad un salottino appena oltre il minuscolo ingresso.

"Vado a prenderti un asciugamano, tu aspettami di là, ok?"

Claudio annuì, ancora sorridente.

"Prendine uno anche per te!"

"Sì, tranquillo."

Rispose Domenico, spostando poi la mano alla cerniera della felpa che l'altro indossava.

"Questa è meglio se te la levi."

Così dicendo, con le labbra leggermente sollevate in un angolo, fece scivolare la zip fino ad aprire la felpa e aiutò l'altro a sfilarsela. Se la poggiò su un braccio, poi, piegata a metà.

"Torno subito."

Disse, prima di allontanarsi verso il bagno.

Claudio tirò su col naso, che sentiva un po' umido, poi si chinò a slacciarsi le scarpe -almeno quelle avevano retto bene all'acqua ed erano asciutte- e si spostò nella stanza che Domenico gli aveva indicato, un salotto piccolo ma confortevole, completo di divano, televisore e libreria.

Era l'appartamento di Domenico, quello, ma da circa un paio di settimane era diventato casa loro: in realtà avevano cominciato, o meglio ricominciato, a convivere nel momento esatto in cui si erano rimessi insieme, riallacciandosi ai fili di un tempo passato, e per un primo periodo la loro casa era stata l'appartamento di Claudio.
Non era stata una cosa che avevano programmato, era successa e basta: Domenico era rimasto a dormire da Claudio la notte in cui avevano riunito le loro metà, poi avevano entrambi accompagnato Manuel in commissariato per la sua deposizione ed una volta arrivati a fine giornata nessuno dei due aveva avuto voglia di tornare a dormire da solo e così, da quel momento, non l'avevano più fatto.

L'appartamento che prima era stato solo di Claudio era molto grande, abbastanza per contenere anche tutto ciò che Domenico portava, all'occorrenza, da quello che era stato il suo appartamento, ma a poco a poco era nato in loro il desiderio di scegliere una casa insieme, che fosse davvero loro sotto ogni aspetto.

Da giovani non avevano avuto l'opportunità di compiere un passo del genere, non avevano i mezzi per farlo, e così avevano vissuto nell'appartamento che aveva scelto il padre di Claudio, ma ora la situazione era decisamente diversa. L'occasione si era presentata poco più di un mese prima, quando Simone e Manuel, conoscendo le loro intenzioni, li avevano informati del fatto che si era liberata una villa poco distante dalla loro, e certamente Claudio e Domenico non se l'erano fatta sfuggire: era bastata una sola visita per capire che fosse perfetta per loro, era stato una sorta di amore a prima vista, e senza indugiare ulteriormente avevano deciso di prenderla.

La prima parte del trasloco, che comprendeva ciò che avevano deciso di trasferire dall'ex appartamento di Claudio -lo scomodo divano di design non era sopravvissuto alla cernita, ad esempio- e che per questo era quella più lunga e faticosa, era già stata portata a termine e la seconda aveva da poco avuto inizio: nel salottino, infatti, c'erano diversi scatoloni, anche se soltanto alcuni erano già pieni, chiusi con il nastro adesivo ed il cui contenuto era indicato con precisione sul lato in alto, mentre la maggior parte era ancora accatastata ad una parete, in attesa di essere montata e riempita.

L'ambiente, così, risultava un po' disordinato, ma ciò non costitutiva un problema perché quelle semplici scatole -a cui non era stato possibile trovare una diversa sistemazione a causa delle modeste dimensioni dell'appartamento- erano il mezzo materiale per realizzare un sogno, il loro sogno, che era decisamente la cosa più importante.

Claudio si accasciò sul divano liberando un rumoroso sospiro di sollievo, e portò il capo sullo schienale, ad occhi chiusi, per riprendersi dalla seppur breve corsa mentre aspettava che Domenico tornasse.

Domenico, come promesso, non si fece attendere a lungo: appena arrivato in bagno si sfilò a propria volta le scarpe -fortunatamente anche le proprie avevano retto- e la felpa, che infilò in lavatrice insieme a quella di Claudio, poi prese due asciugamani di cui uno, per sé, se l'appoggiò sul collo dopo essersi asciugato sommariamente il viso mentre l'altro, per Claudio, lo tenne semplicemente in mano.

Gli bastò uscire dal bagno e affacciarsi appena oltre la porta del salotto, lasciata aperta, per accorgersi che Claudio non si sarebbe accorto della propria presenza -poteva sembrare dormisse, con la testa reclinata sul divano e gli occhi chiusi, se non fosse stato per i respiri profondi e cadenzati che stava facendo. Sorrise sghembo, gli occhi illuminati da un lampo di furbizia, e si avvicinò a passo felpato -aiutato dal fatto di stare in calzini-, tenendo l'asciugamano ben teso tra le mani. Gli arrivò dietro senza che l'altro si accorgesse di nulla e gli agguantò la testa con l'asciugamano, cominciando a muoverlo freneticamente con le mani.

Claudio aprì gli occhi con una risata allegra, cristallina, piena di sorpresa ma anche d'amore. Cercò di voltarsi verso Domenico, ma invano, perché l'asciugamano gli era finito anche davanti agli occhi e non vedeva granché.

"Mi fai gli agguati, adesso?"

Chiese, ancora ridendo.

Domenico vibrò di una risata gutturale, calda e felice, contagiato da quella dell'altro, chinandosi poi a posare un bacio sulla punta del suo naso arricciato che gli piaceva da impazzire.

"Mh, diciamo che potrei farci l'abitudine..."

Rispose, una volta separatosi da lui, mettendo su un sorriso sghembo. Spostò l'asciugamano per passargli una mano tra i capelli, in modo da controllare che fossero asciutti.

"Comunque mi sembra che vada meglio, no?"

Chiese, approfittando del momento per accarezzarlo. Claudio, che finalmente poteva guardarlo, fece incontrare i propri occhi con i suoi e annuì, sorridendo a quelle carezze delicate che gli davano serenità.

"Decisamente meglio, sì."

Si accorse, ora che poteva, che Domenico era ancora completamente bagnato, tanto che qualche gocciolina d'acqua gli colava dai capelli, e lui non poteva certo permettere che restasse in quelle condizioni ancora a lungo!

"Però, sai..."

Cominciò a dire, sollevando leggermente un sopracciglio.

"...chi di agguato ferisce, di agguato perisce!"

Esclamò balzando in piedi ed in un attimo fece il giro del divano per raggiungere l'altro. Sfilò l'asciugamano dal suo collo e prese a passarglielo tra i capelli con entrambe le mani, eseguendo movimenti decisi e rapidi.

Domenico, anche se dotato di riflessi che gli avrebbero permesso di evitare l'agguato senza problemi, non si mosse di un solo centimetro, preferendo di gran lunga godersi quelle attenzioni che lo facevano ridere di cuore.

A vederli sembravano due ragazzini nel corpo di due adulti, ma in fondo era esattamente ciò che erano.

Claudio, dopo un po', abbassò l'asciugamano e fece scorrere le dita tra i suoi capelli per controllare che non fossero più bagnati.

"Che dici, ti senti asciutto?"

Domandò, premuroso. Domenico annuì, con ancora il sorriso sulle labbra.

"Asciuttissimo."

Rispose, convinto, avvicinandosi quanto bastava per far incontrare le punte dei loro nasi in piccole carezze leggere. Claudio ridacchiò morbidamente e cominciò a muovere a propria volta il capo per rispondere a quei tocchi allo stesso modo.

"Oh, bene..."

Approfittando della loro vicinanza, prese il viso di Domenico tra le mani gli accarezzò una guancia coperta dalla barba ancora leggermente umida.

"Allora, adesso che siamo abbastanza asciutti direi che possiamo tornare a letto."

Soffiò, a pochissima distanza dalla sua bocca, tanto che quasi la sfiorava soltanto parlando.

Domenico dischiuse appena le labbra, un riflesso incondizionato scatenato dalla vicinanza di quelle dell'altro, mentre un brivido caldo e piacevole, niente a che vedere con quelli causati dalla pioggia, lo attraversava.

"Ah, tu dici?"

Chiese a bassa voce, intrigato, cingendolo morbidamente tra le braccia, e da quella posizione prese a far scorrere lentamente, dall'alto verso il basso e viceversa, le dita sui suoi fianchi, lasciando che la maglietta gli accarezzasse la pelle.

Claudio, che mugolò per quelle piccole attenzioni, annuì lentamente, senza smettere di guardarlo, e spostò una mano ad accarezzargli con il pollice quelle labbra dischiuse appena screpolate dal freddo, ma comunque infinitamente invitanti, mentre con l'altra continuava ad accarezzargli il viso tracciando piccoli movimenti regolari, su e giù.

"Mh-hm, dico."

Rispose, languido, accennando un sorriso furbetto. Domenico si sentì attraversare da un altro piacevole brivido che liberò in un piccolo sbuffo divertito.

"E mi sa che dici proprio bene"

Sussurrò con voce roca, per poi annullare la distanza tra loro e dare inizio ad un bacio a cui Claudio subito si unì, un incontro di labbra un po' umide e fredde, ma che trovavano in quel bacio, così stretto da non lasciare spazio per i respiri, un modo per scaldarsi.

Domenico fece scivolare le mani verso il centro della schiena di Claudio e poi più in basso, fino a raggiungere il bordo della maglietta umida che afferrò con la punta delle dita, sollevandolo di poco.

"Posso?"

Sussurrò, con un filo di voce affannata.

Claudio fu scosso da un fremito quando avvertì le dita di Domenico che lo sfioravano, voleva più di quel contatto appena accennato e allora annuì, accarezzandogli una guancia.

"Tu puoi fare di tutto, lo sai."

Mormorò, avvicinandosi subito dopo a dargli un bacio a fior di labbra prima di sollevare le braccia per facilitargli il compito.

Domenico, senza esitare, gli sfilò la maglietta azzurra e la gettò sul divano, che tanto per quello che volevano fare non sarebbe servito loro, e si scambiarono un sorriso guardandosi negli occhi.

Domenico si fiondò nuovamente sulle labbra che completavano le proprie, dando vita ad un bacio affamato e scomposto, e lo tirò a sé per i fianchi per poi avvolgergli la schiena nuda, con una delicatezza che contrastava con l'emergenza di quel bacio, e Claudio assecondò quel movimento con naturalezza, sorridendo per un istante sulle sue labbra prima di riprendere a baciarle, lasciandosi avvolgere dalle braccia amate.

Domenico, infatti, questa volta non fermò le proprie mani sui suoi fianchi, ma le fece scorrere fino alla sua schiena, che prese ad accarezzare con tocchi delicati, seguendo una traiettoria non studiata ma istintiva, dettata dal cuore e dal desiderio di dare a quella pelle ruvida -sentiva distintamente sotto le dita quelle cicatrici dure che si estendevano come un labirinto intricato di cui lui tuttavia conosceva alla perfezione il percorso- la morbidezza che meritava, come aveva sempre fatto e come non avrebbe mai smesso di fare. Intanto, con una scia di baci, si spostò sulla sua guancia, coperta da una barba folta e curata, nonché ancora imperlinata da qualche piccola goccia d'acqua, e si fece strada sul suo collo caldo velato da un leggero strato di sudore -dubitava che, in quel caso, si trattasse di pioggia- fino ad arrivare alla sua spalla, dove si fermò senza smettere di posarvi baci.

Da quella posizione, abbassando leggermente gli occhi, poteva anche guardare quelle cicatrici che ora, dopo anni, avevano perso il loro colore sanguigno ed erano diventate biancastre, il loro aspetto era quasi lucido a causa della pelle che era ricresciuta nel modo più naturale che poteva dopo aver ricevuto ferite che di naturale non avevano nulla, e nel loro intrecciarsi ricordavano la ragnatela di un ragno, senz'altro un ragno velenoso, che aveva tenuto Claudio intrappolato per troppo tempo.

Claudio, che intanto aveva poggiato la testa sulla spalla del compagno, sorrise sul suo collo, respirando il suo profumo caldo e beandosi del suo tepore. Non avrebbe mai creduto che, un giorno, sarebbe riuscito a sorridere di quelle cicatrici, a provare qualcosa di diverso dal dolore, dalla vergogna e dal disgusto, non credeva fosse proprio possibile, eppure i baci e le carezze che Domenico gli aveva sempre donato le avevano trasformate in qualcosa con cui riusciva a convivere, qualcosa che, nonostante tutto, era bello. Il ricordo di ciò che era accaduto non era svanito e probabilmente non l’avrebbe mai fatto, ma sentiva che non aveva più potere su di lui, che era riuscito ad andare avanti: l'amore l'aveva guarito.

Si rese ben presto conto, però, di essere l'unico che stava ricevendo attenzioni, ma non era il solo ad avere delle cicatrici, per cui sollevò il capo, per quanto possibile.

"Domenico?"

Domenico immediatamente alzò la testa, spostandosi per far incontrare i loro occhi.

"Che c'è? Qualcosa non va?"

Chiese con la solita dolce premura, anche se gli sembrava che fosse tutto a posto. Claudio scosse il capo, accennando una risatina.

"No, figurati, però..."

Fece scivolare una mano lungo il suo busto e prese un lembo della maglietta, sollevandolo di poco.

"...permetti?"

Chiese, accompagnandosi con uno sguardo eloquente, luminoso e furbo. Domenico liberò uno sbuffo divertito e poi sorrise, facendo un piccolo cenno d'assenso con la testa.

"Non hai bisogno del permesso, lo sai."

Rispose con voce morbida, sollevando le braccia come poco prima aveva fatto l'altro, e Claudio con la sua stessa rapidità lo liberò dalla maglietta bianca che andò a far compagnia a quella grigia sul divano. Con uno slancio, tornò di nuovo sulle labbra dell'altro, ma non erano il suo vero obbiettivo ed infatti vi posò solo un paio di baci leggeri prima di spostarsi sulla sua guancia e poi più in basso, sul suo collo, ma neanche lì sostò molto, solo il tempo che bastava a raggiungere il suo petto -liscio, ad eccezione di una leggera peluria che cresceva giusto al centro e che, come i suoi capelli, tendeva al grigio e al bianco più che al nero- che si muoveva al ritmo lento dei suoi respiri.

Lo teneva per i fianchi con le mani strette in una presa salda, sicura, ed intanto accarezzava con la punta del naso piccole porzioni di pelle su cui poi soffermava le labbra, assaporandone il gusto leggermente salato e respirandone il profumo caldo. Sotto di esse percepiva il suo cuore accelerare un po' di più ad ogni bacio, come se avesse voluto ricambiarli, e lui allora sorrideva sulla pelle dell'altro perché c'era stato un tempo, seppur lontano, in cui aveva temuto che quel cuore si stesse fermando per sempre, ma invece era lì che batteva pieno di vita e lui amava sentire la sua musica.

Si muoveva in linea retta lungo il suo torace senza particolare fretta -voleva che Domenico si godesse ogni bacio, ogni istante-, ma con un'intensità tale da spingere senza accorgersene l'altro contro lo schienale del divano, e di tanto in tanto, mentre scivolava man mano un po' più in basso, sollevava i propri occhi felini verso l'alto, incrociando sempre quelli liquidi di Domenico.

Domenico, infatti, non riusciva a guardare altro che non fosse lui, era incantato dal suo incedere cadenzato ed elegante, e ad ogni bacio meravigliosamente fresco che l'altro gli lasciava -per lui, quei baci erano come sorgenti da cui zampillava acqua pura creando fiumi e laghi, e lui si sentiva fortunato ad essere il bosco a cui davano nutrimento-, lui liberava un sospiro o un mugolio, sempre più forti e scomposti, senza né riuscire né volersi trattenere dall'esternare la propria felicità, il proprio piacere.
Quelle labbra e quegli occhi famelici sapevano attraversarlo da parte a parte, scuoterlo come mai nessuno era stato in grado di fare, tanto da costringerlo ad aggrapparsi allo schienale del divano, perché le gambe, come tutto il resto del corpo, già gli tremavano e probabilmente non sarebbero state in grado di sorreggerlo a lungo.

Claudio, dopo un po', si ritrovò in ginocchio sul pavimento freddo, ma non era un problema perché il corpo di Domenico, che sentiva fremere sotto al proprio tocco come fronde di un albero al vento, era caldo e morbido, ed arrestò il proprio percorso. Si rivolse di nuovo verso di lui, stavolta sollevando l'intero volto, e gli chiese conferma con uno sguardo morbido ed un sorriso dolce appena accennato.

Domenico, che stava riprendendo fiato, aprì le labbra già dischiuse in un sorriso sereno ed annuì lentamente, pronto ad affidarsi completamente a lui.

Claudio, dunque, gli posò un ultimo bacio poco sopra il morbido bordo dei pantaloni che poi afferrò con le mani e fece scivolare verso il basso fino a sfilarglieli, in un movimento deciso ma non brusco, rivelando un rigonfiamento inequivocabile dei boxer neri a cui avrebbe dato attenzione a tempo debito. Per il momento, invece, si aggrappò nuovamente ai suoi fianchi, sui quali fece scivolare le mani in qualche lenta carezza, ed avvicinò le labbra al suo fianco sinistro, posandole su quel piccolo cerchio di pelle un po' più lucida, tirata e dura rispetto a quella tutt'intorno.

I baci che dava a quella cicatrice erano delicati, gentili, devoti, pieni di quell'amore che, stupidamente e per paura, si era rifiutato di darle nel corso degli anni, ma che invece meritava di ricevere fino a riempirsene e ancora oltre. Voleva rimediare al proprio errore e voleva che Domenico non avesse più dubbi, che si sentisse amato in ogni sua parte: era per questi motivi che, quando ne aveva l'occasione, non rinunciava mai a baciarlo in quel punto.

Domenico, con ancora il viso rivolto verso il basso per guardare l'altro ed una mano portata tra i suoi capelli -non per trattenerlo ma per ringraziarlo con delle carezze-, non riusciva a smettere di sorridere, la gioia che provava si traduceva tutta in un sorriso morbido che gli illuminava anche lo sguardo: Dio solo sapeva quanto, per anni, avesse odiato quella cicatrice che, per quanto piccola e rimarginatasi in fretta, gli appariva enorme e perennemente sanguinante, tanto che aveva anche deciso di gettare via il proiettile che l'aveva causata, a differenza di ciò avrebbe fatto qualsiasi suo collega in quanto sarebbe stato il simbolo di una ferita sul campo e dunque un onore, un vanto, da conservare e sfoggiare all’occasione.

Per lui, invece, quella cicatrice non era una sorta di trofeo, ma il ricordo doloroso e perenne di una separazione, di uno strappo, ed era per questo che non poteva guardarla e, salvo un'unica eccezione fatta per evitare che qualcun altro si ritrovasse in quella che solo pochi mesi prima era la loro situazione, evitava anche di mostrarla. Era incredibile come quella cicatrice che per anni li aveva tenuti divisi adesso invece li univa, e a dimostrarlo c'erano i baci morbidi di Claudio, il quale sembrava deciso a ricostruire così il loro legame.

Sapeva quanto quei baci fossero importanti anche per lui, e per questo lo lasciò andare avanti per un po', godendoseli a propria volta, ma non voleva che l'amato si concentrasse soltanto sul suo senso di colpa, su un passato che rischiava di fargli perdere di vista il presente, dunque spostò la propria mano dai suoi capelli alla sua guancia, invitandolo con dolcezza a sollevare il capo.

"Core mij?"

Lo chiamò, con voce morbida, e Claudio alzò lo sguardo verso di lui, docilmente, rivolgendogli un sorriso morbido.

"Sì?"

Sussurrò, quasi impercettibilmente. Domenico gli sorrise e gli fece un'altra carezza sulla guancia soffice.

"Torna qua, per favore. Mi mancano i tuoi baci."

Rispose, con voce bassa e roca, librandosi in quel cielo che era azzurro nonostante la giornata di pioggia.

Claudio accennò un sorriso sghembo, aveva capito le intenzioni del proprio amato -non erano esattamente i baci a mancargli, dato che li stava ricevendo, quanto invece la propria presenza- e si rialzò in piedi, ripercorrendo all'inverso l'itinerario che aveva tracciato, a suon di baci leggeri e veloci.

Domenico ridacchiò per il leggero solletico che gli faceva la barba di Claudio, ma appena quest'ultimo gli fu di nuovo davanti gli prese il viso tra le mani, accarezzandolo con delicatezza, e posandovi un bacio in mezzo agli occhi.

"Sono qui, va bene? Sono qui."

Mormorò, una volta separatosi da lui quanto bastava a guardarlo.

Claudio annuì piano, sorridente, portando una mano su quella dell'altro, sulla quale cominciò a tracciare piccole carezze con il pollice. Inevitabilmente, si incamminò in quel bosco sereno, pieno di luce, che non sembrava turbato in alcun modo dal maltempo.

"Anch'io sono qui. Sono qui e ti..."

'Ti sposo.', fece per dire, ma si bloccò, mordendosi la lingua giusto in tempo. Era molto difficile, per lui, resistere all'altro, soprattutto quando si trattava di sorprese, ma era ormai da una settimana che stava organizzando questa nei minimi dettagli -ed altrettanti giorni che gli resisteva-, non poteva mandare tutto all'aria: la proposta che voleva fargli era unica e unica era anche l'occasione per farla, non andava sprecata!

"...e ti amo!"

Concluse invece, cercando di apparire il più naturale possibile, ma tanto sapeva che era inutile, che l'altro aveva colto la propria esitazione, come coglieva sempre ogni piccola sfumatura di ciò che faceva e diceva, e anche di ciò che non faceva e non diceva.

Domenico inclinò leggermente il capo, rivolgendogli uno sguardo incuriosito contornato da sopracciglia leggermente aggrottate, pensierose, e le labbra sollevate in un sorriso sghembo. Quella piccola incertezza nella sua voce e nei suoi occhi, seppur quasi impercettibile, non gli era sfuggita ed era chiaro che Claudio gli stesse nascondendo qualcosa: non aveva dubbi sulla natura della sorpresa, era sicuro cioè che fosse qualcosa di bello e che gli sarebbe piaciuto, ma non aveva davvero idea di quale ne fosse l'oggetto e non sapere di cosa si trattasse nello specifico stuzzicava da impazzire la propria curiosità.

Prima che potesse fare anche solo una domanda o un'osservazione, Claudio si fiondò di nuovo sulle sue labbra nel tentativo di distrarlo, ma Domenico, pur rispondendo al bacio con la stessa foga, non si fece abbindolare ed anzi approfittò del momento per capovolgere le loro posizioni, e tenendo Claudio per i fianchi lo portò contro lo schienale del divano, stando attento a non fargli male.

"Ti amo anch'io, ma tu comunque non me la conti giusta, conosco quello sguardo."

Soffiò sulle sue labbra, sorridendo divertito. Claudio scrollò leggermente le spalle, fingendo di non capire.

"Ah, ma che dici, quale sguardo?"

Ribatté, con aria innocente. Domenico fece una risatina, poi si passò la lingua sulle labbra.

"Eh, lo so io quale..."

Gli posò un bacio in mezzo agli occhi in cui lui che li conosceva alla perfezione poteva cogliere una fiammella di furbizia che sicuramente sarebbe sfuggita a chiunque altro.

"...ma so anche che ha sempre portato a cose belle, quindi ti lascio fare. Sappi, però, che sono molto curioso adesso!"

Aggiunse con tono più morbido, che portava con sé anche tanta gratitudine, facendogli una carezza sul viso. Claudio piegò il capo verso la mano dell'altro, seguendo la sua carezza, ed accennò una risatina.

"Non hai proprio niente per cui essere curioso, sappilo!"

Ribatté, ma con lo sguardo gli stava dicendo: 'Sarà bello, fidati.'.

Domenico rimase a guardarlo negli occhi per qualche secondo, poi annuì lentamente e sorrise sghembo.

"Mh, sì, va bene, come dici tu, discorso chiuso..."

Fece una piccola pausa, il tempo di dargli un bacio a fior di labbra.

"Adesso, però, vorrei tornare a quello di prima, che mi sembrava particolarmente interessante."

Si spinse contro di lui, facendo aderire ancor di più i loro corpi, e strofinò il proprio bacino contro quello dell'altro, liberando un sospiro di sollievo. Claudio mugolò, scosso da un brivido elettrico, ed istintivamente si aggrappò a lui, alla sua schiena, annuendo.

"Era molto interessante anche per me, sì..."

Mormorò, con voce più bassa e roca.

Domenico, con un gesto deciso, si spostò sul suo collo e ne catturò una porzione tra i denti -stando attento a non usare troppa forza-, perché sapeva perfettamente che tipo di reazione avrebbe avuto l'altro.

Claudio si sentì attraversare da una scarica di piacere che gli mozzò il fiato all'istante, ma con l'ultimo respiro che aveva ancora nei polmoni liberò un gemito acuto –osceno, avrebbe detto qualcuno, ma lui aveva smesso di preoccuparsi dell’opinione degli altri, aveva smesso di vergognarsi e trattenersi- e, istintivamente, si spinse verso la fonte di quel piacere a cui si teneva ben saldo per evitare di crollare. Tanto forte, infatti, era l'effetto che i morsi di Domenico avevano su di lui, solo i suoi e quelli di nessun altro che, invece, gli avevano sempre causato una certa sensazione di fastidio, perché soltanto i suoi erano morsi gentili che non causavano alcun dolore. Portò una mano sulla sua testa, ma non la spinse contro di sé -non l'avrebbe mai forzato a fare qualcosa-, preferendo accarezzargli i capelli con delicatezza, in una silenziosa richiesta di rimanere lì ancora per un po'.

Domenico non esitò ad esaudire il suo desiderio e continuò a mordicchiargli il collo, cambiando continuamente porzione di pelle per evitare di irritarla eccessivamente, beandosi dei versi d'approvazione con cui Claudio, che fremeva contro di lui, riempiva la stanza: gli si riempiva il cuore di gioia a vederlo -o meglio, sentirlo- così appagato.

Claudio era completamente inebriato da quei morsi che lo facevano sentire in estasi, ma ciononostante dopo poco fece scivolare la mano con cui teneva la testa di Domenico verso il basso, in modo da fargli capire di potersi muovere come preferiva: il discorso che avevano cominciato doveva necessariamente continuare.

Domenico, cogliendo il messaggio, si spostò più in basso, verso il suo petto, e come l'altro aveva fatto con lui cominciò a posarvi dei baci lenti, con la differenza che non seguiva una traiettoria precisa, lineare, ma si muoveva in modo casuale, seguendo soltanto l'istinto, quasi come un'ape che volava di fiore in fiore. Ad ogni bacio, però, dedicava infinita dedizione, perché voleva che rendessero felice Claudio tanto quanto i propri morsi, e così faceva scorrere con studiata lentezza le labbra dischiuse sulla sua pelle fino a farle chiudere quasi del tutto, poi l'accarezzava con la punta della lingua, mai sazia del suo calore; anche lui, di tanto in tanto, sollevava gli occhi e trovava sempre i suoi ad incontrarlo.

Claudio, che non aveva smesso nemmeno per un istante di esprimere sonoramente tutta la propria approvazione per quelle attenzioni, lo seguiva costantemente con lo sguardo, ipnotizzato dai suoi movimenti imprevedibili che eppure sembravano studiati, come se fossero stati parte di una danza, e sorrideva, beato: per lui, quei baci erano come fuochi d'artificio che divampavano sul proprio corpo, illuminandolo e riscaldandolo, ma che non svanivano, restavano lì come stelle, e si sentiva fortunato ad essere il cielo a cui davano luce. Non c'era poi molta differenza tra morsi e baci, se erano dati dalla persona giusta, dalla persona che amava.

Ad un certo momento Domenico si spostò al centro del petto dell'altro, che era ricoperto da una distesa di peluria folta e castana, proprio come i suoi capelli, e cominciò a dedicarvi tutte le proprie attenzioni: amava baciare ogni punto del corpo di Claudio, naturalmente, ma gli piaceva indugiare in quel punto preciso a cui, senza vergogna o imbarazzo, si era anche divertito a trovare una specie di soprannome. Gli piaceva il modo in cui il pelo soffice gli accarezzava il viso, il morbido solletico che gli faceva alle labbra, e riempirsi i polmoni dell'odore di Claudio che lì era un po' più denso che altrove. Gli piaceva anche sentire il suo cuore battere rapido sotto le proprie labbra, a dimostrargli che era lì e che non se ne sarebbe andato più.

Claudio, non appena vide e sentì dove Domenico si era soffermato reclinò leggermente il capo, liberando una risatina affannata, poi abbassò di nuovo lo sguardo su di lui, sorridente, e portò una mano tra i suoi capelli.

"Ti piace proprio la mia foresta, eh?"

Chiese divertito, accarezzandogli il capo con dolcezza, anche se era un'affermazione più che una vera e propria domanda -ed infatti Domenico non rispose, preferendo far parlare i propri baci- dal momento che conosceva già la risposta.

"Com'è che la chiami? Non mi ricordo bene..."

Domandò ancora, mentendo e senza nemmeno sforzarsi di farlo bene: in realtà ricordava benissimo quel soprannome assurdo che Domenico si era inventato ormai anni fa, quando erano ancora ragazzi e stavano insieme da relativamente poco, ma gli piaceva e gli piaceva sentirglielo dire.

Domenico ridacchiò contro il suo petto, ma non a causa del solletico, e poi se ne discostò per parlargli, in modo che fossero faccia a faccia. Sapeva che Claudio ricordava benissimo ciò che stava chiedendo, ma a lui non dispiaceva ripeterglielo ancora e ancora per farlo contento.

"Orsacchiotto."

Rispose con voce morbida, ma ferma, come se stesse dicendo qualcosa di assolutamente serio.

Claudio si illuminò di un'altra risatina che sfumò in un sorriso innamorato.

"Domenico Liguori, solo tu potevi inventarti una cosa del genere. Sei davvero unico."

Gli disse guardandolo dritto negli occhi, con voce carica d'affetto, accarezzandogli una guancia. Domenico ridacchiò, portando una mano dove fino a pochi istanti prima aveva depositato i propri baci, senza distogliere lo sguardo.

"Anche tu sei davvero unico, Claudio Vinci, perché solo tu potevi apprezzare una cosa del genere."

Replicò, con lo stesso affetto nella voce, accarezzandogli il petto.

Si scambiarono un sorriso amoroso ma al tempo stesso consapevole -erano unici l'uno per l'altro ed era stata quell'unicità a farli incontrare- e si raggiunsero in un bacio di breve durata, ma intenso.

Subito dopo, Domenico riprese la propria discesa verso il basso, attraversando il corpo di Claudio con le labbra fino ad arrivare alla sua pancia -dove, in realtà, poté lasciare soltanto pochi baci perché facevano il solletico a Claudio, il quale lo soffriva parecchio e non riusciva a smettere di ridere e sussultare- e ritrovandosi infine in ginocchio davanti a lui. Depositò un ultimo bacio poco sopra il bordo dei pantaloni della tuta -e di nuovo Claudio ebbe un piccolo sussulto, che tuttavia non dipendeva dal solletico-, poi li afferrò e li fece scivolare giù con rapidità, sfilandoglieli del tutto. Ciò che vide, anche se aveva già avuto modo di sentirlo, gli fece spuntare un sorriso sghembo sulle labbra.

"Mh, certo che per essere uno che voleva restare a letto, mi sembri abbastanza sveglio."

Commentò malizioso, mentre gli accarezzava lentamente i lati esterni delle cosce.

Claudio, sentendo le mani dell'altro che scorrevano sulla propria pelle -ah, quanto sapevano toccarlo nel modo giusto!-, si sentì scuotere da un brivido caldo ed emise un flebile sospiro, ma subito dopo accennò una risatina.

"Beh, in un letto si possono fare tante cose a parte dormire, sai?"

Replicò con voce roca, mettendo poi su un sorriso furbo. Domenico alzò lo sguardo verso il suo viso, sollevando il capo. Era curioso di sentire cosa si sarebbe inventato l'avvocato.

"Ah sì? Per esempio?"

Domandò, senza smettere di accarezzarlo. Claudio prese un profondo sospiro e deglutì prima di parlare.

"Per esempio si può...leggere, oppure guardare un film..."

Rispose, rivolgendogli un sorriso morbido.

Spesso capitava che, prima di dormire, se ne stessero nel letto ciascuno con un libro tra le mani, sempre abbastanza vicini da toccarsi in qualche modo, godendosi semplicemente la compagnia silenziosa l'uno dell'altro, oppure che guardassero un film raggomitolati sotto le coperte, divertendosi ad indovinare i risvolti della trama -e poco importava che, nel caso di thriller o gialli, Domenico deducesse il colpevole dopo appena metà film, anticipando il finale- e commentarli animatamente -come se i registi e gli sceneggiatori potessero sentirli- quando erano particolarmente assurdi.

Domenico ridacchiò di gusto, tutto di gola, ed annuì piano perché anche lui custodiva quelle serate nel cuore. Posò un bacio sulla pancia di Claudio, leggero, tornando a guardarlo subito dopo.

"E poi?"

Sussurrò, incuriosito.

Claudio rabbrividì vistosamente, scosso da un fremito che non avrebbe saputo dire se dipendesse dal solletico, dall'eccitazione o da entrambe le cose, e con le mani cercò lo schienale del divano dietro di sé.

"E poi si può parlare..."

Quello era un momento che, solitamente, si ritagliavano alla fine della giornata, quando si raccontavano quella appena trascorsa e gli impegni per quella successiva, e così facendo si liberavano di tutte le frustrazioni, i dubbi e le paure che i loro rispettivi lavori -ma non solo- inevitabilmente portavano con sé -e che, se non avessero avuto l'altro, si sarebbero tenuti dentro-, ma condividevano anche vittorie, gioie e soddisfazioni, piccole o grandi che fossero. Si ascoltavano a vicenda, scambiandosi consigli e pareri, riuscendo in questo modo a vivere insieme anche quel tempo che trascorrevano separati.

Domenico sorrise e si sollevò sulle gambe, salendo a dargli un bacio al centro del petto.

"E poi? Che più?"

Soffiò sulla sua pelle, certo che l'altro l'avrebbe sentito.

Claudio, se anche non fosse riuscito ad udirlo, avrebbe comunque colto quelle parole, perché le percepì attraversarlo da parte a parte, e rafforzò la presa sullo schienale del divano, in un moto istintivo.

"E poi...e poi ci si può mangiare, volendo."

Rispose in fretta, quasi inciampando nelle parole. Domenico annuì piano, strofinando il naso nell'orsacchiotto che tanto adorava.

"Mh, farci colazione, ad esempio."

Propose, allegro, e Claudio annuì, sorridendo a propria volta.

"Ad esempio, sì."

In realtà, quello era uno sfizio che potevano concedersi raramente, a causa degli orari non sempre compatibili che dovevano seguire, ma quando erano entrambi liberi facevano a gara a chi riusciva a viziare per primo l'altro, portandogli appunto la colazione a letto. Certo, questo aveva un costo, e cioè doversi separare dall'abbraccio caldo in cui dormivano, ma lo sforzo era ampiamente ricompensato dallo sguardo stupito ed innamorato della metà che riceveva la sorpresa. A volte, invece, capitava che, più semplicemente, si svegliassero insieme e decidessero di comune accordo di fare colazione a letto, quindi la preparavano insieme e poi la portavano in camera, consumandola comodamente tra le lenzuola.

Domenico salì ancora, deviando verso l'incavo del suo collo, dove trovò il proprio incastro naturale. Claudio, senza esitare, piegò il capo dall'altro lato per dargli più spazio e, quindi, offrirsi meglio a lui.

"E poi?"

Chiese ancora Domenico, ma prima che l'altro potesse rispondere morse la sua pelle morbida, non riuscendo a resistere alla tentazione: aveva bisogno di toccarlo, di sentirlo, di diventare un unico corpo con lui.

Claudio liberò un mugolio strozzato, non perché non avesse previsto quel morso -con Domenico in quella posizione se l’aspettava perfettamente-, ma perché ciononostante si sentì colto di sorpresa. Non riuscì a rispondere subito, la mente era annebbiata e leggera e faceva fatica a mettere insieme le parole, mentre il corpo fremeva per unirsi a quello dell'altro.

"E poi ci...ci si può...coccolare."

Mormorò con voce roca, seguendo l'istinto che spingeva verso la dimensione più carnale.

I baci, gli abbracci, le carezze, erano piccole attività che sempre completavano tutte quelle che aveva appena elencato, ma erano anche gesti che si scambiavano ad ogni occasione utile, a letto e non solo: se n'erano privati per troppo tempo e nessuno dei due voleva più rinunciarvi.

Domenico, mosso anche lui da quel desiderio fisico, lasciò un ultimo bacio sulla sua pelle e fece scorrere le mani sulle braccia dell'altro fino a raggiungere le sue, che con delicatezza separò dalla stoffa del divano e portò sui propri fianchi. Alzò il capo, poi, per guardare Claudio in viso, cingendogli morbidamente il collo con le braccia, e sorrise dolcemente a vedere le sue labbra ancora dischiuse da un respiro affannato e i suoi occhi ancora più blu, ancora più scuri, come una notte carica di desiderio.

"E poi? Poi cos'altro si può fare a letto, core mij?"

Chiese con voce languida, ed era chiaro che sarebbe stata l'ultima domanda.

Claudio si prese qualche secondo per ammirarlo, soffermando lo sguardo prima sulle sue labbra arrossate dai tanti baci che gli aveva dato e poi sui suoi occhi ancora più verdi, ancora più luminosi, come una foresta lussureggiante in cui imperversava la vita, ed intanto spostò la propria presa dai suoi fianchi alla sua schiena, aggrappandosi a lui con tutte le proprie forze. Fece, così, scontrare i loro bacini, causando una scossa di piacere che fece gemere entrambi.

"L'amore."

Rispose semplicemente, ad un soffio dalle sue labbra, con voce roca ma decisa.

Domenico liberò un breve sospiro, sorridente.

"L'amore."

Ripeté, con voce quasi impercettibile, facendogli una carezza sul viso.

Si scambiarono uno sguardo profondo, d'intesa, lungo pochi istanti ma che sembravano sospesi nel tempo, e si incontrarono in un bacio affamato. Aggrappati l'uno all'altro, cominciarono ad avanzare verso la camera da letto, come un corpo solo dotato di quattro gambe e mosso da un pensiero unico, troppo impegnati a baciarsi e ad accarezzarsi ovunque potessero arrivare le rispettive mani per guardare esattamente dove stessero mettendo i piedi -eppure, ciononostante, non rischiarono di inciampare nemmeno una volta- fino ad arrivare alla porta, lasciata socchiusa, che spinsero al loro passaggio attraversandola senza problemi.

Vennero accolti dalla stanza in penombra, illuminata soltanto dalla fioca luce grigia che filtrava dalle intercapedini delle persiane sulle quali picchiettava la pioggia, al centro della quale c'era il letto ancora sfatto -Claudio aveva proposto di risistemarlo prima di uscire, ma Domenico lo aveva convinto a farlo una volta tornati e col senno di poi era stato molto previdente- verso il quale gravitarono senza smettere di baciarsi, separandosi solamente quando Claudio lo toccò con le gambe e vi si lasciò andare, sedendosi sul bordo.

Tenendo il capo rivolto verso l'alto per non interrompere il contatto visivo, fece scivolare i boxer dell'altro con un movimento deciso, rivolgendogli un sorriso furbo mentre lo faceva, e Domenico liberò un profondo sospiro di sollievo, perché era da ormai un po' troppo che si sentiva stretto. Non fece in tempo a chinarsi per ricambiargli il favore, però, perché Claudio gli fece cenno, con una certa malizia, di seguirlo a letto, spostandosi poi verso il centro, dove si distese rivolto verso di lui, guardandolo con occhi languidi.

Domenico, allora, si affrettò a sfilarsi definitivamente i boxer e gattonò sul materasso, raggiungendo l'altro in pochissimi secondi, e prima di fare qualsiasi altra cosa gli afferrò il bordo dei boxer per sfilarglieli. Claudio sollevò il bacino, in modo da aiutarlo, e mugolò sollevato quando finalmente avvertì quella piacevole sensazione di libertà.
Ora che erano entrambi decisamente più comodi, Domenico avanzò verso di lui, sovrastandolo, Claudio allungò le braccia per accoglierlo, e di nuovo tornarono a baciarsi, affamati l'uno dell'altro, facendo strofinare lentamente i loro bacini per darsi a vicenda un po' di sollievo.

Ben presto, quel semplice toccarsi si trasformò in affondi e carezze cadenzati di Domenico a cui rispondevano le spinte uguali ed opposte di Claudio, che si accompagnavano in un meccanismo perfetto. Ad un ipotetico occhio esterno, che magari non conosceva la loro storia, quello sarebbe potuto sembrare del sesso piuttosto insipido, fatto da due quarantenni che non avevano molta fantasia, ma la verità era ben altra: a muovere Claudio e Domenico, ad alimentare quel meccanismo, non c'era la volontà di assecondare un erotismo sfrenato che spesso si configurava come una sorta di tortura che, per motivi diversi, faceva restare sulle spine sia chi la riceveva che chi la perpetrava, ma il desiderio, semplice, tuttavia non banale, di unirsi, finalmente, di riunire quelle due metà che erano state troppo a lungo lontane, di stare insieme con la sicura promessa, questa volta, di non lasciarsi più.

Avevano tutto il tempo del mondo a disposizione, ora che erano di nuovo uniti, e perciò il loro meccanismo si muoveva ad un ritmo cadenzato, costante, ma placido, senza eccessivi scatti: così la stanza, e forse tutta la casa, si riempì dei mugolii acuti di Claudio e dei gemiti rochi di Domenico che si intrecciavano e componevano una sinfonia che saliva sempre di più fino a quando, ad un tratto, si spense in un sospiro congiunto che portava con sé due nomi, lasciando spazio a sospiri affannati.
Domenico si accasciò sul compagno, troppo stremato per muoversi, eppure cercò comunque di puntellarsi sulle braccia per non pesargli eccessivamente; Claudio, tuttavia, non glielo permise e lo trattenne a sé, incastrando il capo nell'incavo del suo collo.

"Ti amo, ti amo, ti amo..."

Sussurrò sulla sua pelle, premendovi le labbra più che poteva come se avesse voluto lasciare lì quella semplice ma importante frase, ed intanto portò una mano ad accarezzargli i capelli con movimenti lenti e misurati.

Domenico, ad ogni parola, avvertiva la sua barba soffice e il suo respiro caldo muoversi sulla propria pelle accarezzandola, e tanti piccoli fremiti al di sotto, come aghi che lo incidevano senza fargli male. Mugolò d'approvazione e sorrise sulla sua spalla, contro la quale era premuto, ricambiando l'abbraccio come meglio poté.

"Ti amo, ti amo, ti amo..."

Ripeté a voce bassa, prima di lasciare un morso morbido, ma deciso, in quel punto alla base del collo per cui sapeva che l'altro stravedeva, in modo da lasciarvi la propria dichiarazione.

Claudio non provò nemmeno a trattenere un gemito di piacere, stringendosi istintivamente a lui.

Si stavano imprimendo nella carne le rispettive promesse dell'anima, come avevano fatto centinaia di altre volte, ed era una marchiatura che non causava mai dolore.
Per qualche minuto restarono così, stretti nel loro abbraccio, a riprendere fiato e a respirarsi, scambiandosi il calore dei loro corpi, poi Domenico si sollevò leggermente, quanto bastava ad alzare il capo e a guardare il proprio amato. Gli sorrise, dolcemente, scostandogli un ciuffo di capelli sudati dalla fronte.

"Sei bellissimo."

Mormorò, piano.

Claudio si illuminò di un morbido sorriso e le guance, se possibile, gli si fecero ancora più rosse.

"Anche tu, tantissimo. E sei un gran marpione, anche."

Ribatté, allegro, facendogli dei grattini sulla nuca.

Domenico reagì con una risatina calda e bassa che si infilò tra le lenzuola sfatte e sparì lì da qualche parte.

Claudio lo sentì vibrare contro il proprio corpo, tanto che rideva, ed era una delle sensazioni che amava di più: sentirlo felice, dopo tutte le lacrime che gli aveva fatto versare. Ora, però, aveva capito di aver sbagliato, seppur pensando di essere nel giusto, e non avrebbe più commesso quell’errore, anzi avrebbe fatto di tutto per dargli la felicità che meritava.

"Guarda che è vero, eh!"

Esclamò con decisione, ma la voce tradiva una morbida felicità.

"Metti in dubbio la mia sincerità?"

Ribatté Domenico, scherzoso, sollevando un sopracciglio.

Claudio scosse appena il capo, rivolgendogli un sorriso sghembo.

"No, questo mai, ma ho capito il tuo giochetto e sappi che non riuscirai a farmi confessare."

Rispose, fermamente divertito, riferendosi alla sorpresa che doveva fargli.

Domenico lasciò andare un ultimo sospiro allegro e poi si chinò sul viso dell'altro, lasciandogli un bacio in mezzo agli occhi blu che luccicavano furbi.

"Ah, perché, hai qualcosa da confessare per caso?"

Domandò retoricamente, tornando a guardarlo senza smettere di sorridergli.

Claudio scosse di nuovo il capo, sforzandosi di non scoppiare a ridere.

"No!"
Esclamò, arricciando leggermente il naso.

Domenico scrollò le spalle, annuendo in risposta.

"Mh, allora non ci sono problemi."

Affermò tranquillo, chinandosi a dargli un bacio a fior di labbra prima che potesse aggiungere altro: in fondo, nemmeno lui voleva che Claudio si rovinasse da solo la sorpresa, per quanto fosse curioso di scoprirla. Si separò da lui con una carezza lungo il petto, rotolò sul lato libero del letto e si alzò per poi stiracchiarsi mugolando rumorosamente.

Claudio lo seguì con gli occhi che, senza vergogna, fece scorrere sui suoi muscoli prima tesi e poi rilassati, sorridendo innamorato: anche nella penombra, in controluce, riusciva a vederlo benissimo e gli ricordava un grosso cane appena sveglio che si preparava per andare a fare una passeggiata.

"Dove vai? Resta un altro po' qui, dai..."

Mugolò, accarezzando con un braccio il materasso accanto a sé. Domenico si volto verso di lui e scosse il capo, sorridendo morbidamente.

"Vado a preparare la colazione, ci metto poco."

Spiegò mentre cercava i propri boxer, che poi indossò rapidamente.

Claudio, allora, si tirò a sedere, pronto ad alzarsi e seguirlo.

"Aspetta, vengo con te. In due facciamo prima, no?"

Propose, sorridente. Domenico scosse di nuovo il capo e lo invitò a tornare disteso con un tocco leggero.

"No, tu resti qua a riposarti, io devo farmi perdonare per l'acquazzone, no?"

Ribatté, con tono affettuoso e divertito. Claudio sorrise sornione e approfittò della vicinanza per prendere la sua mano nella propria.

"Tu non hai proprio niente di cui farti perdonare, ma se anche così fosse ti saresti già fatto perdonare abbondantemente."

Rispose, con voce e sguardo carichi di malizia, per poi portarsi la sua mano alle labbra e posarvi un morbido bacio.

Domenico avvertì distintamente un piacevole calore attraversarlo partendo proprio dal punto in cui Claudio aveva posato le labbra e ridacchiò, dolcemente imbarazzato, a quella risposta così pronta che lo aveva colto di sorpresa. Era bello vedere Claudio così sicuro di sé e dei suoi sentimenti, dopo anni che aveva passato a respingersi e a negarseli, credendo di non essere degno. Si chinò su di lui, posò una mano tra i suoi capelli per fargli una carezza e gli diede un bacio sulla fronte.

"Allora voglio solo viziare un po' il mio fidanzato, posso?"

Sussurrò, rivolgendogli uno sguardo pieno d'affetto.

Claudio sospirò placidamente -'Quanto sono fortunato ad averti con me!', pensò- ed annuì piano, sporgendosi a dargli un bacio a fior di labbra.

"Tu puoi tutto, te l'ho detto."

Replicò, sorridente. Domenico gli diede un altro bacio, stavolta sui capelli arruffati.

"Ci metto poco, tu aspettami qui e mettiti sotto le coperte, che altrimenti prendi freddo!"

Lo ammonì puntandolo con l'indice, prima di allontanarsi in cucina.

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Capitolo 42
*** Appendice, Capitolo 7 – Tu mi guardi e ci scappa da ridere (parte 2) ***


Claudio, rimasto solo, non gli diede ascolto, ma solo perché preso da un pensiero più urgente: il temporale che li aveva colpiti all'improvviso lo aveva impensierito non poco, dal momento che un tempo del genere avrebbe rovinato una parte importante della loro serata, per cui si alzò ed infilò i boxer abbandonati a terra, avvicinandosi poi alla finestra. Tirò l'apposita corda per sollevare le persiane, che erano abbassate quasi del tutto e lasciavano spazio solo a piccoli spiragli tra le varie stecche, e guardò fuori trattenendo il fiato, preso da un forte senso di apprensione alla bocca dello stomaco.

Con sua grande gioia vide che, nonostante il cielo fosse ancora grigio, aveva smesso di piovere e le nuvole si stavano diradando. Sospirò, sollevato, e con più tranquillità si mise ad osservare la strada sottostante ed i dintorni: il palazzo dirimpetto sembrava tinto di fresco, con il suo colore arancio chiaro rinfrescato dalla pioggia, il marciapiede e l'asfalto erano interrotti da diverse pozzanghere, dovute senz'altro a buche di varie forme e dimensioni -e probabilmente anche di profondità- completamente piene d'acqua da cui i pedoni, infagottati nei loro cappotti e con gli ombrelli chiusi stretti sotto al braccio, si tenevano ben alla larga, mentre le automobili non riuscivano ad evitarle e così schizzavano colonne d'acqua al loro passaggio, talvolta colpendo incidentalmente proprio uno o più di quei pedoni che non mancava di esternare tutto il suo disappunto con esclamazioni colorite che gli arrivavano all'orecchio nonostante la finestra fosse chiusa, facendolo ridacchiare di gusto. Rumori esterni a parte, la casa era immersa in un morbido silenzio ed essendo anche relativamente piccola, dalla propria postazione riusciva ad udire Domenico che preparava la colazione: “Chist'uocchie nun ponn' sgarrà, già sann' chell' c'hanna fa. Tu labios c'a' luce ro' mare, no puedo dejar de mirar.” lo sentiva canticchiare, ed inevitabilmente gli sorrideva il cuore. La tentazione di raggiungerlo di soppiatto per ascoltarlo meglio era forte, ma sapeva che nel momento esatto in cui il compagno si sarebbe accorto della sua presenza avrebbe smesso di cantare perché si vergognava -nonostante non se la cavasse affatto male nel canto, anzi-, ed allora preferì evitare, restando ad aspettarlo dov’era.

Domenico tornò in camera da letto dopo diversi minuti, con il vassoio da colazione -di quelli con i sostegni estraibili che fungevano da gambe, ideali per mangiare a letto- ben saldo tra le mani: aveva preparato due tazze di thè, una piccola ciotola con i biscotti alla frolla da inzupparvi, un piattino con un paio di mele sbucciate ed un altro con qualche fetta biscottata spalmata di marmellata, poi su un tovagliolo aveva posizionato due quadratini di cioccolata, che erano immancabili nel loro rituale mattutino.
Appena entrato vide Claudio in piedi davanti alla finestra, nudo ad eccezione dell'intimo, con la fioca luce del mattino a tracciare il contorno del suo corpo e sorrise istintivamente: gli sembrava un gatto che scrutava curioso il mondo esterno, senza però rinunciare alla comodità della sua casa.

Decise di sfruttare l'occasione e, a passo felpato, posò il vassoio sul letto per poi avvicinarsi al compagno, che subito cinse da dietro, in un abbraccio, posandogli un bacio nell'incavo del collo.

"Così prendi freddo, core mij. Perché non sei rimasto a letto?"

Mormorò, poggiando il capo sulla sua spalla.

Claudio accennò un sorriso e senza esitare -non ebbe nemmeno un sussulto, perché mai e poi mai Domenico avrebbe potuto spaventarlo-, si lasciò accogliere nel suo abbraccio, ma al tempo stesso lo ricambiò sollevando una mano per portarla sul suo viso e raggiungendo le sue, intorno al proprio busto, con l'altra.

"Volevo solo vedere se aveva smesso di piovere...e poi non ho freddo, ci sei tu a scaldarmi."

Mormorò morbidamente, accarezzandogli sia la guancia che il polso.

Domenico fece uno sbuffo divertito -'Quanto ci sai fare con le parole, core mij!', pensò-, depositò un altro piccolo bacio sulla sua pelle e poi si sporse oltre la sua spalla per guardare fuori, con aria curiosa.

"Mh, ha smesso. Che dici, torniamo a correre?"

Propose, ma era palesemente ironico e giocoso: non aveva per niente voglia, a dire il vero, di uscire di nuovo quando poteva restare a godersi il tepore del letto con l'uomo che amava.

Claudio era dello stesso identico parere -anche lui preferiva di gran lunga la compagnia dell'uomo che amava ed il caldo del letto al freddo della città- e scosse il capo, ridendo di gusto.

"Ah no, non ci pensare proprio! Direi che per oggi abbiamo bruciato abbastanza calorie!"

Esclamò con decisione, ma aveva capito che l'altro lo stava solo prendendo in giro ed infatti la voce era ancora piena di risate.

Domenico rise a propria volta ed in un certo senso posò quella risata sulla fossetta, per cui stravedeva, che si era formata sulla guancia di Claudio -poteva vederla nonostante la barba perché sapeva benissimo dove fosse!- con un bacio rumoroso.

"E direi che hai ragione!"

Dalla guancia, seguendo un percorso ormai consolidato, scese nuovamente sul suo collo e lì si fermò, riprendendo a riempirlo di cento, mille o chissà quanti baci, con la differenza che stavolta si trattava di piccoli gesti d'amore lenti e pacati, privi di quel fuoco proprio della passione che sì, era bellissima, ma il tenero coccolarsi che la seguiva lo era altrettanto.

Claudio non impiegò molto a rilassarsi completamente sotto quei baci, anche lui amava il sesso tanto quanto le più morbide effusioni, e si abbandonò del tutto, con dolci mugolii, al calore meraviglioso del corpo di Domenico che lo avvolgeva come raggi di Sole in piena estate, nonostante fosse autunno inoltrato; al tempo stesso non smise mai di accarezzarlo, muovendo le dita tra i suoi capelli con morbida lentezza, e per quelle carezze Domenico sospirava beato, lasciando che lo coccolassero come una piacevole brezza.

Il meccanismo, anche in questo caso, era perfetto, ma non per questo apprezzato da tutti: Claudio, infatti, dopo un po' si accorse che ad una delle finestre proprio di fronte alla loro era affacciato un uomo piuttosto anziano che li guardava con una certa insistenza, ma anche con inequivocabile disgusto che riusciva a percepire anche a quella distanza.

"Amore...amore mio?"

Richiamò subito l'altro, con tono calmo, ma che lasciava trasparire comunque una certa urgenza.

Domenico sollevò immediatamente il capo, in modo da guardarlo.

"Che c'è, core mij? Qualcosa non va?"

Domandò, un po' preoccupato, ed in risposta Claudio accennò con la testa al palazzo di fronte.

"Mi sa che abbiamo pubblico."

Mormorò, dispiaciuto più che apprensivo. Non era stata un'idea molto razionale mettersi a scambiarsi effusioni di fronte ad una finestra, praticamente nudi tra l'altro, lo riconosceva, ma era comunque spiacevole doversi interrompere.

Domenico si voltò in quella direzione e non appena si rese conto di ciò che stava accadendo si accigliò, innervosito.

"Ah, lo conosco bene, quello!"

Borbottò, stizzito, poi si separò da Claudio e gli fece cenno di spostarsi un po' più di lato, in modo che potesse aprire la finestra. Si affacciò, mettendo su il sorriso più falso che era in grado di fingere, senza nulla di allegro e anzi carico d'astio. Lui certe cose poteva anche sopportarle -soprattutto perché era abituato alla presenza di quell'uomo con cui più di una volta, a causa dei suoi commenti ad alta voce sui più vari argomenti, si era scontrato in una discussione-, ma non poteva permettere che Claudio ne fosse oggetto, non dopo tutto ciò che aveva sopportato da ragazzo. Sapeva che l'avvocato era perfettamente in grado di difendersi da solo, ma era comunque proprio dovere proteggerlo.

"Signor Eugenio, buongiorno, come state?"

Esclamò, accennando anche un saluto veloce con la mano. La distanza tra i due palazzi non era poi molta ed era sicuro che il vicino l'avesse sentito, ma in ogni caso non gli diede tempo di rispondere perché non gli importava assolutamente nulla di ciò che avrebbe potuto dirgli.

"V vulit venì a piglià nu café?"

Aggiunse con un tono palesemente di scherno, che nulla aveva di gentile o accogliente, con il chiaro intento di provocare quell'uomo, di fargli capire che non avrebbero chinato la testa di fronte al suo odio e non si sarebbero nascosti per paura del suo giudizio, perché esistevano ed erano fieri di esistere.

L'uomo, in evidente difficoltà -probabilmente si aspettava una reazione più remissiva- rivolse loro un ultimo sguardo schifato, borbottò rimproveri talmente deboli che nemmeno arrivarono dall'altra parte della strada e poi chiuse la finestra, scomparendo dietro le tende tirate, cosa che fece nascere sulle labbra di Domenico un sorriso vittorioso, stavolta sincero.

Claudio aveva osservato tutta la breve scena con attenzione ed era rimasto piacevolmente colpito dall'enfasi con cui Domenicoi era fatto avanti per difenderlo, anche se non era così necessario: era sicuro che alla base di quella reazione ci fosse la volontà di non farlo più sentire come il ragazzo sbagliato di tanti anni prima, ma non c'era più quel pericolo. Era cresciuto, adesso, non era più un ragazzino e aveva capito, soprattutto grazie a Domenico, che non aveva proprio niente di sbagliato in sé.
Ridacchiò piano, riavvicinandosi al compagno, e gli sorrise orgoglioso, portando una mano sulla sua guancia per farlo voltare -gesto che Domenico assecondò docilmente-.

"Eh no, mi sa che non lo vuole il caffè."

Mormorò divertito, quando furono di nuovo occhi negli occhi. Gli diede un bacio a fior di labbra, senza perdere il sorriso.

"Peggio per lui."

Aggiunse, accarezzandogli la guancia.

Domenico finalmente si concesse una risatina, che poi si trasformò in un morbido sorriso.

"E meglio per noi."

Sussurrò, per poi prendere una mano di Claudio nella propria e posarvi un bacio leggero.

"Facciamo colazione adesso, abbiamo già perso abbastanza tempo co' chill'omm 'e nient e il thè si raffredda!"

Esclamò poi, sbrigativo.

Claudio annuì, ridacchiando di gusto per la definizione che l'altro aveva usato, e senza lasciarsi le mani si spostarono a letto.

Si infilarono subito sotto le coperte ancora calde del loro tepore, mettendosi seduti contro lo schienale, ed avvicinarono a sé il vassoio con la colazione.

Domenico portò immediatamente alle labbra la tazza di thè per controllare che fosse ancora bevibile e, dopo aver assaggiato un piccolo sorso, sospirò di sollievo.

"È ancora buono, per fortuna, altrimenti andavo a rovesciarglielo in testa."

Borbottò, rivolgendo uno sguardo accigliato alla finestra.

Per Claudio era tremendamente strano vedere Domenico, di solito così buono e gentile con tutti, così arrabbiato nei confronti di qualcuno, perché era davvero raro che arrivasse a provare un risentimento tanto forte, anzi poteva dire di averlo visto accadere una sola volta: l'unica persona che aveva odiato con ogni fibra del suo essere -gli aveva detto proprio così un giorno, anni prima- era stato suo padre, l'Egregio Ingegner Vinci, e per una ragione -una buona ragione- che sospettava essere molto simile a quella che lo portava ad odiare il suo vicino di casa.

Portò una mano sul suo braccio, accarezzandolo delicatamente con il pollice per richiamare la sua attenzione.

"Mi spieghi per favore chi è quell'uomo? Mi viene da pensare che tu lo conosca bene, visto come hai reagito. Ti ha fatto qualcosa?"

Chiese, con la voce velata da una leggera preoccupazione.

Domenico sospirò e tornò a guardarlo -in effetti, non valeva la pena prestare attenzione a qualcuno che non fosse l'uomo con cui stava condividendo il letto in quel momento-, accennando un sorriso per rassicurarlo.

"Eh, è un bigotto come tanti, un rompicazzo che viene sempre in chiesa, si riempie la bocca di preghiere, ma poi ha da ridire su tutto e tutti, ed ovviamente dice sempre la cosa sbagliata. Abbiamo litigato più di una volta per le stronzate che dice, ma oltre a questo non mi ha fatto niente."

Rispose con tono duro, ma che al tempo stesso tradiva una certa rassegnazione: era inutile, per quanto ci provasse non riusciva a far cambiare idee a quell'uomo e sapeva che ormai era una causa persa, che avrebbe fatto meglio a lasciar correre l'ennesimo commento che usciva da quella fogna, ma non ce la faceva: tacere gli sembrava un modo per dargliela vinta.

Fece scivolare la mano su quella di Claudio, cominciando ad accarezzarla con il pollice. Era morbida e si incastrava perfettamente nella propria.

"Scusami, avrei dovuto pensarci e non avrei dovuto baciarti lì, davanti alla finestra..."

Aggiunse, con voce mesta, rivolgendogli uno sguardo carico di dispiacere.

"Ti ha dato fastidio quello che ha fatto?"

Domandò ancora, preoccupato.

Claudio scosse il capo, senza esitare. Non poteva fare a meno di pensare che se uno di loro due fosse stato una donna probabilmente non avrebbero ricevuto quelle occhiatacce e quelle parole, ma dopo anni era giunto alla conclusione che la cattiveria della gente non poteva essere un proprio problema, non poteva annullare se stesso per compiacere gli altri.

Portò la mano libera su quella con cui Domenico lo stava accarezzando e gliela strinse un po', con dolcezza, per fargli capire che era sicuro di sé.

"Mi ha dato fastidio, sì, ma solo perché ha rovinato un momento che era solo nostro. Tu però hai fatto bene a baciarmi lì, perché non siamo noi quelli dalla parte del torto."

Rispose, con voce ferma e sicura, ma anche piena d'affetto.

"Anzi, dovremmo farlo più spesso."

Aggiunse con un sorriso sornione, avvicinandosi al suo volto.

Domenico ridacchiò, più rilassato.

"Guarda che quello è capace di denunciarci per atti osceni, eh..."

Fece notare, senza un briciolo di reale preoccupazione.

Claudio scrollò le spalle.

"Ci stavamo solo baciando ed in più conosco un ottimo avvocato..."

Replicò, furbo, lasciandogli un bacio a fior di labbra per poi ritrarsi di poco.

Domenico accennò una risatina divertita ed istintivamente seguì l'altro quando questo si allontanò, senza tuttavia toccarlo anche se sentiva che quel contatto era stato interrotto troppo presto.

"Ah sì? E chi sarebbe?"

Domandò allora con una con finta curiosità -immaginava perfettamente la risposta- che prendeva forma nel mezzo sorriso sull'angolo delle labbra e nel sopracciglio leggermente sollevato.

Claudio sogghignò, soddisfatto come un pescatore che aveva appena visto il suo amo muoversi.

"Aspetta, che te lo presento."

Rispose a voce bassa, mellifluo, guardandolo negli occhi e riprese ad avvicinarsi a lui, senza interrompere il contatto visivo.

"Claudio..."

Soffiò sulle sue labbra che poi baciò, accogliendo quello superiore tra le proprie, accarezzandolo piano con piccoli movimenti. Si separò da lui di pochissimo, quanto bastava ad articolare un'altra parola.

"Vinci..."

Soffiò ancora, per poi baciarlo di nuovo con la stessa morbidezza.

"Piacere di conoscerla."

Mormorò, sfiorando le sue labbra con le proprie mentre parlava, per poi allontanarsi fino a tornare in posizione centrata, mantenendo gli occhi ancorati ai suoi ancora per qualche secondo, in modo da sottolineare il messaggio, prima di spostarli sul vassoio. Allungò una mano a prendere la propria tazza e bevve un buon sorso di thè, con un sorriso soddisfatto -quasi un morbido ghigno- stampato in volto: gli piaceva dimostrare al compagno il proprio amore, anche attraverso quelle provocazioni giocose che aiutavano a portare un po' di leggerezza nelle situazioni pesanti, e sperava di riuscirci anche stavolta.

Domenico aveva smesso di respirare non appena Claudio si era avvicinato, ma se n'era accorto solo quando aveva ripreso a farlo, quando il compagno si era allontanato. Avvertì distintamente un peso scivolargli dal centro del petto ed immediatamente si sentì più leggero, e fu in grado prendere un profondo respiro che subito si trasformò in una risata calda e accogliente. Solo Claudio riusciva a farlo sentire immediatamente più leggero, a volte facendo scomparire il macigno quasi per magia, altre -quando era troppo pesante- facendosene carico insieme a lui.

"Sei proprio un avvocato marpione, lo sai, sì?"

Commentò divertito, bevendo un altro sorso di thè -aveva la gola improvvisamente secca- e dando poi un morso ad una fetta biscottata.

Claudio prese un biscotto dal piattino e con un movimento rapido ne immerse l'estremità nella bevanda calda, sorridendo sghembo.

"Beh, se non ti fidi di questo avvocato posso sempre chiamarne un altro."

Diede un morso deciso al biscotto, guardando l'altro di sottecchi.

Domenico liberò uno sbuffo divertito, decidendo di stare al gioco.

"E chi? Quello giovane che lavora con te, magari? Come si chiama..."

Fece schioccare le dita un paio di volte, lievemente accigliato, nel tentativo di ricordare il nome.

"Ah, sì, Arthur, giusto?"

Chiese, per poi dare un altro morso alla fetta biscottata.

Claudio mandò giù il boccone -finendo il biscotto- e annuì. Erano ormai tre anni che Arthur era diventato a tutti gli effetti un avvocato dello Studio Legale Vinci e aveva dato ampiamente prova delle sue capacità, in cause ben più ostiche di quella -del tutto ipotetica e giocosa- di cui stavano parlando loro. Se proprio quello scenario fosse diventato realtà, e cioè se davvero quel vicino odioso avesse deciso sul serio di denunciarli, non aveva dubbi che Arthur li avrebbe difesi nel migliore dei modi.

"Sì, esatto. Perché, sei geloso?"

Domandò scherzosamente, prendendo subito dopo una fetta biscottata e dandole un piccolo morso. In realtà sapeva benissimo che, per quel poco che il proprio compagno ed Arthur si conoscevano, andavano d'accordo e che non c'erano particolari asti tra i due, né gelosie insensate.

Domenico, infatti, scosse il capo ed in un paio di morsi finì la propria fetta biscottata, mandando giù un po' di thè dopo l'ultimo morso. Non poteva dire di conoscere approfonditamente quel giovane avvocato, lo aveva incontrato soltanto poche volte da quando era tornato insieme a Claudio, fermandosi a parlare con lui quando andava a prendere quest'ultimo allo Studio e aspettava che finisse di sistemare le sue cose, ma aveva capito fin da subito che si trattava di un ragazzo in gamba, un professionista serio e che, soprattutto, era legato a Claudio solamente da un profondo affetto professionale.

"Ma no, figurati, anzi mi sta simpatico. Parla sempre bene di te."

Affermò, voltandosi per un istante verso l'altro prima di immergere mezzo biscotto nella tazza.

Claudio liberò una risatina, annuendo tra sé e sé.

"Ah, ecco perché ti sta simpatico! Vi mettete a tessere le mie lodi quando vieni allo Studio, quindi?"

Chiese, giocoso ma con un fondo di serietà, rivolto verso di lui mentre mangiava la propria fetta biscottata.

Domenico ridacchiò di gusto, perché in effetti ciò che lui ed Arthur facevano non era poi troppo lontano dall'idea di Claudio.

"Esattamente! Siamo entrambi membri del tuo fanclub, sto anche valutando l'idea di far stampare delle magliette con la tua faccia per sottolineare il concetto."

Replicò, con un tono estremamente naturale, come se stesse dicendo qualcosa di scontato, e con occhi che, fissi sull'altro, luccicavano furbi.

Claudio si voltò di nuovo verso di lui, piacevolmente colto in flagrante, e ridacchiò imbarazzato: già vedeva Domenico ed Arthur andare in giro con quelle maglie, senza vergogna, portando in giro la propria faccia come due cartelli pubblicitari ambulanti.

"La cosa bella è che lo faresti davvero."

Rispose, sicuro e divertito al tempo stesso, avvicinando alla bocca del compagno un biscotto che aveva precedentemente tocciato.

Domenico prima annuì con convinzione, poi accettò quel dolce dono dandovi un piccolo morso, facendo al tempo stesso in modo di sfiorare con le labbra le dita dell'amato, poi un altro ed un altro ancora fino a finirlo.

"Certo, perché te lo meriti! Sei l'avvocato più bravo di Roma e il compagno migliore che si possa desiderare..."

Mormorò con dolcezza, allungando una mano ad accarezzargli una guancia.

Claudio sorrise, timidamente, e buttò fuori un piccolo sospiro sollevato. Non aveva dubbi sulle proprie capacità professionali, e non lo pensava per ego, mentre invece era inconsueto, per lui, sentirsi definire il miglior compagno che si possa desiderare e ancora faceva fatica a pensare a sé stesso in quei termini, ma in fin dei conti sapeva, adesso, di essere un buon partner per Domenico e sentirselo confermare lo rendeva felice, perché non c'era altro che desiderasse. 

"Allora io fondo il tuo fanclub, perché te lo meriti anche tu: sei l'ufficiale di Polizia più competente con il quale abbia mai avuto a che fare, e bada bene che io li ho conosciuti praticamente tutti, e sei il compagno più dolce e premuroso che si possa desiderare, quindi anch'io voglio andare in giro con il tuo bel viso stampato su una maglia!"

Esclamò allegro, concludendo con un bel sorriso, accarezzandogli la mano che lui aveva posto sul proprio viso.

Domenico rise, tanto di cuore da scoprire i denti e socchiudere gli occhi, divertito dall'immagine del distinto avvocato che indossava una maglia del genere, ma non stupito, dal momento che conosceva perfettamente l'uomo vero dietro il legale. Per il resto, era consapevole di impegnarsi con ogni sua capacità nel proprio lavoro e di essere dunque un buon ispettore -anche se non si sarebbe mai definito il migliore- ed anche di essere un compagno dolce e premuroso, ma questo gli veniva piuttosto facile perché era impossibile pensare di trattare Claudio in modo diverso.

Prese il mezzo biscotto che Claudio aveva in mano e gliel'avvicinò alla bocca.

"Bene, ora che abbiamo appurato che siamo entrambi fantastici, dici che potrei approfondire la conoscenza dell'avvocato Vinci?"

Domandò divertito, con un tono vago ma seducente al tempo stesso.

Claudio accettò il biscotto, che accolse tra le labbra mentre con esse gli accarezzava le dita.

"Solo un momento, l'avvocato deve consultare l'agenda."

Rispose dopo aver mandato giù il boccone, serissimo, e portò giù la mano con la quale stava ancora accarezzando quella di Domenico, in modo da lasciargli campo libero. Finse poi di aprire un'agenda davanti a sé e di sfogliarne le pagine per un paio di secondi, poi la richiuse e annuì soddisfatto.

"È fortunato, l'avvocato in questo momento è libero. Le consiglio di presentarsi come prima cosa, però..."

Mormorò, mellifluo.

Domenico ridacchiò per la piccola scenetta -probabilmente nessuno dei giudici o degli altri avvocati che avevano incrociato il suo cammino si aspettavano che l'avvocato che li aveva più volte convinti o affrontati avesse un animo così giocherellone- ed annuì piano, portando giù la mano.

"Ha ragione, che maleducato che sono, mi permetta di rimediare..."

Replicò, accennando un sorriso sghembo che gli rimase sulle labbra mentre si avvicinava a quelle dell'altro.

"Ispettore..."

Sfiorò delicatamente la sua bocca, in un bacio rapido, ma caldo.

"Domenico..."

Soffiò, dandogli stavolta un bacio un po' più lungo, ma che restava comunque un innocente contatto tra labbra.

"Liguori."

Disse infine, prendendo il viso di Claudio tra le mani e poggiando per l'ennesima volta le proprie labbra sulle sue. Questa volta, però, le accarezzò con la punta della lingua, in un silenzioso invito ad aprirle che Claudio accettò senza esitare e senza sentirsi costretto, perché anche lui aveva voglia di approfondire quella conoscenza, seppur finta, e di rimando si aggrappò al suo busto, tirandoselo vicino.

Domenico reagì spingendosi naturalmente verso di lui, ma il movimento fu troppo repentino e così diede uno scossone al vassoio che ospitava la loro colazione, rischiando di far rovesciare tutto sul letto. Grazie ai propri riflessi rapidi, però, riuscì ad afferrarlo prima del disastro, anche se ciò significò interrompere bruscamente il bacio tra lui e Claudio.

Si guardarono negli occhi, che erano leggermente sbarrati per il piccolo spavento, e poi scoppiarono a ridere, come due bambini che avevano appena commesso una marachella e l'avevano passata liscia.

Claudio si sporse ad aggiustare i piattini sul vassoio, che si erano un po' mossi e scontrati tra loro.

"Forse è meglio se finiamo di mangiare, prima..."

Propose, con voce divertita.

Domenico annuì, rapidamente, ridacchiando ancora.

"Sì, meglio...tanto, chi ci corre dietro?"

Chiese retoricamente, per poi bere un sorso di thè.

Claudio lo imitò, ed intanto vagò con lo sguardo sul vassoio, senza un motivo preciso, ma la sua attenzione fu attratta piattino con le fettine di mela che non erano state ancora toccate. Posò allora la tazza e ne prese una, con un sorriso sghembo che preannunciava l'idea che gli era venuta.

"Domenico, ti va di fare quella cosa che fanno sempre Simone e Manuel?"

Chiese, con voce leggera, sollevando leggermente il pezzo di frutta per mostrarlo all'altro.

Domenico, spostando lo sguardo su di esso, ridacchiò divertito dalla proposta e annuì con entusiasmo.

"Com'è che dicono? Facciamo Lilli e il Vagabondo?, giusto?"

Non era raro che invitassero i due ragazzi a mangiare da loro, e sempre accadeva che ad un certo punto uno dei due pronunciava quella frase, come se fosse stato un loro rituale, per dar vita ad una scena degna di un film romantico. Anche guardandola dall'esterno, si capiva che per Manuel e Simone il tempo smetteva di scorrere e lo spazio scompariva quando si dedicavano a quella loro piccola cosa, ma al tempo stesso chi osservava si sentiva partecipe del loro amore e non escluso. Era sempre un bel momento, insomma.

Claudio sorrise, annuendo.

"Mh-hm."

Rispose semplicemente, poi si portò la fettina di mela tra le labbra, tenendola ferma con i denti, e si avvicinò al compagno, invitandolo con un cenno del capo a fare altrettanto.

Domenico ruotò su se stesso per stargli di fronte e subito dopo annullò la distanza tra loro, dando un morso allo spicchietto croccante, zuccherino e fresco.
Si guardavano negli occhi, cielo e bosco, e non potevano fare a meno di sorridersi a vicenda, illuminati da un Sole d'amore. Era vero, con quella specie di piccolo gioco il mondo oltre a loro passava in secondo, anzi in ultimo piano, e tornava ad esistere solo quando, alla fine, i due innamorati si scambiavano un rapido bacio. Si stavano letteralmente comportando come due adolescenti -e del resto era da loro che avevano reimparato ad amarsi- e un po' si sentivano tali, ma era bello mettere da parte gli anni che avevano sulle spalle e abbandonarsi all'amore che, come è risaputo, non ha età.

Era molto divertente mangiare in quel modo e fu molto semplice e naturale, per loro, prenderci la mano -o meglio le bocche- e terminare così la loro colazione, lasciando da parte soltanto i due quadratini di cioccolato. Senza dirsi nulla, bastò solo uno sguardo, Domenico ne prese uno, Claudio l'altro, e se li imboccarono a vicenda, baciandosi le dita, seguendo quello che era sempre stato il loro piccolo rituale.

Bevvero poi anche l'ultimo sorso di thè e sospirarono soddisfatti.

Claudio, senza esitare, prese il vassoio sui lati, con entrambe le mani.

"Bene, direi che questo adesso lo possiamo mettere qui..."

E così dicendo si spostò per adagiarlo a terra, al lato del letto, preferendo rimandare ad un secondo momento il rimettere tutto in ordine: non aveva proprio voglia di lasciare quel letto, non ancora.

Domenico, che condivideva il suo stesso pensiero, approfittò furbescamente della sua posizione per avvicinarglisi, avanzando in ginocchio, quanto bastava a raggiungerlo e posare qualche bacio su quelle strisce di pelle un po' più lucida che si estendevano sulla sua schiena. Salì, rapido ma delicato, fino a raggiungere la sua spalla e lo cinse in un abbraccio mentre percorreva a suon di baci lo spazio fino al suo collo.

Claudio sorrideva ad occhi chiusi, completamente rilassato contro il suo petto, e si beava di quelle piccole attenzioni, respirando lentamente.

Domenico, così, raggiunse il suo orecchio, che accarezzò con la punta del naso.

"E tu, invece, adesso ti metti qui, per favore."

Sussurrò, lasciandolo andare per stendersi sul materasso.

Claudio, senza perdere il sorriso, riaprì gli occhi e si voltò a guardarlo, trovandolo disteso supino sotto al piumone, che però il compagno aveva scostato leggermente per fargli spazio, e le braccia allargate in un evidente invito. Senza indugiare, anche perché cominciava ad aver freddo così scoperto, si rifugiò accanto a lui, poggiando il capo sul suo petto accogliente e cingendogli il busto con un braccio.

Domenico accennò una risatina intenerita, si premurò di rimboccare bene le coperte e lo avvolse tra le braccia, chiudendo quell'incastro perfetto.

"Comodo?"

Sussurrò, spostando gli occhi verso il basso, su di lui.

Claudio annuì leggermente, facendo strofinare la barba e i capelli arruffati sul petto del compagno: era quello il proprio posto, non era possibile che stesse scomodo.

"Comodissimo, tu?"

Domenico ridacchiò per il solletico leggero e piacevole causato dal movimento dell'altro e annuì a propria volta, con un gesto rapido e secco.

"Comodissimo anch'io. Stai abbastanza caldo?"

Rispose, con dolcezza.

Claudio accennò un sorriso sghembo e si strinse meglio a lui, facendo sfiorare le loro gambe.

"Sì, sì, con te vicino non potrebbe essere altrimenti...anche se mi devi spiegare una cosa."

Domenico gli rivolse uno sguardo incuriosito.

"Anche due!"

Rispose, tranquillo.

Claudio ridacchiò appena.

"Mi spieghi com'è possibile che tu sia tutto caldo, praticamente un vulcano, ma poi hai i piedi che sono praticamente due pezzi di ghiaccio? Ti sei fatto controllare?"

Domenico liberò una risatina, annuendo leggermente.

"Sì, è tutto a posto, è solo il freddo...scusami."

E così dicendo scostò leggermente le proprie gambe da quelle di Claudio, in modo da non dargli fastidio.

 Claudio, però, non era d'accordo con quel gesto, non era ciò che voleva, e con una gamba tirò di nuovo a sé quelle di Domenico, che poi cinse con la propria.

"Non ho mica detto che devi starmi lontano! Ci penso io..."

Mormorò, dolcemente.

Domenico sorrise e chinò il capo quanto bastava a lasciargli un bacio tra i capelli.

"Grazie, non so proprio come farei senza di te."

Claudio fece spallucce e si strinse meglio a lui, con un sorriso divertito.

"Beh, avresti i piedi freddi."

Domenico scoppiò a ridere, Claudio subito dopo di lui, e le loro risate unite in una sola riempirono presto la stanza, per poi sfumare lentamente e lasciare posto ad un morbido silenzio.

I loro corpi sembravano uniti come uno solo, tanto da rendere indeterminabile dove iniziasse l'uno e finisse l'altro, e si beavano del reciproco calore, immersi com'erano nella loro bolla. Claudio faceva scorrere lentamente la mano sul fianco di Domenico e Domenico, invece, percorreva placidamente la schiena di Claudio, accarezzando l'uno le cicatrici dell'altro dove ormai non c'era più dolore.

La porta di fronte a loro, lasciata aperta, permetteva di vedere il soggiorno avvolto dalla luce grigia di quella mattinata uggiosa dove, oltre ai loro vestiti abbandonati un po' a terra ed un po' sul divano, spuntava qualche scatolone qua e là.

Domenico toccava con lo sguardo il profilo del divano, il muro ormai vuoto su cui erano visibili i segni lasciati dalle poche cornici che vi aveva appeso anni prima -principalmente foto di famiglia e poster di film-, la libreria con gli scaffali sempre meno pieni e quegli scatoloni che contenevano tutto ciò che mancava all'appello.
Claudio se ne accorse, come se avesse sentito il peso del suo sguardo, e sollevò il capo verso di lui.

"Ti fa strano vederla così?"

Domandò a voce bassa, riferendosi ovviamente alla casa.

Domenico portò subito i propri occhi nei suoi e scosse il capo.

"No, a dire il vero no. Perché, cos'ha di particolare?"

Chiese di rimando, incuriosito.

Claudio si sollevò, portandosi con il capo sul cuscino per guardare meglio il compagno.

"Beh, è come se fosse alla fine di un viaggio, no?"

Domenico si girò subito su un fianco, così da potergli parlare faccia a faccia -era molto importante- e gli rivolse un sorriso innamorato.

"No, perché per me questa non è la fine, ma l'inizio. A te ha fatto strano, lasciare casa tua?"

Chiese, allungando una mano ad accarezzargli il viso.

Claudio scosse leggermente il capo, ricambiando il sorriso con lo stesso amore.

"No, macché, figurati. Quella per me non era casa mia, ma semplicemente il posto in cui vivevo."

Lo cinse con un braccio, in modo da poterlo tenere più vicino ed accarezzargli la schiena.

Domenico fece sfiorare i loro nasi in una piccola carezza.

"Perché casa è più di quattro mura."

Sussurrò, piano, a pochissima distanza dalle sue labbra.

Claudio gli si avvicinò ancora un po', lasciandosi appena lo spazio per parlare.

"Casa è la persona che quelle quattro mura le fa sparire."

Disse a voce bassissima, prima di eliminare del tutto la distanza tra loro.

Per anni avevano condiviso lo stesso dolore, convissuto con lo stesso dilaniante senso di vuoto, ma adesso erano ritornati a casa e non l'avrebbero più lasciata.
Un suono, per la precisione un trillo ripetuto e martellante, interruppe il momento idilliaco e Domenico, riconoscendo la propria suoneria, sbuffò di disappunto.

"Perdonami, devo rispondere, mi sa che è il commissariato..."

Mugugnò, dispiaciuto.

Claudio gli sorrise rassicurante e gli diede un bacio sulla punta del naso prima di sciogliere l'abbraccio in cui lo teneva avvolto: in teoria oggi era il suo giorno libero, ma sapeva che per un lavoro come quello del compagno gli imprevisti e le emergenze erano frequentissimi.

"Non ti preoccupare, vai a rispondere. Io ti aspetto qui."

Domenico sospirò profondamente e, dopo aver baciato a fior di labbra il compagno, si alzò di scatto e andò in soggiorno, dove aveva lasciato il cellulare. Come previsto, la chiamata proveniva dagli uffici del commissariato e gli stavano chiedendo di recarsi in servizio, nonostante il giorno di riposo, perché c'era bisogno di lui. Tornò in camera da letto dopo una breve conversazione, con l'espressione combattuta di chi amava fare il proprio dovere, ma al tempo stesso si dispiaceva all'idea di dover lasciare la persona che amava.

Claudio, che intanto si era tirato su a sedere contro lo schienale, accennò un sorriso comprensivo alla sua espressione rassegnata.

"Devi andare, vero?"

Domandò, anche se la domanda era praticamente retorica perché aveva ascoltato parte della conversazione -le risposte che aveva dato Domenico, almeno-, ma anche se così non fosse stato, gli sarebbe bastato vederlo in faccia per capire tutto.

Domenico annuì, mestamente, e gli si avvicinò per poi sedersi sul bordo del letto.

"Lo sai che se dipendesse da me resterei qui, tutto il giorno a letto con te."

Rispose, abbozzando un sorriso di scuse: erano stati giorni pesanti per entrambi e si erano ripromessi di trascorrere quella giornata insieme per dedicarsi finalmente a loro, ma ora quei piani andavano in fumo per causa sua e gli piangeva il cuore solo all'idea. Purtroppo, però, non poteva fare altrimenti.

Claudio si sporse verso di lui, con le labbra curvate in un sorriso furbetto.

"Mh, e cosa faresti?"

Domandò, volutamente lascivo, sollevando un sopracciglio: non sopportava di vedere il proprio compagno così abbattuto, specie perché sapeva di essere l'unico motivo per il quale Domenico non era felice di recarsi a lavoro, e sperava che giocando un po' gli avrebbe fatto recuperare il sorriso. Anche a lui, naturalmente, dispiaceva di non poter trascorrere tutto il giorno insieme, così come avevano progettato, ma avrebbero recuperato la sera, con tutti gli interessi, e quella domanda era semplicemente un modo per ricordarglielo.

Domenico lo fissò per un paio di secondi, indeciso se fosse il caso di dargli corda o meno -che senso aveva dirgli ciò che pensava se nemmeno avrebbero potuto metterlo in atto?-, ma alla fine liberò un sospiro leggero e decise di rispondere, con un sorriso che si era fatto un po' più luminoso al pensiero che, in fondo, non tutto fosse perduto e che avrebbero potuto rifarsi quella sera stessa: sorrideva, allora, perché solo lui riusciva a tirargli su il morale con quella facilità.

"Beh, tu hai detto che in un letto si possono fare tante cose e io le farei e...rifarei...tutte..."

Cominciò a dire, con voce bassa ma decisa, accarezzandogli una gamba nascosta dalle coperte.

Tanto bastò a Claudio per sentirsi attraversare da piacevoli brividi, come se il contatto fosse stato diretto, pelle contro pelle, e avvertire venir meno il proprio respiro.

"...ed in un'altra situazione sarei rimasto, credimi, ma purtroppo non posso."

Concluse Domenico, sospirando di nuovo.

Claudio aggrottò lievemente le sopracciglia, preoccupato, e posò la propria mano su quella del compagno per dargli sostegno.

"È successo qualcosa di grave?"

Chiese, con una certa apprensione.

Domenico ridacchiò, scuotendo il capo.

"No, no, tranquillo. È solo che da quando hai fatto quell'appello non hai idea di quante persone stiano venendo a sporgere denuncia per i reati più vari."

Rispose divertito, ma con occhi che traboccavano d'orgoglio per il proprio compagno. Ricordava perfettamente che stava lavorando, quel giorno di un paio di mesi prima, e sua madre l'aveva chiamato, intorno all'ora di pranzo, tutta trafelata per dirgli di mettere "sul terzo canale" perché c'era "Claudio in televisione" e lui, allora, si era affrettato ad accendere la piccola televisione nel proprio ufficio, ritrovandosi davanti ad un quasi primo piano dell'avvocato che parlava con voce sicura e decisa e con gli occhi di cielo puntati dritti in camera che sembravano scrutarti dentro. Anche allora aveva sorriso pieno d'orgoglio -e d'amore- davanti a quel piccolo schermo e ricordava perfettamente di aver pensato che se fosse stato un criminale non avrebbe esitato a costituirsi.

"Per quelli più piccoli bastano gli agenti, ma per quelli più pesanti le persone vogliono parlare con un ispettore..."

Concluse, facendo spallucce.

Claudio accennò una risatina, appena imbarazzata. La notizia dell'arresto di Sbarra aveva avuto una risonanza considerevole e il trattamento che aveva riservato a Simone -di cui, per fortuna, era stata tutelata la privacy non rivelandone l'identità- aveva scaldato ed indignato l'opinione pubblica, dal momento che si trattava soltanto di un ragazzino che, nell'immaginario collettivo, sarebbe potuto essere il figlio di chiunque e così, non appena si era saputo che a difendere quest’ultimo c'era lui, l'avvocato Vinci, uno dei più importanti di Roma, si era ritrovato con uno sciame di giornalisti all'ingresso del proprio studio legale, tutti alla ricerca di un commento o una dichiarazione.

Aveva deciso, allora, di sfruttare il momento per fare qualcosa di utile -anche perché non poteva certo rivelare dettagli sulle indagini o sul processo- e aveva dichiarato che senza il coraggio di chi aveva deciso di denunciare il proprio aguzzino, il Paese non avrebbe raggiunto un traguardo così importante, per poi invitare tutti a fare la propria parte, in modo da poter vivere in un mondo migliore. In realtà, se proprio doveva essere onesto con se stesso, non credeva che quell'appello sarebbe stato ascoltato, ma gli faceva davvero un immenso piacere ricredersi.

"Ah, quindi devo incolpare solo me stesso se adesso devi andare via..."

Mormorò, con una nota di sarcasmo nella voce.

Domenico sollevò l'angolo delle labbra in un sorriso sghembo e portò una mano sulla sua guancia, dandogli un buffetto affettuoso.

"Beh, più che una colpa, a me sembra un merito."

Replicò divertito, con uno sguardo eloquente contornato dalle sopracciglia leggermente inarcate.

Claudio annuì, ridacchiando, e si sporse a dargli un bacio a fior di labbra.

"Buon lavoro, amore mio. Ci vediamo stasera."

Sussurrò, facendogli una carezza tra i capelli.

Domenico lo baciò di nuovo, rapido, e poi si alzò.

"E a te buon riposo, core mij. Non vedo l'ora di scoprire cosa hai architettato..."

Commentò gioviale, mentre prendeva gli abiti che avrebbe indossato quel giorno.

Claudio si rintanò nuovamente sotto le coperte, ridendo di gusto.

"Ti stai sbagliando, io non ho architettato proprio niente..."

Protestò, cercando di essere credibile.

Domenico si voltò e lo guardò ben poco convinto, con un sopracciglio alzato ed occhi giocosamente inquisitori.

"Mh, staremo a vedere."

Disse per chiudere il discorso -tanto, ormai, era questione di pazientare per qualche altra ora-, poi gli si avvicinò e si chinò per dargli un ultimo bacio.

"Ti amo."

Sussurrò, piano, per poi sorridergli.

Claudio sorrise di rimando, e dentro di sé dovette combattere di nuovo con l'istinto di fargli la proposta in quel momento -attendere il passare delle ore era un vero tormento!-, che non era per niente il più adatto.

"Ti amo anch'io. Non stancarti troppo."

Domenico fece una risatina e annuì.

"E tu non preoccuparti, faccio il bravo, tranquillo."

Replicò, mentre gli sistemava meglio le coperte addosso.

"Adesso fammi andare, altrimenti non mi muovo più!"

Aggiunse, scherzoso ma nemmeno troppo visto che non gli sarebbe dispiaciuto chissà quanto.

Claudio fece una risatina e annuì appena, muovendo la testa sul cuscino. Gli dispiaceva che Domenico dovesse andar via, certamente, ma in fin dei conti la sua assenza gli rendeva più facile prepararsi per la serata senza farsi scoprire.

"Vai, vai, per carità!"

Esclamò divertito, facendogli un piccolo cenno con la testa.

Domenico si allontanò in bagno per lavarsi e vestirsi ed uscì di casa poco dopo, non prima di essersi affacciato di nuovo nella stanza per salutare nuovamente il compagno.

Claudio, dopo aver ricambiato il saluto e aver sentito la porta di casa chiudersi, preferì restare a letto ancora per un po', non per dormire -aveva ormai perso del tutto il sonno-, ma per godere del tepore di cui il letto era ancora pregno e del profumo di Domenico che, senza vergogna, ricercò nella morbidezza del suo cuscino. 

Ripassò mentalmente il discorso che aveva preparato, senz'altro il più importante della propria carriera, composto da appena una manciata di frasi a dire il vero, perché in fondo la domanda che voleva porre a Domenico era semplice e diretta così come il sentimento che la muoveva, per cui non c'era motivo di perdersi in lunghe ed articolate orazioni. Voleva essere sicuro di saperlo alla perfezione, però, per cui chiuse gli occhi e lo ripeté per una seconda volta, articolando le parole con le labbra senza pronunciarle, certo che non sarebbe stata l'ultima, per quella giornata.

Gli venne naturale, così, immaginare il momento, con lui in ginocchio che parlava all’amato davanti a sé con il cuore in mano, guardandolo negli occhi, e si chiese come avrebbe reagito Domenico: la sua espressione sarebbe stata di completa sorpresa -e subito immaginò gli occhi verdi che brillavano di gioia ed il sorriso che tracciava due meravigliose fossette sul suo viso fattosi rosso per l'emozione- o sarebbe stata la reazione di chi aveva già intuito qualcosa -ed in questo caso immaginò una risatina limpida e profonda uscire dalle sue labbra, sempre curve in un sorriso, gli occhi verdi che lo guardavano con divertito affetto, ma luminosi della medesima gioia, e il viso rubizzo perché l'emozione sarebbe stata la stessa-?

In ogni caso, era certo che Domenico gli avrebbe risposto con un meraviglioso "Sì." -non per egocentrismo, ma perché era certo dell'amore che Domenico provava per lui, lo sentiva ogni giorno- e gli bastò semplicemente immaginare quella risposta per provare un moto di tenerezza che lo spinse a stringere di più il cuscino a causa del cuore che gli martellava di felicità, a più non posso.

L'unica cosa di cui si dispiaceva con tutto se stesso era di non potergli offrire un matrimonio religioso, in una bella chiesa addobbata per l'occasione, perché sapeva quanto sarebbe stato importante per Domenico giurarsi amore eterno davanti a Dio: aveva provato a parlare con vari sacerdoti, ai quali aveva spiegato la situazione cercando di far capire quanto puro e profondo fosse l'amore che lui e Domenico provavano l'uno per l'altro, nella speranza di trovarne uno di mentalità più aperta che avrebbe acconsentito a benedire la loro unione –chiedeva soltanto una benedizione degli anelli, non pretendeva una cerimonia in piena regola-, ottenendo però solo scarsi successi.

Nel migliore dei casi, infatti, rispondevano che non avevano nulla contro quelli come loro, ma che avevano sostanzialmente le mani legate perché ciò che gli stava richiedendo perché andava contro i dettami della Chiesa -perfino il sacerdote della parrocchia del quartiere, dove Domenico andava a messa ogni settimana, era di questo avviso-; nel peggiore, invece, si infuriavano e lo cacciavano dalle loro chiese in malo modo, urlandogli contro che offendevano Dio con la loro condotta peccaminosa.

Avrebbe continuato a tentare, ma di certo, anche in caso di fallimento totale, non avrebbero rinunciato a sposarsi soltanto perché c'era chi non capiva e non approvava il loro amore. Loro sarebbero stati felici lo stesso.

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Capitolo 43
*** Appendice, Capitolo 7 – Tu mi guardi e ci scappa da ridere (parte 3) ***


Le ore sembravano non voler passare mai, nonostante Claudio cercasse di riempirle in ogni modo possibile: dopo essersi alzato dal letto ed essersi lavato, indossò qualcosa di comodo per stare in casa -precisamente una tuta di Domenico, come nei migliori cliché-, poi diede una sistemata alla stanza, lavò ciò che avevano usato per fare colazione e si mise a riempire qualche altro scatolone di libri e dischi, eppure gli sembrò di aver trascorso almeno il doppio del tempo che era effettivamente passato quando si accorse che era sopraggiunta l'ora di pranzo.

Si preparò un piatto di pasta veloce, non aveva nemmeno troppa fame, e poi decise di mettere su un film confidando nel fatto che lo avrebbe catturato a tal punto da far volare le successive due ore, ma se qualcuno gli avesse chiesto di riassumere la trama di quel film, lui non avrebbe saputo che dire perché non lo stava minimamente seguendo: la verità era che riusciva a pensare soltanto alla serata che aveva davanti, non importava quanto si sforzasse di spostare la mente su altro, e finiva sempre con gli occhi a controllare le lancette del proprio orologio da polso, che gli sembravano sempre immobili.

Alla fine, forse per esasperazione, il tempo si decise a scorrere più velocemente e la giornata arrivò alle tanto attese cinque e mezzo del pomeriggio, orario che Claudio aveva scelto per iniziare a prepararsi, in modo da poter fare tutto con calma. Si infilò sotto la doccia, lavandosi accuratamente, ed una volta uscito e asciugatosi, indossò ciò che aveva già scelto per quell'appuntamento speciale: un completo blu scuro composto da giacca, pantalone e cravatta -quel colore, secondo Domenico, gli risaltava gli occhi- accompagnato da una camicia bianca che gli stava a pennello.

Si guardò allo specchio e rimase soddisfatto del risultato ottenuto -appariva elegante ma non eccessivamente formale, proprio come aveva pensato-, quindi indossò un lungo cappotto -un po' per ripararsi dal freddo autunnale e un po' per necessità, dal momento che gli serviva una tasca grande abbastanza per contenere una scatola molto importante e questo cappotto ne aveva una che faceva al caso proprio- ed uscì, salì in auto e si diresse al commissariato con la celerità concessa dall'abituale traffico romano -era tranquillo, perché aveva giocato d'anticipo e aveva tutto il tempo necessario a disposizione-, eppure sorrise per l'intero il tragitto perché gli sembrava di volare nonostante l'auto avanzasse lentamente.

Non appena mise piede nell'atrio piuttosto spazioso dell'edificio, incrociò un'agente che stava uscendo e che lo salutò con un sorriso cordiale e luminoso.

"Claudio, che bello vederti! Sei qui per lavoro o per piacere? Dal sorriso, mi sembra più la seconda, eh?"

Chiese, allegra, la ragazza dai grandi occhi castani e dai lunghi capelli neri raccolti in una coda.

Claudio ridacchiò e annuì. In quel commissariato lo conoscevano tutti, dapprima solo per la sua professione, poi anche per la sua relazione con Domenico -non l'avevano annunciata in pompa magna, chiaramente, ma non facevano nemmeno nulla per nasconderla quando si incontravano lì-, ma Alex era tra quelle persone per le quali provava più simpatia: se Arthur era un membro del proprio fanclub, lei sarebbe potuta entrare a pieno titolo in quello di Domenico.

"Ciao Alex, anche a me fa piacere rivederti. Hai indovinato, sono qui per Domenico..."

Rispose, e la voce gli tremò leggermente quando pronunciò il suo nome.

Alex gli fece un cenno con il capo, indicando il corridoio.

"È nel suo ufficio e meno male che sei arrivato tu a tirarlo fuori. È stata una giornata di quelle che proprio..."

Sospirò profondamente, agitando su e giù una mano per sottolineare quanto fosse stato stancante quel giorno.

Claudio le sorrise, comprensivo.

"Sono sicuro che avete fatto un ottimo lavoro, come sempre."

Si scostò, in modo da permetterle di passare.

"Non ti trattengo oltre, allora. Va' a casa e riposati, mi raccomando. Ah, e salutami Rosaria, ovviamente."

Disse, pronunciando l'ultima frase con un tono più basso per non farsi sentire dagli altri poliziotti nei dintorni. Non sapeva, infatti, se la relazione tra le due donne fosse pubblica o meno e non voleva causare problemi.

Alex accennò una risatina e gli sorrise di rimando.

"Sarà fatto, non ti preoccupare. Buona serata!"

Così dicendo lo superò e attraversò il portone d'ingresso, voltandosi per fargli un ultimo cenno di saluto con la mano. Claudio, a propria volta, agitò una mano per salutarla ancora.

"Buona serata!"

Esclamò, sorridente. Rimase a guardarla fin quando non la vide entrare in auto e partire, poi si incamminò a passo spedito in quei corridoi grigi che ormai avrebbe potuto percorrere ad occhi chiusi per tutte le volte che l'aveva fatto, e di tanto in tanto salutava i poliziotti che incrociava.

Arrivato a destinazione, vide che la porta dell'ufficio di Domenico era aperta, segno che all'interno ci fosse solo lui -era solito tenerla chiusa, infatti, soltanto quando stava ricevendo qualcuno-, ma non entrò subito. Si fermò sulla soglia ad osservare il proprio compagno seduto alla scrivania, intento a digitare qualcosa -probabilmente un verbale- alla tastiera del computer, il cui ticchettio arrivava fino a lui. Era visibilmente stanco, infatti indossava gli occhiali da lettura -che si rifiutava categoricamente di utilizzare fino a quando i suoi occhi non gli chiedevano pietà- e dai respiri più pesanti degli altri che di tanto in tanto buttava fuori; si era anche tirato su le maniche del maglioncino che aveva indossato, segno che si sentisse accaldato e che quindi aveva lavorato molto, forse troppo. Alex aveva ragione, doveva decisamente intervenire, e così allungò una mano per bussare sulla porta già spalancata.

"Ispettore, mi scusi, è permesso?"

Chiese con voce leggera, mettendo poi su un caldo sorriso.

Domenico alzò immediatamente lo sguardo, attratto da quella voce che avrebbe riconosciuto tra milioni, e fu come se i suoi occhi stanchi fossero tornati a vedere la luce dopo ore di buio.

Era stata una giornata davvero intensa, che in realtà non era ancora terminata, impegnata soprattutto da un fatto che era accaduto quel mattino stesso, o meglio nella notte, ma denunciato soltanto qualche ora più tardi: dei ladri si erano introdotti in casa di Amedeo Cinaglia, un politico locale che da anni sguazzava nelle acque torbide dell'amministrazione cittadina -era uno di quelli che, però, millantava di voler depurare quelle acque!-, e che aveva ottenuto, con la sua lista, un discreto successo alle ultime elezioni –alle quali, per inciso, Domenico non l'aveva votato, perché era un po' un segreto di Pulcinella che Cinaglia avesse rapporti e frequentazioni con esponenti della criminalità organizzata, ma purtroppo non c'erano prove concrete per accusarlo-, guadagnando incarichi importante per sé e per i suoi.

Le indagini preliminari sul furto, comunque, gli avevano occupato parecchie ore, tra l'ascolto di tutte le testimonianze -non solo quelle dei coniugi Cinaglia, i quali in realtà erano fuori Roma ed erano stati richiamati d'urgenza, e dei domestici, che comunque erano addormentati e non avevano sentito nulla, ma anche dei vicini- e soprattutto la stesura dell'inventario di ciò che mancava, impresa non facile dal momento che chi si era introdotto in casa aveva messo ogni stanza a soqquadro, forse perché cercava qualcosa di particolare, forse per non far capire immediatamente cosa avesse rubato o forse per entrambi i motivi.

Tornato in ufficio, poi, la giornata era proseguita con i racconti, e quindi le denunce, di chi aveva subito i soprusi più vari -molti dei quali abbastanza pesanti da ascoltare anche per chi, come lui, aveva una carriera ventennale alle spalle-, dunque non aveva avuto il tempo di redigere il verbale sulla rapina importante -per la quale i suoi superiori gli stavano già facendo una certa pressione- fino a quel momento, prima della piacevole interruzione.

Nei pochi momenti liberi che aveva avuto, però, la propria mente non aveva fatto altro che volare verso Claudio e la sorpresa che gli aveva fatto intendere quella mattina: quei pensieri felici erano stati il carburante che lo aveva fatto andare avanti per tutto il giorno.

"Prego avvocato, si accomodi e chiuda la porta."

Ribatté, mantenendo un tono formale, ma con un sorriso traboccante d'affetto.

Claudio si tirò subito la porta alle spalle, attraversò a passi rapidi la stanza, fece il giro della scrivania che lo separava dell'amato e lo raggiunse, chinandosi su di lui per baciarlo.

Fu un bacio lento, ma desiderato, pieno di quella mancanza che entrambi avevano provato, ed arricchito dalle carezze che Claudio faceva sulla guancia di Domenico e Domenico tra i capelli di Claudio. Quando si separarono, solo perché avevano bisogno d'aria, si sorrisero con infinita dolcezza.

"Ciao, amore mio."

Sussurrò Claudio, teneramente.

"Ciao, core mij. Quanto mi sei mancato..."

Mormorò Domenico, passando lentamente le dita tra i suoi capelli, un gesto che lo aiutava a ricaricarsi.

A Claudio non sfuggì il suo viso stanco, con gli occhi che sembravano spenti, e si rese conto di quanto dura doveva essere stata quella giornata per lui, dal momento che solitamente era pieno di energie anche dopo essere tornato dal lavoro.

"Anche tu mi sei mancato tantissimo."

Gli diede un bacio sulla punta del naso.

"Ti vedo sfinito..."

Aggiunse con tono più preoccupato, riprendendo ad accarezzargli una guancia.

Domenico fece spallucce, buttando fuori un piccolo sospiro. Era stanco morto, sì, ma si sentiva già meglio ora che c'era lui.

"Giornata pesante, ma è quasi finita. Dammi qualche altro minuto e sarò pronto per la tua sorpresa."

Rispose allegro, mettendo su un sorriso.

Claudio alzò gli occhi al cielo, divertito, tirandosi su. 'Ah, spero proprio che tu lo sia, amore mio...', pensò.

"Ancora con questa storia? Mi dispiace deluderti, ma non ho preparato nessuna sorpresa, sono solo venuto a prenderti."

Replicò, cercando di mostrarsi convincente, anche se gli era molto difficile -praticamente impossibile- mantenere la maschera da avvocato davanti a lui.

Domenico scosse il capo, ridacchiando furbescamente, e lo indicò con l'indice, muovendo la mano in un gesto rapido dall'alto verso il basso. 'Non mi fai fesso, core mij, ma apprezzo il tentativo.', pensò intanto.

"Ti sei vestito elegante, anche se questa non è una novità, ma hai scelto proprio uno dei miei completi preferiti e ti sei anche fatto la barba. Scusami, ma gridi 'Sorpresa' da tutti i pori, core mij."

Claudio si passò la lingua sulle labbra in un gesto veloce e poi le curvò in un sorriso sghembo, sfacciato nell'intenzione, ma che non riusciva ad oscurare l'orgoglio che traspariva dagli occhi blu, vanificando ogni sforzo. Era proprio bravo, il suo ispettore.

"Non ti sfugge niente, eh?"

Chiese retoricamente, sollevando appena un sopracciglio.

Domenico scrollò le spalle e si portò le mani in grembo, rivolgendo al compagno uno sguardo affettuosamente pungente.

"Eh, sai com'è, è il mio lavoro."

Ribatté, sorridendo soddisfatto.

Claudio amava quando Domenico lo stuzzicava in quel modo ed avvertì distintamente l'impulso di baciare quell'espressione strafottente e di fare cose poco consone sulla scrivania accanto a loro, ma subito frenò: c'era un piano preciso da seguire, per quanto poco articolato fosse, e non voleva stravolgerlo. Lo guardò quindi con finta compassione e sospirò.

"Mi dispiace, ma stavolta le tue intuizioni ti hanno portato alle conclusioni sbagliate. Vedi, per quanto riguarda la barba ho un'udienza tra due giorni e ho preferito portarmi avanti, mentre per il completo non avevo la minima idea che questo..."

Prese il lembo della giacca tra due dita, allargandolo leggermente.

"...fosse tra i tuoi preferiti, in fondo lo diventano tutti quando me li togli."

Concluse lascivo, con voce un po' più bassa, guardandolo dritto negli occhi.

Domenico ridacchiò, tutto di gola, piacevolmente catturato dal modo in cui l'altro si era difeso, provocandolo di rimando. Era davvero abile il suo avvocato, e aveva anche ragione su una cosa: tutti i suoi completi diventavano i propri preferiti quando glieli toglieva e lui avrebbe voluto tanto farlo anche con quello che stava indossando, seduta stante, in quell'ufficio, ma ciò avrebbe inevitabilmente rovinato l'organizzazione che l'altro aveva sicuramente dato alla serata e non ne valeva la pena.

"Ah, povero me, che pessimo ispettore che sono! Spero di avere più fortuna con le altre indagini che sto conducendo..."

Replicò, fingendosi affranto.

Claudio fece una risatina, divertito, e gli fece una carezza tra i capelli.

"A tal proposito, so io cosa ci vuole. Aspetta un attimo."

Gli lasciò un bacio a fior di labbra e poi uscì dall'ufficio, dirigendosi verso il distributore più vicino. Il thè di quelle macchinette lasciava molto a desiderare, quindi si limitò a selezionare un bicchiere d'acqua calda zuccherata in cui immerse una bustina che aveva portato da casa. Tornò subito dopo dal compagno e poggiò il bicchiere sulla sua scrivania, sorridente.

"Prendi questo, un uccellino mi ha fatto capire che potrebbe esserti utile, vista la giornata che hai avuto."

Domenico liberò uno sbuffo divertito e avvicinò il bicchiere a sé, senza però bere ancora, preferendo lasciare il thè in infusione per ottenere un gusto più intenso. Dall'odore, tuttavia, si accorse che era il suo preferito, quello all'aroma di vaniglia, ma del resto da Claudio non poteva aspettarsi di meno.

"Mh, fammi indovinare, un uccellino piccolo e scaltro, con gli occhi grandi?"

Chiese retoricamente, con un sorriso sghembo, riferendosi ovviamente ad Alex che, tra i suoi colleghi, era quella entrata più in confidenza con Claudio. Era molto giovane, non aveva ancora compiuto trent'anni, ed era entrata in Polizia da poco più di un anno. Anche lei veniva da Napoli e l'ispettore l'aveva subito presa sotto la propria ala, un po' per tenerla d'occhio ed insegnarle tutto ciò che c'era da sapere e un po' perché aveva visto del talento in lei e non si era sbagliato: in diverse occasioni, infatti, si era dimostrata un valido elemento, sia con le sue intuizioni sia in campo operativo, molto più di svariati suoi colleghi con più anni di esperienza sulle spalle. Aveva soltanto bisogno di imparare a gestire l'impulsività e in questo Domenico, che si era affezionato a lei come ad una sorella, poteva senz'altro aiutarla.

Claudio annuì, accomodandosi sulla sedia dall'altro lato della scrivania.

"Proprio lui...o meglio, lei."

Domenico bevve un sorso di thè, liberando un mugolio di approvazione, e poi tornò a guardare il compagno.

"Beh, ti ha suggerito bene, è stata una giornataccia..."

Commentò, lasciandosi andare contro lo schienale della sedia mentre sospirava.

Claudio accennò un sorriso comprensivo ed inclinò leggermente il capo.

"Che è successo? Ne vuoi parlare?"

Propose, con voce morbida.

Domenico mandò giù un altro po’ di bevanda calda, poi tornò a guardare l'uomo che da tempo gli aveva insegnato a condividere i momenti pesanti per renderli più leggeri e curvò appena l'angolo delle labbra.

"Hai presente Amedeo Cinaglia?"

Chiese, pur essendo certo della risposta. Claudio, infatti, annuì.

"Quel lupo travestito da agnello? Certo."

Rispose, con tono pungente: nemmeno lui l'aveva votato alle ultime elezioni.

Domenico ridacchiò, trovando estremamente calzante quella definizione: Claudio, se voleva, sapeva usare le parole con la precisione di un bisturi.

"Sì, proprio lui. Stanotte qualcuno, almeno due persone stando ad una prima analisi, si è introdotto in casa sua e si è portato via un po' di roba."

Scrollò le spalle, sospirando.

"Cinaglia, checché se ne possa pensare, è una figura di spicco al momento e il questore mi ha già sollecitato a risolvere la questione, come se non ci fosse altro a cui pensare."

Concluse, con una punta di amarezza.

Claudio annuì piano, comprensivo, perché condivideva appieno il suo sentimento.

"Immagino che non ci siano testimoni o filmati che possano aiutare, vero?"

Domenico scosse il capo.

"Cinaglia e la sua famiglia erano fuori Roma, i domestici dormivano e non si sono accorti di nulla fino a stamattina, probabilmente i ladri hanno usato un gas narcotico per essere sicuri che non si svegliassero, e le telecamere sono state oscurate immediatamente. Abbiamo interrogato i vicini, ma a quell'ora nessuno ha visto niente, forse riusciremo a ricavare qualcosa dai filmati dei loro sistemi di sicurezza, ma non ci metterei la mano sul fuoco."

Si passò la lingua sulle labbra, che poi fece schioccare, pensieroso.

"Sono sicuro, però, che Cinaglia conosca chi gli è entrato in casa, o almeno sappia chi gliel'ha mandato."

Aggiunse a voce più bassa, ma sicura.

Claudio annuì di nuovo, trovandosi d'accordo con lui: certo, per deformazione doveva sempre considerare tutti innocenti fino a prova contraria, ma non era poi così strano che ci fosse qualcuno che minacciasse quel politico, considerando chi c'era dietro di lui.

"E cosa te lo fa pensare?"

Chiese, incuriosito.

Domenico sollevò le sopracciglia per un istante e arricciò le labbra in un'espressione eloquente.

"Beh, per prima cosa il fatto che i ladri sapessero esattamente dove trovare le telecamere, non ne hanno lasciata libera nemmeno una, quindi conoscevano già la casa sia fuori che dentro, ed in secondo luogo il comportamento di Cinaglia."

Si sporse leggermente in avanti, preso dalla voglia di raccontare.

"Ci ha chiamati la governante, la famiglia è stata avvertita dopo, e Cinaglia, quando è arrivato, si è mostrato molto poco propenso a collaborare: cercava di minimizzare dicendo che non era stato rubato nulla e mi è sembrato molto nervoso, agitato, anche se cercava di non darlo a vedere. È stata la moglie a dirci cosa mancava e cioè un paio di orologi del marito, una collana ed un bracciale suoi e dei giocattoli dei figli, nello specifico..."

Abbassò lo sguardo sull'agendina che teneva aperta sulla scrivania e dalla quale stava recuperando le informazioni per il verbale.

"...un coniglio bianco di peluche ed una Barbie versione veterinaria."

Tornò a guardare il compagno, con le sopracciglia leggermente sollevate.

"Io in tanti anni di carriera ne ho viste parecchie, ma ladri che rubano giocattoli mai!"

Liberò un verso di stizza, facendo scoccare la lingua contro il palato. 

"Considera, poi, che Cinaglia ha un'intera collezione di orologi di lusso ed i ladri hanno scelto proprio quelli meno preziosi, così come hanno fatto con i gioielli della moglie. Perché lasciarli perdere? Avrebbero potuto sottrarli con la stessa facilità, ormai li avevano trovati!"

Continuò a spiegare, battendo l'indice sulla scrivania nei punti del discorso che voleva sottolineare.

"E poi hanno messo sottosopra l'intera casa, è assurdo che l'abbiano fatto solo per recuperare una refurtiva così misera, è evidente che il loro obiettivo non fossero i soldi. Penso che Cinaglia abbia fatto una qualche mossa azzardata nei confronti di qualcuno e adesso questo qualcuno abbia voluto mandargli un messaggio forte e chiaro: sappiamo dove vivi e non ci mettiamo niente ad entrarti in casa, quindi ti conviene rigare dritto."

Sospirò profondamente e poi inspirò per riprendere fiato. Si era agitato molto, nel parlare.

"Tu che dici?"

Domandò al compagno dopo aver bevuto un altro sorso di thè per reidratarsi la bocca, guardandolo con sincero desiderio -ma anche con una certa apprensione- di conoscere il suo punto di vista sulla faccenda.

Claudio lo aveva ascoltato con grande attenzione, in assoluto silenzio, e trovava che il suo ragionamento filasse alla perfezione. Allungò una mano a prendere la sua sulla scrivania, facendogli una carezza perché lo vedeva un po' troppo agitato, e gli sorrise fiero.

"Dico che hai ragione e che non mi stupirei se tra al massimo una settimana troverete un borsone con la refurtiva e Cinaglia ritirerà la denuncia."

Rispose, con divertita sicurezza.

Domenico accennò una risatina, più tranquillo.

"Oppure chissà, magari anche Cinaglia ti darà ascolto e verrà a raccontarci tutta la verità, no?"

Replicò, sorridente, ma dal tono ironico che aveva usato era chiaro che nemmeno lui credesse alle proprie parole.

Claudio ridacchiò di gusto, scuotendo il capo.

"Mi stai attribuendo fin troppo potere, amore mio, e devo dire che ne sono lusingato, ma non credo accadrà mai una cosa del genere."

Rispose divertito, guardandolo con occhi pieni di tenero affetto.

Domenico fece una risatina, scrollando le spalle.

"In ogni caso, ci penseremo a tempo debito. Per adesso finisco il verbale, così poi sono tutto tuo."

Mormorò con dolcezza, facendogli un occhiolino. Sfilò la propria mano da quella di Claudio, che andò ad accarezzare prima di lasciarla definitivamente, e tornò a dedicarsi a quel noioso compito.

Claudio reagì con una risatina imbarazzata a quell'occhiolino furbo e alle parole che lo avevano accompagnato, arrossendo perfino un po', e si portò la mano in grembo, insieme all'altra. Rimase poi in silenzio, con le labbra curvate in un leggero sorriso, ad osservare il compagno di fronte a sé, la sua espressione concentrata ma serena, gli occhi verdi che saettavano dall'agenda allo schermo che li illuminava rendendoli ancora più verdi, e le sue mani che si muovevano sulla tastiera. Ne era semplicemente incantato.

Domenico, che si sentiva i suoi occhi blu addosso -ed era una bellissima sensazione, naturalmente-, gli rivolse uno sguardo di sbieco, accennando un sorrisetto furbo.

"Sono così interessante?"

Chiese divertito, richiamando la sua attenzione.

Claudio ridacchiò morbidamente ed annuì con convinzione, senza vergogna.

"Sì, sempre. E sei anche bellissimo."

Replicò con voce innamorata, arricchita da una punta di affettuoso sarcasmo.

Domenico rise tra sé e sé, cercando di rimanere concentrato mentre concludeva il verbale e lo inviava a chi di dovere.

"Bellissimo o no, ho bisogno di una doccia."

Sentenziò sfilandosi gli occhiali, per poi voltarsi a guardare il compagno con un sorriso appena accennato, ma sincero.

"Ce la facciamo a passare a casa, prima della tua sorpresa?"

Chiese, alzandosi.

Claudio lo imitò ed andò a prendergli il giubbotto, che poi gli porse.

"Non c'è nessuna sorpresa, te l'ho detto."

Disse con fermezza, guardandolo negli occhi.

Domenico inclinò leggermente il capo e sollevò un sopracciglio, rivolgendo al compagno uno sguardo poco convinto.

Claudio sospirò, decidendo di potergli dire qualcosa, adesso, anche perché la vera sorpresa era un'altra.

"E va bene, se proprio lo vuoi sapere ti porto a mangiare fuori e sì, abbiamo tempo."

Domenico emise un mugolio soddisfatto ed accettò il giubbotto, sorridente.

"Visto che non era poi così difficile?"

Chiese retoricamente, infilandosi l'indumento. L'istinto gli diceva che doveva esserci qualcos'altro sotto, perché Claudio si era arreso troppo facilmente, ma conosceva abbastanza il compagno da sapere che non gli avrebbe rivelato più nulla.

"Festeggiamo qualcosa?"

Domandò comunque, per tastare il terreno.

Claudio scosse lievemente il capo, ridacchiando appena, ed afferrò i lembi del giubbotto di Domenico per aggiustarglieli e, al tempo stesso, avvicinarsi a lui.

"Beh, stare insieme mi sembra già un ottimo motivo per festeggiare, no?"

Sussurrò, volutamente lascivo, a poca distanza dalle sue labbra e con gli occhi fissi nei suoi.

Domenico fece un cenno d'assenso breve e lieve, quasi impercettibile, e abbassò lo sguardo verso le sue labbra, sempre così invitanti, prima di risalire ai suoi occhi.

"Mi trovi completamente d'accordo."

Affermò a voce bassa, per poi portare una mano tra i capelli di Claudio ed unirsi a lui in un bacio con cui smetteva di fare domande e si affidava completamente al compagno, lasciandosi guidare.

Claudio lo accolse in un abbraccio e ricambiò il bacio senza esitare, anzi approfondendolo con trasporto, e con quel gesto prese con sé anche la sua fiducia, che non avrebbe tradito: quella sera, in effetti, ci sarebbe stato un ottimo motivo per festeggiare.
 
*****
 
Tornarono a casa in auto, lasciando la moto dell'ispettore al commissariato -l'indomani sarebbe stato sufficiente che l'avvocato lo riaccompagnasse a lavoro- e appena entrati Domenico si sfilò il giubbotto, appendendolo all'attaccapanni.

"Immagino sia fuori questione farci la doccia insieme, vero?"

Chiese con una rassegnazione leggera, pacata, che non aveva il sapore del dispiacere ed infatti i suoi occhi erano sereni, allegri: la serata che il compagno aveva organizzato per loro era decisamente più importante.

Claudio annuì, sollevando l'angolo delle labbra in un sorrisetto di scuse che tuttavia non era appesantito dal rammarico, come dimostrava il suo sguardo allegro.

"Purtroppo devo dirti di sì, ma sono sicuro che avremo modo di rifarci..."

Gli accarezzò una guancia, morbidamente, e gli rivolse un sorriso più affettuoso.

Domenico gli sorrise di rimando, con dolcezza, mise la propria mano sulla sua e vi posso un bacio sul palmo.

"Ci metto poco, promesso."

Gli diede un altro bacio, stavolta sulle labbra, e poi si allontanò verso il bagno.

Claudio liberò un profondo sospiro -l'ansia, quella positiva, cominciava a farsi sentire-, si spostò in soggiorno e si tolse il cappotto che adagiò accuratamente a cavallo del divano -era assurdo, razionalmente, ma non voleva separarsi troppo dal regalo che aveva preso a Domenico- per poi sedersi sull'altro lato. Non avendo nulla di meglio da fare prese il cellulare nel tentativo di distrarsi un po', ma si accorse che poco prima Simone, e dunque per esteso anche Manuel, gli aveva scritto.

-Come procede? Va tutto secondo i piani?-

Claudio sorrise intenerito alla premura che i due ragazzi gli stavano mostrando con quel semplice messaggio e si affrettò a rispondere.

Simone e Manuel erano state le prime persone a cui aveva detto di voler fare la grande proposta a Domenico -anzi per la precisione erano anche le uniche a saperlo- e avevano reagito subito con grande entusiasmo, promettendo ovviamente di mantenere il segreto con l'altro. Aveva anche spiegato ai due ragazzi come aveva intenzione di costruire la serata e loro avevano ascoltato con pazienza ogni suo dubbio o perplessità, per più giorni, dandogli consigli o semplicemente incoraggiandolo all'occorrenza. Erano stati, insomma, molto carini con lui e lui gliene era davvero grato: probabilmente senza di loro non sarebbe riuscito a compiere questo passo.

-Sì, per il momento siamo ancora a casa, Domenico è in doccia e dopo usciamo. Confesso che inizio a sentirmi un po' agitato.-

Ed infatti gli tremavano leggermente le mani e faceva un po' di fatica a digitare sullo schermo, ma per fortuna Manuel e Simone lo tolsero da quell'impiccio, telefonandogli un istante dopo l'invio di quel messaggio.

"Hey, guarda che non hai nulla di cui preoccuparti, puoi stare tranquillo: Domenico di certo non ti dirà di no!"

Esclamò Simone, con voce allegra ma al tempo stesso calma e rassicurante, lasciando che fosse il suo lato matematico a parlare e a dare conforto nei fatti: quell'impresa aveva il cento per cento di probabilità di esito positivo!

Claudio accennò una risatina, grato per il suo tentativo di consolazione, ma non era quello il problema. Non aveva mai avuto dubbi sulla risposta di Domenico, era altro a preoccuparlo.

"Grazie, Simone, ma più che altro temo di...di sbagliare qualcosa e rovinare tutto. E se non mi ricordassi ciò che voglio dire?"

Mugolò, tenendo lo sguardo basso. Era assurdo che un avvocato come lui temesse di non riuscire a ricordare un discorso scritto di proprio pugno, se ne rendeva conto, ma ben presto aveva imparato che era più difficile parlare davanti ad una sola persona che ti conosce bene rispetto che a cento sconosciuti. Sapeva anche che, nel peggior scenario possibile, avrebbe potuto pronunciare due semplici parole -"Vuoi sposarmi?"-, ma si augurava sinceramente di non arrivare a quel punto, perché il suo Domenico meritava decisamente di più e di meglio.

"Ma che vai a pensa', dai? Vedi che è semplice fare le cose per bene, basta che glielo chiedi in ginocchio e le parole te verranno da sole!"

Intervenne Manuel, con l'esuberanza che gli era propria, ma molto convinto di ciò che diceva.

Claudio si accigliò, leggermente perplesso. Avevano già sfiorato l'argomento e lui aveva optato per una posa, se così si poteva definire, più discreta -aveva pensato di porre la fatidica domanda a Domenico semplicemente standogli di fronte, occhi negli occhi- ed evitare le scenate da film romantico, per quanto gli piacessero.
"In ginocchio? Ma Non è un po' troppo cliché?"

Replicò, incerto.

"Macché, stamme a sentire, non è un cliché, è un classico! E se è un classico, vuol dire che funziona sempre! Fidate, che così le parole te vengono sicuramente!"

Ribatté Manuel, sempre più deciso, senza accorgersi che Simone aveva sgranato leggermente gli occhi e poi sorriso, registrando accuratamente l’informazione nel proprio cuore, che aveva una memoria decisamente migliore della testa.

Claudio accennò una risatina per la sua irruenza e poi sospirò.

"Simone, tu che dici?"

Domandò, pur essendosi convinto quasi del tutto. Ricercava il suo parere, però, perché per certi aspetti lui e Domenico si somigliavano.

"Io dico...io dico che è un gesto molto romantico. Su di me avrebbe un certo effetto, ecco..."

La voce di Simone si era fatta più bassa e morbida, carica di emozione, e Claudio riusciva a percepire il ragazzo sorridere timidamente al di là dell'apparecchio, immagine che gli gonfiò il cuore di tenerezza. Ciò che non poteva vedere, invece, era che Manuel si era appena voltato verso il ragazzo che gli stava seduto accanto sul divano, stretto a lui in un abbraccio, con il sorriso di chi aveva appena avuto un'idea.

"Va bene, va bene, mi avete convinto..."

Cominciò a dire, ma poi sentì che Domenico aveva chiuso l'acqua, segno che avesse terminato di lavarsi, e si voltò istintivamente verso il corridoio.

"Ora devo andare, credo che Domenico abbia quasi fatto. Grazie ancora, ragazzi."

Disse a voce bassissima, per evitare che arrivasse dove non doveva arrivare.

"In bocca al lupo!"

"E facci sapere!"

Dissero rispettivamente Manuel e Simone, sussurrando a loro volta anche se non ce n'era reale bisogno, come se fossero stati lì.

"Viva il lupo! Ci sentiamo domani!"

Replicò Claudio, lasciando trasparire tutta la propria riconoscenza in quelle poche parole mormorate in fretta, e subito dopo chiuse la telefonata.

Non passò molto tempo, infatti, poco più di una decina di minuti, che Domenico raggiunse Claudio nel piccolo soggiorno, con indosso solamente un accappatoio azzurro. Non aveva udito nulla della telefonata, ma era pieno di gioia, sorrideva, e sentiva dentro di sé una calda fiammella che cominciava a divampare alla sola idea di poter stare con Claudio.

"Perdonami, mi dispiace insistere e non voglio rovinarti i piani, davvero, ma potrei almeno sapere dove andiamo, così so come vestirmi?"

Domandò quando gli fu abbastanza vicino, con un sorriso appena accennato a decorargli le labbra.

Claudio, trovatosi il compagno davanti, si sentì mozzare il respiro e rimase per qualche istante a contemplarlo, senza vergogna, riempiendosi gli occhi di lui: l'accappatoio era tenuto chiuso da un nodo poco stretto e così gli ricadeva morbido sul corpo, lasciando scoperte una porzione delle spalle e gran parte del petto sul quale ancora si poteva intravedere qualche piccola goccia d'acqua. In teoria vederlo in accappatoio non avrebbe dovuto scatenargli una reazione così forte dal momento che aveva posato gli occhi, le mani e perfino le labbra sul corpo nudo di Domenico innumerevoli volte, ma nella pratica, di fronte a sentimenti e sensazioni veri, lui si innamorava di Domenico ogni singolo istante e non c'era momento in cui non lo considerasse bellissimo, in ogni accezione del termine.

"La tentazione di farti restare così è altissima, sappilo."

Mormorò con voce roca, ancora incantato.

Domenico fece una risatina, piacevolmente imbarazzato, che poi gli rimase sul volto nella forma di un sorriso. Gli apprezzamenti del compagno, di qualsiasi tipo fossero, non mancavano mai di sorprenderlo, di farlo sentire amato e non diventavano mai abitudine; così anche l'amore che provava per Claudio si rinnovava continuamente, era come una sorgente d'acqua fresca che non stagnava mai.

"Dai, sono serio."

Replicò per richiamarlo all'ordine, seppur con tono leggero e affettuoso.

Claudio fece spallucce, ridacchiando.

"Anch'io!"

Si alzò, in modo da stargli perfettamente davanti e portò una mano sulla sua guancia rivolgendogli un morbido sorriso, di quelli che donava soltanto a lui.

"Comunque, andiamo a mangiare una pizza..."

Mormorò, muovendo il pollice sulla sua barba morbida con infinita delicatezza. Sapeva che, solitamente, in occasioni come quella si sceglieva un ristorante raffinato, in cui i camerieri indossavano gilet e papillon, ma il loro primo appuntamento -seppur nessuno dei due, all'epoca, poteva anche solo immaginare che lo fosse- era stato in una pizzeria e gli sembrava bello -anche a detta di Manuel e Simone, i quali gli avevano approvato l'idea- ricollegarsi a quel momento lì, come a voler chiudere un cerchio, ma solo per cominciare a tracciarne un altro.

A questa motivazione per così dire sentimentale se ne aggiungeva un'altra molto più materiale e cioè che a Domenico -ma anche a lui, in verità- piacevano i posti semplici, quindi non avrebbe mai potuto fargli un torto simile. E poi comunque, in ogni caso, la pizza che avrebbero mangiato quella sera non aveva nulla da invidiare ai piatti dei ristoranti più stellati!

Domenico liberò un piccolo sbuffo divertito e lo indicò con un cenno del capo.

"Tutta questa eleganza per una pizza?"

Chiese scherzoso, anche se non poteva essere più contento di così: i locali eleganti non facevano per lui, sapeva starci e comportarsi adeguatamente se proprio doveva, ma li trovava fin troppo vani. La pizza, invece, era una cosa seria e aveva anche un'idea molto simile ad una certezza di dove sarebbero andati.

Claudio ridacchiò, scuotendo appena il capo, e si avvicinò a dargli un bacio a fior di labbra, spostando la mano tra i suoi capelli.

"Tutta questa eleganza per una serata con te."

Sussurrò sulle sue labbra, quasi soffiando, poi si allontanò un poco.

"Tu comunque puoi indossare ciò che preferisci, lo sai."

Disse ancora, con voce morbida.

Domenico sorrise, piacevolmente stordito da quella risposta -'Si è vestito così per me!', pensò, e la vocina nella propria testa sembrava tanto quella di un ragazzino innamorato-, ma ancora abbastanza lucido per inseguire le sue labbra e ricambiare il bacio che gli avevano appena dato.

"Farò del mio meglio."

Sussurrò piano, subito dopo.

Claudio sorrise, dolcemente: non aveva dubbi che sarebbe stato bellissimo con qualsiasi cosa avrebbe scelto di indossare, non era importante che si vestisse elegante.

"Sarai stupendo in ogni caso, ne sono certo."

Così dicendo, passò la mano tra i suoi capelli in una carezza affettuosa.

"Mh, comunque hai i capelli ancora un po' bagnati, vuoi che ti aiuti ad asciugarli meglio?"

Domenico si portò una mano sulla testa e si accorse che, in effetti, non si era asciugato bene. Sorrise appena, un po' imbarazzato.

"Beh, se proprio insisti..."

Disse, vago, e Claudio ridacchiò.

"Andiamo, dai."

Replicò, prendendolo per mano.

Una volta in bagno, Claudio fece accomodare Domenico sullo sgabellino e cominciò a passargli il phon sui capelli brizzolati con grande attenzione, avendo cura di non impostare una temperatura troppo elevata -dato che erano in gran parte asciutti-, mentre con la mano libera, di tanto in tanto, andava ad accarezzarlo.

Domenico sorrideva beato a quelle piccole attenzioni che a poco a poco gli fecero dimenticare tutte le preoccupazioni della giornata -incredibile la forza che potevano avere pochi tocchi fatti dalla persona giusta-, sentendosi coccolato ed amato come solo Claudio riusciva a farlo sentire.

Si guardavano attraverso lo specchio ogni volta che ne avevano occasione, facendo saettare continuamente gli occhi verso quelli dell'altro, perché cielo e bosco non riuscivano a restare distanti troppo a lungo, avevano bisogno di incontrarsi.

"Direi che sei a posto, adesso."

Sentenziò Claudio, spegnendo l'asciugacapelli.

Domenico non controllò nemmeno, si fidava delle sue parole, e si alzò per dargli un bacio sulla guancia, riconoscente.

"Grazie, core mij!"

Claudio ridacchiò, pieno di tenerezza.

"Di niente, amore mio. Ora però devi andare a vestirti o facciamo tardi!"

Lo avvertì, e Domenico annuì rapidamente.

"Volo!"

Esclamò giocoso e si allontanò sollevando i lembi dell'accappatoio dietro di sé a mo' di mantello.

Claudio, rimasto indietro, rise di puro cuore per quel giullare del proprio partner che non vedeva l'ora diventasse marito.

Domenico si spostò in camera da letto, aprì l'armadio e cominciò a setacciarlo con lo sguardo alla ricerca di qualcosa di adatto: Claudio si era vestito bene per lui, e lui non voleva essere da meno! Il proprio guardaroba si componeva soprattutto di abiti pratici come jeans, maglioni e felpe, ma aveva qualche asso nella manica e questo era il momento adatto per giocarlo. Scelse un pantalone di tessuto verde scuro a cui abbinò una giacca di velluto ed una camicia entrambe dello stesso colore, ma quest'ultima era anche costellata da piccoli puntini bianchi. Si controllò allo specchio, guardandosi da più angolazioni e, soddisfatto del risultato, si diede un'ultima sistemata ai capelli e tornò in soggiorno dal compagno, con le braccia leggermente sollevate per farsi guardare meglio e le labbra ricurve in un sorriso sghembo.

"Allora, come sto?"

Chiese, sinceramente curioso di sapere l'opinione dell'altro, che però gli fu anticipata dall'espressione che gli stava rivolgendo.

Claudio, infatti, sorrideva a trentadue denti e aveva gli occhi che brillavano estasiati: Domenico gli sembrava semplicemente mozzafiato.

"Stai benissimo, amore mio! Aspetta, com'è che diceva quel detto napoletano..."

Cominciò a schioccare le dita nel tentativo di ricordare, e poi si fermò all'improvviso, colpito dall'illuminazione.

"Chi è cchiù bell'e te s pitt!"

Esclamò, estremamente soddisfatto: il suo compagno aveva una bellezza naturale, perché era la sua anima ad essere bella prima ancora del suo corpo, e dunque era bello sempre, al mattino appena sveglio tanto quanto adesso che si era preparato per l'occasione. Semplicemente, non esistevano uomini più belli di lui al mondo.

Domenico ridacchiò teneramente a sentire la sua pronuncia non proprio perfetta -avrebbe dovuto dargli qualche ripetizione, magari-, ma poi sorrise, lusingato dal complimento che tuttavia trovava un tantino esagerato. Era certo, infatti, che ci fossero uomini molto più belli di lui e non aveva bisogno di cercarli chissà dove perché ne aveva uno proprio di fronte a sé, ed era il più bello di tutti!

"Ti ringrazio, ma non sarai appena un po' di parte?"

Chiese, sollevando indice e pollice ravvicinati per sottolineare il concetto.

Claudio ridacchiò, avvicinandosi, e quando si fermò davanti all'altro annuì in risposta, guardandolo con occhi innamorati.

"Sì, la parte giusta!"

Rispose con decisione, e si avvicinò per baciarlo a fior di labbra. Fece poi per allontanarsi, ma Domenico lo trattenne aggrappandosi al suo cappotto e approfondì il bacio, quanto bastava a ricambiarlo.

"Sono anch'io dalla parte giusta, allora, perché penso che più bello di te non ci sia nessuno."

Sussurrò sulle sue labbra, sorridente.

Claudio sorrise di rimando, sollevando l'angolo delle labbra, e fece toccare i loro nasi.

"Siamo entrambi dalla stessa parte, questo è ciò che conta di più."

Commentò con voce morbida, perché del resto non stavano facendo una gara di complimenti.

Domenico annuì, dando così vita ad una carezza di nasi, trovandosi in perfetto accordo con lui. Si spostò per indossare il cappotto e poi tornò accanto a Claudio, avvicinando una mano alla sua.

Claudio andò immediatamente ad intrecciarla con la propria e uscirono di casa così, uno accanto all'altro.
 
*****
 
La pizzeria che Claudio aveva scelto non era molto lontana da casa, per cui decisero di arrivarci a piedi, godendosi la luce dei lampioni e delle stelle, e secondo Domenico era il posto in cui si mangiava la pizza più buona di Roma, ma quello non era l'unico motivo per cui era tanto speciale. Domenico, fin dal primo momento in cui si era trasferito a Roma -quando lui e Claudio stavano insieme da quasi un paio d'anni- aveva cominciato a cercare una pizzeria che lo soddisfacesse, ma non aveva avuto grande fortuna fino a cinque o sei anni prima, quando finalmente aveva scoperto questa ed era stato amore a prima vista, o meglio a primo morso, e dunque non aveva esitato a portarci Claudio una volta tornati insieme.

Per Claudio, infatti, quella pizzeria era stata una novità -non si recava spesso a mangiare fuori, a meno che non si trattasse di inviti o cene di lavoro a cui non poteva assolutamente mancare, e in ogni caso si impegnava ad evitare i posti che avrebbero potuto ricordargli Domenico-, ma si era immediatamente trovato d'accordo sulla qualità di ciò che veniva servito, la pizza era davvero buonissima. La prima volta che era stato in quel locale, poi, aveva pensato che il nome dello stesso fosse un omaggio a Lucio Dalla -proprio sopra l'entrata c'era una grande insegna con su scritto 'PIZZERIA FUTURA'-, ma si era immediatamente ricreduto quando, una volta entrato, aveva visto la ragazza che serviva ai tavoli. Non doveva avere più di vent'anni, i capelli scuri e mossi le arrivavano alle spalle e le incorniciavano il viso morbido, sul quale splendevano un sorriso gentile che faceva nascere due morbide fossette sulle guance un po' rosse e due grandi occhi color nocciola che brillavano di luce propria.

Ulteriore certezza gli fu data quando vide la coppia che lavorava nella cucina a vista sul fondo della sala. Non erano cambiati molto, nonostante fossero trascorsi vent'anni: Nina sembrava ancora una ragazza, dal viso affettuoso e leggero, e Carmine ora aveva qualche piccola ruga in più intorno agli occhi, ma la gentilezza che aveva visto nei loro sguardi su quel treno era rimasta intatta. Neanche l'affetto che provavano l'uno per l'altra era mutato -di certo non era diminuito, anzi probabilmente era aumentato- bastava vederli all'opera per rendersene conto: lui preparava le pizze, lei si occupava degli ingredienti e non perdevano occasione per sfiorarsi fugacemente le mani o per scambiarsi uno sguardo ed un sorriso, complici e perfettamente a loro agio in quel meccanismo che solo l'amore sincero poteva far funzionare.

Anche per Carmine e Nina erano trascorsi molti anni e anche Claudio era cambiato in quel lasso di tempo, ma non appena lui si era avvicinato -quando ormai la pizzeria stava chiudendo- per porgere un saluto, emozionato e sorridente, loro non avevano esitato a riconoscerlo e si erano precipitati ad abbracciarlo come se fossero passati soltanto pochi giorni dal loro primo ed ultimo incontro. Tutti e tre avevano raccontato la storia del loro incontro a Domenico ma anche a Futura, la quale all'epoca era troppo piccola per ricordare quel momento, ma quando Claudio le aveva intonato un pezzetto della canzone che portava il suo nome le si era aperto un cassetto della memoria e quegli occhi blu tanto gentili le erano tornati familiari, così si era tuffata anche lei tra le braccia di Claudio, in un abbraccio affettuoso che lui aveva prontamente ricambiato, sollevandola perfino di qualche centimetro da terra.

Domenico non sapeva nulla di quell'incontro, Claudio non gliene aveva mai parlato, ma immaginava che all'epoca avesse ben altro a cui pensare, considerando tutto ciò che stava vivendo, e che poi col tempo quel ricordo fosse sfumato, chiuso in un cassetto della memoria, come succede con le cose futili ma come può accadere anche con gli eventi di cui non cogliamo immediatamente l'importanza. Aveva, di conseguenza, ascoltato con grande attenzione il racconto che gli altri tre gli avevano fatto e dentro di sé aveva provato un grande sollievo, come se finalmente si fosse tolto un ultimo fastidioso sassolino dai polmoni: era grato del fatto che qualcuno, prima di lui, avesse cercato di dare speranza a Claudio, di fargli capire cos'era l'amore, di mostrargli che poteva esserci luce dopo tutto quel buio.

Anche lui, poi, aveva una storia da raccontare a Claudio perché per un'incredibile coincidenza -anche se, ormai, era certo che non si potesse trattare di un caso- era stato aiutato dalle stesse persone: nel corso degli anni aveva stretto un legame di amicizia con Carmine e Nina che era partito dal giorno in cui la coppia, poiché lo vedeva sempre da solo e sempre con un'aria triste e spenta, aveva esternato la sua preoccupazione e gli aveva chiesto se ci fosse qualcosa che non andasse. Lui, allora, si era ritrovato senza nemmeno ben sapere come -forse era stato spinto dagli occhi azzurri di Nina o dal sorriso caldo di Carmine-, a raccontare la sua storia con Claudio, indugiando con malinconica tenerezza su quelle piccole abitudini che rendevano speciale ogni giorno, e a parlare di quanto gli mancasse il suono della sua voce e della sua risata, il suo modo di pensare e vedere le cose, il suo amore e l'averlo accanto a sé; Nina e Carmine erano rimasti molto colpiti da quel racconto -si erano addirittura commossi- che aveva espresso perfettamente tutta la sofferenza che l'uomo davanti a loro portava con sé, e avevano cercato come potevano di tirargli su il morale, seppur consci del fatto che si trattasse di un'impresa praticamente impossibile, dicendogli che un amore del genere non poteva essere a senso unico, ma che al tempo stesso ci voleva pazienza per far tornare a far fiorire quel fiore.

Claudio, il quale non era a conoscenza di quella parentesi nella vita di Domenico, si era sentito un po' più leggero -anche lui si stava liberando di un ultimo e fastidioso sassolino nei polmoni- a sapere che c'era stato qualcuno che si era preso cura di Domenico, che gli era stato accanto e che non lo aveva lasciato da solo in una città che non era la sua, a differenza di quanto aveva fatto lui.

Entrambi, insomma, avevano scoperto di dovere molto a quella famiglia gentile, per motivi diversi, opposti, ma complementari.

Quella sera, come sempre, trovarono Futura che si destreggiava leggiadra e sicura tra i tavoli -oltre a lei c'era anche un'altra cameriera, più o meno della sua età- e fu lei ad accoglierli, sfoggiando il sorriso luminoso che rivolgeva a tutti i clienti e la voce morbida che invece riservava soltanto a loro.

"Buonasera! Vi stavamo aspettando..."

Disse, allegra, rivolgendo al tempo stesso un fugace sguardo d'intesa all'avvocato.

Claudio si schiarì la voce, sperando in cuor proprio che il compagno non si fosse accorto di nulla.

"Buonasera a te! Non abbiamo fatto tardi, vero?"

Domandò, più che altro per sviare il discorso, dato che sapeva benissimo fossero in perfetto orario.

Domenico, accennando una risatina, sollevò appena una mano e poi curvò le labbra in un sorrisetto di scuse.

"In tal caso è colpa mia picceré. Mi sono trattenuto a lavoro anche se, a mia discolpa, non sapevo saremmo dovuti venire qua..."

Replicò, fingendo di non aver notato lo sguardo tra Claudio e la ragazza. Era certo, ormai, che avrebbe scoperto tutto a tempo debito.

Futura, comunque, scosse il capo in risposta, mantenendo il sorriso.

"Affatto! Venite, vi faccio strada, anche se ormai la conoscerete a memoria..."

Con un cenno li invitò a seguirla, anche se effettivamente Claudio e Domenico avrebbero potuto dirigersi al loro tavolo ad occhi bendati, dal momento che si accomodavano sempre allo stesso: il locale era composto da un'unica sala, ampia e regolare, che non offriva cantucci nascosti o riparati e perciò, di conseguenza, tutti i tavoli erano esposti in piena vista, ma le pareti tinte di un morbido rosso riuscivano comunque a costruire un'atmosfera intima per chi si fermava lì.

Il tavolo che Claudio e Domenico prediligevano non aveva nulla di speciale né nel suo aspetto -era infatti rettangolare, di medie dimensioni e protetto da una tovaglia bianca esattamente come tutti gli altri- né nella sua posizione -non si trovava, infatti, né accanto ad una delle finestre presenti sulle pareti lunghe, né al centro della sala, anzi era leggermente decentrato, quasi sul fondo della sala stessa, abbastanza vicino al forno-, ma era quello a cui, per puro caso, si erano seduti la prima volta che avevano messo piede insieme in quella pizzeria -Domenico, quando ci veniva da solo, non aveva certo la testa di badare al tavolo a cui si sedeva, per lui erano tutti uguali-, per cui era diventata una loro piccola tradizione scegliere sempre quel tavolo lì.

Futura li fece accomodare e portò immediatamente loro una bottiglia d'acqua -rigorosamente liscia, come ormai aveva imparato che la volessero-, oltre ovviamente ai menù.

"Tornerò tra poco, se avete bisogno sapete cosa fare."

E così dicendo si congedò con un sorriso, allontanandosi verso altri tavoli.

Claudio e Domenico, allora, presero a consultare un menù ciascuno, ma Claudio non fece altro che sfogliare nervosamente le pagine del piccolo libretto facendo scorrere gli occhi sulle varie voci senza davvero leggerle e lo richiuse dopo poco, mettendolo da parte e decidendo che avrebbe optato per una semplice Margherita. Aveva i pensieri troppo presi da altro per concentrarsi sugli ingredienti di tutte le pizze e a dire il vero non aveva nemmeno fame, sentiva lo stomaco stretto da una morsa di emozione fortissima che arrivava a chiuderlo del tutto, e perciò non aveva nemmeno voglia di leggere tutti quegli elenchi di cibo.

Bevve un sorso d'acqua e spostò lo sguardo su qualcosa -o meglio, qualcuno-, di molto più invitante, che avesse anche il potere di calmare i pensieri almeno un po' e subito sorrise intenerito a vedere tutta l'attenzione che Domenico stava riservando alle pagine del menù -esemplificata dagli occhi che si soffermavano su ogni singola descrizione di pizza per soppesarla e valutarla adeguatamente, dalle sopracciglia leggermente aggrottate che li incorniciavano, dalle smorfie pensierose che faceva e dal modo in cui faceva avanti ed indietro tra le pagine per ricontrollarle o confrontare pizze diverse-, ma che a lui, onestamente, sembrava un tantino esagerata -e da qui nasceva il moto di tenerezza che lo aveva portato a sorridere- dal momento che, ne era praticamente certo, l'altro avrebbe scelto la sua tipica Salsiccia e Friarielli.
Domenico, seppur concentrato su quell'ampio campione di scelte -c'era davvero l'imbarazzo, perché Nina e Carmine erano pizzaioli eccezionali e non c'era una pizza che venisse loro male- non mancò di percepire gli occhi del compagno su di sé ed accennò una risatina, sollevando i propri verso di lui.

"Anche mentre scelgo la pizza sono interessante?"

Domandò, divertito.

Claudio curvò le labbra in un sorriso sghembo ed annuì, senza esitare.

"Te l'ho detto, lo sei sempre. Comunque non è propriamente scegliere, se poi prendi la solita..."

Gli fece notare, affettuosamente provocatorio.

Domenico piegò leggermente il capo da un lato sollevò appena le labbra e le sopracciglia, solo per un istante, in un'espressione di accordo.

"Stavolta ti stupirò."

Disse deciso, chiudendo con un gesto secco il menù e posandolo sull'altro, in uno spazio vuoto del tavolo.

"Tu che prendi?"

Chiese, con voce più dolce, allungando un braccio davanti a sé, steso sul tavolo, con il palmo della mano aperto e rivolto verso l'alto.

Claudio sorrise e accettò l'invito, portando la mano sulla sua e facendole intrecciare in una stretta forte e delicata al tempo stesso.

Stare lontani, ora che si erano riuniti, era fuori discussione e toccarsi ogni volta che ce n'era la possibilità era un vero e proprio bisogno fisico che andava soddisfatto costantemente. Non volevano più lasciarsi andare.

"Una Margherita. Lo so, sono noioso..."

Rispose, accennando una risatina ironica.

Domenico, però, non rise e anzi aggrottò leggermente le sopracciglia, impensierito: solitamente Claudio si lasciava sedurre dalle tante proposte del menù e non disdegnava mai provare la pizza del giorno o assaggiare le pizze più particolari, pieno di entusiasmo. Temeva, quindi, che quella scelta così semplice fosse sintomo di qualcosa di più.

"Va tutto bene, core mij?"

Domandò, preoccupato.

Claudio annuì rapidamente, rivolgendogli un sorriso caldo e rassicurante e strinse un po' di più la sua mano. In effetti, se proprio doveva essere sincero, non andava esattamente tutto bene, dal momento che un senso d'ansia si agitava in lui come mare in tempesta, ma era un'ansia positiva, un'ansia che poteva trasformarsi in energia, quindi Domenico e il suo cuore grande e buono non avevano nulla di cui preoccuparsi.

"Sì, è tutto a posto. È solo che...non ho molta fame, tutto qui, e preferisco mantenermi leggero. E poi, per una volta, dovrò pur provare la Margherita di Carmine, no?"
Rispose tranquillo, senza perdere il sorriso.

Domenico lo osservò per qualche secondo in silenzio, con un sopracciglio leggermente alzato e gli occhi pieni di quell'attenzione che rivolgeva anche a chi si sedeva dall'altro lato della propria scrivania durante un interrogatorio o una testimonianza, addolciti però dalla premura e dall'affetto che erano riservati solo a Claudio.

"Ne sei sicuro? Perché se non ti senti bene possiamo anche andare via..."

Claudio subito scosse il capo, risoluto.

"No, sto bene, davvero! Non preoccuparti, te lo direi se così non fosse."

Esclamò, calmo, sostenendo gli occhi dell'altro -che erano in grado di leggerti dentro, lo sapeva bene- con i propri.

Domenico liberò un piccolo sospiro e prese ad accarezzare la sua mano con il pollice.

"Lo so che me lo diresti, ma so anche che non ti tireresti mai indietro dalla cosa che mi hai promesso. Non sei costretto a fare nulla, se ti fa stare male."

Disse, con voce decisa ma morbida, senza staccare lo sguardo da lui: se Claudio doveva stare male a causa di quella sorpresa, lui preferiva decisamente rinunciarvi.

Claudio scosse di nuovo il capo, accennando una risatina.

"Non provo altro che felicità in questo momento, amore mio. E non mi sento costretto a fare nulla, non è così che mi fai sentire tu."

Rispose, guardandolo con infinita dolcezza. Se avesse potuto, lo avrebbe sposato in quel preciso istante.

Domenico si sciolse in un sorriso, rassicurato, e si portò le loro mani alle labbra rilassate, posando un morbido bacio su quella di Claudio.

"Anche io sono felice, tanto felice, in questo momento e in tutti quelli che passiamo insieme..."

Mormorò piano sulla sua pelle, ma con gli occhi ancora ancorati ai suoi.

Claudio, per reazione naturale, arrossì in viso e non rispose perché non era in grado di farlo, ma le fossette che gli segnavano le guance e gli contornavano il sorriso parlavano per lui.

Domenico, allora, allungò la mano libera ad accarezzare la sua guancia calda, affettuoso. Non chiedeva altro, a Dio, che poter vedere Claudio così travolto dall'amore e dalla felicità per tutto il resto della sua e della propria vita.

"Ordiniamo?"

Propose, e al cenno affermativo di Claudio chiamarono Futura per ordinare le loro pizze: Claudio optò per la Margherita, mentre Domenico aveva scelto una pizza bianca guarnita da crocchè spezzettati, prosciutto e mozzarella.

I due piatti arrivarono dopo qualche minuto e, per forza di cose, Claudio e Domenico si ritrovarono a dover sciogliere l'intreccio delle loro mani, ma questo non basto a sopire l'istinto di stare a contatto: se le mani, infatti, erano occupate, le gambe erano libere di muoversi e così, nascosti dalla tovaglia che cadeva morbidamente ai lati del tavolo, cominciarono a sfiorarsi. Dapprima fecero toccare soltanto le punte delle rispettive scarpe, come a voler misurare lo spazio intorno a loro, poi approfondirono il contatto sfiorandosi il lato del piede e da lì, in un movimento incrociato, salirono un po' più in alto, sulla caviglia e poi sulla gamba, sollevando con il movimento il lembo dei pantaloni.

Sembravano tornati a quando, anni prima, durante le tavolate festive con la famiglia Liguori al completo, si prendevano per mano, al riparo da occhi indiscreti sotto la tovaglia colorata, ma c'era una fondamentale differenza: se allora facevano di tutto per non farsi notare e trattenevano qualsiasi reazione a quell'incontro, scambiandosi al massimo delle occhiate fugaci, adesso non avevano più intenzione di mettere a tacere la gioia che provavano a fare perfino una cosa apparentemente futile come quella -piedino sotto ad un tavolo, come due adolescenti o i protagonisti di un film romantico-, ma che aveva in realtà il sapore dell'amore e della libertà e così ridevano, spensierati, guardandosi negli occhi luminosi e sorridenti, come se il resto del mondo non esistesse.

Il resto del mondo, tuttavia, esisteva, e avevano attirato l'attenzione almeno di quella piccola porzione che condivideva lo spazio della sala del locale con loro.
Domenico fu il primo ad accorgersene -aveva pur sempre l'istinto del poliziotto-, con un'occhiata fugace. Si schiarì la voce, cercando così di smettere di ridere.
"Ti avviso, ci stanno guardando tutti."

Sussurrò al compagno, ma non era preoccupato, tanto che il sorriso non abbandonò le proprie labbra, facendole curvare su un solo lato. La voce era calma, come stesse semplicemente presentando un dato di fatto -cosa che quella situazione era-, ed addirittura vi traspariva una certa dose di divertita soddisfazione. Aveva smesso di preoccuparsi per gli sguardi altrui anni prima, quando i suoi colleghi erano venuti a sapere della sua relazione con Claudio e occhiate e battute erano diventate all'ordine del giorno. Gli unici occhi di cui gli importava erano quelli che, adesso come allora, gli stavano davanti e che, lo sapeva, non l'avrebbero mai lasciato.

Claudio, in risposta, sorrise sghembo e mosse lentamente, su e giù, il lato del proprio piede contro la gamba del compagno, volutamente lascivo.

"E noi lasciamoli guardare, che ci importa?"

Replicò, con altrettanta tranquillità. Sentiva quegli sguardi addosso, uno per uno, ma non era più un ragazzino ed ora sapeva come farseli scivolare addosso, evitando che gli penetrassero dentro come spine velenose. Gli bastava che ci fossero gli occhi verdi di Domenico a guardarlo per stare bene e sapeva che quelli non se ne sarebbero andati mai.

Domenico liberò una risatina morbida al suo gesto di intraprendenza, che aveva molto apprezzato, e poi gli sorrise, innamorato e fiero.

"Hai ragione, core mij, hai ragione."

Rispose, con dolcezza.

Nina, che dalla propria postazione accanto al forno delle pizze li aveva visti e ascoltati, sorrise nella loro direzione.

"Vi guardano perché siete belli."

Commentò, allegra, e così Claudio e Domenico si voltarono verso di lei.

"Beh, sì, modestamente è vero, lo sappiamo, puoi dirlo forte!"

Replicò Domenico fingendo di vantarsi -facendo ridacchiare Claudio, Nina e Carmine accanto a lei-, pur avendo perfettamente capito cosa lei intendesse, e non poteva esserci complimento più grande.

Carmine alzò gli occhi al cielo, liberando un sonoro sbuffo, fingendo un’esasperazione che in realtà non provava.

"Ja, Mimmo, nun fa' 'o scem!"

Ribatté, con divertito affetto.

"È più di questo! Voi siete qualcosa di magico, dico veramente, e la vostra magia è l'amore! Per questo vi guardano tutti."

Aggiunse con enfasi, gesticolando con le mani sporche di farina per sottolineare il concetto.

Claudio e Domenico accennarono una risatina, timidamente imbarazzati, davanti a quella risposta e all'irruenza di Carmine, così convinto di ciò che diceva tanto da convincere un po' anche loro: non erano del tutto certi di essere magici, anche se era bello pensare di esserlo pur soltanto per un attimo, ma erano sicuri di essere innamorati e questo era più che sufficiente, per loro.

Claudio, poi, si voltò verso la sala, dando un rapido sguardo a chi li stava osservando.

"Non vedo solo stupore nei loro occhi, però..."

Disse, ma non c'era dolore nella sua voce, stava solo esternando un dato di fatto: alcune persone, infatti, li guardavano sorridenti, forse perché capivano quella magia di cui parlava Carmine, mentre altre erano chiaramente disgustate dalla loro presenza e borbottavano parole che non si riuscivano ad udire, ma si percepivano perfettamente. Provava del sincero dispiacere per queste ultime, perché se si comportavano in quel modo voleva dire che vivevano senza amore e non c'era nulla di più triste, ma non si sarebbe fatto condizionare dalle loro parole e dai loro sguardi: da tempo, ormai, aveva smesso di annullare se stesso soltanto perché la sua stessa esistenza dava fastidio a qualcuno.

Domenico allungò una mano sul tavolo a sfiorare quella dell'altro, in modo da attirare con delicatezza la sua attenzione. Sapeva che Claudio era diventato forte negli anni, che non era più il ragazzino spaventato che aveva conosciuto a Napoli e che quindi quegli sguardi gli scivolavano addosso come acqua, ma era pur sempre acqua lurida e non voleva che lui si sporcasse.

"E tu non li guardare, mh? Non se lo meritano il tuo sguardo, loro. Guarda me, che ti amo."

Disse, con dolcezza.

Claudio, che già si era voltato a guardarlo quando aveva sentito il suo tocco, prese la sua mano nella propria e la strinse, sorridendo.

"Ti amo anch'io."

Rispose, con lo stesso affetto, e non ci fu bisogno di aggiungere altro. L'amore era ciò che avevano di più caro e sarebbe bastato a difenderli da tutto e tutti.
Nina e Carmine, che pure ne avevano passate tante nella vita ed erano riusciti a superare mille ostacoli grazie alla forza che si davano l'un l'altra, si rivolsero uno sguardo ed un sorriso d'intesa: sapevano riconoscere l'amore, loro, quando lo vedevano, perché lo provavano.

"Domenico ha ragione, e poi se vi guardano così è solo perché vi invidiano."

Disse Nina, con voce morbida.

"Voi siete felici, loro no, e vi invidiano perché vorrebbero avere la vostra felicità."

Aggiunse Carmine, allegro e affettuoso.

Claudio e Domenico si scambiarono un sorriso innamorato e consapevole: Nina e Carmine avevano ragione, loro erano felici, e ben presto avrebbero coronato quella felicità per tutta la vita.
*****
 
Quando uscirono dalla pizzeria erano già trascorse un paio d'ore, una buona parte delle quali l'avevano passata a chiacchierare con Carmine, Nina e Futura, approfittando del fatto che il locale si fosse andato man mano svuotando. Intorno a loro c'era il chiacchiericcio della Roma notturna, a cui faceva da sottofondo la musica che appariva e scompariva come una meteora dalle auto di passaggio, ed un'aria fredda che li fece chiudere meglio nei cappotti, ma per il resto il tempo era sereno.
Claudio sollevò lo sguardo verso il cielo, solo per pochi istanti, e con grande sollievo notò che era completamente sgombro di nubi e si potevano perfino vedere le stelle -per quanto fosse concesso dalle luci della Città Eterna, che sembravano voler fare concorrenza a quelle più in alto-, il che gli fece spuntare immediatamente un sorriso allegro sul volto. Sarebbe stato bello chiedere a Domenico di sposarlo con il cielo stellato sopra di loro, il solo pensiero gli faceva battere il cuore a più non posso per la felicità.

Domenico seguì i suoi occhi con i propri, anche lui alzò il capo verso le stelle -alcune erano molto fioche, altre invece più luminose e spiccavano nel manto blu scuro della notte come gemme- e poi incrociò il suo sorriso, che lo fece automaticamente sorridere a propria volta. Sentiva che la sorpresa si stava avvicinando, doveva per forza essere così, ma non era questo a farlo sorridere: era evidente, per lui, che Claudio non riusciva a contenere l'entusiasmo, e non perché si agitasse in modo evidente -anzi, ad un primo sguardo appariva fermo e composto come sempre-, ma perché sembrava pervaso da un'elettricità che gli scorreva sottopelle e che arrivava fino a lui, stuzzicandogli la propria, di pelle, ed era per questo motivo che sorrideva.

Si incamminarono sul marciapiede sottobraccio, in un incastro che era preciso e naturale in loro, e si diressero verso casa -era Claudio a decidere la direzione, ovviamente- a passo lento, senza particolare fretta, procedendo in un silenzio quasi totale, interrotto soltanto da sorrisi e sguardi -anche quelli avevano un suono, per chi sapeva ascoltare-, morbide risatine e parole dolci appena sussurrate che si perdevano in candide nuvolette di respiro.

Arrivati sotto casa, per Domenico fu naturale dirigersi verso destra, verso il portone della palazzina, ma Claudio restò fermo dov'era, facendo una risatina che vibrava ancor di più per l'emozione.

"No, aspetta, dobbiamo andare da un'altra parte. Un'ora al massimo e saremo di nuovo a casa, te lo prometto."

Disse, ritrovandosi a deglutire sia prima che dopo aver parlato.

Domenico si voltò immediatamente verso il compagno e gli sorrise, con quell'aria un po' marpiona che sapeva tirar fuori quando voleva.

"Per me possiamo anche stare in giro tutta la notte, core mij."

Replicò con voce morbida, spingendosi un po' di più verso di lui per rimarcare il concetto.

"Dov'è che andiamo?"

Chiese poi, preso dalla curiosità, ma senza aspettarsi una reale risposta.

Claudio ridacchiò emozionato, per nulla indifferente allo sguardo e al tono che il compagno aveva usato e che gli aveva fatto avvertire un brivido -anzi, una scossa piacevole- lungo la schiena, ma si impose di mantenere il controllo e di non rovinare tutto all'ultimo istante.

"Il posto fa parte della sorpresa, amore mio, lo vedrai quando arriveremo."

Mentre parlava si avvicinò, e di conseguenza fece avvicinare anche il compagno, alla loro auto parcheggiata poco più avanti.

"Per adesso, però, devo chiederti il favore di chiudere gli occhi."

Aggiunse, aprendo cavallerescamente la portiera al lato del passeggero.

Domenico sollevò le sopracciglia per un istante, piacevolmente sorpreso da quella richiesta che tuttavia accettò subito.

"E mistero sia, va bene!"

Esclamò sorridente, per poi salire in auto. Allacciò la cintura e chiuse gli occhi come richiesto, sistemandosi comodamente sul sedile.

Claudio nel frattempo fece altrettanto, andando a sedersi al posto di guida, e si sporse a dare al compagno un bacio sulla guancia.

"Mi raccomando, non sbirciare!"

Domenico scrollò le spalle, ridacchiando, e d'istinto si voltò verso di lui anche se non poteva guardarlo.

"Se non ti fidi, puoi sempre bendarmi con la tua cravatta..."

Propose, scherzoso.

Claudio liberò uno sbuffo divertito e mise in moto l'auto.

"Mh, no, si rovinerebbe..."

Replicò, in modo da dirgli implicitamente che si fidava di lui, con un tono scherzoso che si coniugava bene con gli occhi traboccanti d'affetto e con il sorriso morbido che gli decorava le labbra.

Domenico non poteva vederli ma li percepiva sulla propria pelle come il calore di un abbraccio, e sorrise di rimando, dolcemente.

"Eh in effetti sarebbe proprio un peccato..."

Mormorò, giusto per fargli capire che aveva recepito il suo messaggio, e poi tornò a voltarsi verso la strada, anche se non vedeva nulla ad eccezione della luce indistinta dei lampioni e delle altre auto che gli irradiava le palpebre chiuse.

Il tragitto fu abbastanza lungo, non tanto a causa della lontananza della meta quanto per il traffico tipico del sabato notte che in alcuni punti li costringeva a rallentare o a fermarsi. Era in quei momenti che Claudio se ne approfittava per fare una carezza tra i capelli del compagno o sulla sua guancia, oppure per stringergli la mano ed accarezzargliene un po' il dorso, in modo da riempire l'assenza di contatto visivo con un altro tipo di contatto, mentre sentiva il proprio cuore battere sempre più forte.
Domenico sorrideva dolcemente a quelle attenzioni gentili e cercava sempre di ricambiarle muovendo il capo contro la sua mano, oppure prendendola nella propria o ancora portandosela alle labbra per posarvi un piccolo bacio perché sentiva che quella mano tremava un po', quasi impercettibilmente eppure abbastanza da fargli capire che il compagno era emozionato, e allora si emozionava anche lui -la sorpresa, ormai, doveva essere vicinissima-, ma soprattutto voleva aiutarlo a scaricare l'ansia.
Claudio gli era infinitamente grato per quell'aiuto che era effettivamente riuscito a tranquillizzarlo un po', ma appena giunti a destinazione il proprio cuore ricominciò ad agitarsi come un uccello in gabbia. Prese un respiro profondo e strinse ancora una volta la mano di Domenico.

"Non aprire ancora gli occhi, vengo io."

Disse, con tutta la risolutezza -sempre dolce e mai imperiosa- che la bocca impastata gli concedeva.

Domenico fece un cenno d'assenso con il capo, accompagnato da un sorriso incoraggiante, e nel giro di pochi secondi udì il rumore di una portiera che si chiudeva, dell'altra che si apriva e sentì le mani di Claudio sulle proprie, il quale così lo aiutò a scendere dall'auto. Intorno a loro udiva un chiacchiericcio indistinto, seppur non eccessivamente fastidioso, e rumore di passi.

Claudio gli fece compiere un mezzo giro e lo aiutò ad avanzare di qualche passo, accompagnandolo sottobraccio, in modo da fargli avere una visuale completa.

"Ecco, ora puoi aprire gli occhi."

Disse, con dolcezza.

Domenico non se lo fece ripetere -la curiosità di scoprire cosa Claudio si fosse inventato era alle stelle, in coppia con l'emozione generale- e sollevò le palpebre immediatamente. Subito un sottile verso di stupore si fece largo tra le proprie labbra, sulle quali poi trovò spazio un sorriso caldo e morbido, ed un velo di commozione gli bagnò gli occhi.

"Ma tu sei pazzo..."

Mormorò, mentre faceva correre lo sguardo sul piazzale che aveva davanti, una strada stretta tra un muretto ed una scuola, un liceo a dire il vero, il Liceo Scientifico Statale Leonardo Da Vinci, ad essere proprio precisi. Tutto sembrava essere rimasto a quasi vent'anni prima.

Claudio, che non aveva staccato gli occhi da lui e aveva osservato con la massima attenzione la sua reazione, accennò una risatina -'E non ho ancora fatto nulla, amore mio.', pensò- e solo così riprese fiato, rendendosi conto di aver trattenuto il respiro fino a quel momento.

"Ti va se ci avviciniamo?"

Propose, sorridendo dolcemente.

Domenico spostò lo sguardo su di lui e annuì, ricambiando il sorriso con lo stesso affetto.

"Certo che sì."

Le loro mani, mosse da un'unica energia, si cercarono e si trovarono, dapprima sfiorandosi appena con i polpastrelli e poi unendo i palmi ed intrecciando le dita in una presa salda e sicura, un gesto che quasi vent'anni prima avevano tenuto nascosto perfino in una strada vuota per paura di essere visti, ma che adesso invece mostravano con sicurezza mentre camminavano in quella stessa strada animata da sporadici gruppetti o coppie che si dirigevano verso i locali del centro città. Loro, invece, si spostavano nella direzione opposta.

Il muro davanti ai loro occhi si era arricchito di una moltitudine di scritte dai vari colori, ma non era cambiato nella sostanza: era ancora il tramite di amori sperati, sognati e talvolta realizzati. In tutta quella confusione sarebbe stato impossibile pensare che un piccolo cuore tracciato con un pennarello tutto sommato sottile fosse ancora visibile eppure, seppur un po' sbiadito, era ancora lì, esattamente dove l'avevano lasciato, circondato da altri nomi e altri cuori ma non coperto neanche in un piccolo punto, come se in qualche modo fosse stato rispettato.

Domenico accennò un sorriso e allungò la mano libera a sfiorarlo con le dita.

"È rimasto qui per tutto questo tempo, incredibile"

In tutti quegli anni di separazione da Claudio non aveva mai trovato il coraggio di tornare a quella scuola, a quel muro, perché era diventato la testimonianza imperitura di un amore che non c'era più e il solo pensiero di incrociarlo con lo sguardo lo faceva sentir male. Ciononostante -e con ben poca coerenza, lo ammetteva- si era sempre chiesto che fine avesse fatto quella scritta ed in cuor proprio aveva sperato che, in qualche modo, si fosse salvata.

Claudio curvò appena le labbra e spostò lo sguardo dal compagno al muro, precisamente al loro cuore, ma a differenza sua sapeva già che l'avrebbe trovato: anche lui, per anni, si era rifiutato di recarsi in quel luogo, ma era ad un certo punto giunto il momento in cui non aveva più potuto evitarlo, quel giorno di qualche mese prima quando Simone, ancora ferito da un amore che non ne voleva sapere di cicatrizzarsi, gli aveva chiesto di accompagnarlo a scuola dopo l'ennesima notte che si era fermato a dormire da lui e lui, naturalmente, aveva accettato senza problemi, ed era rimasto scioccato quando il ragazzo gli aveva chiesto di fermarsi proprio lì, a pochi metri dal Muro dell'Amore. Era rimasto fermo lì davanti a lungo, ben oltre dopo che Simone era ormai scomparso al di là del massiccio portone, indeciso sul da farsi, ma alla fine era sceso dall'auto e si era avvicinato. Lungo il breve tragitto si era ritrovato a sperare di non riuscire a trovare quel cuore, a sperare che fosse stato sommerso da altre scritte o cancellato dal tempo, ma si era dovuto ricredere in fretta e, solo a vederlo, si era sentito svenire e si era dovuto appoggiare proprio contro quel muro per evitare di cadere.

Era stato preso più volte, in quella come in altre occasioni dalla tentazione di cancellarlo, in fondo sarebbe bastato passarci sopra della vernice o un solvente, ma aveva sempre desistito, non ci era mai riuscito, forse perché gli era sembrato un gesto troppo estremo, troppo definitivo, come se cancellare quel cuore fosse equivalso a cancellare l'amore stesso che aveva rappresentato e che continuava a rappresentare, forse perché era giusto che la testimonianza del proprio fallimento rimanesse intatta o forse per entrambi i motivi. In ogni caso, era lieto di aver preso quella decisione.

"Prova che l'Amore vero resiste a tutto...

Disse con dolcezza, per poi estrarre un pennarello dalla tasca interna del cappotto.

"...ma forse potremmo dargli una piccola rinforzata, che dici?"

Domenico spostò gli occhi sul pennarello e non riuscì a trattenere un piccolo ansito di sorpresa, poi li riportò sul compagno e annuì, sorridendo emozionato.

"Dico che è il nostro amore e facciamo bene a confermarlo."

Rispose, con la voce che un po' tremava.

Claudio gli sorrise di rimando, con la stessa emozione a fargli brillare gli occhi, e portò una mano ad accarezzargli il viso coperto dalla morbida barba -che tuttavia non riusciva a nasconderne il rossore, visibile anche alla poca luce notturna- e Domenico mosse leggermente il capo contro la sua mano per godersi al meglio le carezze, in un gesto simile a quello di un cane affettuoso, liberando un lungo sospiro rilassato.

Si voltarono, poi, ed insieme tracciarono la sagoma del cuore, una metà a testa, e le iniziali dei loro nomi, ciascuno quella dell'altro, rinnovando in questo modo la promessa che si erano scambiati da ragazzi, la promessa che, senza rendersene conto, avevano mantenuto anche quando credevano che l'amore non facesse più parte delle loro esistenze e che avrebbero mantenuto per tutta la vita ed oltre.

Per qualche istante non fecero altro che contemplare quel piccolo cuore, come a volersi accertare che fosse davvero reale, entrambi con le labbra ricurve in due sorrisi che sembravano uno solo, accarezzandosi le mani ancora strette in un intreccio.

Domenico, poi, si voltò a guardare il compagno.

"Hai avuto proprio una bella idea, sai? Grazie."

Mormorò, dolcemente.

Claudio lo raggiunse con i propri occhi e liberò un piccolo sospiro. Era giunto il momento e sentiva che il proprio cuore se n'era accorto, infatti aveva cominciato a battere più rapidamente.

"Non ti ho portato qui solo per questo..."

Con la mano libera estrasse dalla tasca del cappotto la scatoletta che si era portato dietro per tutta la serata -controllando costantemente di non averla persa- e la porse al compagno.

"Tieni, è per te."

Disse, accompagnandosi con un cenno del capo ed un sorriso affettuoso.

Domenico gli rivolse uno sguardo sorpreso, sollevando leggermente le sopracciglia, poi lo spostò sulla scatola che l'altro reggeva, sciolse l'intreccio delle loro mani e la prese tra le proprie, con delicatezza. La prima cosa che notò fu che la scatola non era stata confezionata in alcun modo, infatti si presentava così com'era -rivestita di velluto rosso acceso e soffice al tatto-, quindi qualsiasi cosa contenesse non era da considerarsi un regalo: conosceva benissimo Claudio e sapeva che ogni volta in cui doveva fare un regalo a qualcuno non trascurava mai l'impacchettamento perché sosteneva che anche quello facesse parte del dono. L'assenza di carta colorata che l'avvolgeva o anche solo di una semplice busta o un biglietto, quindi, lo sorprese non poco. Sollevò il coperchio della scatola, che rimase attaccato alla stessa grazie ad una giuntura, scoprendo che conteneva un orologio da polso totalmente in acciaio dall'aspetto costoso, digitale e non analogico proprio come li preferiva lui perché li trovava più pratici, che al momento segnava l'ora esatta. Quello che usava solitamente si era rotto proprio qualche giorno prima, dopo anni di onorato servizio, ma tra un impegno e l'altro non era riuscito a comprarne uno nuovo, quindi era ben felice che ci avesse pensato Claudio per lui.

"Ua, ma è bellissimo, core mij! Grazie, mi serviva proprio, stavo uscendo pazzo senza!"

Esclamò allegro, con un sorriso riconoscente sulle labbra. Non si era certo dimenticato, però, che quello non si configurava affatto come un regalo e ne ebbe la conferma quando spostò lo sguardo sul compagno e si accorse che l'altro lo stava osservando con occhi trepidanti, come se fosse stato in attesa di qualcosa, e dunque quell'orologio non era solo un orologio; doveva esserci dell'altro, e lui era determinato a scoprire cosa. Spinto da un moto di curiosità che lo travolse come un'onda, estrasse l'oggetto dall'apposito alloggiamento e prese a studiarlo con attenzione in ogni sua parte, mentre sentiva il proprio cuore cominciare a battere un po' più velocemente. Si accorse, dopo poco, che sul retro del quadrante era incisa, con una grafia precisa ed elegante che riconobbe subito come quella di Claudio, una scritta composta da appena due parole, ma che non erano quelle che ci si aspetterebbe di trovare dietro ad un oggetto del genere, regalato dalla persona amata.

"Sei secondi?"

Lesse, per poi rivolgere al compagno uno sguardo sinceramente incuriosito.

Claudio accennò un sorriso e si passò la lingua sulle labbra, come sempre quando cominciava un discorso. Questo, nello specifico, l'aveva ripetuto fino allo sfinimento, perché non poteva permettersi di sbagliare nemmeno una virgola o ne avrebbe rovinato il significato.

"È il tempo in cui, in un minuto, passiamo sospesi tra l'inspirazione e l'espirazione."

Fece una brevissima pausa per sottolineare il concetto.

"Mezzo secondo in un respiro completo, sei secondi al minuto, centoquaranta minuti in ventiquattr'ore, trentasei giorni in un anno, sei anni in settant'anni..."

Elencò rapidamente, ma scandendo le parole con la precisione di una lancetta.

"Tutto tempo che passa senza che noi ce ne accorgiamo, ma in cui continuiamo a vivere, anche se siamo in bilico sullo strapiombo della morte, tempo in cui continuiamo ad esistere ed io..."

Si fermò improvvisamente e sorrise di nuovo, sollevando l'angolo delle labbra.

"Mi hanno detto che così è più romantico."

Si inginocchiò sui sanpietrini freddi, piantando un solo ginocchio a terra mentre l'altro era sollevato per piegare la gamba, e prese la mano in cui Domenico teneva l'orologio con delicatezza tra le proprie: una posizione che aveva visto infinite volte nei film romantici che tanto gli piacevano ma che, in quel momento, gli sembravano nulla in confronto alla realtà che stava vivendo. Riprese a parlare, con il capo sollevato quanto bastava per incrociare gli occhi del compagno in piedi davanti a lui.

"Voglio che ciascuno dei sei secondi della mia vita siano tuoi, voglio trascorrere tutto il tempo della mia vita con te, anche quello di cui non mi accorgo. Tu...vuoi fare lo stesso con me?"

Aggiunse e poi tacque, restando a fissare il compagno con occhi trepidanti ed innamorato, mentre nelle orecchie sentiva rimbombare il battito del proprio cuore.

Domenico ascoltò con completa attenzione quel concetto tanto peculiare -su cui, doveva ammettere a se stesso, non si era mai perso in riflessioni di alcun tipo-, chiedendosi perché Claudio gliene stesse parlando in quel momento, ma quando lo vide inginocchiarsi gli fu tutto chiaro -il suo Claudio era riuscito a trasformare un concetto scientifico e rigoroso come quello nella dichiarazione più romantica che potesse esistere- e al tempo stesso non capì più nulla: gli sembrò di essere finito in un vortice che aveva rovesciato ogni equilibrio, il sopra era diventato sotto e il sotto era diventato sopra, e l'unico punto fermo, fisso, in quella confusione era Claudio, con le sue mani calde strette intorno alla propria ed il suo sguardo di cielo che lo tenevano ancorato sulla Terra e gli ricordavano che, in fin dei conti, l'unico equilibrio di cui aveva bisogno era quello.

'Sta succedendo davvero.', pensò, avvertendo immediatamente gli occhi inumidirsi di felicità.

"La risposta è sì, ovviamente, ma mi stai davvero chiedendo ciò che penso tu mi stia chiedendo o..."

Domandò con voce tremante, perché anche se la situazione non sarebbe potuta risultare più chiara di così, lui aveva bisogno di conferme.

Claudio esalò un sospiro sollevato e divertito che gli restituì il respiro dopo vari istanti di apnea ed annuì con fermezza.

"Domenico Liguori, mi vuoi sposare?"

Chiese, ed un sorriso luminoso e commosso gli apparve in volto.

Domenico provò a rispondere, ma dalla bocca gli uscì appena un singulto, per cui dovette deglutire a vuoto prima di riuscire a parlare.

"Sì, sì, mille volte sì!"

Rispose infine, più deciso che poté considerando che la voce sembrava immersa nell'acqua.

Con uno scatto, Claudio fece indossare l'orologio al compagno, impresa non facile visto quanto tremavano le proprie mani, e subito dopo Domenico lo aiutò a rimettersi in piedi e lo tirò a sé in un bacio, aggrappandosi al suo cappotto, che Claudio ricambiò immediatamente avvolgendolo tra le braccia.

A poca distanza da loro c'erano tante persone, molte delle quali si soffermavano a guardarli, alcune con occhio benevolo ed altre con occhio decisamente più avvelenato, e qualcuna faceva anche un commento, a volte positivo ed altre negativo a seconda della mentalità di chi assisteva alla scena, ma nulla di tutto ciò arrivava a loro. Erano immersi nella loro bolla dove nessuno poteva entrare, stretti in un abbraccio e uniti in un bacio che sarebbero stati eterni, sotto lo sguardo luminoso e vigile delle stelle.
Quando separarono le labbra, meramente per riprendere fiato -ma non per respirare, ché per questo bastava restare vicini-, rimasero fronte contro fronte, facendo unire i respiri affannati in nuvolette che si formavano nel piccolo spazio tra i loro visi e si dissolvevano in un istante, lasciando il posto alla successiva.

Poi, come a voler riprendere quel bacio che era stato interrotto, fecero sfiorare le punte dei nasi più volte, ancora ad occhi chiusi, muovendosi con destrezza in un buio che aveva una geografia conosciuta, quella dei loro corpi e dei loro abbracci, e solo dopo sollevarono le palpebre, lentamente come quando ci si risveglia da un sogno, rimanendo a guardarsi attraverso gli occhi appannati da un velo d'acqua che rendeva tutto più opaco, eppure non avevano mai visto più chiaramente di così.

Si sorridevano, liberando di tanto in tanto un singhiozzo o una risata, mentre lacrime calde rigavano i loro visi che finivano per asciugarsi a vicenda, con morbide carezze o piccoli baci in punta di labbra al sapore di sale che, tuttavia, era più dolce che mai.

"Ti amo!"

Si dissero ad un certo punto, all'unisono, ed insieme esplosero in una risata più alta di tutte quelle che si erano scambiati quella sera, che si diffuse ed echeggiò per tutta la strada, svanendo infine in qualche via lì accanto per dire a tutta Roma che Claudio Vinci e Domenico Liguori si amavano.

Domenico, preso dall'allegria, tirò di nuovo il compagno a sé e lo avvolse tra le braccia, posandogli un lungo bacio tra i capelli morbidi e profumati. Per Claudio non fu difficile trovare posizione in quell'abbraccio che, per quanto improvviso, era pur sempre il proprio posto naturale, e lo ricambiò cingendo il compagno per il busto. Subito venne investito dal suo profumo, che respirò profondamente prima di alzare di nuovo il capo verso di lui e guardarlo, sorridendo.

"Quindi la sorpresa è riuscita?"

Chiese, senza riuscire a nascondere la trepidazione. La reazione di Domenico aveva parlato da sé, certo, ma quello era un momento unico, che non concedeva seconde possibilità, ed importantissimo, e non si sarebbe mai perdonato di aver fatto troppo poco per l'uomo che amava.

Domenico, che subito aveva intercettato il suo sguardo, lasciò andare un piccolo sbuffo divertito e sorrise sghembo, ma rassicurante. Non faceva fatica a pensare quanto Claudio si fosse impegnato per pianificare ogni dettaglio di quella serata apparentemente semplice, ma che anche nella sua semplicità -che aveva molto apprezzato, ovviamente- aveva senz'altro richiesto di prendere decisioni importanti, sicuramente non prese in solitaria, o almeno non del tutto: era praticamente certo, infatti, che anche Simone e Manuel avessero avuto un ruolo in quella vicenda -anche se alla sua diretta domanda, attraverso un messaggio di quel pomeriggio, erano stati bravi a mantenere il segreto e avevano risposto di non sapere nulla di ciò che stava preparando Claudio- ed era loro grato di aver aiutato Claudio in un momento che, sicuramente e comprensibilmente, aveva portato con sé molta ansia.

"Non avresti potuto farmene una più bella, core mij."

Claudio sospirò, sollevato: con quella risposta, Domenico gli aveva appena tolto un grosso peso dal centro del petto.

"E ti va bene anche l'orologio? Me lo puoi dire se non è così, eh, che cerco di rimediare!"

Si strinse leggermente nelle spalle.

"So che l'anello è più tradizionale, infatti ero andato in gioielleria per sceglierne uno, ma poi ho visto quell'orologio, anzi in realtà sono due, me ne sono fatto incidere uno anch'io, e ho pensato che fosse più congruente con il messaggio che volevo darti, poi da poco si era rotto il tuo e..."

Spiegò, parlando freneticamente, senza agitare le mani solo perché erano ben strette intorno al corpo del compagno, ma Domenico lo interruppe con un bacio a fior di labbra, rapido e leggero, quanto bastava per mettere un freno a quel fiume in piena di inutili dubbi, riuscendoci. Gli sorrise, poi, rassicurante.

"L'idea dell'orologio mi piace molto, non è né scontata e né banale, e mi piace anche che ce l'abbiamo entrambi, così siamo uniti anche quando siamo lontani."
Spostò una mano a fargli una carezza sulla guancia, notando subito che si era raffreddata a causa della temperatura notturna.

"Risparmiati le paranoie per quando dovremo scegliere le bomboniere, mh?"

Aggiunse con tono scherzoso, e Claudio fece una risatina, tranquillizzato.

"Un giorno dovremo farlo davvero, lo sai, sì?"

Domandò retoricamente, giocoso ma con una punta d'ansia nella voce, e Domenico annuì, ridacchiando.

"E lo faremo a tempo debito, pensiamo ad una cosa alla volta. Per adesso, che ne diresti di tornare a casa? Inizia a fare freddo."

Disse, continuando ad accarezzarlo.

Claudio annuì, ed insieme fecero per spostarsi, ma dopo appena un paio di passi vennero attratti da un suono fioco e sottile, quasi impercettibile, ma che al tempo stesso era inconfondibile, proveniente da un punto alle loro spalle. Si fermarono ed il suono si ripeté, stavolta un poco più alto, e Claudio e Domenico non ebbero più dubbi. Si scambiarono uno sguardo, leggermente accigliati.

"L'hai sentito anche tu?"

Domandò Claudio, e Domenico annuì.

"Veniva da quella parte."

Rispose, indicando sommariamente l'area. Senza esitare, si diressero nella direzione del suono, andando a passo svelto verso il muretto che fronteggiava il liceo.
Lì sotto, proprio appoggiato ai mattoncini rossi, c'era uno scatolone, di quelli da imballaggio, che era un miracolo si reggesse ancora nella sua forma dato che era visibilmente impregnato d'acqua.

Ne sollevarono con cautela i lembi che lo chiudevano -e che si sfaldarono nelle loro mani- e scoprirono che all'interno c'era un gatto dal pelo scuro -era notte, non c'era molta luce e non si riusciva a distinguerne bene il colore-, tutto raggomitolato su se stesso, ma con la testolina sollevata verso di loro: i suoi occhi gialli spiccavano nel buio della notte come due lucine e si posarono su di loro confusi e spaventati, sembravano chiedersi: 'Cosa ci faccio qui?'. Il gatto emise un altro miagolio che sembrò un vero e proprio lamento, ed era evidente che lo fosse, e i due uomini si sentirono stringere il cuore.

Domenico sospirò e, senza compiere movimenti bruschi, avvicinò la mano al suo musetto, in modo da farsi annusare, un gesto che aveva ormai ripetuto infinite volte. Il micio, contro ogni aspettativa, si fidò istantaneamente e spinse il capo contro il suo palmo per farsi accarezzare; così, Domenico scoprì che anche lui era bagnato. Evidentemente si era preso in pieno tutta la pioggia di quella mattina e, visto il freddo della giornata, non era riuscito ad asciugarsi del tutto.

"Piccoletto, chi è lo stronzo che ti ha lasciato qui, mh?"

Domandò con voce dolce, per non spaventarlo, anche se naturalmente non si aspettava una risposta.

Il gatto, però, sembrava deciso a rispondergli davvero ed infatti miagolò di nuovo, con una vocina quasi del tutto spenta che suonava tanto come una richiesta d'aiuto.
Claudio si morse il labbro inferiore, intristito, ed avvicinò a propria volta una mano al musetto del gatto per far sentire il proprio odore, ma in un attimo il felino si lasciò accarezzare anche da lui, fiducioso.

"Pensi che l'abbiano abbandonato?"

Domandò al compagno, rivolgendogli uno sguardo solo per un attimo prima di tornare a rivolgerlo al gatto che adesso, sotto quelle coccole, sembrava un po' più tranquillo.

Domenico annuì severamente, come se quel gesto gli costasse un grande sforzo.

"Ha il pelo umido, lo senti anche tu, e ha piovuto solo stamattina. Nessun gatto abituato a vivere in strada sarebbe rimasto a farsi bagnare dalla pioggia, ma avrebbe cercato un rifugio e soprattutto non sarebbe mai tornato qui, in questo cartone fradicio."

Sospirò ed inclinò leggermente il capo.

"Secondo me lui non si è proprio mosso, è evidente che sta aspettando qualcuno e questo qualcuno non può essere altri che 'a munnezza che l'ha lasciato qua, probabilmente da ieri sera se non prima."

Aggiunse, con voce greve. Se avesse avuto davanti la persona che aveva compiuto quell'atto così ignobile non avrebbe esitato a farle passare un brutto quarto d'ora -esisteva una multa per abbandono di animale-, ma si era visto davanti scene simili troppe volte per non sapere che, ormai, trovare quella persona era come cercare un ago in un pagliaio: un eventuale microchip sotto la pelle del micio avrebbe potuto far risalire alla sua identità in un batter d'occhio, ma in casi come quello o il microchip non era mai stato inserito, oppure era stato tolto preventivamente, spesso in modi poco convenzionali e anche dolorosi per l'animale stesso. Forse le telecamere esterne del liceo avevano ripreso qualcosa, ma visionarne le riprese era un'impresa praticamente impossibile: ci volevano dei permessi e con tutto quello che c'era da fare nessuno voleva spendere tempo e risorse per un animale abbandonato.

Claudio sospirò e allontanò la mano dal gatto solo per sfilarsi celermente il cappotto. Aveva conosciuto l'abbandono, sapeva cosa voleva dire attendere qualcuno che non ti amava più e che probabilmente non ti aveva mai amato, ma sapeva anche che certe ferite possono guarire fino a rimarginarsi del tutto grazie ad un po' d'amore.

"E certamente questo qualcuno non tornerà. Mi aiuti, per favore?"

Chiese al compagno, accennando con il capo al proprio cappotto che, ora, reggeva con entrambe le mani.

Domenico gli rivolse un sorriso ampio, luminoso, pieno di gioia e d'orgoglio, e senza aver bisogno di chiedere altro infilò le mani tra il cartone bagnato.

"Vieni qua, piccoletto...piano piano, dai."

Mormorò con dolcezza mentre, usando la massima delicatezza -non sapeva se il gatto fosse ferito o dolorante e di certo non voleva spaventarlo o causargli altra sofferenza-, prese il micio tra le braccia, facendogli qualche carezza.

"Adesso ti passo a Claudio, eh..."

Commentò, e così dicendo lo depose tra le braccia del compagno.

Claudio lo avvolse subito nel cappotto, realizzando una sorta di fagotto intorno a lui, e gli sorrise rassicurante.

"Eccoti qua! Ma che bello che sei!"

Esclamò, con voce dolce.

Il gatto si fece prendere e riprendere senza protestare, non provò a graffiare né soffiò o tentò di divincolarsi, emise soltanto un piccolo miagolio che sembrava diverso dai precedenti, suonava più come un verso di sollievo, e si accoccolò placidamente in quel rifugio caldo -gli piaceva quella sensazione intorno a sé, dopo tanto freddo e gli piacevano quei due uomini, si capiva che erano tanto gentili ed in più avevano entrambi un buon odore-, socchiudendo gli occhi per un istante.

Claudio e Domenico si scambiarono un sorriso intenerito e consapevole, era evidente ad entrambi che avevano appena trovato un nuovo amico, e si rimisero in piedi, spostandosi di qualche passo. Ora, sotto la luce un po' più diretta dei lampioni, videro che il micio aveva il pelo grigio -doveva essere non troppo scuro quando era completamente asciutto- striato di nero, com'era tipico dei soriani.

"Non devi più preoccuparti, sei al sicuro ora. Non ti faremo mancare nulla."

Commentò Claudio con voce morbida ed affettuosa, tenendosi il gatto ben avvolto nel cappotto e stretto al petto per proteggerlo dal freddo.

"Diventerai il gatto più coccolato del mondo, fidati!"

Aggiunse Domenico, affettuosamente scherzoso, portando un braccio intorno alle spalle di Claudio per proteggere entrambi.

Si avviarono verso l'auto, così uniti da sembrare un'unica figura, come si erano promessi di restare per tutta la vita ed oltre la vita.

Core a core.

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Capitolo 44
*** Epilogo – Eternamente ora (parte 1) ***


Napoli, 20 Luglio 2023
 
Otto e ventitré del mattino.

Dal balcone spalancato, lasciato così la notte precedente per godere dell'aria fresca, entrava un venticello leggero, caldo ma non asfissiante, che accarezzava la pelle e toccava le tende bianche, facendole ondeggiare lente e sinuose. Erano divise in due come i lembi di un sipario e si aprivano su un palcoscenico blu: il cielo, infatti, era limpido come ci si sarebbe aspettato da una giornata di piena estate, ad eccezione di qualche piccola nuvola bianca e purissima, che di certo non portava un temporale con sé, e quasi si confondeva in un unico blu con il mare sottostante, a cui era unito da un'evanescente linea d'orizzonte.

Gli unici suoni di quella rappresentazione erano il placido sciabordio delle onde che, ritmico e costante, scandiva il tempo ed il verso di un gruppo di gabbiani che, come un coro navigato, eseguiva una qualche melodia. Tutti gli altri rumori, invece, erano troppo distanti per essere uditi.

Si trattava, dunque, di uno spettacolo di pura pace, eppure Domenico, disteso a letto sul fianco sinistro, non vi posava nemmeno lo sguardo: accanto a lui c'era Claudio disteso a pancia in giù, ancora profondamente addormentato, e ne sentiva il leggero russare, o meglio le fusa, come gli piaceva definire quei respiri lenti e rilassati.
Si erano addormentati abbracciati la notte precedente, come sempre, ma Domenico si era svegliato qualche ora prima per andare in bagno e al ritorno l'aveva trovato così, in quella posizione che non gli vedeva assumere da anni, ma che immaginava fosse frutto del suo inconscio, dato il posto in cui si trovavano. La cosa migliore da fare era soltanto fargli avvertire la propria vicinanza senza però disturbarlo, dunque si era limitato a ridistendersi accanto a lui e a cingerlo con un braccio, senza forzarlo, e si era riaddormentato poco dopo.

Da quando era entrato in Polizia -si poteva dire, quindi, da tutta una vita-, tuttavia, aveva cominciato a svegliarsi prima che fosse il suono della sveglia a farlo destare, anche se da ormai diversi mesi, per una ragione facilmente intuibile che al momento gli dormiva accanto, ciò non accadeva più, ma quel mattino si era verificata un'eccezione che chiaramente confermava la regola; sua madre gli aveva sempre detto che si svegliava prima a causa dell'impazienza di cominciare il nuovo giorno, soprattutto se c'era qualcosa di importante da fare, e di sicuro nulla superava per importanza ciò che sarebbe accaduto da lì a qualche ora.

Aveva aperto gli occhi esattamente dodici minuti prima che scattasse la sveglia, come aveva avuto modo di appurare quando l'aveva disattivata per evitare che suonasse, e si era messo ad osservare il compagno in perfetto silenzio per non rischiare di svegliarlo accidentalmente: il bel viso era seminascosto dal braccio sinistro piegato sul cuscino, ma era rivolto verso di lui e Domenico sapeva vedere con gli occhi della memoria il cielo blu che si nascondeva dietro quelle palpebre placide, in attesa di poterlo vedere davvero.

Il corpo, morbidamente abbandonato al sonno, gli si offriva alla vista come quello di una statua fatta per essere guardata, nudo fino ai fianchi e poi avvolto dalle fresche lenzuola bianche che abbracciavano le sue natiche e le sue gambe, ma a differenza di una statua era caldo, tanto che il suo tepore arrivava fino a lui che gli stava accanto, e vivo, infatti si muoveva lentamente e quasi impercettibilmente al ritmo del suo respiro.

La schiena, di conseguenza, era accarezzata dai caldi raggi del Sole che si posavano sulla pelle nuda creando dei riflessi particolari quando toccavano le sue cicatrici bianche e lucide, del tutto simili -o almeno per Domenico il paragone era evidente- a quelli che creava sulle increspature delle onde.

Erano dunque quel cielo e quel mare, comprensibilmente, ad avere tutta la propria attenzione.

Sorrise, pieno d'affetto di fronte a quella tenera e meravigliosa vista, e con una mano andò ad affiancarsi ai raggi solari, accarezzando con tocco leggero la sua pelle calda su cui faceva scorrere lentamente i polpastrelli: i dodici minuti erano ormai passati e riteneva, con abbastanza sicurezza, che quello fosse un modo molto più dolce di svegliarsi rispetto al suono improvviso di una sveglia. Ottenne, però, soltanto un leggero sorriso da parte di Claudio, insieme ad un sospiro profondo che sembrava quasi un mugolio -dovette mordersi l'interno delle guance per trattenere una risatina intenerita- e decise quindi di fare un altro tentativo, diverso dal precedente: si sollevò quanto bastava a sovrastare l'altro e poi si riabbassò su di lui, puntellandosi con le braccia piegate ad angolo sul letto per non pesargli eccessivamente, e cominciò a baciargli la pelle, di cui poteva sentire il sapore caldo e lievemente salato, senza seguire uno schema, ma stando attento che ogni bacio durasse abbastanza da essere sentito.

Claudio era immerso in un sonno tranquillo e confortevole, ormai le notti in cui dormiva poco e male, tormentato da incubi in cui due meravigliosi occhi verdi si riempivano di sangue, oppure in cui non dormiva affatto per cercare di evitarli, erano lontane, chiuse in una parentesi della propria vita che non si sarebbe più riaperta. Da circa un anno a quella parte dormire era diventato, anzi era tornato ad essere, un atto piacevole e ristoratore, e allo stesso modo aveva ritrovato nuova gioia nello svegliarsi perché, allo stesso tempo, tornare nel mondo reale aveva smesso di essere un incubo peggiore di quelli che faceva mentre tentava di riposare; il motivo di quel cambiamento era semplice ma al tempo stesso prezioso e ne avvertiva i baci caldi ed un po' umidi sulla pelle.

Si lasciò trasportare da essi fuori dal sonno, abbandonando il sogno che stava facendo e che da lì a pochi secondi avrebbe dimenticato, ed appena riacquisì un briciolo di coscienza riuscì ad elaborare un'importante informazione: Domenico gli stava baciando la schiena, era lì infatti che sentiva il continuo posarsi delle sue labbra che tanto amava, e ciò voleva dire che in un qualche momento imprecisato della notte si era rigirato, abbandonando l'abbraccio in cui lui ed il compagno si erano addormentati e continuando a dormire in quella posizione che non assumeva mai, nemmeno inconsciamente, quando era in compagnia dell'altro, almeno fino a questo momento. Non se ne stupì più di tanto e trovò facilmente la spiegazione di tale fenomeno, se così si poteva definire una posizione assunta nel sonno, nella stanza in cui si trovavano: non era una qualunque camera d'albergo, ma proprio quella che sua madre aveva prenotato per lui la prima volta che era stato a Napoli.

Nel presente, quella non era stata una scelta voluta, e a dire il vero lui e Domenico non se n'erano nemmeno accorti subito dal momento che nel corso degli anni l'hotel aveva attraversato vari ammodernamenti e ristrutturazioni per stare al passo con i tempi e con i gusti della raffinata clientela che accoglieva, ma poi avevano riconosciuto la stanza dal panorama che si vedeva dal balcone e da qualche altro piccolo dettaglio, come ad esempio un dipinto che era stato mantenuto perché bello e pregiato, e avevano sorriso, lieti di poter far ricominciare tutto dove tutto era iniziato.

Quella notte, in ogni caso, era stata ben diversa da tutte le altre trascorse nella stessa posizione e la differenza era semplice quanto forte: non c'erano stati dolori o tormenti, aveva dormito placidamente per tutto il tempo -e avrebbe continuato a farlo ancora per un po' se avesse potuto, a dire il vero- perché aveva continuato a sentire la presenza di Domenico accanto a sé, il contatto con la sua pelle nuda come la propria ed il suo abbraccio accogliente.

"Buongiorno, amore mio."

Mormorò con voce impastata, dischiudendo leggermente le palpebre; ebbe giusto il tempo di registrare un filo di luce nel campo visivo che una mano delicata gli coprì gli occhi.

Domenico gli lasciò un bacio sulla tempia, tra i capelli arruffati e morbidi, e poi si avvicinò al suo orecchio.

"Buongiorno a te, core mij. Non aprire gli occhi, gli sposi non dovrebbero vedersi prima del matrimonio, porta sfortuna."

Disse a bassa voce, lasciando trasparire un evidente intento scherzoso. Non aveva mai creduto a quelle credenze, le riteneva baggianate in piena regola, e poi lui e Claudio avevano superato qualsiasi cosa, non c'era sfortuna che potesse tenere!

Claudio si sentì attraversare da un piacevole brivido, causato dal respiro caldo di Domenico così vicino a lui, ma quando udì la sua richiesta liberò una risatina roca, divertito dalla voglia di scherzare che sempre animava il compagno, perfino a quell'ora.

"Ma tu mi stai guardando!"

Replicò, con la voce ancora piena di sonno ma priva della più minima traccia di preoccupazione: non era di certo spaventato dalla sfortuna, non dopo tutto quello che lui e Domenico avevano dovuto affrontare, e non credeva a tutte quelle credenze e scaramanzie varie. Credeva nella libertà, però, quella sì: la libertà di fare l'amore con i corpi o con gli sguardi, ad esempio.

Domenico ridacchiò, poco sorpreso dal fatto che Claudio avesse deciso di reggergli il gioco -come faceva sempre, del resto, perché anche lui aveva un'anima giocherellona e questo Domenico lo sapeva bene- ma non per questo meno contento, e subito dopo accennò un sorriso, sollevando l'angolo delle labbra.

"Non è vero, ti bacio ad occhi chiusi!"

Mentì, e spudoratamente anche, annullando la distanza tra loro per posare un altro bacio sullo zigomo del compagno.

Claudio scosse appena il capo, per quanto la posizione lo permettesse, e sorrise sghembo perché quella non era la verità, ne era certo: si sentiva addosso, infatti, lo sguardo caldo del compagno tanto quanto i suoi baci.

"Non è vero, non mi freghi! Riconoscerei la carezza del tuo sguardo tra miliardi..."

Replicò, con voce morbida e piena d'affetto.

Domenico arrossì vistosamente in viso, sentendosi avvampare per quella dichiarazione così speciale resa ancora più bella dalla spontaneità con la quale era stata pronunciata: c'era poco da fare, Claudio era un maestro con le parole! Sospirò appena, pronto a confessare, ma senza perdere il sorriso.

"Va bene avvocato, sono colpevole, lo ammetto!"

Esclamò giocoso, scoccandogli un altro bacio, stavolta volutamente più rumoroso, sulla guancia.

Claudio riaprì gli occhi, ridacchiando, e lo cercò con lo sguardo. Non riuscendo a vederlo bene da quella posizione, si girò a pancia in su e Domenico, intuendone le intenzioni, si scostò per lasciargli un po' di spazio prima di tornare nuovamente su di lui.

Claudio, ora, poteva finalmente contemplare il compagno in tutta la sua bellezza: i suoi occhi verdi lo erano ancora di più grazie al Sole che li illuminava, un bosco vivo e vibrante in grado di far passare in secondo piano il mare che, svariati metri sotto di loro, cercava di attirare la propria attenzione con i suoi suoni, ma con scarso successo. Non aveva occhi che per il suo bosco, lui.

"E comunque due futuri sposi non dovrebbero nemmeno fare quello che abbiamo fatto noi ieri sera..."

Mormorò mellifluo, con un sorriso malizioso sulle labbra.

Domenico non ribatté immediatamente, non ci riuscì, perché era rimasto abbagliato dalla luce di quegli occhi blu, un cielo così limpido e puro che al confronto quello fuori dalla stanza sembrava in pieno temporale e perdeva di qualunque importanza. Era il suo cielo e non ne esistevano altri, per lui.

"Ah, ma quella è stata previdenza! Saremo così stanchi, stanotte, che non avremo la forza di fare nulla, fidati!"

Disse infine, dopo qualche secondo di silenzio, con tono di scherzo che tuttavia nascondeva una verità.

Claudio non riuscì a trattenere una risatina divertita, ma gli rivolse comunque uno sguardo inquisitorio -per nulla serio-, corredato da un sopracciglio sollevato.

"E tu che ne sai? Ti sei già sposato e io non ne sapevo niente?"

Domenico scoppiò a ridere e scosse con vigore il capo chinato, prima di tornare a guardarlo.

"No, scemo, ma c'ero al matrimonio di Sara...me l'ha detto lei. Erano così stanchi, lei ed Enzo, che sono crollati a letto senza nemmeno togliersi i vestiti."

Il viso di Claudio si addolcì in un attimo, rispecchiando perfettamente ciò che non aveva mai smesso di provare per il compagno, grazie ad un sorriso affettuoso.

"Sarà bello anche non fare nulla, insieme. In salute e in malattia, no?"

Mormorò mentre gli accarezzava il volto, guardandolo negli occhi con tutto il proprio amore.

Domenico, a quella dichiarazione così sentita, che anticipava quelle che si sarebbero scambiati da lì a qualche ora e che al tempo stesso, forse perché era stata pronunciata nella loro bolla, ne sembrava ancora più forte, riuscì solo a sorridere emozionato; sembrava aver dimenticato tutte le parole che conosceva.

"Sì."

Mormorò infine, con la voce che già si spezzava, e quella minuscola parola, non per questo meno sincera, fu l'unica che riuscì a pronunciare. Si chinò su di lui, poi, annullando la già poca distanza tra loro, perché era sempre stato più bravo con i gesti che con i discorsi e Claudio lo raggiunse, prendendogli il viso tra le mani come a non volerlo più lasciar andare.

Si baciarono ed entrambi sentirono nei propri cuori che era quel bacio -scambiato in un letto sfatto, senza indossare i completi che avevano accuratamente scelto, ma nudi, pelle contro pelle e con appena un lenzuolo a coprirli- il loro vero matrimonio, più prezioso di qualsiasi unione sancita da un rito amministrativo e ufficializzata da un foglio di carta.

Fu naturale, per loro, passare da quell'unico bacio a tanti piccoli baci che si posavano a turno sul volto -sulla punta del naso, su una guancia e poi sull'altra, in mezzo agli occhi o in qualsiasi altro punto-, alternandoli a risate affettuose, come in una danza su musica cristallina: un bacio ed una risata, una risata ed un bacio, poi un bacio ed una risata ed una risata ed un bacio ancora.

Baci e risate erano gli unici suoni che riempivano la stanza, perfino il mare e la città si erano fatti silenziosi, al confronto.

Soltanto un piccolo suono, dopo un po', si unì a quelli, un miagolio sottile, discreto, quasi avesse avuto timore di disturbare, che proveniva al di là della porta che divideva la zona notte della suite dalla zona giorno. Claudio e Domenico interruppero il loro ballo, si scambiarono un sorriso ed uno sguardo d'intesa e poi Domenico si alzò, dirigendosi verso il punto di provenienza di quel richiamo così educato.

Aprì la porta e, ovviamente, dietro di essa trovò Ulisse, il gatto che lui e Claudio avevano adottato diversi mesi addietro: come avevano previsto fu impossibile risalire all'originario proprietario del micio -per multarlo, quantomeno-, così non ci avevano pensato due volte a prenderlo con sé ed il micio si era abituato in fretta sia alla casa nuova -anzi, alle case nuove dal momento che si erano trasferiti nella villa accanto a quella di Simone e Manuel appena una manciata di settimane dopo- che a loro, ai quali non mancava mai di dimostrare affetto. Avevano deciso di chiamarlo Ulisse perché, immaginavano, avesse dovuto penare a lungo prima di trovare un posto che potesse definirsi casa.

Quando erano arrivati in hotel, un paio di giorni prima, Ulisse aveva reso ben chiaro di voler accaparrarsi il divano -ci si era posizionato accanto e aveva cominciato a miagolare con insistenza, strofinandosi contro di esso- e così avevano sistemato lì sopra la sua coperta, sulla quale aveva dormito fino a qualche minuto prima. A dire il vero, la porta che divideva le due zone era in parte aperta, Claudio e Domenico l'avevano lasciata in questo modo proprio perché così Ulisse, se avesse voluto, sarebbe potuto andare da loro, ma il gatto se ne stava lì, seduto composto in attesa, e solo quando arrivò Domenico si alzò in piedi ed emise un miagolio allegro non appena lo vide, andando subito a strofinarsi tra le sue gambe facendogli le fusa.

Domenico ridacchiò teneramente e si accovacciò per fargli una carezza e prenderlo in braccio, accarezzandolo ancora.

"Buongiorno anche a te, piccoletto. Dormito bene?"

Domandò con dolcezza ed Ulisse, in risposta, si strofinò contro il suo petto, miagolando felice.

Si spostarono in camera da letto e Claudio sorrise dolcemente alla vista di Domenico che teneva in braccio il micio con delicatezza e non gli faceva certo mancare carezze premurose, nel seppur breve tragitto, e il micio che gli faceva le fusa, completamente rilassato.

"E poi dicono che un cane ed un gatto non possono essere amici...guarda qua!"

Commentò, affettuosamente scherzoso, indicandoli con un vago gesto della mano.

Domenico ridacchiò dolcemente, pensando che il compagno avesse in un certo senso ragione, e si avvicinò al letto posando il gatto sul materasso.

"Vai da papà, vai..."

Disse con dolcezza, rivolto al micio, indicandogli Claudio con un cenno del capo.

Ulisse non se lo fece ripetere due volte, voleva assolutamente dare il buongiorno anche a lui, e si precipitò dall’altro papà, rivolgendogli lo stesso miagolante ed allegro saluto che aveva riservato all'altro. Claudio si sollevò su un fianco, in modo da poterlo accogliere a braccia aperte come meritava, e subito gli diede qualche morbida carezza per salutarlo.

"Ciao tesoro, mi sei mancato anche tu!"

Mormorò con dolcezza, mentre Ulisse si strofinava gioioso contro il suo petto.

Domenico, seduto a gambe incrociate sul letto, ridacchiò affettuosamente al tenero spettacolo che erano quei due con i loro versetti di felicità -le risatine di Claudio, dovute al solletico, e le fusa di Ulisse- e si ritrovò a pensare che il gatto avesse ottimi gusti, che lui condivideva in toto.

"Due gatti, questo siete. Due bellissimi gatti coccoloni."

Commentò, con un soffio di voce morbida.

Claudio alzò lo sguardo verso di lui, con le labbra curve in un sorriso dolce e gli occhi innamorati puntati nei suoi.

"E non è che per caso un certo cane coccolone vuole unirsi a noi?"

Chiese, con voce leggera.

Erano proprio questi momenti di tenera intimità, a cui non rinunciavano mai quando era possibile, che rendevano più piacevole il risveglio.

Domenico si illuminò di un sorriso gioioso, gli occhi lucidi di felicità come se avesse ricevuto la più straordinaria delle proposte -era questo l'effetto dell'amore, d'altronde- e annuì, convinto.

"Certo che vuole!"

Esclamò morbidamente, per poi distendersi subito sul lato libero del letto.

Dovevano prepararsi, sì, ma potevano concedersi ancora qualche minuto solo per loro, prima di pensarci.

Restarono per un po' ad osservarsi in silenzio, con due sorrisi appena accennati ma pieni d'amore sui volti placidi, mentre con una mano ciascuno accarezzavano Ulisse che si era prontamente sistemato in mezzo a loro.

Claudio fece scorrere gli occhi sui fianchi di Domenico, che aveva tenuto stretti tra le gambe la notte precedente, e risalì fino al suo volto dai lineamenti squadrati ma gentili -che su chiunque altro sarebbero facilmente risultati spigolosi alla vista e quindi antipatici, ma non su di lui- e dalle guance coperte da una barba scura, seppur con qualche tocco di bianco, di solito lasciata crescere con un po' più di libertà, ma curata appositamente per l'occasione. 

Domenico focalizzò la propria attenzione sul collo di Claudio dove, la notte precedente, aveva lasciato morsi e baci di cui si vedevano in buona parte ancora i segni -ma era stato attento e si era mantenuto entro i limiti che sarebbero stati nascosti dal colletto della camicia-, per poi spostare lo sguardo sul suo volto morbido e dolce -che, ciononostante, era comunque stato odiato da qualcuno-, coperto da una barba non troppo leggera, curata come sempre.

Si riempivano gli occhi l'uno dell'altro, mai stufi di ciò che vedevano, come se ogni sguardo potesse essere l'ultimo, pur consapevoli che così non era.

Fu Domenico, a malincuore, il primo a far scoppiare la loro bolla: per quanto gli sarebbe piaciuto restare ancora così, avevano un'altra cosa da fare che gli piaceva ancora di più.

"Ci alziamo, core mij? Tra poco arriva pure il servizio in camera, così mangiamo qualcosa."

Claudio annuì immediatamente, lasciandosi andare ad uno sbadiglio spontaneo: coccolare Ulisse, bearsi della bellezza di Domenico e godersi il suo tepore, il tutto con il suono delle onde in sottofondo, gli aveva fatto tornare un piacevole torpore in corpo, ma il pensiero di ciò che avrebbero fatto tra poche ore lo teneva ben sveglio nella testa e nel cuore. Lasciò un'ultima carezza ad Ulisse e si mise a sedere, sollevando leggermente un pugno in segno d'incoraggiamento.

"Daje."

Mormorò in risposta, con voce ancora assonnata.

Domenico sgranò appena gli occhi, piacevolmente sorpreso da quell'esclamazione, e ridacchiò.

"Come, scusa?"

Domandò divertito, mettendosi a sedere. Non aveva mai, o quasi, sentito Claudio usare espressioni dialettali.

Claudio sbuffò appena, scherzoso -sapeva che Domenico non era abituato a sentirlo esprimersi in quel modo, ma era proprio per questo che lui l'aveva fatto-, e rivolse all'altro uno sguardo divertito e di sfida.

"Daje!"

Ripeté, sottolineando bene la parola.

"Oh, guarda che so' de Roma io, eh!"

Aggiunse, marcando volutamente l'accento romano che normalmente non possedeva.

Domenico scoppiò a ridere, incapace di contenersi, e tanto bastò a Claudio per fare altrettanto, come in un meccanismo perfetto, ma fu proprio lui ad interrompere quello scorrere di risate avvicinando le proprie labbra a quelle dell'altro in un bacio rapido e morbido.

"Andiamo amore mio, dai. Il nostro futuro ci attende."

Disse in un sussurro, accennando un sorriso.

Domenico annuì, ricambiando il sorriso, e si sporse a restituirgli il bacio.

"Non facciamolo aspettare ancora."
*****

Da come si era presentato il mattino, era chiaro che quella sarebbe stata una splendida giornata, 'Perfetta per giurarsi amore eterno.', pensò Simone, disteso supino nel grande letto: dal balcone aperto proveniva il suono delle onde del mare che arrivava alle orecchie come una dolce melodia, ed il suo profumo intenso e salato che gli stuzzicava il naso -per un istante ripensò alle gite a mare con suo padre, alla pizza rossa con cui si sporcava sempre tutta la faccia, a Dante che, ridacchiando, gliela puliva con delicatezza, alle sfide al biliardino che vinceva sempre, ma solo perché suo padre preferiva perdere pur di regalargli un po' di felicità- accompagnato da un vento fresco e leggero che gli accarezzava la pelle.

Ad illuminare tutto questo c'era il Sole, alto nel cielo e lontanissimo, come un attento guardiano, ma Simone poteva considerarsi fortunato perché lui, il Sole, ce l'aveva più vicino che mai e ne percepiva benissimo il calore: un altro astro, certamente più piccolo, gli dormiva sul petto ed era quello, per lui, il vero Sole. Gli bastava abbassare appena lo sguardo per vedere i suoi raggi morbidi che ricadevano scomposti sulla propria pelle nuda ed il viso, ricoperto dalla consueta barbetta, completamente rilassato, infatti gli occhi non si agitavano dietro le palpebre morbide dalle ciglia lunghissime, e poteva sentire il suo respiro caldo, lento e regolare e perfino un po' rumoroso: era sereno, il suo Sole, e lui non poteva esserne più felice.

Se ne stavano stretti l'uno all'altro -Manuel con il braccio intorno al busto di Simone che gli faceva da cuscino, mentre Simone con un braccio gli cingeva la schiena e con l'altro, invece, aveva raggiunto il suo e lo copriva, lasciandovi lievi carezze- in un abbraccio che sarebbe potuto durare in eterno, ma che per forza di cose dovettero interrompere. Due tocchi leggeri, infatti, risuonarono sul legno della porta e Simone volse subito lo sguardo in quella direzione, accennando un sorriso.

"Ah, finalmente!"

Mormorò tra sé e sé, soddisfatto. Facendo molta attenzione a non svegliare Manuel, il quale evidentemente non aveva sentito nulla e stava continuando a dormire, si alzò agilmente -ora poteva farlo, la gamba gli era completamente guarita-, avendo cura di far adagiare dolcemente il capo del proprio ragazzo sul cuscino e ricoprendogli il corpo nudo con il lenzuolo, indossò velocemente i boxer ed una maglietta che erano finiti ai piedi del letto, raggiunse la zona giorno della camera ed andò ad aprire, rivolgendo un sorriso cordiale al cameriere davanti a sé. Prese il carrello che quello gli offriva, lo ringraziò -tentò anche di lasciargli una mancia, ma il cameriere la rifiutò dicendo che non fosse necessaria-, chiuse la porta e si diresse verso lo spazio per la notte, così allegro che quasi gli sembrava di star fluttuando a qualche centimetro da terra, carrellino compreso. Non vedeva l'ora di fare quella piccola sorpresa a Manuel.

Manuel, in quei pochi minuti, si era svegliato e non perché avesse sentito dei rumori o perché fosse arrivato alla fine del proprio sonno -anzi, se fosse dipeso da lui avrebbe continuato a dormire almeno per un'altra abbondante mezz'ora-, ma perché si era sentito improvvisamente incompleto, proprio come se gli fosse venuta a mancare una parte di sé, ed il letto dell'hotel, per quanto comodo e accogliente, non era certamente Simone.

Si accorse subito che l’altro non c'era, ma non fece in tempo a chiedersi dove fosse che lo sentì avvicinarsi alla zona della camera e istintivamente si mise a sedere -nel farlo, il lenzuolo gli scivolò dal busto e capì dunque che Simone lo aveva coperto prima di allontanarsi, e sorrise al pensiero-, voltandosi verso di lui: avanzava sorridente, bello come sempre, con i ricci neri ancora arruffati dal sonno -e da lui!- e dopo qualche istante si accorse anche del carrellino coperto che spingeva davanti a sé, a cui rivolse uno sguardo confuso.

"Ma che è, sto ancora sognando?"

Biascicò, con voce impastata.

Simone accennò una risatina, intenerito dalla sua espressione che era ancora più tenera perché contornata dai capelli arruffati: sembrava un paperotto assonnato in tutto e per tutto!

"Servizio in camera! L'ho prenotato io, è tutto vero!"

Annunciò dunque, per fugare i suoi dubbi, mentre copriva la distanza fino al letto; una volta lì accanto, scoprì il carrello con un gesto teatrale enfatizzato da un sonoro "Tadan!".

Manuel, ora che cominciava a svegliarsi un po' di più, capì anche che aveva ben poco per cui essere confuso dato che quello, ormai da una buona manciata di mesi, era uno scenario che si ripeteva anche a casa, quasi ogni giorno. Non che gli dispiacesse iniziare la giornata facendo colazione a letto con il proprio ragazzo, ma avrebbe preferito che si alternassero per prepararla e servirla, ed invece era sempre Simone che si svegliava per primo, secondo un orologio interno che lui invece non possedeva, battendolo sul tempo.

Gli rivolse un caldo sorriso, ancora pieno di sonno ma sincero e affettuoso, e allungò una mano a posargli una carezza sul braccio.

"Ti ringrazio, ma non ce n'era bisogno, come non ce n'è ogni volta che lo fai. Ormai lo sai, Cerbiattino, no?"

Commentò, con voce dolce. Erano mesi ormai che Simone gli donava tantissime cure e premure, più del solito, e credeva che lo facesse per sdebitarsi, in un certo senso, ma era proprio per questo che gli ripeteva ogni volta quanto non fosse necessario fare tutto ciò: si era preso cura di lui quando aveva la gamba rotta perché lo amava, ed ora non aveva bisogno di un pagamento o qualcosa del genere: vederlo felice e in grado di camminare, correre e saltare sulle sue gambe, era la ricompensa migliore che potesse desiderare.

Simone alzò gli occhi al cielo, come ogni volta che Manuel gli faceva quell'appunto, ma non era innervosito o esasperato, infatti sorrideva, allegro e leggero: Manuel si era preso cura di lui per mesi mentre la propria gamba guariva, non gli aveva fatto mai mancare nulla di ciò che gli serviva e anche di ciò che non gli serviva, e adesso lui voleva soltanto farlo sentire altrettanto amato e protetto. Non lo faceva perché si sentiva in debito, ma perché voleva dargli tutte quelle attenzioni e premure che non era stato in grado di dargli quando le proprie possibilità di movimento erano parecchio ridotte non tanto dal gesso, quanto da Manuel stesso che non gli permetteva di fare troppi sforzi.

"Lo so, Paperotto, ma voglio coccolarti e prenderti cura di te come tu hai fatto con me."

Rispose con tono pacato, come ogni volta.

Manuel incrociò le braccia ed accennò un sorriso, scrollando le spalle.

"Io però non c'ho 'na gamba rotta."

Simone soffiò via con un piccolo sbuffo quell'obiezione, che per lui non aveva nessun valore, e si chinò a dargli un bacio tra i capelli arruffati, che lo investirono con il loro profumo fresco, passandovi una mano in una morbida carezza.

"E questa è decisamente una fortuna, ma al tempo stesso non è un motivo valido per impedirmi di viziarti."

Disse con voce decisa ma affettuosa, e per sottolineare il concetto spostò il vassoio con la colazione dal carrello al letto, facendo attenzione a non far cadere nulla.
Manuel liberò una risatina divertita e, come sempre, finì per arrendersi a quell'attacco d'amore, l'unica sfida in cui anche perdendo si vinceva. Solo allora si decise a dare uno sguardo più approfondito alla colazione che aveva davanti e scoprì che su quel vassoio, che era più ampio di quanto si aspettasse, c'era ogni ben di Dio, disposto con estrema cura in modo che nessuno spazio fosse sprecato: una brocca di succo di frutta fresco ed un'altra di latte bianchissimo, due bicchieri di yogurt affiancati da un barattolo di cereali dall'aspetto fragrante, biscotti di più tipi e cornetti che, dal profumo, era evidente fossero appena sfornati, ed infine piccoli dolci di pasticceria tra cui non mancavano i tipici babbà e sfogliatelle. Tutto, alla vista e all'olfatto, faceva venire l'acquolina in bocca e Manuel percepì il proprio stomaco gorgogliare, anche se non così forte da poter essere sentito all'esterno.

"Certo che co' tutta 'sta roba ci si può sfamare tutti gli invitati di oggi..."

Cominciò a dire, ammirato, poi però si portò due dita al mento e prese a far passare e ripassare lo sguardo sul vassoio, come se fosse stato alla ricerca di qualcosa.

"Mh, eppure ce manca qualcosa..."

Aggiunse, vago.

Simone sgranò appena gli occhi, colto alla sprovvista: spostò lo sguardo sul vassoio e non capiva cosa potesse mancare, si era assicurato di farsi portare un po' di tutto, ma non era eccessivamente preoccupato perché sicuramente la situazione si poteva risolvere. Tornò a guardare Manuel, sorridendogli, e fece spallucce.

"E cosa? Dimmi quello che ti va e te lo faccio portare subito! C'è anche la colazione salata, se vuoi..."

Cominciò a dire, deciso a dare al suo ragazzo tutto ciò che desiderava, ma fu proprio Manuel ad interromperlo con una risatina.

"Devi portare te stesso qua, Cerbiattino, sei te che manchi!"

Esclamò allegro, battendo piano una mano sul materasso morbido.

"E togliti quella cosa, però."

Aggiunse, accennando alla sua maglietta con il capo.

Simone liberò una risatina e con essa andò via anche quel poco di preoccupazione che aveva sentito, sciolta come un cubetto di ghiaccio al Sole. Amava Manuel anche per quel suo lato burlone che ormai aveva imparato a conoscere bene, dal momento che stavano insieme da più di un anno, ma che ancora non sapeva prevedere -e mai avrebbe voluto imparare a farlo-, e lo amava ogni giorno di più. Si affrettò a togliersi la maglietta, che finì in un punto non meglio precisato della camera esattamente come la sera precedente, e a prendere posto accanto a lui, poi con una mano gli sollevò il viso con delicatezza, portando le dita sotto il suo mento, e si avvicinò a baciarlo a fior di labbra.

"Sono qui, Manuel. Anche se mi allontano un po', non me ne vado per davvero. Mai."

Sussurrò quella promessa sulla sua bocca, guardandolo dritto negli occhi, mentre gli accarezzava una guancia con la mano che intanto aveva spostato.

Manuel si beò del sapore dolce di quella promessa che sembrava miele e fece incontrare nuovamente le loro labbra in un bacio morbido, leggero, per poi rivolgergli un caldo sorriso.

"Nemmeno io, Simone, nemmeno io."

Giurò a bassa voce, mantenendo gli occhi nei suoi, e fu Simone, ora, a godersi il sapore del miele.

Senza dirsi una sola parola, bastò uno sguardo d'intesa, fecero toccare le loro fronti in un gesto affettuoso, quasi animalesco, che li portò a riempire la stanza di risatine morbide, poi così come si erano uniti si separarono e, mantenendo il sorriso, rivolsero la loro attenzione alla colazione.

Manuel riempì due bicchieri di succo al melograno, ne porse uno a Simone e bevve un sorso dal proprio, prima di afferrare un babbà e cominciare a mangiarlo con gusto.

"Mazza quanto è bono..."

Mugugnò mentre masticava, roteando una mano in aria per sottolineare il concetto.

Simone accennò una piccola risatina, un po' intenerita e un po' divertita, a quella scena così spontanea che subito prese posto nel proprio cuore, poi mandò giù un sorso di succo, ma non prese nulla da mangiare per sé. Guardò Manuel -senza neanche tentare di non darlo a vedere, che tanto sarebbe stato inutile- finire il babbà in pochi bocconi, bere un po' di succo e poi passare ad una zeppola ripiena di crema che addentò con la stessa foga, con la determinazione di chi sapeva cosa voleva e avrebbe lottato per ottenerla anche se si trattava di un semplice dolcino con cui fare colazione, e mentre lo guardava, pensava.

Pensava alla piccola messinscena che aveva ideato -ed organizzato grazie all'aiuto di Claudio e Domenico- per chiedere a Manuel una cosa di immensurabile importanza: pensava alle parole da usare, poiché aveva di andare a braccio, seguendo il cuore, evitando di prepararsi un discorso che tanto, preso dall’agitazione, nemmeno avrebbe ricordato -ed in questo era stato sostenuto anche dai suoi due complici, i quali lo avevano rassicurato del fatto che avrebbe trovato le parole giuste una volta arrivato il momento-, ma ora temeva che non sarebbe riuscito ad esprimere i propri sentimenti in modo adeguato, e al solo pensiero si sentiva male; pensava ai gesti che avrebbe dovuto compiere, sperando di non risultare impacciato o ridicolo, e pensava anche alla reazione di Manuel, che sinceramente lo impensieriva non poco.

Non temeva un rifiuto netto, era sicuro che almeno questo non sarebbe successo perché era sicuro del suo amore, ma aveva paura che lui, spirito libero com'era, si sarebbe sentito messo alle strette, soprattutto perché erano entrambi poco più che ragazzini e quindi, al di là di qualche fugace fantasticheria romantica, a quell’età non si pensava in modo serio a determinate cose e normalmente anche per lui sarebbe stato così, ma se aveva imparato una lezione dal proprio rapimento -e da tutto ciò che era venuto dopo- era che la nostra vita, il nostro tempo, non è sempre nelle nostre mani, e dunque è meglio agire, parlare, prendere l'iniziativa finché ne si è in controllo, in modo da non avere rimpianti anche negli scenari peggiori.

Per tutti questi pensieri, quindi, sentiva di avere lo stomaco chiuso e perfino finire quel bicchiere di succo gli costava una discreta fatica.

Manuel si accorse subito di avere quello sguardo da cerbiatto addosso, una sensazione ormai più che famigliare ed impossibile da non avvertire, e si voltò verso di lui trovando proprio quegli occhi scuri e bellissimi illuminati dalla dolcezza com'erano sempre stati e come sempre sarebbero stati -anche tra cent'anni, ne era sicuro- ma con un'ombra di preoccupazione che ne spegneva in parte quella luce.

"Hey, che c'è, Simo? Tutta questa colazione e non mangi niente? Non hai fame?"

Domandò con voce bassa e calma, premuroso.

Simone buttò fuori un sospiro, facendo spallucce.

"No, in realtà no, sarà che ho mangiato tanto ieri sera. Recupero a pranzo, però, non ti preoccupare."

Mormorò, accennando poi un sorrisetto per cercare di rassicurarlo.

Manuel non si lasciò convincere e contrasse le labbra in una piccola smorfia preoccupata. Lui e Simone si parlavano, si dicevano sempre tutto, ed era certo che anche stavolta qualsiasi cosa fosse a disturbare il suo animo -perché era certo che ci fosse qualcosa- sarebbe venuta fuori; non era preoccupato per questo, e certamente non avrebbe forzato Simone a parlare se ancora non sentiva che fosse arrivato il momento giusto. Lo preoccupava, però, il fatto che mancavano un numero imprecisato -ma senz'altro elevato- di ore al pranzo e Simone non poteva restare a digiuno fino ad allora, quindi in questo avrebbe insistito un po'.

"Ma qualcosa la devi mettere sotto i denti, non puoi mangiarti solo me con gli occhi!"

Esclamò, cercando di alleggerire il momento.

Simone, in effetti, liberò una risatina leggera.

"I miei occhi non sono mai sazi di te"

Ribatté sorridendo morbidamente, ripetendo una frase che Manuel gli aveva detto tanto tempo prima -e che loro avevano preso a dirsi ad ogni buona occasione- per cercare di sviare il discorso. Non si trattava di una bugia, comunque, perché lui sentiva che avrebbe potuto passare la vita a guardare Manuel e che non avrebbe avuto più bisogno di mangiare, di bere o di qualsiasi altra cosa, ma non era esattamente quello il motivo per il quale glielo stava dicendo ora.

Manuel ridacchiò con dolcezza, ma per quanto la frase ebbe effetto su di lui, non si lasciò abbindolare ed allungò una mano ad accarezzare la guancia calda di Simone.

"E ti ringrazio, amore, ma ti ricordo che siamo ad un matrimonio e passeranno ore prima che riusciremo anche solo a vede' qualcosa de commestibile. Poi aggiungici l'emozione da testimone ed il caldo, guarda là che Sole che ce sta, e va a finire che svieni!"

Prese un cornetto, di quelli con la crema che tanto gli piacevano, e glielo avvicinò alla bocca.

"Dai, Cerbiattino..."

Sussurrò, con infinito affetto.

Simone spostò lo sguardo sul cornetto, così vicino che poteva ammirarne la doratura perfetta, e si sentì quasi stordire dal profumo dolce ed invitante che emanava: forse cominciava ad avere un po' di fame, in effetti, e così diede un piccolo morso al dolce, scoprendo che era tanto buono quanto bello, poi lo prese, togliendolo dalla mano di Manuel, e continuò a mangiarlo lentamente e con gusto.

Manuel sorrise intenerito e lo guardò mangiare pazientemente per tutto il tempo, osservando i suoi morsi delicati ed eleganti proprio come quelli di un cerbiatto perfettone e la sua espressione che pareva rilassarsi, almeno un po', addolcita dalla crema. Intanto, non poté fare a meno di ripassare in mente ciò che aveva organizzato -con il sostegno di Claudio e Domenico- per porre a Simone la domanda più importante della vita: ripensò al discorso che aveva preparato -nulla di troppo lungo o articolato perché di certo non voleva fare un comizio, ma più che adatto ad esprimere ciò che provava- e che stavolta era deciso a ricordare -a differenza di quando si era dichiarato a Simone per la prima volta ed era finito a parlare, o meglio, balbettare a ruota libera-, tanto che lo aveva ripetuto un'infinità di volte ai suoi due complici, i quali lo avevano rassicurato in ogni modo possibile che lo aveva ormai imparato alla perfezione; ripensò ai gesti che avrebbe dovuto compiere, in particolare uno, fondamentale, che non doveva risultare meccanico, ma morbido e armonioso, ed infine pensò a come avrebbe reagito Simone.

Era certo che non gli avrebbe risposto con un rifiuto completo, non aveva dubbi sul suo amore, ma temeva che Simone, abituato a pianificare tutto, si sarebbe potuto vedere messo davanti ad una tappa del cammino della vita troppo anticipata rispetto ai tempi normali -anche se lui avrebbe messo subito in chiaro che non ci sarebbe stata alcuna fretta-: del resto erano poco più che ragazzini, era presto per pensare a certe cose, ed infatti nemmeno lui in una situazione normale ci avrebbe pensato, non seriamente almeno, ma il rapimento di Simone e tutte le altre esperienze che erano venute con esso gli avevano fatto capire che è sempre meglio cogliere l'attimo perché non sempre si può avere il controllo sulle cose, in modo da non avere rimpianti.

Tutti questi pensieri lo avevano messo in agitazione e, di conseguenza, gli era venuta una gran fame, per questo stava mangiando con foga fino a pochi attimi prima.
Simone si accorse di avere lo sguardo di Manuel su di sé ed era abbastanza sicuro che non fosse soltanto perché voleva accertarsi che mangiasse: lo sentiva pesante, come se ci fosse qualcosa che vi gravava all'interno, e quando lo raggiunse con il proprio si trovò davanti ai suoi occhi ardenti come sempre, ma spenti da qualcosa che non riusciva a decifrare.

"Manu, tutto bene?"

Domandò con dolcezza, leggermente accigliato a causa della preoccupazione.

Manuel accennò un sorriso ed annuì, cominciando a mangiucchiare un biscotto per non far preoccupare il compagno.

"Sì, tranquillo Simo, tutto a posto. Mi ero un attimo incantato, tutto qua... è che sei bello pure quando magni!"

Rispose, rivolgendogli poi un sorriso più aperto e luminoso. Non gli aveva detto una bugia vera e propria, dal momento che spesso e volentieri lui si incantava ad osservarlo anche mentre compiva i gesti più semplici, come in questo caso, ma non era certamente il motivo principale di tanta insistenza.

"Certo che è proprio una giornata bellissima oggi, eh?"

Aggiunse, accennando con il capo al balcone aperto, da cui l'estate entrava nella stanza. 'Una giornata perfetta per promettersi di amarsi per sempre.', si ritrovò a pensare.

Simone lo osservò per un paio di secondi prima di distendere l'espressione del viso e sospirare: aveva capito che Manuel, per qualche motivo, non gli stava dicendo la verità, ma quel motivo, qualunque esso fosse, era senz'altro valido quindi lo avrebbe rispettato. Era rassicurato, inoltre, dal fatto che tra loro non c'erano più segreti, perché avevano imparato a dirsi qualunque cosa, negativa o positiva che fosse, e prima o poi avrebbero parlato anche di questa, doveva solo avere pazienza e rispettare i suoi tempi, come facevano a vicenda. Gli sorrise, quindi, e si voltò verso il balcone, assecondando con il capo il suo gesto. Un rivolo di brezza un po' più forte degli altri portò un leggero odore di sale al proprio naso, investendolo piacevolmente. Lì, in quella stanza così in alto, sembrava quasi di trovarsi in un mondo sospeso.

"E Claudio e Domenico se la meritano proprio, una bella giornata..."

Commentò di rimando, con voce morbida e piena dell'affetto che provava verso quell'avvocato e quell'ispettore -anche se ormai pensare a loro in quei termini era strano, sembrava quasi sbagliato dal momento che li considerava parte della famiglia- senza i quali, molto probabilmente, non sarebbe stato lì. Osservava la distesa blu del cielo e del mare, ma le proprie parole non si riferivano strettamente allo stato del meteo.

Manuel diede un ultimo morso al biscotto, poi sorrise.

"Secondo me non ne vedranno più de giornate brutte."

Ribatté, percependo il reale significato delle parole di Simone. Sospirò pesantemente, scuotendo il capo con incredulità.

"Io proprio nun me riesco a capacità che quei due se so' amati per quindici anni restando lontani. Io penso che sarei impazzito."

Aggiunse, con la voce incrinata da un amaro dispiacere. Nessuno meritava una vita simile, tanto meno quei due uomini che per lui erano praticamente il padre che non aveva mai avuto -il destino gliene aveva tolto uno che probabilmente non si sarebbe mai curato di lui, ma in cambio gliene aveva dati ben due che gli volevano un bene dell’anima-, ed era assurdo pensare che, mesi addietro, era stato sul punto di condannare anche se stesso e Simone a quell'infelicità. Sì, a volte ci ripensava ancora, più spesso di quanto sarebbe stato salutare fare.

Simone si voltò nuovamente verso di lui, attratto dalle sue parole in cui percepiva un peso proprio come nel suo sguardo, e si chinò a baciargli la spalla calda.

"Io ti avrei aspettato."

Disse con voce chiara e sicura, sollevando gli occhi verso di lui. Non sapeva perché Manuel avesse fatto il paragone proprio con sé stesso, ma sapeva che in qualche modo doveva rassicurarlo.

Manuel sospirò, portando una mano tra i capelli di Simone per fargli una carezza morbida. Il pensiero che Simone lo avrebbe aspettato comunque, nonostante tutto, era rassicurante, ma al tempo stesso era la parte peggiore di quella condanna: vedere la persona che ami stare male a causa tua, ma decidere comunque di stargli lontano perché standogli vicino la faresti stare peggio, sperando ogni giorno che ti dimentichi per sempre. Davvero non riusciva a capire come avesse fatto Claudio a rimanere lucido sapendo che Domenico lo aspettava e che lo avrebbe sempre aspettato.

"Anch'io, ma sarei impazzito."

Replicò, abbozzando un sorriso mesto per poi sospirare. Tanto valeva dirglielo.

"Per fortuna grazie a loro ce la siamo scampata..."

Simone si accigliò leggermente e rivolse a Manuel uno sguardo incuriosito, scostandosi dalla sua spalla e sollevando il capo per guardarlo al meglio.

"In che senso?"

Manuel prese un profondo sospiro e si voltò verso di lui, ma teneva gli occhi bassi, rivolti verso una piega del lenzuolo.

"Nel senso che quando...quando Sbarra ti ha...insomma, quando io ero lì e..."

Cominciò a dire, fermandosi subito perché non sapeva come dirlo, lui che si vantava di saper giocare bene con le parole, per non riaprire ferite ormai chiuse.

Ci pensò Simone a completare la frase, a parlare per lui, ed intanto portò una mano sulla schiena di Manuel per accarezzarlo con lenta dolcezza e confortarlo.
"E ha detto a Zucca di rompermi una gamba."

Disse, con voce ferma e sicura, pur avvertendo un brivido attraversargli la schiena sotto la pelle. Era un ricordo doloroso, ma lontano, e dunque non faceva più così paura. Stava bene, ora, e anche la gamba gli era del tutto guarita.

Manuel alzò lo sguardo verso di lui, incrociò i suoi occhi fieri, che non tremavano, e gli rivolse un sorriso appena abbozzato ma orgoglioso, poi annuì.

"Sì, quello. Ecco, quando è successo..."

Tornò a guardare in basso, verso la stessa piega, che prese a torcere con le dita.

"...ho pensato che la cosa migliore da fare sarebbe stata lasciarti, una volta che ti avrei riportato a casa. Credevo fosse la cosa migliore da fare per non farti soffrire, perché mi sembrava evidente che non sarei stato capace di prendermi cura di te."

Tacque per qualche istante, il tempo di mandare giù un po' di saliva e riordinare i pensieri.

Simone lo ascoltava in silenzio e rispettò il suo, di silenzio, restando in attesa e continuando ad accarezzarlo. Mesi e mesi prima aveva intuito, da alcuni suoi atteggiamenti e discorsi, che Manuel fosse stato attraversato da quel pensiero e ne aveva intuite anche le motivazioni, ma poi Manuel non l'aveva trasformato in realtà, quindi doveva essere successo qualcosa che lo aveva spinto a cambiare idea.

Manuel riprese a parlare, lo doveva a Simone, rincuorato dalle sue carezze.

"Poi però Domenico mi ha raccontato la storia sua e di Claudio, di come s'erano conosciuti e poi lasciati...vabbè, la sai pure tu, non mi dilungo. E ascoltandola ho capito che lasciarti non sarebbe servito, anzi sarebbe stato peggio perché...perché t'avrei inflitto un dolore vero, profondo, che nun guarisce mai e non si placa nemmeno un po' e non volevo che tu soffrissi così. Non ti meritavi di soffrire come stava soffrendo Domenico."

Concluse, stringendosi nelle spalle. Solo ora trovò il coraggio di tornare a guardare Simone negli occhi, con i propri che erano mesti.

"Avrei dovuto dirtelo prima, lo so, ma...ma nun me sembrava mai il momento adatto..."

Accennò una risatina dal sapore dolceamaro.

"...e forse non lo è manco questo, considerando che stamo ad un matrimonio, ma ormai l'ho fatto."

Mormorò, scrollando appena le spalle.

Simone gli sorrise, caldo e rassicurante, e lo strinse in un abbraccio, dandogli subito un bacio sulla guancia. Era contento che gliel'avesse detto, che si fosse liberato, e non gli importava che ci avesse impiegato mesi per fargli quella piccola ma importante confessione, non era risentito.

"E nemmeno tu meritavi di soffrire come soffriva Claudio, capito?"

Commentò, deciso ed allegro al tempo stesso, sottolineando il concetto con un altro, stavolta a fior di labbra.

Manuel ritrovò il proprio sorriso in quel bacio e annuì, sentendosi più leggero.

"Ho capito, sì."

Mormorò, tranquillo.

Simone, mantenendo il sorriso, gli fece una carezza tra i capelli, scostandogli un ciuffo ribelle dalla fronte.

"Claudio e Domenico ci hanno salvati in più di un modo..."

Cominciò a dire, con voce bassa e seria, piena di riconoscenza.

"...ora, il minimo che possiamo fare per loro è arrivare puntuali alle loro nozze!"

Aggiunse, ben più allegro, arruffando i ricci già scomposti dell'altro.

Manuel scoppiò a ridere ed annuì, in accordo con il compagno, ma a discapito di ciò che aveva appena detto lo cinse con le braccia e si fiondò sulle sue labbra, dando inizio ad un bacio che Simone ricambiò senza esitare, per prendere ancora un momento per se stessi.

Fu lo stesso Manuel ad alzarsi in piedi, poco dopo, a fare il giro del letto e porgere una mano a Simone per aiutarlo a fare lo stesso.

"Annamo, dai. Nun sia mai che il matrimonio del secolo ritarda per colpa nostra!"

Esclamò, con affettuoso sarcasmo.

Simone, ridacchiando, afferrò la sua mano ed uscì dal letto, lasciandosi condurre dal compagno verso l'ampio e lussuoso bagno della camera.

Manuel andò dritto verso la doccia, deciso come un vento impetuoso, portandosi Simone con sé, ma Simone arrestò i propri passi a poca distanza dalla grande cabina, fermo come un albero dalle radici solide, e curvò le labbra in un sorrisetto sghembo.

Manuel, costretto a fermarsi a propria volta, si voltò verso di lui e dapprima gli rivolse un'espressione confusa, ma poi nei suoi occhioni profondi trovò il senso di quel gesto e ridacchiò sommessamente. Gli si avvicinò, facendo un piccolo cenno d'assenso col capo, e senza lasciare la stretta delle loro mani portò quella libera ad accarezzargli il viso morbido.

"D'accordo, ho capito, come vuoi: ce la facciamo separati."

Mormorò, con pacata rassegnazione. In fondo, sapeva anche lui che fosse la cosa migliore per non rischiare di perdere tempo.

Simone sospirò e piegò il capo verso la mano di Manuel per incontrarne meglio la carezza, strofinandovi appena il viso, poi lasciò un bacio su quella stessa mano che prese nella propria libera.

"Non è che non voglio farmi la doccia con te, anzi, ma...ma è meglio non fare tardi."

Puntualizzò, con tono di scuse, per essere certo che Manuel non si sentisse rifiutato.

Manuel ridacchiò dolcemente, si sentiva tranquillo e capiva perfettamente il punto di vista del compagno, quindi per rassicurarlo si sporse verso il suo viso e lo baciò a fior di labbra.

"Sei proprio un perfettone."

Mormorò poi, separandosi solo quanto bastava ad articolare le parole, con voce melliflua ed un sorrisetto sghembo sul viso.

Simone, messa da parte ogni paranoia grazie a quel fugace incontro di labbra, si concesse di ridacchiare mentre sentiva un piacevole brivido attraversargli tutto il corpo partendo proprio dalla bocca, ancora così vicina a quella di Manuel. Certo, ora era un po' più difficile seguire la sua stessa idea, ma doveva riuscirci. La risata si trasformò in un sorriso dolce accompagnato da occhi brillanti d'affetto che puntava dritti nei suoi ed il sorriso si trasformò in un bacio leggero, del tutto simile al precedente.

"Il tuo!"

Sussurrò sulle sue labbra, mentre con la mano tracciava piccole carezze sul dorso di quella del compagno.

Manuel sorrise a trentadue denti, felice in un modo indescrivibile, con il cuore che batteva tanto forte da sembrare un uccello che scalpitava per liberarsi dalle sua gabbia d'ossa, come ogni volta che Simone gli diceva di essere suo -ed erano ormai tante!-: non era una questione di possesso, Simone era libero in tutto e per tutto, ma di puro sollievo, perché c'era stato un periodo in cui aveva temuto di averlo perso ed ora invece era con lui e sarebbero rimasti insieme per tutta la vita.

"Ed io sono il tuo cazzaro!"

Esclamò, allegro e sincero, parlando con il cuore in mano.

Simone dischiuse le labbra in un sorriso aperto e luminoso, mentre il proprio cuore gli sembrava voler volare fuori dal petto per la gioia immensa ed incontenibile che provava, come ogni volta che Manuel gli ripeteva di essere suo -talmente tante che ormai non avrebbe saputo nemmeno quantificarle-: anche lui non ne faceva una questione di possesso, non avrebbe mai potuto limitare o costringere Manuel in alcun modo, ma di sincera incredulità perché per lungo tempo aveva pensato che avrebbe visto Manuel al fianco di una donna per tutta la vita, lontano da lui ed irraggiungibile, ed ora invece gli era accanto e sarebbero rimasti insieme per tutta la vita.

"Un perfettone ed un cazzaro, siamo proprio una bella coppia."

Commentò, con affettuoso sarcasmo.

Manuel fece una risatina ed annuì, deciso.

"La più bella de tutte."

Si scambiarono un altro, ultimo -almeno per ora- bacio, un bacio un po' più corporeo che univa labbra, lingue e carezze, ma dopo poco si separarono, prendendo strade diverse in quella stanza da bagno che sembrava un salotto per quanto era grande: Manuel andò dritto, verso la cabina della doccia sul fondo ed una volta all'interno prese subito a far scorrere l'acqua tiepida sul proprio corpo, mentre Simone andò a destra, verso il lavandino in marmo, e cominciò a lavarsi i denti con cura.

Dopo pochissimi minuti, tuttavia, Manuel colse una ghiotta occasione per uscire dalla doccia e avvicinarsi a passo felpato a Simone, che tanto gli dava le spalle, per cingerlo tra le braccia, ridendo allegro e soddisfatto.

Simone, che era momentaneamente distratto e non stava guardando verso lo specchio in quanto aveva inclinato il capo in avanti per sputare l'acqua, si sentì all'improvviso avvolgere da un abbraccio stretto e bagnato, ed avvertì le goccioline d'acqua attaccarsi alla propria pelle. Liberò un verso di sorpresa, che poi tanto sorpresa non era.

"Oh, ma che fai? Mi bagni tutto!"

Esclamò, quasi lamentoso, e così dicendo alzò lo sguardo e si trovò davanti, attraverso lo specchio, il volto del proprio compagno illuminato da un sorriso splendente. Nonostante lo scherzo di cui era appena stato vittima, lo trovava meraviglioso, gli sembrava davvero un Sole e dai raggi di quel Sole si sentiva illuminato, per cui sorrise di rimando.

Manuel andò ad incontrare gli occhi del compagno con i propri ed accennò una risatina.

"Tanto te devi lava' lo stesso, no?"

Replicò con voce bassa, sfrontato come sapeva essere, sottolineando l'affermazione con un bacio nell'incavo del collo di Simone, ancora caldissimo e pregno del loro odore. Intanto, tracciava piccole carezze con il pollice sull'addome dell'altro, con disinvoltura.

Simone si sciolse in un sospiro d'approvazione e per un attimo raggiunse le mani di Manuel, incrociate su di sé, con le proprie, lasciandovi qualche breve carezza.

"Mh, mi sa che hai proprio ragione! E devo infilarmi immediatamente in doccia, non posso aspettare!"

Ribatté, leggermente sarcastico, poi con un movimento rapido si voltò nell'abbraccio, in modo da poter guardare il compagno in viso, e sollevò un indice, perentorio.

"Però facciamo i bravi, intesi?"

Disse deciso, ma sorridente, morbido nel suo stesso ordine. Aveva cambiato idea in fretta, ma in fondo anche lui aveva voglia di farsi la doccia con il suo Paperotto, esattamente come avevano preso abitudine a casa. Erano sempre dei momenti speciali, quelli, tutti per loro senza disturbi esterni.

Manuel annuì, sorridente, e posò un bacio leggero sulle sue labbra per rimarcare le proprie buone intenzioni. Non voleva fare nulla di chissà che, sapeva che non era il momento adatto, semplicemente gli sembrava triste -oltre che assurdo- dover lavarsi da solo, senza il suo Cerbiattino che era proprio lì! Sapeva, poi, che anche per l'altro era lo stesso.

"Simo', te l'ho detto, non voglio causare problemi alle nozze del secolo!"

Confermò con voce morbida, salendo con una mano ad accarezzargli una guancia.

Simone accennò una risatina e poi con un gesto del capo, accompagnato da due occhi vispi, indicò la cabina della doccia. Si avvicinarono tenendosi per mano e vennero accolti dal piacevole tepore che già si era formato tra quelle pareti di vetro.

La cabina era davvero spaziosa, aveva perfino delle sedute sui lati per poter stare più comodi, ma Manuel e Simone scelsero comunque di stare quanto più vicini possibile, tanto che quasi si sfioravano con i corpi e si toccavano con le anime.

Cominciarono a lavarsi sotto il getto regolare e costante, l'uno all'altro, seguendo una coreografia ormai consolidata, che non sbagliavano mai, una coreografia di cui soltanto loro conoscevano le mosse perché era solo loro e di nessun altro.

Erano lontani i tempi in cui la pelle di Simone era solcata da lividi neri come un cielo in tempesta, ora era pura, limpida come il cielo di quella giornata estiva, e bianca seppur leggermente arrossata dal Sole delle prime giornate al mare, e gli unici segni che vi comparivano erano quelli lasciati dall'amore di Manuel, ombre di baci e di piccoli morsi, che si affiancavano al tatuaggio con la formula di Einstein -segno di un amore ancora inconsapevole- e a quello, più recente, di un piccolo paperotto con un ramoscello in bocca -segno di un amore consapevole- sul lato destro del petto.

La pelle di Manuel, invece, era stata tinta dal Sole di un bel colorito bruno, ambrato, che faceva spiccare ancor di più i tatuaggi che la ornavano: la sirena sulla spalla sinistra, dove Simone poggiava il capo quando, seduti in riva al mare, lo abbracciava mentre guardavano insieme al tramonto; i tatuaggi dedicati ad Anita, quello sull'avambraccio sinistro con le due scritte MOM disposte a croce con un cuore al centro, di cui di tanto in tanto Simone tracciava i contorni in punta di dita, ed il pugnale sul braccio destro, anch'esso accompagnato dalla scritta MOM, che Manuel si era tatuato per imprimersi sulla pelle i dispiaceri che le aveva inferto e che Simone accarezzava quando lo teneva stretto a sé per ricordargli che quel dolore non c'era più; le rondini sui fianchi, alle quali Simone si aggrappava quando facevano l'amore; il verso di una canzone di qualche anno fa, I need some hot stuff baby this evening. I need some hot stuff baby tonight, sul costato, che Simone sfiorava con studiata lentezza, canticchiando quelle parole con voce profonda e roca quando Manuel era disteso sotto di lui o accanto, perché non si stancava mai di provocarlo; l'occhio piangente al centro della pancia che Simone amava riempire di baci a schiocco e pernacchie che facevano ridere Manuel a crepapelle e trasformavano quelle lacrime di tristezza in lacrime di gioia; e, naturalmente, c'era il serpente al centro del petto, quello per cui Simone stravedeva, di cui sapeva riprodurre il percorso ad occhi chiusi e a cui non avrebbe mai smesso di dare attenzioni. Da qualche tempo, però, si era aggiunto un nuovo tatuaggio, sul lato sinistro del petto di Manuel, che riproduceva un tenero cerbiatto acciambellato ed addormentato e che era diventato il preferito di Simone, scalzando il serpente dal primo posto della sua personalissima classifica.

Manuel e Simone si erano disegnati quei tatuaggi a vicenda e se li erano regalati in occasione del loro primo anniversario come simbolo di amore eterno, ed era bello quando si abbracciavano perché anche il cerbiattino ed il paperotto si incontravano in quell'abbraccio.

Usciti dalla doccia, avvolti negli accappatoi bianchi con le iniziali dorate dell'hotel sul petto, si asciugarono a vicenda con cura e attenzione, senza mancare però di farsi un po' di solletico e qualche carezza ad ogni momento utile, catturando ogni piccola goccia d'acqua. Stettero anche ben attenti a sistemarsi accuratamente i ricci perché volevano essere perfetti in quell'occasione speciale: avevano un compito importante, d'altronde.

Tornati in camera, recuperarono i completi blu scuro e le camicie bianche dall'armadio e li indossarono rapidamente, facendo attenzione a non stropicciarli, ed in poco tempo furono praticamente pronti, mancavano solo dei piccoli dettagli.

Manuel afferrò con un sospiro di rassegnazione la cravatta che aveva appoggiato sul letto e si spostò davanti allo specchio, pronto a litigarci.

Simone, che già aveva indossato la propria cravatta, intercettò immediatamente il suo bisogno e gli andò accanto, tendendo una mano verso di lui.

"Dammi, Paperotto, ti aiuto io."

Disse, sorridente.

Manuel si voltò a guardarlo e gli sorrise di rimando, sollevato, porgendogli la striscia di stoffa che non sopportava per niente, ma per Claudio e Domenico avrebbe resistito.

"Grazie, Cerbiattino. Senza de te avrei dato di matto."

Commentò a bassa voce, con il viso leggermente sollevato, mentre il compagno gli faceva il nodo.

Simone ridacchiò, intenerito, e gli diede un buffetto sulla guancia.

"Sei perfetto."

Mormorò, prendendosi qualche istante per ammirarlo: non era uno spettacolo di tutti i giorni vedere il suo Manuel vestito in modo così elegante, e a lui ovviamente piaceva ugualmente qualsiasi cosa indossasse, ma il contrasto che si creava tra il suo aspetto sbarazzino e l'abito formale lo faceva impazzire. Sentì distintamente anche un sussulto d'emozione dentro di sé che gli inumidì gli occhi, pensando a quando, in un futuro più o meno lontano, Manuel avrebbe indossato un completo simile a quello, ma un po' diverso, per un'occasione simile a quella, ma un po' diversa, e sarebbe stato ancora più bello.

Manuel accennò una risatina che decorò le guance imporporate e scrollò le spalle.

"Sì, un perfetto pinguino!"

Esclamò, allontanandosi verso il tavolino della zona giorno.

Simone sollevò gli occhi al cielo e lo raggiunse, con un sorriso sghembo sulle labbra.

"Sei proprio un cazzaro!"

Esclamò, divertito.

Manuel annuì e si voltò verso di lui, con in mano due piccoli mazzolini di fiori sottili e bianchi che aveva preso da un vasetto sul tavolino, dove erano stati alloggiati il giorno prima.

"Il tuo!"

Mormorò, guardandolo negli occhi, mentre gli sistemava uno dei mazzolini nel taschino della giacca.

Simone sorrise, dolcemente, e prese l'altro.

"Il mio. E io sono il tuo perfettone."

Disse a bassa voce, infilandogli i fiorellini nel suo taschino, senza staccare gli occhi da lui.

Manuel gli sorrise, accarezzandogli una guancia.

"E sei perfetto."

Sussurrò, poi tacque e si prese qualche secondo per ammirarlo: Simone, a differenza sua, sembrava nato per indossare camicie come quella che gli mettevano in risalto il petto tonico e giacche che gli fasciavano il busto alla perfezione, e per quanto amasse i maglioni morbidi che l'altro prediligeva per la vita di tutti i giorni, stravedeva per l'abbinamento perfetto tra il suo aspetto angelico e il completo formale, che gli sembrava l'apoteosi della bellezza. Il cuore sussultò emozionato e gli si inumidirono gli occhi al pensiero che un giorno, non importava quanto lontano, Simone sarebbe stato altrettanto bello, anzi ancora di più, per la loro occasione speciale.

Simone accennò un sorriso imbarazzato, contornato da due guance un po' più rosse, e si sporse a dare al compagno un bacio morbido, leggero, per ringraziarlo.

"Andiamo a vedere che combinano Claudio e Domenico? Siamo i loro testimoni, dobbiamo farli rigare dritto!"

Esclamò divertito e Manuel annuì, ridacchiando.

"Sì, andiamo, che qua c'è il rischio che li troviamo ancora a letto!"

Ribatté, affettuosamente scherzoso, e Simone ridacchiò a propria volta.

Si presero per mano ed uscirono dalla camera, avviandosi lungo il corridoio per raggiungere la camera degli sposi, non troppo distante dalla loro.

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Capitolo 45
*** Epilogo – Eternamente ora (parte 2) ***


Un numero imprecisato di tocchi leggeri picchiettarono, in rapida successione, sulla porta della camera. Claudio e Domenico, impegnati a darsi una sistemata alle rispettive barbe, si fermarono e si scambiarono uno sguardo ed un sorriso d'intesa perché riconobbero la mano, anzi la manina, che continuava a bussare senza sosta.
Domenico afferrò al volo un asciugamano e se la passò in viso, per poi posarlo.

"Vado io, tanto qui ho finito."

Annunciò con voce leggera, sporgendosi a dare un bacio sulla guancia del compagno, ancora umida.

Claudio fece una risatina e annuì, poi con un cenno del capo indicò l'ingresso della camera.

"Vai, vai, prima che la nostra passerotta decida di sfondare la porta!"

Esclamò divertito, ed in entrambi il pensiero sfociò in una risata bassa, morbida, piena d'affetto e tenerezza. Erano perfettamente consapevoli, però, che quella piccoletta ne sarebbe stata perfettamente capace!

Domenico si avviò fuori, chiudendo la porta del bagno alle proprie spalle, e raggiunse a passo svelto quella d'ingresso mentre si stringeva meglio l'accappatoio in vita per evitare che si aprisse, in previsione di ciò che stava per accadere: non appena aprì la porta, infatti, si ritrovò travolto da un'ondata d'affetto, stretto tra due braccine piccole, ma forti, che sembravano decise a non lasciarlo più.

"Buongiorno zio!"

Esclamò Lucia, con una vocetta vispa e squillante.

Domenico si sciolse in un sorriso luminoso e si chinò subito a sollevare la propria nipotina, anche se ormai era cresciuta, aveva quasi sette anni, e stava diventando difficile prenderla in braccio. Non importava, però, perché tenerla stretta in un abbraccio valeva tutti i mal di schiena del mondo! Le posò un bacio tra i riccioletti scuri, nei quali spiccava una fascetta di raso gialla che si intonava perfettamente al vestitino che indossava, e poi le rivolse il sorriso che era tutto per lei.

"Buongiorno a te, passerottina mia! Come stai? Tutto bene?"

Lucia annuì, entusiasta, e sorrise scoprendo i dentini che le mancavano.

"Sì, benissimo! Sono tanto felice! E tu?"

Chiese inclinando leggermente il capo, facendo una carezza sulla guancia barbuta -che però non pungeva, anzi era morbida!- dello zio al quale voleva un mondo di bene. In realtà sapeva già la risposta a quella domanda, perché ormai da parecchio tempo lo zio sorrideva sempre, quindi era sempre felice!

Domenico liberò un piccolo sospiro e curvò le labbra in un sorriso morbido.

"Io non potrei essere più felice di così, tesoro mio."

Rispose, con infinita dolcezza. Spostò lo sguardo, poi, verso Sara, elegantissima nel suo tailleur verde, che aveva accompagnato la figlia -ma non era andata lì solo per quello- e le sorrise, ugualmente affettuoso.

"Buongiorno anche a te, Sara!"

Esclamò, sporgendosi a darle un bacio sulla guancia.

"Buongiorno, fratellone!"

Ribatté Sara, allegra, per poi contraccambiare il bacio.

Domenico, dunque, si spostò per farla passare e chiuse la porta dietro di lei.

"Com'era la camera? Vi siete trovati bene, avete avuto qualche problema?"

Domandò, senza nascondere un pizzico d'apprensione, mentre si spostavano nel salottino, e Sara scosse il capo, ridacchiando.

"Mimmo, siamo in un hotel extralusso, no che non ci sono stati problemi, sta' tranquillo."

Sollevò un sopracciglio, rivolgendo al fratello uno sguardo indagatore.

"L'unico problema, qua, sei tu che vuoi sposarti in accappatoio e pantofole!"

Aggiunse, indicando l'outfit del fratello con un cenno della mano, anche se non poteva certamente dirsi sorpresa dal momento che sapeva bene quanto lui fosse allergico alle formalità.

Domenico alzò gli occhi al cielo liberando un lamento di finta esasperazione, poi tornò a guardare la sorella.

"Sara, agg pacienz, so' pronto, m'aggia sul vest. E po’ comunque pur Claudio sta ancor accussì."

Rispose, indicandosi l'accappatoio con un cenno vago.

Sara liberò una risatina del tutto priva di cattiveria e diede un buffetto sulla guancia barbuta del fratello.

"Se a voi sta bene farvi fotografare così conciati, va bene anche per me."

Ribatté con lieve ironia, accennando con il capo alla macchina fotografica che portava al collo.

Domenico, dall'alto del suo essere il fratello maggiore, le rispose facendole il verso, accompagnandosi con una smorfia dal naso arricciato, scatenando in lei una risata cristallina che fece sorridere lui di rimando, intenerito: Sara ormai era una donna adulta, con un bellissimo lavoro, un marito affettuoso ed una figlia stupenda, certo, ma era pur sempre la sua sorellina!

"Non ti preoccupare, mo' Claudio arriva e facciamo tutto, ci sta tempo."

Aggiunse, tornato serio, ma senza perdere il sorriso.

Lucia, che già stava cercando Claudio con lo sguardo, guardandosi intorno con curiosità, colse la palla al balzo.

"Dov'è zio Claudio? Lo voglio salutare!"

Voleva bene a quel signore dagli occhi blu bellissimi e dolcissimi -quanto quelli dello zio Domenico- sia perché era molto gentile con lei -non si tirava mai indietro quando gli chiedeva di giocare insieme e si faceva fare di tutto, proprio come lo zio!- e sia perché si era accorta che da quando lo zio si era fidanzato con lui -le avevano spiegato, infatti, che anche due maschi o due femmine si potevano fidanzare, e le era sembrata una cosa molto giusta!- sorrideva di più, era di nuovo allegro, e di questo lei gli era molto grata. Per tutti questi motivi, quindi, le veniva naturale chiamarlo zio.

Domenico spostò lo sguardo su di lei e le sorrise teneramente.

"È a farsi bello, tesoro."

Rispose, divertito e affettuoso, mentre le faceva una carezza tra i capelli.

La bambina si accigliò appena, leggermente confusa, come se lo zio avesse appena detto qualcosa di strano.

"Ma lui è già bello!"

Esclamò, senza esitazioni.

Domenico, colto alla sprovvista da quella risposta così genuina, inarcò le sopracciglia per un attimo, ma poi la sua espressione sorpresa lasciò il posto ad una risata spontanea ed intenerita. Qualsiasi altro zio al mondo, probabilmente, sarebbe stato geloso di quell'affermazione tanto diretta, l'avrebbe vista come una sorta di minaccia al proprio primato nel cuore della nipote, ma lui no, non lo era affatto. Era felicissimo, anzi, di vedere che la sua adorata nipotina avesse legato così tanto -e così presto, praticamente fin dal primo istante- con il suo amato compagno, così come erano uniti nel proprio cuore. Senza contare, poi, che Lucia aveva ragione da vendere!

"Hai ragione, è il più bello del mondo."

Mormorò con dolcezza, per poi darle un morbido bacio sulla guancia, e lei come sempre ridacchiò per il solletico causato dalla sua barba.

"Dai, vediamo se è pronto."

Aggiunse, e così dicendo, tenendola ancora in braccio, si avvicinò alla porta del bagno e diede una leggera bussata.

"Claudio, possiamo? Qui c'è una principessa bellissima che chiede di te!"

Annunciò a voce alta, facendo l'occhiolino alla nipote, la quale liberò un'altra risata piccola e cristallina.

Claudio, al di là della porta, non riuscì a trattenere un sorriso sia perché non vedeva l'ora di riabbracciare quella piccoletta -nonostante non la vedesse soltanto dalla sera precedente, che avevano trascorso tutti insieme prima di ritirarsi nelle rispettive camere- sia per il tono affettuoso che Domenico aveva usato per parlare di lei, che non gli era sfuggito e che gli faceva sciogliere il cuore.

"Ma certo, entrate pure! Mi fa molto piacere salutare la principessa!"

Esclamò, con quella voce piena di gioco misto a sincero affetto e tenerezza che usava sempre con i bambini.

Lucia, non appena Domenico aprì la porta, si fece mettere a terra e si fiondò tra le braccia di Claudio, il quale si era inginocchiato e aveva spalancato le braccia per accoglierla.

"Ciao, zio!"

Esclamò lei, dandogli un bacino sulla guancia.

Claudio le sorrise, pieno di dolcezza, e si rialzò in piedi, mantenendola in braccio.

"Ciao a te, principessa! Lo sai che hai un vestito meraviglioso?"

Lucia sorrise, civettuola, e annuì con decisione perché sì, lo sapeva che era meraviglioso!

"Grazie, l'ho scelto io!"

Esclamò, orgogliosa. Chinò poi lo sguardo verso l'accappatoio che anche lo zio Claudio stava ancora indossando e fece una piccola smorfia di disappunto.

"Anche tu e lo zio Domenico vi dovete mettere i vestiti belli, altrimenti la mamma dice che vi fotografa così!"

I due sposi si scambiarono uno sguardo d'intesa e ridacchiarono per quella reazione senza riserve, poi Claudio tornò a guardare solo la nipote.

"È vero, hai ragione, e adesso io e lo zio ci vestiamo, ma prima dimmi come stai, mh? Hai dormito bene?"

Domandò, premuroso, accarezzandole una guancia.

Lucia annuì, allegra e convinta.

"Sì, sto benissimo! E poi ho sognato di essere una sirena e il mare era proprio blu blu, anche più dei tuoi occhi, zio! E non finiva proprio mai, era immenso, e io ci nuotavo dentro ma non ero mai stanca e c'erano tanti pesciolini colorati e ad un certo punto ho anche parlato con un delfino, però non mi ricordo che ha detto..."

Spiegò, agitando in aria le piccole mani per accompagnare il racconto, poi si fermò quando ebbe finito.

"È stato bellissimo!"

Sentenziò, liberando un lungo sospiro. I suoi occhietti, ora, si fecero più vispi e curiosi e li puntò direttamente in quelli dello zio.

"E tu hai sognato qualcosa, zio Claudio?"

Claudio liberò una leggerissima e breve risatina morbida che subito si trasformò in un sorriso, poi annuì.

"Sì, anch'io ho fatto un sogno bellissimo, sirenetta e sai, mi sembra ancora di esserci dentro."

Rispose a voce bassa, rivolgendo lo sguardo verso Domenico: era lui, lui e nessun altro, il proprio sogno più grande, e si sentiva anche estremamente fortunato perché era anche la propria realtà. 

Domenico, appoggiato allo stipite della porta, osservava i due con occhi pieni di tenerezza che non avrebbe mai staccato da loro, e ricambiò lo sguardo teneramente complice di Claudio con un sorriso innamorato: anche lui si riteneva fortunato perché non aveva bisogno di dormire o fantasticare per vivere il proprio sogno più grande, che aveva gli occhi blu come il cielo più limpido.

Lucia osservò quello scambio di sguardi con grande attenzione ed un sorriso allegro sulla piccola bocca: lei conosceva l'amore soltanto attraverso le storie, quelle che ormai sapeva leggere da sola ma che qualche volta ancora si faceva raccontare, o quelle che guardava nei cartoni animati, e i suoi zii le sembravano proprio due principi innamoratissimi usciti da una di quelle storie; era una storia, però, che non aveva il suo posto in un libro o in uno schermo, perché era una storia vera. Tornò a guardare solo lo zio Claudio e, avvicinata una manina alla sua guancia, gli diede un pizzicotto.

Claudio ebbe un sussulto di sorpresa e rivolse lo sguardo su di lei.

"Ouch!"

Esclamò platealmente, anche se in realtà non provava il minimo dolore.

"Sirenetta mia, perché l'hai fatto?"

Chiese, sorridendole.

Lucia gli sorrise di rimando.

"Così sei sicuro che è tutto vero!"

Rispose, convinta, poi si avvicinò al suo orecchio e parlò a voce bassissima.

"Te lo posso dire un segreto?"

Claudio annuì, con un gesto lento del capo.

"Certo che puoi, dimmi pure."

Lucia portò una mano a coprirsi mezza faccia, in modo da non far sentire proprio niente ad orecchie indiscrete, cioè a quelle dell'altro zio.

"Lo sai che zio Domenico ha detto che sei il più bello di tutti?"

Sussurrò, quasi impercettibilmente.

Claudio, infatti, dovette aguzzare bene le orecchie per captare questo segreto di evidente rilevanza nazionale -almeno per come riteneva Lucia-, ma si sciolse in un sorriso spontaneo ed innamorato quando lei glielo confidò: le parole dolcissime di Domenico avevano sempre lo stesso effetto su di lui, lo scaldavano piacevolmente, anche se riferite da terzi. Fece cenno alla bambina di avvicinare l'orecchio e, non appena lei lo fece, le parlò cercando di mantenere la voce il più bassa possibile.

"Adesso te lo rivelo io un segreto: è zio Domenico il più bello di tutti, anche più di me."

Mormorò, pieno d'amore.

Domenico, che non aveva staccato gli occhi dalla scena neanche per un secondo, si avvicinò, incuriosito.

"Ma che avete da confabulare voi due, eh?"

Domandò divertito, sollevando un sopracciglio.

Lucia e Claudio si scambiarono uno sguardo d'intesa e si sforzarono di trattenere una risata.

"Niente, niente, cose tra zio e nipote..."

Ribatté l'avvocato, con un sorriso sghembo in viso.

Domenico fece schioccare la lingua al palato, fingendosi offeso, ma in verità era profondamente divertito ed infatti i suoi occhi verdi luccicavano allegri.

"Ah, tra zio e nipote, eh? E io chi sarei, uno sconosciuto? Adesso vi faccio vedere!"

Esclamò, sforzandosi con tutto se stesso di non ridere, poi annullò la distanza con i due e cominciò a fare il solletico entrambi, senza esagerare per non rischiare che si facessero male.

In un attimo, l'ampio bagno si riempì di tre meravigliose risate spensierate e cristalline che si armonizzavano perfettamente tra loro, come un inno alla gioia più pura.
La tenera scena era semplicemente perfetta per Sara, che nel frattempo aveva sistemato la macchina fotografica, e che immortalò il dolce ed allegro momento in più scatti, così da poterlo conservare e preservare per sempre.

"Oh, ma che belli! Siete venuti proprio bene, lo sapete?"

Esclamò, affettuosa ma con una punta di sarcasmo nella voce, anche se non stava mentendo.

I due sposi si rivolsero verso di lei e fecero una risatina imbarazzata, perché non si erano minimamente accorti della sua presenza.

"Scusaci Sara, hai ragione. Andiamo subito a vestirci."

Disse Claudio, accennando un sorriso.

"Eh, prima che ti venga in mente di farci davvero tutte le foto così!"

Aggiunse Domenico, con una punta di affettuoso sarcasmo.

Lasciato il bagno e recuperati gli abiti dall'armadio, i due sposi cominciarono ad indossarli con gesti misurati, timorosi di causare anche soltanto una piccola piega, e non appena furono pronti Sara cominciò a fotografarli.

Dopo un po' di imbarazzo iniziale, dovuto alla poca famigliarità con l'obiettivo e alla pressione dell'occasione speciale, Claudio e Domenico riuscirono a dimenticarsene, ad entrare nella loro bolla e a lasciare fuori tutto il resto, abbandonandosi a gesti di cura completamente naturali che vennero catturati sapientemente dal macchinario di Sara: così, in una foto Claudio aggiustava il papillon un po' storto di Domenico, rivolgendogli un morbido sorriso e facendogli una carezza sulla guancia subito dopo; in un'altra, Domenico abbottonava i polsini della camicia di Claudio con le labbra curvate in un sorriso sghembo, per poi chinarsi a lasciare un bacio sul dorso di quelle stesse mani; in un'altra ancora, spinti dalla leggerezza del gioco, si erano lasciati convincere da Sara a tornare in bagno e fingevano di pettinarsi a vicenda, con una risata che sbocciava dalle loro labbra come un fiore in primavera; su insistenza di Lucia, ne scattarono anche una seduti sul lettone con al centro lei ed Ulisse -anche lui, a suo modo, vestito a festa: indossava un collarino modellato come il colletto di una camicia sul quale spiccava un papillon color pesca-, in un tripudio d'affetto; nell'ultima foto, Claudio e Domenico se ne stavano fuori al balcone, rivolti verso il mare, con le mani poggiate alla ringhiera che si incontravano nello spazio in mezzo a loro, una sull'altra.

Scattare fotografie, per Sara, era una passione, ma era una di quelle persone fortunate che riuscivano a trasformare la propria passione in un lavoro: riusciva, attraverso il punto di vista della macchina fotografica, a catturare la vera natura di luoghi, oggetti e persone, a mostrarli per ciò che erano realmente, a tirare fuori la loro essenza più pura. Prese a ricontrollare, attraverso il piccolo schermo della macchina fotografica, le foto che aveva appena scattato e sorrise dolcemente: in esse vedeva un amore sincero ed infinito.
*****

Simone e Claudio se ne stavano seduti sull'ampio divano della zona giorno, uno accanto all'altro. Erano rimasti soli, in modo che si potesse attuare una tradizione a cui la famiglia Liguori teneva particolarmente, e a far loro compagnia c'era soltanto Ulisse che, disteso tra i due, si godeva le coccole e rispondeva con morbidi miagolii e soffici fusa.

Da fuori proveniva un piacevole venticello e il gradevole odore del mare che rendevano sopportabile quella calda giornata estiva, eppure Claudio non vedeva l'ora di lasciare la stanza e gettava continuamente lo sguardo sul cellulare di Simone, poggiato sul tavolino di fronte a loro, sperando che finalmente si illuminasse con la telefonata che gli avrebbe dato il via libera. Lo schermo, però, rimaneva spento, e lui non poteva fare a meno di tamburellare con le dita della mano libera sul bracciolo del divano, irrequieto.

Simone si accorse di tutto e gli rivolse un sorriso comprensivo.

"Come ti senti?"

Domandò, con voce bassa e gentile.

Claudio liberò un sospiro breve e sottile, poi scrollò le spalle.

"Eh, come mi sento..."

Rispose, con un filo di voce. Si voltò verso Simone, il proprio testimone, e accennò un sorriso.

"Non è facile da spiegare, sai?"

Fece un respiro profondo, come se avesse potuto trovare nell'aria le parole che gli servivano.

"Mi sento come se dentro di me ci fosse una scarica elettrica che vorrebbe uscire, ma non ci riesce, e allora gira, gira e gira..."

Tracciò con l'indice, sollevato a mezz'aria verso un punto indefinito della camera, quella rapida traiettoria circolare.

"...alla ricerca spasmodica della libertà!"

Fece una risatina bassa, ma allegra.

"È questo il senso dell'attesa, non è la prima volta che lo provo."

Aggiunse, ed intanto con la mente volò a tutte le volte in cui aveva atteso che Domenico lo raggiungesse a Roma o in cui contava i minuti che mancavano prima che il treno arrivasse finalmente a Napoli. Pensò anche a quell'unica terribile volta in cui aveva dovuto attendere Domenico senza la certezza che sarebbe tornato da lui, ma allontanò presto quel ricordo poco felice: erano insieme, ora, e non si sarebbero più dovuti separare. Istintivamente lanciò uno sguardo allo schermo del cellulare di Simone e sospirò profondamente quando lo vide ancora spento. Doveva tenersi dentro quella scarica elettrica ancora per poco: ben presto non ci sarebbero state più attese.

"E poi sono felice, infinitamente felice, anche se dire così è terribilmente riduttivo. È una felicità che non si può spiegare."

Disse ancora, con voce leggera e morbida, poi rivolse a Simone un altro sorriso dolce.

"Ma non c'è bisogno che te la spieghi, la proverai anche tu, Simone."

Allungò una mano verso la sua guancia e gli diede un buffetto affettuoso, paterno. Poco più di un mese prima, infatti, Simone aveva confidato a lui e a Domenico, con un orgoglio timido che gli faceva brillare gli occhi, un suo grande, grandissimo desiderio e loro erano stati più che felici di aiutarlo, accompagnandolo in gioielleria -non una qualsiasi, ma quella di fiducia, perché volevano solo il meglio per lui!- e dandogli tutto il loro sostegno nell'organizzazione del momento speciale.

Simone sorrise timidamente, inclinando le labbra verso il lato del volto dove Claudio aveva lasciato quella carezza, ora ornato da una morbida fossetta, ed abbassò leggermente il capo. Sentiva già le farfalle nello stomaco -o forse era l'elettricità di cui parlava Claudio?- al pensiero di dover porgere a Manuel la fatidica proposta e non riusciva nemmeno ad immaginare un sentimento ancora più forte e travolgente di quello, ma era certo che l'avrebbe provato il giorno del loro matrimonio.

"Eh, a proposito, per quella cosa lì...insomma, è tutto a posto?"

Domandò, grattandosi la guancia opposta con l'indice, in un gesto di pura apprensione.

Claudio annuì, sorridendo rassicurante.

"Tranquillo, io e Domenico abbiamo parlato con il direttore di sala proprio ieri, appena arrivati, per accertarci che fosse tutto in ordine e ci ha assicurato che seguiranno alla perfezione le nostre direttive. Farai un figurone!"

Esclamò, allegro e solare, dandogli una pacca di incoraggiamento sul braccio. Lo osservava attraverso gli occhi affettuosi ed appannati, ma non per questo non lo vedeva chiaramente -come un padre che riesce sempre a trovare suo figlio, anche nella peggior confusione-, ed inevitabilmente gli tornava in mente quel ragazzo con dentro tanta rabbia e tanto dolore, ma anche tantissimo amore, che si accasciava sul suo divano, poggiava la testa sulle sue gambe e vomitava parole e confusione mentre giocava con i suoi anelli per calmarsi finché non si sentiva meglio. Ne aveva fatta di strada quel ragazzo e lui ne era tremendamente fiero.

Simone percepì la sicurezza nel tono di Claudio -come faceva ad essere così sicuro, però, non lo sapeva- ed anche il suo affetto -che, come quello di Domenico, non mancava mai-, ma storse comunque la bocca in una smorfietta impensierita.

"Questo lasciamolo decidere a Manuel..."

Mormorò timidamente, mentre tracciava forme astratte nel pelo grigio di Ulisse nel tentativo di distrarsi.

Claudio si accigliò appena, perplesso.

"Perché dici così, Simone? Pensi che possa dirti di no?"

Chiese con delicatezza, nascondendo quanto, in cuor proprio, sapesse che qualsiasi timore di Simone fosse infondato.

Simone scosse il capo con decisione, continuando a tenerlo rivolto verso il basso come un micetto -o un Cerbiattino, avrebbe detto Manuel- che faceva di tutto per nascondersi da qualcosa che lo spaventava.

"No, non è proprio questo. È che..."

Liberò un profondo sospiro, preoccupato.

"... è che ho paura possa pensare che io voglia costringerlo o qualcosa del genere. In fondo, di solito non ci si sposa alla nostra età, si hanno altri pensieri. Forse farei meglio a rimandare di qualche anno."

Mormorò rapidamente, mangiandosi le parole a causa dell'incertezza nel pronunciarle.

Claudio accennò un sorriso e scosse il capo, risoluto. Ne avevano già parlato, lui, Domenico e Simone, ed il ragazzo aveva già espresso quelle perplessità che lui e Domenico erano infine riusciti a dissipare, ma era normale che fossero tornate a tormentarlo nel giorno designato, perciò lui le avrebbe scacciate ancora una volta, perché quello era il proprio compito.

'Ah, se solo sapessi, Simone...', pensò.

"No, no, ascoltami bene..."

Portò due dita sotto il suo mento per fargli alzare delicatamente il viso, movimento che Simone seguì senza opporsi -si fidava di Claudio e di tutto ciò che faceva-, e quando incrociò il suo sguardo profondo gli rivolse un sorriso morbido, incoraggiante.

"Tu lo sai che Manuel ti ama più di quanto ami se stesso, vero? Che quando ti hanno strappato da lui, è riuscito ad andare avanti soltanto perché era l'amore che prova nei tuoi confronti a farlo reagire, sì?"

Domandò, con tono retorico ma calmo, certo che Simone conoscesse già la risposta a quelle domande, aveva solo bisogno che qualcuno gliele facesse ripensare.
Simone annuì senza esitazione, fissando Claudio nei suoi caldi occhi blu.

"Certo che lo so."

Rispose, e la sua voce, se prima era tremolante ed incerta, ora aveva riacquisito nuovo vigore ed era ferma e salda. Era trascorso un anno, ma ricordava perfettamente gli occhi stanchi di Manuel, segnati da occhiaie scure e profonde lasciate dalle notti insonni ed il viso teso dalla preoccupazione e dalla paura, ma ricordava anche la determinazione nel suo sguardo ed i sorrisi pieni di speranza che, ogni volta che aveva potuto, non aveva mancato di rivolgergli.

Claudio mise su un'espressione soddisfatta.

"Allora credimi, una persona che ti ama così tanto come lui non si sentirebbe mai e poi mai costretta dal tuo amore."

Disse, convinto. Ciò che Simone non sapeva, ma lui sì, era che appena un paio di giorni dopo averlo portato in gioielleria, avevano dovuto accompagnarci anche Manuel -approfittando degli allenamenti di rugby dell'altro ragazzo-, ovviamente senza che lui lo sapesse e viceversa. I due ragazzi, senza saperlo, avevano avuto la stessa idea.

"Però certo, magari pensate alla maturità, prima."

Aggiunse, più scherzoso, per stemperare la tensione.

Simone si lasciò andare ad una risatina morbida, improvvisamente non c'era più nebbia nei propri pensieri, ed in uno slancio d'affetto verso quell'uomo al quale voleva bene come ad un padre e ad un amico al tempo stesso, si fiondò ad abbracciarlo.

"Grazie, Claudio. Mi rendo conto che a volte esagero, ma lo amo con tutto me stesso e vorrei che andasse tutto alla perfezione..."

Mormorò, con il capo poggiato sulla sua spalla.

Claudio sorrise dolcemente e ricambiò l'abbraccio, accarezzando con gesti morbidi la schiena di quel ragazzo che per lui era come un figlio, e scosse il capo.

"No, non esageri, mai. Significa semplicemente che ci tieni."

Si scostò appena, quanto bastava a guardarlo in viso.

"Vedrai che andrà tutto bene."

Aggiunse, con voce allegra e sicura.

Simone curvò appena le labbra in un sorriso dolce, pieno di riconoscenza. Si sentiva un po' più sicuro, adesso.

Dopo appena un istante, lo schermo del cellulare di Simone si illuminò e nella stanza esplose il suono della sua vibrazione. Entrambi, istintivamente, si voltarono verso l'oggetto, sperando che quel messaggio fosse effettivamente l'avviso convenuto e non una qualsiasi altra cosa che li avrebbe soltanto illusi.

Simone si sporse a recuperarlo e lesse rapidamente il messaggio che vi spuntava. Rivolse a Claudio un sorriso d'intesa, guardandolo direttamente negli occhi: nel profondo di quel suo blu vide un barlume di speranza misto a frenesia che, lui lo sapeva già, sarebbe divampato da lì ad un secondo dopo.

"È Manuel, sono pronti."
*****
Manuel e Domenico avevano lasciato l'albergo e si erano diretti il più rapidamente possibile a casa Liguori: la tradizione, infatti, voleva che gli sposi uscissero trionfalmente dalle case dei genitori, che avrebbero lasciato per sempre in seguito al matrimonio, salutati da parenti, amici, conoscenti e anche da qualche curioso che passava di lì per caso e voleva unirsi al momento di festa.

Se per Claudio rispettare un simile precetto era giustamente impossibile -sua madre era morta sette anni prima e non sapeva se suo padre fosse ancora vivo, non lo vedeva da allora, ma non si era nemmeno scomodato a tentare di inviargli un invito: non aveva nessuna voglia di inquinare quella giornata speciale con quel veleno-, per Domenico invece era una sorta di dovere morale -anche se, sinceramente, riteneva tutto quell'andirivieni una gran perdita di tempo- perché la propria famiglia, ed in particolare sua madre, ci teneva tantissimo a quel genere di cose.

Avevano usato la moto per muoversi più agilmente nelle trafficate strade della città e giunti finalmente lì avevano trovato il portone del condominio ornato a festa, con striscioni, fiori e palloncini bianchi, ed un folto gruppo di persone -alcune per Domenico avevano un volto famigliare, altre meno, ma era sicuro che ci fosse almeno mezzo quartiere in quel piazzale- del tutto simile ad uno sciame brulicante ed irrequieto, il cui ronzio si levava alto nell'aria calda.

Non appena qualcuno si accorse dell'arrivo dell'ospite d'onore, tuttavia, il chiacchiericcio cessò di colpo, salvo poi esplodere nuovamente in un boato di fischi, urla ed applausi una manciata di istanti dopo. Tutta l'attenzione dei presenti si concentrò in un punto e la piccola folla si diresse verso il motivo stesso della loro presenza lì, presa dalla smania di porgere un saluto e le congratulazioni allo sposo.

Domenico, dunque, si ritrovò praticamente assediato prima che riuscisse anche solo a rendersene conto e fu costretto a destreggiarsi al meglio delle proprie possibilità tra baci sulla guancia, pacche sulla spalla e strette di mano, in un turbinio di visi che nemmeno riusciva a distinguere. Tra un saluto e l'altro gettava uno sguardo apprensivo all'orologio che portava al polso, quello che Claudio gli aveva regalato come pegno d'amore, scoprendo ogni volta, con un sussulto del cuore, che il tempo scorreva troppo rapidamente, forse più del solito, come acqua che scivola tra le dita e non si riesce a raccogliere, mentre lo spazio si era ristretto e continuava a restringersi sempre di più, dal momento che la folla non accennava a diminuire.

Disperato ed in evidente difficoltà -non poteva essere lui a smarcarsi in malo modo dai presenti, sarebbe stato scortese, ma al tempo non aveva intenzione di restare bloccato così ancora a lungo-, lanciò a Manuel un'occhiata supplichevole, una muta ma lampante richiesta d'aiuto.

Manuel, che era rimasto stupefatto di fronte a quella scena, intercettò lo sguardo dell'altro -gli sembrava di avere davanti gli occhi di un lupo in gabbia- e, in quanto suo testimone, gli rivolse un cenno d'intesa con il capo, decidendosi a prendere in mano la situazione. Si ritrovò a fare da scudo a Domenico, frapponendosi tra lui e la folla al grido di "Signori, per favore, lo sposo ce serve intero, fate aria!" mentre lo aiutava ad avanzare a ritroso lungo il tappeto bianco che poi, uscendo, avrebbe ripercorso nel senso corretto.

Arrivati finalmente in casa, dopo quella che era sembrata una traversata infinita, Manuel si appoggiò con la schiena alla parete -subito registrò una piacevole frescura-, respirando a generose boccate per riprendere fiato.

"Ammazza oh, sembrava de sta' in mezzo agli zombie!"

Esclamò, un po' affannato, mentre si allargava la cravatta con le dita.

Domenico fece un profondo respiro, anche lui in riserva d'aria, per poi accennare un sorriso.

"È che qui ci lasciamo prendere facilmente dall'entusiasmo ed ogni piccolo evento diventa un'enorme festa, figurati un matrimonio! La maggior parte di quelle persone, poi, mi conoscono da una vita, mi hanno visto crescere...volevano solo dimostrarmi il loro affetto."

Spiegò, pacato, allentandosi un po' il papillon.

"Ma ciò non toglie che tu mi hai salvato, quindi ti ringrazio!"

Esclamò, con tono più scherzoso.

Manuel buttò fuori uno sbuffo divertito.

"Ah, figurati, dovere! Anzi, basta che me lo dici e li mando via tutti, eh!"

Replicò, accompagnandosi con un gesto secco della mano, ma senza troppa serietà.

Domenico scosse il capo, ridacchiando, poi portò una mano avanti come a volerlo frenare.

"No, no, per carità! E poi chi la sente mia madre?"

Ribatté, divertito. Fece un cenno con il capo, poi, verso il salottino.

"Accomodati, riprendiamo fiato per qualche minuto mentre aspettiamo mia madre e mia sorella. Io ti raggiungo subito."

Così dicendo, si allontanò in cucina.

Manuel fece quanto detto e si accasciò sul divano dopo essersi sfilato la giacca, riposta accuratamente su una sedia, liberando un sospiro di sollievo: dalla posizione in cui era, infatti, poteva godere di una piacevolissima corrente d'aria, fresca e rigenerante.

Domenico sopraggiunse appena un paio di minuti dopo, reggendo tra le mani un vassoio sul quale trasportava due bicchieri di vetro vuoti ed una caraffa, sempre di vetro, piena di un liquido dorato ornato da qualche fogliolina verde in cima.

"Thè alla menta."

Annunciò, posando il vassoio sul tavolino antistante il divano.

"Lo prepara mia madre, è freschissimo."

Continuò, riempiendo i bicchieri. Ne porse uno a Manuel e l'altro lo tenne per sé, accomodandosi accanto a lui.

Manuel, dopo un cenno di ringraziamento, ne mandò subito giù un piccolo sorso che, in effetti, trovò immediatamente rigenerante.

"Ci voleva proprio! Certo che tu e Claudio vi siete scelti la giornata, eh?"

Commentò, con un pizzico di affettuoso entusiasmo nella voce. Voleva bene a quei due uomini e per loro avrebbe sopportato il caldo, ma c'era da ammettere che più le ore avanzavano e più il giorno si faceva rovente; per fortuna tutta la cerimonia e la festa si sarebbero svolte non lontano dal mare, e lì avrebbero senz'altro trovato un po' di refrigerio.

Domenico accennò una risatina e bevve un sorso dal proprio bicchiere: normalmente gli avrebbe dato ragione ed anche per lui, con quel caldo che non avrebbe accennato a diminuire, starsene vestito di tutto punto invece che in costume sarebbe stata una specie di tortura in qualsiasi altro giorno d'estate, ma non in quello. C'era un motivo, infatti, se lui e Claudio avevano scelto proprio quella data.

"È lo stesso giorno in cui ci siamo conosciuti ventuno anni fa."

Cominciò a dire con voce morbida, voltandosi a guardare Manuel.

"E siccome da allora ci siamo sempre amati, anche quando non l'avevamo ancora capito e anche quando non ce lo dicevamo, abbiamo pensato che fosse il giorno perfetto."

Fece una breve pausa.

"Però hai ragione, fa un caldo da pazzi!"

Aggiunse, più scherzoso.

Manuel liberò un piccolo sbuffo divertito per la battuta, ma subito tornò serio e gli rivolse un sorrisetto affettuoso. Conosceva quelle sensazioni, anche lui sapeva cosa volesse dire amare qualcuno senza saperlo e avere troppa paura per dirglielo, e aveva imparato che l'amore, anche se messo a tacere, non stava mai zitto. Lui ci aveva provato a zittire l'amore e, per fortuna, non ci era riuscito.

"Ventun anni d'amore, sono un bel traguardo..."

Commentò a voce bassa, leggera come un sogno, ma appesantita da una piccola zavorra di pensieri.

Domenico intercettò quella sfumatura preoccupata e gli sorrise rassicurante, portando una mano ad accarezzargli la schiena.

"E vedrai che lo raggiungerete anche tu e Simone, e lo supererete pure!"

Manuel curvò le labbra in sorriso appena accennato, anche se il proprio cuore aveva fatto le capriole alla sola idea di passare tutta la vita con Simone, proprio come voleva -anzi, volevano-, ma aveva un pensiero, un dubbio martellante nella testa che non gli permetteva di apprezzare del tutto quella prospettiva. Bevve un po' di thè, sentendosi improvvisamente la gola secca.

"Secondo te oggi mi dirà di sì?"

Chiese a bassa voce, gli occhi fissi sul bicchiere ormai quasi vuoto che aveva preso a tormentare, rigirandoselo tra le mani.

Domenico accennò un sorrisetto, cercando di nasconderlo il più possibile -ma tanto Manuel non lo stava guardando e non se ne accorse-, a causa di una certa cosa che al momento sapevano solo lui e Claudio. Si sporse a posare il proprio bicchiere sul tavolino di fronte a loro e poi tornò a dedicare la propria completa attenzione al ragazzo.

"E perché mai dovrebbe dirti di no, mh?"

Domandò retoricamente, con voce morbida. Non era la prima volta che Manuel esternava quella preoccupazione -aveva perso il conto delle volte in cui lui e Claudio avevano dovuto aiutarlo a ragionare-, ma era naturale che quel tipo di pensiero tornasse a disturbarlo ora che era tanto vicino a diventare realtà, perciò lui l'avrebbe ascoltato ancora una volta, paziente, perché tra le tante cose che aveva imparato dai propri genitori era che bisognava armarsi di pazienza, con i figli.

Manuel si strinse nelle spalle, come un pulcino -o un Paperotto, avrebbe detto Simone- che cercava di ripararsi dal freddo nelle piccole ali.

"Perché potrebbe essere troppo presto, per lui. A Simone piace pianifica' tutto, potrebbe pensa' che gli sto mettendo fretta. Forse non è il caso, oggi…"

Rispose, concitato, sputando fuori le parole una dietro l'altra.

Domenico trattenne a stento una risatina, ma un lampo divertito guizzò comunque nei suoi occhi verdi, che però nascose abbassandoli per un istante.

'Ah, Manuel, se solo sapessi!', pensò.

"Manuel, stammi a sentire…"

Portò una mano su quelle del ragazzo, che non la smettevano di giocherellare, tremanti, con il bicchiere per scaricare la tensione.

Manuel sollevò lo sguardo perso verso di lui, ma non disse nulla e lo lasciò continuare. Aveva davvero bisogno di essere rassicurato.

Domenico gli sorrise, rassicurante, e gli fece una leggera carezza su una mano.

"Tu lo sai che Simone ti ama più della sua stessa vita, no? Che se è sopravvissuto a tutto ciò che ha passato, è solo perché voleva tornare da te a tutti i costi?"

Manuel annuì con un gesto secco, deciso, senza bisogno di doverci pensare, sostenendo lo sguardo dei suoi caldi occhi verdi.

"Eccome se lo so!"

Esclamò, con una voce che non tradiva più alcun dubbio o incertezza. Anche dopo tutti quei mesi, l'immagine di Simone svenuto, legato a quel tubo, era ancora perfettamente vivida davanti ai propri occhi, come una fotografia appena scattata. Ricordava il suo viso pallido e scavato dalla stanchezza e dalla fame, le labbra secche per la sete, i suoi occhi esausti che non conoscevano il riposo e la sua pelle bianca martoriata da lividi neri; ma ricordava anche la fiamma di vita nel suo sguardo -che nemmeno Sbarra era riuscito a spegnere- e la fiducia che provava verso di lui -e che lui, invece, non riusciva ad avere nei confronti di se stesso- nei suoi sorrisi luminosi che gli aveva donato quando ce n'era stata la possibilità.

Domenico fece un cenno d'assenso con il capo, soddisfatto.

"Allora fidati, una persona che ti ama in questo modo butterebbe all'aria ogni piano pur di starti vicino per sempre."

Replicò, convinto. Ciò che Manuel non sapeva, ma lui invece sì, era che lui e Claudio avevano accompagnato Simone, appena un paio di giorni prima, nella stessa gioielleria in cui avevano portato lui, ovviamente senza dire niente né all'uno né all'altro. Senza saperlo, i due ragazzi avevano avuto la stessa idea.

"Ovviamente, questo non vuol dire che dovete tralasciare lo studio!"

Esclamò scherzoso, con un sopracciglio alzato in un'espressione di finta severità, per alleggerire un po' il momento.

Manuel riuscì finalmente a liberare una risatina, ogni nube era scomparsa dal cielo della propria testa, ed annuì.

"Quindi è tutto organizzato? Quelli del locale hanno capito che devono fa'?"

Domandò, con un tono che tradiva ancora una piccola preoccupazione.

Domenico annuì in risposta, sicuro e deciso, senza mancare di sorridere comprensivo.

"Puoi stare tranquillo, Manuel. Io e Claudio ci abbiamo parlato ieri e ci hanno assicurato che faranno quanto detto, questa non è di certo la prima volta che devono rispondere a richieste del genere. Staj 'mman all'arte, come si dice qui…sei in buone mani, insomma."

Manuel sospirò pesantemente, come se fino a quel momento fosse rimasto in apnea, posò rapidamente il bicchiere sul tavolino e si accasciò contro lo schienale del divano, concedendosi finalmente di rilassarsi.

"Scusame se t'ho rotto le scatole, è che Simone è la vita mia e ci tengo che sia tutto perfetto."

Spiegò, accennando un sorriso.

Domenico annuì di nuovo, ricambiando il sorriso, e gli diede un affettuoso buffetto sulla guancia. Per associazione, gli tornò in mente quel ragazzo che aveva conosciuto circa un anno prima per puro caso, disteso sul divano dell'uomo che non sapeva sarebbe riuscito a sposare, con il cuore che sembrava quello di un uomo di cent'anni, pieno di angosce, paure e dubbi che rischiavano di fargli prendere la decisione più sbagliata della sua vita. Aveva percorso tanta strada, quel ragazzo, e lui ne era incredibilmente orgoglioso.

"Non hai rotto proprio niente, non ti preoccupare, la tua preoccupazione è solo indicativa di quanto ci tieni. Andrà tutto bene, però, te l'ho detto."

Manuel annuì, più convinto, e gli sorrise, sereno. C'erano ben poche persone che riuscivano a tranquillizzarlo con un semplice discorso e, per come la pensava lui, facevano tutte parte della propria famiglia, seppur in modo diverso l'una dall'altra: Domenico, neanche a dirlo, rientrava tra queste e gli voleva bene come ad un padre.

"Grazie, davvero."

Solo in quel momento, scacciati definitivamente tutti i propri timori, si rese conto -o meglio, ricordò- che il motivo principale per cui era lì, in quella città e in quella casa, era Domenico, che sicuramente doveva sentirsi molto agitato al momento, anche se non lo dava a vedere. La presa di coscienza gli fece sgranare lievemente gli occhi.

"O cazzo, ma te invece come stai? C'hai bisogno de qualcosa? Che testimone del cazzo che te sei scelto, fattelo dì!"

Esclamò, concitato.

Domenico ridacchiò di gusto all'improvviso cambio d'umore di Manuel, e scrollò le spalle. A dire il vero, parlare d'altro lo aveva aiutato a distrarsi, ma ora il carico dell'attesa era tornato a farsi sentire.

"Eh, come te lo spiego…"

Si prese il tempo di un sospiro per riflettere.

"Sai che cos'è la tarantella?"

Manuel fece un cenno d'assenso con il capo, ma non capiva cosa c'entrasse adesso.

"È un ballo, no?"

Domenico annuì e si sporse leggermente in avanti, verso il proprio interlocutore, come faceva sempre quando una discussione entrava nel vivo.

"Sì, ma non è un semplice ballo."

Disse, accompagnandosi con un rapido gesto di diniego con l'indice.

"Vedi, secondo la tradizione serviva a guarire dal morso della tarantola, per questo si chiama così. I tarantolati, ovvero i poveretti a cui era toccato questo destino, venivano presi da una frenesia incontrollabile…"

Si portò al petto le mani strette ad artiglio e le scosse leggermente, per sottolineare la pulsione.

"...e ballavano per ore ed ore, fino a quando non cadevano sfiniti. Molti di loro morivano, alcuni in effetti riuscivano a salvarsi, ma di certo non per merito della danza."

Accennò una risatina, che poi divenne un sorriso che gli faceva brillare gli occhi verdi di una morbida luce.

"Ecco, io mi sento come un tarantolato, anche se naturalmente il morso che mi agita non è di certo velenoso, che vorrebbe solo arrivare alla fine del ballo. Mi devi credere, non ce la faccio ad aspettare ancora."

Concluse, trepidante d'amore.

Manuel, che aveva ascoltato tutto il breve racconto con attenzione e si era figurato perfino delle ombre che si agitavano prese da quest'euforia di vita e di morte insieme, non poteva che essere d'accordo con Domenico: attendeva con gioia tutta la giornata di festa, era felice di celebrare l'unione di quei due uomini a lui tanto cari, ma se doveva proprio essere onesto con se stesso, anche lui non vedeva l'ora che arrivasse la sera, quando avrebbe finalmente posto a Simone la fatidica domanda. Lo capiva, insomma, nella sua attesa, ma purtroppo non c'era molto che potesse fare, dal momento che non era in grado di controllare lo scorrere del tempo.

"Telefono a Sara, così le chiedo quanto ce manca."

Affermò, già estraendo il cellulare dalla tasca.

Domenico gli sorrise, riconoscente, e diede il proprio benestare con un cenno del capo. Da un lato, assecondò Manuel perché così si sarebbe sentito utile e avrebbe smesso di pensare di essere un pessimo testimone, ma dall'altro aveva un sincero timore che sua madre e sua sorella fossero rimaste imbottigliate nel traffico, dal momento che i tempi di percorrenza del tragitto non avrebbero dovuto essere tanto lunghi.

Dopo una brevissima telefonata con Sara, Manuel scattò in piedi ed afferrò la giacca.

"Sono appena arrivate e ci aspettano giù, andiamo. Io intanto avviso Simone."

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Capitolo 46
*** Epilogo – Eternamente ora (parte 3) ***


La grande sala che avrebbe ospitato i festeggiamenti si trovava al piano terra del Grand Hotel, in una posizione riparata dal caotico vivere del resto della struttura.

Era allestita di tutto punto, naturalmente, ma al momento era vuota ad eccezione di Claudio e Domenico che, in piedi uno accanto all'altro come due statue vive, attendevano tesi ed emozionati il segnale che avrebbe dato inizio alla cerimonia: di comune accordo avevano scelto la classica marcia nuziale di Wagner, non tanto perché fosse di loro particolare gradimento -entrambi avrebbero optato per qualcosa di meno tradizionale e pomposo-, ma perché avevano deciso che la loro unione non avrebbe dovuto avere nulla di meno rispetto ai matrimoni considerati normali, così da prendersi una piccola rivincita morale su quelle tradizioni che mettevano un bavaglio all'amore.

Davanti a loro si estendeva il giardino dove avrebbe avuto luogo la cerimonia, con gli invitati, illuminati dall'alto Sole di mezzogiorno ed accarezzati dalla brezza del mare poco distante, disposti in due ali di poltroncine bianche: buona parte di esse era occupata dalla famiglia di Domenico, mentre Claudio si era limitato ad invitare gli avvocati che lavoravano presso il proprio studio legale e qualche altro collega, ma gli andava più che bene così.

Alcuni posti, poi, erano riservati ai preziosi amici in comune: Carmine, Nina e Futura, che avevano fatto i salti di gioia quando avevano ricevuto l'invito, ed il dottor Bonvegna, che invece aveva accolto quella partecipazione con un sorriso sincero, ma inevitabilmente malinconico.

Al centro correva un lungo tappeto bianco, un vero e proprio spartiacque che arrivava fino ad un gazebo dalla struttura sottile, ornato da fiori e stole bianche e leggere, al di là del quale si estendeva un lembo di spiaggia cristallina.

Il chiacchiericcio eccitato dei presenti si interruppe improvvisamente quando, all'orario stabilito, la piccola orchestrina disposta su un lato suonò la prima nota della marcia nuziale concordata. I due sposi, che non avevano smesso di guardarsi per tutto il tempo d'attesa, si scambiarono uno sguardo d'intesa, gli occhi di cielo e di bosco brillavano trepidanti, liberarono un sospiro come un sol corpo e si sorrisero mentre si presero a braccetto, pronti ad entrare nella loro nuova vita insieme.

Claudio, però, poco prima di uscire dalla sala, si irrigidì, fermando di colpo i propri passi: da uno dei grandi finestroni aveva visto l'ultima cosa che avrebbe voluto vedere al mondo. 'Non è possibile.', pensò, mentre sentiva il proprio cuore salirgli in gola e cominciare a battergli così forte che pensava l'avrebbe vomitato da un momento all'altro.

Domenico fu costretto ad arrestarsi di conseguenza, anche piuttosto bruscamente, e subito si voltò verso il compagno per assicurarsi che fosse tutto a posto, ma non ebbe nemmeno bisogno di chiederglielo per rendersi conto che così non era: Claudio era pietrificato, pallido come un lenzuolo, e con gli occhi blu spalancati puntati verso qualcosa a cui per il momento lui non volle rivolgersi, perché la priorità era capire cosa avesse. Gli si parò davanti, come a fargli da scudo, e lo afferrò per i fianchi perché temeva potesse crollare a momenti.

"Claudio! Oh, che hai? Non ti senti bene?"

Domandò, cercando di mantenere la calma anche se il sorriso di poco prima aveva lasciato il posto ad un'espressione preoccupata.

Claudio udì le domande del compagno, anche se gli arrivarono ovattate, e avrebbe davvero voluto rispondergli, ma fallì: dischiuse le labbra per parlare, ma produsse soltanto un rantolo sordo ed incomprensibile. Si aggrappò a Domenico con tutte le forze che aveva, sentiva la testa girargli vorticosamente, la gola riarsa come se non bevesse da giorni ed il martellio incessante del proprio cuore che gli offuscava perfino il pensiero. Respirava affannosamente, alla ricerca di aria che non riusciva a trovare, e non riusciva nemmeno a staccare lo sguardo da quella figura maledetta, confusa tra tante altre, ma nitida ai propri occhi.

Domenico non era estraneo a quel tipo di reazioni, aveva visto il compagno reagire in quel modo altre volte, anche se erano momenti legati ad un tempo lontano e passato -almeno così credeva- e sapeva, dunque, che ciò che lo bloccava non era un improvviso malore, dovuto magari al caldo o all'emozione, ma panico nella sua forma più nera e profonda. C'era soltanto una cosa, o meglio una persona, che avrebbe potuto scatenare in Claudio un attacco così violento, specialmente in un giorno tanto speciale e sereno, e si chiese come fosse possibile che si trovasse lì. Prese il viso del compagno con una mano e con un gesto deciso ma gentile lo aiutò a voltarsi verso di sé, in modo da fargli capire che non era solo.

"Oh, core mij, non guardare lui, guarda me! Io sono qui, capito? Sono qui!"

Disse con voce calma, pur avendo il sangue che ribolliva di rabbia.

Claudio fissò subito gli occhi in quelli del compagno, si rifugiò in quel bosco come se fosse stata la prima volta, e finalmente riuscì a parlare.

"Domenico, c'è... c'è mio padre...lì fuori, in mezzo agli...agli altri. Non so come...non so... perché, ma...ma c'è..."

Balbettò con un filo di voce, tra una boccata d'aria e l'altra.

Domenico, vedendosi confermare la propria teoria, contrasse la mascella per un istante mentre veniva attraversato da un brivido. 'Com'è possibile? Come ha fatto a sapere?' si chiese di nuovo, e quelle domande erano come colpi di martello dritti sul cuore, ma si impose di metterle da parte, almeno per il momento. Rivolse a Claudio uno sguardo deciso, sicuro: quel che era certo, era che non avrebbe permesso a quell'essere immondo di fare ancora del male all'uomo che amava.

"Vieni, sediamoci. Ti aiuto io."

Condusse il compagno alla sedia più vicina, accanto ad un tavolo destinato a chissà chi, dovendo praticamente trascinarlo come un peso morto.

Claudio si lasciò guidare, cercando di muovere qualche passo, e poi si accasciò sulla sedia, esausto, ma così facendo avvertì un improvviso e lancinante dolore alla schiena, come se fosse stata di nuovo ricoperta da ferite fresche, e sussultò emettendo un lamento acuto. Era perfettamente conscio del fatto che si trattasse di un pessimo scherzo della propria mente, ma ciò non gli impedì gemere a denti stretti, e si lasciò scivolare ancora un po', restando appoggiato allo schienale solo con le spalle nel tentativo di mitigare quel dolore inesistente: un gesto degno di un folle. Cercò, poi, di portarsi una mano tremante alla cravatta per allentarla un po' perché si sentiva soffocare, ma riuscì soltanto a sollevarla a stento, tanto si sentiva debole.

Domenico, però, intercettò il suo gesto e lo fece al posto suo, allentandogli il nodo e sbottonandogli i primi bottoni della camicia. Gli faceva male vederlo in quel modo, avvolto dalle grinfie di un dolore che, a modo suo, era reale, ma si sforzò di sorridergli, dolcemente, e gli accarezzò il viso con morbidi tocchi, cercando di essere rassicurante.

"Tranquillo, Claudio, ci sono io con te. Quell'infame non può farti niente, se ci sono io."

Io, che bacio le tue cicatrici tutte le notti per ricordarti che non esiste solo il dolore. Io, che ti stringo al petto per proteggere le tue fragilità che troppo spesso sei costretto a nascondere per mostrarti forte, e che mi sento al sicuro tra le tue braccia. Io, che voglio amarti per tutta la vita ed essere tuo, solo tuo, tuo per sempre.

Claudio mugolò di nuovo, sofferente, ma lo sguardo che rivolse a Domenico era pieno di gratitudine ed affetto. 'Premuroso, testardo amore mio, che hai fatto e faresti di tutto pur di proteggermi. Non te l'ho mai detto, ma grazie a te ho iniziato a credere che gli angeli custodi esistono, anche se ho capito che non sono angeli.', pensò, ed un flebile ma sentito sorriso gli si fece spazio sulle labbra: si sentiva al sicuro.

"Non so come... come abbia potuto sapere, io non...non l'ho detto quasi a nessuno...e solo a persone fidate..."

Cominciò a dire a voce bassa, interrompendosi continuamente perché non aveva abbastanza fiato in corpo per parlare.

"E non avrebbero...dovuto lasciarlo...entrare."

Aggiunse, ma immaginò, amaramente, che con la giusta cifra si potesse corrompere anche il personale più selezionato. Prese un altro respiro, più profondo dei precedenti, e rivolse al compagno uno sguardo preoccupato.

"Ho paura ci...ci possa rovinare il matrimonio..."

Concluse, rivelando quella che era la sua reale paura e di cui il dolore mentale e fisico era solo una conseguenza: temeva che sola presenza del padre avrebbe trasformato un sogno in un incubo, come una goccia di buio che avvelenava l’intero Sole.

Domenico serrò la mascella, deciso, e per un attimo i propri occhi furono attraversati da un lampo di durezza e di disprezzo. Non avrebbe permesso a nessuno, tantomeno all'ignobile padre -era anche troppo chiamarlo così- di rovinare la loro unione.

"Questo non accadrà mai e poi mai, puoi starne sicuro, perché non lo permetterò! Anzi, ora vado a mandarlo via, e domani anche la direzione dell'albergo mi sentirà!"
Esclamò, deciso, come un condottiero pronto allo scontro.

Claudio, però, non gli permise di allontanarsi, anche se l'altro non aveva accennato a farlo, e lo afferrò subito per il braccio con tutta la forza che aveva. Se c'era qualcuno che avrebbe dovuto affrontarlo, quello era solo lui, ma l'avrebbe fatto a tempo debito: suo padre era un uomo influente, con mille agganci, e chissà cosa avrebbe potuto causare a Domenico se gli avesse detto una parola di troppo! Non poteva permettere all'uomo che amava di compiere una simile sciocchezza, e poi aveva bisogno di lui, di sentirlo vicino proprio come era ora.

"No, ti prego, non lo fare, non...non dargli tutta quest'importanza...non se la merita."

Disse con tutta la fermezza di cui era capace, poi la propria voce tornò bassa, scossa dall'affanno e piena di bisogno, ma anche carica di un enorme affetto.

"Ora mi...mi passa, davvero. Ti prego, resta con me. Resta con me."

Me, che ho imparato cos'è l'amore grazie ai tuoi baci. Me, che mi sento libero di essere fragile quando mi abbracci, e ti stringo a mia volta perché anch'io voglio proteggerti dal mondo che può sfruttare il tuo animo buono per farti del male. Me, che voglio amarti per tutta la vita ed essere tuo, solo tuo, tuo per sempre.

In un istante, tutta la rabbia svanì dal cuore di Domenico, e di conseguenza dal proprio viso che si distese nuovamente, più calmo. Vide negli occhi umidi di Claudio, sempre più blu, udì nella sua voce roca e sentì nella stretta intorno al proprio braccio, una preghiera che lui non avrebbe ignorato. Era quello il proprio posto, lì accanto a lui.

"Va bene core mij, resto qui, non vado da nessuna parte, non ti preoccupare."

Disse con dolcezza, rivolgendogli un sorriso gentile.

Claudio si rilassò un po' e lasciò andare il suo braccio insieme ad un sospiro per lo scampato pericolo e gli sorrise, riconoscente.

"Grazie, amore mio..."

Domenico scosse appena il capo, accennando una risatina.

"Non devi, lo sai."

Mormorò, gentile. Si chinò a posargli un bacio tra i capelli, poi si inginocchiò accanto alla sua sedia, come un cane fedele, e prese la sua mano nella propria, senza smettere di guardarlo negli occhi.

"Facciamolo passare insieme, va bene? Forza, respira insieme a me..."
*****
 
La piccola orchestra suonava con eleganza e precisione, ma ben presto le note di Wagner cominciarono a cadere nel vuoto e furono distorte da un chiacchiericcio che, dapprima esitante e poi concitato, cominciò a diffondersi tra gli invitati: gli sposi sembravano spariti nel nulla e tutti si chiedevano che fine avessero fatto.

Manuel e Simone, nella loro postazione ai lati del gazebo, erano rivolti verso la porta dalla quale sarebbero dovuti uscire Claudio e Domenico -a differenza di tutti gli altri che invece le davano le spalle- ed effettivamente li avevano visti incamminarsi quasi fino ad attraversarla, poi esitare e tornare indietro, spostandosi in un punto nascosto alla vista. Lì per lì avevano pensato che volessero prendersi ancora qualche attimo soltanto per loro prima di finire al centro dell'attenzione di tutti, ma ora era passato fin troppo tempo -l'orchestra aveva cominciato la seconda ripetizione della marcia nuziale-, doveva esserci un qualche tipo di problema.

Si scambiarono uno sguardo preoccupato ed un cenno d'intesa con il capo, poi si incamminarono velocemente lungo il tappeto, premurandosi di tranquillizzare tutte le persone che chiedevano spiegazioni replicando con frasi del tipo: "Ma certo che se sposano, sarà successo un imprevisto." oppure "Non preoccupatevi, stiamo andando a controllare!".

Entrati nella grande sala trovarono, ad un tavolo sulla destra, Claudio seduto che si teneva la testa con il braccio ripiegato sul tavolo, come se gli facesse male, e Domenico accovacciato accanto a lui, di spalle rispetto a loro. Si guardarono per un attimo, perplessi e preoccupati, poi tornarono a concentrarsi sui due uomini.

"Oh, che succede? Che c'ha Claudio?"

Domandò Manuel, concitato.

Claudio fu il primo a rivolgere lo sguardo verso i due ragazzi più giovani, sollevando il capo dal suo appoggio.

"Non vi preoccupate, sto bene."

Rispose a voce bassa, ma calma e sicura, mostrando un sorriso rassicurante. Subito dopo, fece un cenno al proprio compagno.

"Andiamo, dai, ci stanno aspettando tutti."

Domenico si alzò in piedi, ma non si mosse di un millimetro e, soprattutto, non lasciò la mano di Claudio. Nemmeno con gli occhi lo lasciò andare, li teneva fissi su di lui, preoccupato.

"Aspe', Claudio, prendiamoci ancora un paio di minuti. Non ti sei ancora ripreso."

Disse con dolcezza, facendogli una carezza sul viso.

Manuel e Simone si avvicinarono meglio e, in effetti, notarono che Claudio era troppo pallido e cominciarono seriamente a pensare ad un qualche tipo di malore, magari dovuto al caldo.

Simone, che era il più vicino tra i due, gli mise una mano sulla spalla, accarezzandola leggermente, ed accennò un sorriso.

"Domenico ha ragione, gli invitati possono aspettare ancora un po'. Sono sicuro che un po' di emozione sia normale in questi casi, ma facciamo che ti fai dare un'occhiata da Riccardo, così stiamo tutti più tranquilli, mh?"

Claudio scosse il capo, sorridendo amaramente.

"No, non c'è nulla che Riccardo possa fare in questo momento, credetemi."

Manuel si accigliò, confuso.

"Ma che dici! Guarda che è in gamba quello, eh! 'O vado a chiama'!"

Esclamò, facendo già per allontanarsi.

Claudio liberò un pesante sospiro.

"Manuel, fermo! Lo so che Riccardo è un ottimo medico, ma non può aiutarmi perché non è un problema di salute, il mio."

Alzò gli occhi verso Domenico, alla ricerca di un segno che stesse facendo la cosa giusta che non tardò ad arrivare.

Domenico, infatti, gli rivolse un semplice cenno d'assenso con il capo e gli accarezzò delicatamente la mano, sorridendogli. Era giusto che anche i due ragazzi, nonché testimoni, sapessero cosa stesse succedendo.

Claudio ricambiò il sorriso al proprio compagno che non vedeva l'ora di sposare e inspirò un po' d'aria prima di tornare a guardare i ragazzi.

"Là in mezzo c'è mio padre."

Disse, con voce e sguardo appesantiti da quell'informazione.

Simone e Manuel non avevano bisogno di sentirsi dire altro per sapere quanto fosse grave la situazione. Conoscevano il passato di Claudio, era stato inevitabile che l'avvocato glielo raccontasse quando, all'incirca un anno prima, liberi da quell'incubo che li aveva tormentati per settimane, avevano finalmente cominciato a godersi l'estate: ricordavano perfettamente il momento in cui, in un assolato pomeriggio trascorso nel giardino di Villa Balestra, Claudio aveva chiesto il loro permesso per sfilarsi la maglietta che indossava, poiché temeva che la vista avrebbe potuto infastidirli, e specificando di cosa stesse parlando. Simone e Manuel avevano dato il loro consenso, ma alla vista di quelle cicatrici così fitte, seppur sbiadite, si sentirono mozzare il fiato in gola non per il disgusto, come aveva temuto Claudio, ma per l'orrore suscitato dal pensiero di tutto il dolore che quell'uomo a cui volevano così tanto bene aveva dovuto provare. Non fecero domande, ma nei loro occhi la curiosità era evidente, e così Claudio si convinse a raccontare, per la seconda volta in vita propria, cosa gli fosse accaduto, cercando di edulcorare il più possibile i dettagli più cruenti, per quanto difficile fosse, protetto da Domenico che lo teneva stretto a sé cingendolo in vita. Manuel -il quale non aveva mai avuto un padre e sua madre non gli aveva mai dato nemmeno uno schiaffo- e Simone -il quale per lungo tempo aveva avuto un pessimo rapporto con il proprio padre, eppure anche allora aveva avuto la certezza che lo accettasse per ciò che era e che volesse solo la sua felicità- si fecero partecipi della sofferenza di Claudio, dell'angoscia e della paura che aveva dovuto provare in quei giorni fortunatamente lontani, tanto che quasi sentirono il suo dolore sulla propria pelle, e lo abbracciarono con tutta la loro forza, tra lacrime e singhiozzi, travolgendolo d'affetto. Era naturale, dunque, che volessero proteggerlo da quel mostro, adesso.

Simone avanzò ancora di qualche passo, a braccia incrociate.

"Dicci chi è, che lo mandiamo via."

Affermò deciso, con voce dura ed occhi infuocati.

Manuel annuì con fermezza, in accordo con lui.

"Siamo i tuoi testimoni, è compito nostro. E poi, se permetti, lo facciamo pure con un certo piacere."

Aggiunse, con le sopracciglia leggermente corrugate che gli indurivano lo sguardo.

Claudio sgranò gli occhi, preoccupato e spaventato da quella prospettiva come non mai, e scattò in piedi, ponendosi davanti a loro.

"No, ragazzi, no."

Portò le mani sulle loro spalle, in modo da trattenerli anche fisicamente perché li conosceva e sapeva che sarebbero partiti come due cani da caccia.

"Apprezzo il pensiero, ma non dovete fare nulla. Lui è qui per avvelenare questo momento e noi, dandogli tutta questa importanza, stiamo facendo esattamente il suo gioco e non va bene!"

Sospirò, poi sorrise, luminoso e sicuro.

"Gli parlerò io, ci penserò io a cacciarlo, ma dopo la cerimonia. Prima, voglio sbattergli in faccia tutta la mia felicità, quella che lui ha provato a sottrarmi, ma non ci è riuscito."

E così dicendo rivolse uno sguardo in tralice a Domenico, che gli sorrise di rimando e lo cinse per i fianchi.

"Voi dovete solo tornare di là e dire all'orchestra di ricominciare a suonare, noi arriviamo tra un attimo. Siamo intesi?"

Continuò a dire Claudio, e i due ragazzi, vedendolo così convinto, annuirono sorridenti.

"Va bene, però se cambi idea diccelo, eh."

Specificò Manuel, con aria furba, sollevando un sopracciglio.

Claudio annuì, ridacchiando, ma era perfettamente consapevole del fatto che non li avrebbe mai e poi mai messi in pericolo in quel modo.

"Intesi, ma adesso andate, forza!"

Esclamò, allegro.

Manuel e Simone, prima di allontanarsi, si presero un istante per abbracciare i due uomini e poi si diressero a passo svelto verso il giardino.

Una volta scomparsi alla vista, Claudio ruotò il capo verso il compagno accanto a lui, cercando una rassicurazione con gli occhi.

"È la cosa più giusta da fare, no?"

Domenico sorrise e annuì, poi si sporse verso di lui e gli lasciò un morbido bacio sulla tempia.

"Sì, è la cosa più giusta. Adda schiattà 'ncuorpo chillu strunz!"

Esclamò, divertito ma risoluto, scostandosi poi quanto bastava a guardare il compagnocon orgoglio.

Claudio scoppiò a ridere -e la sua risata volò leggera fuori, al Sole, accarezzando le teste degli invitati come un vento invisibile-, poi si portò davanti al compagno, in modo da poterlo guardare in viso, e lo cinse tra le braccia.

"Grazie."

Mormorò, sorridendogli felice.

Domenico sollevò una mano verso la sua guancia e gli accarezzò quel sorriso con il pollice, delicatamente perché era prezioso.

"Non lo devi nemmeno dire."

Sussurrò appena, prima di completare il suo sorriso con il proprio, in un bacio morbido e leggero.

Le note di Wagner cominciarono, di nuovo, a librarsi nell'aria, ma questa volta sarebbe stata quella buona: Claudio e Domenico si sorrisero e, come avevano fatto poco prima, si presero a braccio portando le mani libere l'una sull'altra proprio nel punto in cui si formava l'intreccio, e così uniti si avviarono fuori, verso il Sole, sul tappeto bianco che li avrebbe condotti sani e salvi alla felicità.

Avanzavano a passo misurato e deciso, seguendo il ritmo scandito dalla musica, prendendosi il tempo necessario per guardare al presente, rivolgendosi verso gli amici e la famiglia riuniti intorno a loro, e al futuro, verso il gazebo dove li attendeva l'officiante; mai, nemmeno una volta in tutto il tragitto, guardarono al passato, verso l'ingegner Giancarlo Vinci, pur sentendone lo sguardo addosso, preciso ed affilato come una freccia, ma bastò loro stringersi un po' di più l'uno all'altro e scambiarsi un sorriso per proteggersi reciprocamente e darsi coraggio. Era quello, l'amore, la loro forza.

Giunti al gazebo nel momento esatto in cui l'orchestra terminò la composizione, la funzionaria del Comune -una donna sulla quarantina dal corpo formoso messo in risalto da un elegante tailleur scuro su cui spiccava la fascia tricolore e due occhi azzurri perfettamente incorniciati dai capelli biondi e mossi- li accolse con un sorriso e li presentò secondo la formula di identificazione prevista dalla norma. Subito dopo, lesse gli articoli che sancivano diritti e doveri della nuova coppia -assistenza morale e materiale, coabitazione, contribuire ai bisogni comuni ciascuno secondo le proprie possibilità e concordare l'indirizzo della vita famigliare- ed anche se Claudio e Domenico non avevano bisogno di leggi che spiegassero loro come amarsi, ascoltarono ogni parola con la massima attenzione perché quelle frasi proteggevano il loro diritto d'amarsi e andavano rispettate, tenendosi per mano per tutto il tempo, mentre i loro cuori battevano all'unisono e sembravano decisi a voler coprire lo sciabordio delle onde poco distanti.

L'officiante, terminata la lettura, sollevò il capo dai documenti e rivolse a tutti i presenti un caldo sorriso.

"A questo punto, la procedura vorrebbe che io chiedessi ai qui presenti Claudio e Domenico la conferma della loro volontà ad unirsi civilmente, ma gli sposi mi hanno chiesto di condividere un momento speciale con voi ed io sono più che lieta di soddisfare la loro richiesta."

Fece un cenno con il capo all'orchestra che subito cominciò a suonare una melodia dolce e leggera. Dal fondo del giardino si fece strada una macchiolina gialla, se così si poteva definire, che avanzava a piccoli passi composti: altri non era che Lucia, la quale sapeva di avere un compito importantissimo e per questo era molto emozionata, come mai in vita sua, e come si leggeva chiaramente nel suo sorriso luminoso.

Non era sola, però, perché appena mezzo metro avanti a lei, tenuto morbidamente al guinzaglio, Ulisse procedeva spedito, per niente turbato da tutta quella situazione: era, infatti, un gatto giocherellone e paziente, si lasciava fare di tutto ed in più stravedeva per Lucia, pur avendola vista in realtà pochissime volte, per cui era estremamente tranquillo accanto a lei. Sul suo dorso c'era legato un cuscinetto bianco e, su di esso, erano adagiate -tenute da una cordicina sottile- le due fedi che presto gli sposi si sarebbero scambiati: si trattava di due semplici cerchi in oro giallo, senza alcuna particolarità, almeno non a prima vista. Sulla superficie interna, infatti, oltre ai nomi degli sposi e alla data del loro giorno speciale, era incisa una semplice frase di tre parole: 'Core a core'.

Claudio era anche riuscito a farle benedire, dopo tante porte sbattute in faccia, chiedendo la cortesia al parroco della chiesa che Domenico frequentava da bambino. Era stata Rosa ad intercedere tra i due, parlando per prima con il prete, ma a dire il vero Don Gennaro si era mostrato immediatamente disponibile a praticare il rito sacro -nonostante l'età avanzata, infatti, credeva che l'Amore fosse il dono più grande che Dio avesse fatto all'Uomo, e che andasse rispettato quando era sincero e buono-, così aveva incontrato i due innamorati il giorno prima, appena arrivati a Napoli, procedendo senza indugio.

Una volta giunti a destinazione, alla fine del lungo tappeto, Lucia sciolse il cuscinetto dal dorso del gatto -il quale, libero, ne approfittò per salutare i suoi padroncini strofinandosi tra le loro gambe prima di sistemarsi poco distante, seduto comodamente, con lo sguardo attento rivolto verso di loro- e lo tenne sollevato davanti agli zii con un atteggiamento solenne che, visto il suo essere una bambina di appena sette anni, risultava di una tenerezza disarmante.

Claudio e Domenico le rivolsero un sorriso commosso, la ringraziarono con una carezza, ma poi si ritrovarono bloccati per qualche istante, indecisi su chi dei due avrebbe dovuto parlare per primo. Scoppiarono a ridere per quel buffo impasse e gli occhi già lucidi si fecero più brillanti: erano talmente abituati a considerarsi una cosa sola, ormai, che non ci avevano minimamente pensato.

Domenico si schiarì la voce, in modo da interrompere la propria risata che tuttavia gli rimase sulle labbra nella forma di un morbido sorriso.

"Se per te va bene, vorrei iniziare io."

Propose a bassa voce, accompagnandosi con uno sguardo eloquente. Per quanto entrambi non volessero dargli importanza, il padre di Claudio era sempre lì -perfino lui che non l'aveva mai visto prima d'ora l'aveva individuato tra la folla- e credeva che il compagno potesse aver bisogno di ancora qualche istante prima di parlare davanti a lui. In più, ad essere onesto, provava un senso di grande soddisfazione al pensiero di poter elogiare Claudio proprio davanti a quel mostro, così da rinfacciargli quanto suo figlio, il suo meraviglioso figlio al quale aveva saputo dare soltanto odio, fosse in realtà speciale e degno di essere amato: dargli quello schiaffo morale gli sembrava la cosa più giusta da fare, non potendo intervenire diversamente. In qualche modo, dopotutto, doveva pur proteggerlo.

Claudio accennò una risatina intenerita ed annuì sorridente, tranquillo e sereno: agli occhi del se stesso adolescente quella reazione così pacata alla presenza del padre sarebbe sembrata un controsenso, oltre che un'utopia, ed effettivamente avvertiva dentro di sé un vero e proprio paradosso. Da un lato, infatti, quel mostro, negli ultimi anni, non gli era mai stato così vicino come adesso, eppure al tempo stesso non l'aveva mai sentito tanto lontano. Quella pace era solo merito dell'angelo che gli stava accanto e che lo proteggeva, e verso il quale allungò una mano per accarezzargli il viso con dolcezza.

"Certo, amore, nessun problema, anzi mi fa piacere."

Sussurrò, innamorato.

Domenico sorrise di rimando, posò un bacio sul palmo caldo di Claudio e subito dopo infilò una mano all'interno della giacca, estraendone un foglietto ripiegato a metà che dispiegò con cura davanti a sé, poggiandolo sul piccolo leggio che avevano accanto. Si schiarì la voce, si girò totalmente verso il compagno, e prese le sue mani tra le proprie.

"Mio amatissimo Claudio, mio sposo, non è un compito da poco descrivere qui, davanti a tutti, il sentimento che tu sei per me, perché è questo che tu sei per me, un sentimento, ed il più puro di tutti. Non è facile, e io non sono bravo con le parole, ma ci proverò lo stesso."

Cominciò a dire, e già la voce tradì una prima crepa di cui sembrò accorgersi solo Claudio, il quale gli sorrise, incoraggiante.

Domenico annuì appena, in risposta, e fece un piccolo cenno d'assenso con il capo.

"Prima di incontrarti non avevo capito niente dell'amore, ma proprio niente. Lo allontanavo perché mi spaventava, credevo fosse una specie di trappola, una gabbia, e allora scappavo e mi rifugiavo tra le braccia di qualcuno o sulle labbra di qualcun altro, credendo di essere libero, ma mi sbagliavo. Non mi pento di come ho vissuto, non rimpiango un solo passo, sono felice di aver corso tanto perché ogni passo mi ha condotto, senza che io lo sapessi, fino a te che mi hai fatto capire che è l'amore la vera libertà."

Il sorriso gli si fece più ampio e luminoso, gli occhi un po' più lucidi ma non persero l'allegria che irradiavano, e la voce un po' più bassa, appesantita da un groppo che cominciava a formarglisi in gola.

Claudio lo ascoltava rapito, quasi senza respirare, e più Domenico parlava, più lui sentiva il proprio cuore accelerare ed i propri occhi appannarsi, costringendolo a sbattere più volte le ciglia per non smettere di vedere il compagno.

Domenico, accortosi delle sue lacrime, con un gesto rapido e delicato della mano andò ad asciugargliele, prima di tornare ad avvolgere le sue mani.

"Tu ti sei preso cura del mio cuore, Claudio, sempre, anche quando pensavi di avermelo spezzato, e la verità è che ci ho provato ad affidarlo a qualcun altro, ma i miei angoli coincidono solo con i tuoi spigoli e il mio cuore è solo tuo, ne ho avuto la conferma quando ci siamo ritrovati."

Aveva un vago ricordo di quelle persone che aveva frequentato, circa due anni dopo la rottura con Claudio, più per far contente sua madre e sua sorella, che per vero trasporto o interesse. Non erano cattive persone, anzi a qualcuna di loro aveva anche raccontato la propria storia e si erano mostrate molto comprensive, ed augurava loro ogni bene, ma avevano una mancanza che in nessun modo avrebbero potuto sopperire: non erano la propria metà.

"Quando hai baciato le mie ferite, quella del corpo e quella dell'anima, e ho capito perché nessun altro, in questi anni, è mai riuscito a guarirle. Semplicemente perché nessuno era te. Perché il mio cuore è tuo, non esiste che sia qualcun altro a prendersene cura, ed è per questo che tu sei 'o core mij."

Questa volta gli fu impossibile trattenere un singhiozzo, che liberò senza perdere il sorriso.

"Ho corso tanto nella mia vita, ma sono felice di aver scelto di fermarmi ed è esattamente qui, dove sono adesso, che voglio restare ed è per questo che ti dico: sì, lo voglio."

Concluse, con la voce ormai rotta dalla commozione. Non aveva rivolto al foglietto che aveva preparato nemmeno uno sguardo, mai, perché non c'è mai bisogno di aiuti se è il cuore a parlare.

Claudio gli rivolse un sorriso ampio, luminoso e commosso e, resistendo alla tentazione di baciarlo -non era ancora il momento!- sciolse con le mani che un po' tremavano il fiocchetto che teneva ferma una delle due fedi e la raccolse con attenzione. Si portò alle labbra la mano sinistra di Domenico, sulla quale posò un bacio devoto, poi baciò anche l'anello e glielo fece scivolare lungo l'anulare con un gesto lento e delicato.

Domenico venne scosso da un piccolo singulto, emozionato, e dovette trattenersi dal gettarsi sulle sue labbra, ripetendosi che avrebbe dovuto attendere soltanto un altro po'.

Claudio gli accarezzò il viso, asciugandogli così, con infinita dolcezza, le lacrime che lo attraversavano.

"Ci siamo quasi, amore mio."

Sussurrò a voce bassissima, in modo che solo il compagno potesse sentirlo, e Domenico annuì in risposta, strofinando la guancia contro la sua mano in un gesto affettuoso mentre con gli occhi, seppur lucidi, cercava di trasmettergli coraggio.

Claudio ribatté con un cenno del capo, sentendosi più sicuro che mai -ogni timore e paura erano scomparsi, era come se non ci fossero mai stati- e con un gesto analogo a quello che aveva compiuto il compagno qualche minuto prima, recuperò dalla tasca interna della propria giacca un foglietto accuratamente ripiegato che dispose sul leggio, ma subito si voltò verso l'uomo che amava e prese le sue mani tra le proprie, avvertendo immediatamente la nuova e gradita presenza di quella striscetta metallica che rendeva tutto più reale e che gli fece spuntare un sorriso spontaneo e sincero sulle labbra. Si schiarì la voce e cominciò a parlare tenendo gli occhi fissi su di lui, con voce che, seppur non nascondeva tutta la sua commozione, era straordinariamente ferma e sicura.

"Mio amatissimo Domenico, mio sposo, non bastano poche righe per raccontare del modo in cui mi hai cambiato la vita, anzi del modo in cui me l'hai donata, perché solo con te è diventata realmente degna di essere vissuta, e non basterebbero tutte le parole del mondo per esprimere quanto ti amo, ma l'avvocato che, grazie a te, sono, dovrà usare tutte le sue capacità per farlo. Oggi più che mai."

Si interruppe per un istante, il tempo di rivolgersi verso i presenti con un sorriso amichevole.

"Insomma, vi prometto che sarò breve."

Disse scherzoso, e tra gli invitati si diffuse una risatina affettuosa e divertita da cui solo una persona non fu toccata, ma Claudio scelse di non badarci e tornò a guardare il compagno. Anche Domenico stava ridacchiando di cuore e non appena Claudio si voltò verso di lui gli rivolse un sorriso sghembo, scuotendo appena il capo con dolce incredulità, accompagnato da uno sguardo complice ed innamorato: 'Sei incredibile.', gli stava dicendo con gli occhi.

Claudio fu accarezzato da quel complimento che per lui costituì anche l'ultima spinta di coraggio di cui aveva bisogno, e gli sorrise di rimando, facendogli un occhiolino. Era ora il proprio turno di tessere le sincere lodi del compagno e lo avrebbe fatto con orgoglio: la presenza di quel mostro non lo spaventava, dentro di sé sentiva scorrere il coraggio di mostrargli il proprio amore, perché quella era la cosa più giusta da fare.

"Quando ci siamo conosciuti, io ero uno sbandato all'angolo di mondo, esiliato da una famiglia che non voleva capirmi e che si vergognava di me, ed illuso che un viaggio e un albergo di lusso fossero la cura per le ferite che mi portavo addosso, ma soprattutto dentro. Le ferite che tu, amore mio, mi hai curato senza chiedere nulla in cambio."

Si fermò per un istante, una pausa studiata e suggerita dall'esperienza di oratore, ma anche necessaria per lasciar andare un singhiozzo che riecheggiò insieme alle onde del mare. Realizzò di star piangendo davanti a suo padre, ormai già da un po', ma di non provare vergogna nel mostrarsi fragile -debole, avrebbe detto lui- perché era forte dell'amore che provava ed il pensiero volò all'adolescente terrorizzato che era stato ed alle lacrime che aveva dovuto nascondere. Strinse con un po' più di forza le mani del proprio compagno, senza il quale non ci sarebbero stati né Amore né Vita, e gli rivolse un sorriso luminoso e dolcissimo. Era lui e soltanto lui la propria metà.

"Tu, Domenico, mi hai raccolto come un gatto e mi hai portato con te, proprio come dice la canzone, sì, quella che ti piace tanto, e ti ricordi perché? Quando ci siamo conosciuti, curavi una gatta randagia, quella che poi sarebbe diventata la nostra Partenope, e l'amavi come se fosse stata tua. Hai sempre avuto cura degli altri, anche quando gli altri non potevano darti niente in cambio, e così hai fatto con me, che pensavo di poterti dare qualsiasi cosa tu desiderassi per ripagarti e che invece ancora non avevo idea di quanto mi avresti donato tu. Mi hai portato a casa tua, mi hai fatto entrare nella tua vita, nella tua famiglia, mi hai fatto sentire amato per la prima volta in vita mia e continui a farlo, a darmi amore ogni giorno della nostra vita insieme. Tu mi hai insegnato cos'è l'amore, ed è per questo che sei l'amore mio."

Domenico lo ascoltava cercando di trattenere i singhiozzi per non fare rumore, mentre le lacrime gli rigavano copiose le guance e gli bagnavano il sorriso, ed il cuore gli batteva all'impazzata.

Claudio, con un gesto morbido, asciugò il viso del compagno prendendolo tra le mani, e poi tornò a stringere le sue, che sentiva tremare leggermente tra le proprie.

"Prima di te avevo imparato soltanto le lezioni dell'odio e della paura, impartite da un uomo che oggi è seduto qui in mezzo a noi. A lui, che per un legame imposto, di sangue, sono obbligato a chiamare padre, voglio dire solo: guarda. Guarda dove sono arrivato. A te, invece, che sei davanti a me, e che per un legame voluto, d'amore, desidero chiamare marito, vorrei dire tante altre cose, ma per adesso ti dico la più importante: sì, lo voglio."

Terminò, con la voce che vibrava emozionata. Aveva imparato il discorso a menadito, tante erano le volte in cui l'aveva ripetuto, ma aveva detto poco di ciò che aveva preparato. Il foglietto su cui si era appuntato tutto, poi, era perfino scivolato sul leggio, ripiegandosi su se stesso, ma lui nemmeno se n'era reso conto. Aveva seguito le parole del cuore, che non aveva bisogno né di suggerimenti né memoria.

Domenico, imponendosi di resistere al bisogno di baciarlo ancora per qualche altro minuto, liberò uno sbuffo commosso e, sorridente, raccolse l'altra fede dal suo morbido giaciglio, sciogliendo il fiocchetto con un gesto secco, seppur un po' tremolante. Prese la mano sinistra di Claudio e l'avvicinò alle proprie labbra, la baciò con devozione, e la adornò con l'anello che fece scivolare morbidamente al suo anulare. Vi passò un dito sopra, come ad accertarsi che fosse tutto vero e non un sogno bellissimo, ed un singhiozzo di dolce sorpresa si fece strada tra le proprie labbra.

"Ce l'abbiamo fatta, core mij. Ce l'abbiamo fatta."

Mormorò, pervaso da una gioia indescrivibile, guardando negli occhi il compagno.

Claudio annuì con dolcezza, scosso dalla felicità, e raggiunse i suoi occhi con i propri dopo aver accarezzato con lo sguardo gli anelli che ornavano le loro mani.

"Sì, amore mio, ce l'abbiamo fatta. Ora tutto il mondo sa che ci amiamo."

Ribatté, sentendosi leggero e al tempo stesso pieno, in un modo che non avrebbe saputo spiegare.

Si guardarono ancora, sorridendosi tra le lacrime limpide e luminose che quasi sembravano piccole stelle sui loro visi, ed ancora una volta, senza dirsi niente, si dissero tutto. Essere arrivati a tanto, per loro, andava oltre ogni immaginazione: anni prima, in una notte di Natale tanto semplice quanto straordinaria, non avrebbero mai immaginato che un giorno avrebbero potuto raggiungere quel traguardo insieme.

La funzionaria comunale, visibilmente commossa, si schiarì la voce per attirare la loro attenzione e Claudio e Domenico si voltarono verso di lei, tenendosi per mano.

"Vi chiedo soltanto qualche altro istante del vostro tempo, la procedura lo richiede."

Disse con dolcezza, quasi avesse paura di disturbare, poi si rivolse ai testimoni, guardando prima l'uno e poi l'altro.

"Avete udito le volontà che i qui presenti Vinci Claudio e Liguori Domenico hanno presentato?"

Manuel e Simone, sorridenti e commossi, annuirono e risposero con un "Sì." chiaro e deciso, a turno. L'officiante annuì e tornò a guardare gli sposi con aria complice.

"In nome della Legge, allora, dichiaro le parti unite civilmente. Potete baciarvi, se volete."

Claudio e Domenico, certamente, non se lo fecero ripetere una seconda volta e si incontrarono in un bacio che avevano aspettato per anni, il primo da marito e marito, uniti in un abbraccio che non avrebbero mai più sciolto.

Il loro amore fu accolto da un applauso scrosciante, da un grido di acclamazione con tanto di fischio -partito proprio dai due testimoni, partecipi con tutto il cuore della felicità dei loro amici- e da una miriade di bolle di sapone, diffuse da un paio di macchinari preventivamente approntati e nascosti, che lo avvolse come una dolce tempesta dalle mille sfumature.
*****
 
Un giovane avvocato, seduto su una poltroncina nelle file centrali, osservava la scena con gli occhi appannati dalle lacrime che da lì scendevano come cascate, scosso da singhiozzi che si sforzava di trattenere mordendosi un labbro per non produrre alcun rumore che potesse rovinare il momento. Era felice per Claudio e Domenico, conosceva il primo da anni ed il secondo da qualche tempo, entrambi abbastanza per essere certo di augurare loro ogni gioia, ma al tempo stesso li invidiava, senza cattiveria, perché loro vivevano qualcosa che lui non aveva mai nemmeno sfiorato: guardandoli, infatti, pensava a quanto desiderasse, in cuor proprio, un amore tanto bello quanto il loro. Era arrivato alla soglia dei trentacinque anni, ormai, ma ancora non aveva conosciuto l'amore, quello vero, e stava perdendo le speranze ogni giorno di più. 

Un giovane medico, seduto proprio sulla poltroncina accanto, osservava la scena con occhi carichi di malinconia che avrebbero tanto voluto sfogare piangendo, ma che avevano da tempo finito le lacrime. Era diventato amico di Claudio e Domenico abbastanza rapidamente, tanto che nemmeno lui avrebbe saputo spiegare come fosse successo, ma immaginava che fosse impossibile non affezionarsi a quella coppia tanto gentile che, tuttavia, ne aveva vissute fin troppe, ed era per questo che augurava loro sinceramente ogni bene, ma li invidiava, nell'accezione più buona, perché loro stavano avendo qualcosa che a lui e al proprio compagno non era stato concesso: mentre li osservava, infatti, pensava a quanto diverso era stato il loro, di matrimonio -o meglio, la loro unione civile-, privo di musica e bei vestiti, con pochi invitati -se così si potevano definire le colleghe ed i colleghi di turno- e dove l'unico bianco presente era quello delle lenzuola, dei camici e delle pareti.

I propri pensieri vennero interrotti da un tremolio spasmodico dal posto alla propria destra, dove era seduto un ragazzo al quale, a dire il vero, non aveva dedicato più di uno sguardo quando si era seduto. Temendo che si stesse sentendo male, si voltò verso di lui -mentre il resto degli invitati non sembravano accorgersi di nulla, dal momento che continuavano ad applaudire, focalizzando tutta l’attenzione soltanto sui due sposi- e lo ritrovò scosso, come aveva ipotizzato, ma da singhiozzi silenziosi. Si chiese, accigliandosi leggermente, cosa potesse causare una tale reazione in quel ragazzo sconosciuto -doveva essere senz'altro molto sensibile-, ma lui era pur sempre un medico ed anche se non conosceva la causa del malessere, poteva e doveva comunque intervenire sui sintomi. Per fortuna, in questo caso, era un compito facile: estrasse un fazzoletto di stoffa da una delle tasche laterali dei pantaloni e glielo porse con un sorriso appena accennato, ma cortese.

"Scusa se mi permetto, ma credo che questo possa servirti."

Mormorò, con gentilezza.

Il giovane avvocato ebbe un sussulto che nulla c'entrava con il pianto, colto alla sprovvista, e si voltò in direzione di quella voce con aria sorpresa. Aveva prestato molta attenzione al proprio vicino di posto perché era una delle poche persone che non conosceva in quella cerimonia, eccezion fatta per la famiglia dell'ispettore Liguori -che tuttavia si era sistemata tutta nel settore opposto e dunque quel ragazzo non ne faceva parte-, e per tutto il tempo d'attesa si era chiesto chi potesse essere. Lo aveva colpito fin da subito il completo che indossava, per la precisione uno spezzato dai pantaloni blu scuro ed una giacca color panna -sfumatura che gli donava molto, tra l'altro-, completato da una camicia azzurrina, quasi bianca, ed un foulard a fantasia blu che sinceramente non sapeva come l'altro riuscisse a sopportare, dato il caldo che faceva. Ora che poteva vederlo meglio in volto -che era morbido e gentile- si accorse che i capelli, dai morbidi ricci ampi leggermente mossi dal venticello marino, gli circondavano il viso come una morbida nuvoletta facendolo apparire più giovane dell'età che supponeva avesse realmente e che aveva un paio d'occhi verdi che il Sole accendeva con i suoi raggi, ma che al tempo stesso gli sembravano spenti. Tutto, nel complesso, contribuiva a farlo sembrare un gentiluomo d'altri tempi, quasi fosse uscito da un romanzo. Avvicinò leggermente la mano a lui per accettare il fazzoletto e subito se lo portò al viso, asciugandosi rapidamente le guance. Era già abbastanza imbarazzante venire beccato a piangere, soprattutto se da un illustre sconosciuto.

"Grazie mille, sei gentile."

Mormorò, accennando un sorriso riconoscente.

Il giovane medico si strinse nelle spalle, abbozzando un gesto della mano come a scacciare una mosca.

"Ah, figurati, per così poco! Tu, piuttosto, stai bene? Ti prendo un po' d'acqua?"

Domandò, con una punta di preoccupazione nella voce. Ora che ci prestava davvero attenzione, vide che il ragazzo sconosciuto indossava un completo verde petrolio ed al di sotto una camicia a fantasia vegetale, un abbinamento che lui avrebbe evitato con tutto se stesso, ma lo sconosciuto aveva una bellezza semplice, naturale, e poteva permetterselo, tanto da renderlo più che accettabile: il viso sottile, ben proporzionato e dagli zigomi pronunciati, con una leggera barba che metteva in risalto la mascella e l'arco di Cupido, infatti, era incorniciato da folti capelli castani che gli arrivavano grossomodo alle spalle, simili alla criniera di un leone, ed impreziosito da due occhi marroni, scuri e caldi, anche se al momento acquosi e tristi, che gli causarono una fitta di nostalgia in petto.

Il giovane avvocato scosse leggermente il capo e tirò su col naso.

"No, sto bene, tranquillo e grazie. È che i matrimoni danno sempre da pensare, no?"

Chiese a bassa voce, retoricamente, mentre tormentava il fazzoletto tra le mani: era bianco, con il bordo azzurro ed una R ricamata nello stesso colore in uno degli angoli che immaginava fosse l'iniziale del suo nome o del suo cognome.

Il giovane medico sorrise mesto ed annuì, puntando poi lo sguardo verso un punto indefinito davanti a sé.

"Già, anche troppo."

Mormorò, quasi impercettibilmente, per poi sospirare e tacere.

Il giovane avvocato aggrottò appena le sopracciglia, come sempre quando aveva a che fare con qualcosa che non gli quadrava. C'era troppa tristezza in quel ragazzo così gentile, la percepiva chiaramente, e sentiva un bisogno istintivo di aiutarlo, anche se di lui non sapeva nulla, neanche il nome. Gli venne in mente, allora, un piccolo espediente per distrarlo.

"Io sono Arthur, comunque. Arthur Peirò!"

Esclamò, cordiale, porgendogli una mano.

Il giovane medico si voltò verso di lui e sbatté un paio di volte le palpebre, come se lo vedesse per la prima volta, ma subito gli rivolse un mezzo sorriso e ricambiò la sua stretta.

"Riccardo Bonvegna, molto lieto."

Rispose, sincero.

Arthur gli sorrise, annuì appena per dimostrare di aver recepito l'informazione -non era così scontato, data la confusione che c'era intorno a loro- e gli restituì il fazzoletto che teneva nell'altra mano.

"Ah, comunque questo è tuo, grazie ancora..."

Riccardo scosse appena il capo ed allontanò la sua mano con un gesto gentile.

"Tienilo pure, serve più a te che a me."

La propria attenzione, poi, fu catturata dal movimento che, quasi in contemporanea, compirono gli altri invitati. Ridacchiò appena e si chinò a raccogliere i due tubetti di bolle di sapone che si trovavano ai piedi delle loro poltroncine, come a quelli di tutte le altre.

"Ti è rimasto abbastanza fiato, vero?"

Domandò, con un'aria vagamente di sfida, porgendogliene uno.

Arthur sorrise sghembo e annuì, deciso, mentre accettava il tubetto.

"Ti farò mangiare il mio sapone, Riccardo Bonvegna!"

Esclamò, per poi alzarsi.

Riccardo, dopo un attimo di esitazione, ridacchiò di gusto e scattò in piedi a propria volta, lasciandosi andare senza nemmeno rendersene conto.

"Sarai troppo impegnato a mangiare il mio, Arthur Peirò!"

Ribatté, con altrettanta giocosa convinzione.

A poca distanza da loro, proprio su quel tappeto bianco su cui i due sposi si stavano apprestando a sfilare, c'era una persona che non era stata propriamente invitata, ma che del resto non avrebbe avuto bisogno di un invito per essere lì, perché poteva andare dove voleva, in qualsiasi momento. Anche lui, come Riccardo, era un giovane medico, ma a differenza di Riccardo non poteva curare più nessuno e non sarebbe mai invecchiato. Nessuno poteva vederlo, neanche chi gli stava ad appena un passo di distanza, ma lui aveva osservato con occhio attento tutta la scena. Ridacchiò teneramente, scoprendo i denti bianchi che splendevano nel viso rilassato, guardando l'amore della propria vita soffiare bolle di sapone con l'entusiasmo di un bambino, come non lo vedeva da mesi e mesi, accanto ad una persona che, forse, poteva essere quella giusta per lui. Per la prima volta dopo tanto tempo, sentì dentro di sé il calore della speranza.

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Capitolo 47
*** Epilogo – Eternamente ora (parte 4) ***


Nel giro di pochi attimi, l'aria si riempì di bolle dai mille riflessi, soffiate a pieni polmoni dagli invitati e sospinte dalla brezza marina in direzioni imprevedibili.

Claudio e Domenico attraversarono quel corridoio iridescente e leggiadro mano nella mano, a passo lento, ridendo spensierati mentre le piccole sfere fluttuavano accanto a loro, sfiorandoli, oppure scoppiavano, bagnandoli con le loro goccioline fresche ed impalpabili. Talvolta erano loro stessi a farle scoppiare, cogliendo l'occasione quando una di esse si avvicinava particolarmente al viso dell'uno o dell'altro, che si ritrovava colpito all'improvviso ed arricciava il naso in reazione, ed in quei momenti le loro risate erano più cristalline delle bolle stesse.

Arrivati a pochi passi dalla sala da cui erano usciti, Claudio si fermò di colpo e sospirò: non aveva senso rimandare l'inevitabile, tanto valeva farlo subito.

Domenico, accanto a lui, non ebbe bisogno di fargli domande per capire cosa gli passasse per la testa. Rivolse uno sguardo torvo all'unico invitato che non aveva partecipato alla loro felicità -era vestito completamente di nero, come se fosse andato ad un funerale più che ad un matrimonio- e poi tornò a guardare il compagno, con dolcezza, e strinse leggermente la sua mano.

"Sei sicuro di volerci andare da solo?"

Chiese a voce bassa, che tradiva apprensione.

Claudio annuì e ruotò su se stesso, in modo da vedere meglio il proprio premuroso compagno al quale rivolse un mezzo sorriso.

"Sì, è una cosa che devo risolvere da me..."

Mormorò, portando le mani sulle sue braccia, che accarezzò per tranquillizzarlo.

"Tu tieni lontani i ragazzi, va bene? Non voglio che si mettano in mezzo..."

Aggiunse, preoccupato.

Domenico gli sorrise dolcemente ed annuì, cingendogli la vita con le mani.

"Tranquillo, ci penso io. Tu, invece, cerca di non dare troppo peso a qualsiasi cosa ti dirà, mh? Tanto sono tutte stronzate."

Disse piano, accarezzandogli i fianchi per dargli coraggio.

Claudio allargò il proprio sorriso, che di fece più luminoso e sereno, e si strinse leggermente al compagno.

"Lo so, lo so. Non voglio nemmeno ascoltarlo, voglio solo mandarlo via."

Affermò, deciso.

Domenico gli sorrise orgoglioso e si avvicinò al suo viso, posando un morbido bacio sulle sue labbra.

"Ti amo."

Sussurrò.

Claudio si avvicinò a propria volta e ricambiò il bacio, lentamente.

"Ti amo anch'io."

Replicò, a voce bassa.

Restarono a guardarsi ancora per pochi istanti, poi Claudio si separò dall'uomo che amava e si diresse verso l'uomo che odiava, avanzando a passi misurati, in modo da non tradire alcuna emozione: non doveva e non voleva concedergli nemmeno quella soddisfazione.

Erano trascorsi anni dall'ultima volta che aveva visto suo padre, ed alcune cose erano cambiate: l'ingegner Vinci aveva barba e capelli folti e ordinati come sempre, ma ora erano completamente bianchi e, in un certo senso, contribuivano a dargli un'aria benevola, saggia, da mite nonnetto che ti dà una caramella e ti racconta qualche simpatico aneddoto di gioventù, ma naturalmente si trattava di un'illusione; stava in piedi, appoggiato ad un bastone che reggeva con la mano destra come ricordava, ma dietro di lui, a pochi passi di distanza, c'era un uomo elegante che non aveva mai visto -doveva trattarsi di una sorta di assistente personale-, accanto ad una sedia a rotelle -anche quella era una novità-.

Non poté fare a meno di chiedersi chi potesse essere disposto ad aiutare una serpe come suo padre, e si rispose che poteva trattarsi soltanto di una serpe come lui oppure di una persona che aveva un disperato bisogno di soldi.

Suo padre lo osservava con un sorriso ostentato, che ad occhi esterni poteva sembrare dolce e cordiale, ma Claudio lo conosceva bene e sapeva riconoscere quanto fosse falso: non arrivava, infatti, agli occhi, quei dannatissimi occhi di ghiaccio che per tanto tempo aveva creduto terribilmente simili ai propri, al punto da non riuscire a guardarsi allo specchio, ma che poi aveva capito essere totalmente diversi. 'Il mio portafortuna sono i tuoi occhi blu.', risuonò la voce dolce di Domenico nella propria testa, e lui dovette trattenersi dal sorridere al solo pensiero.

Si avvicinò a suo padre il tanto che bastava per farsi sentire e per dimostrargli di essere sicuro di sé, dunque rimase a poco più di due passi da lui, e lo fissò dritto negli occhi, senza timore.

"Non sei il benvenuto, qui. Devi andartene subito."

Disse con voce decisa, ma calma, mantenendo un tono basso e neutro, che non tradiva emozione. Doveva essere impeccabile in questo, non poteva permettersi errori.

L'ingegner Vinci ruppe immediatamente il sorriso, che si trasformò in un ghigno sprezzante.

"Ma come, è così che accogli tuo padre? E dire che un tempo possedevi un'educazione di tutto rispetto."

Sospirò, con aria rassegnata.

"È chiaro che è venuta meno, insieme alla tua morale."

Aggiunse, tagliente.

Claudio si lasciò scivolare addosso la provocazione e non tradì alcuna reazione nell'espressione del viso o nei gesti. Lui, a differenza di suo padre, poteva dire di avere una morale perfettamente intatta e per quanto riguardava l'educazione, che fortunatamente non era quella che gli era stata impartita, preferiva riservarla a chi la meritava davvero.

"Non devo dar conto a te di come mi comporto. Ora vattene, ti ho detto che non sei gradito."

Ribatté, mantenendo un tono fermo, ma pacato.

L'ingegner Vinci, tuttavia, non diede segno di aver sentito e riprese a parlare, come se avesse avuto un discorso pronto da dover dire a tutti i costi.

"Qualche mese fa ho ricevuto una visita inaspettata: un certo sacerdote, mio carissimo amico, venne da me, trafelato, per dirmi che mio figlio, il famoso avvocato Claudio Vinci, si era recato da lui per chiedergli la benedizione di due anelli, due fedi nuziali, che tuttavia non erano destinate ad un matrimonio santo e giusto, ma ad un'ingiuria contro Dio e la Natura!"

Cominciò a raccontare, con voce bassa e strisciante. Sospirò pesantemente.

"Sapevo di aver fallito nel tentativo di raddrizzarti, eppure mai avrei creduto che ti saresti spinto fino a questo punto, che avresti gettato una tale onta sul nome della nostra famiglia! Così mi sono informato, nel tempo, e sono venuto a sapere che questa...unione civile, se così va definita, si sarebbe svolta qui, oggi, e sono corso a vedere con i miei occhi questo scempio. Non ti vergogni di ciò che hai fatto? Per colpa tua il nostro nome sarà macchiato per sempre!"

Sibilò, velenoso, guardando quel figlio degenere con occhi carichi d'odio.

Claudio non si lasciò intimidire né da quelle parole, né dallo sguardo di chi le pronunciava, che sostenne con il proprio, e anzi assaporava una certa goduria nel sentirlo parlare così, perché voleva dire che, finalmente, era stato lui a ferirlo. Curvò l'angolo delle labbra in un sorriso sghembo, trionfante: no, non si vergognava affatto.

"Questo matrimonio è la cosa migliore che sarebbe mai potuta capitare al nome della nostra famiglia, che è stato ampiamente rovinato da te."

Replicò, usando volutamente il nome del sacramento per indispettire ancora di più suo padre, ed anche perché per lui e per Domenico quell'unione era stata qualcosa di realmente sacro, che andava al di là dei dettami religiosi.

"Ma comunque puoi stare tranquillo, non userò il tuo prezioso nome molto spesso. Da oggi faccio parte della famiglia Liguori."

Aggiunse, senza nascondere un moto d'orgoglio nella voce e nello sguardo. Senza vergogna.

"E adesso vattene, non ho più niente da dirti."

Aggiunse, duro, indicandogli la via con un cenno del capo.

L'ingegner Vinci era furente, ma seppe mantenere un aspetto di totale calma e pacatezza, ad eccezione della mano che si strinse maggiormente intorno all'impugnatura del bastone -dettaglio che, di nuovo con una certa soddisfazione, non sfuggì a Claudio-. Voltò il capo per guardare oltre le spalle del figlio, verso il terzetto che si era formato e che osservava attentamente la scena, e sogghignò.

"Liguori...Domenico Liguori. È un ispettore di Polizia, giusto? Ed anche molto capace, da quanto so..."

Disse mellifluo, lasciando cadere quelle informazioni come parole leggere, anche se lasciavano intendere tutt'altro. Si era informato anche su di lui, naturalmente, attraverso le mille conoscenze che aveva.

"E gli altri due, invece, chi sono? Non li conosco. Due invertiti come voi? Che peccato... però sono ancora giovani, forse si può fare qualcosa per loro, no?"

Aggiunse, senza alzare la voce, dalla quale traspariva in ogni caso l'intenzione di denigrare e ferire.

Claudio si sentì scattare qualcosa dentro ed il sangue scorrergli infuocato nelle vene: poteva sopportare i commenti rivolti a se stesso, ma non quelli rivolti alle persone che amava. Si spostò di lato in modo da bloccare la visuale del padre e così proteggerle, far loro da scudo con il proprio corpo. Non poteva permettere che loro venissero intaccati.

"Tu non sei nemmeno degno di posare gli occhi su di loro, men che meno di parlarne!"

Ringhiò, basso, scandendo attentamente ogni parola.

L'ingegner Vinci liberò una risatina vittoriosa, che di allegro non aveva nulla: l'allegria sarebbe stata fuori posto in un uomo che non era in grado di provare emozioni positive, e così la sua risata assomigliava più ad un rumore metallico, agghiacciante e disturbante.

"Non ti scaldare, stavo solo cercando di fare conoscenza."

Disse, sardonico, tornando a guardare il figlio. Subito dopo si strinse nelle spalle con aria innocente.

"Comunque adesso vado via, così sei più contento, ma prima voglio darti il mio regalo."

Aggiunse, con un ghigno che non prometteva nulla di buono stampato in viso. Fece un cenno al proprio assistente, che si avvicinò a passo svelto e porse a Claudio una scatola prima di allontanarsi di nuovo.

Claudio se la studiò tra le mani per qualche secondo, era completamente bianca e senza alcun tipo di decorazione né biglietto. Per un attimo pensò seriamente che potesse contenere un ordigno esplosivo di qualche tipo, ma poi realizzò che suo padre non avrebbe mai rischiato la vita, e lui non si era mosso di un centimetro, quindi almeno su questo fronte poteva stare tranquillo. Se anche lì dentro non c'era una bomba, comunque, di certo non poteva aspettarsi un regalo vero e proprio, quanto piuttosto l'ennesimo modo per umiliarlo e metterlo a disagio.

Sollevò il coperchio e le sue aspettative non vennero deluse: all'interno della scatola, infatti, c'era una cintura perfettamente arrotolata su se stessa, e non era una cintura qualsiasi. Si trattava dell'esatta copia di quella che suo padre aveva usato per picchiarlo tanti anni prima -era certo che non fosse la stessa perché questa era nuova ed intonsa, si vedeva chiaramente-, in pelle nera e con la cinghia d'oro. Scoppiò in una fragorosa risata, spontanea ed incontrollata, che non era dettata dalla paura o dallo shock, ma da un sincero senso di divertimento.

L'ingegner Vinci, che si aspettava ben altra reazione, ne fu stupito e si irrigidì, assottigliando le labbra e rafforzando la presa sul bastone.

Claudio tornò a guardare suo padre e finalmente riusciva a vederlo per l'essere ridicolo ed insignificante che era. Il ricordo di ciò che aveva subito non aveva più effetto su di lui. Sollevò leggermente la cintura, per mostrargliela.

"Cosa credevi, che sarei rimasto pietrificato dalla paura?"

Disse, con la voce ancora piena di risate. Scosse il capo, posando la cintura nella scatola e richiudendola con il coperchio.

"No, quei tempi sono finiti. Non sono più un ragazzino, sono cresciuto e tu non hai più alcuna influenza su di me. Sei solo un uomo ignobile che il destino mi ha dato come genitore, un vecchio che crede ancora di poter decidere ancora qualcosa in questo mondo di cui è sempre stato un parassita e che non si rende conto, come mi par di capire chiaramente, che lo lascerà presto."

Gli argini nei quali aveva confinato il proprio odio erano crollati, ed ora quello defluiva libero nel suo sguardo di ghiaccio e nella sua voce sottile e velenosa. Era un modo di porsi che sapeva di avere da qualche parte dentro di sé, che gli apparteneva per genetica, ma che non aveva mai usato prima d'ora. Si rese conto, tuttavia, che non era un male, e che anzi gli faceva bene sputargli addosso tutto ciò che si portava dentro da anni. Sorrise sghembo, trionfante, e si avvicinò di qualche passo.

"Te lo dico per l'ultima volta: va' a vivere il resto della tua vita, per quel che ti rimane, e non pensare di farti vedere di nuovo."

Sibilò, infine.

L'ingegner Vinci si lasciò sfuggire un ringhio di frustrazione, ma capì che non aveva altra scelta: non aveva mai visto suo figlio così deciso, era davvero cresciuto in tutti quegli anni. Avrebbe fatto meglio a farlo fuori quando poteva, ma era chiaro che oramai fosse troppo tardi.

"Me ne vado, ma perché sono io a volerlo e non perché me lo ordini tu!"

Esclamò, puntandogli un dito contro con aria minacciosa.

Non ottenne l'effetto sperato, infatti Claudio in risposta gli rise di nuovo in faccia e lo salutò con un cenno ironico della mano.

"Faccia buon viaggio, egregio ingegnere!"

Replicò, sarcastico.

L'ingegner Vinci ringhiò di nuovo e si allontanò, facendo cenno al suo assistente di seguirlo, ma rifiutando la carrozzina per non mostrarsi debole.

Claudio ridacchiò tra sé e sé, attese che suo padre gli desse le spalle e poi tornò da Domenico e dai ragazzi, che lo stavano aspettando trepidanti, tenendo la scatola sottobraccio. Il suo volto, però, era sereno e disteso in un sorriso.

Domenico gli si avvicinò e gli mise una mano su un braccio, rivolgendogli uno sguardo carico di preoccupazione. Il ricordo di ciò che quel mostro gli aveva fatto era ancora vivido nella propria mente.

"Stai bene?"

Domandò con una punta di apprensione, anche se il compagno gli sembrava tranquillo, perché era quella la cosa più importante.

Claudio annuì ed il proprio sorriso si fece più ampio, più luminoso, tanto da fare concorrenza al Sole che splendeva sulle loro teste.

"Sì, sto benissimo. Mi sento libero."

Rispose, con voce pacata ma allegra.

Domenico si sciolse in un sorriso dolcissimo ed orgoglioso, che rivolse al compagno che tanto amava. Lo avvolse con un braccio e lo tirò a sé dandogli un bacio tra i capelli.

Claudio ridacchiò piano, leggero, ed allungò una mano ad accarezzare il viso dell'altro, per rassicurarlo: stava davvero bene. Non ebbero bisogno di parlare ancora, bastò un ultimo sguardo d'intesa per dirsi tutto prima di sciogliere quell'intreccio che si erano creati ed avvicinarsi a Manuel e Simone, a pochi passi di distanza.

I due ragazzi rivolsero a Claudio un sorriso traboccante d'affetto e gli diedero una pacca su una spalla ciascuno, che poi si trasformò in una carezza.

Simone, a nome della preoccupata curiosità di entrambi, indicò con un cenno del capo la scatola che Claudio teneva ancora sottobraccio.

"Cosa c'è lì dentro? Ti abbiamo visto ridere, ma eravamo lontani e non abbiamo capito."

Claudio sollevò leggermente le sopracciglia, come sorpreso, poi guardò la scatola come se se ne fosse già dimenticato.

"Ah, questo... è il suo regalo, diciamo così."

Sollevò di nuovo il coperchio e con cautela, poiché sapeva già che reazioni aspettarsi da tutti e tre, mostrò il contenuto.

Sui volti Manuel e Simone si dipinse la stessa espressione di sorpresa mista ad orrore e rabbia mentre, in cuor loro, si chiedevano come fosse possibile che un uomo, se così si poteva definire, vivesse senza cuore.

Domenico, invece, seppur sentiva montare dentro di sé la stessa ira, era molto meno sorpreso e conosceva la risposta a quella domanda: l'ingegner Vinci ce l'aveva un cuore, come tutti gli esseri viventi, ma era marcio e nero come la sua anima.

Manuel si fece avanti, sbuffando come un toro alla carica, gli occhi puntati sull'uomo che si stava allontanando a passo lento.

 "Quello stronzo! Gliel'avvolgo al collo come 'na cravatta, te faccio vede'!"

Ringhiò.

Simone, subito dietro di lui, era pronto a seguirlo e a dargli manforte, magari aiutandolo con il cappio!

Claudio, tuttavia, li fermò entrambi con un gesto della mano, certo non per proteggere suo padre, ma per proteggere loro.

"No, voi dovete stare qui, fermi e buoni. Tanto sono sicuro che non mi disturberà più."

Disse con fermezza, ma con un senso di profonda tranquillità negli occhi. Andava bene così.

I due ragazzi lo guardarono, si immersero in quel cielo azzurro privo di nubi e dopo pochi istanti la loro ira si placò e venne cacciata fuori con un profondo sospiro.

Simone spostò lo sguardo accigliato verso l'ingegner Vinci, ormai ad una discreta distanzada loro, e se ne fosse stato capace, l'avrebbe fulminato semplicemente così.

"È proprio uno stronzo, però!"

Mugugnò, a denti stretti.

Claudio annuì e sorrise, comprensivo.

"È vero, ma voi non lo siete. Forza, venite qui."

Così dicendo allargò le braccia e i due ragazzi ci si tuffarono come due bambini, seppur lo sovrastassero in altezza; Claudio li strinse forte a sé, accarezzando le loro schiene, noncurante del precario equilibrio di quella situazione: li avrebbe sostenuti, sempre e comunque.

"Non vale la pena mettersi nei guai per uno stronzo del genere, vi pare? Voi avete il cuore puro, non lasciate che si rovini per una persona come lui. Me lo promettete?"
I due ragazzi annuirono, strofinando i visi contro le guance dell'uomo, e lo strinsero un po' di più nell'abbraccio.

"Te lo promettiamo."

Mormorò Simone, a nome di entrambi.

"Ti vogliamo bene."

Aggiunse Manuel, parlando per tutti e due.

Claudio accennò un sorriso e posò un bacio tra i ricci prima dell'uno e poi dell'altro, che gli solleticarono piacevolmente le labbra.

"Anch'io, ragazzi miei, tantissimo."

Affermò, e dopo un'ultima stretta, un po' più forte, sciolsero l'abbraccio, ma solo con i corpi.

Domenico aveva osservato intenerito tutta la scena, con lo sguardo che si era anche fatto un po' lucido per la bellezza della famiglia -la propria famiglia, la loro famiglia- che aveva davanti, poi con la coda dell'occhio, grazie all'istinto da poliziotto, si accorse che il padre di Claudio si stava allontanando troppo e aveva quasi raggiunto il vialetto che portava all'uscita. Aveva lasciato che Claudio si liberasse dalle catene che in qualche modo ancora lo tenevano ancorato al passato, perché era giusto così, ma anche lui aveva un sassolino da togliersi dalla scarpa.

"Posso andare a parlargli? Solo parlargli, giuro!"

Domandò al compagno, tornando a guardarlo.

Claudio si voltò verso di lui, un po' incerto, ma acconsentì alla sua richiesta. Lo vedeva determinato, sì, ma tutto sommato equilibrato, non mosso da una furia cieca come era stato per Manuel e Simone.

"Va bene, però sta' attento: sa chi sei e non voglio che ti faccia passare un guaio. Lo sai che ha un'infinità di agganci."

Gli fece presente, per avvertirlo.

Domenico sorrise sghembo e gli fece una carezza sul viso, annuendo.

"Tranquillo, non dirò nulla che non sia totalmente oggettivo."

Replicò divertito, per poi allontanarsi a passo svelto fino a raggiungere i due uomini, quello che avanzava reggendosi al bastone e quello che spingeva una sedia a rotelle vuota. Si parò davanti a loro, bloccando la strada, e mise su un sorriso forzatamente cordiale.

"Ingegner Vinci, permette? Vorrei scambiare due parole con lei."

Esclamò, con un tono che fingeva d'essere cordiale, e subito proseguì.

"Ci tenevo particolarmente a ringraziarla, mio malgrado, perché senza di lei Claudio non sarebbe mai nato ed io non l'avrei mai conosciuto."

Il proprio sorriso, al solo nominare l'uomo a cui aveva donato il proprio cuore ricevendo il suo in cambio, si fece istintivamente più caldo e sincero, ma tornò immediatamente freddo ed impersonale quando tornò a concentrarsi su quel mostro.

"Lei non ha molti meriti, anzi non ne ha nessuno ad eccezione di aver dato la vita ad un uomo straordinario, che tuttavia non ha saputo trattare come avrebbe meritato. So che lei tiene molto al giudizio divino e, detto tra noi, sinceramente penso che Dio, lo stesso Dio che ama così tanto i suoi figli, tutti i suoi figli, da aver mandato il suo Figlio prediletto per salvare ciascuno di loro, terrà conto di come lei ha trattato il suo, quando tra non molto, com'è evidente, la giudicherà per come ha vissuto."

Disse mantenendo quel tono mellifluo, e si prese tutto il tempo necessario per far arrivare a destinazione le proprie parole, ma fu ben attento a non lasciare spazio di replica, perché del resto non gli importava minimamente di ciò che quello stronzo potesse avere da dirgli.

"Buona giornata!"

Concluse con un sorriso affilato ed un cenno di saluto che era più uno scherno, per poi allontanarsi rapidamente così come era arrivato, lasciandosi alle spalle quell'uomo pietrificato come una statua di sale.

"Forza, andiamo, Sara ci sta aspettando per le foto. È lei quella da temere sul serio!"

Esclamò divertito, giunto nuovamente da chi meritava davvero le proprie attenzioni.

Claudio, però, decise di prendersi ancora qualche istante, sicuro del fatto che Sara avrebbe compreso, e avvolse il compagno in un abbraccio.

"Ti amo."

Disse con dolcezza, guardandolo negli occhi con infinito amore.

Domenico accennò una risatina e cinse il compagno tra le braccia, ricambiando lo sguardo ed il sentimento.

"Ti amo anch'io."

Come due calamite che non potevano restare troppo lontane troppo a lungo, eliminarono la già poca distanza tra loro con un bacio lento, appassionato, fatto di carezze e sospiri.

Manuel e Simone, poco distanti, si scambiarono uno sguardo d'intesa e si spostarono di qualche passo, in modo da lasciare ai due uomini lo spazio che meritavano.
Da lontano, anche l'ingegner Vinci fu spettatore di quel bacio; sbuffò ed imprecò tra i denti, stizzito, e si allontanò definitivamente da quella felicità che non riusciva a tollerare, da quell'amore che l'aveva sconfitto.

Quando i minuti trascorsi ad unirsi sempre di più cominciarono a far sentire il loro scorrere ed i polmoni richiedevano un ossigeno che poco c'entrava con il vero respirare, Claudio e Domenico si separarono, sorridenti, ma restarono uniti e, mano nella mano, si avviarono verso la sala interna, dove Sara li stava aspettando per portarli via.
Domenico, con un cenno del capo, indicò la scatola che il compagno aveva deciso di portare con sé.

"Cosa vogliamo fare con quella?"

Domandò, tranquillo.

Claudio accennò un sorriso, gli era tutto chiarissimo.

"Se Giancarlo Vinci è ancora il megalomane che è sempre stato, la fibbia dovrebbe essere in oro. Se è così, la vendiamo e depositiamo il ricavato nel fondo che abbiamo creato per le donazioni."

Di comune accordo, infatti, lui e Domenico avevano deciso di non chiedere regali per il loro matrimonio, che sarebbero stati inutili e superflui, e di donare, invece, la cifra predestinata ad un ipotetico servizio di piatti o aspirapolvere ad una serie di associazioni che si impegnavano ad aiutare le persone come loro, nei modi più disparati.
"È lo smacco più grande, per lui, ed è la cosa più giusta da fare."

Concluse, guardando il compagno.

Domenico, che subito raggiunse il suo sguardo, annuì rapidamente e lo baciò a fior di labbra, sempre più innamorato di quel suo cuore buono.

"E magari gli facciamo avere anche la copia della ricevuta, per vie traverse e con i dati oscurati, chiaramente."

Propose, quasi gongolando.

Claudio ridacchiò e ricambiò il bacio, rapido e leggero, sempre più innamorato di quel suo cuore gentile.

"E sia. Faccimml schiattà 'ncuorpo come si deve!"

Esclamò, imitando quasi alla perfezione l’accento partenopeo.

Domenico scoppiò teneramente a ridere e tirò di nuovo a sé il compagno in un abbraccio, sfiorandogli la punta del naso con il proprio in una piccola carezza.
"Quanto ti amo, core mij!"

Claudio, che nell’impeto aveva fatto cadere la scatola e non se ne era minimamente curato, sorrise di rimando, con infinita dolcezza, e cinse i fianchi del compagno con le proprie braccia.

"Ti amo anch’io, amore mio."

*****

Tutte le città che hanno la fortuna di affacciarsi sul mare, perfino quella con la spiaggia più piccola e modesta, vengono, prima o poi, scelte dalle coppie di sposi per incorniciare il loro giorno speciale. Napoli, in questo, con i suoi mille scorci e panorami incantevoli, ha ben pochi rivali, se non nessuno. I novelli sposi scelgono consapevolmente il mare per la sua bellezza e, forse più inconsciamente, perché si augurano che quegli abissi possano custodire e proteggere il loro amore in eterno. E il mare lo fa, lo fa sempre.

Claudio e Domenico erano in piedi sulla sabbia soffice, in cui affondavano parzialmente le scarpe, ad osservare l'orizzonte mentre aspettavano che Sara scegliesse il punto adatto per cominciare a scattare le foto, aiutata dalla sua fedele assistente, sua figlia Lucia. Per loro il mare non era soltanto e banalmente una bellissima scenografia, ma aveva un significato speciale: tra le tante spiagge che Napoli offriva, non avevano scelto la più suggestiva, ma la semplice spiaggia libera dove ventun anni prima si erano scambiati le prime timide carezze, seppur mascherate da uno strato di crema solare, confidati paure e consigli, e avevano cominciato a conoscere la libertà e l'amore.

La spiaggia ed i suoi dintorni erano inevitabilmente cambiati -ad esempio, i palazzi poco distanti che prima erano nuovi, adesso avevano i colori sbiaditi e mancavano di interi pezzi di intonaco, ed accanto ad essi ne erano stati costruiti altri-, ma il mare li aveva accolti con lo stesso pacato saluto, fatto di onde placide e morbide, mentre diventava sempre di più un tutt'uno con il cielo. Tutto era cambiato, ma al tempo stesso era rimasto uguale.

"Ti ricordi la prima volta che ti ho portato qui?"

Domandò Domenico, a voce bassa, indicando con un cenno della mano libera il mare non troppo lontano da loro. Con l'altra, invece, abbracciava quella del compagno.
Claudio annuì, lentamente, rivolgendo al mare un mezzo sorriso, dal sapore malinconico ma dal retrogusto gioioso.

"E chi se lo dimentica! Com'è che mi dicesti?"

Alzò lo sguardo verso il compagno, con le labbra curvate in un sorriso più dolce.

"Che con quella maglietta addosso stavo facendo le cozze, giusto?"

Chiese, divertito.

Domenico ridacchiò piano, per poi annuire. Si portò la mano di Claudio alle labbra, baciandola con tenerezza: sapeva bene che quel mare, con le sue onde, riportava a galla ricordi bellissimi per Claudio, ma anche molto brutti e lui voleva essere lo scoglio contro cui queste ultime onde andavano ad infrangersi.

Claudio arrossì a quel gesto esattamente come avrebbe fatto quando aveva ventun anni in meno e più paure sulle spalle e il suo volto si illuminò di un sorriso, come il mare che luccicava colpito dai raggi del Sole.

Domenico accennò una risatina intenerita da quella reazione così dolce e spontanea, così giovane, e sospirò.

"Sono cambiate tante cose da allora, eh?"

Sussurrò, divertito, riportando in basso le loro mani.

Claudio, che di solito concordava in tutto e per tutto con il proprio compagno, stavolta scosse la testa in un cenno di dissenso.

"No, secondo me no. Le cose importanti non sono cambiate."

Rispose sereno, guardandolo negli occhi.

Domenico, in risposta, sollevò un sopracciglio.

"Eh però ci siamo sposati! Vorresti dire che il nostro matrimonio non è una cosa importante?"

Chiese, più divertito che serio. Aveva perfettamente capito il discorso dell'altro e in parte concordava, ma valeva comunque la pena sottolineare le cose belle.

Claudio ridacchiò.

"No, non intendevo dire questo e lo sai. Voglio dire che noi non siamo cambiati: siamo cresciuti, azzarderei a dire invecchiati..."

Domenico arricciò leggermente il naso in una smorfia di giocoso disappunto.

"Parla per te!"

Lo interruppe, scherzoso, ed entrambi ridacchiarono.

"Però il nostro amore è lo stesso di allora."

Concluse Claudio, senza staccare gli occhi blu da quelli verdi.

Domenico, allora, attraversato da un'improvvisa illuminazione, prese il cellulare: aveva capito come convincerlo.

"Me lo fai un sorriso, core mij?"

Chiese, con dolcezza.

Claudio si morse un labbro, imbarazzato: il suo istinto di avvocato gli diceva di aver già perso quella causa.

"Devo proprio?"

Provò a dire, sapendo che non sarebbe servito a nulla.

Domenico, infatti, era irremovibile ed annuì.

"Dai, per favore! I tuoi occhi in questo momento hanno lo stesso colore del mare e del cielo, una foto è d'obbligo!"

Claudio sospirò e, un po' impacciato, cercò di mettersi in posa e regalò alla fotocamera -e quindi all'uomo che vi stava dietro- uno dei suoi più dolci sorrisi.

Domenico guardò la foto, soddisfatto e sempre più innamorato, poi gliela mostrò.

"Ventun anni fa non avresti mai sorriso così tanto davanti a questo mare, in questo punto. Questa è una cosa che sono felice che sia cambiata."

Claudio posò lo sguardo sulla foto per qualche secondo -e dovette riconoscere a se stesso di essere uscito bene-, ma il sorriso che gli spuntò sulle labbra era tutto per il compagno, al quale lo rivolse.

"Anch'io ne sono felice. E sono felice che sia cambiata anche questa."

Sussurrò, per poi avvicinarsi alle labbra del compagno e posarvi un bacio, accarezzandogli il collo, che Domenico immediatamente ricambiò, stringendolo a sé per il busto.

Ventun anni prima, su quella stessa spiaggia così diversa eppure così uguale ad adesso, donarsi un bacio sembrava un sogno irrealizzabile.

Le loro effusioni, inutile dirlo, attirarono lo sguardo curioso di diversi avventori di quella spiaggia, ma nessuno di essi intervenne in alcun modo -non ci furono insulti od inviti ad andarsene- e così la loro bolla rimase intatta, almeno fino a quando Sara reclamò la loro attenzione, ma non prima di aver scattato loro una foto, perché riteneva che quelle spontanee fossero le migliori.

"Piccioncini, se avete finito di tubare, io sarei pronta!"

Esclamò, prendendoli affettuosamente in giro.

Claudio e Domenico interruppero immediatamente il loro bacio e si scambiarono un'occhiata complice mentre raggiungevano la fotografa, ridacchiando come due ragazzini colti nel bel mezzo di una marachella, con l'imbarazzo leggero di chi sapeva che non aveva fatto nulla di male ad imporporar loro le guance.

Sara li condusse al punto che aveva scelto, un rettangolo di spiaggia straordinariamente poco affollato e sul quale la luce che cadeva nel modo giusto, controllò ancora una volta che fosse tutto perfetto come voleva lei, e cominciò a dare forma a nuovi scatti: una prima foto ritraeva Claudio e Domenico di spalle mentre camminavano sulla sabbia, mano nella mano, tenendo il mare su un lato e la spiaggia dall'altro, ed una seconda, subito dopo, riprendeva la stessa scena ma di fronte, con i due sposi che si guardavano sorridenti, persi negli occhi l'uno dell'altro. Queste furono gli unici due scatti per i quali Sara diede le proprie direttive, sia perché questo genere di posa, in cui la coppia di fresca unione avanzava insieme verso il futuro, era un vero e proprio classico dei matrimoni, e Claudio e Domenico le avevano ripetuto un numero incalcolabile di volte che ci tenevano ad avere un matrimonio classico, e sia perché, più egoisticamente, lo scorcio che si creava tra il mare, il cielo e la spiaggia era troppo speciale, unico, e sarebbe stato uno spreco non immortalarlo; per il resto, i due sposi ebbero campo libero.

Claudio e Domenico, privi di un supervisore che dicesse loro cosa fare, scelsero di assecondare la loro naturale inclinazione a stare vicini e a toccarsi, dunque si fermarono e così la terza foto li ritrasse uno di fronte all'altro, la distanza tra i loro corpi era ridotta al minimo, con le mani di Domenico che tenevano strette quelle di Claudio in alto, all'altezza del petto, gli occhi chiusi, le labbra ricurve in due sorrisi sereni e le fronti che si toccavano: da lontano potevano senz'altro apparire come un'unica entità. Respiravano lentamente l'odore salato del mare che si mischiava con il loro, creando un profumo capace, al tempo stesso, di riportare al passato, ancorare al presente e proiettare al futuro, e seguivano il suono placido delle onde per guidare la danza delle loro carezze, sfiorandosi le punte dei nasi con delicata morbidezza.

Domenico, tuttavia, riaprì gli occhi all'improvviso, ma con studiata lentezza per evitare che il compagno potesse percepirlo, poi gli avvolse il busto con le braccia e con un movimento rapido, ma misurato, lo sollevò a qualche centimetro da terra, con un sorriso furbo sul viso.

Claudio sgranò gli occhi, non capendo subito cosa stesse accadendo, e si aggrappò alle spalle di Domenico come un gatto ad un albero, liberando un grido di sorpresa.

"Ma che fai, sei pazzo?"

Esclamò, ma la sorpresa aveva già lasciato il posto ad un sorriso.

Domenico annuì, soddisfatto, senza intenzione di lasciarlo andare.

"Sì, tutto pazzo di te!"

Replicò, allegro, per poi fargli fare una piccola giravolta.

Claudio urlò di nuovo, ma subito quell'urlo si trasformò in risata e Domenico scoppiò a ridere insieme a lui: le loro risate leggere riempirono l'aria, superarono perfino la musica del mare, e fu così che la quarta foto, scattata abilmente da Sara, catturò quel momento felice.

Per la quinta foto -che sarebbe stata l'ultima, dal momento che si stava facendo tardi e non volevano certo che gli invitati cominciassero ad augurarsi il loro divorzio- scelsero di accomodarsi su un muretto, non eccessivamente alto, che circondava la spiaggia.

Domenico si accomodò stendendo le gambe in avanti, tenendole larghe in modo da lasciare un po' di spazio, e Claudio si sistemò lì in mezzo, abbandonandosi contro il petto del compagno, il suo rifugio. Domenico lo accolse tra le braccia, che incrociò sul petto dell'altro, e Claudio raggiunse le sue mani con le proprie: un nodo che nessuno avrebbe mai potuto sciogliere. Si guardavano, Claudio con il capo leggermente sollevato e Domenico con il capo leggermente chinato, perdendosi negli occhi l'uno dell'altro: cielo e bosco che si incontravano.

Sara soffermò più volte l'obiettivo su quell'abbraccio dall'incastro perfetto e su quello sguardo d'amore intenso, che le ricordavano la perfezione di una qualche antica statua che rappresentava l'amore eterno.

Claudio, con un movimento fulmineo, fece scattare una mano dietro il ginocchio di Domenico, stuzzicandolo nell'unico punto in cui sapeva che l'altro soffrisse il solletico, mettendo in atto una dolce vendetta per il suo scherzo di poco prima.

Domenico reclinò il capo all'indietro e scoppiò a ridere, incontrollato, agitando la gamba con un movimento spasmodico.

"Oh, sei pazzo? Lo sai che lo soffro!"

Protestò, per quanto debolmente, con la voce piena di risate.

Claudio sorrise sghembo, ridacchiando soddisfatto per la riuscita del suo piccolo scherzo, ma anche profondamente innamorato, ed annuì appena.

"Sì, sono completamente pazzo di te!"

Ribatté, felice, accarezzandolo nuovamente in quel punto sensibile.

Domenico scoppiò di nuovo in una fragorosa risata, ma stavolta ebbe la prontezza di chiudere quel momento in un bacio, al quale Claudio rispose senza esitare e portò quella stessa mano con la quale aveva fatto il solletico al compagno sulla sua guancia, tracciando una morbida carezza: cielo e bosco che si univano.

Quando, qualche istante più tardi, si separarono, si scambiarono il più dolce dei sorrisi.

"Ti amo."

Sussurrò piano Claudio, accarezzandogli la guancia.

"Ti amo anch'io."

Replicò a bassa voce Domenico, accarezzandogli una mano.

Fecero appena in tempo ad alzarsi dal muretto, che vennero raggiunti da Lucia, la quale fino a quel momento era stata una perfetta assistente fotografa.

"Zii, posso farmi una foto con voi?"

Chiese, con gli occhioni scuri che brillavano emozionati.

Claudio e Domenico sorrisero, pieni di tenerezza, ed annuirono all'unisono.

"Ma certo che puoi, principessa!"

Esclamò Claudio, allegro.

"Vieni qui, che ho un'idea!"

Aggiunse Domenico, felice, mentre prendeva in braccio la nipote e la sollevava, facendola salire sul muretto. Claudio capì subito cosa il compagno intendesse fare e scavalcò quel basso ostacolo, in modo da posizionarsi dall'altro lato. In questo modo, ciascuno dei due sposi poté posare un bacio accennato e leggero su una guancia della bambina, che sorrise con tutti i dentini che aveva, e Sara fu ben lieta di realizzare quello scatto, perché le si gonfiava sempre il cuore di gioia quando vedeva sua figlia così contenta.

Claudio e Domenico, messa a terra la bambina, si rivolsero poi verso i rispettivi testimoni, che erano rimasti in disparte, e con entusiasmo gli fecero segno di avvicinarsi: immaginavano che anche per loro fosse un bel momento da immortalare, ma che forse erano troppo timidi per dirlo esplicitamente.

"Forza, guagliù, venite a farvi qualche foto!"

Li esortò Domenico, con voce allegra.

"Questo mare è troppo bello per essere sprecato!"

Aggiunse Claudio, con lo stesso entusiasmo.

Simone e Manuel sgranarono leggermente gli occhi, sorpresi da quella proposta -nessuno dei due aveva particolare esperienza con i matrimoni, ma ritenevano che quello fosse il giorno speciale degli sposi ed esclusivamente degli sposi-, ma subito si scambiarono uno sguardo complice ed un sorriso.

Manuel, con un cenno del capo, indicò i loro amici.

"Che dici, ce la facciamo una foto?"

Chiese, con voce bassa e dolce.

Simone annuì, porgendogli una mano.

"Sì, per il nostro album."

Rispose, contento. Aveva parlato al singolare, ma in realtà di album fotografici, ormai, in quell'anno di relazione, ne avevano riempiti quasi una decina e non accennavano a fermarsi.

Manuel strinse la sua mano, teneramente, ed insieme si avvicinarono al muretto.

"Ce possiamo mette come ci pare?"

Domandò a Sara, allegro.

La fotografa annuì in risposta, sorridente.

"Ma certo, figuratevi! Il ricordo è il vostro!"

Esclamò, gioiosa, allontanandosi di qualche passo per dar loro modo di sistemarsi come meglio credevano.

Simone, accarezzando con leggerezza la mano di Manuel, posò lo sguardo prima sul muretto e poi sul mare che, in effetti, sarebbe stato uno sfondo spettacolare.

"Ci sediamo qui, Paperotto?"

Domandò, indicando il punto che gli sembrava più adatto.

Manuel annuì, sorridente, preferendo lasciarlo fare: era bello vederlo così pieno di entusiasmo, e poi lui non aveva molto occhio per certe cose, quindi meglio che se ne occupasse Simone.

"Va bene, Cerbiattino, vie' qua vicino a me."

Disse, accomodandosi sul punto indicato.

Un attimo dopo Simone gli fu accanto, senza lasciare nemmeno un po' di distanza tra loro. Le mani, che non si erano lasciate andare neanche per un istante, vennero posate in grembo, ancora intrecciate, un po' sulla gamba di uno e un po' sulla gamba dell'altro, ed intanto Manuel, con quella libera, salì ad accarezzare la guancia morbida di Simone.

"Claudio ha ragione, sto mare è una meraviglia."

Mormorò con voce calda.

"Ma te lo sei di più."

Aggiunse, mostrando un sorriso luminoso.

Simone liberò una risatina spontanea ed un po' si sentì avvampare. Scosse appena il capo, senza usare troppo vigore per evitare di separarsi dalle carezze di Manuel, e gli rivolse uno sguardo divertito ed affettuoso, con un sorrisetto sghembo.

"Sei proprio un marpione, Paperotto."

Manuel fece spallucce, poi sollevò appena le sopracciglia in un'espressione soddisfatta.

"Eh, però intanto 'sto marpione t'ha fatto ridere."

Sussurrò, avvicinando di poco il capo al suo.

Simone ampliò il proprio sorriso, riducendo ancora un po' la distanza tra i loro visi.

"Questo marpione ci riesce sempre, a farmi ridere. È il custode della mia felicità."

Soffiò, a bassa voce.

Manuel fece toccare le punte dei loro nasi in una lenta carezza.

"E tu della mia, Simo. Tu della mia."

Mormorò, senza smettere di sorridere.

Senza aggiungere altro, con un movimento sincronizzato come le onde, si unirono in un bacio morbido e lento, simbolo di un amore eterno come il mare.

Claudio e Domenico, rimasti a qualche passo di distanza, sorrisero inteneriti a quell'amore giovane eppure già forte, a cui auguravano soltanto felicità.

Sara scattò soddisfatta qualche foto da angolazioni diverse, dal momento che sarebbe stato riduttivo adoperarne solo una, e poi si rivolse con un sorriso allegro sia agli sposi che ai testimoni.

"Sarebbe bello se vi faceste una foto tutti insieme, sapete?"

I quattro non se lo fecero ripetere, era un'idea che avrebbero proposto anche loro da un momento all'altro, la fotografa li aveva soltanto battuti sul tempo, e così dopo aver discusso per qualche secondo della posa da adoperare, si disposero con entusiasmo in fila, dando le spalle al mare: prima fecero una foto semplice, dall'impostazione classica, con gli sposi al centro della composizione e loro due ai lati -Simone di Claudio e Manuel di Domenico-, tutti e quattro rivolti verso la macchina fotografica; subito dopo, Claudio e Domenico rimasero al centro della composizione, a braccetto e sorridenti, e sempre rivolti verso l'obiettivo, mentre Simone e Manuel fecero un mezzo giro su loro stessi e si sporsero a posare un bacetto leggero, giocoso ed affettuoso sulla guancia dell'uomo che avevano davanti: un modo simpatico per dimostrare quanto bene si volevano e quanto erano uniti.

Sara, profondamente divertita ed intenerita, scattò quella che, da programma, sarebbe dovuta essere l'ultima foto di quel servizio.

I piani, tuttavia, andarono diversamente: sul tragitto di ritorno, una volta tornati nell'auto a più posti che avevano noleggiato per spostarsi, gli occhi di Domenico, complice un semaforo rosso, furono catturati da un piccolo Luna Park cittadino all'interno di un parchetto.

"Oddio, Sara, te le ricordi queste giostre? Ci venivamo sempre, da bambini..."

Commentò, con lo stesso sorriso di allora.

Lucia, dato uno sguardo fuori dal finestrino, intervenne con entusiasmo.

"Ci vengo sempre anch'io! Mamma e papà mi ci portano tutte le domeniche!"

Sara sorrise, affettuosa.

"Sì, è vero. Ci veniamo così spesso che ormai la proprietaria è diventata una mia amica."

Domenico, al sentire quelle parole, fu attraversato da un'idea che gli illuminò gli occhi.

"Allora potremmo fermarci a fare qualche foto anche qua! È un bel posto, secondo me..."

Si voltò verso il compagno, che gli era seduto accanto e che ancora teneva per mano.

"Tu che dici, core mij? Ti va?"

Claudio gli sorrise dolcemente e annuì. Non era mai stato un grande frequentatore di Luna Park, i suoi genitori non ce l'avevano portato molto spesso ed erano anni che non ne entrava in uno, ma l'entusiasmo e il sorriso luminoso di Domenico erano ragioni più che sufficienti e valide per fargli accettare quella proposta.

"Certo che mi va. Sarà divertente!"

Rispose, allegro, posando un bacio sull'angolo delle labbra del compagno.

Sara arricciò le labbra in un'espressione perplessa.

"Ragazzi, però...pensate agli invitati, insomma. È già tardi."

Manuel scacciò quell'obiezione come se fosse stata una mosca fastidiosa, con un cenno rapido della mano.

"Ma gli sposi sono loro, oggi è il loro giorno e tutto gli è concesso!"

Affermò con decisione ed un sorriso furbo.

Simone, accanto a lui, annuì convinto ed estrasse il cellulare dalla tasca della giacca.

"E poi basterà telefonare al locale e dire di aprire il buffet, così siamo tutti contenti!"

Propose, con voce leggera ed allegra.

Sara sospirò, ma subito dopo sorrise: non era poi tanto male arrendersi a quella proposta sostenuta con così tanto affetto.

"Certo che siete proprio un'associazione a delinquere, voi quattro. E sia, andiamo alle giostre!"

Esclamò, facendo cenno all'autista di parcheggiare nel primo spazio disponibile.

Nell'abitacolo si levò immediatamente un'esultanza degna di uno stadio, in particolare da parte di Domenico e Manuel, che si batterono perfino un cinque, mentre Claudio e Simone li osservavano divertiti ed affettuosi.

Dopo un breve colloquio tra Sara e la sua amica, entrarono tutti nel Luna Park che a quell'ora era praticamente deserto e a loro completa disposizione, e Claudio prese a guardarsi intorno con curiosità, facendo saettare gli attenti occhi blu da una parte e dall'altra. L'area non era molto estesa, ma era ben fornita di attrazioni, grazie ad un buon uso degli spazi: c'era una pista di macchinine, un trenino che percorreva tutto il perimetro, un grande carosello, una piccola pista per minigolf ed una saletta a forma di castello che, a giudicare dall'intestazione, doveva essere una sala giochi. Fu facile, per lui, immaginare un piccolo Domenico, ripescato dalla memoria delle fotografie che Rosa gli aveva mostrato innumerevoli volte, correre in mezzo a quelle attrazioni, salirci e divertirsi come un matto; al solo pensiero sorrise, teneramente.

Domenico, accanto a lui -si mantenevano vicini tenendosi per gli indici intrecciati-, accarezzava con lo sguardo quei luoghi così famigliari, eppure così diversi ora che li vedeva da una nuova prospettiva, e sorrideva mentre nella mente gli si proiettavano vecchi ricordi nascosti, ma mai dimenticati.

"Sembrava più grande quando ero piccolo..."

Commentò, con voce dolce.

Claudio spostò gli occhi su di lui, senza perdere il sorriso.

"Qual era la tua preferita?"

Domandò, curioso.

Domenico fece un cenno con la mano libera verso la pista dei kart, con le macchinine ordinatamente disposte in fila su un lato.

"Quella! Non mi stancavo mai di farci giri, mamma e papà dovevano praticamente trascinare via di peso! Sara può confermare."

Claudio seguì con lo sguardo il suo gesto e poi annuì, deciso.

"Allora cominciamo da lì! Una foto sui kart mi sembra d'obbligo, a questo punto!"

Affermò con sicurezza, senza esitare.

Domenico si voltò verso di lui, il viso illuminato da un sorriso pieno d'amore ed il cuore gonfio di gioia. Chiunque altro, sicuramente, avrebbe rifiutato di mettersi in ridicolo in un parco giochi per bambini -specie in un'occasione così importante come un matrimonio-, mentre Claudio non solo non aveva protestato, ma addirittura gli dava corda, assecondando i suoi desideri. Si sporse a dargli un bacio sulla guancia, morbido.

"Quanto sono fortunato ad essere tuo marito, core mij."

Mormorò sulla sua pelle, assaporando quella parola nuova che ne condivideva il sapore.

Claudio si voltò a guardarlo, leggermente perplesso ma sorridente: non credeva di aver fatto niente di chissà che. Gli diede un bacio a fior di labbra, leggero.

"Per così poco, amore mio?"

Domenico scosse appena il capo.

"Non è poco, è tantissimo."

Sussurrò, con dolcezza.

Claudio sollevò l'angolo delle labbra in un sorriso d'intesa, poi afferrò con maggior decisione la sua mano e lo condusse alla pista ormai poco distante: per lui avrebbe fatto questo ed altro.

Nel giro di qualche minuto, gli sposi e i testimoni si ritrovarono a sfrecciare in una coppia di macchinine che, a dire il vero, erano un po' troppo piccole per contenere due persone adulte e ben piazzate e l'effetto che si creava, con loro ristretti in uno spazio così piccolo, era quasi comico, ma non importava. Erano felici, spensierati e ridevano, mentre si inseguivano e scontravano sulla pista, come forse non avrebbero fatto nemmeno dei bambini al loro posto.

Sara, cambiando continuamente angolazione, riuscì ad immortalare i momenti più belli di quella sorta di gara senza vincitori né vinti.

"Adesso decidi tu dove vuoi andare, core mij!"

Propose Domenico, con un gran sorriso stampato sulle guance arrossate, una volta usciti dalla pista e aver ripreso un po' di fiato. Intanto, con una mano, sistemava i capelli del compagno che il vento aveva scomposto, sollevandoli come una nuvoletta, perché sapeva quanto ci tenesse ad apparire sempre al meglio.

Claudio, che stava ancora incamerando aria a piccole boccate dalla bocca semidischiusa, curvò le labbra in un sorriso quasi impercettibile -dato che la bocca era già semiaperta per respirare meglio-, nato dalle premure del compagno. Non aveva, però, un'idea sulla risposta da dare, dal momento che non aveva chissà che ricordi a cui aggrapparsi.

"Io veramente non saprei...scegli tu, dai, per me va bene tutto."

Mormorò, un po' incerto.

Domenico intuì che la sua non fosse semplice timidezza -si erano appena sposati, non avrebbe avuto senso!-, ma che doveva esserci qualcos'altro a rendergli tanto difficile rispondere ad una domanda tanto semplice. Gli sorrise, incoraggiante, e spostò la mano ad accarezzargli una guancia.

"E invece scegli tu, dai. È importante."

Disse con voce morbida, guardandolo negli occhi blu che gli sembravano così disorientati.

Claudio liberò un minuscolo sospiro, poi fece incrociare il proprio sguardo ed il suo: gli bastò leggere l'affetto che traboccava da quegli occhi verdi per convincersi a fare una scelta -in fondo, aveva vissuto momenti ben peggiori di quello- e sorrise. Decise allora di optare per una giostra più tranquilla e che, a dire il vero, lo aveva attirato fin dal primo momento con i suoi colori e luccichii.

"Vorrei andare sul carosello, se per te va bene."

In tutta risposta, Domenico lo prese per mano e lo condusse sulla piattaforma circolare -appena accanto a loro, ovviamente, c'erano Manuel e Simone, i quali avevano osservato la scena in rispettoso silenzio, scambiandosi solo qualche sguardo leggermente preoccupato, e che ora sorridevano di nuovo sereni- ed aprì il braccio in un gesto plateale.

"Scegli il cavallo che vuoi, core mij. Anche voi, ragazzi, mettetevi dove vi pare!"

I cavalli di quel carosello, disposti rigorosamente in coppia, erano tutti rappresentati al trotto ed erano tutti bianchi come la neve, ma si distinguevano per il colore delle bardature e dei pennacchi che li decoravano.

Simone e Manuel non ebbero dubbi e si sistemarono, rispettivamente, su un cavallo dal pennacchio bianco e su un cavallo nero dal pennacchio nero, ed agitarono le briglie come a volerli spronare davvero, felici come due bambini.

Claudio, invece, spinto dal suo lato cresciuto troppo in fretta, mentre avanzava tra le file di statue, si chiese che senso avesse scegliere tra quei cavalli finti che in fondo erano tutti uguali, ma quando ne vide uno con un pennacchio verde ed uno con un pennacchio blu, trovò la risposta a quella domanda. Li indicò a Domenico con un cenno del capo, sorridente.

"Che dici?"

Domenico seguì la sua indicazione con lo sguardo e, cogliendo il pensiero che doveva aver attraversato la mente del compagno, annuì sorridendo: anche a lui sembravano decisamente adatti.

"Ottima scelta!"

Si avvicinarono ai cavalli prescelti e Domenico fece subito per salirvi in groppa, posizionandosi al lato dell'animale finto.

Claudio, invece, si fermò prima, davanti al muso del cavallo che prese ad accarezzare come se fosse stato vero, guardando con affetto quegli occhi neri e vitrei che, per forza di cose, non potevano ricambiare.

Domenico se ne accorse immediatamente e gli si avvicinò, posando una mano sulla sua spalla.

"Tutto bene?"

Mormorò con voce morbida, sorridendogli rassicurante.

Claudio annuì lentamente, voltandosi verso di lui con un sorrisetto appena accennato. 'Quanto sei bello, amore mio, e quanto è dolce il tuo sguardo.', pensò.

"Sì, sì, è solo che...non ricordo quand'è stata l'ultima volta che ho messo piede in un posto del genere. A mio padre non piaceva portarmici, mi diceva sempre che in posti così si perdeva la disciplina: questo me lo ricordo, invece."

Buttò fuori un sospiro scrollando le spalle, poi tornò a posare gli occhi sul cavallo finto.

"Niente, era solo una riflessione. Non devo più fare ciò che mi ordina lui, no?"

Aggiunse, con una punta di orgoglio nella voce.

Domenico sorrise, fiero di lui e sollevato perché, finalmente, il proprio compagno si era liberato di un brutto peso. Annuì, con decisione, e posò una mano sulla propria.

"A questo proposito, permettimi di aiutarti a montare sul tuo nobile destriero!"

Esclamò, usando un tono volutamente plateale accompagnato da uno sguardo giocoso.

Claudio scoppiò a ridere di cuore, portandosi l'altra mano sulle labbra, e annuì in risposta.

"Sono davvero fortunato ad essere tuo marito, amore mio!"

Esclamò, allegro. Domenico sollevò l'angolo delle labbra in un dolce sorriso, liberando un piccolo sbuffo divertito. Era il minimo che potesse fare, per lui.

"Dai, è na cos 'e nient..."

Replicò, scrollando le spalle.

Claudio scosse il capo e si avvicinò a baciarlo a fior di labbra.

"Vale tantissimo per me, invece."

Sussurrò piano sulla sua bocca, lasciandovi poi un altro bacio prima di separarsi.

Domenico sospirò, innamorato, si portò la sua mano alle labbra per depositarvi un piccolo bacio, e senza lasciarla andare lo condusse sul fianco del cavallo, lo aiutò a salirvi su -anche se non ce n'era reale bisogno, dal momento che non si trattava di un animale vero, ma di una giostra pensata per dei bambini- e subito dopo montò sul proprio, giusto lì accanto.

Ora, uno accanto all'altro com'erano, si sporsero a darsi un bacio leggero che tuttavia venne interrotto da un evento inatteso: le luci del carosello si accesero improvvisamente -o più precisamente su indicazione di Sara al macchinista che si occupava della giostra- e al tempo stesso la pista cominciò a girare mentre nell'aria si diffondeva una musica che sembrava uscita da un carillon. Sia gli sposi che i testimoni gridarono per la sorpresa, e Sara fu abile a catturare con la propria macchina fotografica sia le loro espressioni di stupore sia le risate che vennero dopo.

Mentre erano sulla strada per uscire dal parco giochi, la piccola Lucia, che camminava tenendo le mani di Domenico e Claudio, si fermò improvvisamente e si voltò di scatto verso un piccolo chiosco che preparava zucchero filato. Aprì le labbra in un sorriso entusiasta, quasi troppo grande per il suo piccolo viso.

"Mamma, compriamo lo zucchero filato?"

Domandò, e dalla voce traspariva tutta l'urgenza di quella richiesta.

Sara scosse il capo, seppur a malincuore, sospirando.

"No, tesoro, dai, poi ti rovini l'appetito. Stiamo andando a mangiare, ora..."

Lucia scosse il capo con fervore, facendo muovere i riccioli.

"Ma non è per me, è per gli zii! Così li fotografi!"

Claudio fu il primo ad intervenire, sorridendo convinto.

"Hai ragione principessa, è una bellissima idea! Lo prendo subito!"

Assicuratosi che la bambina fosse ancora tenuta per mano da Domenico, si avvicinò al chioschetto e subito fu investito da un odore dolce e piacevole. Ordinò uno zucchero filato che gli venne consegnato dopo pochi istanti, bianco come una nuvola. Ringraziò e tornò dal compagno, sorridendo trionfalmente.

Domenico gli rivolse uno sguardo divertito, ridacchiando: era tenerissimo, Claudio, che teneva sollevata in una mano quella nuvola di zucchero quasi più grande della sua stessa faccia.

"Vedo che è in corso una gara di dolcezza, e mi sa che vinci tu!"

Mormorò, quando gli fu molto vicino, innamorato.

Claudio liberò una risatina leggera, lusingato, e gli fece un occhiolino.

"Secondo me, invece, la vinci tu!"

Tornò a guardare lo zucchero filato, come se avesse voluto studiarlo.

"Sai, mio padre non me lo prendeva mai. Diceva che era...poco virile."

Disse a bassissima voce, in modo che solo Domenico potesse sentire, preferendo passare l'esatta espressione usata da suo padre.

Domenico si accigliò, rabbuiandosi per un attimo: 'Quante ne hai dovute passare, core mij.', pensò, mandando ancora una volta tutto il proprio disprezzo all’indirizzo dell'Ingegner Vinci. Tornò poi a concentrarsi sul presente e sorrise, luminoso, staccando un pezzetto di zucchero filato con una mano e avvicinandolo alle labbra di Claudio.

"Adesso però lui non è qui a dire le sue stronzate e tu puoi fare quello che vuoi."

Disse, con voce gentile.

Claudio aprì le labbra in un sorriso luminoso e annuì piano, avvicinandosi con un unico movimento alla mano di Domenico: per la prima volta dopo anni, riassaggiò lo zucchero filato e ridacchiò quando lo sentì sciogliersi nella propria bocca, investendolo con il suo sapore dolcissimo. Decise, poi, di passare la punta della lingua sulle dita di Domenico, che erano ancora più dolci, alzando gli occhi verso i suoi con uno sguardo furbetto.

Domenico si sentì investito da un forte calore, che fece capolinea anche sulle sue guance baciare dal Sole, ma sorrideva, felice di quella libertà.

Con un cenno d'assenso reciproco, poi, si avventarono entrambi sulla nuvola di zucchero, addentandone un gran morso ciascuno e dopo, ridendo, si scambiarono un lungo bacio al sapore di zucchero.

La macchina fotografica di Sara provvide a rendere eterni quei momenti.

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Capitolo 48
*** Epilogo – Eternamente ora (parte 5) ***


La sala scintillava come un gioiello, immersa nella luce del pieno pomeriggio, e quel luccichio, unito alle ampie pareti blu e ai morbidi panneggi bianchi che la decoravano, dava l'impressione di trovarsi sotto la superficie del mare. Gli invitati, disposti in tavoli più o meno ampi a seconda della disposizione che Claudio e Domenico avevano studiato per intere settimane, stando ben attenti a non causare una forzata vicinanza -seppur temporanea- tra antipatie reciproche, erano impegnati nella degustazione del sorbetto e della frutta che chiudevano il lungo pranzo nuziale ed il cantante -un giovane molto promettente, dal viso gentile coperto da una sottile barba incorniciato da folti capelli neri che, ribelli, gli davano un aspetto quasi leonino- in un angolo della sala offriva, insieme alla sua band un sottofondo musicale leggero ed allegro, in attesa di sfoderare un repertorio più consistente per il momento in cui si sarebbero aperte le danze.

Claudio e Domenico, dalla loro posizione privilegiata al tavolo degli sposi, riuscivano ad avere un quadro generale della situazione che, con loro grande sollievo, era più che positivo: gli invitati sembravano contenti e soddisfatti, la musica era più che piacevole e loro, neanche a dirlo, erano al settimo cielo per la felicità. Non si erano separati un attimo l'uno dall'altro, si erano destreggiati tra gli amici e i parenti, che li chiamavano continuamente per un saluto o per fare due chiacchiere, tenendosi sempre per mano ed anche mentre mangiavano avevano avvicinato il più possibile le sedie e quando possibile si erano imboccati a vicenda, giocosamente, scatenando i mormorii inteneriti di chi in quel momento li stava guardando.

In quel preciso istante, tuttavia, Claudio non stava degnando il sorbetto e la frutta davanti a sé neanche di uno sguardo e tutta la propria attenzione era rivolta verso un punto specifico della sala, un tavolo non molto distante dal loro che, tra tutti, rientrava tra i più importanti.

Domenico si accorse quasi immediatamente della mascella rigida del compagno, contratta in chissà che sforzo per tenere dentro i pensieri, della sua espressione ferma, ma i cui occhi erano coperti da un velo liquido, e capì che doveva aiutarlo a liberarsi da quel peso. Lasciò andare il cucchiaino con cui stava mangiando il sorbetto ed andò a cingere con un braccio il busto del compagno, sporgendosi a dargli un bacio sulla guancia.

"Core mij, che hai?"

Domandò a bassa voce, con dolcezza.

Claudio, in quei gesti premurosi, ritrovò immediatamente il sorriso, che rivolse al compagno per tranquillizzarlo.

"Nulla, stavo solo riflettendo su una cosa..."

Mormorò in risposta, prendendo la sua mano libera nella propria per accarezzarla. Un angolo del proprio cervello, e del proprio cuore, registrò la presenza della fascetta d'oro al quarto dito, e quasi si commosse a sentirla sotto i polpastrelli. Scrollò appena le spalle.

"Lo sai come sono fatto, mi basta un niente per perdermi nei pensieri."

Continuò, con una punta di autoironia.

Domenico, sentendo le carezze del compagno che si soffermavano sull'anello, curvò l'angolo delle labbra in un sorriso morbido: anche per lui era una piacevole novità.

"Beh questa cosa, qualsiasi essa sia, non mi sembra proprio un niente, se non ti ha nemmeno fatto toccare il tuo sorbetto."

Ribatté, sollevando le sopracciglia in un'espressione eloquente mentre gli accarezzava lentamente il fianco. Ricordava perfettamente, infatti, che alla prova del menù fatta mesi prima, Claudio aveva espresso un fortissimo gradimento proprio per quel dolce, da perfetto goloso qual era, tanto che ne aveva chiesto il bis! Il fatto che non l'avesse neanche guardato, quindi, non era cosa da poco.

Claudio liberò un forte sospiro e tornò a guardare la sala, nello specifico il tavolo a cui stava prestando tutta la propria attenzione qualche istante prima.

"A breve dovrebbe esserci, da tradizione, il momento in cui gli sposi ballano l'uno con i genitori dell'altro. Guarda, tua madre è lì e potrei chiederle di ballare senza problemi, mentre tu, invece, non hai nessuno."

Rispose con voce bassa e calma, presentando semplicemente la situazione per ciò che era.

Domenico se lo strinse meglio in quella sorta di abbraccio e gli diede un altro bacio sulla guancia, poi un altro ancora prima di rispondergli.

"E da quando a noi frega qualcosa delle tradizioni, eh? Va bene così, Claudio..."

Mormorò con dolcezza, dandogli un altro bacio ancora: era Claudio ciò che di più importante c'era per lui, più di ogni altra cosa al mondo, e non si sarebbe mai stancato di ripeterglielo. Inoltre, non gli avrebbe mai permesso di scusarsi per aver avuto una pessima famiglia, come se fosse stata colpa sua. Non era accettabile.

"E poi, sinceramente, non mi dispiace non poter ballare, ho le scarpe che mi stanno uccidendo!"

Aggiunse, allegro e scherzoso, per alleggerire il momento.

Ci riuscì, perché Claudio ridacchiò divertito e tornò a guardarlo, sorridendogli di vero cuore.

"Non lo dicevo come una cosa negativa, era un'osservazione. Tu, amore mio, sei l'unica famiglia che io abbia mai avuto ed anche di più, da sempre...e sono felice che sia così. Era su questo che stavo riflettendo."

Replicò, con voce ferma ma dolce, sicura del sentimento che esprimeva: l'Amore, quello che aveva conosciuto solo grazie a Domenico, che non è imposto da nomi e che non dipende da regole a cui sottostare, ma è puro e disinteressato. Per quanto riguardava la questione delle danze, riteneva che sua madre rispetto a suo padre sarebbe stata più comprensiva nei confronti del loro amore, nel senso che si sarebbe arresa alla realtà dei fatti, ma era proprio per questo che, se non fosse morta anni prima, non le avrebbe permesso di ballare con Domenico soltanto per rispettare una tradizione: Domenico era un uomo speciale, l'incarnazione dell'Amore, e meritava molto di più di qualcuno che sopportasse la sua presenza come una sorta di male necessario; sua madre, semplicemente, non ne sarebbe stata degna.

Domenico sentì gli occhi inumidirsi, ma anche lui era felice di aver trovato Claudio, che gli aveva dato qualcosa che la propria famiglia, per quanto meravigliosa, non poteva dargli: l'Amore che si sceglie ogni giorno, che è tale non perché viene da un legame di sangue, ma perché si crea un legame di anime.

"Mh, allora sai cosa facciamo, core mij? Se ti va, tu vai a chiedere a mia madre di ballare, che secondo me non vede l'ora, poi torni qui e balliamo insieme."

Propose, accarezzandogli morbidamente una guancia.

Claudio mosse appena il capo per posare un bacio sul suo palmo e raggiunse la sua mano con la propria. Accennò una risatina, poi, tornando a guardarlo negli occhi.

"Ma non avevi detto che ti facevano male i piedi?"

Domandò divertito, sollevando un sopracciglio.

Domenico respinse l'obiezione scuotendo appena il capo, sul volto brillava un sorriso luminoso.

"Ah, sono sicuro che dopo mi passa!"

Esclamò, con allegra sicurezza.

Claudio annuì, ridacchiando ancora, poi spostò gli occhi sul piattino del compagno, dove giaceva ancora qualche pezzetto di frutta ed un po' della deliziosa crema al limone -la ricordava molto bene!- il cui profumo arrivava fino a lui.

"Adesso mi fai assaggiare questo sorbetto?"

Chiese, con una punta di malizia, tornando a guardare il compagno.

Domenico capì subito cosa intendesse e così, ridacchiando furbescamente, raccolse una generosa quantità di sorbetto con il cucchiaino e se la portò alla bocca, stando ben attento che gli rimanesse sulle labbra. Avvicinò, poi, il proprio viso a quello del compagno e si lasciò assaporare.

Claudio fu immediatamente colpito da una sensazione di freddo piuttosto insolita per le labbra del compagno -che di solito erano caldissime-, ma comunque piacevole, e al tempo stesso dal sapore dolce e pungente del limone che, unito al sapore già amato di quelle labbra, lo mandò in visibilio al punto tale che non riuscì a trattenere un mugolio d'apprezzamento che nessun altro udì oltre a Domenico perché fu coperto dalla musica.

Domenico sorrise sghembo sulle sue labbra, quando si separarono.

"Allora? Com'è?"

Claudio sorrise, prendendosi un istante per fare un respiro un po' più profondo.

"Ancora più buono di quanto ricordassi, ma sono certo che sia tutto merito tuo."

Lo baciò di nuovo, stavolta a fior di labbra, e dopo avergli fatto un cenno di intesa si alzò, avvicinandosi al tavolo dove trovava posto il nucleo principale della famiglia Liguori. Dopo un saluto gentile, si rivolse direttamente a Rosa.

"Posso chiedere un ballo al fiore più bello di questo giardino?"

Domandò, con un sorriso cortese.

Rosa ridacchiò, lusingata e divertita.

"Oh Claudio, sei sempre il solito poeta! Ma certo che puoi..."

E così dicendo gli porse la mano, che Claudio prese nella propria e si chinò a baciare, o almeno fece il gesto, dal momento che non sfiorò la pelle della donna con le labbra, così come imponevano le buone maniere ed il rispetto, che lui provava con tutto se stesso per quella donna meravigliosa.

Rosa ridacchiò di nuovo, mostrandosi più civettuola di quanto fosse.

"Che galantuomo!"

Esclamò con divertita dolcezza mentre Claudio l'aiutava ad alzarsi.

"È il minimo, con lei!"

Replicò lui, sorridendo teneramente, per poi prendere la donna sottobraccio.

Rosa alzò gli occhi al cielo, con fare teatrale.

"Lei, ma cos'è questo lei? Tu mi devi dare del tu, ormai fai parte della famiglia, hai capito?"

Esclamò ed intanto insieme, tra gli applausi generali, si incamminavano al centro della sala, il punto preposto ai balli, guardando però il suo accompagnatore.

Claudio curvò le labbra in un sorriso di scuse, in effetti Rosa gliel'aveva detto mille volte e gli aveva accordato quel permesso da anni, ma per lui era sempre stato difficile assecondarla e non perché non le volesse bene -anzi!-, ma proprio perché gliene voleva molto.

"E per me è un onore far parte di questa famiglia stupenda, davvero."

Disse sincero, con gli occhi che brillavano d'orgoglio e d'affetto, mentre prendevano posizione uno di fronte all'altra, con le mani reciprocamente sui fianchi.

Rosa sorrise intenerita e sollevò per un istante una mano a fargli una carezza.

"L'onore è tutto nostro, Claudio. Tu sei sempre stato un ragazzo, ora un uomo, speciale, ed io, da madre, non avrei potuto chiedere di meglio per il mio Mimmo. Siete meravigliosi, insieme."

Sussurrò teneramente, mentre nella sala prendevano a diffondersi le note di un lento e loro due cominciavano a muoversi a tempo. Claudio sorrise teneramente, scuotendo appena il capo.

"È Domenico quello speciale..."

E così dicendo si voltò per qualche istante verso l'oggetto delle proprie parole, adesso, e dei propri pensieri, sempre; Domenico gli rivolse un cenno di saluto, sorridendo allegramente, e Claudio, dopo averlo ricambiato, tornò a guardare sua madre.

"...io sono soltanto molto fortunato."

Concluse, con voce traboccante d'amore.

Rosa sollevò nuovamente la mano per fargli una carezza, gli occhi pieni d'affetto ed un sorriso intenerito sulle labbra: era davvero felice che quelle due anime splendide si fossero incontrate e ritrovate.

Domenico li osservava danzare, tenendo gli occhi fissi solo su di loro nonostante tutti gli altri invitati che avevano deciso di unirsi, e non riusciva a trattenere un dolce sorriso: sua madre, così come Sara del resto, non aveva visto di buon occhio Claudio negli anni in cui erano stati separati, e vedere che adesso, invece, ballava con lui ed erano entrambi sorridenti e affiatati gli dava un senso di pace, perché tutto era tornato al suo posto, in equilibrio. Terminato il lento, fu il primo ad alzarsi in piedi e far partire un applauso fragoroso, a cui si unì il resto della sala.

Claudio, leggermente arrossito per l'imbarazzo, ringraziò con un piccolo inchino, riaccompagnò Rosa al tavolo e la salutò con il baciamano per poi tornare dal compagno.

"Era proprio necessario quest'applauso?"

Domandò timidamente, ma con un dolce sorriso sul viso.

Domenico annuì con convinzione e si sporse a baciarlo a fior di labbra: era meraviglioso, il suo avvocato, quando si lasciava andare alle emozioni.

"Sì, perché siete stati bravissimi!"

Claudio soffiò una risatina, portando una mano ad accarezzargli una guancia.

"E tu sei appena un po' esagerato, amore mio."

Mormorò, per poi lasciargli un bacio sulle labbra.

"Te la senti di ballare?"

Chiese, continuando ad accarezzarlo.

Domenico annuì con entusiasmo, sorridente. Come previsto, il fastidio procurato dalle scarpe era passato in secondo piano.

"Certo, andiamo!"

Rispose, prendendolo per mano.

Claudio si portò la sua mano alle labbra, esattamente come aveva fatto con Rosa, ma stavolta gli accarezzò la pelle con un bacio, stando attento a guardarlo negli occhi.

Domenico liberò un sospiro innamorato e gli sorrise, occhi negli occhi, sentendo un piacevole calore arrivargli fino alle guance. Con la mano libera fece un cenno al cantante, non troppo distante da loro, il quale lo captò e fece lentamente sfumare la canzone che stavano suonando.

"Signore e signori, un attimo di attenzione, per favore..."

Cominciò a dire con voce allegra, marcata da un evidente accento catanese, attirando lo sguardo di tutti i presenti.

"Facciamo un bell'applauso agli sposi? Guardate che belli che sono!"

Continuò, ed immediatamente la sala proruppe in un applauso fragoroso.

Claudio e Domenico, mano nella mano, si fecero strada in quella sorta di folla adorante che si era aperta a metà per consentire il loro passaggio, sorridendo emozionati per quell'accoglienza così calorosa.

Il cantante, dopo qualche secondo, suonò un breve accordo e continuò.

"La prossima canzone è un mio personalissimo omaggio a questa splendida coppia, che l'ha ascoltata per caso e l'ha fatta sua. Voglio vedervi ballare tutte e tutti, però!"
Un altro breve accordo alla chitarra, di cui accarezzò sapientemente le corde.

"Signore e signori, questa è Vernice."

Blu come la notte
Blu come me
Il colore della nostalgia
Dei ricordi che non vanno via

Cominciò a cantare ad occhi chiusi, con voce morbida.

Rosso come il mio maglione che mettevi tu
Quando ti fermavi da me
Comunque sia
Accanto a te ho cominciato a respirare


Manuel e Simone si scambiarono una risatina, attraversati dallo stesso pensiero, e cominciarono ad ondeggiare stretti in un abbraccio. Una sera più buia delle altre, per necessità, Simone aveva prestato a Manuel non un maglione ma una maglia, non rossa, ma rossa e blu, che poi, in giorni che splendevano più del Sole, per volontà, era diventata di entrambi e lo sarebbe sempre stata.

Nella vernice fresca c'è il blu di quella notte
Blu come te
Il colore delle tue paure
Le tue profondità
Verdi come gli occhi tuoi
Verdi le parole
Che ci siamo sussurrati
Quando ti svegliavi da me
Comunque sia
È grazie a te che ho imparato a stare bene
E ad amarmi un po' di più


Claudio e Domenico ondeggiavano uniti, con un braccio si cingevano per la vita e con l'altro si tenevano per mano, guardandosi negli occhi e scambiandosi sorrisi. Erano al centro della sala, sotto lo sguardo di tutti gli invitati, ma non esisteva niente che andasse oltre il loro abbraccio. Si erano incontrati esattamente ventun anni prima, in una notte fatta di paure e sussurri di cui non era rimasto più nulla: c'era coraggio, ora, e c'erano parole pronunciate con orgoglio. C'erano un cielo blu ed un bosco verde che si toccavano, si univano, ed il cielo diventava verde ed il bosco diventava blu.

Non vanno via, non è un addio
Rimangono le impronte
Nella vernice fresca dei miei ricordi


Riccardo era seduto ad uno dei tavoli destinati agli amici e ai colleghi degli sposi, una compagnia che tutto sommato stava trovando molto piacevole: accanto a lui c'erano Alex, una poliziotta che lavorava con Domenico, e sua moglie Rosaria, un medico legale, che si erano unite civilmente giusto il mese prima, ed una famiglia, Carmine, Nina e la loro figlia Futura, proprietari di una pizzeria che aveva promesso di provare il prima possibile; con loro aveva scambiato qualche chiacchiera, intavolato qualche discorso, più di circostanza, tuttavia, che di vero e proprio contenuto. Non che gli dispiacesse, comunque, dal momento che non aveva chissà che voglia di addentrarsi in questioni eccessivamente personali.

Si era accorto che un paio di tavoli più avanti c'era l'uomo che aveva conosciuto durante la cerimonia, Arthur Peirò ricordava si chiamasse, ma un po' perché era stato impegnato con le numerose portate del pranzo di nozze e un po' -soprattutto- perché non aveva voglia di fare conoscenza, non era andato a parlargli.
Ora le sedie attorno a sé erano tutte vuote e lui si portava alla bocca, lentamente, minuscoli bocconi di sorbetto e di macedonia, cercando di inserire qualche breve pausa tra l'uno e l'altro: aveva l'intenzione di prolungare il più possibile quella portata, in modo da avere una scusa per non essere trascinato nelle danze. Nonostante cercasse di tenere gli occhi bassi, fissi sul proprio piatto, non riusciva ad evitare di sollevarli, di tanto in tanto, verso il centro della sala ed in particolare, come un pezzo di metallo attratto da due calamite, verso Simone e Manuel e Claudio e Domenico. Dei primi vedeva, con una nostalgia che gli stringeva il cuore, l'amore puro, quello dei vent'anni, delicato e splendido come una rosa di maggio; dei secondi, invece, invidiava in un modo che gli faceva male allo stomaco l'amore maturo, dei quarant'anni, forte e saldo come una quercia.

Tutti e quattro erano stati molto gentili con lui, in particolare da quando avevano scoperto la verità su Lorenzo: si erano incontrati per caso, il giorno dei morti dell'anno precedente, tra i vicoli del cimitero: loro andavano a trovare Jacopo, il fratellino di Simone, e lui non aveva avuto né la prontezza, né il coraggio, né la voglia di inventare una scusa circa la propria presenza lì. Venuti a conoscenza della storia di lui e Lorenzo, lo avevano anche invitato da loro per la vigilia ed il giorno di Natale, un gesto che lui aveva apprezzato con tutto il cuore, ma che se da un lato lo aveva aiutato a sentire un po' di calore e a superare il primo Natale senza Lorenzo in maniera dignitosa, dall'altro il vuoto che sentiva dentro di sé non aveva accennato a riempirsi. Il suo amore, infatti, non era né una rosa né una quercia, ma un fuscello che era stato abbattuto da un singolo, micidiale, colpo d'ascia.

Più li guardava ballare sorridenti e più il cuore gli si stringeva e lo stomaco gli faceva male, e ben presto la sensazione divenne insopportabile: si alzò di scatto, diede uno sguardo a Meli, la sua gatta che al momento stava giocando con Ulisse, il gatto di Claudio e Domenico, per assicurarsi che poteva lasciarla da sola, e si diresse a passo svelto verso il giardino mentre si scioglieva il foulard che indossava perché Lorenzo gli diceva sempre che "Hai la gola sensibile, amore mio, ti basta un colpo d'aria condizionata per farti venire la raucedine. E io poi come faccio senza tutte le tue chiacchiere?", sentendosi mancare l'aria.

Si fermò soltanto una volta arrivato al muretto che costeggiava la spiaggia e prese a respirare a grandi boccate, cercando di ricacciare nelle profondità di se stesso il groppo che aveva in gola: il giardino era praticamente vuoto, ma non voleva farsi vedere in quelle condizioni da nessuno, nemmeno dai camerieri che stavano risistemando i tavoli per il buffet di dolci che secondo il menù, come gli ricordò assurdamente un angolo del proprio cervello, era previsto alla fine di quella giornata.
Dopo un tempo che parve infinito, riuscì a riprendere il controllo del proprio respiro e si accorse di stringere ancora in mano il foulard -quello in particolare gliel'aveva regalato proprio Lorenzo, affermando che quella tonalità di blu si intonava particolarmente bene alla sua pelle-, tanto che le nocche gli erano diventate rigide e bianche. Con un sospirò rilassò la presa e posò il pezzo di stoffa, dopo averlo accuratamente ripiegato e avervi anche posato un bacio leggero, nella tasca interna della giacca, poi tornò a guardare davanti a sé, poggiandosi con i palmi aperti sul muretto.

Il mare si estendeva placido fino all'infinito, unendo il suo blu profondo all'arancio tenue del cielo che volgeva al tramonto. Un sorriso che non aveva nulla di allegro gli tagliò il viso: a che serviva tutto quel mare se non aveva nessuno con cui condividerlo?

Il pensiero di scavalcare quel muretto, superare la spiaggia e lasciarsi andare in quelle acque che sembravano così accoglienti, nuotando fino a quando non avrebbe più avuto la forza né di proseguire né di tornare indietro, lo attraversò come un fulmine, ma lui lo scacciò. C'erano molti altri modi per lasciare quel mondo che non aveva più nulla da dargli, lui era un medico e li conosceva tutti, ma lo stesso motivo che lo spingeva a morire era lo stesso che lo spronava a vivere: era Lorenzo a dargli la forza di andare avanti, sempre Lorenzo.

Sì, perché lui e Lorenzo si incontravano ogni notte: gli bastava chiudere gli occhi, addormentarsi, e sapeva che l'avrebbe trovato ad aspettarlo in sogni che, per qualche strano miracolo che non sapeva e non voleva spiegarsi, erano realtà. Non ne aveva mai parlato con nessuno, naturalmente, per evitare di sembrare un folle distrutto dal dolore, ma era sicuro di ciò che viveva quando chiudeva gli occhi, non stava impazzendo, perché ne vedeva gli effetti quando li riapriva: se, ad esempio, Lorenzo gli spostava i capelli in un certo modo, ecco che lui se li ritrovava esattamente così quando si risvegliava; oppure se prendevano un caffè insieme, ne sentiva ancora il sapore in bocca al mattino; o, ancora, se Lorenzo gli consigliava di indossare un certo capo o accessorio, glielo faceva trovare sulla sedia accanto al letto, perfettamente ordinato; se facevano l'amore, si svegliava con il suo odore addosso. Grazie a quegli incontri, lui riusciva a vivere.

Si voltò verso la sala, dalla quale adesso proveniva una canzone allegra e movimentata, un twist o qualcosa del genere, ma non aveva voglia di rientrare: c'era solo una persona con la quale avrebbe voluto ballare e non l'avrebbe trovata lì. Con la coda dell'occhio vide un divanetto appartato in un angolo del giardino, al di sotto di una sorta di pergolato, e si diresse in quella direzione. Si lasciò adagiare sulla stoffa bianca e morbida, reclinò il capo sullo schienale e chiuse placidamente gli occhi, cominciando poi a respirare lentamente, rilassandosi a poco a poco.

Dopo un istante di buio riaprì gli occhi, ma fu costretto a richiuderli quasi immediatamente a causa della troppa luce. Sbatté le palpebre tre o quattro volte e, una volta abituatosi, si accorse di trovarsi poco oltre l'ingresso di una piccola chiesa dai muri in pietra grigi costellati da finestroni, quasi del tutto spoglia ad eccezione di due file di panche, cinque per lato, ed un altare in marmo. Sulla parete di fronte a lui, in alto, spiccava un rosone composto da vetri di vari colori dal quale entrava un fascio di luce diversa da quella che filtrava dalle altre finestre perché era decisamente più variopinta, sembrava un caleidoscopio. Fece in tempo soltanto a soffiare una risatina che si ritrovò di nuovo al buio, gli occhi dolcemente forzati a rimanere chiusi da due mani gentili.

"Indovina chi sono!"

Mormorò, direttamente al proprio orecchio, una voce morbida e calda dietro di lui.

Riccardo ridacchiò per la sorpresa, ma non si ribellò. Sapeva che poteva trattarsi di una sola persona, l'unica che incontrava in quei sogni di realtà, ma decise di assecondare ugualmente quel gioco, esattamente come faceva nei corridoi dell'ospedale quando quella stessa persona, quando lo vedeva eccessivamente assorbito da qualche situazione clinica, gli faceva quello stesso agguato per farlo distrarre e rilassare.

"Oh, vediamo un po'..."

Disse vago, portando le proprie mani su quelle che gli coprivano gli occhi. Erano calde, morbide e le avrebbe riconosciute tra mille.

"Mh, sicuramente con queste mani non ci lavori."

Commentò, sbagliando volutamente.

Lorenzo scosse il capo, strofinando così il naso sul collo di Riccardo, e soffiò una risata sulla sua pelle sulla quale poi lasciò un bacio.

"Sbagliato, prova di nuovo."

Mormorò, dandogli un altro bacio sullo stesso punto, ma trattenendosi per qualche istante in più. Si sentì solleticare dai suoi capelli morbidi e ne respirò a fondo il profumo, come a volersene riempire i polmoni, anche se non aveva più né polmoni né bisogno di respirare. Quel fresco profumo di lavanda che tanto amava, per fortuna o più propriamente per grazia divina, gli arrivava tutto.

Riccardo fu scosso da piacevoli brividi per quei baci che gli mozzarono il respiro dandogli ossigeno al tempo stesso, e si umettò le labbra prima di parlare di nuovo.

"Ah, ho sbagliato? E questo è un problema, perché non restringe il campo..."

Disse, fingendosi preoccupato da quell'errore. Gli accarezzò ancora un po' le mani e sentì sull'anulare della sinistra quella fascetta dorata che, col tempo, era diventata famigliare.

"Sei sposato però, giusto?"

Domandò, dolcemente.

Lorenzo questa volta annuì, accarezzandogli di nuovo il collo con la punta del naso.

"Sì, con l'uomo più meraviglioso del mondo."

Rispose con voce bassa, piena di un amore appesantito da una goccia di malinconia che sperava non si notasse, parlando tra i baci perché non riusciva a smettere di baciarlo.

Riccardo liberò un profondo sospiro, mentre il proprio cuore cominciava a battere più rapidamente, e si impose di resistere all'impulso di voltarsi e baciarlo fino a rimanere senza fiato, tanto sapeva che ci sarebbe stato tempo anche per quello. Curvò le labbra in un sorriso sghembo.

"Ah, deve essere un uomo molto fortunato."

Lorenzo fece di nuovo cenno di no con il capo, sollevando l'angolo delle labbra allo stesso modo del compagno.

"Sono più fortunato io, credimi."

Rispose, posando un bacio più profondo sulla sua pelle.

"Dai, chi sono?"

Lo incitò con voce divertita, riprendendo a tempestarlo di piccoli baci.

Riccardo ridacchiò appena, avvertendo sotto la pelle un misto tra solletico e sottile eccitazione.

"Io te lo direi anche, eh, ma andare avanti all'infinito per non far cessare questi baci mi sembra uno scenario molto più allettante."

Replicò, con un pizzico di provocazione nel tono.

Lorenzo ridacchiò piano e annuì, perché in effetti, da un certo punto di vista, concordava con lui. Era molto facile, però, sciogliere quell'impasse.

"Ma tanto te li do anche se me lo dici, lo sai."

Riccardo, di fronte a quella prospettiva ancora migliore della precedente, si aprì in un sorriso morbido e luminoso.

"Allora te lo dico subito: sei l'amore della mia vita!"

Esclamò, allegro.

Lorenzo fece scivolare le mani dal suo viso con una carezza, dandogli così modo di voltarsi. Sorrideva, ma il suo era un sorriso che nascondeva un dolore: se da un lato, infatti, quell'appellativo lo riempiva di gioia, dall'altro lo faceva sentire in colpa: lui era morto e Riccardo non poteva avere un morto per vita.

"E tu il mio."

Mormorò con voce carica d'affetto, dopo che Riccardo si fu girato verso di lui. In cuor proprio sapeva che sarebbe stato meglio non dirgli certe cose, non in quel frangente, ma era le verità e lui non gli aveva mai mentito, non avrebbe iniziato proprio adesso.

Uno di fronte all'altro, si unirono in un abbraccio e si incontrarono in un bacio che erano il loro ossigeno in quel luogo dove respirare era superfluo, per un tempo così lungo che parve un'eternità racchiusa in un secondo. Liberarono una piccola risata che riecheggiò nella navata vuota e si sorrisero, fronte contro fronte, affannati d'amore.

Lorenzo fu il primo a sollevare il capo, giusto quanto bastava a riempirsi gli occhi di Riccardo: non indossava il bel completo color crema che aveva messo per la cerimonia -in quel regno magico, come gli piaceva definirlo, si potevano alterare le circostanze a proprio piacimento-, ma uno blu elettrico dai risvolti appena più scuri, completato da una camicia bianca ed una cravatta a pallini che riprendeva i precedenti colori, ed il tutto gli calzava a pennello, senza nemmeno una piega o un minuscolo difetto: era quello l'abito che, in un'altra vita, gli avrebbe visto indossare nel loro giorno più speciale, ed infatti all'occhiello spiccava una rosa bianca dai petali morbidamente aperti. Il volto, come sempre da quando lo conosceva, era circondato da una soffice nuvola di ricci scuri e, come da circa un anno e mezzo, segnato da una barba curata. Per gli antichi romani farsi crescere la barba era un segno di lutto, come Lorenzo aveva già avuto modo di riflettere quando ne aveva visti i primi accenni, e non poteva essere un caso che Riccardo, solitamente sempre attento a radersi perché sosteneva che la barba non gli donasse e che fosse anche scomoda da gestire, avesse deciso di farsela crescere proprio in quei mesi, seguendo più o meno consapevolmente quell'antica tradizione.

Oltre a questo, tuttavia, sul viso del compagno non c'erano segni di quel dolore tacito e lacerante che sempre gli vedeva quando non era con lui -e per quella giornata non era stato diverso, ad eccezione di un momento preciso-, anzi le labbra erano curve in un sorriso morbido ed emozionato e gli occhi brillavano come due smeraldi: il suo Riccardo, lo vedeva bene, era felice e proprio non riusciva a contenere la felicità che provava.

Con un gesto carico di tenerezza spostò un ricciolo ribelle dalla fronte, che tuttavia tornò subito al suo posto. Decise, allora, di trasformare quel movimento in una carezza, affondando le dita tra i capelli morbidi.

"Ciao, vita mia."

Sussurrò, con infinita dolcezza.

Riccardo mosse il capo contro la sua mano, come un gatto giocoso.

"Ciao, amore mio."

Mormorò, con smisurata tenerezza. Fece, poi, una cosa che solitamente non faceva e cioè tacque, così da prendersi tutto il tempo che gli serviva per accarezzare Lorenzo con lo sguardo: normalmente, in quei loro incontri, lo vedeva sfoggiare jeans e morbide camicie, talvolta maglioni, e quella giacca di pelle marrone che tanto lo faceva impazzire, insomma lo stesso abbigliamento che indossava quotidianamente e che lui gli aveva sfilato migliaia di volte, mentre l'abito che indossava adesso era quasi del tutto nuovo, gliel'aveva visto addosso soltanto una volta, per pochi minuti, quando l'aveva misurato. Era un completo di un bel blu scuro, accompagnato da una camicia bianca ed una cravatta grigia e decorato da una rosa appena aperta affissa all'occhiello. Pensò, a malincuore, che se solo avessero avuto più tempo, se solo gliel'avesse chiesto prima, l'avrebbe visto vestito così nel loro giorno più bello, ma i se non erano in grado di far ruotare all'indietro le lancette dell'orologio.

Lo rincuorava, però, vedere che Lorenzo, come fin dal primo momento in cui l'aveva incontrato in questo modo, non portava più alcun segno della malattia su di sé: il corpo aveva riacquisito il suo vigore, i muscoli non particolarmente pronunciati ma comunque sodi erano tornati a sostenere le ossa, ed il viso, marcato da una barba non incolta e disordinata come durante gli ultimi giorni in ospedale, ma rifinita ed ordinata, non era più sfregiato dal dolore, aveva di nuovo preso colore ed era illuminato da un sorriso aperto che arrivava fino agli occhi scuri che sembravano costellati da astri. La voce, poi, non era più arrochita ed acquosa, che annaspava per farsi strada tra le labbra, ma limpida, calda e morbida, accarezzava le orecchie ed il cuore.

In quel regno magico, come lo definiva sempre Lorenzo, non esistevano tristezza e dolore, eppure c'era una sottile ombra in tutta quella luce che non sfuggì al proprio cuore attento, per cui si accigliò leggermente, preoccupato.

"Va tutto bene, Lorenzo?"

Domandò, portando una mano ad accarezzargli una guancia.

Lorenzo annuì rapidamente, e con quel gesto si impose di nascondere i pensieri che, come avrebbe dovuto immaginare, il cuore attento del proprio compagno non aveva tardato a captare. Portò la propria mano sulla sua e si voltò a baciarne teneramente il palmo prima di tornare a guardare il compagno, al quale rivolse un sorriso ancora più morbido e ancora più innamorato.

"Certo che va tutto bene, sono con te. Come potrebbe non andare tutto bene?"

Rispose, accompagnandosi con un occhiolino. Subito dopo, portò in basso le loro mani intrecciate e gli fece un cenno con il capo.

"Vieni, non restiamo qui impalati."

Disse, per poi tirarlo delicatamente con sé.

Riccardo accennò una risatina, travolto dal suo entusiasmo, e si lasciò condurre verso l'interno della chiesa osservando i dintorni con attenzione, ma nel breve tragitto ciò su cui soffermò maggiormente gli occhi fu Lorenzo, del quale sentiva il famigliare calore della mano stretta intorno alla propria, cercando di capire cosa potesse turbarlo in quel regno di pace assoluta.

Lorenzo sentiva gli occhi verdi su di sé, sapeva che stavano indagando dentro di lui, mossi dal desiderio di aiutarlo, e per questo cercò di rivolgere al compagno degli sguardi rassicuranti che potessero fargli capire che, in fondo, era tutto a posto. Lo condusse alla prima fila di panche, la più vicina all'altare, e gli fece segno di sedersi, accomodandosi subito accanto a lui. Non gli lasciò la mano, anzi prese ad accarezzarla nella propria.

"Questo posto va bene? Altrimenti lo cambiamo."

Chiese, trepidante, accennando con la mano libera allo spazio intorno a loro. Non si trattava di un luogo qualunque, ma di quello che avevano scelto per celebrare la loro unione civile -la chiesetta, infatti, era sconsacrata da anni- e gli era sembrata una buona idea prendere in prestito la festa di altri -che tanto non ne avrebbero ricevuto alcun danno- per celebrare, in qualche modo, anche la loro unione. Ne sarebbe stato ancora convinto se non avesse visto Riccardo così sereno con quell'altro uomo e se, dunque, non avesse deciso di fargli un certo discorso non appena ne avrebbe trovato il coraggio: ora, in quelle circostanze così diverse, gli sembrava una vera e propria cattiveria far stare Riccardo lì dentro, gli sembrava di illuderlo. Si morse un labbro, pensieroso.

"Forse è il caso, mi sembra un po' troppo tetro..."

Continuò proponendo una scusa, con la voce che tradiva una punta di apprensione, già pronto a modificare lo scenario con un gesto della mano sollevata.

Riccardo lo fermò immediatamente, prendendo con gentilezza la sua mano nella propria e riportandola giù.

"No, no, non c'è bisogno..."

Gli sorrise con dolcezza, cercando di rassicurarlo. Lorenzo non si era mai comportato così, era chiaro che ci fosse qualcosa che lo preoccupava davvero.

"Per prima cosa, questo posto non è tetro, guarda quanta luce che c'è! L'abbiamo scelto anche per questo, no?"

Cominciò a spiegare, allegro, indicando i fasci di luce colorati alle sue spalle con un cenno del capo. Qualsiasi cosa fosse ad occupare i pensieri del compagno, lui era deciso a scacciarla via.

Lorenzo seguì il suo movimento e si voltò a dare uno sguardo a quei riflessi anche se non ne aveva bisogno: sapeva che c'erano e sì, erano il motivo principale per cui avevano deciso di coronare il loro amore proprio lì. Tornò a guardare Riccardo ed annuì piano, accennando un sorriso.

Riccardo gli sorrise di rimando e si sporse a posare un bacio morbido e leggero sulle sue labbra.

"E poi lo sai che mi andrebbe bene anche uno scantinato, l'importante è stare insieme."

Mormorò con divertita dolcezza, accennando una risatina. Quegli incontri erano cominciati un mese dopo la morte di Lorenzo e per i primi tempi si erano svolti sempre e solo nell'esatta replica del loro appartamento -Lorenzo gli aveva spiegato, in un secondo momento, che l'aveva fatto per permettergli di abituarsi gradualmente a quella nuova situazione- e solo dopo avevano cominciato ad uscire di casa: si erano incontrati in spiagge cristalline e in prati verdi, sulla terrazza del Pincio -che, da sempre, era uno dei posti che più amavano in città- e perfino dall'altra parte del mondo per vedere l'aurora boreale, anche se il loro luogo d'incontro preferito era il letto di casa. Quella chiesetta, un tempo dedicata a San Michele se non ricordava male, tuttavia, era unica ed essere finalmente lì con Lorenzo gli dava un senso di pace.

Lorenzo chiuse gli occhi per un istante, quanto bastava a cacciare indietro le lacrime e a liberare un profondo sospiro, più per abitudine che per vera necessità, poi li riaprì ed annuì di nuovo: lo sapeva, ed era proprio quella consapevolezza a fargli male.

"Scusami, hai ragione, non so cosa mi sia preso."

Replicò a voce bassa, un po' appesantita dal groppo che sentiva in gola -ed infatti se la schiarì subito-, anche se in realtà sapeva benissimo cosa si stava portando dentro in quel momento. Decise di accantonare momentaneamente quei pensieri e quel discorso perché era chiaro che Riccardo avesse bisogno di lui, altrimenti non lo avrebbe cercato nel bel mezzo di una festa, e lui voleva dargli conforto in ogni modo possibile. Avvicinò una mano al suo viso e prese a tracciarne il profilo con lente carezze.

"Non ti andava proprio di ballare con quelle persone dall'altra parte, eh?"

Domandò comprensivo, rivolgendogli un sorriso affettuoso.

Riccardo sospirò beato a quelle carezze, socchiudendo gli occhi per un istante in modo da lasciarsene avvolgere, ma subito li riaprì per fissarli in quelli scuri e lucenti del compagno.

"Lì non c'è nessuno con cui abbia voglia di farlo."

Rispose, sollevando l'angolo delle labbra in un sorriso innamorato.

Lorenzo soffiò una risatina intenerita, annuendo appena: per quegli occhi così dolci e quel sorriso così luminoso, che gli avevano fatto perdere la testa fin dal primo istante, avrebbe fatto qualsiasi cosa.

"Allora, in questo caso..."

Cominciò a dire, con voce leggera, e scattò in piedi per poi fare un mezzo inchino nella direzione del compagno.

"...mi faresti l'onore di concedermi un ballo?"

Gli tese una mano, guardandolo negli occhi con tutto l'amore che provava per lui.

Riccardo ridacchiò di gusto, quei gesti così plateali erano tipici di Lorenzo -non si tratteneva mai, nemmeno in ospedale, se ne aveva l'occasione-, eppure non se ne sarebbe mai abituato. Prese la mano di Lorenzo, sorridente, e si alzò in piedi.

"Posso scegliere io il brano?"

Domandò, allegro e leggero.

Lorenzo annuì, rivolgendogli un morbido sorriso.

"Puoi fare tutto ciò che vuoi, lo sai."

Rispose a bassa voce, nonostante non ci fosse nessuno lì a parte loro due.

Riccardo si sporse a dargli un bacio a fior di labbra, sorridendogli teneramente, e in quell'istante una musica calda cominciò a diffondersi intorno a loro.

Wise men say
Only fools rush in
But I can't help falling in love with you


Lorenzo soffiò una risatina leggera che gli scoprì i denti, poiché aveva riconosciuto il brano e del resto come avrebbe potuto non farlo?

Riccardo gli rivolse un sorriso sghembo, ma dolce, perché c'era un motivo preciso dietro la propria scelta.

"Ti aggrada?"

Chiese, con tono giocoso.

Lorenzo annuì, portando la mano libera ad accarezzargli il viso.

"Mi aggrada molto, sì."

Mano nella mano, con una manciata di passi, si spostarono verso il centro della navata, proprio dove il rosone proiettava il suo arcobaleno.

Shall I stay?
Would it be a sin
If I can't help falling in love with you?


Si cinsero a vicenda tra le braccia e presero ad ondeggiare, occhi negli occhi e sorrisi nei sorrisi, seguendo quel ritmo lento e famigliare che portava con sé ricordi e speranze.

Like a river flows
Surely to the sea
Darling, so it goes
Some things are meant to be


Avevano ballato insieme per la prima volta proprio con quella canzone ad una festa a tema anni ’60 ancora ai tempi dell'università e per questo avevano deciso che sarebbe stata la canzone del loro lento, al loro matrimonio, ma non avevano avuto la possibilità di concretizzare quel desiderio. Ora, per la prima volta, potevano ballarla come due sposi.

Take my hand
Take my whole life, too
For I can't help falling in love with you

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Capitolo 49
*** Epilogo – Eternamente ora (parte 6) ***


La camera da letto era illuminata dalla luce calda di una delle due abat-jour posizionate sui rispettivi comodini e piena dei respiri di quei due corpi affannati che, ancora uniti, si scambiavano il calore tra le lenzuola aggrovigliate. Non esisteva nient'altro al di fuori di quella stanza e perfino i tipici rumori di Roma erano poco più che un brontolio sommesso, troppo poco per rovinare la perfezione di quell'istante.

Lorenzo, placidamente adagiato sul petto dell'uomo che amava, teneva gli occhi fissi su di lui e sorrideva innamorato: ne osservava i capelli, quei riccioli che lo facevano impazzire, sparpagliati sul cuscino senza un ordine o un criterio, come i raggi di un Sole disegnato da un bambino, che circondavano il viso rilassato con le palpebre morbidamente abbassate e le labbra, arrossate per i tanti baci, dischiuse leggermente, come a chiederne un altro, mai sazie. Poteva quindi sembrare che Riccardo si fosse addormentato sul colpo, del resto era tornato da un turno sfiancante e sarebbe potuto succedere, ma Lorenzo sapeva che era sveglio perché ne sentiva le morbide carezze su un fianco che si susseguivano lente e calde. Se avesse dovuto dare una sua personale definizione di Paradiso, avrebbe scelto quel momento.

Gli fece una carezza sulla guancia su cui faceva capolino un'ombra di barba -che sicuramente Riccardo avrebbe provveduto a radersi a breve, ne era certo- e le labbra del compagno si distesero in un sorriso; poi posò un bacio sulla punta del naso -che a Riccardo non piaceva ma che Lorenzo, invece, amava- ed il compagno lo arricciò leggermente, soffiando una risatina; da lì, Lorenzo scese sulle sue labbra, lasciandovi un bacio leggero, e poi sul suo collo caldo, di cui respirò l'odore di lavanda ancora fresco nonostante tutto, e sul suo petto sul quale lasciò una scia di baci caldi e lenti, tracciando una costellazione nota soltanto a lui.

Riccardo era stato costretto da un'emergenza a rimanere in ospedale più a lungo del previsto e per quanto non fosse il tipo da tirarsi indietro e avesse una vera e propria vocazione nell'aiutare gli altri, era tornato a casa sfinito e Lorenzo, con le sue cure, le sue attenzioni, il suo amore, lo faceva sentire meglio. Ad ogni suo bacio liberava un sospiro rilassato o una piccola risata quando la barba di Lorenzo lo solleticava particolarmente, mentre il calore di quelle labbra gli entrava dentro, attraversandogli la pelle come fuochi che non bruciavano. Se avesse dovuto definire il Paradiso, non aveva dubbi che avrebbe descritto quel momento.

Lorenzo proseguì con costanza, arrestandosi soltanto all'altezza del suo bacino. Arrivato in quel punto si sollevò, inginocchiandosi accanto al compagno, e con gesti misurati ed attenti gli sfilò piano la protesi, adagiandola accanto al letto. Era un'attenzione che gli faceva piacere dare a Riccardo, non perché il compagno non fosse capace di togliersela da sé, ma perché riteneva che quella parte del suo corpo avesse bisogno di qualche premura in più dal momento che Riccardo, in passato, se n'era vergognato tanto. Posò un bacio sul moncone, poi un altro ed un altro ancora, massaggiandolo al tempo stesso con le mani, per colmare un vuoto che in realtà non c'era.

Riccardo, non appena sentì le labbra del compagno sulla coscia, si aprì in un sorriso dolcissimo e sollevò le palpebre -nonostante la stanchezza che cominciava a renderle pesanti-, raggiungendolo con gli occhi. Per molti anni si era vergognato di quella che percepiva come una vera e propria mancanza ed evitava di parlarne o di mostrarla ad altri, e così aveva fatto anche con Lorenzo quando si erano conosciuti, fuggendo continuamente da quelle occasioni che, per un motivo o per un altro, richiedevano di rimanere senza vestiti. Lorenzo, in ogni caso, era sempre stato paziente con lui e non gli aveva mai fatto pressioni e quando aveva trovato il coraggio di dirgli finalmente la verità -aveva saputo da un'amica comune che Lorenzo aveva cominciato a dubitare di se stesso e a pensare di aver fatto qualcosa di sbagliato che non gli permetteva di avere la propria completa fiducia-, aveva accettato quella mancanza molto più rapidamente di quanto avesse fatto lui e non mancava mai di dimostrarglielo concretamente, ritagliandosi quella piccola sessione di baci e carezze mirati ogni volta che riuscivano ad andare a dormire insieme. Così, grazie a Lorenzo, aveva capito che in realtà non gli mancava proprio niente.

Portò una mano tra i suoi capelli arruffati e li accarezzò tracciando piccoli cerchi concentrici, dandogli così il segnale che nel corso degli anni avevano sviluppato.
Lorenzo alzò gli occhi scuri verso il compagno e sorrise, annuendo appena: Riccardo lo voleva dove le sue labbra potessero raggiungerlo e lui allora tornò su, risalendo per il percorso che aveva già tracciato, per poi esaudire la sua richiesta con un bacio delicato, quasi una carezza.

"Sei stanco? Vuoi riposare?"

Domandò con dolcezza, accarezzandogli il viso con una mano.

Riccardo scosse il capo, rivolgendogli un sorriso sghembo ed uno sguardo furbo.

"Neanche per idea!"

Lo tirò a sé con delicata decisione, approfondendo il bacio che Lorenzo aveva cominciato. Scese ad accarezzargli il collo, i fianchi, la schiena con gesti frenetici, scivolando sotto le lenzuola che lo coprivano come una seconda pelle, mosso da una passione calda che sentiva divampare dentro di sé come un fuoco e dal desiderio di ringraziare Lorenzo e farlo sentire amato.

Lorenzo, senza esitare, assecondò quel bacio, abbandonandosi alla stessa passione, ed intanto si stringeva al compagno il più possibile per diventare un tutt'uno con lui, mentre gli passava una mano sul petto e sentiva il suo cuore battere all'impazzata.

"È tutto a posto, amore mio?"

Sussurrò affannato, riuscendo a separarsi dalle labbra di Riccardo solo per pochi istanti.

Riccardo annuì rapidamente e sorrise, baciandolo ancora e ancora prima di rispondere.

"Non potrei stare meglio, amore..."

Ansimò, fermandosi un attimo per cercare i suoi occhi scuri e caldi, ma più luminosi della Luna. Gli passò una mano tra i capelli, arruffandoglieli ancora di più di quanto non fossero già.

"Sono felice, tanto felice. Mi sento leggero e pieno al tempo stesso, non so nemmeno come spiegarlo..."

Fece una risatina, che gli rimase sul viso in un'espressione divertita.

"È un controsenso, eh?"

Domandò, piegando leggermente il capo da un lato.

Lorenzo lo ascoltò con attenzione, accarezzandogli lentamente una guancia con il pollice, e poi sorrise a trentadue denti, annuendo appena.

"Sì, ma è un controsenso bellissimo. Mi piace molto."

Rispose, avvicinando di nuovo i loro visi per lasciargli un bacio a fior di labbra. Quando tornò a guardarlo, sollevò un sopracciglio sugli occhi che scintillavano furbi.

"E, per caso, questo controsenso bellissimo è merito mio?"

Chiese con tono allusivo, ma non per questo sminuendo ciò che il compagno gli aveva detto. Aveva compreso il significato di quelle parole apparentemente lontane tra loro ed era felice della sua felicità -che poi, in fondo, è il senso stesso dell'amore, almeno per come lo vedeva lui-, voleva solo fare un po' il marpione, perché sapeva che a Riccardo piaceva.

Riccardo, infatti, proruppe in una risata spontanea che coinvolse tutto il corpo, scosso dai sussulti, tanto che dovette coprirsi la bocca con una mano per non farsi sentire dai vicini. Dopo qualche secondo, più calmo, annuì e riaprì gli occhi che aveva chiuso per il troppo ridere.

"È sempre merito tuo, amore mio. Solo con te sono così felice. Sono stato molto fortunato ad averti incontrato tra otto miliardi di persone."

Rispose con voce che traboccava di dolcezza e le labbra ancora curve in un morbido sorriso. Si sporse, poi, a dare un bacio sulla punta del naso di Lorenzo, affettuoso, ed adagiò di nuovo il capo sul letto, guardando il compagno negli occhi mentre gli accarezzava una guancia.

Lorenzo liberò una dolce risatina e sorrise morbidamente, portando una mano tra i suoi capelli per accarezzargli i ricci già scomposti.

"Anch'io mi sento fortunato ad averti incontrato, amore mio. Siamo come due pezzi di puzzle, io e te: l'unico incastro possibile tra centinaia e centinaia di altri."

Si chinò quanto bastava per far sfiorare i loro nasi in piccoli tocchi e carezze pieni d'amore che, nel giro di una manciata di istanti, si trasformarono in baci leggeri lasciati un po' ovunque su quel viso tanto amato.

Riccardo, tra uno di quei doni e l'altro, venne attraversato da un pensiero che, in realtà, non era la prima volta che percepiva, ma era sempre rimasto poco nitido, sfuggevole, una sensazione al centro del petto e nient'altro. Questa volta, invece, lo vedeva chiaramente, se solo non fosse stato immateriale avrebbe potuto toccarlo, ne era certo, e si diede dello stupido per aver impiegato così tanto tempo a capirlo. Non attese oltre e lo esternò subito, sorridente.

"Lorenzo, mi vuoi sposare?"

Lorenzo, dedito in quel momento ad una guancia del compagno, si era appena risollevato per spostarsi dall'altro lato, nell'incavo del suo collo, ma quella domanda lo fece bloccare a mezz'aria, come se anche quella fosse rimasta sospesa. Sgranò gli occhi verso Riccardo, increduli ma luminosi, e buttò fuori un sospiro di sorpresa. Se non fosse stato assolutamente certo di essere sveglio avrebbe pensato che si stesse trattando di un sogno, ma da anni ormai i propri sogni non erano belli quanto la realtà che viveva.

"Eh?"

Domandò, con un sorriso aperto stampato in faccia e gli occhi fissi nei suoi.

Riccardo scrollò le spalle, come se avesse semplicemente proposto di fare colazione al bar la mattina seguente, ma il sorriso che aveva negli occhi non era certo dovuto alla prospettiva di un cornetto e di un cappuccino.

"Sposiamoci. Facciamo come i pezzi di un puzzle: uniamoci e non separiamoci più."

Disse, accorato, guardandolo negli occhi. Sollevò una mano verso la sua guancia, accarezzandola con il pollice.

"Non ho avuto il tempo di organizzare una dichiarazione come si deve, ma ci sto pensando da un po', solo che me ne sono reso conto soltanto adesso. Stiamo insieme da tanti anni e lo so che abbiamo sempre rimandato per colpa del lavoro, ma penso che adesso possiamo..."

Continuò, travolto da un entusiasmo che dipingeva un sorriso luminoso sul proprio viso.

Lorenzo, tuttavia, fece una cosa che solitamente non faceva e cioè lo interruppe, ma con una dolce risata, carica di gioia ed anche di piacevole incredulità.

"Sì, certo che lo voglio! Lo voglio mille volte!"

Esclamò, euforico, fiondandosi poi sulle sue labbra per baciarlo con foga, in modo da sottolineare adeguatamente il concetto. Non si sarebbero più separati.
Riccardo si lasciò avvolgere da quell'onda d'amore e rispose allo stesso modo, tenendo stretto a sé Lorenzo per tener fede alla promessa appena fatta. Non si sarebbero più separati.

Lorenzo, ricordandosi improvvisamente di una cosa, interruppe quel bacio facendo appello a tutta la propria forza di volontà e soltanto perché si trattava di una cosa molto importante, altrimenti non l'avrebbe mai fatto.

"Aspetta...aspetta solo un attimo, Ric. Ti devo dare una cosa!"

Esclamò, con una certa euforia.

Riccardo subito sciolse l'abbraccio, ma non poté fare a meno di rivolgergli uno sguardo incuriosito, inclinando leggermente il capo.

"Che cosa?"

Lorenzo si sollevò, mettendosi a sedere, e gli rivolse un sorriso sghembo.

"Ora vedi."

Scese dal letto e si diresse verso l'armadio sul lato destro della stanza, lo aprì, e a colpo sicuro infilò una mano in una tasca di un proprio cappotto che non indossava da un po'.

Riccardo, messosi a sedere contro la testiera del letto, lo guardava con sempre maggior curiosità, chiedendosi cosa stesse cercando il compagno, ma quando lo vide voltarsi con uno scatolino in mano non ebbe più dubbi. Per un istante smise di respirare, ma poi si sciolse in un dolce sorriso: Lorenzo era sempre un passo avanti a lui, ma era sempre pronto ad attenderlo.

Lorenzo, sorridendo emozionato, gli tornò accanto, sedendosi a gambe incrociate, e sollevò il coperchio dello scatolino, rivelando un anello molto semplice, d'argento, senza particolari decorazioni, ma che luccicava perfino nella poca luce della stanza.

"Ci ho pensato anch'io, aspettavo solo il momento adatto per dirtelo. Sapessi quante volte me lo sono portato dietro, alla ricerca dell'istante perfetto..."

Ridacchiò appena, ripensando a quella volta in cui aveva pensato di fargli una proposta plateale in mensa, davanti a tutti, ma aveva poi scartato l'idea per l'eccessiva confusione di quel posto; oppure a quella volta in cui voleva lasciare, con discrezione, l'anello davanti a Riccardo mentre controllava i referti di un paziente nella sala dei medici, ma il caso di cui si stava occupando era troppo grave per distrarlo; o, ancora, di quella volta in cui voleva dirglielo lasciando l'anello sul collo della birra che solitamente si concedevano alla fine del turno in un bar poco lontano dall'ospedale, ma proprio quella sera Riccardo aveva optato per uno spritz e non gli piaceva l'idea di depositare l'anello in fondo al bicchiere. Ripensandoci adesso gli sembrava di aver perso tempo, ma al tempo stesso ne era felice perché si era creato un momento più intimo, soltanto loro, e per questo era perfetto.

"...senza capire che bastiamo noi per rendere perfetto qualsiasi momento."

Sfilò il cerchietto d'argento dal soffice cuscino che lo ospitava e lo avvicinò alla mano sinistra di Riccardo, che prese nella propria.

"Riccardo, mi vuoi sposare?"

Domandò, con la voce che un po' tremava per la gioia, guardandolo negli occhi.

Riccardo sospirò felice ed annuì senza esitare.

"Sì, sì e sì, mille volte sì!"

Esclamò, trepidante. Diede a Lorenzo appena il tempo di fargli indossare l'anello e subito lo tirò a sé, riprendendo quel bacio che era stato così piacevolmente interrotto e a cui Lorenzo, naturalmente, non si sottrasse ed anzi si sistemò accanto al corpo del compagno, accogliendolo con il proprio.

Dopo, affannati, continuarono a guardarsi negli occhi, al culmine della felicità e dell'amore.

Riccardo fu il primo a parlare, accennando un sorriso.

"Certo che ti sei organizzato bene, l'hai pure nascosto. Io non mi sono accorto di niente."

Lorenzo ridacchiò morbidamente, stringendosi nelle spalle.

"In realtà è stato un caso, l'ho visto in una vetrina e ho pensato che sarebbe stato molto bene alla tua mano."

E così dicendo la prese nella propria, con dolcezza, e se la portò alle labbra per lasciarvi un bacio.

"E poi mi piaceva l'idea che la gente, guardandoti, pensasse: Oh, quel dottore così affascinante è già impegnato, come farò a farmene una ragione?"

Continuò scherzosamente, imitando un'espressione ed un tono disperati. Non lo diceva per gelosia -dieci anni di vita insieme erano più che sufficienti come prova d'amore, e poi si era sempre fidato di Riccardo con tutto se stesso e mai quella fiducia era stata tradita-, ma perché in quel modo chiunque avrebbe saputo quanto lo amava.

Riccardo ridacchiò, lusingato, ma scosse appena il capo.

"Mi dispiace contraddirti, ma tra noi due quello con la fila dietro sei tu. E ti hanno anche regalato una targa con scritto Dottor Sexy per il compleanno, ti ricordo."

Ribatté, tracciando lente carezze sulla sua mano, ancora intrecciata alla propria, con il pollice. Non gli dava fastidio che i colleghi, le colleghe, ed anche i pazienti e le pazienti sussurrassero apprezzamenti all'indirizzo di Lorenzo quando lo vedevano passare o non gli staccavano gli occhi di dosso, significava semplicemente che avevano buon gusto e che, anche, provavano un po' di sana invidia nei propri confronti. E poi si fidava di lui e quella fiducia non era mai venuta meno in tutti gli anni che avevano vissuto insieme, quindi non aveva proprio nulla da temere.

Lorenzo rise di gusto, poi si umettò le labbra e le curvò in un sorrisetto furbo, fissando i propri occhi nei suoi.

"Per prima cosa, ti ricordo che quella targa me l'hai regalata tu!"

Con l'indice della mano libera andò a toccargli il petto, per sottolineare le proprie parole.

"E poi non ti sminuire, sapessi quante cose dicono di te..."

Aggiunse lascivo, trasformando quel tocco in una carezza leggera.

Riccardo ridacchiò, scuotendo divertito il capo, ma venne attratto dallo sguardo di Lorenzo, così caldo da sembrare fuoco vivo, e vi legò il proprio.

"Mh, per esempio? Cosa dicono di così tanto edificante sul mio conto?"

Domandò a voce bassa, portando la mano libera sulla sua guancia per accarezzargli le labbra con un movimento morbido del pollice. Non gli interessava davvero cosa gli altri pensassero di lui, ma era molto curioso di sapere dove volesse arrivare il compagno.

Lorenzo posò un bacio morbido sul suo polpastrello, in punta di labbra.

"Beh, dicono che sei estremamente affascinante, ad esempio."

Rispose serio, seppur con una certa languidezza.

Riccardo sbuffò una risatina, alzando incredulo gli occhi al cielo.

"Sì, certo, il fascino dello spaventapasseri..."

Commentò sarcastico, pur apprezzando il tentativo di Lorenzo. Non che si ritenesse proprio bruttissimo, ma sapeva di non essere l'oggetto principale degli sguardi lanciati di nascosto nei corridoi. Gli andava più che bene così, dal momento che l'unico sguardo di cui gli importava davvero ce l'aveva davanti.

Lorenzo sospirò e si sporse verso di lui per baciarlo sull'angolo delle labbra. Ci era voluto un bel po' di tempo per far sì che Riccardo si vedesse come lo vedeva lui -anni prima, quando si erano conosciuti, Riccardo era molto insicuro-, ma alla fine ci era riuscito. Adesso, avrebbe fatto di tutto per fare in modo che Riccardo si guardasse come lo guardavano davvero anche gli altri.

"Il fascino del ragazzo della porta accanto..."

Lo corresse, sorridendogli dolcemente.

"...non lo sottovalutare."

Aggiunse, facendogli un occhiolino.

Riccardo accennò un sorriso, divertito. A Lorenzo di certo non mancava la testardaggine, ma questo ormai lo sapeva bene: lo rendeva un ottimo medico, disposto ad andare fino in fondo ed ancora oltre per aiutare i suoi pazienti, ed anche un ottimo compagno di vita, il più dolce e protettivo di tutti.

"Mettiamo pure che sia come dici tu, in ogni caso affascinante non è bello, quindi continuo ad aver ragione io."

Fece notare, sollevando leggermente un sopracciglio.

Lorenzo incassò l'obiezione con una risatina e subito pensò a come rigirarla a proprio favore.

"Ma la bellezza passa, il fascino resta, fidati..."

Replicò, con l'aria di chi la sapeva lunga e al tempo stesso con uno sguardo pieno d'amore rivolto al compagno di fronte a lui.

Riccardo arricciò le labbra in un'espressione poco convinta: davanti a sé aveva la dimostrazione di quanto quell'affermazione fosse falsa: occhi baciati dal Sole, capelli arruffati neri come la notte ed un sorriso capace di illuminare l'intera stanza che, con il passare degli anni, non avevano fatto altro che diventare sempre più belli.

"Scusa amore mio, ma detto da te...non posso proprio crederci, mi spiace."

Ribatté, tornando a sorridere. Era pur sempre un momento di leggerezza.

Lorenzo curvò le labbra in un sorriso morbido, che non celava un piacevole sussulto interiore -era abituato a ricevere complimenti, questo era vero, ma quelli di Riccardo erano sempre speciali, anche dopo tanti anni insieme-, ed annuì, tutto sommato in accordo con lui.

"Allora credimi se ti dico che siamo entrambi bellissimi ed affascinanti!"

Esclamò, allegro, per poi impedire al compagno di replicare nell'unico modo possibile: con un bacio.

Riccardo, in un primo momento, lo ricambiò perché era impossibile resistere ai baci di Lorenzo, ma dopo qualche istante discostò le proprie labbra per articolare una sola, ma precisa, parola.

"Paraculo!"

Esclamò, accompagnandosi con un piccolo schiaffo sul posteriore del compagno.

Lorenzo liberò una risata sorpresa e genuina, che soffiò direttamente sulle labbra di Riccardo e lì la posò con un altro bacio, più rapido e leggero del precedente.

"Dico solo le cose come stanno! Sei tanto bello e tanto affascinante almeno quanto me, amore mio!"

Replicò con una certa enfasi, per poi dargli l'ennesimo bacio.

"E hai anche altre qualità..."

Aggiunse, lasciando volutamente in sospeso la frase.

Riccardo sospirò e, dopo aver sollevato gli occhi al cielo per un istante, tornò a guardare Lorenzo, lasciando che la curiosità prevalesse.

"Mh, per esempio?"

Lorenzo sorrise entusiasta, come se non avesse aspettato altro che il permesso per riempire il compagno di complimenti e, in effetti, era esattamente così.

"Per esempio dicono, ed io sottoscrivo in pieno, che sei il medico più rassicurante di tutto l'ospedale."

Cominciò a dire con voce traboccante d'orgoglio, accarezzandogli delicatamente i capelli.

"Sapessi quante persone arrivano in ospedale terrorizzate e dopo averti incontrato si calmano come per magia. La tua magia. Tu hai la capacità di far star bene chi ti sta accanto ed è qualcosa che va oltre la Medicina in senso stretto. Quella, con impegno e volontà, è studiata da migliaia di persone, ma il modo in cui tu entri in sintonia con i pazienti, lasciando che il loro dolore diventi il tuo, non l'ho mai visto in nessun altro."

Parlava con il cuore in mano, che in effetti stava accarezzando, guardando Riccardo negli occhi con i propri che luccicavano d'affetto.

"Perciò non ti sottovalutare mai, amore mio, perché sei unico."

Concluse, depositando un piccolo bacio sulla sua fronte.

Riccardo liberò un singhiozzo, commosso, e sentì gli occhi inumidirsi. Li richiuse, istintivamente, e due piccole lacrime gli bagnarono il viso che cercò di asciugarsi con un rapido gesto della mano. Quando era ancora solo un ragazzino, era stato salvato da un medico che aveva fatto molto di più che strapparlo a quell'embolia gassosa che rischiava di ucciderlo: gli era stato accanto, l'aveva aiutato ad accettarsi e a ritrovare la libertà che lui non credeva più di avere. Non aveva più rivisto quel medico, ma sentiva di avere un compito, di dover essere per gli altri ciò che quel medico era stato per lui ed era con questo pensiero che entrava ogni giorno in ospedale. Sapeva anche, però, che senza Lorenzo non sarebbe riuscito a fare nulla di tutto questo. Annuì, dunque, muovendo freneticamente il capo.

"Va bene, va bene, mi hai convinto!"

Replicò con voce malferma, ma era felice e, ora, fu lui a spingersi verso Lorenzo per un bacio.

Lorenzo lo attirò a sé in un abbraccio e, dolcemente, lo baciò sulle labbra. Da lì, poi, pian piano, si spostò su una guancia e poi sull'altra, asciugando con i propri baci le lacrime che le rigavano, con la dolcezza che quell'uomo meraviglioso meritava.

Riccardo si calmò a poco a poco, bacio dopo bacio, ed un morbido sorriso prese il posto delle lacrime sul volto arrossato.

"Grazie..."

Mormorò, accarezzandogli una guancia.

Lorenzo sorrise di rimando, dolcemente.

"E di che? Ho solo detto la verità!"

Ribatté, allegro.

"Adesso vieni qui, dai."

Aggiunse e, con movimenti delicati e ormai consolidati dall'esperienza, aiutò Riccardo a ridistendersi a letto, provvedendo immediatamente a coprirlo con le coperte perché cominciava a far freddo: loro erano nudi ed ancora un po' sudati, e non voleva che il compagno ne venisse colpito. Lo raggiunse subito dopo, sistemandosi sotto le coperte accanto a lui.

"Brrrr!"

Esclamò comicamente, usando quel finto pretesto per stringerglisi accanto con frenesia.

Riccardo liberò una tenera risata, era proprio tipico di Lorenzo cercare di far tornare il sereno dopo la pioggia, anche se leggera, riuscendoci ogni volta, e lo accolse tra le braccia, stringendolo forte a sé.

"Ti scaldo io, pinguino!"

Lo prese affettuosamente in giro, pur sapendo che Lorenzo aveva messo su quella scenetta più per lui che per se stesso.

Lorenzo incastrò il capo nell'incavo del suo collo, ritrovandosi avvolto dal profumo di lavanda, e sospirò beato.

"Questo pinguino ringrazia sentitamente. Si gela, lontano di te."

Mormorò, prendendo ad accarezzargli la schiena alla cieca.

Riccardo sentiva quelle carezze, così calde a dispetto del gelo che Lorenzo diceva di provare -ma immaginava che ciò accadesse perché il compagno preferiva donargli il suo calore, non lasciando nulla per se stesso-, attraversargli la pelle tanto sensibile a quel tocco e liberò un mugolio d'approvazione, come quando in una giornata d'inverno torni a casa e ti precipiti accanto al termosifone, perché anche lui sentiva freddo quando stava troppo lontano da Lorenzo.

"Allora resta qui, accanto a me, non te ne andare mai. Anch'io ho freddo senza di te."

Sussurrò, mentre con una mano gli accarezzava i capelli folti e morbidi tra i quali poi posò un bacio, respirando senza sforzo il caldo profumo di vaniglia.

Lorenzo sorrise e sollevò il capo nella sua direzione, quanto bastava a guardarlo negli occhi: era così che si stringevano le promesse.

"Non me ne vado, te lo prometto. Così ci scaldiamo a vicenda."

Replicò, con un morbido sorriso sulle labbra.

Riccardo posò un bacio tra i suoi occhi neri e luminosi, pervaso da una sensazione di calma e di serenità che solo Lorenzo sapeva dargli, anche dopo le giornate più difficili.

"Domani ti compro anch'io un anello, così la gente vedrà me, vedrà te e penserà che quel medico tanto affascinante e tanto empatico è anche tanto fortunato."

Mormorò con voce leggera, sorridente, ed intanto tracciava piccoli cerchi tra i capelli del compagno.

Lorenzo annuì, con entusiasmo: anche se praticamente chiunque in ospedale, perfino l'ultimo arrivato degli specializzandi, era a conoscenza della loro relazione, gli piaceva l'idea che quel legame invisibile, ma fortissimo, che da anni univa i loro cuori, trovasse una forma concreta, visibile, anche prima della sua manifestazione più ufficiale.

"Hai ragione, tutto il mondo deve sapere quanto ci amiamo!"

Replicò, completamente rilassato: i grattini di Riccardo lo mandavano in visibilio come ben poche altre cose al mondo.

Riccardo annuì, con un sorriso leggero sulle labbra, intenerito da ciò che vedeva: Lorenzo gli sembrava un cucciolo di cane che si beava delle coccole che riceveva, un'immagine molto lontana da quella che avevano di lui colleghi e pazienti, ma che in fondo rivelava la sua vera natura.

"E tutto il mondo lo saprà!"

Affermò con voce bassa, ma decisa, avvicinandosi al compagno per far incontrare le loro labbra e Lorenzo, come rispondendo ad un meccanismo perfetto, lo raggiunse.
Insieme si mossero in un bacio dolcissimo e lento, del resto non avevano alcuna fretta, pieno di sospiri, stretti l'uno all'altro in un unico corpo, come desideravano restare per sempre. Erano immersi in un placido silenzio e poteva sembrare che dormissero se non fosse stato per le carezze che si scambiavano, tra i capelli o sulla pelle nuda, e per gli occhi che, nonostante l'ora, ancora luccicavano nel buio.

Fu Riccardo il primo a rompere quel silenzio, manifestando un pensiero ad alta voce dopo un piccolo bacio.

"Dobbiamo cercare al più presto una data, sperando di trovarne qualcuna libera per quest'estate perché abbiamo già aspettato fin troppo e non mi va proprio di attendere ancora! Sarebbe bello riuscire ad evitare quel caldo torrido che ti fa passare anche la voglia di respirare, ma in caso non dovessimo riuscirci potremmo cercare un locale in montagna o al mare, così stiamo più freschi! Ah, poi ho pensato, se per te va bene, che potremmo evitare le bomboniere, come ha fatto tua cugina due anni fa, tanto a nessuno piacciono davvero quelle inutili suppellettili, e dare solo i confetti, che almeno sono buoni. Li facciamo al cioccolato, che piacciono anche a te? Alle mandorle sono più tradizionali, lo so, ma i tempi sono abbastanza maturi per ammettere che fanno schifo! Oppure al pistacchio, eh? O magari misti, così si accontentano tutti! E dobbiamo far stampare le partecipazioni, ce ne serviranno parecchie perché dobbiamo invitare tutti, anche chi ci sta antipatico e anzi loro a maggior ragione"

Parlò tutto d'un fiato, euforico, dando voce alle idee e ai pensieri così come venivano, gesticolando con la mano a mezz'aria oppure muovendola sul braccio e sulla schiena di Lorenzo, tracciando forme astratte.

Lorenzo, stretto a lui e con un gran sorriso sulle labbra, si limitava ad ascoltarlo, ad annuire di tanto in tanto -per lui mare o montagna non faceva differenza, ma anche lui desiderava che si sposassero al più presto, perché era già trascorso troppo tempo. Concordava anche sulle bomboniere, che da sempre riteneva un'offesa al buon gusto e prediligeva i confetti al cioccolato, sì, ma pensava che una confettata mista sarebbe stata più opportuna- e a dargli qualche bacio sparso qua e là sul viso, lasciandosi trasportare da quel meraviglioso fiume in piena. Pensò che Riccardo sapeva correre per davvero, solo che non se ne rendeva conto. E lui era ben felice di tenere il suo passo.

Ridacchiò dolcemente ascoltando la sua ultima affermazione e, anche in questo caso, non poté che trovarsi d'accordo. Gli diede un bacio sulla punta del naso, poi tornò a guardarlo negli occhi.

"Hai ragione, facciamo scoppiare qualche fegato! Tanto siamo medici, al massimo facciamo un trapianto."

Disse, divertito e scherzoso.

Riccardo scoppiò a ridere, rifugiandosi contro il suo petto per non fare troppo rumore ed annuì.

"Immagina la faccia che farà quell'antipatico di Grimaldi quando riceverà la partecipazione..."

Commentò, con la voce un po' attutita dal corpo del compagno.

Lorenzo ridacchiò di gusto immaginando quel vecchio rospo del loro collega, il primario di cardiologia che evidentemente di cuore non capiva granché dal momento che rivolgeva loro sempre occhiatacce piene d'astio quando, per un motivo o per un altro, si incrociavano in ospedale. All'inizio ci rimanevano male e si domandavano se avessero fatto bene a vivere il loro amore alla luce del Sole, ora invece se ne fregavano e anzi, quando lo vedevano, non perdevano l'occasione per scambiarsi un bacio veloce o camminare mano nella mano per fargli scoppiare il fegato, appunto.

"Diventerà ancora più brutto di quanto non sia già!"

Esclamò in risposta, allegro.

Risero insieme, fu impossibile trattenersi, e per non disturbare il sonno dei vicini si scambiarono un bacio al sapore di felicità.

Lorenzo, quando si furono calmati, tornò a parlare accarezzando i capelli di Riccardo e toccò l'unico argomento a cui il compagno non aveva fatto riferimento, ma che a lui stava particolarmente a cuore.

"Poi, comunque, dobbiamo scegliere la torta e la pasticceria giusta, perché la nostra torta deve essere perfetta, e per scegliere la pasticceria giusta dobbiamo..."

"...assaggiare le loro torte di mele, ovviamente."

Lo interruppe Riccardo, sorridendo divertito, che aveva ascoltato quella teoria centinaia se non migliaia di volte.

"Che poi non ho mai capito perché ne sei così convinto."

Aggiunse, facendogli una carezza sulla guancia. In realtà lo sapeva perché, appunto, Lorenzo gliel'aveva spiegato tantissime volte, ma il suo era un pensiero così dolce -come una torta- che gli faceva sempre piacere sentirglielo ripetere.

Lorenzo accennò una risatina e sorrise morbidamente. Sapeva benissimo che Riccardo non aveva davvero bisogno di quell'ennesima spiegazione, ma era sempre felice di ripetergliela.

"Perché è una torta semplice, ma ci vuole la giusta attenzione, la giusta cura, per farla venire bene. È come l'amore."

Spiegò con voce bassa e dolce, guardando Riccardo con infinito affetto.

Riccardo sorrise intenerito e ricambiò lo sguardo con lo stesso sentimento: loro, quella ricetta, non la sbagliavano mai.

"Allora troveremo la torta perfetta, amore mio, a costo di girare tutte le pasticcerie della città. Quel giorno sarà tutto perfetto, te lo prometto."
 

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Capitolo 50
*** Epilogo – Eternamente ora (parte 7) ***


Like a river flows
Surely to the sea
Darling, so it goes
Some things are meant to be


La luce che filtrava attraverso il rosone proiettava riflessi colorati su Riccardo e Lorenzo, sempre diversi ad ogni loro piccolo movimento, facendoli assomigliare a due arcobaleni che attraversavano lo stesso pezzo di cielo.

Take my hand
Take my whole life, too
For I can't help falling in love with you
For I can't help falling in love with you


La musica, così come era iniziata, finì, lasciando la chiesa in un silenzio ovattato. Riccardo e Lorenzo rimasero ancora per qualche secondo stretti nel loro abbraccio, occhi negli occhi e sorrisi nei sorrisi, tracciando piccole carezze l'uno sui fianchi dell'altro, per far durare quel momento ancora per un piccolo istante.
Lorenzo salì con una mano ad accarezzare la guancia di Riccardo, muovendo il pollice sulla sua barba morbida.

"Ti va di parlarmi un po' di questo matrimonio? Sono curioso."

Domandò, accennando un sorriso.

Riccardo soffiò una risatina, ma le sopracciglia leggermente aggrottate esprimevano tutta la propria perplessità.

"Ma non hai già visto tutto?"

Chiese di rimando, poggiando una mano sulla sua per accarezzargliela.

Lorenzo annuì, senza perdere il sorriso.

"Sì, ma lo sai che mi piace sentirti parlare. Hanno un altro sapore, le cose, raccontate da te."

Rispose, con voce morbida. A dire il vero, a volte capitava che la parlantina senza freni di Riccardo non venisse tollerata e, soprattutto in passato, c'erano stati dei professori o dei medici che gliel'avevano fatto notare con ben poco garbo -e quelle volte in cui era successo c'era voluta tutta la buona volontà di Riccardo per tenerlo fermo ed impedirgli di andare a rispondere per le rime allo stronzo di turno-, ma lui era sincero, lo affascinava. Non si stancava mai di sentirlo parlare dei più vari argomenti, del suo modo di ragionare e di illustrare i concetti, anche quelli più grevi e pensanti, con l'entusiasmo leggero di un bambino.

Riccardo allargò il sorriso, che si fece imbarazzato e che andò ad ornare due guance rosse come mele dolci e mature. Annuì, dolcemente, e si sporse a dargli un bacio a fior di labbra per ringraziarlo: nessuno lo capiva e sosteneva come Lorenzo, nessuno.

"Dove ci mettiamo?"

Domandò, facendo scorrere gli occhi lungo la navata. Sarebbe stato un racconto piuttosto lungo, era meglio mettersi comodi.

Lorenzo lo prese per mano e gli rivolse un sorriso sghembo.

"Dove ci pare!"

Con uno schiocco di dita, come un prestigiatore esperto, fece apparire un ampio divano rosso ad una decina di passi da loro. Nel mondo degli altri, quella chiesetta antica e mezza abbandonata non era certo il luogo in cui ci si sarebbe aspettato di trovare un divano nuovo, senza neanche un graffio, che spiccava come un papavero in un deserto, ma questo era il loro mondo e tutto, al suo interno, era perfetto e trovava posto, anche le più grandi assurdità e contraddizioni.

Riccardo sorrise e, con un gesto della mano che ricordava quello di un direttore d'orchestra, vi aggiunse un paio di cuscini bianchi, grandi e morbidi, che rendevano il tutto ancora più confortevole, e si voltò verso il compagno come a chiedergli cosa ne pensasse.

Lorenzo ridacchiò soddisfatto e annuì.

"Certo che sei diventato proprio bravo con questo trucchetto, eh?"

Commentò, senza nascondere l'orgoglio nella voce. Ricordava con tenerezza la prima volta in cui aveva fatto apparire una semplice tazza di thè davanti al compagno e lui prima aveva sussultato per lo spavento, poi aveva preso a studiare quella tazza da ogni angolazione possibile, osservandola con tanto d'occhi, come se si aspettasse di vederla sparire da un momento all'altro. Una reazione perfettamente normale, date le circostanze, che ben presto si era trasformata in una genuina curiosità e voglia di imparare, e che lui aveva soddisfatto ben volentieri, spiegandogli i trucchi dietro quelle apparenti magie, anche se in realtà non c'era poi molto da dover rivelare.

Riccardo si impettì, come uno scolaro che aveva appena ricevuto l'approvazione del maestro, ed il proprio sorriso si allargò perché, invece, quel complimento era molto di più.

"Ho imparato dal migliore."

Rispose con un soffio di voce affettuosa, per poi lasciare un bacio sulla guancia del compagno. Dopo una fase di stupore iniziale, in cui aveva chiesto a Lorenzo di fargli apparire le cose più disparate -anche se semplicissime, come una penna o una brioche- soltanto per assistere a quel prodigio che commentava ogni volta con versi di meraviglia, si era fatto spiegare come funzionasse e aveva imparato a padroneggiarlo nel giro di un istante. Non era affatto difficile, del resto quel regno magico assicurava un'esistenza felice per definizione, e quindi bastava semplicemente desiderare qualcosa, che poteva essere un oggetto o perfino un luogo -le persone invece no, ma del resto non avevano bisogno di nessun altro nel loro piccolo universo- e quella appariva per miracolo.

Si spostarono verso il divano, Lorenzo si accomodò su un lato ed avvicinò le gambe, un segnale convenuto che non richiedeva parole e spiegazioni, e così Riccardo si distese poggiando il capo sulle gambe di Lorenzo: questa era la composizione che formavano -naturalmente anche alternandosi- quando potevano concedersi di guardare un po' di televisione o quando uno dei due aveva bisogno di parlare di qualcosa.

Ora come allora, una mano di Lorenzo scivolò tra i capelli di Riccardo, prendendo ad accarezzarli morbidamente, e l'altra sul suo petto che venne prontamente raggiunta da quella di Riccardo, il quale cominciò ad accarezzarne il dorso. Erano davvero un incastro perfetto.

Lorenzo, con il capo leggermente chinato per guardare il compagno, gli rivolse un piccolo sorriso.

"Allora? Che mi dici?"

Domandò, con voce leggera.

Riccardo, gli occhi puntati nei suoi, sorrise di rimando e decise di cominciare dall'ultima che aveva visto prima di addormentarsi.

"Ti dico che c'è un mare meraviglioso, qui. Magari la prossima volta ci andiamo, eh?"

Replicò allegro, riferendosi ovviamente al prossimo incontro in quel mondo che esisteva solo per loro. Certo, gli sarebbe bastato un cenno per portare quel mare da loro in quel preciso istante, ma quella chiesetta era speciale, oggi aveva un significato che non avrebbe avuto in un altro momento e non gli sembrava il caso di sostituirla. Per il mare, invece, ci sarebbero state infinite altre occasioni.

Lorenzo annuì appena, cercando di mostrarsi convinto e, al contrario, di non mostrare la fitta di vuoto che sentì al centro del proprio petto.

"Sì, magari la prossima volta, sì..."

Rispose, ma in realtà non era certo che ci sarebbe stata una prossima volta. Anzi, non doveva esserci affatto. Era meglio così.

"Per adesso, però, me lo descriveresti, per favore?"

Aggiunse, con voce morbida.

Riccardo annuì con entusiasmo, strofinando il capo contro la mano del compagno. Continuava a pensare che ci fosse qualcosa che non andasse, che Lorenzo gli stesse tenendo nascosto qualcosa, ma preferì non insistere, perché tanto non sarebbe servito. Distrarlo, invece, e fargli sentire il proprio amore, forse avrebbe aiutato.

"È a due passi dal ristorante, ma se ti avvicini sembra di finire su un altro pianeta..."

Cominciò a raccontare con voce bassa e morbida, prendendosi un istante solo per posare un bacio sulla mano di Lorenzo, che teneva abbracciata alla propria e che non smetteva di accarezzare.

"...un pianeta blu, del blu più limpido e al tempo stesso più profondo che si possa immaginare, circondato da un mare di sabbia che, anche se non è bianca, è pura e soffice e, di tanto in tanto, è attraversata da luccichii colorati. Le onde, poi, si muovono lente e pacate, increspando di poco la distesa azzurra che altrimenti sembrerebbe così solida da poterci camminare sopra e l'odore del sale ti avvolge con gentilezza, restandoti dentro senza disturbare."

Continuò, lasciando che la voce scivolasse come le onde del mare. Già immaginava lui e Lorenzo, mano nella mano, che passeggiavano sulla riva, con l'acqua a solleticargli i piedi a più riprese sotto un caldo arancione, oppure a nuotare sotto un limpido azzurro, attraversato dai gabbiani, giocando con l'acqua come due bambini, o ancora seduti ad un tavolino sotto le stelle, con solo una candela e la luna piena e bianca a fare luce, per festeggiare un compleanno o un anniversario.

Lorenzo riusciva a vedere perfettamente quel mare e tutti i suoi colori davanti a sé, gli sembrava di sentirne il profumo ed il suono come se fosse stato lì e doveva farselo bastare. Sorrise morbidamente pensando che, come tutte le volte che avevano trascorso del tempo al mare, avrebbe raccolto manciate e manciate di quei sassolini di vetro colorato alla ricerca perfetta del verde che brillava negli occhi di Riccardo, un'operazione che richiedeva sempre molto tempo ma che il compagno attendeva pazientemente, sorridendo emozionato e di cui poi conservava sempre il risultato, anche quando proveniva dal mare del regno magico. Si augurava che presto -molto presto, se le proprie speranze erano ben riposte- qualcun altro prendesse il proprio posto e cercasse gli occhi di Riccardo in quei pezzi di vetro, qualcun altro che lo facesse sorridere in quel modo così luminoso e caldo da fare invidia al Sole. Annuì lentamente, incoraggiando così il compagno a proseguire il proprio racconto.

Riccardo, allora, soffiò una risatina pensando a ciò che stava per dire per concludere la propria descrizione.

"E sapessi che fame ti fa venire, quel mare!"

Esclamò, allegro.

Lorenzo ridacchiò teneramente divertito, scoprendo i denti bianchi.

"Ah sì? E che hai mangiato di buono?"

Chiese, pur sapendolo benissimo.

Riccardo si prese un paio di istanti per contemplare quel sorriso luminoso che sembrava una mezzaluna nel bel mezzo del cielo scuro e poi rispose, non prima di essersi passato la lingua sulle labbra in un gesto istintivo, ricordando ciò che aveva mangiato.

"Di buono, tutto, ma...al buffet c'erano delle pizze fritte fatte al momento, piccole però, non grandi come quelle che ogni tanto abbiamo mangiato anche noi..."

Lasciando solo per un attimo la mano di Lorenzo mimò la dimensione di quelle prelibatezze e subito dopo tornò ad accarezzare quella del compagno.

"E ti giuro, erano devastanti! Ne avrò mangiate almeno una decina, se non di più! Devi assolutamente provarle anche tu!"

Esclamò con grande entusiasmo, già pronto con la mano libera a far apparire un vassoio di quelle bontà.

Lorenzo ridacchiò di nuovo perché aveva assistito a quel momento, come a tutti quelli della giornata, e aveva visto Riccardo rimpinzarsi di quelle pizzette -ne era stato felice, perché c'erano stati e a volte c'erano ancora dei giorni in cui il compagno non toccava cibo- e contorcersi in smorfie buffe per cercare di far raffreddare un boccone troppo rovente su cui, per ingordigia, non aveva soffiato prima. Scosse il capo, poi, con un movimento appena accennato ma gentile.

"No, grazie, ma al momento non ho fame, non me le gusterei. Tu, però, la prossima volta soffia, eh?"

Replicò divertito, arruffandogli un po' i ricci.

Riccardo ridacchiò dolcemente e fece spallucce.

"Credimi, un'ustione è un prezzo che vale la pena pagare per una bontà simile. Ne esci ustionato, ma felice."

Disse, sorridente.

"So che non avrei dovuto, ma ne ho dato un pezzetto anche a Meli: mi guardava con quegli occhioni che era proprio impossibile dirle di no, lo sai che non so resisterci."

Continuò, leggero, poi curvò le labbra in un sorriso carico di affetto.

"Mi ricordano tanto i tuoi."

Soffiò piano, con voce piena d'amore.

Lorenzo accennò un sorriso, sollevando solo un angolo delle labbra. Sapeva che Riccardo, per qualche motivo, trovava irresistibili quelli che per lui erano dei normalissimi occhi marroni -né particolarmente brutti, né particolarmente belli, senza particolari sfumature che li rendessero meno ordinari, diversi da come ce n'erano a migliaia- e se in vita la cosa lo lusingava, adesso invece lo rendeva triste, lo faceva sentire quasi in colpa di avere proprio quegli occhi. Sperava con tutto se stesso che Riccardo trovasse un altro sguardo di cui innamorarsi. Forse l'aveva già trovato, ma non se ne rendeva conto.

"Hai fatto bene, in fondo è un giorno di festa anche per lei. Che fa? Si sta divertendo?"

Chiese, affettuoso. Anche se non l'aveva mai conosciuta davvero, si era affezionato presto a quella gatta, fin dal momento in cui era riuscita a far sorridere -anzi, proprio ridere- Riccardo, quando, pochi giorni dopo averla portata a casa, si era infilata in chissà che modo nella lavatrice, ovviamente spenta, per acciambellarsi tra i panni sporchi.

Riccardo sorrise dolcemente, intenerito dal modo in cui Lorenzo si era rapidamente affezionato a quella gatta, non mancava mai di chiedere di lei, infatti, ogni volta che si incontravano, e pensando che, dopotutto, ci aveva visto giusto quando, quel brutto giorno in ospedale, aveva avuto la certezza che nel giro di pochi giorni quei due sarebbero finiti presto a coccolarsi a vicenda. Gli dispiaceva infinitamente, in un modo che non avrebbe saputo nemmeno spiegare a parole, che non si fossero mai potuti incontrare per davvero.

"Ah, sta benissimo, si sta divertendo tantissimo, oggi! L'ho lasciata che stava giocando con Ulisse, il gatto dei nostri amici. Mi sa che dobbiamo prepararci, potremmo diventare nonni molto presto!"

Ridacchiò appena, dolce e divertito, socchiudendo gli occhi.

Lorenzo approfittò di quel momento per lasciarsi sfuggire un sorriso mesto, solo per un istante prima di cancellarlo per il bene del compagno. Claudio e Domenico erano amici solo di Riccardo, lui li aveva conosciuti solo attraverso i suoi occhi e le sue parole, e solo Riccardo avrebbe vissuto per davvero la gioia di avere la casa piena di micetti miagolanti, ma non era il non poter vivere quelle esperienze a renderlo triste, no: il dolore veniva tutto dal fatto che Riccardo ne parlava come se non si rendesse conto della realtà dei fatti o come se, più probabilmente, non volesse rendersene conto. Non poteva permettere che la persona che più amava al mondo continuasse ad andare avanti in quel modo, con quella vita a metà.

"Mh, spero che questo Ulisse sia un gatto per bene, allora."

Commentò, fingendosi geloso.

Riccardo ridacchiò, annuendo piano, e allungò una mano a toccargli la punta del naso arricciato in una finta espressione di diffidenza.

"Fidati, è dolcissimo. Non potremmo chiedere di meglio come genero. Un perfetto gentilgatto!"

Rispose, con voce leggera e gentile.

Lorenzo ridacchiò appena, tornando poi a mostrare un sorriso disteso e rilassato, senza traccia di tristezza.

"Se lo dici tu mi fido."

Fece un respiro un po' più profondo degli altri, simile ad un sospiro.

"E la cerimonia, invece, com'è andata?"

Domandò con voce morbida, sinceramente curioso di vederla attraverso il suo punto di vista. Era anche il modo migliore, quello, per introdurre il discorso che avrebbe dovuto fargli.

Riccardo accennò un piccolo sorriso, nostalgico più che malinconico, e che dunque portava con sé una certa dose di dolcezza. Sul momento era stato inevitabile pensare alla cerimonia che avevano avuto lui e Lorenzo, tanto diversa da quella a cui stava assistendo -senza un luogo da sogno, senza tanti invitati, senza vestiti eleganti e senza la promessa di un futuro insieme-, ma solo perché la loro cerimonia era stata diversa, non voleva dire che la trovasse meno bella: anche lì c'era stato l'amore, infatti, e questo rendeva le due feste più simili di quanto si potesse pensare. Per questo motivo, non era invidioso di Claudio e Domenico, anzi augurava loro ogni bene.

"È andata benissimo, amore mio, è stata molto intima. Non è sembrata la semplice registrazione di un contratto, insomma, come a volte succede. Loro due erano elegantissimi e bellissimi..."

Allargò il sorriso, che si fece un po' più furbetto.

"...certo, non bellissimi quanto te, ma un buon secondo posto a pari merito se lo sono guadagnato tutto!"

Esclamò, con scherzosa serietà.

Lorenzo ridacchiò divertito, scoprendo i denti e socchiudendo gli occhi intorno ai quali si formarono delle rughette di gioia, e scosse appena il capo.

"E non bellissimi quanto te, vita mia!"

Replicò con trasporto, sollevando la mano del compagno per posarvi un bacio morbido.

Riccardo, per quanto lusingato, sollevò le sopracciglia e assottigliò le labbra in un'espressione di disappunto.

"Seh, vabbè, ma li hai visti bene? Sembrano usciti da un film, dai...io al massimo sono una comparsa in una scena affollata!"

Ribatté, con la propria solita autoironia.

Lorenzo, però, sapeva essere testardo e dunque fece spallucce, scacciando così quell'obiezione a proprio parere insensata.

"A me però questa comparsa piace tanto, più degli attori protagonisti. E ha tutta la mia attenzione."

Sussurrò con voce calda, intervallando le parole con tanti piccoli baci sulla sua mano. Ogni occasione era buona, del resto, per fare complimenti al compagno, anche se forse quella non era la più adatta...ma sarebbe stata l'ultima e non voleva sprecarla.

Riccardo si sciolse in una risatina affettuosa, nata da quel calore che gli riscaldava l'anima e che non smetteva mai di ardere grazie a Lorenzo. Sospirò dolcemente, beandosi di quei baci, e solo quando il compagno ebbe terminato la sua opera di convincimento riprese a parlare.

"Comunque, oltre ad essere molto belli, anche se meno di noi, va bene, erano anche molto emozionati. Si sono scambiati delle promesse piene d'amore, ci hanno fatto commuovere tutti."

Accennò un sorriso, entusiasta come un bambino.

"E poi, alla fine, mentre se ne stavano andando, li abbiamo inondati di bolle di sapone e..."

Per un istante quasi impercettibile, lungo quanto un battito di ciglia, si rivide davanti un viso leonino, sorridente, e due occhi scuri che non erano quelli di Lorenzo, senza che potesse farci nulla.

Lorenzo colse quel lampo di distrazione nei suoi occhi verdi, che ormai sapeva leggere meglio dei propri, ma non diede segno di aver visto qualcosa. Se da un lato quell'esitazione gli faceva male, era una spina conficcata nel cuore, dall'altro gli dava speranza, era un fiore che stava sbocciando.

Riccardo scacciò l'immagine con un pensiero secco e si schiarì la voce, riprendendo a parlare con il solito sorriso disteso.

"...e sembrava un momento da fiaba, davvero. È stata davvero una cerimonia meravigliosa, sì."

Concluse, per poi avvicinare la mano di Lorenzo al proprio viso e posarvi un bacio prima sul dorso e poi sulla fede, apparentemente senza un motivo preciso, ma era un modo per scusarsi del pensiero che aveva avuto e che, forse, Lorenzo aveva fatto in tempo a leggergli dentro.

Lorenzo, ovviamente, aveva capito perché il compagno gli stava dando quei baci, ma non erano assolutamente necessari: Riccardo non doveva scusarsi se, finalmente, il suo cuore aveva aperto un piccolo spiraglio per far entrare nuova luce. Accennò un sorriso morbido e dolce, così da fargli capire di non essersi risentito, e continuò ad accarezzargli i capelli come aveva fatto fino a quel momento.

"È sempre meraviglioso quando si celebra l'amore. In qualunque forma lo si faccia."

Replicò, con dolcezza. Anche la loro cerimonia era stata bella, a modo suo, anche se organizzata in fretta e furia, anche se vi aleggiava dolore e perdita: era pur sempre stata una cerimonia d'amore e tanto era più che sufficiente a renderla bellissima.

Riccardo annuì, sorridente, e si sollevò per raggiungere il compagno in un bacio morbido, accarezzandogli il viso: anche quello era un modo per celebrare l'amore.
Lorenzo lo strinse tra le braccia e sorrise leggero sulle sue labbra, lasciandosi baciare. Poco dopo, fece strofinare i loro nasi, affettuoso. Sentiva che gli sarebbe mancato tutto questo, più che da morire, e per un attimo fu tentato di non dire nulla, di non affrontare quel discorso e di lasciare tutto com'era, ma sarebbe stato un gesto troppo egoista. E non si poteva essere egoisti, in amore.

"Dimmi un po', hai conosciuto qualcuno, oggi?"

Chiese a bassa voce, accarezzandogli piano la schiena. Ovviamente conosceva già la risposta.

Riccardo si accigliò leggermente, avvertendo distintamente una fitta allo stomaco a quella domanda che Lorenzo, in teoria, non avrebbe avuto bisogno di porgergli, ma se l'aveva fatto doveva esserci un motivo ed aveva la sensazione che non gli sarebbe piaciuto. Si strinse nelle spalle e riprese ad accarezzargli morbidamente la guancia.

"Sì, ho fatto due chiacchiere con delle cugine di Domenico e qualche collega di Claudio, ma niente di che. Lo sai che preferisco stare per conto mio."

Rispose, calmo, in modo da fargli capire che quell'incontro, se così si poteva definire, con Arthur Peirò -che poi, proprio vicino a lui era dovuto capitare? Perché non si era seduto ad un paio di file di distanza, magari accanto ad un vecchio magistrato e consorte?- non aveva avuto alcun significato.

Lorenzo liberò un sospiro, preparandosi ad affrontare le barriere ed i muri che Riccardo già stava innalzando, glielo vedeva negli occhi che all'improvviso si erano fatti più freddi. In cuor proprio, poi, sapeva che non era esattamente come il compagno gli aveva detto, perché c'era stato un tempo, neanche chissà quanto lontano, in cui Riccardo era l'anima della festa e non perdeva occasione per chiacchierare e scherzare con chiunque gli capitasse a tiro. Ma le cose possono cambiare drasticamente dalla sera alla mattina, lui lo sapeva meglio di chiunque altro.

"Ric, però...non puoi fare sempre così. Non puoi restare sempre da solo, devi conoscere gente nuova!"

Disse, con dolce determinazione. Gli occhi, tristi, sembravano quelli di chi stava pregando.

Riccardo si morse un labbro, preoccupato: l'ultima volta che avevano affrontato un discorso simile, Lorenzo stava morendo in un letto d'ospedale e da allora non avevano più toccato l'argomento. Aveva creduto che quella nuova vita, quel dono che era stato fatto ad entrambi, gli avesse fatto cambiare idea, ma evidentemente non era così. Liberò un piccolo sospiro.

"Senti, non ne voglio parlare. Ti prego, non oggi."

Mormorò, con voce e sguardo implorante, per poi avvicinarsi e cercare le sue labbra con le proprie.

Lorenzo, tuttavia, si discostò: non aveva mai rifiutato un suo bacio, una sua attenzione, ed il dolore che provò in quel momento fu lancinante, più forte di quando si sentiva i polmoni strappati pezzo dopo pezzo, ma doveva sopportarlo.

"E invece dovremmo, adesso. Anzi, avremmo dovuto parlarne già da tempo."

Replicò, determinato ma senza perdere la dolcezza che sempre riservava al compagno.

Riccardo deglutì, non gli piaceva per niente la piega che stava prendendo quella conversazione. Da quando aveva avuto di nuovo la possibilità di vedere Lorenzo aveva dimenticato cosa fosse la paura, cosa fosse la solitudine, e ora le percepiva avvicinarsi di nuovo, ne sentiva i viscidi e gelidi tentacoli strisciargli addosso come serpenti e sapeva che non ci avrebbero messo niente a soffocarlo.

"Lorenzo, amore mio, ti prego, ascoltami..."

Cominciò a dire, concitato, prendendo la sua mano tra le proprie. Gli rivolse un sorriso morbido, di quelli che riservava solo a lui, ma diverso dal solito perché incrinato dalla paura.

"Io non sono solo, ho te. Non ti devi preoccupare, perché finché sarò con te starò bene, hai capito?"

Si portò la sua mano alle labbra e la baciò con tutto l'amore che provava per lui, un amore che, anche in quel momento, non aveva dubbi fosse ricambiato: era quella la loro forza.

"Io sto bene, se sto con te. E lo so che anche per te è lo stesso, quindi...quindi perché dovremmo cambiare le cose, eh?"

Concluse, senza nemmeno tentare di nascondere l'urgenza, la disperazione, che si faceva strada dietro il tono affettuoso. Cercò freneticamente sul viso del compagno un segno che si fosse convinto, ma non ne trovò e si sentì sprofondare: per reazione inconscia, si aggrappò con più forza alla sua mano, spaventato dall'idea di vederlo sparire all'improvviso. Gli sembrava di essere tornato a quando Lorenzo lo guardava con occhi spenti, lo implorava con un filo di voce roca e aveva le mani più fredde del ghiaccio.

Lorenzo buttò fuori un respiro profondo, dispiaciuto ed addolorato. Riccardo non si sbagliava, anche lui provava i suoi stessi sentimenti e questo rendeva tutto più difficile. Vedeva il terrore nei begli occhi verdi del compagno, vedeva il suo dolore, e gli sembrava di avere di nuovo davanti quell'uomo che aveva più paura di vivere di quanta lui ne avesse avuta di morire. Era consapevole di star costringendo Riccardo a rivivere con la memoria momenti che aveva fatto di tutto per dimenticare, che lui aveva cercato in ogni modo di fargli dimenticare e avrebbe voluto davvero risparmiargli quel dolore -gli piangeva il cuore a vederlo così, spaurito e sull'orlo delle lacrime-, ma non poteva farlo, altrimenti ciò che da sempre era stata la loro forza sarebbe diventata la sua rovina e lui, che lo amava più di quanto amasse se stesso, non poteva permettere che ciò accadesse, che Riccardo sprecasse la sua vita in quel modo. Con la mano libera, quella che l'altro non stava stringendo, salì a fargli una carezza tra i ricci morbidi.

"Perché quella che stai facendo tu non è vita, Ric! Passare ogni giorno ad aspettare il momento in cui andrai a dormire, non è vivere! Sono io quello che è morto, non tu...non puoi continuare a comportarti come se lo fossi!"

Replicò, accorato, guardandolo con occhi imploranti.

Riccardo scosse freneticamente il capo, neanche voleva ascoltarle quelle parole! Quei momenti lì, quelli che viveva nel sonno, erano per lui vita a tutti gli effetti, perfettamente integrati nel ritmo di tutti i giorni. Anzi, erano lo strumento che suonava quel ritmo, tanto erano importanti: lo aiutavano a sentirsi vivo e ad andare avanti, che male c'era in quella situazione?

"Ascoltami, amore mio, ti prego, ascoltami: io, senza questi momenti che ci ritagliamo solo per noi, non vivrei affatto. Non troverei nemmeno la forza di alzarmi dal letto se non sapessi che, al mio ritorno, troverò te ad aspettarmi."

Rispose, con voce profonda e sincera, senza lasciare la sua mano perché aveva paura di perderlo. Fece spallucce.

"E poi non mi sembra di star trascurando il resto, no? Il lavoro, gli amici... è tutto come prima."

Aggiunse, trovando il coraggio di accennare un sorriso: gli sembrava che il proprio discorso filasse.

Lorenzo sospirò di nuovo, pesante e stanco -era assurdo che si sentisse così, dal momento che in quel regno magico non c'era posto per sensazioni negative, eppure gli sembrava di avere un macigno al centro del petto. Era vero, Riccardo non si era mai assentato dall'ospedale e non aveva mai rifilato una scusa ai suoi amici per trascorrere più tempo con lui, ma non era tutto come prima e non sarebbe mai potuto esserlo: prima, infatti, si sarebbero incontrati apparentemente per caso tra i corridoi dell'ospedale -solo nei momenti di pausa, chiaramente - o avrebbero riso e scherzato insieme con i loro amici davanti ad una pizza e ad una birra. Ora, invece, Riccardo non poteva nemmeno permettersi di raccontare che lo incontrava, altrimenti avrebbero pensato di lui che era un povero vedovo inconsolabile, nel migliore dei casi, o l'avrebbero sospeso dall'incarico, nel peggiore.

"Stai trascurando te stesso, Riccardo. Ricordi che cosa mi avevi promesso?"

Chiese con triste dolcezza, guardandolo con occhi mesti.

Riccardo buttò fuori un sospiro e si voltò dall'altro lato, ma annuì. Certo che ricordava quella promessa, ma l'aveva stretta prima di sapere che avrebbe riavuto la possibilità di stare con Lorenzo prima di quanto pensasse; riteneva, comunque, che anche in caso contrario avrebbe fatto molta fatica a mantenerla. Tornò a guardarlo con gli occhi che luccicavano frementi.

"Ma tu sei qui, qui con me! Posso parlarti, accarezzarti..."

Gli passò delicato una mano sul viso, sorridendogli morbidamente.

"...baciarti, respirare il tuo profumo! Perché dovrei anche solo pensare a qualcun altro?"

Si strinse nelle spalle.

"E poi lo sai che ci ho provato, ho anche scaricato quell'app..."

Aggiunse a voce più bassa, imbarazzato, distogliendo di nuovo lo sguardo. Circa sei mesi prima era stato praticamente costretto contro la propria volontà ad iscriversi ad un'app di incontri da un piccolo gruppo di amici e colleghi, i quali, certamente, credevano di operare in buona fede e ritenevano che conoscere un po' di gente, 'rientrare nel giro', come avevano detto, gli avrebbe senz'altro giovato e lo avrebbe aiutato a lasciarsi alle spalle il lutto non più così recente. Riccardo, dunque, non potendo rivelare che di lutto non si trattava più dal momento che con Lorenzo si incontrava ogni giorno, aveva portato avanti quella sorta di esperimento per un po' -ne aveva parlato anche con Lorenzo, naturalmente, il quale si era dimostrato aperto e ben disposto-, ma non aveva ottenuto i risultati sperati -sperati dai colleghi, ovviamente, di certo non da lui-: forse era troppo all'antica, ma riteneva che gli incontri veri, quelli fatti per durare e che ti cambiavano la vita, andassero fatti di persona, conquistando con dedizione i successi e gli insuccessi, conoscendosi e scoprendosi a poco a poco con curiosità e non ottenendo tutto e subito da un rapido scambio di messaggi in una fredda chat, per cui aveva sempre guardato con un certo disprezzo le applicazioni di quel tipo e le proprie convinzioni erano state confermate dal breve uso che aveva fatto dell'app in questione.

In poco più di una settimana, infatti, gli erano state mostrate -senza o con ben pochi convenevoli di sorta- più zone intime di quante ne vedessero i propri colleghi proctologhi nel giro di un anno, e la quantità di approcci di dubbio gusto che aveva ricevuto non era nemmeno quantificabile. Solo un incontro, se così si poteva definire una giornata di corrispondenza virtuale abbastanza fitta, era stato diverso dagli altri: nella mattinata di quello che sarebbe stato il proprio ultimo giorno di permanenza su quell'applicazione -anche se al momento non lo sapeva ancora- aveva ricevuto un messaggio che, per una volta, non era né una foto esplicita né un doppiosenso, ma un saluto che, per quanto semplice, in quella giungla era una vera e propria rarità. Da quel momento e per tutto il resto della giornata, fino a sera per la precisione, aveva continuato a chiacchierare del più e del meno con un uomo di trentasei anni -anche molto carino, almeno dalla foto- che diceva di chiamarsi Davide e di fare il bartender in un locale del centro, e mai, nemmeno una volta, si era sfiorato l'argomento sessuale.

Tutto era cambiato all'improvviso, però, quando Davide, apparentemente in modo disinteressato, gli aveva chiesto cosa stesse indossando e lui, fidandosi del clima pacato che si era disteso tra loro, aveva risposto in modo del tutto innocente che stava indossando un semplice pigiama: da lì, Davide aveva cominciato a dirgli come lo avrebbe spogliato e cosa avrebbe voluto fargli con grande minuzia di dettagli e, sul momento, Riccardo si era sentito attanagliato dall'ansia come un animale braccato, non sapendo esattamente cosa fare. Si era accorto, tuttavia -e sarebbe stato impossibile il contrario- che quelle frasi scritte avevano avuto un certo effetto su di lui perché i pantaloni avevano cominciato a tirargli, ad andargli stretti, senza che potesse farci nulla. Inevitabilmente aveva ripensato a Lorenzo, al suo dolce Lorenzo, che lo aspettava da lì a poco: era lui l'unico amore della propria vita, l'unico e solo, e di certo non lo avrebbe tradito.

Con un gesto di stizza aveva cancellato immediatamente il profilo e disinstallato l'applicazione, spegnendo poi il telefono che aveva abbandonato in malo modo, praticamente scagliandolo con il rischio che cadesse, sul tavolino di fronte al divano. Era scoppiato a piangere, senza controllo, e continuando a piangere era precipitato nell'abisso di un sonno di cui aveva appena fatto in tempo ad accorgersi. Pochissimi istanti dopo, si era ritrovato Lorenzo davanti e mai come in quel momento aveva desiderato di scomparire, di andare lontano da lui: si sentiva sporco e se ne vergognava.

Lorenzo sorrise dolcemente, ancora intenerito dall'imbarazzo che Riccardo provava al ricordo di quel momento, ritenendo di avergli fatto un torto quando così non era, e portò una mano sul suo viso che aveva accarezzato lentamente con il pollice, in modo da farlo rivolgere di nuovo verso di sé.

"Non ti sei mai concesso la possibilità di provarci davvero, vita mia, quando invece avresti dovuto. Non hai nemmeno provato a toccarti mentre parlavi con quel tizio..."

Commentò, senza tuttavia critica o derisione nella voce, ma solo quel profondo e tenero amore che provava per il compagno. Quella sera di qualche mese prima, quando aveva intuito la piega che stava prendendo quella chat, aveva smesso di vegliare su Riccardo in modo da lasciargli la riservatezza di cui aveva bisogno. Tuttavia, contro ogni propria aspettativa, dopo un'ora o poco più, l'aveva trovato così, nel loro regno magico, dilaniato dalla frustrazione per una pulsione non sfogata -reazione del corpo- e la vergogna per averla anche solo provata -reazione dell'anima-: era rosso in viso, gli occhi verdi umidi ed arrossati e non riusciva a guardarlo in faccia, tormentandosi le mani tra loro ed il labbro inferiore con i denti.


Lorenzo, vedendolo in quello stato che gli faceva male al cuore, non aveva esitato a prendergli le mani che si stava tormentando, baciarle con dolcezza, e condurlo nella perfetta replica del loro appartamento -aveva pensato che Riccardo avesse bisogno di un luogo familiare, in cui sentirsi al sicuro- e più nello specifico in bagno. Senza fargli domande, che al momento sarebbero state superflue ed inopportune, lo aveva aiutato a spogliarsi con gesti morbidi e delicati, baciando ogni centimetro del suo corpo, e lo aveva condotto nella vasca. Lì, immersi nell'acqua calda, lo aveva accolto tra le braccia e lo aveva aiutato a liberarsi di quel peso che si portava dentro, fatto di frustrazione e vergogna, e aveva sentito i suoi respiri farsi prima più affannati e poi più lenti, ed il suo corpo che prima si irrigidiva e poi si rilassava contro il proprio, lasciandosi andare. L'aveva protetto, l'aveva amato, perché anche un'anima è in grado di amare, più di quanto possa un corpo.

Riccardo tornò a guardare Lorenzo, gli era impossibile resistere al suo richiamo, gli sembrava contronatura, e gli rivolse un sorriso appena accennato, mesto e malinconico, ma pieno di gratitudine ed amore.

"Ma quella volta ci hai pensato tu a me."

Sussurrò in risposta, piano. 'Ci penso io a te, vita mia.': esattamente così gli aveva sussurrato Lorenzo, con quella voce calda e amorosa che non aveva mai sentito nella bocca di nessun altro, dopo avergli baciato le mani come ad un Santo. Lui, a dirla tutta, non si sentiva affatto un Santo, ma un vile traditore perché cedendo alle pressioni degli amici, cedendo alle lusinghe di quella dannatissima applicazione, aveva infangato la promessa d'amore che nemmeno la Morte era riuscita a scalfire, e poco importava che anche Lorenzo fosse stato d'accordo con quella proposta, a lui sembrava di aver commesso il peggiore dei crimini. Lorenzo, però, l'aveva accarezzato, l'aveva baciato, l'aveva amato, più di quanto chiunque altro avrebbe potuto fare. Con lui era stato facile, naturale, far riunire corpo e anima.

Lorenzo non ricambiò il sorriso, non ce la fece. Gli era sembrato giusto, per tutto quel tempo, continuare a stare accanto a Riccardo e vivere ancora la loro vita insieme, gli sembrava il modo perfetto per essere felici -del resto si amavano così tanto!-, ma aveva capito di avergli fatto solamente del male. Lo aveva trascinato nelle sabbie mobili e Riccardo rischiava di restarne intrappolato per sempre.

"Sì, e ho sbagliato. Come ho sbagliato fin dall'inizio di questa situazione."

Rispose, duro nei confronti di se stesso, con la voce appesantita da un grave senso di colpa.

Riccardo perse all'istante il sorriso ed aggrottò leggermente le sopracciglia, preoccupato. Se Lorenzo gli avesse dato un pugno dritto allo stomaco sarebbe stato meglio: sentirgli definire la loro relazione uno sbaglio, anche se capiva il motivo per cui lo faceva, era quanto di più dilaniante avesse mai provato, anche perché non c'era motivo di farlo. Semplicemente, Lorenzo si stava facendo carico di una colpa che non esisteva. Aveva paura, però, perché agli errori bisogna porre rimedio e la soluzione lo terrorizzava.

"In...in che senso?"

Domandò con poco più di un filo di voce rauca, sperando di aver capito male.

Lorenzo liberò un profondo sospiro e sciolse l'abbraccio in cui ancora lo teneva avvolto: non era facile nemmeno per lui, ma doveva farlo per il suo bene. Strinse per un attimo gli occhi, che sentiva inumidirsi, e poi tornò a guardare il compagno, anche se quella vista gli faceva male. Sapeva, però, che era Riccardo quello che stava soffrendo di più -lui su quel pensiero ci aveva pensato e ripensato, il compagno invece non aveva avuto modo di abituarsi e gli stava arrivando tutto addosso all'improvviso- e non distolse lo sguardo. Gli doveva almeno questo.

"Nel senso che avrei dovuto lasciarti libero fin dal primo momento, invece ti ho legato a me e non sei più andato da nessuna parte. E questo non va bene, lo sai anche tu."

Rispose con voce triste, ma dolce. In punto di morte aveva creduto che con il tempo Riccardo sarebbe riuscito a rifarsi una vita, ad amarsi con un altro uomo, e quando l'aveva sentito parlare di quell'app -gli aveva perfino chiesto il permesso di iscriversi, quel cuore buono di Riccardo- gli era sembrata un buon punto di partenza, anche se non era servita a molto: era pur sempre un tentativo, tuttavia, e già soltanto per questo era meglio del vuoto in cui Riccardo si costringeva a vivere. Se invece l'avesse lasciato stare, se non avesse dato il via a quell'incontro di anime, Riccardo avrebbe sofferto da impazzire per un po', per qualche mese forse, ma poi gli sarebbe passato e chissà, forse oggi a quel matrimonio non sarebbe andato da solo.

Riccardo lo fissò per un istante o due, incredulo: era assurdo che parlasse di costrizioni, quando il loro amore era per lui la più grande libertà. Strinse forte occhi e labbra per ricacciare un magone di pianto, e si aggrappò alle braccia di Lorenzo, di cui già gli mancava terribilmente l'abbraccio.

"Ma io non voglio andare proprio da nessuna parte, il mio posto è qui accanto a te e lo sai anche tu! Ho fatto un giuramento, Lorenzo, e non intendo scioglierlo."

Avvicinò piano il viso al suo, come se volesse baciarlo, ma non avrebbe retto un altro rifiuto e così si limitò a poggiare la fronte su quella del compagno, in cerca di conforto.

"Ti prego, non dire queste cose. Non pensare neanche per un attimo che tu per me sia un peso, una prigione: niente e nessuno potrà mai farmi sentire più libero di quanto lo faccia tu."

Aggiunse, con voce improvvisamente più bassa, più stanca, che usciva a stento dalle labbra tremanti.

Lorenzo si artigliò con forza ai cuscini del divano e si morse le labbra quasi a sangue per resistere all'esigenza di abbracciare Riccardo, accarezzarlo, baciarlo e chiedergli scusa, dirgli che lo amava e che non lo avrebbe mai lasciato. Purtroppo, non poteva farlo.

"E invece devi farlo, Riccardo. Devi andare avanti e devi permetterti di amare qualcun altro, qualcuno che ti amerà a sua volta e ti renderà felice, felice per davvero."
Riccardo scosse il capo con vigore, come se così facendo potesse impedire alle parole di Lorenzo di raggiungere il proprio udito, e buttò fuori un gemito di stizza. Scattò in piedi, all'improvviso come un pupazzo a molla a cui era stata data troppa carica, e cominciò a misurare lo spazio antistante al divano a grandi passi, avanti ed indietro, come sempre quando era agitato.

"Mi spieghi, allora, come faccio ad amare qualcun altro, se nel mio cuore ci sei solo tu?"

Esclamò, nervoso, tanto che la voce ancora tremava, senza fermarsi ma guardando fisso verso il compagno con occhi che, seppur tristi ed addolorati, sembravano pronti a scagliare saette, ma amavano troppo ciò che vedevano per colpirlo.

Lorenzo, d'istinto, si alzò, nonostante fosse pienamente consapevole del fatto che tentare di fermarlo sarebbe stato come cercare di raccogliere il mare con un bicchiere. Prese un profondo respiro.

"Ti scopriresti la gamba destra, per favore?"

Domandò con tono calmo e pacato, come se si fosse trattato di un proprio paziente.

Riccardo impiegò un paio di istanti per realizzare quale fosse stata la sua richiesta e per lo stupore si fermò, rivolgendo al compagno uno sguardo perplesso ed accigliato.
"Cosa c'entra la mia gamba, adesso?"

Rispose, piccato.

Lorenzo si avvicinò di un paio di passi, mantenendo il sorriso malinconico sul volto.

"Se te la scopri, te lo spiego."

Replicò, con voce morbida e dolce. .

Riccardo lo fissò titubante per qualche secondo, ma poi come sempre decise di fidarsi e sollevò leggermente il pantalone, scoprendo qualche centimetro della protesi che partiva dalla scarpa. Nulla di diverso dal solito, insomma.

"Allora?"

Domandò, perplesso.

Lorenzo si avvicinò ancora, fino ad annullare la distanza tra loro. Guardò la protesi con un mezzo sorriso, che poi rivolse al compagno.

"Lo sai che qui avresti potuto fartela ricrescere? Non l'ho mai fatto al posto tuo perché se tenere la protesi andava bene a te andava bene anche a me, ma...ma avresti potuto."

Disse con voce bassa, ma chiara.

Riccardo sgranò gli occhi, quella considerazione lo sorprese come un fulmine a ciel sereno. Certo, ora che lo sapeva, gli sembrava la cosa più logica del mondo, perché del resto in quel regno magico lui stesso aveva fatto comparire le cose più disparate, perché sarebbe dovuto essere diverso per la propria gamba? Era pur sempre il Paradiso, quello, no? Eppure, in tanti mesi, non aveva mai avuto quell'intuizione.

"Non...non ci ho mai pensato."

Ammise, ed in un altro momento si sarebbe anche sentito stupido, ma ora non c'era tempo per simili sciocchezze.

Lorenzo gli sorrise morbidamente e, con una mano, gli fece una carezza tra i capelli che portava con sé tanto affetto, ma anche tanta tristezza.

"Non ci hai pensato perché sei così abituato ad averla che l'idea di un'alternativa non ti ha nemmeno sfiorato, e così è anche per questa situazione tanto assurda da non poter essere nemmeno raccontata in giro. Ma l'alternativa c'è, credimi. C'è."

Replicò accorato, con la voce che in un altro momento sarebbe stata ferma ed incrollabile, ma ora tremava sotto il peso delle lacrime che premevano per uscire e che lui respingeva con tutta la forza che aveva. Deglutì per ricacciarle giù e con uno schiocco di dita fece l'unico miracolo che non si erano concessi fino a quel momento: la protesi di Riccardo scomparve e lasciò il posto ad una gamba perfettamente sana, quella che l'embolia gassosa gli aveva tolto.

Riccardo, preso alla sprovvista, perse l'equilibrio e quasi cadde, ma Lorenzo si aspettava quella conseguenza e fu pronto ad afferrarlo tra le braccia, sostenendolo saldamente. Riccardo si aggrappò a lui per puro istinto e restò così per qualche secondo: aveva paura a lasciarlo andare, e non solo per la gamba. Si rimise dritto, lentamente, e ancora mantenendosi al compagno mosse appena il ritrovato arto, sollevandolo di poco e facendolo ondeggiare avanti e indietro prima di rimetterlo a terra. Era una sensazione strana, ma non del tutto nuova: era la stessa che aveva provato quando aveva indossato per la prima volta la gamba artificiale.

"No."

Disse deciso, scuotendo vigorosamente il capo.

"Queste sono tutte stronzate! Io non voglio alternative, voglio che resti tutto esattamente com'è!"

Quasi gridò, con la disperazione che si mischiava alla stanchezza, e gli bastò un gesto per sentire di nuovo la sensazione familiare della protesi che lo sosteneva. Riacquistò così il proprio equilibrio, ma non aveva intenzione di lasciar andare Lorenzo e così spostò la presa dalle sue braccia alle sue mani, che strinse tra le proprie.

"Ascoltami..."

Disse a voce più bassa, guardando il compagno dritto negli occhi, seppur attraverso un velo di lacrime.

"Io prima a Dio, al Paradiso, a tutte queste cose ci credevo e basta, ora tu mi hai dato la certezza che è tutto vero. Adesso so che tra un po' di tempo tornerò qui da te e non dovrò più andarmene dopo il tempo di una notte. E non c'è altro posto in cui vorrei, in cui vorrò stare."

Continuò, misurando lentamente le parole, ma scandendole con una decisione che andava al di là del groppo che gli bruciava la gola. Sospirò.

"Se anche cercassi qualcun altro e se anche passassi il resto della mia vita insieme a lui, non sarebbe una mancanza di rispetto nei suoi confronti? Non farei altro che illuderlo, perché lo so già che tornerei da te! E al tempo stesso se iniziassi a frequentare un altro, mancherei di rispetto a te e al giuramento che ti ho fatto!"

Proseguì, cercando di essere il più convincente possibile. Gli dispiaceva trattare in un modo tanto ignobile quell'ipotetico sconosciuto -che per qualche istante assunse l'aspetto di quell’uomo che aveva conosciuto alla cerimonia, ma subito scacciò l'immagine dalla propria mente- ed ancora di più gli si spezzava il cuore e si sentiva male al solo pensiero di smettere di amare Lorenzo. Tirò su col naso e si mordicchiò un labbro, triste.

"Non voglio dimenticarti, Lorenzo..."

Mormorò infine, liberando un singhiozzo che non riuscì più a trattenere e che gli spezzò la voce. Si portò le sue mani alle labbra, baciandole più volte, teneramente, senza smettere di singhiozzare.

Lorenzo sfilò le proprie mani da quelle labbra tanto amate con un gesto delicato, sentiva di non meritare quei baci e quelle suppliche perché sapeva che lo stava facendo soffrire, anche se era per il suo bene. Gli prese il viso tra le mani a coppa e gli asciugò le lacrime con piccole carezze in punta di dita, pur sapendo che non bastavano a cancellare il dolore, ma non poteva fare di più perché gliene avrebbe soltanto causato dell'altro. Gli rivolse un sorriso incoraggiante, cercando di nascondere il proprio, di dolore.

"No, non è così, Riccardo. Tu puoi innamorarti ancora, ma ciò non vuol dire che ti dimenticherai di me, perché in un cuore grande come il tuo c'è spazio per più di una persona, devi solo concedertelo."

Sentì un singhiozzo salirgli lungo la gola, lo ricacciò indietro e per un istante che parve infinito gli sembrò di essere rimasto senza fiato, anche se lì era del tutto impossibile. Si schiarì la voce e riprese a parlare, mantenendo il sorriso.

"E non lo illuderai, perché quando ci rincontreremo qui, tra tanti anni, non sarai costretto a scegliere. L'amore è libertà, Riccardo, e c'è più libertà qui di quanta ce ne sia lì, credimi."

Concluse, senza smettere di accarezzarlo.

Riccardo, che si era aggrappato ai lembi della sua giacca con tutte le proprie forze, scosse il capo e poi tornò a guardare Lorenzo negli occhi, implorante. Quei discorsi per lui non avevano senso, non potevano avere senso.

"Ma noi siamo un incastro perfetto, come due pezzi di puzzle! L'hai detto tu, ti ricordi?"

Mugolò, e così dicendo si strinse a lui, poggiando il capo sulla sua spalla, come a dare la prova delle proprie parole. Cominciava a sentire freddo e quello era l'unico modo in cui voleva scaldarsi.

Lorenzo dovette combattere contro l'istinto di abbracciarlo, di ricomporre quell'incastro che sì, era davvero perfetto, ma non era l'unico possibile. Approfittò del fatto che Riccardo non lo stesse guardando, data la sua posizione, e si asciugò il viso con un gesto rapido delle mani.

"È vero, l'ho detto, ma in parte mi sbagliavo. Le tessere del puzzle non sono fatte per unirsi con una sola altra tessera, ma con tante altre e solo così riescono a comporre l'immagine finale."

Liberò un sospiro tremolante, schiarendosi poi di nuovo la voce. Stava diventando davvero difficile parlare.

"Sai, a volte...a volte quassù succede che si compongano immagini più grandi, per così dire, l'ho visto io stesso. Non succede a tutti, anzi non è una cosa così tanto frequente, ma...ma è possibile e non ci sarebbe nulla di male se accadesse a noi, no? Sarebbe...sarebbe la cosa migliore, in realtà."

Spiegò, cercando di mantenere un tono più allegro e positivo possibile. Le persone, o meglio le anime, che giungevano lì dopo aver avuto la fortuna di trascorrere tutta la vita insieme continuavano a vivere il loro amore esattamente come prima. Chi invece non aveva avuto questa fortuna e rimaneva da solo sulla Terra, a volte si innamorava di nuovo e per davvero, e nell'aldilà non era costretto a scegliere tra chi aveva lasciato prima e chi aveva incontrato dopo: semplicemente, si formavano nuovi amori e nuove immagini.

Riccardo impiegò qualche secondo ad elaborare pienamente le parole di Lorenzo perché le sentiva distanti, come se provenissero da un'altra stanza, e non ne afferrava nemmeno il concetto anche se lo vedeva svolazzare davanti ai propri occhi. Sollevò lentamente il capo, in modo da raggiungere il suo sguardo, e si schiarì la voce prima di parlare.

"Tu...tu hai trovato un'altra persona, qui?"

Domandò, con una curiosità tutt'altro che inquisitoria. Era certo che Lorenzo non l'avrebbe mai tradito, ma capiva -seppur con un certo dolore- che in Paradiso si potessero incontrare innumerevoli persone interessanti ed era comprensibile che Lorenzo si fosse innamorato di una di loro e che perciò stesse cercando di allontanarlo. Se questa era la ragione dietro quel discorso, però, non era necessariamente un male perché non avrebbero avuto bisogno di lasciarsi: avrebbe semplicemente accettato questa terza persona, era disposto a farlo, e insieme avrebbero formato un'immagine più grande, come diceva il compagno.

Lorenzo, nonostante si sentisse morire una seconda volta a causa di ciò che stava facendo, non poté fare a meno di accennare un sorriso, sollevando appena l'angolo delle labbra, intenerito da quegli occhioni verdi che lo guardavano con stupore ed un barlume di speranza. Non era inusuale che amori tra persone che in vita non si erano mai nemmeno incrociate casualmente sbocciassero proprio lì -del resto quello era il regno dell'Amore per eccellenza-, ma non era il proprio caso. Lui aveva già una persona nel cuore e non l'avrebbe mai e poi mai tradita. Scosse quindi il capo, lentamente.

"No, non intendevo questo. Non sono io quello che deve andare avanti con la propria vita: io sono morto, no?"

Accennò una risatina mesta, come se avesse detto qualcosa di divertente. Solo adesso si concesse di accogliere Riccardo e portò una mano sul suo fianco, mentre con l'altra salì ad accarezzargli i capelli.

"Se tu starai bene con lui, allora ci starò bene anch'io. È complicato da spiegare, ma vedrai che capirai."

Sussurrò a voce bassa, ma incoraggiante, guardandolo teneramente negli occhi.

Riccardo liberò un gemito di puro dolore, la fiammella di speranza nei propri occhi si spense di colpo e si sentì di nuovo vuoto, ma al tempo stesso così pieno di dolore che gli sembrava di poter scoppiare da un momento all'altro.

"Lorenzo, non c'è niente da capire. Io ti amo!"

Urlò con tutta la voce che gli era rimasta,  per quanto rotta e straziata. Non aveva più energie, eppure continuava a stringersi a Lorenzo con tutta la propria forza. Se fosse stato più lucido si sarebbe reso conto che nella voce di Lorenzo si poteva cogliere un tono diverso, come se avesse avuto una certezza e non stesse più parlando per congetture, ma il dolore era troppo forte per pensare e ragionare.

Lorenzo non provò ad allontanarsi, accettò quel dolore e se ne fece carico come aveva fatto anche l'ultima volta, tutto affinché Riccardo non ne provasse più. Quel momento, forse, finalmente stava arrivando. Scese, con la mano che ormai tremava, ad accarezzargli il viso e le lacrime che lo rigavano: non avrebbe potuto più farlo per tanto, tanto tempo.

"Ti amo anch'io, Riccardo. È per questo che devo lasciarti andare."

Replicò, pur sapendo che dirlo non faceva altro che complicare le cose, ma come poteva tenere quel sentimento per sé, se era quanto di più vero provasse? Era pur sempre un essere umano, anzi l'anima di un essere umano, che in quanto tale provava tutti i sentimenti e le emozioni con maggiore intensità, non era fatta per i calcoli analitici e le strategie. Per questo, anche volendo, non sarebbe riuscito a tenersi dentro quella manciata di parole.

Riccardo si abbandonò a quella carezza con un sospiro, coprendo la sua mano con la propria per trattenerla sulla propria pelle,  perché sapeva che sarebbe stata l'ultima per chissà quanto tempo. Si sforzò di deglutire per parlare ancora, ma dalle proprie labbra uscì appena un flebile suono.

"Lorenzo, ti prego..."

Lorenzo sapeva che prolungare ancora quella tortura non sarebbe servito a niente, che tanto Riccardo si sarebbe convinto soltanto con il tempo e con i fatti, restare in quello stallo faceva soltanto male ad entrambi. Annullò la distanza tra loro per lasciargli un bacio sulla fronte, un bacio che non era d'addio, ma da arrivederci, e poi tornò a guardarlo, si riempì gli occhi di lui, lasciando che finalmente le lacrime scorressero libere sul proprio viso.

"Guardati bene intorno, vita mia. La felicità è più vicina di quanto pensi."

Mormorò, la voce ormai ridotta ad un sospiro acquoso, e si separò da lui, spingendolo via con una leggera forza, e fece un piccolo, semplice, gesto della mano.

Riccardo si sentì mancare la terra da sotto ai piedi e per un lungo istante gli sembrò di cadere nel vuoto, ma non era quella la cosa che gli faceva più paura.

"Lorenzo!"

Gridò con quanto fiato aveva in corpo, ma solo un flebile sussurro uscì dalle proprie labbra. Strabuzzò gli occhi, respirava affannosamente come se avesse corso per chilometri, e venne investito dall'aria fresca della sera, dal rumore del mare e dalla distesa blu del cielo puntinata di stelle, a cui si univano le lucine tra gli alberi del giardino che erano state accese chissà quando. Nessuna traccia di Lorenzo. Era andato, questa volta per davvero, questa volta per un tempo che non importava si potesse misurare in anni, mesi, giorni o ore, gli sarebbe parso comunque un'eternità. Si chiuse su se stesso, piegato dal dolore, poggiando i gomiti sulle ginocchia e nascondendo il viso tra le mani, scosso da singhiozzi e lacrime che ripresero a scorrere come se non avessero atteso altro per quell'anno e mezzo. Lorenzo si sbagliava: la felicità era più lontana che mai.

Arthur era uno dei pochi ad essere rimasto seduto al tavolo, al proprio posto, mentre tutti gli altri si erano spostati al centro della sala per ballare: aveva notato che anche Riccardo, l'uomo con cui aveva scambiato qualche parola e molte bolle di sapone durante la cerimonia, era rimasto lì fermo per un po', anche se poi si era alzato, era uscito -con una certa fretta, gli sembrò- ed al momento non era ancora tornato. Non se n'era accorto perché lo teneva d'occhio, eh, ma perché i loro tavoli erano praticamente uno di fronte all'altro, era naturale che il proprio sguardo cadesse su di lui! Ma in cuor proprio sapeva benissimo che l'avrebbe osservato anche se fosse stato dall'altra parte della sala, che avrebbe cercato qualsiasi scusa possibile per avvicinarsi o cambiare posto, perché quell'uomo, seppur appena conosciuto, aveva qualcosa che lo attirava, era inutile negarselo.

Più volte, durante la giornata, si era riproposto di andare a parlargli, di approfondire quella conoscenza nata per puro caso, ma tutte le volte era stato bloccato dall'idea, anzi proprio dalla percezione, che Riccardo preferisse restare da solo, isolarsi per qualche motivo, e aveva deciso di rispettare la sua scelta. Così, ora se ne stava a guardare quella nuvola di persone che si muovevano all'unisono, come se i loro cuori battessero allo stesso tempo, dedicandosi con gli occhi un lento dopo l'altro. Il centro di quel piccolo cosmo erano l'avvocato Vinci -'Claudio, devi chiamarlo Claudio!', si disse- e l'ispettore Liguori -'Ti ha detto mille volte che devi chiamarlo Domenico!', si rimproverò- e tutti gli altri, comprensibilmente, ruotavano intorno a loro come satelliti: erano davvero belli.

Li osservava, mentre mandava giù distrattamente qualche cucchiaio di macedonia mista a gelato ormai completamente sciolto -una pappetta che aveva perso tutta la sua freschezza, ma lui non ci faceva nemmeno caso-, con gli occhi di chi desiderava ardentemente ciò che vedeva, ma non poteva averlo. Gli sarebbe piaciuto diventare parte di quella nuvola, ma le storie più importanti che aveva avuto erano durate al massimo quattro mesi -la più lunga quattro mesi e dodici giorni, per la precisione-: il seme del proprio amore non aveva ancora avuto modo di sbocciare. Per questo motivo, i matrimoni erano per lui eventi molto tristi.

Ad un certo punto, nemmeno lui avrebbe saputo spiegare come, si ritrovò coinvolto in un trenino -la musica aveva cambiato improvvisamente registro e lui non se n'era accorto, perso nei propri pensieri-, trascinato da Claudio, l'avvocato Vinci, e udì distintamente Domenico, l'ispettore Liguori, gridare: "Tutti etero finché non parte la Carrà!", esclamazione che gli aveva strappato una risata sincera, e non solo a lui. Si unì di buon grado a quel momento festaiolo e partecipò con entusiasmo anche ai balli di gruppo che partirono poco dopo -si riteneva un discreto ballerino e il Gioca Jouer non aveva segreti per lui-, lieto di potersi svagare almeno per un po'.

Dopo quattro o cinque canzoni, tuttavia, sentì l'esigenza di fermarsi e riprendere fiato, così tornò al proprio tavolo, si versò del vino bianco nel calice ed uscì nel giardino semideserto, andando dritto verso il mare. Bevve un sorso, poggiò il bicchiere sul muretto e ci si appoggiò anche lui, con le braccia incrociate a farsi da sostegno. Fece vagare lo sguardo senza scopo lungo la distesa blu senza fine, lasciandosi cullare dal suono delle onde e dal profumo di salsedine, prendendosi tutto il tempo che gli serviva per riprendere il controllo del proprio respiro.

Gli piaceva il mare, anche se non era tipo da andarci in vacanza -un controsenso, come gli dicevano tutti i suoi amici, ma non amava particolarmente il caldo, il Sole a picco e soprattutto la gente chiassosa che popolava le spiagge come mosche su una carcassa-, ma riteneva che fosse uno degli spettacoli più belli offerti dalla natura e aveva su di sé un effetto calmante. Quella sera, però, il mare gli fece un brutto scherzo e gli fece entrare la malinconia nel cuore: a che serviva tutto quel mare, se non c'era nessuno con cui condividerlo?

Fece appena in tempo ad interiorizzare quel pensiero che udì il proprio bicchiere cadere a terra, seppur attutito dall'erba, senza che lui lo sfiorasse. Si voltò a guardarlo, mormorando un "Che palle!" a denti stretti, e si chinò per raccoglierlo, ma proprio mentre allungava una mano, il bicchiere scartò in avanti di qualche centimetro, abbastanza da renderlo irraggiungibile. Si accigliò, perplesso, ed avanzò di un paio di passi per avvicinarsi, ma di nuovo il bicchiere rotolò lontano da lui, come per dispetto. Ancora più accigliato e perplesso, ritentò nuovamente l'impresa, e di nuovo il bicchiere si allontanò. Finì per seguirlo -per fortuna il giardino era vuoto e quindi non c'era nessuno che potesse vederlo, altrimenti si sarebbero fatti delle grandi risate- ed incolpò la brezza marina per quegli spostamenti così inusuali, senza pensare che il bicchiere era troppo pesante ed il vento troppo leggero, e certamente senza nemmeno ipotizzare che ci fosse qualcuno a muoverlo.

Quando finalmente riuscì ad acciuffare il calice girovago, ormai sporco d'erba e di sabbia, la propria attenzione venne catturata da un lamento basso, soffocato, che proveniva da poco lontano. Spostò gli occhi in quella direzione e subito li sgranò, sorpreso e preoccupato: vide Riccardo seduto su un divanetto, anzi più che seduto sembrava accartocciato su se stesso come un involucro vuoto, che sussultava scosso dai singhiozzi. Non riusciva a vederlo in viso, che era nascosto dalle mani premute su di esso, ma non ebbe dubbi a riconoscerlo, avendolo osservato per praticamente la gran parte della giornata: riconobbe il completo panna e blu, che senz'altro saltava all'occhio, ma ciò che attirò maggiormente la propria attenzione furono i suoi capelli, quei ricci che ondeggiavano lentamente al ritmo dei singhiozzi e che, per un motivo che non avrebbe saputo spiegare, gli apparivano tristi.

Per un attimo pensò di allontanarsi, di lasciare Riccardo in pace, perché era possibile non volesse farsi vedere in uno stato di simile fragilità, ma qualcosa gli diceva che invece doveva andare da lui, dunque abbandonò il bicchiere, senza accorgersene, facendolo cadere a terra, e colmò in pochi passi la distanza che li separava. Fece per allungare una mano verso di lui, ma lo stesso istinto gli diceva che era meglio evitare il contatto fisico, quindi la riabbassò e prese a parlare.

"Riccardo, hey, che succede?"

Domandò con voce un po' incerta, ma gentile.

Riccardo alzò il capo con un gesto automatico, seguendo il richiamo di quel nome che nemmeno gli sembrava gli appartenesse più, perché non avrebbe più sentito la voce giusta pronunciarlo. Davanti a sé c'era Arthur, che chissà per quale assurdo motivo non era a godersi la festa insieme a tutti gli altri, lui che poteva, e vide che lo stava osservando con una certa apprensione, o forse pena, come facevano un po' tutti.

Non provava vergogna a farsi vedere in quello stato, aveva perso il conto delle volte in cui era scoppiato a piangere davanti ad amici e colleghi, soprattutto i primi tempi -poi, da quando lui e Lorenzo avevano cominciato ad incontrarsi a modo loro, le crisi erano sparite- ed una volta in più di certo non faceva la differenza. Semplicemente, non gli importava. Lui stava soffrendo, si sentiva mangiato dal dolore, quel dolore che era scomparso ed ora era tornato con gli interessi, cosa gliene poteva fregare di ciò che pensavano gli altri? Anzi, che lo guardassero pure, che lo osservassero con attenzione, così da capire quanto erano fortunati a non sentire i morsi al centro del petto. Arthur, dunque, non faceva nessuna eccezione all'interno di quel quadro.

"Nulla, non ti preoccupare."

Rispose con voce roca, e non disse propriamente una bugia: il nulla era ciò che lo attendeva ora per tutto il resto della propria vita, perché era sicuro che Lorenzo si sbagliasse, e non c'era nulla che Arthur potesse fare a riguardo, quindi non aveva nulla di cui preoccuparsi.

Arthur accennò un mezzo sorriso, dolce, non di scherno, anche se dentro di sé provò una fitta lancinante a vedere quel viso tanto bello così tanto stravolto dal dolore. Non era giusto e, se poteva, voleva aiutarlo.

"Perdonami, ma a me non sembra proprio nulla."

Rispose, pacato. Forse Riccardo aveva ricevuto una brutta notizia, o forse c'entrava qualcosa del suo passato -non lo sapeva con certezza, e del resto come avrebbe potuto? Lo conosceva così poco, purtroppo-, ma di certo non era nulla ed era anzi abbastanza da farlo preoccupare.

"Posso?"

Domandò, cordiale, indicando il posto accanto a lui con un gesto della mano.

Riccardo rispose con una scrollata di spalle, senza dire nemmeno una parola: la sua presenza gli era indifferente, aveva ben altro a cui pensare.

Arthur si accontentò di quella reazione -era già tanto che non l'avesse mandato via- e si accomodò accanto a lui stando attento però a lasciargli il giusto spazio, non voleva essere invadente.

Riccardo non si voltò nemmeno a guardarlo, teneva gli occhi puntati verso il basso, verso un punto impreciso del prato che non stava realmente guardando e continuava a piangere, singhiozzando di tanto in tanto. Era diventato bravissimo, ormai, ad ignorare le persone.

Arthur per un po' non disse nulla, teneva lo sguardo fisso davanti a sé, ma con la coda dell'occhio osservava Riccardo che non smetteva di piangere, ed era evidente che non stesse neanche tentando di imporsi di smettere, come invece solitamente fa, per vergogna, chi si ritrova a piangere in pubblico. Eppure nonostante gli occhi arrossati, il viso bagnato ed il corpo scosso continuamente, Riccardo non aveva perso la compostezza che gli aveva visto addosso per tutto il giorno. C'era una grande dignità nella sua sofferenza e lui condivideva la sua presa di posizione, il suo non voler nascondersi: ciò che molte persone non capiscono, ma non è colpa loro, è che tutti abbiamo i nostri dubbi, le nostre paure, i nostri problemi e che tenerseli dentro non aiuta a risolverli, ma anzi li fa crescere a dismisura fino a prendere il posto di tutto ciò che siamo, come l'erbaccia fa con un prato rigoglioso; mostrarli, chiedere aiuto, è l'unico modo per estirparla. Con un movimento delicato, gli porse -o meglio, gli restituì- il fazzoletto di stoffa che l'altro gli aveva dato quella mattina, dato che ora serviva di nuovo a lui.

Riccardo lo prese solo perché era entrato nel proprio campo visivo, altrimenti non se ne sarebbe nemmeno accorto, ma non lo usò: lo osservò per un istante come se avesse dovuto capire cosa fosse, poi se lo infilò in tasca con un gesto meccanico.

Arthur lo guardò preoccupato, sempre con la coda dell'occhio, ma poi si voltò a guardarlo per bene e gli rivolse uno sguardo gentile accompagnato da un sorriso.

"Certo che quella pasta ai frutti di mare era qualcosa di spettacolare, eh? Com'è che si chiamavano..."

Fece schioccare le dita della mano libera per ricordare la parola, tenendo gli occhi chiusi che poi riaprì.

"Ah sì, paccheri! Che poi è un modo per dire 'schiaffi', chissà perché si chiamano così..."

Ridacchiò, divertito.

"Però questi erano piacevoli! Credo proprio che me li sognerò stanotte!"

Concluse, entusiasta.

Riccardo si voltò a guardarlo tra le lacrime, interdetto: possibile che in un momento del genere, di fronte a lui che si sentiva schiacciato e soffocato da un dolore di un'intensità indescrivibile, Arthur non avesse nient'altro altro da dirgli che una recensione di uno degli infiniti piatti che avevano mangiato in quella giornata? Non gli era mai capitato prima d'ora che in situazioni simili gli parlassero di qualcosa che non fosse Lorenzo, il lutto, la perdita, la necessità di andare avanti, e se invece proprio non avevano nulla da dire se ne stavano in silenzio a guardarlo pietosamente, magari dandogli una pacca su una spalla o un abbraccio maldestro. La situazione era quindi così tanto surreale, per lui -tanto che avrebbe pensato di star sognando, se non avesse avuto la certezza di fare sogni di tutt'altro tipo, almeno fino a quel giorno-, che si ritrovò a rispondere senza davvero volerlo, che dei paccheri ai frutti di mare al momento non gliene importava nulla, pur avendone fatto il bis.

"Sì, erano...erano molto buoni."

Balbettò, con voce appesantita dal pianto.

Arthur sorrise con una certa soddisfazione che non aveva nulla di personale -non andava a nutrire il proprio ego o cose del genere-, felice di aver centrato il proprio obiettivo: distrarlo, farlo pensare ad altro che non fosse il suo dolore. Con lo stesso scopo pose una seconda domanda, pur sapendo che non avrebbe sortito lo stesso esito della prima, dato che ormai Riccardo avrebbe senz'altro rialzato le difese dopo la sorpresa iniziale.

"E hai sentito il ragazzo che suona? Anche lui pazzesco, mi ha fatto quasi dimenticare dei paccheri!"

Esclamò, allegro.

"Fidati, tra qualche anno ce lo ritroviamo a Sanremo!"

Aggiunse, con il sorriso sghembo di chi la sapeva lunga.

Riccardo, in effetti, non aveva voglia di fare conversazione, ma rispose lo stesso, solo per cortesia, perché comunque apprezzava per davvero, dal profondo del proprio cuore, il tentativo di Arthur di tirargli su il morale.

"Buon per lui... è bravo, comunque, sì."

Biascicò intontito, poi distolse lo sguardo, tornando a guardare un punto imprecisato del prato, così da far capire ad Arthur che non aveva più voglia di parlargli. Anzi, non voleva nemmeno vederlo: aveva dedicato già fin troppa attenzione a quell'uomo che, per carità, era gentile e non gli aveva fatto nessun torto, ma aveva pensato a lui perfino mentre era con Lorenzo -anche se solo per un istante- e la cosa lo spaventava molto. Non voleva accadesse ancora, dunque incrociò le braccia, chiudendosi nuovamente nel proprio dolore.

Arthur assottigliò le labbra in un'espressione mesta, la cui tristezza arrivava fino agli occhi: di qualsiasi natura fosse il muro di sofferenza che Riccardo aveva costruito intorno a sé, era molto difficile da scalare. Gli venne in mente, però, di avere a portata di mano qualcosa che non aveva problemi a volare e che almeno a lui, ma sperava anche a Riccardo, metteva facilmente allegria. Estrasse, quindi, dalla tasca interna della giacca, il tubetto di bolle di sapone che aveva usato durante la cerimonia e cominciò a soffiare bolle nella direzione di Riccardo con la costanza di una mitragliatrice e, grazie ad una brezza favorevole, gli arrivarono dritte in faccia.

Riccardo, perso nei propri pensieri, non si era accorto dei movimenti di Arthur e sussultò, seppur lievemente, quando si sentì arrivare sulla guancia quelle goccioline leggere e quasi impercettibili. Si voltò nella loro direzione e vide che erano bolle di sapone, soffiate alacremente da Arthur che sembrava averne fatto una questione della massima importanza, e se ne beccò qualcuna in pieno viso. D'istinto chiuse gli occhi per proteggersi, ma ridacchiò, altrettanto istintivamente.

"Che stai facendo?"

Domandò, una volta riaperti gli occhi, con un piccolo sorriso rimasto a decorargli il volto.

Arthur soffiò ancora una scarica di bolle nella sua direzione, poi parlò con voce dolce e leggera.

"Bolle di sapone, mi sembra ovvio. Sai che catturano i pensieri negativi e li portano via?"

Disse, rivolgendogli ancora altre bolle.

Riccardo sospirò ed il proprio sorriso si fece più malinconico.

"Temo che i miei siano troppo pesanti per loro..."

Mormorò, mestamente.

Arthur gli rivolse un sorriso comprensivo, incoraggiante: probabilmente non sarebbe stato facile, ma piano piano sarebbero riusciti ad abbattere quel muro. Vedeva già una minuscola crepa.

"Però hai sorriso, è già qualcosa."

Gli fece notare, con dolcezza.

Riccardo sgranò gli occhi, accorgendosi solo in quel momento di aver effettivamente reagito in quel modo, e si portò una mano alle labbra -ormai di nuovo nella loro posizione naturale- come se non sapesse di averle. Arthur aveva ragione, quel sorriso era già qualcosa, qualcosa che non doveva accadere.

"Devo...devo andare, scusa."

Balbettò, alzandosi di scatto. Nella foga, però, un lembo della propria giacca rimase incastrato nella piegatura del bracciolo del divano -una situazione assurda, che poteva avere soltanto una spiegazione- e lui non riusciva a tirarlo via -anche qui, la spiegazione era soltanto una-, per quanto ci provasse.

Arthur, vedendolo in evidente difficoltà, si alzò per aiutarlo.

"Aspetta, ci penso io."

Si spostò sul suo lato destro, dove la giacca sembrava decisa a voler diventare un tutt'uno con il divano, ed in un attimo sciolse l'impiccio.

"Ecco fatto!"

Disse trionfante, sollevando il capo verso di lui. Non si era accorto di essersi avvicinato di molto, più di quanto avesse fatto in tutta la giornata, così vicino da trovarsi inaspettatamente immerso in quegli occhi verdi, in cui distingueva ora qualche pagliuzza più scura, e ne rimase folgorato: non aveva mai visto occhi più belli, anche se tristi.

Riccardo, incrociato il suo sguardo, si sentì scottare: quegli occhi scuri erano un fuoco, un fuoco da cui scappare -come gli suggeriva una parte di sé, ancora legata ad altri occhi scuri- o tra le cui fiamme gettarsi -come invece gli suggeriva un'altra parte di sé che non sapeva di avere ma che gli parlava con una voce calda e famigliare-? Prevalse la prima, e così strappò rapidamente di mano ad Arthur il lembo della propria giacca, per poi allontanarsi a passo svelto, senza nemmeno salutare, verso la zona del giardino dove avevano cominciato a riversarsi gli invitati, cercando di ignorare il proprio cuore che batteva all'impazzata.

Arthur lo vide allontanarsi fin quando gli fu possibile, poi quando lo perse di vista nella folla liberò un pesante sospiro e si lasciò cadere sul divano, spostò lo sguardo verso il cielo e sorrise tra sé e sé: quel sorriso che aveva visto sulle labbra di Riccardo era una piccola stella in un cielo altrimenti buio. Era una speranza.

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Capitolo 51
*** Epilogo – Eternamente ora (parte 8) ***


Il Sole aveva lasciato il posto alla Luna e alle sue stelle, e tutti gli invitati si erano riversati nel giardino dove, secondo l'organizzazione riportata sul menù, si sarebbe svolta la parte conclusiva di quella giornata di festa ormai agli sgoccioli. Era piuttosto tardi, quasi le ventitré, eppure nell'aria non c'era stanchezza, ma ancora una felicità elettrica palpabile.

Gli sposi, ultimi ad uscire dalla sala, furono accolti dall'ennesimo applauso -a cui, nonostante avessero perso il conto di quanti gliene fossero stati indirizzati nelle ultime ore, ancora non si erano abituati- e si diressero verso il grande tavolo preparato a ridosso della spiaggia dove a breve sarebbe stata depositata la torta nuziale.

Domenico, tuttavia, dopo qualche passo si fermò bruscamente e si avvicinò al volto di Claudio per sussurrargli all'orecchio.

"Vatti a sedere, core mij, io devo fare una cosa."

Mormorò, e subito dopo fece una cosa che non aveva fatto per tutto il giorno: lasciò andare la mano di Claudio.

Claudio, però, non era dello stesso avviso e la riafferrò prontamente, guardandolo interrogativo, incuriosito più che preoccupato.

"Che cosa?"

Domandò, accennando un sorriso.

Domenico ridacchiò, poi scosse il capo. Non poteva certo dirglielo adesso!

"Ora vedi."

Rispose a bassa voce, dandogli un bacio a fior di labbra prima di allontanarsi.

Claudio accettò il bacio, che non era una risposta ma era comunque molto gradito, e lo seguì con lo sguardo che si riempiva sempre più di curiosità. Lo vide salire sulla pedana che ospitava i musicisti -i quali smisero di suonare immediatamente, ma non sembravano sorpresi da quell'invasione, anzi- e sgranò gli occhi. 'Ma che sta combinando?', si chiese, ma in fin dei conti le risposte a quella domanda non erano poi molte: la più probabile tra tutte era che Domenico si fosse preparato un discorso, un brindisi magari, da voler pronunciare davanti a tutti, eppure qualcosa -il modo profondo in cui si conoscevano l'un l'altro- gli diceva che, come spesso accadeva, l'ipotesi più scontata non era quella corretta: se ci aveva visto giusto, e ne era certo, Domenico stava per affrontare una vera e propria sfida personale. Si accomodò sulla prima sedia disponibile, quindi, senza staccare gli occhi incuriositi da lui, sentendo il cuore che cominciava ad agitarglisi in petto perché era sicuro che anche quello del compagno era in tumulto.

Domenico si era accordato con i musicisti in segreto per fare una sorpresa a Claudio, una piccola dimostrazione d'amore più che altro, e se prima gli era sembrata una bella idea, un'idea romantica, ora cominciava a provare una certa ansia che gli stringeva lo stomaco. Gli bastò, tuttavia, incrociare gli occhi blu che tanto amava per sentirsi un po' meglio, e prese un profondo respiro ad occhi chiusi: lo stava facendo per Claudio, doveva pensare solo a questo. Riaprì gli occhi dopo un paio di secondi e scoprì i denti in un sorriso luminoso e dolce.

"Posso avere per un attimo la vostra attenzione?"

Chiese, cordiale, anche se l'attenzione di tutti era già focalizzata su di lui. Si schiarì la voce e riprese a parlare, guardando dritto verso Claudio, seduto poco più avanti.
"Spero abbiate bevuto tutti abbastanza, così questa cosa sarà un po' più sopportabile..."

Disse scherzoso, scatenando una risatina generale.

"...ma dovete sapere che quel signore là, quello che da oggi posso chiamare mio marito..."

E con un cenno del capo indicò Claudio, seduto poco più avanti. Quanto era bello poterlo chiamare così, “mio marito”, proprio suo, così come lui era suo, non per un senso di possessione, ma di appartenenza.

Claudio si ritrovò immediatamente gli occhi di tutti addosso, ma non ci badò perché era troppo impegnato a guardare suo marito -sì, proprio suo, così come lui era suo, non per un senso di possessione, ma di appartenenza-, sorridente e pieno d'amore.

"...per qualche assurdo motivo ferma qualsiasi cosa stia facendo e si mette ad ascoltarmi quando canticchio, neanche fossi Pino Daniele, e vi assicuro che non lo sono per niente!"

Esclamò ancora Domenico, ridacchiando. Rivolse all’altro, poi, un tenero sorriso.

"Lo fa di nascosto perché sa che mi vergogno, pensando che non me ne accorga, ma io me ne accorgo ed un po' mi vergogno, in effetti, ma continuo a cantare perché so che gli piace. Oggi però è una giornata speciale e ho pensato che fosse il giorno giusto per smettere di vergognarsi e di fare le cose di nascosto. Tu che dici, core mij, sei d'accordo?"

Disse, dolcemente.

Claudio, che già sentiva gli occhi pizzicargli e nonostante sapesse che non appena avrebbe sentito Domenico cominciare a cantare per lui -per lui per davvero e davanti a tutti- sarebbe diventato un fiume di lacrime in piena, non si tirò indietro ed annuì con entusiasmo.

"Certo che sono d'accordo, amore mio! Non me ne voglia Pino Daniele, ma io preferisco te!"

Esclamò, allegro ed innamorato.

Domenico ridacchiò, un po' più rosso in viso.

"Eh, dovevi pur avercelo un difetto, no?"

Ribatté scherzoso, poi si rivolse ai musicisti e fece loro un piccolo cenno.

Le note cominciarono a librarsi dolci e leggere, suonate alla chitarra dalle mani giovani ma sapienti di quel ragazzo che fino a quel momento aveva cantato l'amore, il proprio probabilmente, e che adesso era diventato felice strumento per l'amore di un altro.

Domenico fece un respiro rapido ma profondo e si avvicinò di poco al microfono, a cui si aggrappò con una mano per darsi un sostegno, cominciando a cantare.

"Penso che un sogno così non ritorni mai più..."

Intonò, preciso nonostante la voce che tremava sotto il peso dell'emozione.

"Mi dipingevo le mani e la faccia di blu..."

Si portò una mano, quella libera, al viso e se la passò con pacata lentezza sulla guancia.

"Poi d'improvviso venivo dal vento rapito

E incominciavo a volare nel cielo infinito..."

Sollevò quella stessa mano verso il cielo, accompagnandosi con lo sguardo che poi riportò su Claudio insieme ad un sorriso.

Claudio, che come previsto aveva cominciato a piangere alla prima parola, non smetteva di sorridere ed accennò una risatina intenerita a vedere quella piccola coreografia che Domenico s'era inventato, immaginandoselo a provarla e riprovarla davanti allo specchio della camera da letto mentre lui non era in casa, ed un sussulto d'amore gli scosse il cuore: sapeva che Domenico, il quale si vergognava di cantare perfino in sua presenza, stava compiendo un grande sforzo a farlo davanti a così tante persone, eppure aveva deciso di farlo per lui.

Domenico, gli occhi verdi fissi in quelli blu -resi ancora più blu dal pianto, che per fortuna era di gioia-, spalancò allora entrambe le braccia e prese di nuovo fiato.

"Volare oh, oh
Cantare oh, oh
Nel blu dipinto di blu
Felice di stare lassù!"

La voce, ora, era più limpida, più sicura e meno scossa: non c'era nessuno oltre a Claudio, non per lui almeno, e scoprì che non era poi così difficile cantare solo e soltanto per lui.

"E volavo, volavo felice più in alto del sole
Ed ancora più su
Mentre il mondo pian piano spariva lontano laggiù
Una musica dolce suonava soltanto per me..."

Aveva sognato quegli occhi, quei dolcissimi occhi blu più profondi del mare e più limpidi del cielo, ancora prima di conoscerli, solo che non lo sapeva. Erano sempre stati lì, in un angolo del proprio destino, li aveva sognati ancora e ancora fino a quando erano diventati realtà.

"Volare oh, oh
Cantare oh, oh
Nel blu dipinto di blu
Felice di stare lassù!"

Scese dalla pedana portando con sé il microfono e si avvicinò a Claudio con una manciata di piccoli passi, sorridente.

Claudio lo guardava avvicinarsi con occhi sognanti che non si posavano su nient'altro, il fiato sospeso ed un sorriso innamorato che scopriva i denti bianchi.

Domenico tese una mano verso il viso amato e, con infinita delicatezza, andò ad asciugarlo dalle lacrime che lo rigavano.

"Ma tutti i sogni nell'alba svaniscon perché
Quando tramonta la luna li porta con sé
Ma io continuo a sognare negli occhi tuoi belli
Che sono blu come un cielo trapunto di stelle..."

Claudio si lasciò sfuggire un singhiozzo, poi un altro, ma anche mentre singhiozzava non smetteva di sorridere o, addirittura, di ridacchiare. Prese la mano di Domenico tra le proprie e se la portò alle labbra, baciandola con devozione più e più volte.

Domenico si sentì colto di sorpresa, ma ciò non voleva dire che non fosse una sorpresa piacevole, e la propria voce tradì quello stupore, tremando appena mentre usciva dalle labbra ricurve in un sorriso.

"Volare oh, oh
Cantare oh, oh
Nel blu degli occhi tuoi blu
Felice di stare quaggiù!"

Posò un bacio tra i capelli di Claudio, affettuoso, poi riprese a cantare standogli vicino, il più vicino possibile, perché era solo per lui che cantava, lui e nessun altro.

"E continuo a volare felice più in alto del sole
Ed ancora più su
Mentre il mondo pian piano scompare negli occhi tuoi blu
La tua voce è una musica dolce che suona per me..."

Intonò, con voce più bassa e morbida.

Claudio la sentì sulla propria pelle come una calda carezza e, prendendo consiglio da quell'ultimo verso, si unì al canto, nonostante la voce gli tremasse per il pianto.
Domenico, resosi conto di ciò che Claudio stava facendo, sentì i propri occhi inumidirsi di felicità e gli avvicinò un po' il microfono, in modo che tutti potessero sentire la sua bellissima voce.

"Volare oh, oh
Cantare oh, oh
Nel blu degli occhi tuoi blu
Felice di stare quaggiù
Nel blu degli occhi tuoi blu
Felice di stare quaggiù
Con te!"

Cantarono guardandosi negli occhi, senza smettere di sorridersi, e mentre ancora echeggiava il suono della chitarra, Claudio si alzò di scatto, prese il viso di Domenico tra le mani e lo baciò con un'irruenza tale che Domenico, abbandonatosi subito a quelle onde, lasciò cadere il microfono che produsse un sibilo fastidioso ma che quasi non si udì, tanto erano fragorosi gli applausi.

"Mi hai fatto un regalo meraviglioso."

Sussurrò Claudio sulle labbra del compagno, guardandolo negli occhi ed accarezzandogli il viso.

Domenico sorrise sghembo, cingendolo tra le braccia.

"Ho fatto il minimo, ma sono contento che ti sia piaciuto."

Claudio arricciò leggermente il naso, contrariato, e scosse appena il capo.

"Tu sei meraviglioso, quindi tutto ciò che fai è meraviglioso. Non discutere."

Affermò con dolce decisione, chiudendo la discussione con un altro bacio, stavolta più leggero, a fior di labbra.

Domenico ridacchiò divertito, avvertendo anche un piacevole fuoco dentro di sé come ogni volta che Claudio si mostrava tanto determinato, ma per quanto il complimento gli facesse piacere, non gliela diede vinta. Fu lui, ora, a dargli un bacio a fior di labbra, solo perché gli andava.

"Sai cos'è davvero meraviglioso? La torta che stanno portando!"

Ribatté, giocoso.

Claudio alzò gli occhi al cielo per un istante, ma non smise di sorridere.

"Sicuramente, ma è comunque meno meravigliosa di te!"

Esclamò, sottolineando il concetto con un tocco dell'indice sulla punta del naso.

Domenico ridacchiò di nuovo, poi scrollò le spalle.

"Lo vedremo!"

Così dicendo lo prese per mano, conducendolo verso il grande tavolo al centro del giardino.

La torta, che vi troneggiava al di sopra, era una candida opera architettonica a tre piani, ornata semplicemente da piccoli confettini argentati che discendevano da un lato espandendosi sempre di più, come una sorta di cascata. In cima, immancabili, erano posizionate le statuine degli sposi, che ne riproducevano con precisione fotografica le fattezze, ai piedi delle quali c'era la statuetta di una gatta tricolore, Partenope, che sicuramente stava festeggiando con loro ovunque fosse, e di gatto grigio, Ulisse, il quale era accovacciato accanto a loro anche nella realtà, con lo sguardo attento rivolto non verso la grande torta, ma verso un'altra, più piccola ed adatta ad un'alimentazione felina che Claudio e Domenico avevano fatto preparare in modo che lui e Meli, la gatta di Riccardo, avessero un dolce tutto per loro.

Domenico aveva fatto realizzare quelle statuette da un artigiano e aveva affermato scherzosamente, ma nemmeno troppo, che il dicembre successivo le avrebbero messe nel presepe. Claudio aveva ridacchiato dolcemente a quella proposta, e già in mente si era appuntato di tirare fuori quelle statuette di lì a qualche mese e collocarle nel presepe in uno spazietto tutto loro: il presepe, dopotutto, era stato per anni testimone del loro amore, era giusto che, in una certa forma, vi prendessero parte.

Scattarono, sotto l'occhio meticoloso di Sara, la classica foto in cui gli sposi tagliano, o meglio, fingono di tagliare, la prima fetta di torta, impugnando il coltello insieme.
Subito dopo, Claudio raccolse uno sbuffo di panna con un gesto fulmineo -un'azione degna di un bambino, lo riconosceva, ma non gli importava- e lo spalmò altrettanto rapidamente sulla guancia di Domenico, ridendo di gusto.

Domenico sussultò appena ed impiegò un istante a capire cosa fosse appena successo, ma naturalmente non se la prese -amava quel lato giocoso del compagno ed era sempre felice di vederlo venir fuori- e si unì alla risata.

"Ma che combini?"

Chiese, divertito.

Claudio, in risposta, si avvicinò con lentezza calcolata alla guancia del compagno e la baciò, ancora e ancora, fino a rimuovere ogni traccia di panna. Soddisfatto, si leccò perfino le labbra.

"Te l'ho detto che sei meglio tu della torta."

Replicò con una punta di malizia, curvando le labbra in un sorriso sghembo.

Domenico ridacchiò, decisamente lusingato e piacevolmente scosso dal tono che l'altro aveva usato -non mancava mai di avere un certo effetto su di lui-, poi rivolse uno sguardo veloce alla torta e, imitando il compagno, raccolse un po' di panna e gliela lasciò sulla punta del naso.

Claudio non fu colto di sorpresa, si aspettava una piccola vendetta, ma non tentò di scostarsi o di evitare l'attacco. Lo lasciò fare, ridendo spensierato -amava quel suo spirito così giocherellone e leggero-, e si sporse perfino leggermente in avanti, così che il compagno potesse finire ciò che aveva iniziato.

Domenico colse immediatamente l'invito e raggiunse il viso del compagno con un bacio, poi ancora un altro, anche se di panna non ce n'era più.

"Mh, anche tu sei molto più buono."

Sentenziò con voce bassa e roca, passandosi la lingua sulle labbra per raccogliere fino all'ultimo il suo sapore.

Claudio si sentì attraversare da un piacevole fremito -il compagno sapeva perfettamente quali corde toccare, con lui- e sorrise, andando a cingere Domenico per la vita.

"Lasciamo perdere la torta allora, che dici?"

Propose, furbetto.

Domenico sorrise di rimando ed annuì, avvolgendo Claudio tra le braccia.

"Mi sembra un'ottima idea."

Soffiò, vicinissimo alle sue labbra.

Animati da un unico movimento si scambiarono un bacio che, in quanto a dolcezza, non aveva nulla da invidiare alla montagna di zucchero che avevano davanti.

*****
 
I camerieri, circa una decina, si aggiravano per il giardino distribuendo i piatti con le fette di torta, precisi ed operosi come api.

Manuel e Simone, seduti ovviamente l'uno accanto all'altro, guardavano con apprensione quell'andirivieni, ciascuno troppo preso dalla propria inquietudine per accorgersi che anche l'altro la provava.

Quando finalmente videro un cameriere avvicinarsi senza ombra di dubbio al loro tavolo, trassero un sospiro di sollievo che si trasformò in un'espressione allarmata non appena posarono gli occhi sul contenuto dei piatti.

Simone, nel proprio, vide sì la fetta di torta che si aspettava, ma anche una scatolina di velluto azzurra che non sarebbe dovuta essere lì. 'Non è possibile, ma come hanno fatto a sbagliare? E proprio oggi, cazzo!', pensò, e la voce nella sua testa era particolarmente agitata, mentre all'esterno appariva calmo, ad eccezione degli occhi sgranati.

Manuel, contemporaneamente, vide anche lui la fetta di torta nel proprio piatto, ma anche una scatolina di velluto azzurra che non avrebbe dovuto trovarsi lì nel modo più assoluto. 'Ma che cazzo, sti coglioni dovevano proprio sbaglia' 'na cosa così semplice? Ah ma me sentono, eccome se mi sentono!', si disse in mente, più innervosito che mai, e come sempre quando era nervoso serrò la mascella.

"Simo, mi hanno dato una fetta troppo grossa, ti va di fare a cambio? Se la mangio tutta, esplodo!"

Propose, gentile come sempre, indicando il piatto.

Simone in un altro momento si sarebbe reso conto che il compagno gli stava nascondendo qualcosa, ma in quel momento era troppo felice di avere una palla al balzo da cogliere che non ci badò. Annuì, allora, senza doverci pensare su.

"Sì, grazie, in effetti la mia è un po' troppo piccola..."

Rispose, più per dare aria alla bocca che per reale necessità.

Si sorrisero, soddisfatti, e all'unisono scostarono i piatti, avvicinandoli all'altro. Bastò pochissimo, un leggero spostamento che consentiva un cambio di prospettiva e dunque una visione più ampia a far accorgere entrambi di una curiosa coincidenza: nei due piatti c'erano due scatoline perfettamente identiche, una di troppo secondo i piani che si erano fatti rispettivamente i due ragazzi. Sollevarono gli sguardi, si guardarono negli occhi e si scambiarono un sorriso: i loro cuori battevano all'unisono, come due tamburi.

Manuel aggrottò leggermente le sopracciglia, più sorpreso che perplesso.

"Ma non mi dire che..."

Simone annuì, soffiando una risatina incredula: e dire che aveva fatto di tutto per fare in modo che Manuel non sospettasse nulla!

"Eh, mi sa che abbiamo avuto la stessa idea, sì!"

Manuel si sciolse in una risata, ripensando a tutta quell'inutile segretezza che si era portato dietro per settimane.

"Ammazza oh, addio sorpresa! E mo come facciamo?"

Simone scrollò le spalle, senza perdere il sorriso.

"Beh, direi di fare a turno, è bello lo stesso. Inizia tu."

Disse, porgendogli la scatolina nel proprio piatto che immaginava fosse destinata a lui.

Manuel la prese con reverenza, quasi avesse paura di romperla: non aveva più timore che Simone potesse rifiutarlo, ma le mani gli tremavano lo stesso. Era un momento importante, il secondo più importante di tutta la vita -il primo, ovviamente, era quando aveva deciso di dichiararsi-, non si poteva non essere emozionati. Si alzò in piedi tenendo ben salda la scatolina e, dopo aver rivolto un piccolo sorriso al compagno, si inginocchiò sul legno liscio della pedana che accoglieva i tavoli, un gesto che aveva ripetuto decine e decine di volte in modo da farlo proprio: lui era orgoglioso, lo riconosceva, troppo orgoglioso per inginocchiarsi davanti a qualcuno, ma per Simone, la sua persona speciale, l'avrebbe fatto, con Simone era diverso. Era bello offrirsi completamente a lui.

Istantaneamente gli occhi di tutti i presenti -in primis dei due sposi, i quali non aspettavano altro da tutto il giorno- si fiondarono su di lui, come se avessero avuto una sorta di radar, ma Manuel non ci badò, troppo preso dal suo Simone, e Simone ci badò ancor meno, troppo preso dal suo Manuel, non riuscendo a trattenere un sospiro di stupore che lo portò a coprirsi la bocca con una mano per un istante.

"Manuel..."

Mormorò appena, con gli occhi spalancati pieni di gioia. Se fosse stato in grado di parlare, avrebbe aggiunto 'Te ne sei ricordato!': poteva sembrare un gesto da poco, del resto costituiva la regola per quel genere di momenti, ma Simone sapeva che Manuel l'aveva compiuto perché si era ricordato di un dettaglio, di una piccola cosa che aveva fatto notare in una conversazione avvenuta mesi e mesi prima e che non riguardava nemmeno loro due. Non era cosa da tutti, ma Manuel sapeva ascoltare.
Manuel sollevò l'angolo delle labbra in un sorriso sghembo, affettuoso e furbo al tempo stesso, beandosi di quella visione meravigliosa che erano gli occhi grandi di Simone, pieni di gioia e spalancati tanto da sembrare ancora più grandi, che impreziosivano il viso arrossato: era di una bellezza, di una purezza indescrivibile.

"Eh, le cose o si fanno nel modo giusto o non si fanno, no?"

Replicò, per poi schiarirsi la voce.

"Simone, Cerbiattino mio, lo so che adesso siamo ancora due ragazzini, l'anno prossimo c'abbiamo pure la maturità...però questo anello qua è una promessa per il futuro. Perché tu mi hai fatto capire quanto sia importante guardare al presente e al futuro e io voglio che il mio futuro sia come il mio presente, se lo vuoi anche tu."

Fece una piccola pausa, il tempo di un respiro.

"Tu...tu lo vuoi? Mi vuoi sposare?"

Simone si aprì in un sorriso dolcissimo, gli occhi umidi luccicavano alla luce delle strisce di piccole lampadine che decoravano il giardino. Annuì vigorosamente, facendo smuovere i ricci ordinati.

"Sì! Sì che lo voglio! Mille volte, un milione di volte sì!"

Esclamò, con voce commossa e ridente.

Manuel liberò un sospiro di felicità e  con delicatezza prese la mano sinistra di Simone nella propria che ancora un po' tremava, vi posò un piccolo bacio e poi gli infilò l'anello argentato, la cui unica decorazione era una mezzaluna incisa, che gli calzava perfettamente.

Solo allora Simone spostò gli occhi sull'anello e ridacchiò per una coincidenza che, al momento, conosceva solo lui.

Manuel, dunque, gli rivolse uno sguardo indagatore.

"Perché ridi?"

Simone scosse il capo, accennando un sorriso. L'avrebbe scoperto a breve.

"Niente, niente...vieni qua, dai!"

Esclamò, aprendo le braccia per accoglierlo.

Manuel non se lo fece ripetere e si tuffò nell'abbraccio con uno scatto degno di nota, respirando a pieni polmoni il profumo di Simone, il suo Simone...e suo futuro marito.
Simone portò una mano tra i capelli del compagno, in modo da stringerlo ancor di più a sé.

Rimasero stretti in quel modo per qualche istante, tra gli applausi di tutti gli invitati, poi Simone spostò di poco il capo, quanto bastava a parlare direttamente all'orecchio di Manuel.

"Dici che tocca a me o va bene così?"

Domandò, scherzoso.

Manuel si scostò per guardarlo, ridacchiando, e scosse appena il capo.

"Eh no, certo che tocca a te! Non posso mica fare tutto io!"

Esclamò, divertito.

Simone accennò una risatina e, non appena Manuel si accomodò sulla sedia, prese con cura l'altra scatolina e si alzò, mettendosi subito in ginocchio. Non lo faceva per imitarlo, per non essere da meno -non c'era competizione tra loro, l'amore non era una gara- ma perché credeva davvero che il modo più romantico per giurarsi a qualcuno fosse mettersi a sua completa disposizione. Non l'avrebbe fatto con chiunque, chiaramente, ma con Manuel era diverso, perché lui era la sua persona speciale. Si schiarì la voce e sorrise al compagno, emozionato, aprendo intanto la scatolina.

"Manuel, Paperotto mio, non mi sono preparato una dichiarazione bella come la tua e adesso mi sento un po' stupido, ad essere sincero..."

Si strinse nelle spalle, liberando un sospiro leggero.

"Con questo anello voglio solo prometterti che crescerò insieme a te, che voglio camminare in questa vita mano nella mano con te, a piccoli passi, ma sempre insieme, se tu lo vuoi. Quindi, Manuel...ti va di attraversare il resto della nostra vita insieme?"

Manuel si illuminò di un sorriso meraviglioso che quasi gli nascondeva del tutto gli occhi piccoli e commossi, ma altrettanto luminosi. Annuì in risposta, ed i suoi indomabili ricci si mossero insieme a lui.

"Sarei un pazzo a rifiuta', Simo'. Un pazzo! Certo che lo voglio!"

Esclamò, con voce tremante.

Simone, ridacchiando dolcemente, prese la mano di Manuel nella propria e con un movimento deciso ma gentile gli fece indossare l'anello, una striscetta d'argento con un sole inciso in un punto, che gli entrava alla perfezione.

Manuel spostò lo sguardo verso il basso e colse ciò che aveva fatto ridere Simone poco prima, dunque ridacchiò a propria volta: era chiaro che Claudio e Domenico avessero portato entrambi nella stessa gioielleria ed era altrettanto evidente che i loro gusti non erano poi tanto diversi.

"Vorrei dire che la cosa me stupisce, ma mentirei."

Affermò, divertito.

Simone ridacchiò di rimando ed annuì leggermente, trovandosi perfettamente d'accordo con lui.

"Però sono belli, eh?"

Manuel sorrise sghembo, gli occhi vennero attraversati da una luce furba come sempre quando si preparava a dire qualcosa di particolarmente smielato.

"Bellissimi, come noi!"

Esclamò convinto, aprendo intanto le braccia per accogliere il compagno.

Simone scattò in piedi, ridendo, e si fiondò in quell'abbraccio.

"Sei il solito marpione!"

Replicò, per poi nascondere il viso nell'incavo del suo colle, respirando a fondo l'odore di Manuel, il suo Manuel...e suo futuro marito.

Manuel liberò una risatina soddisfatta ed intanto salì con una mano ad accarezzare i morbidi ricci di Simone, facendogli un paio di grattini.

"E questo marpione lo può avere un bacio?"

Chiese a bassa voce, anche se nessun altro avrebbe potuto sentirli.

Simone sorrise, ancora sulla sua pelle, poi sollevò il capo, rivelando un sorriso furbetto e beato.

"Può avere tutti i baci che vuole."

Rispose quasi sussurrando, per poi sporgersi a far unire le loro labbra.

Gli applausi intorno a loro si fecero più forti, come quelli alla fine di un concerto, ma alle loro orecchie arrivavano ovattati e lontani: non c'era spazio per i suoni, in quella piccola eclissi.

*****
 
Riccardo quasi contava i passi che lo separavano dalla propria stanza al terzo piano dell'hotel. La giornata di festa era ufficialmente finita, anche se alcuni invitati erano rimasti in giardino per un'ultima chiacchiera, un ultimo bicchiere o un ultimo dolcetto -con quale coraggio poi, si chiese, dopo la spaghettata di mezzanotte a sorpresa-, ma lui certamente non era tra questi. Era rimasto fino alla fine per il rispetto che provava nei confronti di Claudio e Domenico ed era stato tra chi aveva applaudito con maggiore entusiasmo alla proposta di matrimonio di Manuel e Simone -che l'aveva anche commosso non poco-, ma l'incontro con Lorenzo l'aveva inevitabilmente ferito e non era dell'umore adatto per trascinarsi in futili conversazioni. Era esausto, più emotivamente che fisicamente, voleva soltanto mettersi a letto ed addormentarsi, in modo da incontrare di nuovo Lorenzo e parlargli, cercando di farlo ragionare.

Aveva già recuperato la chiave della camera alla reception, era arrivato al terzo piano in ascensore ed ora si stava dirigendo verso la stanza, la terzultima sulla destra. Meli, che lui teneva saldamente in braccio, se ne stava placidamente accoccolata contro il suo petto, senz'altro a breve si sarebbe addormentata, e faceva le fusa contro il suo cuore agitato come un leone in gabbia.

Riccardo aveva paura, e tanta: cosa avrebbe fatto se Lorenzo non si fosse più fatto vedere? Se lui non avesse più avuto la possibilità di vederlo, parlargli, toccarlo come aveva fatto in tutti quei mesi? Non sapeva darsi una risposta, nemmeno la più tragica, perché davanti a sé vedeva soltanto il vuoto più completo e profondo.

Giunto davanti alla porta infilò in tutta fretta la chiave elettronica nell'apposita fessura, ma la spia luminosa non si illuminò del classico verde che ne segnalava l'apertura. Provò, perplesso, a smuovere comunque la maniglia, pensando ad un guasto del led, ma non ci furono cambiamenti.

"Andiamo, forza, ti prego..."

Imprecò a denti stretti mentre riprovava una seconda volta ad utilizzare la chiave, ma senza successo. Provò anche a pulirla passandosela sulla morbida giacca, pensando che ci fosse qualcosa che facesse interferenza con il lettore, ma non ci fu nulla da fare: la carta -per quanto fosse strano, dal momento che l'aveva utilizzata al mattino e aveva funzionato perfettamente- doveva aver subito un qualche tipo di danno nel corso della giornata: doveva trattarsi di un incidente, insomma, un guasto che poteva capitare e che certamente si sarebbe potuto risolvere. Questo, almeno, era ciò che avrebbe pensato in una situazione normale.

Liberò un profondo sospiro e attraversò il corridoio nel senso inverso, salì in ascensore e raggiunse l'atrio dell'hotel, per poi dirigersi a passo svelto verso la reception.
Attese che un paio di ospiti ricevessero le loro chiavi -chiavi che avrebbero funzionato alla perfezione, ne era sicuro- e venne accolto dal sorriso professionale di una delle due donne al di là dell'elegante banco in legno pregiato.

"Buonasera, in cosa posso esserle utile?'

Riccardo accennò un sorriso di rimando, ma non aveva nulla di allegro ed anzi era piuttosto costernato.

"Buonasera a lei, mi dispiace disturbarla, ma vede, ho dei problemi ad accedere alla mia camera. Questa...questa non funziona, temo."

E così dicendo mostrò la chiave, che posò sulla superficie davanti a sé per poi schiarirsi la voce.

La giovane donna alla reception non perse il sorriso cordiale e annuì, rassicurante.

"Non ci sono problemi, possiamo usare il passe-partout. Venga con me, prego."

Prese la carta magnetica di riserva, fece un cenno alla collega e si incamminò in avanti, verso l'ascensore e poi la camera.

Riccardo la seguiva ad un paio di passi di distanza e nulla lo distoglieva dal pensare che quel malfunzionamento fosse opera di Lorenzo. I propri sospetti furono confermati quando, dopo tre o quattro tentativi, si rivelò impossibile aprire la porta perfino con la chiave sostitutiva: il guasto di una poteva essere casuale, ma due...due erano decisamente un po' troppe per essere una pura coincidenza.

La ragazza della reception era incredula e si rivolse costernata a Riccardo.

"Io...le chiedo scusa a nome dell’hotel, non so come sia potuto succedere, eseguiamo controlli costanti sul sistema..."

Pigolò, sinceramente dispiaciuta.

Riccardo le sorrise, rassicurante e comprensivo. Non era colpa sua, né di nessuno in quell'albergo.

'Sono io che devo chiedere scusa a lei, non so cosa sia saltato in mente a mio marito.', pensò, senza naturalmente pronunciare il pensiero ad alta voce.

"Non si preoccupi, sono cose che possono capitare..."

Disse invece, calmo e pacato.

La ragazza sospirò, in parte rassicurata dalla comprensione dell'uomo -altri clienti, al posto suo, avrebbero dato di matto-, ma ancora preoccupata perché doveva trovare una soluzione.

"Purtroppo tutte le camere sono occupate...ma posso provare a...a contattare altri hotel e chiedere se hanno una stanza disponibile, a nostre spese naturalmente, e far arrivare un tecnico il prima possibile domattina."

Riccardo non si stupì, era ovvio che tutte le stanze fossero occupate -Lorenzo, in qualche modo, doveva aver pensato anche a questo- e probabilmente lo erano anche quelle di tutti gli alberghi di Napoli e dintorni, ma forse valeva la pena fare un tentativo. Stava appunto per dire che quella soluzione gli andava bene, quando venne interrotto da una voce diventata ormai famigliare.

Arthur sopraggiunse in quell'esatto momento, la propria camera era in quello stesso corridoio e anche lui si era stancato di prolungare i festeggiamenti, e si sorprese di vedere Riccardo lì, a parlare con la receptionist.

"C'è qualche problema?"

Domandò con il solito tono cordiale, avvicinandosi.

Riccardo prese un respiro profondo e si voltò verso di lui, accennando un sorriso di circostanza.

"Niente di che, un piccolo impiccio con la porta. Davvero, niente di grave."

Rispose, cercando di essere convincente.

Arthur aggrottò le sopracciglia, incuriosito. Dall'espressione della receptionist sembrava una questione di vitale importanza, ma forse era solo preoccupata per l'immagine dell'hotel.

"Che impiccio? Posso dare una mano?"

Domandò ancora, facendosi appena più insistente.

Riccardo scosse leggermente il capo e poi fece spallucce, cercando di minimizzare il più possibile.

"No, davvero, non è nulla di grave. Semplicemente, la porta della mia camera fa i capricci e non vuole aprirsi, ma stavo appunto dicendo alla signorina..."

Si voltò per un attimo verso la receptionist.

"...che mi va più che bene trasferirmi in un altro albergo per la notte e poi tornare a risolvere la questione domani mattina con più calma. Te l'ho detto, nulla di grave."

Spiegò tranquillo, sforzandosi al massimo delle proprie possibilità di non mostrare quanto fosse stanco.

Arthur arricciò il naso, come se gli avessero appena messo davanti il piatto che meno gli piacesse al mondo. Non gli sembrava una soluzione adatta, quella, anche perché Riccardo gli sembrava parecchio provato dalla giornata -non aveva certo dimenticato di averlo visto piangere in giardino qualche ora prima- e aveva senz'altro bisogno di riposare il prima possibile, senza perder tempo.

"Ma mentre si trova un albergo e lo raggiungi, si fa mattina!"

Protestò, con una certa veemenza. Subito dopo, curvò le labbra in un sorriso morbido e dolce che arrivava fino agli occhi.

"Senti, ti propongo un'alternativa: perché non vieni a stare nella mia camera, stanotte? È sempre meglio che venire sballottato da una parte all'altra come un pacco postale, no?"

Aggiunse, accennando una timida risatina.

Riccardo sgranò gli occhi a quella proposta, come se non potesse credere alle proprie orecchie, ma ci aveva sentito benissimo! Era questo, dunque, ciò che Lorenzo voleva per lui? Farlo dormire in compagnia di un mezzo sconosciuto? E perché? Per dimostrargli che poteva innamorarsi di nuovo? Ma questo lui lo sapeva benissimo, solo che semplicemente non voleva! Spostò lo sguardo in basso, verso Meli, e liberò un sospiro profondo: lei era visibilmente stanca, si vedeva che lottava per restare sveglia -per chissà quale motivo, poi, dato che non sarebbe stata la prima volta che gli dormiva in braccio- e lui non era certo da meno. Prima si sarebbe sistemato in un letto e prima avrebbe parlato con Lorenzo, doveva pensare a questo.

"Che facciamo, mh? Accettiamo la proposta?"

Domandò alla micia, con voce bassa e dolce.

Meli, in risposta, emise un piccolo miagolio stanco e strofinò il capo contro il suo petto. Per lei era decisamente un sì!

Riccardo liberò una risatina intenerita, ma passò appena il tempo per tornare a guardare Arthur che era già sfumata.

"Sicuro che non disturbo? Sarai stanco..."

Mormorò, accennando un sorriso di scuse.

Arthur, che aveva osservato quella scena dolcissima con un'espressione di pura tenerezza in viso, respinse l'obiezione con una scrollata di spalle, mantenendo un sorriso incoraggiante.

"Ma va', figurati! La stanza è enorme e io sono solo..."

Sottolineò il concetto toccandosi il petto con il dorso della mano.

"...non disturbi, anzi non disturbate."

Concluse con voce morbida, accennando con il capo alla gatta.

Riccardo annuì appena, sforzandosi di sorridere un po' di più, e dopo essersi accordato con la receptionist per una telefonata non appena fosse arrivato il tecnico dell'impianto -anche se avrebbe potuto scommettere qualsiasi cosa che l'indomani mattina la porta si sarebbe aperta senza problemi- seguì Arthur verso la sua stanza, qualche metro più in là.

Non avanzò di molto, appena un paio di passi oltre l'uscio, quanto bastava a chiudere la porta, semplicemente perché non ci riuscì: era come paralizzato ed avvertiva l'esigenza di guardarsi intorno. La stanza non era tanto diversa dalla propria, anzi a vedere bene era perfettamente identica -un piccolo ingresso che si apriva su una zona giorno con due divani e due poltrone, una zona notte con un grande letto ed un lungo balcone affacciato sul mare che abbracciava le due zone-, eppure gli sembrava di essere finito in un ambiente del tutto ignoto: sapeva, però, che la camera in sé non c'entrava nulla. Era da anni che non si trovava da solo con un altro uomo, non in una situazione nebulosa come quella, almeno.

Provava una sensazione strana, che non riusciva bene a descrivere, ma che se avesse dovuto definire avrebbe chiamato disagio. Non era tuttavia un disagio negativo, sgradevole, che quasi ti fa venire la nausea e ti spinge cercare a tutti i costi una via d'uscita dalla situazione che stai vivendo, ma un disagio piacevole, positivo, dovuto alla prospettiva di dover trascorrere del tempo con qualcuno che, era inutile negarselo, aveva attirato, seppur in minima parte, la propria attenzione -la discrezione e la gentilezza con cui Arthur l'aveva trattato non era né cosa da poco né cosa da tutti, e lui le aveva apprezzate-. Ma poteva esistere, poi, un disagio positivo? Aveva senso? Forse era solo stanco e cominciava a non ragionare più adeguatamente... sì, doveva essere così. In ogni caso tra loro non sarebbe successo niente, sarebbe stato attento a non far succedere niente, e poi ne avrebbe parlato con Lorenzo il prima possibile, il tempo di addormentarsi, e gli avrebbe fatto capire quanto la sua idea, per quanto nobile, fosse sbagliata. Doveva solo andare a dormire.

Arthur era avanzato di qualche passo, sbottonandosi la giacca, ma accortosi che Riccardo non lo stava seguendo, si voltò verso di lui. Sentiva una sottile euforia, l'euforia dell'ignoto, corrergli sottopelle all'idea di restare nella stessa stanza con Riccardo, soltanto loro due: Riccardo gli piaceva, non aveva motivo di negarlo, era attratto da lui in un modo che andava oltre la fisicità, un modo che non aveva mai sperimentato con tutti gli altri uomini che aveva frequentato nelle, seppur poche e disastrose, relazioni che avevano costellato la propria vita, così come sentiva che Riccardo era diverso da loro. O forse si stava solo lasciando influenzare dall'averlo visto in un momento di difficoltà e dall'istinto di protezione. In ogni caso, non ci avrebbe provato con Riccardo: in qualsiasi altra situazione l'avrebbe fatto -tanto, che aveva da perdere?- ed inizialmente, quando l'aveva incontrato quella mattina, ci aveva anche pensato, ma aveva troppo rispetto per qualsiasi fosse il dolore che l'altro si portava dentro e perciò preferiva evitare. Se poi era destino che accadesse qualcosa, sarebbe accaduto.

"Che fai? Vuoi dormire in piedi come un cavallo?"

Domandò, scherzoso.

Riccardo scosse il capo, rapidamente, come colto in fallo.

"No, no, mi ero solo..."

Biascicò, ma non concluse la frase. Si schiarì la voce, avanzando di un paio di passi.

"Non sono un cavallo."

Mormorò, ma se ne pentì immediatamente e chiuse gli occhi, assottigliando le labbra, mentre in testa gli risuonava un 'Cretino!' imperioso.

Arthur ridacchiò dolcemente, quella era un'affermazione con cui avrebbe potuto tranquillamente uscirsene anche lui, quindi non stava ridendo di Riccardo, era semplicemente intenerito dalla sua spontaneità. Tornò indietro di qualche passo, avvicinandosi a lui, e gli rivolse un sorriso morbido.

"Ah, meno male, perché mi sa che qui non hanno stalle!"

Replicò, serio e scherzoso al tempo stesso.

Riccardo si lasciò andare ad un sorriso, rincuorato. Da quel poco che conosceva Arthur aveva capito che faceva di tutto per non farti mai sentire a disagio, che essere gentile e comprensivo gli veniva semplicemente naturale. Era una bella cosa.

Arthur, vedendolo più tranquillo, si rassicurò e con un cenno del capo lo invitò a seguirlo, conducendolo nella zona giorno.

"Mi stanza es tu stanza!"

Esclamò, allargando platealmente le braccia. Si voltò, poi, rivolgendosi a lui.

"Puoi fare quello che vuoi, non sentirti in imbarazzo."

Aggiunse, con voce più bassa e l'angolo delle labbra appena sollevato.

Riccardo annuì e, senza indugio, si diresse verso il divano. Gli sembrava la soluzione più adatta.

"Allora noi ci sistemiamo qui, grazie ancora e buonanotte."

Affermò sbrigativo, ma rivolgendogli comunque uno sguardo riconoscente e sincero.

Arthur soffiò una mezza risatina e scosse leggermente il capo, tenendo le mani poggiate sui fianchi.

"No, guarda, non esiste proprio che ti faccia dormire sul divano."

Ribatté con voce era gentile, ma ferma, che non ammetteva repliche: Riccardo aveva già ricevuto una brutta notizia o qualcosa del genere -qualsiasi cosa fosse ad averlo fatto scoppiare in lacrime nel bel mezzo di una festa-, il minimo che potesse fare era assicurarsi che dormisse al meglio possibile.

Riccardo alzò gli occhi al cielo, sospirando. Fare diversamente era fuori discussione, Arthur era già stato abbastanza gentile con lui, non voleva costringerlo anche a privarsi del letto dopo una giornata così stancante.

"Ma non potevo fare quello che volevo?"

Ribatté, sarcastico.

Arthur scrollò le spalle, come a scrollare il valore alle parole che lui stesso aveva pronunciato poco prima.

"Sì, tutto tranne questo."

Indicò il divano con un cenno della mano.

"È decisamente troppo piccolo per te, non ci staresti comodo. E siccome penso di aver capito che tipo sei, credo che sia inutile proporti di farci dormire me, quindi direi di saltare direttamente al punto in cui dormiamo insieme, che dici? Giuro che non ti mangio."

Propose divertito, portandosi scherzosamente una mano sul cuore, anche se dentro di sé si chiedeva da dove avesse preso tutta quella sfrontatezza che di solito non gli apparteneva. Appena realizzò ciò che aveva detto e come lo aveva detto, infatti, si sentì salire un calore alle guance.

Riccardo avvertì una piccola morsa alla bocca dello stomaco -non notò il rossore sul viso di Arthur, troppo impegnato ad accorgersi del proprio- e quella sensazione di piacevole disagio che provava da quando era entrato in quella stanza si fece sentire un po' di più. Arthur, però, non aveva tutti i torti, quel divano, ora che lo guardava bene, era davvero troppo piccolo per lui -e non voleva di certo trascorrere un'intera notte a rigirarsi in quel piccolo spazio, insonne: aveva bisogno di parlare con Lorenzo e quello era l'unico modo per farlo-, ma era troppo piccolo anche per Arthur, che più o meno era alto quanto lui, e non voleva certo ripagare la sua gentilezza in quel modo. Avrebbero dormito insieme, per forza di cose, ma nulla di più.

"Hai ragione, mi hai inquadrato bene."

Accennò un sorriso.

"Sistemo Meli e ti raggiungo di là."

Aggiunse, e così dicendo si chinò a posare la micia, ormai mezza addormentata, sul divano che per lei invece era perfetto, e prese ad accarezzarla un po' per farla dormire.

Arthur si ritrovò a dover nascondere un sorriso di incredula gioia, così da non sembrare una specie di maniaco, e quella sottile euforia che provava da quando Riccardo era entrato in quella camera lo attraversò sottopelle con scosse più intense. Non aveva cattive intenzioni, non voleva approfittarsi dell’altro in alcun modo, era semplicemente e quasi inspiegabilmente felice all'idea di dormirci insieme: era praticamente una novità, per lui, andare a letto con un altro uomo senza la certezza di andarci a letto, come sempre accadeva in quegli appuntamenti nati da chat in cui aveva sperato di trovare il vero amore. Un altro sorriso, che stavolta non ebbe bisogno di nascondere, gli spuntò sulle labbra vedendo l'affetto con cui Riccardo accarezzava la sua gatta, era chiaro che le volesse molto bene.

"Ah, si chiama Meli? Che carina! Posso?"

Domandò con voce carica di tenerezza, accennando con una mano alla gatta.

Riccardo annuì, accennando un dolce sorriso.

"Certo che puoi, è una coccolona questa qui."

Arthur non se lo fece ripetere due volte -gli piacevano gli animali, anche se non ne aveva di propri- e si chinò a poca distanza da Riccardo per tracciare qualche prima timida carezza sul pelo grigio e morbidissimo della micia, la quale ricambiava con fusa assonnate. Fu allora che l'occhio gli cadde sulla mano sinistra di Riccardo -molto vicina alla propria, tanto che quasi si sfioravano- e notò per la prima volta la fascetta dorata all'anulare: Riccardo era sposato.

'Beh, certo, ti stupisci? Tutti i migliori sono sempre già impegnati.', si disse in testa, sorridendo amaramente.

"Forse è il caso che mi metta davvero a dormire sul divano, così tua moglie non si ingelosisce."

Commentò, usando un tono scherzoso ed ironico per schermare tutta la propria delusione, accennando alla fede con un gesto del capo.

Riccardo si guardò la mano, dove il simbolo della promessa d'amore a Lorenzo spiccava in tutta la sua bellezza, e poi spostò gli occhi su Arthur per guardarlo nei suoi.

"Marito."

Precisò immediatamente, come faceva ogni volta che qualcuno, solitamente un paziente, dava per scontato che avesse una moglie.

"E non c'è pericolo che si ingelosisca, credimi."

Aggiunse, altrettanto duro ma più malinconico, ed intanto lo fissava alla ricerca di ciò che Lorenzo vedeva in lui, dei motivi per i quali lo stava spingendo tra le sue braccia con ogni sua forza. Non era sicuro, però, che vi vedessero le stesse cose: c'era gentilezza, certo, e tanta anche, ma poteva bastare?

Arthur, in quel momento, capì due cose complementari ed opposte: la prima, che tra lui e Riccardo sarebbe potuto effettivamente succedere qualcosa, dato che anche a Riccardo piacevano gli uomini, e la seconda, che tra loro non sarebbe successo sicuramente nulla, dato che a Riccardo piaceva un uomo in particolare, tanto da averlo sposato. Gli venne spontaneo chiedersi come mai, allora, il marito non fosse lì, e con un pizzico di discrezione gli sarebbe anche piaciuto domandarlo, ma lo sguardo di Riccardo, improvvisamente così freddo -probabilmente lo aveva offeso-, lo convinse a desistere e ad accontentarsi di una motivazione creata dalla propria mente, come un impegno improrogabile o una febbre improvvisa. Si schiarì la voce ed indicò con un gesto vago della mano la zona notte della camera.

"Vado a prenderti un pigiama, ne ho uno in più."

Disse -sia per cambiare discorso, sia perché era tardi e bisognava pur dormire- con una nota di incertezza nella voce altrimenti morbida come al solito.

Riccardo soffiò appena una risatina malinconica, non doveva stupirsi del fatto che Lorenzo avesse in qualche modo messo in conto anche quello, che gli avesse assicurato anche quella piccola comodità, premuroso come sempre anche in quella situazione assurda. Si impose, poi, di rivolgere ad Arthur un sorriso gentile, perché aveva colto quell'incrinazione seppur leggera nella sua voce e provava un sincero dispiacere al pensiero di aver detto qualcosa che l'avesse turbato: Arthur era buono, non meritava un trattamento simile, non era colpa sua se Lorenzo si era fatto venire quell'idea assurda.

"Grazie, sei davvero troppo gentile."

Mormorò, morbidamente.

Arthur accennò appena un sorriso di rimando, rincuorato, e si spostò in camera da letto per recuperare l'indumento dalla valigia: gli venne da sorridere pensando che in un primo momento aveva deciso di portare un ricambio in più -sarebbe stato via solo tre giorni, era vero, ma era sempre stato un tipo previdente-, poi aveva cambiato idea e l'aveva riposto, dandosi dell'esagerato da solo, ma infine all'ultimo minuto aveva deciso di infilare nuovamente il pigiama in valigia, colto da una sorta di presentimento che, col senno di poi, aveva fatto bene ad assecondare. I casi della vita sapevano essere davvero incredibili, alle volte. Tornò rapidamente in salotto e porse il pigiama, a cui appiattì una piccola piega con un rapido gesto della mano, a Riccardo.

"Il bagno è accanto alla stanza da letto. Ci sono anche gli asciugamani puliti, se ne hai bisogno."

Affermò, accennando con il capo in quella direzione.

Riccardo prese il pigiama tra le mani con delicatezza, quasi avesse l'irrazionale paura di romperlo, e di nuovo accennò un timido sorriso.

"Grazie, faccio in fretta."

Replicò, prima di allontanarsi. Chiuse la porta dietro di sé e si spogliò rapidamente del completo che indossava, cercando di non stropicciarlo eccessivamente e di ripiegarlo nel modo più accurato possibile, per poi concedersi una rapida rinfrescata -poté lavarsi soltanto a pezzi, dal momento che la protesi da bagno era rimasta nella propria camera e non gli sembrava certo il caso di chiedere aiuto ad Arthur per farsi una doccia- ed indossare il pigiama, costituito da una semplice maglietta azzurra ed un paio di pantaloncini dello stesso colore. Gli stava bene, non era né troppo stretto né troppo largo, anche se naturalmente lasciava scoperta tutta la gamba artificiale. Non era grave, però, perché era da anni che aveva smesso di vergognarsene e di evitare di mostrarla: era una parte di sé, ormai, e se gli altri non volevano accettarla, non poteva essere un proprio problema.

Quando uscì, trovò Arthur seduto sul letto con la schiena poggiata alla testiera e le gambe stese in avanti, accavallate l'una sull'altra, intento ad armeggiare con il cellulare. Si era sfilato la giacca e sbottonato i primi bottoni della camicia, oltre che quelli dei polsini, il capo era leggermente chinato in avanti, gli occhi fissi sullo schermo che li illuminava, ed i capelli gli sfioravano le guance senza che lui vi badasse: un quadro di quotidianità domestica che in un'altra vita avrebbe forse saputo apprezzare. Si schiarì la voce, in modo da attirare la sua attenzione, ed avanzò di un paio di passi.

"Il bagno è libero, se vuoi."

Disse, a voce piuttosto bassa.

Arthur spostò immediatamente gli occhi verso Riccardo -stava solo ingannando il tempo al cellulare, nulla di importante- ed in automatico gli rivolse un sorriso morbido. Fece per parlare, ma venne attratto da un particolare fuori posto: si accorse solo in quel momento che Riccardo non aveva una gamba, la destra per la precisione, o meglio ce l'aveva, ma non era fatta di ossa e muscoli. La scoperta lo stupì, dal momento che Riccardo non aveva mostrato né segni di zoppia né un'andatura rigida, ma al tempo stesso si diede dello stupido perché era impensabile, nel ventunesimo secolo, immaginare che una persona nelle condizioni di Riccardo dovesse per forza andare in giro come un pirata stereotipato. Inevitabilmente si domandò come fosse successo, se Riccardo fosse nato in quel modo o se avesse perso la gamba in seguito ad un incidente, ma tenne a freno la lingua e non indugiò oltre su quel particolare, non era cortese farlo, e sollevò lo sguardo verso il suo viso, stando ben attento a guardarlo negli occhi.

"Vado subito, grazie. Nell'armadio c'è spazio per quelli, comunque."

Rispose, accennando con il capo ai vestiti che Riccardo teneva in mano.

Riccardo sollevò l'angolo delle labbra in un sorriso divertito, era abituato agli sguardi di stupore misti a pena rivolti alla propria protesi, ma era grato ad Arthur perché il suo vi aveva indugiato solo per un istante ed era stato più sorpreso che impietosito, e si spostò verso l'armadio, che aprì per cominciare a sistemare il completo sulle grucce.

"Embolia gassosa, avevo quindici anni."

Disse con voce pacata, quasi neutra, immaginando di dover soddisfare la sua curiosità. 

"Succede quando, dopo un'immersione, si risale in superficie troppo in fretta e la differenza di pressione fa espandere eccessivamente i polmoni, causando delle piccole lacerazioni che liberano bolle d'aria nella circolazione arteriosa."

Si voltò, poi, verso di lui dopo aver richiuso le ante.

"Mi è andata in cancrena la gamba e...non c'era nient'altro da fare."

Concluse con un sospiro, per poi avanzare fino a sedersi sul bordo libero del letto, dandogli le spalle.

Arthur si morse un labbro, non sapendo bene cosa dire. Anche se Riccardo gli aveva raccontato tutto con leggerezza, come se fosse stata una cosa da poco, non riusciva nemmeno ad immaginare quanto traumatico dovesse essere stato per lui, un ragazzino all'epoca, affrontare un cambiamento così drastico ed improvviso. Ricordava che lui, a sedici anni, aveva preso una brutta caduta durante una gita in montagna e si era procurato un taglio molto profondo alla gamba sinistra che per fortuna non lo aveva nociuto in modo grave, ma tutto il sangue che si era visto sgorgare dal corpo come da una fontana, il dolore lancinante ma che non era abbastanza forte da farlo svenire, i punti che gli avevano dovuto applicare e la cicatrice che era rimasta in seguito -ancora parzialmente visibile, se si sapeva dove guardare- lo avevano fatto dare di matto per settimane; nella situazione di Riccardo era certo che sarebbe impazzito completamente. Si sporse verso di lui, facendo per accarezzargli la schiena, ma ritrasse la mano prima ancora di toccarlo, non era il caso. Si spostò, però, e gli si sedette accanto, lasciando poco spazio tra loro, per guardarlo in viso.

"Mi dispiace, davvero."

Mormorò a labbra strette, perfettamente consapevole di quanto quella frase di circostanza fosse inutile.

Riccardo, tuttavia, l'apprezzò perché percepì che era davvero sentita, e così fece spallucce, sollevando al contempo le sopracciglia.

"Ti ringrazio, ma sappi che poteva andarmi peggio. E poi è passato così tanto tempo, adesso, che nemmeno ci penso più."

Rispose gentile, per poi sospirare e portarsi una mano al ginocchio, nel punto di incontro tra la coscia e la protesi, massaggiandoselo lentamente. Dopo l'operazione, per le prime settimane, aveva distintamente sentito un dolore sordo e persistente dove non c'era assolutamente nulla, poi col tempo aveva capito che una cosa che manca non può fare male, si era abituato a quella mancanza e il dolore era cessato. Quando Lorenzo era morto, tuttavia, si era dovuto ricredere: una cosa che manca può fare male e non sempre è possibile abituarsi a quella mancanza. Ecco, ora all'improvviso si sentì di nuovo investito da quel dolore, non alla gamba ma al petto, e contrasse il viso in una smorfia, chiudendo gli occhi e serrando le labbra.

Arthur, vedendolo così sofferente, si accigliò, preoccupato.

"Ti fa male?"

Riccardo annuì appena, accennando un sorriso mesto.

"Solo un po', ma non è grave. Devo essermi sforzato troppo, oggi. Una bella dormita e mi passerà."

Rispose, cercando di dissimulare ciò che provava realmente e di essere convincente.

Arthur si schiarì la voce e, incuriosito, tornò a posare gli occhi sulla gamba dell'altro, indugiando però soltanto per pochi istanti. Non voleva essere indelicato.

"Come...come funziona, te la togli per dormire?"

Chiese, guardandolo di nuovo in viso.

Riccardo annuì ancora, con un po' più di decisione, ed accennò una risatina che, tutto sommato, era intenerita da quella reazione quasi infantile.

"Sì, anche perché credimi, non vuoi ricevere un calcio da questa."

Rispose, sollevando leggermente la gamba.

Arthur liberò una risatina, divertito, ma poi gli rivolse uno sguardo morbido.

"Ti agiti molto quando dormi?"

Domandò ancora, con voce gentile. Pur essendo perfettamente consapevole che con tutta probabilità non si sarebbero più rivisti dal giorno seguente, si sentiva inspiegabilmente portato a voler sapere il più possibile di lui.

Riccardo sospirò e si strinse nelle spalle. Portò entrambe le mani sulla protesi, poi, per cominciare a sfilarsela.

"A volte sì, dipende. Ti chiedo scusa in anticipo...e ti ricordo che sei ancora in tempo per spedirmi sul divano."

Rispose, puntando gli occhi di sbieco su di lui e indirizzandogli un sorriso sghembo.

Arthur emise un verso di disappunto simile ad un grugnito, poi si alzò in piedi, in modo da fargli spazio.

"Stenditi, dai, ci penso io."

Replicò, accennando al letto con una mano.

Riccardo sgranò gli occhi, sorpreso, e li sollevò verso Arthur. Quella era una reazione che davvero non si aspettava.

"Ma no, dai, non è necessario, ce la faccio da solo...e poi non è un bello spettacolo, se non sei abituato..."

Protestò, parlando rapidamente ma con un'evidente incertezza nella voce.

Arthur sbuffò e si lamentò di nuovo, stavolta con un suono più acuto, ma poi gli sorrise comunque.

"Ma tu ti lamenti sempre così tanto? Hai detto di essere stanco, fatti aiutare!"

Ribatté, con un tono che, nella sua imperiosa gentilezza, non ammetteva repliche.

Riccardo sgranò gli occhi e sollevò le sopracciglia, colto totalmente impreparato da tanta insistenza, e non poté fare altro che eseguire gli ordini, stendendosi sul letto. Mise le mani poco sotto il petto, all'altezza dello stomaco, una sull'altra, in una posizione che dall'esterno poteva ricordare quella di un malato, e teneva gli occhi fissi su Arthur, in attesa: gli sembrava di essere uno dei propri pazienti, quando lo aspettavano per il giro di visite.

Arthur, trattenendo a stento un sorriso soddisfatto, si abbassò quanto bastava per raggiungere la gamba di Riccardo e prese la parte superiore tra le mani. Non ne aveva mai maneggiata una, ad essere onesto, ed infatti una vocina nel cervello gli suggeriva di aver fatto una stronzata -lui per poco non sveniva alla vista del sangue, come gli era venuto in mente di tuffarsi così, come se niente fosse, su un arto mutilato?-, ma al tempo stesso pensava che non poteva essere così tanto difficile e che sarebbe andato tutto bene. Si schiarì la voce e spostò gli occhi in quelli di Riccardo.

"Dimmelo se ti faccio male, eh."

Gli sfilò la protesi con un gesto misurato, né troppo lento né troppo rapido, e subito dopo anche la calza contenitiva che fungeva da protezione. Si prese qualche istante per osservare la coscia di Riccardo, in particolare la pelle che la richiudeva facendola terminare poco sotto il ginocchio, liscia e rosea. L'idea che Riccardo, un giorno, si era addormentato e si era risvegliato senza una parte di sé era terribile, ma la vista in sé per sé non gli sembrò così orrenda come sosteneva l'altro, il che era un ottimo risultato per lui che non poteva vedere il sangue nemmeno nei film.

Riccardo liberò un pesante sospiro e solo allora si rese conto di aver smesso di respirare per tutto il tempo della breve operazione, mentre sentiva con gli occhi le mani di Arthur che lo toccavano. Era stato molto delicato, doveva dargliene atto, specialmente per uno che con tutta probabilità non era solito fare cose del genere. Il paragone con Lorenzo fu istintivo ed immediato, più veloce della propria capacità di fermarlo, tanto che quasi si aspettò di sentire il bacio che il compagno era solito dargli ogni volta. Come ci era finito in quella situazione? Ad eccezione di Lorenzo, l'uomo con cui voleva passare tutta la vita, non aveva mai lasciato che qualcuno lo toccasse, ed ora l'aveva permesso ad uno che neanche avrebbe più rivisto, era inconcepibile! Eppure, ciononostante, non si sentiva a disagio -neanche quell'assurdo disagio positivo che aveva provato da quando era entrato in quella camera-, anzi sentiva di essere in buone mani, di potersi fidare...ma gli sembrava sbagliato. Si schiarì la voce.

"Grazie, va bene così."

Mormorò, guardandolo negli occhi con sincera gratitudine nonostante le proprie preoccupazioni: non voleva ricadessero su di lui, che non aveva colpa. In realtà avrebbe dovuto controllare la presenza di eventuali arrossamenti e soprattutto lavare la delicata zona, ma preferiva di gran lunga rimandare il tutto all'indomani quando, finalmente, sarebbe rientrato in possesso della propria stanza. Era meglio ridurre al minimo i contatti.

Arthur sorrise di rimando, quasi timidamente, e scrollò le spalle.

"Non ho fatto nulla di che, dai."

Indicò con un cenno della mano la porta del bagno.

"Vado a cambiarmi, tu mettiti comodo e riposati!"

Aggiunse, gentile. Recuperò in fretta il pigiama ed entrò in bagno, optando subito per una doccia rinfrescante, di cui sentiva di avere davvero bisogno non tanto per combattere il caldo -le temperature si erano piacevolmente abbassate di qualche grado, ora che era notte-, ma perché doveva riordinare i pensieri. Era stato molto attento a non toccare Riccardo più del dovuto e a non sfiorarlo nemmeno oltre la protesi -sarebbe stato inopportuno e non voleva metterlo a disagio-, ma ora, mentre si insaponava, ripensò per contrasto al duro materiale plastico che aveva sentito sotto le dita, e si chiese come sarebbe stato, invece, accarezzare Riccardo dove avrebbe potuto sentire davvero il proprio tocco, baciargli le labbra un po' screpolate e passargli una mano tra i capelli, arruffandoglieli per gioco...

"È sposato, è sposato, è sposato..."

Ripeté più volte tra i denti, a voce così bassa che le parole quasi sembravano non aver lasciato la propria testa. Riccardo aveva già qualcuno che lo accarezzava, che lo baciava e che gli arruffava i capelli, qualcuno che sicuramente lo amava e che Riccardo amava a sua volta, era meglio, quindi, metterci subito una pietra sopra! Scosse il capo, come se così avesse potuto allontanare quelle immagini, ed uscì ancora grondante dalla doccia, infilandosi immediatamente l'accappatoio.

Si spostò davanti allo specchio per asciugarsi e fece una cosa istintiva che come tutte le cose istintive poteva apparire stupida ad un occhio esterno, ma tanto lì non c'era nessuno che potesse giudicarlo e lui aveva bisogno di capire: reggendosi al bordo del lavandino, sollevò la gamba destra piegandola il più possibile e rimase così per qualche istante. Nonostante avesse un appoggio, non riusciva a ritrovare il proprio equilibrio e aveva la sensazione di cadere da un momento all'altro: era questo, allora, che provava anche Riccardo, costantemente, ogni momento della sua vita? In quel momento, la consapevolezza che avesse qualcuno a sostenerlo gli sembrò rassicurante, più che tragica. Era felice per lui, insomma.

Liberò un lungo sospiro ed indossò il pigiama -perfettamente uguale a quello che aveva prestato a Riccardo ma di un colore diverso, verde chiaro e non azzurro-, poi uscì dal bagno senza far rumore, così da non disturbare. Non appena vide Riccardo, un sorriso intenerito gli spuntò sulle labbra: era steso su un fianco, di spalle rispetto al lato in cui si sarebbe sistemato lui, rannicchiato su se stesso e con il lenzuolo a coprirlo fino a metà busto. Respirava profondamente, era chiaro che si fosse addormentato, e non dava segni di averlo sentito. Facendo attenzione a non svegliarlo, si avvicinò al letto e si distese sul lato libero, voltandosi a propria volta di spalle perché, in effetti, era meglio così, e si addormentò nel giro di pochi attimi.

Riccardo, nel corso degli anni, aveva imparato ad addormentarsi in fretta -l'ospedale è un ambiente frenetico ed è necessario sfruttare ogni momento buono per riposare e rimettersi in forze-, gli bastava inspirare ed espirare lentamente, così da rilassarsi pian piano, ed era diventato ancora più semplice farlo da quando sapeva che dall'altra parte avrebbe trovato Lorenzo. L'incontro di quella notte, poi, era più che mai necessario -doveva parlargli, farlo ragionare-, per cui non trovò difficoltà ad addormentarsi anche in quella situazione. Il proprio sonno, però, fu solitario e vuoto, attese invano il compagno che non si presentò. Non poteva saperlo, ma quella notte Lorenzo stava incontrando un'altra persona.

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Capitolo 52
*** Epilogo – Eternamente ora (parte 9) ***


Erano trascorsi anni dall'ultima volta in cui Arthur aveva messo piede in quel locale, ma poteva dire di conoscerlo discretamente bene: era il bar dell'università e non era cambiato di una virgola in tutto quel tempo. Ampio e spazioso, abbastanza da contenere un numero consistente di studenti alla ricerca di una buona dose di caffeina prima di una lezione pesante o di un pranzo veloce nel poco tempo di pausa a disposizione, presentava sul fondo della sala la postazione del bar vero e proprio, con le macchine per il caffè ed un bancone, mentre tutto il resto era occupata da una fitta rete di tavolini in legno che lasciava appena lo spazio per muoversi tra le file ed una lunga mensola che abbracciava tre delle quattro pareti, fornendo un ulteriore ripiano di appoggio per gli avventori.

Lui, a dire il vero, non lo aveva frequentato più di tanto, preferiva sempre portarsi un thermos di caffè ed una fetta di dolce casalingo da casa, così da risparmiare qualche soldo, ma spesso, nei giorni d'esame, si era ritrovato lì a ripetere freneticamente il programma di turno con qualche collega, come se quei ripassi raffazzonati custodissero il segreto per la promozione.

Fece qualche passo in avanti, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni, ed il rumore delle proprie scarpe sul pavimento lucido riecheggiò in tutta la sala: faceva uno strano effetto vederlo vuoto, dal momento che solitamente era pieno di gente, e soprattutto sentirlo silenzioso, dato che di solito tra il chiacchiericcio e la radio in sottofondo a stento si riuscivano ad udire i propri pensieri. Mentre camminava tra i tavolini ordinati, notò che su uno di essi era deposto un piatto fumante e dunque, spinto da una certa curiosità, vi si avvicinò. Con grande sorpresa e piacere vide -e solo a vederlo gli si illuminarono gli occhi e si passò la lingua sulle labbra- che si trattava di una porzione più che generosa di paccheri ai frutti di mare, il cui profumo faceva concorrenza all'aspetto nel fargli venire l'acquolina in bocca. Pensò subito, tuttavia, che qualcuno doveva aver portato lì quella pietanza, probabilmente lo stesso qualcuno che voleva anche mangiarla, quindi alzò il capo e cominciò a guardarsi intorno.

"Heilà? C'è nessuno?"

Chiese a voce alta, in modo da farsi sentire, ma non ottenne risposta. Si schiarì la voce e riprovò.

"Questa pasta... è di qualcuno?"

Domandò ancora, ricevendo indietro solo silenzio.

"No? Nessuno? Allora la mangio io, eh!"

Avvertì, attendendo qualche altro secondo che qualcuno di facesse vivo. Lasciato ancora senza risposte, decise di sfilarsi il cappotto, che ripiegò accuratamente sullo schienale della sedia, ed accomodarsi, senza farsi ulteriori domande su chi avesse potuto portare lì quel piatto e poi abbandonarlo. Mangiò con gusto, quella pasta era tra le cose più buone che avesse mai assaggiato, e proprio quando era arrivato a più di metà piatto e si stava concedendo un bicchiere d'acqua, udì una voce provenire dalla propria destra.

"Ciao, scusami, è libero questo posto? Posso sedermi?"

Si voltò in quella direzione ed il sorso che stava deglutendo gli andò miseramente di traverso quando vide il proprietario di quella voce.

"Sì...sì, certo, prego!"

Rispose con voce roca, tossicchiando, sicuro di aver intanto raggiunto, in viso, un colorito molto vicino a quello di un pomodoro. Era conscio di aver appena fatto una figura a dir poco barbina -'Che figura di merda!', pensò intanto- ma non poteva biasimarsi del tutto: era inconcepibile, piuttosto, che gente così bella andasse in giro tranquillamente, senza avvisare!

Lorenzo sollevò l'angolo delle labbra in un sorriso, intenerito da quella reazione -gli ricordava Riccardo, in un certo senso, e per questo il proprio sorriso era adombrato da malinconia-, ma anche lusingato: 'Faccio ancora colpo.', pensò, anche se non era lì per gonfiarsi l'ego -non che ne avesse bisogno, con Riccardo che lo riempiva costantemente di complimenti e reazioni spontanee come quella, nonostante i tanti anni insieme-.

"Grazie."

Replicò, accomodandosi di fronte a lui con le braccia morbidamente appoggiate sul tavolo. Non era la cosa più educata da fare, lo sapeva, ma si mise ad osservarlo senza nemmeno tentare di fingere che così non fosse, con attenzione, reclinando leggermente il capo su un lato come faceva sempre quando era concentrato su qualcosa o, come in questo caso, qualcuno.

Quel mattino, durante la cerimonia, aveva già avuto modo di guardare quell'uomo -Arthur, si chiamava- e di accorgersi che era un bel tipo, esteticamente parlando: il fisico asciutto, il viso quasi affilato ed i capelli leonini avevano certamente il loro fascino, ed erano messi in risalto da uno stile particolare, ma che personalmente gli piaceva, anche se immaginava che Riccardo avrebbe avuto molto da ridire sulla scelta di una camicia vistosa come quella. Ora che gli era di fronte, invece, poteva cogliere qualche aspetto del suo carattere, che era ciò che gli interessava di più, nel modo in cui faceva saettare costantemente gli occhi dal piatto -da cui aveva cominciato a mangiare più lentamente, probabilmente per prendere tempo- a lui, cercando di non farsi vedere -anche Arthur, quindi, lo stava osservando, studiando-, dando involontariamente vita ad una scenetta che lo fece sorridere appena, intenerito. Da ciò, comunque, deduceva che Arthur era curioso, ma anche discreto, o almeno provava ad esserlo, e doveva essere anche particolarmente sensibile, visto il leggero rossore che gli velava le guance. Tutte qualità positive, in ogni caso, che deponevano a suo favore.

Arthur, se fino a qualche istante prima aveva divorato senza remore la prelibatezza che si trovava davanti, aveva ora preso a mangiare a piccoli bocconi, portandosi alla bocca un pacchero o una vongola alla volta, per darsi almeno qualcosa da fare. Cercava con tutto se stesso di guardare dritto nel proprio piatto e di non alzare lo sguardo, ma quello sconosciuto lo attirava, non poteva farci niente, e così ogni tanto sollevava gli occhi, che subito riabbassava per timidezza.

Quell'uomo di cui non sapeva neanche il nome era bello, inutile negarlo, tanto che avrebbe potuto tranquillamente fare il modello o l'attore, e c'era qualcosa di naturale nella sua bellezza - in quei suoi capelli neri e folti in cui si intravedeva qualche punta d'argento, nella barba che gli accentuava la perfezione del viso che sembrava scolpito, negli occhi scuri di cui sentiva lo sguardo marchiarlo a fuoco e perfino nel modo in cui la camicia bianca ed il giubbotto di pelle marrone che indossava gli avvolgevano il corpo-, come in una costellazione, una montagna innevata o nel mare in tempesta, che non lasciava indifferenti, ma aveva anche un altro motivo per guardarlo con così tanta insistenza, una domanda che gli era sorta spontanea: che ci faceva quell'uomo seduto di fronte a lui? Il bar era vuoto, avrebbe potuto accomodarsi ovunque, ed invece aveva scelto proprio quel posto, perché? Forse si conoscevano? Ma no, non era possibile, uno così se lo sarebbe ricordato! Tra un boccone ed uno sguardo si diede presto una risposta, che lo colpì come un'illuminazione a forza di guardare il proprio piatto e lo sconosciuto, e capì di essere stato troppo avventato a tuffarsi su quella pasta.

"Oddio, scusami, questo era il tuo pranzo, vero?"

Chiese costernato, guardandolo con occhi sgranati ed indicando il piatto di fronte a sé.

"Non...non ne avevo idea, ho anche chiesto, ma non mi ha risposto nessuno...ma te ne ordino un altro, eh!"

Aggiunse concitato, gesticolando freneticamente.

Lorenzo tese una mano avanti, aperta, per fermare quel fiume di parole e di inutile preoccupazione.

"No, hey, calmo, non è successo niente. Hai fatto bene a mangiarla, si vede che la desideravi."

Disse con divertita dolcezza, scoprendo un sorriso morbido e rassicurante. Scrollò, poi, le spalle.

"E poi se non l'avessi mangiata tu non l'avrebbe mangiata nessuno, credimi. È buona?"

Domandò, indicando il piatto con un cenno del capo.

Arthur sospirò, rassicurato, ed annuì senza staccare gli occhi da lui.

"Sì, molto. Non ricordavo che cucinassero così bene qui, sai? Ma è da parecchio che non ci vengo..."

Rispose, abbozzando un timido sorriso.

Lorenzo soffiò una risatina quasi impercettibile -Arthur, giustamente, non aveva ancora capito dove si trovava- e poi sollevò l'angolo delle labbra in un sorriso sghembo.

"Forse non ricordavi bene questo posto."

Replicò con tono un po' criptico, poi diede uno sguardo ai dintorni, senza soffermarsi su nulla di particolare.

"Ci venivo anch'io qui, sai? È strano che non ci siamo mai incontrati."

Disse, tornando a guardarlo.

Arthur scrollò le spalle, sollevando appena le sopracciglia.

"Beh, c'era sempre tanta gente...non è poi così strano."

Ribatté, con voce morbida e leggera.

Lorenzo fece un cenno d'assenso con il capo, in effetti Arthur aveva ragione. In quegli anni, poi, lui non aveva occhi che per Riccardo, non faceva caso a nessun altro.

"È vero, sì. Forse nemmeno io ricordo benissimo questo posto."

Rispose, facendo una risatina.

Arthur si unì subito, ridacchiando a propria volta: cominciava a sentirsi più disteso, ora, dopo l'impaccio iniziale, e così si permise una battuta.

"Eh, sarà la vecchiaia..."

Disse, con morbido tono di scherno. Stava facendo un azzardo, del resto non sapeva quanto quello sconosciuto potesse essere permaloso, ma qualcosa gli diceva che non se la sarebbe presa. Era gentile, sembrava avere un talento naturale anche nel mettere a proprio agio le persone, insomma non aveva l'aria di chi si offendeva facilmente.

Lorenzo ridacchiò di gusto, chinando di poco il capo, colpito dall'ironia di quella situazione: non pensava che avrebbe mai sentito qualcuno dargli del vecchio, anche se in quel caso si trattava solo una battuta, dal momento che non sarebbe mai invecchiato.

"Devo darti di nuovo ragione, sarà quella. Tu cosa studiavi, comunque?"

Domandò quando la risatina era ormai sfumata in un sorriso, tornando a guardare Arthur con tutta la propria attenzione. Anche quella era un'informazione che già aveva, ma gli sembrava giusto fare un po' di conversazione prima di rivelargli la vera ragione dietro il loro incontro. Quella sarebbe stata di gran lunga più difficile da affrontare.

Arthur accennò un piccolo sorriso tra sé e sé, contento di non essersi sbagliato sul conto dell'altro, che tuttavia preferì nascondere in un sorso d'acqua.

"Giurisprudenza, sono un avvocato."

Rispose con orgoglio che si mostrò non solo nella voce e nello sguardo, ma anche nella postura, resa più composta da un gesto inconscio.

Lorenzo aprì le labbra in un sorriso un po' più ampio e fece un leggero cenno d'assenso con il capo, come a mostrare di aver immagazzinato l'informazione.

"Ah, complimenti! Si vede che ti piace, sai?"

Replicò dolcemente, avendo notato la scintilla che lo aveva attraversato quando gli aveva risposto.

Arthur sorrise, lusingato: per lui quello era un vero e proprio complimento, anche più di qualsiasi altro, perché era davvero fiero di ciò che faceva.

"È facile pensare che gli avvocati facciano questo mestiere solo perché permette di guadagnare tanto e facilmente, probabilmente lo stai pensando anche tu adesso e fidati, per la maggior parte dei miei colleghi ti dò anche ragione, ma io non lo faccio per questo. Vedi, il mio capo, anche se non gli piace che essere chiamato così..."
Sollevò gli occhi al cielo e al contempo scosse la testa per sottolineare l'assurdità di quella richiesta.

"...Claudio Vinci, probabilmente lo conosci, è tra gli avvocati più importanti di Roma, ma è diverso da tutti gli altri: non esercita per un tornaconto personale, perché un determinato cliente può portare molti soldi allo studio o perché può accrescere il suo prestigio, lo fa perché è fermamente convinto che aiutare il prossimo sia la cosa più giusta da fare, e lo penso anche io. È per questo che mi piace il mio lavoro, perché mi permette di dare voce a tanta gente, e penso anche che piacerebbe a chiunque con un minimo di buon cuore!"

Spiegò, entusiasta, ma resosi conto di aver esagerato mise su un sorrisetto di scuse. A volte si faceva prendere troppo dall'entusiasmo.

"Perdonami, immagino che questo pippone fosse l'ultima cosa che volevi sentire."

Aggiunse, con voce più bassa e dispiaciuta.

Lorenzo respinse quelle scuse con un gesto secco di una mano, facendo scoccare la lingua al palato. A lui quell'entusiasmo di certo non dispiaceva.

"Ma va’! Anzi, sai che ti dico? Mi hai convinto, se mai mi servirà un avvocato, mi rivolgerò direttamente a te!"

Esclamò allegro, rivolgendogli un bel sorriso ampio. Nella situazione in cui era non gli sarebbe mai servito un avvocato, ne era consapevole, ma gli sembrava la cosa giusta da dire per risollevare il morale di Arthur.

Funzionò, perché Arthur ridacchiò, rincuorato. Sollevò per un attimo le sopracciglia, in un'espressione complice.

"Beh, spero che un avvocato non ti serva mai, ma sappi che se dovesse accadere ti farò uno sconto!"

Replicò, scherzoso.

Lorenzo liberò una risatina, annuendo.

"Grazie, molto gentile."

Arthur scosse le spalle, con noncuranza.

"Figurati, è un piacere. E comunque, tu invece cosa studiavi? Sai, così mi preparo."

Domandò, accennando un sorrisetto sghembo.

Lorenzo prese un profondo respiro prima di rispondere, ma non perse il sorriso.

"Studiavo Medicina, sono un radiologo."

Arthur sgranò gli occhi e dischiuse leggermente le labbra, sorpreso.

"Caspita, mica una roba da poco! Io sono uno che se vede una goccia di sangue cade a terra come una pera cotta..."

E così dicendo mimò con un movimento della mano la posizione distesa.

"...ma deve essere un mestiere meraviglioso!"

Esclamò, sinceramente pieno d'ammirazione.

Lorenzo annuì, dolcemente.

"Sì, ti permette di aiutare tante persone, come il tuo. Ci sono tanti medici che lo fanno solo per soldi, ne ho visti fin troppi per i miei gusti, ma anch'io ho avuto un buon maestro."

Rispose con voce velata di nostalgia, ma non per questo triste. Gli sembrava strano parlare del proprio lavoro al presente, ma una volta che si diventa medici non si smette mai di esserlo. E poi spesso parlava con Riccardo dei suoi pazienti, ne discutevano insieme e lui gli dava i propri consigli, quindi in un certo senso esercitava ancora.

Arthur si accorse di quella piccola incrinatura nella sua voce e nei suoi occhi e si domandò a cosa potesse essere dovuta, dato che anche quel medico sembrava davvero fiero del suo lavoro, ma di certo non poteva chiederglielo. Gli sorrise, allora, sollevando l'angolo delle labbra.

"Direi che mi hai convinto anche tu. Se dovessi rompermi una gamba o qualcosa del genere, verrò direttamente da te!"

Commentò, allegro.

Lorenzo ridacchiò, piacevolmente impressionato dal tatto che Arthur gli aveva mostrato, ed annuì appena.

"Ti auguro che non ti accada mai, ma nel caso farò in modo di non farti svenire."

Questa era una cosa che poteva promettere, perfino nella propria condizione: sapeva che se ci fosse stato Riccardo, in quell'ipotetica situazione, si sarebbe preoccupato di affidare Arthur ai colleghi giusti, indipendentemente da come sarebbe andata a finire tra di loro; in assenza di Riccardo, invece, se ne sarebbe occupato lui con qualche piccola manipolazione, non sarebbe stata nemmeno la prima volta.

Arthur annuì con entusiasmo, allargando le mani come a mostrare di non avere riserve.

"Siamo d'accordo, allora. Mi sembra un patto perfetto."

Lorenzo soffiò un sospiro divertito, facendo un cenno d'assenso con il capo.

"Io comunque sono Lorenzo, Lazzarini. Piacere!"

Disse porgendogli una mano, con in volto un sorriso morbido appena accennato. Era arrivato il momento di cominciare ad abbattere le barriere.

Arthur aggrottò leggermente le sopracciglia, confuso per una frazione di secondo, poi ridacchiò, imbarazzato.

"Oddio, hai ragione, stiamo parlando da mezz'ora e ancora non ci siamo presentati!"

Parlare con Lorenzo, ora sapeva il suo nome, gli era venuto così naturale che nemmeno ci aveva fatto caso. Tese la propria mano e strinse la sua con decisione, per una presentazione come si doveva.

"Arthur Peirò, molto lieto."

Aggiunse, mettendo su un sorriso aperto.

Lorenzo capì che quello era il momento giusto per introdurre il discorso che doveva fargli, altrimenti avrebbero continuato a girarci intorno per chissà quanto tempo.

"In realtà, io...io questo lo sapevo già, come anche che sei un avvocato."

Mormorò, mentre le labbra, gli occhi e tutto il viso gli si adombravano di un velo di timore. Non aveva idea di cosa sarebbe potuto accadere adesso, le possibilità erano numerose e c'erano dei rischi, ma non aveva altra scelta, doveva farlo per Riccardo: doveva mettere le cose in chiaro al posto suo, altrimenti lui non si sarebbe mai concesso la possibilità di ricominciare a vivere, a vivere per davvero.

Arthur perse immediatamente il sorriso ed aggrottò le sopracciglia, confuso. In che senso quell'uomo che non aveva mai visto prima d'ora sapeva già quelle cose di lui? D'istinto gli lasciò la mano, con un movimento rapido come se fosse stata rovente, e cominciò a guardarlo con sospetto.

"Che vuol dire che lo sai già? Cosa sei, uno stalker?"

Mentre parlava concitato, sempre dando retta all'istinto, infilò una mano nella tasca della giacca, dove subito sfiorò il cellulare, e pose un dito sul tasto della chiamata d'emergenza, pronto ad avvertire la Polizia se la situazione si fosse messa male.

A Lorenzo non sfuggì quel movimento e nemmeno il freddo che ora proveniva dagli occhi di Arthur, ma non poteva certo biasimarlo: a parti inverse, probabilmente nemmeno lui si sarebbe fidato.

"No, no, niente di simile. Te lo giuro, per quanto possa valere."

Si schiarì la voce e si tirò un po' più su sulla sedia, abbandonando la posizione morbida per assumerne una più rigida, più composta, ed unì le mani davanti a sé, intrecciando le dita sul tavolo.

"Vedi, Arthur, quello che ci siamo detti è vero, io e te non ci conoscevamo, ma abbiamo...una conoscenza in comune, per così dire. Si chiama Riccardo Bonvegna, l'hai conosciuto oggi. Io sono suo marito."

Spiegò con voce pacata -ma non calma quanto avrebbe voluto perché non riuscì a trattenere un sottile tremore-, guardandolo negli occhi per dimostrargli di essere sincero. Tacque, poi, così da dargli modo di assorbire quelle prime informazioni. La chiarezza, in quel caso, era fondamentale, e dire troppe cose tutte insieme avrebbe soltanto traumatizzato il giovane avvocato; era molto più saggio scindere quella grande verità in piccoli pezzi.

Arthur si morse un labbro, ancora più confuso. Quel nome, Riccardo Bonvegna, perché gli diceva qualcosa? Perché gli era famigliare, eppure lontano, quasi irraggiungibile? L'hai conosciuto oggi, ma non era possibile, lui oggi non aveva incontrato...cosa aveva fatto, oggi? Certo, era andato al bar vicino all'università...ma perché l'aveva fatto? E prima? Era passato in ufficio? Cosa aveva mangiato per colazione? Quali canzoni aveva ascoltato mentre si lavava? Perché non ricordava niente di tutto ciò? Strizzò gli occhi nello sforzo di ricordare ed ecco che un'immagine gli si fece viva nella testa, ma non quella che si aspettava: un uomo alto, dai ricci morbidi e il sorriso malinconico, che soffiava bolle di sapone accanto a lui. Sgranò gli occhi, tutto era più chiaro adesso.

"Riccardo...ma Riccardo sta dormendo, e…e anch'io sto dormendo!"

Liberò una risatina, finalmente aveva capito: non ricordava nulla di quella giornata semplicemente perché stava cercando di ricordare una giornata che non esisteva! Quella giusta, quella reale, era ben diversa!

"Sto sognando, questo è un sogno! Ecco perché tu sai chi sono ed ecco perché questo bar è vuoto! È un sogno!"

Esclamò allegro, allargando le braccia per sottolineare il niente intorno a sé con un sorriso soddisfatto stampato in volto. Adesso che l'aveva capito, era solo questione di attimi prima che si svegliasse...eppure quegli attimi sembravano non passare mai. Cominciò a guardarsi intorno spostando febbrilmente gli occhi senza in realtà vedere nulla, il sorriso gli si fece più incerto ma si sforzò di mantenerlo, aspettandosi da un momento all'altro di veder scomparire le sedie, i tavolini, i muri intorno a lui e anche quella strana presenza che il proprio cervello doveva aver pescato chissà dove per fargli un brutto scherzo. Si schiarì la voce.

"Questo è un sogno...e adesso mi sveglio."

Disse ancora, tradendo un tremolio insicuro nella voce.

"Adesso mi sveglio!"

Ripeté a voce più alta, quasi a volersi svegliare da solo, ma non ci riuscì. Rimase lì dov'era, senza che una virgola intorno a lui cambiasse. Com'era possibile? Che gli stava succedendo?

Lorenzo assisté alla scena in silenzio, evitando di intervenire subito perché era meglio che Arthur si rendesse conto da solo di sbagliarsi, ma quando vide il suo sguardo perdersi nel vuoto, spaventato, decise che era il momento di rivelargli un altro pezzetto di storia e si sporse leggermente verso di lui, chinandosi di poco sul tavolo.

"Non ti stai sbagliando, questo è un sogno, nel senso che sta accadendo nella tua testa, ma è molto più reale dei sogni a cui sei normalmente abituato."

Disse pacato, con voce morbida e sguardo gentile.

Arthur fece saettare gli occhi su di lui -quasi si era dimenticato della sua presenza-, ma un po' perché non era riuscito a prestare molta attenzione a quelle parole, perso com'era nei propri pensieri, ed un po' perché ciò che aveva udito non aveva senso, non capì nulla di quel discorso.

"Ma che stai dicendo?"

Biascicò, perplesso.

Lorenzo abbozzò un sorrisetto dispiaciuto e fece un cenno d'assenso con il capo. In effetti al suo posto nemmeno lui ci avrebbe capito nulla.

"Hai ragione, scusami, cercherò di spiegarmi meglio. Allora..."

Si schiarì la voce e fece roteare l'indice puntato verso l'alto, indicando lo spazio intorno a loro prima di tornare ad abbassare la mano.

"Questo è un piano sospeso tra sogno e aldilà, una sorta di limbo, se ti è più chiaro. Io e Riccardo lo chiamiamo regno magico."

Ed inevitabilmente, al pensiero del compagno, la voce gli divenne più calda ed il sorriso gli si addolcì, ma solo per un istante. Doveva restare concentrato.

"In questo momento, il tuo corpo è nel letto di una camera d'hotel a Napoli..."

Spostò una mano su un lato dello spazio del tavolo davanti a sé.

"...ma la tua anima, il tuo spirito, è qui..."

Fece lo stesso con l'altra mano, ma sul lato opposto.

"...e quello che il tuo spirito vive non è meno reale di ciò che vive il tuo corpo."

Riunì le mani con un gesto secco, generando un piccolo schiocco.

"Sono stato più chiaro, ora?"

Domandò, incerto, sperando con tutto se stesso di essersi fatto capire.

Arthur aggrottò leggermente le sopracciglia ed arricciò le labbra in un'espressione ben poco convinta e molto pensierosa. Pur avendo prestato maggior attenzione alle parole di Lorenzo, il loro contenuto non gli appariva più sensato: aldilà, anima, spirito, erano tutti concetti che conosceva, che gli erano stati trasmessi quand'era bambino e per un certo periodo, da ragazzino, ci aveva anche creduto, ma che ora non prendeva più così tanto in considerazione. Non che non ci credesse affatto, anzi gli piaceva pensare che dopo la morte continuasse in qualche modo la vita e che fosse più giusta, più equilibrata, ed era anche fermamente convinto che gli esseri viventi -tutti, non solo gli umani- avessero una scintilla di vita che non poteva essere rintracciata nei muscoli, nel sangue o nelle ossa, ma che doveva essere necessariamente qualcos'altro, perché troppo speciale e impalpabile... semplicemente non ci badava più di tanto. Spalancò gli occhi, poi, spaventato: se si stava parlando di aldilà, allora...

"Oddio, aspetta, mi stai dicendo che...che sto morendo?"

Chiese con voce più acuta e tremante del normale, e scattò in piedi come una molla, cominciando a camminare freneticamente avanti e indietro.

"Sto morendo...sto morendo...sto morendo!"

Ripeteva ossessivamente, agitato, mentre con le mani prese a tastarsi il busto come ad accertarsi di essere ancora lì, ed intanto faceva respiri brevi ed in rapida successione, affamato di un'aria che sembrava completamente scomparsa da quella stanza. Era questo che si provava a morire?

Lorenzo, sinceramente costernato per l'equivoco che aveva causato, lo raggiunse in un attimo, gli si parò davanti ed istintivamente lo bloccò mettendogli le mani sulle braccia, così da frenare anche fisicamente il suo panico. Non fu il medico a muoversi, ma l'uomo, quello che conosceva la paura di morire e sapeva che non c'era sensazione peggiore, o quasi.

"No, no, hey! Non stai morendo, tranquillo! Stai benissimo e va tutto bene!"

Si affrettò a dire, deciso ma pacato, senza agitarsi, guardandolo negli occhi.

Arthur fece scattare lo sguardo sulla mano di Lorenzo, che sentiva salda intorno al proprio braccio, e poi lo rialzò verso di lui, incrociando il suo. Non avrebbe saputo spiegare il perché, ma bastarono quello sguardo e quel tocco, più delle sue parole, a tranquillizzarlo. Deglutì, sentendo improvvisamente la gola arsa.

"Scusami, è che tu hai detto...allora io ho pensato che..."

Mormorò affannato, mangiandosi le parole ed agitando a vuoto le mani.

Lorenzo gli sorrise, rassicurante, e strinse leggermente la presa su di lui un po' per dargli coraggio ed un po' -soprattutto- perché aveva la certezza che sarebbe crollato se l'avesse lasciato.

"Non ti preoccupare, va tutto bene. Adesso respira insieme a me, okay?"

Disse con voce morbida, cominciando poi ad inspirare ed espirare a grandi boccate lente e profonde, senza distogliere lo sguardo dal suo.

Arthur, dopo un attimo di incertezza, annuì e prese ad imitarlo e, pian piano, l'aria tornò da lui: la sentiva riempirgli il naso ed i polmoni, che avevano ripreso a gonfiarsi e sgonfiarsi con ritmo regolare, senza più fame. Gli sembrava di essere decisamente più vivo, adesso.

"Sto...sto bene, grazie."

Sussurrò, sforzandosi anche di abbozzare un sorriso.

Lorenzo gli sorrise di rimando, dolcemente. Lo vedeva anche lui che stava meglio -aveva ripreso a respirare autonomamente e regolarmente, lo shock doveva essere passato-, ma preferì non lasciarlo andare.

"Vieni, sediamoci."

Senza fretta lo guidò di nuovo verso il tavolo, che non era poi così distante, e lo aiutò ad accomodarsi.

Arthur si lasciò condurre, seppur con un po' di imbarazzo -ora che l'ossigeno era tornato a rinfrescargli il cervello, si era reso conto che quello era pur sempre il marito dell'uomo con cui stava dormendo-, e si mise a sedere.

"Grazie..."

Disse con un filo di voce, schiarendosi la gola per l'ennesima volta.

Lorenzo fece spallucce, mantenendo il sorriso.

"Ah, per così poco?"

Tornò a sedersi, ma stavolta preferì occupare la sedia accanto a lui e non quella di fronte, e liberò un sospiro.

"Senti, posso offrirti qualcosa? Così ti riprendi e ed è anche più facile spiegarti perché ho voluto incontrarti."

Propose, gentile.

Arthur si limitò ad annuire lentamente, ancora un po' scosso. Gli sembrava tutto troppo assurdo e faceva fatica a trattenere le informazioni che Lorenzo gli aveva dato, sentiva che c'era qualcosa che gli sfuggiva.

"Bene, e cosa posso portarti? Non so, ti va una cioccolata calda? Ti ci vuole una bella scarica di endorfine, secondo me!"

Proseguì Lorenzo, pacatamente entusiasta, guardandolo comprensivo. Riusciva perfettamente ad immaginare le domande che si accavallavano nella sua testa e tutta la confusione che doveva provare Arthur in quel momento: lui non c'era passato direttamente -forse proprio perché era morto era stato molto più semplice accettare la nuova realtà in cui si trovava-, ma Riccardo sì e per giorni aveva dovuto aiutarlo a sbrogliare quella matassa informe e renderla un filo unico. Con Arthur, purtroppo, non aveva tutto quel tempo a disposizione e avrebbe dovuto essere un po' più intensivo.

Arthur si accigliò leggermente, perplesso.

"Una...una cioccolata calda? Con questo caldo?"

Replicò, incerto. Era pur sempre piena estate!

Lorenzo ridacchiò, poi sollevò l'angolo delle labbra e un sopracciglio in un'espressione divertita.

"Perché, tu hai caldo?"

Arthur fece per rispondere di getto, ma dovette fermarsi. L'aveva dato per scontato nel momento in cui aveva capito di star sognando, ma riflettendoci, in realtà, in quel posto non faceva caldo, pur essendo piena estate.

"No, in realtà no...allora va bene, grazie."

Rispose, abbozzando un sorrisetto.

Lorenzo gli sorrise di rimando e sollevò una mano dal tavolo, piegando il gomito.

"Come ti stavo dicendo prima, questo è un luogo molto speciale. Qui è sufficiente desiderare qualsiasi cosa, come un piatto di pasta ai frutti di mare o una cioccolata fumante e..."

Schioccò le dita ed in un istante due tazze piene di cioccolata calda comparvero davanti a loro.

Arthur, preso alla sprovvista, sobbalzò e tradì un acuto versetto di sorpresa. Ma com'era possibile?

"E queste da dove sono uscite?"

Lorenzo scrollò le spalle, sorridendo sornione.

"Da ovunque e da nessuna parte. È un desiderio."

Arthur si strofinò gli occhi con le mani per accertarsi di non avere le traveggole e quando li riaprì le tazze erano ancora lì. C'era una cosa, invece, che era scomparsa.

"E il piatto, quello...quello con i gusci, invece, dov'è finito?"

Mormorò, un po' incuriosito e un po' stupito come un bambino davanti al trucco di un mago, gesticolando verso lo spazio vuoto.

Lorenzo ridacchiò, facendo di nuovo spallucce.

"Ovunque e da nessuna parte. Perché, li rivuoi per caso?"

Domandò con un pizzico di ironia.

Arthur scosse il capo rapidamente, accennando una timida risatina.

"No, macché. È solo strano, per me."

Rispose a voce bassa.

Lorenzo annuì, comprensivo ed incoraggiante.

"Lo so, è normale. Ma tra poco ti sarà tutto più chiaro."

Gli avvicinò una delle due tazze.

"Bevi, è buona."

Così dicendo prese l'altra tazza, se la portò alle labbra e mandò giù un bel sorso -non riuscì a trattenere un sospiro d'approvazione quando sentì il gusto dolce ed intenso del cioccolato avvolgergli il palato- per dimostrare ad Arthur che poteva farlo a sua volta, che non correva rischi.

Arthur, un po' titubante, sollevò la tazza ed assaggiò un piccolo sorso, giusto per provare. Subito avvertì una piccola onda calda -non così tanto da scottare, come spesso accadeva con quel tipo di bevanda, anzi la temperatura era perfetta- e morbida accarezzargli la lingua, e il sapore, che lo colpì subito dopo, era qualcosa di meraviglioso: né troppo amaro, né troppo dolce, proprio come piaceva a lui, anche quello semplicemente perfetto. Ne bevve un secondo sorso, allora, decisamente più generoso del primo, e provò una sensazione di serenità che raramente aveva conosciuto.

"È buona sì! Credo...anzi no, sono sicuro, di non averne mai bevuta una così buona!"

Mormorò, entusiasta e sognante.

Lorenzo sollevò l'angolo delle labbra, soddisfatto, e gli rivolse uno sguardo affettuosamente furbo.

"Non dico mica bugie, io."

Replicò, affabile, per poi mandare giù un altro sorso di cioccolata. La reazione di Arthur, così spontanea e tenera a vedersi, era perfettamente naturale: si trovavano pur sempre in un pezzo di Paradiso e lì tutto era perfetto, tutto era fatto per piacere il più possibile e per rendere felici.

Arthur soffiò una piccola risata, poi bevve un altro po' di cioccolata e posò la tazza sul tavolo.

"Allora, dato che non ne dici, mi spieghi perché sei così gentile con me?"

Domandò, gli occhi fissi sulla tazza che teneva avvolta tra le mani.

Lorenzo, mandata giù la cioccolata che stava bevendo, ripose la propria tazza accanto all'altra e rivolse ad Arthur un sorriso appena accennato, ma sincero.

"E perché mai non dovrei esserlo, scusa?"

Replicò pacato, con gli occhi attenti posati su di lui, ma senza invaderlo.

Arthur sospirò pesantemente e strinse con un po' più di forza la tazza tra le mani.

"Perché sto dormendo con tuo marito. È per questo che hai voluto incontrarmi, no?"

Non gli diede il tempo di rispondere, tanto era sicuro che il motivo fosse quello, non avevano altri punti di contatto in comune -anche se doveva ancora capire come avesse fatto Lorenzo a sapere di lui e Riccardo, non essendo presente alla cerimonia-, e proseguì con la propria confessione.

"E ci ho anche fatto un pensierino, sinceramente. Ci ho provato con lui, insomma. Un po'."

Rivelò a voce bassa, quasi mugugnando, pronunciando le parole a scatti per l'imbarazzo. Sentiva di star avvampando e gli era molto difficile guardare Lorenzo in volto, ma si sforzò comunque di farlo e sollevò gli occhi verso di lui.

"Questo però prima che capissi che era sposato, eh, te lo giuro! E comunque non l'ho nemmeno sfiorato, non mi permetterei mai..."

Si affrettò ad aggiungere, concitato.

Lorenzo ridacchiò morbidamente, interrompendo quel fiume di giustificazioni assolutamente non necessarie. Apprezzava la sincerità, in ogni caso.

"Arthur, hai ragione, ti ho voluto incontrare per parlare di Riccardo, ma guarda che non sono geloso. Anzi, mi fa piacere."

Replicò, per poi curvare le labbra in un affabile sorriso leggero. Non gli stava mentendo e non stava mentendo nemmeno a se stesso, tutt'altro: avrebbe voluto essere al suo posto, quello sì, e Dio solo sapeva quanto, ma la gelosia sarebbe stata un sentimento incoerente, dal proprio punto di vista.

Arthur, che tutto si aspettava fuorché una reazione così serafica, sgranò gli occhi, sorpreso. In effetti anche Riccardo gli aveva detto che il marito non sarebbe stato geloso se avessero condiviso il letto, ma com'era possibile? Forse erano una coppia aperta? Ma no, Riccardo non gli sembrava il tipo da fare certe cose, pur conoscendolo da poco, e Lorenzo, anche se lo conosceva da ancor meno, gli sembrava una persona seria e, soprattutto, innamorata del proprio compagno -se n'era accorto dal modo in cui gli brillavano gli occhi quando parlava di lui-, per cui quella risposta era ancora più destabilizzante.

"Non...non sei geloso?"

Lorenzo scosse lentamente il capo, sorridendo.

"No, neanche un po'. E non è perché non lo amo più, anzi...so che suona stucchevole, ma ogni giorno lo amo più del precedente."

Rispose, per poi lasciarsi andare ad una risatina malinconica.

Arthur, a cui quella risposta non sembrava affatto stucchevole, ma piena di sentimento, si sentì ancora più confuso, se possibile.

"Ma allora..."

Lorenzo si abbandonò contro lo schienale della sedia e liberò un lungo sospiro, che bastò ad interrompere Arthur.

"Ti ricordi cosa ti ho detto prima su questo posto?"

Arthur annuì con poca incertezza, quel concetto gli era rimasto impresso anche se non l'aveva capito del tutto.

"Che è a metà tra il sonno e...e l'aldilà."

Rispose, a voce bassa.

Lorenzo sollevò l'angolo delle labbra in un sorriso appena accennato.

"Se c'è una cosa che ho capito in tanti anni di lavoro in ospedale è che non c'è mai un modo delicato per dirlo, quindi diciamo le cose cone stanno: se tu stai dormendo..."
Lo indicò con un pigro cenno della mano poggiata sul tavolo, poi indicò se stesso.

"...io sono morto."

Concluse, schietto e pacato, senza cercare di indorare la pillola attraverso metafore o strani giri di parole, tanto non sarebbe servito a cambiare la sostanza della realtà.

Arthur, in quel preciso istante, si sentì bloccare il respiro a metà strada tra polmoni e naso, e dovette compiere un piccolo sforzo per riprendere a respirare regolarmente; dopo quel breve istante che gli parve infinito, gli sembrò che l'aria avesse un altro sapore. Per un po', una manciata di secondi, non riuscì a parlare e si limitò soltanto a fissare l'uomo che aveva accanto: com'era possibile che fosse morto? Lui lo vedeva perfettamente, gli sembrava in ottima salute, l'aveva perfino toccato e aveva sentito distintamente la massa ed il calore del suo corpo, non poteva essere morto! Poi, però, ricordò di non trovarsi nel mondo reale -in quello, stava beatamente disteso a letto-, ma in un mondo in cui tazze di cioccolata calda fumante -e chissà cos'altro- potevano apparire a piacimento ed allora gli fu tutto più chiaro: Lorenzo l'aveva incontrato proprio lì perché era l'unico modo che aveva per stabilire un contatto con lui, per questo non era presente alla cerimonia, ma al tempo stesso sapeva tutto di lui e Riccardo. Forse un altro, al proprio posto, si sarebbe sentito sollevato, perfino felice, di scoprire di avere campo libero con chi aveva adocchiato, ma lui avvertì soltanto un profondo senso di tristezza al centro del petto, pesante come un macigno. Non riusciva nemmeno ad immaginare quanto dovesse essere doloroso separarsi da chi si amava.

"Lorenzo, io...mi dispiace davvero tanto. Scusami, non so bene cosa dire..."

Mormorò, costernato.

Lorenzo scrollò le spalle e gli rivolse un sorriso morbido, gentile: vedeva in Arthur una sincera partecipazione al loro dolore, nei suoi occhi spaesati non c'era traccia di trionfo e nella sua voce non c'era circostanza o falsità. Più lo conosceva e più gli sembrava una brava persona.

"Non devi dire niente, è una cosa che è successa e basta. Una polmonite fulminante, quasi due anni fa. Poco più di due settimane di ricovero."

Spiegò, interpretando quella che immaginava potesse essere una sua curiosità, come se stesse parlando di una questione di poco conto...ed in effetti per lui lo era. Sin da quando aveva capito che sarebbe morto gli era sembrato ben poco rilevante il come, dato che comunque non avrebbe cambiato la situazione -Riccardo sarebbe rimasto solo, questa era la cosa peggiore-, e da quando era morto aveva smesso del tutto di darci peso.

"E da quando è successo, io e Riccardo ci vediamo qui."

Aggiunse con più dolcezza, indicando lo spazio intorno a loro con un cenno degli occhi.

Arthur si morse un labbro e chiuse gli occhi, per cercare di metabolizzare al meglio quelle parole. Erano bastate poco più di due settimane per far spegnere una luce e l'altra luce che brillava insieme ad essa: sembrava tremendamente ingiusto. Quando riaprì gli occhi scoprì che erano umidi, e quando lasciò andare il labbro per parlare, lo sentì leggermente indolenzito.

"Ma a maggior ragione, se continuate a vedervi qui, come fai a non essere geloso?"

Chiese a voce bassa, confuso.

Lorenzo sorrise amaramente ed abbassò il capo, volgendo lo sguardo verso le proprie mani intrecciate sul tavolo.

"Perché questo posto non è la soluzione giusta."

Disse con voce bassa, ma chiara, seppur piena di dolore: lo stava dicendo più a se stesso che all'altro. Liberò un profondo sospiro, poi, e tornò a guardare Arthur, le labbra ricurve in una smorfia malinconica che poteva vagamente ricordare un sorriso, ma molto alla lontana.

"Vedi, Arthur, io non ricordo se morire fa male o meno, ma ricordo perfettamente il dolore di Riccardo ogni volta che mi guardava e si chiedeva per quante volte ancora avrebbe incrociato il mio sguardo, che mi accarezzava con la paura di rompermi, lui che ha il tocco più delicato del mondo, che mi baciava domandandosi se quello sarebbe stato il nostro bacio d'addio. Quel dolore che cercava di nascondere dietro ad un sorriso, ad un'allegria che non aveva, ma che fingeva di avere affinché non soffrissi anch'io, fino a quando non ha più avuto bisogno né di nascondersi, né di fingere."

Fu costretto a fermarsi. La voce, già incrinata, cedette sotto al peso di un singhiozzo, poi un altro ed un altro ancora, e sentì il bisogno di riprendere fiato a grandi boccate.
Arthur rispettò il suo dolore e non disse nulla, attese in silenzio che Lorenzo si sentisse di andare avanti, preferendo fargli sentire la propria vicinanza con una timida, ma calorosa, stretta di mano.

Lorenzo, a quel contatto, avvertì di aver trovato un piccolo appiglio in quel fiume che era stato trattenuto troppo a lungo da una diga e che ora straripava impetuoso, e si sentì meno solo. Dopo chissà quanto tempo, prese un'ultima, grande, boccata d'aria e riuscì a guardare di nuovo verso Arthur e gli rivolse un minuscolo, ma sincero, sorriso.

"Non volevo che soffrisse ancora, così quando ho scoperto che c'era un modo per continuare ad amarci, ho pensato che…che potesse funzionare."

Sospirò, ed il proprio sorriso si aprì un po' di più.

"E ha funzionato, sai? Dicono che la serenità sia più importante della felicità, ma noi avevamo entrambe. Ci sembrava di vivere la nostra vita migliore, e non perché in questo regno magico..."

Sollevò il capo per abbracciare con gli occhi lo spazio intorno a sé.

"...potevamo fare tutto ciò che volevamo, perfino andare sulla Luna, anche se questo non l'abbiamo mai fatto, ma perché eravamo sicuri che nulla avrebbe mai potuto fermare il nostro amore, nemmeno la morte. Ci sentivamo invincibili, in un certo senso."

Spiegò con un tono che oscillava tra il sognante ed il malinconico, poi si strinse nelle spalle e tornò a guardare Arthur, mesto.

"Ma non lo siamo. Da qualche tempo mi sono reso conto che continuare così va bene per me, ma non per lui. La prima cosa che gli ho fatto promettere da quando ci siamo rivisti, è che sarebbe andato avanti con la sua vita, ma...ma sono mesi che è fermo. Continua a lavorare, certo, e a frequentare gli amici ed i colleghi di sempre, ma si rifiuta di conoscere nuove persone a meno che non è completamente certo che non abbiano il minimo interesse nei suoi confronti, e quasi ogni momento libero che ha lo usa, lo spreca, per addormentarsi e venire da me, ed è per questo che, poche ore fa, gli ho detto di non farlo più."

Sospirò, mesto.

"Non fraintendermi, io sono l'uomo più felice del mondo quando posso abbracciarlo e sentire il suo profumo di lavanda che mi investe tutto, ma non è vita, questa, non per lui: il sonno non è vita, e un vivo non può aspettare un morto. Riccardo non l'ha ancora capito, adesso infatti sta facendo di tutto per cercare di entrare qui ed incontrarmi, lo sento e non sai quant'è difficile per me tenerlo fuori, ma stavolta devo fare la scelta giusta. Per lui."

Mormorò, con la voce che si spezzava sotto il peso del dolore e della colpa: se non avesse preso quella decisione per entrambi, se ci avesse riflettuto più a lungo, ad oggi probabilmente Riccardo si sarebbe costruito una nuova normalità, una normalità adatta a lui.

Strinse la mano di Arthur, con delicatezza.

"Ed è qui che entri in gioco tu."

Disse, sorridendogli speranzoso.

Arthur aveva ascoltato tutto il racconto di Lorenzo in silenzio, ma ogni parola era stata come un pugno in pancia e non aveva potuto evitare che gli si inumidissero gli occhi. Si era costretto a non piangere, però, perché sentiva di non averne il diritto: amare una persona ed avere la certezza di essere il suo male doveva essere devastante in un modo che non poteva nemmeno immaginare. Avrebbe voluto fare qualcosa per loro, ma sapeva di non poter fare nulla, per cui fu molto sorpreso quando Lorenzo gli parlò direttamente.

"Io? Ma...che c'entro, io? Che posso fare?"

Domandò, ad occhi sgranati.

Lorenzo puntò gli occhi nei suoi, più speranzoso e determinato che mai.

"Non te ne sei accorto, ma oggi hai fatto un piccolo miracolo. Per la prima volta dopo mesi e mesi, ho visto Riccardo felice e sereno con qualcuno che non fossi io. Ha fatto un passo in avanti, che può sembrare poco, ma credimi, è tantissimo e non ti ringrazierò mai abbastanza per averlo fatto sorridere. È questo...questo che puoi fare."

Replicò, accorato.

Arthur sbatté le palpebre un paio di volte, non riuscendo a credere alle proprie orecchie. Aveva davvero capito bene?

"Scusa se sono diretto, ma...mi stai chiedendo di mettermi con lui?"

Chiese, stupito. Capiva le motivazioni di Lorenzo, ed erano nobili, ma un conto era augurarsi che Riccardo riprendesse a vivere una vita normale, ed un altro, completamente diverso, era spingerlo volutamente tra le sue braccia.

Lorenzo abbozzò un sorriso e si strinse nelle spalle.

"Non ti sto chiedendo niente, non voglio di certo obbligarti, ma a te lui piace e anche a lui piaci tu: io lo conosco bene e me ne sono accorto, ti guarda nel modo in cui guardava me quando ci conoscevamo solamente di vista, ha solo paura di scoprire che nel suo cuore può esserci spazio per un'altra persona, quindi volevo solo spiegarti come stavano le cose, così che non scambiassi la sua paura per ostilità. Ovviamente la decisione spetta a te, puoi uscire da quella porta..."

Indicò l'ingresso del locale con un cenno del capo.

"...svegliarti e riprendere la tua vita dimenticandoti totalmente della giornata di oggi, oppure puoi...puoi provarci, anche se ti avviso che ti ci vorrà molta pazienza."
Soffiò una risatina morbida appena accennata, poi tacque e rimase in silenzio a guardare Arthur, in attesa di una sua risposta. Sentiva il proprio cuore, anche se l'organo fisico mancava, battere all'impazzata.

Arthur rimase di nuovo in silenzio, completamente spiazzato da quella raffica di amore puro che l'aveva travolto come una tempesta.

"E a te sta bene tutto questo? Davvero?"

Domandò, ancora con una punta di incredulità nella voce.

Lorenzo annuì lentamente, l'angolo delle labbra sollevato in un sorriso. Sì, gli stava bene, perché l'unica cosa che contava per lui era che Riccardo vivesse e che non fosse più solo.

"Io sono qui e ci sarò sempre per lui, ma devo essere io quello che aspetta, non lui."

Arthur si schiarì la voce, e già sentiva gli occhi inumidirsi di nuovo per quella meravigliosa dichiarazione. Lorenzo aveva davvero una generosità rara, gli sarebbe piaciuto incontrarlo prima, magari insieme a Riccardo.

"Certo che è parecchio da digerire...

Replicò, abbozzando un sorrisetto.

"Avrei bisogno di un attimo per...per ripensare a tutto quanto..."

Continuò, facendo un vago cenno della mano verso la propria testa.

"E di qualcosa da bere, decisamente!"

Concluse, soffiando una risatina.

Lorenzo annuì rapidamente, lasciandogli al contempo andare la mano. Il fatto che Arthur lo avesse ascoltato senza fuggire a gambe levate era senz'altro positivo, ed il suo bisogno di prendersi un attimo per metabolizzare tutte quelle novità era perfettamente legittimo, ma non poteva negare di sentire un forte timore dentro di sé. Aveva giocato tutte le proprie carte, ormai, e la mano finale era di Arthur.

"Certo, certo, hai ragione. Beh, ormai sai come si fa, no?"

Rispose, con un sorriso incoraggiante.

Arthur dovette pensarci per un secondo, poi capì cosa intendeva dire Lorenzo e fece un cenno d'assenso con il capo. Come aveva visto fare a lui, schioccò le dita pensando intensamente a cosa desiderava ed ecco che in un battito di ciglia si vide apparire un bicchiere di whiskey davanti. Sussultò leggermente, come colto alla sprovvista pur essendo perfettamente consapevole di cosa sarebbe accaduto, e poi ridacchiò.

"Mi sa che dovrò farci l'abitudine..."

Mormorò, per poi afferrare il bicchiere e mandare giù il liquore in un solo sorso; lo rimise giù, buttando fuori un pesante sospiro e chiuse gli occhi: scoprire che esisteva un aldilà dopo la morte, un Paradiso -e quindi presumibilmente anche un Inferno- era stato sconvolgente, ma relativamente facile da accettare, forse perché non poteva fare nulla a riguardo, l'esistenza andava così e basta, quindi prima se ne rendeva conto e meglio era, ma nel giro di poco tempo -o forse di più, non aveva idea di quanto ne fosse effettivamente trascorso nel mondo reale, rispetto a quello passato lì, nel regno magico- aveva anche conosciuto come stavano le cose con Riccardo, il nome di quel dolore che si portava dentro, e questo era molto più difficile da metabolizzare, forse perché gli era stato espressamente detto di poter giocare un ruolo importante in merito. A lui Riccardo piaceva, ormai l'aveva capito, ma proprio per questo non voleva forzarlo, non voleva costringerlo a fare una scelta, se anche la loro ipotetica relazione fosse andata in porto. Si portò una mano alla bocca e se la strofinò, pensieroso.

"Ammettendo anche che le cose tra me e Riccardo...vadano bene, diciamo, cosa succederà quando saremo...insomma quando anche io e lui saremo qui? Riccardo dovrà scegliere con chi stare? Perché se l'ho capito bene, vorrà stare con te, com'è giusto, ma al tempo stesso non vorrebbe fare del male a me e se è così, allora, non voglio dargli un motivo per sentirsi in colpa."

Lorenzo liberò un profondo respiro, che neanche si era accorto di aver trattenuto mentre Arthur se ne stava in silenzio a pensare, e sorrise morbidamente: Arthur aveva pensato immediatamente a Riccardo, al dolore che quell'ipotetica scelta avrebbe potuto causargli -la stessa reazione di Riccardo, anche se a parti inverse- e non aveva minimamente pensato a sé stesso, subito pronto a farsi da parte per consentire a lui di essere felice. Era davvero una persona speciale.

"No, no, nessuna scelta, sta' tranquillo. Qui l'amore è assoluto, più libero di quanto si possa pensare...e credimi, noi tre non saremmo i primi a decidere di stare insieme."
Concluse, soffiando una risatina.

Arthur sollevò le sopracciglia in un'espressione sorpresa, poi ridacchiò.

"Ah, questa sì che è bella. E chi se lo aspettava che il Paradiso fosse pieno di ménage a tròis..."

Commentò scherzoso, facendo ridacchiare Lorenzo. Tornò più serio, poi, e si schiarì la voce.

"Comunque...non è che avresti qualche consiglio da darmi? Con Riccardo, dico, per conquistare la sua fiducia. Tu sei quello che lo conosce meglio..."

Mormorò, un po' impacciato.

Lorenzo sorrise dolcemente, ma scosse appena il capo.

"Di consigli potrei dartene a migliaia, ma sarebbe come barare, non trovi? E poi non ti servono, basta che tu sia te stesso: è così che l'hai fatto ridere."

Rispose, gentile.

"Una richiesta però te la voglio fare, ma parlo da medico: sei stato molto delicato con la sua protesi, ma dovresti anche lavargli la gamba con un panno umido e stenderci un po' di talco, così non farà irritazione. Riccardo di solito se lo fa da solo, comunque, quindi non devi farlo per forza, se non ti va."

Continuò, pacato. Si sentiva più sereno a sapere che qualcuno, qualcun altro oltre a lui almeno, si sarebbe preso cura del suo amato Riccardo.

Arthur sospirò e annuì, abbozzando un sorriso. In effetti, non sarebbe stato corretto farsi passare dei trucchi per conquistare Riccardo da chi ci era già riuscito, sarebbe stato come fingersi qualcun altro e non sarebbe stato giusto. Per il resto annuì più deciso.

"Oh, d'accordo...non ci avevo pensato, scusa. Provvederò, ma...ma non credo di avere il talco, in camera."

Replicò, dispiaciuto.

Lorenzo sorrise, sollevando l'angolo delle labbra.

"Adesso ce l'hai. È nel mobiletto del bagno accanto allo specchio, secondo ripiano."

Disse, facendo un occhiolino.

Arthur sgranò gli occhi, colpito da un momento di realizzazione: se Lorenzo poteva in qualche modo influenzare anche ciò che avveniva nel mondo reale, ed evidentemente poteva, allora doveva essere stato lui a fargli rotolare il bicchiere in giardino, ore prima, e non quell'alito di vento che a stento si percepiva. Accennò una risatina ed annuì.

"Certo che sei un tipo che pensi a tutto, eh?"

Lorenzo ridacchiò di rimando, scrollando le spalle in un gesto di modestia.

"Ah, dai, questo è il minimo."

Si alzò in piedi, facendo scivolare la sedia sul pavimento che tuttavia non produsse alcun rumore.

"Adesso è meglio che tu vada, ti ho già trattenuto abbastanza. Vieni, ti accompagno."

Disse gentile, accennando con il capo alla porta.

Arthur si alzò di scatto, e la propria sedia invece produsse un suono basso e fastidioso nello sfregare contro il pavimento, e lo seguì verso la porta del locale, la stessa da cui era entrato. Prima di attraversarla, però, si fermò e si voltò a guardarlo.

"Allora...ci salutiamo qui. Ci rivedremo?"

Domandò, riferendosi chiaramente ad incontri come quelli, durante la notte, in cui immaginava anche che ci sarebbe stato Riccardo.

Lorenzo sospirò pesantemente e scosse il capo, rivolgendogli un sorriso malinconico.

"Questo è sicuramente un arrivederci e non un addio, ma per un po' è meglio che mi faccia da parte, che vi lasci i vostri spazi. Tu e Riccardo non avete bisogno di una specie di fantasma impiccione, almeno per adesso...poi, chissà."

Disse con mesta ironia, per poi scollare le spalle.

Arthur accennò un sorriso con cui tentò di nascondere gli occhi lucidi e, per istinto, si gettò ad abbracciarlo.

"Stammi bene, Lorenzo, e abbi cura di te. Mi ha fatto davvero piacere conoscerti."

Mormorò, stringendolo forte.

Lorenzo, colto alla sprovvista, impiegò qualche secondo a reagire, ma poi ricambiò l'abbraccio e sorrise, luminoso e commosso.

"Anch'io sono felice di averti conosciuto. Abbi cura di te stesso e di Riccardo, per me."

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Capitolo 53
*** Epilogo – Eternamente ora (parte 10) ***


Arthur si svegliò all'improvviso, ma non di soprassalto. Aprì semplicemente gli occhi, come se li avesse chiusi solo per un istante, e all'improvviso il bar intorno a lui era scomparso, lasciando il posto alla stanza da letto immersa nella fioca luce della notte. In bocca aveva ancora il sapore forte del whiskey e il retrogusto dolce della cioccolata calda. Sentiva a poca distanza da lui il calore del corpo di Riccardo ed il materasso che si curvava leggermente sotto al suo peso, e si voltò a guardarlo, ruotando il capo quanto bastava: Riccardo gli dava le spalle, quindi non poteva vederlo in viso, e se ne stava tutto rannicchiato su se stesso, come dimostravano la schiena ricurva, le spalle portate in avanti e le gambe piegate, coperte dal lenzuolo leggero; probabilmente stava anche abbracciando uno dei cuscini, ma Arthur non riuscì a capirlo.

Gli sembrava sereno, vedeva il suo busto che si sollevava ed abbassava lentamente, mosso da un respiro regolare, ma ripensò alle parole di Lorenzo e si chiese se stesse continuando a provare ad entrare nel regno magico o se, invece, si fosse semplicemente rassegnato. Provò una fitta al petto a vederlo così, fragile e solo, ed allungò un braccio per fargli una carezza tra i capelli, mosso dall'istinto, ma la ragione gli impose di fermare il proprio gesto a mezz'aria e poi di ritrarre la mano, perché sicuramente Riccardo non avrebbe gradito o addirittura si sarebbe spaventato. Meglio evitare.

Buttò fuori un po' d'aria in un sospiro leggero e si trascinò lentamente a sedere, poi si alzò e, procedendo a tentoni nella stanza che non conosceva bene, ma riuscendo comunque a non fare rumore, si diresse verso il frigo nella zona giorno e trangugiò un generoso bicchiere d'acqua.

Quando tornò in camera, facendo tutto il percorso a ritroso con un po' di sicurezza in più nei passi, ebbe modo di vedere il lato di Riccardo che prima gli era nascosto e constatò che, come aveva immaginato, dormiva abbracciato ad un cuscino: in un altro momento gli sarebbe sembrato tenero, così simile ad un koala, ma sapeva che quel cuscino, per Riccardo, era il pallido sostituto di qualcuno che non avrebbe potuto riabbracciare per chissà quanto tempo, e non c'era nulla di tenero, in questo. 'Ti prego, ripensaci...', sussurrò in cuor proprio, pur non essendo sicuro che quella richiesta potesse arrivare a Lorenzo.

Ebbe il tempo di muovere appena un altro paio di passi e due piccoli puntini che rilucevano nella notte come due stelle, si puntarono su di lui con una certa insistenza. Sussultò, dato che non si aspettava che Riccardo fosse sveglio.

"Scusami, non volevo svegliarti..."

Rispose piano, a voce bassa.

Riccardo buttò fuori un pesante sospiro. Si era addormentato facilmente, non tanto per la stanchezza quanto per il desiderio di parlare con Lorenzo, ma era già sveglio da un po', forse poco meno di un'ora. Per la prima volta si era ritrovato nel regno magico da solo, in uno spazio che era quello di casa loro, ma vuoto. Di solito c'era sempre Lorenzo ad aspettarlo.

Aveva preso a cercarlo, allora, girando in ogni stanza della casa gridando il suo nome con quanto fiato aveva in gola, e poi si era spostato nei luoghi che avevano visitato insieme -la terrazza del Pincio, le spiagge assolate, la distesa di neve da cui amavano vedere l'aurora boreale e tanti altri- pensando, sperando, che Lorenzo potesse essere lì da qualche parte-senza riflettere, o meglio senza voler riflettere, sul fatto che il regno magico non era come un palazzo dalle infinite stanze, ma era unico ed era solo la sua forma a mutare-, l'aveva cercato ovunque, ma non l'aveva trovato. E non l'aveva trovato perché Lorenzo, evidentemente, non voleva farsi trovare. L'aveva lasciato definitivamente, e in un modo peggiore di quanto avesse fatto morendo.

"Tranquillo, non stavo dormendo..."

Mormorò con voce acquosa, tirando poi su col naso.

Arthur, così, si accorse che Riccardo stava piangendo -e chissà da quanto tempo- e sentì il cuore stringersi in una morsa. Non sapeva bene cosa fare o cosa dire, un dolore del genere era inconsolabile, e lui, nonostante tutta la fiducia che Lorenzo gli aveva dato, non aveva il potere di farlo sparire con uno schiocco di dita. Sospirò e si portò una mano sul collo, titubante.

"Ti va di dirmi che hai?"

Chiese a voce bassa, pur conoscendo perfettamente la risposta. Gli sembrava indelicato dirgli che sapeva già tutto, era meglio lasciargli la possibilità di scegliere se sfogarsi o meno.

Riccardo curvò le labbra in un sorriso amaro, che sparì immediatamente, e scosse lieve il capo. Come faceva a raccontare una cosa del genere ad un tizio che conosceva appena? Non l'aveva raccontata nemmeno ai suoi amici più stretti, figurarsi se aveva voglia di farsi credere pazzo da lui.

"Non ho niente. Vorrei solo dormire."

Mugugnò, sbrigativo.
Arthur non si aspettava una reazione diversa, anche se ci aveva sperato, ma non gliene faceva una colpa e non poteva fare altro che rispettarla.

"D'accordo, allora...posso fare qualcosa per te? Ti faccio arrivare una camomilla, magari, a me aiuta sempre quando..."

Riccardo lo interruppe con un verso di stizza, quasi un ringhio. Perché Arthur era così gentile con lui? Perché non lo lasciava perdere, perché non capiva che non valeva la pena stargli dietro?

"No, non c'è niente che puoi fare per me! Lasciami in pace!"

Sbottò, agitando una mano in aria con un gesto secco che sottolineava le proprie parole. Se ne pentì praticamente subito, Arthur dopotutto non gli aveva fatto nulla di male, e chiuse gli occhi per un istante, mordendosi un labbro. Forse, però, così non avrebbe più perso tempo con lui.

Arthur lasciò che quella tempesta -che poi si era già placata- lo investisse, ma non ne fu colpito. Sapeva che la rabbia a volte non era altro che l'altra faccia del dolore e di dolore Riccardo ne aveva tanto; era anche quello un modo per sfogarsi.

"Hai ragione, scusami. Faccio come vuoi tu, me ne vado sul divano...così non ti disturbo."

Replicò con voce pacata, mettendo su un sorriso morbido per dimostrargli che non se l'era presa, che non si era offeso e che, se voleva, era lì per lui.

Riccardo lo guardò allarmato, sgranando gli occhi.

"No, no, ma che dici? Questo è il tuo letto!"

Sospirò pesantemente, dispiaciuto.

"Torna qui, non...non mi dai assolutamente fastidio, ci mancherebbe."

Aggiunse, accennando un piccolo sorriso.

Arthur, che in realtà non si era mosso nemmeno di un passo perché non aveva avuto il tempo di farlo, raggiunse in fretta il lato libero del letto, ma esitò ancora per qualche istante.

"Sicuro?"

Domandò, gentile.

Riccardo annuì con convinzione, e a dimostrazione di ciò che diceva scostò leggermente le lenzuola.

"Sì, certo. Scusami, non volevo trattarti così. Non te lo meriti nemmeno."

Rispose a bassa voce, puntando gli occhi mesti su di lui.

Arthur sorrise, rassicurante, e si stese accanto a lui, sistemandosi su un fianco per vederlo meglio.

"Tranquillo, lo capisco, è stata una giornata stressante."

Replicò, quasi sussurrando.

Riccardo sollevò l'angolo delle labbra in un sorriso amaro: stressante non era esattamente la parola che avrebbe usato per descrivere quella giornata, che per lui era stata devastante, ma se la sarebbe fatta andare bene.

"Non immagini quanto."

Ribatté, con un peso in gola.

Arthur si morse un labbro, indeciso sul da farsi: se da un lato non voleva costringere Riccardo a toccare un argomento per lui doloroso, dall'altro sapeva -e lo sapeva perché gliel'aveva fatto capire Lorenzo, che sicuramente lo conosceva meglio di chiunque altro- che non si sarebbe mai sfogato di sua spontanea volontà, e tenersi dentro tutto quel dolore non gli faceva di certo bene, perché avrebbe finito con il divorarlo.

"In realtà lo so. Ho incontrato Lorenzo, prima."

Ribatté, con voce bassa ma chiara, lasciando cadere le parole nel silenzio.

Riccardo non poteva credere alle proprie orecchie, e non perché pensava che Arthur gli stesse mentendo -non avrebbe avuto motivo di farlo e in ogni caso non avrebbe potuto sapere il nome di Lorenzo se non l’aveva effettivamente incontrato-, ma perché ciò voleva dire che mentre lui era impegnato a cercarlo disperatamente, Lorenzo stava parlando con qualcun altro, situazione che non era mai capitata fino a quel momento. Cosa si erano detti? Perché Lorenzo aveva scelto di rivelarsi proprio ad Arthur? Forse... forse era di lui che parlava quando, qualche ora prima, gli aveva fatto tutto quell'assurdo discorso sull'aprire il cuore ad un'altra persona? Ma allora cosa ci aveva visto in lui?

"Ah..."

Riuscì soltanto a dire, mentre le domande gli si affollavano in testa e gli morivano in gola.

Arthur abbozzò un sorriso che di allegro aveva poco, era più dispiaciuto e colpevole, dal momento che era conscio di avere, proprio malgrado, un ruolo all'interno di quella storia.

"Sia chiaro, non voglio costringerti a dire o fare qualcosa che non vuoi. Te l'ho detto solo perché così, almeno, puoi giocare a carte scoperte...e sai che c'è qualcuno che ti può ascoltare, se dovessi averne bisogno. Ecco tutto."

Replicò con voce bassa e comprensiva.

Riccardo serrò la mascella, un riflesso istintivo che mostrava, anche fisicamente, quanto poco fosse disposto ad aprirsi. C'era una cosa, però, che gli premeva particolarmente sapere, che aveva assoluto bisogno di conoscere altrimenti non sarebbe stato tranquillo, e così rilassò un poco i muscoli del viso, prese un respiro più o meno profondo e parlò.

"Come sta, lui?"

Chiese con un filo di voce, ma che suonò forte e chiara nella stanza silenziosa. Sapeva che quello strappo, per quanto fosse stato deciso da Lorenzo stesso, faceva male anche a lui, e dunque non poteva fare a meno di essere preoccupato.

Arthur si morse leggermente il labbro e si grattò distrattamente una guancia prima di rispondere.

"Beh, se ti dicessi che sta bene, che l'ho trovato bene insomma, ti mentirei. A dire il vero all'inizio del nostro incontro si è mostrato molto sicuro di sé, spiritoso, quasi baldanzoso se mi concedi il termine, ma poi..."

Buttò fuori un lungo soffio d'aria.

"...poi il muro è caduto giù, abbattuto da un'ondata di lacrime, ed è venuta fuori tutta la sua disperazione. Mi dispiace davvero tanto."

Mormorò, mesto. Non c'era modo di indorare la pillola e certamente non gli andava di mentirgli, non su una questione così importante e delicata.

Riccardo curvò le labbra in un sorriso amaro sotto gli occhi lucidi e spenti. Si sentiva impotente ed inutile. Lorenzo era lacerato dal dolore e lui non poteva aiutarlo, non poteva farsi carico di quel buio e portarlo dentro di sé perché Lorenzo stesso non glielo permetteva. Ma perché aveva deciso di dover per forza condannare entrambi ad una vita di infelicità? Se Lorenzo l'avesse lasciato perché non lo amava più, lui l'avrebbe accettato, avrebbe preferito mille volte che fosse sereno e felice anche senza di lui, perfino con un altro al suo fianco, ma così...come poteva farsene una ragione se entrambi sanguinavano e se era così facile richiudere quella ferita?

"Questa cosa...è tipica di Lorenzo, sai? Mostrare la corazza, non permettere a nessuno, o quasi, di vederci dentro...ma non lo fa per darsi delle arie o perché si vergogna di ciò che prova, no. Lo fa per mettere a proprio agio chi ha davanti: attraverso quella corazza, proprio perché dentro c'è tanto, tantissimo, e lui ne è fiero, può diventare esattamente ciò di cui l'altra persona ha bisogno, ed è bravissimo a capire il cosa ed il come."

Spiegò a voce bassa e leggera, come se stesse raccontando un sogno appena fatto, gli occhi bassi fissi verso il lembo di lenzuolo che stringeva nella mano. Buttò fuori un pesante sospiro.

"Quello che non riesco a capire è perché abbia deciso di lasciarmi. Ci penso e ci ripenso e davvero, non me lo spiego in nessun modo!"

Aggiunse, con tono stanco e rassegnato. Non stava parlando della morte, ovviamente: quella era stata un incidente di percorso, un sasso sulla pista che fa sbandare fatalmente il ciclista oltre il bordo battuto, in un angolo, inerte o agonizzante, e non era colpa sua. Ma quelle parole, invece, le aveva pronunciate lui, non c'entravano nulla con incidenti ed imprevisti, facevano parte del percorso.

Arthur accennò un sorriso, piccolo ma dolce e comprensivo.

"Perché chi ama lascia andare."

Replicò a voce bassa, poco più di un soffio, lasciando che le parole fluissero dalle proprie labbra senza pensarci.

"E lui ti ama tantissimo, Riccardo, di questo non devi mai dubitare, capito? È solo che...che si è accorto che il suo amore stava diventando una gabbia e così ha preferito restituirti la cosa più preziosa di tutte: la libertà. Non vuole altro, per te."

Aggiunse, con l'imbarazzo e l'incertezza di chi non sa bene se può dire la propria opinione, ma con la decisione di chi sa di star dicendo qualcosa di giusto.

Riccardo sospirò pesantemente: era stanco, il corpo gli implorava con ogni fibra di dormire, ma lui da un lato non ci riusciva e dall'altro non voleva, e questo non faceva altro che accrescere la stanchezza. In più aveva già affrontato quel discorso con Lorenzo, non aveva le forze per aprirlo di nuovo.

"Lorenzo vorrebbe che mi rifacessi una vita, sì...e vorrebbe che lo facessi con te."

Lo disse senza disprezzo, né entusiasmo: una semplice e piatta costatazione dell'ovvio.

"Ma tu...tu che ne pensi? Ora che conosci la storia completa, voglio dire... perché non scappi a gambe levate?"

Chiese un po' impacciato, ma sinceramente interessato di sapere cosa avesse da dire Arthur in merito a tutta la faccenda, in cui era stato coinvolto suo malgrado. Non gli sembrava giusto trattarlo come una sorta di burattino senza volontà e sentimenti a cui far fare tutto ciò che si voleva.

Arthur accennò una risatina, poi si strinse nelle spalle e sorrise morbidamente.

"E perché dovrei scappare? Io non so se Lorenzo abbia fatto bene o meno, non sono nessuno per giudicare le sue decisioni, ma penso che abbia ragione nel ritenere che hai bisogno di qualcuno che ti stia vicino e...e mi farebbe molto piacere essere quel qualcuno. Sei una persona buona e mi stai simpatico, quindi sarei davvero felice di aiutarti, in qualsiasi cosa tu abbia bisogno."

Fece una brevissima pausa, poi parlò di nuovo.

"Adesso, ad esempio, mi sembra che tu abbia bisogno di qualcuno che ti aiuti ad addormentarti..."

Aggiunse, con dolcezza. Non c'era bisogno di essere un medico per capire quanto Riccardo fosse esausto: anche senza sapere cosa stava vivendo, si vedevano chiaramente gli occhi gonfi ed arrossati di lacrime e sonno, e il viso spento dalla stanchezza.

Riccardo sospirò, scuotendo appena il capo. Era vero, era stanchissimo, più stanco di quando finiva un doppio turno in ospedale, ma aveva il terrore di chiudere gli occhi e trovare soltanto il buio ad accoglierlo, o al massimo qualche sogno sconclusionato: dormire senza Lorenzo era impensabile, oltre che insostenibile.

"No, davvero, non preoccuparti, faccio da solo..."

Mormorò, stringendo il lenzuolo.

Arthur arricciò le labbra in una piccola smorfia di scherzoso disappunto.

"Mi permetto di insistere, ci hai già provato e, senza offesa, non ha funzionato."

Dalla posizione su un fianco in cui era, compì una leggera rotazione su se stesso e si distese a pancia in su, sistemandosi per bene contro il cuscino. Voltò il capo, però, per guardare Riccardo e rivolgergli un sorriso incoraggiante.

"Dai, vieni qua. Ti garantisco che ho mangiato abbastanza, stasera, e non mangerò anche te. Poi se proprio non ti trovi bene lasciamo perdere, ma sappi che mi hanno detto che sono molto comodo, quindi non dovresti avere problemi!"

Aggiunse, affettuosamente giocoso, allargando le braccia per accoglierlo.

Riccardo buttò fuori un sospiro, indeciso: non aveva mai dormito con un altro uomo dopo Lorenzo, ed in verità nemmeno prima, la sola idea gli sembrava assurda. Arthur, però, non era più così tanto un tizio qualsiasi, ed una parte di sé gli diceva che poteva fidarsi. E poi, come aveva detto lui, avrebbero potuto lasciar perdere, se proprio la situazione non gli piaceva. Così, rassicurato almeno un poco, si avvicinò quel poco che bastava a raggiungere il lato del letto occupato da Arthur e, cautamente, poggiò il capo sul suo petto; con un braccio, poi, andò a cingergli il busto, non potendo fare diversamente data la posizione, ma senza applicare eccessiva pressione, quasi come se potesse esplodere da un momento all'altro.

"Vado...vado bene così? Ti dò fastidio?"

Chiese a bassa voce, timidamente.

Arthur sollevò l'angolo delle labbra in un sorriso morbido: sentiva Riccardo rigido contro di lui, gli sembrava di avere accanto un manichino più che una persona, ma nella sua situazione era più che normale. Sarebbe stato paziente, con lui.

"Se stai bene tu, non mi dai nessun fastidio."

Rispose, gentile. Con un braccio, poi, andò ad incontrare il suo, in un abbraccio più che in una morsa, mentre con l'altro salì tra i suoi capelli, che sfiorò appena.

"Posso?"

Chiese, piano, ed al cenno di assenso di Riccardo cominciò a muovere le dita tra i suoi ricci, lentamente e con delicatezza: erano morbidissimi e la mano per poco non si perdeva tra quelle onde scure, quasi gli sembrava di star accarezzando un gatto, più che un uomo. Si accorse, poi, con grande gioia, che Riccardo, esattamente come un gatto, si stava raggomitolando sempre di più contro di lui, e di nuovo non poté fare a meno di domandarsi come facesse un uomo tanto alto a diventare tanto piccolo. Adesso sentiva con maggiore insistenza il peso del suo corpo premere contro il proprio ed i suoi riccioli solleticargli dispettosi il collo, ma non provò fastidio. Sentiva, anzi, che avrebbe potuto trascorrere così il resto della propria vita.

"Buonanotte, Riccardo."

Soffiò, rimanendo tuttavia ad occhi aperti. Voleva accertarsi che l'altro si addormentasse per davvero, prima di concedersi di fare altrettanto.

Riccardo avvertì un piccolo fremito quando sentì Arthur accarezzargli i capelli, ma non si scansò: voleva fidarsi. Non poté fare a meno di mettere a confronto quelle carezze fossero diverse dalle uniche altre che conosceva: le dita di Arthur erano lunghe e affusolate, ma il loro tocco era inaspettatamente pesante; quelle di Lorenzo, invece, erano più tozze, ma al tempo stesso più leggere. Ciò non rendeva l'uno più sgradevole dell'altro, semplicemente era diverso, ma altrettanto piacevole, forse perché in fondo le azioni mosse dall'affetto erano tutte uguali tra loro. Senza nemmeno che se ne accorgesse, si ritrovò a rilassarsi sempre di più sotto a quelle premure, a cui fu estremamente naturale abituarsi. Forse vivere in quel modo non sarebbe stato poi così impossibile.

"Buonanotte, Arthur."

Replicò a voce bassa, praticamente un sussurro, decidendosi finalmente a farsi vincere dalla pesantezza delle palpebre e a chiudere gli occhi.

Due pezzi di puzzle, in quel momento, avevano appena scoperto un nuovo incastro.
*****
"Ma quando finisce 'sto corridoio? Stamattina era più corto!"

Si lamentò Domenico, mugolando.

Claudio, che gli era accanto, sorrise incoraggiante.

"Ci siamo quasi, un altro po' di pazienza. Dobbiamo solo svoltare l'angolo."

Rispose gentile, indicando con un cenno del capo il tratto davanti a loro.

Camminavano abbracciati, sorreggendosi l'un l'altro come due ubriachi, stanchissimi, ma ancor di più felici. Più in basso, Ulisse trotterellava allegro, precedendoli come a voler aprire la strada.

Appena entrati in camera, Claudio accompagnò Domenico alla poltrona più vicina e lui vi si lasciò cadere con un pesante sospiro. Si sfilò le scarpe, che gli stavano dando il tormento da ore, e liberò un profondo mugolio d'approvazione, sentendosi immensamente più libero.

"Non ce la facevo più! Altri cinque minuti e non sarei più stato in grado di camminare, te lo giuro!"

Commentò accennando un sorriso, dopo essersi adagiato al morbido schienale.

Claudio fece una risatina e si chinò a dargli un bacio tra i capelli, lasciandovi anche una morbida carezza.

"Povero amore mio! Ti preparo un pediluvio, mh?"

Chiese, scherzoso ed affettuoso al tempo stesso, guardandolo negli occhi. Quando erano andati ad acquistare gli abiti per il matrimonio aveva suggerito al compagno di scegliere un paio di scarpe diverso, meno elegante ma più comodo, dal momento che non era abituato ad indossare calzature particolarmente rigide, ma lui era stato irremovibile, sostenendo che tutto dovesse essere perfetto nel loro giorno speciale e così aveva insistito per prendere quelle che ora si era sfilato quasi a fatica.

Domenico scosse il capo, sollevando un po' di più l'angolo delle labbra in un sorrisetto furbo.

"No, non c'è bisogno. Dopo ci infiliamo tutti e due nella vasca, ma prima..."

Si toccò le cosce, battendoci delicatamente con i palmi delle mani.

"...vieni un po' qua, per favore. Ho bisogno di stare vicino a mio marito...sempre se lui vuole, naturalmente."

Aggiunse con voce morbida e scherzosa, allargando le braccia per accoglierlo.

Claudio ridacchiò, scuotendo divertito le spalle.

"Non sarebbe tuo marito, e tu non saresti il suo, se lui non volesse starti accanto!"

Esclamò, allegro, e subito fece il giro della poltrona per sederglisi in grembo, di profilo con le gambe raccolte, in modo da poter voltare il capo e guardarlo. Gli sorrise dolcemente e si sporse a dargli un bacio a fior di labbra, leggero.

Domenico ricambiò sia il sorriso che il bacio, e subito lo cinse con le braccia, tirandoselo morbidamente sempre più vicino fino a fargli appoggiare la testa su di sé. Il respiro caldo di Claudio gli accarezzava la pelle e lui sospirò, beato, ad occhi chiusi: non avrebbe potuto essere più felice di così.

Claudio si raggomitolò su di lui -una posa del tutto simile a quella di Ulisse, che aveva già preso posto nel suo angolo prediletto del divano- ed adagiò il capo sulla sua spalla, chiudendo gli occhi. L'odore dolce di Domenico gli riempiva il naso e lui sospirò, beato: non avrebbe potuto essere più felice di così.

Durante tutta la giornata non si erano separati nemmeno per un istante ed era stato bello immergersi nell'amore di amici e parenti, ma adesso era ancora più bello recuperare quella calma intimità che era stata stravolta dai festeggiamenti. Sembravano dormire, accoccolati com'erano l'uno all'altro come due gatti in una cesta, ma in realtà erano svegli, seppur esausti, e si scambiavano morbide carezze: Claudio passava lentamente le dita sulla pancia di Domenico e Domenico faceva lo stesso sul fianco di Claudio, un modo per dirsi che si amavano senza parlare.

Prima che finissero con l'addormentarsi per davvero -erano così stanchi che sarebbe potuto accadere-, Claudio riaprì gli occhi ed interruppe quel silenzio.

"Mi stavo dimenticando di una cosa importante!"

Disse a voce non troppo alta, ma da cui traspirava una certa urgenza.

Domenico sollevò immediatamente le palpebre, nonostante il sonno fosse stato sul punto di avere la meglio su di lui, e puntò gli occhi su Claudio, in lieve allarme.

"Che cosa? Che è successo?"

Claudio, notando quella luce preoccupata nel suo sguardo, subito si affrettò a sorridergli dolcemente e a fargli una carezza su una guancia.

"Non ti preoccupare, è una cosa bella. Mi sono solo ricordato che c'è una tradizione che non abbiamo rispettato, oggi..."

Annunciò, con aria misteriosa.

Domenico si accigliò, senza capire a cosa si riferisse. Ripassò mentalmente l'intera giornata e gli sembrò che non avessero saltato neanche una voce del decalogo del perfetto matrimonio: oltre alla cerimonia, naturalmente, c'era stata l'uscita trionfale dalla casa di famiglia, il servizio fotografico, il primo ballo da sposati e perfino il lancio del bouquet, anzi dei bouquet dal momento che ne avevano lanciato uno a testa. Non mancava nulla.

"E quale?"

Domandò, a voce bassa.

Claudio soffiò una risatina, che trattenne il più possibile per non svegliare Ulisse, poi prese una mano di Domenico e se la portò sulla coscia facendola scorrere da poco sopra il ginocchio verso l'alto, fino a farla fermare in un punto preciso. Guardò il marito negli occhi per tutto il tempo di quella piccola operazione, rivolgendogli un sorriso che gli tingeva il viso di un morbido rossore, non per timidezza, ma per un senso di sottile euforia che gli scorreva sottopelle come una scarica elettrica.

Domenico si lasciò guidare la mano lungo il corpo del marito che, anche se coperto dai pantaloni, riconosceva alla perfezione sotto le dita come se stesse toccando la sua pelle nuda, e quando la mano dell'altro, e di conseguenza la propria, si fermò, sgranò gli occhi per la sorpresa. Più o meno a metà coscia, infatti, sentiva un ispessimento della stoffa, non eccessivamente marcato, ma comunque percepibile ad un tocco attento. Indagò per qualche istante in quella zona, facendo scivolare la mano lungo il lato per poi farla ritornare su, il tutto in una lenta carezza, ma non aveva dubbi su cosa Claudio avesse deciso di fare, o meglio, indossare.

"È quello che penso, vero?"

Domandò divertito, sorridendo a trentadue denti.

Claudio fece un piccolo cenno d'assenso con il capo, poi scrollò le spalle come a voler minimizzare.

"Volevamo rispettare tutte le tradizioni, no? E questa...beh, questa è tra le prime che ti vengono in mente quando pensi ad un matrimonio. So che di solito è uno spettacolino che si fa davanti a tutti, ma non mi sembrava il caso di restare in mutande davanti a tua madre e al questore, e così ho un po' riadattato il modello."

Spiegò tranquillo, ma con gli occhi che brillavano allegri.

Domenico ridacchiò morbidamente immaginando la scena che Claudio gli aveva appena descritto, contento che non si fosse realizzata -concordava con lui, non era proprio il caso- perché così quel momento sarebbe stato soltanto loro. La sola idea lo mandava in visibilio.

"Ma quando te la sei messa? Ci siamo preparati insieme..."

Domandò, affondando la presa sulla carne del compagno, non tanto forte da fargli male, ma abbastanza da fargli capire che apprezzava.

Claudio tradì un mugolio d'approvazione che non riuscì a trattenere, poi sorrise sghembo.

"Ne ho approfittato quando sei andato a casa tua. Non ci è voluto molto, del resto."

Domenico per la seconda volta si ritrovò colto di sorpresa e buttò fuori un sospiro incredulo.

"Mi stai dicendo che ce l'hai addosso da stamattina?"

Chiese, più per mostrare quanto fosse fiero di lui che per l'effettivo bisogno di una risposta che, a quel punto, non poteva che essere affermativa.

Claudio annuì, ridacchiando, mentre ripensava a quella mattina quando, congedatosi momentaneamente da Simone, era filato in bagno con lo scatolino bianco che conteneva quel particolare accessorio. L'idea gli era venuta a pochi giorni dal matrimonio e dunque non aveva avuto modo di provarlo prima, né nel negozio dove lo aveva acquistato -non gli era sembrato il caso, viste le occhiate perplesse e sospettose che gli erano state rivolte dalle commesse, le quali forse dovevano averlo scambiato per una sorta di maniaco- né a casa, dove stava sempre con Domenico e c'era il rischio che lo scoprisse. Aveva avuto paura, quindi, che fosse troppo stretto o che comunque non gli stesse bene e lo facesse sembrare ridicolo, ma si era dovuto ricredere: l'accessorio era abbastanza elastico, gli andava perfettamente tanto che a malapena se lo sentiva addosso, e guardandosi allo specchio da ogni angolazione possibile aveva anche scoperto, con una certa sorpresa vanità, che un po' lo donava. Era...inusuale, certo, almeno per come era abituato a vestirsi lui, ma non per questo da disprezzare. Sapeva, poi, che avrebbe fatto sorgere sulle labbra di Domenico l'esatto sorriso gioioso ed incredulo che adesso gli vedeva in volto, quindi tutto il resto passava facilmente in ultimo piano.

"Sì, e infatti ho avuto paura che potesse scivolarmi, e a quel punto addio sorpresa. Per fortuna non è successo, però."

Rispose con voce leggera e divertita, mantenendo il sorriso, mentre con la mano lasciava quella del marito, che aveva capito perfettamente come muoversi, per andare a posargli una carezza tra i capelli.

Domenico sorrise morbidamente, poi sospirò con tenue stupore.

"Incredibile. E io che non mi sono accorto di niente. Sei davvero fantastico, core mij."

Mormorò, guardandolo sognante: che uomo meraviglioso era diventato quel ragazzo insicuro e timido che aveva conosciuto più di vent'anni prima in un bar, che adesso nemmeno c'era più, e che ora, invece, non aveva più paura del giudizio degli altri.

Claudio sollevò l'angolo delle labbra in un sorriso soddisfatto, inarcò leggermente un sopracciglio e gli occhi gli si illuminarono furbi, subito sotto.

"Mh, posso dire che farla franca con un ispettore capace come te dà una certa soddisfazione?"

Ribatté, con la voce pervasa da una giocosa malizia, mentre tracciava piccoli cerchi tra i capelli di Domenico, come sapeva gli piacesse.

Domenico soffiò una risatina morbida, che si chiuse in un mugolio d'approvazione per quelle piccole coccole di cui non era mai sazio, non quando era Claudio a fargliele.

"È una fortuna per me che tu non faccia, per dire, il ladro d'appartamenti, altrimenti sarebbe un bel problema."

Mormorò scherzoso, rivolgendogli un caldo sorriso. Con una mano, quella con cui teneva Claudio per il busto, salì ad accarezzargli la schiena con morbidi e placidi tocchi, come sapeva gli piacesse.

Claudio ridacchiò piano, scoprendo appena i denti, e buttò fuori un profondo sospiro rilassato per quelle dolci premure che non gli bastavano mai, non quando era Domenico a dargliele. Avvicinò il viso al suo, ancora di più, fino a far quasi sfiorare i loro nasi.

"Ma io da te mi farei arrestare."

Soffiò con un filo di voce, sicuro che Domenico l'avrebbe sentito comunque, toccandolo con il proprio respiro.

Domenico sollevò l'angolo delle labbra quando sentì il respiro di Claudio accarezzargli il viso, e subito lo raggiunse con il proprio.

"Ed io, però, ti lascerei andare."

Mormorò piano, certo che Claudio avrebbe capito. Con un piccolo cenno del capo, poi, fece toccare la punta dei loro nasi in un gesto affettuoso, che Claudio subito ricambiò.

Separarono i visi quanto bastava a guardarsi per un istante sospeso, poi scoppiarono a ridere all'improvviso, insieme, e si nascosero l'uno nella spalla dell'altro per tentare di attutire il suono cristallino e al contempo profondo delle risate che, radiose, si facevano strada dai loro cuori; nulla, però, potevano fare contro i singulti che li scuotevano come foglie al vento, anche se si tenevano stretti nel loro abbraccio.

Claudio sollevò di poco il capo, quanto bastava a parlare.

"Come siamo retorici!"

Commentò senza smettere di ridere, se non per l'attimo necessario a posare un bacio sulla guancia del compagno.

Domenico annuì, sempre ridendo, e lo imitò, baciandolo nell'incavo del collo.

"Sembriamo due guagliuncelli!"

Replicò, con la voce che tremava divertita.

Risero ancora, troppo felici per controllarsi, e solo quando sembrò loro di scoppiare riuscirono a placarsi e presero a respirare a grandi boccate.

Claudio, dopo un respiro un po' più profondo, rivolse a Domenico un morbido sorriso e gli accarezzò il viso, lentamente, dopo averlo accolto in una mano.

"Però è proprio così che mi sento..."

Sussurrò piano, per non rompere il silenzio che si era appena ricreato.

Domenico sorrise di rimando, con lo stesso amore, e posò un bacio sul palmo della mano di Claudio.

"Anch'io. Ed è meraviglioso."

Mormorò, tornando a guardarlo negli occhi.

Claudio annuì, mentre già si stava sporgendo verso il viso del compagno.

"Lo è davvero."

Soffiò sulle sue labbra, che Domenico provvide immediatamente ad avvicinargli.

Si scambiarono un bacio lento e silenzioso, come se si stessero assaporando per la prima volta, un bacio al sapore di quella fiducia e di quella libertà che avevano costruito con tanti altri baci prima di questo.

Non furono necessarie parole o segnali per decidere di alzarsi e spostarsi verso la camera da letto -erano entrambi a volerlo, e quando le anime funzionano all'unisono, i corpi finiscono per adeguarsi-, che non era poi tanto distante dal salottino, eppure impiegarono il doppio del tempo ad arrivarci perché non riuscivano a smettere di stringersi e baciarsi, facendo continue soste. Ma il tempo scandito in baci non è mai troppo.

Appena arrivati in stanza, Claudio si avvicinò subito al letto e prese a slacciarsi la cintura, ma si fermò di colpo e sollevò lo sguardo verso il compagno, rivolgendogli un sorriso splendente.

"Fallo tu."

Domenico, che si era già affrettato a chiudere la porta alle loro spalle -lo facevano anche a casa, non perché temevano che qualcuno potesse disturbarli, ma per creare un'atmosfera più raccolta, uno spazio che fosse soltanto loro-, si voltò verso il marito, sorridendo luminoso, e si fiondò a baciarlo prendendogli il viso tra le mani che fece poi scivolare verso la sua giacca. Gliela sfilò, in modo da liberarlo da un indumento inutile, facendola finire a terra e in un attimo, mentre ancora si baciavano, fece fare la stessa fine alla cintura e prese ad armeggiare con i suoi pantaloni, che gli abbassò di poco, non del tutto.

"Spostiamoci a letto, ti va?"

Sussurrò affannato sulle sue labbra, facendo non poca fatica a smettere di baciarlo.

Claudio liberò una risatina eccitata, cominciava a sentire piacevoli brividi corrergli lungo la schiena, e annuì, ma non era intenzionato a rinunciare a quei baci, non ancora almeno, e per farglielo capire si aggrappò a lui per il busto, e continuando a baciarlo indietreggiò di appena un passo verso il letto.

Domenico soffiò divertito, aveva capito le sue intenzioni, naturalmente, e lo cinse tra le braccia, così da guidare i suoi passi.

Ci volle poco affinché Claudio sentì il materasso contro le gambe e vi si lasciò cadere sopra, tirando Domenico con sé. Si sorrisero, stesi com'erano l'uno sull'altro, e poi unirono i loro sorrisi in un nuovo bacio, poi ancora un altro ed un altro ancora, tanti piccoli tocchi che si susseguivano come gocce di una pioggerella leggera.

Domenico, dopo un poco, si rialzò e, rimessosi in piedi, tese le mani verso Claudio per aiutarlo a tirarsi su.

"Ce la fai?"

Domandò, sorridente.

Claudio ridacchiò, annuendo.

"Guarda che fino a prova contraria eri tu quello che per poco non perdeva l'uso delle gambe!"

Replicò scherzoso, per nulla offensivo, e senza esitare si aggrappò alle sue mani e si mise a sedere, facendosi il più avanti possibile sul bordo del letto. I pantaloni, che nel movimento gli erano scivolati di uno o due centimetri, gli davano un leggero fastidio, ma sapeva che presto Domenico gliel'avrebbe fatto passare.

Domenico rise di gusto, scrollando le spalle.

"Touché."

Ribatté divertito, per poi lasciare un bacio tra i capelli morbidi e leggermente arruffati di Claudio.

"Comunque, se proprio vuoi una prova contraria, sappi che adesso sto benissimo!"

E così dicendo si inginocchiò davanti a lui, tenendo però il capo rivolto verso l'alto, così da non perdere i suoi occhi blu.

Claudio liberò una risatina e, come in un meccanismo perfetto, chinò la propria testa per inseguire i suoi occhi verdi, che subito raggiunse.

"Mh, vedo..."

Commentò con voce morbida, quasi sussurrando.

Domenico sorrise sghembo e gli passò una mano su una gamba, che accarezzò con un tocco rapido.

"Adesso ti libero."

Disse piano, per poi sfilargli rapidamente le scarpe e salire con entrambe le mani ad afferrare i lembi dei pantaloni già slacciati, ormai finiti a bordo dell'inguine, per tirarli del tutto via e liberargli le gambe come promesso. Ecco, a metà altezza della coscia sinistra svettava una giarrettiera bianca, in pizzo, decorata con motivi floreali ricamati o qualcosa di simile, come fosse stata una bandiera. Una bandiera, tuttavia, bianca, che si stagliava contro una nuvola altrettanto bianca o quasi: il delicato accessorio, infatti, se non fosse stato per la naturale peluria del compagno, sarebbe stato un tutt'uno con la sua pelle che, nonostante le fughe al mare che si erano concessi ad ogni occasione buona in quell'estate già inoltrata, era rimasta piuttosto candida. Ad onor del vero, anche lui aveva acquisito molto meno colorito di quanto fosse solito fare, eppure in spiaggia ci erano andati spesso. Forse il Sole aveva avuto timore ad accarezzare quei corpi che, sapeva, si appartenevano null'altro, o forse, spinti da premure reciproche, si erano applicati a vicenda un po' troppa crema solare. In ogni caso, ciò che vedeva gli aveva mozzato il fiato in gola, tanto era bello.

Claudio liberò un mugolio d'approvazione quando Domenico gli tirò finalmente via i pantaloni, e poi smise di respirare. Sentiva su di sé gli occhi roventi del compagno che gli attraversavano la pelle più dei raggi del Sole, ma non erano fastidiosi o invadenti, al contrario, erano esattamente ciò di cui aveva bisogno. Sorrise.

"Che te ne pare?"

Domandò con un filo di voce, che tuttavia non era né incerta né tremolante, ma solo curiosa.

Domenico fece un profondo respiro, estasiato ed innamorato, come di fronte ad un'opera d'arte che non si è in grado di descrivere e quindi si cercano le parole per farlo al meglio. Sollevò gli occhi luminosi per guardarlo in volto, accompagnandosi con un sorriso.

"Che sei meraviglioso."

Replicò, con voce leggera.

"Allora...posso?"

Chiese poi, per esserne proprio sicuro, accennando con il capo alla sua gamba.

Claudio ridacchiò teneramente per quella sua dolce premura ed annuì morbidamente.

"Non aspettavo altro."

Confermò, e per sottolineare le proprie parole allargò leggermente le gambe, così da fargli più spazio, e poi restò immobile, in attesa.

Domenico non tardò ad accettare quell'invito, quel movimento così semplice eppure così erotico ai propri occhi lo spinse a gettarsi sulla gamba del marito come una tigre sulla preda, poggiandosi sul pavimento con le mani, ma per un istinto uguale e contrario fu infinitamente delicato nel prendere tra i denti la giarrettiera, che cominciò a sfilare con lentezza.

Claudio seguiva Domenico con lo sguardo che intrecciava al suo, affidandosi completamente a lui. Aveva sentito la punta dei suoi denti sfiorargli delicatamente la pelle e ora, man mano che il marito si faceva strada su di lui, avvertiva il suo respiro caldo accarezzarlo. Non poteva fare a meno di sorridere, sognante: che uomo meraviglioso era diventato quel ragazzo gentile, ma chiuso in se stesso perché non credeva di essere in grado di dare abbastanza amore e che adesso, invece, lo stava trattando con una gentilezza commovente.

Solitamente in questi momenti che costituivano uno dei punti saldi di qualsiasi festa di matrimonio, l'animatore o chi per lui provvedeva ad animare l'atmosfera con una musica ammiccante, loro invece avevano il suono delle onde del mare, chiaro anche al di là delle imposte chiuse, a fare da sottofondo. In fin dei conti, era stata quella la musica che li aveva accompagnati nei loro primi giorni insieme e che lo facesse anche adesso, quando di giorni insieme ne avevano e ne avrebbero vissuti ancora molti, era soltanto la conclusione più giusta.

Nel momento in cui, se tutti gli invitati fossero stati presenti in quella camera, si sarebbero levati fischi e urla di giubilo, ci furono soltanto due risate, unite in una sola, ma addirittura più fragorose.

Si guardavano ancora, rossi in viso non per vergogna o pudore -avevano da lungo tempo ormai superato quella fase-, ma per l'emozione di aver fatto qualcosa soltanto per loro, che faceva battere i due cuori all'unisono, forti come tamburi.

Domenico aveva ancora la giarrettiera tra i denti, che gli pendeva dalle labbra, e sembrava un grosso cane che aveva appena riportato il bastone al padrone.

Claudio, con quella tenera immagine in mente, fece per prendere la giarrettiera allungando una mano, ma Domenico fu più veloce e si scostò, indietreggiando con il busto quanto bastava, una luce furba negli occhi.

Claudio sollevò un sopracciglio, sorpreso ed intrigato da quella reazione.

"Che c'è, ti piace così tanto?"

Domandò scherzoso, facendo per afferrarla di nuovo, stavolta con un gesto più rapido.

Domenico indietreggiò di nuovo, stavolta emettendo un ringhio giocoso, e poi guardò Claudio inclinando leggermente il capo, in attesa.

"Moltissimo!"

Ribatté a denti stretti, e la voce uscì ovattata dalla stoffa che non aveva intenzione di lasciar andare, non per il momento.

Claudio scoppiò a ridere -adesso il marito sembrava decisamente un cane!- e scosse divertito il capo, con un sorriso sghembo sul viso.

"Mh, vediamo se così ti convinco..."

Allungò di nuovo una mano, ma stavolta la portò direttamente al viso di Domenico che prese a coppa con l'altra, e si sporse il più possibile verso di lui, fino a sfiorargli la punta del naso.

Domenico, senza esitare, si sollevò più che poteva verso di lui, dischiuse le labbra -la giarrettiera scivolò a terra senza emettere un suono- e le unì a quelle di Claudio, aggrappandosi alle sue braccia.

Non era il bacio più comodo che si fossero mai scambiati, le schiene già indolenzite da una giornata carica di emozioni erano ulteriormente provate dalla tensione dei muscoli che quella posizione un po' strana comportava, eppure era il custode di tutta la loro felicità.

O almeno, lo sarebbe stato fino al successivo.
*****
 
La camera d'hotel era immersa in un'atmosfera sospesa tra il buio rischiarato appena soltanto dagli argentei raggi della luna ed il morbido sciabordio delle onde del mare a cui si univa il soffio sottile e rilassato dei respiri di Simone e Manuel.

La festa era ormai finita da un po', tutti erano rientrati nelle rispettive stanze -anche i parenti di Domenico che vivevano a Napoli ne avevano ricevuta una per quella notte, così da non dover guidare ad un orario così tardo- e alla fine anche loro si erano dovuti rassegnare a farlo, su ordine perentorio dei due sposi. Si sentivano felici, euforici, e per nulla stanchi, o meglio credevano di non esserlo, dal momento che, contro ogni previsione, non appena si erano sfilati gli eleganti completi -molto più stropicciati di quanto lo fossero al mattino- ed erano entrati in doccia avevano sentito tutto il peso di quella giornata che era stata indescrivibile, certo, ma anche molto faticosa.
Si erano infilati a letto, dopo, indossando soltanto i pantaloncini del pigiama, e se ne stavano lì, stesi sul fianco uno di fronte all'altro, a lottare testardi contro le palpebre che si chiudevano perché volevano guardarsi ancora un po', mai sazi. Avevano adagiato le mani nel piccolo spazio tra loro, quella di Simone con il palmo verso l'alto e quella di Manuel con il palmo verso il basso, e le avevano fatte incontrare in un'eclissi.

Manuel abbassò gli occhi per guardarle e, istintivamente, sorrise più di quanto stesse già facendo.

Simone se ne accorse subito e gli rivolse uno sguardo incuriosito.

"A che pensi?"

Domandò a bassa voce, accarezzandogli il dorso della mano con il pollice.

Manuel tornò a guardarlo, con occhi resi languidi dal sonno ma non per questo meno dolci ed innamorati.

"A quando 'ste mani le usavamo pe' menarce, ti ricordi? Che scemi che eravamo..."

Disse piano, con voce malinconica, poi sospirò.

"Se potessi torna' indietro, direi a me stesso: coglione, che cazzo fai? Quel ragazzo è speciale, lo dovresti accarezza', non farce a botte!"

Aggiunse con una punta di rimpianto, non troppo amara perché addolcita dal desiderio di godersi il presente, tanto che poi accennò una risatina. Ecco, preferendo di gran lunga concentrarsi più su ciò che stava vivendo adesso che su sbagli passati, si concentrò sulla pelle morbida di Simone, così vicina alla propria, e sulla sensazione di calore che gli dava in tutto il corpo. Si portò la mano del compagno alle labbra e la baciò su una nocca con delicatezza, prima di riaccompagnarla al suo posto e tornare a guardare Simone, la propria metà.

Simone sollevò l'angolo delle labbra in un sorriso morbido, innamorato, e riprese subito ad accarezzare placidamente la mano di Manuel, la propria metà. Ripensò a quei mesi pieni di confusione e domande, ora così lontani da sembrare un racconto fatto da un'altra persona, quando Manuel lo attraeva in una maniera che non capiva, ma che pensava fosse odio -anche se quel ragazzo ripetente non gli aveva mai fatto nulla- e allora usava ogni suo sguardo, parola o gesto per provocarlo, qualsiasi cosa diventava facilmente una scusa per venire alle mani, perché sentiva di volerlo vicino, ma non conosceva altri modi per avvicinarsi. Anche lui era stato un gran coglione.

"Anch'io non sono stato da meno, eh. Se potessi tornare indietro, ti infilerei una mano nei capelli per farti i grattini che ti piacciono tanto, invece di spingerti per cercare l'ennesima lite. Però guardale adesso, le nostre mani, Manuel: sono intrecciate e sono belle."

E così dicendo indicò con lo sguardo lo spazio in mezzo a loro per invitarlo a fare lo stesso.

Manuel seguì i suoi occhi con i propri e soffiò un piccolo sospiro felice. Simone aveva ragione: non c'erano più pugni, non c'erano più insulti, non c'erano più urla, ma solo tanto, tantissimo amore.

"So' così belle che meritano una fotografia, eh? Per il nostro album..."

Propose, con voce leggera ed allegra.

Simone annuì con entusiasmo, sorridente.

"Ci hai preso gusto ormai..."

Commentò, mentre già si voltava per prendere il cellulare sul comodino.

Manuel liberò una risatina e fece spallucce.

"Sarà che i soggetti meritano. Uno in particolare."

Ribatté concludendo con un occhiolino ed un bacio mandato al volo in punta di labbra, quando il fidanzato già lo guardava.

Simone sospirò fingendosi esasperato, ma il sorriso luminoso ed innamorato che non sembrava per niente intenzionato ad abbandonargli le labbra rivelava le sue vere emozioni.

"Marpione!"

Replicò, facendogli cenno di appoggiare di nuovo la mano sul materasso.

Manuel eseguì ed intanto gli rivolse un sorriso furbo.

"Guarda che parlavo de me!"

Disse con sarcasmo, tanto che gli occhi morbidi ed innamorati con cui lo stava guardando parlavano per lui.

Simone ridacchiò appena ed andò ad unire la propria mano a quella di Manuel, ricomponendo l'incastro. Erano davvero belle.

"Fermo che scatto, eh."

Avvisò, prima di impostare l'autoscatto di lì a pochi secondi e sollevare il cellulare.

"È venuta bene?"

Domandò Manuel subito dopo, avvicinandosi un po' di più. La stanza era piuttosto buia e loro non avevano acceso la luce, quindi temeva che non si vedesse nulla.

"Secondo me sì, ma lo scopriamo subito."

Replicò Simone, molto più tranquillo perché tanto sapeva che quella foto sarebbe stata meravigliosa a prescindere, mentre apriva la galleria del telefono.
I volti di entrambi si illuminarono di gioia ed emozione quando videro la foto: le loro mani abbracciate, sulle quali le fascette argentate sembravano scintillare si distinguevano benissimo contro il lenzuolo bianco, forse perché non c'era poi chissà quanto buio in quella camera, dopotutto.

"Avevi ragione, è venuta bene!"

Esclamò Manuel, contento.

"Io ho sempre ragione, lo vuoi capire o no?"

Replicò Simone con aria scherzosamente saccente, fingendosi borioso.

Manuel fece schioccare la lingua al palato, sforzandosi di non ridere, e gli diede un leggero colpetto sul fianco.

"Seh, vabbè, mo' nun t'allargà!"

Lo avvertì, sollevando un sopracciglio.

Simone gli rivolse uno sguardo carico di sfida, l'angolo delle labbra sollevato appena in un sorrisetto quasi impercettibile, ma che sapeva Manuel avrebbe notato.

"Perché, altrimenti che fai?"

Ribatté, provocatorio.

Manuel, non potendo resistere a quella provocazione, liberò una risatina maliziosa e, fulmineo, tolse il cellulare dalle mani di Simone per posarlo sul comodino, dove sarebbe stato al sicuro -se fosse caduto, chi l'avrebbe sentito!- prima di sollevarsi sulle ginocchia per sovrastare il compagno.

"Te faccio ridimensionà!"

Esclamò, prima di avventarsi su di lui a suon di solletico.

Simone scoppiò immediatamente a ridere, lo soffriva tantissimo e Manuel, furbo, lo sapeva, e continuò a ridere senza riuscire a smettere, sempre più affannato, mentre cercava di raggomitolarsi su se stesso come un riccio per sfuggire a quelle dita rapide e malandrine.

Anche Manuel rideva con tutta l'aria che aveva nei polmoni, mentre spostava velocemente le mani per andare a colpire i punti più sensibili -una volta sulla pancia, una volta dietro al ginocchio, un'altra volta sul collo e poi di nuovo sulla pancia- e non lasciare tregua a Simone, che gli sembrava un pesce fuor d'acqua per quanto si dimenava.

Era così, per loro: le risate illuminavano ogni momento. A volte, anzi molto spesso, ridevano anche con la voce, proprio come adesso, ma sempre, sempre, ridevano con il cuore. Evidentemente il classico proverbio si sbagliava: il riso non abbonda sulla bocca degli stolti, ma su quella degli innamorati.

Dopo qualche minuto indefinito, in quel marasma di corpi e risate che sovrastavano il suono delle onde e che superavano il mare per impeto, Simone riuscì a guadagnare un vantaggio e ghermì Manuel per il busto ed i fianchi con le braccia e le gambe e lo attirò a sé in un bacio lento, tutto l'opposto della frenesia che c'era stata fino a quel momento.

Manuel non si oppose, anzi si abbandonò immediatamente in quel bacio, rilassandosi contro il corpo caldo di Simone. Gli tornarono in mente dei versi di Ovidio: 'L'amore vince su tutto e noi cediamo all'amore.'...ed era così bello perdere.

Quando tornarono a guardarsi, affannati e sorridenti, si immersero l'uno negli occhi dell'altro, perdendosi e ritrovandosi.

Manuel liberò un lungo sospiro beato prima di parlare.

"Non vedo l'ora che arrivi domani."

Mormorò, sollevando appena l'angolo delle labbra con aria furba. Ricordava perfettamente l'ultima volta che aveva pronunciato quelle parole.

Simone si accigliò appena, guardandolo incuriosito. Ricordava perfettamente l'ultima volta che aveva sentito quelle parole.

"Non mi dire che hai preparato una sorpresa..."

Chiese, perplesso.

Manuel ridacchiò scuotendo il naso, poi si chinò a lasciargli un bacio sulla punta del naso.

"No, no, anche volendo non avrei avuto tempo. Ma sarà speciale lo stesso, perché saremo insieme."

Replicò, con voce delicata.

Simone soffiò una risatina ed annuì appena, portando una mano ad accarezzargli una guancia.

"E anche dopodomani e il giorno dopo ancora. E questo è meglio di qualsiasi sorpresa, perché sarà sempre così. Fino alla fine dei giorni e ancora oltre."

Promise dolcemente, adesso e per sempre.

Manuel curvò appena il viso per raggiungere la mano di Simone e baciarla, poi tornò a guardarlo negli occhi.

"Fino alla fine dei giorni e ancora oltre."

Sussurrò morbidamente, in una promessa istantanea ed eterna.
-----FINE-----

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