UVAPDM 2: Lungo l'ala dell'aquila

di Calipso19
(/viewuser.php?uid=226769)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***



Bisognerebbe vivere soltanto di inizi.


Ci aveva ripensato a posteriori, poiché le riprese del videoclip di We Are The World e tutti gli impegni ad esso connessi lo avevano assorbito a tal punto che non aveva avuto più il tempo di consumarsi in riflessioni.
Ciò che gli venne alla mente, nel primo attimo di calma dopo quelle settimane caotiche, riguardò Jackie.
Lei e lui comparivano come i compositori ufficiali della canzone, a cui poco dopo si era aggiunto Lionel Richie, grande amico e stimatore di entrambi. Jackie aveva lavorato per lui a qualche progetto in passato, e si erano trovati molto bene.
Ma chi aveva composto effettivamente la musica era lei, e non quasi si sentiva minacciato dalla sua bravura. Si sentiva quasi plagiato, poiché Jackie aveva inventato ciò che lui aveva dentro e che non era riuscito a mostrare prima che lo facesse lei, semplicemente.
Eventi simili succedevano troppo frequentemente fra loro due per essere delle semplici coincidenze.
Che lui e Jackie avessero davvero la stessa anima?
Da un lato, lo sperava.
Jackie aveva qualcosa di speciale, qualcosa che fa stare sereno chi si rapporta con lei nonostante tutto vada male. Quel qualcosa in grado di far sorridere spontaneamente fino a ridere a crepapelle, quell’energia spirituale che faceva sentire parte dell’Universo.
Quel qualcosa che più volte gli aveva permesso di scrivere la migliore musica, di inventare il più geniale passo di danza, come se le redini di tutto quanto le tenesse lei a distanza. Come se lei stessa fosse il motore del mondo.
Quantomeno, del suo mondo. Come se senza Jackie non ci fosse niente.
Quando si erano ritrovati lui, lei, Diana e tutti gli altri artisti insieme per la registrazione di We Are The World, la sala era così caotica che a malapena ebbe il tempo di parlarle.
Tuttavia era stato come se fosse riuscito a percepirla sempre.

 
———


Era come se in quel periodo l’ispirazione l’avesse catturata e trasformata in una Dea dell’arte.
Sembrava aver vestito perfettamente i nuovi panni da compositrice, nuovo titolo di cui godeva, e produceva musica come un mulino a rinnovata corrente.
Lui non era da meno, certo: il Re della Musica non poteva permettersi di cincischiare quando la sua controparte femminile faceva parlare di sè tutto il settore musicale. Lui medesimo era sulla cresta dell’onda, e come un cavallo al galoppo si era lanciato nell’arte insieme a lei, nonostante il progetto di Neverland gli rubasse molto tempo.
Tuttavia, anche se contribuiva a distoglierlo dal proprio lavoro, non aveva intenzione di rinunciarvi: completarlo non significava solamente realizzare un altro dei suoi sogni, ma anche andare via di casa, allontanarsi dai fratelli e avere un luogo in un cui sentirsi protetto.
Era consapevole che non poteva continuare a dormire in albergo solo per evitare la famiglia. Era distrutto al pensiero di lasciare Katherine, che mai e poi mai si sarebbe mossa dal nido che aveva costruito a Encino, ma non poteva fare altrimenti. Stare lì a contatto con loro era come stare fermo con addosso dei vermi che ti mangiano vivo.

 
———


Un’altra sorpresa che Jackie gli regalò da lì a poco fu Man In The Mirror.
Si era innamorato di quella canzone, era come se l’avesse scritta lui stesso.
Si ritrovarono in studio di registrazione per arrangiarla molto presto, e lui si accorse che nonostante fossero passati non molti giorni da quando si erano visti l’ultima volta e aggiornati sul lavoro, era come se non l’avesse vista per più tempo.

Mentre erano seduti al tavolo della produzione insieme a Q e altri due collaboratori, ascoltando le varie frequenze e modificandole, ragionò un attimo su quella strana sensazione. Era la voglia di abbracciare un amico che non si vede da molto tempo, ma anche la complicità di una visita di poche ore prima.

Di recente aveva riguardato le loro vecchie foto, e si era accorto di quanto fossero cresciuti.
Lui era cambiato, purtroppo, e lo sapeva. Jaqueline pure.
Ecco, anche Jaqueline era cambiata.
Si soffermò un attimo su di lei.
Per guardarla, si fece un pò indietro sulla sedia fino a piegare indietro lo schienale, vi passò sopra il braccio appoggiandovisi e fingendo di stiracchiarsi con indifferenza, i suoi occhi che vagarono discretamente alla ricerca della sua figura.
Jackie era lì, a poca distanza, in piedi di profilo rispetto a lui, che scriveva qualcosa reggendo il foglio su un sostegno dinnanzi a sè.
Si soffermò ben più di un attimo su di lei.
La sua figura, per quanto piccola e minuta di statura e consistenza, appariva ben solida e ben radicata a terra, come una giovane betulla dal tronco sottile, sormontata da quel vivo e spesso cespuglio fiorito che erano i suoi capelli.
Abbassò gli occhi per far salire lo sguardo lentamente su di lei, senza accorgersi che la sua attenzione così intensa su di lei non poteva passare inosservata.
Il suo sguardo incontrò i piedi piccoli e le caviglie nascosti dal pantalone morbido in fondo, probabilmente cucito perché troppo lungo per lei. E dire che nel complesso aveva delle gambe belle lunghe!
Salì a vedere le ginocchia quasi invisibili dentro il tessuto, lì ancora slargato, e la timida e liscia curvatura della coscia che dall’interno lievemente si appoggiava al tessuto, tirandolo leggermente per seguirne la forma.
A vederla, poteva quasi avvertire la sensazione tattile che dava toccare dei muscoli e della carne così tonica.
Salì senza timore, incontrando la meno timida curva del fianco e del gluteo, che vedeva di profilo perfettamente, e non potè non pensare alla perfezione di quella forma. Ben modellata, senza troppo o troppo poco.
Potevano dire che fosse magra, potevano dire che fosse bassa, ma in quel momento nessuno avrebbe potuto avere nulla da dire.
Dal basso, la carne si piegava senza scendere in una perfetta curva, come una sfera tagliata a metà, e si collegava morbidamente alla linea dei lombi dove, lui sapeva, in quel punto si trovavano due deliziose fossette di Venere.
Già, come diavolo faceva a saperlo?
Arrossì un poco senza volerlo, spostando lo sguardo davanti, sulla chiusura dei pantaloni, intuendo senza malizia ma con anatomica curiosità la forma che quel corpo doveva assumere dietro quella barriera di tessuto. Avrebbe voluto toglierla, ma non spinto da un bisogno sessuale o fantasie maschili, non in quel momento, ma solo per mera curiosità, per vedere cosa e quali fessure, curve e sfumature il corpo di lei dovesse avere dove non veniva mostrato.
Tutti avevano delle proprie caratteristiche in quei punti, e lui era semplicemente curioso di sapere quali fossero quelle di Jackie.
Tradendo un pò di imbarazzo di fronte al fatto che nessuno avrebbe creduto a quella giustificazione, per lui reale, che stava dando ai suoi pensieri, passò oltre, salendo lungo il ventre, la cui linea era difficile da vedere poiché spariva dentro la maglia, in una rientranza vuota. Dietro, le pieghe del tessuto cadevano elegantemente sui lombi sottolineando la perfetta sinuosità del busto, come quello di una sirena, così dritto e solido e al contempo sottile tanto che avrebbe potuto afferrarlo con un solo braccio. Anzi, le sue mani sarebbe bastate a circondarlo tutto.
Le sue dita si mossero involontariamente a quel pensiero, come se avesse voluto mettere immediatamente alla prova quello che pensava.
Salì ancora, deglutì arrivando alle costole e lì sopra. Balzò di lato con lo sguardo per guardarle le mani, ora appoggiate sul tavolino di fronte a lei.
Sul dorso riusciva a distinguere le vene principali, che in lei erano molto marcate sulle mani e sembravano ombre blu. La leggera screpolatura delle nocche dovuta al freddo e al fatto che dimenticasse di mettere la crema idratante. Le dita lunghe in confronto alle mani, piccole e affusolate, i polsi sottili coperti da qualche bracciale, con l’osso assai pronunciato in quel punto.
Le braccia nude, sottili ma che non nascondevano una certa quantità di muscolo. Braccia piuttosto forti per lei, e che rivelavano il colore puro della sua pelle, poco più chiaro del caffèlatte.
Circuì con l’occhio la curva della spalla, coperta dalla maglia, e scese di un passo sul gradino del petto. Non che ci fosse molto da osservare.
La maglia in quel punto morbida nascondeva anche quel poco di donna che poteva esserci lì sotto.
Michael aveva visto innumerevoli donne con un seno più grosso di quello di Jackie, non che ci volesse molto in realtà. Quel dettaglio poco attraente per molti, però, a lui risultava affascinante.
Quella discrezione, quella mancanza che non equivaleva alla più totale assenza, perché era una donna e quindi qualcosa doveva pur esserci, sarebbe stata di troppo di su lei.
Tutto il resto bastava per renderla bella e attraente. Bastava e avanzava.
Si soffermò con gli occhi proprio lì, a guardare ciò che non si vedeva, a immaginare, come per sotto, come doveva essere il suo corpo in quel punto.
Che odore doveva esserci lì in mezzo, come appariva, come doveva essere toccarla.
La vista del collo lungo e sottile fu breve perché, spinto dalla bramosia nata da quei pensieri, non nuovi per lui ma dal soggetto innovativo, che gli avevano infiammato il petto, i suoi occhi volarono su quelli di lei.
Ecco, la linea della mascella, sporgente più in avanti che in basso in una piega leggera, l’orecchio piccolo, piccolissimo e dal lobo quasi bianco rispetto al resto ma che ora andava scurendosi, il mento poco pronunciato ma non appuntito, la guancia liscia e non troppo piena, senza ombre; lo zigomo pronunciato, che rendeva il suo sguardo sempre ridente, e finalmente gli occhi, quegli occhi magici dal taglio occidentale, grandi e allungati, con le ciglia lunghe e la palpebra chiara.
Quegli occhi che erano vivi qualunque cosa stesse guardando e che esprimevano da soli qualunque emozione, quegli occhi che sapevano arrivare dove le parole o i gesti non potevano, quegli occhi dal colore così intenso che chiunque credeva vi fossero incastonati due smeraldi veri, quegli occhi che se li avesse guardati un altro secondo ancora si sarebbe alzato e glieli avrebbe rubati.
Lo distrassero i ciuffi che cadevano sul viso, i boccoli perfettamente formati, ma non perfetti da parrucchiere, molto naturali.
Spostò lo sguardo sulla sua testa, piccola in confronto alla quantità di capelli che aveva, una criniera alta almeno tre dita e lunga fino a metà schiena, in un insieme sereno di diverse tonalità di castano, dallo scuro al quasi biondo.
I suoi capelli erano l’espressione del cambiamento, poiché modificano la propria tonalità con le stagioni, con la luce, con l’eccesso di sebo, con qualsiasi scusante.
Jackie stessa incarnava un cambiamento, gli disse un pensiero che non riuscì a decifrare.
Non aveva finito di guardare.
Scese ancora con gli occhi sulla fronte, le sopracciglia sottili ed eleganti, lungo il profilo del naso, che non avrebbe saputo dire che forma esatta avesse. Non era né a patata, né alla francese, né adunco, né troppo grosso o piccolo. Un bel naso dritto, anonimo, perfettamente proporzionato e dalle narici ampie come quelle di una donna africana.
Era ora giù fino alla bocca semiaperta, che ogni tanto assumeva quel mezzo sorriso adorabile, come se fosse divertita da qualche pensiero passeggero che le passava in testa durante la lettura di quelle scartoffie.
Si soffermò sulle labbra e la loro forma.
Jackie, come lui, aveva spesso l’abitudine di mordersi il labbro inferiore e di stringerlo in una morsa, e doveva averlo fatto da poco perché ne intravedeva ancora un lieve arrossamento, che aggiungeva colore alla loro naturare tinta rosea.
Ne era sicuro, doveva averlo fatto.
Jackie aveva delle belle labbra carnose, anche se non esagerate.
Per completare la sua ammirazione avrebbe voluto poterle toccare in quel momento per saggiarne meglio la consistenza. Ora non ricordava con esattezza, ma in ventiquattro anni di conoscenza e amicizia doveva essere per forza capitato di aver toccato le labbra di Jackie, anche se non ricordava la sensazione al tatto che potessero avere.
Probabilmente la stessa delle proprie.
Ma di certo non le aveva mai, di certo mai schiacciate, punzecchiate, pressate, sfiorate. No.
Bè, sarebbe stato interessante farlo.
Come era interessante il fatto che, e se ne accorse ora, si stava mordendo il proprio labbro in preda a quelle elucubrazioni.
Aveva una vaga idea di cosa gli stava succedendo.
Mentre i suoi occhi facevano un ultimo tour generale di lei avvertì una sgradevole sensazione intromettersi nella sua contemplazione.
A poca distanza dalla sua focalizzazione, Q lo guardava.
Guardava proprio lui.
E non avrebbe potuto dire se il suo sguardo fosse divertito o di rimprovero, o un misto di entrambi, che il sudore freddo e il batticuore lo colsero violentemente.
Dall’espressione che assunse Q, capì che si era accorto di quello.
Non avrebbe potuto essere più imbarazzante.
Distolse lo sguardo facendo finta di nulla e indossò rapidamente i suoi occhiali da sole. Almeno nessun altro si sarebbe accorto del sangue in più presente nei suoi occhi.

D’altro canto, quando l’attenzione del protagonista fu di nuovo rivolta a qualcosa che non fosse lei, Jaqueline permise che una goccia di sudore le scivolasse lungo la fronte.
Dal primo istante in cui Michael l’aveva guardata, facendosi indietro sullo schienale della sedia, lei se n’era ovviamente accorta subito e si era immobilizzata, irrigidita dall’energia sprigionata inconsapevolmente dal suo osservatore, che l’aveva fatta piombare in uno stato di paralisi e imbarazzo.
Se la stava mangiando con gli occhi.
Sotto quello sguardo si era sentita divorare pezzettino per pezzettino, come se le pupille che la passavano in rassegna fossero state in realtà pesanti mani che la toccavano, spogliandola non solo di ciò che indossava, ma anche scoprendole emozioni e sentimenti.
Solo Michael aveva il potere di farla sentire così quando la guardava. Solo lui, perché tanti l’avevano squadrata più volte e in vari modi, ma nessuno così, con quell’attenzione così poco… Invadente.
Nemmeno Thomas l’aveva mai guardata così.
O meglio, l’aveva fatto, anche con adorazione palpabile, ma non si era mai sentita così in tensione e, allo stesso tempo, così bene.
Solo Michael, ne era sicura.
E quindi, quando lui la stava guardando lei era rimasta immobile, sensibile a quello che sentiva, e mentre l’aveva percepito focalizzarsi sui suoi piedi e salire lentamente come un intima carezza, non aveva potuto fare a meno di mordersi fugacemente le labbra, abbastanza forte da farsi male.
Un dolore che unito a quello sguardo che andava spostandosi proprio nella sua zona più intima le provocarono un’infinità di sensazioni e batticuore.
Perché Michael la fissava proprio lì? Perché ci metteva tanto? Cosa c’era da guardare?
Fu uno sforzo immane per lei rimanere immobile e soprattutto mantenere il respiro regolare.

 
———


Certi pensieri cominciarono a manifestarsi sempre più spesso nella sua mente, ma prima che potesse chiedersi il perché, una brusca rivelazione lo costrinse a ritornare con la testa per terra.
Jackie era in tour con Diana Ross, ingaggiata come tour manager in seconda, un impegno molto importante per una donna all’epoca. Avrebbe voluto che fosse con lui, almeno avrebbe saputo come reagire di fronte all’ennesima notizia che lo vedeva protagonista di qualcosa che non gli apparteneva.
Evitava solitamente di leggere i tabloid, poiché erano spazzatura, carta straccia esistente con il solo scopo di essere distruttiva per lui e come lui per altre celebrità, ma questo gli era capitato in mano soprattutto per chi sembrava essere l’autore della nuova agghiacciante notizia: il suo nuovo manager Frank Di Leo.
Non era da molto che aveva firmato un contratto con lui, ma il fatto che avesse già diffuso notizie false sul suo conto lo fece sentire vulnerabile e oltraggiato.
In preda all’ira lo contattò subito: Frank gli spiegò che la foto di lui all’interno della bara di vetro, in cui era entrato per mera curiosità, erano già in circolazione e che aveva fornito quella versione dei fatti per evitare che altri mettessero in giro interpretazioni peggiori.
La discussione fu lunga, estenuante e priva di accordo. Alla fine, quello che era fatto, era fatto, e Michael decise di lasciare cadere, poiché le scuse di Di Leo erano giunte sentite non appena avevano avuto modo di parlare di come quella notizia lo avesse ferito.

Ne parlò al telefono con Jackie. Ovviamente era furiosa.

- Non mi piace come ha agito - continuava a dire lei - è stata una decisione pessima.
Discusse anche con lei quando decise che stava esagerando, che Frank aveva sbagliato ma che non meritava tutto quell’odio. Lei non era d’accordo, ma anche lì non vi furono compromessi. Solo una tregua e la decisione condivisa e silenziosa di lasciare cadere l’argomento.  

D’altronde, Jackie aveva altro a cui pensare: di ritorno dal tour con Diana, la cantante l’aveva informata della volontà di organizzare uno spettacolo di beneficienza e poi una cena di gala, di lì a poche settimane, e ovviamente lei sarebbe stata fra gli ospiti d’onore assieme a Michael.
Jackie ne era lusingata e aveva pensato di invitare Quincy come suo accompagnatore. D’altronde, erano da poco diventati ufficialmente parenti.
Ma il produttore aveva un peso sul cuore, e lei se n’era accorta e voleva affrontarlo.
Attese l’occasione: un giorno che erano insieme ad arrangiare alcuni testi. Il produttore non faceva altro che sospirare.  

- Qualcosa non va Q?
- Io so che non dovrei avere certe pretese nella privacy di una persona, però non posso fare a meno di notare che le cose stanno visivamente cambiando e io non vengo lontanamente inserito nella cosa.

Jackie comprese, e serrò le labbra espirando.

- Non fraintendermi, ma per me Michael è come un figlio ormai. E credevo anche io di essere più che il suo produttore e collega di lavoro.
- Lo sei Q.
- Non mi sembra proprio Jackie..
- Hai la mia parola che lo sei, credimi.
- E allora mi spieghi che cosa sta succedendo? Perché sta succedendo qualcosa, è ovvio.

Jackie sospirò ancora dolorosamente, cercando le parole per iniziare il discorso.
Quelle parole che le facevano immensamente male come se le stesse vivendo in prima persona.
Il suo silenzio fu visto da Quincy come una negazione, al che l’uomo si spostò di fronte a lei, costringendola a guardarlo negli occhi.

- Jackie, Michael ha cambiato colore! - sussurrò a bassa voce e con tono grave. Jackie inspirò e girò lo sguardo, apparentemente risentita.
- Non la metterei giù in quei termini Q..
- Ma è così! Vuoi negare l’evidenza?
- No, ma tu non condannarlo! - sussurrò guardandolo negli occhi e con rabbia. - A tutto c’è una spiegazione logica!

Quincy aggrottò un sopracciglio, visibilmente irritato.

- Allora saresti così gentile da mettermene al corrente per favore? Mi sento ingiustamente escluso e non capisco perché non mi sia stata rivolta parola in merito!

Jackie gli fece cenno di sedersi e si fece vicina col volto per poter parlare senza essere sentiti.

- Sbagli a sentirti così, anche se capisco il tuo punto di vista. Ti spiegherò tutto, ma prima devi farti passare il nervosismo. Non è una cosa facile da spiegare e, tanto meno, da ascoltare.

Jackie sembrava davvero preoccupata. Aveva assunto quel tono di voce e quello sguardo che usava quando parlava di questioni molto serie.
Quincy se ne accorse, così provò a obbedirle.
Fece un respiro e chiuse un attimo gli occhi, cercando di recuperare la calma, poi tornò a guardare la giovane.

- Va bene. - esordì. - Ma prima spiegami perché Michael non me ne ha parlato. E’ una cosa che io non devo sapere?

Jackie ci pensò un attimo.

- Uhm… No. E’ una cosa privata, questo sì. Ma non te ne ha parlato perché lui per primo non ama parlarne. Anzi, è una cosa che lo imbarazza molto e lo fa soffrire. Soffre molto, credimi. E non gli piace parlarne agli altri.
- A te ne ha parlato però?
- Si… Ma non di sua volontà. Mi sono accorta che qualcosa non andava prima che si arrivasse a questo punto e sono andata io da lui. Vedi, molto tempo fa ci siamo fatti una promessa: quella di dirci tutto, tutto. Di non avere segreti, di confidarci e di sostenerci a vicenda. Ho dovuto ricordargli di questa promessa per convincerlo a confidarsi con me. Non credo che ne abbia parlato nemmeno a sua madre di quello che ha fatto.
- Ho letto alcuni giornali. Ne dicono di tutti i colori su di lui.
- E tu non credi a quelle boiate vero?
- No Jackie, perché anche io conosco Michael e alcune cose che scrivono sono davvero esagerate. Ma non riesco a darmi spiegazione per quello che sta succedendo e lui non me ne ha mai parlato. Si comporta come se niente fosse.
- La spiegazione c’è, anche se non è una cosa da tutti i giorni. Io ti dirò tutto Q, perché credo che sia giusto che tu lo sappia. Ma non pensare che Michael voglia nasconderti qualcosa. Te lo direbbe lui se ne avesse la forza ma, credimi, è molto difficile per lui parlarne.
- Va bene Jackie, non preoccuparti. Che cosa sta succedendo?

Jackie prese respiro.

- Non è una cosa degli ultimi tempi. Di sicuro Michael ti avrà confidato dei suoi problemi di salute…
- Si, da molto tempo però. Mi ha detto che ha una salute abbastanza cagionevole e della vitiligine.
- Le febbri periodiche e senza spiegazione, la debolezza, l’insonnia..
- Si, mi ha detto tutto questo.
- I medici gli hanno fatto molti esami negli ultimi due anni e soprattutto quando è stato in ospedale per quell’incidente con la Pepsi..
- Si…
- Praticamente hanno scoperto che la vitiligine non è l’unica malattia di cui è affetto Michael. - Gli occhi del produttore cominciarono a spalancarsi di stupore e preoccupazione. Jackie prese respiro per l’ennesima volta per farsi forza. - Gli hanno diagnosticato una forma acuta e rara di Lupus.
- Lupus?
- E’ un’altra malattia della pelle. Fino a qualche decennio fa era mortale e non c’era niente da fare. - I suoi occhi quasi lacrimavano nel dire quelle cose. - Ma oggi ci sono delle medicine, anche se non si conosce ancora la cura.

Si interruppe per fare un lungo sospiro che frenare un pianto irrompente. Quincy, ora serio e preoccupato, le prese la mano, capendo la gravità della situazione.

- Michael se ne vergogna molto, perché oltre ad essere estremamente debilitante, insieme alla vitiligine hanno un doppio effetto deformante.
- E queste malattie centrano col fatto che sta cambiando colore della pelle e il viso sta assumendo tratti differenti da prima?
- Abbandona i tuoi sospetti Q. Lo sento dal tuo tono di voce che stenti a credermi. Se lo guardi bene, puoi notare che non c’è nulla di riconducibile a un intervento preciso di chirurgia plastica nel suo volto. Dovresti averlo notato visto che lavori da anni in mezzo a gente che si rifà il viso.

Quincy annuì debolmente. Conosceva Jackie e sentiva che stava dicendo la verità, anche se di carattere un minimo di dubbio non lo abbandonava.

- Continua.
- E’ così. Devi credermi.
- Va bene Jackie. Continua: la vitiligine gli sta schiarendo il viso?
- Si, ma non così uniformemente. Se ricordi, Michael ne soffre da molto tempo. Precisamente, eravamo adolescenti quando me ne parlò per la prima volta. Aveva appena due minuscole macchie scolorite sul petto. Ora la situazione è peggiorata, perché hanno scoperto che la sua forma di vitiligine è acuta e non l’hanno mai vista prima.

Doveva mantenere la calma. Sentiva le lacrime salirle agli occhi e la gola piena di emozione nel parlare di quelle cose. Quincy la scrutava molto attento.

- Si sta estendendo molto rapidamente e in maniera irregolare. Michael non vuole che si veda, perciò l’ha sempre coperta con trucchi scuri. Ma ora sta diventando troppo difficile, perché è quasi più bianco che nero. - Deglutì con difficoltà. La gravità delle sue parole le si bloccò in gola come un boccone troppo grande.

E’ quasi più bianco che nero. Come se il colore della pelle avesse una qualche importanza.

- Per mantenere una parvenza di normalità, o quello che più le si avvicina, prende medicine ritardanti e usa creme uniformanti. Per lui sarebbe troppo umiliante mostrare le macchie così come sono. Però il processo, per questa forma di malattia, pare essere irreversibile.

Jackie si fermò un attimo per asciugarsi una lacrima clandestina. Guardò Quincy negli occhi: ora l’uomo la fissava serio come poche volte l’aveva visto in vita sua.

- Mi stai dicendo la verità Jaqueline?

Di natura era sospettoso, e la chiamava col nome intero perché la stava prendendo sul serio e nessuno stava scherzando. Annuì decisa guardandolo negli occhi e si preparò a continuare.

- La pelle gli brucia perché è molto sensibile alla luce. Non può stare al sole senza scottarsi e anche i riflettori a volte gli danno qualche problema. Il trucco serve per nascondere le cicatrici della vitiligine e del Lupus.

Quincy aggrottò un sopracciglio.

- Non mi hai ancora parlato di questa malattia su di lui.
- L’abbiamo scoperta da poco. In pratica, sarebbe la causa di molti problemi alla pelle che ha avuto sin da piccolo, come l’acne assurda di quando avevamo 15 anni. Ed è anche la causa delle febbri mensili e della debilitazione generale che lo prende ogni tanto. Lo butta davvero giù, è una malattia terribile.
- Ma si può vedere?
- Si, in genere. Michael la nasconde molto bene con il trucco, ma deve metterne molto. Per questo Karen è sempre con noi. Lei è una delle poche persone che conoscono questo, e per ovvi motivi.
- Non capisco Jackie: una malattia della pelle provoca febbre e debolezza in generale?
- Si, perché prima di essere una malattia della pelle e una malattia che attacca tutto l’organismo. A volte gli procura anche dolore alla schiena, alle gambe e alle braccia. Attacca tutto il corpo.

Fecero una breve pausa. Jackie non riusciva ad andare avanti con la freddezza con cui aveva cominciato a parlarne e anche Quincy era sconvolto. Si allontanò per preparare il tè mentre Jackie rimase a passeggiare nel soggiorno.
Pochi minuti dopo si sedettero di nuovo l’uno di fronte all’altro, consapevoli che l’argomento non era ancora finito.

- Cosa dicono i giornali esattamente Q? - chiese Jackie con lo sguardo perso nel vuoto.
- Tu non li leggi?
- Quella robaccia? Non ci penso nemmeno. Tutta spazzatura, non dovresti leggerli nemmeno tu.
- Dicono davvero roba incredibile. Che si sta sbiancando la pelle di proposito perché è razzista e che sta cambiando i suoi tratti con la chirurgia plastica per assomigliare a un bianco anche nei lineamenti.

Jackie fissò il produttore con gli occhi fiammeggianti di rabbia.

- Non c’è niente di più assurdo!
- Questo lo so anche io. Ma questo è quello che vogliono far credere alla gente.

Jackie scosse la testa, incredula e arrabbiata, sperando che Michael non vedesse quei titoli nemmeno per sbaglio. Ne avrebbe sofferto enormemente.

- Quindi il motivo per cui il suo viso è cambiato è riconducibile al lupus, Jackie?

Jackie riportò la sua attenzione sull’uomo. Almeno il suo adorato padre adottivo e, un po’, anche quello di Michael, almeno lui doveva conoscere la verità.

- Si, è così. In realtà, sono le cure che sta facendo che lo modificano leggermente. Infatti, come ti dicevo prima, non trovi traccia di una operazione precisa. E insieme allo schiarirsi della pelle, il cambiamento sembra accentuato in maniera drastica.
- Ma mi hai detto prima che non c’è cura per questa malattia..
- E’ vero, non .. Non puoi guarire. Ma il lupus lascia dei segni tremendi, e una cosa che si può fare è cercare di cancellarli con le medicine. E Michael lo deve fare per forza: la sua faccia finisce su tutti i giornali tutti i giorni, e lui morirebbe piuttosto che mostrare le sue cicatrici.
- Cicatrici? - esclamò Quincy, inorridito. Non ne aveva vista mezza sul viso del suo amico. Jackie annuì tristemente.
- Ne è pieno.
- Io non ho notato nulla.
- E’ quello che vuole, che non si noti nulla. Hai solo visto che il suo volto è cambiato, e non sai spiegarti perché. So che sei stranito, ma la verità è questa. Le cure che sta facendo per nascondere e lenire, per quel che si può, le cicatrici del lupus gli modificano leggermente la faccia.
- Incredibile. - mormorò Quincy, lo sguardo perso nel vuoto dopo la conoscenza di quella orribile e cruenta verità. Michael, il suo esperimento più riuscito, il suo caro amico, il suo ragazzo, era così tanto malato?
- Questa è la verità Quincy, devi credermi.
- Lo so che mi stai raccontando il vero Jackie. Ma sono sconvolto.
- C’è dell’altro: avrai notato che negli ultimi tempi è dimagrito tantissimo..
- Si, ieri quando ci siamo visti ho scherzato pure sulla cosa. C’entra con le malattie?
- Si, in parte. Le cure lo stanno debilitando molto, e non gli fanno assimilare molto nutrimento, pare. Inoltre, lui è veramente provato psicologicamente per tutto questo, non mangia moltissimo.. - aggiunse preoccupata.
- Lo immagino. - Restò in silenzio un paio di secondi, e si rivolse a lui con lo sguardo comprensivo che lei aveva sperato dall’inizio le rivolgesse. - Ora capisco tante cose.
- Non sei arrabbiato perché non te ne ha parlato vero?
- Prima lo ero, ed ero anche dispiaciuto perché penso di meritare la sua confidenza, ma ora capisco. E hai ragione: non è il tipo che si piange addosso e che vuole che altri lo facciano per lui. Nasconde i suoi enormi problemi con grande coraggio e questo gli fa onore, anche se gli effetti sono comunque visibili.

Jackie si lasciò andare a un silenzioso e riservato sospiro di sollievo, e sentì il cuore farsi più leggero.

- Sono felice che tu abbia capito Q. Per me è molto importante, e anche per Michael.
- Ora cosa pensate di fare?
- In che senso?
- Le cure continueranno fino a che punto?
- Non c’è una fine in realtà. O se c’è, non la vediamo e non la conosciamo. Te l’ho detto, non c’è una cura definitiva, e sono entrambe forme acute che possono presentare imprevisti in qualunque momento.

Quincy annuì pensieroso. Una goccia di sudore tradì la sua preoccupazione.

- Come pensi che sarà in futuro? Fra 5-6 anni magari? - le chiese. Jackie non dovette pensarci più di tanto: lei e Michael si erano già fatti quella domanda.
- Sarà tutto più difficile. - rispose con tono rassegnato. - Se la vitiligine continua come ora, si espanderà in tutto il suo corpo, e lui sarà completamente diverso.
- Cioè.. Diventerà bianco? - chiese Quincy, inorridito.
- Non bianco. La pelle colpita non diventa bianca normalmente, ma è opaca, quasi trasparente… Non.. Non è piacevole da vedere…

Si morse il labbro dopo quell’ultima frase. Si sentiva in colpa e triste. E confusa: non conosceva il nome della sensazione che maggiormente la dominava nei confronti dell’aspetto del suo amico. Pietà? Orrore?
Mentre Q si allontanava per prendere qualcosa di caldo da bere entrambi, lei si prese tempo per pensare. Cosa c’era che non andava in lei?
Meditò per qualche minuto.
Cosa provava lei nei confronti di quel corpo maschile che andava mutandosi?
Curiosità, in primis, perché avrebbe voluto averlo visto per intero, giusto per mera curiosità. E poi tristezza, perché immaginava di avere lei stessa quella malattia debilitante. E al pensiero della cicatrici e delle debolezze, provava tristezza. Non pietà. No.
Avrebbe toccato quelle ferite per accarezzarle e donare amore a chi le portava. E non solo.
Si sentì sospirare in un modo molto strano. Era da tanto che non sospirava così.
Da quando Thomas aveva smesso di toccarla.
Sbarrò gli occhi fissando il vuoto. Il cervello in blackout.
Cosa.
- Ho portato del caffè. Per te con latte e senza zucchero. - Si sedette accanto a lei. - Dovremmo cercare di concentrarci adesso. Dobbiamo ancora rivedere questi testi.
Che professionista che era, Q. Stava cercando di recuperare la situazione ed essere forte.
Lei avrebbe dovuto fare lo stesso.
Soffocò le nuove e potenti energie che aveva sentito salirgli come un geyser dal centro dell’osso sacro e ridusse la propria mente alla musica.
 
———

Q era riuscito a riportare quella giornata in un clima di serenità condivisa.
Jackie era felice di avergli parlato, di avergli fatto capire che Michael non si confidava con nessuno, nemmeno con lei.
Molte cose non le raccontava nemmeno a sè stesso.
D’altronde, nel periodo precedente, lui stesso era stato occupato a prendersi cura di lei.

Ciò che Michael non sapeva, e che credeva di aver riempito coi gelati, era l’enorme buco di riflessione che si era aperto nel cervello di Jackie. E nel suo cuore.
L’abbandono dell’uomo che le aveva chiesto di sposarla, motivato da qualcosa che era unicamente colpa sua, suonava duramente come una stordente campana di fallimento. Tanto che poteva sentirne lo stesso sapore del ferro se si umettava le labbra.
E adesso cosa ne sarebbe stato di lei?
Avrebbe continuato la propria vita come se nulla fosse successo, normalmente ma con un pizzico di malinconia in più. A 25 anni sposarsi era un traguardo più che ragionevole per una donna negli anni ’80.
Anzi, un traguardo obbligato.
Quante erano le donne della sua età non ancora sposate?
Che ne conoscesse, e Jackie conosceva davvero tanta gente, nessuna.
Nessuna che lavorasse senza marito, nessuna che stesse a casa senza un marito che le badasse a quell’età, nessuna che non stesse a casa coi figlioli mentre il marito provvedeva alla famiglia.
E lei?
Lei era una scapola, 25 anni ma con un viso tutto sommato che ancora sembrava quello di una ragazzina, senza marito e senza dote.
Senza possibilità di essere una madre.
Solo con una gran quantità di lavoro fatto e da fare, risultati eccellenti ma nascosti dalla riservatezza che tentava, un po’ come Michael, di conservare.
Lei, solo con la sua carriera e il suo posto a fatica guadagnato, di rispetto e di professione in un ambiente di uomini dominanti, lei che segretamente a tutti fuori dal lavoro studiava per gli esami dell’università.
Ora che la possibilità di un imminente matrimonio le si era sgretolata dalle mani, altro non restava che rimboccarsi le maniche fradice di lacrime e darsi una mossa con quello che le riusciva meglio di fare: adattare canzoni e scriverne di nuove ancora migliori.

Doveva riconoscere che anche lei non era del tutto sincera con sè stessa.
Dopo la vicenda di Thomas si era gettata nel lavoro, nell’arte, come una lira dalle corde tirate.
Era appassionata, certo, ma voleva anche soffocare quelle urla interiori che la incolpavano di non poter essere madre, quelle pressioni sociali che ora facevano parte del suo inconscio che la degradavano come donna per via di quel difetto, che la umiliavano dandole dell’ibrido, poiché era una donna ma lavorava come un uomo.

Ma ciò che Jackie non sapeva, e che mai nella vita avrebbe immaginato, è che da lì a due decenni sarebbe diventata ciò che mai avrebbe creduto di essere: un’icona del mondo che stava cambiando.
Perché lei, a propria insaputa, era la prima donna nubile che stava diventando qualcuno grazie alle proprie capacità e al proprio bel carattere e professionalità, senza passare sotto i riflettori come una qualsiasi altra donna avrebbe dovuto fare per definirsi davvero qualcuno.
Lei stava facendo carriera, scalando la vetta come solo gli uomini prima di allora, per maschilismo o semplice storia, avevano potuto fare.
 
---------

Bentornati a chi è rimasto. Come ho promesso a me stessa molti anni fa, la storia continuerà fino alla fine. Un abbraccio a distanza a chiunque arrivi fin qui con il piacere di averla letta. Spero che possa donarvi tanto quanto ha donato a me.
A presto.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Non amare è un lungo morire.


- Sycamore comunque non è male come nome.
- Voglio chiamarla Neverland.

Si era ritrovata, nella vita, a fare quello che mai avrebbe creduto di fare. Era diventata più celebre di quanto avrebbe voluto, più ricca di quanto le interessasse. E come era potuto accadere tutto ciò?
Lei, che era alta come un soldo di cacio, non bella a suo dire, non una modella, una star, una figura politica. Una semplice compositrice laureata in filosofia, figlia di persone semplici e sconosciute.
Lei, che nella vita non avrebbe desiderato altro che fare la madre, essere grassa o comunque in carne, stare a casa a badare alla famiglia. E invece non si era sposata e non poteva avere figli. La natura le aveva spezzato il suo desiderio più grande. Per una serie di coincidenze e conoscenze si era ritrovata già da piccolissima in mezzo ai grandi, i veri grandi dello spettacolo, che le avevano insegnato tutto, tutto di una cosa che aveva imparato ad amare più per averla vissuta che per passione innata. Aveva scoperto di avere talento, tuttavia, nel fare quello che le avevano insegnato: tutto in quel lavoro le riusciva disturbamente naturale e spontaneo, e le veniva bene.
Scriveva successi, e da sola aveva fatto carriera, carriera in un lavoro che quindi non aveva desiderato di fare ma che non poteva evitare, essendo a quanto pare così brava e così fortunata. Certo, non sarebbe riuscita a fare niente se non l’avessero inserita (raccomandata!) in quell’ambiente dove una donna non poteva stare se non sopra il palcoscenico. Era arrivata fin lì grazie a qualcuno.
Allo stesso modo, quando tornava a casa, in Italia, e rincontrava i numerosi amici che si era fatta, non poteva non pensare che essi l’avevano incontrata chiedendole di sua madre, se per caso fosse sua parente e, scoprendo che era la figlia di Anna, non erano riusciti a non apprezzarla direttamente a partire da quello.
Il fatto che poi l’apprezzassero sinceramente le sembrava irrilevante se unito al fatto che, sia come persona che sul lavoro, aveva avuto la spinta iniziale grazie a qualcun altro: nel lavoro grazie a Mike e alla famiglia Jackson, nella vita grazie all’amabilità della propria madre.
Ma quindi lei cosa aveva fatto se erano sempre stati gli altri ad aprirle il sentiero davanti al naso?
In preda a questi pensieri non riusciva a non sentirsi enormemente triste, enormemente inutile.
L’unica cosa che avrebbe voluto fare nella vita era un sogno irrealizzabile, era finita a fare un lavoro che non era mai stato il suo obiettivo e che svolgeva perché era troppo brava per non farlo. In più, tutti la vedevano in modo particolare perché era l’unica donna indipendente, libera e nubile che si destreggiava in quell’ambiente di soli uomini, in una cultura americana che vedeva come principale obiettivo di una persona quello di formarsi una famiglia in cui l’uomo lavora e sostiene economicamente la moglie.
Lei avrebbe dovuto essere quella moglie, avrebbe voluto esserla, e invece si era trovata a fare il marito di sé stessa.  

Ripensò al suo ultimo Capodanno trascorso con Michael.
Erano stati solo loro due, come gli ultimi anni della loro vita. Due contro il mondo.
Perché per quanto fossero persone di successo, apprezzate e anche amate, non potevano che volersi difendere dal Sole di Icaro verso il quale le loro ali li stavano portando.
Il suo ultimo Capodanno si era svolto in un ristorante di lusso, circondati da calici di cristallo e solitudine.

Si poteva essere soli insieme? Si era mai sentita lei stessa, veramente sola?
Da quando l’aveva conosciuto, con l’eccezione di alcuni momenti, si era sempre sentita ’insieme’ a Michael, e non poteva immaginare qualcosa di diverso da quello.
Anche se, ripensandoci, c’era stata un’occasione in cui Michael si era distaccato da lei per raggiungere un luogo senza spazio dove non aveva potuto raggiungerlo. Era stata la sera della Motown 25, durante il suo numero da solista. Si era messo a ballare in modo divino, e lei era rimasta a guardarlo incantata come tutte le altre persone. Ecco, quella sera Michael era diventato irraggiungibile anche per lei, nonostante sentisse che una parte di sé fosse sempre rimasta, in qualche modo, con lui.
In qualche modo, erano sempre loro due.
Non poteva immaginare una solitudine che non fosse senza Michael, come non poteva immaginare una solitudine con Michael.

- Jackie, è arrivata una telefonata per te.
- Scusami.

Si alzò dalla poltrona e uscì dalla stanza, dal salotto dove le sue silenziose riflessioni erano state accompagnate dalla presenza dell’inconsapevole oggetto dei suoi pensieri. Michael le sorrise, nascondendo un velo d’inquietudine dietro gli occhi calmi.
Era sempre eccitato quando parlava della casa che stava cercando di acquistare, la casa dei suoi sogni, ma quel giorno sembrava particolarmente tranquillo.
Ho una brutta sensazione, le aveva detto.
Rimuginando su cosa potesse mai essere quell’incognita, Jackie raggiunse la cornetta.

- Dolcezza.
- Albert? Sei già tornato dal Canada?
- Dolcezza, dobbiamo tornare a Gary.
- Perché mai? - E mentre lo diceva, intuì già il motivo.
- Mi ha telefonato mio fratello, Hammer. Tu non l’hai mai conosciuto. Nostro padre è morto. L’hanno trovato in casa: secondo il medico, è morto la notte di Capodanno.

La voce di Albert era amara, ma non davvero triste. Come poteva esserlo? Quell’uomo non era stato che per entrambi poco più di un mostro.
Eppure, in quel momento, Jackie avvertì la solitudine come mai prima di allora.
L’immagine di un uomo vecchio e solo, brutto di cattiveria e con il fisico lacerato dall’alcool venne sostituita da un uomo vestito di nero e circondato da luce, che ballava da solo come se fosse l’unico abitante dell’Universo.
Rabbrividì.

 
———



Michael era meraviglioso, ma talvolta mostrava segni d’insofferenza. Non sapeva esattamente da cosa fossero dovuti, ma contraddicevano tutto quello che lui era in realtà.
Come se in certi momenti lui non fosse più esattamente lui. Certo, Jackie sapeva che in momenti difficili alcune persone si facevano prendere dalle emozioni e quindi si comportavano in modo diverso, spinti dal proprio inconscio.
Lei non era una di queste. Avvertiva le emozioni montare, ma le combatteva con una forza che non sapeva nemmeno da dove provenisse. E le reprimeva, per fare quello che voleva lei.

Anche al funerale del padre, circondata da una piccola folla di parenti che non aveva mai visto e che non sembravano intenzionati a conoscerla, non aveva versato una lacrima.
Aveva rivolto una preghiera per quell’uomo dall’anima dannata, forse lo aveva perdonato, ma più per la propria idea di bene divino che per certo desiderio.
Aveva rifiutato con volontà le lacrime che aveva sentito salirle agli occhi. Il suo corpo voleva piangere ma lei non glielo permise.
Per il padre, per sé stessa, perché nessun funerale andrebbe celebrato in un giorno di pioggia.

Non era sicura che questa fosse una modalità del tutto sana di agire, ma sapeva che per adesso le era funzionale.
Quello che la preoccupava, in quel momento, era Michael. Era a lui che doveva pensare adesso.
‘E’ strano’ rifletteva, ‘il tuo è un senso di abbandono sociale che non appartiene a te’, pensò come se si stesse rivolgendo direttamente a lui.
Ricordi rilevanti di quando, con quel poco di contatto umano che riusciva a ottenere, lui rinnegava tutto. Anche quelle poche briciole di luce e amore che poteva ottenere. Quella necessaria consolazione.
Che lui rigettava come un martire.
E’ troppo grande, troppo intensa e ingiustificata, e non appartiene a te.
Sorrise per via dei successivi pensieri.
Hai un carattere un pò da bambino a volte, e va bene, ma non sei il tipo da condannarsi così. La causa, la causa sarà un’altra cosa’.

Che la causa potessero essere gli sbalzi ormonali dovuti al decorso della malattia di Michael, che modificava metabolismo e umore, questo Jackie non poteva saperlo, e non lo immaginò nemmeno.
Pensò anzi che, se avesse voluto che Michael si confidasse con lei, lei medesima avrebbe dovuto aprire il suo cuore a lui.
Così un giorno che erano insieme lo prese da parte e gli confidò la natura dei suoi recenti pensieri, seppur in modo un pò distorto.
Gli disse che avrebbe voluto essere diversa.
 
- Sarei voluta nascere maschio.
- Prego?
Lei lo guardò scuotendo la testa.
- Ma si, avrei preferito. Sarei più forte e in grado di proteggere le persone che amo, sarei sicuramente più sicura di me stessa se fossi un uomo. Inoltre, per me le donne devono poter avere figli per essere tali, e io non mi sento tale perché non posso averne. Quindi… - Lo guardò con occhi tristi, schiava inconsapevole di un pensiero secolare.
Lui la fissò atterrito.
- Non dovresti dire certe cose. Sei una ragazza coraggiosa e forte che è perfettamente in grado di proteggere chi ama e di badare a sé stessa, al contrario di ciò che crede.
Le accarezzò i capelli e il viso.
- E che ha la fortuna di essere bellissima e perfettamente donna anche se, purtroppo, non ci saranno bambini.
Si guardarono tristemente, perfettamente coinvolti nella sventura.
Ma Jackie non riuscì a tollerare a lungo quello sguardo e si voltò, sottraendo i propri capelli alla carezza di Mike.
Lo sentì sbuffare. Lo guardò di nuovo.
Gli occhi di lui diventarono un tutt’uno col mondo da quanto erano lucidi e profondi.
- Se tu fossi nata come vorresti essere, a quest’ora ti staresti lamentando comunque perché ti mancherebbe qualcosa che hai ora. - Le si avvicinò.
- Non credo di avere molto da desiderare sai?
Gli lanciò un’occhiataccia, riferendosi alla propria sterilità, al primo seno minuscolo, alla propria statura e ad altri mille difetti, fisici e caratteriali.
Lui la guardò malissimo e lei si zittì. Per un attimo Michael le era sembrato davvero arrabbiato per quello che aveva detto.
Le appoggiò le mani sulle spalle.
- Bellissima. - Le disse, e lei rimase a fissarlo. - Bellissima e straordinaria. Tu non ti rendi davvero conto di cosa sei. Vorrei che potessi farlo, rimarresti abbagliata.
- Michael…
- Sei una persona meravigliosa, Jaqueline Annie Foster, per quanto tu possa desiderare di essere altro. Tutte le parole belle del mondo non basterebbero per descriverti.
Lei stette zitta.
Non parlava Michael, parlava il suo spirito, quello che usciva fuori solo in rari momenti e che era così forte che non poteva essere contraddetto.
- L’importante, quindi, è accettarsi per come si è. - Concluse allontanandosi, e al sentirlo lei avrebbe voluto corrergli dietro.
Proprio lui aveva parlato!
Pensava forse che non si fosse accorta delle cicatrici, delle fasciature, dei cambiamenti che lui stava apportando al suo corpo approfittando della malattia per sentirsi meglio con sé stesso?
Aprì la bocca per parlare ma non le uscì un fiato.
Quello che in principio era un discorso incoraggiante e bellissimo e che lei avrebbe voluto trasformare in un momento ancora più spensierato, improvvisamente divenne così triste e insostenibile che tutto morì all’istante.
Il mondo smise di roteare come aveva sempre fatto e la lasciò immobile e priva del soffio della volontà.
Forse Michael doveva aver percepito questo cambio d’animo in lei perché tornò indietro, le prese le spalle con delicatezza e le strinse. Lei non potè che guardarlo negli occhi.
- Jackie, non sono i figli a renderti donna, ma è la tua persona stessa a farlo. Sei meravigliosa e l’uomo che amerai sarà il più fortunato del mondo. - Disse sinceramente, guardandola fissa per farle capire che non stava mentendo, e che ci teneva che lei capisse.
Lei ricambiò lo sguardo, un’ombra strana negli occhi, e lui si sentì stranamente coinvolto e legato.
- Grazie Michael.
Si abbracciarono con slancio, mentre lui rifletteva sul lampo che aveva sentito.
Perché il corpo di Jackie a contatto col proprio gli dava sensazioni che conosceva da sempre ma che per qualche motivo ora gli sembravano diverse?
Le circondò la vita con un braccio e le appoggiò l’altra mano sulla schiena in una dolcissima carezza.
La carne di Jackie fra le sue mani sembrava aver acquisito una consistenza nuova, particolare, che gli faceva venire voglia di toccarla ancora. Per sentirla meglio, per sentirla viva e calda.
I suoi capelli profumavano di fiori e di lei, ma nascondevano il suo viso al proprio sguardo.
Lei era sfuggita ai suoi occhi, questo lo aveva visto bene, ma non capiva il motivo e, credendo poi che non ce ne fosse alcuno, appoggiò il mento sulla testa ricciuta e si rilassò.
Jackie lo stringeva forte, le mani a circondargli perfettamente i muscoli tonici dei fianchi dritti e la guancia premuta contro il petto magro.
Riusciva a sentire attraverso il tatto la durezza della ossa, tanto lui rinunciava al cibo, ma di ciò in quell’ora non se ne curava.
Era troppo impegnata a trattenere le lacrime che i pensieri attuali le provocavano. La sopraffacevano con la loro intensità.
Michael’, pensava,’Sei una persona meravigliosa. Hai un’anima nobile e io ti voglio tanto bene e non ti abbandonerò mai’.
Deglutì, mentre una e una sola lacrima millenaria sfuggiva al suo invincibile controllo, vinta da una nuova e brusca rivelazione interiore.

Sei tu l’uomo che amo. Se potessi avere figli mi piacerebbe dirtelo.
 
E la tristezza la abbracciò dall’alto.
La consapevolezza la raggiunse come un’ondata gelida sulla schiena, e le dita si strinsero sui lembi della camicia.
Lui, accorgendosi dell’improvvisa rigidità della castana, le prese le spalle e cercò di guardarla in faccia.
- Jackie, che succede? - chiese preoccupato. Lei gli si strinse ancora di più.
- Niente, vorrei solo starti vicino ancora un minuto. - sussurrò con voce bassa. Lui sbatté le palpebre, le gote leggermente rosee.
- Certo, ma va tutto bene?
- Naturalmente. - rispose, mettendo un sorriso nel tono di voce. Si rilassò contro di lui.

E mentre Michael la circondava di nuovo con le braccia, e si lasciava andare con la testa sui suoi capelli, godendosi uno dei pochi sinceri abbracci della sua vita, lei soffocò glacialmente ciò che aveva appena sentito.
Il suo cuore si era legato all’uomo che la stava stringendo.
Avvertiva chiaramente un forte rossore sulla faccia, come mai le era successo, il cuore che sembrava una carica di cavalieri, e l’intera energia dell’amore che la invadeva da sotto in su.
Lo adorava, sì, e non solo.
L’emozione era tale che avrebbe voluto urlare.   

 
———



Nelle settimane che seguirono Michael non le sentì più fare discorsi del genere, e ringraziò Dio per quello, perché vedere Jackie crollare sotto il peso del mondo e delle disgrazie che le erano capitate era una cosa che gli toglieva il respiro.
Ma lei sembrava essere ritornata la solita Jackie, la persona più sorridente che conosceva, e ne era grato.
Mentre lui stesso non poteva sentirsi più diverso da come era prima.

Metà del suo cuore era immerso nella musica. Si sentiva ispirato e ambizioso, e la voglia di non solo eguagliare Thriller ma addirittura superarlo lo rendeva euforico e pieno di energia.
Il medico gli aveva suggerito di rallentare il ritmo lavorativo ma non poteva permetterselo. Quando non era in studio a registrare con Q passava il suo tempo con l’architetto a progettare Neverland e con il coreografo a ideare nuovi passi di danza. La notte, quando l’insonnia non lo faceva dormire, studiava, leggeva e pregava.
Aveva proposto a Jackie di fare un viaggio, l’ennesimo per festeggiare Thriller, ma lei l’aveva rifiutato a causa del suo nuovo ingaggio di tour manager di Diana Ross.
Lui le aveva tenuto il broncio per due giorni, ma una telefonata di Diana stessa l’aveva fatto desistere. Non poteva non essere più che felice per il successo di Jackie.
Ricevette l’invito per il ricevimento di Diana. Sarebbero stati presenti molti vecchi amici e colleghi della Motown, così decise di partecipare nonostante la presenza dei suoi fratelli e la propria avversione per gli eventi mondani.

La festa si teneva in una lussuosa villa della costa orientale molto rinomata per il clima e il panorama quasi tropicale. Era stata la dimora di molte celebrazioni di Elvis Presley e altri come lui.
Nonostante fosse quasi abituato ad essere circondato da sfarzo e ricchezza, non potè evitare di ammirare l’architettura ricca della costruzione. Prese spunto di alcuni dettagli gradevoli che, pensò, avrebbe fatto aggiungere al progetto per la propria casa, ed entrò.
Non poteva sperare di passare inosservato. Molte persone lo circondarono per chiedergli chi un autografo, chi una collaborazione, chi un complimento. Quantomeno l’evento era privato e per quella sera avrebbe potuto godere dell’assenza dei fotografi e dei paparazzi.
Quell’ultimo pensiero lo irritò temporaneamente: aveva di recente discusso con Frank per una voce che proprio il manager aveva contribuito a mettere in circolazione, e quell’atteggiamento lo aveva mandato su tutte le furie. Non sapeva come, ma DiLeo era riuscito a farlo calmare e a spiegare che quella mossa era premeditata e che serviva per la sua fama, e soprattutto che non avrebbe avuto ripercussioni negative nonostante la bizzarria della voce stessa che riguardava le ossa dell’Uomo-Elefante.
La logica di DiLeo lo aveva calmato sul momento ma, ripensandoci ora, si sentiva irritato e nervoso.
Cercò di calmarsi e si concentrò sulle persone che lo circondavano, nascondendosi dietro il vetro degli occhiali, finché scorse Q che lo raggiunse.
Era come vedere un raggio di sole dopo giorni di pioggia.
- La tua fama ti soffocherà - disse il produttore in tono scherzoso, mentre lo conduceva al tavolo dei vini. La frase lo fece comunque rabbrividire.
- Hai già visto Diana?
- Ti porterò da lei non prima che avrai salutato il vecchio Berry, o ti terrà il broncio finché vivrà.

Le commissioni sociali lo stavano rendendo insensibile, tanto che quando scorse l’ospite e la sua accompagnatrice, che non vedeva da qualche settimana, un tempo record per loro, ne fu come scottato.
Jaqueline era bellissima. Ma bella davvero.
Il vestito dorato le fasciava il corpo in modo semplice, ma così elegante e regale da farla sembrare una regina.
Eppure lei aveva un portamento così discreto e umile che, nonostante fosse davvero uno splendore, scompariva di fianco a Diana, e per vederla bisognava proprio guardarla e soffermarcisi per notare che fulgido abbaglio si rivelava.
Da quando l’aveva vista Michael la spiava da dietro gli occhiali, non riusciva a fare altro.
Persino parlare con altre persone, cosa che normalmente prendeva il massimo dell’attenzione, in quel momento gli riusciva abbastanza difficile.
E come poteva non esserlo? Lei era bellissima, e non riusciva a smettere di ammirarla.
Si mordeva il labbro fissandola di nascosto da tutti, impassibile a poca distanza. Nessuno avrebbe saputo dire, se non un attentissimo osservatore, che il Re Del Pop era concentrato su di lei, poiché sembrava assorto.
Lei era girata di spalle, affiancava Diana in una conversazione con una persona importante, un ministro o un governatore.

Quel signore pomposo era fastidioso da ascoltare, parlava di problemi seri come se fossero cose comuni, ma per educazione cercò di prestare attenzione.
Tra l’altro sentiva una strana sensazione, come una leggera pressione ai lombi e un calore sulle braccia.
Si voltò lentamente, leggermente perplessa.
I suoi occhi, rivolti per lo più verso il pavimento per la paura di sorprendersi a fissare qualcuno involontariamente, passarono in rassegna varie gambe e piedi degli invitati, fino al vuoto nel pavimento esattamente dietro di lei, che a breve distanza ospitava una presenza a lei ben nota.
Alzò gli occhi da sopra la spalla e vide Michael.
In piedi, immobile come una statua, sembrava rivolto verso il vuoto di fronte a sé, ma lei non aveva bisogno che si togliesse gli occhiali per giurare che stava guardando lei.
Nonostante le barriere fisiche, i loro sguardi si incrociarono.
Jackie arrossì e fece un mezzo sorriso imbarazzato.
Si accorse che le era mancato.
Lui si morse il labbro per l’ennesima volta e fece un piccolo ghigno e un cenno del capo come per salutarla, portando le mani dietro la schiena e senza smettere di fissarla.
Jackie era indecisa se voltarsi o no, dato che Michael continuava a guardarla e non capiva cosa volesse da lei.
In realtà, sembrava non volerle dire niente di particolare.
La guardava come lei guardava lui, senza un chiaro messaggio, solo uno scambio di sorrisi.
Però c’era qualcosa che le sfuggiva: perché quella conversazione silenziosa, quelle sciocchezze, la rendevano così felice?
Dovette abbassare lo sguardo un paio di volte per cercare di contenere un sorriso a 32 denti che sentiva nascerle in volto, e che per motivi poco importanti non voleva mostrare in pubblico.
Nei momenti in cui lo guardava lui capiva che lei si stava trattenendo dal ridere, e continuò a torturarsi il labbro, aspettando il momento in cui lei avrebbe ceduto.
A guardarla si sentiva il volto in fiamme.
Dio, era adorabile.
Aspettò un minuto e oltre, finché lei non sbirciò dietro di sé per controllare Diana, e nel voltarsi le sue labbra si aprirono in un sorriso, e i suoi occhi incontrarono quelli di lui surclassando la presenza degli occhiali.
Quello era un sorriso vero, sincero, e quello era uno sguardo d’amore, d’affetto, di felicità, che lambì il suo cuore come un’onda di lava, trafiggendolo con un ago di ferro.
Bella come il sole, bella come Dio.
Durò un attimo.
Diana si mosse e, come se l’avesse vista, Jackie si voltò subito per seguirla, dandogli le spalle, un attimo prima che Michael raggiungesse il cuore con la mano in un gesto involontario, cuore che aveva cominciato a picchiare forte contro la pelle.
Lo sentiva pulsare deciso come un tamburo africano, e da esso si sentiva sopraffatto.
Quello sguardo non se lo sarebbe mai dimenticato.
Restò a guardare la sua figura che si allontanava, vedendo che ogni tanto lei faceva il cenno di voltarsi verso di lui ma che poi tornava a guardare avanti, impegnata con Diana e il loro ospite.
E lui era ancora imbambolato lì, in piedi e con la mano sul cuore.
Non gli importava, si sentiva felice.
Immaginava vagamente il perché.

Quando Q lo raggiunse per prima cosa salutò i suoi accompagnatori, come seconda e ultima e da allora permanente non potè non notare la bellezza che aveva stregato tutti, quella sera.
Riuscì ad riavvicinarsi a Michael, e a scambiare con lui uno sguardo d’intesa.
I due uomini erano d’accordo: la loro Jackie era uno splendore indescrivibile.
- Non ho parole - commentò Q, quasi emozionato dal piacere che provavano i suoi occhi nell’ammirarla.
- Da condannare. - rispose Michael, con quel poco di voce che gli era rimasta.
Finalmente i due riuscirono a salutare Diana, che li accolse con calore e affetto.
Michael la abbracciò con amore, ma i suoi occhi erano fissi su Jackie.
- Michael, tesoro, quando imparerai a toglierti gli occhiali e a stare senza in mezzo a noi?
- Diana, sei sempre splendida. I miei complimenti per il tour, è stato fantastico. - le disse Q.
I due si misero a parlare, e Michael si ritrovò di fronte a Jackie.
Avrebbe voluto abbracciarla, ma non mosse un muscolo.
Lei lo guardava, gli sorrise un’altra volta, ma non si mosse. Aprì la bocca per parlare. Voleva dirgli che era sorpresa di vederlo a un evento del genere, ma non lo fece.
- Jackie, sei meravigliosa stasera. - disse Quincy, mettendosi fra di loro con un sorriso caloroso. Diana si era allontanata per parlare con qualcun altro.
- Q… - Jackie cominciò ad arrossire vistosamente.
- Che rimanga fra noi tre: sei la più bella stasera. - Il produttore le strizzò l’occhio con fare complice, e sorrise a entrambi. Michael non disse nulla, ma mosse il capo in un cenno d’assenso.
Jackie sentì i propri occhi diventare lucidi.
Presero da bere e passeggiarono fra gli invitati, commentando la festa. Sembravano circondati da persone per bene e, aggiunse Q, sarebbe stato assurdo vedere la metamorfosi non appena l’evento si sarebbe trasformato, come quasi ogni festa fra celebrità, in un’orgia di sesso, droga e segreti. Il produttore avvertì i due amici che, non appena avrebbe avuto il sentore dell’inizio del degrado, se ne sarebbe andato.
Jackie era incredula.
- Hai propria la faccia di una che non è abituata a questo genere di cose, Jackie. Buon per te! - commentò ridacchiando l’uomo che la vedeva come una figlia.
- Non posso credere che succeda quello che avete detto. Mi sembra assurdo.
Arrivarono due o tre uomini a farle delle proposte. Dopo l’ennesimo tentativo di abbordaggio, Jackie si rivolse a loro.
- Ok, adesso ci credo.
Ma rimase di nuovo incredula quando vide Diana fermarsi volentieri di fronte alle lusinghe degli altri, con sua immensa sorpresa. Michael non sembrava stupito quanto lei, quanto dispiaciuto e dissidente.
Aveva parlato poco quella sera, e non le era stato complice come al solito, ma lei attribuì questo comportamento al disagio nell’essere in mezzo alla folla.
Gli prese il braccio, toccandolo per la prima volta quella sera.
- Tu… Tu non sei sconvolto nel vedere queste cose?
- Jackie, abbiamo quasi trent’anni. Non dovresti esserlo nemmeno tu.
Ma l’inquietudine dipinta sul viso di lei lo fece desistere dalla volontà di starsene per conto proprio, e le strinse la mano.
- Andiamo a casa. Mi devi raccontare di queste settimane senza di me.
S’incamminarono nel buio del giardino, verso il parcheggio.
- Ah, sono state una goduria. Ogni tanto fa bene allontanarsi dalle persone permalose.
- Stai dicendo che non ti sono mancato?
- No, affatto.
- Eppure quella che hai indosso è la collana che ti ho regalato io.
- Può succedere in un modo governato dall’entropia, Michael.
- Dio ha voluto che la mettessi per mostrarmi quanto ti sono mancato.
- Le coincidenze accadono.
- Ti sta benissimo. Ho scelto veramente bene.
- Devi essere egocentrico anche quando fai i complimenti a una donna?
- Non a una donna qualunque. Solo a te, Jackie.

 
———


In quei giorni era uscito al cinema un nuovo film, e naturalmente Mike e Jackie non potevano lasciarselo scappare.
Si chiamava The Clan Of The Cave Bear, e faceva parte del genere di film che Jackie prediligeva. Era tratto da un libro moto particolare, e narrava una storia altrettanto inconsueta.
Quelle ambientazioni selvagge e incontaminate fecero battere forte il cuore della ragazza, così come il modo di comunicare a gesti dei personaggi. La protagonista era così bella, e il suo nome aveva un suono così suadente, che Jackie ne rimase profondamente ammaliata.
La vita primitiva che conduceva, le avversità e le difficoltà date dall'essere diversa, le fecero crescere una grande malinconia. Poteva essere davvero così semplice comunicare, con i gesti e le intenzioni, anziché con le parole e i fraintendimenti.
Affascinata, Jackie tornò a casa immaginando un mondo dove ciò potesse essere ancora possibile. Dove il disastro umano non si fosse radicato molto in profondità. Dove potesse essere ancora possibile vivere secondo le leggi di Madre Terra.
Jackie, tornando a casa, sognò l'Africa.

 
———


Era insonne da tempo ma la cosa sembrava non nuocere troppo alla sua salute. O forse lo stato d’euforia che lo pervadeva da mesi lo teneva sveglio e non gli permetteva di rilassarsi a sufficienza.
La notte, dopo che la casa si svuotava, lui scendeva e si chiudeva in palestra, dove poteva provare dei nuovi passi per i videoclip delle nuove canzoni. Sarebbe passato ancora diverso tempo prima di iniziare le riprese, ma si sentiva ispirato e voleva portarsi avanti.
Nuove idee, nuovi pensieri ma soprattutto nuove sensazioni e desideri lo rendevano energico e bisognoso di stancare il proprio corpo e la propria mente con la danza e la composizione, fino a prosciugarsi.  
Quella sera fu diverso.
Entrò e girandosi verso la stanza, trasalì.
Non solo i due assistenti ballerini, che lui chiamava apposta in orario notturno e perché erano simpatici, ma una nuova figura era appoggiata contro la parete a specchio. Jackie lo guardava impassibile, quasi minacciosa nonostante il suo abbigliamento scomposto che indossava per dormire.
La guardò come si guarda un’allucinazione.
- Cosa ci fai qui? - Aggiunse dolcemente. - Non dovresti essere a letto? - L’aver detto quella frase lo fece rabbrividire.
- Dove dovresti essere tu. - Si avvicinò. Vide una nota di preoccupazione nel suo sguardo, oltre che di stanchezza. - Da quanto sei insonne, Michael?
Sbuffò.
- Non lo so, non ho tenuto il conto dei giorni. - Le sorrise. - Ma sto bene.
Lo guardò senza credergli. Lui si mise una mano sul cuore.
- Te lo giuro. Non mi spingo mai oltre il mio limite e sto molto attento alla mia salute. In questo periodo però sono molto preso con nuove idee e ci sto lavorando sopra.
- Sono solo preoccupata. A volte esageri. - disse lei incrociando le braccia. Lui avvertì un moto di tenerezza.
- Se vuoi puoi restare qui a controllarmi, ma preferirei che tu andassi a dormire.
Lei lo guardò stupita.
- Mi stai dicendo che mi mostreresti qualcosa a cui stai lavorando? Qualche passo che non hai ancora mostrato a nessuno?
Lui le sorrise e le indicò un divanetto sul quale avrebbe potuto sedersi. Si era completamente dimenticato della presenza di altre persone.
Lei si accomodò, desiderosa di godere della bravura di Michael nella danza. Si sarebbe riempita gli occhi di quel talento.
Eppure la sua mente si soffermò su altro. Non solo la dinamicità dei movimenti e la loro grazia, ma anche la forma voluttuosa di quel corpo in tensione.
Riuscì a malapena a rendersi conto di star guardando Michael in quel modo nuovo e intenso che cominciò a sognare.
Ricordò un episodio di quando era bambina e viveva ancora a casa del padre. Quando Katherine le faceva da mamma adottiva e lei correva a casa dei Jackson per avere dei momenti di tranquillità.
In particolare, ricordò un momento in cui Katherine la stava consolando dopo che era scappata da qualcosa di spiacevole accaduto in casa. Cos’era stato? Forse un sopruso. La sua mente non voleva ricordarlo.

- Sei così giovane da essere inconsapevole. - Katherine l'accarezzò sulle guance e le ravvivò i capelli. - Ma il sesso è un argomento da adulti, e se tuo padre non ti rovina prima, con la grazia di Dio, potremo parlarne fra qualche anno.

Così Jackie ricordava alcuni frammenti di vita a Gary, e quei ricordi le sembravano così bui e tetri in confronto a ciò che era venuto dopo, che anche solo sognarli le faceva venire il mal di testa.
Allora in casa di suo padre era venuta a contatto, ancora piccolissima, con i sanguinosi pensieri degli adulti, e a nulla o quasi erano serviti gli sforzi di Albert per tenerla lontana dalla verità.
Doveva aver avuto almeno sette anni quando, ricordava, gli altri suoi fratelli la prendevano per le braccia, la facevano sedere sul davanzale della finestra e le ponevano domande imbarazzanti, a cui Jackie non aveva saputo rispondere. Poi ridacchiavano muovendo le dita su diversi parti del suo corpo, e quando lo facevano Jackie scoppiava sempre a piangere.
Quei "giochetti", come li chiamavano quei ragazzi incoscienti, finivano sempre quando Albert tornava dal lavoro in officina e adirato la strappava dalle loro grinfie, portandola con sé nella propria camera per cullarla o da Katherine, che provvedeva con le sue qualità di mamma a calmarla e coccolarla.
Ma certe immagini le erano rimaste impresse nella mente, e aveva subito tutta l'infanzia sotto il rinnego e il disgusto dei rapporti sessuali.
Crescendo sotto l'ala protettrice di Katherine e Albert, e successivamente della famiglia Flint in Italia, aveva capito come stavano le cose realmente.
Inoltre, aveva preso da Michael la capacità di non parlarne e di esserne esente da tutti gli effetti.
Almeno fino a Thomas, che aveva risvegliato la sua nascosta femminilità.
Il ricordo continuò.

- So già tutto del sesso - Jackie scrutò con gli occhi languidi la sua mamma adottiva, suscitandole sorpresa - Ho visto i cani della signora Stevenson. - Davanti a quella affermazione, così buffa espressa così seriamente da una bambina innocente, suscitò l'ilarità di Katherine, che decise di raggirarla furbescamente per terminare il discorso lasciandola disinteressata sull'argomento.

E cosa sai dirmi, precisamente, della storia d'amore fra quei cani? - Molto poco a quanto pareva. Ma Jackie era stata abbastanza astuta da riuscire a dissimulare la sua ignoranza in materia dicendo poco e facendo intendere molto.


 
———


Iniziò a ballare incurante di tutto, del tempo che passava e persino del batticuore che la presenza di Jackie gli provocava ormai da qualche mese.
In quello che gli parve poco più di un minuto, ma che avrebbe potuto essere un’ora come due, la coreografia era pronta. Soddisfatto, si asciugò il sudore dalla fronte e si accorse di essere solo.
Prese l’asciugamano, se lo mise in spalla e uscì.
Tutti se n’erano andati. Li aveva congedati senza rendersene conto, non era la prima volta che succedeva.
Era rimasta solo Jackie, o meglio, una parte di lei. La vide, seduta sul divanetto, con un braccio appoggiato a un bracciolo e la testa a ciondoloni da una parte.
Come diavolo aveva fatto ad addormentarsi in piedi senza cadere?
Rimase ancora per un minuto ad osservare sorridendo quella stramba scultura vivente, e decise di portarla a letto. Avrebbe avuto un gran mal di collo il giorno seguente.
Sogghignando, si avvicinò e si abbassò per prenderla in braccio.
- Ciao principessa.
Mentre lei mugugnava frasi senza senso senza svegliarsi, le passò un braccio sotto le gambe dopo averle messo il suo dietro il proprio collo. La testa di lei ricadde quasi indietro e poi rimase ballonzolando stranamente eretta.
La tirò su senza difficoltà. Era leggerissima, e solo allora notò quanto fosse dimagrita. Sapeva ovviamente che magra, ma non aveva immaginato così tanto. Domani le avrebbe fatto un discorso.
Raggiunse la camera da letto e la appoggiò sopra le coperte. Le tirò via le scarpe e le calze, lasciandole qualche affettuosa carezza, e lei mosse un piede appena sentì il solletico, facendolo ridere silenziosamente. Prese un’altra coperta e gliela rimboccò, fermandosi ad osservarla quando le fu vicino.
Jackie era proprio bella, anche se con un’espressione ebete e quel rivolo di saliva che andava ingrandendosi lì, al lato della bocca.
Glielo pulì con il dito e la osservò ancora. Le palpebre erano così morbidamente adagiate a chiudere gli occhi che sembravano ali di farfalla pronte a spiccare il volo.
Le arricciò una ciocca di capelli con il dito. Erano morbidissimi.
Lo sguardo ritornò sulle labbra. Immaginò di leccarle, prima quello superiore e poi quello inferiore.
Improvvisamente quel pensiero diventò una volontà quasi irrefrenabile, a bloccarlo solo la consapevolezza della peccaminosa erezione che nasceva nei pantaloni, e la presenza della sua amica come oggetto di quel desiderio.
Niente di eccezionale. Aveva trent’anni e si era fatto milioni di volte un pensiero simile su una donna. Ma adesso si sentiva accompagnato da qualcosa di nuovo ma conosciuto, un braciere formicolante all’altezza del petto e del collo, che sfociava in un vuoto risucchiante lì, nello stomaco.
Si rese conto che l’intensità di quell’emozione non era nel gesto, ma nell’identità della persona oggetto di quel desiderio.
In quello che provava per lei.
Un blocco alla gola. Insensibilità sulla faccia. Formicolii alle dita e tutte quelle cose al petto.
Il respiro gli si spezzò a metà mentre si chinava verso di lei, una lacrima gli si fermava sulle ciglia.
Non le toccò le labbra, ma quel respiro nella sua gola aveva l’esatto valore di un bacio. Di certo non lo aveva fatto tremare di meno.
Aprì la bocca, spostandosi all’altezza della sua guancia, lontano da quelle labbra tentatrici, che avrebbe voluto assaggiare con la propria lingua, che sentiva uscirgli sotto i denti.
Chiuse il pugno su una ciocca dei suoi capelli, e pensò come sarebbe stato bello stringerli più vicini alla radice, sentirla gemere e insieme dire un ‘Ahia!’ indignato, guardarlo con aria torva e insieme languida, gli occhi persi nei barlumi del piacere o lucidi di divertimento.
Respirò i vapori del suo collo e il suo ventre cominciò a pulsare in modo fastidioso. Gli sembrava che tremasse il letto.
Non era giusto per Jackie che lui stesse lì a pensare certe cose di lei. Cercando di muoversi il più delicatamente possibile, si scostò e indietreggiò fino alla porta, controllandola per la cieca paura che si fosse svegliata e accorta di tutto.
Una volta fuori, si accorse di un errore madornale. L’aveva portata nella propria camera, nel proprio letto.  
 
———



Da allora non era riuscito a guardarla più con gli stessi occhi. Quando era con lei, si sentiva come uno specchio in frantumi.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


 
Lascia che sia.

Una domenica l’intera famiglia Jackson si riunì in casa a Encino, come stabiliva la volontà di Katherine nel tenere unita la famiglia.
Le piaceva creare eventi che tutti i membri potessero apprezzare per stare insieme, dalla grigliata con barbecue e musica dal vivo per ballare, a prestigiatori per i nipotini.
Era bello godere di quelle possibilità, soprattutto per lei che ben ricordava la loro umile casa a Gary e gli anni di povertà. Ringraziava Dio ogni giorno per poter passare il tempo con i suoi figli e per quella agiatezza economica.
Certo, aveva delle preoccupazioni, come la costante rivalità fra i suoi figli per il successo, o Tito, che ultimamente si comportava in modo strano e aveva già accumulato alcune denunce. O Jermaine, che stava passando un difficile periodo al lavoro, i cui dettagli lei non sapeva ma di cui era certa che lui fosse stato raggirato.
Aveva educato bene i suoi figli.
Michael era quello che gli dava più preoccupazioni.
Sapeva che da tempo stava progettando la sua nuova casa poiché stare a Encino gli stava stretto, e lei già soffriva per la sua partenza. Gli sarebbe mancato averlo li. Inoltre, col cuore in lacrime, sapeva che gli altri fratelli lo puntavano, invidiosi del suo successo. Persino Janet, che lo assillava per carpirgli idee coreografiche.
Joseph era severo come sempre, e sembrava non avergli mai perdonato nulla. Nè l’essere il più bravo e il più ribelle, né il fatto di averlo abbandonato professionalmente.
Per quanto Katherine avesse visto il cambiamento in Michael e la sua rinnovata tranquillità dopo quella decisione, non poteva evitare di pregare perché ritornasse sui propri passi. Per il bene della famiglia.

Si mise a osservarlo. Anche quel giorno sembrava assorto. Indossava gli occhiali per nascondere alla vista degli altri i propri occhi e i propri pensieri. Cercò di capire cosa stesse guardando. Seguì la linea del suo sguardo. Incontrò Jackie, che teneva in braccio il piccolissimo TJ.
Disse mentalmente una preghiera anche per lei, come ogni volta che la vedeva vicino a un bambino, lei che era una disgraziata, che per volontà di Dio non poteva averne. Katherine sapeva che Jackie soffriva tantissimo per questa privazione.
Che Michael stesse empatizzando questo sentimento? Eppure Katherine non poteva allontanare il pensiero che l’interesse del figlio per Jackie nascondesse qualcosa di diverso. Qualcosa che lei per anni aveva sospettato ma che, dopo la scoperta della sterilità di Jackie, aveva sperato non accadesse.
Eppure, se Dio lo vuole, che sia così.
Qualcuno alzò il volume della musica. Era un brano di Fred Astaire.
Michael fece un’espressione di piacere e mosse le labbra come se canticchiasse il motivetto.
Katherine lo vide alzarsi e camminare e scorse Jackie mettere giù TJ, muovendosi a ritmo.
Con un gesto teatrale, occhi brillanti e canticchiando il brano, Jackie lo invitò a ballare.
Michael prese la sua mano e le fece fare una piroetta, prima di afferrarla e farla volteggiare con destrezza.
Da ospite timoroso si era trasformato nell’anima della festa.
Qualche amico si girò a guardarli ammirato. Katherine non potè non fare lo stesso, deliziata dalla coppia che danzava con sintonia.
Se Dio vuole, che stiano insieme.
 
———

 
Aveva voluto iniziare anticipatamente almeno le riprese per il video di Dirty Diana.
Alcune clip comprendevano la sagoma di una donna che camminava per strada al buio.  
Fecero i provini e Lisa Dean venne scelta come modella.
Non doveva rimanere molto con loro, svolgendo solo una minima parte del progetto, ma sin dal primo momento strinse amicizia con Jackie.
Certo, pensò Michael, senza stupirsene. Come avrebbe potuto non farlo.

Avevano concluso qualche ripresa del videoclip, Michael era nel camerino ancora con i vestiti di scena addosso.
Era stanco ma doveva concentrarsi. Stavano lavorando da giorni e non avevano ancora finito.
Bevve un pò di tè dalla bottiglia e chiuse gli occhi un momento, rilassandosi contro la sedia.
Anche Karen lo aveva lasciato solo per farlo riprendere un attimo.
Ma non c’era silenzio. Poteva sentire il chiacchiericcio della sala macchine lì vicino, parole che divennero sempre più distinte.
Riconobbe le voci di John, Jordan e Michael, e anche Alfred. Erano i nuovi stagisti e l’ultimo era il curatore scelto da DiLeo. Stavano parlando fra loro e ridacchiando.
Per qualche motivo, percepì che la conversazione non gli sarebbe piaciuta.
- Eeeeh - che suono fastidioso - Le paghi tu la cena?
- Se basta per portarmela a letto, anche due!
- Con la Dean! Ahahah!
- E’ una gran gnocca!
- Mi farei chilometri sulle sue gambe con la lingua.
Altri schiamazzi. Fece un’espressione disgustata.
- E la Foster?
Trasalì.
- Parliamo della Foster. Ha un fondoschiena da urlo!
- Ma l’hai vista?
- Si. Io quando l’ho vista in faccia mi sono innamorato. Perso, ragazzi. Poi appena è comparso il resto del corpo e mi sono reso conto di quanto fosse alta, mi si è retroflesso il pisello.
Schiamazzi.
Trattenne il respiro dallo stupore, inorridito.
Strabuzzò gli occhi.
- Ma dai, esagerato!
- Ma per favore, è alta come un soldo di cacio. Sembra una bambina!
- Però ha un bel culo e una bella faccia.
- E nemmeno un minimo di seno.
- Ha una vagina, quindi mi va bene. Ahahaha!
- Prima ci siamo parlati. Appena ha aperto bocca mi è venuta voglia di richiuderla, capite cosa intendo.
Altre risa. Rumori di movimento.
- Qui, si! Godi, godi troia!
- Ma che ci fa una così in questo posto?
- E’ la compositrice di Thriller e altri brani, è anche tour manager e sound technic.
- Dicono che sia un’amica di lunga data di Michael Jackson.
- Ma va, è una scusa. Secondo me ha dato più volte il culo per stare qui.
Aveva sentito abbastanza.
Furibondo si alzò e uscì dal camerino, deciso a dare una lezione a quegli maiali. Non appena fu fuori però, vide Jackie.
Era in piedi, gli dava le spalle, accanto all’ingresso della stanza dove quegli idioti stavano schiamazzando.
Il cuore gli cadde nei piedi: intuì che aveva sentito tutto.
Jackie uscì dall’immobilità e si girò di scatto, finendogli quasi addosso.
Aveva in mano un vassoio con del caffè.
Lo stava portando a quegli imbecilli.
Lo faceva sempre con chi lavorava con loro da poco, per farli sentire a proprio agio.
Il suo viso era una maschera di umiliazione.
Lo vide, ma distolse subito lo sguardo e cercò di superarlo.
La bloccò per le spalle.
- Jackie!
L’avrebbe abbracciata, se non avesse avuto quel vassoio in mano.
- Devo andare - rispose con voce lugubre.
- Dimentica quello che hai sentito - rispose lui - Sono degli idioti, dei meschini, non sono dei veri uomini. Ti prego.
- Non preoccuparti per me.
Aveva gli occhi neri e lucidi. Sì, che era preoccupato.
- Tesoro, non fare così.
Le accarezzò una guancia e cercò di farle alzare lo sguardo. Lei chiuse gli occhi, lui vide spuntarle le lacrime negli angoli.
- Fammi andare, per favore.
Non voleva piangere davanti a lui. Quanto cavolo era testarda.
- Va bene - La lasciò - Ma ti raggiungo subito.
Jackie andò via, e lui si diresse verso la stanza, dove gli schiamazzi erano stranamente cessati.
Li guardò in faccia uno ad uno.
Si ripromise che sarebbe passato diverso tempo prima che quelli avessero riso ancora.

Karen aveva visto la scena e inseguì Jackie.
La trovò in cucina, che si stava versando il caffè che stava precedentemente portando.
- Tesoro.
La castana si girò e la guardò. Chiunque avrebbe capito che stava contenendo il pianto.
- Salve - Le porse la caraffa - Caffè?
Karen scrollò le spalle.
- Sei sconvolta - si avvicinò - Che è successo?
Jackie sospirò, pensando che se avesse deciso di confidarsi sarebbe stato solo per non offendere Karen.
Aveva solo voglia di fuggire, ma non poteva farlo. Era adulta, doveva reagire con forza, o non sarebbe più riuscita nemmeno a guardarsi allo specchio.
Anche se sentire quelle cattiverie rivolte a lei e poi vedere Michael venirle incontro, bello come un Dio nel suo vestito di scena, era stato troppo e l’aveva fatta sentire ancora peggio.

Sentirono il vociare riguardo tre lettere di licenziamento redatte nell’arco di pochi minuti quando ritornarono nella sala principale. Fra pochissimo avrebbero dovuto ricominciare con le riprese.
I quattro uomini della sua umiliazione uscirono dalla loro saletta, in fila come dei bravi soldatini, borse in spalla e morale a terra, diretti verso l’uscita.
Dietro di loro spuntò Michael, nero di rabbia ma contenuto in una posa minacciosa.
Li guardò con le braccia incrociate.
Raramente gli si era vista quell’espressione torva dipinta sul viso sempre gentile.
Tutti gli altri si zittirono e nessuno osò emettere un fiato.
- Non state dimenticando qualcosa? - urlò Michael, prima che i quattro raggiunsero l’uscita.
Si fermarono, come vinti da mille forze, e con altrettanta fatica fecero dietrofront.
Michael la guardò, e per qualche motivo lei capì che doveva asciugarsi i segni della lacrime e darsi un contegno.
Lo fece, e se li ritrovò davanti.
- Scusa - dissero tutti.
- Abbiamo detto delle cattiverie che non meritavi. Ci dispiace.
Li guardò in silenzio. Erano supplichevoli.
Michael li guardava, e Jackie capì che tutto il controllo era passato a lei.
- Ti porgiamo le nostre scuse.
- Non accadrà mai più.
- Non pensiamo davvero quelle cose, stavamo solo scherzando.
- Si è vero, non si può giudicare una persona senza conoscerla, no?
Jackie li guardò. Aveva la decisione.
Dalle loro espressioni intuì che si aspettavano una specie di grazia.
Dopotutto, le avevano chiesto scusa, ma lei sapeva di contare meno di zero per loro.
Qualunque cosa avesse fatto, non avrebbe mai ottenuto il loro rispetto.
Almeno, non come una persona.
- Scuse accettate - disse, e loro la guardarono con gli occhi spalancati e dei sorrisi nascenti - Ora potete andare.
I sorrisi si spensero e quella che era stata una dimostrazione di supplica e riverenza si trasformò in un insieme di sguardi d’odio che grugniti, che divennero meno visibili quando Michael affiancò Jackie.
- Conoscete l’uscita. - disse, e loro si dileguarono.
Una volta fuori, si udirono ancora gli insulti.

Quella sera, la questione era stata accantonata.
Prima di andare, Michael cercò Jackie, come al solito.
La trovò vicino agli spogliatoi.
- Ti va di cenare insieme stasera? - propose allegro, ma si spense non appena vide la sua espressione - Che succede? - aggiunse preoccupato.
La fece voltare verso di sé, ma fece in tempo a vederla asciugarsi una lacrima clandestina.
- Niente. - rispose prontamente. - Meglio di no, comunque. Non mi sento benissimo, non vorrei attaccarti l’influenza.
Sciocchezze, stava benissimo.
La prese per le spalle e la guardò, in attesa.
- Dimmi che succede, per favore - disse con voce dolce, inclinò il viso - A cosa stai pensando?
- A niente…
- Pensi a oggi vero?
- Beh, quei ragazzi non avevano proprio tutti i torti.
- Che vuoi dire?
- Beh, non sono proprio una figura da spettacolo. E’ vero che sono bassa tanto da sembrare una bambina, è vero che non ho seno… Cioè lo sapevo prima di sentirlo da loro, però dire certe cattiverie con tanta leggerezza mi ha lasciato… Non so… Non ho scelto io di nascere in questo corpo.
Grato per quello spiraglio di debolezza che lei aveva lasciato scorgere, le strinse le spalle.
- Te l’ho già detto e non mi stancherò di ripeterlo - Disse, sorridendo - Tu sei bellissima e perfetta così come sei.
- Questa frase la si dice alle bambine brutte.
- Sbagliato, perché tu sei bellissima. E poi non esistono bambine brutte.
Sapeva che i complimenti la imbarazzavano, e infatti si era ammutolita. La lasciò.
- Ti aspetto in macchina, stasera pizza!

Quando fu fuori dalla portata del suo sguardo, il suo volto sorridente si accartocciò in una maschera di costernazione. Oggi era stato orribile.
Era stato terribile vedere Jackie in quello stato. Era stato terribile assistere a un evento simile e non aver potuto fare poco più di nulla per aiutarla. Avrebbe voluto fare di più per farla stare meglio, e non poteva nulla più di un invito a cena e qualche magra consolazione.
Salì in auto con gesti rapidi e scontrosi.
Avrebbe voluto avere la possibilità di proteggerla di più di quello che poteva fare ora.
Se fosse dipeso solo da lui, avrebbe preso Jackie prima che riuscisse a versare una lacrima e l’avrebbe abbracciata. L’avrebbe chiusa in una stanza, afferrata, stretta. L’avrebbe sfiorata e accarezzata fino a non farle sentire altro che le proprie mani addosso.
Sbuffò. In cosa si stava trasformando?
Il drago ruggente dentro di sè stava risvegliandosi dal torpore, soffocando l’uomo, alimentato da soli pensieri.
Cosa ne sarebbe stato di lui se avesse continuato così?

 
——


Quei sentimenti si rivelarono molto forti anche al matrimonio di Albert, dove la gioia nel vedere il proprio caro amico sposarsi passava quasi in secondo piano di fronte alla donna fasciata nel suo vestito chiaro da damigella d’onore.
Pauline era radiosa nel suo abito bianco, e Albert emanava una felicità senza pari.
Il matrimonio si svolgeva all’aperto, sotto il cielo. Nell’aria vi era gioia e contemplazione.
Nonostante la celebrità, nessuno degli invitati gli rivolgeva attenzione, perché erano stati avvisati preventivamente del suo arrivo e poiché era stata l’esplicita richiesta di Albert, quella di dare a lui la sua privacy, che ci teneva alla sua presenza ma che non voleva che per lui quel giorno fosse un incubo.
Era stato un bel gesto e Michael gliene era grato.
Era bello sentirsi parte di quel momento memorabile, ed era ancora più bello perché Jackie era meravigliosa e lui poteva guardarla quanto gli pareva.
Non riusciva a capacitarsi di quello che provava ogni giorno che passava vicino a lei.
Come aveva fatto a vivere senza quei sentimenti per tutti gli anni della sua vita? Ma era davvero successo?

Jackie quel giorno era sorridente e radiosa.
Pauline aveva scelto per lei l’abito della damigella d’onore, un velo unico rosa pastello che la faceva sembrare una principessa dei cartoni animati. Quel vestito faceva risaltare la sua carnagione, più scura rispetto al tessuto, e cadeva su di lei come dei petali in procinto di sbocciare.
Non poteva che credere che sarebbe partita per l’Italia a breve e che non l’avrebbe vista per diverso tempo.

Ricordò con imbarazzo quella notte in cui era rimasto a ballare fino a tardi e l’aveva trovata addormentata nella palestra. L’aveva portata a letto, erroneamente nella propria stanza, e aveva desiderato baciarla.
Era un ricordo che lo destabilizzava, perché raramente aveva desiderato qualcosa così intensamente.
Dopo quell’episodio, aveva più volte indugiato in quella memoria e nelle sensazioni ad essa associate. Più volte lo avevano tenuto sveglio la notte in preda a lussuriosi bollori. Ma lo avevano fatto anche riflettere. D’altronde, era un gentiluomo, non solo una bestia umana senza pudore e in preda agli impulsi.
Si era chiesto a cosa fossero dovuti quegli improvvisi desideri, perché da quando erano comparsi non trovavano più soddisfazione nel pensiero di nessun’altra donna.
Si era anche sentito a lungo in colpa. Non voleva che Jackie fosse solo il mero catino in cui si riversavano le sue liquide voglie, nemmeno nei suoi pensieri. Lei era di più, meritava di più. E anche il proprio cuore, che perdeva sempre più battiti man mano che ci pensava, sembrava d’accordo.

 
———
 

Un’altra domenica a casa Encino.
Aveva la sensazione che da qualche tempo sua madre avesse messo Jackie sotto un’attenta analisi. Il perché di ciò, francamente, lo ignorava e, a sensazione, non se la sentiva di approfondire l’argomento nemmeno riflettendoci.
Non poteva però non notare di come la sua anziana genitrice cercasse di passare più tempo possibile con la propria amica, di come osservasse lei e di come osservasse lui stesso. Curiosamente, non si sentiva infastidito.
Chissà Katherine cosa stava pensando.
- Ho saputo che ti sei iscritta all’università. - Le disse, mentre erano seduti in giardino di fronte allo stagno a bere delle bibite.
-Sì, un pò fuoricorso, però ci tenevo a farlo. Sai, per mia conoscenza personale e nel caso un giorno decidessi di fare qualcos’altro, qualcosa di completamente diverso da ora. Vorrei avere una preparazione in qualcosa.
- Ottimo. Sono molto contenta di questa scelta. - Non poteva non esserlo. - Che cosa è?
- Filosofia.
Katherine aggrottò le sopracciglia.
- Filosofia? Davvero?
- Si.
- Come mai proprio filosofia?
- E’ una materia interessante, mi piace molto impararla e spiegarla a chi non la conosce. Inoltre sono del parere che apre tantissimo la mente e amplia il modo di pensare.
- Io non lo credo. Almeno… Non così tanto. - E si allontanò con la faccia scura.
Michael, che aveva assistito a quello scambio, guardò Jackie con aria rassicurante.
- Non badare alla mamma. Non è arrabbiata con te. Ha solo paura che tu possa relegare in un angolo ciò che fa parte di tutto.
- Ti riferisci a Dio?
- Ovviamente.
- Può darsi, ma non vuol dire che chi la studia non possa avere un proprio fondamento religioso. Io voglio ampliare la mia mente. Voglio vivere libera, oltre le nostre imposizioni mentali.
- Che intendi?
- Che non voglio avere tabù, non più.
Ripensò a quando, parlando con Guglielmo qualche anno prima, si era resa conto che non era così scontato che una donna si dovesse sposare. Si sentiva una vera sciocca a ripensare a quel momento. Rabbrividì, disturbata dalla propria ignoranza e chiusura mentale.
- Voglio conoscere tutto. Voglio essere libera di esprimermi senza che ci sia qualcuno a fermarmi, e voglio poter parlare di tutto e, se necessario, metterlo in discussione. Tu mi capisci vero?
- Certo che ti capisco. Sono dello stesso parere. Voglio poter fare tutto, ma in nome di Dio e per Dio. Io sono un suo strumento. Tutti noi lo siamo, anche chi non lo sa.
- Può darsi, ma io vorrei ragionarci sopra e capire se ci credo davvero. - Sorrise, a metà fra il serio e lo scherzoso. - Posso farlo senza avere il tuo rancore?
- Perché? Hai paura che mi possa offendere? Sei libera, e non me la prendo se vorrai continuare a discutere certe cose con me. Rafforzerà la nostra fede.
- La nostra?
- Si. Anche se diventerai una filosofa, so che non rinuncerai mai a Dio.
Ebbe un momento di riflessione. Michael l’aveva detto in quel modo perentorio come se dovesse convincere lei, o sé stesso, di qualcosa. Non ne era sicura. In quel momento si sentiva avida di scoperte e limitarsi a Dio come risposta per tutto le dava una sensazione di fastidio.
- Forse è vero - rispose più per dargli soddisfazione che altro.
Lui parve accorgersene e per un solo attimo si irritò. Ma quella scintilla scomparve subito, e i suoi occhi tornarono ad esprimere serenità.
- Ma anche se decidessi di farlo, io continuerò a pregare per te. - Aggiunse tranquillo. Lei ridacchiò.
- Grazie Mike, molto gentile.
Tornarono a guardare lo stagno. La superficie dell’acqua in quel momento non rifletteva alcuna luce. Potevano vedere il fondale con nitidezza e gli storioni ornamentali che nuotavano placidamente nel loro mondo parallelo fatto d’acqua. La pace in quel momento era così penetrante che persino il silenzio faceva rumore.
- Ti ricordi quando ti ho parlato della tua volontà di vivere senza riserve?
- Si.
- Voglio farlo anch’io. E non solo. Voglio farlo per gli altri. Voglio approfittare del fatto che posso permettermelo per fare del bene. Cioè, ti rendi conto di quanta gente abbia bisogno in questo momento?
Al solo pensiero di quelle situazioni, gli occhi di Michael diventavano fiammeggianti. Jackie ne fu quasi travolta. La pace prima percepita sembrava essersi dissolta per via di quell’increspatura.
- Di quanta gente soffre, si ammala e muore senza poter far nulla per evitarlo perché semplicemente è nata povera? Perché non fare nulla per loro se ne ho la possibilità? Altrimenti, che me ne faccio io di tutto questo denaro?
- E’ bellissimo Mike.
Non sapeva se si stava riferendo all’intento appena espresso o a lui stesso. Ormai, quello che provava per lui si sovrappone con quello che lui dimostrava di essere e di volere, incarnandosi in esso. A volte, Jackie faceva fatica a capire dove iniziassero e finissero i confini emotivi che li separavano, che separano ogni individuo dall’altro. Si concentrò su sè stessa, su come si sentiva a riguardo del discorso corrente. - Anche io voglio fare così, voglio vivere in questo modo. E voglio avere la mente aperta a qualsiasi cosa chiunque possa dirmi. - Si zittì per un attimo, colta da un’idea. - Sai cosa sarebbe davvero bello?
- Cosa?
- Risalire l’Africa da sud a nord con un camioncino pieno di vestiti e medicine, e andare nei villaggi vicini alle città occidentali a distribuire queste cose. Non in quelli tribali o di chi vive secondo tradizione, ma in quelli che subiscono l’influenza della nostra società industriale dell’Occidente. Questo… Questo mi piacerebbe davvero.
- E’ un’idea meravigliosa Jackie. Facciamolo. Possiamo partire domani, sarai di ritorno per l’arrivo di Guglielmo e poi partiremo ancora e staremo via un mese.
- Che? Michael aspetta!
- Non mi ci vuole nulla a organizzare tutto. Posso far venire le medicine dall’Europa e il cibo da Città del Capo, e per il resto ci riforniremo localmente.
- Mike aspetta! Non possiamo partire ora!
- Perché no? Certo che possiamo! Sarà bellissimo, non sto più nella pelle!
- Lo vedo, ma cerca di calmarti. Non prendiamo decisioni affrettate. Inoltre ora sei impegnato con Q, non puoi lasciarlo solo. E’ il momento di concentrarsi e poi, quando saremo liberi, ti prometto che andremo.
- Uhm… Ok. E io ti prometto che ti porterò a fare il viaggio in Africa che hai sempre desiderato fare.
Grazie Mike… Che Dio ti benedica.

 
——


Jackie si sentiva piacevolmente immobile quando tornava a casa dai suoi famigliari.
La sua permanenza da loro, circondata da un clima più fresco e quieto, le risultava estremamente riposante rispetto alla vita frenetica, quasi finta, che conduceva dall’altro capo del mondo.
Ma quella tranquillità non poteva durare, poiché da ferma poteva riflettere meglio e più approfonditamente riguardo alcuni eventi all’inizio della propria vita.
L’assassinio della madre sarebbe stato traumatico per chiunque, figurarsi per lei la quale aveva assistito a ciò ed era stata portata poi via da tutto ciò che conosceva da suo padre, un uomo con cui non aveva mai legato e che era morto senza nemmeno suscitarle un pò di tristezza o attaccamento. Un uomo colpevole di delitto.
Il passato non si poteva cambiare, eppure le cause di quella vicenda rimanevano oscure per lei.
Aveva già chiesto più volte alla propria famiglia qualche spiegazione in più, ma non c’erano prove che incolpassero George né tracce del movente e il caso era stato archiviato dopo diversi anni.
Jackie aveva smesso di chiedere, poiché vedeva che a ogni nuova domanda, uno dei suoi fratelli, il nonno o la zia soffrivano terribilmente.
Non aveva nemmeno avuto il coraggio di parlarne con loro, se non per lettera, sul fatto che l’assassino era suo padre. Ciò che aveva era una confessione di cui non aveva prove, e di cui non avrebbe più potuto averne.
Avrebbe tanto voluto sapere il perché di quel gesto più che sconsiderato.
Forse c’era solo una persona che avrebbe potuto rispondere alle sue domande: Giada, la migliore amica della mamma.

Era una persona solitaria e burbera, frequentava le peggiori compagnie nei più pessimi bar, ma a Jackie non dava fastidio. Sapeva che quello, in qualche oscuro modo, era la sua maniera di combattere il dolore.
Aveva visto le vecchie foto di Giada e della mamma: erano due donne graziose, tutte veli e fiori.
Sua mamma era immortale per sempre in quelli immagini, ma Giada aveva potuto dare agli altri modo di vedere l’altra sè stessa.

Jackie trovò il coraggio di chiederle qualcosa in più.
Purtroppo, nemmeno la madre di Josephine, la quale stava accanto a loro durante quella conversazione, pur non ascoltando, aveva saputo dirle qualcosa in più sull’assassino e il movente.
Ciò che Giada sapeva era una cosa sola.
- Detestavo tuo padre. - Ammise. - Non capivo proprio cosa Anna ci trovasse in quel bifolco. Era il tipico turista americano maleducato e superiore. Un arrivista, un mezz’uomo meschino. Per fortuna che hai preso tutto da tua madre. Di lui hai davvero poco, a malapena la forma del naso. Credo, non me lo ricordo molto bene. Hai detto che è morto, no? Il mondo conta una bestia in meno.  
Le si fece più vicina, come per dirle un segreto. I suoi occhi sembravano due spilli scintillanti.
- Vuoi un consiglio, Jackie? Lascia perdere questa storia, non ne vale la pena.
Trasalì. Prima di rendersene conto, una furia cieca assolutamente estranea e sbagliata si impossessò di lei.
- Come sarebbe a dire? - strillò, incapace di contenersi. - Era la tua migliore amica!
- Non mi fraintendere, ragazza. - rispose Giada, senza cambiare tono di voce. - Pensi che con questo voglia dire che non me ne importi più nulla? Voglio farti capire che questo tuo accanimento non servirà a nulla e di certo non riporterà in vita tua madre. - Fece una breve pausa. - Servirà soltanto ad avvelenarti l’anima per qualcosa che non puoi risolvere. Non ci sono più tracce, non ci sono mai stati testimoni. Il caso è archiviato.
Le carezzò un braccio, il suo tocco dolce rispetto alle sue parole.
- Impara a lasciare andare Jackie.
La castana strinse le labbra, la mente piena di pensieri torbidi. L’ultima frase la risvegliò dal torpore. I suoi occhi puntarono la donna.
- Tu l’hai fatto, Giada? - chiese. - Hai lasciato andare?
Chiunque si sarebbe sentito intimida di fronte a quello sguardo, ma non la donna.
Anzi, sembrò accogliere quegli occhi come una benedizione, e vi si perse. Jackie potè scorgere in lei una dolcezza e un amore puro che per un attimo fecero sembrare Giada una persona completamente diversa. Arrossì.
- Anna era tutta la mia vita, piccola ficcanaso. - Rispose. - Mentirei se ti dicessi che ho seguito alla lettera il mio stesso consiglio, ma per me è una faccenda diversa. - Sospirò, e distolse lo sguardo. - Forse una parte di me è morta con lei, ed è rinata quando è nata Josephine.
Entrambe guardarono la ragazza vicino a loro, che a sua volta guardava persa fuori dalla finestra. Chissà a cosa stava pensando. - Come vedi, per andare avanti si trova sempre il modo. - E come mai Josephine parla solo francese? Non ho mai trovato il modo di chiedertelo meno direttamente. - Dopo quello che ti successe, come potevo rimanere qui? Abitare nella stessa città in cui io e tua madre siamo cresciute insieme? Non avrei potuto farcela. Così ho mollato tutto e sono partita. Sono andata a Lione e Josephine è nata là. Mi sono sposata con un uomo onesto e buono, che ci ha dato tutto e ha amato Josephine cose se fosse figlia sua. Ci siamo separati quando ha trovato un’altra donna. Josephine è nata il 3 luglio 1961, dieci anni prima che Jim Morrison venne trovato morto nella sua vasca da bagno. Al che sono tornata in Italia, dove sono le mie origini. E qui si vive bene.
 
——

- Puoi non credermi, ma ti assicuro che per è estremamente rassicurante il fatto di non essere riconosciuta qui. Non che a Los Angeles venga perseguitata dalla folla come certe mie conoscenze, ma ti giuro che sono più che felice di questa tranquillità.
Paolo sollevò un sopracciglio così tanto che parve quasi staccarsi dalla faccia e prendere il volo.
- Ed è per questa estrema soddisfazione che mi stai chiedendo di darti un lavoro?
Jackie sbottò.
- Mi annoio! Cioè, sono grata per questa vacanza, ma è un pò troppo per me! Sono già stata al mare e in montagna, ho visitato i dintorni, letto tutto quello che c’era da leggere a casa. Ho provato anche tutti i bar del circondario. Qui tutti lavorano, e non posso nemmeno andare in giro con Josephine perché a quanto pare - Adocchiò la mora non discreto rancore - Non le piace come guido, e sono un pò stufa di stare di sola.
- E quindi hai pensato di chiedere a me di assumerti per qualche giorno nel ristorante di mio padre? A fare la cameriera? Davvero non ti è venuto niente di meglio?
- Senti, per qualche giorno vorrei provare a fare finta di essere una normale ragazza, donna, italiana, con un lavoro che non sia il mio. Coraggio, cosa hai da perdere?
Paolo sbuffò. Sembrava di avere di fronte una ragazzina e non una donna anche più anziana di lui.
- Tutto, se non fai bene il tuo lavoro.
Jackie sorrise.
- Questo significa che mi assumi? - Lui rise di gusto.
- Diciamo che si tratta di un periodo di prova che durerà fino a quando non partirai.

Paolo lavorava nel ristorante di suo padre da quando aveva smesso preventivamente la scuola. Non aveva grandi pretese per il futuro, nessuna voglia di studiare e nessun interesse nel viaggiare o conoscere nuove cose. La sua sistemazione attuale gli piaceva e prometteva bene.
Nonostante l’età e il fatto che non avesse visto molte cose, non si stupiva facilmente di nulla.
Dovette ricredersi quando vide lavorare Jackie. Si divertiva come una bambina pur mantenendo riserbo ed eleganza alquanto professionali, ben più di quanto si adducessero a quella mansione.
Chiacchierava con i clienti abituali, era cortese con i turisti e rapida nelle ordinazioni.
Era divertente averla lì.

Da un giorno solo era arrivato un nuovo cliente, un tipo alquanto stravagante.
Era venuto a mangiare da loro a tutti i pasti, persino a colazione, in cui servivano nella zona predisposta a bar, una sala secondaria separata dal ristorante e collegata a un cortile interno.
Era una zona che normalmente i clienti non amavano frequentare, perché alte mura chiudevano ogni possibile visuale sulla strada, non c’erano finestre sui muri e il sole picchiava forte a una certa ora.
Invece il nuovo arrivato sembrava aver apprezzato quella sistemazione. Si era fatto sistemare un ombrellone per poter stare all’ombra e da allora quello era diventato il suo posto abituale. Nessuno glielo rubava, neanche lo avesse esplicitamente riservato.
Nessuno capiva quanti anni avesse quel tipo. Poteva benissimo essere un vecchio come un quarantenne molto provato. Era gobbo, col torace gonfio e le gambe scheletriche a confronto. Indossava vestiti umili ma dai tessuti morbidi e ricercati. Doveva essere per forza benestante. Aveva occhiali molto spessi e una barba folta e disordinata.
Era spesso accompagnato da un secondo uomo, che si era presentato come il suo assistente.
Nonostante la sua stravaganza, passava indisturbato. Forse per il suo modo di muoversi e di porsi, schivo e riservato.
Ciò che lo aveva più colpito, comunque, non era la bizzarra del nuovo venuto. Figuriamoci, era abituato a ben altra eccentricità, assai più manifesta e americaneggiante. No. Lo aveva stupido l’improvviso cambio di registro di Jackie.
Da quando quel nuovo cliente aveva fatto la sua comparsa, lei sembrava strana. Sembrava che guardasse quel tipo come si osservano i vermi dentro una forma di formaggio.
Voleva fare qualcosa per frenare quell’atteggiamento.

L’odore di quel tipo le ricordava una forma di formaggio. Eppure era qualcosa che aveva già sentito, o annusato.
Qualcosa di chimico, di industriale, un profumo fatto apposta per essere puzzolente e nascondere un’altra essenza.
Dove aveva già sentito quell’odore?
Inoltre, quel tipo le ricordava qualcuno. Le ricordava troppo Michael, nonostante fossero persone molto diverse. Per qualche attimo, più e più volte nel corso della giornata, un dubbio preciso di era manifestato nella sua mente, ma lei lo aveva allontanato con la stessa facilità con cui si allontana una mosca fastidiosa.
Impossibile, continuava a ripetersi. Non può assolutamente essere lui. Non ha alcun senso.
Michael le mancava, come ogni volta che tornava in Italia.
Lo pensava sempre, ogni volta che vedeva un panorama che avrebbe voluto mostrargli, ogni volta che assaggiava una pietanza particolarmente buona.
Ogni volta che andava a dormire, e si chiedeva se a Michael sarebbe piaciuta la morbidezza di quel cuscino, nonostante fosse un oggetto datato e di tela ruvida.
Si sentiva un pò sciocca, ma si consolava del fatto che il suo immaginario fosse di sua esclusività, e che nessuno avrebbe mai potuto saperlo.
- Jackie, per favore, andresti tu a ritirare le tazze del cliente sul retro?
Il tipo bizzarro che sapeva di formaggio.
- Certo, vado io.
Era distratta, e la colpa era sua. E di Michael, indirettamente.
Ridacchiò, e troppo tardi si rese conto che il cliente l’aveva notato.
Soffocò il sorriso, cercando di contenersi in un’espressione cordiale ed educata.
Si avvicinò per disporre il tavolo, ma in quel momento qualcosa si chiuse attorno al suo polso.
Una presa ferrea, decisa ma anche tanto, tanto familiare.
Ebbe appena il tempo di sobbalzare che si ritrovò coinvolta in una giravolta e poi, come una bambola, malamente seduta addosso al tipo, il braccio dell’uomo avvolto attorno a lei come una cintura di sicurezza.
L’odore di formaggio era così intenso che le penetrò nel cervello, ma riuscì a percepire anche l’essenza dietro quel tanfo consistente: avrebbe riconosciuto quella colonia senza difficoltà anche in un negozio di profumi.
I suoi occhi si ritrovarono incatenati ad altri due marroni che la fissavano con intensità, meraviglia e gioioso divertimento. Erano ancora più belli dietro quel travestimento. E anche il suo sorriso, bianco e sincero e circondato da barba finta.
Avrebbe voluto urlare, parlare, ridere, fargli un sacco di domande.
Perché sei qui? Ti ha visto qualcuno? Come stai? Come hai fatto a trovarmi?
Ma non riuscì a fare nulla di ciò. Il suo cervello era in tilt, paralizzato da quella inaspettata visita, dalla loro improvvisa ed intensa vicinanza fisica e da come la stava guardando, estasiato ma in attesa di una sua mossa.
- Respira. - Le disse dopo un minuto di stasi, e lei si rese conto di non averlo più fatto.
- Oh mio Dio! - Si riscosse e gli gettò le braccia al collo. Lui ricambiò l’abbraccio immediatamente e la strinse maggiormente a sè, forzandola più comodamente seduta su di lui.
- Cosa ci fai qui? - riuscì a chiedere lei dopo un pò. Lui girò appena il viso per sussurrarle all’orecchio.
- Volevo vederti. - Le disse. Si sentì e gli sembrò d’essere stato languido senza volerlo. Giurò tuttavia di averla sentita rabbrividire per tutta la schiena, e ciò gli procurò piacere a sua volta. Continuò a stringerla, in preda a un batticuore e uno stordimento che lo rendevano incapace di percepire l’ambiente circostante.
In quel momento non se ne preoccupava, perché Rent era lì apposta per tenerlo d’occhio e al sicuro, e poi perché il mondo non avrebbe potuto interessargli di meno quando aveva Jackie lì fra le sue braccia.
Giurò anche che l’avrebbe voluta baciare quando lei si era incantata a guardarlo incredula, Dio solo sapeva quanto.

- Ma come è possibile?
- Ho preso un aereo e sono venuto qui.
- Ma come facevi a sapere che…?
- Che tu ci creda o no, è stata una coincidenza fortunata. Ti ha trovato Rent. Mi ha preceduto di qualche giorno per fare un sopralluogo. Perdonami se ti ho fatta seguire per un pò, ma volevo farti una sorpresa.
- Tu sei matto.
- Che sta succedendo qui?
Trasalirono entrambi.
Paolo era sulla soglia del cortile, un manico di scopa brandito come una mazza, il viso paonazzo di fronte all’ultima scena che si aspettava di vedere. E dire che non era un tipo di facile stupore.
- Oh.
Jackie si staccò leggermente, ma non si alzò. Era troppo bello quel contatto con Michael.
Ma doveva a Paolo delle spiegazioni.
Doveva essersi spaventato, doveva aver pensato che il cliente l’aveva aggredita.
Il ragazzo però non stava guardando lei.
- Ma quello… Quello è…

 
———


Si domandava se presentare Michael alla propria famiglia sarebbe stato più o meno semplice rispetto che farlo conoscere a Paolo senza che il ragazzo avesse una crisi isterica.
Fortunatamente, l’amico di Josephine aveva sufficiente sale in zucca per contenersi nel momento più appropriato, al fine di non attirare l’attenzione degli altri clienti presenti nel locale e, dopo essersi ripreso brevemente, fece accomodare Michael in una stanza privata, in modo che potesse rilassarsi senza alcuna preoccupazione di poter essere visto. Si presentò e si rivelò cordiale, oltre che discreto nell’inglese.
Si stupirono entrambi, Paolo e Jackie, del fatto che Michael avesse imparato un minimo di italiano appositamente per quel viaggio.
Il cantante americano, nonostante si trovasse all’estero e in balia di gente sconosciuta e potenzialmente letale per lui, era felice ed emanava calma e serenità. Sembrava assolutamente convinto di voler essere lì dov’era.
E ciò faceva sciogliere il cuore di Jackie.
Michael inoltre, sembrava non avere occhi che per lei. Ogni parola che rivolgeva a qualcun altro possedeva un gesto silenzioso per lei, ad ogni parola che le diceva i suoi occhi emanavano luce.
- Ho preso una camera in un hotel inimmaginabile proprio in questa piazza. - Le rivelò.
- Perché inimmaginabile?
- Perché nessuno si aspetterebbe che io possa alloggiare al Tre Stelle Pensione da Maria Grazia.
Jackie scoppiò a ridere.
- Non posso credere che nessuno ti abbia scoperto, come non posso credere che siate solo tu e Rent.
- E va bene, ci sono altri quattro loschi individui vestiti da avvocati in viaggio di lavoro che mi stanno dando una mano, ma questa descrizione rende meno eroico il mio gesto. - Borbottò fintamente arrabbiato.
- E’ fantastico che tu sia qui. - Disse lei, chiedendosi fin dove potesse spingersi con le confessioni. Non voleva diventare strana nei confronti di Michael. Non voleva reprimersi troppo. Lo guardò in viso, con l’intento di fargli vedere quanto fosse felice. Ma quando incontrò i suoi occhi, l’espressione stessa sul viso di Michael le si ritorse contro. Da quanto i suoi occhi la guardavano con quella luce? Cosa voleva dire?

Due giorni dopo decise di portarlo a conoscere la famiglia.
Lo disse prima ai propri parenti, in modo da non scatenare reazioni di shock quando Michael avrebbe varcato la soglia.
Luca e Fabiana erano grandissimi fan, e ci misero diverso tempo a digerire l’eccitazione, promettendo di comportarsi adeguatamente ma storcendo la promessa di un autografo.
Così Jackie, dopo aver passato le ultime due serate in compagnia di Michael, una a cena in privato e una in camera d’albergo a danzare e mangiare pizza d’asporto, lo passò a prendere in auto e lo accompagnò alla villa dov’erano nate le sue antenate, sua madre, sua zia, sua nonna fino alla tris-nonna, Giacomina Artemisia Burraschi, sposata Flint.

Erano tutti ad aspettarli in giardino, e nel contorno del crepuscolo serale, sotto il profumo delle camelie in fiore, Michael conobbe la famiglia di Jackie.

 
———


Più tardi erano tutti in casa ad aspettare la cena. Il forno e tutti i fornelli erano in funzione, Caterina e Fabiana indaffarate fra mille vapori.
In salotto, Guglielmo e Andrew discorrevano piacevolmente con Michael, il primo che fungeva da interprete poiché il nonno non era molto bravo con l’inglese. La pop star, dal canto suo, aveva inizialmente stupito tutti con un pò di conoscenza della lingua, ma necessitava assolutamente del supporto dell’avvocato spagnolo per farsi capire e discutere piacevolmente del più e del meno.
Ora, per esempio, si stava facendo spiegare da Andrew com’era la situazione politica in Italia in quel momento.
Era bellissimo Michael, il suo interessarsi sinceramente ad ogni argomento anche quelli che meno lo riguardavano, e voler conoscere tutto alla perfezione.
Era bellissimo come si fosse offerto subito di firmare gli autografi per i suoi fratelli ed era stato bellissimo quando lui e Luca si erano guardati per la prima volta. Suo fratello aveva il volto e il corpo costellato di poche cicatrici ma molto evidenti. Quella condizione era dovuta ad anni di bullismo scolastico, di cui lui era stato vittima. Gli altri ragazzi lo prendevano in giro perché a differenza loro non aveva più una madre, e Luca rispondeva a cazzotti. Michael aveva certamente notato le cicatrici, ma il suo sguardo non era stato di disgusto o di pietà, bensì di comprensione ed empatia. Luca se n’era accorto, e ciò doveva averli legati.
Era bellissimo quello scenario, che mai avrebbe creduto di vedere di fronte a sé, nemmeno immaginata, tanto era surreale vedere Michael nel proprio salotto, nella vecchia casa italiana, con la sua famiglia.
Incredibile.
- Ehi Jackie, vieni un attimo per favore? Vado a prendere del vino in cantina e mi serve una mano - la chiamò Luca, sulla soglia della porta.
- Certo.
Seguì il fratello giù per le ripide scale, nelle stanze umide, piene di cianfrusaglie. Non riusciva a togliersi quel sorriso dalla faccia e neanche a non essere soprappensiero.
Con la coda dell’occhio vide Luca, con in mano una bottiglia di vino, girarsi e guardarla, ridacchiare e ridare attenzione alla bottiglia.
- Non desiderare mai di essere la sua serva, Jaqueline.
Il suo nome la fece catapultare di nuovo sulla terra, insieme a quella strana frase. La serva di cosa?
- Come scusa?
- E’ palese - disse posando la bottiglia e dando a lei tutta la propria attenzione - che lo ami e che faresti tutto per lui. Saresti disposta a gettarti da un palazzo di trenta piani se lui te lo chiedesse. Quello che voglio dirti è di non perdere mai te stessa, la tua integrità, per lui. Non annullarti mai per quanto tu possa amarlo.
Lei lo guardò seriamente preoccupata.
Luca era un burlaccione, non era il tipo da mettersi a parlare seriamente di sciocchezze come i sentimenti e l’interiorità umana nel modo in cui invece stava facendo.
Sentiva forse il peso degli anni? Si era persa il momento in cui il bambino era diventato un uomo?
- Di chi stai parlando? E perché mi dici questa cosa? - chiese mentre, due bottiglie in mano per uno, ritornavano su.
- Ho ritenuto opportuno farlo. - rispose, quando rientrarono nell’anticamera buia.
- Ma perché?
Non c’erano luci, ma la stanza riceveva il riverbero dell’illuminazione del salotto, dove si stava consumando quella scena di intimità familiare. Michael era al centro di quella scena, come il protagonista di un film, sulla comoda poltrona con davanti i due uomini. Dietro di lui, appoggiata allo schienale, Fabiana si era unita alla conversazione, e in quel momento stava ridendo di qualcosa.
Tutti stavano ridendo.
Jackie sorrise, piena d’amore, nel vedere quanto Michael sembrasse a suo agio in quel momento.
Non era in guardia, o con qualche pensiero nella testa, o non manifestava quella timidezza tipica del suo carattere riservato.
Era perfettamente a suo agio, stava bene. Era divertito, spensierato quasi. Felice.
Quel volto sereno le illuminò il cuore, e sorrise guardandolo.
Luca la fissava.
- Per questo.
Lo guardò, di nuovo preoccupata.
- Questo cosa?
- Davvero pensi che non me ne sia accorto?
- Di cosa? - chiese preoccupata. Luca sbatté le palpebre una volta prima di rispondere.
- Jaqueline, tu ami Michael, vero? - sussurrò, fissandola negli occhi. - Ce ne siamo accorti tutti. - aggiunse, di fronte al suo sguardo ammutolito.
Tutte le sue parole erano scivolate via insieme al sangue, e Jackie si ritrovò muta.
Quelle parole, quella frase, erano stranissime da sentire, la facevano tremare tutta, e avrebbe voluto essere sorda piuttosto che essere costretta ad affrontarle. Ma come poteva negare l’evidenza, ciò che sapeva essere sfacciatamente vero?
Quella sua condizione interiore doveva essere tale che persino Mister Insensibilità doveva essersene accorto, tanto che assunse un’espressione preoccupata. Mise le bottiglie su un tavolino lì accanto e le strinse una spalla in modo rassicurante.
- Ehi ehi - le sussurrò più dolcemente - non volevo farti venire un infarto. Sembri un pomodoro maturo.
Jackie si strinse a lui, mentre Luca le toglieva le bottiglie dalle mani e lei cercava di non piangere, dandosi della stupida per via di ciò che stava manifestando dopo aver sentito una semplice frase.
- Scusa Lu.. E’ che non è facile, e la situazione mi sconvolge.
- L’amore non è mai facile, ma non è sbagliato. Ti comporti come se lo fosse.. Che succede?
- Non è facile, ti dico. Ed è lunga da spiegare. - Lo liquidò , ma non sapeva esattamente cosa ci fosse da spiegare. Si asciugò gli occhi, cercando di darsi un contegno, quando un pensiero la disturbò e la fece sobbalzare.
- Che c’è? - chiese Luca, che aveva notato quel suo irrigidirsi.
- Si.. Si vede tanto?
Che tragedia. Se se n’era accorto Luca, che era una balena priva di sensibilità, doveva essersene accorto anche Michael, che la conosceva benissimo ed era un acuto osservatore. Se così fosse stato, allora non andava bene. Non andava affatto bene.
- Che cosa si vede?
- Che lui mi piace. E’ tanto evidente? - si morse il labbro. Era difficile ammettere che ‘le piaceva Michael’.
Luca sbuffò, e la guardò come se dovesse rimproverarla.
- Tesorina, si vede lontano un miglio che lui è il tuo eroe, il tuo mondo. Sprizzi adorazione da tutti i pori e se non lo vedi con gli occhi, credimi, lo percepisci nell’aria, tanto è forte.
Una doccia di cubi di ghiaccio l’avrebbe fatta tremare di meno, anche perché Luca era tutto fuorché un poeta, e quelle parole dovevano essere fuoriuscite dall’etere piuttosto che da lui.
Restò in balìa di quella rivelazione senza riuscire a muovere un muscolo facciale, senza più sentirsi gambe e braccia, rigida lungo tutto il tronco.
- Non  pensavo che.. - Espirò rumorosamente per nascondere un singhiozzo. - Ed è qui soltanto da qualche ora!
E quel che è peggio.. Era che se lo avevano notato i propri parenti, anche Michael doveva per forza averlo fatto!
- Cerca di recuperare il colore sorellina, sei passata dal rosso al bianco cencio in un batter d’occhio. Te manca giusto ‘r verde e diventi la nostra bandiera.
Quel commento in accento romano ruppe l’espressione di profondo disagio che lei aveva dipinta sul volto in una mezza risata, ma la disperazione non l’abbandonò.
- Oh Luca - piagnucolò - Sono nei guai. Lui non deve saperlo, e se l’avete notato voi…
- Eh? Michael? Cosa non deve sapere?
- Questo! - sussurrò stizzita. - Che a me piace lui!
- Allora, lui non ti piace Jackie. Te sei persa male per uno come …
- Si si - lo interruppe sbrigativa - Ma non voglio che lo sappia, ed è un casino se..
- Ma perché? - la interruppe, confuso e quasi infastidito dalla sua agitazione.
- Perché non voglio! Non è semplice.
Lui sollevò un sopracciglio.
- C’è.. C’è un’altra in mezzo? O è per via della sua carriera?
- Eh?
- Ci sarà un motivo per cui sei così stressata e per cui questa situazione è, a detta tua, così complicata.
- Si ma.. E’ lunga, e adesso si staranno chiedendo perché non siamo ancora tornati con il vino. Non possiamo parlarne ora.
Lui lasciò andare la tensione delle spalle, d’accordo con lei.
- Va bene Jackie, ma devo dirti solo un’ultima cosa prima di andare.
- Cosa?
- Che sarebbe anche il motivo per cui ti ho detto quella cosa all’inizio.
- Non intendo essere la serva di nessuno Luca - disse, cercando di essere rassicurante. - Qualunque cosa tu intenda.
- Sarà - borbottò lui poco convinto - Da quando sei entrata hai una luce negli occhi, quando lo guardi, che ti abbaglia. Davvero. Diventi ancora più bella quando c’è lui.
Quel commento la mise in estremo imbarazzo, e abbassò lo sguardo, sentendo le guance colorarsi rapidamente.
- Secondo te.. Secondo te devo trattenermi? Non devo più guardarlo? Non voglio che veda quello che avete scoperto voi.
- Tranquilla Jackie - rispose Luca, mettendole le mani sulle spalle protettivo - Lui non lo può sapere.
- Perché?
- Perché ti guarda allo stesso modo.
Se il cuore le si fosse fermato in quell’istante, non se ne sarebbe accorta.
Se la terra le fosse crollata da sotto i piedi in quel momento, lei non avrebbe avuto reazione comunque.
Rimase a guardare il fratello, immobile, come se nel mondo fosse rimasto solo lui, e Luca si sentì libero di spiegarsi.
- Ti guarda esattamente come tu guardi lui. Con le stesse emozioni, la stessa intensità. Non ha occhi che per te.
- Non è possibile.
- E’ così, credimi. Gli si illumina il volto quando ti vede e sembra addirittura più in forma quando ci sei tu. Ti adora, se non ti ama. E io credo che ti ami.
- Ti stai sbagliando.
- Allora mi sbaglio anche su di te, se non è così.
Lei chiuse la bocca con uno scatto.
Luca non aveva sbagliato su di lei, l’aveva colta in pieno.
Poteva averlo fatto anche con Michael? Come poteva essere possibile?
Luca continuò a parlare. Non sembrava volerla convincere, sembrava sincero.
- Fidati Jaqueline. Per questo ti dico che lui non può saperlo: è impegnato a guardarti allo stesso modo e a nasconderti la stessa cosa. E’ strano, anzi, assurdo che non ve ne siate accorti l’uno dell’altra. Eppure vi conoscete così bene e da tantissimo tempo. - La fissò più intensamente. - Nulla ti ha mai fatto pensare a una cosa del genere da parte sua?
Lei ripensò alla sera prima: era salita nella camera dell’hotel, lui l’aveva accolta al buio, come un’amante. Avevano riso, mangiato insieme, guardato la vita cittadina dall’alto del balcone e poi avevano ballato. Abbracciati. Lui l’aveva stretta, e lei aveva sentito il suo bacino sfiorarle il proprio, come una carezza.
Ripensò a una delle tante occasioni in cui aveva notato qualcosa di nuovo nel suo sguardo, una scintilla che non c’era prima, tutte le volte in cui aveva percepito i suoi occhi seguirla più del dovuto, soffermarsi con sentimento nuovo su quelle parti di lei, del suo corpo che lui prima, da gentiluomo, evitava o al massimo, da ragazzo, aveva guardato con curiosità.
Si sentì molto stupida. E molto emozionata.
E l’emozione la pervase a tal punto che se ne sentì sopraffatta, e cercò di allontanare quell’ondata di fuoco e acqua e lava e spade, o sarebbe morta, senza respiro, strozzata, pervasa da amore, dolore, odio, piacere sessuale e estasi.
E vide di nuovo Luca, nel buio della stanza, che la guardava in attesa di una risposta, una risposta di una domanda che non ricordava. Non ricordava più chi era, qual era la domanda.
Perché erano lì.
Luca colmò quel vuoto.
- Credimi, è visibilmente perso. Solo voi due, l’uno dell’altra, non riuscite a vederlo. Non so, forse siete troppo coinvolti. Che sta succedendo Jackie? E’ perché è complicato?
Lo percepiva.
Voleva capire, cercava di aiutarla, di comprendere la sua situazione.
Aveva visto che la cosa la toccava nel profondo, aveva visto quanto quella faccenda la faceva star male.
La sua razionalità riemerse per permetterle di rispondere in maniera umana e comprensibile, e insieme ad essa ritornò anche una paura celata.
Un divieto interiore, un’angoscia, un respiro mozzato, un urlo di diniego. Il pianto di un bambino.
- Secondo me ti stai sbagliando, Luca. Non è possibile che lui provi quello che provo io. - Strizzò gli occhi e a parlò duramente, perché la sua voce non tradisse il suo stato interno. Doveva allontanare subito tutte quelle sciocchezze che involontariamente le erano venute in mente.
- E comunque - aggiunse appena lo vide prepararsi a risponderle - Non se ne fa nulla. E soprattutto, lui non deve saperlo. Quindi non fare allusioni d’ora in poi, promettimelo. Facciamo finta di non aver mai parlato di questa cosa.
Luca non disse nulla. Si limitò a fare un cenno d’assenso per nulla convinto, e lei credette di averla avuta vinta.
Lui non avrebbe ribattuto.
Si pizzicò le guance e deterse le labbra cercando di assumere un’espressione facciale normale, e mentre i suoi passi la riportavano dalla famiglia, ebbe appena la sensazione di aver udito una risposta.
- Non puoi scappare da te stessa, Jackie.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3986364