Only need the light when its burning low di My Pride (/viewuser.php?uid=39068)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Past tasted bitter for years ***
Capitolo 2: *** For all of the bruises ***
Capitolo 3: *** Looking in the mirror ***
Capitolo 4: *** Grace is just weakness ***
Capitolo 1 *** Past tasted bitter for years ***
Only need the light when its burning low
Titolo:
Only need the light when its burning low
Titolo del capitolo: Past
tasted bitter for years
Autore: My Pride
Fandom: Super Sons, Batman
Tipologia: Long
Fiction
Capitolo uno: 2874
parole fiumidiparole
Personaggi: Damian Wayne,
Jonathan Samuel Kent, Bruce Wayne, Tim Drake,
Dick Grayson, Jason Todd, Talia Al Ghul, Alfred Pennyworth, Barbara
Gordon, Stephanie Brown, Cassandra Cain, Vari ed eventuali
Rating:
Giallo
Genere: Angst and
Hurt/Comfort, Emotional Hurt/Comfort, Smut, Avventura
Avvertimenti: Descrizioni
di violenza, Slash
SUPER
SONS © 2016Peter J. Tomasi/DC. All Rights Reserved.
«Sta
meglio?»
La testa di Damian fece timidamente
capolino nella
stanza in cui si trovava Bruce, seduto accanto al letto che ospitava
Talia.
Era arrivata alla villa giorni prima,
ferita e
completamente coperta di sangue, ed era riuscita a sussurrare solo
qualche parola scomposta prima di crollare tra le braccia di Bruce, il
quale le era corso in contro non appena la donna aveva messo piede
nella batcaverna. Issandola con attenzione e tenendola contro di
sé, aveva chiamato immediatamente Alfred per far
sì che
si occupasse di lei, portandola lui stesso verso l’area
medica
per adagiarla in fretta sul lettino. Il fatto che fosse riuscita a
spingersi fin lì era un vero e proprio miracolo. Aveva
riportato
ferita così profonde che persino Alfred aveva faticato a
suturarle, dovendo persino farle una trasfusione.
Talia era stata portata di sopra solo
una volta che
le sue condizioni sembravano essersi stabilizzate, per quanto Alfred
avesse ritenuto opportuno collegarla a dei monitor cardiaci per
assicurarsi di controllarla costantemente. Nonostante il volto
tumefatto, il labbro inferiore spaccato e parecchi tagli che le
deturpavano il viso, la sua espressione era apparsa tranquilla, e si
erano fidati abbastanza da trasferirla in un luogo più
accogliente quando lei stessa, con un fil di voce, aveva espresso quel
desiderio. L’avevano realizzato solo perché si
erano
tranquillizzati, ma Bruce aveva comunque sentito una strana rabbia
impossessarsi delle sue membra.
Per quanto avessero avuto i loro
diverbi, Bruce
aveva digrignato i denti e piegato una sbarra alla vista del corpo
ferito di Talia. Le dita della mano destra erano state tutte spezzate e
Alfred aveva dovuto steccarle una per una prima di occuparsi del polso,
rotto in più punti e fratturato; aveva dovuto operarla per
impiantare una piastra d’acciaio e, una volta suturata,
l’aveva fasciata stretta, passando in rassegna il resto delle
ferite. Svariati colpi da taglio le avevano deturpato braccia e gambe,
e la ferita al fianco aveva quasi rischiato di andare in suppurazione;
il taglio all’altezza del seno era stato casuale ma, nel
vedere i
lividi, Bruce aveva richiesto ad Alfred un check up completo e aveva
aspettato la risposta con il viso fra le mani. Il riscontro era stato
negativo, ma ciò non lo aveva ugualmente rassicurato:
chiunque
fosse riuscito a fare una cosa del genere a Talia Al Ghul non era di
certo da prendere sotto gamba. Ma, cosa più importante,
aveva
risvegliato in lui un senso di protezione nei confronti della donna che
pensava fosse sopito per sempre.
Tenere a bada gli istinti era stato
difficile, ma
ancor più lo era stato trattenere Damian quando era tornato
dalla ronda con Jon. Aveva fermato la moto al centro della piattaforma
e aveva cominciato a blaterare riguardo a degli stupidi trafficanti
mentre si avvicinava e si sfilava la maschera di Redbird, sgranando gli
occhi non appena aveva visto la madre in quelle condizioni; aveva
gettato con forza il casco sul pavimento ed era corso verso il lettino
urlando il nome di sua madre, giurando vendetta verso chiunque fosse
stato nel prendere la mano sana di Talia tra le proprie.
Quando aveva minacciato di voler uscire
e di voler
andare a “strappare le palle a quello stronzo per fargliele
ingoiare” – Bruce biasimava molto
l’influenza di
Jason -, Alfred era stato purtroppo costretto a sedarlo, visto che
persino Bruce aveva faticato non poco a tenerlo. Bloccare un ragazzino
era sempre stato pressoché facile, impedire ad un
diciannovenne
di novantasei chili di pura massa muscolare – per di
più
in preda ad una furia che avrebbero osato chiamare omicida –
di
uscire per cercare il bastardo che aveva ridotto in quel modo la madre,
era stato un altro paio di maniche.
Erano passati due giorni prima che si
sentissero
sicuri di farlo avvicinare a Talia, motivo per cui adesso Damian aveva
timidamente mostrato la propria presenza, restando sulla soglia mentre
si torceva le mani. Ma non riuscivano a biasimarlo per la sua reazione.
Nonostante tutto ciò che Talia gli aveva fatto, nonostante
avesse ordinato di ucciderlo e in seguito non fosse stata esattamente
una figura amorevole, restava pur sempre sua madre.
Bruce si prese dunque un momento e
sospirò,
invitando il giovane ad entrare anziché restare alla porta.
Vedeva ancora la rigidità delle sue spalle, ma almeno la
rabbia
sembrava essere scemata in parte. «È riuscita a
mangiare
qualcosa prima di riaddormentarsi», lo informò,
sentendo
il piccolo sospiro di sollievo che sfuggì dalle labbra di
Damian.
«Sei… sei riuscito
a farti dire cos’è successo?»
Bruce scosse il capo. «No. Non voglio ancora stressarla
più del necessario. Alfred dice che ha bisogno di
riposo».
Nel dirlo, abbassò lo sguardo sul viso della donna,
scostandole
qualche lunga ciocca di capelli dal viso. «E io glielo avrei
dato
in ogni caso. Non ho mai…» si prese un momento per
umettarsi le labbra, sfiorando un angolo della bocca di Talia.
«Non ho mai visto tua madre in queste condizioni. Chiunque
sia
stato, dovrà vedersela con me».
«No. Quel bastardo
è mio». Il
ringhio che scaturì dalla sua gola e la voce gutturale con
cui
Damian proferì quelle parole furono quasi capaci di far
rabbrividire Bruce, tanto che si girò a guardarlo con
un’espressione indecifrabile.
«Damian», lo
richiamò, in
particolar modo nel vedere il guizzo che corse furtivamente nei suoi
occhi verdi. «Respira, ragazzo».
Per quanto avesse digrignato i denti,
serrando la
mascella dura e squadrata, Damian dovette trarre un lungo respiro dal
naso, cercando di frenare il battito impazzito del proprio cuore.
«Giustizia, non vendetta», recitò come
un mantra, e
si passò ben presto entrambe le mani fra i corti capelli
neri.
«Ma… Dio, padre, desidero così
tanto…
così tanto…»
«Non credere che non ti
capisca»,
replicò Bruce, suonando per la prima volta molto
comprensivo.
Non voleva alimentare la furia del figlio, ma sarebbe stato ipocrita se
avesse nascosto anche a sé stesso che non aveva pensato di
fare
qualcosa contro il suo codice morale. «Ma tua madre in questo
momento ha bisogno che rimaniamo razionali. Dobbiamo starle accanto
finché non si rimetterà in sesto e, quando ci
avrà
raccontato quel che ricorda, ci metteremo a lavoro. Ho già
avviato una scansione di tutte le telecamere collegate al mainframe del
batcomputer; se troveremo qualcosa di significativo, avremo
già
un punto da cui iniziare». Con un sospiro, Bruce
allungò
entrambe le mani verso di lei e le rimboccò le coperte.
«Tua madre era a Gotham per un motivo. Qualunque cosa sia
successa, è sicuramente successa qui. Le sue ferite erano
troppo
gravi per essere state inferte altrove. Non sarebbe mai riuscita a
trascinarsi fino alla caverna».
«La mamma ha molti
nemici». La voce di
Damian sembrava distante e ovattata, come chiusa in una scatola.
«Adesso che è la Testa del Demone, chiunque
proverebbe ad
eliminarla pur di ottenere il potere. Se fossi stato al suo fianco,
forse…»
Bruce lo interruppe bruscamente.
«Ragazzo», lo richiamò categorico.
«Sei
sconvolto e non ragioni con lucidità, sai cosa
avrebbe
significato essere al fianco di tua madre».
«Sì…
sì, padre».
Damian trasse un lungo sospiro. «E so che non dovrei nemmeno
pensarci o avere compassione, dopo quello che mi ha fatto,
ma…
è mia madre. I legami di sangue sono più forti di
quanto
si creda».
A quel punto, Bruce gli
poggiò una mano su
una spalla. «È del tutto normale, Damian. Siamo
umani», replicò, stringendo un po’ la
presa prima di
battere il palmo della mano sul bicipide allenato. «Adesso
vai,
resto io con lei».
«Ma…»
«Vai. Ti chiamo se cambia
qualcosa. Promesso».
Seppur ancora incerto, dopo aver fatto
scorrere lo
sguardo sul padre e sul volto della madre, Damian annuì,
chinandosi verso la donna per sfiorarle la fronte con un bacio e
sussurrarle qualcosa in arabo, indugiando accanto al suo viso per un
lungo attimo; poi raddrizzò la schiena, rivolgendo un cenno
di
saluto col capo al padre prima di dargli le spalle e incamminarsi
fuori, richiudendosi silenziosamente la porta alle spalle.
Damian sembrava essere tornato
tranquillo, ma Bruce
ebbe la brutta sensazione che fosse solo la calma prima della tempesta.
***
Gotham era finalmente sprofondata nel
silenzio.
Allo scoccare delle tre e mezza del
mattino, con i
suoni della città ormai affievoliti da tempo e un
agglomerato di
nuvole che prometteva pioggia mattiniera, Redbird poté
prendersi
un attimo di riposo, lasciandosi cadere seduto sul bordo del tetto
della Wayne Tower. Era stata una lunga notte: si era fatto carico di
qualunque crimine che la sua trasmittente riusciva a captare, anche di
banali furtarelli che avrebbero dovuto interessare gli agenti del GCPD,
tutto per tenere la mente occupata in qualche modo. Ma, per quanto
fosse stato in parte utile, non era servito a smontare la rabbia che
gli ribolliva dentro.
Abbassò lo sguardo per
fissarsi le mani,
contemplando i palmi prima di guardare i dorsi. I guanti,
già
rossi di per sé, erano sporchi di sangue sulle nocche, e
ammetteva a sé stesso di esserci andato più
pesante del
dovuto mentre pestava quei criminali. Alcuni di loro li aveva lasciati
legati a testa in giù ad un palo, ed era certo che in quel
momento Gordon lì avesse ormai trovati e stesse scuotendo il
capo, tirando lunghe boccate dallaa sua sigaretta. Ormai sapeva che,
quando un pipistrello era arrabbiato, finiva sempre in quel modo. Su
quel punto lui e suo padre erano molto simili.
Mordendosi il labbro inferiore, e
pentendosene
subito dopo quando si ricordò che era spaccato, Redbird si
tolse
un guanto per valutare i danni. Stavano già cominciando a
formarsi dei lividi, ma erano un danno collaterale minore se pensava
che almeno non aveva staccato a nessuno la testa dal collo. Aveva
sentito qualche criminale parlare di un uomo che girava armato di
katana, e aveva interrogato chiunque per sapere cos’altro
avevano
sentito, o se qualcuno fosse riuscito a vederlo in faccia. Un uomo
munito di tali armi bianche era piuttosto raro a Gotham, ed era
comunque l’unica pista che aveva ottenuto. E se
l’assalitore di sua madre si fosse realmente rivelato
lui…
allora avrebbe pagato caro il suo affronto.
«Ho sentito che ti sei dato da
fare».
La voce di Jon lo riportò
parziamente alla
realtà, anche se dovette sbattere più volte le
palpebre
al di sotto della maschera prima di riuscire a mettere a fuoco la sua
figura. Reggeva un sacchetto di carta con il logo Bat-Burger, il
mantello svolazzante nella placida brezza serale che rinfrescava in
parte il viso accaldato.
«Se vogliamo metterla
così...»
disse semplicemente, e Jon sospirò, gettandogli una rapida
occhiata. Nonostante qualche ammaccatura e qualche livido, i criminali
con cui si era scontrato avevano decisamente avuto la peggio.
Ciò che lo preoccupava era il battito cardiaco di Damian,
che
appariva rapido e irregolare, quasi fosse in ansia. Ma poteva capirlo.
«Cosa ci fai qui?» chiese Damian, e lui
sollevò il
sacchetto.
«Ti ho... portato la
colazione?»
provò nel sorridere imbarazzato, ma l'occhiata che gli venne
rivolta, maschera o meno, gli fece roteare gli occhi. «Il
tuo...
battito cardiaco ha avuto un'impennata». Si
massaggiò
dietro al collo con la mano libera, un po' colpevole. «So che
è inquietante, che mi hai detto di non ascoltarlo in
continuazione e tutto il resto, ma...»
«No. Va bene. Avevo... avevo
bisogno di compagnia. E avevo decisamente fame».
Jon lo osservò per un lungo
momento, poi
rilassò le spalle. Il tono con cui Redbird aveva pronunciato
quelle parole era mesto, e lui stesso ammorbidì
l'espressione
che si era dipinta sul suo viso mentre si librava accanto a lui.
«Vegetariano per te, doppio bacon per me»,
canticchiò nel lasciarsi cadere seduto al suo fianco,
porgendone
uno al compagno che ringraziò sommessamente prima di
scartare
l'involucro del proprio panino.
Cominciarono a consumare il loro pasto
in silenzio,
incuranti del venticello freddo che aveva cominciato a soffiare sulla
città mentre l'alba colorava timidamente di rosa
l'orizzonte,
seduti l'uno accanto all'altro con mille domande che ronzavano nelle
loro teste come un'alveare di api al sole. Jon sentiva bene i muscoli
rigidi di Damian, il suo respiro pesante, il sangue che scorreva in
tutto il suo corpo e il tamburellare del suo cuore, adocchiandolo di
tanto in tanto solo per vederlo con lo sguardo perso sulla strada
lontana e sottostante. Erano anni che non lo vedeva cos chiuso in se
stesso, così distante nonostante fossero l'uno accanto
all'altro.
«...come sta tua
madre?» chiese infine,
un po' imbarazzato. Non avrebbe voluto alzare l'argomento, ma sapeva
quanto ciò che era successo tormentasse il compagno. E, per
quanto Talia Al Ghul avesse fatto molte scelte discutibili e avesse
cercato di uccidere anche sua madre Lois, restava pur sempre la madre
di Damian.
Non ci fu risposta, o almeno non subito,
prima che
Damian abbassasse quel che restava del proprio panino per abbandonarlo
sulle cosce, senza alzare lo sguardo. Si umettò le labbra e
tergiversò, quasi stesse cercando le parole adatte, poi si
concentrò verso uno stormo di falchi che si
innalzò
dall'edificio accanto. «Fuori pericolo», disse
solo, e Jon
sentì il sussulto che fece il suo cuore. «Alfred
ha curato
le sue ferite e le ha consigliato molto riposo. Entra ed esce dagli
stati di incoscienza, ma a quanto pare stasera è riuscita
almeno
a mangiare».
Scivolando al suo fianco, Jon
allungò un
braccio verso di lui e gli cinse le spalle sentendolo irrigidirsi sotto
al suo tocco, ma non si allontanò. «Se... se hai
bisogno...»
«Lo so». Damian gli
batté una mano sul bicipite allenato. «Ci sei
tu».
Tra loro cadde nuovamente il silenzio,
rotto solo da
un clacson che suonò in lontananza. La città
stava
cominciando a svegliarsi, e ben presto le strade avrebbero cominciato a
popolarsi delle prime persone che si dirigevano a lavoro.
«Sono un pessimo
figlio?» chiese Damian
di punto in bianco, e Jon gli gettò un'occhiata incredula.
«Cosa?»
Damian sospirò.
«Sono un pessimo
figlio?» ripeté, stringendosi nelle spalle.
«Mi sono
allontanato da mia madre e ho sempre ripetuto di non voler avere niente
a che fare con lei o la Lega, a volte ho persino pensato di combatterla
per intralciare i suoi piani. Adesso qualcuno l'ha quasi ridotta in fin
di vita, e io... io non...» si interruppe, ma solo
perché
Jon gli poggiò immediatamente un dito sulla bocca prima di
afferrarlo per le spalle, costringendolo a voltarsi verso di lui.
«Ehi, no. No. Non pensarci
nemmeno, D».
Damian si ostinava a guardare altrove, e lui dovette usare un
po’
della sua super forza per farlo voltare verso di sé quando
gli
afferrò delicatamente il mente. Incontrò il suo
sguardo,
per quanto fosse nascosto al di sotto della maschera. «Tua
madre
ha avuto innumerevoli volte la possibilità di stare al tuo
fianco, ma ha sempre preferito una Lega millenaria al suo stesso
figlio. Non puoi incolparti di quello che le è
accaduto».
«Ma…»
«…ma è
pur sempre tua madre e
capisco che tu ti senta responsabile», continuò
Jon senza
dargli tempo di parlare. «Lo
capisco.
Anch’io mi sentirei così se fosse mia madre. E
sappiamo
entrambi che stai pensando certe cose solo perché credi che
tutto debba pensarti sulle spalle». Gli avvolse le braccia
intorno ai fianchi, stringendolo contro di sé nonostante la
breve lamentela che Damian si lasciò sfuggire. «Ma
non
è così, tua madre è adulta e ha fatto
le sue
scelte, in quanto figlio devi solo trovare il bastardo che le ha fatto
questo e sbatterlo in prigione. Quindi piantala di fare il cazzone,
okay?»
Per attimi che parvero interminabili, si sentì solo il
respiro
infranto di Damian contro la spalla di Jon e i rumori della
città che si svegliava, i rombi delle auto, uno stormo
distante
di gabbiani e il martellante suono dei loro cuori. Poi, con una risata
simile ad un singulto, Damian batté una mano sulla schiena
di
Jon. «…hai imprecato»,
sussurrò nel cercare
di stemperare l’atmosfera lui stesso, e ci riuscì,
visto
che Jon ridacchiò.
«Visto cosa riesci a
fare?»
replicò, provando ancora una volta a sorridergli. Poi si
chinò, sfiorandogli a malapena le labbra con le proprie.
«Non pensare più queste cose, piuttosto hai
bisogno di
riposo. Vuoi uno strappo?»
Damian parve rifletterci un attimo, poi scosse brevemente il capo.
«Meglio che torni a casa anche tu. Dormi almeno
un’ora o
due, hai un esame», replicò, sentendo Jon
imprecare ancora
una volta, ma stavolta parve anche un po’ nervoso, tanto che
Damian roteò gli occhi. «Te n’eri
dimenticato», disse per lui con fare scettico, incontrando il
suo
sguardo colpevole.
«…se dicessi di
no?»
«Saresti un pessimo bugiardo,
J»,
rimbeccò nell’afferrarlo per il colletto della
tuta prima
di scansarlo e vederlo fluttuare oltre il bordo del tetto.
«Vola
a casa, ragazzone. Ci vediamo quando sei libero».
Anche se in un primo momento
indugiò, Jon gli
volò nuovamente accanto, rubandogli un altro piccolo bacio a
fior di labbra. «Per qualunque cosa… non esitare a
chiamarmi, D».
La voce dolce che usò fece
sorridere Damian
internamente, ma agitò una mano in risposta per non darlo a
vedere; si salutarono con un ultimo bacio e la promessa che si
sarebbero aggiornati presto su eventuali novità –
dall’esame di Jon alle condizioni di Talia -, e Redbird
restò ancora un po’ su quel tetto mentre vedeva
Superboy
sparire oltre l’orizzonte.
_Note inconcludenti dell'autrice
Allora.
Dopo aver tergiversato un po', visto che non ero sicurissima di voler
postare questa storia qui su EFP, alla fine lascio il primo capitolo
della storia più angst e hurt/comfort che sto scrivendo in
questo periodo. Non scrivevo roba così lunga dai tempi di
FullMetal Alchemist (sento qualcuno reclamare ancora il mio sangue per
una certa fic *tossicchia "Noi due senza un domani" e fugge via*),
quindi... boh, spero che possa interessare in qualche modo
Potrebbe rivelarsi molto forte nei capitoli successivi, dunque il
rating arancione mi sembra quello più consono per una cosa
del
genere
Commenti
e critiche, ovviamente, son sempre accetti
A presto! ♥
Messaggio
No Profit
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alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
|
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Capitolo 2 *** For all of the bruises ***
2. Only need the light when its burning low
Titolo:
Only need the light when its burning low
Titolo del capitolo:
For all of the bruises
Fandom: Super Sons, Batman
Tipologia: Long
Fiction
Capitolo due: 4019
parole fiumidiparole
Personaggi: Damian Wayne,
Jonathan Samuel Kent, Bruce Wayne, Tim Drake,
Dick Grayson, Jason Todd, Talia Al Ghul, Alfred Pennyworth, Barbara
Gordon, Stephanie Brown, Cassandra Cain, Vari ed eventuali
Rating:
Giallo
Genere: Angst and
Hurt/Comfort, Emotional Hurt/Comfort, Smut, Avventura
Avvertimenti: Descrizioni
di violenza, Slash
SUPER
SONS © 2016Peter J. Tomasi/DC. All Rights Reserved.
Talia
riprese del tutto conoscenza solo il quinto giorno.
In un primo momento, la donna aveva
sgranato gli
occhi e si era drizzata a sedere e si era portata una mano alla
cintola, come a voler afferrare la sua spada, ma era stata costretta a
crollare nuovamente sul materasso quando le ferite le avevano impedito
di raddrizzarsi come avrebbe voluto. Aveva imprecato a denti stretti e
si era lasciata sfuggire un lamento, cercando di fare mente locale
mentre si guardava intorno. E, quando aveva riconosciuto
l’arredamento della camera… un po’ aveva
sorriso.
Tuttora si trovava a letto, la schiena poggiata sui cuscini e una tazza
di the che le era stata gentilmente portata dal maggiordomo nonostante
tutto in attesa di Bruce. Ammetteva di non ricordare di essere riuscita
ad arrivare alla villa, non ricordava nemmeno di aver pensato di
andarci, ma il suo subconscio l’aveva guidata nel solo posto
in
cui sarebbe potuta essere al sicuro. Era una crudele ironia.
Sospirò, allungando
debolmente una mano per
afferrare la tazza e soffiare un po’ sul pelo del the.
Zenzero e
ginseng, con zucchero di canna e una fettina di limone, il suo
preferito. E dubitava che Alfred, per quanto fosse un perfetto
maggiordomo, conoscesse i suoi gusti a tal punto, quindi doveva essere
opera del suo antico amore. Bruce ricordava ancora come beveva il
the… che stranezza.
Bevve un sorso, cercando di fare mente
locale, con i
ricordi ancora un po’ offuscati come se volessero proteggerla
da
qualcosa. Si rendeva conto di essere ridotta male, ed era certa che
fosse stato anche peggio quando era arrivata al maniero.
Fu un cigolio a distoglierla dai suoi
pensieri e si
voltò immediatamente verso la soglia sbattendo le ciglia con
fare vagamente curioso. «Amato?» chiamò
quando la
porta si aprì silenziosamente, ma nell’incontrare
lo
sguardo di suo figlio entrambi tacquero, senza sapere cosa dire. Tra
loro c’erano così tante cose non dette che
faticavano ad
articolare i pensieri, quindi fu Damian il primo a parlare.
«Madre»,
esordì con un pizzico di
rispetto, per quanto in quell’unica parola parve risuonare
anche
una vada nota di disprezzo.
«Damian»,
replicò lei,
squadrandolo mentre si avvicinava passo dopo passo, con la sicurezza di
una tigre. «Non ci vedevamo da molto. Sei diventato un uomo
degno
del tuo nome».
Damian non rispose, si limitò
solo a prendere
posto sulla sedia che in quei giorni era stata occupata da suo padre e
osservò il viso di sua madre in silenzio. I lividi avevano
cominciato ad assumere una brutta colorazione giallastra, ma le ferite
stavano guarendo più rapidamente del normale. La fortuna di
avere un corpo che era stato immerso innumerevoli volte
nell’acqua di Lazzaro, probabilmente.
«Cosa ti è
successo?» chiese
infine, la schiena rigida e composta mentre i suoi occhi verdi
catturavano lo sguardo di quelli altrettanto verdi della madre, la
quale scosse brevemente il capo.
«Vorrei poterti rispondere,
figlio mio. Ma
temo di non ricordarlo ancora», ammise sincera.
«Quel che
è certo, è che chiunque sia
stato…»
«…pagherà», concluse
rapidamente per lei, chiudendo una mano a pugno sulla coscia mentre
Talia gli gettava un’occhiata curiosa. Non si vedevano da tre
anni e lei di certo non era stata una madre esemplare, ma
allungò la mano sprovvista di tazza verso il viso del
figlio,
poggiandola sulla sua guancia destra.
«Mentre io guardavo
dall’altra parte,
sei davvero diventato uno splendido uomo»,
proferì. Vide
Damian poggiare la mano sulla sua, sentendolo stringerla un
po’,
e sorrise brevemente.
«Non era per questo che a
dieci anni mi lasciasti a mio padre?»
«Certamente. Anche
se… c’è
qualcosa di molto più morbido, nel tuo sguardo».
Damian a quel punto lasciò
cadere la mano,
allontanando anche quella della donna mentre serrava la mascella.
«Non potevi prioprio evitarlo, vero, madre? Dovevi proprio
rovinare tutto ricordandomi quanto per te fossi inadeguato».
«Non era ciò che
intendevo»,
affermò lei in tono schietto. «Mi ricorda il modo
in cui
io stessa--» la sua frase fu interrotta dalla porta che si
apriva
nuovamente, poi la figura massiccia di Bruce fece il suo ingresso, gli
occhi fissi su Damian e Talia, ma soprattutto sul sorriso che parve far
capolino sulle labbra di quest’ultima.
Adesso che poteva vederli
così vicini dopo
anni, era sconcertante rendersi conto come suo figlio avesse ereditato
così tanto i tratti della madre. Pur essendo muscoloso,
condivideva la sua stessa corporatura longilinea, il fisico asciutto e
allenato era molto simile, lo si poteva notare anche attraverso i
vestiti che indossavano; il volto affilato e gli zigomi alti facevano
risaltare quegli occhi verdi e brillanti dal taglio orientale, e il
tutto, unito alla sua pelle abbronzata, gli conferiva quella bellezza
che anni addietro l’aveva conquistato in Talia.
Dovette sbattere più volte le
palpebre per
riscuotersi dal bizzarro torpore in cui l’aveva gettato
quella
visione, volgendo lo sguardo verso il figlio. «Potresti
lasciarci
soli, Damian?»
Come prevedibile, le folte sopracciglia
del giovane
si sollevarono. «Non sono un bambino. E, anche se lo fossi
stato,
avrei avuto diritto di sapere».
«Lascia che resti,
Amato».
L’ultima parola parve provocare uno strano silenzio tra i
tre,
prima che la donna continuasse. «Se sei venuto ad
interrogarmi», stavolta la voce divenne un po’
più
dura, come a voler ristabilire i ruoli fra loro, «devo
purtroppo
informarti di avere ancora i ricordi molto confusi».
«Il padre è rimasto
qui tutto il tempo,
in questi giorni», si intromise Damian, e Talia
sbatté le
palpebre prima di guardare Bruce dritto negli occhi, quasi a voler
cercare la menzogna nelle parole del figlio.
«Dunque non erano i deliri di
una mente stanca».
«No». Bruce
finalmente si
avvicinò, indugiando con una mano sospesa come a volerle
carezzare i capelli, quei lunghi capelli scuri e lisci come la sera, ma
si trattenne. Entrambi cominciarono a fissarsi con
un’attenzione
tale che Damian cominciò a sentirsi a disagio, nonostante
fossero i suoi genitori. Sentiva un'atmosfera stranamente elettrica tra
loro, parole non dette e sguardi fugaci, quell’aria un
po’
imbarazzata di chi aveva tanto da dire ma non sapeva come esprimerlo,
così si batté le mani sulle cosce e si
alzò.
«Forse sarà meglio
che vi lasci davvero
soli, dopotutto», dichiarò e, per quanto gli
furono
lanciate due lunghe occhiate, non vi prestò attenzione,
facendo
solo un breve cenno di saluto col capo per andare alla porta e
chiudersela alle spalle. Si appoggiò con la schiena contro
di
essa e socchiuse le palpebre, sentendo solo qualche breve mormorio
sconnesso prima di lasciar loro un po' di privacy.
Per quanto non stessero insieme da
secoli e non si
fossero visti per tre anni, salvo qualche rara occasione in cui la
madre ideava chissà quale piano malvagio - quindi mai per
parlare come due persone normali, ma in fin dei conti loro non erano
una ex-coppia comune -, era certo che in quel momento nessuno dei due
avrebbe voluto averlo tra i piedi, e lui era ormai abbastanza grande, e
soprattutto emotivamente comprensivo, da capire certe cose. Tra loro
c'era stato amore, una volta, un amore che si era poi tramutato in un
odio referenziale e poi mortale, una guerra in cui lui era stato la
vittima prima di tornare alla vita; quando lui stesso aveva cercato la
redenzione per le azioni che aveva compiuto in passato, e lui le aveva
domandato perché l'avesse ucciso, lei gli aveva risposto che
si
sarebbe fatta la stessa domanda per l'eternità, smarrita
nella
visione di qualcun altro e nella bugia di non volerlo più.
Aveva
chiesto la redenzione, una possibilità di dimostrargli che
sarebbe potuta essere la madre che era un tempo, e il suo combattere
raramente a fianco di suo padre aveva fatto quasi credere a Damian che
le cose si sarebbero potute sistemare... ma la ferita era ancora aperta
e aveva appena compiuto dodici anni, all'epoca. Tuttora, seppur a modo
suo avesse provato a stargli vicino, non riusciva a fidarsi del tutto
della parola di sua madre.
Frustrato, Damian si passò
una mano fra i
corti capelli scuri, allontanandosi. Una vocina fastidiosa nella sua
testa continuava a dirgli di non abbassare la guardia, ma un bizzarro
senso di sollievo si estese nel suo petto alla consapevolezza che sua
madre aveva ripreso conoscenza e stava persino avendo una conversazione
civile con suo padre. Ma voleva risposte, e soprattutto voleva mettere
le mani sul bastardo che aveva osato toccare sua madre.
Stava per dare un pugno contro un muro quando il suo telefono
squillò e le parole “I'm more than a bird, I'm more
than a plane”
risuonarono nel corridoio - okay, mettere il ritornello di
“It's
not easy” era stato un po' idiota, ma l'idea era stata
dell'idiota in questione -, ma fu proprio la suoneria a fargli capire
chi era prima ancora di leggere l'ID chiamante non appena afferrato il
cellulare. «Ehi, J».
«Ehi». Dato il suo
tono di voce, Damian
era certo che stesse sorridendo come suo solito, e la cosa gli fece
sollevare un angolo della bocca in un sorriso. «Tutto
bene?»
Damian annuì, ma poi si rese
conto che
l'altro non avrebbe potuto vederlo, quindi si umettò le
labbra e
raccolse la calma che poco prima stava per perdere. Jon aveva un
tempismo perfetto. «Mia madre si è
svegliata».
«Grande! Come sta?»
«Spaesata, ma…
abbastanza bene»,
ammise. «Non ricorda ancora cos'è successo, e
anche le
ricerche che stiamo facendo hanno portato solo a buchi
nell'acqua».
«Riuscirete a trovarlo, ne
sono sicuro».
Lo disse con una tale sicurezza che
Damian sorrise
sincero, stavolta. Ed era una fortuna che Jon non potesse vederlo, dato
che provò a metter su la sua solita maschera scettica.
«Che ottimismo, boyscout».
«Oh, andiamo, lo dici come se
Redbird e Batman
non potessero risolvere un caso». Ci fu un tonfo metallico e
il
rumore di qualcosa che si schiantava al suolo, poi la voce di Jon
tornò a farsi sentire allegramente. «Senti, mi
occupo di
questo ragazzone d'acciaio - e non mi riferisco ad un altro kryptoniano
- e vengo lì, okay? So cosa ne pensa B dei meta a Gotham...
ma
tecnicamente sono mezzo alieno e sono il tuo ragazzo, se ne
farà
una ragione».
Damian roteò gli occhi,
sentendo l'ennesimo
schianto che lo costrinse ad allontanare il cellulare dall'orecchio
prima di riprendere. «Facciamo che ci vediamo alla nostra
Fortezza. Ho intenzione di seguire delle piste al di fuori del raggio
d'azione di mio padre, lì potremmo... lavorare
indisturbati».
«Ah-ah...» La voce
che scaturì
dalla sua gola parve divertita e, se Damian avesse potuto, era certo
che avrebbe visto le labbra carnose di Jon incurvarsi in un sorrisetto
furbo. «Ricevuto, D. Sarò lì entro
dieci minuti. Ti
aspetterò».
Non si salutarono con un “Ti
amo”, non
era da loro, ma era sottinteso in tutti i gesti e le parole che
facevano, quindi l'espressione tranquilla di Damian era un'ovvia
conseguenza al semplice fatto che Jon esistesse... e basta. Per quanto
avessero avuto i loro trascorsi, fosse sparito nel trentunesimo secolo
e fosse tornato molto più vecchio, alla fine entrambi ci
avevano
fatto i conti e avevano ricominciato esattamente da dove avevano
lasciato la loro amicizia, che era poi diventata qualcosa di
più. E Damian non si pentiva affatto di averlo scelto e
aspettato. Essere più piccolo e più basso di lui
a volte
ancora gli bruciava, ma c'erano momenti in cui la loro differenza
d'altezza era tutt'atro che un impiccio.
Scosse la testa per cacciare quei
pensieri, non era
una ragazzina alla prima cotta e per quanto amasse Jon non poteva
deconcentrarsi in quel modo, andando in camera per preparare giusto uno
zaino con qualche ricambio, cercando di evitare che Alfred il gatto si
sdraiasse sui vestiti che abbandonava sul letto; non contava di stare
via molto a lungo, ma quel tipo di operazioni richiedevano un po' di
tempo ed era sempre meglio essere preparati. Non ci mise più
di
cinque minuti, anche se a lui ce ne sarebbero voluti un po' di
più per raggiungere la baia, ma si erano dati appuntamento
direttamente alla Fortezza, quindi chi sarebbe arrivato prima -
sicuramente Jonathan, ma quello era un altro paio di maniche - avrebbe
aspettato l'altro.
Dopo una carezza alla testa pelosa del
gatto,
Lasciò la sua camera nel momento esatto in cui vide anche
suo
padre e sua madre uscire dalla stanza, con Pennyworth che sembrava
stesse raccomandando proprio a quest'ultima di non fare sforzi mentre
si incamminavano di sotto prima di lui. A quanto sembrava, il
maggiordomo aveva reputato le sue condizioni abbastanza buone da farle
sgranchire un po' le gambe.
La cosa, lo ammetteva, lo rincuorava.
Seguì
con lo sguardo le figure dei suoi genitori, sentendo nuovamente nel
petto quell'egoistico desiderio che, a dieci anni, aveva avuto nei loro
confronti, sperando come il bambino che era che tornassero insieme e
combattessero il crimine senza più lottare tra loro. Erano
così inconsapevolmente vicini che Damian quasi si chiese se
avessero ancora quella chimica che li aveva visti uniti la prima volta,
che aveva spinto suo padre a farle molti regali e a viaggiare con lei a
Parigi. No, non doveva pensarci.
Scese anche lui con lo zaino in spalla,
e non fece
nemmeno in tempo a svoltare l'angolo che il suo cellulare
squillò di nuovo. Stessa suoneria, stesso chiamante.
«Hai
appena chiamato, che c'è?» domandò non
appena
rispose, sentendo un po' di grida in lontananza.
«Mhn... D... ecco... mi sa che
ci vediamo tra
un'ora, roba... roba da Super», disse dispiaciuto, e Damian
fu
abbastanza sicuro che si stesse mordendo il labbro inferiore.
«Mi
farò perdonare».
«Sarà
meglio», ironizzò
Damian. Non era arrabbiato, i loro doveri venivano prima di tutto. Lui
stesso si concentrava prima sulla missione e molte volte avevano dovuto
rimandare uscite al cinema o semplici nottate insieme. «Ci
vediamo dopo... habibi».
Il canticchiare divertito di Jon gli
giunse come un
trillo di campane, prima che uno schiocco simile ad un bacio si facesse
sentire al ricevitore e venisse salutato ancora una volta, scuotendo
brevemente il capo. Non lo chiamava spesso “Amato”,
soprattutto non in arabo, ma a Jon sembrava piacere molto la sua
cadenza e la tonalità in cui lo diceva, quindi di tanto in
tanto
poteva accontentarlo.
Non si rese nemmeno conto di essere
arrivato davanti
al salotto, gettando un rapido sguardo oltre la soglia solo per fare un
breve cenno in direzione del padre. Lui e sue madre si erano accomodati
sui divani, l'uno di fronte all'altra, e nonostante la lontananza
quella scena aveva quasi un po' di... calore. Era strano. Non era
abituato a vederli così, al di fuori del campo di
battaglia.
«Padre»,
richiamò immediatamente
la sua attenzione, aspettando che si voltasse verso di lui.
«Sarò alla Fortezza se avrai bisogno di me. Non
conto di
restare a lungo».
Sulle prime Bruce non parve convinto, ma
il figlio
aveva passato gli ultimi cinque giorni a tener d'occhio sua madre
insieme a lui, a prendere a calci i criminali e a cercare informazioni,
quindi poteva capirlo se sentiva il bisogno di cambiare un po' aria.
«Comunicazioni aperte».
«Come sempre».
Damian si congedò con un
altro breve cenno
del capo, senza accorgersi che sua madre l'aveva osservato per tutto il
tempo finché non era scomparso oltre la soglia ancora una
volta.
«Non mi avevi detto che Damian
aveva trovato
una donna», esordì lei non appena il figlio se ne
fu
andato, e Bruce arcuò un sopracciglio.
«Ha diciannove anni, non
è compito mio
informarti sulle relazioni sentimentali di nostro... cosa?»
domandò, sinceramente stupito dalla costatazione di Talia. Una donna?
Talia agitò una mano in
risposta, alzandosi
dal divano solo per sedersi sinuosamente al suo fianco. «Ho
sentito l'ultima parte della sua conversazione. In ogni caso, devo
ammettere di essere piuttosto delusa dal fatto che non abbia ritenuto
importante informarmi di aver scelto colei che porterà in
grembo
l'erede degli Al Ghul». Il suo bel viso assunse un cipiglio
scocciato. «Inoltre qui in America il suo arabo è
diventato dozzinale, ha sbagliato a pronunciare habibti».
Bruce, solitamente così
composto, stavolta
dovette combattere con tutte le sue forze per non farsi sfuggire una
parola di troppo quando Talia poggiò il capo sulla sua
spalla.
«Già», replicò, guardando
altrove nel far
finta di niente. «Dev’essere
così».
Se Damian avesse voluto parlarne alla
madre, l’avrebbe fatto da solo.
***
Massaggiandosi le tempie, Bruce stava
facendo
scorrere tutti i files che aveva nel bat-computer, seguendo le
indicazioni che Talia gli aveva fornito.
Dopo la chiacchierata che avevano avuto,
l'aveva
lasciata riposare ancora ed era uscito per raggiungere Lucius alle
Wayne Enterprises per una riunione straordinaria, ma la sua mente era
stata rivolta altrove per tutto il tempo, gettando persino sguardi alla
città attraverso le grandi vetrate della torre. Aveva
seguito
poco o niente, preoccupato per l'uomo sconosciuto che era arrivato a
Gotham e che aveva ridotto Talia in quelle condizioni, prima di dover
tornare a concentrarsi per fare il suo lavoro.
La chiamata che aveva ricevuto nemmeno
un'ora dopo,
però, l'aveva fatto trasalire. Dicendo di aver avuto
un'emergenza in famiglia, si era scusato e aveva lasciato le redini
della situazione a Lucius, promettendogli che gli arebbe spiegato tutto
in un secondo momento prima di tornare alla villa direttamente in
elicottero. Quando era tornato, aveva visto un Alfred letteralmente
scompigliato da capo a piedi e con la giacca, solitamente impeccabile,
stracciata in più punti, con il fucile alla mano e un paio
di
uomini vestiti di nero riversi per terra al suo fianco; il labbro
inferiore era spaccato e aveva un taglio profondo sullo zigomo, ma
tutto sommato sembrava che fossero stati quegli assalitori a passarsela
peggio. Anche Tito aveva attaccato qualcuno, azzannando le loro gambe
per proteggere chi era rimasto in casa. E Talia era lì, in
piedi
accanto a lui, con la vestaglia di seta macchiata di sangue e una spada
spezzata in mano, il viso completamente sporco mentre cercava di
raccogliere le forze. L'aveva raggiunta un secondo prima che crollasse
sul pavimento, e si era accasciata fra le sue braccia ma senza svenire;
si era solo limitata a poggiare una mano sul suo petto e ad artigliare
con le dita la sua camicia, fissandolo con occhi dardeggianti di furore.
Era stato Alfred a spiegargli
ciò che era
successo, ma solo quando erano riusciti a portare Talia in soggiorno e
a calmarla una volta seduta sul divano, poiché per fortuna
non
era stata ferita ulteriormente. Gli aveva detto, cercando di mantenere
la sua solita compostezza nonostante il tono un po' agitato, che lo
avevano sorpreso mentre preparava il the, facendo saltare letteralmente
in aria le enormi vetrate della cucina; lui si era difeso, calciando
uno di quegli uomini allo stomaco prima di saltare il bancone e
recuperare il suo fucile, sparando verso di loro dei dardi
tranquillanti. Era riuscito a sedare quelli che l'avevano attaccato, ma
un'esplosione aveva richiamato la sua attenzione ed era corso di sopra,
trovando la “signorina Talia” a lottare con altri
uomini.
E, anche se la battaglia che ne era sussesguita non era durata molto,
aveva comunque aperto un nuovo capitolo in tutta quella storia.
Poi era stato il turno di Talia. Dopo
aver bevuto un
sorso del suo the al bergamotto, aveva sollevato lo sguardo verso di
lui e l'aveva osservato con un'espressione così furibonda
che
persino Bruce era certo di non averla mai vista. E poi Talia aveva
pronunciato un nome. Un singolo nome che l'aveva portato a fare quelle
ricerche lì sotto dopo che la donna gli aveva spiegato come
stavano le cose, con la memoria che tornava pezzo dopo pezzo.
«Quando avresti voluto dirmi
che Talia era alla villa?»
La voce di Tim rimbombò nella
caverna,
riscuotendolo un po' dai suoi pensieri mentre si massaggiava un po' il
mento. Sollevò giusto una mano, tornando a digitare qualcosa
sulla tastiera. «Ciao anche a te, Tim»
esordì in
tono incolore, sentendo uno sbuffo da parte del figlio adottivo.
«Sì, beh, ciao,
Bruce. Quando avresti
voluto dirmi che Talia era alla villa?» ripeté
Tim, e
stavolta ricevette uno sguardo veloce. Bruce sembrava stravolto, e
aveva delle occhiaie profonde quasi quanto le sue quando gli mancava il
sonno e funzionava solo a caffè.
«Non sapevo nemmeno che
saresti tornato».
«Questo non risponde comunque
alla domanda».
Bruce si passò una mano fra i
capelli,
tornado a guardare l'enorme schermo come se stesse cercando le parole
adatte. La sua schiena era ricurva, le spalle rigide, e aveva
cominciato a picchiettare con un dito sul bordo della scrivania con un
certo nervosismo. «Giorni fa è stata attaccata.
Con le
ultime forze che le restavano, è riuscita a trascinarsi fin
qui». Vide Tim aprire la bocca per replicare, ma lo
zittì
immediatamente nell'alzare una mano. «L'uomo che l'ha ridotta
in
quello stato è ancora a Gotham».
«Fammi capire, ci ha portato
un altro
criminale?» domandò Tim con un certo scetticismo,
non
molto incline a credere alle parole di Talia o a qualsiasi cosa si
fosse inventata per piazzarsi nella villa. Per quanto lui fosse andato
a vivere da solo, quella restava pur sempre casa sua.
«Non è
così facile come sembra,
Timothy». Bruce gli scoccò un'occhiata,
scrutandolo con
attenzione. «Da quando Talia ha preso il posto di Ra's, le
cose
nella Lega sono andate solo secondo i suoi piani, senza rispettare le
disposizioni che aveva dato inizialmente suo padre»,
spiegò, e Tim afferrò lo schienale dell'altra
poltrona,
trascinandola a sé per potersi accomodare e ascoltare
attentamente. Bruce apprezzò quel silenzio, continuando.
«E non tutti alla Lega hanno apprezzato le sue iniziative.
Sembra
siano pronti per spodestarla».
«…e se fosse tutta
una messa in scena?
Magari lavorano insieme e stanno cercando di fregarti»,
osò Tim, lanciandogli un’occhiata. Quando si
trattava di
Talia, certe volte Bruce non era davvero così lucido come
voleva
sembrare.
«Tu non hai visto
com’era ridotta quand’è arrivata,
Tim».
«Sto solo dicendo--»
Bruce sollevò una mano come
per zittirlo.
«So cosa stai pensando. Il fatto che io e Talia abbiamo avuto
una
storia non offusca la mia capacità di giudizio».
«Senza offesa, Bruce, ma ci
hai fatto anche un
figlio». Venendo fulminato all’istante,
sollevò
entrambe le mani in segno di resa. «Sto solo
dicendo»,
ripeté, guardandolo di sottecchi, «che Talia non
è
nuova a macchinazioni del genere. Ma poniamo il caso che di volerle
concedere il beneficio del dubbio… abbiamo una
pista?»
Nonostante l’aria poco
concordo che si era
dipinta sul volto di Bruce, quest’ultimo scosse la testa
brevemente. «È letteralmente fuori dai
radar»,
replicò, ravvivandosi i capelli all’indietro.
«Talia
mi ha fornito qualche codice e mi sono infiltrato nel database della
Lega per scaricare le informazioni su quest’uomo, basandomi
sulla
descrizione di Talia. Ho effettuato una ricerca facciale utilizzando le
telecamere di sicurezza della città, ma non ha ancora dato i
suoi frutti».
«Credi ancora che non ci sia
qualcosa di strano, in tutta questa storia?»
La domanda di Tim era comprensibile.
Bruce era
sempre stato un uomo paranoico, diffidente nei confronti degli altri e
restio a credere come oro colato a tutto ciò che gli si
parava
davanti... eppure, in quel momento, una parte di lui sembrava voler
davvero dar credito alle parole di Talia.
Fu quindi dopo un lungo attimo di
esistazione che
Bruce guardò con estrema attenzione il figlio.
«Monitorerò la situazione»,
affermò. «E
se Talia sta davvero tradendo la mia fiducia, non--» prima
che
potesse aggiungere qualcosa, fu il computer stesso a richiamare
l'attenzione di entrambi e si voltarono immediatamente a fissarlo. Nei
pressi di Crime Alley, proprio nel luogo in cui erano stati uccisi i
suoi genitori, avevano trovato una corrispondenza. L'uomo che stavano
cercando era stato visto lì, e avrebbero ancora potuto
seguire
le sue tracce.
Bruce e Tim si gettarono una rapida
occhiata, e
l'uomo si alzò immediatamente per afferrare il mantello
abbandonato precedentemente sulla sua poltrona. «Indossa
l'uniforme, Red Robin», esordì, indossando il
cappuccio.
«Abbiamo un lavoro da fare».
_Note inconcludenti dell'autrice
Partiamo
dalle cose che ho dimenticato (come sempre, ovviamente). Il titolo
della storia è tratto dalla canzone Let her go
di Passenger. E, anche se viene direttamente citata nella storia, la
suoneria di Damian è Superman
(It's not easy)
dei Five for Fighting, canzone che in quel momento mi sembrava
abbastanza adatta come suoneria personalizzata per Jon. Sì,
io
cerco sempre le canzoni più assurde.
La situazione comunque sta cominciando a venire poco a poco a galla e
Bruce e Talia stanno ricominciando ad avvicinarsi, anche se... anche se
Talia ancora non conosce la vera natura della relazione di Damian, lol.
Non qui, almeno
Prossimamente, forse posterò di nuovo Swap (Bodies)
Commenti
e critiche, ovviamente, son sempre accetti
A presto! ♥
Messaggio
No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
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Capitolo 3 *** Looking in the mirror ***
3. Looking in the mirror
Titolo:
Only need the light when its burning low
Titolo del capitolo:
Looking in the mirror
Autore: My Pride
Fandom: Super Sons, Batman
Tipologia: Long
Fiction
Capitolo tre: 2537
parole fiumidiparole
Personaggi: Damian Wayne,
Jonathan Samuel Kent, Bruce Wayne, Tim Drake,
Dick Grayson, Jason Todd, Talia Al Ghul, Alfred Pennyworth, Barbara
Gordon, Stephanie Brown, Cassandra Cain, Vari ed eventuali
Rating:
Giallo
Genere: Angst and
Hurt/Comfort, Emotional Hurt/Comfort, Smut, Avventura
Avvertimenti: Descrizioni
di violenza, Slash
SUPER
SONS © 2016Peter J. Tomasi/DC. All Rights Reserved.
L'unico
suono che si sentiva era il ritmico e costante bip proveniente dal loro
computer.
Erano andati alla loro Fortezza
sottomarina
esattamente tre ore addietro e, mentre Damian si occupava delle
ricerche, Jon aveva sistemato un giaciglio con coperte e cuscini,
giacché avrebbero passato la notte lì dentro a
controllare costantemente la situazione. Avevano preso del cibo cinese
e l'avevano consumato tra una chiacchiera e l'altra durante quella
ricerca - per quanto Damian si fosse lamentato che non avevano
sufficiente aerazione per far sparire quella puzza di maiale mushu e
noodles, Jon aveva insistito e non erano riusciti a giungere ad una
soluzione -, finché alla fine Damian non era crollato seduto
su
quel letto improvvisato con un lungo sbadiglio e Jon l'aveva raggiunto
subito dopo, stiracchiandosi. Non avevano esattamente programmato di
finire aggrovigliati nelle lenzuola senza più alcun vestito
addosso, ma era praticamente ciò che era successo non
più
di una decina di minuti dopo.
Voglioso, Jon si era goduto fino
all'ultimo grido di
Damian in preda all'estasi, quel rossore che gli aveva colorato le
guance e i ritmici movimenti del suo bacino mentre si trovava dentro e
sotto di lui, prima che Damian si accasciasse sul suo petto e restasse
lì, ansimante e ad occhi chiusi per momenti che erano parsi
interminabili, mentre i battiti dei cuori si stabilizzavano e i respiri
si infrangevano l'uno sulla pelle dell'altro. Si erano dati una
ripulita alla bell'e meglio, troppo stanchi per alzarsi e pensare anche
solo lontanamente di farsi immediatamente una doccia, e tuttora si
trovavano in quella posizione dopo essersi lavati.
Jon stava giocherellando con qualche
ciocca di
capelli di Damian e, per quanto sbuffasse un po' infastidito di tanto
in tanto, Damian stesso non aveva ancora fatto niente per allontanarlo.
Se ne stava semplicemente acciambellato contro l'ampio petto di Jon
come un grosso gatto, finalmente un po' tranquillo dopo lo stress che
aveva accumulato durante quella settimana. I muscoli gli dolevano, il
suo corpo era stanco, ma per niente al mondo si sarebbe mosso da quel
piacevole torpore che aveva provocato in lui l'aver fatto sesso con
Jon.
«Mhn... sai, D... ogni tanto
potresti venire
nel mio appartamento, invece di sgattaiolare qui quando vuoi che stiamo
da soli», sussurrò Jon in uno stato di placido
dormiveglia, con la testa ancora leggera come se si trovasse in una
bolla, e sentì le labbra di Damian incurvarsi in un sorriso
contro la sua pelle.
«Il tuo appartamento non ha un
super
computer», gli rese noto in un soffio caldo sul suo
capezzolo,
provocando un piccolo lamento al giovane Superboy, il quale si
portò teatralmente una mano alla fronte.
«Gh... tradito con un super
computer. Non posso competere».
«Non fare il melodrammatico,
J». Damian
roteò gli occhi al di sotto delle palpebre, pizzicandogli un
braccio prima di tirar su la testa e ghignare nello spalancare gli
occhi per fissarlo. «Ci sono cose che un computer non
può
fare».
Jon fece per aprire la bocca e replicare
ma, capendo
a cosa si stesse riferendo, arrossì fino alla punta delle
orecchie. «N-Non puoi dire certe cose, D, non è
leale».
«Hai quasi ventun anni, non
fare il pudico con
un diciannovenne», rimbeccò, stiracchiandosi con
un grosso
sbadiglio prima che Jon gli avvolgesse le braccia intorno ai fianchi
per attirarlo contro di sé, godendosi il contatto con quella
pelle calda e ancora un po' umida.
«Non sono pudico...
è che mi fai venire
voglia di svegliarmi tutte le mattine così con
te»,
borbottò Jon nell'affondare il viso nell'incavo del suo
collo, e
Damian sollevò una mano per poggiarla sul suo capo e
intrecciare
le dita in quella chioma disordinata. Lo capiva, capiva perfettamente
come si sentisse e avevano parlato più volte di andare a
vivere
insieme, per quanto inizialmente Jon avesse buttato lì la
scusa
che in quel modo sarebbe stato più vicino alla Metropolis
University che ancora frequentava. Dopo tutto quello che avevano
passato negli ultimi anni, una vocina nella sua testa gli diceva che se
lo meritavano.
«Jonathan». Damian
si umettò le
labbra, cercando le parole adatte. Non era una decisione presa alla
leggera, ci aveva pensato davvero molto, e forse quello era il momento
migliore per parlarne. «Quando questa storia sarà
finita... potremmo--» non fece in tempo ad arrivare al punto
che
venne interrotto dal ritmico suono dell'allarme da parte del computer,
tanto che si drizzò a sedere talmente in fretta che Jon
quasi
cadde in avanti. «Merda, aspetta, lasciami»,
replicò
nello scansare da sé quelle braccia, inciampando nei suoi
stessi
piedi e tra quelle coperte per precipitarsi al computer e dare
un'occhiata a quanto aveva trovato.
Jon sbatté le palpebre
più e
più volte, raddrizzando la schiena per lanciare uno sguardo
a
Damian da quella posizione. «Che succede?» chiese,
sostando
le coperte alla ricerca dei suoi pantaloni. Voleva indossare almeno
quelli, per quanto Damian si fosse lanciato davanti al computer
praticamente nudo. Non che là sotto facesse freddo o altro,
ma
Jon a volte invidiava quel suo lato tutt’altro che pudico.
«Ha trovato una
corrispondenza»,
affermò Damian nell’aggrottare la fronte, gettando
un’occhiata dietro di sé; Jon si stava infilando i
pantaloni saltellando sui piedi, e la scena sarebbe stata anche comica
e lo avrebbe fatto scoppiare sicuramente a ridere, se solo Damian non
fosse stato impegnato a lavorare su quella roba. «Lascia
perdere
i vestiti e vieni qui, J», sbuffò frettolosamente,
e Jon
borbottò qualcosa in risposta mentre si avvicinava coi
pantaloni
ancora a metà coscia.
«Allora?» chiese
Jon, vedendo Damian
indicare un punto sullo schermo che corrispondeva ad Amusement Mile.
«In quanto tempo puoi riuscire
a portarci
qui?» domandò di rimando Damian con
serietà, e Jon
strinse le palpebre per un momento prima di sparire e apparire al suo
fianco con la sua uniforme addosso e quella del compagno sotto braccio.
«Due minuti, se evitiamo
l’uso del
modulo. Vestiti», affermò nel porgergli il suo
abito da
Redbird, aspettando pazientemente che si vestisse.
Damian ci mise meno di un minuto per
indossare
quella roba e sistemare la cintura multiuso alla vita, frettoloso
più che mai prima di aggrapparsi a Jon e affidarsi
completamente
a lui in quel tragitto; in altri momenti avrebbe dovuto avere bisogno
di una camera di decompressione ma, in quell’ultimo periodo,
Jon
aveva imparato ad usare così bene la sua
super-velocità
da riuscire ad evitare che i suoi polmoni si riempissero di anidride
carbonica durante la risalita, persino i suoi abiti finivano sempre per
bagnarsi il minimo quando Jon nuotava rapidamente verso
l’alto e
vorticava; ci misero esattamente venti secondi per arrivare in
superficie e creare un piccolo tornado per asciugarsi, e Damian si
scrollò giusto qualche goccia dai capelli prima di
rinserrare la
presa sulle spalle di Jon, il quale si librò svelto in volo
per
sovrastare la città.
Ci misero esattamente due minuti,
proprio come aveva
supposto Jon, scrutando i dintorni con la vista telescopica e con un
binocolo senza riuscire a vedere ancora nessuno. Chiunque fosse, sapeva
come nascondersi. Jon non riusciva nemmeno a sentire un battito
cardiaco che in quel momento sembrava stonare, né tantomeno
qualcuno che appariva losco, niente che gli facesse pensare che,
lì, avrebbe potuto esserci un assassino addestrato o roba
del
genere.
«Chi è il tipo che
cerchiamo, allora?
Lo hai scoperto?» domandò ad un certo punto,
librandosi
intorno ad un edificio. Aveva sentito Damian armeggiare col guanto
mentre controllava le strade col binocolo, e l’aveva sentito
imprecare esattamente due secondi prima.
Damian non disse nulla per un lungo
momento, i denti
affondati nel labbro inferiore come se stesse cercando le parole adatte
da usare in quel momento. Ancora non riusciva a credere a
ciò
che aveva scoperto, e persino il suo viso era una maschera di totale
indignazione. «Il suo nome è Zehro»,
disse infine.
«Alla Lega lo hanno sempre chiamato Mr Zero. Era l'uomo
più fedele alla causa di mio nonno. Ma non ha
senso».
Jon non ne capiva molto di quelle faide,
ma sentiva
benissimo che la cosa aveva fatto agitare Damian. Il suo cuore batteva
forte e aveva stretto una mano sul mantello dietro la sua schiena, e
riusciva benissimo a sentire il sangue corrergli nelle vene in preda
all'adrenalina. «E non ha senso
perché...?» lo
spronò a spiegare, dato che sembrava dovergli tirare fuori
dai
denti le parole.
«Perché attaccare
mia madre significa
dichiarare guerra alla stirpe degli Al Ghul. E non ha senso, visto che
mia madre, seppur con i suoi metodi, ha sempre seguito la stessa strada
di mio nonno. Non aveva motivo di ribellarsi».
«Come hai fatto a trovarlo?
Hai detto che tu e
tuo padre ci avete lavorato per giorni senza successo».
Damian tacque di nuovo per un lungo
momento. Poi
dalle sue labbra scappò un sospiro. «...potrei
aver
hackerato cose che non avrei dovuto hackerare».
«D...»
«Il nostro computer
è collegato a tutti
i mainframe di Gotham e Metropolis, inoltre ha un accesso quasi
illimitato al computer satellitare della Lega e al
bat-computer».
Damian si fermò, ma Jon arcuò un sopracciglio e
gli fece
cenno di continuare nel muovere una mano in aria. «Ho fatto
in
modo che cominciassero simultaneamente una ricerca a tappeto,
così da captare informazioni in tempo reale. Uno dei due
computer deve esserci riuscito».
«Perché Batman non
l’ha trovato
prima? E come fai ad essere sicuro che sia lui?» Jon
sentì
Damian muoversi sulla sua schiena, poi nella sua visuale comparve
un’immagine olografica emanata dal guanto.
«So che volto cercare. E se
avessi lasciato
fare a mio padre, non mi avrebbe permesso di agire come
preferivo».
«D...»
ripeté Jon e, nel sentire
l'esitazione nella sua voce, Damian lo frenò immediatamente.
«Non ho intenzione di
ucciderlo,
Superboy». Il fatto che lo avesse chiamato col suo nome da
eroe,
voleva significare solo due cose: o era arrabbiato, oppure era deluso
dal fatto che credesse che sarbebe arrivato a tanto.
«Voglio solo che paghi».
Anche se incerto, mentre continuava a controllare i dintorni, Jon
infine sospirò. «Allora il tuo computer si
sbaglia».
«Cosa?»
«Non ho visto nessuno con
quella faccia, da queste parti».
«Non dire idiozie, J,
non--»
cominciò Damian, zittendosi e sporgendosi a tal punto che
quasi
rischiò di cadere di sotto quando indicò un punto
lontano
davanti a sé. «Memorizza quel battito e seguilo,
Superboy!» gli ordinò, e Jon schizzò
come un razzo
in quella direzione senza nemmeno fare domande, intimandogli di tenersi
forte mentre volava a tutta velocità verso la sagoma che
prendeva forma poco a poco davanti ai suoi occhi. Ma ne era certo:
cinque secondi prima, lì, non c'era assolutamente nessuno.
Che
diavolo significava?
Jon non conosceva quell’uomo,
non
l’aveva mai visto, eppure correva così veloce che
ne
rimase piuttosto stranito. Non era un meta-umano, non sentiva niente di
strano in lui, eppure riusciva benissimo a tenergli testa mentre
correva tra le strade e si insinuava nei vicoli, dissolvendosi
letteralmente come nebbia ogni qual volta Jon credeva di essere ormai
vicino. Ad un certo punto allungò un braccio e credette
persino
di essere riuscito ad afferrarlo, ma gli scivolò dalle dita
e
Jon sgranò gli occhi, incredulo.
Non fece nemmeno in tempo a capire cosa
stesse
succedendo che qualcosa lo colpì violentemente alla testa e
lo
fece precipitare, stordendolo; fu ancora abbastanza lucido da girarsi
in fretta su se stesso, tenendo Damian contro di sé per
evitare
che fosse lui a schiantarsi al suolo; la schiena sbatté
pesantemente sull’asfalto sporco e bagnato, e
sentì nelle
orecchie la voce preoccupata di Damian senza capire bene cosa stesse
dicendo, come se il mondo intorno a lui stesse unicamente fischiando.
Dovette sbattere le palpebre più e più volte per
riprendersi in parte e cercare di scacciare quel suono acuto che gli
martellava i timpani, sentendo Damian afferrargli una mano per aiutarlo
a rimettersi in piedi prima di essere spinto contro un muro.
«Via da qui,
Redbird!»
La voce di Batman ruggì nella
testa di Jon e
lui ci mise un secondo di troppo a rendersi conto che si trovava sopra
di lui e, nel sollevare lo sguardo, lo vide combattere contro un uomo
che era l’esatto opposto di quello che stavano inseguendo:
aveva
la pelle completamente bianca che spiccava contro la luce della luna
che si immergeva nel vicolo e, dal modo in cui si muoveva, stava
perfettamente tenendo testa a Batman. Sembrava un fantasma, un fantasma
bianco senza una vera forma.
Jon barcollò un momento,
notando con la coda
dell’occhio anche la figura di Red Robin: era riverso a terra
contro i sacchi della spazzatura, il suo bastone era spezzato a
metà e una parte del suo viso era completamente sporco di
sangue, ma non fece in tempo a muoversi che l’uomo chiamato
Zehro
gli piombò letteralmente addosso, colpendolo al viso con la
sua
spada; l’arma si spezzò, ma l’uomo non
fece una
piega, afferrando un’altra spada prima che l’urlo
disumano
di Damian richiamasse la sua attenzione.
«Zehro!»
gridò a denti scoperti,
gettandosi contro di lui con la katana sguainata. Il suo viso era
trasfigurato dall’odio e dalla rabbia, una furia omicida che
Jon
non aveva mai visto sul viso del suo amico, e Jon fu sicuro che, a
dispetto di quanto gli avesse appena detto, Damian lo avrebbe ucciso se
solo l’uomo, con un salto aggraziato, non si fosse
allontanato
dopo aver lanciato contro di loro degli shuriken. Batman aveva
consigliato loro di andarsene, ma come avrebbero potuto? Con Red Robin
fuori combattimento, Batman era solo contro due uomini che sapevano
decisamente il fatto loro.
Nel momento stesso in cui Jon
provò a fare
muovere un muscolo, però, qualcosa di affilato gli
colpì
la schiena, facendolo urlare a squarciagola; sentì la voce
di
Redbird fare eco alla sua, e si rese conto che stava perdendo sangue
solo quando un altro colpo gli sfiorò il viso, lasciandolo
interdetto. Cosa… cosa stava succedendo? Perché
provava
dolore? Perché tutto quel sangue?
Guardò in alto giusto in
tempo per vedere
quell’uomo completamente bianco tenere Batman sollevato per
il
collo con una mano, mentre l’altra, luminosa, era rivolta
verso
di lui. Magia… quell’uomo stava usando la magia.
Le forze
stavano cominciando a venir meno e la vista si stava offuscando, ma si
sforzò di muoversi per poter andare in soccorso di Batman e
Redbird, seppur senza successo.
Imprecò a denti stretti e si
puntellò
sulle ginocchia, venendo colpito da un altro colpo di magia che lo fece
gridare a pieni polmoni, bruciandogli la schiena. Poté
sentire
la stoffa del mantello prendere fuoco, la carne sfrigolare e il dolore
percorrere ogni singolo lembo di pelle, e fu quasi sul punto di
vomitare alla nuova sfera di magia che lo costrinse ancora una volta in
ginocchio. Nello stesso istante, vide Zehro colpire Damian dietro la
nuca con l'elsa della sua spada, gli occhi di Damian rotearono
all’interno e lui svenne, venendo preso al volo da Zehro che
se
lo caricò in spalla senza problemi.
«D!»
esclamò Jon, riuscendo a
lanciare un segnalatore verso di lui prima che qualcosa lo colpisse
alla testa e il mondo si offuscasse davanti ai suoi occhi.
_Note inconcludenti dell'autrice
Era
da una vita che non pubblicavo questa storia, però eccoci
qui. Ultimamente mi sono concentrata molto di più sulle
raccolte e questa l'avevo quasi dimenticata, eppure eravamo arrivati ad
un bel punto
In questo capitolo qualche nodo comincia a venire al pettine e in parte
si scopre chi c'era dietro all'attacco che era stato destinato a
Talia... ma sarà davvero finita qui?
Questa è pratiamente solo la punta dell'iceberg, anche se
sono riusciti a fare qualcosa: rapire Damian. Per quale motivo? Lo
scopriremo solo leggendo!
Commenti
e critiche, ovviamente, son sempre accetti
A presto! ♥
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Capitolo 4 *** Grace is just weakness ***
4. Grace is just weakness
Titolo:
Only need the light when its burning low
Titolo del capitolo:
Grace is just weakness
Autore: My Pride
Fandom: Super Sons, Batman
Tipologia: Long
Fiction
Capitolo quattro: 2138
parole fiumidiparole
Personaggi: Damian Wayne,
Jonathan Samuel Kent, Bruce Wayne, Tim Drake,
Dick Grayson, Jason Todd, Talia Al Ghul, Alfred Pennyworth, Barbara
Gordon, Stephanie Brown, Cassandra Cain, Vari ed eventuali
Rating:
Giallo
Genere: Angst and
Hurt/Comfort, Emotional Hurt/Comfort, Smut, Avventura
Avvertimenti: Descrizioni
di violenza, Slash
SUPER
SONS © 2016Peter J. Tomasi/DC. All Rights Reserved.
Damian
alzò debolmente le palpebre, sentendo il dolore irradiarsi
dietro la sua nuca.
Provò istintivamente a
sollevare una mano per
toccarsi, ma scoprì ben presto di non poterlo fare,
giacché le sue braccia erano ancorate ad un muro da pesanti
catene che gli avvolgevano i polsi a tal punto che, se avesse provato a
divincolarsi, avrebbero scorticato la pelle già resa rossa
dallo
sfregamento. Dov’era? Cos’era successo? E
perché era
legato a braccia e gambe spalancate contro una parete?
Damian deglutì, cercando di
fare mente
locale. La testa gli doleva ad ogni pensiero e la sentiva scoppiare,
senza contare il sangue incrostato che gli appiccicava la pelle e i
capelli. Sentiva il corpo invaso dal dolore, e fu solo quando la vista
si abituò a quella penombra che si rese conto di non
indossare
la parte superiore della sua tunica - persino la sua cintura multiuso
era sparita, e non riusciva a capire come avessero fatto a sfilargliela
senza essere fritti da una scarica elettrica - e che il suo petto era
ricoperto di lividi e tagli che avevano smesso di sanguinare da un
pezzo, lasciando però strisce rossastre sulla sua pelle.
Quanto tempo era passato da quando si
trovava prigioniero lì dentro, ovunque fosse quel lì?
Non lo sapeva, ma stava cominciando ad avere sprazzi di ricordi
e… Damian allargò le palpebre, cercando di
liberarsi.
Jon. Suo padre. Drake. Stavano combattendo contro Zehro e un uomo che
aveva visto solo di sfuggita, ma che era abbastanza sicuro di aver
già visto da qualche parte, però… non
riusciva
proprio a ricordare dove. E, più si sforzava, più
il
dolore alla testa gli martellava il cervello senza sosta.
Damian gemette, sentendo le palpebre
pesanti. Aveva
la gola secca e aveva come la sensazione che fosse riarsa, le labbra
erano talmente screpolate che si erano spaccate in più punti
e
bruciavano, per non parlare delle escoriazioni alle caviglie nonostante
la calzamaglia strappata che ancora indossava. Come stavano gli altri?
Dov’erano? Erano lì insieme a lui? Sperava solo
che
stessero bene perché, dannazione, aveva il terrore che fosse
successo loro qualcosa e se così fosse stato non avrebbe
retto.
«Vedo che finalmente ti sei
svegliato».
Quella voce inaspettata lo fece
trasalire, e dovette
sbattere le palpebre per cercare di mettere a fuoco la figura che si
stava avvicinando a lui.
«Zehro!»
ringhiò nel
riconoscerlo, strattonando le catene del braccio destro per cercare di
afferrare l’uomo, ignorando il dolore intorno ai polsi e le
catene che lo ferivano a sangue. Ma l’uomo rise.
«Non agitarti, mio piccolo
demone»,
esordì. «Rischi solo di farti male. E
c’è
qualcun altro che vuole avere quell’onore».
«Vile
traditore…!»
Zehro si accigliò.
«Proprio tu mi parli di tradimento, Ibn al Xu’ffasch?»
La sua espressione si fece cupa. «Tu per primo hai tradito
quella
sgualdrina di tua madre alleandoti con Batman. E parli a me di
tradimento?» Zehro schioccò la lingua, scuotendo
brevemente il capo prima di guardarlo. «No, giovane demone.
Io
sto ristabilendo l’ordine naturale delle cose. Sto
consegnando la
Lega a chi è degno di guidarla davvero».
Damian digrignò i denti,
incurante del
dolore. «Non mi interessano i tuoi sproloqui, Zehro! Dove
sono
mio padre e gli altri?!» sbraitò nel sentire un
peso
opprimergli lo stomaco non appena Zehro, guardandolo, rise nuovamente.
«Non dovrai più
preoccuparti di loro».
Quelle parole caddero su Damian come un
macigno, facendogli sgranare gli occhi. «Stai
mentendo».
«Non ci ricaverei niente nel
farlo».
«Non ti credo»,
esordì ancora
Damian, anche se una parte della sua mente, stanca di tutto quel
dolore, stava cominciando a crederci. Ma non voleva pensare di aver
perso le persone a lui care. Non voleva pensare di aver perso suo
padre, Drake... Jon.
Quando Zehro allungò una mano
verso la sua
guancia destra, Damian trasalì automaticamente, cercando di
ritirarsi per allontanarsi da quel tocco e da quelle dita che parvero
bruciare sulla pelle come fuoco vivo.
«Manderò le schiave
a prepararti. Non
vorrai presentarti al cospetto del tuo futuro signore in queste
condizioni, vero?» domandò mellifluo, e Damian gli
sputò in faccia; l’uomo assottigliò le
palpebre,
colpendolo con un mal rovescio che gli fece sputare sangue, stavolta.
«Forse imparerai come comportarti, dopo la
cerimonia»,
affermò Zehro in tono schietto, tirando fuori qualcosa dalla
manica della sua casacca e, alla vista di quella siringa, Damian
cercò di divincolarsi. «Più continui a
muoverti,
più ti entrerà in circolo in fretta»,
lo
informò, bucandogli il collo.
Damian strinse i denti alla sensazione
di
quell’ago che lo pungeva, sentendo il contenuto cominciare a
scorrergli nelle vene; lottò per tenere gli occhi aperti, ma
il
vuoto si impossessò di lui e tutto divenne sfocato e
confuso,
suoni e parole senza alcun significato e immagini che danzavano come
fiammelle davanti ai suoi occhi. Forse si addormentò, Damian
non
ne fu davvero sicuro, ma gli parve di sentire l’odore di sali
da
bagno e di un sapone profumato, qualcosa che sembrava vagamente olio
d’oliva con un sentore di alloro; mani callose che non
conosceva
percorrevano il suo corpo e, per quanto lui cercasse di aprire la bocca
e parlare, di agitare le braccia e scacciare tutte le presenze che gli
ballavano offuscate davanti agli occhi, che non facevano altro che
toccarlo e strofinare spugne sulla sua pelle, Damian non riusciva a
spiccicare una parola, stordito.
Riprese conoscenza solo tempo dopo,
nuovamente solo.
Con la testa chinata in avanti, gli ci volle un momento di troppo per
sollevare lo sguardo, sbattendo le palpebre per mettere a fuoco i
dintorni. Si trovava in una stanza circolare, con i polsi legati ai
braccioli della sedia su cui era accomodato, e le enormi pareti di
pietra riflettevano la tiepida luce delle torce che tremolavano; grandi
armature medievali si ergevano ai lati di un trono dai soffici cuscini
rossi e dorati, e una moltitudine di pellicce percorreva il pavimento
alla sua destra, dove un tavolo contenente un cesto di frutta e una
daga facevano bella mostra di sé. Lui stesso, quando si
gettò un'occhiata, sembrava vestito bene, con una lunga
tunica
verde dai rifinimenti dorati che mettevano in risalto la sua carnagione
scura. Era simile ad uno degli abiti che aveva indossato quando, a nove
anni, aveva partecipato all'Anno di Sangue, ma... cosa voleva
significare?
Damian si rese conto di essere su una
piattaforma
intorno cui c’era solo il vuoto, e un moto di panico si
impossessò delle sue membra quando capì che non
avrebbe
potuto fare nulla per liberarsi. Non riusciva a muovere un muscolo e,
per quanto solitamente fosse un maestro nell’arte della fuga,
in
quel momento si sentiva come se tutte le sue forze lo avessero
abbandonato. Strattonò un braccio con un'imprecazione,
riuscendo
solo a ferirsi maggiomente il polso mentre si guardava intorno, forse
alla ricerca di una via di fuga. Alla sua sinistra c'era un'entrata, ma
era al di là del vuoto su cui si trovava lui, troppo
distante da
raggiungere anche solo se avesse provato a saltare con tutta la sedia;
uno stormo di pipistrelli gli volò contro, ferendogli il
viso
con le zampette e sbattendo le ali sulla sua faccia, e fu nel seguirne
la risalita che Damian si rese conto dello stendardo che pendeva sulla
sua testa come una spada di Damocle. Scritto in arabo, con lettere un
po' sbiadite e un angolo del tessuto ormai bruciato e macchiato di
sangue, c'era scritto il suo vecchio nome: Damian Al Ghul.
«Lieto che tu mi abbia degnato
della tua presenza, nipote».
Damian trasalì. Per quanto
simile alla voce
di suo nonno, sapeva che non era lui. Razionalmente, la sua mente
continuava a ripetergli che Ra’s Al Ghul era morto, che
l’uomo che aveva parlato non era lui, e fu infatti con
un’espressione stralunata che Damian fissò il
volto albino
di suo zio.
«Dusan…»
sussurrò con un
fil di voce, incredulo. Era davvero come guardare un fantasma,
poiché anche lui avrebbe dovuto essere morto.
L’ultima
volta che aveva visto Dusan Al Ghul, dopotutto, era stato quando lui
aveva solo dieci anni.
«Sono sorpreso»,
esordì
l’uomo. «Quella droga avrebbe dovuto farti dormire
ancora
per qualche ora. Giusto il tempo di finire i preparativi per la
cerimonia».
Cerimonia. Ancora quella cerimonia.
Cosa stavano architettando Dusan e… «Ti sei
alleato con
Zehro, Dusan?» domandò immediatamente Damian,
cercando di
liberarsi. «E come fai ad essere vivo?»
«Dal nipote del Demone non mi
aspettavo
inutili domande sulla resurrezione». Dusan emise un verso
disgustato dal fondo della gola. «La tua sola esistenza ha
sempre
disonorato gli Al Ghul. Ho vissuto secoli per guadagnare il rispetto di
mio padre… ho provato persino ad offrire il tuo corpo per
far
sì che ringiovanisse… ma mi sono reso conto che
mi
sbagliavo, non era questa la strada da seguire».
Dusan si avvicinò, fermandosi
esattamente sul
bordo del precipizio su cui si trovava Damian. Nessuno dei due
parlò per un lungo attimo, osservandosi come se temessero
che
proferire anche una singola parola potesse innescare una reazione a
catena. Infine, Dusan sollevò un angolo della bocca in un
sorriso sardonico.
«Quando sono tornato dalla
morte e ho scoperto
che Ra’s non l'avrebbe più fatto… ho
provato ad
avere la mia occasione. Ma ho scoperto che mia sorella,
quell’inutile donna che tu chiami madre, aveva reclamato la
Lega
per sé». Il disprezzo nella sua voce era evidente
tanto
quanto quello che si leggeva sul suo viso. «Così
ho creato
una Lega tutta mia per spazzare via il passato e dar spazio al mio
presente… una Lega che si sarebbe liberata della stirpe
corrotta
degli Al Ghul e sarebbe sorta dalle ceneri come una fenice... puoi
chiamarci Lazzaro».
Damian schioccò la lingua
sotto il palato,
arricciando il naso. «Se stai cercando di farti compatire,
sappi
che non funziona», affermò schietto.
«Liberami e
affrontami, codardo».
«E rischiare che tu possa
scappare esattamente come ha fatto quella vigliacca di tua
madre?»
«Sei stato tu?» Gli
occhi di Damian si
allargarono. Aveva pensato che il colpevole fosse Zehro, ma…
non
importava. Avrebbero pagato entrambi. Ringhiando, Damian si
agitò sulla sedia, chiudendo le mani a pugno così
forte
che si conficcò le unghie nella carne. «Ti
ucciderò, bastardo!» berciò, sputando
saliva in
preda alla rabbia.
Dusan rise, rise talmente forte che la
sua risata
rimbombò contro le pareti di pietra. «No, non lo
farai», disse poi con calma estenuante. «Il codice
morale
di tuo padre ha offuscato la tua mente. Non alzerai mai più
una
spada per uccidere».
«Vuoi mettermi alla
prova?!»
«Damian Al Ghul non esiste
più.
L’araldo del Demone, il bambino prodigio che ha affrontato
l’Anno di Sangue, non ha più alcuno scopo.
È un
guscio vuoto che potrà essere rimodellato come creta da un
artigiano sapiente».
Damian non avrebbe voluto, ma a quelle
parole
deglutì sonoramente. Uno strano peso aveva cominciato ad
opprimergli il petto, ma non aveva il coraggio di dare ad esso un nome.
«Non la passerai liscia, Dusan», affermò
con la voce
più sicura che riuscì a trovare, riuscendo solo a
farlo
ridere ancora.
«Sei proprio come tua madre.
Inutile.
Sentimentale». Dusan sorrise nel vedere l'espressione
stranita
del nipote, avanzando di qualche altro passo, praticamente ad una
spanna da lui. Se non fosse stato per il vuoto che lo circondava,
Damian era sicuro che avrebbe potuto toccarlo. «Se avesse
avuto
la stessa furia che l'ha sempre mossa in passato, non sarebbe finita
così».
Fu un lampo, poi una grossa bestia si
lanciò
verso Damian e lo attaccò con enormi artigli, prima che il
giovane potesse sollevare le gambe e provare ad allontanarlo da
sé; Damian imprecò e cercò di prendere
a calci il
Man-Bat che lo stava assalendo, riuscendo a colpirlo in faccia con un
calcio ben assestato. Un grido selvaggio scappò dalle labbra
di
quell'enorme pipistrello, e ben presto lo raggiunsero altri, i quali
non esitarono nemmeno per un attimo: sotto lo sguardo indifferente di
Dusan, lo attaccarono senza sosta e non gli diedero tempo di
contrattaccare, tanto che Damian dovette cercare di nascondere almeno
il viso nell’incavo della spalla mentre grossi artigli lo
laceravano.
Uno di loro colpì le corde
che lo legavano e
lui, una volta libero, cercò di contrattaccare con le poche
forze che gli erano rimaste, ma qualcosa lo afferrò alla
caviglia; le palpebre si allargarono, vedendo un Man-Bat sbattere
furentemente le ali prima di tirarlo giù, oltre un
precipizio.
Damian annaspò, afferrando la sporgenza il più
velocemente possibile mentre gli altri Man-Bat volteggiavano su di lui
come avvoltoi con grida spaventose.
«Non temere, nipote. Servirai
una causa più grande».
La presa venne meno, la voce di Dusan si
trasformò in un'eco lontana tra le pareti della grotta;
Damian
sgranò gli occhi e si sentì risucchiato dalla
gravità, precipitando inesorabilmente verso l'abisso.
_Note inconcludenti dell'autrice
Allora,
beh... fine del capitolo abbastanza drastico, ma si capiranno molte
cose andando avanti con la lettura.
Due note veloci: Ibn al Xu’ffasch vuole
letteramente dire Figlio del Pipistrello in arabo, ed è uno
dei nomi con cui veniva chiamato Damian oltre ad Hafid.
Qui
ovviamente Damian ha avuto il suo incontro con un vecchio parente (il
fratellastro di sua madre, per intenderci) che ha intenzione di
prendere il potere in qualunque modo, quando si dice per l'appunto
parenti serpenti... la stirpe degli Al
Ghul ha una vasta storia alle proprie spalle e non si salva quasi
nessuno a quanto pare. Avevano già avuto un incontro tempo
addietro (Damian aveva dieci anni canonicamente), quindi la si
può vedere come una rivalsa
Commenti
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