Voices

di Doux_Ange
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sunshine - Elisa ***
Capitolo 2: *** Soulmates - Valentina ***
Capitolo 3: *** Defenseless - Eugenio ***
Capitolo 4: *** Black... - Sergio (parte 1) ***
Capitolo 5: *** ... or white? - Sergio (parte 2) ***



Capitolo 1
*** Sunshine - Elisa ***


Sunshine - Elisa
 
Tutto prendeva luce da lei: era lei il sorriso che illuminava tutto, d’ogni intorno. […]
Scese, evitando di guardarla a lungo, come si fa col sole, ma vedeva lei, come si vede il sole, anche senza guardare.

~ Anna Karenina, Lev Tolstoj
 
Quando mi sono sposata, ormai poco più di trent’anni fa, non avrei mai immaginato che la mia vita avrebbe preso questa piega.

Da ragazzina, come tutte le mie amiche d’altronde, sognavo di incontrare il principe azzurro, quell’uomo perfetto che avrei poi un giorno sposato, con tanto di matrimonio in grande stile e col quale avrei formato una famiglia e vissuto una vita lunga e felice. Immaginavo nel mio futuro anche un lavoro che mi desse soddisfazioni e mi rendesse libera di essere me stessa.

Alcune di queste cose le ho avute, altre no, e non sempre per scelta.

Il principe azzurro però l’ho trovato - il mio amato Carlo lo era. L’amore di scuola, quello conosciuto tra i banchi, quello che nessuno si aspetta diventi poi l’amore di una vita intera, e invece…
Una volta finito entrambi il liceo, Carlo aveva iniziato a lavorare, con lo scopo di mettere da parte i soldi che ci sarebbero serviti con tutta calma per sposarci, non appena io avessi terminato gli studi, giacché avevo deciso di intraprendere la facoltà di giurisprudenza.
Volevo fare l’avvocato, era il mio sogno sin da bambina, e lui mi appoggiava. Credeva sarei diventata un'ottima donna di legge, per via del mio carattere forte e deciso.
La gravidanza era stata un ‘imprevisto' lungo il cammino.
E si sa, trent’anni fa le cose erano diverse. Certo, non stiamo parlando del Medioevo, ma la gente non esitava a spettegolare non appena scopriva di figli fuori dal matrimonio, un’onta per la società di allora, e la notizia della mia gravidanza non era ovviamente passata inosservata al gossip cittadino.
Carlo non aveva esitato, però, e si era rimboccato le maniche per poter dare una casa alla nostra bambina in arrivo e affrettato i tempi per sposarmi prima della sua nascita.
Inutile sottolineare che non avevamo una lira, anzi. Tra le spese per i miei studi e lui alla ricerca della sua vera strada lavorativa, i soldi a malapena bastavano.

Ci sposammo in fretta, o perlomeno più in fretta che potevamo. Alla festa c’erano giusto i nostri familiari più stretti e i testimoni. Perfino gli abiti li avevamo in prestito, perché non potevamo permetterci spese superflue con una neonata in arrivo. Il mio me lo aveva gentilmente prestato una mia amica, mi cadeva largo nonostante io fossi già oltre il sesto mese. Ma non mi importava, in quel momento, l’aver dovuto rinunciare al matrimonio da favola che avevo sempre sognato, alla Rolls Royce bianca, ai mille invitati e all’abito bianco, unico e fatto solo per me, che ogni bambina sogna fin da piccola.
C’era l’amore, e tanto bastava.

Dopo il matrimonio lasciai l’università nonostante mi mancassero ormai pochi esami alla laurea, ma quelle spese erano improponibili con l’ormai prossimo arrivo della mia bambina. Senza contare le eventuali voci di paese che avrebbero trovato un altro modo di alimentare il chiacchiericcio sulla mia famiglia, sul come potessi perdere tempo sui libri con una bambina piccola da crescere. Come ho già detto, erano altri tempi.
Ma tutte quelle rinunce non mi pesarono, quando dopo il parto strinsi per la prima volta tra le braccia Chiara. Tutto in quell’istante passò in secondo piano.
Carlo ed io eravamo felicissimi.
Ci ripromettemmo di darle tutto il possibile, e quando sarebbe stata abbastanza grande io avrei avuto modo e tempo di riprendere gli studi e compiere il mio sogno, se lo avessi voluto.
Non avevamo in programma di avere altri figli a breve.

Ma la vita decide da sé, ha spesso altri piani che non tengono quasi mai conto dei tuoi, e pochi mesi dopo la nascita di Chiara, scoprii di essere nuovamente incinta.
Stringemmo i denti un’altra volta, cos’altro potevamo fare?
Di fronte alla seconda gravidanza, chiusi definitivamente il cassetto dei sogni, calandomi completamente nel ruolo di mamma a tempo pieno. Quando è nata Anna, mi sono detta che era giusto così.
Avevo rinunciato ai miei sogni, ma i loro sorrisi e il loro amore valevano di più. Le loro manine attorno alle mie dita quando le cullavo per metterle a dormire, mi ripagavano della decisione presa. Allo stesso tempo, però, non volevo che i miei sacrifici fossero vani. E nemmeno Carlo lo voleva.
Fu chiaro a entrambi che era necessario da allora in poi fare tutto il possibile affinché le nostre figlie potessero realizzare i loro di sogni, affinché potessero raggiungere tutto ciò che volevano nella loro vita, senza i vincoli che erano toccati a me.
E allo stesso tempo sapevo anche che Carlo non mi avrebbe impedito, più avanti, di riaprire il cassetto dei sogni, se lo avessi desiderato. Anzi, mi incoraggiò più volte a ricominciare a studiare, quando le bambine si fecero più grandi, ma io ormai avevo fatto la mia scelta. E il sogno di vedermi con la toga è rimasto tale.

Ma, ancora giovani e con tanti progetti per il futuro, l’arrivo di due bambine nel giro di poco tempo aveva portato con sé anche i primi problemi nella nostra coppia: Carlo le amava moltissimo, ma non c’era mai a casa, soprattutto non dopo che aveva aperto la sua piccola fabbrica di scarpe e spesso stava via settimane intere per acquistare i materiali e imparare tecniche nuove.
Quando tornava dai suoi viaggi, cercava di recuperare soprattutto il tempo perduto con le nostre figlie. E con il tempo ci siamo allontanati. Mai avrei però pensato di scoprire che, in quei momenti lontani tra noi, lui mi potesse tradire. Mai.
Avevo ancora quella visione romantica che il nostro amore era perfetto e niente l’avrebbe mai scalfito. Che la nostra, nonostante tutto, fosse una storia da favola, di quelle che né spazio né tempo possono fermare. E invece…

È stato difficilissimo non far capire niente alle bambine, ancora troppo piccole per rendersi conto di cosa realmente stava accadendo. Ma ancora una volta decisi che loro avevano la precedenza: io, da sola, non avrei potuto dar loro un vero futuro, e Carlo mi aveva giurato che fosse stato uno sbaglio. Che non sarebbe ricapitato.
Era servito molto tempo perché lo accettassi, e soprattutto perché accettassi di essere ancora innamorata di mio marito, nonostante quel suo errore, nonostante il male che la scoperta del tradimento mi aveva arrecato.

Nessuno, fino a poco tempo fa, aveva mai saputo di quell’ostacolo che avevamo superato, e che non ho mai rimpianto.
E ho fatto bene, perché il destino toccato qualche anno più tardi a Carlo è stato troppo crudele. Non lo meritava.
Non con un tradimento così.
Non pugnalato alle spalle dal suo più caro amico, a cui aveva dato un lavoro quando più ne aveva bisogno.

So di aver reagito come non avrei dovuto alla morte di mio marito.
Ho lasciato da sole le mie bambine in una fase della loro vita già delicata, e non mi sono accorta che oltre all’amore della mia vita, stavo perdendo anche loro.
Loro che, per farcela, si erano aggrappate l’una all’altra, con reazioni opposte.
Chiara, facendo della sua vita un baluardo di leggerezza, per non legarsi troppo a nessuno, e non correre il rischio di essere abbandonata ancora, perché sarebbe stata lei a farlo in anticipo.
Anna, invece, scegliendo la via più dura. Regole su regole, per poter controllare ogni cosa, per non lasciare niente che non potesse tenere saldamente alle redini. Anna che non avrebbe mai più permesso a nessuno di scegliere al posto suo per la sua vita, perché almeno così avrebbe sbagliato con la sua testa, perché così avrebbe potuto scegliere chi avere nella sua vita.
Ma se la via percorsa da Chiara era incerta, cambiava in continuazione e io ne ero al corrente, di cosa Anna avesse deciso per sé, per il suo futuro, lo scoprii solo a conti fatti.
Quando aveva già presentato la domanda per l’Accademia.

Oppormi non è servito a niente, dopotutto era maggiorenne e aveva pagato tutto con i propri risparmi. Aveva le idee bene chiare in testa. Voleva giustizia per chi troppo spesso, come era successo a noi, non l’aveva avuta.
Non è servito a niente dirle che sarebbe stato pericoloso, che così non si sarebbe mai fatta una vita, una famiglia, che il suo carattere troppo intransigente le avrebbe precluso troppe cose, il futuro che io e suo padre avevamo immaginato per lei.
Anna non ne ha voluto sapere. È andata dritta per la sua strada senza ascoltare. Ha passato il test di accesso con il massimo dei voti, è diventata la migliore del suo corso e ha ottenuto tutti i requisiti per poter fare una carriera lampo brillante.

Ricordo ancora il giorno che la vidi per la prima volta con la divisa da carabiniere, ancor più quando la vidi con i gradi di Capitano. Non le ho mai detto quanto quel giorno fossi in realtà fiera di lei, del fatto che aveva perseguito il suo sogno e l’aveva raggiunto, con dedizione e sacrificio. Non le ho mai detto di quanto mi fossi emozionata a vederla lì, in quello che era evidente fosse il suo elemento, di quanto suo padre sarebbe stato orgoglioso di lei. Ero troppo impegnata a pensare al futuro che avevo immaginato io per lei al di fuori della carriera lavorativa, a quel futuro che ai miei occhi quella divisa le precludeva, per dirglielo.
Quando riusciva a tornare a casa, parlava poco e comunque senza ascoltare. Aveva un solo obiettivo: fare carriera, fare qualcosa di importante. Nel corso degli studi in Accademia aveva guadagnato il rispetto della persona giusta, un altrettanto brillante e giovane istruttore che aveva seguito il suo percorso e che era pronto ad aiutarla a raggiungere i suoi obiettivi.

Le mie parole risultavano totalmente vane ogni volta, e ogni volta rinviavo di complimentarmi, troppo preoccupata che il suo buttarsi a capofitto nel lavoro le precludesse l’opportunità di farsi una famiglia.
Nemmeno il suo fidanzato riusciva a smuoverla, e dire che Giovanni era un ragazzo molto a modo… a volte, fin troppo accondiscendente.
In cuor mio, sapevo che tra loro non sarebbe durata. Ma mi aggrappavo all’idea che mia figlia, nonostante la sua testardaggine, sarebbe riuscita laddove io avevo fallito: ad avere sì un lavoro che l’appagasse, ma al contempo una famiglia in cui rifugiarsi quando viene sera e torni a casa stanco dopo ore di lavoro. E se, con molta fatica, stavo pian piano accettando l’idea che fosse diventata un carabiniere, al tempo stesso temevo che se tra loro fosse terminata, mia figlia avrebbe rinunciato all’amore, buttandosi come sempre fa a capofitto nella carriera.
Perché Anna mi somiglia, ma a differenza mia, un tempo, non avrebbe mai sacrificato i suoi sogni per un matrimonio. Figuriamoci per una famiglia.

Non era esattamente un pensiero sbagliato, certo, ma io avevo il terrore che sarebbe rimasta sola.
Che se non avesse smussato gli angoli, non avrebbe mai trovato nessuno disposto a starle accanto, ad accettarla per come è. Perché non è niente male…
Ma sapevo anche che forzarla avrebbe avuto il risultato opposto.
E come previsto, lei e Giovanni si sono lasciati, perché avevano inevitabilmente intrapreso strade diverse.

Quello che non mi aspettavo però era che, sulla sua nuova strada, Anna avrebbe incontrato un uomo che tutto rappresentava per lei, tranne un principe azzurro.
Nemmeno uno con cui avere a che fare, a dirla tutta: Marco Nardi, il PM che collaborava – e collabora - con la caserma di Spoleto, con cui era obbligata a lavorare per forza di cose, ma con cui all’inizio era evidente a tutti non andasse molto d’accordo.
Non perdevano occasione di lanciarsi frecciate e infastidirsi a vicenda.
Superficialmente, anche io ero convinta che mal sopportassero la reciproca presenza, e non lo nascondevano.
Ma mai mi sarei aspettata che la verità fosse un’altra.
Che poco sotto quella superficie di antipatia apparente, si celasse un sentimento pronto a sbocciare.

Quella mattina in piazza, dopo che ho scoperto della fine della storia tra mia figlia e Giovanni, ho ascoltato un uomo difendere a spada tratta una donna che, dalle sue parole, non sembrava nemmeno mia figlia.
Che lui conosceva meglio di me.
Perché lui la conosceva davvero, anche se probabilmente non si rendeva pienamente conto di quanto, mentre io non avevo fatto neanche lo sforzo di capirla, mia figlia. Mi ero barricata dietro le mie convinzioni, sparando a zero su di lei.
Senza rendermene conto, le avevo addossato la colpa di aver avuto il coraggio di fare ciò che io, prima di lei, mi ero limitata a sognare.
L’avevo incolpata di avermi rubato un sogno, in un certo senso.
E di non aver ricambiato quell’amore che io le avevo dato, dedicando tutta la mia vita a lei e a sua sorella.
Non avevo capito che la realtà era diversa, che lei aveva sempre deciso da sola della sua vita per non darmi responsabilità che non sarebbe stato semplice accettare, dopo la morte di suo padre. Che preferiva sbagliare da sola, cadere da sola, perché era più facile deludere solo se stessa che non anche me. Perché sapeva dei sacrifici che avevo fatto, dei sogni a cui avevo rinunciato. E in qualche modo voleva dimostrarmi che non erano stati vani. Che avevo fatto un egregio lavoro a crescere lei e Chiara, da sola. Che ogni sua scelta era volta a sperare che fossi fiera di lei, della donna che era e stava diventando.
Non che questo cambiasse le cose, ma aveva sempre cercato di rendersi indipendente, anche lei per soffrire il meno possibile.

Perché anche con lei la vita ha poi scelto di giocare un gioco quasi crudele, mischiando le carte più volte e mettendola ripetutamente alla prova.
Non è stata una sorpresa scoprire poco tempo dopo che si fosse innamorata del suo collega, e che lui la ricambiasse.
Avevo accolto la loro storia d’amore con gioia, e con la certezza che sarebbe stato quell’amore maturo che entrambi cercavano, e che li avrebbe accompagnati per il resto della vita. Perché bastava guardarli insieme per capire che fossero fatti l’una per l’altro, come ripete sempre Nino.
Un amore inatteso, di quelli che non cerchi e che invece inevitabilmente ti trovano.

Un po’ come quello che è poi successo anche a me e Nino stesso.
Dopo la morte di Carlo, per moltissimi anni sono rimasta da sola, convinta che nessun altro uomo sarebbe mai stato all’altezza e anche perché, come sempre, avevo messo le mie figlie prima di tutto. Le mie amiche insistevano però che era giusto mi rifacessi una vita, che Chiara ed Anna avessero bisogno di una figura paterna che le guidasse.
Inutile dire che nessuna di quelle storie andò a buon fine.
Perché erano tutte relazioni ‘obbligate’, perché ogni nuovo uomo pretendeva di avere il comando delle nostre vite, di essere il maschio alpha della casa, di una casa che però lo vedeva come un ospite di turno.

Chiara non perdeva occasione di fare battutine antipatiche e di alzarsi e andarsene, se lo riteneva necessario, durante le cene. Anna invece si limitava a star zitta il più possibile, fin quando non arrivava il suo limite di sopportazione e diceva in faccia al malcapitato che non aveva il diritto di sindacare sulle nostre - ancor di più sulle loro - scelte, perché non era loro padre e mai avrebbe potuto sostituirsi a Carlo.
Sistematicamente, tutti fuggivano.

Non che le mie figlie avessero torto. Comportarsi a forza da genitore per sopperire a quella che secondo loro era una mancanza troppo dura non era certo il modo di conquistare due giovani ragazzine innamorate del padre, che il destino crudele e ingiusto gli aveva portato via.
Nessuno capiva veramente che noi non avevamo bisogno di un capofamiglia, che ce la cavavamo benissimo da sole. Che una nuova figura maschile in casa non era dettata da una mancanza o dovuta alla necessità di colmare un vuoto. Eravamo semplicemente alla ricerca di pace. Avevamo bisogno di comprensione e affetto sincero, senza per questo pretendere di voler sostituire qualcuno che non c’era più e che noi continuavamo ad amare, com’era giusto che fosse.

Per questo ci siamo tutte affezionate a Nino fin da subito.
Le ragazze in primis, e poi io.
Ma è stato tutto inaspettato, non forzato. Insomma, naturale.
Perché nessuno avrebbe mai potuto sospettare il dolore che lui avrebbe dovuto affrontare - la perdita dell’amata moglie, dopo quella di una figlia anni prima - e ognuno di noi aveva deciso di aiutarlo come poteva. Ci siamo strette attorno a lui come si fa in una famiglia. Una famiglia che non si è imposta con la forza, ma con amore e comprensione.
Perché anche io e le ragazze conoscevamo bene quella sofferenza, avendola provata sulla nostra pelle. Ma non mi aspettavo i risvolti che ci sono stati dopo.

Non mi aspettavo di innamorarmi di nuovo, a questa età, dopo così tanto tempo. E per di più non di un uomo che è maschilista, pensa sempre e solo al calcio e sembra non vedere mai oltre se stesso, quando invece ha un cuore d’oro e mi fa sempre ridere.
Sì, insomma, avevo smesso di cercarlo l’amore, e inizialmente non ero certa che fosse la cosa giusta, la mia storia con lui. Per mille motivi, non in ultimo la reazione di Anna.
Perché quando ha scoperto che io e il Maresciallo ci stavamo frequentando, non l’ha presa affatto bene.

C’è anche da dire che questa notizia le era arrivata in un momento per lei molto delicato, e la sua esitazione era dovuta principalmente a questo, perché in poco tempo ha poi accettato di buon grado quella nuova situazione.
In fondo era stata la prima a lasciarlo entrare nella sua vita. Aveva imparato, prima di me e di Chiara, a volergli bene, ad amarlo come un padre, perché era stato per lei la guida di cui aveva bisogno e di cui aveva mancanza. Nino era riuscito a fare capolino oltre la corazza dura che mia figlia si era costruita intorno, crescendo, per non soffrire. E lo ha fatto senza imporsi, senza pretendere, senza volersi sostituire a Carlo. Ma anzi, rispettandolo, apportando la sua esperienza per aiutare Anna quando lei si ritrovava persa e aveva bisogno di quella figura paterna che per anni non aveva avuto.

E allora sì, ho poi capito che era giusto. Che aprendomi a un nuovo amore, a un nuovo uomo, non stavo facendo nulla di male. Che rinunciare a qualcosa che mi faceva e fa stare bene non era un sacrificio che ero tenuta a fare. Che questa volta potevo scegliere di mettere me prima del resto. Perché facendolo non sottraevo spazio e tempo all’amore per le mie figlie, ma anzi ricreavo un nucleo famigliare nuovo, che non sostituisce quello vecchio, ma lo completa senza cancellarne il ricordo. E che anche loro, stavolta, desideravano.
Finalmente quell’amore che non cercavo era arrivato, dopo molto tempo, anche per me. E con un uomo che era l’opposto di ciò che io pensavo di volere.

Anche la mia Anna ha avuto un’esperienza simile: ha trovato l’amore laddove era certa di non poterlo nemmeno considerare.
Tra le braccia di quel PM ironico e gentile che le aveva rapito il cuore senza che lei nemmeno se ne accorgesse. Che le aveva donato quella dose di leggerezza di cui aveva bisogno estremo. E che, contrariamente a cosa si può pensare, voleva, desiderava. Perché legarsi a qualcuno è sempre una scelta.
E anche se la vita li ha poi messi alla prova tentando di dividerli più volte, hanno sempre trovato il modo di ricongiungersi.
Ed è sempre stato chiaro che non poteva essere altrimenti.

Dopo aver avuto modo di conoscere meglio Marco, nel corso del tempo, ero certa che fosse l’uomo giusto per Anna e che niente – e nessuno - avrebbe mai potuto dividerli.
Certo, nella vita possono succedere tante cose – e così è stato -, ma il vero amore vince contro tutto.
E io non avevo mai visto Anna così felice come da quando lo aveva conosciuto. Non l’avevo mai vista sciogliersi così facilmente in una risata, o lasciarsi coccolare senza riserve.
Mi piaceva e mi piace, Marco, ed ecco perché mi ci era voluto poco a convincermi che fosse l’uomo perfetto per lei.
E questa convinzione non è mai venuta meno, neanche quando sono venuta a conoscenza della ragione per cui, la mattina del matrimonio, Anna era fuggita dalla chiesa.
Per la prima volta, avevo visto mia figlia piangere davvero. Sperimentare cosa sia il vero dolore. Nessuna madre, nessun genitore, vorrebbe mai vedere soffrire i propri figli. Perché non puoi prenderti il loro dolore, non puoi fare niente di concreto per aiutarli se non star loro accanto e sperare che passi presto.

E, quella mattina più che mai, mi ero rivista in lei. Nel suo dolore, nella sua disperazione, nella sua incapacità di comprendere come fosse potuto succedere.
Nel terrore di essere sbagliata, di essere tu il problema, che è colpa tua se è successo che l’uomo che ami è finito, anche solo per una notte, tra le braccia di un’altra.
Non avrei mai voluto raccontarle quella storia, non avrei mai voluto dirle che anche suo padre, come il suo sposo, mi aveva tradita. Ma credevo e credo tutt’oggi che fosse necessario. Che per quanto difficile, come io avevo perdonato suo padre perché lo amavo nonostante tutto e non avrei sacrificato la gioia di anni per la debolezza di un momento, anche lei, prima di qualsiasi scelta, poteva provare a guardare oltre l’errore, domandarsi se ci fosse modo di riparare quello squarcio.

Lei, però, aveva capito anche che nella mia decisione lei e sua sorella avevano contribuito ad essere l’ago della bilancia. Che le nostre situazioni erano simili, ma non uguali.
E capivo il suo dolore, e il tentativo - inutile - di allontanare Marco dalla sua vita, buttandosi a capofitto in una relazione che con lei non c’entrava nulla. Che le avrebbe solo provocato ulteriori ferite.
E lo sapeva bene anche lei, ma è ostinata, e ha continuato dritta per una strada che si era imposta.
Una strada che, inevitabilmente, aveva continuato però a condividere anche con Marco. Perché non era riuscita a tagliarlo completamente fuori dalla sua vita, non ce l’avrebbe mai fatta, e quando quel ragazzo è entrato in carcere, è stato inevitabile per lei riavvicinarsi a Nardi, senza neanche rendersene conto.

Perlomeno non fino a quando ha dovuto iniziare con la bugia degli amici.
Non ci credeva neanche lei, ma mettendoci sopra un’etichetta definita avrebbe potuto cercare di attenervisi.
Un’altra sevizia autoimposta delle sue.
Marco, nel frattempo, non aveva mai lasciato il suo fianco.
Sempre accanto a lei, sempre un passo indietro, sempre lì.
Accettando perfino un ruolo doloroso pur di poterle stare accanto. Accontentandosi. Ingoiando la fiele ogni volta che il discorso virava su Sergio e sulla vita che, fosse andata come previsto, non lo avrebbe più compreso.
Ma se ai loro occhi tutto era normale e lecito a prescindere, con la scusa che gli amici l’uno per l’altra ci sono sempre, a chiunque altro non sfuggiva il sottotesto di un amore mai svanito.
La Cava aveva solo fatto un favore ad andarsene, anticipando l’inevitabile.

Perché solo così Anna è riuscita finalmente a riaprire gli occhi. A capire cosa aveva sempre voluto, nonostante il dolore, nonostante la paura che continuava a farla da padrona. Perché non era bastato ammettere a me di essere ancora innamorata di Marco per riprovarci, per tentare di ricucire la ferita e ripartire insieme lungo la strada che avevano scelto di percorrere uno accanto all’altra anni prima.
Perché anche Marco, come lei, aveva il terrore che sarebbero tornati a commettere gli stessi errori, e aveva cercato di voltare pagina.
Nessuno dei due si era accorto però che quegli ostacoli tanto temuti li avevano già superati tutti, insieme.
Tutti quei problemi che si erano presentati lungo il loro percorso li avevano risolti uno a uno venendosi incontro. Smussando reciprocamente gli angoli che in precedenza avevano provocato la frattura tra loro.

Marco non è mai riuscito a celare l’amore per mia figlia. Per quanto ci abbia provato, non è servito.
Osservandolo, mi è tornata in mente una citazione da un romanzo che adoravo, da ragazza: Anna Karenina. Sì, il nome di mia figlia trae spunto proprio dalla protagonista nata dalla penna del grande autore russo.
Mi sono ricordata di un passaggio in cui il conte Vronskij spiegava la portata del suo amore per Anna. Paragonandola al sole che, sebbene non possa essere guardato direttamente, sai comunque che è lì e non puoi farne a meno. Che la sua luce è necessaria, che non potresti vivere senza. Che una lontananza forzata non avrebbe fatto spegnere il sentimento.
E per Marco e la mia Anna è sempre stato lo stesso. Avevano cercato entrambi di fare a meno l’uno dell’altra e viceversa, ma senza successo.
Anna aveva provato ad odiare Marco, a spingerlo via, a legarsi a qualcun altro, ma invano. Perché quel filo rosso ti riporta sempre a casa.
Marco, invece, aveva provato ad andare avanti, a dimenticarla, a riprendere in mano la sua vita e accettare di essere solo un personaggio secondario nella trama della vita di Anna, e non più il co-protagonista.

Ma nonostante i loro caratteri diversi, che spesso li hanno portati allo scontro, divisi sono persi e non possono stare.
Ed è stato chiaro che, dopo un riavvicinamento che tutti avevamo notato, qualcosa nuovamente si era ripresentato a bloccarli, a farli esitare, quando Sergio si era dato alla ‘fuga' e l’ostacolo apparentemente più grande non c’era più.
Intuii che potesse essere tornata prepotente la questione lavoro a insinuarsi tra loro, perché a pensarci bene in fondo era l’ultimo punto irrisolto. Almeno in apparenza.
Tuttavia, ne ebbi conferma solo dopo l’incidente della doccia – di cui Nino mi ha spiegato l’accaduto in seguito.
Marco quella notte era rimasto a casa di mia figlia.
Lo so perché dopo essersi spostati tutti e tre a casa sua, per spiegarle cosa fosse successo, Nino era in seguito rientrato al suo appartamento, ma la porta di casa di mia figlia non si è riaperta fino alla mattina dopo.
E quando si è aperta, ho visto uscire Marco, vestito come la sera prima e con un’espressione cupa in volto. Quasi disperata.
La stessa espressione che ho intravisto sul viso di mia figlia mezz’ora più tardi.
Era evidente che fosse successo qualcosa. Qualcosa che dopo averli visti più vicini che mai, li aveva riallontanati in un battito di ciglia. Qualcosa che li spaventava, che che aveva contribuito a far probabilmente etichettare come un errore, come avevano fatto col loro primo bacio.
Ero rimasta molto stupita dal fatto che Anna, diversamente dal solito, avesse voluto parlarne con me. Ed è stato in quel momento che mi sono resa conto che mia figlia era cambiata, cresciuta.

Che c’entrasse il lavoro lo avevo intuito soprattutto dalla frequenza delle visite del Tenente Colonnello Valente. E Anna me lo ha confermato una volta chiarito tutto: aveva ricevuto dal superiore una proposta di lavoro per la Siria, a cui lei aveva inizialmente evitato di dare una risposta netta, sebbene avesse già le idee chiare. Sarebbe partita per paura di restare, non perché lo volesse realmente.
Ebbene sì: quella ragazza ventenne decisa a fare carriera a qualsiasi costo non esisteva più, aveva lasciato spazio a una donna che non voleva più porsi dei limiti, ma ascoltare il cuore, seguendolo laddove l’avesse condotta.
Consapevole che, in ogni caso, in ogni modo, il suo posto sarebbe stato accanto a Marco.

Marco che, d’altro canto, aveva già messo fine da diversi giorni alla storia con la giovane Anceschi. Inutile fingere o tentare strade senza uscita, anche per lui. L’unica che voleva era Anna, anche se convinto che non le sarebbe mai bastato.
Quando un paio di giorni dopo, ho visto avvicinarsi la Rolls Royce bianca, con Nino in alta uniforme e mia figlia alla guida, mi ero sentita come in un sogno a occhi aperti. Non potevo credere che uno dei miei desideri si stesse concretizzando. E quasi come nei film, quando l’auto si è prima fermata, lontano da me, e poi è ripartita tirando dritto, mi sono sentita invece come in un incubo.

Sul momento non avevo capito perché si fossero allontanati in tutta fretta. Ma mi era bastato ripensare un istante allo sguardo sul viso di mia figlia per realizzare.
Uno sguardo pensieroso, distante, colmo di lacrime, che dopo poco si è   riempito di gioia, fino a quando sul suo volto non si è poi sciolto un sorriso.
Lì, a quel sorriso, avevo capito quale fosse la destinazione di quella corsa improvvisa: la caserma in Piazza Duomo.
Marco.

Presi a correre anch’io, a scendere la scalinata più in fretta che potevo, seguita da Don Massimo.
Anche lui, come Don Matteo, aveva intuito tutto, forse fin dal suo arrivo. O magari era stato proprio il suo predecessore a informarlo, chissà.
“Guarda!” ho esclamato rivolta a Nino, una volta giunta in fondo alla scalinata, portandomi le mani davanti alla bocca per trattenere l’emozione di fronte alla scena che stavo vedendo.
Perché finalmente, finalmente, mia figlia aveva preso la sua decisione.
Amare.
Ricevere, dare.
Smettere di giocare da sola.
Gridare al mondo ciò che ama di quell’uomo impossibile che è sempre rimasto al suo fianco. Perché si ama anche ciò che a volte apparentemente si detesta.
Voglio giocare con te per tutta la vita”, gli ha sussurrato alla fine di una dichiarazione di quelle che ti lasciano con gli occhi sognanti di poter vivere la stessa cosa.
E Marco ha capito.
Ha capito che anche lui doveva smettere di avere paura.
Che l’unica cosa da fare era amarsi, e il resto lo avrebbero aggiustato col tempo, passo dopo passo.

Mi è dispiaciuto interrompere quel loro lunghissimo bacio per avvisarli che finalmente il mio vero anello di fidanzamento era arrivato, che Nino mi aveva posto la fatidica domanda, ma so che mi hanno perdonata.
E avranno modo di recuperare quegli istanti rimasti in sospeso, ne sono certa.
 
 
Questo Natale sta trascorrendo in modo perfetto, come forse nessuno di noi avrebbe sospettato fino a poche settimane fa.
C’è la neve, il fuoco nel camino, le luci sull’albero e il pranzo in tavola.
C’è Don Massimo, con gli immancabili Pippo e Natalina, che hanno accettato l’invito di trascorrere la giornata con noi. C’è la piccola Ines, che passerà il Capodanno con suo padre ma il Natale no, perché ormai è tradizione passarlo insieme a questa, di famiglia.
Ci siamo io e Nino, che presto ci sposeremo, ma le priorità sono altre.
Perché ci sono Anna e Marco, più innamorati che mai, e un altro anello di fidanzamento che ha fatto la sua ricomparsa.
Anna lo aveva gelosamente conservato, insieme a tutti gli altri ricordi della loro storia che in fondo non aveva mai avuto la forza di buttare via, e adesso lo indossa nuovamente all’anulare sinistro, in attesa che una fede dorata possa finalmente prenderne il posto.
Hanno aspettato anche troppo, e presto Don Massimo celebrerà il loro matrimonio. Marzo, come avrebbe dovuto essere.
Come sarà.
Perché il sole può anche nascondersi, essere sopraffatto da nuvole cariche di pioggia, ma prima o poi torna a splendere. E c’è, anche quando non lo si vede.
Come Marco per Anna, e Anna per Marco. Un universo in cui uno è la stella attorno a cui ruota il pianeta che è l’altro.
Un universo che è nato da un big bang, e durerà finché non si spegnerà il fuoco che brucia nel sole che gli dà vita.
Ma l’amore si sa, può bruciare anche per sempre, senza mai spegnersi.

Hello!
Prima che ce lo chiediate, SI, Vocina e Grillo scriveranno ANCHE i finali alternativi degli episodi della stagione, ma al contempo ci è venuta l'idea per questa nuova raccolta.
Si chiama "Voices", perché contiene proprio le 'voci' degli altri personaggi di DM, che parlano di sé e del loro rapporto con Anna e Marco, che restano sempre centrali all'interno delle nostre storie. Finora, avevamo sempre fatto 'parlare' loro due, spesso e volentieri in prima persona, per narrarci i loro pensieri e le loro vicende, ma abbiamo pensato che sarebbe stato interessante cambiare prospettiva, e provare a vedere le cose dal punto di vista di chi, vicino ad Anna e Marco, lo vediamo spesso. 
E come non partire da Elisa Olivieri, la madre di Anna? Di lei finora avevamo saputo poco - che avesse perso il marito abbastanza giovane, che voleva fare l'avvocato, che fosse stata tradita - ma altri tasselli della sua storia personale sono stati aggiunti durante DM13, e ci è piaciuto cominciare proprio con lei. 
Speriamo l'idea vi piaccia! Come sempre, fateci sapere, anche se c'è qualche personaggio in particolare di cui vorreste conoscere il 'punto di vista'!
A presto, 

Vocina e Grillo

 

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Capitolo 2
*** Soulmates - Valentina ***


SOULMATES
 

"A soulmate is the one person whose love is powerful enough to motivate you to meet your soul,
to do the emotional work of self-discovery, of awakening."

Kenny Loggins
 
Non avevo mai capito cosa fosse un’anima gemella.
Pensavo fosse qualcosa che esisteva solo nei libri, nelle canzoni, nelle poesie. Qualcosa creato per sopperire all’imperfezione della realtà.
Non ci credevo, perché nella mia vita non avevo davvero avuto esempi che ne provassero l’effettiva esistenza. Semmai, il contrario.
 
I miei genitori, di sicuro, non lo sono.
 
Zio Nino mi ha raccontato degli inizi, delle difficoltà di mio padre di esprimere i suoi sentimenti per mia madre, le incomprensioni e tutto il resto, ma alla fine sembravano aver trovato un punto d’incontro. Insomma, il matrimonio sembrava andare benissimo.
È normale per due caratteri forti - e due teste dure soprattutto – non andare sempre d’accordo, non riuscire a parlarsi, come invece si dovrebbe fare.
Mio padre non è un uomo semplice. Si è sempre difeso, nascosto, dietro la sua divisa. Quella che è stata sempre una costante nella sua vita, la sua certezza. Un capitano prima, un maggiore poi, un colonnello ora. Una divisa che anno dopo anno è pesata sempre di più, a livello di responsabilità e sulla sua vita famigliare.
Quando ero piccola era poco a casa. Cercava di esserci, ma il suo lavoro non è un lavoro come gli altri e il suo dovere è sempre venuto prima di tutto, anche della famiglia. Non è bastato l’impegno a tenere insieme i pezzi di una maglia che piano piano si è sfilacciata, lasciando entrare tra i buchi della stoffa una nuova luce, una nuova esistenza.
L’incanto infatti si è rotto tempo dopo, quando le cose non dette sono diventate troppe. Avevo 15 anni quando mia madre ha rivelato di avere un altro uomo, e di non volerne più sapere niente di noi. Nemmeno di me, sua figlia.
Era a suo dire stanca di come le cose si erano andate dipanando nella sua vita e riteneva che in fondo avesse sempre avuto ragione mia nonna, la quale le aveva sempre detto che una vita accanto a mio padre sarebbe stata noiosa e logorante per lei. E che quella non era la vita che voleva, in cui tutto era diventato un peso per lei, perfino io.
Così, se n’è andata.
 
Inutile dire che sia stato devastante, sia per me che per papà, e anche tra noi due qualcosa si è inevitabilmente rotto dopo quella sera.
Per giorni mio padre non ha proferito parola. Non con me perlomeno. L’ho sentito qualche volta al telefono con zio Nino, raccontargli come non sapesse cosa fare.
Non l’ho nemmeno mai visto piangere in quei giorni. Non di fronte a me.
Solo una notte, qualche settimana dopo che mia madre se ne è andata, l'ho sentito e visto piangere. Anche se lui non lo sa.
Era in camera sua con la foto del matrimonio in mano, ripeteva con un fil di voce “Dove ho sbagliato? Cosa ho sbagliato?”
Ma il mattino seguente tutto è tornato come prima, con lui che non parlava del fatto che la mamma se ne fosse andata, che non mi chiedeva come stessi. Non ci siamo nemmeno mai abbracciati per darci sostegno, nel momento in cui tutto è crollato come un castello di carte per uno sbuffo d’aria.
 
E lì, ho capito che è tutta un’illusione. Ho capito che l’amore vero non esiste. Che l’anima gemella non esiste. Che il rapporto perfetto tra padre e figlia, quello che si legge nelle favole o si vede nei film, non esiste.
E ne ero certa, allora.
 
Perché io sembravo una figlia modello, ma non lo ero. Come mia madre sembrava una donna perfetta, e non lo era. Papà questa cosa l’ha sempre vista, e seppur non sempre volontariamente, me l’ha fatta pesare. Le somiglio, è palese, non solo per l’aspetto fisico, ma soprattutto nel commettere errori su errori e disfare la vita degli altri perché insoddisfatta della mia.
 
Forse ho imparato da lei ad essere così senza accorgermene, in fondo stavo sempre con lei a casa e poco con mio padre, che era sempre in caserma.
Forse sarei diventata un’altra persona se fossero stati entrambi presenti nei momenti più importanti della mia vita, nei riti di passaggio e in quella fase delicata che è la crescita.
E invece sono diventata adulta a quindici anni. O perlomeno ci ho provato. Perché evidentemente ho fallito anche in quello e mentre pensavo di avere le redini della mia vita in mano, in realtà ero solo alla ricerca di attenzione da mio padre.
Certo non volevo che i miei gesti e le mie azioni portassero a cosa hanno portato, non volevo volontariamente rovinare la vita di chi mi stava attorno, come invece mia madre aveva fatto. A lei non era importato, a me invece importava.
Volevo solo che mio padre mi capisse, o semplicemente ascoltasse. Che mi amasse. Con i miei mille difetti e cicatrici. Che mi vedesse come Valentina, sua figlia, e non come la copia di mia madre.
 
Nel vano tentativo di crescere in fretta e mostrarmi pronta per cosa il fato aveva messo sulla mia strada, la realtà mi ha invece schiacciata senza preavviso e mi sono trovata sopraffatta, senza un appiglio a cui aggrapparmi. Senza la forza necessaria a tirare avanti sul serio.
Mi sono trascinata per tanto tempo in un purgatorio di difficoltà, tentando disperatamente di raggiungere mio padre. Senza risultati. Perché lui si era chiuso nel suo dolore e si era buttato sul lavoro, relegandomi allo sfondo. Non lo aveva fatto con cattiveria, ne ero consapevole allora e ne sono certa ora. Ma dopo che mamma se n’è andata, ha iniziato a darmi per scontato. Ha continuato a considerarmi la figlia perfetta, quella che è sempre stata la prima della classe, che avrebbe portato avanti con onore il nome della famiglia Anceschi. Non aveva provato a guardare oltre la facciata. A chiedersi se veramente non ero – come lui – cambiata dopo la partenza della mamma. E quando se ne è accorto, era troppo tardi. Ero diventata come lei. Lo avevo deluso, come aveva fatto lei.
 
Al termine del liceo, quattro lunghi anni in cui ho cercato di tenere duro e di attirare l’attenzione di mio padre cercando di compiacerlo per farmi notare, non sapevo cosa fare del mio futuro. E non l’ho saputo per molto tempo.
I miei risultati scolastici erano sempre stati accolti bene da papà e così – più per lui che per me – mi sono lanciata nell’avventura di studiare giurisprudenza come aveva fatto lui – e come aveva fatto mamma.
 
Non è stato facile, ma durante il periodo universitario ho trovato amici e colleghi su cui contare. Con cui provare a vivere in maniera più leggera la mia vita. E insieme a queste nuove amicizie, accanto a me c’era ancora la mia roccia, la mia migliore amica sin dalle scuole medie, Flaminia.
Sempre presente, nel bene e nel male. Una sorella praticamente, anche se non di sangue. Lei sapeva tutto di me.
Mi conosceva come nessun altro. E sapeva che stavo studiando qualcosa che non mi appassionava, che lo facevo solo per compiacere mio padre, per ottenere - anche solo per la durata di un attimo fuggente – la sua attenzione.
Aveva provato a spronarmi affinché dicessi la verità a papà. Perché meritavo di essere felice e fare qualcosa che piacesse a me, come aveva deciso di fare lei. Ma i suoi tentativi erano stati vani, perché io continuavo a sperare che papà mi notasse, prima o poi. Col tempo aveva smesso di cercare di farmi ragionare, e alla fine ha finito per compiacere me che compiacevo mio padre. Andava bene così. O almeno questo mi ripetevo.
 
Dopo la laurea avevo provato a tentare di seguire la strada su cui lui mi aveva indirizzata, per renderlo orgoglioso almeno di quello, e invece ho fallito.
Lì ho capito che non ero cresciuta. Che non ero matura come pensavo. Che non ero in grado, esattamente come quando avevo quindici anni, di affrontare nuovamente la faccia delusa di mio padre. Non ero pronta ad affrontare la realtà dei fatti, ossia che in fondo lui aveva sempre avuto ragione, sebbene non me lo avesse mai detto apertamente: io ero come mia madre.
Per questo, quando sono stata bocciata al test per diventare magistrato, ho preferito mentirgli dicendo che invece lo avevo passato. E non avevo saputo aggiustare la mia vita, decidere per me in nessun modo, neanche perseguendo quella strada che avrebbe dovuto riportarmi da papà e che invece mi ha fatta smarrire.
 
Per mesi ho portato avanti quella bufala. Per mesi ho cercato di prendere tempo. Per mesi mi sono lasciata andare a una vita di eccessi. Che hanno fatto più male a mio padre di quanto forse non avrebbe fatto dirgli subito la verità.
Perché ho iniziato a combinarne una dietro l’altra, ubriacandomi quasi tutte le sere, mettendo a rischio non solo la mia vita, ma anche il buon nome della famiglia e la vita degli altri. Ma in quel momento nulla mi ha fermato.
Era più facile affrontare la vita con l’aiuto dell’alcol, perché con quello la mente si annebbiava e riuscivo finalmente a non pensare a come avessi buttato il mio futuro alle ortiche. Su come non stessi riuscendo a rendere orgoglioso mio padre, e non avessi saputo scegliere per me stessa.
E in quei mesi di assoluta follia, ho finito per commettere l’errore più grande della mia vita.
 
Nella mia disperata ricerca di qualcuno che mi capisse - e in quel momento non ci riusciva nemmeno Flaminia, che aveva preferito assecondare il mio delirio invece che affrontare il fatto che stessi male come avevamo fatto insieme in passato – ho trovato rifugio e conforto tra le braccia di Lorenzo, uno dei miei più cari amici dell’università, ma anche e purtroppo fidanzato di Flaminia.
Volevo sentirmi amata, volevo capire se il problema - perché le cose attorno a me erano sempre andate male - in fondo non fossi io.
Lorenzo si è trovato lì con me quasi per caso. Parlava con me, mi ascoltava, mi consolava. Ma giorno dopo giorno, ci siamo avvicinati, più di quanto avremmo dovuto. E una sera, in cui avevo nuovamente bevuto troppo, sopraffatta dai dubbi, mi ero lasciata accogliere dalle braccia di Lorenzo e dalla notte di ‘amore’ che avrebbe inevitabilmente cambiato per sempre la mia vita e quella di Flaminia.
Ricordo di essere scappata via da casa di Lorenzo il giorno dopo, la testa mi faceva male, ma il cuore di più. Perché quella notte, quell’errore, mi sarebbe costato la perdita di una delle persone più importanti della mia vita, nel momento in cui la verità sarebbe venuta a galla. Perché sarebbe successo, e lo sapevo.
 
Per giorni ho tenuto nascosto cos’era successo. Non sapevo come dirlo a Flaminia, se dirlo a Flaminia. Sapevo non avrei rifatto l’errore, la colpa mi logorava dentro. Ma quando Lorenzo è venuto da me per dirmi che la voleva lasciare per mettersi con me, ho capito che non potevo più stare zitta. Perché ero veramente come mia madre, anche se non avevo volontariamente fatto cosa ho fatto. Non importava se avessi o meno sviluppato dei sentimenti per Lorenzo, non avrei mai potuto stare con lui, anche avesse lasciato Flaminia. Perché il rimorso mi avrebbe sempre logorato dentro, come è di fatto successo. Perché non era giusto.
 
E il rimorso non è andato via dopo che la verità è venuta a galla, ma si è moltiplicato.
Non c’è stata notte, per svariati lunghi mesi, in cui nei miei incubi, io non abbia rivisto in loop la sera dell’incidente in cui è morta Flaminia.
Notti in bianco, con gli occhi spalancati, perché ogni volta che li chiudevo mi rivedevo in auto con lei, mentre le raccontavo di come le avevo distrutto la vita. E poi lei che scendeva dall’auto, disperata e ferita, incurante dell’auto che sopraggiungeva e che per via della pioggia non fu in grado di arrestare in tempo la sua corsa.
Quella sera l’unica cosa che si fermò fu la sua vita.
 
Un incidente, così l’hanno classificato, ma io sapevo benissimo che la colpa era mia. E mi sono rigettata nella vita frenetica a base di alcol con lo scopo di alleviare il dolore, di dimenticare, invano.
Senza Flaminia non avevo più nessuno con cui confidarmi. Papà non mi è stato vicino più di tanto, anzi il rapporto tra noi si è incrinato ulteriormente. Una sera mi ha perfino fatto arrestare, perché lo avevo deluso, lo avevo messo in imbarazzo. La figlia di un colonnello trovata ubriaca alla guida.
Avevo toccato il fondo.
 
Qualche mese dopo la morte di Flaminia, sono arrivata a Spoleto. Dovevo restare un paio di giorni per accompagnare papà alla festa per i cinquant’anni di sacerdozio di Don Matteo, che io non conoscevo più di tanto a dire il vero, ma era un modo come un altro per compiacere mio padre. E rivedere zio Nino, che non riabbracciavo da molto tempo. Qualche giorno, e sarei tornata a Roma alla solita routine. Invece quella ‘gita’ ha cambiato tutto.
Perché a Spoleto ho trovato una nuova famiglia e finalmente sono cresciuta. E l’ho fatto quando dopo mesi, ho rivelato cosa mi logorava, cosa fosse andato storto.
 
Ho tenuto il segreto dietro la morte di Flaminia dentro di me fino a poco tempo fa, e quando ho deciso di rivelarlo, non l’ho fatto nemmeno per intero la prima volta, perché ero convinta che avrei perso quel poco di affetto che ero riuscita a ritagliarmi da quelle persone che avevo conosciuto da poco e a cui mi stavo affezionando.
Non sapevano, ed era l’unico modo affinché non mi giudicassero. Perché, se avessero scoperto la verità, avrebbero anche scoperto che persona orribile ero. Una che era andata a letto col fidanzato della sua migliore amica, morta per colpa sua.
Era meglio tacere, ricominciare da zero. Col tempo avrei accettato e dimenticato, mi dicevo.
E invece non era quello il modo di affrontare il problema, e me lo ha insegnato chi, un errore simile al mio, lo aveva compiuto. Non è cercando di vivere in un Purgatorio auto-imposto che si raggiungerà il perdono, il Paradiso.
Si deve accettare il fatto di essere umani, di poter commettere errori. Ma poi bisogna rialzarsi, bisogna saper chiedere perdono agli altri e a se stessi. Sembra facile a dirsi, ma non lo è. Solo quando si riesce a farlo, si ritorna a vivere.
Ci ho messo del tempo, ma alla fine ci sono riuscita anche io. Nel mentre però ho continuato a fare ‘errori’, anche in maniera consapevole per certi versi, e ho di nuovo rischiato di distruggere altri legami. Ma non sempre le ombre vincono sulla luce.
 
Al mio arrivo a Spoleto, non mi sono presentata bene. Ubriaca, ancora una volta, e con più scheletri nell’armadio di quanti riuscissi a contarne.
Poi è arrivata la doccia fredda - non quella con cui mi han fatto superare la sbornia - che si è palesata su mio padre alla scoperta dell’esame da magistrato che non ho superato. Sapevo di averlo deluso, non dimenticherò mai la sua faccia nel sentire la verità. Ma quel giorno ero anche arrabbiata. Dopo mesi a incanalare la rabbia, ero arrivata a esternarla nel peggior modo possibile: rinfacciando a mio padre di essere la colpa di quello che ero diventata e di odiarlo.
Non sapevo però che le nostre incomprensioni pesassero a tal punto su di lui da fargli venire un mezzo infarto. Non ero pronta a perdere anche lui. Il terrore che mi ha pervaso quando l’ho  visto accasciato a terra non è spiegabile a parole. E non è andato via per molto tempo. Fuori mi sono sempre mostrata forte, ma ero solo l’ombra della ragazza che un tempo ero.
Qualche giorno dopo lui è tornato a Roma. Mi ha lasciato indietro, voleva spazio perché tutto era diventato troppo opprimente, e voleva che io mi prendessi del tempo per pensare a cosa stavo facendo. Perché era più facile per entrambi, ma soprattutto per lui. Perché ormai c’erano solo le macerie, e io non avevo nemmeno tentato di provare a ricostruire.
Quello che non mi spiegavo era perché lo zio Nino, nonostante avesse visto che disastro ero, avesse accettato di tenermi in casa sua. Cosa vedeva in me, che gli altri non vedevano. Ma lo zio Nino è così, quasi sempre incomprensibile a te, ma capace di leggerti come un libro aperto quando meno te lo aspetti.
 
Oltre a lui, Spoleto mi ha offerto due nuovi amici: il Capitano dei Carabinieri di Spoleto, Anna Olivieri, e il PM Marco Nardi.
Non sapevano niente di me, a parte alcuni dei miei fallimenti, eppure mi avevano aiutata senza pensarci due volte. Marco, soprattutto, almeno all’inizio, e poi anche Anna.
E poi c’era la signora Elisa, nuova compagna dello zio e madre di Anna. Mi hanno accolta nella loro famiglia, mi hanno resa partecipe della loro vita, senza chiedere né pretendere nulla.
Dopo molti anni, mi sono finalmente sentita di nuovo parte di una famiglia. Mi sono sentita accettata, pur con tutti i miei difetti. Certo, avevo ancora dei fantasmi da rivelare - oppure no - però per la prima volta sentivo di poter contare su chi mi stava attorno, quando sarei tornata a sbagliare avrei trovato qualcuno disposto ad aiutarmi. Non sarei stata sola.
 
Ho scoperto pian piano ciò che succedeva, in quel di Spoleto. E perché ci tenessero così tanto a darmi una mano: perché quelle persone mi capivano.
Sia Anna che Marco avevano avuto un rapporto complicato e travagliato con i propri genitori, per motivi anche gravi che ho scoperto in seguito.
La loro vita famigliare non era stata tutta rose e fiori, per cui sapevano bene cosa voleva dire trovarsi nella mia situazione, e di quanto fosse complicato tirarsene fuori.
 
Però c’era anche altro che li riguardava da vicino, che li legava, e che io non mi aspettavo.
Quando li ho visti insieme, all’inizio, mi sono detta che era evidente si piacessero parecchio, ma pensavo fosse tutto lì, che semplicemente il passo successivo non fosse ancora avvenuto.
 
Invece, con mia enorme sorpresa, durante una cena a casa di zio Nino mentre imparavamo a conoscerci meglio, erano stati proprio loro a rivelarmi che un paio di anni prima avrebbero dovuto sposarsi, e anche la ragione per cui il matrimonio era saltato. Un tradimento. Anzi, in realtà più di uno. Perché da una parte c’era una bugia, dall’altra la reazione alla bugia, che però aveva fatto più rumore.
 
Tuttavia, vedendoli insieme, avevo capito che per nessuno dei due era un cassetto chiuso la loro relazione, anzi. Poco importava che ci fosse stato anche quel Sergio, in mezzo a loro, per un bel po’.
Insomma, c’erano parecchie cose non dette tra loro, ma era evidente che il sentimento non si fosse mai del tutto spento.
 
Se però Marco era un libro aperto e avessi capito immediatamente quanto ancora fosse innamorato anche per sua stessa ammissione, Anna d’altro canto era difficilissima da decifrare. Non la capivo.
A tratti sembrava totalmente apatica, indifferente e cinica di fronte a qualsiasi cosa, altre volte invece la vedevo reagire con una passione fuori dal comune. Dava l’impressione che spesso si trattenesse, per qualche motivo, quasi avesse paura di qualcosa. E non capivo perché ‘rifiutasse' i sentimenti che provava, perché era evidente succedesse questo. Io avevo imparato poche cose nella vita fino a quel momento, ma una su tutte mi era chiara: i sentimenti non vanno mai ignorati, rinchiusi in un cassetto dentro di noi sperando svaniscano. Perché fa più male tenerseli dentro e cercare di rinviare un verdetto che non vogliamo avere, piuttosto che affrontare il dolore di un rifiuto. Perché ti logorano dentro i se e i ma, che accompagnano la scelta di ignorarli. E non andrai mai avanti se non accetti di provarli e di affrontarli, anche dovesse andare male.
 
Così ho deciso che se lei era testarda e non faceva alcunché per affrontare la realtà dei fatti e Marco aveva accettato tacitamente la cosa, era necessario dare una spintarella, come direbbe lo zio Nino – dopotutto sono la sua figlioccia. Perché ero certa che per loro ci fosse ancora modo di ricucire il legame.
Ho quindi spinto Marco a riprovarci, a riconquistarla. E mi sono ingegnata per farla ingelosire. “Se non ottieni una reazione nemmeno tramite i piani G, allora non è amore”, mi ha sempre detto lo zio Nino. E allora perché non testare la sua tesi con Anna e Marco?
Inutile dire che il piano ha funzionato meglio del previsto, perché Anna non si aspettava che lui potesse avvicinarsi a me. Non mi aveva visto come una minaccia, prima di quel momento. Perché nessun’altra avrebbe osato prendere il suo posto, lei ne era certa, sicura del proprio ascendente su Marco. E sul legame speciale che condividevano.
Il culmine del piano, il bacio che aveva visto tra me e Marco di ritorno dal campo da tennis, l’aveva resa furiosa. Era evidente che la situazione non le piacesse affatto, tanto che - sorprendentemente, a detta di Marco – il giorno dopo gli aveva confessato che non voleva che si allontanassero, che ci teneva a lui. Certo, non aveva apertamente detto di amarlo, ma era più di quanto ci si potesse aspettare da una di pochissime parole come Anna.
Per quanto probabilmente maldestro quel piano fosse, alla fine era riuscito brillantemente, perché Marco non aspettava altro che scoprire se ci potesse essere uno spiraglio di speranza da perseguire. E c’era eccome. Perché Anna non era indifferente, anzi. Sarebbe bastato poco, e tutto si sarebbe aggiustato.
 
Solo che il mio piano non teneva conto dell’esistenza  di un piccolo – ma nel loro caso enorme – ostacolo che si era frapposto tra loro praticamente da sempre, e di cui io non ero a conoscenza.  Un qualcosa di profondo e radicato che ha impedito al piano di trovare la giusta risoluzione.
 
Di quell'ostacolo ho scoperto solo quando ho rivelato allo zio Nino che me ne sarei andata, perché la mia breve relazione con Marco era finita e avevo bisogno di una pausa, di tornare da papà dopo che ci eravamo chiariti a seguito del suo ritorno a Spoleto qualche settimana prima.
La mattina dopo, lo zio mi ha accompagnata alla stazione. Era turbato, così gli avevo chiesto cosa avesse. Neanche a dirlo, era preoccupato per Anna, perché si era reso conto più che mai che lei e Marco si amassero, che secondo lui fosse anche successo qualcosa tra loro, ma lei si era messa come sempre sulla difensiva quando ne avevano parlato la sera prima, e lui non sapeva che fare. Il mio mezzo sorriso compiaciuto non lo aveva accolto bene, e a quel punto mi ha spiegato, senza scendere nei dettagli, che c’era un trauma nella vita di Anna, che spesso l’aveva bloccata dal lasciarsi guidare dal cuore.
E lì ho capito. Perché solo una cosa del genere può avere un impatto tanto grande sulla vita di una persona.
 
Ho scoperto così, quel giorno, che Anna aveva perso suo padre da bambina, quando si era suicidato perché ingiustamente accusato di appropriazione indebita.
Zio Nino mi ha spiegato che Elisa gli ha spesso raccontato del rapporto che legava lei e suo padre. Una storia come quelle dei film, di quelle a cui avevo smesso di credere. È difficile immaginare Anna da bambina con suo padre, tramite i ricordi riportati dallo zio. Se non altro, perché di quella bambina senza pensieri, preoccupazioni e piena di gioia di vivere, piena di leggerezza e sogni, quando l’ho conosciuta io non era rimasto più nulla.
È evidente che il trauma le ha cambiato per sempre la vita. Che anche lei, un po’ come me, ha recepito la dipartita del padre che amava più di ogni altra cosa, come un abbandono volontario, anche se tale non era. E sua madre Elisa dopo la morte dell’amato marito aveva reagito un po’ come mio padre, chiudendosi in se stessa, invece di condividere con lei e sua sorella il dolore di quel momento.
Si è sentita sola, incompresa, e ha reagito. Scegliendo per se stessa.
Prendendo, da quel momento, ogni decisione da sola. Senza lasciare a nessun altro lo spazio per agire diversamente.
 
Non significa che non abbia amato, anzi.
È evidente dal rapporto che ha con le persone attorno a sé quanto quel trauma l’abbia portata ad amare chi riusciva a restare, ad accettarla per com’è, profondamente, senza fuggire. A sviluppare un senso di protezione per gli altri, materno e paterno al contempo, per compensare ciò che a lei era mancato. Quasi come se il suo obiettivo nella vita, dopo la morte del padre, non fosse diventato solo quello di rendere giustizia – come mi aveva raccontato sua madre – ma anche evitare che il dolore che aveva provato lei potesse essere inferto ad altri.  
 
Però nel suo particolare modo di amare, si è anche sempre posta un limite che non andava superato, perché farlo significava permettere a qualcuno di far vacillare le sue convinzioni, di fare breccia nel suo cuore e stravolgerle la vita. Avrebbe significato lasciarsi andare nuovamente a un amore incondizionato, come quello di una bambina per il proprio padre, rischiando che la storia ciclicamente si ripetesse dopo che aveva scelto per sé la strada che non avrebbe dovuto farla soffrire.
Per questo ha evitato per anni di  cambiare direzione rispetto a quella intrapresa, così da evitare il rischio di ferirsi irrimediabilmente.
 
Poi però sul suo cammino è arrivato Marco e tutto questo, a lui, aveva permesso di iniziare a farlo.
Visto com’è andata, non sorprende capire perché dopo essersi perdonata e averlo perdonato per quanto accaduto tra loro, aveva paura a lasciarsi andare nuovamente a quel sentimento mai sopito. Non era pronta a mettere a repentaglio l’equilibrio che sembravano aver raggiunto.
Così lo ha spinto via con tutte le sue forze, nonostante ne fosse ancora perdutamente innamorata.
 
Quando la storia con Sergio è giunta al capolinea, la mattina in cui invece che ricongiungersi a lei e sua figlia ha preferito la fuga, Anna ha chiuso i conti  con le proprie colpe. Ha tirato le somme, ha capito che in fondo aveva ragione chi l’aveva messa sempre in guardia  da Sergio, e chi le aveva sempre detto che è il cuore che ci dice chi sono veramente le persone attorno a noi. Chi merita di restarci affianco.
Ma la paura era più forte, ancora.
Era come bloccata su un’altalena di indecisione e non poteva fermarla, perché non arrivava con i piedi a terra. Oscillava perennemente tra il tirare dritto e fingere che non ci fosse più niente con Marco rifugiandosi dietro la bugia del “siamo solo amici”, e la voglia disperata di gettarsi tra le sue braccia e non lasciarlo andare più, anche si fossero rifatti male.
 
Poi però mi sono intromessa io. E lei ha fatto un passo indietro. L’altalena si è fermata di colpo, come quando da piccoli arriva il momento di tornare a casa e tuo papà o tua mamma la bloccano, facendoti scendere.
Quando ha iniziato a vedermi con Marco, a vedere Marco provare ad andare avanti con la sua vita, Anna si è fermata, ha riavvolto il nastro e pensato a tutto quello che lui ha vissuto contemporaneamente a lei e con lei. E lì ha pensato, quasi inspiegabilmente, di non essere abbastanza per Marco. Che forse per il bene di entrambi, era giusto non cambiare quello che c’era. Dare definizione a quel sentimento sarebbe stato pericoloso, e forse sarebbe stato meglio per tutti e due essere soltanto amici ed esserci l’uno per l’altra, piuttosto che provarci e finire per perdersi, quella seconda volta magari per sempre. 
Quando ci siamo incrociate sul pianerottolo, la sera che ho deciso di tornarmene a Roma per un po’, ho lasciato che la mia visione da spettatrice esterna e poco informata sulla loro storia prendesse il sopravvento. Perché io di loro, del loro trascorso conoscevo - e conosco - solo la superficie esterna, e per sentito dire. Dai diretti interessati ho saputo poco, e perlopiù da Marco. L’altra campana, come si suol dire, non l’ho  mai ascoltata. Non le avevo mai chiesto nulla, e dalla sua voce avevo ascoltato solo il rimorso di non essere stata sincera, a causa del quale aveva rovinato tutto. Ma io non avevo capito che si ritenesse l’unica responsabile del mancato matrimonio. Sì, gli aveva mentito, ma anche Marco aveva le sue colpe. Non mi ero resa conto che Anna era cambiata, solo che io - da spettatrice esterna appunto - non potevo saperlo.
Ed  ancor più evidentemente, in quel momento, non avevo capito niente di loro. E ho sbagliato a dirle quelle cose, soprattutto perché non avevo diritto di giudicare senza sapere, soprattutto perché lei con me non lo aveva mai fatto.
Come mi ha detto lei stessa, non erano affari miei. E ho capito dopo che non bisogna per forza dipendere da un uomo per starci insieme. Che certe decisioni vanno comunque prese da soli, perché non tutto si può fare in due.
 
Se non aveva scelto, era solo perché c’ero io.
Io, che mi ero frapposta tra lei e l’uomo che amava, e si era convinta che fosse tardi per poterlo avere al suo fianco come avrebbe voluto. Che dentro di sé tutte quelle cose che le avevo rinfacciato, le pensava già. Erano parte delle mille domande, dei mille dubbi che la tormentavano. Forse sentirsele dire è anche peggio. Perché un conto è pensarle tu, un conto è capire che anche altri, vedendoti, pensano quello.
Poco importava se nel momento in cui gliele ho dette, io e Marco già non stavamo più insieme. Faceva male comunque sapere che forse un fondo di verità in quelle parole c’era.
 
Consapevole di non poter avere cosa il cuore le diceva perché c’ero io, per la sua testa non era facile trovare la forza di restare, a quel prezzo. Per qualche tempo aveva messo in attesa Lucio, nella speranza che le cose diventassero più chiare o che riuscisse a scegliere una volta per tutte la direzione da prendere.
Sperando anche in un salvagente, in una mano tesa ad aiutarla, che forse però non sarebbe mai arrivata. Perché una sola persona riusciva a farla riflettere e scegliere quando era in difficoltà, ma quella persona era proprio al centro dei suoi stessi dubbi. E, paradossalmente, da quel che ne sapevo non aveva fatto altro che alimentarli.
 
E se Anna da un lato era tormentata e indecisa, dall’altra Marco cosa voleva lo ha sempre saputo. Per Anna avrebbe messo sempre se stesso in secondo piano.
Però come lei, aveva sempre avuto bisogno di qualcuno che lo spronasse, che gli desse quella spintarella per fare la sua mossa. Anche quando e se le cose poi dopo fossero andate male. Perché Marco non voleva bloccarla, impedirle di fare carriera, ma non voleva neanche lasciarla andare, quindi se da un lato la spingeva ad andare perché era giusto così, dall’altro continuava a trattenerla con una gelosia impossibile da nascondere, e chiedendole di restare senza nemmeno accorgersene. 
Erano fermi in una impasse da cui da soli non sarebbero mai potuto uscire. Perché la paura ti blocca, ti paralizza. È forse l’unico sentimento che può fermare l’amore. Anche più dell’odio. Perché se odi qualcosa, è perché quella cosa in un qualche modo ti ha toccato, ha smosso qualcosa in te. E l’odio può spingerti a reagire. La paura invece no. Lei ferma le tue azioni. Ti fa fare un passo indietro.
Ma c’è il modo di capire se, con la giusta spinta, quella paura paralizzante può essere superata. E non v’era dubbio che, nel loro caso, qualcosa si potesse ancora fare.
 
Perché Marco non sa fingere.
Non se si tratta di Anna.
Perché per lei non c’è niente che non farebbe. Perfino accettare di farsi ferire volontariamente.
Perché lo ha sempre fatto, le ha sempre permesso di trattarlo male continuamente - aveva di certo le sue ragioni - senza lamentarsi mai.
E tutto per un unico fine: poter essere ancora parte della sua vita, in qualsiasi modo. Come amico, come collega, come partner sportivo, compagno di gelati, come confidente a cui parlare dell’uomo con cui pensava di costruire il suo futuro.
Non si è lasciato fermare neanche da quello, dal sentirla parlare di Sergio, dei suoi progetti futuri con lui e la piccola Ines. Forse è anche per questo che la sera che era preoccupato per lei ho sbottato. Perché se non capiva lui il male che lei gli provocava e non faceva niente per difendersi da esso, non c’era persona che standogli accanto avrebbe potuto farlo. E allora c’era bisogno che venisse messo di fronte alla realtà dei fatti.
Perché ciò che faceva per lei non era nemmeno forzato, poiché lei lo ha sempre voluto nella sua vita tanto quanto lui. Non c’è mai stato il rischio che lei rifiutasse la sua presenza, né che volesse realmente andar via. E proprio per questo, standole accanto si faceva più male che bene. Ma l’amore non ha una logica. Non ti dice che se tocchi la fiamma, ti bruci. Anzi, ti suggerisce di lasciarti accogliere e scaldare da quel calore invitante quando hai freddo, seppur  a volte effimero e illusorio.
E Marco… quella fiamma l’ha sempre cercata, anche quando abbiamo iniziato a frequentarci.
 
Stupida io a ostinarmi, dopotutto. Lo sapevo sin dall’inizio che si amavano, e mettermi in mezzo non è stata la mia idea più brillante.
Sapevo cosa rappresentassero l’una per l’altro. Avevo avuto modo di vedere cosa erano disposti a fare l’una per l’altro e viceversa. Sapevo che Marco, pur conscio che lei potesse ancora provare qualcosa per lui dopo il “piano G”, aveva preferito non azzardare l’ultima mossa, per non farsi male, sebbene sul suo viso fosse chiaro che gli costava molto quella decisione. Anzi, troppo.
 
Non c’è mai stato niente da fare, come mi ha detto Marco stesso, perché ci ha provato a non pensarla, a rifarsi una vita. So che non mi ha presa in giro, che si è impegnato e che comunque mi vuole bene. Solo, non è mai stato amore, e l’avevo capito anche senza che si obbligasse a dirmi un ‘Ti amo’ che non sentiva. Che ha mormorato solo per non deludermi, per autoconvincersi che doveva dimenticarla.
Ma è stato inutile, perché non si sfugge a un amore così.
Perché si sono fatti male a vicenda, eppure non si sono mai separati davvero.
Perché il filo rosso che li lega non si è mai spezzato. Neanche dopo il fulmine a ciel sereno che li ha colpiti. In quel frangente si sono separati in due entità distinte, come era successo agli Androgini del mito greco riportato da Platone nel Simposio, ma come quegli stessi esseri, anche loro hanno cercato sempre di ritrovare la loro metà perduta. Senza nemmeno accorgersene, perché cercarsi era la cosa più naturale del mondo, per loro due.
E di questo si sono sempre resi conto tutti, l’ho visto con i miei stessi occhi quando c’è stato quel malinteso con zio Nino.
 
Sì, perché ho capito in fretta il motivo per cui Marco non voleva rivelare di noi due: non voleva legarsi, voleva restasse una cosa segreta, proprio per evitare di fare troppi danni una volta finita.
Perché sarebbe finita, e lo sapevo, anche se avevo sperato di no.
Paradossalmente, col senno di poi, non so nemmeno se sia veramente iniziata. C’è stato qualcosa tra noi, che non era amore, ma non era nemmeno un rapporto di semplice amicizia.
Era qualcosa che stava a metà, nel limbo. Qualcosa di cui in quel momento avevamo bisogno entrambi, per dimenticare il male che stavamo provando. Per superare insieme un Purgatorio come quello dantesco, in cui ci eravamo incontrati per caso, con storie diverse alle spalle e la stessa voglia di raggiungere la pace con noi stessi e con chi ci circondava.
 
E così ci eravamo imbarcati in quella storia, all’inizio segreta, dove l’unica ad essere a conoscenza della verità e ad aiutarci era, contro ogni previsione, proprio Anna.
Non ho sempre creduto nella buona fede dei suoi consigli, anzi quando le cose hanno iniziato a precipitare ho pensato mi stesse volutamente sabotando, e avrei forse dovuto dare retta a quella voce nella mia testa che mi diceva fosse un segnale chiaro di cosa provasse per Marco, un segnale da non trascurare. Nella mia ubriachezza di quella sera, glielo avevo pure confessato, che avevo capito lo amasse ancora. Ma quando stai curando le tue di ferite, non pensi a quelle degli altri. L’avevo accusata di essere un’ipocrita, perché era più facile dare a lei la colpa del mio ennesimo errore. Ma Anna ha iniziato veramente a comportarsi da amica con me. Lo era stata anche in quel momento, perché mi aveva teso la mano che io avevo rifiutato, nel tentativo di aiutarmi. Non solo riguardo alla storia con Marco, ma anche e soprattutto con mio padre.
Quasi si fosse anche arresa a non essere più la protagonista della storia di Marco. E come si sbagliava…
 
Di tutta quella situazione, mi spiace non averla ringraziata abbastanza per quanto fatto con mio padre. Perché per proteggermi si è presa una colpa non da poco e che non aveva, affinché il rinnovato rapporto con papà non si rompesse nuovamente. Conscia peraltro di non avere lasciato in lui un buon ricordo dopo che si erano incontrati mesi prima, per via della sua storia con Sergio, e che quella falsa ammissione avrebbe peggiorato la sua reputazione agli occhi di un superiore.
Eppure non ha esitato.
Conosceva i miei precedenti, sapeva cosa sarebbe successo se mio padre avesse scoperto che l’incidente era dovuto al mio aver bevuto di nuovo, perché stavo male. E credo abbia capito benissimo anche cosa ci fosse dietro al mio incontro con Lorenzo, sebbene io non le avessi detto praticamente nulla. Ha intuito chi fosse, ha compreso le mie colpe, eppure non mi ha giudicata. Non mi ha forzata a parlare se non me la sentivo. Anzi, mi ha perfino aiutata e consigliata sulla sua esperienza personale. Sacrificando un’altra parte del suo amore per non ferire me, anche se me lo sarei in parte meritato.
E ho capito in quel momento cosa intendesse dire Marco quando ha affermato che Anna è una che si spende al cento per cento per tutti, che darebbe il suo aiuto anche al suo peggior nemico.
Che di fronte a qualcuno che tende un mano alla ricerca di aiuto, lei e i suoi sentimenti passano in secondo piano.
Lo aveva fatto anche con lui in uno dei momenti più bui della loro storia.
Perché lo aveva odiato, lo aveva allontanato ed escluso, ma lo conosceva meglio di chiunque altro e quando lui aveva avuto bisogno di aiuto con suo padre, lei non aveva esitato. E il loro ritrovato rapporto si era ricucito grazie a lei.
Lei che aveva messo da parte il rancore perché in quel momento non era la cosa giusta da provare. Che gli aveva donato il suo amore anche se faceva male e sarebbe stato più facile ignorarlo.
 
Nonostante tutto, quel filo rosso tra loro non si era spezzato, e lo ritrovavano negli istanti più difficili quanto profondi.
L’amore, quello vero, si vede anche in questo.
Ecco perché tassello dopo tassello, riguardando indietro ora, ho capito di aver imparato più in quei pochi mesi a Spoleto sull’amore di quanto non abbia mai fatto in tutta la mia vita.
Mi è bastato osservare, e in alcuni casi intromettermi nella vita di due persone a me fino a quel momento sconosciute per capire che esiste l’amore vero, che esistono le anime gemelle. Perché loro lo erano, anche quando non stavano insieme, anche quando la carriera si era messa tra loro, quando Sergio si era intromesso tra loro, quando io mi ero messa tra loro.
Nessuno di noi è mai stato un vero ostacolo lungo il loro percorso. Eravamo delle tappe, inevitabili, della loro storia, ma destinate a restare tali. Dei momenti di sosta, lungo un cammino più lungo, alla cui meta si sarebbero ritrovati da soli, uno di fronte all’altra.
 
Nessuno dei due forse lo aveva capito fino a quando non mi sono fatta indietro, perché finché c’ero stata io, Anna si era messa da parte e Marco aveva accettato gli eventi per come erano, convinti che ormai non ci fosse altra via d’uscita.
La questione Ines però aveva scompigliato le carte.
Vederli tutti e tre insieme quella sera, seduti a tavola a cenare, mi aveva restituito un’immagine di famiglia che mi ha stretto il cuore. E un po’ ho anche invidiato, sentendone la mancanza nella mia vita.
Pur non essendolo una famiglia ‘vera’, quel quadretto ne restituiva un’immagine tale da non lasciare spazio a dubbi: nei fatti era come se lo fossero già. Perché loro due si sono sempre comportati da genitori senza nemmeno accorgersene. È sempre venuto loro naturale alternarsi nel prendersi cura insieme di quella bambina, come se fosse la cosa più normale del mondo. E io li conoscevo da poco meno di un anno, sapevo di loro a malapena lo strato più esterno della loro vita.
 
Declinai l’invito a fermarmi, con una scusa che poi era vera, perché ero davvero stanca. Ma non avrei avuto – come è successo - il cuore di mettermi in mezzo, di rovinare quel quadro, in cui una pennellata diversa, ulteriore, avrebbe rovinato tutto.  Avevo la sensazione, però, che non sarebbe stata l’ultima volta che li avrei visti insieme. E che quella non fosse neanche la prima volta che si riunissero tutti e tre a condividere la propria giornata. 
 
Nei giorni successivi, Marco ha dimenticato ogni altra cosa che non fossero Anna ed Ines. Dal portare la piccola agli allenamenti e alle partite, al sostenere Anna in quella situazione particolare, comportandosi come un marito e un padre premuroso. Nonostante io gli avessi fatto notare più volte che non era esattamente così che doveva essere. Che il suo - il loro - comportamento non era normale.
Perché quello che stava succedendo era bellissimo, un gesto nobile senz’altro, ma Ines non era sua figlia e Anna non era sua moglie. Non stava scritto da nessuna parte, che lui dovesse esserci per forza e in modo così assiduo. Che la decisione spettava ad Anna, quindi lui con la bambina cosa c’entrava?
Non gli volevo imporre di non fare certe cose, volevo che ne prendesse coscienza.
Perché quegli istanti ‘rubati’ a noi come coppia, li stava destinando a una vita che avrebbe voluto, ma che aveva paura a prendersi. Non mi stava prendendo in giro volutamente, ma apparentemente lo sembrava, preferendo crogiolarsi in una parvenza di realtà finché sarebbe durata, invece che lottare per averla. Preferendo ‘fingere' che tra me e lui ci fosse qualcosa di più di quello che c’era, e che gli bastava essere parte di quel mondo intricato diviso tra me e loro. Tra me e lei.
 
Però quel mondo per me non era abbastanza. E non ero arrabbiata o delusa che nonostante tutto avesse scelto lei. Perché sapevo lo avrebbe fatto.
Anche se un barlume di speranza lo hai sempre. E Marco mi ha sempre trattato come nessuno aveva mai fatto e quelle sue premure mi avevano fatto credere di aver trovato cosa andavo cercando. Insomma, capisco bene perché Anna se ne è innamorata.
Ma se lui si sarebbe accontentato di essere felice, ma non felice davvero, io invece quel tipo di amore lo cercavo. E avrei continuato a cercarlo. A lui sarebbe bastato un niente per averlo.
E lì, per me è diventato troppo continuare a fingere.
 
Il ritorno di Sergio mi ha fatto comprendere appieno il sentimento di Marco per Anna.
Perché da quando lui si era ripresentato a Spoleto, Marco aveva iniziato a essere sempre al limite, costantemente vigile e pronto a scattare al minimo segnale di pericolo. Ossia, al minimo accenno che Sergio potesse riacquisire un posto nella vita di Anna.
 
Io ero certa che questo non sarebbe successo, perché avevo capito quanto lei fosse ancora innamorata del PM, ma lui sembrava non rendersene conto, accecato com’era dalla gelosia.
Avevo tentato inutilmente di sostituirmi a lei nella sua vita. Avevo provato di tutto per allontanarli, per provare a diventare la fonte della felicità di Marco, affinché andasse avanti con la sua vita, affinché non si ferisse ancora. Perché non lo meritava.
 
Ogni tentativo da parte mia di allontanarli però era stato vano.
Come la sera del ‘fidanzamento’ di zio Nino con Elisa.
Tutti, tutti, a Spoleto facevano il tifo per loro due, a partire ovviamente da zio Nino e dalla signora Elisa, la mamma di Anna.
Ogni più piccola cosa in quella serata di preparativi riportava a loro due, a quando stavano insieme. Perfino l’abito da sposa che mi aveva colpito, la signora Elisa l’aveva escluso perché assomigliava a quello che indossava Anna quando si era quasi sposata con Marco. Il tutto enfatizzato dall’esclamazione che fosse ancora profondamente doloroso pensare a quel giorno, naturalmente. Lui, seduto più indietro insieme a zio Nino, non aveva fiatato, ma sapevo benissimo avesse sentito la conversazione.
 
Quando Anna era arrivata, le cose erano anche peggiorate, se possibile, o perlomeno dal mio punto di vista. Perché Anna e Marco sono come due calamite: anche se sono lontani, finiscono inevitabilmente per attrarsi e ritrovarsi vicini. E così era stato, perché accanto a zio Nino che farneticava sull’anello di fidanzamento, si erano trovati l’uno accanto all’altra come se fosse il loro posto naturale.
Quando lei si è spostata in cucina, infastidita dalla situazione, Marco non ci ha pensato due volte a seguirla e tentare di consolarla, perché aveva evidentemente capito qualcosa che perlomeno a me sfuggiva. E io mi sono accodata perché volevo sentire, ma quella conversazione mi ha solo fatto montare ancora di più il rancore.
Perché, nemmeno a dirsi, l’argomento era il giorno del loro matrimonio.
La cosa che più mi ha fatto ‘male’ è stato il modo in cui ne parlavano. C’era nostalgia nelle loro voci, e nei loro sguardi. E il desiderio di poter cambiare il finale.
 
“Io mi ricordo quando ti ho vista entrare in chiesa, e lì mi sono sentito l’uomo più fortunato della terra… anche il più stupido…”
 
Queste non erano parole di un uomo che non provava più niente per la sua ex, anzi.
Erano le parole di un uomo che, se avesse potuto, avrebbe sposato quella donna in quel preciso istante.
E lei avrebbe fatto lo stesso. Poco importava se avesse concordato con lui che era stato uno stupido. Anche lei ricordava l’istante del suo ingresso in chiesa con la stessa nostalgia, con lo stesso sguardo sognante che non lasciava spazio alle interpretazioni. Perché a quel ‘’ avrebbero voluto arrivarci entrambi. E il rimorso che così non fosse stato li logorava in ogni istante.
 
In quel momento, per la prima volta, veramente, ho provato gelosia verso il loro rapporto. Verso quello che li legava. Perché è l’amore che ogni bambina sogna fin da piccola. Quello infinito, indistruttibile, che supera ogni avversità. Che niente e nessuno può spezzare. È l’amore che ci si immagina leghi i propri genitori. È l’amore che vuoi diventi realtà per te.
E invece lo vedevo palesato tra l’uomo che stava con me e la donna che avrebbe dovuto, agli occhi di tutti, stare accanto a lui.
Per questo mi sono intromessa e ho richiamato Marco con una scusa, ma non prima di aver lanciato a lei uno sguardo rancoroso, ricambiato da uno che non sono riuscita a decifrare completamente.
C’era da un lato quasi un senso di colpa da parte sua, un ‘è più forte di noi, mi spiace’. Ma dall’altro c’era anche la sicurezza di chi non si sarebbe rimangiata nemmeno una parola di quel dialogo. Nemmeno uno sguardo carico di sottintesi.
 
Così quella sera, quando Marco mi ha confessato le sue paure per Ines e per Anna, come se fosse una cosa normale, io non ho resistito. Ho sbottato. Ho detto senza giri di parole cosa pensavo.
Non ero veramente arrabbiata. Ero solo stufa. Per anni mi sono trovata nella situazione di avere attorno a me persone che hanno preferito i non detti piuttosto che affrontare la realtà. Segreti, bugie, errori che hanno finito per rovinare e logorare rapporti. Che si sono portati via persone. Non volevo più far parte di quel ‘gioco’. Non volevo essere la villain della storia, né essere la vittima. Volevo essere felice. E vedere chi avevo intorno felice.
Non mi bastava l’affetto che sapevo provasse per me, e a lui non poteva bastare il mio amore. Era orribile sapere che stava con me e pensava a lei in ogni istante. Perché ogni cosa nella sua vita la faceva per lei, per cercare di renderla felice, per starle accanto nonostante tutto. Perché la amava ed era l’unica cosa che contava.
 
Sentirlo finalmente ammettere la verità è stata una liberazione, ma non per questo non mi ha fatto male.
Lasciarsi non è mai bello. Anche quando lo fai tutto sommato 'consensualmente'.
E soprattutto quando la persona che lasci ti ha fatto crescere, maturare. Perché lui mia ha aiutato a riempire nuovamente quel guscio vuoto che ero diventata dopo le perdite nella mia vita. Marco – ma anche Anna – sarà sempre una pagina importante della mia vita. Quel capitolo che nel libro sembra inutile, un momento en passant, ma invece è il turning point dell’intera storia.
 
“Hai ragione, io penso ancora ad Anna. Non ci riesco, non riesco a farne a meno. Ci provo, ma…”
 
Per quanto lo sapessi, ammetto che sentirglielo dire è stato comunque come ricevere una pugnalata al petto, ha fatto male.
Prima di andarmene ho provato ancora a metterlo in guardia. Ma sapevo che il mio tentativo sarebbe caduto nel vuoto. Perché avrebbe continuato a stringere la sua rosa incurante delle spine che, sullo stelo, gli ferivano le dita.
 
Quando ho fermato Anna, sul pianerottolo di casa, qualche sera dopo aver lasciato Marco e saputo del lavoro in Siria che lei aveva ricevuto, volevo impedirle di salire al piano di sopra per andare da lui. Mi sono messa in mezzo volontariamente.
Ho sbagliato, lo so, non dovevo impicciarmi, ma dopo aver incontrato Marco quella mattina, sulle scalinate che portano in piazza Duomo, dopo giorni che non lo vedevo e ho visto il suo viso mentre parlava di lei, non ho pensato a niente se non ha ‘sdebitarmi’ per quello che aveva fatto lui per me. Mi aveva ferito, ma mi aveva anche salvato da me stessa. Mi aveva restituito, col suo esserci e col suo affetto, la mia vita. La vera Valentina. E non volevo altro, se non che lui facesse lo stesso con sé.
 
Quella mattina mi aveva chiesto scusa per come si era comportato. Lui non sapeva che in realtà lo avevo già perdonato in cuore mio, anche se il dolore c’era.
Quando ho incontrato Anna e l’ho vista pronta a correre da lui, ho rivisto lo sguardo addolorato di Marco di quella mattina. E ho provato a fermarla.
Per qualche motivo, sapevo che Marco non sarebbe riuscito a separarsi da lei nonostante quell’apparente rottura, se io non fossi intervenuta.
Non volevo  lei lo ferisse ancora, non mi importava se entrambi erano di nuovo liberi. Non le avrei permesso di continuare a spezzargli il cuore, se potevo evitarlo.
Non sarebbe tornato con me, ne ero cosciente e non avrei nemmeno provato a riprendermelo.
Ma se non potevo e non ero riuscita a far ragionare lui, dovevo provare a farlo con lei. Dicendole in faccia cosa pensavo, nel bene e nel male. Che è poi quello che avrei voluto la gente avesse fatto con me nel tempo, invece di trarre conclusioni.
E così ho fatto. Punto per punto, le ho detto quello che forse aveva bisogno di sentirsi dire, ma nessuno aveva il coraggio di dirle. Non ero probabilmente nemmeno io la persona giusta per farlo. Ma ora poco importa.
Doveva capire chi fosse, le ripercussioni delle sue azioni sulla vita degli altri, e in particolare in quella di Marco. Se lo amava veramente, come pensavo, avrebbe dovuto prendere la decisione giusta. Per sé e per Marco.
Nella peggiore delle ipotesi, sarebbe stata l’ennesima conferma all’idea che l’amore vero non esiste, nemmeno quando sembrerebbe di sì.
Non potevo fare più di quanto avevo fatto. Speravo fosse abbastanza.
E così il giorno dopo me ne sono andata.
Sono tornata a Roma per recuperare il rapporto con mio padre.
Ho chiesto a zio Nino di farmi sapere se si sarebbe sposato, perché avrei voluto esserci. Se lui era stato il mio padrino al battesimo, io volevo essere la damigella al suo matrimonio.
 
Nel viaggio in treno avevo avuto modo di riflettere su quello che lui mi aveva rivelato del passato di Anna alla stazione, seppur in pochissime parole.
Avrei voluto scusarmi per come le avevo detto cosa le ho detto. Ma non ero pentita di avergliele ‘sbattute’ in faccia. Perché nelle mie parole c’era comunque un fondo di verità. Se non era pronta a fare le cose in due, non avrebbe mai scelto Marco. Ne ero convinta.
 
Quando però la sera dopo zio Nino mi ha chiamata per dirmi che le cose tra lui ed Elisa si erano risolte per il meglio, e che le nozze ci sarebbero state, anche se non sapeva ancora quando, un’altra novità è giunta dal telefono.
La notizia mi ha lasciato subito di stucco, lo ammetto, ma poi ho capito che non c’era nulla di cui essere stupiti.
 
Nei miei mesi a Spoleto ho capito che le anime gemelle non esistono solo nei film o nei romanzi. Che prima o dopo, le due metà della stessa mela ritrovano la strada per ricongiungersi.
E che tutti i treni prima o poi, nonostante i ritardi, giungono alla stazione finale del loro viaggio. Per poi ripartire verso una nuova meta, con nuove tappe intermedie lungo il percorso, inevitabili ma essenziali.
 
Il treno di Anna e Marco, come fidanzati, ha raggiunto la stazione finale questa mattina.
Qui, nella chiesa di Sant’Eufemia.
Il loro viaggio, costellato da numerose soste, li ha portati a ritrovarsi oggi uno di fronte all’altra davanti a Don Massimo, pronto a celebrare il loro matrimonio.
Come era stato ampiamente previsto da tutti, e come testimoniano la gioia e le lacrime dei presenti alla cerimonia.
 
Alla fine, Anna ha scelto lui.
O, per essere precisi, lo ha scelto all’inizio.
E Marco ha scelto lei.
Hanno scelto di viaggiare verso la prossima meta della loro storia insieme. Sullo stesso treno.
Hanno scelto di legarsi con due fedi d’oro, che non sostituiscono il filo rosso che da sempre li ha uniti, bensì ne rafforzano la tenuta.
 
Hanno scelto di dare il lieto fine a quella storia nata in una notte d’agosto, durante una nevicata assolutamente fuori stagione. Come sta ricordando ora Marco, mentre lei gli sorride intrecciando le loro dita.
 
Hanno scelto di essere felici insieme, anche se hanno sempre avuto il terrore di non essere abbastanza l’uno per l’altra.
 
Hanno scelto di andare oltre il dolore che si sono arrecati e di coprire la macchia di quel passato con la vernice giusta. Una vernice che copre, ma non fa dimenticare cosa è successo. Perché serve anche il dolore, per amare veramente.
 
Hanno scelto di decidere insieme del loro futuro lavorativo, soprattutto quello di Anna. Perché non c’è più la paura di partire, ma nemmeno quella di restare.
E non c’è più la paura di dipendere dall’altro nelle proprie scelte, né la paura di prendere decisioni da soli.
 
Hanno scelto di scegliersi. 
In ogni istante e al di sopra di ogni cosa.
 
Perché le anime gemelle non possono fare altrimenti.
Puoi tentare di dividerle, ma non si separano mai davvero. Perché sono destinate a ritrovarsi sempre per via di quel filo rosso che le unisce e non può spezzarsi, nemmeno se a separarli ci fossero migliaia di chilometri e ostacoli.
 
E poi perché se le anime gemelle si chiamano Anna e Marco, non possono che essere destinate a tornare verso la loro meta, tenendosi per mano
 
 

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Capitolo 3
*** Defenseless - Eugenio ***


Defenseless

“Non siamo mai così indifesi verso la sofferenza,
come nel momento in cui amiamo.”
Sigmund Freud
 
Se c’è una cosa che ho imparato nella mia vita, sia come professionista del settore sia come uomo, è che non si è mai in grado di capire veramente le persone fino in fondo. C’è sempre una zona d’ombra, una parte che viene tralasciata perché ci fa sentire nudi di fronte agli occhi dell’altro, degli altri.
E per questo è più facile celarsi dietro una ‘coperta di Linus’ piuttosto che mostrarsi per come si è: vulnerabili, suscettibili a cosa ci sta intorno, semplicemente perché proviamo sentimenti, positivi o negativi che siano. Siamo fatti così.
Ma un’altra cosa che ho imparato invecchiando è che le coperte non sono mai sufficientemente lunghe e larghe da coprirci interamente. C’è sempre un braccio che rimane scoperto, o una gamba…
La mia ‘coperta di Linus’ non è mai stata abbastanza grande da proteggermi, né soprattutto abbastanza spaziosa per accogliere e proteggere anche gli altri. Non come avrebbe dovuto essere, perlomeno.
Ho finito per tralasciare dietro di me cose e persone, focalizzandomi anzitutto su me stesso. Perché la psiche umana è così. Siamo animali sociali, abbiamo bisogno di vivere in comunità - come direbbe Aristotele - ma siamo anche estremamente egoisti. L’Io viene sempre prima dell’altro.
Anche se senza l’altro siamo niente
È sempre stato più semplice analizzare gli altri che non me stesso: essere il ‘medico’ piuttosto che il paziente.
Ho sempre vissuto la mia professione pensando di avere tutte le risposte in mano. Sempre convinto che le mie conoscenze fossero sufficienti a sanare i dubbi dei miei pazienti. Ma i miei, di dubbi? Le mie domande?
Alla fine mi sono accorto che puoi studiare psicologia una vita intera, osservare i comportamenti umani, cercare di comprendere e interpretare i processi mentali ed affettivi che li determinano, come ho fatto io, ma essere comunque un pessimo psicologo.
Perché puoi sapere in cosa il tuo lavoro consiste, snocciolare a memoria definizioni su definizioni, ma poi… la pratica è un’altra cosa, soprattutto se da fare su se stessi.
Nonostante anni e anni di studi e di attività, pur essendomi ritagliato nel campo una posizione di tutto rispetto - tanto da fare del mio nome sinonimo di competenza - non posso fare a meno ora di ammettere di aver fallito miseramente nell’applicazione di quelle nozioni che credevo non solo di conoscere, ma di saper mettere in pratica.
Sapere non significa per forza saper fare. Anzi.
Perché se fossi stato veramente in grado di studiare i processi psichici, consci ed inconsci, cognitivi e dinamici delle persone attorno a me, come uno psicologo e psicanalista come me dovrebbe saper fare - e ho sempre creduto di saperlo fare, visti i risultati ottenuti dai miei pazienti - forse la mia vita non sarebbe andata a rotoli come invece è successo.
Ho fallito in quello che è l’obiettivo finale che il mio lavoro mi ha da sempre insegnato a ricercare: favorire il benessere delle persone.
In questo specifico ‘caso di studio’, il benessere della mia famiglia.
Ecco perché quando l’uragano è passato, lasciando dietro di sé solo le macerie, ho fatto del mio lavoro la mia ‘coperta di Linus’. Ho preso ad andare in giro sicuro di me, psicanalizzando tutti e tutto, parlando come un’enciclopedia umana, pur di non mostrare cosa stava dietro – come stavo io dietro.
Le mie stesse azioni hanno dato origine alla mia zona d’ombra, al mio tallone d’Achille. Volevo coprire la mia ‘nudità’: i miei fallimenti come uomo, marito e padre.
Nemmeno la malattia aveva frenato questa mia scelta. Perché è stata una scelta, un’azione volontaria, quella di nascondermi. Di non ascoltare gli altri e pensare solo a me stesso. Di rinchiudere i sentimenti che provavo dentro e verso me stesso - dopo quello che avevo fatto - in un angolo recondito della mia mente e del mio cuore.
Sono stato un codardo? Probabilmente sì. L’uragano l’ho creato io stesso, e non ho avuto il coraggio di affrontare le conseguenze dei miei errori, ma ne sono anche rimasto vittima.
Col tempo ho accettato serenamente, o così credevo, di poter vivere da vittima e carnefice nella mia gabbia dorata, dove tutto sembrava perfetto ma non lo era veramente, girando il mondo come il grande psicanalista Eugenio Nardi, depositario di tutte le risposte. Dentro di me, però, celavo la consapevolezza di aver ferito più persone di quante non ne avessi aiutate col mio lavoro.
Un giorno, tuttavia, la mia ‘coperta di Linus’ è scivolata dalle mie mani ed è caduta a terra, davanti agli occhi di una ragazza che poco sapeva di me, ma tutto sapeva di mio figlio.
E lì, il peggiore dei miei mali ha iniziato il suo lento e progressivo percorso verso la guarigione…
 
 
Si dice che ogni cosa che inizia abbia inevitabilmente una fine. E per uno come me, abituato a ragionare e far ragionare, è inevitabile pensarlo.
Essere pragmatici nella vita aiuta a controllare le cose, ad avere una presa sicura sulle proprie azioni. Io sono sempre stato pragmatico per mia stessa indole. Ho sempre pensato che per ottenere una cosa che volevo dovevo impegnarmi, studiare e lavorare affinché quel mio obiettivo diventasse realtà.
Ed è un modo di agire che ho fatto mio ed applicato in ogni singolo ambito della mia vita, dal lavoro alla sfera privata. Talvolta, l’ho portato anche l’esasperazione. Talmente tanto che a un certo punto, senza nemmeno accorgermene, più che pragmatico sono diventato cinico.
Ho messo me stesso al di sopra di tutto e tutti, ho preferito essere egoista piuttosto che vero. In parte per celare le insicurezze, in parte perché crescendo ho capito gli errori commessi e non volevo risultare debole.
Il grande psicanalista Eugenio Nardi non poteva essere debole. Non dopo tutto quello che aveva fatto per togliersi di dosso il peso di essere un semplice ragazzo di provincia. Non dopo tutto il successo ottenuto, sul lavoro ma anche fuori.
Ci vuole charme, carisma, per convincere i tuoi pazienti che non sei un ciarlatano – perché lo so che molti pensano questo di noi psicologi.
E quello charme funziona anche in altri ambiti, soprattutto con le donne.
Ne so qualcosa.
Perché è proprio quel mio carisma, quella maschera che è solo una delle mie mille sfaccettature - ma anche quella che maggiormente mostro - che mi ha portato a commettere errori su errori. In amore, soprattutto. Con la mia prima moglie. Con i miei figli.
Ci sono stati momenti in cui mi sono completamente dimenticato esistessero. Ho dato per scontato tante cose. E se sapevo che a certi errori non avrei mai potuto rimediare, né mi sentivo più di tanto in colpa per averli commessi, d’altro canto c’erano poche cose che avrei voluto cambiare e di cui mi sono pentito veramente.
Certo, mi è servito mancare l’appuntamento con la signora con la falce per un soffio per capirlo, ma ‘meglio tardi che mai’, no?
Quando mi sono risvegliato nel letto d’ospedale dopo il primo intervento al tumore, ecco, in quel momento ho capito che dovevo almeno provarci. Anche se sapevo non sarebbe stato facile. In fondo, con le parole ero piuttosto bravo. Potevo farcela, mi dicevo.
Però avevo dimenticato che il mio interlocutore sarebbe stato un uomo di legge, anche lui bravo con le parole. Bravo a difendere, a difendersi. E ad accusare, ad accusarmi. E con ragione.
Ho fatto di tutto per portarlo a pensare cosa pensava di me. E nulla per dimostrargli che non ero solo quello. Perché sarebbe inutile negare che l’immagine che si era fatto di me fosse vera. Sono stato un pessimo marito e un pessimo padre. Ma ero e sono anche altro.
Quando sono venuto a Spoleto la prima volta, era per provare a dirglielo, per provare a conoscerci, finalmente.
E se non fosse stato per quella ragazza, che all’epoca non era nemmeno più la sua fidanzata, avrei fallito miseramente nel mio intento. Mio figlio mi odiava. E aveva ragione a farlo, perché ho fatto solo danni con lui.
Ma te ne rendi conto solo quando arrivi a un passo dalla morte, quando ci arrivi vicino, ti guardi indietro e pensi a cosa hai fatto, a cosa hai lasciato.
Io dietro di me ho lasciato solo molte macerie. Quando ho riaperto gli occhi dopo aver rischiato di non farlo più, l’unico obiettivo che avevo chiaro in testa era quello di voler evitare che tra quella catasta di detriti ci fosse il pessimo ricordo di me come padre.
Avevo passato una vita intera senza mai amare, e alla fine ero rimasto solo. Di me non sarebbe rimasto nessun ricordo, solo una montagna di libri, pieni di nozioni e studi, che raccontano poco di me. Ed era solo per colpa mia.
Perché non ho mai creduto all’amore vero. Perché quello è solo per chi crede alle favole, mi sono sempre detto. Esistono i sentimenti, assolutamente. Ci ho sempre avuto a che fare, ho sempre lasciato che i pazienti - solo i pazienti - mi parlassero dei loro, ma non ci ho mai associato le storie che narrano nei romanzi o nei film. Quella è finzione. La realtà è ben diversa.
Nella realtà nessun amore dura per sempre. Non c’è la fata madrina e tutte quelle cavolate lì che aiutano i due innamorati a vivere per sempre felici e contenti. C’è forse solo la strega cattiva con la mela avvelenata che ti tenta.
E a me è sempre piaciuto farmi tentare, come Eva dal serpente nel giardino dell’Eden.
Il problema vero è che io non mi sono però limitato a mangiare la mela del peccato originale. No. Io ho mangiato tutte le mele dell’albero proibito. E a differenza di Eva, farlo non mi ha reso conscio della mia nudità, anzi. Mi è servito a nasconderla. E a volerne ancora.
Ogni mela, giorno dopo giorno, mi avvelenava sempre un po’ di più. Mi allontanava da cosa avevo e ho finito per perdere, mi rendeva sempre più cinico e apatico.
Una mela al giorno toglie il medico di torno.
In questo caso, il medico però ero io. E mela dopo mela ho lasciato il nido di casa, per vivere la vita come ho sempre voluto. Senza radici, senza legami. Ho sempre odiato i confini. Troppo stretti, soffocanti. I confini ti dicono cosa hai, delimitano quello che è tuo, ma lasciano fuori anche quello che teoricamente non puoi avere. Non hanno mai fatto per me.  
Solo una volta ho quasi cambiato idea. Quando conobbi Elena. Con lei ho vacillato. Per un istante, ho creduto che forse alcuni confini non sono male, che sono accettabili. Poi però è nato Marco…
E allora, no.
L’amore vero non esiste. Non esiste quel sentimento che supera ogni ostacolo, perché nessun uomo è veramente altruista da mettere l’altro prima di se stesso. O almeno questo credevo, prima di venire a Spoleto tre anni fa…
 
Incontrai Elena per la prima volta durante il mio secondo anno di università a Genova. Città caotica e apparentemente fredda, ostile, soprattutto per chi viene da fuori come me.
Figlio di emigrati dal sud, per motivi economici e di lavoro, i miei genitori si erano stanziati nell’area metropolitana della città, lungo il confine settentrionale con il Piemonte.
Feci scuole medie e liceo in quel contesto ‘provinciale’. Crescendo, vedendo i sacrifici dei miei genitori e le limitazioni che la vita di provincia ti dà, mi ero progressivamente convinto che quella realtà mi stesse stretta. Che non era quello il posto per me. Ho sempre sentito in me quella irrefrenabile voglia di allargare i miei orizzonti. Di vedere il mondo fuori.
 
Da piccolo mi sentivo un po’ come Cristoforo Colombo, alla ricerca di una via alternativa per le mie Indie. Quando mi guardavo intorno, non vedevo quella stessa voglia nei miei amici.
È lì che ho iniziato a interrogarmi su cosa muovesse le scelte di un individuo. Perché ogni essere vivente avesse esigenze e sogni diversi.
Con quelle domande in testa, alla fine del liceo avevo fatte le valige ed ero partito alla volta della città, per studiare Psicologia all’università e per scoprire meglio chi io fossi. Col senno di poi, non so quanto di me io abbia scoperto in quel frangente.
L’impatto con la città inizialmente mi destabilizzò. Genova la Superba. E i suoi cittadini? Superbi anche loro. Almeno in apparenza. All’epoca era più facile stereotiparli che provarli a capire. In fondo uno stereotipo non nuoce apparentemente a nessuno, ed è la scorciatoia mentale più facile da intraprendere per valutare le persone. Non ha una base scientifica, non è una regola applicabile universalmente. È solo più semplice considerare la massa come un tutto, che non accettare che sia composta al suo interno da tante entità distinte.
Durante i miei studi universitari ho imparato a conoscere di più la città, i suoi cittadini. Mi sono ambientato.
Ho scoperto che Genova aveva molto da offrire, anche a un mezzo ‘foresto’ come me. E che non voleva essermi ostile, ma solo insegnarmi che le cose vanno conquistate con la fatica, con la pazienza, come i liguri si erano ritagliati lo spazio per abitare, coltivare e vivere quella regione scoscesa e piena di insidie.
E lì è cambiato tutto. O meglio, è cambiato il mio modo di vedere Genova. I genovesi non erano diventati improvvisamente meno superbi, ma ho capito che c’era di più. Che quel loro essere apatici, supponenti a tratti, non è un difetto, ma semplicemente il loro modo di essere. E mi ci sono riconosciuto. Anche troppo, forse.
Ma nelle viuzze - anzi nei carruggi - della città, si poteva trovare, oltre quella apparenza burbera, anche il calore affettuoso della gente ligure.
Ed è proprio lì che ho incontrato Elena.
Era la figlia del proprietario di un ristorantino a due passi dalla facoltà di Psicologia. Lo scovai per caso una mattina che pioveva ed ero senza ombrello. Ci ero arrivato letteralmente di corsa per evitare di prendermi l’intero acquazzone, anche se era stato vano - a Genova quando piove, piove veramente.
In quella occasione, quel ristorantino era semplicemente il posto più vicino e l’unica alternativa al saltare il pranzo.
Successivamente divenne però la sede di tutte le mie pause pranzo, per i suoi prezzi adatti alla mia tasca - allora non tanto piena - e per via della ragazza che ci lavorava.
Elena era spesso lì ad aiutare i genitori nell’attività di famiglia. Di lei mi colpì la sua ingenua bellezza: boccoli biondi e due occhioni da cerbiatta. Quel giorno mi offrì un posto a sedere vicino a uno dei termosifoni della saletta principale, preoccupata che mi prendessi un malanno.
Ci era voluto un niente perché catturasse il mio interesse.
Ci ho sempre saputo fare con le ragazze, fin da quando ero al liceo. Nella mia vita adolescenziale avevo avuto la mia buona dose di flirt e storie. Durante l’università non mi ero fatto mancare niente nemmeno.
Sono sempre stato un Don Giovanni.
Sapevo di avere un certo fascino e non ho mai avuto problemi a sfruttarlo. Se decidevo di conquistare una ragazza, in un modo o in un altro, ci riuscivo.
E lei mi piaceva molto, quindi la mia risoluzione era maggiore.
I suoi genitori non erano molto convinti di me, lo ammetto, e col senno di poi avevano ragione a dubitare.
Elena, a differenza di altre, non rimase un semplice flirt.
A un certo punto ho perfino creduto che forse mi avrebbe fatto cambiare idea sul non pormi confini. Con lei sono arrivato addirittura a pensare di mettere radici ed accasarmi. Ed inizialmente sembrava essere riuscita là dove tutte le altre avevano fallito.
Tuttavia, dietro a ogni storia d’amore si celano sempre le persone che compongono la coppia, e io forse sono sempre stato affetto da ‘dongiovannismo’.
Mi sono sempre piaciute le belle donne. Non ho mai nascosto quando una ragazza mi piacesse, anche nel momento in cui io ed Elena eravamo già una coppia. Sono sempre stato un gran Casanova, pronto a dispensare complimenti a destra e manca. Non ci ho mai visto nulla di male a ‘giocare’ un po’ con le signorine prima e le signore dopo quando si mostravano interessate a me. In fondo, non promettevo loro niente di più di qualche attenzione e poche ore del mio tempo. E loro non pretendevano niente da me. Non c’era nessun vero legame, niente di definito, delimitato.
Ogni nuova conquista era qualcosa di nuovo che mi ‘apparteneva’, ma non mi appagava a tal punto da dire “questa è la meta finale”. Il mio viaggio per le Indie era ancora tutto da intraprendere.
E nessuna donna è mai riuscita a convincermi a gettare l’ancora e fermarmi.
Nemmeno Elena.
Non dopo che ci siamo sposati. E neppure dopo che lei è rimasta incinta.
Quando mi disse di esserlo una parte delle mie insicurezze di ragazzo era riaffiorata. Avevo sempre cercato di nasconderle dietro al mio carisma e alla mia spavalderia, ma in fondo anche io sono un uomo come gli altri.
E in quel frangente mi sono sentito più debole che mai. Un vero e proprio codardo, oltre all’egoista che già ero di mio. Non ero pronto a diventare padre. Non lo sono mai stato nemmeno dopo.
Non mi sono mai sentito all’altezza delle aspettative, anche se avevo sempre sognato in grande nella vita. Ho sempre avuto la percezione che nonostante gli anni sarebbero inesorabilmente passati e avrei raggiunto gli obiettivi prefissati, non sarei mai stato pago del risultato. E avrei continuato, compulsivamente, ad essere il ragazzo di provincia soffocato dai confini e alla ricerca delle sue Indie che aveva lasciato il suo paese dopo il liceo. Pieno di domande e dubbi, nonostante fossi nel frattempo diventato uno psicologo e fornivo risposte agli altri.
Tutto questo non giustifica certamente le mie azioni successive. Ammettere queste cose non cancella gli errori che ho commesso. Però spiega cosa ho fatto.
In quel momento, la notizia di Elena incinta portava la mia testa a vedere il matrimonio e la famiglia che si stava formando come una gabbia.
Guardandomi attorno vedevo quanto avevo fino a quel momento ottenuto e non lo ritenevo sufficiente. Volevo di più, potevo ambire ad avere di più, ad allargare ancora i miei confini.
Il mio meccanismo di autodifesa delineava a me quel perimetro come un ostacolo che mi avrebbe precluso di raggiungere i successivi obiettivi.
Avevo paura, in altre parole, che quei confini fossero definitivi, quando io volevo invece uscire dal nido. Cercare cosa mi rendesse felice, pensando che tanto cosa avevo conquistato fino a quel momento non lo avrei perduto. Che quando volevo, bastava tornare al nido e avrei ritrovato tutto com’era.
E allora l’ho fatto. Sono andato a cercare quello mi mancava fuori dal perimetro che si era nel frattempo costruito.
Solo parecchi anni dopo ho capito cosa avevo lasciato indietro. Chi avevo lasciato indietro.
 
Il mio carisma e la mia voglia di fare mi permisero di racimolare in fretta un cospicuo numero di clienti presso il mio studio, nei mesi successivi all’abilitazione alla professione. Questo mi permise di mantenere la mia famiglia, anche se non era nei miei piani averne una in quel momento.
Nel tempo ho continuato a studiare e aggiornarmi per essere sempre impeccabile nell’esercizio del mio lavoro, conscio che il solo carisma non mi sarebbe stato sufficiente per fare carriera.
Ormai ‘intrappolato’ in una vita privata che allora non desideravo, nei libri e nelle nozioni di psicologia nuove che apprendevo trovavo le risposte ai problemi degli altri e questo – almeno sul lavoro - mi appagava. Mi rendeva consapevole del fatto che i miei sforzi non erano stati vani, che lasciare la provincia per trovare fortuna in città era stata la scelta giusta per me. Presto iniziai anche a tenere convegni e presenziare a iniziative importanti.
Tutto esternamente sembrava perfetto.
Sembrava, però. Perché dietro la maschera del giovane di successo con una splendida moglie e un figlio adorabile, si celava un mondo tutto fuorché idilliaco. E un uomo tutto fuorché perfetto.
 
Con la nascita di Marco, Elena aveva messo nostro figlio al centro del suo mondo, trascurando me. Inizialmente non ci avevo dato peso, anzi. Proprio perché psicologo la capivo.
Però col tempo la situazione è andata cambiando. Ho cercato a lungo di non dare a vedere a mia moglie che il fatto che le cose fossero mutate non mi pesasse. Ma sono sempre stato egoista. E seppure chi che la distraeva dal darmi attenzioni era solo uno scricciolo di un paio di mesi, la cosa non mi fermava dal provare gelosia. Essere geloso di proprio figlio... esiste qualcosa di più umiliante? O forse dovrei dire “di più insensato” – ma a pensare questo ci sono arrivato tardi.
Sapevo che Elena mi amava, che è normale per una madre dedicarsi e spendersi così tanto per un figlio, fino a dimenticarsi temporaneamente che c’è il padre di quel figlio da tenere in considerazione, presumibilmente suo marito. Ma questa consapevolezza non mi fermava dal provare cosa sentivo allora.
Alla ricerca di ossigeno per tornare a respirare e liberarmi dal soffocamento che la quotidianità famigliare sembrava provocarmi, mi sono dedicato al raggiungimento di nuovi obiettivi. Ovviamente nel ‘lavoro’.
Ho iniziato a passare sempre più tempo fuori casa, e quando invece c’ero passavo il tempo principalmente nel mio studio. Del marito esemplare che avevo cercato in un primo momento di essere, ben presto non rimase più nulla.
Esternamente non cambiò mai niente. Tutto in apparenza era uguale. Semplicemente, come spesso accade, il padre di famiglia alla nascita di un figlio prende a lavorare di più per poter sostentare quel nucleo che si allarga.
E così sono aumentati i ‘convegni’ a cui partecipavo, le ‘presentazioni dei libri’ che scrivevo, i ‘viaggi’ per altre città perché la mia fama aveva scavallato i confini regionali.
Alcune volte erano impegni reali. Altre volte era solo un modo per coprire le mie storie extraconiugali.
Sentivo il bisogno fisico di esorcizzare quella stupida gelosia, di sentirmi di nuovo – narcisisticamente – il centro delle attenzioni di una donna. O più di una. Perché in fondo stavo ‘giocando’.
Ora so di aver sbagliato, che avrei dovuto gestire la situazione diversamente.
Ma all’epoca era stato più facile passare di conquista in conquista, relegare al fondo della storia Elena e Marco, che ammettere che il problema fossi io.
Che fossi – sono - egoista. Perché prima e al di sopra di me non ho mai accettato ci fosse niente. Perché qualora ci fosse stato qualcosa, quel qualcosa mi avrebbe ingabbiato.
E si può facilmente capire che quando Marco è nato, quel qualcosa nella mia testa è diventato lui. Che si è posto al di sopra di me, provocando l’uragano che ci ha travolto.
Che ha travolto me, troppo debole per accettare la verità e pronto a rifugiarmi in una serie infinita di storie temporanee che mi facessero sentire uomo, piuttosto che dimostrare di esserlo.
Che ha travolto Elena, vittima inizialmente inconsapevole di ripetuti tradimenti e che anche una volta venuta a conoscenza degli stessi, si è mostrata più forte di quanto io mai possa anche solo provare a essere.
Che ha travolto soprattutto Marco, un bambino all’epoca che aveva solo bisogno di essere amato. Che avrebbe accettato gli errori dei genitori, purché in buona fede, come tutti i figli fanno. Perché capiscono più di noi adulti. E per questo soffrono il doppio davanti a certe verità.
Da quel momento, per anni, ho messo me narcisisticamente prima di lui e di sua madre, al di sopra anche di tutte quelle relazioni intrecciate con donne viste una notte e poi mai più.
Me al di sopra di tutto.
Inizialmente ero stato molto attento a non far scoprire nulla a mia moglie della mia infedeltà - come tutti gli uomini infedeli e insicuri, incapaci di chiudere un capitolo perché egoisticamente è più semplice sapere che c’è qualcuno che ancora ti attende, se mai ti stufassi di quello nuovo.
E poi perché per me quelle storie, quelle donne, non contavano nulla. Inseguivo solo il piacere di un incontro fugace. Inseguivo la mia smania ossessiva di libertà. Inseguivo l’appagamento personale, oltre a quello lavorativo.
Ho imparato col tempo che non sono in grado di creare un vero e sincero dialogo con le persone, in altre parole di intrecciare relazioni. Trovo coscienza di chi sono, del mio esistere, nella superficialità dei rapporti che istituisco. Perché mi sottraggono per un momento dalla mia solitudine, e perché l’ego prende coscienza di sé solo nel momento in cui interagisce con l’altro.
Ogni storia, ogni notte trascorsa con una nuova donna, era per me un modo per ricordarmi che esistevo, che per qualcuno ero importante, anche solo per un istante. E non mi rendevo conto che io ero già importante per qualcuno. Che dovevo semplicemente guardare oltre lo specchio, in cui come Narciso mi beavo di me stesso.
Relegato al fondo di questo quadro che mi vedeva protagonista, c’era Marco, mio figlio, che intanto cresceva, ed io non me ne curavo come avrei dovuto. Pensavo fossero sufficienti i soldi che portavo a casa per rendere felice anche lui. Non sapevo veramente nulla su come essere padre.
Quando ero a casa, passavamo poco tempo insieme e lo facevo spesso senza neanche prestargli la giusta attenzione. Mi informavo appena del suo andamento scolastico, sempre abbastanza soddisfacente, e – le rare volte in cui mi ricordavo – di come fosse andata l’ultima partita di calcio che aveva ‘giocato’, perché è sempre stato una pippa.
Alcune volte mi stupivo addirittura che io mi ricordassi di averlo iscritto a scuola calcio. Altre mi sentivo in colpa perché mi rinfacciava di come gli avessi promesso di andare a vederlo e poi non ci fossi andato. Ma durava un istante il mio rimorso. Poi tutto tornava come prima.
I miei impegni, il mio lavoro, le mie necessità, il mio essere un Casanova tornavano ad essere le mie priorità, e Marco ed Elena lo sfondo.
 
La mia vita e quella delle persone che mi stavano intorno sono cambiate quando ho conosciuto Alessandra. Rimasi stregato da quella donna. Alta, mora, sensuale, sicura di sé. L’opposto di Elena. Ed è stata anche più dura da conquistare. Ci siamo conosciuti a un convegno a Firenze. Era una delle hostess. Speravo diventasse l’ennesima conquista di una notte. Invece, non cadde nella mia trappola come tutte le altre.
La rividi qualche settimana dopo, alla presentazione del mio – allora – nuovo libro. Sempre a Firenze. Fu lei ad avvicinarmi, al contrario della prima volta. Giocò al mio stesso ‘gioco’. E nella trappola caddi io.
Alessandra non cercava una storia, solo qualcuno con cui divertirsi. Voleva essere libera, come me. Per questo fu facile con lei. Divenne la mia amante stabile. Non aveva problemi col fatto che nel mentre ci fossero altre donne, né che ci fosse una moglie, e un figlio. In fondo, quello era un problema mio.
Alessandra era il ritratto della femme fatale, e io non avevo resistito a quel fascino.
Non pretendeva nulla, non chiedeva, non insisteva. Al contrario di mia moglie che aveva iniziato a domandare, seppur io non le dessi risposte concrete ribadendo fossero solo sue fantasie.
Quella storia con Alessandra andava avanti da quasi un anno, quando decisi di porre fine al matrimonio con Elena.
La mia vita coniugale non mi soddisfaceva, essere marito e padre non faceva per me.
Per questo, durante quelli che poi furono gli ultimi mesi del mio matrimonio con Elena, iniziai a frequentare Alessandra senza nascondermi. Senza nascondere nemmeno le tracce dei nostri incontri.
Elena inizialmente non disse nulla, ma i suoi sguardi eloquenti e colmi di lacrime erano sufficienti a mostrarmi che aveva capito avessi un’altra donna. Se non provava a opporsi, era perché non voleva che Marco si accorgesse di nulla.  E forse perché sperava che col tempo io avrei cambiato idea e sarei tornato al nido familiare.
Ma così non è stato. E un giorno, senza alcun preavviso, presi le mie cose e me ne andai di casa. Andai a vivere proprio da Alessandra, anche se le cose tra me e lei non cambiarono. Non diventammo una coppia, solo perché avevo lasciato mia moglie. Non sentivamo il bisogno di etichettare cosa fossimo. Perché avrebbe posto un nuovo confine, avrebbe significato legarsi a qualcuno, piantare radici. E nessuno dei due andava cercando quello.
Marco aveva solo undici anni quando me ne andai di casa. Lasciai ad Elena l’incombenza di spiegargli perché non sarei più tornato. Anche se penso lui già sapesse perché me ne ero andato. Durante quell’anno di ‘relazione’ con Alessandra, in cui ero ancora a casa con lui e sua madre, aveva cominciato a trattarmi con freddezza. Non mi chiedeva più di andare alle sue partite. Col tempo era come se non si aspettasse più niente da me.
È sempre stato un ragazzino intelligente, con una sensibilità maggiore rispetto agli altri della sua età. Non è cambiato poi così tanto come si potrebbe credere nel tempo. Oggi in lui, quel ragazzino vive ancora.
Passarono anni dal giorno in cui lasciai casa, prima che io e Marco tornassimo a rivederci. E non fu un gran giorno quello in cui l’incontro avvenne.
In quel tempo vissuto distanti, continuai comunque a sostentare Elena e mio figlio, inviando il denaro per garantirgli gli studi e da vivere. Non sono un gran uomo di onore, ma ho sempre riconosciuto le mie responsabilità, legalmente parlando perlomeno.
Ogni mese, per quasi sei lunghi anni, mi sono recato alla mia vecchia casa per consegnare ad Elena l’assegno mensile. E per sei anni, lei ha sempre fatto in modo che Marco non fosse presente quando io passavo.
Ad oggi ancora non so se fosse per proteggerlo o perché era proprio lui a non volerne sapere nulla di me, di quel padre che non c’era mai stato per lui. O entrambe le cose.
Non glielo ho nemmeno chiesto dopo che ci siamo riavvicinati in questi ultimi anni.
Ad ogni modo, durante quelle mie visite, col tempo, mi accorsi che qualcosa in Elena non andava più come prima. Lentamente e inesorabilmente stava diventando il fantasma di ciò che era stata. Di quella innocente bellezza che mi aveva catturato un ventennio prima presto non rimase più nulla.
Occuparsi da sola di Marco aveva provocato quella sua sfioritura - o molto più probabilmente quello che le avevo fatto io.
Se cercò di andare avanti, per anni, pur non avendone le forze, facendo mille sacrifici, era solo per il bene di suo figlio.
Perché nonostante io provvedessi al suo mantenimento senza saltare un mese, lei insisteva nel prendersi cura da sola del suo bambino, tenendo da parte quei soldi che io le davo perché Marco potesse utilizzarli per inseguire i suoi sogni, per costruirsi un futuro che gli piacesse.
Mi era ignaro, allora, quale fosse il sogno di mio figlio, il sogno di quel ragazzo che, pur legato a me biologicamente, non conoscevo per niente. Che per me era quasi un estraneo.
Scoprii per caso cosa desiderava di fare nella vita.
Se non fosse successo cosa è successo, probabilmente non lo avrei saputo mai. O forse lo avrei scoperto solo quando sarebbe diventato famoso.
Ammetto di aver fantasticato per anni su cosa potesse sognare. Me lo vedevo già calciatore, anche se ignoravo come potesse - quella pippa che vagamente ricordavo di aver visto giocare – essere migliorato.
Ero già pronto in quel caso a vivere di gloria riflessa, ad essere “il padre di”, insomma. Una vita da calciatore, nelle massime serie, ti permette di vivere una signora vita. Lo avrei accettato, anche se la mia idea di ‘lavoro’ era tutt’altra.
Elena non mi disse mai di cosa si trattava realmente, però. Evidentemente, conoscendomi, sapeva che non avrei accettato le sue scelte. Che avrei criticato la cosa, che mi sarei opposto, come ho poi fatto.
Perché contrariamente a cosa io avevo fantasticato, il sogno di mio figlio non aveva nulla a che fare col calcio.
Lui voleva fare l’attore. 
Elena lo aveva anche iscritto a vari corsi di recitazione tenuti presso l’oratorio del quartiere, in un teatrino sgangherato, fin dall’anno dopo la nostra separazione, quando io ero convinto fosse ancora iscritto a scuola calcio. Lì si era appassionato a quel mondo. Lì aveva iniziato a pensare a un futuro sui palchi dei teatri più importanti d’Italia, o chissà anche in televisione o al cinema. Gli artisti solitamente sognano in grande.
Però quel sogno per Marco è rimasto chiuso nel cassetto. Perché la sua vita, insieme alla mia, è cambiata una mattina di metà marzo, a poche settimane dal suo diciassettesimo compleanno.
Mi trovavo a Milano per lavoro. Ero a cenare dopo il mio ultimo intervento con i colleghi quando il mio cellulare aveva cominciato a suonare incessantemente. Avevo ignorato le prime telefonate pensando fosse la mia ex amante, Alessandra, che tentava di contattarmi per quello che all’epoca era un segreto solo tra noi due.
Al quinto tentativo, stufo di sentire la suoneria, guardai chi mi stava contattando. Veronica, la sorella della mia ex-moglie.
Tornai a Genova la sera stessa. Veronica mi aveva telefonato perché nel tardo pomeriggio Elena si era sentita male. Un arresto cardiaco. Marco era solo. Aveva bisogno di suo padre. Anche se ero stato pessimo fino a quel momento, e l’ultima cosa che avrebbe voluto fare Veronica era interpellarmi.
Arrivai in fretta all’ospedale, ma non abbastanza.
Al mio arrivo, trovai Marco disperato, inconsolabile, tra le braccia di sua zia. Nonostante il più tempestivo degli interventi, per Elena non c’era stato niente da fare. Il suo cuore, esausto dopo tanti anni di sofferenza, non aveva retto più.
Mi ritrovai, poco più che quarantenne, a dover fare – veramente quella volta – il padre. Non potei tirarmi indietro dall’accogliere con me Marco, dopo la dipartita di Elena. Per legge, sarebbe dovuto rimanere sotto la mia tutela almeno finché non sarebbe stato maggiorenne.
Inutile dire che lui non mi voleva, e che mi ritenesse responsabile per la morte di sua madre. Era colpa mia, diceva, per tutte le volte che l’avevo tradita e l’avevo fatta soffrire. Era morta per causa mia, e non aveva torto.
Il nostro rapporto già logoro – per non dire inesistente – non portò altro che a continue liti, per via di quella convivenza forzata e per il mio carattere tutto fuorché compatibile col suo. Per qualche mese, Marco rifiutò di piegarsi alla mia autorità di padre. Dopotutto non lo ero mai stato per lui.
Ciò non toglie che la cosa mi desse fastidio. Vederlo crogiolarsi nel ricordo e nel dolore per la perdita di sua madre invece che mostrarsi uomo e riprendere in mano la sua vita era uno smacco per me. Non poteva essere un Nardi.
Così decisi io per lui. Avevo bisogno di ristabilire l’autorità che avevo perso – per mio stesso volere – anni prima. Lo obbligai a lasciare il teatro nonostante avessi saputo fosse molto promettente. Farlo eliminava il legame con la madre, mi sembrava il miglior modo per fargli superare il lutto. Slegarsi dal passato per andare avanti. E poi perché quel suo sogno che esistenza avrebbe potuto dargli? Vivere alla giornata non era quello di cui aveva bisogno mio figlio. No, doveva fare un lavoro serio. Uno qualsiasi, ma lontano dal palcoscenico. Un attore, figuriamoci.
Protestò a lungo. Se non fosse che già mio odiava a quel punto, probabilmente avrebbe iniziato dopo quella mia presa di posizione.
 
Le cose non migliorano dopo che ci trasferimmo a Roma. Quale miglior modo di ricucire il rapporto con tuo figlio, se non quello di allontanarlo dai suoi amici e portartelo a vivere insieme in un’altra città? Eh, sì, sono ironico.
Il mio trasferimento era dovuto perlopiù al lavoro, ma anche per allontanarmi da Alessandra, la mia ex amante.
Un anno prima della morte della mia ex moglie, era rimasta incinta. Il figlio era mio. Ma visti i risultati con Marco, di cui lei era del resto a conoscenza, come poteva pretendere che volessi un altro figlio? Tentò in tutti i modi di farmi riconoscere Franco come mio, ma invano.
Per la seconda volta nella mia vita, decisi nuovamente di scappare dalle mie responsabilità. Quella volta, letteralmente.
Roma per me era una seconda casa. Per lavoro ci ero stato già spesso. Ma viverci con tuo figlio che ti odia è un’altra esperienza. Continuammo a litigare a lungo, il suo odio non diminuì mai in quell’anno che legalmente era obbligato a vivere con me. Minacciò spesso di andarsene di casa non appena compiuti i diciotto anni, ma sapeva che non poteva sopravvivere senza i miei soldi a mantenerlo. A un certo punto trovammo un punto di incontro, ma anche di separazione.
Accettò di non inseguire il suo sogno, di prendere una strada più sicura. Ma lontano da me. Quando me lo disse, presi le sue parole come un affronto.
Tuttavia, era chiaro a entrambi che non ero capace di essergli padre, ancor meno dopo che lui scoprì dell’esistenza di Franco, per puro caso, quando Alessandra si presentò senza preavviso a casa nostra a Roma e io non c’ero.
Terminato il liceo, mio figlio fece come me. Prese e se ne andò di casa. Anche lui per fuggire da una vita che gli stava stretta. Quella forzata con me.
Come da accordi, intraprese l’università. Litigammo perché non vedevo come mai dovesse andare a Perugia a studiare, quando a Roma avrebbe trovato una preparazione adeguata a lui. Ma i patti erano stati chiari. Voleva andarsene lontano da me. Gli mantenni quindi gli studi per i primi anni, poi non volle il mio ‘aiuto’ nemmeno in quello. Si trovò un lavoro, sfruttò i suoi risparmi. Cercò di slegarsi da me. Da quell’uomo che gli aveva dato la vita, ma gliela aveva anche rovinata.
Dopo di allora ci vedemmo ancor più raramente, di rilievo ci furono solo i giorni in cui conseguì la laurea - in giurisprudenza - e quando superò il test per diventare magistrato - al primo tentativo. Quei suoi risultati ottenuti brillantemente non mi stupirono. Sapevo fosse un giovane capace e non volevo che quel talento andasse sprecato. Per questo avevo fatto di tutto per allontanarlo dal sogno della recitazione.
Decise di rimanere a Perugia, di iniziare la sua carriera da lì, o nella provincia. A lui quella realtà non stava stretta come a me evidentemente. Di tanto in tanto lo chiamavo per sapere come stesse, ma continuò sempre a rinfacciarmi le mie colpe, e ognuna di quelle telefonate sfociava inevitabilmente in un litigio. Così col tempo anche quelle andarono a diminuire. E bene presto di mio figlio seppi solo tramite racconti altrui. Parenti, conoscenti con cui era rimasto in contatto, che si informavano su come stesse.
Pensavo che il giorno della morte di Elena quello rimasto ‘solo’ fosse lui. Invece da solo sono rimasto io. Avevo fallito in tutto, come marito, come padre, perfino come amante. Mi odiavano tutti. Anche il mio secondo figlio. Che vidi per la prima volta quando aveva già otto anni, e nel giorno del suo compleanno per di più. Accettai di vedere Alessandra poco dopo l’ennesimo litigio con Marco. Per un istante avevo pensato di poter provare a creare un rapporto diverso con Franco. Provare a essere almeno per lui un padre. Invece la paura di non essere all’altezza mi pervase dopo averlo visto e scappai ancora una volta.
Un codardo. Un egoista. Non sono mai stato capace di essere niente di più. E a un certo punto ho accettato la cosa. Serenamente. O almeno questo credevo e andavo dicendo nelle interviste. Eugenio Nardi, il raffinato psicanalista, era felice della sua vita.
Almeno finché non si soffermava a riflettere veramente su di essa. O quando non scopriva cose nuove sulla vita dei suoi figli…
Seppi che Marco doveva sposarsi - la prima volta - dalla mia ex-cognata. Ero tornato a vivere a Genova dopo la laurea di Marco. Se voleva stare lontano da me, quale miglior modo che aggiungere chilometri tra di noi? Per una volta avevo fatto qualcosa che sicuramente aveva apprezzato.
Ricevetti l’invito al matrimonio poco dopo. Probabilmente più per volere della sua futura sposa che non suo. Dal medesimo scoprii che viveva a Spoleto. Mi recai da lui qualche giorno dopo, per conoscere la sua fidanzata. Ovviamente dopo essermi premurato di avvisare Marco. Non penso avrebbe apprezzato una mia improvvisata.
Incontrai quella che allora era la sua fidanzata durante un pranzo domenicale. Mi pare si chiamasse Federica, una ragazza bionda, carina, molto sicura di sé. Il tipo di donna che è sempre piaciuto a me. In altre parole, non esattamente quello che pensavo potesse piacere a mio figlio, visto quanto siamo diversi.
In quella stessa occasione mi presentò anche il suo migliore amico Simone, che sarebbe stato il suo testimone di nozze.
Ricordo che al tavolo di quel pranzo la tensione si poteva tagliare col coltello. E non mi riferisco solo a quella tra me e mio figlio. Non compresi mai come Marco non si fosse accorto di quello che accadeva tra le persone che lui amava di più. Forse per me risultò più facile perché ero uno di loro. Forse, fra traditori, è più facile accorgersi di certi segnali.
Tuttavia, nonostante io mi fossi accorto di cosa accadeva tra la sua fidanzata e il suo migliore amico qualche settimana prima di lui, invece di mettere in guardia mio figlio - temendo che mi avrebbe accusato di mentire e di peggiorare le cose - preferii tacere. Preferii sperare di sbagliarmi malgrado l’evidenza.
Non fui dunque sorpreso di scoprire tempo dopo che il matrimonio era saltato.
Già, tempo dopo.
Perché non mi presentai al matrimonio, che comunque non ebbe luogo. Per tanti motivi. Su tutti l’essere conscio che probabilmente mio figlio non mi avrebbe voluto lì, in quello che dovrebbe essere uno dei giorni più belli della tua vita, a detta di molti. Perché la mia presenza era sempre stata un fastidio, dopo tutto quello che era successo.
In ogni caso, avevo previsto bene circa l’esito della sua storia con quella ragazza. Non potevo sapere quella domenica, quando Marco avrebbe scoperto del tradimento, se prima del matrimonio, in tempo per tirarsene fuori, o dopo. Però ero certo che prima o poi la verità sarebbe venuta a galla.
E che non l’avrebbe vissuta bene, visto il suo passato.
Per quanto sappia che non mi crederà mai nessuno, e per quanto sicuramente lui avrà sofferto nello scoprire quella pugnalata alle spalle, avevo accolto con felicità il fatto che non si fosse sposato con quella donna. Non avevano nulla da spartire. Non c’entrava nulla con lui. Lo poteva vedere chiunque, anche un estraneo come me.
Per mio figlio ci voleva una donna diversa, più simile ad Elena, non come quella Federica, tanto forte quanto presuntuosa. Forse proprio per questo l’aveva ‘scelta’ all’epoca. Magari era stato un modo per superare il complesso di Edipo, l’attaccamento a sua madre… chi lo sa.
Qualunque fosse il motivo, quel male non era venuto invano. C’era qualcosa che me lo lasciava presagire. Una sensazione. O semplicemente, dopo molti anni, speravo nella felicità di mio figlio, nella felicità di qualcun altro oltre alla mia. Una novità per quanto mi concerne…
Ma se quelle cose le pensavo, di certo non le ho mai dette. O dimostrate. Non mi sono mai premurato di chiedergli come stesse, o di andare a trovarlo. Semplicemente seppi dalla mi ex-cognata che il matrimonio non aveva avuto luogo e accettai la notizia per quella che era.
Una cosa però mi stupì di quella scoperta. Marco non lasciò Spoleto. Non decise, come più facilmente e avevo sempre fatto io, di scappare. Di andarsene da quel paesino al centro dell’Umbria, in mezzo alle montagne, dove per l’ennesima volta chi doveva amarlo, lo aveva tradito.
No. Aveva deciso di restare.
E circa un anno dopo la notizia di quel matrimonio saltato, ho capito perché era ancora laggiù.
Ad oggi non so cosa avesse spinto Marco a presentarsi da me a Genova quel giorno, dopo più di un anno che non ci vedevamo. Avevo saputo sarebbe stato in città, per le solite vie traverse, a trovare vecchi amici e parenti. Ma mai mi sarei aspettato venisse anche da me.
Però era lì, sull’ingresso di casa mia, di quella casa che un tempo era anche sua, quando quel pomeriggio aprii la porta. E non era da solo.
Al suo fianco c’era una giovane donna con due penetranti occhi verdi. Anna era il nome di quella graziosa fanciulla che gli stringeva le dita restando un passo indietro rispetto a lui.
Marco me la presentò con una luce negli occhi che non gli avevo, credo, mai visto prima. Per un attimo rimasi stupito di vedere mio figlio, quell’uomo che fin da bambino aveva sempre riservato tanta rabbia verso di me, lì a casa mia con la sua nuova fidanzata. Non si era sentito in dovere di presentarmi quella prima, se non a poche settimane dal matrimonio, e improvvisamente invece questa sì, senza nessun motivo apparente dietro.
La cosa che mi colpì immediatamente di quella ragazza fu che, al contrario della maggior parte della gente che riesco a inquadrare con una sola occhiata, lei sfuggiva questa mia capacità. Sapeva difendersi bene da chi cercava di introdursi a forza nel suo mondo, e soprattutto non aveva cercato di vendersi facilmente come aveva fatto l’altra.
Non cedette nemmeno al fascino dello psicologo famoso che bastava ad ammaliare chiunque, anzi. Era cauta e sospettosa. Da come parlava Marco, avevo intuito lei sapesse che i nostri rapporti non fossero idilliaci, però non sapevo se fosse a conoscenza di tutta la storia.
Di sicuro, i miei ‘giochetti psicologici’ - come li ha sempre chiamati Marco - con lei non funzionavano. Ne provai diversi per tutto il corso della loro permanenza a casa mia, ma lei non si fece fregare in nessuno, battendomi punto per punto, ogni volta, senza sforzarsi. Era evidente non fosse diventata Capitano dei Carabinieri a caso, e così giovane per di più.  
Non si fidava di me, questo divenne chiaro ben presto, sia che sapesse, sia che non sapesse cosa avessi fatto in passato. Arrivai perfino a testare la sua pazienza apparentemente impossibile da scalfire, facendo una battuta - fuori luogo, lo ammetto - sulla precedente relazione di mio figlio.
La reazione, in realtà, la ottenni da lui. Anna però si limitò a dirmi, trattenendo Marco, che forse avrei fatto meglio ad ascoltare mio figlio, prima di parlare di cose che, evidentemente, non conoscevo. Tuttavia, si mantenne lontana dal fornirmi lei i dettagli.
Fu l’unica volta che la incontrai, prima della mia visita a Spoleto tre anni fa. Quell’unico incontro fu comunque sufficiente a spiegare quella sensazione di cui ho parlato prima.
Quella ragazza era l’opposto della ex di mio figlio. Ed era arrivata dopo il male dell’ennesimo tradimento.
Era quella giusta. E anche se non l’avevo capita come avrei voluto, c’era qualcosa in lei che la rendeva perfetta per Marco. E quella ‘epifania’ mi rese per la prima volta felice per qualcuno che non fossi io.
Lo capii ancora meglio quando ricevetti l’invito per il loro matrimonio qualche mese dopo. E avevo tutta l’intenzione di andarci, quella volta.
C’era qualcosa che mi diceva che nonostante quell’incontro non fosse andato nel migliore dei modi, mio figlio mi avrebbe voluto presente al suo matrimonio, o comunque non avrebbe ‘rifiutato’ la mia presenza. Forse il ricordo dei suoi occhi pieni di gioia di quando me l’aveva fatta conoscere, quella felicità vera che emanavano. O forse il semplice gesto di avermela presentata. Quasi come se fosse stato pronto ad aprirmi la porta, dopo avermela sbattuta in faccia per anni – e con ragione.
In ogni caso, ero deciso ad andare da lui per quel giorno speciale.
Ma il fato ha giocato a mio sfavore, mettendo sul mio cammino un nuovo incontro. Meno piacevole di quelli del mio passato, però.
Un tumore.
Tutti speriamo di non trovarci mai di fronte a un ‘verdetto’ di questo tipo, ma dopo anni ad avvelenarmi con le mele del peccato, forse me lo sarei dovuto aspettare. Voglio dire, pur non credendo nel karma, so di aver ferito molte persone, e questa forse è la mia punizione. Ho sempre messo me prima di tutto, e quando sono stato pronto a mettere la felicità di mio figlio, finalmente, prima della mia, sono stato costretto a mettere di nuovo me prima lui.
Certo, quella volta avevo un ‘buon’ motivo, ma… quando hai commesso tanti errori, come ho fatto io, non basta una giusta motivazione a cancellarne mille sbagliate.
Il medico specialista me comunicò del tumore senza girarci intorno, perché tra uomini di scienza sarebbe inutile farlo. L’impatto non per questo fu meno grave, poiché non avevo avuto particolari sintomi ad annunciarne la comparsa da dire che me lo aspettassi. Mi disse che era necessario operare, e in fretta, per avere maggiori possibilità di successo. L’intervento, nemmeno a dirlo, era stato fissato per il giorno successivo la domenica del matrimonio di Marco.
E per questo, non mi presentai.
Passai il giorno antecedente l’operazione a immaginare il matrimonio che stava avendo luogo a Spoleto. Ero certo che Marco non fosse stupito di non vedermi lì. Non lo avevo avvisato, quindi come la precedente volta - al di là dell’esito della cerimonia - lo aveva scoperto il giorno stesso. Come mille altre volte, pensavo, non gli sarei mancato. Non c’ero mai stato, che differenza faceva una volta in più?
Avevo buttato via tutto molto prima di quel giorno. Non sarebbe cambiato nulla se le cose fossero andate diversamente in quella circostanza.
Mi sono ripetuto quel mantra tutta la notte, in attesa dell’operazione.
Il nodo alla gola arrivò solo poco prima dell’anestesia.
In quel momento ero certo che se non mi fossi svegliato dopo l’operazione, se qualcosa fosse andato male durante di essa, per me poteva andare bene così. Non avevo più nulla da perdere, avevo già rovinato tutto nella mia vita, perso tutto. Non sarebbe importato a nessuno della dipartita del famoso psicanalista Eugenio Nardi.
Nemmeno ai miei figli sarebbe importato, probabilmente.
Solo quando quest’ultimo pensiero mi è passato per la testa, ho capito tutto.
Tutto il male che avevo fatto, tutte le persone che avevo ferito. Quanto ero stato egoista. Quanto ero stato stupido a pensare che i confini di una famiglia potessero rendermi prigioniero. Perché è stato il mio voler volare libero ad avermi invece ingabbiato in una prigione dorata.
A quel punto non mi importava più il rischio di avere ancora poco tempo da vivere, no... quello di cui avevo davvero paura era di non avere più tempo per recuperare il rapporto con mio figlio - con i miei figli.
Non li avevo mai trattati come meritavano. Non avevo mai dedicato loro le attenzioni giuste, non li avevo mai aiutati, ero sempre stato assente.
Non ero mai stato loro padre.
Si dice che i figli sono di chi li cresce, e io con miei non l’avevo fatto. Nonostante tutta la teoria che avevo studiato durante l’università, nonostante tutte le nozioni che avevo imparato e applicato nella mia lunga carriera ai casi di perfetti sconosciuti su come sistemare la propria situazione familiare, io con la mia non c’ero mai riuscito. Ma che dico, non ci avevo mai nemmeno provato. E il rimorso, quello vero, era arrivato solo quando ormai probabilmente era troppo tardi per tentare di cambiare le cose…
Quando ho riaperto gli occhi dopo l’operazione, ho deciso che ci avrei provato.
Non appena mi rimisi un po’ in sesto, chiamai anzitutto Marco, nella speranza che non riagganciasse senza rispondermi. Se volevo ricucire uno straccio di rapporto con i miei figli, avevo prima di tutto bisogno di farlo con lui. Col più grande. Con l’unico che sapesse, bene o male, l’intera storia. Non sapevo, all’epoca che la conoscesse anche Franco.
Per miracolo, penso, Marco non riagganciò. Avrebbe avuto tutto il diritto di farlo. Sentii la sua voce distante, spenta, rispetto all’ultima volta che ci eravamo sentiti. Non riagganciò nemmeno quando gli chiesi come fosse andato il matrimonio. Le nozze a cui non mi ero presentato e per la cui assenza in quella chiamata nemmeno fornii una spiegazione. La risposta che mi diede mi fece però rimpiangere di aver chiamato.
Non scese nei dettagli - quelli me li raccontò solo dopo il nostro riavvicinamento, quando abbiamo imparato a conoscerci meglio - ma mi disse che era stato annullato, che lui ed Anna si erano lasciati perché lei aveva ricevuto una proposta di lavoro importante per il Pakistan e aveva accettato.
Un altro tradimento, seppur poco prevedibile nella forma. Non seppi cosa dire, non gli chiesi come stava. Di fronte a quel mio silenzio, Marco disse solo che non aveva voglia di parlarne, soprattutto con me. E il tono duro usato non lasciava spazio a nulla. Solo a un vuoto incolmabile.
Poco dopo il vuoto mi attese anche all’altro capo della linea telefonica, quando Marco riagganciò, un semplice e freddo ‘ciao’ prima di lasciarmi da solo a rivivere quella telefonata nella mia testa.
La voce di mio figlio durante quella telefonata non era diversa da quella sentita in quel giorno lontano, quella del ragazzino distrutto per la perdita della madre, che non riusciva a farsene una ragione, che non trovava via d’uscita, di una trentina di anni prima.
Non era come per Federica, no. Quella volta il suo dolore era acuto e profondo. Non sarebbe andato via facilmente.
Stava soffrendo, terribilmente. Quel ‘tradimento’ da parte di lei faceva più male dell’altro. Perché Anna non lo aveva lasciato perché non lo amava. Aveva messo la sua carriera e in parte se stessa, prima di lui.
Era la seconda persona a farlo. La prima dopo di me.
Ma se io lo avevo fatto cinicamente e senza darvi peso, conscio che Marco a un certo punto si fosse anche rassegnato al fatto che non mi importasse di lui, quella ragazza certamente non lo aveva fatto a cuor leggero.
E neanche lui aveva lasciato che volasse libera a cuor leggero.
Lui aveva saputo fare, per l’ennesima volta, quello che io non avevo saputo fare mai: essere altruista. Pensare alla felicità di lei e non alla sua. Provocandosi una ferita che non è facile sanare.
Perché non si è mai così indifesi come quando si ama. E lui amava Anna.
Telefonandogli, rivoltando – senza saperlo – il dito nella piaga, avevo fatto ancora una volta un danno. Nella vita di Marco, il mio passaggio sporadico era non dissimile a quello di un elefante in una cristalleria.
E in quel frangente, io non ero la persona giusta con cui sfogarsi. Come potevo, io che avevo tradito sua madre con molte altre donne, capire cosa si provasse nel perdere l’amore vero così?
Per questo, nonostante i miei rinnovati buoni propositi, mi feci da parte. Per mesi non mi sono più fatto vivo.
Poi però un giorno ho preso l’auto e sono andato a Spoleto. Ho fatto tanti errori con mio figlio, il primo su tutti non stargli accanto quando ne aveva più bisogno. E quel giorno, anche se era stato con me freddo, lui aveva avuto bisogno di qualcuno accanto. Forse potevo essere io quel qualcuno.
Ma l’elefante ripresentandosi nella sua vita ha di nuovo fatto danni. Anzi, ho fatto danni nella vita di tutte quelle persone che negli ultimi anni gli sono state accanto, mentre io non c’ero.
Mi sono messo in mezzo alla storia tra il maresciallo Cecchini ed Elisa, la madre di Anna. Una bellissima donna, che per di più era mia fan. Una donna con cui un tempo non avrei esitato a ‘giocare’. E non esitai a farlo nemmeno in quel frangente. Nemmeno dopo ‘l’epifania’ avuta poco prima della mia operazione.
Il lupo perde il pelo, ma non il vizio.
E mentre ‘giocavo’ portando scompiglio nelle vite di quelle persone, e i giorni passavano, finii col perdere di vista il reale motivo per cui ero a Spoleto.
Non che prestando attenzione si potesse capirci qualcosa.
Ero venuto perché mio figlio soffriva a causa della ‘perdita’ della persona che amava. Eppure Anna era lì e non in Pakistan, per cui mi risultava tutto ancor più sfocato.
All’unica cena che l’aveva vista presente rimase persino stupita di scoprire quale fosse la spiegazione datami da Marco sulle loro mancate nozze, commentando – non so se con cognizione di causa – che forse io e mio figlio avremmo dovuto parlarci di più.
E dire che fossi arrivato a Spoleto anche per stargli accanto, per recuperare il nostro rapporto. Eppure per via della mia intromissione nelle loro vite, Marco diventava sempre più ostile nei miei confronti.
Niente andava in accordo con il piano. E quando l’ho visto furioso nel chiedermi perché fossi a Spoleto, dopo tutti i casini che stavo causando, beh lì ho decretato la mia sconfitta.
In quel preciso istante, ho capito che non c’era modo di recuperare un rapporto che in fondo non era mai esistito. Che il tempo non poteva essere riavvolto. Che mi odiava per quello che avevo fatto ad Elena. Perché non c’ero mai stato quando aveva avuto bisogno di me. E che sarebbe stato sempre così.
E io non sono riuscito a dirgli che invece volevo esserci da allora in poi. Ma che non sapevo per quanto avrei potuto stargli accanto, se mi avesse accolto nella sua vita. È stato più semplice, per una volta, dargli ragione. Non ribattere, non litigare. Accettare i fatti per come erano. Battere la ritirata. Perlomeno con lui.
Restai ancora qualche giorno a Spoleto, continuando a rovinare la vita delle persone che ormai mio figlio considerava famiglia. In fondo ero sempre stato bravo a fare del male alle persone che amava.
Quello che non sapevo però, era che uno di quei giorni, la persona che meno mi sarei aspettato volesse aiutarmi con mio figlio mi avrebbe teso la mano, anzi lo avrebbe sospinto da me, dopo aver scoperto la verità.
Una sera, uscendo da casa di Cecchini dove ero andato a recuperare il nécessaire che avevo dimenticato in bagno, incrociai Anna sul pianerottolo. Quando mi chiese perché ero lì e non in albergo, il segreto che custodivo gelosamente da mesi mi scivolò di mano. Letteralmente.
Nel tentativo di spiegare cosa stessi facendo, mi caddero gli oggetti che tenevo stretti al petto, fasciati in un asciugamano. Tra essi, quello che cercavo disperatamente più di tutti di nascondere a mio figlio, che viveva temporaneamente in casa del maresciallo.
Il barattolo con le compresse di Triptorelin, il farmaco prescrittomi per il mio tumore.
Fu Anna a recuperare il barattolo da terra. Da mente brillante qual è sempre stata. ci mise un niente a capire perché ero a Spoleto. E il suo atteggiamento nei miei confronti mutò in un istante.
Non so perché ma rivelarle tutto, benché in pochissime parole, quella sera mi venne spontaneo. E fu anche liberatorio.
Rimase però sconvolta quando le feci capire che a Marco non avrei detto nulla, sebbene fosse per quello che ero originariamente venuto.
Era troppo tardi ormai. E se anche si fosse interessato a me, lo avrebbe fatto mosso da compassione, come sua madre quando la incontrai la prima volta. Non per altro.
Non potevo certamente sapere che quella conversazione avrebbe portato a ciò sarebbe successo qualche ora dopo.
Poco dopo la mezzanotte, Marco si presentò da me in albergo con un’espressione devastata in viso. Capii subito, ancora prima che me lo dicesse, che aveva parlato con Anna. E che se era lì, era perché lei lo aveva convinto a venire a parlarmi.
Quella sera, con parecchi anni di ritardo, diventai davvero padre.
E per la prima volta, probabilmente, riuscimmo a parlare davvero. Ad ascoltarci.
Mi raccontò di lui, di cosa era realmente successo con Anna. Non ci furono paternali quella sera da parte mia. Non ero nella posizione di farlo, contrariamente a quanto si potrebbe pensare. Perché il suo tradimento non era nemmeno lontanamente comparabile ai miei. Lui aveva sbagliato, ma senza reale intenzione. Io invece l’avevo sempre fatto con consapevolezza.
Soprattutto, a differenza mia, lui amava profondamente Anna, e non riusciva a perdonarsi per averle fatto male.
Mi disse anche di aver conosciuto Franco, anche se il loro rapporto non era idilliaco. Quel mio secondo figlio, secondo Marco, era la mia fotocopia. Non mi stupii dunque che non andassero d’accordo.
Parlammo per ore. Ci abbracciamo - cosa che non ho probabilmente fatto mai con lui prima di quella sera.
Facemmo il primo passo.
La strada per ricucire le ferite - o perlomeno provarci - era ancora lunga, ma lo step più difficile lo avevamo superato. E tutto per merito di quella ragazza che oggi è diventata mia nuora.
 
Quella ragazza vestita di bianco intenta a ballare con il maresciallo sulla pista di fronte a me, mentre con loro girano sulle note di un valzer anche altri due ballerini: Elisa e Marco.
Poche ore fa, mio figlio si è finalmente sposato. Con la donna giusta. Con la sua Anna. E io non posso che osservarli volteggiare felici sulle note della festa dedicata a loro.
Anna sta sorridendo tra le braccia del maresciallo, che lei realmente considera un padre, come ho avuto modo di scoprire col tempo. E vedere la gioia di tutti i presenti mi fa capire quanto questi due esseri umani siano speciali. Come il loro impatto sulla vita della gente abbia fatto e faccia la differenza. E io ne so qualcosa in prima persona.
Non ho mai ringraziato sufficientemente Anna per quello che ha fatto per me e mio figlio. Nonostante dopo quel giorno io abbia fortunatamente avuto modo più volte di vederla.
Ci era voluto del tempo perché la sua strada e quella di mio figlio tornassero a incrociarsi, fino a portarli qui.
Negli anni passati, dopo l’incidente in cui aveva quasi perso la vita, le cose tra lei e Marco avevano preso a migliorare. Diventarono ben presto uno la medicina dell’altro, nonostante il dolore che si erano procurati l’un l’altra. E insieme, senza rendersene conto, si curarono vicendevolmente le ferite, fino a guarire.
Mentre a tutti andavano ripetendo di essere solo amici, era evidente che invece non lo fossero. Ma nonostante glielo si facesse notare, testardi, continuavano a ripetersi quella bugia.
Io smisi di intromettermi tra loro, di evidenziare che gli amici non si comportano così come facevano loro, soltanto quando avevo scoperto che il tumore era tornato.
Non ero impreparato, sapevo che poteva succedere e sfortunatamente era successo. Ma non ero più solo. Avevo accanto a me entrambi i miei figli. Non era idilliaco il mio mondo, ma era perfetto a modo suo.
A trovarmi, nel periodo di cure, veniva spesso anche Anna. Per quanto indecifrabile, in quel periodo presi a capire più cose di lei. Prima fra tutte che la sua storia con quel nuovo ragazzo che aveva avuto dopo mio figlio non era durata. E non molto dopo che era ancora innamorata di Marco, anche se non voleva ammetterlo.
Con ragione, del resto. Non sono mai stato vittima di un tradimento, sempre e solo carnefice, ma ho visto il dolore che può arrecare, indipendentemente dal motivo e dall’intenzionalità del gesto. E so che anche il dolore, nella vita, serve.
Serve a capire quali sono le cose importanti, quali sono le persone di cui non puoi fare a meno. Ed è servito anche a lei.
Tutto è divenuto ancora più chiaro quando ha smesso di venire a trovarmi insieme a mio figlio. Marco aveva allora iniziato a frequentare una nuova ragazza, nel tentativo di lasciarsi il passato alle spalle. Ma non la portò mai con sé, non la conobbi mai. Lì capii che lei - Anna - aveva capito cosa voleva. Chi voleva. Ed era solo questione di tempo perché se ne rendesse conto anche mio figlio. Perché era lampante come quella nuova storia anche per lui non avesse le giuste fondamenta. Come fosse un modo per cercare di dimenticare cosa volesse il suo cuore. Ma il cuore non accetta imposizioni, e batte, batte, finché non ottiene di essere ascoltato.
Non fui stupito di scoprire che erano tornati insieme, poco tempo dopo. E che sarebbero finalmente convolati a nozze a breve.  
“Le va di ballare con me?”
La voce melodiosa di mia nuora mi riporta al presente, nella sala dove si sta celebrando l’amore che la lega a mio figlio. Non mi ero reso conto di essere rimasto solo con i miei pensieri, finché non mi ha interpellato.
Accetto la mano offertami con gioia e sollievo. Non ho più le forze di un tempo, la malattia mi sta lentamente consumando, ma non potrei mai rifiutarle un ballo, dopo tutto quello che ha fatto quel giorno, contro ogni logica, perché non era tenuta ad aiutare mio figlio, né tanto meno me.
Ma l’amore non è logico. Ci ho messo una vita a capirlo, perché io invece ho sempre cercato di spiegare ogni fenomeno con razionalità, di dare una forma all’inconscio. Senza rendermi conto che l’amore è il più complesso dei sentimenti, e proprio per questo non lascia scampo, quando è vero.
Ed è altrettanto vero che amare ci priva completamente di ogni difesa, ci rende vulnerabili. Ma non sempre è una debolezza.
Ma non l’ho imparato dai libri. L’ho imparato osservando mio figlio e mia nuora.
Che si sono amati fino a farsi male.
E si sono amati fino a curarsi. 
 

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Capitolo 4
*** Black... - Sergio (parte 1) ***


BLACK...
 
In amore vince chi fugge solo se qualcuno lo insegue.
- Roberto Gervaso
 
 
Nebbia.
Un enorme banco di nebbia.
È la definizione più adatta per descrivere la mia vita.
Qualcosa di indefinito, benché frutto di scelte consapevoli.
Scelte talvolta giuste, ma molto più spesso sbagliate.
E in quella nebbia, ho corso, mi sono mosso, ho vissuto.
Perché alla fine la vita è un viaggio imprevedibile. Non sai prima come andrà, né come finirà. Ma soprattutto non sei tu a scegliertela.
Lo dicevano anche in quel film famoso, quello dove anche il protagonista non faceva altro che correre, “Forrest Gump”: ‘La vita è come una scatola di cioccolatini: non sai mai quella che ti capita.
E a me è capitata una vita grigia. Come la nebbia, appunto. Che, in qualsiasi modo cerchi di andare avanti, hai sempre il rischio concreto di andare a sbattere. Soprattutto perché la soluzione migliore sarebbe fermarsi, aspettare che si dissipi, e poi ripartire. Con giudizio, che a me è quasi sempre mancato. 
E sì, lo so, c’è sempre modo di cambiare, di cambiarla, la propria vita. Ma io ho deciso di non farlo. Perché cambiare costa fatica.
Per questo, nonostante dal grigio le mie scelte avrebbero potuto portarmi al bianco, sono sempre stato invece più incline a raggiungere il nero.
Quest’ultimo colore mi ha sempre attratto di più. In fondo, quando sei grigio il nero è più accessibile.
Al bianco - il bene, il giusto - aspirano tutti, anche se richiede fatica, sacrificio, mantenerlo immacolato.
Il nero invece no. Basta un niente per raggiungerlo. E comunque tramite il nero puoi ancora – volendo - aspirare al bianco, se tutto intorno a te cerca di condurti lì. E facendo anche meno fatica, se sei disposto ad accettare dei compromessi, dei rischi.
E io ho sempre accettato di correrli.
Perché quando non hai niente, anche la più piccola cosa diventa un’acquisizione enorme e al contempo non puoi perdere niente.
Così spericolatamente nella nebbia mi sono mosso, tramite azioni consapevoli e volute. Tutte. Nel bene e nel male.
Perché quando sei grigio, in te possiedi sia il bianco – il bene – che il nero – ovvero il male. E sei capace quindi di essere buono, ma anche cattivo.
E se uno dei due ‘non colori’ tende a primeggiare, puoi allora essere un grigio un po’ più scuro o uno un po’ più chiaro, ma resti sempre un grigio.
Io sono proprio così: capace di tutto e il contrario di tutto.  Capace di correre verso il bene, ma anche – e più spesso – verso il male.
E non ho fatto mai nulla per cambiare tutto questo.
Perché la differenza, vera, alla fine, la fa la volontà.
E io volutamente ho intrapreso delle strade invece di altre.
Io ho sempre scelto di proposito la strada sbagliata, quella meno faticosa, per raggiungere la meta, invece di quella in salita.
E questa è stata la mia vera condanna.
Non gli anni in prigione, dove sono stato volontariamente, pensando al bene di mia sorella, ma non a quello della ragazza che amavo.
Non l’etichetta di delinquente, che avrò per sempre attaccata addosso agli occhi delle persone, nonostante la mia ‘innocenza’.
No.
La mia condanna l’ho voluta io, per me, ogni qualvolta ho deciso di non fare la scelta giusta. 
Nemmeno quando, in quella vasta ed infinita scala di grigi che si trovano tra il bianco e il nero della mia vita, ho incontrato persone pronte ad aiutarmi a prenderla. Pronte a condurmi verso la strada più difficile e a spiegarmi che il gioco, alla fine, vale la candela.
Non nego infatti che ogni persona incontrata lungo il cammino della mia vita ha provato a trascinarmi verso il bianco, a modo proprio. E nemmeno nego il fatto di avergli permesso, passivamente ed erroneamente, di farlo.
Perché come ho detto prima al bianco puoi arrivare anche passando per il nero, seppur con dei rischi. E io più spesso ho seguito le indicazioni di chi conosceva questa strada, invece dell’altra.
Oggi, in parte, mi consola il fatto che nessuna di quelle persone sia mai riuscita a conseguire pienamente l’intento di portarmi verso il bianco passando per il nero. In altre parole, mi consola sapere di avere ancora un briciolo, seppur piccolo, di coscienza.
Ma il problema fondamentale in tutto ciò è che non sono arrivato al bianco nemmeno per l’altra strada. Non sono mai diventato un ‘santo’, come a volte invece lascio credere.
Sono rimasto sempre nel limbo dei se e dei ma.
Dei potevo essere, ma non sono.
Per scelta.
Continuando a correre nella nebbia, a discapito di me stesso. Rimanendo grigio.
Un giorno, però, ho iniziato a sperare, in un angolo recondito di me, che qualcuno mi seguisse. Che qualcuno provasse a correre con me, o meglio che provasse a trascinarmi un po’ più convintamente degli altri verso il colore giusto. Perché da solo sapevo di non esserne capace.
Perché da solo non ci sarei mai riuscito.
Sarei. Condizionale.
Perché la mia vita oggi, seppur ancora grigia, è un po’ più chiara di prima.
Perché nella fitta nebbia, qualche anno fa, un raggio di luce ha cercato di aiutarmi a trovare l’uscita.
Un’uscita che non ho ancora raggiunto, ma che mai avrei cercato da solo.
Perché sono sempre stato troppo impegnato a scappare per accorgermi che essa fosse più vicina del previsto. Perché quell’uscita c’era già - anche se non lo ‘sapevo’ - prima che io decidessi di entrare volontariamente in prigione nove anni fa…
 
Si sente spesso raccontare come l’esperienza del carcere finisca inevitabilmente per cambiare le persone. Per segnarle.
È una concezione piuttosto semplicistica, dal mio punto di vista, se si tiene conto del fatto che le persone ci possono finire per svariati tipi di condanne, per reati commessi più o meno volontariamente.
La stragrande maggioranza è consapevole di cosa ha fatto quando varca quella soglia. In fondo, un’azione punita con una condanna è sempre frutto di una volontarietà, checché se ne dica.
Certo, esistono anche persone condannate per illeciti mai compiuti, ma loro sono vittime di errori giudiziari. È un altro discorso.
Io tuttavia non rientro in nessuna di queste categorie.
O meglio, non ci rientravo la prima volta che sono finito in carcere.
Questo non esclude però il fatto che quell’esperienza mi abbia segnato, né che io, in cuor mio, non abbia sperato fortemente di non viverla più.
Perché se sono sopravvissuto dietro le sbarre della mia cella, la prima volta, non è certo perché ero forte come ho sempre cercato di dimostrare.
Né tantomeno dopo essere uscito ero certo non ci sarei più tornato perché sicuramente avrei cambiato la mia vita.
Per carità. Lungi da me, troppo ‘faticoso’.
No, io ci speravo perché quando realmente ci sarei potuto finire in carcere, l’avevo sempre fatta franca, e mi ero lasciato convincere da Renzo che ci sarei riuscito ancora, se mi fossi trovato di nuovo nei guai.
Ma la vita non va mai secondo i piani.
Neanche quelli ben congegnati da un super genio della tecnologia come il mio ‘padrino’ Cicogna.
Perché all’ultimo minuto basta un secondo, un niente, per cambiare idea, per cambiare strada e mandare tutto all’aria. Un bagliore di bianco - di coscienza.
E quel cambio di rotta può essere quello giusto, ma essere al contempo sbagliato. Perché la nuova scelta arriva troppo tardi.
A quel punto, a te, codardo, non resta che scappare dalle tue responsabilità per l’ennesima volta. Correre e sperare di fuggire un passato che inevitabilmente porterai sempre con te, fino a farti credere che è destino che tutto nella tua vita debba sempre andare male.
Arreso a questo pensiero, infine, ti adeguerai.
Io l’ho fatto.
Piangendomi sempre addosso. Facendomi passare per vittima – sempre –, pur sapendo di essere tutto fuorché quello.
Perché io - Sergio La Cava - non sono vittima del mio destino.
Io sono il carnefice della mia storia.
 
Sono nato e cresciuto a Spoleto.
La mia famiglia è originaria di qui. E a Spoleto vive ancora mia sorella, quel poco di famiglia che, nonostante tutto, mi rimane.
Per questo sono tornato qui dopo gli anni di carcere a Perugia - oltre che per un altro piccolo motivo.
Non ho mai avuto una vita agiata, nemmeno da bambino. In fondo, la mia era una famiglia comunissima.
Mio padre era operaio in una fabbrica produttrice di componenti meccanici per motociclette. Era un grande amante dei motori, soprattutto di moto, di qualsiasi tipo e cilindrata. È da lui che ho ereditato la passione per le stesse e la meccanica.
Mia madre invece era casalinga. Provò più volte a convincere mio padre che anche lei poteva contribuire al mantenimento della famiglia trovandosi un lavoro, ma non ha mai fatto breccia.
Mio padre, vecchio stampo, viveva ancora nell’idea bigotta che la donna dovesse stare tra le mura domestiche ad occuparsi dei figli. E così noi ci siamo sempre adeguati a vivere con quel poco di stipendio da operaio che portava a casa.
Non mi pesava la cosa, non aspiravo alla ricchezza. Non da piccolino, insomma. Certo, crescendo ho dovuto fare rinunce, ma mi andava bene così. Anche perché avevo imparato in fretta metodi alternativi per avere le cose che mi piacevano e non potevo permettermi.
Mia sorella invece, nella vita, aveva altri piani rispetto a me.
Sabina, quattro anni più grande di me, è sempre stata il mio opposto.
Lei, figlia perfetta, l’orgoglio dei nostri genitori, studentessa modello con un brillante futuro davanti a sé - certo, senza considerare le idee di mio padre.
Io, il figlio minore, l’incubo di genitori e professori, il ragazzo che non sarebbe mai andato lontano nella vita – e col senno di poi, senza troppe sorprese, avevano ragione.
 
Da piccoli, quel nostro essere profondamente diversi, ci portava – come capita tra fratelli – a non andare quasi mai d’accordo. Ma questo non significa che ci volessimo meno bene.
Oggi, nonostante tutto, ringrazio quelle nostre continue discussioni. Perché fu durante una di quelle stupide liti tra fratelli, in piena fase adolescenziale, che mi accorsi, per la prima volta, che qualcosa in mia sorella non era ‘normale’.
Inizialmente i suoi continui sbalzi d’umore vennero etichettati dai miei genitori come il semplice frutto della pubertà.
“È una fase”, dicevano. “Le passerà”.
Io, appena dodicenne all’epoca, gli credetti. Cosa potevo saperne di come stavano le cose, della pubertà e di come vive l’adolescenza una ragazzina di quasi sedici anni?
Nel tempo, però, presi a notare che i suoi sbalzi d’umore andavano aumentando. La ‘fase’ non sembrava una semplice fase, bensì qualcosa che sarebbe continuato anche superata la pubertà.
Ne divenni pienamente conscio il giorno che la trovai rannicchiata in un angolo della sua stanza, tremante e piangente, incapace di dirmi perché lo stava facendo e cosa l’avesse resa così vulnerabile.
In quel momento, quel giorno, il nostro rapporto è cambiato per sempre.
I ruoli si invertirono quella sera d’autunno. Divenni in qualche modo io il maggiore tra i due, quello destinato a prendersi cura dell’altro. Un ruolo a me sconosciuto, che non ho saputo mai affrontare pienamente, nemmeno nei confronti di Sabina, visto come è andata a finire.
Tuttavia, quella sera mi fece promettere di non dire a nessuno - e ai nostri genitori men che meno - di quell’evento. Da allora, fino a qualche anno fa, rimase un segreto tra noi.  
Per molti anni, sono stato l’unico a sapere che mia sorella soffre di attacchi d’ansia e panico, che durano anche svariato tempo. Crisi nervose che sono state portate allo stremo dal pianto di mio nipote nove anni fa, e non sorte dopo l’incidente come tutti credono.
Mia sorella era già instabile, malata, quando Lorenzo ha perso la vita.
Sabina ha sempre rifiutato di ammetterlo agli altri. Riteneva che tutti l’avrebbero giudicata e additata come una pazza. Non era pronta a vivere una vita di prese in giro. E io, vedendola spesso preda di quei terribili mental breakdown, non vidi altra scelta se non di aiutarla, come lei voleva. Silenzio. Senza dire niente a nessuno. Fin dall’inizio. Stare zitto e farmi gli affari miei dopotutto era una cosa che mi riusciva particolarmente bene.
Fino a prendere quella scelta che mi ha cambiato la vita per sempre.
Le sue crisi hanno subìto variazioni nello spazio e nel tempo. Alcune erano brevissime, altre richiedevano infiniti minuti prima che si tranquillizzasse. Capitava poi non ne avesse per settimane, talvolta mesi. Altre volte si verificavano a distanza di pochi giorni, o addirittura ore.
Dopo il primo ‘crollo’, Sabina prese a chiamarmi ogni volta che ne aveva uno. Non so come facesse, onestamente, ad avere quell’istante di razionalità per premere il tasto delle chiamate rapide che riportava a me. Ma lo faceva.
E ogni volta mi inventavo un modo diverso per distrarla, per tranquillizzarla, per aiutarla a coprire la realtà agli occhi degli altri.
Una passeggiata, nel parco lontano da casa, perché non dovevamo far scoprire a nessuno del suo problema e i vicini erano dei gran pettegoli.
Una storia delle mie, terribile perché non so raccontare le favole, ma almeno funzionava a farla ridere.
Un incontro letterario, che io odiavo, ma lei amava tanto.
Insomma, ero disposto anche a fare cose che non sopportavo, pur di evitarle quei terribili momenti.
 
Ad uno di quegli incontri, nel suo ultimo anno di scuola, Sabina conobbe Alfiero Spada - il suo futuro marito.
Figlio di un noto gioielliere spoletino, Alfiero aveva terminato il liceo l’anno prima ed era a quell’incontro letterario perché anche lui amante di quel tipo di eventi. Aveva studiato in un istituto privato, per cui non lo avevamo mai incontrato prima di allora. Mia sorella rimase subito affascinata da lui.
Quando mi disse di aver incontrato un ragazzo, al ritorno, presi a fare il fratello apprensivo, soprattutto perché io, come al solito annoiato a morte, a nemmeno metà evento ero uscito a fumare una sigaretta – il contro-segreto su cui mia sorella non fiatava con i miei genitori – e solo di ritorno a casa scoprii la cosa. E non lo vidi fino al successivo evento a cui presi parte con Sabina. Inutile dire che da quel giorno presi a tenerli d’occhio come un falco fa con la sua preda.
Con gli anni – e per via del segreto - ero diventato infatti sempre più protettivo nei confronti di mia sorella. E non mi importava se Alfiero venisse da una famiglia di tutto rispetto, con un sacco di soldi, e i nostri genitori avrebbero – ed hanno - approvato quella relazione senza battere ciglio. L’istinto di proteggerla era ormai insito e non badava ai soldi nel portafoglio.
Mi ripetevo che il fatto di essere ricco non lo rendeva necessariamente un bravo ragazzo. Che non bisogna per forza sempre credere agli stereotipi e dare tutto per scontato. Che dietro la facciata, poteva nascondersi una natura diversa.
Ma Alfiero lo era veramente, un bravo ragazzo. Mai uno sgarro. Nessun particolare vizio. Tutto casa e chiesa, come si suol dire. Era stato uno studente modello come Sabina e aveva davanti un futuro radioso per sé e la compagna che avrebbe sposato – che per fortuna di mia sorella, fu poi lei.
 
E se Alfiero fuori e dentro era un bravo ragazzo e lo rimase crescendo, lo stesso non si poteva e può dire di me.
Ho sempre girato in compagnia di ragazzini non proprio raccomandabili. E crescendo ho mantenuto il vizio, frequentando e fidandomi di persone conosciute in carcere piuttosto che chi di legge vive ogni giorno.
Ho imparato come ottenere le cose anche quando non potevo permettermele che ancora andavo alle scuole medie. I miei piccoli reati, in breve, ho iniziato a commetterli presto. Qualche furtarello, perlopiù. Roba di poco conto, niente di così grave da farmi andare in galera.
A diciassette anni, per dovere di cronaca, ammetto di aver rubato un’auto, per via di una scommessa vinta con degli ‘amici’, ma la bravata – come ero riuscito a farla definire - mi costò solo una denuncia, perché l’auto alla fine l’avevo pure riportata al proprietario.
Insomma, in un modo o in un altro, l’ho sempre fatta franca.
Ma se la fortuna aiuta gli audaci, a tirare troppo la corda, prima o poi questa si spezza, anche se non è detto sia comunque per colpa tua. E nel mio caso, quando si è rotta, per una volta – destinata a rimanere l’unica della mia vita –io ero innocente
Galeotti gli incontri letterari, mia sorella ed Alfiero si sposarono qualche anno dopo essersi conosciuti. I miei genitori approvarono quella relazione fin da subito, e con mio stupore anche la famiglia Spada lo fece, sebbene non vedessero di buon occhio il sottoscritto, per legittimi motivi devo comunque ammettere. Dopotutto, non avevo una gran reputazione e non facevo niente per migliorarla.
 
Mentre la storia tra Alfiero e Sabina salpava col benestare di entrambe le famiglie, pur rimanendo con mia sorella sempre in contatto per ogni emergenza, divenuto maggiorenne iniziai a prendere le distanze dalla mia famiglia, di sangue ed acquisita.
Non sopportavo il dovermi continuamente paragonare ad Alfiero e suo fratello Egidio, sempre perfetti e tirati a lucido peggio dei preziosi della loro gioielleria, mentre io non valevo manco come un ferro vecchio.
E non sopportavo nemmeno come gli Spada guardassero me e in parte la mia famiglia – esclusa Sabina – dall’alto in basso, come se fossimo dei pezzenti alla ricerca di denaro, mentre loro sguazzavano, letteralmente, nell’oro.
Il rapporto con la mia famiglia e soprattutto quello con mia sorella andarono ulteriormente allentandosi dopo il matrimonio di quest’ultima con Alfiero. Nell’anno antecedente le nozze, le crisi di mia sorella presero a diminuire e la cosa non poteva che rallegrarmi. Vederla felice, seppur con qualcuno che personalmente non approvavo e a cui non stavo simpatico, era la cosa più importante per me. Conscio del fatto che sembrasse stare meglio, e che da lì a poco ci sarebbe stato suo marito al suo fianco per proteggerla e aiutarla, presi la mia strada lontano da quel ‘nuovo’ mondo in cui io non c’entravo nulla.
Dopo il matrimonio in pompa magna di mia sorella, rividi lei e la mia famiglia solo alla nascita del mio primo nipote, Stefano. All’epoca, Sabina era giovanissima, ma aveva tutto l’aiuto necessario per crescere quel bambino destinato a portare alto il nome degli Spada. Mia sorella non aveva più bisogno di me, nemmeno per custodire il suo segreto, giacché quel suo nuovo status sociale sembrava aver curato i suoi attacchi di panico. Magari la tranquillità economica le aveva garantito anche quella mentale, e mi stava bene.
Dopo la nascita di Stefano continuai a vederli ancora, ma abbastanza sporadicamente. Andavo d’accordo con quel mio nipotino, un bambino molto tranquillo ma super curioso. Ci divertivamo insieme, ero bravino come zio. Ciononostante, quello non era il mio posto. Non mi sentivo a casa. Ed era meglio, per tutti, che io frequentassi gli Spada il meno possibile.
 
Lontano da casa, ma pur sempre nei dintorni di Spoleto, presi a vivere la mia vita come volevo io. Superata la maturità con il minimo indispensabile, quello straccio di diploma come perito meccanico mi permise di trovare lavoro – quello legale diciamo – presso l’officina del padre di un mio amico.
Le cose si misero pian piano su un apparente buon binario per me, il giorno che incontrai Irene. Eravamo due ragazzini di diciannove anni, senza un soldo in tasca e una comune passione per le moto.
Ci conoscemmo una mattina di inizio settembre, quando venne a portare il suo motorino all’officina per un problema al motore.
Mi colpì subito quell’aria solare e il sorriso radioso. Ci misi più del necessario per aggiustarle il motorino, con il solo intento di poterla rivedere, dato che finché il suo mezzo stava in officina, lei era costretta a tornare. E quando finalmente fu pronto – il padre del mio amico capì il giochetto e non la prese benissimo -, le proposi di fare un giro di prova.
Nonostante la mia bravura con i motori, il mezzo ci abbandonò per strada, alle otto di sera, sulla provinciale appena fuori Spoleto. Non avevo infatti tenuto conto della poca benzina rimasta all’interno del serbatoio e pur di far durare il giro il più a lungo possibile, avevo intrapreso un itinerario troppo esteso per il carburante a mia disposizione.
Appiedati, camminammo per circa un’ora, con il motorino da trascinare, fino alla prima stazione di rifornimento. E lì, galeotto, fu il chinotto.
Le offrii da bere la mia bevanda preferita - anche l’unica che potessi permettermi fin da allora. Non le piacque, lo notai subito, ma bevve l’intera bottiglietta comunque, con gli occhi sorridenti e rise a tutte le mie battute, anche se non facevano ridere e nonostante la serata rovinata.
In quel momento, sentii che forse per qualcuno ero adeguato, pur con tutti i miei difetti, pur senza una lira. Gli ultimi anni mi aveva insegnato che i soldi rendevano felici, e infatti l’unico infelice ed escluso ero rimasto io. Irene invece era squattrinata come me, eppure sorrideva sempre. Era felice. E in quelle ore passate insieme, anche io avevo contribuito alla sua felicità. E lei alla mia.
Per questo, quando la riaccompagnai a casa, non rimase stupita se la salutai con un bacio.
 
Iniziammo a frequentarci da lì a poco. Irene viveva da sola con sua madre, la signora Rosa, una donna semplice e alla mano, che seppure non mi vide fin da subito di buon occhio mi accettò comunque perché vedeva Irene felice.  
Rosa aveva cresciuto sua figlia da sola. Il marito se n’era andato di casa quando Irene era appena una ragazzina. Nonostante fosse molto giovane, non patì la sua decisione di andarsene. Meglio nessun padre che uno orribile, diceva.
Sua mamma, la signora Rosa, pare avesse avuto non poche discussioni con l’ex marito, prono ad alzare il gomito e non solo quello.
Profondamente simili, ma al contempo diversi, io ed Irene insieme funzionavamo. Per lo stupore un po’ di tutti, anche nostro a tratti. Qualcosa di lei mi rendeva meno grigio. È stata una delle poche persone che ha provato a portarmi al bianco attraverso la via corretta. E forse ci sarebbe riuscita, se non fosse successo cosa è successo.
E ci sono momenti in cui mi chiedo se quella scelta fatta per il bene di mia sorella, quella che pensavo fosse la più giusta, invece non sia stata la più sbagliata della mia vita. Cosa sarebbe successo, se nove anni fa avessi detto la verità? Se non mi fossi preso la colpa?
Non rinnego quella mia azione, probabilmente tornerei indietro e la prederei di nuovo. Perché nonostante tutto Sabina è stata sempre al mio fianco, anche quando tutti mi davano contro. Ma se quel giorno non fossi entrato in carcere, non avrei conosciuto Renzo, Irene avrebbe potuto dirmi ciò che solo quella lettera di sua madre ha poi potuto confermare e forse oggi la mia vita sarebbe meno grigia.
Ma non si può riavvolgere il nastro del tempo, si può ancora cambiare – si può sempre cambiare – ma io forse sono troppo pigro per farlo.
Per questo, oggi come allora, ho lasciato che la corrente mi trasportasse, sperando di trovare una mano tesa pronta a suggerirmi il da farsi.
 
Una decina di anni fa la mano tesa in mio soccorso me la offrì proprio Irene, quando ricevetti la notizia che i miei genitori erano morti in un incidente automobilistico.
Avevo da poco compiuto 23 anni, il proprietario dell’officina per cui lavoravo mi aveva licenziato dopo aver scoperto delle mie attività extra ed ero appena stato sfrattato dal mio appartamento perché indietro di qualche mensilità con l’affitto. Ero un fallito, ed ero praticamente rimasto solo.
Vedevo mia sorella e la sua famiglia raramente, loro preferivano non avere a che fare con me, chiedergli aiuto – economico e non solo – sarebbe stato inutile. In fondo chi si sarebbe mai voluto mischiare con gentaglia come me?
Passarono mesi dopo la morte dei nostri genitori, prima che Sabina tornasse a contattarmi. Vivevo a casa di Irene e sua madre, incapace di trovare un lavoro serio e di trovarmi un altro posto dove stare. Quel poco che ‘guadagnavo’ lo ottenevo tramite le mie solite attività poco lecite. Irene non ne sapeva nulla, ma penso avesse iniziato a sospettare qualcosa, quando sempre più spesso sparivo di sera tardi e tornavo a notte fonda.  In ogni caso non diceva niente di quelle mie uscite, se anche lo avesse capito e saputo.
Mi stava accanto, nonostante fossi solo un peso per lei e per sua madre, che vivevano come potevano, con quel poco denaro che portavano a casa. Mi amava più di quanto meritassi. Forse anche per questo sperava io metessi la testa a posto prima o poi. Vedeva qualcosa in me, che io non vedevo. E dopo di lei solo un’altra persona l’avrebbe fatto. Io come un cretino, le ho ferite entrambe.
Quando squillò il telefono, quella sera di inizio aprile, non mi aspettavo di sentire all’altro capo mia sorella, né tantomeno di sentirla preoccupata. Era a casa da sola con mio nipote. Mio cognato era a una fiera fuori città. Da qualche giorno si sentiva poco bene, aveva un ritardo e per questo aveva fatto un test di gravidanza. Positivo.
La sua voce tremante mi ricordò subito quella tipica dei suoi attacchi di panico.
Stefano era già grandicello, non era più abituata ad avere a che fare con un neonato e il pensiero l’aveva mandata in crisi. Rividi in lei la ragazzina preda dell’ansia, che aveva il mio numero in chiamate rapide, per qualsiasi emergenza.
Quella sera, dopo anni, tornò a usarlo. E lì capii che nonostante ci fossimo allontanati, eravamo comunque l’unica famiglia di sangue che rimaneva l’uno all’altra. E le famiglie nei momenti difficili devono stare unite.
Decisi che era venuto il momento di esserci nuovamente per lei. Perché solo io sapevo come calmarla quando aveva le sue crisi, ma soprattutto ero l’unico a sapere che ne soffriva.
Tutta la famiglia apprese con gioia della gravidanza di mia sorella. Anche Irene lo sapeva, e avrebbe voluto incontrare Sabina, entrare in contatto con quel mondo da cui l’avevo fino ad allora tenuta alla larga, visto che sapeva che il mio passato famigliare non fosse roseo come il suo, ma le avevo sempre tenuto nascosto i dettagli. Non la presentai mai alla mia famiglia.
Irene è rimasto un capitolo della mia vita oscuro a Sabina e gli altri fino a qualche anno fa. Quando la verità – tutta la verità – è venuta a galla.
Nei mesi della gravidanza, mia sorella prese a chiamarmi spesso. Alfiero non era al corrente, perché se lo avesse saputo non lo avrebbe probabilmente permesso. Mi ha sempre visto come una minaccia alla sua famiglia e alla gioielleria. Il fratello delinquente di sua moglie. Non mi stupisce abbia creduto per primo alla balla che ho raccontato per proteggere Sabina quella mattina del 3 luglio 2013 che ha cambiato le vite di tutta la famiglia.
 
Quando nacque Lorenzo, fu subito chiaro che per Sabina sarebbe stato difficile: il nuovo arrivato non era come Stefano, ma piangeva in continuazione, sempre, giorno e notte, rendendo impossibile per mia sorella trovare il tempo di riposare.
Alfiero era sempre in negozio, o in giro per fiere con suo fratello, i suoi suoceri avanti con gli anni o troppo impegnati in altre attività di lusso per poter pensare di aiutarla. Sabina si ritrovava spesso da sola, con i bambini. Le crisi che erano riprese durante la gravidanza, peggiorarono. Di conseguenza, le telefonate tra noi aumentarono. La vedevo instabile, e sempre più spesso i tentativi di aiutarla non funzionavano. Provai anche a convincerla a chiedere un aiuto medico, specialistico. Ma lei non ne voleva sapere. Temeva la reazione di Alfiero. Temeva  che l’avrebbero allontanata dai bambini perché ritenuta pazza e incapace di accudirli. Rimasi allora in silenzio, come avevo sempre fatto.
E nel frattempo presi a ignorare Irene, a dedicarle sempre meno tempo e attenzioni. Per settimane tentò di parlarmi. Aveva qualcosa di importante da dirmi, ma io non avevo mai tempo. C’era Sabina che aveva bisogno di me.
Solo qualche mese dopo la tragedia che ha colpito la mia famiglia ho scoperto che anche Irene aveva bisogno di me. Non so perché non abbia insistito. Perché sia venuta a dirmelo solo dopo che già stavo in carcere. Quel giorno che venne a trovarmi fu la prima e unica volta in sei anni che ricevetti una visita. Era incinta, al sesto o settimo mese, non ricordo precisamente. Non mi disse molto, se non che ero io il padre. Quella fu anche l’ultima volta che la vidi.
Come ho già detto, mi domando spesso se le cose sarebbero andate a finire diversamente, quella mattina di luglio, se avessi saputo di diventare padre. Mi ripeto sempre che non sarebbe cambiato nulla, che anzi sarebbe stato peggio. Non prendendomi la colpa, oltre a un nipote avrei probabilmente perso anche mia sorella. E poi Irene. E io sarei stato – come sono – un pessimo padre.
Mi avrebbe mangiato il rimorso di non aver fatto nulla. Non ambivo a diventare santo, ma sotto l’aria da delinquente sapevo di avere un briciolo di cuore. E ho lasciato scegliesse chi, tra le donne nella mia vita, amavo di più.
Così quella calda sera di metà estate, quando giunto a casa di mia sorella l’ho trovata immobile, gli occhi sbarrati e privi di espressione, in cima alle scale, ho capito che era lei la persona che più amavo. L’unica persona che non mi aveva mai giudicato. Nemmeno nei pensieri. Mentre ero certo che nei suoi, Irene, lo avesse fatto spesso, e con ragione.
Quella sera Sabina era nel bel mezzo di una crisi di nervi, più fragile che mai, con poche ore di sonno alle spalle e nemmeno tutte consecutive.
Il suo sguardo fisso mirava verso i piedi delle scale stesse.
Seguii con i miei occhi quella rotta da essi tracciata e quello che vidi gelò il sangue nelle mie vene: il corpicino senza vita di mio nipote Lorenzo giaceva appena un metro più avanti l’ultimo scalino. Un incidente orribile.
Ancora oggi non so come siano andate effettivamente le cose.
So solo che quel giorno mi precipitai giù per le scale, cercando di capire se Lorenzo si potesse ancora salvare e che mentre ero chino su di lui, alle mie spalle sentii il rumore di un tonfo.
Mia sorella era crollata a terra, priva di sensi. Mio nipote Stefano era in camera che dormiva, o almeno lo credevo.
In quegli attimi, un solo pensiero passò per la mia testa: salvare mia sorella dalla verità di quanto accaduto. Non mi importava il pensiero degli altri. Loro già mi credevano un mostro, un delinquente. Gli avrei solo fornito un più che valido motivo per ritenermi tale.
Mia sorella invece non meritava di sapere la verità, di vivere con il peso sulla coscienza di aver ucciso suo figlio, anche se non volontariamente.
Sarebbe stata la fine per lei, se avessero scoperto cos’era veramente successo. O almeno, ero convinto che sarebbe stato così. Col senno di poi, non ne sono più tanto certo.
Per questo comunque mi presi la colpa.
Inscenai la finta rapina, spostando il corpo di mia sorella in fondo alle scale accanto a Lorenzo. Fuggii, non appena fatto scattare l’allarme, ma senza troppo impegno, con l’intento di essere trovato, ma rendendo il tutto il più credibile possibile. Ero consapevole che nessuno si sarebbe preso la briga di non credermi. I miei precedenti erano una garanzia più che sufficiente, ma non volevo lasciare niente al caso.
Al processo non si presentò nessuno della mia famiglia acquisita, né Irene. Non venne nemmeno mia sorella. Anche per lei ero diventato un mostro.
Il giudice del processo mi condannò a sei anni di carcere per i reati commessi.
Troppo poco agli occhi di tutti, anche ai miei. Ma non contava. L’importante era che Sabina fosse al sicuro. Il dolore non sarebbe mai andato via, ma aveva accanto suo marito e la sua famiglia, col tempo il peggio sarebbe passato.
A me quei sei anni dentro non toglievano niente. O almeno quello credevo al mio ingresso in carcere. Dopotutto, non ero innocente, la mia dose di reati impuniti l’avevo commessa, quindi volendo la mia pena era proporzionata a ciò che avevo realmente fatto negli anni.
Mi lasciavo alle spalle una ragazza che mi amava, e che amavo, ma a cui non potevo dare nulla nella vita che valesse qualcosa. Sarebbe stata meglio senza di me, che con me. Perché in fondo non ero diverso da suo padre. E per questo anche a lei avevo lasciato arrivasse la versione ufficiale dei fatti accaduti. Nessuno doveva sapere la verità.
Non mi aspettavo di vederla arrivare in carcere, qualche settimana dopo il mio ingresso, incinta di svariati mesi per farmi visita. Non mi disse nemmeno il sesso di quella creatura che portava in grembo. Ma ero io il padre. E quella notizia vanificava i miei pensieri precedenti. Perché per quanto possa far schifo come uomo, le avevo donato qualcosa che valeva veramente nella vita. Ma era tardi per tornare indietro. E così le dissi che non volevo saperne di quel figlio, che non volevo fare il padre. Se ne andò, in lacrime. Perché per quanto fossi già un mostro ai suoi occhi, forse credeva ancora che io potessi cambiare. E invece, avevo scelto la fuga. Anche nel momento in cui mi trovavo imprigionato tra quattro mura, incapace di spostarmi fisicamente.
 
A parte quella visita, i miei unici contatti umani sono stati stretti all’interno delle mura del carcere.
Sono sempre stato uno che si fa gli affari propri, che al bisogno sa dove mettere le mani e cercare il rispetto delle persone ‘giuste’, per cui riuscii a stringere amicizia con chi necessario anche dietro le sbarre.
Fra le tante, una persona su tutte ha fatto la differenza: Renzo Cicogna.
Un genio dell’informatica, uno di quei cervelloni che meriterebbe di stare al Cern e invece è finito dentro per truffa – anche se con una buona motivazione, dal mio punto di vista.
Nei miei primi giorni dentro, mi ha praticamente salvato la vita. È stata una presenza costante al mio fianco per gran parte della permanenza in carcere, ma anche nella vita. Mi ha insegnato più lui nei quattro anni come compagni di cella, di chiunque altro, forse anche più di mio padre.
Per questo mi sono affidato a lui, e a lui ho continuato a guardare e chiedere aiuto anche quando finì di scontare la propria pena e io venni trasferito al carcere di Perugia. Non importava si fosse interposta una distanza tra di noi, nei miei due rimanenti anni di pena, rimanemmo sempre in contatto telefonico – capivo la sua reticenza a venirmi a trovare in galera.
Nelle lunghe ore di tempo libero che ci eravamo ‘guadagnati’ finendo dietro le sbarre, Renzo mi aveva spiegato come fosse finito lì dentro e come pensava di risollevare la propria vita.
Mi raccontò che la truffa per cui era stato condannato l’aveva congegnata allo scopo di vendicare un torto subito da parte della sua ex compagna e un loro amico comune.
Con questi, infatti, Renzo anni fa creò la LuckyTec, una società informatica oggi conosciuta anche all’estero, e sempre insieme a loro aveva progettato un potentissimo antivirus, il cui brevetto è stato venduto in seguito per milioni di euro. Peccato però che la vendita sia avvenuta alle spalle di Renzo, estromesso dal guadagno che gli sarebbe spettato essendone il principale ideatore – stando alla sua versione.
Mentre mi raccontava la storia, vedevo il senso di impotenza di fronte ai fatti, e la sua voglia di rivalsa. Mi rivedevo in lui, anche se io non ero un genio incompreso. Però come Renzo sapevo cosa avevo perso, scegliendo di fare cosa ho fatto. E come lui, aspiravo a riprendermi la mia vita, una volta uscito. Quando le nostre strade si sono divise, Renzo mi aveva promesso che ci saremmo rivisti e che insieme ci saremmo ripresi quello che la vita ci aveva tolto.
Non rimasi quindi stupito quando mi disse di aver avviato una causa contro la LuckyTec appena qualche settimana dopo la sua uscita dal carcere. Era convinto l’avrebbe vinta e aveva deciso di condividere con me i guadagni di quella vittoria. Non so cosa vedesse in me, ma rimasi toccato dal suo gesto. Forse era convinto che, se avessi avuto le possibilità, avrei potuto far fruttare  il mio talento nella meccanica, ma la vita non era stata generosa con me, e quindi riteneva di dover fare qualcosa per quella ingiustizia gratuita.
Una settimana prima della mia definitiva uscita dal carcere per fine pena, però, Renzo mi chiamò dicendomi di raggiungerlo, appena mi fosse stato possibile, perché necessitava di parlarmi.
Non sapevo cosa volesse, ma ero felice di sapere che effettivamente - come promesso - c’era qualcuno ad attendermi là fuori. O meglio, più di una persona…
 
Una volta varcata la soglia del carcere per ricominciare la mia esistenza, tutto apparentemente era come prima che vi entrassi. Ma si sa, la calma precede sempre la tempesta. E la mia era solo un’illusione, solo che non l’ho capito per molto, molto tempo. Perché andarsene provoca sempre conseguenze.
Una volta lasciato il carcere a Perugia, la mia destinazione non poteva che essere Spoleto. Non è stato facile arrivarci, non avendo nemmeno un quattrino in tasca, ma un ‘metodo’ l’ho trovato comunque.
Due giorni dopo ero quindi nella mia città natale e grazie anche a Renzo, avevo pure un ‘tetto’ sotto cui ripararmi: un vecchio camper, tutto sgangherato, di proprietà della sua compagna Serena, era infatti la mia nuova casa.
Non avevo previsto di rientrare a Spoleto dopo la mia uscita di prigione. Non c’era posto peggiore per me, soprattutto perché tutti in città sapevano cosa avevo fatto. Se agli occhi della Legge ero ora un uomo libero, a quelli della gente restavo e sarei restato un mostro.
Tre cose mi legavano però ancora a questa città, e mi richiamavano: Renzo, mia sorella Sabina e uno scricciolo di 6 anni…
Va detto che il mio rientro a Spoleto è stato tutto fuorché quello che mi aspettavo. Non pensavo, infatti, che appena tornato, avrei avuto un incontro ravvicinato con una pistola, impugnata per altro da mio nipote Stefano, pronto a farmi fuori. E quell’incontro è stato solo il culmine della giornata.
La giornata era iniziata andando a trovare il mio fedele amico Renzo, che dopo avermi condotto a visitare la mia nuova casa, aveva deciso – finalmente – di mettermi al corrente di quella cosa importante di cui doveva parlarmi.
Durante gli anni condivisi in carcere, avevamo avuto modo troppe volte di toccare argomenti delicati, ed ero d’accordo con lui nel pensare che, nel bene e nel male, una volta che sei stato dentro la tua vita è segnata per sempre. Ero conscio che una volta uscito sarei stato per sempre etichettato come un criminale, indipendentemente da quello che avrei fatto, e sapevo che per me condurre un’esistenza normale sarebbe stato pressoché impossibile.
E tutto questo lo pensava e sapeva anche Renzo, che comunque una volta fuori un lavoro era riuscito a trovarlo, sebbene degradante per un genio informatico come lui.
Per questo, fin da quei giorni rinchiusi insieme, ci eravamo posti l’obiettivo di dover trovare un’alternativa a quell’esistenza impossibile a cui ci avrebbero relegati, e conseguentemente trovare un modo per guadagnarci da vivere a modo nostro.
Premessa: i soldi facili mi sono sempre piaciuti. I piccoli furti che avevo fatto fin da ragazzino a quello puntavano.
Per questo, quando Renzo mi ha detto che aveva in mente un piano per fare tanti soldi col minimo sforzo, ho accettato subito. Dovevo anche sdebitarmi con lui per avermi salvato la vita mentre eravamo in carcere, avrei detto sì qualsiasi cosa mi avesse chiesto.
Ero disposto a tutto ormai. Tanto, dal carcere c’ero passato, sapevo come funzionavano le cose. Per un’accusa di omicidio e tentato furto avevo fatto solo sei anni. Quanto avrei mai potuto pagare se ci avessero scoperto? Qualche anno, poi sarei stato nuovamente fuori. Non avevo niente da perdere, non possedevo nulla. E Renzo aveva ragione: nel bene e nel male, eravamo segnati.
Apprese la mia decisione di aiutarlo con grande gioia. E solo a quel punto mi disse per filo e per segno cosa voleva fare: una rapina a un portavalori.
Non sapeva ancora quando, ma sapeva perfettamente come: in quei mesi aveva sviluppato un processore in grado di penetrare nei sistemi di sicurezza più avanzati. Stava finendo di perfezionarlo, ma non aveva dubbi sulla sua efficacia. Una volta inserito in un computer, il processore permetteva di avere accesso a distanza a tutti i dati presenti all’interno del pc su cui era impiantato. Ci voleva solo pazienza e abilità coi numeri per portare a termine il piano, e lui possedeva entrambe le qualità.
Ma per la riuscita completa dell’operazione, Renzo aveva bisogno anche di complici: uno per il giorno effettivo della rapina – che avrebbe trovato più avanti - e un altro in grado di entrare indisturbato in una delle caserme dei carabinieri della zona per impiantare il processore nel pc del superiore al suo comando, giacché è lì che arrivano i codici per sbloccare i portavalori in transito nell’area. In qualsiasi altro modo sarebbe stato inutile tentare di aprire il furgone, ma con quella serie di numeri, sarebbe stato un gioco da ragazzi.
Renzo aveva studiato tutto nei minimi dettagli e io ero la pedina mancante e di fiducia che avrebbe dovuto adempiere a quest’ultimo ruolo.
Avevamo tempo per portare a termine il lavoro, soprattutto perché Renzo nel mentre doveva terminare di sistemare il processore. Nei mesi successivi eravamo certi avremmo trovato la soluzione al come entrare nella caserma.
La cosa assurda, però, è che fu la soluzione a trovare me, la sera stessa, dopo aver lasciato casa di Cicogna diretto al mio successivo appuntamento.
Ammetto che mai mi sarei aspettato che il mio compito si rivelasse semplice come è effettivamente accaduto. Certo, gente da corrompere se ne trova in ogni settore, ma mi aspettavo sarebbe stato ben più complicato ottenere la fiducia di qualcuno all’interno di una caserma. Insomma, sono un delinquente, non troppo ex per altro.
Dopo aver lasciato casa di Renzo, la mia successiva destinazione doveva essere il cimitero di Spoleto. Avevo appuntamento con mia sorella, voleva parlarmi di una cosa importante anche lei. Sembrava scossa, ma non aveva voluto dirmi il perché. Ho cercato di non pensarci troppo, che forse voleva solo rivedere il mostro che le aveva portato via suo figlio, e per quello la sua voce non era “ferma”. Avevamo appuntamento alle ventidue, ma da Cicogna ci stetti solo fino alle venti. Decisi allora di impegnare il mio tempo festeggiando, anche solo con una birra o un chinotto, la mia ritrovata libertà.
Fortuna voleva che a due passi da Cicogna ci fosse un locale niente male, e quella sera fosse per di più aperto per una qualche festa.
Lasciai il locale verso le 21,30. Non ero ubriaco, ero riuscito a malapena ad acquistare un chinotto da bere. Però ero frastornato dalla musica e dalle luci a cui non ero più abituato e per questo subito non avevo fatto particolarmente caso ai due tizi incappucciati che nel parcheggio avevano bloccato una ragazza contro la portiera di un’auto, intenzionati a rapinarla, o peggio. Quando mi resi conto delle loro intenzioni, decisi di intervenire.
Ora, io non ero – né sono - uno stinco di santo, ma non mi sarebbe mai passato per la mente di aggredire una ragazza così. Mi misi quindi in mezzo e la aiutai a tirarsi fuori dai guai.
Una volta distratto il primo, infatti, lei era riuscita ad allontanare il secondo, ma si vedeva fosse molto scossa. La aiutai a risalire in auto e andai via, diretto al cimitero per incontrare Sabina, senza nemmeno presentarmi a lei.
 
La mattina dopo, mi sono svegliato disteso su un letto d’ospedale con una spalla fasciata, per via del proiettile che, qualche giorno più tardi, si scoprì essere stato sparato da mio nipote Stefano, presentatosi al posto di Sabina all’appuntamento.
Non che non me lo meritassi, giustamente mi riteneva responsabile di aver rovinato la vita non solo ai suoi genitori e familiari, ma anche e soprattutto a lui. Il mio ripresentarmi a Spoleto non deve avergli fatto particolarmente piacere e giustamente la cosa più sensata da fare era mandarmi al Creatore secondo i suoi piani. Eliminare il problema alla radice, insomma.
Non aveva tenuto, però, in conto che sarei potuto sopravvivere - che poi è quello che faccio quotidianamente.
Allo stesso modo però, nemmeno io avrei mai e poi mai potuto immaginare di incontrare nuovamente, sulla mia strada, la ragazza della sera prima.
Non in quel ruolo.
Non in divisa da carabiniere.
Di giorno, alla luce delle lampade, la prima cosa che notai di lei fu la sua impressionante somiglianza con Irene, nonostante la mia ex portasse gli occhiali e avesse i capelli di un altro colore. Per un attimo credetti persino di avere le allucinazioni. Ma mi ripresi in fretta, perché l’atteggiamento invece era totalmente diverso.
Mi riempì di domande su domande, cercando di capire che ci facessi in un cimitero di notte, e come mi fossi beccato una pallottola.
Ragionava bene lei, aveva collegato me ai miei cari parenti in un batter d’occhio, ma non poteva obbligarmi a rispondere, non in ospedale di certo.
Di fronte al mio silenzio in risposta alle sue domande, decise di agire per conto suo. A modo suo.
Ma prima di andarsene, mi aveva ringraziato per averla aiutata la sera prima, lasciandomi sorpreso. E siccome le sorprese non sono pane per i miei denti, ho ovviamente dovuto controbattere, sornione, che avessi saputo fosse un carabiniere, forse non mi sarei immischiato.
Non seppi resistere, negare che la trovassi carina – ma che dico, bella – sarebbe mentire. Sarà stata la somiglianza con Irene, il suo carattere chissà, ma ne rimasi affascinato.
Se nei sei anni in prigione di visite ne ricevetti solo una, nelle successive sei ore, in quella stanza d’ospedale, le visite furono anche troppe.
Oltre a quelle di cortesia dei carabinieri, a trovarmi venne, infatti, pure un prete, decisamente ficcanaso – e che venne poi a trovarmi parecchie altre volte, e non solo in ospedale. Il prete si presentò a me come Don Matteo, ed era venuto a trovarmi per sapere come stavo - essendo peraltro lui la persona che mi ha trovato ferito. Con sé aveva anche un foglietto a me famigliare, probabilmente cadutomi dopo aver ricevuto il colpo di pistola da mio nipote. Su quel foglietto avevo appuntato un indirizzo, ma non un indirizzo qualsiasi. Ero risalito alla via su di esso riportata grazie all’aiuto di Cicogna.
Non sapeva perché necessitassi di quell’informazione, non fece nemmeno domande quando gli chiesi di rintracciare dove abitasse Rosa Mariani.
La madre di Irene
Gli fui grato per non avermi fatto un interrogatorio. Perché non avrei saputo da dove iniziare a raccontargli che, a quell’indirizzo non viveva solo la signora Rosa, ma anche una bambina di circa sei anni.
Mia figlia.
Ines.
In una delle sue tante visite, il prete si presentò anche con una foto di me e Irene. Non mi aveva creduto quando gli dissi che l’indirizzo del foglietto non significava niente per me. Dinnanzi alla foto che aveva ritrovato a casa della signora Rosa ed Ines, non potei continuare a mentire. O meglio, a negare che fossi a Spoleto anche per via di Ines. Perché gli ho mentito su un paio di dettagli.
Non era vero che non sapessi di avere una figlia. Io sapevo che Irene era incinta. Però era vero che non sapessi lei fosse morta. Non ci eravamo più visti, né sentiti, da quell’unica volta in cui mi era venuta a trovare in carcere per dirmi di essere incinta. E quel giorno le ho anche spezzato il cuore, dicendole di non voler sapere nulla di quel figlio.
Non ero pronto a diventare padre. Non volevo diventare padre.
Non lo volevo nemmeno quando sono tornato a Spoleto una volta libero. Però volevo vedere la bambina, questo sì. Ero curioso di scoprire che faccia avesse quel piccolo essere umano che aveva avuto la sfortuna di condividere il mio stesso DNA.
Qualche mese prima della mia uscita di galera avevo ricevuto una lettera da parte della signora Rosa, in cui lei mi diceva di soffrire di Alzheimer e si rendeva conto di star peggiorando in fretta. Tra le righe della stessa, mi spiegava che Irene non c’era più, che una leucemia fulminante se l’era portata via due anni prima, lasciando la bambina alle sue cure. Mi diceva di come lei aveva fatto tutto il possibile fino ad allora per la piccola, ma con la memoria che l’abbandonava, si rendeva conto di non poterle più essere d’aiuto. In quella lettera tentava poi di convincermi ad assumermi le mie responsabilità di padre. Perché se Irene si era innamorata di me, a prescindere da ciò che avevo fatto dopo, forse qualcosa di buono in me c’era.
Anche per via di quella lettera ero tornato a Spoleto. Non perché credessi alle parole di Rosa, sulla possibilità di avere qualcosa di buono in me o perché fossi pronto a prendermi cura di Ines. No. In fondo, la piccola mi credeva morto. Così le aveva sempre raccontato la madre – e faceva bene – e non volevo cambiare la narrazione degli eventi.
Perché anche volendo provare, diciamocelo, che vita avrei potuto dare a quella bambina? Come diceva Renzo, una volta etichettato come criminale - come mostro nel mio caso, visto che per la Legge io avevo ucciso mio nipote di sei mesi senza pietà - sarei rimasto tale per sempre agli occhi di tutti. E avrei condannato una creatura innocente a una vita che non si meritava.
E poco importava – e cambiava - che nei giorni successivi la mia ospedalizzazione e il breve soggiorno in carcere con l’accusa di aver ucciso il fratello di mio cognato, la verità sull’omicidio del piccolo Lorenzo fosse venuta a galla.
Non ero più un mostro, perlomeno non per la Legge, visto che mio nipote non era morto a causa mia, ma per un tragico incidente causato da una delle crisi di nervi di mia sorella. Il mondo aveva scoperto che sei anni prima io avevo solo cercato di proteggere mia sorella, assumendomi la colpa di quanto accaduto al posto suo. Ora per molti ero quasi - ma solo quasi - un santo.
Un ragazzo che si era fatto sei anni di carcere senza aver commesso alcun reato. Una vittima innocente.
Tra chi riteneva io lo fossi, c’era anche lei.  Il Capitano dei Carabinieri di Spoleto. La ragazza che avevo salvato dai malviventi.
Testarda e ficcanaso come il prete, anche lei voleva che cercassi di recuperare il tempo perso con mia figlia, che decidessi di prendermi cura di lei. Io volevo solo andarmene. Chiudere quel breve capitolo. Ines l’avevo vista da lontano, bastava così. Avevo sanato la mia curiosità.
Però c’era il piano di Renzo da portare a termine. E quel giorno, fuori dal carcere, dopo il breve soggiorno insomma, c’era lei. Che per qualche motivo mi incuriosiva. Chissà che con quella testardaggine non sarebbe riuscita a farmi cambiare idea, tanto non avevo comunque niente da perdere. 
E così decisi di restare.
Nei successivi mesi a Spoleto mi inserii – sempre a mio modo - in quel contesto cittadino che, seppur mi aveva ‘cresciuto’ anni prima, a quel punto della mia vita mi era divenuto estraneo.
Necessitavo anzitutto di un lavoro, ma per un ex galeotto come me trovarne uno regolare era tutto fuorché facile. Provai dunque a ricominciare da dove avevo lasciato: come meccanico me la cavavo, in carcere avevo anche avuto modo di specializzarmi visto che il tempo non mi mancava e tornato alla città natia non vennero meno neanche le vecchie amicizie.
Ragion per cui, in brevissimo tempo, riuscii a farmi il mio giro di clientela possedente motorini ‘presi in prestito’, che io aggiustavo a prezzo ragionevole.
Un lavoro alla mia portata e alla mia altezza.
E tutto sarebbe andato liscio, se solo Anna non avesse continuato a mettersi in mezzo, tentando di convincermi a fare il padre e cercando di aiutarmi a trovare un lavoro vero, perché solo così avrei potuto cercare di rientrare in società.
 
Chiedere aiuto non è mai stato il mio forte. Accettare aiuto offerto, senza secondi fini, nemmeno. Perché fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio.
E la situazione si complica ulteriormente se ad offrirti una mano – la seconda in tutta la mia vita – è un Capitano dei Carabinieri.
Diventare ‘amico’ di Anna significava impugnare un’arma a doppio taglio, un’arma che avrebbe potuto aiutarmi a difendermi, ma allo stesso tempo avrebbe dovuto servirmi – e mi è servita - a essere nuovamente carnefice.
Perché accettando il suo aiuto, ho accettato di aprirmi una strada nuova davanti, la cosiddetta retta via, ma allo stesso tempo ho proseguito su quella che il mio padrino Renzo mi aveva offerto per primo. E una volta raggiunto il bivio, non ho saputo decidere in tempo quale imboccare e, neanche a dirsi, mi sono schiantato contro un muro inevitabile. Perché un grigio prima o poi deve decidere da che parte stare, altrimenti finisce come è finita a me.
Nei sette mesi post carcere a Spoleto, impegnai il mio tempo a ricucire le maglie della mia vita, prima controvoglia e lentamente, poi con la paura che il timer della bomba che sarebbe scoppiata raggiungesse lo zero.
Perché mentre io cercavo di capire cosa fare con mia figlia, scoprivo giorno dopo giorno, mese dopo mese, di più su quella ragazza che non capivo, ma mi affascinava.
Il detto “mai giudicare un libro dalla copertina” è quanto mai azzeccato per Anna Olivieri. La sera in cui l’ho aiutata a liberarsi dei malviventi mi era apparsa come la tipica fanciulla da salvare. E nemmeno scoprirla carabiniere aveva variato quella mia prima impressione, anzi. Semmai, mi aveva convinto del fatto che fosse una arrivata a quel posto di comando chissà come. 
Nelle settimane passate però a conoscerci, mentre rimettevamo in sesto il vecchio Maggiolino a cui lei teneva molto per qualche ragione a me inizialmente sconosciuta, scoprii che dietro alla facciata c’era molto di più.
Anzitutto una realtà da cui rifuggiva.
Mi ci è voluto qualche tempo per capire cosa la spingesse a buttarsi a capofitto nel lavoro e nella causa persa di convincermi a essere padre di mia figlia con tanta insistenza. Era quasi come se volesse estraniarsi, non pensare. Dedicarsi a cose che l’avrebbero allontanata da una realtà diversa da quella che stava vivendo. Perché era sempre più evidente la sua voglia di fuga. Nessuno meglio di me sa riconoscere quella necessità insita di scappare davanti a eventi non congeniali.
Ogni tassello del puzzle è andato al suo posto quando ho iniziato a conoscere gli altri personaggi di quel mondo bizzarro che le ruotavano intorno, in particolare il PM Marco Nardi, l’uomo che mia figlia si era scelta come tutore legale e che fin dal nostro primo incontro era stato particolarmente ostile nei miei confronti.
L’uomo causa della realtà da cui lei fuggiva.
Lo scoprii per caso un pomeriggio, quando dal garage risalii all’appartamento di Anna per informarla che avevo finito di sistemare il suo Maggiolino.
Non pensavo di trovarla in quello stato: in lacrime, con la porta spalancata e bisognosa di una spalla a cui appoggiarsi. Ai miei occhi - escludendo quella prima sera al parcheggio - era sempre stata forte e determinata, quindi quella visione mi aveva spiazzato.
Mi ci vollero svariati minuti per calmarla, per placare quel pianto liberatorio che evidentemente teneva dentro da troppo tempo. Solo una volta quietate le lacrime ero riuscito a capire cosa era successo.
Ci sarei dovuto arrivare da solo, a capire che c’entrava Marco. In effetti non poteva essere altrimenti, col senno di poi.
Fin da subito avevo percepito che quella tensione, palpabile nell’aria quando li si vedeva assieme, non era casuale ma nascondeva un passato assieme. Un passato finito, però, perché poi era successo qualcosa che aveva provocato la rottura tra loro.
Anna non era mai scesa nei particolari. La sera prima si era ‘aperta’ a un limitato “Le cose non vanno mai come vorresti”, ma niente più di quello.  Ero certo comunque che il motivo della loro separazione avesse aperto una nuova cicatrice in lei, profonda quanto quella che le aveva lasciato la perdita di suo padre. Non lo ammise ad alta voce, vero, ma non ci voleva un genio per capirlo, sicuramente non dopo averla vista piangere in quel modo. Certo non dopo aver sentito lo stesso Marco, il giorno prima, farle quella dichiarazione, quando pensava sotto l’auto ci fosse lei e non io.
Qualunque cosa fosse successa tra loro, comunque, quel pomeriggio era riemersa e lei si era lasciata travolgere dal fiume in piena.
Senza capire come, in quel fiume, divenni l’unico appiglio disponibile per Anna per non affogare, per non cadere a terra, come la borsa che stava ai suoi piedi e che avrebbe raggiunto se non fossi arrivato io.
Ma mentre mi si gettava tra le braccia, in un abbraccio singhiozzante e silenzioso che gridava aiuto, colmo di autentica disperazione, un’idea perfetta quanto orribile mi attraversò la mente.
Il tassello mancante del puzzle, quello che avrebbe permesso a Renzo e me di mettere in atto il nostro piano aveva assunto in quell’istante la forma di una ragazza con il cuore spezzato.
Una ragazza fragile, che aveva bisogno di qualcuno che l’ascoltasse, che provasse a lenire il dolore di un amore finito male, se non malissimo.
Una ragazza che aveva bisogno anzitutto di un amico, di qualcuno in cui riporre la fiducia che aveva perso.
E io mi trovavo nel posto giusto al momento giusto.
Non le avrei fatto del male, mi sarei solo ripreso quello che mi era stato tolto.
Era un piano diabolico quanto eccellente.
Tuttavia, non avevo considerato alcuni imprevisti lungo il cammino, primo fra tutti il ruolo di Ines.
 
Buondì!
Finalmente, dopo tanta attesa, ecco la prima parte del capitolo dedicata a Cos-ehm, Sergio. Qualcuno aveva indovinato il personaggio, ma giustamente non ve lo abbiamo rivelato. Vi avevamo detto però che ne era venuto fuori un documento mooooooolto lungo, e sebbene nel sondaggio avevate scelto la pubblicazione unica, alla fine si è rivelato ‘obbligatorio’ dividere in due parti. Fidatevi, 46 pagine (sì, più del previsto) tutte insieme non le volete leggere. Quindi ecco la prima parte della storia che tanto ci ha fatto scervellare. Sergio non è un personaggio semplice da mettere su carta, soprattutto perché non è facile non farlo finire automaticamente al nero piuttosto che al bianco. Perché non è mai stato veramente vittima, diciamocelo, e in DM13 l’ha ben dimostrato. Magari non era malvagio, okay, ma l’aureola non gliel’hanno data, sorry.
Ci vediamo prossimamente per la seconda parte!
Vocina e Grillo

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Capitolo 5
*** ... or white? - Sergio (parte 2) ***


... OR WHITE?
 
Ci volle molto però a conquistare la fiducia di Anna. Per quanto fragile mi fosse apparsa quel giorno, si dimostrò nelle ore e giorni a seguire un riccio ricoperto di aculei pronti a tenere lontano chiunque tentasse di avvicinarsi.
La capivo molto da questo punto di vista. Quando la vita ti ferisce, in tutti i modi possibili, devi imparare a difenderti come meglio riesci. E chiudersi in se stessi, sebbene sia la cura più sbagliata, è anche la forma di difesa più semplice da mettere in pratica. Lei poi, per sua natura, non mi era mai sembrata nemmeno un tipo così estroverso.
Imparando a conoscerla, ho scoperto poi che anche con lei, come con me, la vita non era stata clemente.
Ha perso suo padre che aveva solo dieci anni e in virtù di ciò è dovuta crescere prima del previsto. Ha trasformato quel dolore in senso di responsabilità e ha lottato per divenire quel qualcuno capace di dare giustizia a tutti coloro che altrimenti non l’avrebbero avuta.
Quando pensava di aver ricostruito la sua vita, tutto era di nuovo crollato. Divenuta Capitano dei Carabinieri e ottenuto il primo incarico nella sua città natale, il suo fidanzato dell’epoca se ne era uscito che voleva diventare prete. E allora era di nuovo dovuta ripartire da capo.
Poi aveva conosciuto il Maresciallo e Marco. Ed era iniziato quell’amore nato tra le mura della caserma, dopo ore e ore trascorse insieme. Finalmente di nuovo in piedi, pronta addirittura al grande passo. Poi era arrivata la proposta di un lavoro in Pakistan.
E infine il fiume in piena che l’ha travolta.
Tutto mi sarei aspettato, tranne che lo stesso uomo capace di quella dichiarazione di cui ero stato testimone imprevisto avesse potuto tradirla a pochi giorni dal matrimonio. E per di più con la Procuratrice Santonastasi, che avrei avuto modo di incontrare svariate volte in quei mesi.
Più passavano i giorni con Anna, più imparavo a conoscerla, anche se le informazioni che mi dava di sé erano poche e frammentarie. Giorno dopo giorno riuscivo a farmi spazio tra gli aculei, cercando di trovare la via giusta per far breccia e conquistarmi la sua fiducia.
Per farlo, avevo capito di dover assecondare il suo desiderio di vedermi perlomeno tentare un approccio con mia figlia, per poi dedicare a lei l’attenzione di cui aveva bisogno.
Così, un paio di settimane dopo quel pomeriggio in cui decisi di usare il suo dolore a mio favore, lasciai che Anna mi convincesse a passare qualche ora con Ines.
Senza rendermene conto da lì a poco mi affezionai a quello scricciolo di sei anni che per qualche assurda ragione mi stava accettando, nonostante la mia immotivata – perlomeno ai suoi occhi – assenza fino a quel momento. Ma dopotutto, era difficile non volerle bene: era una bambina adorabile, solare e piena di innocenza. Tutta sua madre, insomma. E se era stato semplice innamorarmi di Irene, altrettanto facile mi stava riuscendo farlo con lei.
Ogni rapporto però ha bisogno che il sentimento sia corrisposto. E sebbene la bimba mi stesse dando il beneficio del dubbio di essere cambiato e tornato per lei, nel mentre c’era qualcun altro pronto a farle davvero da padre. E non uno qualunque.
Sapevo che il mio iniziale rifiuto di fare il padre aveva spinto – senza che si potesse prevederlo – la piccola tra le braccia di Nardi. Per quanto ripetessi ad Anna che fosse meglio per Ines avere uno come lui come padre rispetto a uno come me, non nego che in quei mesi vederli insieme mi indisponesse non poco. Ero geloso del loro rapporto. Del fatto che Ines cercasse lui, o Anna, e non me. Erano comunque due estranei per lei, eppure erano le sue figure di riferimento. Ma era colpa mia, in fondo. Non avevo il diritto di sentirmi in quel modo visto che io avevo rifiutato di prendermi le mie responsabilità già molto tempo prima.
Tuttavia, più passavo del tempo con la piccola, più sentivo crescere in me la volontà di stare con lei. Di prendermene cura. Il problema era come.
Perché sì, forse aveva ragione Anna a pensare che il bene di Ines fosse quello di stare con me, ma io cosa potevo effettivamente offrirle?
Vivevo nel camper della fidanzata del mio ex compagno di cella. Se non fosse stato per Don Matteo non avrei nemmeno trovato un lavoro per mantenere me stesso, figurarsi lei. Come avrei potuto essere il suo bene, alle condizioni poste da Anna?
Eppure, a pochi mesi dal colpo al portavalori, io stesso arrivai a convincermi che avrei potuto darle una vita migliore di quella che stava vivendo, che io potevo essere il bene di Ines. Ma a modo mio. Ancora una volta.
Se il colpo fosse andato a buon fine, il denaro ricavatone mi avrebbe permesso di offrirle più di quello che una vita in canonica con un prete, una perpetua e un sacrestano poteva darle.
Di fronte a quella epifania, ripresero i miei quotidiani contatti con Renzo, che era ormai quasi pronto a mettere in atto il suo piano. Era felice di sapere che la mia titubanza era dissipata, che ero pronto e carico come nelle prime settimane dopo che mi aveva proposto il colpo. Era contento che Ines mi avesse convinto – seppur inconsciamente – ad aiutarlo, come promesso.
Ma se da una parte, una voce nella mia testa ripeteva incessantemente che quello che volevo fare era giusto, perché l’avrei fatto per lei, per mia figlia, dall’altra parte una vocina più debole, forse stanca di urlare senza essere mai ascoltata, proveniente da una zona all’altezza del petto, cercava di comunicare con me per dissuadermi da quello che volevo fare.
Capii da dove quella vocina afona provenisse quando ormai era troppo tardi, o quasi.
Nelle ultime settimane prima del colpo, infatti, il mio geniale piano iniziò a ritorcersi contro di me.
Perché era Anna che doveva innamorarsi di me e io ero quello che doveva conquistarsi la sua fiducia, non il contrario.
Eppure, più passavano i giorni, più mi rendevo conto che quei finti sentimenti usati per sedurre Anna stavano lentamente diventando realtà.
Il suo spirito da crocerossina intenzionata a salvarmi a tutti i costi, conseguenza anche delle mie macchinazioni, mi aveva rapito.
Mi piaceva. Mi ero realmente innamorato. E ci può essere più sfiga di questa? Più ironia di questa? Un delinquente che si prende una sbandata per un carabiniere!
Era un problema. E bello grosso. Perché il piano della rapina per andare a buon fine necessitava dell’aiuto inconsapevole di Anna fino alla fine. Fino a quando non mi sarei dato alla macchia, portando con me anche Ines. Perché di una cosa ero certo a pochi giorni dal colpo: non volevo più rinunciare a lei. Stava sempre più preferendo passare il tempo con me rispetto a quello con Marco. Era mia figlia. Si sentiva mia figlia. E io volevo essere suo padre.
Questo però complicava ulteriormente le cose. Perché se ero arrivato al punto di voler essere padre, era per merito suo. Di Anna. Della ragazza di cui mi ero innamorato e a cui avrei spezzato il cuore, come tutti gli altri. Ma a differenza loro, volutamente. Fin dall’inizio.
E so che c’era una via di uscita, che era lampante ci fosse il modo di essere padre di Ines e al tempo stesso stare con Anna, se avessi voluto.
Key word: volere.
Quella strada era la più difficile. Richiedeva un cambiamento, uno snaturamento di quello che sono e che sempre sarò. E io non volevo cambiare. O perlomeno lo pensavo.
Ma soprattutto non volevo scegliere. Perché lo avevo già fatto e non era servito a risparmiare dolore a nessuna delle parti in causa nove anni fa.
Perché quando scelgo, faccio sempre la scelta sbagliata, anche quando penso di fare quella giusta. E sapevo sarebbe successo di nuovo.
Non mi stupii dunque, quando presi dalla mano di Renzo la pistola per la rapina, di aver scelto ancora una volta l’amore della donna che secondo me, come mia sorella, mi avrebbe comunque continuato ad amare incondizionatamente, senza giudicarmi, anche dopo la rapina, invece di quello dell’altra, o meglio, invece di quello di entrambe.
Non ero cambiato in quei mesi, in quegli anni. Ero sempre il vecchio grigio Sergio. Quello capace di fare del bene, ma anche e soprattutto del male, a chi lo circonda.
 
Alla scelta finale, quella che mi ha poi ricondotto dietro le sbarre insomma, ci sono arrivato anche a seguito di una serie di eventi susseguitisi le settimane antecedenti la rapina. Eventi su cui non ho avuto alcun controllo.
Eventi che avrebbero smosso la coscienza di chiunque, tranne evidentemente la mia.
Il primo grande momento in cui avrei potuto fare la scelta giusta, ma quella giusta davvero, si è presentato in occasione del ballo organizzato dal comune di Spoleto per celebrare le cariche della città.
Anna aveva bisogno di un accompagnatore, alcuni suoi colleghi già sapevano di noi, ma lei era titubante – con ragione – a uscire allo scoperto e dire pubblicamente che frequentava me, l’ex galeotto. Ero certo avrebbe declinato il tutto, che avrebbe messo la sua carriera davanti al resto, come aveva sempre fatto. Non mi feriva rimanere nell’ombra, soprattutto visto quello che da lì a non molto avrei fatto. A quell’evento c’erano troppi pezzi grossi, troppa visibilità per uno che voleva fare una rapina qualche settimana dopo. Però avevo anche una recita da tenere in piedi. E così ho tirato la corda, o meglio ho toccato le corde giuste dentro di lei, inconsapevolmente.
Perché non avevo tenuto conto del fatto che la Anna che si era lasciata andare a quella nuova storia d’amore con me non era la stessa che avevo conosciuto mesi prima. Il dolore che Marco le aveva inferto, quella storia perfetta andata in fumo per una scelta sbagliata, l’avevano accecata e resa molto meno lucida di un tempo. Quella stessa cecità l’aveva spinta a chiedermi di andare con lei a quel ballo, ben conscia che andarci insieme a me – l’ex galeotto, seppur innocente – volesse dire mettere a rischio la propria carriera. Quella stessa carriera che era pronta a scegliere al di sopra dell’amore per Marco solo sette mesi prima.
Era evidente che non fosse la vera lei. Che stesse cercando in tutti i modi di allontanarsi dalla ‘vecchia’ se stessa, dalla Anna che mai e poi mai si sarebbe comportata con tanta leggerezza, che mai si sarebbe lasciata sfuggire i dettagli più minuti. Faceva di tutto pur di andare contro al suo ex e non dargliela mai vinta. Faceva di tutto pur di trovare una via diversa a quella precedentemente percorsa, al fine di non soffrire più. E i miei metodi da casanova e perenne vittima degli eventi la aiutavano - e invogliavano - a farlo. A modo suo, forse, voleva vendicarsi. E quale strategia migliore, se non sfruttare la gelosia? Lui le aveva spezzato il cuore facendola soffrire: era il suo turno di stare male, senza poter avere ciò che più desiderava, come era successo a lei con la loro storia.
Di fronte alla sua proposta avevo accettato, incapace come sempre di trovare una via d’uscita. Era rischioso andare al ballo, attirare attenzione su di me e soprattutto su di lei, sulla caserma.
Ma mentre mi scervellavo per trovare un escamotage che mi impedisse di presentarmi alla festa, fu inaspettatamente Marco ad aiutarmi – aiutarci – a uscire dal labirinto in cui i miei metodi sornioni ci avevano trascinato. E lo fece sollevando l’attenzione sul furto del testamento di Irene da parte mia.
Non sono mai stato tanto felice di essere scoperto con le mani nel sacco come quella volta. Una buona recita mi permise di uscirne indenne, ma soprattutto mi permise di passare da vittima innocente agli occhi di Anna ancora una volta. Non mi presentai al ballo, ma lei si presentò al mio camper.
Quella sera non scelsi la via giusta, ma la solita via più facile. Ponendo delle basi alquanto aleatorie a una storia in cui Anna sembrava credere fortemente (o, meglio dire, si imponeva di credere), mentre io non abbastanza.
Il secondo grande momento di svolta avrebbe potuto essere sempre legato al furto del bracciale. A quello che poi è stato definito da tutti noi attori in scena un incidente. Se non fosse stato che quella scoperta mi ha ‘salvato’ dall’andare al ballo, quella mia mossa mi sarebbe potuta costare cara, lo ammetto.
In amore, come in guerra, mai sottovalutare l’avversario.
E a me era toccato un osso decisamente duro. La simpatia che Nardi provava nei miei confronti era pari allo zero, e il sentimento era reciproco da parte mia. Per vari motivi. Il PM amava quanto me, se non più di me, le due donne che ora tenevo ‘in pugno’. Era pronto a qualsiasi cosa pur di proteggerle. Ed era evidente non avesse alcuna intenzione di mollare la presa.
Ma per quanto sapessi che mi teneva d’occhio e aspettasse solo un mio passo falso per dimostrare ad Anna di chi poteva realmente fidarsi, ero stato ingenuo a pensare che mia figlia avrebbe tenuto nascosto il mio segreto al suo adorato tutore legale.
Quando Anna mi convocò in caserma per chiedermi del bracciale, fui felice di dire la verità. Perlomeno la mia versione della verità.
Sebbene infatti nel testamento Irene avesse sottolineato che il bracciale non valeva nulla, se non in termini affettivi, io ero sicuro che il bracciale che aveva riposto nella cassetta di sicurezza in banca fosse invece quello che le avevo regalato io qualche mese prima di entrare in carcere. La più piccola parte di una vecchia refurtiva. Mi avrebbe fatto comodo rivenderlo, sostituendolo con un altro di bigiotteria. Nessuno se ne sarebbe accorto. E così è successo. la parte più difficile avrebbe dovuto essere convincere l’impiegato della banca ad aprirmi la cassetta, visto che l’autorizzazione a farlo spettava a Ines una volta maggiorenne, e nel frattempo al suo tutore. Ma il fato una volta tanto mi era venuto incontro e l’impiegato si era rivelato essere una impiegata, e anche lei come altre era caduta nella rete di bugie da cascamorto del mio repertorio.
Quel giorno scoprii di essere un attore migliore di quanto credessi, perché tutti i presenti al mio interrogatorio credettero alla bugia del braccialetto privo di valore. Soprattutto Anna, alla quale si era palesata un’altra possibilità di dare contro a Marco, per ripicca di quanto fattole mesi prima.
Peccato solo che il suo ex, come del resto il Maresciallo - ma anche sua madre e chiunque cercasse di metterla in guardia -, avessero ragione a dubitare di me. Tuttavia, quel loro dubitare, per una volta mi aveva giocato a favore. Perlomeno fino a quando, nel pomeriggio di quello stesso giorno, Marco non si era presentato da me al motodromo per parlarmi.
Fu in quel momento che avrei potuto cambiare le cose, fare inversione e non proseguire per la strada intrapresa. E trasformare quel sentimento da comoda bugia a verità. Probabilmente su entrambi i fronti. Sarebbe stata l’occasione perfetta affinché Anna si innamorasse veramente di me, senza fermarsi invece a quel sentimento superficiale che tutto poteva essere tranne amore.
Marco era venuto a scusarsi con me, ma soprattutto a chiedermi di non far soffrire le due donne a cui teneva così tanto. Di non far soffrire in particolare Anna, perché a farle del male ci aveva pensato già lui. E non se lo meritava.
Giuro che non mi aspettavo la sua visita, men che meno le sue parole. Non con quello sguardo, e quel tono che lasciavano chiaramente intendere ritenesse ogni speranza infranta.
Mentre mi voltava le spalle per andarsene, le mie certezze iniziarono a vacillare. Perché l’ex di Anna era venuto a chiedermi di non fare il suo stesso errore, conscio che forse, sotto sotto, qualcosa io stessi veramente tramando e che quell’incidente non era stato affatto un incidente. Era venuto, seppur sconfitto, da me, a dirmi di non commettere i suoi stessi errori. Lui aveva sbagliato e perso, forse irreversibilmente, il cuore della donna che avrebbe voluto sposare. Io potevo ancora recuperare.
Lì ho capito davvero, per la prima volta, quanto ancora la amasse e quanto evidentemente quella notte che aveva rovinato la loro storia fosse stata per un lui un qualcosa fuori dalle sue reali intenzioni, un qualcosa che aveva commesso senza volerlo sotto l’effetto dell’alcol e del dolore al pensiero di perderla.
E forse è questo che li ha tenuti sempre insieme nonostante tutto.  Il fatto di essere consapevoli entrambi – quindi non solo Marco – che quella notte fosse stata veramente un errore che mai sarebbe stato ripetuto.
Poi c’è l’inevitabile fase dell’accettazione degli eventi, della vendetta, della guarigione. E loro tutte le fasi le hanno vissute, senza mai allontanarsi. Senza mai fuggire dalle loro responsabilità, dalle loro paure. Ma vivendole, assimilandole, perché anche quelle aiutano a crescere.
A quel punto ho veramente pensato alle mie di azioni, a quelle che avevo già commesso e a quelle che avevo in progetto. E ho capito come a differenza loro io non ero cresciuto. Perché stavo sempre continuando a correre, a scappare.
E anche quella volta non ho cambiato la rotta. Come non l’ho fatto nemmeno la sera dopo, quando Anna è venuta al camper da me.
Avrei potuto, in entrambe le occasioni – per di più così ravvicinate tra loro -, se solo avessi voluto. Ma non ho voluto. Perché quando sei grigio e il nero è ormai a un passo da te, il bianco è solo una luce in fondo a un tunnel troppo lungo da percorrere.
 
E se la svolta non è mai arrivata, la strada verso la mia meta a un certo punto si è però definitivamente spianata. E a fornirmi l’assist finale per andare in goal, ci aveva pensato ancora una volta Marco Nardi.
Dopo la sera che aveva fatto visita al mio camper, le cose con Anna si erano rimesse perfettamente in carreggiata e Renzo mi aveva suggerito di muovermi col piano, prima di rischiare nuovamente di perdere l’occasione.
Per poter però giungere dentro alla caserma indisturbato a piazzare il processore, avevo bisogno della certezza che Anna si fidasse ciecamente di me. E devo ammettere che per arrivare a capirlo mi ci è voluta molta fatica.
Perché se da una parte si era finalmente lasciata andare alla nostra avventurosa storia e non aveva più paura di nascondersi, dall’altra per certi specifici aspetti ancora teneva il freno a mano tirato. In cosa? Beh, non nego per esempio di aver sperato in qualche giro di giostra con lei. Dopo anni in carcere, poi...
Purtroppo, non ho mai vinto.
E dire che ci ho provato, più volte, soprattutto la sera in cui è venuta a scusarsi con me al camper. C’era tutto: i vestiti eleganti, lo champagne, la riconciliazione, l’atmosfera... Ma niente. Lei è stata sempre impossibile da smuovere. Altro che grigio... le mie notti sono sempre finite tutte in bianco, e non quello a cui avrei aspirato, ecco. Anna l’aveva messo in chiaro: quel suo ‘no’ era tassativo, niente compromessi di alcun tipo. Per dire, nemmeno dormire insieme, nel senso più innocente del termine.
Era come se nonostante tutto ciò che era successo, considerasse l’idea di concedersi una specie di tradimento nei confronti di quell’ex, Marco, che tanto ex per lei forse non era.
Quest’ultimo punto divenne evidente quando Marco si legò le mani da solo, spianandomi completamente la strada.
Il PM aveva fatto di tutto per riconquistarla, ma devo dire che neanche io sarei caduto così in basso da sfruttare un malinteso per una sospetta malattia pur di averla accanto, sebbene capissi che per una come Anna ci si spingerebbe a far pazzie senza rimorso.
Quando lei aveva scoperto la verità, definirla furiosa sarebbe riduttivo. Credo stesse giungendo in quel momento alla realizzazione di provare ancora qualcosa per lui, qualcosa che la paura di perderlo aveva fatto tornare a galla prepotentemente. Ne fui testimone in prima persona quando, di fronte alla mia domanda a bruciapelo “Non è che lo ami ancora?” preferì svincolarsi e rigirare la frittata, dicendomi che era la gelosia a farmi parlare in quel modo.
Ed è vero, ero geloso. Non riuscivo a capire cosa accidenti ci vedesse in lui, nonostante tutto. L’aveva tradita, l’aveva ferita ripetutamente, eppure lei in fondo lo amava ancora. Perfino la mia battuta sulla stanza da condividere ‘in amicizia’ a Roma con lui aveva cementato le mie paure. La sua continua esitazione nel rispondere non faceva altro che alimentare i dubbi che , con lui ci avrebbe dormito senza problemi, e che quella ‘gita’ imprevista mi avrebbe fatto perdere il poco terreno che ero riuscito a guadagnarmi. Sarebbe ricaduta tra le sue braccia, era chiaro. Non mi stava bene quella situazione, e non è un problema ripetere che fossi estremamente geloso. E la cosa mi spaventava a morte, perché da lì a poco avrei ottenuto da lei il medesimo odio che dopo la scoperta della bugia della malattia pensavo nutrisse nei confronti di Marco.
Ma se quella mossa da parte del PM aveva fatto sì che Anna smettesse totalmente di dargli ascolto, dall’altra scoprii poco prima di rientrare in carcere che dentro di lei lo aveva perdonato, gli aveva perdonato tutto. E aveva perdonato anche me: l’uomo per mano della quale aveva quasi perso la vita.
 
Quello che accadde nei giorni successivi infatti si rivelò imprevedibile quanto devastante per tutti.
Da qualche settimana il processore ideato da Renzo era pronto ad essere usato. Restava solo da individuare l’obiettivo, il portavalori più adatto alle nostre esigenze. Renzo aveva studiato tutto, ancora una volta, nei minimi dettagli: il 12 ottobre un portavalori con a bordo circa due milioni di euro – frutto dell’incasso dei vari supermercati della zona - sarebbe partito da Spoleto per raggiungere una banca a Perugia.
Una fortuna – la ‘nostra’ – su quattro ruote avrebbe attraversato la superstrada fuori Spoleto nel bel mezzo del nulla per ben 20 minuti, alle ore 9.44. L’occasione perfetta per la rapina.
Renzo aveva trovato anche una complice spietata al punto giusto, Zelda, per portare a termine il colpo.  Possedevamo tutto per procedere.
Tutto, meno l’ultimo passaggio.
Per poter agire velocemente e indisturbati senza rischiare di lasciarci le penne, era necessario avere i codici di accesso per sbloccare le ante del portavalori. Solo quelli infatti ci avrebbero permesso di svaligiarlo e darci alla fuga prima dell’arrivo inevitabile dei carabinieri.
Per avere accesso ai codici servivo io, anzi serviva sfruttare l’“amicizia” che mi legava ad Anna e cinque minuti da solo nel suo ufficio.
Ricordate di come prima parlassi del fatto che avevo bisogno di guadagnarmi la sua fiducia? Dopo l’equivoco della malattia di Marco, Anna mi aveva detto di come lui avesse provato a baciarla, consolidando le mie paure e le mie gelosie. Tuttavia, in quel frangente, mentre si scusava nemmeno fosse colpa sua che l’ex ci avesse riprovato - o ci fosse realmente da biasimarlo -, mi aveva detto di voler fondare la nostra ‘relazione’ sulla sincerità e sulla fiducia.
A quelle parole la voce nella mia testa aveva urlato ‘Bingo!’ mentre quella vocina afona nel petto cercava di comunicare con me invano.
Era troppo tardi per tirarsi indietro.
Così, il pomeriggio di una settimana esatta dopo, libero dalle accuse di aver ucciso la compagna di Renzo – vittima del più recente caso di cronaca nera spoletina – ho agito.
Il piano era semplice: sarei salito su per proporle una ‘tregua’ dopo che, per via del caso in cui ero stato coinvolto, l’avevo trattata male e trascurata, fingendo di dimenticare la giacca. Con una scusa, poco dopo sarei salito a riprenderla, facendo in modo di essere da solo.
Quest’ultima parte sarebbe stata la più complicata da attuare, perché un privato cittadino non può essere lasciato da solo in un luogo così importante come l’ufficio di un Capitano dei Carabinieri, men che meno un pregiudicato, ma la fortuna quel pomeriggio mi aveva incautamente sorriso.
Perché non solo Anna si fidò di me a sufficienza da lasciarmi salire da solo nel suo ufficio (diciamo in modo non proprio volontario, ma anche lì sono stato fortunato), ma perfino i suoi sottoposti divennero complici inconsapevoli del piano mio e di Renzo: il maresciallo aveva trattenuto Anna in piazza per chiederle un parere non so su cosa e gli altri agenti non si erano curati di me, troppo impegnati nei loro compiti per risolvere il caso della morte di Serena.
Da solo, nel suo ufficio, fingendo di recuperare la giacca, posizionai il processore al computer di Anna. Quando lei mi raggiunse, preoccupata che ci mettessi tanto a scendere, era ormai troppo tardi.
L’insetto del rimorso non mi sfiorò nemmeno per un secondo quel pomeriggio, in quei giorni. Per quanto i miei sentimenti per Anna non fossero più finti come in origine, ero più determinato che mai a portare a termine il piano. Soprattutto dopo ciò stava succedendo a Renzo in quei giorni.
Il passato infatti era ripiombato nella sua vita, anche per via della sua causa contro la LuckyTec. Di lì a qualche giorno, ci sarebbe stata l’udienza decisiva per la storia del brevetto rubato - che lui era sicuro di vincere - contro i due ex soci: Astrid, la sorella di Serena nonché sua ex fidanzata, e suo marito Donato, l’amico comune dei due con cui Astrid aveva rubato il brevetto dell’antivirus che li aveva resi milionari dopo la fondazione dell’azienda tutti e tre assieme.
A peggiorare un periodo già di per sé complicato per il mio padrino, era intervenuta la morte di Serena stessa. Un caso di omicidio, in cui ero rimasto coinvolto anche io. La notte della sua morte infatti Renzo si trovava al lavoro. C’era stato un blackout alla fabbrica presso cui prestava servizio come agente della sicurezza, e avevano chiesto il suo intervento perché nessuno era in grado di risolvere il problema. La mattina seguente, provando inutilmente a rintracciarla, Renzo preoccupato mi aveva chiamato pregandomi di andare a casa sua a controllare che non fosse accaduto niente, poiché lui era ancora al lavoro.
Giunto a casa sua, però, ho fatto la macabra scoperta.
E sempre lì, sono rimasto incastrato nella rete del ragno.
Avendola trovata io senza vita, ero stato il primo ad essere indagato dalla Procuratrice Santonastasi. Con il mio curriculum, era inevitabile. Poco importava che ci fossero prove in grado di incastrare la vera colpevole: Astrid, la sorella di Serena. La proprietaria della LuckyTec, nonché una Freschi Simonelli, una delle famiglie più ricche di Spoleto.
Lei aveva cercato di corrompere Serena con 500 mila euro, al fine di metterla a tacere e non rivelare al mondo la colpevolezza sua e di suo marito sul furto dell’antivirus ideato da Renzo.  Serena aveva infatti trovato il modo di provare che il certificato di donazione firmato da Renzo in possesso della LuckyTec fosse contraffatto, ma prima che potesse rivelarlo era stata uccisa. Guarda caso, proprio la sera stessa in cui ha rifiutato l’assegno propostole da Astrid.
Tuttavia, la Freschi Simonelli era una incensurata. E quei pochi, ma pur buoni, indizi di colpevolezza non erano sufficienti agli occhi della Santonastasi per metterla in stato di fermo e fare ulteriori verifiche. La verità era che Astrid, a differenza mia, non solo aveva la fedina penale pulita, ma anche un portafoglio pieno a dismisura.
Io invece, pregiudicato, ero un bersaglio facile. A me il beneficio del dubbio di essere cambiato non era concesso. Bastava la mia presenza in casa di Renzo a rendermi colpevole agli occhi del PM e della Procuratrice. Non che fossi un santo.
Renzo comunque era amareggiato e furioso per la situazione. Per l’ennesima volta, il mondo si stava dimostrando ingiusto con chi non aveva abbastanza soldi per difendersi e soprattutto con un innocente.
Anche grazie a questo mi aveva convinto ancora di più a perseguire il piano.
Ciò che però non avevo calcolato, era che la ragnatela in cui ero rimasto incastrato non era quella della Legge cattiva contro me ex carcerato. No.
La mente dietro la trappola era il mio stesso mentore.
Ma me ne sono accorto troppo tardi.
E per questo sono rimasto complice fino alla fine della mente tanto geniale quanto delirante di Renzo Cicogna.
 
Rimasi agli arresti domiciliari con l’accusa di omicidio per tre giorni presso la canonica di Don Matteo. Fu possibile grazie alla fiducia che Anna riponeva in me e alla sua capacità di far ancora breccia nel cuore di Marco.
Sebbene innocente, continuai in quei giorni la mia recita da perfetta vittima degli eventi, soprattutto con Anna. Al contempo, in canonica, i presenti – Natalina su tutti - dimostrarono di avermi accettato, nonostante la riluttanza e l’ostilità dei primi mesi. Tutti loro credevano nella mia rinnovata buona fede e io cavalcai volentieri quell’onda. Uscendone vincitore.
Anna riuscì infatti a dimostrare la mia innocenza rispetto al caso di omicidio.
Una volta libero, il 10 ottobre, la prima cosa che feci fu andare da Renzo, per gli ultimi dettagli da limare per la rapina.
Il giorno successivo piazzai la scheda nel pc di Anna e la sera Renzo lo hackerò.
Il giorno prima della rapina al portavalori, feci anche in modo di ultimare la mia parte di piano, proponendo a Ines di partire per un campeggio insieme, perché ero stato diligente e avevo ottenuto in tempi non sospetti il permesso dai servizi sociali.
Dopo il furto, infatti, avrei dovuto darmi alla macchia per qualche tempo. Scappare, come mio solito. Ma non volevo più lasciare indietro chi amavo, mia figlia perlomeno.
Perché la donna di cui mi ero innamorato non poteva venire con me. E come la mia precedente fidanzata, era destinata a rimanere col cuore spezzato dopo la mia scelta.
 
L’ultimo - disperato, se vogliamo - tentativo di fermarmi e farmi ragionare lo tentò Don Matteo, la mattina del 12 ottobre, mentre mi apprestavo a partire con Ines all’alba per il campeggio.
Aveva intuito, non so come, che fossi coinvolto in qualcosa e stava cercando di farmi cambiare idea, dicendomi di farlo per Ines, per il suo bene. Ma era proprio per lei che lo facevo, perché avevo imparato a volerle bene davvero, e volevo che avesse una vita come si deve, come quella del figlio di Astrid e Donato, con un futuro in discesa.
Al tempo stesso, so per certo che se a salutarmi fosse arrivata in tempo Anna, quella mattina, mi sarei tradito. Dopo la nostra chiacchierata la sera precedente, ero sempre più certo dei miei sentimenti per lei, ma di sicuro non dei suoi per me. Per quanto cercasse di dimostrarmi il suo ‘amore’, sentivo tra le righe di quello che mi diceva che il suo cuore non avrebbe mai potuto essere davvero mio. Per quanto non perdesse occasione di ripetere che Marco era un capitolo chiuso della sua vita, perlomeno nella veste che aveva avuto un tempo, vedevo nelle loro interazioni quella complicità che con me non aveva e mai avrebbe avuto.
Una volta scoperta la verità poi, non sarei stato meglio di lui. Perché anche io ero in procinto di tradirla. Di tradire la sua fiducia, esattamente come in fin dei conti aveva fatto lui. E sapendo di essere già sconfitto in partenza, ho fatto in modo di evitare di incontrarla prima di mettermi in viaggio.
 
Solo una volta seduto sul furgone con Zelda, in attesa del portavalori, mi sono reso conto di non aver calcolato bene cosa avrei fatto dopo la rapina.
Nell’immediato, se tutto fosse andato bene, avrei proseguito la mia strada per il campeggio con Ines come se niente fosse. Ma successivamente?
Tornando a Spoleto, avrei dovuto affrontare i postumi del colpo, giacché i carabinieri avrebbero dovuto inevitabilmente indagare sul furto e avrebbero scoperto del processore nel PC di Anna. Trovato quello sarebbero comunque risaliti a me, indipendentemente dal fatto che sia io che Zelda avessimo preso tutte le precauzioni del caso per non essere riconosciuti.  
Dandomi alla macchia, come invece avevo pianificato, tutti avrebbero sospettato di me, proprio perché scomparso nel nulla lo stesso giorno della rapina. L’Arma avrebbe disposto foto segnaletiche mie ovunque e io avrei costretto Ines a una vita da fuggiasca.
Insomma, scacco matto.
Ero intrappolato, senza via d’uscita.
E per di più, avevo trascinato con me mia figlia. La bambina di cui avrei dovuto prendermi cura. La bambina che per altro non era in affido a me, e quindi scappando agli occhi della Legge avevo rapito.
In quel momento mi resi conto del fatto che Renzo non aveva pensato al mio bene, insieme al proprio. Io ero solo una pedina sacrificabile nella sua scacchiera. Capii che non era un caso nemmeno che a recuperare il processore a casa sua, dopo la morte di Serena, ci aveva mandato me.
Ma era troppo tardi.
Tardi per tornare indietro, riavvolgere il nastro e fare la scelta giusta.
Però non era tardi per tentare comunque di fuggire, alleggerire l’eventuale pena che inevitabilmente mi avrebbe ricondotto in carcere.
E così sono sceso dal furgone, lasciando Zelda da sola a fare il colpo.
Conscio che se fosse andata male, lei avrebbe rivelato il mio nome. Ma non importava.
C’era una piccola ma fievole luce di speranza di poterla fare franca e fuggire, anche solo qualche giorno, con mia figlia. Di passare del tempo con lei, prima che ci venisse tolta la possibilità di stare insieme. Probabilmente, per sempre.
 
E c’era in cuor mio la speranza che Anna potesse perdonarmi, che l’essermi fermato in tempo dal commettere in prima persona il furto fosse sufficiente a rendermi ‘innocente’ ai suoi occhi. Perché per amor suo e di mia figlia mi ero tirato indietro. Insomma, speravo che l’ennesima balla mi salvasse, almeno in parte, dal suo giudizio.
Perché se non è una balla la parte in cui affermo di amarla – e glielo dissi, nel momento più sbagliato dell’universo, poco prima di scendere dal furgone -, lo era invece il fatto che mi fossi tirato indietro per amore suo e di Ines.
Se mi sono fermato, è stato solo per salvare il mio fondoschiena.
Poi sì, c’entravano anche quei mesi passati a Spoleto in cui una banda di sconosciuti – chi più, chi meno – ha iniziato a credere in me, quando nessuno, nemmeno io ci credevo. C’entrava il fatto di essermi innamorato di mia figlia, di quella bambina che avrebbe avuto tutto il diritto di odiarmi eppure non l’ha mai fatto, nemmeno quando inizialmente mi è stata ostile. E c’entrano quegli occhi verdi che mi hanno ammaliato e spinto a cercare di essere una persona migliore.
Ma prima di tutto, mi sono tirato indietro per paura delle conseguenze delle mie azioni. E sono scappato. Come faccio sempre, invece di assumermi le mie responsabilità.
Gettata la maschera, sono corso via, al fine di raggiungere il più velocemente possibile il casale dove si trovavano Renzo e Ines per riprendermi quest’ultima e raggiungere casa. Dopotutto, non avevo fatto niente di concreto. Mi avrebbero al massimo fermato per aver congegnato il piano, per esserne complice, ma il mio essermi tirato indietro doveva pur contare qualcosa.
Ma il fato era stato troppo clemente con me negli ultimi giorni per assistermi ancora.
Nella corsa, infatti, avevo sentito il rumore delle sirene delle auto dei carabinieri. Non sapevo come, ma avevano scoperto tutto prima del previsto, evidentemente. E sempre in quella mia fuga verso casa, nel silenzio lasciato dalle stesse vedette dopo il loro passaggio, ho udito distintamente dei colpi di pistola.
Il suono aveva alterato la mia corsa, ma non l’aveva fermata.
Solo una volta giunto al casale, la realtà dei fatti mi piombò addosso.
Tentati di ignorare Renzo, appostato fuori pronto a chiedermi come mai fossi lì e per di più senza Zelda, nel tentativo di raggiungere Ines e portarmela via.
Fu lui, l’artefice di tutte le malefatte di quei giorni, a darmi la notizia. Zelda era stata arrestata, ma non aveva fatto i nomi dei complici.
Tuttavia, aveva sparato a uno dei carabinieri per difendersi.
E l’agente rimasto ferito nel conflitto a fuoco non era un carabiniere qualunque.
 
Quando Renzo pronunciò il nome di Anna, il mondo attorno a me, quasi come nei film, prese a muoversi a rallentatore.
Il mio cervello andò letteralmente in tilt. La donna di cui mi ero innamorato era in fin di vita in un letto di ospedale. Avevo perso la sua fiducia, perché inevitabilmente avrebbero scoperto c’entrassi io col furto dei codici, ma soprattutto stavo perdendo lei, fisicamente. Avevo fallito nell’unico punto che mi ero prefissato, fin dall’inizio: non farle del male.
Io volevo solo riprendermi quello che la vita mi aveva tolto. Volevo un futuro migliore per Ines e per me. Non volevo che succedesse quella tragedia.
Il mio tentativo di salire in macchina per andare da lei e vedere come stesse fu fermato da Renzo, che mi mise spietatamente davanti alla realtà dei fatti: non ero innocente. E non lo ero perché mi ero lasciato trascinare io in quella vicenda da lui, cascando per primo nella sua ragnatela. Ero vittima, complice, ma anche e soprattutto carnefice.
Perché io avevo procurato le pistole.
Io avevo piazzato la scheda nell’ufficio del Capitano.
Io l’avevo circuita per quello scopo.
La colpa era mia, ero l’unico da poter realmente incastrare. Non lui, Renzo non compariva da nessuna parte. Mi aveva incastrato. Tirando a indovinare, avrebbe potuto tranquillamente dire che io gli avevo rubato quel dispositivo e organizzato tutto, e la mia parola non sarebbe valsa a niente. Niente.
Ma il peggio doveva ancora arrivare.
Quella situazione mi aveva condannato a una vita da fuggiasco. E ancora peggio, aveva condannato Ines a diventare una reietta per colpa mia.
Nonostante mia avesse fregato, Renzo restava l’unica persona in grado potermi aiutare a uscirne. E in mancanza di alternative gli diedi ascolto un’altra volta.
Rimasi al casale, con Ines, in attesa di ricevere i documenti falsi che Renzo mi avrebbe procurato per iniziare una nuova vita lontano da lì. Ero pronto veramente a relegare Ines a quella vita che non era un upgrade di quella precedente, bensì un downgrade. Tutto, pur di non tornare in galera.
Non servì il tentativo di Don Matteo di convincermi a tornare, quando stupidamente mi misi in contatto con lui per sapere di Anna. Spezzai la sim e gettai il telefono con cui lo chiamai, pur di non essere rintracciato. Pur di rimanere libero.
Ma la libertà ha sempre un costo.
E la mia libertà era costata più del dovuto. Solo, non a me.
Scoprii dalla televisione della morte di Anna.
Il Capitano dei Carabinieri di Spoleto era venuto a mancare a causa degli irreversibili danni procurati dai colpi di pistola di Zelda.
O almeno quelle erano le parole che aveva usato la giornalista durante il notiziario. Nella mia testa quel capitano dei carabinieri era morto a causa mia.
E se fino a quel momento ero convinto di non tornare mai più a casa, bastò ricevere quella notizia per farmi cambiare idea.
Era troppo tardi per ottenere il suo perdono. Ma volevo salutarla un’ultima volta. Dirle, anche se non poteva più sentirmi, che avevo sempre avuto ragione io, che in me non c’è niente di buono. O che se veramente c’è, nessuno è mai stato in grado di tirarlo fuori.
Tornai a Spoleto con l’intento di fare tutto questo e di lasciare Ines in canonica, rimettendomi in fuga da solo.
Avevo imparato in quei mesi a riconoscere le azioni giuste da fare, ma non ne avevo compiuta nemmeno una. Speravo che sottrarre Ines da quella vita falsa a cui volevo condurla fosse sufficiente a dimostrare che in fondo un briciolo di coscienza vivesse anche in me.
Non potevo immaginare però che anche la notizia al telegiornale fosse una trappola. E io ci ero nuovamente cascato.
Ma per una volta non mi importò di essere stato raggirato.
Perché Anna era viva.
Era lì accanto a me.
E in quel momento fui disposto ad accettare tutte le conseguenze del mio gesto. Anna era viva, ed era l’unica cosa che contava. Accettai quasi con sollievo le manette che lei stessa chiuse attorno ai miei polsi.
 
Finii in carcere, per la seconda volta nella mia vita, a distanza di 7 mesi giusti da quando ne ero uscito. Sarei stato sottoposto a un processo lampo nei giorni successivi il mio stato di fermo. Ero accusato di aver concorso alla realizzazione del piano della rapina, ma non venni accusato, come successo invece a Zelda, di tentato omicidio, non avendo preso parte al conflitto a fuoco ed essendomi tirato indietro prima dell’effettiva messa in opera dell’assalto al furgone.
Il giudice al processo mi diede un anno e mezzo per i reati commessi, e tenne anche conto del fatto che i precedenti sei anni in carcere li avevo fatti da innocente, seppur avevo mentito e quindi ero stato complice di mia sorella in qualche modo.
Mentre rientravo in carcere, dopo il processo in tribunale, non mi aspettavo di veder arrivare Anna di corsa a cercarmi. E soprattutto a dirmi che mi avrebbe aspettato.
Nonostante ciò che le avevo fatto, nonostante il male arrecatole, nonostante le conseguenze che lei stessa avrebbe dovuto subire sul lavoro a causa mia, mi aveva perdonato.
Ed era pronta addirittura ad aspettarmi. A darmi una seconda possibilità.
Finsi di credere alle sue parole. Finsi di credere che aveva ragione e che se ne valeva la pena poteva deciderlo solo lei.
Egoisticamente mi aggrappai a quelle sue parole. Alle sue visite e a quelle in cui avrebbe portato anche Ines.
In quella mia nuova permanenza in carcere, avrei avuto qualcosa a cui tenermi per non soccombere: la speranza che là fuori ci fosse chi mi avrebbe aspettato. Che alla mia uscita ci sarebbe stato qualcosa per cui valeva la pena andare avanti e sopportare una pena comunque meritata.
Tuttavia, le cose presero a cambiare in maniera evidente dopo i primi sei/sette mesi dentro. Le avvisaglie c’erano già state, ma era stato più comodo per me ignorarle. A quel punto però non era più possibile, e la mia convinzione iniziale cominciò a prendere forma reale.
Non valeva la pena di attendermi. Ma soprattutto la sua vita sarebbe stata migliore lontano da me. E, consapevolmente o meno, lei aveva già iniziato ad andare avanti.
Non è un caso che, più noi ci allontanavamo - forzatamente -, più lei contemporaneamente andasse riavvicinandosi a lui.
Dopotutto, non lo aveva estromesso dalla sua vita quando il male glielo aveva procurato lui, perché mai avrebbe dovuto farlo quando lui aveva deciso di sacrificare la sua carriera, e non solo, per lei?
Esposi i miei dubbi ad Anna più volte durante le sue visite in quei mesi. Lei negò sempre ogni cambiamento che io le facessi notare. Testardamente pensava di potermi tenere nascosto cosa accadeva fuori. Rinviando l’inevitabile momento del confronto.
Non penso lo facesse per paura di dover ammettere che aveva sbagliato e che io avevo ragione. Che mi voleva bene, ma non mi amava. Cercava di convincersi che sarebbe potuto continuare tutto come prima, se lo sarebbe imposta se necessario, lo capivo. Era una cosa che aveva già fatto nei mesi passati insieme.
Però era evidente che nel quadro era tornato lui. In pianta stabile. Anche se Anna cercava di nascondermelo negando l’evidenza.
Ero geloso, lo ammetto. Ma non potevo farci nulla.
Lui era fuori, libero di agire e riprendersela. Io dentro, a causa delle mie ‘libere’ azioni.
Ma anche avessi potuto agire, non avrei mai potuto evitare che le loro strade si ricongiungessero.
Perché non si erano mai veramente divise, sarebbe da stupidi negarlo.
E fu mia figlia Ines a riempire i vuoti di narrazione di Anna, nei mesi a venire.
Seppi da lei che Anna aveva perdonato Nardi, che lui l’aveva ‘salvata’ dalle conseguenze del furto dei codici. La bambina me lo raccontava come fosse una fiaba, perché ai suoi occhi innocenti così era. E non solo ai suoi, forse.
E soprattutto, divenne evidente che a poco a poco quei due stavano ricostruendo il loro legame.
Erano informazioni che Ines, ingenuamente, mi dava mentre mi raccontava delle sue giornate. Mese dopo mese la presenza di Marco nei suoi racconti si fece sempre più costante.
Marco che l’accompagnava a scuola la mattina, o a giocare la domenica pomeriggio. Marco che l’aiutava a fare i compiti durante la settimana quando Anna non poteva per via dei turni al lavoro. Marco con lei ed Anna per la ‘pizzata’ di rito del sabato sera. Marco che si alternava ad Anna per leggerle le favole la sera prima di dormire. Marco che c’era sempre.
Non che non me lo aspettassi.
Marco amava molto entrambe. Era già stato pronto in passato ad occupare il ‘mio’ posto nelle loro vite. Non aveva motivo di non esserci ora che il posto era nuovamente vacante.
Però sapeva che ero io il padre di Ines, e quello il carcere non poteva cambiarlo. Per quanto la sua presenza nei ricordi di mia figlia andasse aumentando, non leggevo in nessuna delle sue mosse malizia.
Nemmeno in quelle compiute verso Anna. Che quel giorno aveva scelto me, non Marco, ma che a differenza di mia figlia poteva cambiare idea, se lui avesse insistito a sufficienza. Sospettavo che gli sarebbe bastato il minimo impegno per riuscirci. Eppure non c’era testimonianza di tutto questo nei racconti che giungevano da fuori.
E questo è ciò che mi ha sempre dato più fastidio: mentre io, a lui, almeno un motivo per detestarmi glielo avevo sempre fornito, lui a me non ha mai dato niente per poterlo fare veramente. Ai miei stessi occhi, lui era l’uomo imperfettamente perfetto che tutti descrivevano.
Quello che avrebbe potuto fregarmi la ragazza, riprendersela, ma non lo stava facendo. Non forzatamente perlomeno. Né apertamente. Perché, da quanto mi risultava, si stava accontentando della veste di amico pur di poterle stare a fianco.
Ma in quei non detti, in quelle risposte vaghe di Anna ai miei dubbi, alle mie domande, in quella sua ritrovata felicità, quel sorriso che non le avevo mai visto nei mesi spesi a conoscerla e una luce costante a illuminarle lo sguardo, era evidente che si muovesse l’ombra del ritorno di fiamma.
Il ritorno della vera Anna, come tutti la descrivevano – o almeno così mi riportava Ines dei discorsi sentiti in canonica e a casa del maresciallo, che frequentava ormai abitualmente.
Non c’era bisogno di ulteriori spiegazioni o chissà quali studi scientifici per capire che la ‘vera Anna’ fosse il frutto della ritrovata serenità tra lei e Marco, nel loro rapporto. Sebbene etichettato come semplice amicizia.
 
Ma se Anna era evidentemente felice di quell’evoluzione, io non potevo invece che pormi domande su domande e mettermi in discussione. Come penso sia anche normale – seppur sbagliato. Perché in fondo ognuno è se stesso, inutile fare paragoni.
Però nelle lunghe ore da solo in carcere - il mio compagno di cella era un tipo taciturno a quel nuovo giro dentro - era inevitabile per me fermarmi a raffrontarmi con lui.
Lui, che aveva il suo bello stipendio sostanzioso e avrebbe potuto tranquillamente garantire ad Ines - e Anna - una vita senza problemi.
Lui, che aveva messo a rischio la sua carriera per un’amica, o meglio per la donna che amava, per porre rimedio ai propri errori.
Lui, che si è fatto carico delle sue responsabilità, e anche delle mie in fondo, senza pretendere davvero nulla in cambio.
Ed io?
Io cosa potevo offrire alle due donne che mi attendevano fuori, o perlomeno avevano promesso di farlo?
Cosa avrei dato io a mia figlia, una volta uscito dal carcere? Senza un lavoro, senza nessuno disposto a darmene?
E soprattutto, volevo davvero fare il padre? Avere una famiglia, una compagna? Assumermi tutte le responsabilità che quella vita comporta?
Avevo dimostrato più di una volta di non esserne all’altezza, e prima di avventurarmi su quella strada avevo bisogno di schiarirmi le idee. Di capire cosa realmente volessi dalla mia vita.
Ed era qualcosa che dovevo capire e fare da solo. A modo mio, nonostante fino all’ultimo incontro Anna mi avesse garantito che sarebbe andato tutto bene, che a casa tutto era pronto ad accogliere la nostra nuova vita insieme. Insomma, che non era cambiato nulla rispetto a quando ero entrato in gattabuia e che avremmo potuto ricominciare. Verificare se ne era valsa la pena di aspettare e percorrere quella nuova strada assieme, ovunque ci avesse condotto. Sapevo bene che non era così. O che, in ogni caso, sarebbe iniziata bene e finita malissimo in un batter d’occhio.
Ecco perché quando mi comunicarono la data d’uscita, confermando che fosse un giorno prima rispetto a quanto anticipato e a quanto comunicato a tutti, non mi premurai di correggere il tiro, di informare Anna e Ines.
Quando le porte del carcere si sono aperte davanti a me, Forrest è corso di nuovo via.
 
Era convinto fosse la cosa migliore. Non me la sentivo di essere buttato nella mischia così e cominciare da capo come se niente fosse successo, come se non avessi trascorso quasi altri due anni in carcere. Sarebbe stato un nuovo periodo di sbarre, invisibili quanto inespugnabili.
L’etichetta di delinquente, di galeotto, mi avrebbe sempre seguito, segnato. I dubbi che avevo quando ero uscito la prima volta dalla prigione era ancora lì, come scheletri nell’armadio pronti a crollarmi addosso una volta aperte le sue ante. Non mi sentivo pronto ad affrontare quel mondo in cui sarei sempre stato fuori posto, in cui mai avrei potuto vivere una vita normale.
Ma soprattutto non ero pronto a fidarmi e affidarmi per cominciare una vita accanto all’unica persona che di me si era fidata pure troppo. Non ero all’altezza di Anna Olivieri. Non lo sono mai stato e mai lo sarò. E non è una questione di status sociale, di ruoli ricoperti nella società. Non è per via del fatto che lei è un Capitano dei Carabinieri e io sono un ex galeotto. Quelle sono etichette che servono a definirci nello spazio, non ci descrivono in toto.
No, io non ero all’altezza di Anna Olivieri perché sapevo – e so – che qualsiasi mia scelta o azione avrebbe finito per ferirla. E non se lo meritava.
E non importa quanto io la amassi, o la ami. Egoisticamente avrei potuto provarci fino alla fine a riaverla nella mia vita – come del resto ho provato a fare. Ma non sarebbe cambiato niente. Avrei rinviato la fine di qualche giorno, settimana o mese, ma sarebbe arrivata comunque. E lei avrebbe scelto sempre lui. Anche se ci volle tempo prima che arrivasse ad ammetterlo agli altri e a se stessa.
 
 
Il 2 maggio 2022 ebbe inizio la mia nuova vita. Quella che speravo essere meno grigia.
Varcata la porta del carcere di Spoleto mi dileguai nel nulla. Ero convinto che in poche settimane avrei trovato la risposta alle mie domande e a quel punto sarei potuto tornare indietro da quella famiglia che non avevo cercato ma mi aveva in qualche modo accolto e mi aspettava.
Ero certo che quel tempo non avrebbe cambiato nulla. In fondo, mi avevano atteso per due anni. Che differenza avrebbe potuto fare un pochino di tempo in più? Mi avevano perdonato cose peggiori rispetto a quella fuga e capito in momenti in cui perfino ai miei occhi avevo poco senso.
Non avevo timore di pensare che al mio ritorno mi avrebbero rifiutato.
Ines mi avrebbe perdonato certamente. Anna col tempo anche. Magari con lei non sarebbe stato altrettanto facile e immediato come con mia figlia riuscire a spiegare quella ‘pausa di riflessione’, ma aveva sempre compreso tutto di me, anche quelle cose che non capivo io di me stesso. Ero sicurissimo avrei potuto avere un futuro con lei, con loro.
Perché non ero fuggito per non tornare più. No, quella volta volevo tornare, ma volevo farlo da uomo maturo, sicuro di sé e con un lavoro serio, in grado di provvedere al bene della famiglia che finalmente ero certo di voler formare.
Perché in quelle settimane divenute mesi io, Sergio La Cava, avevo capito cosa volevo, o almeno buona parte di quello che desideravo.
 
Il mio ritorno a Spoleto non è andato esattamente come nei miei piani, però.
Posi fine alla mia ‘latitanza’ circa sette mesi dopo la mia uscita dal carcere. Ma avrei dovuto intuire che le cose forse in quel lasso di tempo erano cambiate quando nessuno aveva provato a rintracciarmi. Doveva essere un campanello d’allarme il fatto che la mia ragazza non mi avesse mai cercato, nemmeno per il bene di mia figlia, giusto?
Sono sempre stato un po’ duro di comprendonio, ma quella volta più che mai, mi sa che ho dato troppo per scontato.
Perché dopo mesi e anni a convincermi, a pressarmi, perché mi prendessi cura di mia figlia, di fronte alla mia nuova fuga aveva deciso di lasciarmi lo spazio che apertamente non le avevo chiesto, ma mi ero preso? Un’azione anomala, da parte sua perlomeno.
Al mio arrivo a Spoleto, capii perché.
 
Era un tardo pomeriggio di dicembre quando mi presentai alla porta della canonica di Don Matteo per riprendermi la mia vita.
Bussai più volte, ma non ricevetti risposta. Forse era un segno del destino anche quello, che però non volevo capire. Presi a guardarmi intorno, domandandomi dove potessero essere finiti tutti. Fu Spartaco, alquanto sorpreso e non esattamente contento di vedermi, a informarmi che erano tutti a vedere la partita di calcetto di mia figlia.
E a quel punto, quello sorpreso fui io. Mia figlia giocava a calcetto? Da quando? Ma soprattutto come aveva fatto a convincere Anna a farla giocare? Anna odiava il calcio e ci rimproverava sempre quando, prima di finire in carcere, ci vedeva giocare assieme nel parco sotto casa sua invece di fare i compiti.
Raggiunsi gli impianti sportivi di Spoleto abbastanza velocemente. Al mio arrivo la partita era quasi finita. Mancavano una quindicina di minuti. Mia figlia era la stella della squadra, col dieci sulle spalle e una tecnica da far invidia ai compagni maschietti. Un rigore all’ultimo minuto decretò la vittoria della sua squadra. Non lo tirò lei, ma era felice lo stesso. E io per lei.
Mi godetti i festeggiamenti post vittoria da lontano, fino a quando non vidi la scena che mi pose di fronte a una realtà che non mi piaceva affatto.
Perché dimostrava che le mie convinzioni erano errate.
Le cose erano decisamente cambiate rispetto a come le avevo lasciate ed ero stato sicuro di ritrovarle, e tanto.
Li avevo già notati oltre la rete, in quei pochi minuti passati a vedere la partita. Come me, stavano assistendo alla performance di Ines, ma lo stavano facendo assieme, proprio come due genitori farebbero con la propria figlia.
E sempre insieme esultarono al goal decisivo della vittoria. Abbracciandosi come mai io avevo visto loro fare, perché non ne avevo mai avuto modo.
Quando ero entrato in carcere i due erano ancora ai ferri corti, o così ricordavo. Comunicavano per ragioni strettamente lavorative, in poche occasioni avevano un po’ abbassato l’ascia di guerra, ma non erano intimi come lo erano sicuramente stati prima del tradimento e come sembravano esserlo ora.
E okay, sapevo si fossero riavvicinati per via dei racconti di mia figlia durante gli ultimi due anni, ma come amici. Non così. Non così tanto come appariva da quella scena.
E se già quella mi fece drizzare le orecchie, la successiva scena più di tutte mi ridestò dal sogno dorato che mi ero fatto per il futuro. Mentre attendevo che la folla di genitori e figli defluisse dal campo, li vidi tutti e tre assieme in mezzo al rettangolo verde di gioco, abbracciati a festeggiare la vittoria come fossero una famiglia.
Erano una famiglia ai miei occhi.
E se non lo erano di fatto, poco ci mancava.
Una scena degna di un film. Idilliaca, oserei dire. Per gli altri. Non per me. Perché Anna poteva anche comportarsi come una mamma con la bambina, ma lui no.
Lui non poteva aver preso il mio posto.
Non doveva prendere il mio posto. Ines era mia figlia, non sua, e Anna era la mia ragazza, non la sua, e quelle libertà con loro due non gli spettavano. Se mi fossi mosso nel modo giusto, sarebbe stato di nuovo fuori dai giochi come la prima volta. Ero sicuro.
Era lì solo perché il posto era vacante. Era la riserva nella mia squadra, nella mia partita. Io ero il titolare, e ora che ero rientrato dalla lunga ‘squalifica’, era tempo mi riprendessi il mio posto.
Se molte certezze quel pomeriggio vacillarono, una rimase salda al suo posto: mia figlia non riservava rancore nei miei confronti. Anzi.
Non esitò a corrermi incontro appena mi vide, tra lo sconcerto di Anna e Marco rimasti immobili quasi avessero visto un fantasma.
Dopo il lungo abbraccio di riconciliamento con mia figlia, salutai con un cenno la coppia, ancora ferma e incapace di credere fossi veramente lì, tornato evidentemente per rovinare l’idillio perfetto che si era creato. 
Mia figlia insistette affinché Marco e Anna le permettessero di tornare a casa con me. Accettarono, a malincuore, la sua richiesta.
C’erano astio e diffidenza nei miei confronti, non ci volle molto a capirlo. Da Marco me lo aspettavo. Da Anna anche, ma non fino al livello che percepii dal suo tono freddo nel parlarmi. Dal gelo che i suoi gesti emanavano.
Però non diedi tutto per perduto dopo quel primo incontro, dopotutto l’avevo intuito che non sarebbe stato tutto rose e fiori. Ero ben deciso a riprendermi ciò che era mio. Anche se per la prima volta avessi dovuto intraprendere la strada più difficile.
Non avevo ancora capito, in quel momento, di non essere all’altezza di Anna. Mi ci vollero ancora un paio di incontri con lei, soprattutto perché mia figlia nel mentre mi lanciava segnali di speranza e io pur di assecondare i suoi desideri ero pronto anche a schiantarmi in un palo.
E così è stato.
Perché se Ines, dall’alto della sua innocenza, era certa Anna fosse solo momentaneamente arrabbiata con me perché ero andato via senza dirglielo, ma avrebbe capito la mia scomparsa se le avessi parlato, Anna dal canto suo era ben ferma nella sua posizione rispetto al suo rapporto con me. Se è vero che non aveva parlato male di me a mia figlia, lei aveva nettamente cambiato atteggiamento.
 
La mattina dopo la partita di calcetto, quando ero certo che Anna fosse ancora a casa e non in caserma, mi presentai al suo appartamento, con la ferma intenzione di spiegare la mia posizione e riaggiustare tutto tra noi. Giunto al suo pianerottolo, incontrai  inaspettatamente Marco che stava scendendo dal piano superiore, diretto al lavoro.
La cosa mi sorprese molto. Non sapevo vivesse in quel palazzo. Ines non me lo aveva mai detto e Anna, nemmeno a dirlo, di lui non mi parlava mai.
Il mio ‘nemico’ viveva a due passi dalla donna che amavo! Un brutto segnale a mio avviso. Soprattutto ora che, per la prima volta da quando ci conoscevamo, Anna appariva schierata dalla sua parte e non dalla mia.
Dal nostro breve incontro uscii però relativamente convinto che la mia partita con Anna non fosse ancora del tutto persa.
Marco non era felice di vedermi lì quella mattina, quello era poco ma sicuro. E anzi, sembrava piuttosto arrabbiato all’idea che stessi andando da Anna. Chiaro segnale che era ancora geloso, nonostante tutto. Tradotto nella mia testa: lui ed Anna erano ancora solo amici. In qualsiasi misura, ma il confine non lo avevano ancora passato.
C’era speranza che Ines avesse ragione. E la spallata che Marco mi diede andando via non scalfì la mia sicurezza di risolvere tutto. Di essere ancora in gioco.
A distruggere quella sicurezza ci pensò poco dopo una porta in faccia. Quella dell’appartamento di Anna.
Non me lo aspettavo, lo ammetto. Qualche reticenza sì, ma la porta in faccia no. Sì che il mio discorso faceva acqua da più parti, ma il senso c’era, aveva senso. Lei però non mi aveva nemmeno fatto concludere di parlare, limitandosi a rivolgermi un’espressione infastidita e due parole in croce per di più colme di risentimento.
Allontanandomi di fronte a quel rifiuto di dialogare, mi chiesi se forse le mie convinzioni non fossero errate. Se non avessi calcato un po’ la mano immaginandomi un futuro troppo fuori dalla mia portata.
Però quello era solo il mio primo tentativo di ricucire lo squarcio che avevo creato, forse ci voleva un po’ di tempo, mi ripetevo. Era normale avere qualche difficoltà subito. Col tempo avrei fatto breccia tra gli aculei della corazza di Anna, come la prima volta. Dovevo essere paziente. Attendere come mi aveva promesso di fare lei. L’avevo ferita, era normale ricevere un po’ di resistenza.
Non potevo arrendermi alla prima porta in faccia. Al primo schiaffo però magari...
No, fermi. Era per dire. Non ci fu nessuno schiaffo.
Non fisico perlomeno.  
E forse sarebbe stato meglio quello fisico, a pensarci bene, visto che quello ‘metaforico’ era stato prima dritto e poi a manrovescio.
La mano d’andata mi colpì, metaforicamente parlando, quando scoprii da mia figlia che l’anello di famiglia che le avevo consegnato, Anna lo aveva restituito a Ines.
Era di Irene, anche se non penso lo abbia mai messo. Glielo avevo regalato insieme al famoso bracciale, qualche mese prima del mio arresto. Un altro pezzo della refurtiva. Non pose domande sulla provenienza di quei gioielli, ma penso sospettasse non fossero opera di attività molto lecite, visto che non avevo il becco di un quattrino all’epoca.
Come con Irene, anche con Anna quell’anello non doveva essere simbolo di una proposta di matrimonio, quanto più una promessa: quella di voler costruire un legame più serio di quello vissuto fino al momento in cui lo regalavo. Irene me lo riconsegnò quando le dissi che non ero pronto a riconoscere il figlio che portava in grembo come mio.
L’anello tornò in mio possesso al termine della prima pena, insieme a quei pochi beni che mi erano stati confiscati una volta finito dentro.
Al mio secondo soggiorno in carcere, l’anello era di nuovo finito sotto custodia, ma riuscii a fare in modo che Anna lo avesse. Non fu facile farle ottenere l’autorizzazione a prendere la scatolina blu che lo conteneva tra gli oggetti sottoposti a ‘confisca’, ma alla fine finì tra le sue mani. Non avevo potuto consegnarglielo personalmente, ma una volta certo lo avesse avuto, le chiesi di custodirlo fino al mio ‘ritorno’ e di considerarlo simbolo del nostro futuro insieme.
Sapere che lei lo avesse riconsegnato a mia figlia poco dopo la mia fuga non poteva certo essere un buon segno.
E se quella scoperta era lo schiaffo a man dritta, quello a manrovescio era paragonabile a una doccia ghiacciata.
Convinto da mia figlia, provai a restituirglielo la sera stessa della scoperta. Anna stava uscendo dalla canonica, dopo aver messo a letto mia figlia. Ero arrivato troppo tardi, lasciandomi sfuggire la possibilità di ricreare un momento famigliare che ero certo avrebbe potuto aiutarmi a rompere il ghiaccio piombato sulla nostra storia. Avevo dimenticato la ‘routine’ di Ines, e avevo commesso un altro errore che mi sarebbe certamente costato.
Non potendo fare altrimenti, provai a giocarmi comunque la carta della compassione per mia figlia. Le mostrai la scatolina blu, dicendole che Ines me l’aveva restituita affinché gliela riconsegnassi, come erano d’accordo.
Ma fu inutile.
Lì capii che in quei mesi Anna era cambiata. O forse era tornata se stessa. Quella vera, come tutti dicevano.
Perché quella di fronte a me non era la Anna che avevo imparato a conoscere, quella disposta a darmi ascolto e credermi incondizionatamente. A concedermi possibilità senza remore.
Ma soprattutto, quella che si lasciava commuovere dai miei discorsi da vittima e abbindolare dai miei metodi da casanova dei poveri.
Ero a un passo dallo schianto. Ma non mi fermai, provai a prendere il toro per le corna, spiegandole che mi aveva fatto paura l’idea di affidarmi a un’altra persona e per quello ero fuggito.
Ma era tardi. E lo schiaffo, che non mi diede ma sentii comunque dopo aver provato a baciarla, mise la parola fine a ogni mia possibilità di riaverla.
Non lo voleva, quell’anello.
Non voleva i miei baci.
Ma soprattutto non voleva più me.
Mi respinse, intimandomi di non provare mai più a baciarla. Con una voce debole che però non celava il disgusto per ciò che avevo fatto e insistevo a rifare.
A quel punto, tentai l’ultima e disperata carta: infilarle la scatolina di nascosto nella tasca della giacca e sperare che una volta calmatasi, avrebbe cambiato idea.
Un sogno che non divenne mai realtà.
Non riuscii più a ricucire la storia con Anna. Qualche giorno dopo mi riconsegnò l’anello e mi intimò di non fare del male a Ines, o mi sarebbe venuta a cercare e uccidere lei stessa, con le sue mani.
Le sue parole erano dure come la pietra, anche se la sua voce non era più piena di risentimento come prima.
Nei giorni precedenti mi aveva proposto una tregua, per il bene di Ines. Non sarebbe cambiato nulla fra di noi, ma mi concedeva il beneficio del dubbio che fossi veramente tornato per restare. Penso c’entrasse anche qualche discorso tenutosi tra lei e Ines di cui non ero a conoscenza. Fatto sta che la tregua mi permetteva di provare a essere veramente padre. I servizi sociali avrebbero preso una decisione sulla mia idoneità o meno.
Fui felice di aver avuto quella possibilità.
Sapevo che anche il più piccolo errore mi sarebbe potuto costare caro, ma ero pronto a provarci. Ad aprirmi alle difficoltà che essere padre comporta, a intraprendere la strada giusta e in salita, destinata a schiarire il grigio della mia esistenza.
E sapevo anche che Ines stessa non mi avrebbe reso la vita semplice. La bambina che mi aveva sempre amato incondizionatamente, in quei giorni era venuta da me mettendomi di fronte a una triste verità: se è vero che in amore vince chi fugge, ed è altrettanto vero che quando vuoi bene a qualcuno torni sempre, a volte tornare non basta.
E mia figlia temeva scappassi di nuovo. Che per paura di non essere capace a fare il padre, l’avrei nuovamente abbandonata. Era un pensiero semplice il suo, ma espresso in toni strani anche per una bimba come lei, molto più matura della sua età anagrafica.
Ero certo che dietro quelle parole ci fosse Anna. E lì capii perché non era destino percorressimo la medesima strada. Mentre lo era per lei e Marco.
Non so perché, ma in piedi davanti alla canonica, quando comunicammo a Ines che poteva venire a vivere con me, mi tornò in mente una citazione di Bukowski, che a Irene piaceva molto, e che bene si adattava a tutto quello successo in quei giorni:
Volevo ricordarti che l’amore è rimanere e non sparire per vedere se uno poi ci tiene, o qualcosa del genere comunque.
Ero sempre fuggito. E dietro non mi era mai corso nessuno, non fino alla fine della strada perlomeno. Però una persona, alla fine di una delle mie maratone, era rimasta ad attendermi, dimostrando di tenere a me. E io non potevo deluderla scappando di nuovo.
Forse non mi meritavo quel suo affetto incondizionato, ma potevo provare a guadagnarmelo. Non volevo sprecare quell’opportunità che Anna aveva fatto in modo di concedermi, anche se non capivo perché si fosse impegnata a farmela avere in modo tanto determinato.
Solo qualche giorno dopo il nostro ultimo incontro da Spartaco, mesi fa ormai, mi resi finalmente conto del perché mi aveva aiutato. O meglio, perché aveva aiutato mia figlia, in quella situazione.
Non voleva Ines crescesse col rimpianto di sapere di avere un padre, ma non poter stare con lui, perché qualcuno o qualcosa lo impediva.
Sapeva cosa volesse dire crescere senza quella figura così importante, e desiderare con tutte le proprie forze di poterlo avere a fianco.
A lei questa possibilità era stata tolta e non voleva Ines vivesse quanto accaduto a lei, se poteva evitarlo. E valeva la pena fare un tentativo serio, se io dimostravo di avere intenzioni altrettanto serie.
Per quanto pessimo potessi essere come padre e uomo, esserci sarebbe stato sufficiente rispetto a non esserci affatto per Ines. Perché sì, sapeva lei stessa che Marco sarebbe stato senza ombra di dubbio un padre di gran lunga migliore di me per la bambina, ma io c’ero, e avevo ancora la possibilità di restare, per mia figlia. Di migliorare, per lei. Costruire, e ricostruire pian piano quello che era mancato nel tempo.
E questo discorso vale anche in un rapporto di coppia.
Per questo, la guerra alla fine l’ha vinta lui.
Che era rimasto dopo tutti gli errori commessi, sperando un giorno di riguadagnarsi la fiducia perduta, invece di scappare e poi sperare che il tempo e la lontananza potessero sanare le ferite, e magari ricominciare da dove aveva lasciato.
Il giorno del mio ultimo incontro con Anna, da Spartaco, quando mi riconsegnò l’anello senza troppi giri di parole, mi resi conto di quanto ero stato ingenuo a pensare che per lei la storia con me potesse rappresentare più di una semplice parentesi.
A distanza di anni dalla fine ‘tragica’ della sua storia con Marco, si era di nuovo innamorata di lui. O lo era ancora, perché non sono certo avesse mai smesso di amarlo. Quel giorno più che mai, ero curioso di sapere cosa avesse quell’uomo di tanto speciale da essere riuscito a riconquistarla nonostante il male che le aveva fatto. In altre parole, cosa avesse più di me.
Inutile precisare che non me lo disse, anzi non rispose proprio alla mia curiosità esplicita che chiedeva se ci stessero riprovando.
Non credo che siano affari tuoi.
Così glissò la domanda su di lui, chiudendo il sentimento dietro uno sguardo per me impenetrabile. Non erano affari miei, e non dovevo chiedere. Perché la sua storia con Marco era un argomento taboo che con me andava troncato.
Aveva sempre fatto così, del resto. Fin da quella volta in cui le chiesi se fosse sicura lui fosse solo una persona a cui aveva voluto bene e non che amava ancora. La conversazione terminò lì.
E sebbene fossi certo che quella non sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei vista, il suo saluto suonò come un addio.
Quando al suo posto, al tavolino del bar, rimase la semplice sedia vuota, dentro di me sentii il colpo dello schianto.
Come se fossi andato a sbattere contro un muro a duecento all’ora.
Di quei mesi ed anni non era rimasto niente se non il mio senso di colpa.
Perché me l’ero cercata. Per quello che avevo fatto la prima volta, e per la mia fuga quando invece sarei dovuto restare.
 
Tre mesi fa, dopo la mia conversazione con Anna, sono riuscito a convincere Ines che non sarei più scappato.
La giornata fino a quel momento non era andata benissimo – tra il palo ricevuto da Anna e i mille improperi ricevuti da sua madre e Natalina per via di un equivoco legato all’anello – ma si era conclusa meglio di quanto potessi aspettarmi.
Riuscii a convincere Ines delle mie buone intenzioni, promettendole di impegnarmi seriamente a darle quella famiglia che lei tanto desiderava. Anche se non con Anna come mamma.
Allo stesso tempo però volli dimostrarle quanto per me contasse il suo amore facendo la cosa forse più difficile per me: fermarmi e prendere la decisione giusta.
Anche Forrest Gump nel film dopo aver corso, corso e ancora corso si fermò perché stanco.
Io pure lo ero a quel punto. Stanco di scappare, stanco di dover sempre ricominciare da capo ogni volta. Stanco di dover dimostrare di essere cambiato, quando potevo essere una versione migliore di me anche restando lo stesso di sempre.
Così mi trovai un nuovo lavoro a Spoleto, in modo che Ines potesse continuare a vedere e vivere di quei legami che si era costruita in mia assenza, che per lei erano importanti e a cui non era giusto rinunciasse per causa mia.
Nel frattempo i servizi sociali avrebbero avuto modo di tenermi sotto stretta sorveglianza per capire se fossi idoneo a occuparmi di mia figlia.
Avevo intenzione di pianificare il mio futuro e come mai prima di allora, ero in procinto di provare ad aprire la porta che avrebbe dovuto condurmi su una strada, se non giusta, migliore di quella fino ad allora percorsa. Per il bene di mia figlia. A cui speravo susseguisse il mio.
 
 
Sono passati tre mesi dal giorno in cui la porta di un futuro con Anna mi si è chiusa in faccia e quella di una vita con mia figlia ha iniziato ad aprirsi, lentamente, davanti a me.
Non è tutto rose e fiori, anzi la strada dinnanzi a me è in salita. Ma ci sto provando.
Giorno per giorno cerco di prendere una migliore confidenza con il ruolo di padre. Un lavoro duro, per niente facile, tanto che a volte mi viene voglia di riprendere a correre. Scappare. Ma ho promesso ad Ines che non lo avrei più fatto, e questa volta non ho intenzione di rimangiarmi la parola.
Non ora che, a fatica, sono riuscito a conquistarmi la fiducia di mia figlia e delle persone a lei care.
Persone che hanno ancora la loro buona dose di remore nei miei confronti – e non li biasimo – ma che stanno facendo a loro volta lo sforzo di provare a fidarsi di me. Perfino Marco che, addirittura, un mese fa mi ha teso la mano parlando con i servizi sociali affinché mi concedessero un periodo di prova per stare da solo con mia figlia e occuparmi senza aiuti di lei.
Uno step importante per me, per il mio futuro con Ines. Una nuova fase che oggi, finalmente, è in procinto di partire.
Perché oggi è il grande giorno.
Oggi inizia il periodo di prova che Marco è riuscito a farmi concedere, perché senza la sua intercessione so bene non lo avrei mai ottenuto. A partire da questo momento, Ines finalmente vive con me. Non so quanto durerà, se durerà. Ma è un primo passo.
Ci è voluta qualche settimana perché dalle carte si passasse alla realtà, ma il mio deciso impegno e soprattutto l’aiuto che mi ha offerto Marco sono serviti ad arrivare fin qui.
E nonostante le nostre differenze e incomprensioni, gli sono grato di questa opportunità.
Non me lo aspettavo da lui, non era facile ottenere la sua di fiducia, non so come ci sono riuscito.
Soprattutto considerando che negli ultimi tempi nemmeno Anna era più convinta fosse il momento per provare a fare il ‘grande passo’. Proprio lei che era sempre stata la prima a volerci far riconciliare, ora nutriva quei dubbi che prima si era sempre rifiutata di concedere.
A dissipare la sua reticenza alla fine è stato poi lui. Una situazione paradossale a guardare indietro. O forse non così tanto.
Perché non le ha fatto cambiare idea su di me, né lui ha cambiato idea su di me. Si è convinto e l’ha convinta per il bene di Ines. Perché Anna per prima ha sempre creduto che questo step fosse quello giusto per la bambina. E lui per il loro bene, la loro felicità, è sempre stato disposto a fare tutto.
Non mi sono quindi conquistato la sua – la loro - fiducia, ma il loro beneficio del dubbio. Che è comunque più di quanto avrei mai potuto immaginare di poter ottenere da loro dopo tutto quello che è successo. E non potrei esserne più grato.
Perché se oggi sono qui, seduto sul lettino di mia figlia, nel mio appartamento, lo devo a loro e a quel beneficio del dubbio di essere cambiato.
Non posso offrire a Ines una reggia, ma un banale e piccolo bilocale – molto piccolo -, niente di esoso. Qualcosa di adatto alle mie tasche e ad accogliere anche lei. Ma è un inizio.
L’unica camera da letto l’ho lasciata per lei. Per me il divano-letto sarà più che sufficiente.
Voglio che si trovi bene a vivere con me, e soprattutto spero che duri.
E ne sono convinto più che mai, ora che la osservo muoversi tranquillamente nello spazio della sua cameretta come se fosse qui già da una vita e sistemare le sue cose canticchiando sottovoce.
I miei occhi la seguono affascinato, mentre lei sposta i libri di scuola dal suo borsone alla libreria con meticolosità. Ha quasi finito, quando alzando uno degli stessi sul secondo piano dello scaffale, noto qualcosa caderle a terra.
Una busta grigia. O meglio argentata, come prontamente mi corregge quando le chiedo cosa sia. Prima che io riesca a fare un movimento per prenderla, lei la raccoglie in fretta, stringendola a sé in maniera stranamente possessiva.
La vedo titubare, indecisa se rispondermi e spiegarmi cosa contenga.
Cosa potrebbe contenere di così brutto da non volerlo condividere con me?
Mi osserva, dibattuta tra il parlare e il tacere. Dopo qualche secondo decide infine di consegnarmela, spiegandomi di averla ricevuta a Natale, e pregandomi di leggerla da solo mentre lei va in cucina a prendere qualche biscotto dalla credenza per una pausa merenda.
Faccio come mi chiede. Sento i suoi movimenti nella stanza accanto mentre la apro. Per poco la busta e il cartoncino iridescente che c’era al suo interno non mi scivolano dalle dita, una volta capito cosa sia.
È un invito.
A un matrimonio.
Al matrimonio.
Quello di Anna e Marco.
Sapevo che fossero tornati insieme, non era certo un segreto, anzi. Lo scoprii poco dopo quell’ultima chiacchierata da Spartaco con Anna, per essere precisi.  Alla fine la risposta alla mia domanda l’avevo in qualche modo avuta, anche se con qualche giorno di ritardo: sì, avevano deciso di riprovarci.
Come ampiamente previsto.
E come ampiamente sperato anche da parte di tutta Spoleto, visto che la notizia era stata accolta con gioia in lungo e in largo.
Era inevitabile che dalla riappacificazione si arrivasse a questo momento, al loro grande passo.
Anche perché nemmeno un mese dopo l’ultima volta che l’avevo vista da Spartaco, un anello di fidanzamento era comparso all’anulare sinistro di Anna. Difficile non notare quel diamante che, seppur di piccole dimensioni, brillava come la luce nel suo sguardo riapparsa da un paio d’anni a questa parte, da quando lei e Marco avevano fatto pace.
In guerra e in amore alla fine ha vinto lui.
Eliminato l’ultimo ostacolo – me – dalla via, Marco è riuscito a riprendersi il suo posto accanto a lei.
Perché alla fine dei giochi, l’usurpatore ero io, non lui.
Il posto accanto ad Anna è sempre stato solo ed esclusivamente suo. Anche quando tutto attorno a lei era diventato nero a causa del tradimento.
In quel buio, in mezzo al dolore che lei provava, il mio grigio non aveva saputo fare sufficientemente luce.
Ma il bianco della purezza dei sentimenti di Marco per lei, col tempo, sì.
Perché Marco la sua seconda possibilità se l’è guadagnata. Un semplice errore non voluto, una mezza bugia disperata, sono niente rispetto alle mie mille menzogne e al mio averla quasi condotta alla morte.
La data sul cartoncino che stringo fra le mani tremanti dice che non manca molto al lieto evento. Non sono certamente felice di apprendere questa notizia, perché comunque ancora la amo.
Ma so che non posso essere io a renderla felice. Non sono mai stato io quello destinato a farlo.
Lui invece sì.
Perché lui ha avuto la pazienza di aspettare, di rimanere anche quando tutto sembrava perduto. E ha avuto il coraggio di esserci, sempre, a prescindere anche dalla sua, di felicità.
Io no.
Io ho corso per chilometri senza mai voltarmi indietro a guardare se qualcuno mi stesse effettivamente seguendo.
E quando ho avuto la forza di arrestare la mia corsa e mi sono voltato, ho capito di essere nel torto.
In amore non vince chi fugge. Ma chi ha coraggio di restare.
Perché un arcobaleno di colori nasce sempre col ritorno del sole, dopo la più grigia delle tempeste.
 
Eccoci giunti alla seconda e ultima parte della voce di Sergio La Cava. Ci fa piacere sapere che avete superato l’esitazione e avete letto attentamente la prima parte, e speriamo la seconda sia stata di vostro gradimento. Non sappiamo se quello che vi aspettavate, e speriamo di avere opinioni in merito!
Che piaccia o meno (e a noi non piace lo stesso), Sergio è un personaggio realistico. Quanti, nella vita, preferiscono essere grigi? Non è un difetto, fintantoché non si faccia del male agli altri. Se questo accade, bisogna scegliere da che parte stare, nel bene e nel male. Da quello che abbiamo visto nella fiction, speriamo Sergio l’abbia capito, e che di conseguenza stia moooolto lontano da Spoleto a vivere la sua vita. Si porterà dietro Ines, e questo un po’ ci dispiace, ma se è il prezzo da pagare per sapere i nostri insieme, lo accettiamo.
Attendiamo le vostre opinioni!
A presto,
 
Vocina e Grillo
 
 

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