Too Red To Be Blood

di Ode To Joy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***



Capitolo 1
*** I ***


Note D’Introduzione: 

Sì sta rivelando più lungo del previsto e, di fatto, la sua stesura non è ancora terminata, ma sono lieta di presentarvi il primo spin-off di “Poems By A Ghost”, quello che potremmo definire il punto di partenza della serie ”These Brand New Pages”.

I tempi: facciamo un lungo passo indietro, torniamo alle prime battute, a quando Mori recise la gola del vecchio Boss, prendendone il posto. E qualche volta, diamo uno sguardo ancora più indietro, a quando Mori Ougai era ancora Rintarou e la Grande Guerra era una minaccia, ma non ancora una realtà.

Per quanto riguarda i personaggi, Dazai e Mori sono i padroni della scena. Intorno a loro girano Hirotsu e Kouyou e una serie di personaggi originali creati al fine di raccontare la decadenza della vecchia Port Mafia e l’ascesa di quella nuova, di cui Mori è appena diventato Boss. 

Come ship è presente una FukuMori sullo sfondo, insieme al primo amore tutto europeo di Mori Rintarou. Storie passate, il presente è tutto Mori & Dazai Centric, l’ascesa del Boss e l’educazione del futuro Dirigente. 

Guest stars degne di nota: Johann Goethe (nominato nel Canon nella light novel “55 minutes”) e George Gordon Byron, già presenti dalle prime battute.

Avvertimenti: Trans!Dazai come nelle altre parti della serie. Presenza di argomenti delicati come prostituzione, suicidio e violenza (tipica del Canon). 

Ci vediamo nelle note a piè pagina.

Buona lettura! 


A Eneri Mess & Europa91

Se non ci fossero loro a sopportarmi,

non saprei dove sbattere la testa.



 

0

 

Le note di un pianoforte erano l’unica cosa a riempire i saloni della villa dormiente, che la notte precedente era stata teatro di festeggiamenti al sapore di vino e di baci rubati. Nascosta tra le montagne fuori Ginevra [1], circondata dall’ultima neve dell’inverno, una generazione di giovani dotati di abilità aveva creato il rifugio perfetto in cui sollazzarsi in attesa della primavera. Pochi giorni ancora e quel luogo, non più remoto e irraggiungibile, avrebbe perso tutto il suo fascino. Gli ospiti che vi risiedevano sarebbero tornati al loro paese di origine, lasciando George da solo a decidere i dettagli della sua prossima impresa.

Quella mattina però il pensiero era ancora lontano. Disteso sul tappeto della sala da pranzo - non ricordava né come né quando ci era finito - George tornò nel mondo dei vivi, accompagnato da quella melodia e maledicendo il mal di testa da post-sbronza.

Qualcuno gli camminò accanto, ignorando completamente la sua presenza a terra. George ebbe dei pensieri poco gentili anche nei confronti di quello sconosciuto. Poteva essere l’unico non dotato di abilità in quella villa, ma rimaneva pur sempre il solo e unico Lord Byron.

Si mise a carponi con gran fatica e i riccioli scuri gli ricaddero sugli occhi, che non riusciva a tenere aperti. Fuori dalle finestre il cielo era uggioso, ma la luce era comunque accecante per i suoi poveri sensi, intorpiditi dalle ultime tracce di alcol.

George impiegò dieci minuti buoni a mettersi in piedi. Per tutto il tempo, la musica di quel pianoforte derise la sua goffaggine e la facilità con cui gli piaceva perdere la sua dignità di uomo - qualunque cosa volesse dire. A George piaceva ricordare al mondo che faceva parte della nobiltà inglese, ma sottostare all’etichetta non era di suo interesse. Al contrario, scandalizzare era diventato il suo talento. Peccato che non fosse un’abilità in grado di servire alla ragion di stato.

Infermo sulle gambe, George si costrinse a uscire dalla sala da pranzo. Attraversò il salone principale e, a metà dell’atrio, la sua mente riuscì a recuperare quel tanto di lucidità che bastava per riconoscere la melodia che lo aveva strappato al sonno: la Für Elise di Beethoven.

La porta della sala della musica era aperta. 

Con il paesaggio innevato che faceva da sfondo, il nero lucido del pianoforte a coda faceva male agli occhi. E il pianista che vi sedeva di fronte si integrava così bene a quello schema cromatico: era pallido - quel genere di pallore di cui George era certo scrivessero i poeti - i capelli corvini incorniciavano il giovane viso. Persino i vestiti che aveva addosso erano neri. Le sue mani si muovevano sui tasti con disinvoltura, come se la musica fosse la sua seconda natura. Non che servisse una grande abilità per suonare quel pezzo, ma era il linguaggio del corpo a dare a tutto un fascino che impedì a George di allontanare gli occhi.

Non avrebbe mai saputo spiegarlo a parole, ma il modo in cui quel fanciullo suonava gli conferiva un aspetto semplicemente incantevole. 

Lord Byron era solito provare incanto con facilità, la stessa con cui poi tramutava quel sentimento in disinteresse. Pur conoscendo la sua natura mutevole, George non si era mai fatto scrupoli a soddisfare ogni suo capriccio. Illudere, ferire e umiliare non lo preoccupavano. Poche erano le persone che gli avevano toccato il cuore e neanche a loro era riuscito a rimanere fedele - almeno, non nella carne.

Quella creatura vestita di nero aveva lo aveva strappato via dai sogni figli del vino. Con un sorrisetto che prometteva guai, decise che meritava un piccolo risarcimento per il disturbo.

“Byron…”

George saltò come una molla, mentre un giovane uomo dai capelli biondi lo superava. La melodia s’interruppe di colpo, con una nota stonata.

Il fanciullo dai capelli corvini sorrise. “Buongiorno, Hans.”

Johann Goethe si passò una mano tra le onde dorate, cercando di dargli una parvenza di ordine. A giudicare dalla patina di sonno che ricopriva quegli occhi azzurri, la musica doveva aver destato molestamente anche lui.

“Stai svegliando tutta la casa, Rintarou,” disse Goethe.

Il fanciullo dai capelli corvini reagì alla notizia con una scrollata di spalle. “C’è stata una gran confusione per tutta la notte. Non sono riuscito a riposare bene e mi sono svegliato di cattivo umore.”

Goethe alzò gli occhi al cielo. “Da quando suoni per farti passare il malumore?”

“Da quando suonare disturba chi il malumore me lo ha provocato,” rispose il giovane - Rintarou - con un sorriso che, se fosse stato possibile, avrebbe ucciso.

Goethe lasciò cadere le spalle. La giornata era appena iniziata ed era già stanco.

“Il signorino è risentito perché non è salito in camera come aveva promesso,” disse una terza voce.

George si piegò di lato - e dovette attaccarsi all’architrave della porta per mantenere l’equilibrio e non cadere rovinosamente - e vide che vi era un terzo uomo dietro il pianoforte, intento a servire la colazione sul tavolo sotto la finestra. Doveva essere il tipo che era uscito dalla cucina e gli era passato accanto, ignorandolo deliberatamente.

“Il signorino dovrebbe imparare a prepararsi il caffè da solo, Hirotsu” ribatté Goethe, senza rancore. Rintarou gli lanciò un’occhiata storta. “Il signorino è anche molto viziato e capriccioso.”

Il terzo uomo - sulla trentina, con due baffi scuri sotto il naso e un paio di occhiali dalla montatura leggera - sospirò. “Temo di non poter dissentire.”

Rintarou assunse un’espressione scandalizzata e si voltò di colpo. “Hirotsu!”

“Con tutto il rispetto,” il maggiordomo - George non sapeva davvero che altro potesse essere - si avvicinò per porgere al suo giovane signore la tazza di caffè incriminata, “penso che lei debba ascoltare le ragioni del signor Hans, prima di accusarlo di qualsiasi cosa.”

Le labbra di Goethe si piegarono in un sorriso grato. “Grazie, Hirotsu.”

Rintarou borbottò qualcosa, sorseggiando il suo caffè caldo. 

“Stavo parlando con Victor nel salottino sul retro,” raccontò il giovane dai capelli biondi. “Parlavamo e bevevamo. Penso che a un certo punto sia arrivato William e abbia proposto uno stupido gioco dei suoi.”

Rintarou ridacchiò. “Abbastanza stupido da intrattenere entrambi, pare.”

“Mi sono addormentato sul divano,” concluse Goethe. “Niente di più, niente di meno e… Se vuoi far finta di suonare il pianoforte, almeno tieni uno spartito sul leggio!” Aggiunse con tono di rimprovero, indicando il punto del pianoforte in questione.

Rintarou gli rivolse una smorfietta da superiore. “Non mi serve.”

Goethe si portò una mano al viso e si massaggiò la fronte. 

Sentendosi ignorato in casa sua, Lord Byron strinse le labbra in una smorfia piena di sdegno e s’impegnò subito per divenire il centro della scena. “Non faceva finta,” intervenne. “Suonava per davvero.”

Goethe sollevò lo sguardo stanco. “Oh, giusto, Byron, sei qui…”

Rintarou si accorse di lui per la prima volta. 

“Hans, amico mio!” Esclamò George, facendo un passo in avanti - e ci mancò poco che inciampasse nei suoi stessi piedi. “Non essere severe col tuo amico. Piuttosto, perché non me lo hai presentato quando siete arrivati?” Circondò le spalle di Goethe con un braccio, cosa di cui il tedesco non fu affatto contento.

“Lo ha fatto,” rispose Rintarou. “Ma siete ubriaco, drogato e quant’altro da almeno tre giorni, my Lord.

George aprì la bocca, poi la richiuse. Lasciò andare Goethe, che fu ben lieto di allontanarsi, e simulò un colpo di tosse per darsi un contegno - anche se la camicia sporca di vino e i capelli in disordine non gli facevano un gran favore. “Rintarou,” ripeté. “In Europa si parla di te, ma non del tuo nome.”

Il giovane dai capelli corvini inarcò le sopracciglia. “Davvero?” Anche gli occhi erano scuri, grandi, profondi come il mare di notte. “Sentito, Hans? In Europa si parla di me.”

“In Europa ci si annoia molto,” commentò Goethe.

Rintarou appoggiò la tazza di caffè sopra il pianoforte con un po’ troppa forza. “Vuoi litigare? Litighiamo!”

“Puoi aspettare che mi passi la sbronza?” Lo pregò Goethe. Il maggiordomo si avvicinò una seconda volta, offrendo un’altra tazza fumante al tedesco. “Grazie, Hirotsu.”

“Hirotsu, non fraternizzare col nemico,” disse Rintarou.

L’uomo con i baffi si limitò a ridacchiare.

Notando di essere stato di nuovo scansato dalla scena, George cercò d’imporsi una seconda volta. “Quindi è lui il fiore d’Oriente con cui sei tornato da Yokohama, Hans!”

Sì, in tutti i salotti d’Europa era girato quel pettegolezzo: il giovane Johann Goethe era volato in Giappone per rispondere all’invito di un’organizzazione dalla natura oscura, non aveva accettato la proposta che gli era stata fatta, ma era tornato affiancato da un adolescente di cui tutti decantavano il fascino magnetico.

George avrebbe mentito se avesse detto che Rintarou non aveva attirato il suo interesse semplicemente suonando una melodia per bambini ma - per citare Goethe - viziato e capriccioso erano davvero gli aggettivi che più si addicevano alla situazione.

Accanto a lui, il tedesco per poco non si strozzò col suo caffè. “Sì, un fiore!” Esclamò, ridendo e tossendo al contempo. “Sentito, Hirotsu, abbiamo tra le mani un delicato fiore d’Oriente!”

“Sua madre sarebbe orgogliosa, signorino,” disse il maggiordomo.

Se uno sguardo avesse potuto far del male, quello di Rintarou avrebbe trapassato Goethe senza pietà. “Vai all’inferno, Johann Goethe.”

Nonostante quelle parole, sul viso del tedesco comparve un sorriso che esprimeva il più puro e sincero affetto. “Ci sono già,” rispose, “ma sono in ottima compagnia, quindi non mi lamento.”

George vide lo sguardo di Rintarou divenire meno affilato. Non aveva idea di come, ma Goethe era riuscito a smorzare l’atmosfera.

Fu un momento breve.

“E impara a leggere gli spartiti.”

Rintarou poggiò il gomito sui tasti del pianoforte, provocando un suono spiacevole, poi borbottò un insulto ai danni del giovane tedesco.

“Come fa a suonare il piano senza leggere lo spartito?” Domandò George. 

“Impara la sequenza delle note a memoria,” rispose Goethe.

“Capisco, ma perché le memorizzi, le deve conoscere,” insistette Lord Byron.

Il tedesco scosse la testa. “Rintarou, qui, memorizza il movimento delle mani.”

George strabuzzò gli occhi. “Prego?”

Goethe annuì. “Suona un pezzo, uno qualunque, non ha importanza la complessità. Dopo al massimo tre esecuzioni, saprà ripeterlo alla perfezione.”

“Il signorino è molto intelligente,” buttò lì Hirotsu.

Il padrone di casa rimase a boccheggiare come un pesce fuor d’acqua. “È assurdo…”

“Esatto!” Esclamò Rintarou. “Massimo risultato con minimo sforzo. È strategia, mio caro Hans.”

“La musica è un’arte,” ribatté Goethe. “Le strategie lasciale agli uomini di guerra.”

Guerra.

Un’altra parola che riempiva la bocca di molti in Europa, in particolare negli ultimi due anni. Era anche per sfuggire un po’ a quella promessa di morte e distruzione che aleggiava su tutti loro che George aveva invitato tutti i rampolli di un’élite di dotati di abilità a rifugiarsi nella sua villa, lontano dalle regole del mondo.

Una parentesi ricreativa di cui uomini d’onore come Johann Goethe potevano godere solo a metà. Rintarou però l’aveva disprezzata apertamente.

George fece per chiedere il motivo per cui non si era unito alla baldoria. Che cosa lo aveva infastidito tanto da spingerlo a rifugiarsi in camera sua?

Non ne ebbe il tempo.

“Hans…” La voce di Rintarou spezzò il silenzio. “Suoniamo qualcosa?”

Goethe allontanò dalle labbra la sua tazza di caffè. Impiegò poco più di un istante a poggiarla sul pianoforte, accanto a quella del giovane dai capelli corvini.

George rimase dov’era, dimenticato - di nuovo. Per nulla pronto a demordere, fece per aprire bocca. Gli occhi scuri del giovane di Yokohama a stento lo avevano degnato di uno sguardo e la cosa lo irritava.

Rintarou aveva avuto l’insolenza di attirare la sua attenzione e George Gordon Byron non poteva soprassedere sulla cosa. 

Furono proprio quegli occhi a zittirlo e non dovettero neanche guardarlo per avere un simile potere. La musica tornò a riempire la stanza, Goethe attaccò la melodia - a George sfuggì completamente il nome del pezzo - Rintarou lo seguì e lo sguardo che si scambiarono in quel momento raccontò più di un romanzo di mille pagine.

Sconfitto, Lord Byron non poté fare altro che rimanere in silenzio.

Quando se ne andò, nessuno se ne accorse.



 

Ma nell’ipotesi e nel dubbio di aver disimparato tutto

E nell’ipotesi e nel dubbio che io mi sia perso

Che abbia lasciato distrattamente indietro un pezzo

Tu insegnami come si fa ad imparare la felicità

Per dimostrarti che se fossimo dei suoni, sarebbero canzoni

E se fossimo stagioni, verrebbe l’inverno

L’inverno dei fiori

[Michele Brevi, “L’inverno dei fiori”]



 

Too Red To Be Blood 
Primo Atto



 

I

 

-Yokohama, 15 anni dopo-


La luna era un enorme occhio dalle sfumature rossastre. Era piena e il suo bagliore soffocava quello di tutte le stelle, rendendo il cielo nero pece, come il mare che si estendeva oltre le luci del porto di Yokohama.

La città non dormiva, non lo faceva mai davvero.

Col favore delle tenebre, i Demoni uscivano allo scoperto e, nel buio, scrivevano una storia che non avrebbe conosciuto nessuno, al di fuori di loro. Forse la gente comune poteva percepirli, intuire la loro presenza in una notizia catastrofica al telegiornale, ma non avrebbero mai scoperto il significato dietro la loro esistenza. 

Il mondo non poteva essere buono, non era nella natura umana.

La pace assoluta era una mera utopia.

Il caos, invece, era una minaccia costante. 

Per evitarlo, per riportare le cose al loro - seppur precario - equilibrio, un Demone s’innalzò su tutti gli altri per commettere un regicidio.

Nessuno indossava una corona in quella stanza, ma quando la gola del Boss venne recisa, il ragazzino ebbe l’impressione che ne fosse caduta una a terra. 

Fu Mori Ougai, con le mani e il viso sporchi di sangue, a raccoglierla. 





 

Dazai Osamu scosse la testa.

Quando allontanò l’unico occhio scoperto dalla luna rossa, tornando a essere presente a se stesso, la scena in quella camera da letto si era fatta notevolmente più affollata.

Il cadavere del Boss era stato spostato dal letto a una barella, dentro uno dei sacchi neri dell’obitorio.

“Causa della morte?” Domandò uno dei nuovi arrivati: un uomo dai capelli grigi, i baffi e un monocolo a coprirgli l’occhio destro. “La presenza di un testimone non è sufficiente, vorranno un’autopsia.”

“E gliela daremo,” disse Mori, come se fosse una cosa da poco. “Il suo stato fisico non era migliore di quello mentale. Sommiamo il tutto a un’età approssimativa sopra i sessantacinque anni e nessuno farà domande alla parola infarto.”

“Ha la gola recisa,” puntualizzò un secondo uomo estraneo a Dazai, dai lunghi capelli neri e con addosso un cappotto troppo pesante per l’aria di fine estate. 

“Ed è per questo che useremo immediatamente il forno crematorio nel sotterraneo,” disse Mori, lanciando un’occhiata critica agli schizzi di sangue sulla carta da parati. “Dove si stanno radunando gli altri Dirigenti?”

“Nella sala riunioni di questo edificio,” rispose l’uomo con il monocolo.

Mori annuì, soddisfatto. “Molto bene,” disse, “che nessuno salga a questo piano. Randou, usa l’ascensore privato per raggiungere l’obitorio e liberati immediatamente del cadavere. Penseremo noi a giustificare la tua assenza.”

“E il ragazzino?” Aggiunse l’uomo con il monocolo.

Mori si voltò verso Dazai lentamente, come se avesse ignorato la sua presenza di proposito fino a quel momento. “Vai, Randou,” ordinò all’uomo dai lunghi capelli neri. 

Il movimento della barella provocò un rumore metallico, che nell’assoluto silenzio della stanza parve assordante. Dazai trasalì, ma non emise alcun verso. Non appena il cadavere fu fuori dalla stanza, l’atmosfera divenne improvvisamente più distesa.

Persino Mori lasciò andare un sospiro, come se si fosse liberato di un gran peso.

L’uomo col monocolo tirò fuori un fazzoletto dalla tasca interna della giacca e lo porse al medico. Mori lo ringraziò e se lo passò sul viso, ripulendosi dagli schizzi di sangue come poteva. “Temo ci sia poco da fare per questi vestiti,” disse, afferrando tra l’indice e il pollice il colletto del camicie non più bianco. 

“Mi dia qualche minuto e le farò avere dei vestiti puliti,” disse l’uomo col monocolo.

“Efficiente come sempre, Hirotsu,” commentò Mori. “Se riuscissi a procurarmi anche un po’ di schiuma da barba e una lametta, meriteresti la poltrona da Dirigente molto più di un paio di persone che la occupano già.”

“Arriviamo vivi a domani, prima di parlare di promozioni,” disse Hirotsu, con fare pragmatico. 

Mori accettò quella specie di rimprovero benevole con un sorriso. “Grazie della schiettezza.”

“Mi scusi se insisto, ma il ragazzino ha bisogno di qualcosa?” Domandò Hirotsu, tradendo una premura che non ci si sarebbe aspettati da una mafioso veterano.

Lo sguardo di Mori incrociò quello di Dazai. “No,” disse, sicuro. “Ci penso io.”

Hirotsu piegò la testa con rispetto. “Boss.” Si congedò.

Sorpreso da un brivido freddo che gli attraversava la schiena, Mori non lo guardò mentre usciva dalla camera da letto sporca di sangue. Una volta rimasto solo con Dazai, l’aria si fece più respirabile. “Bene…” Disse, senza una ragione precisa.

Il ragazzino continuò a essere una silenziosa e inquietante presenza nell’angolo.

Indeciso sul da farsi, il medico che aveva appena fatto di se stesso il nuovo Boss della Port Mafia esaurì la distanza tra sé e il suo piccolo complice. “Hai avuto paura?” Era una domanda legittima, ma fatta dall’uomo che si era appena sporcato di un regicidio - nella sua forma più oscura e moderna - suonava un po’ ridicola. 

Dazai scosse la testa. Il suo occhio scuro era un enorme pozzo nero, che a stento sembrava appartenere a una persona viva. Da parte sua, Mori non era né sorpreso né preoccupato: lo aveva saputo fin dall’inizio che il ragazzino non versava in uno stato psicologico ottimale. Anche quello era un dettaglio che gli faceva comodo.

“Ehi…” Mori usò di proposito un linguaggio informale, ma non avrebbe accettato altro silenzio come risposta. “Hai capito che cosa abbiamo appena fatto qui, vero?”

Hai ucciso il Boss della Port Mafia.” Furono le prime parole che pronunciò Dazai. Non tardò a sottolineare come i ruoli che avevano avuto nella vicenda non presupponessero l’esistenza di alcun noi. “Io sono rimasto a guardare. Era quello che volevi, che guardassi.”

A Mori sfuggì un ghignetto divertito. “Te ne lavi subito le mani, eh?”

“No.” Dazai scosse la testa. “Ma anche se siamo insieme, siamo da soli, io e te.”

Gli angoli della bocca di Mori si abbassarono, mentre capiva l’antifona: erano complici nei fatti, ma non erano una squadra.

“Ti sei reso il Boss della Port Mafia,” concluse Dazai, senza nessuna particolare intonazione.

“E non ti ha fatto alcun effetto vedere un uomo venire ucciso in quel modo?” Indagò Mori. La sua era semplice curiosità.

Dazai scosse la testa una seconda volta. “No,” rispose. “Non credevo ci sarebbe stato tanto sangue.”

Eccolo lì, il guizzo di umanità in cui Mori aveva sperato. L’omicidio in sé non lo aveva disturbato, ma la quantità di sangue versato, sì.

“Era vecchio e rinsecchito, dove lo teneva tutto quel sangue?” Aggiunse Dazai.

Mori ridacchiò di tanta ingenuità. “Sai quanti litri di sangue può contenere il corpo di un uomo adulto?” 

Non si aspettava una risposta, ma arrivò: “sei…”

“Vero.” Il medico annuì. “Ma non ci si rende conto di quanto sangue sia, fino a che non lo si vede schizzare da tutte le parti in pochi secondi.”

Dazai fissò l’unico occhio sano sulla carta da parati deturpata dalle macchie scure. “Non andrà mai via,” disse.

Mori scrollò le spalle. “Non sarà un problema,” replicò. “Puliremo quel che potremo, distruggeremo il resto e sigilleremo questo posto. Non ho intenzione di dormire nel letto di un morto.”

Quando Hirotsu tornò, lo fece con dei vestiti puliti e tutto l’occorrente perché Mori potesse radersi. Il medico non gli diede modo di entrare nella camera da letto una seconda volta. “Prepara tutto al piano di sotto,” ordinò sulla porta.

Dazai lo guardò attraversare la stanza con ampie falcate, fino a sparire nel bagno personale del Boss. Un fascio di luce bianca diede fine all’oscurità, che era stata padrona nella scena fino a quel momento.

Con passi lenti, Dazai si allontanò dalla finestra per osservare la scena all’interno della piccola stanza adiacente. Mori gli dava la schiena, il camice sporco di sangue giaceva a terra, insieme alla camicia e alla cravatta da quattro soldi. Il medico gli lanciò un’occhiata attraverso il grande specchio, gli rivolse un mezzo sorriso e tornò a fare quello che gli stava facendo. 

Dazai ebbe tutto il tempo di notare le cicatrici che segnavano la pelle pallida dell’uomo. Ognuna di quelle antiche ferite raccontava una storia, ma Dazai nemmeno conosceva quella che aveva portato Mori a essere uno dei Cinque Dirigenti della Port Mafia.

Sì, era un medico e, sì, gli aveva salvato la vita. Da quello a divenire il suo primo scacco da giocare nell’ascesa come Boss della Port Mafia, ce ne passava. 

“Che cosa c’è?” Lo sguardo di Dazai doveva aver messo Mori sotto pressione, perché aveva allontanato gli occhi dal lavandino e lo guardava con il viso per metà sporco di schiuma da barba.

Dazai strinse le labbra e si spostò a lato dell’uomo. Notò solo allora che si era legato i capelli corvini sulla nuca, forse per non bagnarli. “Fa male?” Domandò, dal nulla.

Gli occhi di Mori rifletterono la sua confusione. “Morire con la gola tagliata?” Ipotizzò. “In realtà, il sangue smette di arrivare al cervello molto velocemente e questo impedisce di elaborare qualsiasi-“

“No, intendevo radersi,” chiarì Dazai. “So di uomini che si feriscono, mentre lo fanno.”

Mori trovò qualche difficoltà nel mettere insieme le parole giuste per rispondere. Aveva appena reciso la gola di un vecchio di fronte a quel ragazzino, e Dazai dimostrava curiosità solo per il modo in cui si faceva la barba. Scosse la testa. “Ci si ferisce per distrazione,” spiegò Mori, non riusciva a quantificare quanto quella conversazione fosse fuori luogo. “Non fa male, guarda…” Passò la lametta sulla guancia destra, dove ancora c’era la schiuma da barba, poi la lavò sotto il getto dell’acqua.

Se non fosse stato per le gocce di sangue che correvano sulla superficie di ceramica bianca, verso lo scarico, sarebbero assomigliati a un padre - molto giovane - che spiegava a un figlio - troppo grande - come farsi la barba. 

Dazai non fu impressionato dalla dimostrazione. Mori cominciò a porsi il dubbio di cosa volesse veramente da lui. “Ti piacerebbe?” Domandò.

“Cosa?”

“Farti crescere la barba… Per quanta barba si possa avere a quattordici anni.”

“Non posso,” replicò Dazai. “Lo sai. Mi hai tagliato i vestiti, hai visto il mio corpo.”

“Ti ho tagliato i vestiti perché avevi bisogno di cure mediche e c’era sangue d’appertutto.” Mori sentì la necessità di giustificarsi perché, in assenza di contesto, quel ragazzino non ci avrebbe messo molto a farlo passare da maniaco.

Assassino, era più che sufficiente. Era un’etichetta che gli apparteneva e non gli dava fastidio. 

“E comunque esistono delle terapie ormonali,” aggiunse Mori. “Se desiderassi farti crescere la barba, intendo.” 

“Non m’interessa,” disse Dazai, schietto. “Non ho mai voluto quel genere di cose. Sto bene così.” Sentire un ragazzino che aveva appena tentato il suicidio dire di stare bene suonava un tantino superbo, ma Mori non aveva tempo di duellare con quel pensiero, mentre aveva il sangue del vecchio Boss ancora addosso.

Lui e Dazai avrebbero avuto tutto il tempo del mondo per conoscersi, ora doveva solo preoccuparsi di portare entrambi fuori da quell’edificio vivi, senza una condanna a morte a minacciarli.

Seguirono minuti di assoluto silenzio. L’occhio sano di Dazai studiava con meticolosità ogni suo movimento e Mori dovette ingoiare più volte la voglia di dargli uno schiaffo, ordinandogli di guardare altrove. Quello sguardo lo penetrava, esplorava le sue viscere e sembrava poter giudicare le azioni che aveva appena compiuto e anche quelle passate.

Dazai non aveva la minima idea di chi fosse Mori Ougai, ma non vi era alcun timore nel modo sfacciato in cui lo scrutava. 

Di colpo, il moccioso starnutì. Nel silenzio assoluto della stanza, suonò come un colpo di pistola. Mori saltò come una molla e la lametta gli tagliò la pelle. Poche gocce di sangue caddero nel lavandino, andando a mischiarsi a quelle che rimanevano del vecchio Boss. 

Brutto presagio.

“Oh, ti sei distratto,” commentò Dazai, con voce incolore. “Ma dalle cicatrici che hai sulla schiena, sei abituato a essere colpito alle spalle.”

Mori fece l’adulto, contò fino a dieci e si pulì il viso dalle ultime tracce di schiuma. “Aspettami di là,” disse, fermo.

Dazai non si mosse.

“Aspettami di là, ti ho detto,” ripeté Mori, guardandolo dritto in faccia.

Questa volta, Dazai gli ubbidì.




 

Quando entrarono in ascensore, Mori Ougai non assomigliava neanche a se stesso.

Non nel modo in cui Dazai lo aveva conosciuto.

L’uomo che indossava quel completo a tre pezzi nero, con i capelli acconciati sulla nuca e il viso perfettamente sbarbato non sembrava neanche il fratello gemello del medico arruffato da cui il Sensei lo aveva portato.

“Se continui a fissarmi, finirò per arrossire,” disse Mori, ironico, aggiustandosi i gemelli della giacca nera. Per rendere quell’immagine davvero perfetta, sarebbe servito un cappotto dello stesso colore. C’era ma era sulle spalle di Dazai e Mori non aveva accennato al rivolerlo indietro.

Il ragazzino portò l’unico occhio scoperto sulle porte scorrevoli dell’ascensore e queste si aprirono un istante dopo.

“Seguimi.” Mori lo precedette lungo il corridoio buio.

Dazai si assicurò di non restare mai a più di un passo di distanza da lui.

La porta della sala riunioni era già aperta e Hirotsu li aspettava sull’ingresso. “Gli altri stanno arrivando, Boss,” disse l’uomo. “Avete tutto il tempo di accomodarvi.”

Dazai comprese che l’uomo con il monocolo non si riferiva solo al nuovo leader della Port Mafia, ma anche a lui. “Vai avanti, coraggio.” Mori gli premette una mano tra le scapole, dandogli una spintarella perché fosse il primo ad entrare.

Il tavolo al centro della stanza era enorme, di forma ovale e di colore nero come il pavimento, in netto contrasto con le pareti rosse come il sangue. Cinque poltrone erano poste ai lati del mobile - tre a destra e due a sinistra - solo una era al suo vertice. Se la tavola fosse stata rotonda, come nelle antiche leggende anglosassoni che Dazai aveva letto da bambino, avrebbe potuto suggerire una qualche idea di uguaglianza. Ma il messaggio che voleva dare quella stanza era molto chiaro: c’era un solo Re in quella corte e non era pari di nessuno dei suoi cinque Cavalieri.

Stanco di aspettare che il quattordicenne si muovesse, Mori attraversò la stanza per allontanare la poltrona al vertice del mobile. “Dazai, siediti.”

Il ragazzino rimase dov’era, fisso sulla porta.

Mori lo guardò. “Avanti,” batté la mano sullo schienale imbottito. “Vieni qui.”

“Boss,” intervenne Hirotsu. “Con tutto il rispetto, non credo sia la circostanza giusta per-“

“Al contrario, è la circostanza migliore,” lo interruppe Mori, con un sorriso cortese. “Deve imparare e non gli daranno il tempo di farlo con calma, lo divoreranno prima. Dazai vieni qui.”

Il ragazzino non se lo fece ripetere una terza volta. Non tentennò nella sua marcia verso il posto del Boss della Port Mafia. Una volta seduto, Mori girò la poltrona verso il resto della stanza. Si chinò verso di lui. “Goditi lo spettacolo,” gli sussurrò all’orecchio.

Dazai non ebbe il tempo di fare domande.

Tre uomini, tutti e tre vestiti di nero ma con stili completamente diversi, entrarono nella sala in tutta fretta. Il più alto - forse anche il più vecchio - aveva le spalle larghe e due baffi grigi, simili a quelli di Hirotsu. Fece il suo ingresso in scena senza particolari scenate. Quando vide dove Dazai era seduto, si limitò a lanciare a Mori un’occhiata eloquente. Fu il primo che il medico salutò: “Generale.”

“Mori,” rispose questi.

“Non cominciare a ignorare la presenza di chi ti fa meno comodo, scarafaggio che non sei altro!” Esclamò un uomo grasso, con le dita gonfie piene di anelli pacchiani. Se Dazai avesse potuto dire la sua, avrebbe commentato che era quello che meglio incarnava l’immagine parodistica del malavitoso.

Chissà se era altrettanto stupido?

Casinò, manteniamo la calma,” lo invitò Mori, con gentilezza.

Il viso dell’uomo grasso divenne paonazzo. “Chiamami col mio vero nome, se vuoi rivolgerti a me. Ti sarai anche tirato a lucido, ma sei e rimarrai sempre un cane del vecchio regime, rimasto randagio dopo il tradimento del proprio padre.”

Dazai corrugò la fronte, cercando di fare ordine tra quelle informazioni lanciate con tanta libertà, ma senza alcun criterio. 

Mori non ne parve affatto toccato. “La mia poltrona da Dirigente non ti è mai andata a genio, Casinò,” disse, con un sospiro annoiato. “Immagino che ora avrai qualche difficoltà ad accettare gli ultimi eventi.”

“Gli ultimi eventi non hanno alcun senso né valore,” disse il terzo uomo, dalla corporatura simile a quella di un manico di scopa. Il suo occhio sinistro era andato, coperto da una benda nera, che lo faceva assomigliare a un pirata alla deriva, destinato a morire di fame. 

Mori sgranò gli occhi, fingendosi sorpreso. “Credevo che il nostro buon vecchio Hirotsu avesse recapitato lo stesso messaggio a tutti.”

“Il Boss della Port Mafia è morto e, poco prima di spirare, ha scelto Mori Ougai come suo successore,” recitò il Guercio. “Siamo tutti d’accordo che non possiamo dare alcun valore a questa decisione, sempre ammesso che sia stata fatta.”

“Per quale motivo, di grazia?” Domandò Mori, fingendosi ingenuo.

Dazai dovette trattenersi dall’alzare gli occhi al cielo: dovevano davvero recitare tutta quella scena tragi-comica per mettere Mori a capo della Port Mafia? Non potevano arrivare direttamente al dunque, in cui tutti s’inginocchiavano o si sparavano a vicenda? Cominciava ad annoiarsi e ad avere sonno. Forse anche fame.

“Non vi è un testamento!” Intervenne Casinò. “Nemmeno uno scarabocchio su un pezzo di carta, con firma e data, che possa provare che il vecchio pazzo avesse una simile intenzione!”

“Lo hai appena detto: era pazzo.” Il Generale era l’unico a non urlare e fu anche il solo a dirigersi verso la sua poltrona e accomodarsi. “Vi ho visti assecondare ordini di gran lunga più deliranti di questa decisione. Ora fate appello al fatto che il vecchio non fosse in grado d’intendere e di volere da un pezzo? Perché non ammettete che vi faceva comodo dirigervi in autonomia la vostra fetta di Port Mafia, mentre il resto di Yokohama andava a ferro e fuoco per mano di un Boss folle e violento?”

Dazai non sapeva se il Generale fosse un loro complice, come lo erano Hirotsu e il Dirigente dai lunghi capelli neri, ma parlava come se lo fosse. Inoltre, il silenzio che calò dopo le sue parole, diede motivo a Dazai di pensare che fosse una personalità più influente del grasso e del secco che erano rimasti sulla porta.

“Mori, poche chiacchiere,” aggiunse il Generale con fare pragmatico, rivolgendosi al medico. “Dicci quello che devi dire.”

Mori scrollò le spalle. “Non ho molto d’aggiungere a quello che sapete già,” ammise.

“E io dovrei inchinarmi al figlio bastardo dei Mori, come nuovo Boss della Port Mafia?” Casinò puntò l’indice grassoccio in direzione del medico. “Giammai!”

Dazai si umettò le labbra: figlio bastardo dei Mori. Ecco un’altra informazione che avrebbe portato a casa, per usare dopo.

“Dove sono le prove?” Domandò il Guercio. “Dov’è il cadavere? Chi ci assicura che non ti sia liberato del vecchio Boss per avere il potere?”

Dazai non avrebbe scommesso un soldo bucato sull’intelligenza di quei due individui, ma bisognava essere molto stupidi per non avanzare delle obiezioni simili in quella situazione. Dubitava che la sua testimonianza potesse cambiare qualcosa, ma fece per aprire bocca e fare la sua parte. Se non ci fossero cascati e lo avessero trivellato di colpi, ne sarebbe stato felice comunque.

“Mi sono occupato del cadavere del Boss personalmente.” Randou fece la sua entrata in scena al momento giusto e andò a sedersi, come aveva fatto il Generale prima di lui. “È nei sotterranei, nell’obitorio. Mori eseguirà l'autopsia, ma non prima di aver messo in chiaro le cose con tutti voi.”

“Oh, certo!” Esclamò Casinò. “Mori è lì per sentire le ultime volontà del vecchio! Mori è lì per eseguire l’autopsia! Tutto molto comodo!”

“Non mi sovviene che tu abbia una laurea in medicina,” intervenne il Generale, annoiato da quei discorsi.

“Possiamo pagare qualcuno che ce l’abbia per eseguire una vera autopsia!” Intervenne il Guercio.

Casinò non fu molto felice della proposta o, meglio, che non l’avesse avanzata lui. “Certo, pagalo tu, così domani magicamente sarai il nuovo erede legittimo al posto del cane,” indicò Mori.

“E come un’autopsia potrebbe cambiare le cose in mio favore?” Domandò il Guercio.

“Potresti farlo passare come un omicidio che non è,” ipotizzò Casinò. “Questo condannerebbe Mori a morte prima di subito e Randou dietro di lui, per aver disposto del cadavere e non essersi accorto di alcuna ferita!”

“E se Mori lo avesse avvelenato?” Propose il Generale. “È un medico. Se sa come salvare una vita, sa anche come stroncarla senza lasciare tracce. Non accusare Randou per liberarti di due potenziali nemici in un colpo solo.”

Mori non parlava più e Dazai alzò lo sguardo per studiare la sua espressione: era calmo, non lasciava trasparire né soddisfazione né turbamento. Guardandolo negli occhi, era impossibile capire se quella scena fosse parte del suo piano o meno. 

“I veleni lasciano tracce,” insistette il Guercio. “Un vero medico saprà trovarle.”

“A diciotto anni combattevo in prima linea nella Grande Guerra, mentre almeno due di voi passavano il tempo a ubriacarsi nelle migliori case di piacere di Yokohama,” intervenne Mori, stringendo una spalla del ragazzino seduto al suo fianco. “Io sono un vero medico.”

Dazai avvertì che era stato toccato un nervo scoperto. Forse fu per quello che Mori cercò un contatto fisico con lui, per evitarsi di fare qualcosa d’impulsivo che potesse rovinare il piano. Non si lasciò sfuggire gli sguardi rispettosi che arrivarono sia da Randou che dal Generale.

“Guardateci,” disse quest’ultimo. “Un vecchio pazzo è morto e noi stiamo qui a litigare sul suo cadavere. Ridicolo.”

“Abbi rispetto per il nostro superiore deceduto!” Disse Casinò, così, puramente a caso.

“Nessuno di noi aveva il ben che minimo rispetto per lui!” Ribatté con forza il Generale. “Lo temevamo, certo, ma rispetto... Questa parola non ha alcuna valore pronunciata dalla bocca di voi due.” Indicò il grasso e poi il secco. “Guardate alle cose come stanno e non siate idioti. Potete accettare Mori come nuovo Boss della Port Mafia, prendendo per garanzia il suo nome e la famiglia da cui proviene, o potete cominciare una guerra civile qui e ora.”

“Se lo farete,” intervenne Randou. “L’intera Yokohama brucerà entro la fine dell’anno, poi il conflitto riguarderà l’intero paese. Nessuno qui è in grado di prevedere le conseguenze, ma alcuni di noi hanno già combattuto una guerra tra abilità su larga scala. Pensate bene a dove sta il maggior guadagno per voi, se fare appello alla ragionevolezza non basta.”

Messo con le spalle al muro, Casinò cominciò a battere i piedi per terra come un bambino capriccioso. 

“E chi ci dice che Mori non abbia mentito?” Insistette il Guercio. “Era il solo in quella stanza. Nessun altro ha sentito.”

“Ho sentito io,” intervenne Dazai. Nessuno gli aveva fatto segnale di parlare, ma era certo che quello fosse il suo turno. “Ero nella camera da letto del Boss, col Dirigente Mori,” elaborò. “Il Boss sembrava in preda al dolore, faceva fatica a respirare. È riuscito a dire: in seguito alla mia morte, Mori Ougai diverrà il Boss della Port Mafia. Dopodiché ha preso a rantolare ed è andato avanti così per un po’... Alla fine, c’è stato solo silenzio.”

Le dita di Mori che gli stringevano la spalla confermarono che aveva fatto un ottimo lavoro. 

Casinò strabuzzò gli occhietti minuscoli. “Chi è questo moccioso?” Domandò, notandolo per la prima volta. “Da dove spunta fuori e perché è seduto al posto del Boss?”

“È il tuo piccolo bastardo, Mori?” Domandò il Guercio, con disgusto.

Mori simulò una risata. “No, è il mio giovane assistente.”

Alla parola assistente, Dazai lanciò un’occhiataccia al medico con la coda dell’occhio, senza muovere la testa.

“Il suo nome è Dazai Osamu,” aggiunse. “Ricordatevi di lui, lo vedrete qui in giro per un bel po’.”

Casinò era fuori di sé. “È sulle parole di un bambino che vogliamo fondare il prossimo futuro della Port Mafia?” Domandò, fuori di sé, il viso paonazzo.

“O questo o la promessa di morte e distruzione di cui abbiamo già discusso,” disse il Generale. “Per quanto mi riguarda, ho già fatto la mia scelta.” Si alzò in piedi e guardò Mori. “Il Boss è morto. Lunga vita al Boss.” Appoggiò un ginocchio a terra e chinò la testa in segno di rispetto.

Appena un istante dopo, Randou fece lo stesso. Messi alle strette, il grasso e il secco non ebbero altra scelta che imitare i due colleghi.

Sulla porta, Hirotsu si concesse un sorriso che vide solo Mori. “Il Boss è morto,” ripeté, inginocchiandosi a sua volta. “Lunga vita al Boss.”

Dazai si aggrappò con forza ai braccioli della poltrona, travolto dall’ondata di qualcosa a cui non seppe dare un nome. Era oscura, potente. Alzò l’unico occhio sano su Mori e questi gli rivolse un sorriso, poi gli diede un buffetto sulla guancia.

Dazai fu l’unico a non inginocchiarsi. Rimase a testa alta, seduto alla destra del nuovo Boss della Port Mafia.




 

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Note: 

[1] Riferimento a Villa Diodati, in cui Byron risiedette per un periodo nel 1816, in compagnia del domestico William Fletcher e del medico John Polidori. Furono suoi ospiti i futuri coniugi Shelley, Percy e Mary, insieme alla sorellastra di lei, Claire Clairmont (che divenne amante di Byron e da cui ebbe una figlia). 

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Capitolo 2
*** II ***


II

 

Una volta tornati in ascensore, Dazai diede al nuovo Boss la soddisfazione più grande. “È stato incredibile,” commentò. "Come ci sei riuscito?”

“A fare cosa?” Domandò Mori, con un sorriso lusingato.

“Non hai dovuto dare nemmeno un ordine,” disse Dazai. “Non hai dovuto imporre niente. A stento hai parlato. Nonostante le obiezioni iniziali, tutti insieme hanno deciso che tu sei il nuovo Boss. Non ti sei presentato come un tiranno ma, al contrario, hai fatto scegliere loro. Non è possibile calcolare un rischio tanto grande con la certezza di uscirne vincitore!”

“Ti do l’impressione di essere un tiranno?” Domandò Mori, curioso.

“Hai l’aria di uno che non avrebbe alcun problema a diventarlo,” rispose Dazai. Non lo conosceva, poteva solo intuire le linee di quella personalità fatta di molte ombre e poche luci. Quell’uomo era pericoloso e se si lasciava leggere da lui, era solo perché aveva qualcosa da guadagnarci.

“Dal mio punto di vista, i tiranni hanno vita breve,” disse Mori, selezionando il piano desiderato. “Il nostro vecchio amico con la gola recisa ne è la prova.”

“Punti a essere un leader magnanimo?” Domandò Dazai, sarcastico. “Qui, alla Port Mafia?”

“Punto a essere un leader che mette l’organizzazione prima di se stesso e non il contrario,” rispose Mori. “Essere il Boss della Port Mafia non la rende un’arma nelle mie mani, che posso usare a mio piacimento. Questa era la politica di chi mi ha preceduto. Da domani, le cose cambieranno.”

“Come?”

“Bisogna puntare a un obiettivo più grande del potere fine a se stesso, Dazai.”

“E quale sarebbe questo obiettivo?” Domandò il ragazzino, poi si accorse che l’ascensore non stava scendendo verso il garage, ma salendo verso la vetta. “Dove stiamo andando?”

“Voglio mostrarti questo obiettivo più grande,” rispose Mori.




 

L’ufficio del Boss era una sala immensa, forse più di quella delle riunioni al piano di sotto. Era buio e Dazai non poteva studiare i dettagli di quell’ambiente nuovo, teatro di molte storie da raccontare. Dopo tre passi, avvertì la consistenza morbida di un tappeto sotto i piedi, ma il suo unico occhio sano fu catturato da tutt’altro spettacolo. 

Mori si portò davanti alla grande vetrata e gli fece segno di avvicinarsi.

Come se avesse paura di cadere, Dazai appoggiò la mano sana al vetro e le luci di Yokohama risposero al suo sguardo. Poteva vedere il cuore della città da lassù, fino all’ultimo lume del porto, poi la distesa nera del mare che si confondeva con quella del cielo. Di notte, era uno spettacolo che non passava inosservato, ma di giorno doveva essere un vero incanto. Quello era il regno su cui la Port Mafia estendeva il suo dominio - almeno a grandi linee. Da lì, seduto sul suo trono, il Boss vedeva tutto e controllava tutto. A Mori non restava che sistemare tutti i pezzi sulla scacchiera e fare la sua mossa, Il primo passo sarebbe stato contro il Governo o un’organizzazione nemica? Difficile dirlo.

Per Dazai, era un mondo tutto nuovo e gli veniva presentato al massimo del suo splendore.

“Non l’ho mai vista da così in alto,” mormorò e, per la prima volta da quando quella missione era cominciata, dimostrò i suoi quattordici anni.

Mori lo guardò, quasi mosso da tenerezza. “La prima volta, sono rimasto incantato anche io,” raccontò, ricordando la sua infanzia al fianco di suo padre. “Avevo dimenticato quanto fosse bella da quassù.”

“E ora?” Il ragazzino allontanò l’unico occhio scuro dal panorama. “Che cosa succede ora?”

Mori lasciò andare un sospiro stanco. “Difficile dirlo. Potremmo stare qui a parlarne tutta la notte. Ho una sola certezza: non si può più tornare indietro. Avanti tutta, verso il futuro!” 

“Resteremo qui, alla sede principale?” Indagò Dazai, per nulla convinto che fosse una buona idea. “Tutta la notte?”

Mori scosse la testa. “Torniamo in clinica, volevo solo che vedessi la vista da quassù e l’obiettivo di cui ti parlavo.”

“La città,” intuì Dazai. “Yokohama è l’obiettivo.”

Mori annuì due volte. “L’equilibrio è il vero obiettivo,” spiegò. “Luci e ombre devono esistere entrambe. Aspirare a un mondo di solo sole o di solo buio è il modo più veloce per portare alla distruzione. Ci sporcheremo le mani, perché nessun altro lo farà. Noi siamo il male necessario, Dazai,” concluse Mori. “È un concetto presente in ogni mitologia e religione. Il fatto che esistiamo è la prova che è un archetipo della natura umana stessa.”

Il ragazzino non replicò in alcun modo.

“Discorso troppo complesso?” Domandò Mori. Era stato Natsume Soseki a mettere nelle sue mani quel fanciullo, ma questo fatto non diceva nulla sul suo tipo di educazione o quanto fosse estesa la sua conoscenza del mondo.

Dazai era molto intelligente, sicuramente al di sopra della media.

Questo era quanto Mori Ougai era riuscito a intuire del bambino che aveva scelto di avere al suo fianco, nella propria ascesa al potere.

“Non hai risposto alla mia domanda,” insistette Dazai. “Adesso che succede, per davvero?”

Mori fu costretto a rifletterci un attimo. “Hai capito chi sono i nostri sostenitori?”

“Tra i Dirigenti: Randou e il Generale.”

“E che mi dici degli altri due?”

“Non gli piaci. Non avrai mai la loro stima, a meno che tu non accontenti i loro capricci e non ne hai alcuna intenzione.”

“Ottima intuizione.”

“Li disprezzi.”

“Vero.”

“Per te sono forme di vita inutili, che sprecano aria e occupano a sproposito poltrone che vorresti fossero di altri.”

“Molto vero anche questo.” Mori era soddisfatto: nonostante il vuoto riflesso nell’unico occhio scoperto, Dazai era stato attento ai dettagli e questo gli piaceva.

“Ma il Generale non è tuo complice,” aggiunse Dazai. “Ti sostiene per ragionevolezza: riconosce in te un valore, questo sì. Il suo sostegno è con riserva.”

Il sorriso di Mori si fece malinconico. “Penso sia tra i Dirigenti più longevi della Port Mafia. Era amico di mio padre. La sua lealtà è il riflesso di un legame passato, spezzato da una morte violenta.”

“Il padre di cui eri un figlio bastardo?”

Eh, sì, Dazai aveva ascoltato tutto, ma proprio tutto.

Bravo, il mio ragazzo. “Giuro che ti racconterò la storia,” promise Mori. “Ma in un luogo in cui saremo più con i piedi per terra, che ne dici?” Gli porse la mano, manco fosse un bambino di cinque anni non in grado di seguirlo. “Vieni con me, Dazai?”

Ovviamente, il quattordicenne non l’afferrò.




 

“Sono un figlio della Port Mafia,” confessò il medico, gettando il coprimaterasso su quello che era il suo letto, ma che avrebbe prestato al suo nuovo coinquilino per un po’, il tempo che guarisse dalle ferite. “Sono nato e cresciuto all’interno della malavita. Mai saputo cosa volesse dire vivere una vita comune.”

“Uno di quei tipi ha detto che il tuo nome è una garanzia,” ricordò Dazai, seduto come un gatto sul davanzale della finestra. 

“I Mori fanno parte della Port Mafia da generazioni.” Fu la spiegazione. “Sono medici personali del Boss da altrettanto tempo [1]. In breve, nella mia famiglia c’è sempre stato un Dirigente.”

“E lo è stato anche tuo padre.”

“Lo è stato anche mio padre, sì,” confermò Mori, finendo di sistemare la coperta. “Ecco fatto. Per questa notte, dovresti essere a posto.”

Dazai scese dal davanzale con un mezzo saltello - quello che le sue ferite gli permettevano - e si fermò dal lato opposto del letto appena fatto. “Perché Sensei mi ha portato qui, da te?”

Mori scrollò le spalle. “Perché eri in fin di vita. Io sono l’unico medico che conosce che non avrebbe fatto domande, perciò-“

“Non ci credi neanche tu,” lo interruppe Dazai. “Non mi ha portato qui per farmi curare da te. Mi ha portato qui per lasciarmi a te. Perché?”

Mori si dette dieci secondi per trovare un modo per evitare quella domanda: non ci riuscì. “Siamo nella stessa identica posizione, io e te, Dazai. Un amico - in assenza di definizioni migliori - ci ha messi insieme e vuole che ci restiamo.”

Dazai inarcò il sopracciglio destro. “E tu hai ufficializzato il tutto rendendomi il tuo maggior complice in un colpo di stato?”

“Non è esattamente di stato, ma il peso delle mie azioni è simile,” ammise Mori.

Dazai lasciò andare un sospiro annoiato. “Non ho voglia di tentare di suicidarmi di nuovo, questa notte,” confessò.

Mori sbatté le palpebre per un paio di volte. “Bene, grazie per avermi avvisato.”

Per la prima volta da quando il medico ce lo aveva avvolto, Dazai si tolse il cappotto nero da sopra le spalle e glielo porse. Mori scosse la testa. “Tienilo, è tuo.”

“È troppo grande per me,” ribatté il ragazzino.

“Mi sembra che questa notte ti abbia tenuto al caldo. Per la prossima estate, sarai più alto di almeno una decina di centimetri. Entro un anno, ti starà splendidamente, puoi scommetterci.”

“Siamo a settembre,” gli ricordò Dazai. “Non conto di arrivare vivo all’estate, figurarsi se lascio passare altri dodici mesi.”

Mori era abituato ai discorsi di natura macabra: durante la guerra era solito discutere con lo staff medico di campo del punto in cui amputare un arto in cancrena, o a chi sarebbe stato più magnanimo piantare una pallottola in testa. Eppure, sentire quel bambino - perché di questo si trattava - parlare della propria morte con tanta disinvoltura lo disturbava.

Dazai lo inchiodò con l’unico occhio sano. “Non è il motivo per cui mi hai portato lì, a farti da testimone?” Domandò. “Non speri che io esca di scena volontariamente?”

Bambino. Mori analizzò quella parola in silenzio, osservando ogni dettaglio della creatura che era in piedi di fronte a lui - solo il letto li divideva. Lo aveva guardato bene, prima di fasciarlo. Era troppo magro per la sua età, troppo piccolo - ma a quello avrebbe ancora potuto rimediare il tempo - aveva gli occhi grandi e il viso rotondo, tipici segni dell’infanzia. Quella che stava attraversando Dazai era un’età ingrata: la pubertà colpiva qualcuno già a undici anni, per altri era tutto rimandato ai quindici. Lui a che stadio era di quella metamorfosi?

Era impossibile dirlo con una semplice occhiata. Mori aveva visto cosa nascondeva sotto i vestiti maschili e le fasciature e forse aveva sbagliato a fare quella battuta sui dieci centimetri entro l’estate. Dazai Osamu era un ragazzo, ma Mori - forse per una sua deformazione da medico - non poteva evitare di pensare che il suo corpo sarebbe cresciuto seguendo ritmi e regole diversi da quelli dei suoi coetanei.

Doveva sapere se Dazai ne era consapevole.

“Hai bisogno di qualcosa da me?” Domandò Mori, gentilmente. “Hai detto di non aver mai fatto terapie ormonali e-“

“Non voglio quella roba,” ripeté Dazai. “Sono quello che sono e basta.”

Mori annuì due volte. “Va bene. Ti procuro qualcosa per dormire.”

Non aveva altro che alcuni suoi vecchi vestiti e al giovane sarebbero calzati a sacco in ogni caso. Mori gli propose una tuta. Dazai si spogliò del completo a tre pezzi di fronte a lui - per nulla disturbato dalla sua presenza - e il suo corpo troppo magro, troppo minuto e troppo ricoperto di bende venne illuminato per breve tempo dalla luce della luna, prima di scomparire, coperto da una t-shirt nera che gli arrivava quasi alle ginocchia.

Suo malgrado, Mori fece un calcolo matematico di quanti soldi erano rimasti a sua disposizione - sì, era un Dirigente della Port Mafia, ma gestire una clinica con le sue tasche non era proprio una spesa da poco - e quanti di quelli potessero essere impiegati per Dazai. Il ragazzino non voleva terapie ormonali e quello era un bel sollievo sia dal punto di vista pratico, che economico. In quanto ai vestiti, Mori era certo che avrebbe indossato qualsiasi cosa variasse dal bianco al nero, passando per il grigio. Escluse qualsiasi colore - forse poteva dare una possibilità giusto al blu o rosso scuro - a priori. 

Una noia, pensò Mori, tra sé e sé. Era tutto così diverso da come era con Elise. 

“Vado a dormire,” concluse Dazai, infilandosi sotto le coperte. 

Mori non si mosse: il ragazzino gli dava le spalle e i suoi capelli parvero ancor più scuri contro la federa bianca del cuscino. Non c’era alcuna tenda alla finestra, né una tapparella per chiudere la luce della luna fuori dalla stanza. Non era certo che sarebbe riuscito a dormire bene.

“Troppa luce?” Mori non era veramente preoccupato per quelle bazzecole, ma c’era qualcosa che lo tratteneva in quella stanza. Era come se il pensiero di lasciare solo Dazai fosse inammissibile.

Erano successe tante - troppe - cose e quella strana creatura, senza alcuna voglia di vivere, si era semplicemente coricata a letto, come se nulla fosse accaduto.

Dazai nemmeno si voltò nel rispondergli: “va bene così.”

“Le ferite ti fanno male?” Insistette Mori, sperando che fosse il ragazzino ad attaccare un discorso di qualche tipo. “Vuoi un antidolorifico per dormire meglio?”

L’occhio scuro di Dazai gli lanciò un’occhiata da sopra la spalla. “Non mi farà svegliare più?”

L’innocenza con cui lo domandò fece venire a Mori una gran voglia di prenderlo a schiaffi. “Hai detto che non avevi voglia di suicidarti, non questa notte.”

“Se fai tu il lavoro per me, chi sono per dire di no?”

Mori ebbe la sensazione che la sua mandibola stesse per sganciarsi e toccare terra. “Cerca di dormire un po’,” concluse.

Chi - o cosa - fosse davvero Dazai Osamu era una questione che Mori Ougai avrebbe affrontato l’indomani, a mente lucida.




 

Chiuso nel suo studio, Mori appoggiò la schiena alla porta e lasciò andare un lungo sospiro. Per un attimo, credette che la terra sotto i suoi piedi avrebbe ceduto. 

“Il vecchio pazzo è morto,” disse in un mormorio, come se non ci credesse nemmeno lui. “Il Boss è morto. Lunga vita al Boss.” Aggiunse. C’era della malinconia riflessa nei suoi occhi e chiunque l’avrebbe giudicata fuori luogo. 

Mori aveva le sue ragioni per non gioire della più grande delle sue vittorie.

Dal sorgere del sole, avrebbe occupato la poltrona più in alto di tutta Yokohama - poco importava che al Governo piacesse credere diversamente - un posto che avrebbe influito sul mondo delle tenebre di tutto il paese e, in parte, del globo intero. Mori si massaggiò la fronte stancamente: aveva detto addio alla sua umanità da tempo e per ragioni ben meno gloriose, ma quella era una cosa diversa. 

Lì finiva e lì iniziava la sua vita.

Rintarou è morto. Lunga vita al Boss.

Anche se Mori Rintarou era caduto in guerra a vent’anni, in Germania, ormai da molto tempo.

“Sei sempre bravo a farti venire il mal di testa,” commentò una vocina da bambina.

Mori sollevò lo sguardo e sorrise alla creatura materializzata dalla sua coscienza. Aveva lunghi capelli biondi e gli occhi azzurri, perché era lui a volerla così. Era la sua bambolina scontrosa e poco incline a ricevere le sue innumerevoli attenzioni.

Mori non l’avrebbe voluta in nessun altro modo. “Ti sei persa la festa, Elise.”

La bambina s’imbronciò. “Non m’interessano le feste noiose degli adulti,” ribatté. “Guardati, non sembra che ti sia divertito.”

“No, hai ragione,” le rispose Mori. “Non siamo più soli, hai visto?”

Elise sollevò lo sguardo verso il soffitto, poi si premette l’indice contro le labbra. “Shhh… Dorme.”

Mori inarcò le sopracciglia. “Davvero?” Gli suonava così strano che una creatura a stento umana, come Dazai, potesse trovare rifugio nel mondo dei sogni.

“Hai detto che è un bambino,” gli ricordò Elise, intrecciando le dita dietro la schiena.

Mori annuì. “Sì, è un bambino.”

“Ma ora hai pensato che non è umano, Rintarou.”

“Già…”

Che cos’era e chi era Dazai Osamu? Natsume Soseki glielo aveva portato in fin di vita, congedandosi con poche parole. Si era detto certo che Mori avrebbe saputo che cosa fare con quel fanciullo, senza aggiungere altro.

Il medico… No, il Boss della Port Mafia - era meglio che ci facesse l’abitudine - era infinitamente lusingato di godere di tutta quella fiducia da parte del suo vecchio maestro, ma era un po’ come se gli avesse lasciato un buco nero tra le braccia e gli avesse chiesto di dargli forma.

No, Dazai un abbozzo di forma ce l’aveva già. Mori la intuiva nei momenti come quello che avevano condiviso in bagno. Sei abituato a farti colpire alle spalle.

Quella era insolenza, arguzia e presupponeva un sacco di altre caratteristiche interessanti. Quando era arrivato il suo turno d’intervenire nella sala riunioni, Dazai lo aveva capito da solo. Aveva studiato tutti i presenti, uno a uno e si era dimostrato affascinato dal modo in cui Mori aveva mandato avanti il piano, fino alla fine.

Dietro quell’occhio scuro, l’unico che non aveva dovuto medicare, si nascondeva un mondo. Oscuro, certamente. Complicato, nientemeno.

E Mori ne era attratto e affascinato, come poche volte gli era capitato nella vita.

Ah, giusto, era anche diventato il Boss della Port Mafia quindi, oltre a Dazai, avrebbe dovuto concentrarsi su quello.

“Non credevo che ci sarei mai arrivato. Sai, Elise?” Ammise alla bambina, avvolta nel suo bel vestitino rosso. “Non credo di averlo mai desiderato, a dire il vero. Se proprio vuoi saperla tutta: quella poltrona è mia, non mi ci sono ancora seduto e già mi chiedo chi diavolo me lo ha fatto fare.”

Le risposte erano molteplici: un po’ per vendetta - se era l’ultimo a portare il nome Mori, lo doveva al vecchio a cui aveva reciso la gola - un po’ per orgoglio - la Port Mafia sarebbe dovuta divenire di suo padre più di tre lustri prima - un po’ perché era quello che andava fatto.

“E qualcuno doveva pur farlo. Vero, Elise?” Cercò conferma Mori. “Qualcuno doveva sporcarsi le mani per impedire all’oscurità di straripare e distruggere tutto.”

Gli sfuggì un sorriso amaro. “Sarà una strada ancor più solitaria di quella che abbiamo percorso fino a ora, mia piccola Elise.”

“E invece no!” Replicò la bambina, facendo una piroetta. “Adesso non siamo più soli.”

Stremato dalla lunga nottata, Mori non riuscì a intuire cosa la sua abilità gli stesse suggerendo.

Annoiata, Elise sbuffò. “Adesso c’è Osamu!” Esclamò con un gran sorriso.

“Ah, già, Osamu,” ricordò Mori. “Dazai Osamu.”

Ed ecco che il circolo dei suoi pensieri ricominciava da capo, senza trovare un punto fermo.

Il destino venne in suo soccorso. 

Dopo quelli che sarebbero potuti essere pochi minuti o intere ore, qualcuno bussò violentemente al portone d’ingresso.




 

Dal modo in cui insistevano, non c’erano dubbi: era un’emergenza.

Mori non aveva tempo per l’ennesima rissa tra piccole bande finita in lame e pistole, così si prese tutto il suo tempo per uscire dallo studio e attraversare l’atrio. “Arrivo…” Ripeté un paio di volte, pigramente. “Arrivo…”

“Non è così che si comporta un vero medico, Rintarou,” lo rimproverò Elise, dietro di lui.

“C’è ancora una questione aperta sul fatto se sia un vero medico o no,” ribatté Mori. Non c’era nessuna laurea da incorniciare, non per lui. Nessuna bella proclamazione con un bel completo nuovo, le foto di rito e un brindisi finale. Era stata la Grande Guerra a dargli l’abilitazione. Con ogni probabilità, il superiore che lo aveva dichiarato dottore in medicina ora si trovava tre metri sotto terra e nemmeno tutto intero. Se era stato fortunato, lo avevano seppellito a casa, circondato dai suoi cari. In caso contrario, giaceva in una fossa comune e il suo nome era scolpito in un elenco di cento e più, su di un memoriale da qualche parte, in Europa.

Oltre i vetri, Mori vide la stoffa colorata del kimono e i capelli rossi di chi batteva i pugni con disperazione contro la sua porta e si pentì del suo menefreghismo. Percorse gli ultimi metri di corsa.

Quello che si ritrovò davanti non gli piacque per nulla: la ragazza, appena una donna, aveva il viso ricoperto di sangue - saltavano subito agli occhi il naso rotto e lo zigomo gonfio - e di trucco colato. Mori la conosceva.

“Perché ci hai messo tanto?” Kouyou non aveva più voce per urlargli contro.

Mori non perse tempo in scuse: si passò il braccio di lei intorno alle spalle e la portò via dalla strada. Nella confusione, aveva fatto sparire Elise, ma se ne accorse solo dopo che ebbe aiutato la giovane donna a sedersi sul lettino della sala visite.

“Che diavolo ti è successo?” Domandò, accendendo la lampada circolare sopra di loro. D’istinto, Kouyou abbassò lo sguardo e Mori ebbe una quadro più chiaro dello stato in cui versava: la bella stoffa del kimono era stata strappata in più punti, il braccio destro era scoperto e così la gamba sinistra. Il medico già poteva intuire la forma degli ematomi che sarebbero comparsi in poche ore sulla pelle pallida.

Con tutta la gentilezza di cui era capace, Mori prese il viso di Kouyou tra le mani e la costrinse a guardarlo - da principio non se ne era accorto, ma l’occhio destro era gonfio e cominciava a farsi scuro. “Kouyou, riesci a riconoscermi?” 

Aveva inveito contro di lui con molta determinazione, nonostante lo stato in cui versava, ma c’era qualcosa nel suo sguardo che non lo convinceva. “Che cosa ti hanno dato?” Domandò, liberandole il viso dai lunghi capelli rossi. Nel gesto, l’ultimo pettinino rimasto al suo posto cadde a terra, lasciando la bella chioma completamente sciolta.

Mori Ougai era un assassino. Nulla poteva cambiarlo e non lo avrebbe mai negato, ma c’era qualcosa in quella violenza priva di significato che gli dava sui nervi. O forse, più semplicemente, quella fanciulla faceva parte della sua vita da troppo tempo perché gli fosse indifferente. Anche se questo presupponeva che avesse un cuore.

“Kouyou?” Mori la chiamò di nuovo. Dal modo in cui lo guardò, il medico seppe che era cosciente di dov’era e di chi era il suo interlocutore, ma aveva usato le poche forze che le erano rimaste per correre fino a lì. La guancia di Kouyou aderì stancamente al palmo di Mori. 

“Ti aiuto a stenderti.” Era importante che lui le dicesse perché la toccava. Percepiva il desiderio di lei di spingerlo via, di mettere fine a ogni contatto fisico. Kouyou però non si muoveva: contro ogni istinto, prevaleva la certezza che Mori Ougai l’avrebbe aiutata. Non era la prima volta. 

Ben consapevole che un dialogo non fosse possibile in quelle condizioni, Mori preparò una flebo per combattere la droga che ipotizzò le avessero dato. I codardi avevano giocato bene le loro carte: anche la miglior assassina della Port Mafia dotata di abilità avrebbe vacillato, se avvelenata nel modo giusto.

E Kouyou era molto promettente, ma non era ancora a quel livello. Aveva solo diciotto anni, maledizione.

La parte peggiore era che non poteva chiederle cosa le avevano fatto di preciso e Mori non poteva perdere tempo, non col rischio di un danno interno e invisibile. Provò a toglierle i vestiti e Kouyou gli afferrò i polsi, mossa da nuova forza.

“No… Non mi hanno… Non…” Lei scuoteva la testa e tremava, parlare le era difficile.

Mori prese un respiro profondo. “Anche se non ti hanno violentata,” disse lentamente, in modo che lei potesse comprendere le sue intenzioni, “da quel che vedo, ti hanno presa a calci e pugni. Un addome contratto in modo anomalo è sintomo di una lesione interna che potrebbe ucciderti, ma non posso valutarlo con tutti questi strati di stoffa addosso.”

Lei strinse le labbra, ancora rosse per il rossetto sbavato e gonfie per le botte. Lasciò cadere le braccia ai lati del corpo, come una bambola priva di vita.

Mori fece il suo lavoro, poi - per quel che era in suo potere - si assicurò di restituirle la dignità che meritava.




 

Mori non chiuse occhio quella notte. Nemmeno quando il sole si alzò su Yokohama, proclamando l’inizio di un’altra giornata d’inizio autunno - o fine estate? Non ricordava di preciso che giorno fosse- il medico riuscì a togliersi i vestiti formali che Hirotsu gli aveva procurato. Si liberò solo delle scarpe, sostituendole con un paio di pantofole a forma di coniglietto, che Elise aveva scelto per lui durante uno dei loro week end di shopping.

Erano morbide e quella era una bella novità, in confronto alle scarpe di vernice nera che gli avevano massacrato i talloni. Mori adocchiò le calzature abbandonate in un angolo, vicino alla porta. Da quel momento in avanti, quella sarebbe stata la sua vita? Scarpe lucide, camicia stirata, una giacca nera cucita su misura.

L’esteta che era in lui - quello che sua madre aveva tentato in tutti i modi di coltivare - urlava di gioia. Il suo lato pigro, che lo contraddistingueva e per cui nessuno della sua famiglia poteva essere biasimato, fissava il vuoto con fare rassegnato.

Tutto quel che si era concesso era un caffè americano - preso dal bar nella via dietro alla clinica, perché da solo non riusciva nemmeno a farsene una tazzina - che ora si rigirava tra le mani, sorseggiando pigramente, in attesa che la bella addormentata sul lettino si svegliasse.

In totale, Kouyou dormì cinque ore, prima di riprendere i sensi. 

“Bentornata.” Mori l’accolse con un sorriso amichevole, allontanandosi dalla parete per arrivarle accanto. L’occhio pesto era fasciato, per lo zigomo e le labbra gonfie c’era poco da fare. Per coprirla, Mori le aveva messo addosso una tunica operatoria che non era il massimo della qualità - era più carta che stoffa - ma che faceva il suo lavoro: non le avrebbe dato fastidio alle medicazioni e celava tutto quello che c’era da celare.

“Come ti senti?” Domandò Mori.

Nonostante la brutta nottata, Kouyou gli rivolse un sorrisetto sarcastico. “Non riesci a risponderti da solo, dottore?”

Mori era felice di sentirla così: più dimostrava il suo bel caratterino, prima si sarebbe rimessa in piedi. Prese un altro sorso del suo caffè, più lungo degli altri, poi posò la tazza di cartone sul carrello operatorio lì accanto. Si fece serio di colpo. “Che cosa è successo?”

Il sorriso di Kouyou divenne meno tagliente. Doveva avere ancora della droga in circolo, perché Mori ebbe l’impressione che fosse orgogliosa di lui. “Lunga vita al Boss,” disse lei.

Lui alzò gli occhi al cielo. “Se ti dicessi che sono già stanco di questo cerimoniale, mi crederesti?”

“Sulla parola.”

“E se me lo dici dopo che ti sei presentata alla mia porta in queste condizioni,” intuì Mori, “qualcosa mi suggerisce che è colpa mia.”

Kouyou scosse la testa. “No, la colpa è di chi ha messo simili pezzi di merda al potere. L’uomo da biasimare è morto e spero che lo abbia fatto soffrendo.”

Mori scrollò le spalle. “Mia cara, dovevo essere veloce.”

“Troppo comodo,” commentò lei. “Non lo meritava, non da te.”

“Quel che è fatto è fatto,” tagliò corto Mori. “L’autore della pagina peggiore della Port Mafia è cenere. Da come ti hanno ridotta, deduco che le conseguenze delle mie azioni sono ricadute su di te e sulle altre ragazze.”

Kouyou inspirò dal naso profondamente. “Sono stata una stupida-“

“Non biasimarti per crimini che non sono tuoi,” la interruppe Mori. “Che cosa è successo?”

“A tarda notte, il Guercio e Casinò sono scesi nella Casa dei Fiori, chiedendo delle ragazze per loro e gli uomini della loro scorta,” raccontò Kouyou. “Non sapevo niente di-“

“Non dovevi saperlo.”

“Pensavo me lo avresti detto.”

“Non volevo renderti complice di qualcosa di cui non potevo prevedere la fine con certezza. Mezzo passo falso e sarebbero venuti da te a festeggiare con la mia testa.”

Kouyou storse la bocca in una smorfia. “Non ci voglio nemmeno pensare.”

“Il Guercio e Casinò,” riprese Mori. “La peggior feccia che abbia mai avuto il titolo di Dirigente. Che hanno fatto?”

Kouyou fissò un punto qualunque di fronte a sé. “Pensavo fosse solo una notte peggiore delle altre. Dover recitare la parte alla perfezione di fronte a clienti disgustosi e cose così…”

“E…?” La incalzò Mori.

“Casinò mi ha offerto da bere,” raccontò Kouyou. “C’era il solito clima da festa nella sala principale della Casa, non ho visto chi mi ha preparato quel drink o con cosa. Non mi sarei dovuta distrarre.”

Mori le appoggiò una mano sul polso, nel caso avesse avuto bisogno di un appiglio. “Non devi giustificarti, non c’è ragione. Vai avanti.”

“Lo hanno fatto a posta.” Kouyou era lì, con Mori, ma la sua mente era ferma a quella sala affollata - le ragazze coi kimono colorati da una parte e gli uomini in nero dall’altra. “Mi hanno drogata per prima perché sono l’unica dotata di abilità. Neutralizzata me, pensare a tutti gli altri è stato abbastanza facile.”

“Definisci pensare a tutti gli altri.”

Kouyou chiuse l’unico occhio visibile e strinse le labbra. 

Mori seppe che non avrebbe aggiunto altro. “Andrò a vedere di persona.”

Fu lei ad afferrargli la mano. “No, Mori, no.”

Il nuovo Boss della Port Mafia, che aveva molta fantasia e poteva quasi figurarsi quello che avrebbe trovato, piegò le labbra in un sorriso terribile. “Era il regno di mia madre. Ho passato più tempo lì di quanto ne abbia trascorso nei cinque grattacieli. Ci sono cresciuto, ci sei cresciuta anche tu - anche se abbiamo avuto due esperienze molto diverse. Non sono un sentimentale, ma tu sì ed è per questo che non vuoi che vada: sai che mi troverei davanti le macerie dell’ultimo ricordo della mia infanzia. Alla fine, il Boss Folle - o i suoi cani, che sia - è riuscito a cancellare davvero tutta la Port Mafia, come io la conoscevo.”

Kouyou ingoiò aria dalle labbra tremanti. “È stato un bagno di sangue.”

Mori annuì distrattamente: il suo non era menefreghismo, stava andando avanti con la mente a quando avrebbe regolato i conti, ucciso chi doveva uccidere - lentamente questa volta. Doveva solo decidere chi coinvolgere. 

Non gli era stato dato il tempo di elaborare la sua prossima mossa, la prima da Boss, ma gli era stata offerta su un piatto sporco del sangue dei figli della Port Mafia stessa.

C’era una regola non scritta nell’organizzazione: la violenza era parte del gioco, ma se commessa tra le mura di casa, diveniva crimine.

Vista la situazione, Mori aveva il dovere di fare giustizia.

La sua riflessione fu veloce. “Qui sei al sicuro, Kouyou,” disse, abbandonando le sue adorabili pantofole a forma di coniglietto per tornare alle scarpe di vernice. “Non ti muovere. Aspetta che torni.”

“E dove vai?”

Mori si bloccò a metà dell’atto d’infilarsi la giacca sopra la camicia: Dazai era comparso sulla porta della stanza. Aveva ancora addosso la sua maglietta extra-large e l’espressione imperturbabile della notte precedente. Il medico aprì la bocca per rispondere, ma il ragazzino fu svelto a portare l’attenzione sulla nuova arrivata.

“Ciao,” disse Kouyou, con un sorriso curioso, mentre cercava di mettersi seduta.

“Ciao,” rispose Dazai, senza alcuna intonazione particolare.

“E tu da dove sbuchi?” Domandò lei.

Mentre si aggiustava la giacca sulle spalle, Mori pensò che lo avesse preso per un ragazzino più piccolo di quello che era. Errore comprensibile.

“Dazai, lei è la signorina Ozaki Kouyou,” fece le presentazioni. “Mia cara, lui è Dazai Osamu. Un cucciolo randagio che ho raccolto di recente e preso sotto la mia custodia.”

Quella scelta di parole gli fece guadagnare un’occhiata storta da parte del ragazzino.

“Hai dormito, almeno?” Domandò Mori, studiandolo. In sua assenza, non sembrava essersi inferto altre ferite.

Dazai si limitò ad annuire. “Che le è successo?” Domandò, indicando Kouyou con l’indice destro.

Mori sospirò, esaurì la distanza tra loro e lo costrinse ad abbassare la mano. “Non ti hanno insegnato a non indicare?”

Il ragazzino si limitò a scrollare le spalle.

Il neo-Boss fece appello a tutta la pazienza che la sua stanchezza gli permetteva di raccogliere, poi parlò a voce abbastanza alta perché entrambi i suoi ospiti potessero sentirlo. “Quanto è accaduto questa notte ha avuto delle conseguenze,” si rivolse a Dazai. “Vado a occuparmene. La signorina è una sopravvissuta, nostra ospite e paziente. Ho fiducia nel fatto che tu le faccia compagnia e che pensi ai suoi bisogni.”

Dazai mostrò il braccio fasciato. “Sono ferito anche io.”

“Ma hai due belle gambette dritte che funzionano alla perfezione. Se chiederà un bicchiere d’acqua, non credo che morirai di fatica nel portarglielo.”

Il ragazzino gli fece la grazia di non replicare. Quell’unico occhio scuro lo fece sentire come se un buco nero volesse risucchiarlo, ma Mori fu svelto a voltare lo sguardo e mettere un primo piede in corridoio. “Mi raccomando, Dazai.”





 

Nonostante le basse - quasi inesistenti - aspettative di Mori, Dazai non si limitò a portare all’ospite un bicchiere d’acqua. 

Il ragazzino si prese il suo tempo per perlustrare la cucina e la pazienza lo ripagò: trovò dei filtri di té che non avevano l’odore e l’aspetto di veleno in polvere. L’idea gli parve invitante e mise a bollire un po’ di acqua per sé e quella giovane donna.

Quando tornò nella sala delle visite, Kouyou accettò la sua tazza con un sorriso cortese. “Ti ringrazio.”

Dazai rimase in piedi, come pietrificato.

“Puoi sederti, se vuoi,” gli concesse Kouyou.

Dazai prese un angolino per sé in fondo al lettino, in modo da non disturbare.

“A te cosa è successo?” Domandò la giovane donna, curiosa.

“Ho tentato di uccidermi,” disse Dazai, come se stesse parlando del sole che splendeva fuori dalla finestra. Prese un sorso del suo tè, ignorando deliberatamente il cambio di espressione della giovane donna. “Sei un’assassina?”

Kouyou tornò in sé. “Sì, un’assassina addestrata della Port Mafia.”

“E come hanno fatto a ridurti così?”

Kouyou si umettò le labbra, ormai ripulite dal rossetto scarlatto. “Ho commesso un errore.”

Dazai scosse la testa. “No, io non credo.”

Kouyou inclinò la testa da un lato. “Non sai neanche che cosa è successo.” Quel ragazzino era strano, a tratti sinistro. Ma se Mori lo aveva lasciato in sua compagnia, non c’era da preoccuparsi, no?

Dazai puntò l’unico occhio sano su di lei. “L’errore lo ha commesso chi non ti ha uccisa,” disse, schietto. “Se non fossi venuta qui, forse chi ti ha fatto questo sarebbe riuscito a occultare ogni cosa. Mori dice che metà della Port Mafia non lo vede di buon occhio. Devono essere tante persone.”

“Non la metà,” lo corresse Kouyou. “Sono molti di più a sostenerlo, ma sono spaventati.”

“I codardi non possono definirsi alleati.”

“Le persone non sono codarde,” ribatté Kouyou. “Sono solo persone, hanno il diritto di essere spaventate. Chi di loro desidera un cambiamento, non resterà nell’ombra.”

“Non ne sono sicuro.” Dazai sorseggiò il suo té. “Tutto quello che so della Port Mafia è quello che mi dice Mori e quello che mi stai dicendo tu adesso.”

“Come ti ha trovato Mori?”

“Non lo posso dire,” rispose Dazai, sbrigativo. “Come ha trovato te?” Rilanciò.

Kouyou ridacchiò. “Non mi ha trovata,” rispose. “Quando è tornato a Yokohama, ero già qui. Mi stavano addestrando nella Casa dei Fiori.”

“Che cos’è la Casa dei Fiori?”

“È la casa dove le ragazze vengono addestrate a divenire assassine letali o amanti indimenticabili. A volte, tutte e due. Un tempo, prima del Boss Folle, eravamo persone con una libertà di scelta.”

Il ragazzino corrugò la fronte. “C’è gente che sceglie di vendersi ad altra gente?”

Le labbra di Kouyou vennero graziate da un sorriso paziente. “Non è per forza così rude come lo fai passare. È un lavoro,” spiegò. “Nei luoghi sicuri, le cose non vanno come per strada. La Port Mafia ha smesso di essere un luogo sicuro, tutto qui.”

“E per strada sei mai stata?” Il modo in cui Dazai era diretto, quasi completamente privo di tatto, avrebbe infastidito chiunque.

Kouyou non riusciva a innervosirsi. Guardava quel ragazzino, provava a indovinarne l’età - non ci riusciva - e si diceva che doveva averne passate, se aveva deciso che la morte fosse l’unica via. Eppure, le si rivolgeva come se il mondo gli fosse estraneo. O forse no, non era il mondo. Erano le persone.

“Parli così tanto anche con Mori?” Domandò Kouyou.

“È Mori che parla tanto.”

La ragazza rise. “Sì, a lui piace da morire ascoltare il suono della propria voce.”

“Siete amanti?” Dazai lo buttò lì, senza alcun pudore.

Kouyou sgranò gli occhi, ma non perché fosse imbarazzata. Si rese conto che, di tutti gli uomini che erano entrati e usciti dalla sua vita, Mori Ougai era l’unico a cui non aveva mai pensato in quel modo. “Siamo amici,” ribatté.

Dazai storse la bocca. “Mori non può avere amici,” replicò. “I Demoni non li hanno.”

“Pensi che Mori sia un Demone?”

“Ci si è definito da solo.”

“Perché è un tragico per natura, Dazai.” Nonostante fosse tutta indolenzita, Kouyou rise di nuovo. Un battito di ciglia dopo, divenne seria. “È l’unico uomo che non mi ha mai mentito.”

Dazai abbassò la tazza e lei dedusse che quella parte del discorso lo interessava.

“Non è la prima volta che mi raccoglie in uno stato pietoso,” raccontò lei. “Non conoscevo questo posto. La prima volta, mi ci ha portato lui. Col senno di poi, penso che abbia solo visto un’assassina dotata di abilità e abbia ben pensato di averla dalla sua parte. Però andiamo d’accordo.”

“E perché dici che è l’unico che non ti ha mai mentito?”

“La strada per divenire Boss della Port Mafia è una strada verso il potere. Non credo che Mori lo desiderasse, non nel modo in cui una persona comune può immaginarlo. Quando ne parlava, era più come se non avesse altra scelta. Da parte mia, lo ascoltavo ma non l’ho mai preso sul serio. Un giorno, dopo l’ennesima volta che mi raccoglieva in stato pietoso, penso di aver detto qualcosa sul correre alle torri, uccidere chi potevo e morire ribellandomi. Mori mi ha calmato, rassicurandomi che non sarebbe stato necessario, che gli oppressi non avrebbero dovuto pagare nessun altro tributo di sangue. Alla fine, mi ha promesso che mi avrebbe fatta sedere lassù,” indicò il grattacielo nero, visibile dalla finestra. 

“E tu che hai fatto?”

“Gli ho riso in faccia.” Kouyou non ci trovava nulla da ridere, ora. “Non credevo lo avrebbe fatto sul serio.”

Dazai sbuffò. “Quando parlate di lui, vi dividete in chi lo definisce un impostore e chi un salvatore. Non è un sovrano impavido che ha liberato un popolo dall’oppressione di un despota. Ha solo tagliato la gola a un vecchio folle, incapace di alzarsi dal suo letto. Non è un’impresa gloriosa.”

“Non ci sono imprese gloriose nella Mafia. Nessuno di noi è una brava persona,” disse Kouyou. “Siamo figli delle tenebre. Demoni, forse. Ciò non toglie che siamo venuti in questo mondo piangendo per avere un po’ di calore. Qualcuno di noi lo ha avuto e lo ha perso. Qualcun altro non lo ha mai conosciuto.”

“Mori ha detto di aver avuto un padre,” ricordò Dazai.

Kouyou prese un respiro profondo. “Sia io che Mori apparteniamo alla categoria che ha avuto e poi perso. Lui conosce la mia storia per intero. Io di lui so solo quello che raccontano tutti. Ma ora ho un pensiero che mi martella in testa con insistenza.”

“Quale sarebbe?”

“Di solito, sono brava a leggere le persone,” disse Kouyou. “È il mio lavoro, se così possiamo dire. Sia quando devo dare piacere, sia quando devo uccidere, devo capire chi ho davanti.” Fece una pausa. “E io ti sto studiando con attenzione da quando sei entrato nella stanza, ma non riesco a intuire una singola cosa di te.”

Dazai vuotò la sua tazza di tè con un ultimo sorso. “Perché io sono il nulla.”




 

La Casa dei Fiori non faceva riferimento a un singolo edificio, ma a un intero quartiere. Era costruito interamente in stile tradizionale e si trovava al centro preciso delle cinque torri nere della Port Mafia, glorioso esempio dell’architettura occidentale contemporanea. L’intero complesso era circondato da giardini, anche da un piccolo parco di alberi di ciliegio e attraversato da un fiumiciattolo artificiale. Mori Ougai lo ricordava come un luogo sospeso nel tempo, una bolla incantata a un passo dalla più estrema modernizzazione. In quella bolla, sua madre - signora della Casa dei Fiori - aveva cresciuto lui e le sue sorelle, addestrando una nuova generazione di donne della Port Mafia a sbocciare e andare nel mondo.

In adolescenza, Mori, troppo bramoso di conoscenza, l’aveva definita una gabbia. Dorata, certo, ma pur sempre una gabbia.

Era stato accontentato: la gabbia era andata distrutta.

I cadaveri delle giovani non erano tutti uguali. Alcune avevano ancora i vestiti addosso, solo sporchi di sangue. Altre erano buttate a terra, come pezzi di carne avanzati dopo un lauto pasto.

Hirotsu faceva fatica a restare di fronte a quella scena senza battere ciglio: aveva conosciuto quelle fanciulle, alcune le aveva anche addestrate. Tra di loro, vi erano donne veterane che erano state novelline insieme a lui. Erano figlie della Port Mafia, dalla prima all’ultima, poco importava che alcune di loro fossero state raccolte dalla strada da piccole e non potessero vantare nessun nome importante. Suo malgrado, per quei morti non poteva fare più nulla. 

C’era qualcosa che turbava l’uomo col monocolo più di quel bagno di sangue ed era il giovane Boss alla sua sinistra.

Gli uomini della Black Lizard raccoglievano i corpi, li chiudevano in sacchi neri e li portavano nell’obitorio del quartier generale. Il mondo esterno non avrebbe mai saputo di quella tragedia. Ogni nome sarebbe stato scritto negli archivi della Port Mafia e nessun cadavere sarebbe mai uscito da lì. Tombe, funerali, commemorazioni: di fronte alla possibilità di mettere a rischio l’integrazione dell’organizzazione, tutto veniva meno.

E Mori Ougai se ne stava di fronte a quello spettacolo raccapricciante senza dire una parola, con l’espressione imperturbabile di un uomo che era abituato a simili massacri in modo innaturale.

Anche se nessuno gli aveva chiesto di parlare, Hirotsu sentì la necessità di spezzare il silenzio. “Quando siamo arrivati, abbiamo trovato in mezzo ai corpi il Dirigente che conoscete come Casinò. Era completamente su di giri e delirava. Mi sono preso la libertà di arrestarlo come traditore e trattenerlo.”

Mori annuì una volta. “È nelle segrete?”

“No,” rispose Hirotsu. “È in uno dei furgoni blindati qui fuori, pensavo che-“

“Portalo qui.”

“Signore?”

Gli occhi di Mori Ougai rifletterono delle sfumature violacee nel guardarlo. “Portalo qui, Hirotsu.”

Il leader della Black Lizard non poteva permettersi di esitare. Chinò la testa e fece quanto gli era stato detto. Tornò meno di cinque minuti dopo, con un due uomini armati e il prigioniero.

Casinò venne costretto in ginocchio, al cospetto del Boss. Il viso di Mori divenne una maschera di puro disgusto. “Hai ancora le braghe calate.”

Il prigioniero non rispose, ma i suoi occhietti da maiale erano colmi di risentimento: lo avevano imbavagliato per impedirgli di urlare come un ossesso.

Mori lanciò un’occhiata a Hirotsu. “Lasciate che parli.”

Il leader della Black Lizard tolse il bavaglio e subito la voce stridula di Casinò coprì il silenzio. “Che cosa pensi di fare, moccioso bastardo?” 

Mori sbuffò. “Ho superato i trent’anni. L’etichetta di moccioso possiamo anche togliermela di dosso, no?”

La calma con cui parlava, quella in cui si muoveva, tutto faceva tendere Hirotsu come una corda di violino. Conosceva Mori Ougai da tantissimi anni - dai tempi in cui ancora si chiamava Rintarou - e già allora aveva visto in quel ragazzino una bomba pronta a esplodere. Si era illuso che avesse brillato la notte prima, con l’assassinio del Boss Folle e la sua ascese al potere. Evidentemente, quella era stata solo la miccia. Il vero Mori Ougai doveva ancora mostrarsi al mondo.

“Facciamo un sunto,” disse il neo-Boss, gesticolando in aria. “Il vostro vecchio leader passa a miglior vita, dopo una lunga, estenuante stagione di malanni. Il sottoscritto viene nominato suo successore, con tanto di testimone e, come se non bastasse, ottiene l’appoggio di due Dirigenti su quattro. Uno di questi, il Generale, gira tra i corridoi della Port Mafia da prima della Grande Guerra e fa a tutti un discorso molto realistico della posta in gioco ma, no…” Mori scosse la testa. “Tu e quel Guercio dovevate fare i capricci e sottolineare quanto detestabile è la mia presenza. E quale modo migliore di farlo, se non uccidendo donne e ragazzine appartenenti alla Port Mafia stessa?”

Casinò ingoiò a vuoto. L’intento glorioso per cui si era reso complice di quella strage doveva improvvisamente aver perso mordente. 

“Dov’è il Guercio?” Domandò Mori, sfoderando la pistola da dietro la schiena, come se fosse un oggetto da nulla.

Hirotsu strinse le labbra: uccidere un Boss demente era una cosa, far strage del suo lascito appena la mattina dopo era un azzardo, sebbene giustificato. Casinò era un uomo solo, ma dietro di lui vi erano agganci, amicizie politiche, risorse di cui era responsabile. Tutte ricchezze che sarebbero andate perdute con una pallottola, se solo Mori avesse deciso di sparare.

Di fronte all’arma, la rabbia con cui Casinò si era scagliato contro il nuovo Boss divenne come polvere al di vento. “Non è stata una mia idea!” 

Mori si massaggiò la fronte. “Non ho dormito, risparmiami questo caos inutile.” Il braccio era ancora rilassato lungo il fianco.

“È stata un’idea di quel Guercio maledetto!” Continuò Casinò. “Andiamo alla Casa dei Fiori con tutti gli uomini, ha detto! Dimostriamo chi siamo con una prova di forza, ha dett-“

Il colpo di pistola fece sobbalzare tutti i presenti. 

A dispetto di quello che Hirotsu aveva temuto, la pallottola non trapassò il cranio del Dirigente, bensì lo colpì all’inguine.

Mori s’imbronciò. “Ho mancato il bersaglio,” disse, scontento, mentre le urla del prigioniero coprivano quel silenzio di morte. Il Boss si allontanò da quell’essere grottesco per arrivare al fianco di Hirotsu. “Portatelo nella sala delle torture,” disse, afferrando la spalla del veterano. “Qui la cosa è stata veloce. Hanno drogato pesantemente le più abili e hanno fatto quel che volevano col resto. Deve essere durato tutto due, massimo tre ore.”

Hirotsu aggrottò la fronte. “Da dove intuite tanti dettagli?”

“Kouyou è alla mia clinica,” rispose Mori. “È riuscita a fuggire.”

Il leader della Black Lizard annuì due volte. “Capisco.”

Mori rimise la pistola al suo posto. “Se queste donne hanno resistito tre ore, in netta minoranza, drogate e prese alle spalle… Voglio che Casinò vada avanti almeno per ventiquattro. E assicuratevi che prima di liberarci della sua disgustosa presenza, ci dica dove si trova il suo compare di baldoria."

Hirotsu annuì due volte. “Ai vostri ordini, Boss.”




 

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Note:

[1] Riferimento al fatto che il vero Mori Rintarou nacque da una famiglia di samurai che serviva da generazioni come medici i Daimyō del feudo di Tsuwano (attuale prefettura di Shimane). 

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Capitolo 3
*** III ***


III



Quando Mori tornò alla clinica, gli parve che un peso immenso fosse stato sollevato dalle sue spalle. La voce di Kouyou gli arrivò chiara e allegra dal piano di sopra. Era tornata abbastanza in forze da camminare, meglio così.

Il vero colpo di scena era che Dazai le rispondeva.

Li trovò nella camera da letto che aveva prestato al quattordicenne. La scena che gli si presentò davanti era tanto ordinaria che, dopo quanto aveva visto alla Casa dei Fiori, la sua mente fece difficoltà a elaborarla.

“Oh, bentornato!” Kouyou staccò il phon dalla spina e lo appoggiò in fondo al letto, dove era seduto Dazai. Lei si era presa la libertà d’indossare alcuni suoi vestiti. Forse era fuori luogo, ma Mori si chiese come facesse a essere attraente anche così.

Dazai lo salutò sollevando la mano sana. Anche a lui era toccata la stessa sorte, ma il maglioncino leggero che aveva addosso lo rendeva più basso di almeno una spanna e i pantaloni erano talmente tanto arrotolati alle caviglie che Mori si chiese come avrebbe fatto a camminarci.

“Ci siamo fatti una bella doccia e adesso lui assomiglia meno a un gatto randagio,” disse Kouyou, aggiustando una ciocca di capelli scuri dietro l’orecchio di Dazai.

Mori fece una smorfia. “Effettivamente, puzzavi un po’.”

Non che avesse avuto il tempo di lavarsi tra il suo arrivo in fin di vita, le prime ore spese a fargli capire dov’era, chi ce l’aveva portato e perché fosse importante che collaborasse. Questo, seguito dai piani di Mori per la conquista della Port Mafia.

Dazai lo guardò con sdegno.

Mori ne sorrise. Bene, pensò. Se non vuoi puzzare, hai una dignità sotto tutto quell’autolesionismo.

Sbatté le palpebre un paio di volte. “Un attimo,” alzò la mano destra, come a fermare la scena. “Vi siete fatti la doccia?”

Kouyou alzò gli occhi al cielo. “Non insieme, ovvio. Ci siamo aiutati con le medicazioni a vicenda.”

Mori passò gli occhi dalla giovane donna al ragazzino, poi di nuovo alla giovane donna. “Ehm…”

Dazai intervenne in suo soccorso. “Lei capisce,” disse, coinciso.

Mori si sentì offeso. “Anche io capisco!”

“Forse con me si è trovato più a suo agio,” propose Kouyou. 

“Tu mi hai tagliato i vestiti,” gli ricordò Dazai, per nulla affezionato al ricordo.

“Sono un medico, stavi sanguinando ed eri privo di sensi!” Perdere una battaglia di nervi contro un ragazzino era una doppia sconfitta per Mori, ma erano state dodici ore molto impegnative e sporche di sangue.

A tal proposito…

“Dobbiamo parlare,” disse il Boss della Port Mafia. “Dazai, immagino che tu sia stato informato sugli ultimi eventi.”

“Più o meno,” rispose il ragazzino.

“Bene.” Mori si rivolse a Kouyou: non era più sporca di sangue ma le fasciature e gli ematomi erano ancora al loro posto. “Casinò è nelle segrete. Con un buco dove nessun uomo vorrebbe.”

Dazai non parve affatto impressionato, Kouyou sì. “Hai seccato un Dirigente a meno di dodici ore dalla morte del vecchio Boss?”

“Non l’ho seccato,” chiarì Mori. “Ha ventiquattro ore di torture come epilogo della sua patetica esistenza.”

“È un Dirigente,” ripeté Kouyou. “Se lo uccidi con tanta velocità, rischi credibilità, potere, tutto.”

“Oh, mia cara, ho altri due Dirigenti a mio favore, oltre alla Black Lizard!” Mori era ottimista, quasi allegro. “Che cosa può andare storto?”




 

“Sei un moccioso che non usa la testa!” Esclamò il Generale.

Mori contrasse il viso in un’espressione dolorante. “Ho trentadue anni.”

“Sì, e ha dimostrato più sangue freddo lui di te,” aggiunse il veterano, indicando Dazai, che guardava fuori dalla vetrata come un bambino sulla ruota panoramica.

Mori li aveva riuniti tutti nell’ufficio del Boss, in cima al grattacielo principale, e aveva portato anche Kouyou in veste di testimone dei tragici eventi.

“Vuole che lei le dica cosa hanno fatto?” Domandò Mori, indicando la giovane donna. “La guardi, Generale.”

L’uomo dai baffi grigi fu costretto a farlo. Seduta sulla poltrona di fronte alla scrivania del Boss, Kouyou non abbassò lo sguardo nemmeno per rispetto verso un suo superiore. No, non era riuscita a proteggere le sue sorelle e le sue maestre, ma non avrebbe abbassato la testa perché era una sopravvissuta.

“Siamo la Port Mafia,” disse Randou, stringendosi di più nel suo cappotto. “La violenza è nella nostra natura.”

“Senza ombra di dubbio,” concordò Mori. “Ma ieri notte si era parlato del rischio di una guerra civile. Ebbene, signori miei, due Dirigenti si sono scagliati contro la nostra stessa gente, quella della Port Mafia. Come vogliamo definire queste azioni?”

Dazai non li guardava in faccia ma ascoltava tutto. Quel Randou non avrebbe fatto una gran differenza nei giochi. Era il Generale quello da convincere: era il più anziano, quello con più esperienza. Nel caso avesse ragioni personali per essere lì, era molto bravo a nasconderle.

Il Generale era stato il primo a pronunciare le parole guerra civile nella sala riunioni, la notte precedente. Il Guercio e Casinò si erano limitati a chinare la testa in un primo momento, per colpirli tutti alle spalle quello successivo.

A meno che il Generale stesso non fosse pronto a rimangiarsi le sue parole, Mori aveva tutto il diritto di rendere cibo per vermi i due Dirigenti traditori. 

“Al di là delle perdite a cui andremo incontro,” disse il Generale, “perché ce ne saranno Mori, hai realizzato quanto ti rendi sospetto agli occhi di tutti? Noi sappiamo che è avvenuto un assassinio. Hirotsu lo sa, ma è un’informazione che non può andare oltre o la Port Mafia potrebbe collassare su se stessa. L’ho detto fin dal principio: non ci possiamo permettere una successione burrascosa. Il Guercio e Casinò sono sempre stati scarti umani, ma tu stai giocando con il fuoco.”

“Invece no,” intervenne Dazai di colpo. 

Quando la sala divenne silenziosa, il quattordicenne si voltò a guardarli tutti. “Non riuscite a vedere il quadro per quello che è,” disse, schietto. “Continuate ad accavallare le cose perché sono avvenute una di seguito all’altra. Voi guardate Mori e vedete l’assassino del Boss Folle, passato a eliminare i suoi sostenitori. In altre parole, non riuscite a vedere oltre il vostro naso.”

Mori fece per dire qualcosa riguardo al modo di esprimersi di Dazai, ma il Generale non si ribellò al suo intervento e lasciò correre. “E che altro dovremmo vedere?” Domandò il veterano.

Dazai sembrava completamente a suo agio in quella sala, come se non si stesse decidendo della vita e della morte di centinaia di persone. “I fatti raccontano una sola storia: il vecchio Boss è morto, Mori è stato scelto come successore e due Dirigenti, non contenti, hanno usato un atto di forza contro la Port Mafia stessa per esprimere il loro disappunto. Dove sarebbe il sospetto in questa storia? Non capisco.”

Mori rise sotto i baffi: Dazai capiva perfettamente, ma gli piaceva far sentire i potenti dei perfetti idioti.

“La verità, Generale, è che il sospettoso è solo lei,” concluse Dazai. “Lei non vede Mori che usa il suo diritto di fare giustizia contro i traditori, lei vede un regicida che potrebbe usarvi e, una volta finito, uccidervi. Lei non era lì, ieri notte. Lei sapeva dell’omicidio ma ha preso delle caute distanze dai fatti. Mentre il suo collega si è liberato del corpo in prima persona e il leader della Black Lizard è stato fondamentale per la copertura. Voleva il Boss Folle morto, ma non aveva il coraggio di sporcarsi le mani… E ora che è arrivato qualcuno a fare quello che andava fatto, lei è in preda alla paranoia.”

Il Generale strinse i pugni. Era un uomo d’onore e Mori dubitava si sarebbe lanciato contro un ragazzino già menomato di suo, ma rimase comunque teso, pronto all’azione.

Il vecchio Dirigente abbassò lo sguardo con un sospiro stanco. “Chiedo il permesso di parlare privatamente col Boss.”

Mori aveva una mezza idea di dove si volesse arrivare. “Permesso accordato,” disse, cercando l’unico occhio del quattordicenne. “Ma Dazai resta.”

Il Generale passò gli occhi dal Boss al ragazzino, poi annuì. “Si è guadagnato il diritto di restare.”

Mori si rivolse allora all’uomo dai lunghi capelli neri. “Randou, accompagneresti la signorina Ozaki al salottino qui fuori. Torneremo da voi appena possibile.”

Il Dirigente infreddolito non ebbe nulla da obiettare e fu molto cortese nello scortare Kouyou fuori dall’ufficio. 

Mori allungò la mano verso Dazai. “Vieni qui.” Quando fu a portata, si alzò dalla poltrona che era appena divenuta il suo trono e strinse le spalle del ragazzino. Ancora una volta, si ritrovò a pensare che fosse troppo magro.

Per la prima volta dall’inizio di quella storia, il Generale si soffermò a studiare la figura esile del ragazzino. Non gli aveva dato alcun valore nella sala riunioni, convinto fosse uno scacco nelle mani del nuovo Boss, facile da usare per la sua giovane età e per lo stato di fragilità in cui versava. “Quanti anni ha di preciso?” 

Mori tamburellò le dita sulle piccole spalle. “Può rispondere da solo.”

“Quattordici,” disse Dazai.

“Sembra più piccolo,” commentò il Generale. “Tutti i figli della Grande Guerra lo sembrano. Dove lo hai trovato?”

“È una storia lunga,” rispose Mori, cortesemente.

L’uomo anziano comprese che non gli sarebbe stato rivelato nessun dettaglio aggiuntivo. “Hai ragione, ragazzino, sono io il primo sospettare,” confessò, pur sapendo che così poco sarebbe bastato a renderlo colpevole di alto tradimento. “Hai ragione anche quando dici che volevo quel vecchio pazzo morto, ma mi mancava il coraggio di sporcarmi le mani.”

Nonostante ogni parola fosse un vantaggio per lui, a Mori non faceva piacere vedere un Dirigente della generazione di suo padre ridotto in quello stato pietoso. Il Generale, che da bambino gli aveva sempre messo una certa soggezione, ora assomigliava a un uomo curvo e vecchio, stanco della vita stessa. Lanciò una breve occhiata alla nuca di Dazai e sperò che l’argomento non venisse fuori in quella stanza.

“Posso sedermi?” Domandò il Generale.

“Certamente,” rispose il Boss.

L’uomo si accomodò sulla poltrona lasciata libera da Kouyou e furono proprio per lei le parole che seguirono. “La ragazza ha talento. Non ho seguito direttamente il suo addestramento, ma mi tengo informato sui nostri giovani. Il futuro della Port Mafia dipende da loro e non dai cadaveri ambulanti come me.”

“Perché si sminuisce in questo modo?” Domandò Dazai, deluso. “La notte scorsa, quando è entrato nella sala riunioni, sembrava l’uomo più potente presente.”

Le labbra del Generale si piegarono in un raro sorriso. “Un bambino non può capire,” disse, poi sollevò lo sguardo su Mori. “Neanche tu puoi, Rintarou.”

Nel sentir pronunciare il suo vero nome, il Boss strinse le labbra ma non ne fu sorpreso. Lo aveva conosciuto da bambino, era rimasto al fianco di suo padre come amico ed era l’ultimo superstite di una generazione di mafiosi che non esisteva più. Il Boss Folle si era premurato di spazzarla via un poco alla volta. 

“Sei un Boss giovane,” proseguì il Generale. “Non il più giovane della storia della Port Mafia, ma comunque giovane.”

Le labbra di Mori si piegarono in un sorriso amaro. “Tu non hai alcuna fiducia in me, vero?” Passò al tu perché non c’era nulla di formale in quel colloquio. Tanto valeva dire le cose per quelle che erano.

“Sono certo che, in questo preciso momento storico, nessun altro possa guidare la Port Mafia,” ammise il Generale. “Sei figlio di una famiglia che ha scritto la sua parte di storia in questa organizzazione e, in particolare, tuo padre era un uomo che aveva tutta la mia fiducia e il mio rispetto. Se fosse per me, se la morte fosse un processo reversibile, quella poltrona spetterebbe a lui.”

“Se mio padre fosse vivo, avrebbe qualche anno più di te,” disse Mori. “Ora la Port Mafia si troverebbe in una situazione completamente diversa, ma si starebbe comunque parlando di successione. Inoltre, Generale, chi meglio di te sa che la storia non si scrive con i se.”

Il Dirigente annuì, fissando un punto qualunque del tappeto, come se stesse riflettendo. Quando ebbe finito, cercò di nuovo gli occhi di Mori. “Quando avevi quindici anni, non avrei scommesso nulla di te,” dichiarò. “Ougai… Il vero Mori Ougai ti proteggeva, provava a educarti a divenire qualcuno di grande.”

A quelle parole, Dazai sollevò lo sguardo perplesso sul Boss ma Mori lo ignorò completamente.

“Eri un bambino maledetto, Rintarou,” proseguì il Generale. “Lo sapeva tuo padre, lo sapevamo tutti. Avevi dalla tua parte un’intelligenza fuori dal comune, che nessuno sapeva come incanalare. A parte questo, eri una mina vagante. Possedevi un’abilità che non sapevi usare. Smaniavi per avere qualcosa che nemmeno tu sapevi cosa fosse. Ti avessero consegnato il mondo intero, non ti sarebbe bastato. Alla fine della storia, nessuno dei tuoi talenti ti è valso qualcosa in questa corte di Yokohama. Sei fuggito in Germania e lì hai scritto una storia che non conosce nessuno. Quando sei tornato a casa, lo hai fatto da soldato congedato con disonore e con l’abilitazione da medico.”

Dazai continuava a tenere l’unico occhio sano sollevato su Mori. Il modo in cui incassava ogni parola senza reagire lo confondeva.

“Se il vecchio Boss non fosse stato completamente demente, ti avrebbe trucidato come ha fatto con tutta la tua famiglia. Invece, colpo di fortuna, sei divenuto suo medico personale e anche Dirigente.” Il Generale emise un sospiro. “Vuoi sapere come la penso davvero? Eri maledetto e sei rimasto maledetto. Qualunque cosa sia successa in Germania, non ha fatto altro che confermare questa tua condizione. La Port Mafia ha bisogno di stabilità e non credo che tu sia in grado di dargliela ma, come ho detto, questa città manca di personalità adatte a questo ruolo.”

Seguì un lungo minuto di silenzio. Dazai dedusse che il Generale avesse finito con la sua confessione e che ora toccasse a Mori contrattaccare.

Ma il vecchio Dirigente aveva ancora qualcosa da dire. “Per questo e per molto altro, ti presento le mie dimissioni, Boss della Port Mafia.”

Dazai sentì le dita di Mori stringerli le spalle di colpo: lo aveva preso di sorpresa, anche se la sua espressione non tradiva alcuna particolare emozione. 

“Il tuo posto non è mai stato messo in discussione da me,” disse il Boss, con voce incolore. “Ma immagino che la mancanza di fiducia nei miei confronti sia un problema.”

Il Generale si alzò in piedi. “Per quel che mi riguarda, la Port Mafia non esiste più da anni. Quello che tu e chiunque sceglierai come tuo Dirigente andrete a creare non m’interessa e non mi appartiene. Quando qualcosa è morto, è giusto dichiararne il decesso e lasciare il passo alle nuove generazioni. La mia ha esalato il suo ultimo respiro con tuo padre. Dopo la sua morte, non ho avuto la volontà di fare altro che occupare una poltrona e restare a guardare.”

“Codardo…”

Quella parola sfuggì nello stesso momento sia a Dazai che a Mori, ma fu la voce di quest’ultimo a udirsi più chiaramente. Il quattordicenne sollevò di nuovo lo sguardo e, finalmente, vide negli occhi del Boss quel bagliore violaceo che si era aspettato da quando il Generale aveva iniziato a parlare.

Mori lasciò andare le spalle di Dazai e fece il giro della scrivania per trovarsi faccia a faccia con il Dirigente. “Continui a ripetere quanta nostalgia provi per mio padre, per l’uomo che era e la guida che rappresentava, ma non mi risulta che tu abbia alzato un dito quando il Boss Folle ha ordinato il massacro di tutta la famiglia Mori,” disse, calmo, gelido. “Tu sapevi degli uomini mandati in Germania per uccidere anche me, ma non ti è passato per la testa di avvertirmi, vero? Hirotsu lo ha fatto. Un uomo che non mi doveva niente e che aveva tutto da perdere mi ha salvato la vita, mentre il caro amico di mio padre occupava la sua poltrona in completo silenzio.”

Dazai osservò la scena affascinato. Il Generale era più alto di Mori, più robusto ma l’aura di potere che gli aveva visto addosso la notte precedente era sfumata, come una nuvola di fumo.

Il Dirigente aveva impiegato interi minuti a esprimere il suo punto di vista. A Mori erano servite poche parole per schiacciarlo e dipingerlo per quello che era realmente. Non c’era nessun possibile contrattacco a un affondo del genere. Anche se il Generale avesse estratto la pistola e sparato a tutti e due, la sua immagina era inevitabilmente compromessa e l’epilogo della sua vita era condannato all’oscurità più tetra.

Dazai un colpo di pistola se lo aspettava, ma da parte di Mori. La discussione aveva raggiunto livelli troppo personali perché il Dirigente se ne potesse andare sulle sue gambe.

Il Boss della Porta Mafia fece un passo indietro e simulò un colpo di tosse, come per schiarirsi la voce. “Accolgo le tue dimissioni. Lascerai la città e non avrai più informazioni riguardanti questa organizzazione o contatti con chi ne è ai vertici,” ordinò. “La Port Mafia ripagherà per il tuo servizio per il resto dei tuoi giorni. Inutile dire che ti è proibito fare ritorno a Yokohama per qualsiasi ragione.”

Forse temendo la stessa sorte che Dazai aveva previsto per lui, il Generale chinò la testa - per la prima volta, come si doveva - di fronte al nuovo Boss della Port Mafia. “Vi sono grato, Boss.”

“Ora vattene,” concluse Mori. “Non voglio più vederti in mia presenza.”

Il Dirigente si diresse verso la porta, le spalle curve. 

Dazai non comprendeva tanta magnanimità. Quell’uomo non era meno colpevole del Boss Folle del massacro della famiglia Mori, quindi perché si guadagnava quella libera uscita, come se nulla fosse successo?

Il Generale abbassò la maniglia della porta.

“Un istante,” lo fermò Mori. 

Il Dirigente non si voltò.

“È inutile, da parte mia, ricordarti che non si è mai liberi dalla Port Mafia, vero?” Il sorriso diabolico che comparve sulle labbra di Mori diede a Dazai l’impressione di essersi perso qualcosa. “Una volta nell’oscurità, si rimane legati all’oscurità. Prega che questa non ti divori.”

Il Generale non replicò in alcun modo. Esitò un istante, poi uscì dalla scena per sempre.

Rimasti soli, Mori rilassò le spalle e sbuffò. Fece qualche passo avanti e indietro, come se dovesse calmare i nervi. “Che cos'è appena successo?” Domandò, mentre vagava.

Dazai sapeva che si stava rivolgendo a lui. “Hai lasciato andare una minaccia che potrebbe tornare a colpirci.”

Mori scosse l’indice, senza guardarlo. “Sei stato attento per tutta la scena. Credi davvero che quell’uomo abbia assi nella manica da giocare?”

Dazai ci pensò, poi scosse la testa. “Vive nella paura da anni. Ne è completamente annichilito.”

“Bravo.” Mori accennò un sorriso, gli stava tornando il buon umore. “Quindi, te lo chiedo di nuovo, che cosa è successo?”

“Hai lasciato andare un uomo che vorresti uccidere con le tue mani.”

Mori rise. “Questo non è scorretto,” ammise. “Ma la lezione è un’altra. Concentrati.”

“Quando tutto questo si è trasformato in una lezione?” Domandò Dazai, annoiato.

Mori diede un freno al suo vagare e appoggiò entrambe le mani sulla scrivania. “Lavoreremo sulla tua impertinenza strada facendo,” promise. “Ora voglio che analizzi la situazione e comprendi la strategia.”

Fu il turno di Dazai di sbuffare. “Non può liberarsi dalla Port Mafia, giusto? Tu sei la Port Mafia. Un tuo ordine e chissà che ne sarà di lui. Potrebbe arrivare domani, tra tre mesi o forse mai. Quell’uomo ha vissuto nella paura per anni, ma ora non potrà muovere un passo senza guardarsi le spalle. È la tua punizione per la sua codardia.”

Mori sorrise soddisfatto. “Per oggi basta così. Torniamo a casa, Dazai,” disse. “Per essere solo l’inizio, è stata una buona giornata.”




 

“Siamo rovinati.” Fu la conclusione a cui Mori arrivò tre ore dopo, seduto al tavolo della cucina della clinica, un documento per mano e l’occhio scuro di Dazai che lo fissava dalla parte opposta del tavolo. Sopra le loro teste, la lampadina dalla luce funerea non faceva nulla per rendere meno pesante l’atmosfera.

“Abbiamo un Dirigente morto, o quasi morto, un altro è ricercato per tradimento e un terzo è andato in pensione con disonore.” Il riassunto dei fatti era ancor più deprimente dei fatti stessi. “Ho almeno un centinaio di assassine addestrate uccise e altrettanti uomini da far giustiziare per alto tradimento.” Mori guardò malamente la pila di cartelle che aveva spinto il più possibile lontano da sé. “E non abbiamo ancora toccato la questione economica…” Era certo che se avesse sfiorato quelle carte, la sua pelle si sarebbe riempita di bolle.

Dazai, da parte sua, non se ne stava davvero con le mani in mano. Sfogliava i dossier senza interesse, ma cercava qualcosa. “Il braccio armato è completamente dalla tua parte,” disse. “Gli uomini che hanno consumato il massacro alla Casa dei Fiori erano solo soldati personali del Guercio e Casinò. In confronto alla Black Lizard, sono solo un gruppo di manichini armati. Non perdi molto a giustiziarli.”

“C’è da dire un’altra cosa,” aggiunse Mori, “i possessori di abilità sono davvero pochi. Siamo al livello più basso della storia della Port Mafia. Il vecchio pazzo ne ha mandati a morire molti con i suoi ordini folli.”

Dazai pescò una cartella tra le altre. “Quanto fa ridere sostituire un Generale con un Colonnello?”

Mori allungò la mano per prendere il documento e dare un’occhiata a sua volta. “È nelle prigioni del quartier generale,” disse, con una smorfia. “Che cos’hai lì, il registro dei prigionieri?”

“Quello dei condannati per tradimento, nello specifico,” rispose Dazai. “Uomini dei piani intermedi, anche armati di abilità, che hanno cercato di ribellarsi più o meno direttamente al vecchio pazzo. Se sei carente di alleati, cercali in chi odiava chi hai ucciso con le tue mani. Saranno più ben disposti nei tuoi confronti, rispetto a chi aveva trovato il modo di fare i propri comodi sotto il comando di un leader pazzo.”

Mori rimase come congelato per una manciata di secondi. “Perché non ci ho pensato prima?”

“Perché dai per scontato che i traditori muoiono a poche ore dalla loro condanna, credo,” disse Dazai, sollevando una lunghissima lista di nomi. Erano tutti uomini della Port Mafia accusati di questo o quel comportamento sospetto. A giudicare dalla scarsa lucidità del vecchio che aveva ucciso, Mori aveva motivo di credere che una buona metà di quei nomi non avesse mai nemmeno pensato di tradire il Boss. Ma era impossibile avere la meglio contro un uomo folle dotato di potere.

“Chi è questo Colonnello?” Domandò, dando un’occhiata alla scheda del prigioniero. “Non ricordo il suo caso, ma il viso mi è familiare.”

“Colonnello è un nome in codice,” disse Dazai. “C’è scritto che ha dichiarato di aver seppellito quello vero su uno dei tanti campi di battaglia della Grande Guerra.”

Mori ridacchiò. “Posso comprenderlo,” disse. “Siamo quasi coetanei,” notò.

Sei giovane. Aveva detto il Generale.

Forse era proprio quella la chiave di volta che avrebbe fatto risorgere la Port Mafia: metterla nelle mani di chi aveva conosciuto la guerra, che non perdeva tempo a rimpiangere un paradiso dorato andato perduto per sempre. Mori sorrise tra sé e sé: non era un punto malvagio da cui far partire la ricostruzione.

Kouyou entrò nella cucina senza bussare. “Ho ordinato qualcosa per cena,” li avvisò. Era riuscita a recuperare alcuni vestiti dai suoi appartamenti. Nessuno kimono sfarzoso, solo dei comunissimi jeans e un maglioncino leggero. 

Mori dubitava che il Guercio avrebbe tentato un altro colpo in completa solitudine, ma la voleva dove poteva tenerla d’occhio. 

“Voi due dovete mangiare qualcosa,” aggiunse, severa come poteva esserlo una madre. A Mori si chiudeva lo stomaco al pensiero che a separarla da Dazai vi fossero solo quattro anni di differenza. A dispetto dei suoi diciotto anni, Kouyou era una donna che dalla vita aveva ricevuto tutte le lezioni peggiori e ne era uscita a testa alta. 

A Mori, quella creatura a tratti eterea e a tratti letale, ricordava tanto la madre che lo aveva cresciuto - non quella che lo aveva messo al mondo - la moglie di suo padre, colei che era stata signora della Casa dei Fiori durante la sua infanzia e adolescenza. “Kouyou, t’interessa un posto da Dirigente?” Chiese, di colpo. 

Era serio.

Lei gli rise in faccia a tempo zero. “Non essere assurdo, Mori. Piuttosto, Dazai ha bisogno di vestiti che non rischiano di cadergli di dosso a ogni passo.”

Mori la fissò, incredulo: lui le offriva il mondo - oscuro e sporco di sangue della Port Mafia - e lei lo ignorava in favore del guardaroba di Dazai.

Decise che avrebbe rimandato la proposta a delle circostanze meno traballanti. “Domani ti lascio la carta di credito, così lo puoi portare ai grandi magazzini e divertirti,” disse, ben felice di liberarsi di quell’incombenza. La moda dei ragazzini era così noiosa, tutta uguale e priva di brio.

“Affare fatto,” accettò Kouyou, spettinando amichevolmente i capelli di Dazai.

Il ragazzino continuò a guardare le cartelle, come se nessuno lo avesse toccato. 

Mori lo fissò, ripensando a quanto era accaduto nell’ufficio in compagnia del Generale. Dazai non aveva chiesto spiegazioni - figurarsi se si fosse disturbato ad aprire bocca per fare due chiacchiere - ma erano state buttate lì, a caso, delle informazioni sul passato di Mori. Era saggio fare ordine, prima che quella giovane mente elaborasse qualcosa che non era corretto - sempre ammesso che gliene fregasse qualcosa.

“Il mio nome è Mori Rintarou,” disse, di colpo e l’unico occhio scuro del quattordicenne fu subito su di lui. “Mori Ougai era il nome di mio padre. Lo uso perché Rintarou è morto in Germania e mi piace creare un po’ di dramma.” Alle volte, non si prendeva troppo sul serio neanche lui.

Accanto a Dazai, Kouyou lo fissò basita.

“Avanti, mia cara, non è un segreto di stato.” Per Mori, sminuire era il miglior modo per tirare fuori il passato. “Ti ho già raccontato di mio padre, Dazai. La mia famiglia è stata massacrata dal Boss Folle, mentre ero in Germania. Ha tentato di raggiungere anche me, ma non c’è riuscito.”

“Che vuol dire che sei maledetto?” Domandò Dazai.

Kouyou gli strinse la spalla. “Questa è una storia per un’altra volta.” Fu lei a mettere il punto.

Suonarono alla porta d’ingresso.

“Mettete via tutto,” disse lei. “È arrivata la cena.”

Mori sventolò la scheda del Colonnello. “Lo prendiamo in esame,” disse sottovoce al quattordicenne.

Dazai mantenne la sua espressione imperturbabile. 




 

Mori impiegò un intero quarto d’ora a trovare il pacchetto di sigaretta nel secondo cassetto della sua scrivania. Lo aveva buttato lì dentro non ricordava esattamente quando - forse due o tre mesi prima - risoluto a non voler più prendere una sigaretta tra le dita. Beh, al tempo non aveva previsto che avrebbe vissuto una giornata come quella. Quando vide che dentro la confezione mezza vuota si trovava anche un accendino, gli scappò un sorriso. Dato che c’era, recuperò anche il portacenere nascosto dietro il cestino della spazzatura. 

“Gli adulti non fanno altro che mentire a loro stessi,” disse Elise, seduta sulla sua poltrona girevole, facendo penzolare le gambe perché non arrivava a toccare il pavimento.

“Triste realtà,” convenne Mori, attraversando la stanza per lasciarsi cadere sul divano. Appoggiò il posacenere sul bracciolo e si portò una sigaretta alle labbra. Dopo aver aspirato, gettò la testa all’indietro, esausto.

Erano state ventiquattro ore molto, molto intense.

Elise saltellò fino al suo fianco. “Quando ti deciderai a smettere per davvero?”

“Mai,” rispose Mori, perché non aveva alcuna voglia di buttare lì un proposito che non gli interessava davvero.

“Sei un medico, conosci gli effetti del fumo sul tuo corpo,” gli ricordò Elise, annoiata.

Dato che non la guardava in faccia, Mori immaginò per un attimo che a parlare fosse stata Yosano. Doveva fare i complimenti a se stesso: era bravo con le imitazioni, anche se solo attraverso il riflesso della sua abilità 

“Di qualcosa bisogna pur morire,” replicò Mori, banale. Se anche avesse fumato una sigaretta al minuto per il resto della vita, il cancro non sarebbe mai arrivato abbastanza velocemente per ucciderlo. No, sarebbe toccato a qualcos’altro.

Una pistola o una lama?

Un nemico, oppure un traditore?

Le storie dei Boss malavitosi non finivano mai con una serena morte naturale, in tarda età. Era un po’ una clausola del contratto per divenire leader di un’organizzazione come la Port Mafia: la morte sarebbe sopraggiunta prematuramente e, quasi di sicuro, in modo violento.

“Ho anche la canzone per il mio funerale,” annunciò Mori, con allegria fuori luogo. “Quella di Parigi… Quella dell’ultimo ballo mio e di Hans.” Aspirò un’altra boccata di fumo. “It's something unpredictable. But in the end, it's right. I hope you had the time of your life. È una buona canzone per un Boss caduto della Port Mafia.”

“Non ti sembra un po’ precoce questo tuo pensiero?” Elise era ancora accanto a lui, sotto forma di una bella bambina dall’aspetto di una bambola. Fosse stata reale, non sarebbe mai stata in grado di fare simili discorsi con un’espressione tanto adulta.

Ma quello era il gioco di Mori. Sue le regole, sue le variazioni.

Al tempo della guerra, la forma che aveva dato a Vita Sexualis si chiamava già Elise, ma si rivolgeva a lui come padrone e non aveva nemmeno l’ombra della personalità con cui ora si faceva conoscere.

Perdere Yosano gli aveva smosso dentro qualcosa, forse la repulsione per il silenzio e il peso dell’assenza di qualcuno in grado di contraddirlo, senza temerlo.

“Se morissi, che cosa faresti, Elise?” Era una domanda sciocca, perché Elise era lui

“Ti hanno appena fatto Boss e già pensi alla tua morte?” Domandò una voce di donna.

Mori sollevò la testa: Kouyou era sulla porta - che si era sbadatamente dimenticato di chiudere - avvolta in una vestaglia di seta nera. I bei capelli rossi erano raccolti in una treccia che le ricadeva sulla spalla destra. Sulle gambe nude, Mori poteva vedere i segni di quello che aveva subito appena la notte prima. Aveva cambiato le bende all’occhio da sola, ma lo zigomo si era fatto più nero e il labbro inferiore più gonfio. Sarebbe peggiorato tutto ancora un po’, prima di migliorare.

Good Riddance,” aggiunse Kouyou. “Me la ricordo. La suonasti al piano della Casa dei Fiori e la cantasti pure. Al tempo, lo feci per rallegrare gli animi e ora salta fuori che è un inno di morte?”

“Elise, vai a giocare,” disse Mori alla bambina, che trotterellò dietro al divano, sparendo dalla vista di entrambi. 

“Non mi disturbava,” disse Kouyou.

“Sì, invece, lo fa,” ribatté Mori. “Penso che tu sia stata la seconda persona a dirmelo.”

La prima era stata Yosano.

Kouyou scrollò le spalle. “Ho difficoltà a parlare con un te che non sei tu,” si giustificò. 

“Elise è la forma che do alla mia abilità, chi ti dice che non abbia una sua coscienza?” Domandò Mori, con innocenza. “Tu porti un Demone con te.”

Kouyou attraversò la stanza. “È diverso,” disse, sicura. “Demone Dorato non è come Elise. Io non posso cambiare la forma della mia abilità, tu puoi fare di lei ciò che vuoi.”

Mori scrollò le spalle. “In realtà, è solo un trucchetto. Tutta questione di pratica, nulla di più.”

“Quando ti sei sentito tanto solo d’avvertire il bisogno di parlare con te stesso, Mori?” Domandò Kouyou, diretta.

Non poteva avere idea del nervo scoperto che aveva toccato, così Mori rese il suo sorriso più tirato e la invitò a sedersi accanto a lui. Mentre lei si accomodava, fece un altro tiro.

“Non avevi smesso?” Domandò Kouyou, coprendosi le gambe con la vestaglia nera.

“Ne ero convinto anche io,” ammise il Boss, poi la guardò in faccia. “Come stai?” C’era della sincera apprensione in quella domanda.

Kouyou esitò un istante. “Credo dovrei essere distrutta, sconvolta.”

“Non importa quello che dovresti provare. M’importa quello che provi realmente.”

La giovane donna passò la lingua sul taglio del labbro inferiore. “Sono felice che sia morto.” Lo aveva già detto, ma non guastava ripeterlo. “Sono felice che ora ci sia tu.”

“Non hai paura che sia l’ennesimo bastardo di turno?”

“Sai, Mori, il mio lavoro è andare a letto con gli uomini per farli parlare. Dopo il sesso, hanno sempre voglia di chiacchierare. Io e te non ci siamo mai tolti un vestito, eppure tu hai sempre parlato un sacco con me.”

Mori rise e l’attacco d’ilarità lo prese tanto di sorpresa che per poco non si strozzò con il fumo che aveva in gola. Dopo tre colpi di tosse, tornò in sé. “Non scherzavo prima,” disse. “Riguardo al darti il posto da Dirigente.”

Kouyou evitò completamente la questione. “Quel Colonnello che ha trovato Dazai non è un candidato malvagio. Ha un’abilità, anche se non ricordo quale, e ti fa la cortesia di farti venire, prima di avere il suo orgasmo.”

Il viso di Mori si accese di una luce fanciullesca. “Pettegolezzi!” Quanto gli mancavano quei momenti della sua adolescenza, quando le ragazze della Casa dei Fiori mormoravano dei piccoli segreti dei grandi uomini della Port Mafia. “Beh, se riesce a far venire una donna, questo Colonnello è un gran signore.”

Anche Kouyou rise. “Mettilo tra i requisiti fondamentali per fare carriera nell’organizzazione, renderesti le donne di Yokohama molto più felici.”

“Mia madre mi raccontava cose che noi umani…” Mori lasciò la frase sospesa. “Non abbiamo mai fatto sesso, ma abbiamo finito per parlarne. Conterà qualcosa?”

“Vado a dormire.”

Entrambi sobbalzarono sul divano e ci mancò poco che il posacenere finisse a terra, in mille pezzi. Dalla porta, Dazai li guardò entrambi senza comprendere. “Che cosa c’è?”

Mori prese un respiro profondo. “Dazai, cerca di annunciarti, prima di comparire. Non sei il fantasma di un romanzo gotico.”

“Se era una battuta, non faceva ridere,” disse il ragazzino. “Buona notte.”

“Buona notte, Dazai,” rispose Kouyou.

Mori si limitò a massaggiarsi la fronte. Quando sollevò il viso, trovò lo sguardo inquisitore di lei pronto ad accoglierlo. “È complicato,” disse subito, gettando le mani avanti.

“Oh, non lo avevo capito,” ribatté lei, sarcastica.

Mori si concesse un minuto di silenzio per finire la sua sigaretta: non c’era modo di sfuggire a quel discorso e tanto valeva soddisfare la curiosità di lei in un momento di calma come quello. “Che cosa vuoi sapere?”

“Da dove viene?”

“Ah, la risposta a questa domanda vale quanto l’intero debito della Port Mafia.” Quello che Mori non aveva avuto il coraggio di calcolare dai dati contabili.

Kouyou allargò le braccia. “Come è iniziata?” Domandò. “Due giorni fa non esisteva.”

“No, due giorni fa era già qui, ma aveva appena ripreso a camminare. Ci ha messo un po’ per riprendersi.”

“Mi ha detto che ha cercato di uccidersi.”

Mori annuì. “È quello che so anche io.”

“Allora?”

“Allora, che?”

Kouyou sospirò, esasperata. “Ho capito, non puoi dirmelo.”

“Posso dirti che era massacrato,” disse Mori, serio. “Che tra ferite superficiali e ossa rotte, non sapevo da dove cominciare a rimettere a posto i pezzi. Penso si sia lanciato da un’altezza che a lui è sembrata considerevole, ma si è solo fatto male. Molto male.”

“Danni irreversibili?” Domandò Kouyou, abbassando la voce.

Mori scosse la testa. “È solo rattoppato. Si rimetterà alla perfezione.”

“E tutto il resto?”

“Tutto il resto?”

“L’ho visto nudo… Cioè, in intimo, ma a quel punto non aveva molto con cui nascondersi,” disse Kouyou, seria. “Con il braccio ridotto in quel modo, aveva bisogno di aiuto per togliersi i vestiti e farsi la doccia.”

Mori non aveva molto da dire a quel punto. “Tutta la vecchia Port Mafia sa cosa è successo la prima volta che ho usato la mia abilità. Credo che la storia sia arrivata anche a te.”

Lei non sapeva come replicare.

“Sesso biologico e identità di genere sono due cose diverse,” disse Mori, con serenità. “Quando mi sono ritrovato incastrato in un corpo che era mio solo per metà, ho dovuto trovare la persona giusta per imparare ad accettarmi davvero. Dazai sembra aver trovato la sua identità e il modo giusto in cui viverla, ma ha quattordici anni. Ha tutto il tempo del mondo…”

“Ma vuole morire.”

“Non morirà,” disse Mori, secco. “Troverò il modo di fargliela passare.”

Kouyou gli lanciò uno sguardo eloquente. “È praticamente il tuo braccio destro nella tua ascesa come Boss. Se volevi fargli terapia, hai scelto davvero un ottimo modo per convincerlo ad amare la vita.”

Mori fece finta di rifletterci. “Sì, sono stato davvero bravo.”

“Mori!”

“Eh?” Il medico allargò le braccia. “Vuoi che ti spieghi Dazai Osamu? Magari ci riuscissi!”

“Perché vuole morire?”

“Non lo so.”

“Ha quattordici anni.”

Fu il turno di Mori di guardarla. “Hai avuto pensieri autodistruttivi anche tu, a un certo punto. Non sappiamo cosa ci sia nel suo passato per averlo reso così allergico alla vita.”

La giovane donna lo guardò sospettosa. “Dal momento che gli dai una camera qui, in casa tua, lo rendi partecipe della tua ascesa al potere e, come se non bastasse, paghi perché abbia dei vestiti nuovi, che cosa ci dobbiamo aspettare da te e lui?”

Mori accennò un sorriso. “Ti dirò quello che ho detto a tutti gli altri: capiterà spesso di vedere Dazai in giro per la Port Mafia, sarà meglio che ci faccia l’abitudine anche tu.”




 

Tre mesi dopo la morte del Boss Folle, Mori e Dazai vivevano ancora alla clinica e Kouyou era loro ospite. Il Generale era stato di parola e aveva lasciato la città in silenzio, mentre Casinò aveva esalato l’ultimo respiro condannando il Guercio al suo destino. 

A quel punto, Mori Ougai era a capo di una Port Mafia che contava un solo Dirigente - sempre ammesso che Randou non avesse intenzione di congelare da un giorno all’altro e congedarsi dalla scena a sua volta - un debito con tanti zeri da far accapponare la pelle e nessuna voglia di trasferirsi al quartier generale.

La clinica non era dotata di nessun sistema di sicurezza, ma Mori aveva come la sensazione che andare alla torri sarebbe stato come gettarsi nella fossa dei leoni.

Il Boss faceva il suo lavoro, ma non in un ufficio con vista su Yokohama.

Quello che il nuovo leader della Port Mafia doveva fare era rimettere insieme i pezzi, ma le sue alleanze e i suoi contatti non erano sufficienti perché potesse fare tutto il lavoro da solo. 

Pensare ai Dirigenti era il primo passo. Hirotsu si era rifiutato categoricamente, confermando la lealtà sua e dell’intera Black Lizard al nuovo Boss. “Non ha senso che occupi una poltrona che non porterebbe nulla di nuovo a lei e all’organizzazione,” era stata la giustificazione del veterano. “Vi servono Dirigenti che possano arricchire la vostra rete. Sotto questo punto di vista, Randou non è il migliore, ma il Colonnello è quello che ci vuole in questo momento.”

Così, Mori decise di tirare fuori dai sotterranei questo Colonnello. Era più maturo di lui, ma non di molto. Avevano combattuto ed erano sopravvissuti alla stessa guerra.

Dopo un un primo incontro, trovarono abbastanza punti in comune da raggiungere un accordo. “Ho amici che facevano parte dell’esercito,” disse il Colonnello. “Soldati delusi, abbandonati dal Governo. Immagino di non dovervi spiegare storie simili, Boss.”

Mori accennò un sorriso. “Se hanno bisogno di una casa, qui abbiamo molto spazio.”

A costo di passare da idiota, Mori tornò da Hirotsu diverse volte per rivedere la questione della sua promozione. “Vedila come una cosa personale,” tentò il nuovo Boss. “Hai servito la mia famiglia fino alla fine. Quando nessuno ha mosso un dito per salvarmi in Germania, hai rischiato tutto per me. Inoltre, sei un veterano, tutti qui ti conoscono e ti rispettano. Divenire un Dirigente è l’evoluzione naturale della tua carriera.”

Hirotsu si limitò a sorridergli con garbo. “Sono lusingato, Boss,” disse, con rispetto. “Ma sarei molto più onorato di addestrare per voi un nuovo leader della forze armate, piuttosto che occupare una poltrona che non ritengo adatta alla mia persona.”

Seduto nel famoso ufficio con vista su Yokohama - in cui ogni tanto andava per fare scena - Mori rivolse al veterano uno sguardo un tantino turbato. “Non starai pensando alla pensione anche tu, spero.”

“Non temete, Boss,” lo rassicurò Hirotsu. “Se dovrò congedarmi, lo farò sul campo. Siamo però incapaci di prevedere quando accadrà e temo che ai miei ordini vi siano molti guerrieri talentuosi, ma nessun leader.”

Quel giorno, Mori si rassegnò al fatto che Hirotsu non sarebbe mai stato un suo Dirigente e aggiunse alla lista delle cose da fare: trovare un futuro leader per la Black Lizard.

Alla fine, l’ultima da convincere era Kouyou.

Dato che vivevano insieme, in ufficio andarono praticamente a braccetto e non fu un colloquio formale, più un tè tra amici - preparato da Hirotsu - mentre Elise faceva disegni coi pastelli colorati, distesa su uno dei grandi tappeti.

“Voglio far innalzare un memoriale,” disse Mori. “No, non abbiamo potuto dare degna sepoltura a tutte le donne morte, ma come soldato ho una certa sensibilità nel ricordare i caduti.”

Kouyou alzò gli occhi al cielo, allontanando la tazzina dalla bocca. “Che cosa vuoi, Mori?”

“Sto ricostruendo la Casa dei Fiori.” Era scontato che lo facesse, ma era importante che lei lo sapesse per prima in via ufficiale. “Avrò bisogno di una nuova Maestra che si prenda cura delle ragazze e non solo di quelle. Svecchiamo un po’ i metodi tradizionali. Non tutti i ragazzi sono pugni e pistole.”

“Ammetto che l’idea mi piace,” disse Kouyou. “Quella di cambiare le cose, intendo.”

“E come ti vedi nel ruolo di Maestra?”

“Non sarò una tua Dirigente,” lo precedette lei, con un sorriso cortese.

“Sii la mia signora della Casa dei Fiori,” propose Mori. “Al resto penseremo poi.”

E anche Kouyou era sistemata, almeno fino a che non l’avrebbe convinta a salire su di un gradino più alto.

Non era molto, ma era abbastanza perché la gente della Port Mafia lo vedesse impegnato in qualcosa. Ci volle un altro mese perché Kouyou avesse una casa in cui tornare. 

A quel punto, Mori tornò a essere da solo con Dazai.



 

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Capitolo 4
*** IV ***


IV



“Il rosso è il mio colore preferito nei giorni pari,” disse Elise, riempiendo il foglio bianco con il disegno semplificato di una rosa. “Il blu lo è nei giorni dispari,” aggiunse, dopo una decina di minuti. Lasciò il pastello rosso per raccogliere quello blu e aggiunse una violetta al suo mazzolino di fiori.

“I tuoi quali sono, Osamu?” Domandò, sollevando brevemente gli occhi azzurri sul viso del suo riluttante compagno di giochi.

Dazai era seduto sul pavimento accanto a lei, con le gambe incrociate. Non dimostrava alcun interesse per l’attività ludica della bambina ma Mori, che li osservava da dietro la sua scrivania sorseggiando un caffé americano, aveva notato da un po’ come quell’unico occhio scuro la studiava.

“Ho freddo,” disse Dazai, di colpo.

Mori fece per proporgli di alzarsi da terra per sedersi sul divano, ma non era a lui che si stava rivolgendo.

Elise sollevò gli occhi azzurri. “Hai freddo, Osamu?”

“Il pavimento è freddo,” chiarì il ragazzino, che indossava un paio di jeans scuri e una felpa nera - nemmeno Kouyou era riuscita nell’intento di gettare un po’ di colore su quella macchia d’inchiostro vivente.

“Tu non senti freddo, Elise?” Domandò Dazai.

Mori sospirò, prendendo un sorso del suo caffè. “Continua a giocare, Elise.” 

La bambina tornò china sul suo foglio colorato, canticchiando un motivetto che assomigliava vagamente alla Für Elise di Beethoven. Dazai era diventato invisibile ai suoi occhi e il ragazzino non ne era affatto impressionato. 

“Voleva solo giocare con te,” disse Mori.

“Non può sentire freddo, vero?” Intuì Dazai. “A meno che non sia tu a inviarle un tale stimolo.”

Mori si passò una mano tra i capelli in disordine: non aveva bisogno di presentarsi in ufficio quel giorno e aveva deciso di rimanere comodo. “Ti confesso che non credo che la parola stimolo sia corretta. Presupporrebbe un sistema nervoso centrale e lei non ce l’ha.”

Fuori dagli occhi della Port Mafia, Mori camminava per le strade di Yokohama con quella bambina al fianco. La spacciava per sua figlia, anche se non gli assomigliava affatto. La portava a comprare balocchi, vestitini che a lei non piacevano - ma era il suo gioco e quelle erano le sue regole - si fermava con lei a prendere un tè caldo in un locale pieno di famiglie felici. 

Kouyou la tollerava per rispetto a lui. Non era la presenza della bambina a renderla a disagio, ma il modo in cui lui vi interagiva. Non glielo avrebbe mai detto, ma Mori aveva il sospetto che Kouyou intravedesse quella maledizione di cui i vecchi della Port Mafia parlavano, quando lo vedeva con Elise.

Dazai era più pratico, più schietto. Per lui, la bambina dai lunghi capelli biondi non era reale e non andava trattata come un essere umano. Non aveva importanza quanto la riproduzione fosse perfetta.

Per questo, per la prima volta da quando le aveva dato una personalità, Mori usciva dal suo stesso gioco per parlare di Elise per quello che era. Dazai non avrebbe trovato di suo interesse nessun altro discorso.

“È tutto un gioco a far finta di…” Disse il ragazzino. “Non avendo un cervello in grado di elaborare stimoli, non sa cosa sia il freddo. Finge di sentirlo perché tu desideri che lo faccia.”

“Anche qui la questione è dubbia.” Mori bevve un altro sorso di caffé e si accorse di averlo quasi finito. Bene, ora gli avrebbe fatto tanto comodo del vino per reggere a quella conversazione. “Non possedendo una volontà, l’atto di fingere non è contemplato.”

Dazai imbronciò le labbra, studiando la figura minuta avvolta nel vestitino rosso. “È un Demone?” Domandò. “Come quello di Kouyou?”

Mori scosse la testa. “Come ho detto a lei: è solo un trucchetto.”

“Un trucchetto che richiede concentrazione e dispendio di energia, senza ombra di dubbio,” disse Dazai. “Ne vale la pena?”

Per rispondere a quella domanda, Mori avrebbe dovuto riaprire capitoli del suo passato particolarmente spiacevoli. “È un gioco.”

Pur avendo un unico occhio a disposizione, la pietà riflessa nell’iride scura di Dazai fu ben evidente. “Patetico…”

La pazienza di Mori cominciò a capitolare. “Se qualcuno cerca di avere una conversazione normale con te, non apri bocca. Perché lo stesso meccanismo non funziona, quando ti viene in mente qualcosa di spiacevole da dire?”

“Quando lo faccio seguendo i tuoi comodi, non te ne lamenti. È successo in almeno due occasioni,” replicò Dazai, alzandosi in piedi. “Ma che importa?”

“Dove vai?” Domandò Mori, quando il ragazzino raggiunse la porta. “Siediti sul divano,” non voleva essere un vero ordine, ma il tono in cui lo pronunciò fu lo stesso. “Parliamo un po’.”

Dazai non obiettò, ma mentre attraversava la stanza fu attento a passare esattamente dove si trovava Elise, calpestando il suo bel mazzolino di fiori disegnato. Mentre la bambina spariva nel nulla, Mori non sentì nulla. Non un dolore, neanche un brivido. Niente.

Eppure, se una lama invisibile lo avesse trapassato da parte a parte, non avrebbe sentito la gola chiudersi in quel modo.

Dazai si accomodò e lo guardò, in attesa. 

“Come hai scoperto di avere questa abilità?” Domandò Mori. 

Il ragazzino sbatté la palpebra un paio di volte. “Il Sensei non te lo ha raccontato?”

“Natsume non mi ha detto nulla di te,” chiarì il Boss, una volta per tutti. “Ti ha lasciato qui dicendomi che dovevi rimanere vivo.”

Dazai alzò l’unico occhio al cielo. “Ovviamente…”

Mori si sporse sulla scrivania. “E tu rimarrai vivo,” disse, fermo. “Ti sei fatto molto male l’ultima volta. Non ti è bastata come lezione?”

Dazai abbassò lo sguardo e scosse la testa. “Non puoi capire.”

“Sono qui.” Mori allargò le braccia. “Aiutami a farlo.”

“No,” la voce di Dazai era stanca e annoiata. “Non ho alcun interesse a farlo. Finiremmo per fare un lungo discorso sul valore della vita e, te lo dico in anticipo, non riuscirai a convincermi a darti ragione.”

Mori arrivò a un’illuminante conclusione: Dazai passava dall’essere interessante a completamente noioso, da geniale a insopportabile. Gli ricordava qualcuno, ma dirlo ad alta voce avrebbe significato spararsi un colpo in testa da solo. 

Il Boss aprì il primo cassetto della sua scrivania - le guide erano quasi andate e serviva un po’ troppa forza per riuscirci - e ne tirò fuori un volumetto dalla copertina bianca e rossa. “Vorresti riaverlo?”

L’occhio di Dazai s’illuminò. “Credevo di averlo perso.”

“Lo avevi addosso,” disse Mori. “Volevo gettarlo,” aggiunse.

Senza chiedere il permesso, il quattordicenne attraversò la stanza con la mano tesa verso il libro. All’ultimo, il Boss lo allontanò per tenerlo fuori dalla sua portata. “Ti piacciono i libri?” Domandò.

L’espressione di Dazai divenne rancorosa. “Ridammelo.”

“Cento modi per suicidarsi.” Mori lesse il titolo. “Gran capolavoro,” aggiunse sarcastico. “Ti piacciono i libri?” Insistette.

“Sono una compagnia migliore delle persone,” rispose Dazai, alzandosi sulle punte dei piedi e sporgendosi sulla scrivania per afferrare il volumetto.

Mori se lo lasciò strappare di mano. “Vieni con me,” disse, alzandosi in piedi.




 

La stanza si trovava in fondo al corridoio del primo piano, lontano dalle sale usate per operare e visitare i pazienti. Era in un angolo in un cui la luce esterna non arrivava, quasi che dovesse rimanere nascosta. Dazai aveva vagato per l’intera clinica per giorni, ma doveva ammettere che quella porta si era confusa con la parete scura a ogni suo passaggio. Quando Mori l’aprì, i cardini emisero un rumore sinistro, più di un semplice cigolio: il ragazzino non si sarebbe sorpreso di vedere il pannello di legno cadere a terra. Miracolosamente, non accadde. L’interno era un tripudio di polvere e la lampadina che pendeva dal soffitto era più patetica di quella della cucina, ma Mori non si perse il modo in cui l’unico occhio di Dazai divenne grande nel vedere tutti quei libri. Sorrise soddisfatto. “Che cosa ne pensi?” Domandò.

Dazai lo guardò storto. “Che non hai alcun rispetto per l’arte scritta.”

Mori rise. Non poteva dargli del tutto torto. C’erano tre scaffali a mo di biblioteca a riempire il centro della stanza. Uno scossone di troppo e sarebbero venuti giù come se fossero fatti di cartapesta. Altri volumi erano impilati contro la parete, in torri di diverse altezze. “In quante lingue sai leggere, oltre il giapponese?”

“So leggere russo,” rispose Dazai distrattamente, facendo un paio di passi all’interno della stanza.

Mori divenne serio di colpo. “Il russo?”

“Sì,” confermò il quattordicenne, passando la punta delle dita sul dorso di alcuni volumi. 

“Non è una lingua così comune.”

“In Russia è comune.”

“Sì, intendevo che-“

“Cos’è quello?” Dazai indicò una scatola in metallo rosso sulla cima dello scaffale di mezzo. 

La luce non vi arrivava così bene e Mori si chiese come fosse riuscito a notarla con un occhio solo. “Niente d’importante,” rispose, sbrigativo.

Dazai lo guardò. “È un qualcosa che nascondi, deve essere importante.”

Mori stirò le labbra in un sorriso forzato. “Conosci il tedesco?”

“No.”

“Allora non ti deve interessare. Che altre lingue conosci?”

Dazai scrollò le spalle. “Inglese, credo. Niente di speciale: tutti sanno leggere l’inglese.”

Mori fece una smorfia, appoggiando la schiena all’architrave della porta. “Fosse così facile abbattere le barriere linguistiche…”

Dazai prese a vagare per la stanza. “In Germania, che lingua parlavi?”

“La persona con cui sono partito parlava giapponese,” raccontò Mori. “Mi ha insegnato le basi qui, a Yokohama. Ho imparato davvero solo in Europa.”

“Conosci anche il francese?” Domandò Dazai, chinandosi per leggere i titoli di alcuni libri posti alla base di una torre di volumi più alta delle altre. “Qui ci sono titoli francesi.”

“Ho viaggiato in Francia, ma non vi ho mai vissuto davvero,” rispose Mori. “Quindi non posso dire di aver davvero fatto mia quella lingua.” Lanciò un’occhiata al ragazzino, che ora girava intorno agli scaffali in una specie di girotondo labirintico. “Vorresti imparare?”

Dazai si fermò per guardarlo. “Che cosa?”

“Il tedesco e il francese,” chiarì Mori. Con un cenno del capo, indicò la cassetta rossa in metallo. “Se diventi abbastanza bravo, ti faccio leggere il libro che è chiuso lì dentro.”

A dispetto dalla noia perenne con cui guardava il mondo, Mori aveva notato in Dazai una certa propensione alla curiosità. La sua rassegnazione nei confronti della vita si alternava a improvvise ricerche di stimoli nuovi. Per questo era sempre stato attento nei momenti di maggior tensione della sua ascesa come Boss. L’adrenalina, il pericolo, muovere un passo dopo l’altro con il rischio di una morte violenta che camminava al loro fianco. Dazai era un suicida, sì, ma con riserva.

Forse la sua giovane età lo obbligava a darsi un’ulteriore possibilità, come una sorta d’istinto di sopravvivenza innato. Se Mori avesse tenuto Dazai occupato in un gioco che lo interessava, lo avrebbe tenuto lontano dai tentativi di suicidio.

“Quanto ci vuole a imparare una lingua?” Domandò Dazai.

L’angolo destro della bocca di Mori si sollevò: era riuscito a stuzzicarlo. “Tutto dipende da te,” rispose.




 

E così cominciò il loro gioco.

Improvvisamente, Mori e Dazai parlavano.

Non lo facevano direttamente, ma attraverso i libri, le lingue, le storie che il nuovo Boss della Port Mafia aveva da raccontare sull’Europa. 

Il vero colpo di scena era che Dazai ascoltava. Impiegò un tempo veramente misero a imparare a leggere tedesco e francese. 

“Correggi la pronuncia,” diceva Mori, mentre cercava di cucinare una cena che fosse commestibile per tutti e due.

Puntualmente, Dazai sbuffava. “È inutile che continui a fissarti con questa pronuncia. Non è che qui ci sia qualcuno con cui parlare francese o tedesco. Nel momento in cui riesco a leggere entrambe le lingue, perché perdere tempo?”

Mori avrebbe voluto prenderlo a schiaffi: quello era il tipo di logica che avrebbe usato lui stesso per obiettare e rendersi il lavoro più semplice.

“Correggi la pronuncia,” ripeté, come un professore intransigente. Teneva gli occhi fissi su una ricetta che Google aveva classificato come semplice, ma a lui sembrava scritta in una lingua morta.

“Se io correggo la pronuncia, tu impari a cucinare,” disse Dazai.

Mori fissò la macchinetta del caffè - rotta da un pezzo - chiedendosi quanto gli sarebbe costato staccarla dalla corrente e lanciargliela addosso. “Non sono ammessi ricatti.” Per il Boss la discussione era finita lì. Ci mancava solo che un ragazzino di quattordici anni riuscisse ad abbassarlo al suo livello.

“Non è un ricatto.” Dazai non parlava, lagnava e questo lo rendeva insopportabile d’ascoltare il più delle volte. “Vuoi che rimanga vivo, ma di questo passo ci ammazzerai tutti e due.”

Mori pensò che i coltelli nel ceppo accanto alla macchinetta del caffè fossero di gran lunga più adatti alla situazione, ma contò fino a dieci e si costrinse a voltare lo sguardo. “Riprendi da dove ti sei interrotto,” disse, con un sorriso sinistro.

Dazai alzò gli occhi al cielo e tornò a leggere. “I nostri cuori saranno due gran fiaccole,[1]” lesse in francese. “Nello sprazzo a gara degli ultimi ardori: come rifletteranno i loro doppi splendori, negli specchi gemelli delle nostre anime!” Fece una pausa. “Ero convinto stessero morendo.”

“Stanno morendo,” confermò Mori, aprendo l’applicazione per ordinare la cena d’asporto senza farsi vedere.

Nello sprazzo a gara degli ultimi ardori, sembra un’altra cosa,” obiettò Dazai.

"Perché la morte non è descritta come una vera fine,” spiegò Mori, completando l’ordine e abbandonando il cellulare sul ripiano. “Certo, ci saranno pianti, ci sarà disperazione. Tuttavia, c’è una luce dopo il trapasso, una speranza… Se arrivi alla fine, parlerà di un Angelo che infonde nuova luce nelle anime dei due amanti.”

Dazai finì di leggere velocemente, poi derise la poesia e chiunque l’avesse scritta. “Che assurdità…”

Mori scrollò le spalle. “Punti di vista.”

“La morte è morte,” disse Dazai, tetro. “Dopo di essa vi è solo il nulla per chi se ne va. Per chi resta c’è il grande spettacolo della decomposizione, putrefazione, dei vermi che divorano la carne-“

Mein Gott!” Esclamò Mori, in tedesco perché fosse più incisivo. La sua esperienza in Europa gli aveva insegnato che non esisteva altra lingua al mondo che avesse un simile potere. In Germania anche la parola più dolce e poetica riusciva a trasformarsi in un suono minaccioso. Il fatto che metà della sua carriera militare fosse avvenuta sotto bandiera tedesca non lo aiutava.

“Che c’è?” Dazai era di malumore. Tutto ciò che sfiorava lo speranzoso aveva un brutto effetto su di lui. “Sei un medico, hai combattuto nella Grande Guerra. Le parole decomposizione e putrefazione non dovrebbero darti tanto fastidio.”

Mori annullò la distanza tra di loro e appoggiò la schiena al tavolo. “Hai mai visto un cadavere decomporsi?” Domandò, serio.

Dazai scosse la testa.

“E la carne putrefarsi?”

Un altro no silenzioso.

“Forse dovrei fartelo vedere. Ti passerebbe la voglia di divenire un cadavere.”

Dazai chiuse il libro di botto e lo gettò sul tavolo. “Vado in bagno,” disse, alzandosi.

Dal modo in cui sbatté la porta, Mori capì che lo aveva fatto arrabbiare. Non che fosse qualcosa per cui allarmarsi: aveva quattordici anni, avercela con tutto e tutti era praticamente fisiologico.

“Ti preferisco così, rispetto a quando fissi il vuoto con sguardo spento,” disse alla stanza vuota.

Mezz’ora dopo, quando suonarono alla porta per consegnare la cena, Dazai colse l’occasione per dargli più o meno esplicitamente dell’incapace per essere arrivato alla veneranda età - gli stava dando del vecchio? - di trentadue anni senza essere un adulto funzionale.

Mori rimpianse i giorni in cui era solito starsene zitto.




 

Da quando Dazai era entrato nella sua vita, Mori aveva fatto del divano di seconda mano nel suo studio il suo nuovo letto. Ogni sera, si coricava, fissava il soffitto bianco - l’umidità era tornata a ingiallirlo in alcuni punti, serviva un’imbiancata - e si pentiva di una simile scelta. Aveva trentadue anni e - a dispetto di quello che il moccioso continuava a ripetergli - era giovane, ma erano passati i tempi in cui dormire per mesi su una branda da campo non disturbava le sue attività quotidiane. Ora, Mori sentiva la schiena dargli noia per tutta la notte, per non parlare del collo. Questo gli impediva di riposare in modo adeguato - anche se non aveva più avuto sonni tranquilli dai suoi diciotto anni - e la vita frenetica che lo attendeva al mattino non si sposava bene con questa scarsa igiene del sonno. 

“Adesso vado di sopra e lo butto giù dal letto,” meditò ad alta voce, con rancore. 

Seduta sul bracciolo dietro la sua testa, Elise sbuffò. “Non riesci nemmeno a convivere con le conseguenze di una tua decisione, Rintarou.”

Già, era uno dei suoi peggiori difetti.

“Hai fatto dormire Kouyou in un letto con le lenzuola di carta per settimane e non si è mai lamentata,” aggiunse la bambina.

Mori reclinò la testa per guardarla. “Le avevo tolte le lenzuola di carta.”

“Sì, ma vogliamo parlare della qualità di quei materassi? Se i tuoi pazienti non muoiono sotto i ferri, quelli gli danno il colpo di grazia.”

Mori aggrottò la fronte: era la sua coscienza a muovere Elise e capitava che quella bambina riflettesse cose di cui lui stesso non era consapevole. Come il giorno in cui, su domanda di Fukuzawa, la piccina lo aveva descritto come l’ultimo dei maniaci. 

L’inconscio era un’area infida, oscura, su cui nessun uomo poteva vantare un pieno controllo. Mori non era un dio - anche se molti lo definivano Demone e maledetto - e non poteva evitare che, alle volte, quell’area remota della sua mente straripasse, arrivando a toccare le corde che muovevano Elise. 

Da quando era diventato Boss della Port Mafia - o forse da quando Dazai era entrato nella sua vita - la sua coscienza aveva fatto spesso simili scivoloni. Di conseguenza, Elise assomigliava a Yosano più di quanto a lui facesse piacere. 

“Ti piace Dazai, Elise?” Domandò, guardando sotto sopra la bambina appollaiata sul bracciolo.

“Ti tiene testa,” disse lei, arricciando una ciocca di capelli dorati intorno all’indice. “Non può non piacermi.”

Mori tornò a rilassarsi contro il cuscino - il collo lo stava uccidendo. “Tu a lui non piaci.”

“Non è vero!” Esclamò Elise, offesa. “Non sono io che non gli piaccio. Sei tu che gli stai antipatico.”

Mori rifletté su quell’asserzione: era un dubbio che aveva, ma non ne era del tutto convinto. Kouyou aveva avuto più successo di lui, lo aveva capito dal modo casuale in cui Dazai si lasciava toccare da lei. 

“Kouyou è una donna,” disse Elise.

Mori si sollevò sul gomito per poterla guardare senza rimetterci il collo. “E questo cosa cambia?”

Elise gli rivolse un’occhiata eloquente - maledizione, era troppo simile a Yosano. “Gli hai tagliato i vestiti, hai visto cosa nasconde sotto le fasciature. Lo hai violato.”

Ah, era quello il vero problema? Non che lo aveva trascinato in un complotto di dimensioni epocali - con tanto di omicidio - per prendere tra le mani le redini della Port Mafia?

“Gli ho salvato la vita,” ribatté Mori. “Sono un medico, è quello che faccio.”

Elise sbuffò. “Una vita che lui non voleva più,” ribatté. “E, no, salvare vite non è quello che fai.”




 

Dazai non dormiva.

La maggior parte delle ore che se ne stava disteso a letto le impiegava a guardare la città fuori dalla finestra - ancora priva di tende - della camera che Mori gli aveva dato. Difficilmente riusciva a vedere le stelle. I cinque grattacieli della Port Mafia, invece, erano sempre lì, a portata d’occhio. Spesso si chiedeva come un’organizzazione mafiosa di quelle dimensioni potesse continuare a fare i suoi comodi pur essendo sotto gli occhi di tutti. Avrebbe dovuto chiederlo a Mori. O forse no. 

Parlare o non parlare con il nuovo Boss della Port Mafia era un qualcosa su cui s’interrogava spesso. Gli stava insegnando le lingue e le lezioni erano divenute il loro mezzo di comunicazione, ma Dazai imparava in fretta e non sarebbe durato ancora a lungo. 

La sua incapacità nel prevedere le mosse dell’uomo lo turbava. Quando indossava gli abiti del Boss, con tanto di completi su misura, capelli perfettamente pettinati e viso sbarbato, e si sedeva dietro la scrivania che dominava su tutta Yokohama, Dazai non poteva fare a meno di guardarlo. Era un re dell’era moderna, che non aveva nemmeno bisogno di sfoggiare una corona. Era un genio nel modo in cui muoveva le persone, prevedendo a lunga scadenza le loro azioni e reazioni. La Port Mafia era un’enorme scacchiera e Mori era un ottimo giocatore.

Aveva fatto sua una partita cominciata da altri e mandata avanti in modo disastroso, eppure non stava perdendo. C’erano mille e più modi in cui Mori sarebbe potuto capitolare, ma Dazai era certo che non lo avrebbe fatto. 

Osservarlo, studiare le sue mosse e vedere come queste si ripercuotevano sulla realtà era uno spettacolo da cui Dazai non riusciva ad allontanare lo sguardo. Inoltre, c’era quel qualcosa, quel prurito che il ragazzino non riusciva a grattare via: la voglia di far parte della partita, di giocare al fianco di Mori, senza limitarsi a essere un osservatore. 

Sì, quello era un uomo con cui Dazai avrebbe voluto parlare e che forse sarebbe anche riuscito ad ascoltare per ore, senza annoiarsi. 

Ma quando il re lasciava il suo trono, scendeva dalla torre e rimanevano solo loro due, Mori diveniva un idiota si trentadue anni, con due pantofole a forma di coniglietto ai piedi e la totale assenza di capacità che lo avrebbero reso un adulto funzionale - compresa quella di prepararsi la cena. Quando accadeva, Dazai ne era sia confuso che deluso e tutto il fascino che quell’uomo esercitava su di lui spariva in una nuvola di fumo, insieme alla sua voglia d’interagirci e saperne di più. 

Perché il Sensei lo aveva lasciato con un individuo simile? Tutte le sue scelte presupponevano un determinato scopo ma, per una volta, Dazai non riusciva proprio a vederne il senso. Mori lo aveva reso la sua piccola e silenziosa ombra nella sua scalata verso il potere, e con questo? Sì, l’oscurità della Port Mafia affascinava Dazai come mai gli era capitato, ma questo non significava niente. Dava alla vita lo stesso valore che lo aveva condotto mezzo morto tra le mani di Mori.

Se il Sensei credeva che il nuovo Boss della Port Mafia potesse fare qualcosa per il suo disinteresse verso la vita, aveva fatto un grosso buco nell’acqua.

Il flusso dei suoi pensieri venne interrotto dalla porta della camera che si apriva.

Sotto le coperte, Dazai si fece rigido.

Riconobbe l’intruso dal ritmo dei suoi passi. Si fermò vicino al suo letto e lì rimase per un po’. Quando Mori si sedette sul bordo del materasso, accanto a lui, Dazai lasciò andare un sospiro simile a un gemito. Aveva trattenuto il fiato per tutto il tempo.

“Sei sveglio.” Quella di Mori non era una domanda.

Lentamente, Dazai si distese sulla schiena. “Non dormo molto.”

Elise non c’era, l’uomo era da solo. Da quando il quattordicenne si era rifiutato d’interagire con lei, capitava sempre più spesso. 

“Ecco spiegato perché le tue occhiaie continuano a peggiorare,” disse Mori.

“Non può essere così evidente, non puoi nemmeno a guardarmi negli occhi come si deve.”

Per tutta risposta, Mori sollevò la mano e la portò al viso del ragazzino. Quando lo vide irrigidirsi fino allo spasmo, rimase con la mano sospesa a mezz’aria. “Non ti faccio niente,” lo rassicurò, poi infilò le dita sotto le bende che gli ricoprivano l’occhio destro. Non era la procedura corretta: Mori avrebbe dovuto indossare dei guanti sterili e il tutto sarebbe dovuto avvenire sotto una luce decente. Dazai però non fece storie, si limitò a stringere le palpebre quando la pupilla nascosta fu esposta alla luce della luna.

Mori allungò l’altro braccio per accendere l’abat-jour sul comodino e il ragazzino voltò il viso nella direzione opposta. I punti che gli aveva applicato sopra il sopracciglio si era riassorbiti alla perfezione: restava un graffio rosso in rilievo, ma tempo qualche settimana e a stento si sarebbe vista la cicatrice. Sollevò la frangia di capelli scuri per valutare la ferita alla testa e la situazione era la stessa. Sorrise soddisfatto, tirando via le bende in eccesso. “Bene,” disse, più a se stesso che al giovane. “La prossima settimana, ti faccio una radiografia al braccio e proviamo a toglierti il gesso.”

Dazai non disse nulla a proposito. 

Era la prima volta che Mori lo vedeva davvero in viso. Quando Natsume glielo aveva portato, non era stato attento ai dettagli: troppo sangue in troppi posti. Lo fece allora. 

Mori e Dazai si guardarono come se fosse la prima volta. 

Alla fine, il Boss della Port Mafia abbozzò un sorriso. “Colpo di scena: hai proprio un bel faccino.”

Nonostante il complimento, Dazai s’imbronciò come se fosse stato insultato. “Dovevi vedere la tua faccia, prima della metamorfosi in Boss della Port Mafia.”

“Sono pigro,” si giustificò Mori, con aria drammatica. “Non do il meglio di me, se non è necessario. Non serve essere in tiro per operare un moribondo.”

“Non servono nemmeno le pantofole da coniglietto,” ribatté Dazai.

“Quando ti ho salvato, non avevo le pantofole da coniglietto.”

“Non mi hai salvato, mi hai rovinato i piani.”

Mori prese un respiro profondo. “Dazai, ascolta, mi dispiace averti fatto sentire vulnerabile tagliandoti i vestiti, ma non ti chiederò scusa per averti salvato la vita.”

Dazai si mise seduto contro la testiera del letto. “Io sono Dazai Osamu,” disse. “Ma non voglio cambiare il mio corpo, non mi serve.”

Mori annuì. “Lo avevo capito.”

“Ma non mi piace essere esposto.”

“Comprensibile, ma voglio che tu capisca che nessuno in quella sala operatoria voleva umiliarti.”

“Posso capirlo, ma non lo sento,” disse il ragazzino, stringendosi le ginocchia al petto. “Per me quelle cure non erano necessarie. Quindi, sì, mi sento umiliato.” 

Dazai non si stava solo aprendo: quella era una sfida aperta all’adulto che gli era davanti. Prova ad avere ragione, dicevano quegli occhi scuri. Voglio vedere come fai.

Mori però aveva qualche anno di esperienza in più da giocare e, a differenza di Dazai, sapeva come esporsi senza rendersi vulnerabile. “La prima volta che ho usato Vita Sexualis, ero poco più giovane di te: avevo quasi tredici anni.” 

Dazai sbatté le palpebre un paio di volte. “La prima volta che hai materializzato Elise?”

Mori scosse la testa. “Lei è arrivata con l’esperienza. Vita Sexualis è sempre stata con me, la sentivo nella mia testa fin da bambino. Una sorta di voce interiore, non so se mi spiego.”

“Gli psichiatri la chiamano schizofrenia.”

Mori rise. “Non è la prima volta che lo sento dire. I miei genitori erano seriamente preoccupati che qualcosa non andasse nella mia mente.” S’indicò la tempia con l’indice. “Ti ho raccontato che mia madre era la Signora della Casa dei Fiori?”

Dazai scosse la testa.

“Era molto bella, quasi regale. Mio padre era il capo famiglia, ma è da lei che ho imparato a essere uno stratega, a saper leggere le persone e prevedere i meccanismi della loro mente. Qualche volta, Kouyou me la ricorda.”

“Kouyou è più umana di te,” commentò Dazai. “Di noi,” aggiunse.

“Forse ma lascia che finisca la mia storia.” Mori portò lo sguardo altrove, rivedendo la scena come se si stesse verificando in quel momento. “Imparerai che molti membri della Port Mafia sono bambini raccolti dalla strada. Nella Casa dei Fiori, di solito, vengono educate le bambine.”

“A prostituirsi.”

“Non necessariamente. Quando avevo la tua età, la Port Mafia era diversa: alle persone veniva data una possibilità di scelta.”

Dazai inarcò il sopracciglio destro, quello ferito. “È il genere di Port Mafia che vuoi ricreare tu?”

“Dazai, lascia che finisca di raccontare,” disse Mori, fermo, tornando a guardarlo negli occhi.

Il ragazzino tenne la bocca chiusa, in attesa.

“Io ero in un’età in cui cominciavo a essere curioso,” proseguì Mori. “Sai cosa intendo, no?”

“No,” rispose Dazai, secco.

“Va bene, io ero curioso e, per farla breve, un giorno mi sono ritrovato a spiare le donne di mia madre che preparavano un gruppo di ragazze adolescenti.”

Dazai storse la bocca in una smorfia. “Maniaco…”

Bene, non bastava che Elise parlasse come Yosano, ci si metteva anche Dazai a far parte del coro.

“Se le avessi desiderate in qualche modo, sarei stato un maniaco,” convenne Mori. “Ma io non le ho desiderate. Non ho provato niente di quello che ci si aspetta da un ragazzo di tredici anni, capisci?”

“No,” un’altra risposta secca da parte di Dazai. “A tredici anni hai capito che ti piacevano gli uomini e pensi che la storia dell’evento ti aiuterà a empatizzare con me?”

Mori era a tanto così da strapparsi i capelli. “Non è quello il punto.”

“E qual è?”

“Le ho invidiate,” disse Mori. Se ci avesse girato ancora intorno, Dazai avrebbe trovato il modo di sviare di nuovo il discorso. “Le ho guardate, ho pensato che fossero perfette e le ho invidiate.”

Dazai smise di essere impertinente per fissarlo da capo a piedi. “Temo di non capire,” ammise. 

Mori piegò le labbra in un sorriso malinconico. “Mentirei, se ti dicessi che posso spiegarlo a parole. Col senno di poi, alla veneranda età di trentadue anni, penso che a quel tempo mi sentissi tanto in difetto, che ho attribuito l’etichetta di perfezione alla prima cosa in cui ho riconosciuto bellezza.”

“E la tua abilità che cosa ha a che fare con tutto questo?”

“Vita Sexualis mi ha dato quello che invidiavo,” concluse Mori. “Non del tutto, forse perché ero molto giovane… Ha cambiato il mio corpo solo a metà. Fu un bene, altrimenti i miei genitori non avrebbero mai saputo come nascondere l’accaduto, se non nascondendo me.”

Dazai sollevò la mano. “Rallenta,” disse. “Vita Sexualis può cambiare la natura del tuo corpo?”

Mori scrollò le spalle. “Tra le altre cose.”

“Quali altre cose, a parte Elise?”

Mori fece di no con la testa. “Non stiamo parlando della mia abilità, solo del fatto che cambiò il mio corpo in un’età particolarmente delicata. Un corpo che, come puoi immaginare, non riconoscevo come mio.”

Dazai scosse la testa. “Io riconosco il mio corpo come mio,” ribatté. “E non ho mai invidiato quello dei ragazzi, solo non sono una ragazza,” ci pensò un attimo. “Perché non hai annullato l’effetto?”

Mori scrollò le spalle. “Non ci riuscivo. Ho riavuto il mio corpo a diciotto anni.”

Dazai lo fissò. “E come hai fatto a conviverci per anni?” Domandò, incredulo. “Io non lo sopporterei neanche un minuto.”

“Per un po’... Per un bel po’, a dire il vero, ho finto che il problema non esistesse. Non funzionò molto bene, ma mi permise di arrivare a quindici anni.”

“E cosa ti è successo a quindici anni?”

Mori aprì la bocca, poi la richiuse: nella foga del discorso era arrivato a una parte della storia che non voleva condividere e che a Dazai non serviva sapere. Tutta colpa di quel ragazzino, che continuava a interromperlo e lo deconcentrava. 

“Quando ho compiuto quindici anni, sono successe tante cose!” Esclamò, teatrale. “Fine della storia!”

Non contento, Dazai prese a riflettere. “A quindici anni sei fuggito in Germania.”

“Fuggito è una parola grossa. Tutti sapevano dov’ero.”

“E lo hai fatto con una persona che ti ha insegnato le basi del tedesco qui, a Yokohama.”

“Dovresti smetterla di ascoltarmi solo quando ti fa comodo e memorizzare solo quello che ti pare!” Esclamò il Boss della Port Mafia, frustrato.

Gli occhi scuri di Dazai si accesero, come se un’intuizione lo avesse raggiunto di colpo. “È il segreto che nascondi in quella cassetta rossa nella biblioteca?”

A quel punto, Mori Ougai dichiarò la resa e optò per la ritirata. “Mettiti a dormire,” ordinò, come un generale a un soldato disubbidiente. “Domani ti sveglio presto e continuiamo con le le lezioni.” Uscì dalla camera a passo di marcia.

Quando arrivò a metà corridoio, la voce di Dazai lo raggiunse: “comunque spiare la gente è da maniaci, indifferentemente dal motivo!”

Mori si fermò, inspirò profondamente dal naso e decise che neanche quella notte lo avrebbe preso a schiaffi.



 

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Note.

[1] Versi de “La morte degli amanti” di Charles Baudelaire

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Capitolo 5
*** V ***


TW: scena di tentato suicidio 


 

V




A cinque mesi dalla morte del Boss Folle, Dazai sapeva leggere alla perfezione sia il francese che il tedesco. Nel processo, il ragazzino aveva smontato - verso per verso, paragrafo per paragrafo - diversi poeti e scrittori che avevano avuto l’ardire di puntare alla speranza come concetto cardine delle loro opere. 

Che Dazai non fosse un ottimista era ormai chiaro anche ai muri.

Mori si era sempre considerato un realista, ma quel quattordicenne portava il pessimismo a tutto un altro livello. Era certo che se avesse accompagnato Dazai in un campo di fiori, questi si sarebbero appassiti tutti al suo passaggio. Nel suo passato, aveva conosciuto un dotato di abilità con un potere simile, il quale non aveva potuto vantare la più allegra delle vite. Eppure, Mori era pronto a giurarlo su Elise stessa, la sua personale tragedia non lo aveva mai portato a toccare i toni scuri di Dazai.

Ovviamente, il ragazzino impiegò tempo zero a rendersi conto delle sue capacità. Decise in completa autonomia che non aveva più bisogno di alcuna lezione da parte del nuovo Boss della Port Mafia.

“Voglio la cassetta rossa.” Dazai esordì con quelle parole una mattina. Non lasciò a Mori nemmeno il tempo di sedersi accanto a lui, le mani occupate dalla loro colazione ancora impacchettata - l’incombenza di nutrirli regolarmente era ricaduta sul povero, fedele Hirotsu, che portava loro le migliori leccornie dai locali più famosi della città.

A quella richiesta - forse più un ordine - Mori rispose con un “no,” secco.

Dazai non parve particolarmente sorpreso. “I patti erano chiari.”

“Non scendo a patti con un bambino capriccioso,” ribatté Mori, spingendogli la colazione sotto al naso. “Mangia.”

Il quattordicenne non si mosse. “Potrei prenderla senza che te ne accorga.”

Un sorriso divertito comparve sulle labbra del Boss. “Mi minacci, moccioso?”

“Tu hai mentito.”

“Non troveresti nulla d’interessante in quella cassetta.”

“Allora perché nascondermela?”

“Sei tanto intelligente. Arrivaci da solo.”

“È qualcosa di personale.” Dazai non dovette nemmeno rifletterci. “Qualcosa che ti è caro, ma è quel genere di ricordo bello che fa male.”

Mori si finse impressionato. “Già, ero poco più grande di te quando è scoppiata la guerra in Europa. Intuire che io abbia vissuto qualcosa di tragico in Germania è da veri detective.”

Dazai sbuffò. “Sono lettere di un amante morto?”

“Forse.”

“Oh, è un sì.”

“No, è un forse.”

“Che vuol dire sì.”

Mori sollevò la tazza di cartone su cui era scritto il suo nome, in modo che fosse ben visibile anche al ragazzino. “Ora, io berrò questo caffè in santa pace,” disse, gelido. “Questo significa che tu non dovrai aprire bocca per tutto il tempo.”

Dazai alzò gli occhi al cielo. “Perché sennò cosa mi farai?” Domandò, mentre un sorrisetto derisorio compariva sulle sue labbra. “Voglio morire, ricordi? Anche se minacciassi di sgozzarmi non-“ 

Dazai non vide Mori estrarre la pistola, né ebbe il tempo di reagire quando si ritrovò la canna lucida a meno di mezzo metro dalla testa. L’unica cosa che il suo cervello registrò fu lo scoppio. La pallottola colpì il muro, ma Dazai ebbe l’impressione di avvertire lo spostamento d’aria provocato dal suo passaggio all’altezza dell’orecchio. Era incolume, non aveva neanche un graffio, ma non riusciva a respirare.

Nel silenzio totale che seguì, Mori rimase con la pistola puntata - la teneva con la mano sinistra - mentre sorseggiava il suo caffè nel modo più rumoroso possibile. Quando ebbe finito, lasciò la tazza di cartone sul tavolo e scoppiò a ridere.

“Tu vuoi morire?” Domandò, tra una risata e l’altra. “Guardati, sei terrorizzato.”

Dazai avrebbe voluto replicare ma non ci riuscì. Non appena dischiuse le labbra, si accorse che tremava da capo a piedi.

“Tranquillo.” Mori allungò la mano per spettinargli i capelli, poi ripose la pistola. “Non c’è nulla di male nell’aver paura della morte.”

Lo sguardo di Dazai si tramutò d’atterrito a rancoroso nel giro di un istante. Mori ne ebbe la certezza: se quegli occhi scuri avessero potuto ucciderlo, lo avrebbero fatto senza esitare.

“È tardi.” Il nuovo Boss della Port Mafia si alzò in piedi. “Andiamo in ufficio, prima che-“

Dazai lo superò con ampie falcate e corse al piano di sopra. La sua fuga si concluse con una porta che veniva sbattuta. 

Mori strinse le labbra e allargò le braccia. “Vorrà dire che andrò in ufficio da solo.” Non poteva negare che una pausa da Dazai gli serviva.

Prima di andarsene, si attardò nella stanza dei libri per recuperare il contenuto della cassetta rossa: un taccuino rilegato in pelle nera e alcuni documenti che risalivano alla guerra. Mise il primo nella tasca interna sinistra e i secondi in quella destra.

“Mangia la tua colazione, non fare il bambino capriccioso!” Disse ad alta voce, una volta arrivato nell’ingresso.

Dal piano di sopra, nessuno gli rispose.

“Adolescenti…” Borbottò Mori, richiudendosi il portone della clinica alle spalle.




 

Mori fu di cattivo umore per tutta la mattina. 

L’unico a cui fu concesso l’accesso al suo ufficio fu Hirotsu: al nuovo Boss serviva sapere come andavano le cose ai piani inferiori, se il Colonnello gli dava una buona impressione e se Kouyou si era sistemata a dovere nella nuova Casa dei Fiori.

“La signorina sarebbe un’ottima Dirigente, se mi posso permettere,” disse il veterano, una volta concluso il rapporto.

“Oh, non dirlo a me!” Esclamò Mori. “Glielo ripeto da quando ho fatto mia questa poltrona e continua a ridermi in faccia.” Non aveva guardato il leader della Black Lizard in viso per più di due secondi. Il suo cellulare lo fissava minaccioso dal centro della scrivania, dove lo aveva lasciato.

Lo schermo non si era mai illuminato.

Nemmeno un Vaffanculo in formato messaggio da parte di Dazai.

Beh, non era nello stile del ragazzino.

Quando Mori prese in mano l’apparecchio per controllare che la ricezione fosse buona, Hirotsu smise di parlare. 

“Qualcosa la turba, Boss?” Domandò il veterano.

“Sì, ho lasciato un quattordicenne da solo a casa e ho l’ansia!” Non appena si rese conto di averlo detto ad alta voce, Mori si bloccò e sollevò lo sguardo. “Hirotsu, confido che-“

“Nessuno lo verrà mai a sapere, Boss,” disse immediatamente il veterano, aggiustandosi il monocolo sull’occhio destro. “Le confido che anche io ero preoccupato per il signorino, quando non l’ho visto in sua compagnia.”

“No!” Mori sollevò l’indice con fare imperativo. “Signorino no. Dazai è tutto, meno che un signorino.” Senza pensarci troppo, compose il numero del non signorino in questione. Contro ogni sua aspettativa, rispose solo dopo tre squilli. “Dazai, hai mangiato la-?”

Tu-Tu-Tu

Mori sgranò gli occhi. “Mi ha attaccato in faccia,” mormorò, incredulo.

“È l’adolescenza,” commentò Hirotsu, con serenità. “Per mia esperienza, migliorerà verso i diciotto anni. Per quell’età sono più responsabili.”

Mori annuì distrattamente, poi gli venne il dubbio. “Stai parlando di me?”

Hirotsu scrollò le spalle. “Il suo è l’unico esempio di cui ho esperienza diretta.”

“Mi stai dicendo che io ero così?” Domandò Mori, sollevando il cellulare. “Avessi riattaccato in faccia a mio padre o a mia madre, mi sarei ritrovato senza gli arti inferiori non appena varcata la porta di casa!”

“Abbia pazienza con quel ragazzino,” disse Hirotsu. “È capitato di parlarne con la signorina Ozaki.”

Bene, ora anche Hirotsu faceva comunella con Kouyou contro di lui. Mori non poteva che esserne estasiato.

“Dazai sembra avere molto potenziale, a nostro avviso,” concluse il veterano. “Per quel che ho visto, mi ricorda molto qualcuno. In tempi come questi, non può che essere una buona cosa per la Port Mafia.”

Suo malgrado, Mori sollevò l’angolo destro della bocca in un mezzo sorriso. “Grazie del rapporto, Hirotsu.”

“Boss…” Dopo aver chinato la testa con rispetto, il veterano si congedò.

Rimasto solo, Mori sprofondò nella sua poltrona. Aspettò dieci minuti e poi provò a chiamare Dazai una seconda volta. 

Ci furono dieci squilli, poi partì la segreteria automatica.

Mori lasciò il cellulare sulla scrivania e aspettò ancora.

Terzo tentativo. Altri dieci squilli, poi la segreteria.

Allontanò l’apparecchio da sé e lo fissò con sospetto. 

Pensi davvero che vivere abbia qualche valore?

Dazai gli aveva posto quella domanda quando si era risvegliato nella sua clinica e, dopo un lungo momento di caos iniziale, Mori gli aveva chiesto il motivo per cui aveva fatto quello che aveva fatto.

“Pensi davvero che vivere abbia qualche valore?” Ripeté Mori, mettendosi a sedere più composto. Ricordava di essere passato per una fase simile, intorno ai vent’anni. Sì, c’era stato un momento per Mori in cui restare fermo ad aspettare la morte gli era sembrata davvero l’unica cosa da fare. Era allora che aveva conosciuto Natsume Soseki. Si poteva dire che gli doveva la vita, almeno quanto gliela doveva Dazai.

L’unica differenza era che a lui, a Mori, quel desiderio di autodistruzione si era tramutato in altro, qualcosa che si era nutrito della sua umanità, rendendolo il Demone che era ora. Pur avendo visto in faccia la morte, Dazai continuava a inseguirla, imperterrito.

Quel pensiero colpì il Boss come una pugnalata alla schiena.

Non si mosse per un lungo istante, poi fissò il cellulare a cui Dazai non aveva risposto. “Ho commesso un errore…” Si alzò in piedi di colpo, recuperando le chiavi dell’auto dal primo cassetto della scrivania. “Ho commesso un fottuto errore.”

Mentre si fiondava nell’ascensore e premeva il pulsante per scendere ai garage, Mori chiamò il veterano che aveva appena lasciato il suo ufficio. “Hirotsu, cerca Kouyou e portala da me, in clinica. Dille che è un’emergenza, lei capirà.”



 

Fu come precipitare in un’altra dimensione, una in cui Mori aveva sperato di non trovarsi mai più. Non vide se stesso guidare fino alla clinica. Il battito impazzito del proprio cuore lo accompagnò per tutto il tragitto in macchina, ma sarebbe potuto benissimo essere altrove: su di un campo di battaglia, con le bombe che esplodevano a pochi metri da lui, rendendo ovattato ogni suono, tranne quello del proprio respiro affannato.

Prima di uscire dalla strada principale, Mori si allentò il nodo della cravatta, come se lo soffocasse. Poco dopo, la lanciò sul sedile del passeggero.

Fermata l’auto, scese e lasciò lo sportello aperto. Si scagliò contro il portone con tanta forza che i cardini fecero un rumore spiacevole, come se stessero per cedere.

Mori era sudato, senza fiato, come se fosse arrivato fino a lì correndo a piedi, ma trovò comunque la voce per chiamare il nome del ragazzino. “Dazai!”

Nel silenzio dell’edificio, il rumore dell'acqua che scorreva arrivò alle orecchie del Boss della Port Mafia come un inno di morte. Proveniva dal bagno in fondo al corridoio, quello adiacente alla sala operatoria.

Come si avvicinò, Mori sentì l’acqua sotto i piedi e fu costretto a muoversi con cautela per non scivolare. La porta era aperta ma la luce era spenta. 

Trovare l’interruttore alla cieca fu facile. Non appena i neon si accesero, il capolavoro di Dazai si presentò in tutto il suo orrore.

C’era sangue ovunque. Sulle pareti coperte da piastrelle, sul vetro che divideva il bagno dalla sala operatoria principale, sul carrello operatorio lasciato per le emergenze. Il pavimento era un lago cremisi. L’acqua rossa usciva dal lavandino e Dazai era lì, con la guancia appoggiata al bordo di metallo, un polso reciso era abbandonato lungo il fianco e l’altro ancora sotto il getto dell’acqua.

Mori lo raggiunse con un paio di ampie falcate, rese goffe dal pavimento bagnato sotto i suoi piedi. Non appena riuscì ad afferrare Dazai, Mori scivolò, ritrovandosi con tutto il peso inerme del ragazzino addosso. 

Imprecò, mentre un dubbio terribile gli bloccava il respiro. Il medico infilò la mano sotto il mento del quattordicenne privo e lo costrinse a reclinare la testa sulla sua spalla: non vi era alcuna ferita sul collo.

Mori non si concesse neanche un respiro per sentirsi sollevato. 

“Dazai!” Chiamò a gran voce, stringendogli i polsi con tutta la forza che possedeva, in un disperato tentativo di rallentare l'emorragia - per fermarla era necessario ben altro. Il sangue di Dazai gli bagnò le mani e i vestiti. 

Da quanto tempo versava in quello stato? Quanto sangue aveva perso? Quando aveva controllato che non si fosse reciso la gola, Mori era certo di aver sentito il fantasma di una pulsazione. Era ancora vivo ma se non si fossero alzati da quel pavimento, non lo sarebbe rimasto ancora a lungo. Mori non riusciva a rimettersi in piedi, chiudere il rubinetto e sollevare Dazai, senza lasciare andare la presa sui polsi recisi.

Aveva bisogno di aiuto. Avevano bisogno di aiuto.

“Mori!” La voce di Kouyou lo raggiunse dall’ingresso. 

E Mori seppe che non sarebbe mai vissuto abbastanza per dimostrare tutta la sua gratitudine a Hirotsu. 

“Siamo qui!” Rispose. “In fondo al corridoio, stai attenta all’acqua!”

Kouyou comparve sulla porta e per poco non finì a terra anche lei - per fortuna, aveva abiti occidentali e scarpe senza tacco. Di fronte a quello spettacolo raccapricciante, sgranò gli occhi, atterrita. “Che cosa-?”

“Il rubinetto!” Ruggì Mori, con impazienza. “Chiudi il rubinetto!”

Nonostante il pavimento scivoloso, Kouyou impiegò pochi istanti a raggiungerli e a fare come le era stato detto. A Mori parve un’eternità.

Aggrappata al bordo del lavandino, Kouyou lo guardò dall’alto al basso. "Dimmi Che cosa devo fare!”

“Stringigli i polsi con tutta la forza che hai!” Mori era a tanto così da perdere completamente il suo autocontrollo. Gli servivano un ago chirurgico, del filo di sutura e delle garze sterili. Doveva concentrarsi su qualcosa che sapeva fare e doveva farlo in fretta. “Lo sollevo io! Dobbiamo portarlo di là, nella sala operatoria!”

Prima che fosse troppo tardi.




 

Una volta applicato l’ultimo punto di sutura, sia Mori che Kouyou tornarono a respirare. Il bip-bip regolare emesso dal monitor era un suono ipnotico, confortante. Lo era meno la sacca di sangue attaccata al braccio di Dazai e la maschera dell’ossigeno che gli copriva il viso.

Nessuno dei due disse nulla, mentre il medico afferrava il rotolo di garze sterili e vi fasciava entrambi i polsi del ragazzino. Una volta finito, Mori sollevò lo sguardo sulla vetrata che divideva la sala operatoria dal bagno adiacente. Qualcosa gli diceva che non sarebbe mai riuscito a ripulire tutto in modo efficiente, ma quel disastro gli offrì una buona via di fuga.

“Resta con lui,” disse a Kouyou, senza nessuna particolare intonazione nella voce. Aveva bisogno di restare solo, di prendere le distanze da Dazai e di occupare la mente con qualcosa di pratico. E, sì, il sangue era difficile da mandare via anche su superfici facilmente lavabili. Quel lavoro lo avrebbe occupato per un po’, forse fino a notte inoltrata - anche se non sapeva nemmeno che ore fossero.

Mori lasciò cadere il cappotto nero su una sedia vicino alla porta e uscì dalla sala operatoria: il corridoio era mezzo allagato e dovette procedere con cautela. Tutto quello che gli serviva era nascosto nella lavanderia adiacente alla cucina.

Da dove si trovava, Kouyou lo vide sparire in direzione dell’entrata e tornare con un secchio e uno scopettone stretti in una mano, una bottiglia di varechina e una spugna nell’altra - entrambe ricoperte con guanti di lattice.

Allungò una carezza tra i capelli bagnati di Dazai, poi si allontanò. Il battito riportato sul monitor era ancora regolare.

Kouyou si affacciò sul bagno e vide gli utensili da pulizia abbandonati in un angolo: Mori era impegnato a gettare diversi strumenti chirurgici in un contenitore apposito. Si lamentava a bassa voce.

“Che cos’hai?” Gli chiese, diretta.

Quando Mori non parlava, l’atmosfera diveniva impossibile da tollerare per chiunque gli stava intorno. Kouyou non pretendeva che fosse di buon umore, ma spezzare quel silenzio sarebbe stato utile a tutti.

“Quanti diavolo di bisturi ha usato?” Sibilò il Boss della Port Mafia, gettandone tre nel sacco per rifiuti ospedalieri. “Eppure, quel moccioso lo sa quanto costa sia in tempo che in soldi trovare del buon materiale da usare!”

Kouyou appoggiò la schiena all’architrave della porta, per tenersi salda sul pavimento scivoloso. Mori non era realmente arrabbiato per i bisturi sprecati - o forse un po’ sì - ma non era la ragione per cui parlava tra sé e sé, invece di lagnarsi con tutti come era suo solito.

“Ti sei spaventato?” 

Essere diretta era uno dei maggiori pregi che Mori riconosceva a Kouyou, ma non ne aveva bisogno in quel momento. Non rispose, si limitò a ripulire il carrello operatorio da tutti gli strumenti non più utilizzabili, poi allungò la mano verso lo scopettone.

La giovane gli afferrò il polso con gentilezza. “Lasciati aiutare.”

Mori glielo concesse.

Ci vollero diverse ore per arrivare a un buon risultato e quando dichiararono l’impresa finita, il sole era calato da un pezzo dietro le montagne di Yokohama.

“Dazai hai i vestiti sporchi di sangue,” disse Kouyou, lavandosi le mani nello stesso lavandino su cui il ragazzino aveva tentato di dissanguarsi. “E sono bagnati. Non può dormire così o si prenderà un-“

Mori appoggiò un paio di forbici sul primo ripiano del carrello operatorio, senza alcuna gentilezza. “Almeno queste si sono salvate,” disse, dando le spalle alla giovane donna. “Vado a prendere dei vestiti in camera e te li lascio in corridoio. Quando hai finito di cambiarlo, lo spostiamo in uno dei letti. Non ci tengo a mettergli di nuovo le mani addosso per farmi dare del maniaco.”




 

Una volta pulito e cambiato, Dazai fu trasferito nella camerata dei degenti. Kouyou gli rimboccò le coperte, stando attenta a non toccare l’ago che collegava la sacca di sangue al braccio. Era certa che non si sarebbe svegliato ancora per un po’, ma era tornato un po’ di colore su quelle guance pallide. Accese la lampada sul comodino e lo lasciò riposare.

Trovò Mori seduto sulle scale, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e il mento alle dita intrecciate. Fissava un punto nel vuoto di fronte a sé. Aveva ancora i capelli legati, ma le ciocche più lunghe si erano liberate, incorniciandogli il viso. I polsini della camicia erano completamente rossi, e le gocce di sangue erano scivolate fino al gomito. Era da buttare. 

Kouyou non aveva bisogno di chiedere il permesso, si sedette sullo stesso gradino del Boss, lasciando tra loro mezzo metro di distanza. Non fissò il suo profilo: lo avrebbe messo sotto una pressione ulteriore e non era il caso. 

“Devi lavarti quel sangue di dosso,” disse, schietta. “Devi rimetterti in piedi. Domani la Port Mafia sarà ancora dove l’hai lasciata.”

Mori lasciò andare un sospiro stanco. “Sono già in piedi.”

“Bene,” commentò lei. “Che cosa è successo?”

“Era chiaro, vero?” Domandò Mori di rimando, come se non l’avesse udita affatto.

Kouyou inarcò le sopracciglia. “Di cosa stai parlando?”

“Del sangue,” rispose il Boss della Port Mafia. “Nell’immaginario delle persone è di color rosso vivo,” gli sfuggì un sorriso. “Nella vita di tutti i giorni, le persone non ne versano più di qualche goccia e in modo completamente casuale o, in taluni casi, fisiologico. In realtà, quando è in grande quantità, il colore si avvicina di più al nero. Suonerà assurdo, ma il colore scuro fa meno paura. Dazai ha versato una grande quantità di acqua, per questo il sangue sul pavimento era così rosso.” Mori inspirò aria attraverso il naso. “Peserà quarantacinque chili, se va bene… No, è sottopeso, forse meno. Non gli serve perdere una gran quantità di sangue per collassare e-“

Kouyou gli schioccò le dita davanti agli occhi e il medico sobbalzò. Un istante dopo, gli occhi scuri erano su di lei e la guardarono come se la vedessero per la prima volta.

“Ti eri perso nella tua testa,” disse lei. “Che cosa è successo?” Domandò di nuovo. “Perché lo hai lasciato a casa da solo? Sapevi che non era sicuro.”

“Abbiamo litigato,” raccontò Mori. “O meglio, lui mi ha irritato, io gli ho dato una lezione e lui si è arrabbiato.”

“Che genere di lezione?”

“Gli ho sparato.”

Il modo in cui Kouyou lo guardò bastò a esprimere il suo pensiero. “Che vuol dire che gli hai sparato?” Si alzò in piedi, portandosi di fronte a lui.

Mori allargò le braccia. “Pensi che sia facile conviverci?” Domandò. “Io so cos’è la morte. L’ho toccata e, te lo confesso, c’è stato un momento in cui l’ho anche desiderata, ma lui non fa che parlare di questo.”

Kouyou dischiuse le labbra, ma non seppe che cosa replicare.

“Sì, ho insistito io perché parlasse. Lo rendo partecipe dei miei piani per la Port Mafia perché voglio che impari. Lo distraggo con lezioni sulle lingue straniere che conosco perché, in realtà, è curioso!” Esclamò. “Gli piacciono i libri, gli piacciono i segreti… Prova interesse! Lui dice di voler morire ma, in realtà, ci prova ancora! Cerca qualcosa che non riesce a trovare, penso si sia convinto che non la troverà mai!”

“Perché gli hai sparato?” Kouyou alzò la voce.

Mori lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. “Volevo provargli qualcosa,” rispose. “E ci sono riuscito: tremava come un pulcino. L’ho spaventato ed era quello che volevo: l’ho messo davanti al fatto che è umano e ha paura della morte.” Una pausa. “Si è tagliano le vene per dimostrarmi il contrario.”

“Era una sfida?” Kouyou non riusciva a credere alle sue orecchie. “Hai sfidato un ragazzino con tendenze suicide a farsi del male per contraddirti?”

Mori alzò gli occhi al cielo. “Non è stata la migliore delle mie azioni.”

“Prima di pensare alle tue azioni, chiediti se vuoi che Dazai resti vivo,” replicò Kouyou, scendendo gli ultimi gradini che la separavano dall’ingresso. “Perché la tua terapia d’urto non è stata molto utile!” Aggiunse, astiosa, mentre tornava dal ragazzino nella camerata dei degenti.




 

Al sorgere del sole, Dazai mostrò i primi segni di coscienza. Accanto a lui, quando riuscì ad aprire gli occhi scuri, trovò l’ultimo figlio maledetto della Port Mafia ad accoglierlo.

“Ben tornato,” disse Mori, con un sorriso gentile che faceva a pugni con l’oscurità riflessa nelle sue iridi. Indossava la giacca da Boss della Port Mafia, ma la camicia costosa era stata sostituita con una maglietta nera a caso. 

Restarono a guardarsi per quella che parve un’eternità, poi le labbra screpolate di Dazai si dischiusero,

“Non pronunciare una parola,” disse Mori, recuperando un bicchiere d’acqua dal comodino accanto al letto. “Prova a dire qualcosa e giuro che rovino questo tuo bel faccino a suon di schiaffi.”

Nonostante le parole minacciose, quelle mani aiutarono Dazai a sollevare la testa e a ingoiare un paio di sorsi d’acqua. Nessun ringraziamento, non che l’altro se lo aspettasse.

Mori se ne stava appollaiato su uno sgabello regolabile, che cigolava a ogni suo minimo movimento. Continuava a sorridere ma aveva la morte negli occhi.

Ti sei spaventato? Aveva chiesto Kouyou. Non aveva avuto voce per risponderle che il lusso di provare paura lo aveva lasciato in Germania, con le spoglie di Rintarou. 

“Devi essere maledettamente orgoglioso per arrivare a questo punto, pur di non darmi ragione,” commentò Mori, “di per sé è una caratteristica che apprezzo, ma tu porti tutto a livello estremo. Non mi piacciono gli estremismi.”

“Fino a che non sei tu a compierli.”

Il dorso della mano di Mori si abbatté sul giovane viso con tanta velocità che il medico stesso se ne sorprese. Si pentì del suo gesto ancor prima che Dazai avesse il tempo di lamentarsi del dolore. “Scusa,” disse, comprendo la guancia lesa col palmo. “Ho agito d’impulso, non avrei dovuto.” Fu attento a non mostrare alcuna emozione, come se si stesse scusando con un suo superiore sul campo di battaglia. La carezza sul giovane viso era un dettaglio su cui non si attardò a riflettere.

“Hai la mano calda,” commentò Dazai, il viso ancora girato di lato, verso quegli schermi che indicavano il suo battito cardiaco, il livello di saturazione del suo sangue e altre cose. “Non credevo avessi le mani calde.” 

Se ce l'aveva con lui per lo schiaffo ricevuto, Mori non riuscì a comprenderlo. “Non ti chiederò cosa ti è passato per la testa,” disse il medico.

“Non ti chiederò se sei arrabbiato,” ribatté Dazai.

Suo malgrado, gli angoli della bocca di Mori si sollevarono. Allontanò la mano dal viso del ragazzo e quei due grandi occhi scuri cercarono immediatamente i suoi. “Fino a nuovo ordine, non sarai più lasciato da solo,” comunicò Mori. “Io sono in clinica, tu sei in clinica. Io devo restare in ufficio, tu resti in ufficio.”

A fatica, Dazai si mise seduto contro il cuscino. “E cosa farò tutto il giorno? Ho imparato le lingue che volevi imparassi.”

“Strategia.”

Dazai fece una smorfia disgustata. “Strategia?” Ripeté.

“E filosofia. Avrai tanto tempo da spendere e ci sono tante cose che voglio insegnarti. Dici di conoscere il russo, parli e scrivi giapponese come un madrelingua, ma che altro puoi dirmi della tua educazione?”

“Ho appena tentato il suicidio e tu ti preoccupi della mia educazione?”

“Sto pensando a come colmare l’infinita noia che ti affligge. Hai un’intelligenza fuori dalla norma, ma questo devono avertelo già detto.”

Dazai annuì per confermare.

“Chi ti ha cresciuto, Dazai?” Mori se lo era chiesto dal primo giorno, ma non aveva mai trovato il coraggio di fare una domanda tanto diretta. Un fanciullo non ancora sbocciato che respirava violenza come se fosse aria, parlava russo e non dava alla vita alcun valore: tutto preannunciava una storia dell’orrore.

“Non me lo ricordo,” Dazai rispose senza esitare, guardandolo dritto negli occhi. Non stava mentendo, non c’era nulla di meccanico nel modo in cui pronunciò quelle quattro parole. Per la prima volta, Mori notò un riflesso di tristezza in quelle iridi scure. Era la verità.

Il nuovo Boss della Port Mafia avvicinò lo sgabello al letto. “Qual è il tuo primo ricordo?”

“Non saprei dirlo,” rispose Dazai. “Ho delle immagini, ma sono frammentate. Alle volte, può capitare che un suono, un odore o qualcos’altro attragga la mia attenzione. Credo di essere cresciuto in Russia, ma non saprei dirti qualcosa di preciso neanche volendo.”

Mori si accorse che stava artigliando la stoffa dei suoi stessi pantaloni, inspirò dal naso e rilassò le dita. “La memoria funziona in un modo che la scienza non è ancora in grado di spiegare del tutto,” spiegò. “Forse non ricordi i fatti, ma sai leggere e scrivere normalmente. Alle volte, forse neanche te ne rendi conto, usi parole piuttosto forbite, questo mi porta a pensare che tu sia stato abituato a testi di un certo calibro fin da bambino.”

“Non mi piace ricordare,” disse Dazai, di colpo.

Mori inarcò un sopracciglio. “Non hai il desiderio di sapere chi sei?”

Il nulla,” rispose il fanciullo, sicuro.

Mori scosse la testa. “Tu sei Dazai Osamu.”

“Dazai Osamu è il nulla, cosa cambia?”

“Il nulla non può essere partorito, Dazai,” ribatté Mori. “E qualcuno ti ha portato in grembo, ti ha messo al mondo e-“

“Sì, in una casa di accoglienza da una donna che, con ogni probabilità, si presentava lì a partorire ogni due o tre anni… Solo i feti di cui non riusciva a liberarsi da sola, ovvio.”

Mori si passò una mano sul viso: quel genere di scene non gli erano nuove - tanto in Europa quanto lì, a Yokohama - e le trovava più disturbarti di molte altre che aveva collezionato sul campo di battaglia. “Questa è la storia che ti sei raccontato?”

Continuando a guardare di fronte a sé, Dazai inspirò aria dalla bocca. “La mia mamma non mi ha cercato, ma mi voleva bene,” persino il tono della sua voce era diverso, suonava come un bambino che non ha più nessuna speranza a cui aggrapparsi ed è sul punto di scoppiare a piangere. “La mia mamma non mi ha tenuto con sé perché non avrebbe saputo come crescermi. La mia mamma ha rinunciato a me per permettermi di avere un futuro migliore.”

Mori si sentì gelare da capo a piedi. Se Elise era inquietante per chi gli era vicino, quello come avrebbe dovuto descriverlo? La voce e l’espressione di Dazai erano quelle di un bambolotto rotto che emette ancora un rantolo sul fondo di un armadio, nella vana speranza che qualcuno si accorga di lui, lo prenda tra le braccia e lo riempia di calore.

Tutto finì con un sonoro sbuffo. “Che noia!” Esclamò Dazai. “Tutti gli orfani hanno la loro personale favola con cui cullarsi la notte. Io non perdo tempo con certe cose.”

“No,” confermò Mori, infilando la mano nella tasca destra della giacca. “Certo che no.”

Dazai non fu interessato a quel che stava facendo, fino a che l’uomo non gli porse il taccuino rilegato in pelle nera. 

“E questo cosa dovrebbe essere?” Domandò il fanciullo.

“Volevi avere l’ultima parola e darmi torto, no?” Disse Mori. “Sebbene io abbia molto da ridire sul modo in cui lo hai fatto, non posso negare che tu sia riuscito nell’impresa. Questo è il tuo premio.”

Dazai lo prese tra le mani e Mori non poté fare a meno d’indugiare lo sguardo sulle fasciature strette intorno a quegli esili polsi. 

“Questo è il tesoro che nascondevi in quella cassetta rossa?” Domandò il fanciullo.

Mori pensò ai documenti custoditi in segreto nella tasca sinistra del suo cappotto, quelli di cui Dazai non doveva conoscere l’esistenza. “Questa è la favola con cui mi cullo la notte,” ammise. “Solo che non è quella di un orfano triste, è accaduta davvero. È accaduta a Rintarou ed è l’unica cosa di lui che conservo.”

Si scambiarono uno sguardo che conteneva un sacco di sfumature impossibili da tramutare in parole, poi Dazai aprì il taccuino e cominciò a leggere.

Alla luce calda dell’abat-jour sul comodino, Mori Ougai, nato Rintarou, rimase a guardare mentre Dazai Osamu leggeva la più intima delle sue confessioni, sebbene non avesse scritto neanche una parola di quelle contenute in quelle pagine.

Quando ebbe finito, il fanciullo richiuse il piccolo quaderno e lo appoggiò con cura sulle sue ginocchia.

“Non il tuo genere, vero?” Intuì Mori, con un sorrisetto. “Troppo amore, troppo destino, troppo struggimento.”

“Mi è piaciuto, invece,” disse Dazai, con una timida nota di sorpresa nella voce.

Mori non riuscì a parlare per almeno mezzo minuto. “Quelle parole non sono un inno alla morte,” disse, nel dubbio che al ragazzino fosse sfuggito il significato. “Parlano di amore e di vita, speranza!”

“Ma sono vere,” ribatté Dazai, guardandolo. “Non sono per un pubblico. Sono per qualcuno.” Restituì l’oggetto al legittimo proprietario. “Sono per te, non è vero?”

Gli occhi scuri di Mori vennero ricoperti da un velo di dolce amarezza. “Sì, sono per me.”

Dazai non riusciva davvero a capire. “Perché consegnarmi un oggetto di un valore simile?” Domandò. “Tutto solo per mantenere la parola data?”

Mori ripose il taccuino nella tasca interna della giacca. Avrebbe pensato dopo a rimetterlo al suo posto. “Mi hai chiesto perché, tra tutti, Natsume Soseki ha deciso di affidarti proprio a me. Io stesso gli ho posto la stessa domanda e non ho ricevuto alcuna risposta. Tuttavia, me ne sono data una da solo.” Una pausa a effetto. “Siamo legati allo stesso destino, io e te.”


 

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Capitolo 6
*** VI ***


VI

 

La lettera che cambiò tutto arrivò una settimana dopo il tentato suicidio di Dazai.

Con la promozione a Dirigente del Colonnello e gli agganci con la milizia che aveva portato con sé, Mori aveva potuto tirare il primo vero sospiro di sollievo da quando era salito in carica. Disgraziatamente, il Governo era stato derubato di un gran quantitativo di armi appena la settimana prima, compreso qualche mezzo blindato coinvolto nel blitz mandato avanti dai mafiosi. Lo stesso giorno, altri due colpi simili erano avvenuti in due luoghi della città distanti gli uni dagli altri, disperdendo le risorse umane della Polizia Militare al punto da rendere completamente inutile il loro intervento. 

La Port Mafia non era più disarmata, ma le sue casse erano ancora povere.

“C’è poco da piangere povertà, quando riesci a pagarci tutti e fare un bilancio,” commentò Kouyou, afferrando per la prima volta la sua tazza di tè. 

Hirotsu lo aveva appena fatto fare appositamente per loro. Mori avrebbe preferito un termos di caffè - se possibile, corretto abbondantemente - ma le carte sotto i suoi occhi gli chiudevano lo stomaco. “Non basta portare i conti a parità in organizzazioni come questa, mia cara,” spiegò, senza guardarla. “Siamo la Port Mafia. Il nostro guadagno deve essere cento volte le nostre uscite.”

“Allora rapina le banche.” Kouyou non era davvero seria.

“Ho cominciato con le rapine a mano armata,” ricordò Hirotsu, in piedi accanto alla scrivania, con un sorriso nostalgico sul volto. “Nemmeno riuscivo a farmi crescere i baffi al tempo.”

“Ma pensa un po’...” Mori sollevò lo sguardo per controllare che il ragazzino entrato nell’ufficio con lui fosse ancora lì, sul divano, dove lo aveva lasciato. Di Dazai riusciva a vedere solo il profilo - corrugato in un’espressione annoiata, ovviamente - aveva un cuscino sotto la testa, le mani strette sul libro sospeso sopra il suo viso.

Kouyou diede una veloce sbirciata alla scena alle sue spalle. “Che gli stai facendo leggere?”

“Perché deve essere così scontato che sia io a imporgli qualcosa?” Domandò il Boss.

La giovane gli lanciò un’occhiataccia.

“Thomas Schelling[1],” disse Hirotsu. “Il signorino se n’è lamentato entrando nell’ufficio.”

“Per l’ennesima volta, non è un signorino,” gli ricordò Mori.

“Non lo conosco,” ammise Kouyou.

“Economista, nulla che tocchi le tue corde. Ma ha avuto molto da dire nel campo della strategia.”

“Ah, ecco cosa fai!” Kouyou gli rivolse un sorriso eloquente. “Addestri.”

Mori scrollò le spalle. “E dove sarebbe la novità? Ho sempre voluto che Dazai fosse parte integrante della Port Mafia. Non è ancora pronto per ricoprire un ruolo, ma ci sto lavorando. Piuttosto, mia cara-“

“No.”

“Non ho neanche detto qualcosa, Kouyou.”

“Non sarò una tua Dirigente.”

“Che noia!” Esclamò Dazai, saltando a sedere. “Questo sarebbe un genio? Scrive solo cose scontate!”

“Dazai!” Lo richiamò Mori. “Leggi in silenzio.”

Il quattordicenne borbottò qualcosa, poi riadagiò la testa sul cuscino e tornò ai suoi studi.

Sia Kouyou che Hirotsu ne furono impressionati, ma solo la prima ebbe l’ardire di dirlo ad alta voce. “Hai imparato a prenderlo, vedo.”

Mori lasciò andare un sospiro frustrato. “Sono solo fortunato che non gli passi per la testa qualcosa di meglio da fare o non abbia voglia di farlo. Se così non fosse, non riuscirei mai a tenerlo qui.”

“Boss, mi deve perdonare,” disse Hirotsu, di colpo, con la voce di chi ha commesso un gravissimo errore, poi estrasse una lettera dalla tasca interna della giacca. “Mi sono permesso di controllarla per assicurarmi che non fosse velenosa al tocco o contenesse esplosivo.” La fece scivolare sulla scrivania sotto gli occhi del giovane Boss. “Viene dall’Europa.”

Non appena venne nominato l’antico continente, la mano di Mori rimase sospesa a mezz’aria, incerta. Curiosa, Kouyou si sporse per dare un’occhiata alla missiva: era chiusa da un sigillo rosso di ceralacca, come si soleva fare in epoche passate. 

“Che significa RS?” Domandò. Erano le sole lettere che riusciva a leggere con chiarezza.

Royal Society” disse Mori, con aria grave, ancora indeciso se prendere tra le mani quel pezzo di carta o meno.

“Che cos’è? Sembra interessante!” Nessuno aveva udito Dazai avvicinarsi. Lo videro solo sporgersi sulla scrivania con nessuna grazia - Kouyou per poco non sì rovesciò il tè addosso - e prendere la lettera come se non fosse altro che carta straccia. “In che secolo l’hanno scritta?” Domandò, sarcastico.

Mori tese il braccio verso il ragazzino. “Dammela…”

“E chi sarebbe questo Lord-“

“Dammela, ho detto!” Il Boss si alzò in piedi. Non urlò, ma il suo tono imperativo non lasciava spazio a un no come risposta. Quello però era Dazai e Dazai era impossibile da prevedere.

Il quattordicenne sporse le labbra, come un bambino capriccioso e fece come gli era stato ordinato. Strascicò i piedi fino al divano e tornò a stendersi ma non riprese a leggere. Mori se ne accorse: aveva finito con la teoria, ora sarebbe stato attento a tutto quello che diceva e, una volta tornato a casa, lo avrebbe sommerso di domande.

“Mori…” Kouyou allungò la mano per toccargli il braccio in un gesto di affetto.

Il Boss della Port Mafia era turbato e si vedeva.

“È qualcuno che avrebbe preferito cancellare, Boss?” Domandò Hirotsu, adducendo alla lettera.

Giusto, pensò Mori, era stato il veterano a dargliela.

“Come l’hai avuta?” Domandò, calmo. Il leader della Black Lezard non poteva essere accusato di nulla. 

“Mi ha avvicinato un uomo più o meno della sua età,” raccontò l’uomo col monocolo. “Stavo prendendo un drink al P.Pub del porto, come la maggior parte delle sere. Mi ha avvicinato al bancone e mi ha parlato, come se mi conoscesse.”

Mori ingoiò a vuoto.

“L’ho minacciato… Con discrezione, s’intende. Alla fine, mi ha consegnato questa lettera. Per Rintarou, ha detto.”

La temperatura nella stanza calò improvvisamente. Kouyou non allontanò la mano dal braccio di Mori, ma non fu in grado di dire niente.

“Potresti descrivermelo?” Domandò il Boss.

“Aveva un cappotto color cammello. Pioveva quella notte e aveva tutti i capelli appiccicati sul viso, difficile dire se fossero chiari o scuri.”

“Uno, nessuno, centomila….” Mormorò Mori, sarcastico. Aveva letto un libro di un autore italiano con quel titolo.

Non rimase a rifletterci oltre: prese la lettera e la infilò nella tasca interna del cappotto, dove ancora nascondeva i documenti sottratti alla cassetta rossa. Avrebbe pensato a tutto più tardi.

“Continuiamo col programma della giornata.”

L’occhiata esasperata di Dazai lo raggiunse dal lato opposto della stanza.




 

Mori era seduto sul pavimento del magazzino, intento a sistemare gli scaffali più bassi, quando Dazai lanciò il suo attacco. Per una volta, il Boss lo sentì camminare lungo il corridoio, prima di vederlo comparire sulla porta con la coda dell’occhio.

“L’hai aperta?” Domandò, diretto. 

Mori gli lanciò un’occhiata veloce: si era messo degli abiti più comodi, adatti per la notte. Notò che era scalzo e fece una smorfia. “Non andare in giro in calzini, che dopo si anneriscono e non tornano più.”

“Disse l’uomo che legge ancora le istruzioni per far partire la lavatrice,” ribatté Dazai.

Mori gelò e gli lanciò un’occhiata sospetta. “Non hai mai messo piede nella lavanderia. Non credo nemmeno che tu sappia dov’è.”

“Dietro la cucina,” rispose Dazai, secco. “E, sì, ci sono stato. Tu non mi hai visto, ma io ho visto te… Con il libro delle istruzioni in mano.”

“So cucire!” Esclamò Mori, prima che il ragazzino dicesse chiaro e tondo che era incapace di fare qualsiasi cosa. “Cucire fa parte del mio lavoro. Io ricucio le persone. E sai una cosa? Vale lo stesso principio per la stoffa, è solo più rilassante.”

Dazai appoggiò la spalla all’architrave della porta. “Saper attaccare un bottone non vuol dire saper cucire.”

“Tu lo sai fare?” Lo sfidò il Boss.

Dazai strinse le labbra e non rispose.

“Bene!” Esclamò Mori, vittorioso, tornando a fare quello che stava facendo. “Ho trovato un’altra cosa da farti fare: cucire!”

“Sì, mettimi su una sedia a dondolo, con dei ferri da maglia e un gomitolo. Ne tirerò fuori un cappio!” Rispose Dazai a tono, ma l’uomo aveva smesso di dargli corda. “Quando leggerai quella lettera?”

Mori sbuffò. “Dazai, è stata una lunga giornata-“

“Sei stato seduto tutto il tempo.”

“Si può lavorare anche di testa, lo sai?”

“Bene!” Senza essere invitato, Dazai si accomodò sul pavimento a gambe incrociate, accanto a lui. Una volta accomodatosi, tirò fuori dalla tasca della felpa l’infame lettera dal sigillo rosso e l’appoggiò sul pavimento. “Lavora di testa ancora per dieci minuti e leggi questa lettera,” concluse con un sorrisetto entusiasta, come se stesse per ricevere un regalo a lungo atteso.

Mori guardò la missiva orripilato. “Hai messo le mani nelle tasche del mio cappotto?”

Dazai contrasse il viso in una smorfia annoiata. “Sapevi benissimo che lo avrei fatto!” Esclamò. “Ce l’hai lasciata a posta!”

“Era una prova di fiducia!”

“Perfetto, bocciami!” A Dazai non poteva importare di meno delle lezioni che il Boss della Port Mafia gli impartiva: non doveva rendere orgoglioso nessuno. “Anzi, non è una vera bocciatura. Avrei potuto aprire la lettera e leggerla da me, ma non l’ho fatto. Quindi, ho fallito la prova solo a metà.”

Mori prese la missiva tra le mani e la guardò con attenzione, come se la prima volta non fosse bastata.

“Lord Byron…” Mormorò Dazai. “Non è quello del taccuino delle poesie d’amore. Lui è Johann G. Le iniziali non corrispondono.”

“No, non sono decisamente la stessa persona,” confermò Mori.

Dazai studiò il suo viso. “Non ti è simpatico.”

Il Boss ricambiò lo sguardo. “Come fai a dirlo?”

“Ti si legge in faccia,” rispose il quattordicenne. “Il che è strano. Di solito, non è facile capire quello che pensi solo guardandoti.”

Mori scrollò le spalle. “Siamo solo io e te.”

Dazai aggrottò la fronte. “È un modo per dire che con me non devi fingere?”

Il Boss della Port Mafia non gli rispose. Stracciò il sigillo rosso d’impeto, perché se ci avesse pensato troppo, avrebbe strappato quella lettera in mille pezzi.

Dazai drizzò la schiena con entusiasmo. Cercò di sporgersi per leggere a sua volta, ma l’uomo gli lanciò un’occhiata che gli impose di restare al suo posto.

Passarono cinque minuti buoni, in cui gli occhi di Mori si mossero da sinistra a destra, leggendo in silenzio le parole scritte a mano. In quel breve lasso di tempo, Dazai pensò che dovesse essere una cosa molto personale: perché mai qualcuno avrebbe dovuto scrivere una missiva a mano, altrimenti?

Quando ebbe finito, Mori ripiegò la lettera alla male e peggio e la infilò nella tasca sul retro dei pantaloni. Tornò a impilare scatole contenenti materiale medico, mentre Dazai se ne restò lì, immobile, ad aspettare qualcosa che non arrivò.

“Chi sarebbe questo Lord Byron?” Domandò, per intavolare la conversazione e spezzare il silenzio.

“È un nobile inglese,” rispose Mori, come se fosse una cosa senza importanza. “La sua famiglia è da sempre legata alla Torre dell’Orologio di Londra.” Si fermò e guardò il ragazzino. “Sai di cosa si tratta?” 

Dazai scosse la testa.

“Definiamoli i servizi segreti inglesi, ma più segreti. Inoltre, è un’organizzazione quasi unicamente composta da possessori di abilità.”

Il quattordicenne memorizzò tutte quelle informazioni alla svelta. “Questo significa che Lord Byron possiede una-“

“No,” lo interruppe Mori. “Unico figlio di una famiglia di dotati a non possedere alcuna abilità. Si è circondato di persone come noi per tutta la vita. Non lo so, penso volesse portarsi il più vicino possibile a qualcosa che non poteva avere. Essendo parte della Royal Society, nessuno poteva mettere in discussione il suo ruolo all’interno del Governo inglese, fino a che la sua condotta scandalosa non ha dato alla Torre dell’Orologio un buon motivo per buttarlo fuori.”

Dazai non ebbe bisogno di conoscere il contenuto di quella lettera per sapere di cosa si trattava. “È un emarginato alla ricerca di un posto.”

Mori sistemò l’ultima scatola rimasta fuori posto e rivolse al quattordicenne un sorrisetto soddisfatto. “Visto? Non c’era bisogno di leggere la lettera.”

Questo non bastò a cancellare la delusione dal viso del ragazzino. Mori fu svelto a trovare qualcosa che potesse fargli tornare il buon umore. “Domani vuoi lavorare con me?” Propose. “Nessun libro noioso. Solo io, te e la pratica direttamente sul campo.”

Dazai non mostrò alcun entusiasmo, ma all’uomo bastò la scrollata di spalle che seguì la sua proposta. Non è quello che voglio, diceva. Ma meglio di niente.

Più passava il tempo, più Mori riusciva a intravvedere qualcosa tra le ombre che circondavano quel ragazzino. “Vai a dormire,” disse. “È tardi.”

Forse, un giorno, sarebbero riusciti a guardarsi in faccia, senza maschere.




 

Seduto al lato del passeggero, Dazai sbuffava da almeno un quarto d’ora. Erano finiti bloccati nel traffico non appena si erano immessi sulla strada principale e stavano impiegando un’eternità per arrivare a una meta che, di solito, distava a mezz’ora di viaggio in auto. 

Come se non bastasse, Mori non faceva che passare da una stazione radio all’altra per ascoltare le ultime notizie, come se ogni canale non parlasse degli stessi identici fatti ma con parole diverse.

“Te l'avevo detto che se fossimo usciti dopo le otto, sarebbe finita così,” si lamentò Dazai ad alta voce, dato che l’uomo stava deliberatamente ignorando il modo in cui si agitava sul suo posto.

“Quando prenderai la patente, avrai potere decisionale,” ribatté Mori, premendo i tasti di controllo sul volante per passare alla stazione successiva.

“Questa mattina, le strade principali di Yokohama appaiono più congestionate della norma a causa di alcuni cantieri e conseguenti deviazioni-“

“Ci serve la radio per saperlo?” Dazai indicò la distesa di auto di fronte a sé. “Guarda, stiamo vivendo le notizie in diretta!”

Mori non lo ascoltava. “E tutti questi cantieri sono spuntati nel giro di una notte?” Borbottò tra sé e sé. Troppo occupato a lamentarsi, Dazai non lo ascoltò nemmeno.

Mori prese a tamburellare le dita sul volante nervosamente. Il grattacielo principale della Port Mafia era a portata d’occhio. Se avesse potuto mollare l’auto lì, in mezzo alla strada, lui e Dazai sarebbero giunti a destinazione in una camminata di dieci minuti. Fosse dipeso dal quattordicenne, lo avrebbero fatto senza pensarci due volte. Mori era dotato di più senso civico, ma qualcosa di quella situazione continuava a disturbarlo. Non nello stesso modo di Dazai. 

I notiziari parlavano d’incidenti, altri di cantieri. Il caos si era scatenato in meno di un’ora - Mori aveva controllato il percorso più breve su Google Maps, durante la colazione, e la situazione non gli era parsa così disperata - quasi che qualcuno avesse fatto coincidere una serie d’imprevisti per bloccarli dove erano. 

Dallo specchietto retrovisore, il lampeggiare di una freccia attirò la sua attenzione. L’auto nera dietro di loro impiegò cinque minuti buoni a cambiare corsia e ce ne mise la metà per affiancarli. La gente bloccata nel traffico non tendeva a dare prova di spiccata intelligenza, ma quella manovra non aveva alcun senso: nessuno su quella strada stava andando da nessuna parte. Mori osservò l’auto nera superarli e cambiare corsia una seconda volta, per tagliare loro la strada. Guardò di nuovo nello specchietto retrovisore e trovò un veicolo identico dietro di loro, troppo vicino perché non fosse sospetto. 

I vetri oscurati impedivano al Boss della Port Mafia di vedere all’interno della vettura. Non aveva importanza: nella sua testa era già scattato un allarme rosso che urlava fuga.

“Perché non ci siamo fatti venire a prendere dal tipo col monocolo?“ Dazai continuava a parlare. “Pensi che metterti al volante di un’auto basti a renderti un adulto funzionale?”

Mori non aveva tempo di dar credito a quelle provocazioni, gli occhi scuri fissi sullo specchietto retrovisore. Due uomini in completo nero e con gli occhiali da sole scesero dall’auto. Imbracciavano delle armi.

La mano di Mori lasciò il volante e scattò a slacciare la cintura di Dazai. Il quattordicenne smise di parlare.

“Stai giù!” Ordinò il Boss della Port Mafia.

La loro auto venne crivellata di colpi. 



 

Al trentesimo piano del grattacielo principale del quartier generale, Hirotsu assistette alla scena quasi per caso. L’inconfondibile rumore di spari lo raggiunse, mentre camminava lungo il corridoio. Da quella distanza non poteva riconoscere l’auto del Boss, ma vide la folla di civili che abbandonava le proprie auto per allontanarsi dal luogo dello scontro.

Solo un ristretto gruppo di persone non si muoveva. Da quell’altezza erano come macchie scure e circondavano una singola vettura.

Fu l’istinto a spingere Hirotsu ad agire. Si portò immediatamente il cellulare all’orecchio. “Mandate una squadra armata sulla strada principale, a circa un chilometro da qui in direzione della periferia!” Ordinò, correndo verso l’ascensore.

I suoi uomini sarebbero arrivati prima di lui, ma li avrebbe raggiunti in fretta.

“Massima priorità!” Esclamò nel ricevitore. “Sospetto attentato alla vita del Boss. Ripeto: sospetto attentato alla vita del-“

Un bagliore viola oscurò il sole stesso, provocando un’onda d’urto che fece tremare la terra di mezza Yokohama. Hirotsu dovette sorreggersi alla vetrata per restare in piedi.

Una volta che gli occhi tornarono a vedere con chiarezza, Hirotsu cercò la vettura sotto attacco. Anche se l’evento aveva avuto tutto l’aspetto di un’esplosione, la strada era intatta, ma molte macchine erano volate via: alcune erano schiacciate contro il guard rail, altre avevano colpito i palazzi più vicini.  

Degli uomini che circondavano l’auto presa d’assedio non era rimasto nulla di riconoscibile. Anche da quell’altezza, Hirotsu riuscì a vedere la terribile quantità di sangue che bagnava l’asfalto. 

L’auto presa d’assalto era ancora sul posto.

Il veterano ebbe appena il tempo di vedere qualcuno salire al volante in tutta fretta, poi il veicolo partì. Approfittando dello spazio creato dall’onda d’urto di poco prima, imboccò la prima uscita disponibile e scomparve tra le vie secondarie della città.

Hirotsu lasciò andare un sospiro.

“Attacco cessato,” disse nel ricevitore del cellulare. “Procedere con cautela.”

Decise di credere che Mori stesse bene e che, una volta trovato un rifugio sicuro, lo avrebbe chiamato.




 

Quando Mori gli slacciò la cintura e gli urlò di stare giù, Dazai fece la cosa peggiore che avrebbe potuto fare: si sporse oltre lo schienale del sedile per voltarsi a guardare dietro. La prima pallottola passò a pochi millimetri dalla sua testa, colpendolo di striscio al viso.

Il dolore improvviso lo spinse a raggomitolarsi su se stesso, mentre una pioggia di proiettili si abbatteva senza pietà sull’auto. Nella confusione, Dazai scivolò nello spazio tra il sedile e il cruscotto e fu allora che cercò Mori, ma non lo trovò al posto guida. Lo sportello dalla sua parte era aperto e di lui non c’era traccia.

Lo aveva lasciato lì, in mezzo al fuoco nemico ed era fuggito per salvare la pelle.

Dazai non ne fu sorpreso, tanto meno deluso.

Lasciò andare un sospiro annoiato, poi appoggiò la guancia alla seduta rivestita di pelle e, con un mezzo sorriso sulle labbra, accettò che era finalmente arrivata la sua ora.

Di colpo, fuori dallo sportello aperto, i grattacieli e quella misera porzione di cielo visibile sparirono e Dazai dovette chiudere gli occhi a causa del bagliore di luce viola che circondò la vettura. La terra tremò violentemente, tanto che Dazai si aspettò di vederla aprirsi sotto i suoi piedi per inghiottirlo.

Non accadde.

Al caos totale seguì il più totale silenzio.

Dazai non si mosse da dove era: il battito del suo stesso cuore gli riecheggiava fastidiosamente in fondo alle orecchie.

Solo quando sentì qualcuno entrare in macchina e chiudere lo sportello dal lato dell’autista, il quattordicenne aprì gli occhi scuri.

Mori era lì, di fronte a lui, non era andato da nessuna parte. Dal suo naso colava una quantità di sangue abbastanza abbondante d’arrivargli al mento, ma non sembrava che qualcuno lo avesse colpito.

Gli lanciò un’occhiata, come per assicurarsi che fosse vivo. “Resta giù, ma tieniti forte,” ordinò.

L’auto ripartì a velocità sostenuta e Dazai rimase dov’era, senza lamentarsi.

Quando Mori imboccò l’uscita per continuare sulle strade secondarie, afferrò il cambio e il quattordicenne notò la macchia di sangue che bagnava la camicia sotto la giacca. Come ipnotizzato, Dazai la vide espandersi sulla stoffa lentamente, mentre il Boss della Port Mafia continuava a guidare, imperterrito.

Fuori dal finestrino, i grattacieli vennero sostituiti dagli edifici più bassi di un quartiere residenziale, poi dagli alberi.

Non appena Mori parcheggiò l’auto, si lasciò andare contro lo schienale del sedile e prese tre respiri profondi, gli occhi persi nel vuoto. Tornò in sé in fretta, si passò la manica del cappotto sotto il naso per ripulirsi del sangue e scese dall’auto, reggendosi il fianco ferito. 

Dazai non aspettò istruzioni: lo seguì, le gambe molli. L’auto era ricoperta di fori, il lunotto posteriore e i finestrini non esistevano più, ma gli uomini che li avevano presi d’assalto non avevano pensato a far fuori il motore, prima di pensare a loro. Se erano riusciti a fuggire, era stato solo per quella distrazione.

No, non era corretto: una luce violacea aveva oscurato ogni cosa, compreso il sole. 

Qualcuno aveva usato un’abilità, Dazai ne era certo.

Qualcuno…

Il bagagliaio che si apriva attirò l’attenzione del quattordicenne. Si avvicinò e trovò Mori piegato su se stesso, una mano appoggiata all’auto e l’altra stretta sul fianco ferito. “Dazai, la valigetta,” lo istruì.

Al ragazzino bastò dare un’occhiata nel baule per capire a cosa l’uomo si riferiva. L’afferrò per il manico e quando la sollevò, la trovò più pesante di quel che credeva. Mori non si preoccupò di chiedergli se ce la faceva: lui di sicuro non poteva essergli di alcun aiuto. “Seguimi…”

Dazai si guardò intorno ma la strada non era a portata di occhio e intorno a loro c’erano solo alberi. Non si azzardò a chiedere dove si trovavano e qual’era la loro destinazione: era certo che se avesse costretto Mori a parlare, si sarebbe trovato disperso nei boschi fuori Yokohama, con il Boss della Port Mafia privo di sensi sull’erba.

Camminarono più di mezz’ora, tanto che Dazai cominciò a soffrire un poco il peso della valigetta. Ci tiene dentro gli organi di scorta? Si domandò tra sé e sé, ma non si azzardò a dire una parola. 

Di tanto in tanto, Mori appoggiava il braccio a un albero, chinava la testa e riprendeva fiato. Proprio quando Dazai cominciò a dubitare che l’uomo sarebbe arrivato sulle sue gambe ovunque lo stesse conducendo, cominciò a intravedere un edificio tra gli alberi.

Era una villa e sembrava disabitata da tempo, ma non in rovina.

“Dazai, non ti fermare,” disse Mori, arrivando a fatica sotto il portico. “Non dobbiamo rimanere allo scoperto.”




 

L’orologio a pendolo al centro della grande sala era fermo, le lancette segnavano un’ora che nemmeno si avvicinava a quella reale ed il vetro era ricoperto da uno spesso strato di polvere. Dazai dedusse che doveva essere uno di quelli vecchio stile, che andavano caricati regolarmente. Quell’oggetto, come tutta la casa, sembrava essere spuntato fuori dalle pagine di un libro ambientato in Europa, all’inizio dello scorso secolo. 

Alla fine, Dazai decise di porre fine al suo silenzio: “che posto è questo?”

Mori si trascinò attraverso la sala, scomparendo dietro una doppia porta a vetri. Il quattordicenne lo seguì, trascinandosi dietro la pesante valigetta. La stanza adiacente era un grande salotto con dei mobili anticati - o forse erano pezzi originali provenienti dal vecchio continente, difficile dirlo con tutta quella polvere. 

Emettendo un lamento, Mori si lasciò cadere su uno dei divani. “Dazai, porta qui la valigetta.”

Il ragazzino ubbidì. Appena fu a portata di mano, l’uomo gli afferrò il mento per costringerlo a guardarlo negli occhi. “Hai altre ferite?” Domandò, affaticato.

Dazai si era completamente dimenticato del taglio sulla guancia. Scosse la testa.

“Bene, cerca qui dentro il contenitore degli aghi chirurgici e il filo di sutura.”

Dazai fece quanto indicato, ma non riuscì a trattenere la domanda che aveva in punta di lingua. “E se hai un organo perforato?”

Mori rise, poi il suono si trasformò in un lamento. “Non farti ingannare dalla quantità di sangue. È abbastanza superficiale, ma servono dei punti di sutura. Anzi, cerca il disinfettante… Non sarà divertente, ma va fatto.”

Dazai appoggiò sul divano, accanto al medico, tutti gli oggetti richiesti. A quel punto, un dubbio sorse spontaneo: “come fai a suturare una ferita così e in quel punto da solo?”

Altro sangue uscì dal naso di Mori, che usò di nuovo la manica del cappotto per tamponare l'emorragia. Quando riadagiò il braccio lungo il fianco, rivolse al quattordicenne un sorrisetto molto eloquente.

Dazai ricevette il messaggio e la sua espressione divenne un mix di terrore e disgusto.

“No…” Disse implorante, scuotendo appena la testa.

“Ti avevo detto che ti avrei insegnato a cucire,” disse Mori, serafico.




 

Non fu una cosa veloce.

Mori se ne pentì a metà dell’opera e Dazai lo maledì per tutto il processo. 

Alla fine, contro ogni aspettativa del medico, il ragazzino fece un lavoro per niente male. “Non si richiuderà a dovere,” commentò, con aria drammatica. “Mi resterà una brutta cicatrice e sarà tutta colpa tua, Dazai.”

Il ragazzino se ne stava con le mani sporche di sangue sospese in aria, come se a ricoprirle fosse sterco. 

“E non essere così rancoroso,” aggiunse il medico, finendo di stringere la fasciatura intorno all’addome. “Devi imparare.”

Dazai inarcò le sopracciglia. “Vuoi fare di me un medico, ora?”

“No, voglio renderti in grado di trattare una ferita di media gravità, che non richiede un’operazione.”

“Io tendo a farmi del male. La guarigione non è una parte che m’interessa.”

“Il tuo scopo è morire, non farti del male,” ribatté Mori. “Anche se, nei fatti, finisci sempre per ottenere quest’ultima cosa… Eppure, odi il dolore!” Era quasi ironico da dire. “Ti sei punto due volte con l’ago e hai piantato una lagna, neanche ti fossi amputato un dito.”

“Lo sai che odio il dolore, non c’è bisogno di sottolinearlo.”

“Uhm, a nessuno piace il dolore, esclusa una certa categoria di persone, io ti definirei più…” Mori fece finta di pensare. “Assurdamente lagnoso.

Dazai era definitivamente arrabbiato con lui. Non era una novità: sembrava che lo scopo di ogni sua giornata fosse trovare una scusa per esserlo. Quella mattina, era toccato al traffico. Ora, al fatto che si fosse punto per suturargli una ferita. E la giornata era ancora lunga.

“Ti sei spaventato?” Domandò Mori.

“La pianti di pormi sempre questa domanda!”

“Tu la conosci l’oscurità,” disse il Boss della Port Mafia con voce affaticata. “Tu la conosci eccome, altrimenti non avresti retto neanche la metà degli eventi degli ultimi mesi.”

Dazai inarcò le sopracciglia. “La perdita di sangue è grave e stai delirando, vero?”

“La mia domanda è,” Mori gli prese il mento tra le dita una seconda volta. “Piuttosto che guardare in faccia l’oscurità senza lasciare che questa ti spezzi, sei disposto a divenirne parte tu stesso?”

Dazai fece un passo indietro e la mano di Mori ricadde sul divano. “Sì,” concluse. “Stai delirando.”

Il medico prese un respiro profondo. “Torna verso le scale,” disse. “Troverai un corridoio nella direzione opposta a quella che abbiamo preso. Il bagno è in fondo.”

Dazai fu molto felice di alzarsi e andarsene. In attesa che tornasse, Mori cercò nella valigetta il flacone degli antidolorifici e quello degli antibiotici. Ingoiò un paio di pastiglie a bocca asciutta, poi recuperò il cappotto nero e se lo mise sulle spalle nude. Tutto il suo corpo gli urlava di chiudere gli occhi e perdere i sensi, ma lasciare da solo Dazai non era un’opzione da considerare.

Il quattordicenne ci mise un’eternità a tornare. 

“Dov’eri finito?” Domandò Mori.

“Mi sono perso,” si lagnò Dazai, lasciandosi cadere sullo stesso divano del Boss. 

A dividerli vi era solo la valigetta aperta.

Per un po’ non si dissero niente. Anzi, Mori si accorse che anche il più giovane faceva fatica a tenere gli occhi aperti. L’adrenalina stava calando ad entrambi, lasciando i loro corpi stanchi e intorpiditi. Ai tempi della guerra, Mori si era ritrovato spesso a vivere parentesi di calma apparente come quella, subito dopo un episodio di puro caos.

“Sei stato tu?” Domandò Dazai, di colpo.

Mori lo stava già guardando, ma il ragazzino non allontanò gli occhi dal vecchio orologio a pendolo nel grande salone.

“Che cosa hai visto?” Domandò il Boss della Port Mafia.

“Una luce viola, molto forte,” rispose Dazai. “Ho creduto fosse un’esplosione, ma non è esploso nulla.” Spostò gli occhi scuri sul viso dell’uomo. “Quella è la tua vera abilità?”

Mori non aveva motivo di mentire. “Una parte,” rispose. “Quella più distruttiva, che ho più difficoltà a controllare.” S’indicò il naso, che aveva appena smesso di perdere sangue.

Dazai parve più confuso di prima. “Elise è una parte della tua abilità. Un’altra parte è riuscita a modificare la natura del tuo corpo, quando avevi la mia età. Adesso salta fuori che una terza parte fa tremare la terra?”

“La terra che trema è solo una conseguenza.”

“E qual è il vero effetto?”

Fu il turno di Mori di fissare l’orologio a pendolo fermo. “Un bagno di sangue,” rispose.

Dazai sapeva che se avesse chiesto altro, non avrebbe ottenuto risposta. Nel silenzio di quella villa dispersa nel nulla, le sue palpebre si fecero sempre più pesanti. Alla fine, si addormentò.




 

Dazai riaprì gli occhi al calar del sole, svegliato dalla voce di Mori che parlava con qualcuno.

“Per un po’ resteremo qui,” diceva il Boss. “Fai sorvegliare la clinica. Dobbiamo catturare uno di loro e farlo confessare. Non credo fosse un’organizzazione nemica. È stato un colpo della Port Mafia alla Port Mafia.”

Senza bisogno di alzarsi dal divano, Dazai seppe che stava parlando con l’uomo con il monocolo. 

“Avete un sospetto, Boss?” Domandò Hirotsu.

“Sì, uno…” Rispose Mori, col tono di chi ammette qualcosa controvoglia. “Che si fa in questi casi?”

Dazai venne preso di sorpresa da una domanda del genere: era la prima volta che sentiva Mori ammettere di non sapere come agire.

“Secondo il protocollo di sicurezza, il Boss dovrebbe risiedere nella camera blindata del quartier generale e restare lì, fino alla chiusura dei conti,” rispose Hirotsu.

“Non mi sento al sicuro al quartier generale,” disse Mori. “Figurarsi se mi vado a rinchiudere con Dazai in una trappola per topi, quando i nostri nemici potrebbero trovarsi tra le nostre mura. Sicuro che nessuno ti abbia seguito, Hirotsu?”

“Avete la mia parola, Boss. Tuttavia, non posso fare a meno di trovare questa sua idea di rimanere qui, da solo, decisamente poco cauta.”

Mori ridacchiò. “Ma non sarò da solo!” Esclamò, divertito. “Potrò sempre contare sull’allegra e vivace compagnia del nostro Dazai!”

Dazai non era solito lasciarsi andare a gesti o parole volgari, ma se non fosse stato tanto pigro da trovare l’idea di sollevarsi da quel divano inammissibile, sarebbe volentieri comparso sulla scena solo per mostrare a Mori il dito medio.

“Mi permetta di restare,” insistette Hirotsu. “Questa casa è isolata, non ha mezzi di sicurezza e-“

“Qui mi sento al sicuro,” insistette Mori. “E la tua assenza desterebbe troppi sospetti. Mi fido di te. In questo momento, solo tu e Kouyou avete la mia totale fiducia all’interno della Port Mafia. Catturate uno di quei traditori e fategli sputare col sangue il nome del mandante dietro questo tentativo di omicidio.”

Dazai non aveva bisogno di vedere per sapere che Hirotsu aveva piegato la testa in segno di rispetto. “Boss…” Si congedò.

Il quattordicenne udì una serie di passi che si allontanavano, seguita da altri che si avvicinavano. Di colpo, il lampadario sul soffitto del salone s’illuminò e Dazai dovette coprirsi gli occhi per non rimanere abbagliato.

“Oh, sei sveglio!” Esclamò Mori. Era allegro, solo l’inferno sapeva perché.

Dazai riaprì gli occhi in tempo per vedere l’uomo lasciar cadere un paio di borsoni a terra. 

“Mettiti qualcosa di comodo,” gli consigliò. “Abbiamo del cibo. Accendiamo il fuoco nel camino e facciamo una sorta di camping. Dopo cena, ti faccio vedere la camera da letto.”

Dazai rimase disteso, il viso una maschera di malumore.

Mori sorrise, godendosi in anticipo una vittoria di cui sapeva solo lui. “Abbiamo anche il granchio in scatola,” annunciò.

Come se fosse un pupazzo a molla, Dazai saltò a sedere e gli occhi scuri brillarono di qualcosa che assomigliava molto alla felicità.




 

“Non mi hai ancora detto che cos’è questo posto,” disse Dazai, seduto sul tappeto di fronte al caminetto acceso. Vicino ai suoi piedi aveva tre scatolette di granchio vuote e una lattina rossa di Coca-Cola.

Comodo sul divano, Mori scrollò le spalle. “È un posto sicuro.”

“Lo hai già detto, ma perché ne sei tanto convinto?”

Il Boss si stiracchiò, sistemandosi contro lo schienale in modo che la ferita non gli facesse male. “Anni fa, avevo una guardia del corpo,” butto lì, indeciso se scendere nei dettagli o meno.

Dazai sbatté le palpebre un paio di volte. “E che facevi per avere una guardia del corpo?” Domandò. “Siedi sulla poltrona più potente di Yokohama e viviamo in una clinica che non ha nemmeno il portone blindato.”

“Facevo quello che faccio ora,” rispose Mori, poi si corresse: “quello che facevo, prima di sedere sulla poltrona di cui parli.”

“Il medico della malavita?”

“Già… Ero l’unico a fare il mio mestiere nelle notti di Yokohama. O meglio, l’unico che fosse un vero medico e non un macellaio con molta fantasia.”

“Eri già un Dirigente?”

“Non avrei potuto mantenere la clinica, altrimenti.”

“E chi era la tua guardia del corpo?” Dazai suonava curioso. “Un mafioso, tipo il veterano col monocolo?” 

E a Mori faceva piacere quando lo era. Questo lo convinse a rivelare qualcosa in più.

“No, era un ex assassino del Governo.”

Gli occhi di Dazai divennero tanto grandi in talmente poco tempo, che il Boss non poté fare a meno di scoppiare a ridere. Una fitta al fianco gli ricordò che non poteva permettersi grandi attacchi d’ilarità.

“C’è qualcosa nella tua vita che abbia un senso?” Domandò Dazai.

“Senti chi parla!” Ribatté Mori.

Dazai si fece più vicino, tanto d’appoggiare la testa al bracciolo del divano. “Su avanti, racconta.”

“Sono il tuo cantastorie, adesso?”

“Dai, lo sanno anche i muri di questa casa che ti piace parlare di te stesso.”

“Eh, sì, lo-“ Mori si bloccò. “Era un insulto?”

Dazai non aveva alcun interesse a rispondergli. “Ex assassino del Governo che vuol dire?” Rifletté ad alta voce. “Un sicario caduto al lato oscuro e divenuto un mafioso?”

Solo il pensiero bastava a far sorridere il Boss della Port Mafia. “Penso sia l’ultima persona al mondo che rischi di far parte di questo mondo di tenebra.”

“E allora che ci faceva con te?”

Era un insulto anche quello? Mori non ne era certo. Poco male, il treno dei ricordi era già partito ed era troppo stanco per buttarsi in corsa e fingere che quel luogo non lo riportasse a un’altra stagione della sua vita. “Lui era un assassino, io ero un assassino. I fronti erano opposti, ma la sostanza non cambiava di molto,” raccontò. “La differenza era che lui voleva lasciarsi alle spalle quel genere di vita, mentre io non avrei saputo in che altro modo vivere.”

“E come siete finiti a lavorare insieme?”

“Natsume Soseki.”

“Ah!” Per Dazai era tutto più chiaro. Il Sensei non faceva mai incontrare due persone senza una ragione precisa - anche se non aveva ancora trovato un senso al suo ruolo nella vita di Mori Ougai. “Anche voi condividevate lo stesso destino.”

Ci fu un’ironia crudele nel modo in cui le proprie parole gli tornarono indietro. Mori incassò il colpo con un sorriso amaro. “No,” scosse la testa. “I nostri destini non sarebbero potuti essere più diversi di così.”

“È ancora vivo?” Domandò Dazai, sorpreso.

“Oh, sì!” Mori annuì. “È riuscito in quello che voleva: ha cambiato vita. Ora aiuta le persone, invece di ucciderle.”

“In che modo?”

“È un detective.” Due secondi dopo aver pronunciato quella parola, Mori scoppiò a ridere da solo.

“E adesso cosa c’è di divertente?” Indagò il quattordicenne.

“Non saprei spiegartelo a parole.” Mori si tenne il fianco ferito, ma non riuscì a placare le risate troppo presto. “Se lo vedessi in faccia, lo capiresti da te.”

“Quindi…” Dazai provò a mettere insieme i pezzi per creare un quadro più chiaro. “Lui voleva cambiare vita, tu sei rimasto nell’ombra. Si è creata una sostanziosa divergenza di scopi.”

“Non è stata una cosa così naturale, come la descrivi tu.” Non c’era stato niente di naturale tra lui, Mori Ougai, e quell’altro, Fukuzawa Yukichi. Due personalità tanto diverse a fianco l’una dell’altra erano impensabili da immaginare insieme. Eppure, erano stati una squadra vincente… Fino a che non avevano smesso di essere una squadra. 

Tutto quel che era successo nel mezzo, Mori lo etichettava con una sola parola: imprevisto

“Mori?”

“Uhm…” Il Boss si accorse di essersi perso nei propri pensieri, mentre parlava. “Scusami, Dazai, hai detto qualcosa?”

“Volevo sapere chi ha tradito chi,” disse il quattordicenne. “Perché è finita con un tradimento, vero?”

Mori sbuffò: non lo sopportava quando era intuitivo con gli affari che lo riguardavano da vicino. Stava a lui decidere cosa raccontare e come raccontarlo. “Dazai, è tardi, vai in camera tua a dormire.”

Il ragazzino allargò le braccia. “Non so nemmeno dov’è la mia camera!”

Mori si alzò dal divano a fatica. “Seguimi.”

Dazai ubbidì, ma non aveva ancora finito di parlare. “Mi è sfuggito il passaggio tra la storia della guardia del corpo e il motivo per cui questa casa è un posto sicuro.”

“Te lo spiego domani.”

“A che vi serviva un’intera villa?” Domandò Dazai, sinceramente curioso. “Che facevate qui dentro?”

Mori gli afferrò il braccio, spingendolo a camminare più in fretta.




 

Dazai chiese un bicchiere d’acqua, prima di andare a dormire. Normalmente, Mori gli avrebbe detto che non era il suo servo e che aveva degli arti funzionanti per prenderselo da solo. Quella sera fece un’eccezione solo per suo comodo. Nel buio della cucina della villa, dopo essersi premurato che Dazai non lo avesse seguito, Mori estrasse una boccetta con contagocce dalla tasca della vestaglia da camera e versò una piccola parte del contenuto nel bicchiere. 

Non era un farmaco potente, né tanto meno pericoloso, ma era quanto bastava per assicurare al Boss che il ragazzino sarebbe rimasto nel suo letto tutta la notte.

Mentre beveva, Dazai non avvertì alcun sapore sospetto. Non si accorse di nulla.

Gli augurò la buonanotte a modo suo e si chiuse nella stanza che gli era stata indicata.

Secondo i calcoli di Mori, tempo un quarto d’ora e sarebbe crollato. Per lui, invece, non ci sarebbe stato alcun riposo quella notte. Le sue condizioni non erano delle migliori, ma doveva fare i conti con la realtà: l’istinto lo aveva portato a prendere Dazai e fuggire lì, in quella villa dimenticata ma, di fatto, si era isolato da qualsiasi forma di protezione per paranoia. Se lo avevano attaccato in pieno giorno, a un passo dal quartier generale, che difficoltà avrebbero avuto nel colpirlo nel suo ufficio in cima al grattacielo principale della Port Mafia?

Ogni obiezione di Hirotsu era stata più che ragionevole, ma Mori aveva preferito seguire l’istinto. Non aveva alcuna certezza che nessuno li avesse seguiti, che il nemico non si stesse nascondendo tra gli alberi lì fuori, nel buio, aspettando il momento giusto per attaccare. Ecco perché il Boss della Port Mafia scacciava via il sonno, vagando tra quelle stanze, in cui non aveva mai vissuto realmente ma dove si era sentito a casa in più di un’occasione. 

Quelle mura fredde, crepate in alcuni punti, erano uno scrigno di ricordi, come lo era quella cassetta di metallo rossa in cui aveva nascosto il taccuino di Johann Goethe. 

Con una pistola stretta nel pugno e una decina di bisturi nascosti nella tasca della vestaglia, Mori attraversò la grande sala dell’orologio a pendolo e vi si fermò proprio davanti.

L’eco di un ricordo lo travolse e non ebbe la forza di ostacolarlo. Vide se stesso più giovane, non ancora trentenne - ventisette anni, per l’esattezza - appoggiato a quello stesso orologio, in attesa. Il lampadario del salone era acceso e così il caminetto nella stanza adiacente.

Sorrideva, carico di aspettativa.

“Serve una mano?” Domandò ad alta voce, tanto per innervosire la persona che stava aspettando.

Dal salotto, qualcuno borbottò qualcosa d’indecifrabile ma suonò tanto come un insulto.

Il Mori più giovane rise, portandosi al centro della grande stanza. “Risparmia le parole dolci per la tua fidanzata immaginaria,” disse. “Dai, vieni avanti, fatti vedere.”

Come se stesse camminando verso il patibolo, un Fukuzawa Yukichi di trentadue anni varcò le porte del salone vestito in frac. 

Il giovane Mori non si concesse nemmeno un istante per contemplare quell’immagine del tutto inedita, scoppiò a ridere senza pietà provocando l’evidente imbarazzo dell’altro.

“Basta così,” decretò Fukuzawa, tentando la ritirata nel salotto da cui era uscito.

“Fermo! Fermo! Fermo!” L’allora giovane Dirigente della Port Mafia esaurì velocemente la distanza tra loro e lo afferrò per un braccio. “Fatti vedere,” aggiunse, con voce più gentile. Questa volta, i suoi occhi si presero tutto il tempo per ammirare la figura della sua guardia del corpo. “Sì,” concluse, soddisfatto. “Perfetto.”

“Sono ridicolo,” si lagnò Fuzukaza.

“No, è solo che non sei abituato.” Il giovane Mori si avvicinò per raddrizzare il papillon stretto al collo dell’altro. “Ti sta bene il nero.”

“Uhm…”

“Era una protesta?” Il Dirigente appoggiò entrambe le mani sulla giacca corvina. “Potresti quasi ingannare anche me. Quasi.”

Fukuzawa sospirò. “È una follia.”
“Una bellissima follia.”

“Non puoi portare un uomo del Governo a una serata di gala della Port Mafia.”

“Ex uomo del Governo,” lo corresse il giovane Mori. “E, sì, io porterò il famigerato Lupo D’Argento alla serata di gala della Port Mafia e lo farò passando dall’ingresso principale, pensa un po’.”

“Ci farai ammazzare tutti e due.”

“No, ci farò ballare. Tu sai ballare?”

“Io non ballo.”
“Certo che lo farai. Io ho voglia di ballare e non posso farlo da solo. Scandalizziamo qualche vecchio mafioso e diamo vita alla rivoluzione.” Il giovane Mori si fece più vicino, tanto d’appoggiare il peso del corpo al petto dell’altro. “Nessuno ti riconoscerà. Forse lo farà Hirotsu, ma non dirà nulla a proposito.”

Fukuzawa lo guardò dall’alto in basso. La sua espressione era l’opposto perfetto della convinzione. “È una foll-”

Il giovane Mori si sollevò per graziare quelle labbra con un bacio e metterlo a tacere. “Tu fammi ballare e prometto che sarà una nottata piacevole.”
“Non mi riferisco solo alla nottata,” chiarì Fukuzawa. “Quello che hai nella testa… Tutto quanto è una follia…”

L’entusiasmo del Dirigente venne smorzato dalla malinconia. “Farò quello che deve essere fatto,” disse e indietreggiò di un passo.

Rintarou…” Fukuzawa non gli concesse di andare molto lontano. Gli afferrò la mano, tirandolo a sé. 

Nessuno dei due aggiunse altro. Si scambiarono una lunga occhiata che conteneva tante parole che non potevano essere dette. Alla fine, per smorzare l’atmosfera, il giovane Mori scoppiò a ridere e Fukuzawa alzò gli occhi al cielo. La questione era rimandata. Nessuno dei due lo sapeva ancora, ma non sarebbero mai riusciti a risolverla.

Il Dirigente intrecciò le dita a quelle della sua guardia del corpo e lo tirò verso l’uscita del salone, in direzione delle camere. “Vieni con me! Cammini come un manichino in questi vestiti, meglio che te ne liberi.”

“Un minuto fa, hai detto che sto bene vestito di nero,” borbottò Fukuzawa.

“Sì.” Il giovane Mori scrollò le spalle. “Ma stai meglio senza niente.”

Sparirono entrambi oltre le porte della grande stanza, e Mori - trentadue anni, Boss della Port Mafia e riluttante tutore di una mina vagante di quattordici anni - si ritrovò al buio, da solo.

Il ricordo era svanito. 

“Boss…”

Mori rinsaldò la presa sulla pistola e la sollevò di colpo. Il viso calmo di Hirotsu lo calmò istantaneamente. “Oh…” Abbassò l’arma. “Sei tu.”

“Ho chiamato il suo nome dall’ingresso,” si giustificò il veterano. “Non mi avete risposto.”

“Ero soprapensiero,” tagliò corto il Boss della Port Mafia. “Se sei qui, significa che ci sono novità?”

Hirotsu annuì. “Hanno mandato qualcuno alla clinica, come aveva previsto,” fece rapporto. “Abbiamo catturato tre di loro e uccisi altri due. Il lavoro è stato semplice: ci hanno dato tutte le informazioni necessarie e siamo andati a catturare il mandante. Non ha opposto alcuna resistenza, come se ci stesse aspettando.”

Le labbra di Mori si piegarono in un sorriso amaro. “Proprio come sospettavo.” 

“Boss?”

“Fai star comodo il Generale, fino a domani mattina,” ordinò. “Dazai sta dormendo e non voglio svegliarlo. inoltre, non ho alcuna voglia d’indossare i panni del Boss a quest’ora, dopo una giornata tremenda come questa. Alle prime luci del giorno, torneremo alla Port Mafia e farò quello che deve essere fatto.”






___________________________________________________ Note: [1] Thomas Schelling, premio Nobel per l’economia. È stato un economista statunitense, professore di politica estera, sicurezza nazionale, strategie nucleari e controllo degli armamenti all'Università del Maryland. In BSD Dazai lo cita tra le letture che Mori lo obbligava a fare quando era ancora sotto la sua custodia.

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Capitolo 7
*** VII ***


VII


I sotterranei del quartier generale non erano propriamente la massima espressione dell’architettura moderna, non come i cinque grattacieli neri visibili da tutta Yokohama.

I soffitti erano bassi, i corridoi stretti e l’illuminazione non era delle migliori. Dazai non riusciva a staccare gli occhi dai tubi in vista che correvano lungo il soffitto. Mori gli aveva ripetuto più volte di tenere il passo e stargli accanto, quasi avesse paura di perderlo di vista nell’attraversare un buio passaggio. A causa del poco spazio, la mano di Dazai continuava a sfiorare quella del Boss: era chiusa a pugno e tremava.

Il leader della Black Lizard e i suoi uomini avevano eseguito tutta l’operazione, compresa la fase di arresto e deportazione. Tuttavia, Hirotsu era alle loro spalle e li seguiva con ampi passi veloci.

Dazai a stento era sveglio - aveva anche il presentimento che, la notte prima, il medico lo avesse drogato - e quella corsa nei sotterranei non era esattamente il miglior modo per cominciare la giornata. Se non avesse avvertito la tensione di Mori, si sarebbe lamentato dell’andatura troppo veloce.

Ma anche lui sapeva quando era meglio non fare i capricci.

La cella in cui era stato portato il Generale era l’ultima. Lì, i soffitti erano più alti e l’ambiente si presentava meno claustrofobico, ma più buio. Il prigioniero sedeva al centro della stanza, con due guardie ai lati e altre due alle spalle. L’unico neon era sopra la sua testa e proiettava sul pavimento grezzo quella che sembrava l’ombra deforme di un mostro.

L’uomo aveva la schiena china, la testa bassa e le braccia appoggiate sulle gambe. 

Agli occhi di Dazai, egli era il ritratto della sconfitta per la seconda volta, ma nessuno era lì per offrirgli una nuova buona uscita. 

Mori avanzò, fino ad arrivare a poco più di un metro da lui.

Hirotsu rimase sulla porta e, in assenza di altre indicazioni, Dazai decise di fare lo stesso. 

“Un uccellino aveva predetto che saresti tornato a combinare guai,” disse Mori, senza nessuna particolare intonazione. Stava facendo riferimento alla prima analisi che Dazai gli aveva offerto, quando il Generale aveva lasciato l’ufficio del Boss con la promessa di una cospicua pensione per il resto della vita.

Visto come si erano evoluti i fatti, la Port Mafia non avrebbe pagato un granché del suo vitalizio.

“Voi quattro potete andare,” disse Mori ai quattro uomini armati.

Come soldatini obbedienti, ruppero la formazione e superarono sia Dazai che il loro leader senza dire una parola.

“Hirotsu, chiudi la porta,” aggiunse il Boss.

Il quattordicenne fece due passi in avanti per non essere d’impaccio.

Una volta soli, Mori portò le mani dietro la schiena e intrecciò le dita. “Eri l’ultimo Dirigente del vecchio regime ancora in vita, escluso me,” cominciò a parlare. “Quando ti ho fatto uscire dal mio ufficio, con la promessa che non avresti vissuto un singolo giorno senza temere per la tua incolumità, credevo sinceramente che non ti avrei rivisto mai più. Eppure, te lo confesso, non appena ho capito di essere scampato alla morte e sono tornato a riflettere, il tuo è il primo nome a cui ho pensato.”

Il Generale non si mosse, non disse niente. Era come se fosse già morto e il suo corpo si fosse ripiegato su se stesso.

“Dovevo ascoltarti, Dazai,” aggiunse il Boss, ma non si voltò a cercare gli occhi del ragazzino. Prese un respiro profondo. “Un’altra confessione: credevo ti saresti impiccato entro la fine dell’anno. Troppi anni passati nel terrore, solo per finire nelle mani di un ragazzino di trentadue anni dalle tendenze lunatiche. Difficile sopravvivere in tanta paranoia…”

Mori non faceva delle pause perché aveva bisogno di pensare a cosa dire. Il Boss della Port Mafia sapeva benissimo quali parole usare e come usarle, stava solo concedendo al suo prigioniero la possibilità di raccontare la sua parte della storia.

Stanco di quel monologo, Dazai decise d’intervenire. “Lo ha già fatto.”

Mori girò il viso nella sua direzione, ma non lo guardò. Lo stava ascoltando.

“Non si è nascosto e non ha opposto resistenza,” elaborò Dazai. “Hirotsu stesso ha detto che era come se li stesse aspettando. Un uomo del calibro del Generale non s’impicca, non nel senso letterale del termine.”

Mori tornò a guardare il prigioniero. “Morire tentando di uccidere il nuovo Boss della Porta Mafia.” Scrollò le spalle. “Beh, sì, è un’uscita di scena molto da malavitoso della vecchia scuola.”

“Tu sei stato educato da quella stessa scuola.” Il Generale, alla fine, parlò. “L’onore e l’orgoglio prima di ogni cosa.” Sollevò la testa quanto bastava per guardare in faccia il giovane uomo di fronte a sé. “È una lezione che non hai mai imparato.”

“È questo il problema?” Domandò Mori. “Riconosci in me delle origini importanti, per le quali ritieni che, in questo momento storico, io solo posso sedere su quel trono nero. Tuttavia, tu mi disprezzi a livello personale.”

“Quello che sei… Quello che eri…” Sibilò il Generale.

Per la prima volta da quando lo aveva incontrato, Dazai si accorse che si stava scomponendo.

“Il modo in cui sei venuto al mondo, l’abominio in cui ti sei trasformato da ragazzino…” Proseguì il Generale. “Tuo padre e sua moglie facevano l’impossibile per nascondere il tuo segreto e proteggerti, ma tutta la Port Mafia frequentava le stanze della Casa dei Fiori e le ragazza mormoravano… Eri maledetto, la vergogna della famiglia Mori.”

Il Boss simulò un’espressione stupita. “Strano. Sì, ricordo che mi nascondevano e che erano preoccupati ma… Come dire? Il disgusto che leggo nella tua espressione e il disprezzo che sento nella tua voce a loro non sono mai appartenuti.”

“Mori Ougai, il padre a cui hai rubato il nome, ti amava,” disse il Generale. “Come amava la tua madre naturale, quella che hai fatto impazzire e, in ultima battuta, hai ucciso.”

Dazai sbatté le palpebre un paio di volte: quella era una parte della storia che non conosceva.

Hirotsu fece un passo in avanti. “Vuole che faccia uscire il signorino, Boss?”

“Non è necessario,” rispose Mori, senza nemmeno pensarci. “Generale, la storia della mia nascita non è un’arma efficace contro di me. Si sforzi di più, la prego. Anzi, no, ora tocca a me. Lei, che era così amico di mio padre, guardava al sentimento di amore verso suo figlio - cioè me - con pietà e totale incomprensione?”

“Perché stai perdendo tempo, Mori?” Domandò il Generale. “Sparami e falla finita.”

Il Boss scosse la testa. “Il gioco non finisce quando lo decidi tu,” replicò, scansando il lei, “ma quando io smetto di divertirmi.”

A Dazai sfuggì un sorrisetto euforico: sì, quello lo interessava.

“Per buona fede, avevo deciso di farti uscire di scena senza torturarti ulteriormente col passato,” disse Mori. “So che non amavi il mio predecessore, ma meglio chinare la testa che perderla. Dove sarebbero onore e orgoglio in questo?”

Il Generale strinse i pugni e non rispose.

“Ma ora che abbiamo tutto il tempo del mondo, ci sono un paio di dubbi che ho bisogno di togliermi.” Mori cominciò a girare intorno al prigioniero, con passo cadenzato. “Abbiamo già parlato di come la mia famiglia sia stata massacrata, senza che tu abbia mosso un dito,” disse. “Non è stato uno scatto d’ira da parte del Boss, ma un’esecuzione in piena regola. Non c’è dubbio che mio padre fosse una personalità scomoda, ma di certo non era uno sprovveduto. Che cosa ti raccontava di me?”

“L’ultima volta che ci siamo parlati, mi ha confidato che era sceso a patti col fatto che non saresti mai tornato a casa e che il nome dei Mori sarebbe morto con lui.”

Mori rise, prendendo il prigioniero completamente in contropiede. “Risposta sbagliata, Generale.”

L’uomo inarcò le sopracciglia, confuso.

“Primo, avevo tre sorelle che potevano benissimo passare il nome Mori ai loro figli, ma non mi aspetto che un maschilista come te lo capisca. Secondo, mio padre non avrebbe mai potuto dirle una cosa del genere… A meno che non volesse dirti una menzogna per depistarti.”

Il Generale continuava a non capire.

“Rintarou voleva tornare a casa,” intervenne Hirotsu. “Avevamo preparato tutto per il suo ritorno a Yokohama. Era suo desiderio essere qui entro la fine della primavera del primo anno di guerra.”

Dazai elaborò velocemente tutte le informazioni. “Mori Ougai non si è confidato col suo fidato amico riguardo il ritorno in patria di suo figlio,” disse. “Perché tenerlo nascosto o addirittura mentire a riguardo?”

Mori gli rivolse una breve occhiata compiaciuta. “Rispondi,” fece pressione. “Perché non dirtelo? Se conoscevi così tanto nel profondo la vergogna che mio padre provava verso di me, perché non si è lamentato aspramente del fatto che mi avrebbe avuto di nuovo tra i piedi?” Il Boss guardò Dazai dritto negli occhi: era da lui che voleva la risposta.

“Perché il Generale non è un codardo come abbiamo pensato,” disse Dazai, soppesando ogni parola. “Il Generale è il Dirigente che ha guidato l’esecuzione di Mori Ougai e la sua famiglia.”

Il Generale guardò il quattordicenne con occhi iniettati di odio. “Taci moccios-“

Mori lo colpì al viso con il calcio della pistola. Dazai sobbalzò: non lo aveva visto prenderla tra le mani.

“Qui dentro, decido io chi tace e chi no,” disse Mori, con voce tanto atona da non suonare umana. Si portò di nuovo di fronte al prigioniero. “Hai dato le tue dimissioni perché speravi di scamparla. Quando ho reso chiaro che la tua pensione non sarebbe stata serena, ti è venuta la paranoia che facessi le mie ricerche sui fantasmi del passato. Come si può vivere con un dubbio simile? Un figlio che viene a chiedere vendetta per i suoi genitori e le sue tre sorelle quanta crudeltà può tirare fuori?” Mori reclinò la testa da un lato. “Scopriamolo.” Sparò al piede destro del prigioniero.

Dazai lo aveva previsto e, mentre le urla del Generale riempivano la stanza, non mosse un muscolo.

“Il Boss Folle ti aveva fatto grandi promesse, vero?” Mori tornò a girare intorno. “Uccidilo e non dovrai temere nulla da me, posso quasi immaginarlo.”

Il Generale rantolava e impiegò diversi minuti, prima di riuscire a parlare di nuovo. “Ougai non voleva chinare la testa,” sibilò. “Diceva che se ci fossimo uniti tutti, avremmo messo freno alla follia di quell’uomo.”

“Ma quell'uomo pazzo faceva paura, vero?”

Mentre Mori pronunciava quelle parole, Dazai si accorse che non era completamente in sé. Il suo atteggiamento era composto, ma la sua espressione era vuota, come quella di un uomo morto.

“Si sarebbe scatenata una guerra all’interno della Port Mafia stessa!” Urlò il Generale. “Non c’era modo di sconfiggere il Boss Folle, senza che tutti noi bruciassimo con lui.”

Dazai non possedeva la conoscenza giusta per giudicare quanto quel pensiero fosse realistico. Per Mori, la situazione era completamente diversa: a lui non importava proprio.

“E quando Hirotsu è tornato a Yokohama col mio cadavere, il problema era finalmente risolto,” concluse Mori.

“Maledetto, traditore, bastardo,” disse il Generale, rivolgendosi all’uomo col monocolo.

“Mi lusinga, signore,” rispose il leader della Black Lizard.

Dazai strinse le labbra per non ridere: quell’uomo dai capelli grigi cominciava a piacergli.

“Abbiamo scelto un cadavere di prim’ordine,” ricordò Mori, divertito. “Deve essere stato piacevole fare il riconoscimento.”

“Era in putrefazione!” Urlò il Generale. “Abbiamo dovuto fare l’analisi del DNA!”

Mori si arricciò una ciocca di capelli corvini intorno all’indice. “I gas velenosi della trincea avevano ridotto quel corpo a una poltiglia, ma avevo ancora la mia chioma fluente da sfruttare. Sai quanti anni ci sono voluti per farli ricrescere, dopo averti fornito il tuo fottuto DNA?” Sparò al piede sinistro del Generale.

Questa volta, Dazai sobbalzò.

“Quel giorno, ero al telefono con mio padre, lo sai?” Domandò Mori. “Parlavamo proprio del fatto che io volessi tornare in Giappone per la fine della primavera. Mi ordinò di restare dov’ero. Quando gli chiesi il perché, non mi rispose. Poi cominciammo a parlare di tutt’altro… Di qualcosa che avrebbe dovuto rendere tutti felici, pensa un po’.”

Dazai si accorse che la mano del Boss tremava. Ora ne aveva la conferma: era fuori di sé dalla rabbia 

“Ho sentito i tuoi uomini massacrare la mia famiglia dal ricevitore di un cellulare, a due oceani di distanza.”

Piegato su se stesso dal dolore, il Generale non rispose.

Dazai trattenne il fiato: era certo che il Boss avrebbe inchiodato il prigioniero alla sedia con un colpo alla testa. Era solo questione d’istanti.

Non accadde.

Mori fece un passo indietro, poi un secondo e un terzo. “Hai fatto a loro la grazia di una morte veloce,” disse. “Non ricambierò il favore.”

Dazai s’imbronciò. Ma come? Pensò. Non vuoi ucciderlo con le tue mani? Non vuoi vendicarti?

Ma il Generale non aveva ancora finito. “Un’ultima parola al Boss, prima della condanna a morte?” Domandò, tremante per lo sforzo. 

Mori si bloccò, ci pensò. “Sì,” disse, voltandosi. “Posso concederla.”

Il prigioniero fece fatica a raddrizzare la schiena, prima di parlare. “Insegnerai a tuo figlio che per avere il potere bisogna essere disposti a tutto, anche a vendersi come una puttana?”

Dazai inarcò le sopracciglia. Chi gli era attorno non fu paralizzato dalla sua stessa confusione. Hirotsu lo afferrò per le spalle, mentre Mori sparava un terzo proiettile, che colpì la spalla del prigioniero. Il Generale non urlò di dolore, ma prese a ridere come un isterico. “Qualcosa che avrebbe dovuto rendere tutti felici,” ripeté.

“Vieni, Dazai.” Hirotsu cercava di trascinarlo fuori dalla stanza, ma il ragazzino faceva resistenza. Voleva vedere e voleva sentire.

“Avevo ogni Mori sotto il mio mirino, perché questo mi era stato ordinato di fare. Tu eri distante, quasi irraggiungibile, ma hai commesso un errore” proseguì il Generale. “Sei tornato in Giappone all’inizio di quello stesso anno e so la ragione per cui lo hai fatto. L’ho capito non appena ho visto quel moccioso seduto al posto del Boss. So cos’era quel qualcosa che-

Furono le sue ultime parole.

Il quarto proiettile attraversò l’occhio sinistro del prigioniero. Il quinto, il sesto e il settimo seguirono uno dietro l’altro, colpendolo al viso in più punti.

Quando Mori ebbe finito, le sue spalle si alzavano e abbassavano come se avesse il fiato corto. Dazai non si dimenava più e Hirotsu non stava più cercando di trascinarlo via.

Del viso del Generale era rimasta solo una melma di sangue e carne. Non aveva nemmeno più un aspetto umano.



 

Mori ordinò a Hirotsu di riportarli alla villa abbandonata.

Fino all'esecuzione di ogni uomo del Generale, non si fidava di restare a Yokohama. Hirotsu rispondeva con educazione a ogni sua richiesta, ma Mori era nervoso. Dazai lo sentiva dal tono in cui parlava e lo vedeva dal modo in cui continuava ad agitarsi sul suo posto, sul sedile posteriore, accanto a lui.

C’erano tante domande sospese sulle loro teste e se Dazai conosceva un poco l’uomo che lo aveva preso in custodia, sarebbe stato lui stesso a dargli tutte le risposte di cui aveva bisogno. Doveva solo pazientare.

Arrivati alla villa, Dazai scese dalla macchina per primo ed entrò senza aspettare che qualcuno gli desse il permesso. Mori e Hirotsu lo seguirono in silenzio.

Quando raggiunse la grande sala dell’orologio a pendolo, la voce del Boss lo richiamò. “Dazai.”

Il quattordicenne si fermò e si voltò a guardare i due uomini. Hirotsu era rimasto sulla porta, Mori era ad appena un paio di metri da lui. 

“Non ti ho mai mentito e non ho intenzione di cominciare a causa di un traditore,” disse Mori. “Ricordi quando il Generale mi accusò di essere un soldato congedato con disonore, il giorno in cui diede le sue dimissioni?”

Dazai annuì.

“È vero,” confermò Mori. “Avevo tra le mani un progetto che avrebbe dovuto portare la vittoria della guerra nella mani del Giappone. Non è stato così. Per tanto, sono tornato a Yokohama senza nulla tra le mani. Avevo la mia licenza da medico, ma il mio passato era troppo torbido perché potessi seguire la mia professione alla luce del sole. Decisi di aprire la mia clinica, in mezzo alle ombre che conoscevo così bene. Tuttavia, non avevo soldi per mangiare, figurarsi per avviare un’attività illegale.”

“Hai cominciato a prostituirti per sopravvivere,” concluse Dazai, come se stesse dicendo ad alta voce il risultato di una semplice addizione.

Hirotsu lesse della mancanza di rispetto nel suo atteggiamento e fece un passo in avanti. “Signorino, la esorto a-“

“Non è un signorino,” lo interruppe Mori. “Deve sapere, Hirotsu e non c’è un modo elegante per dirlo.”

“Hai lavorato alla Casa dei Fiori,” dedusse Dazai. “Ecco come hai conosciuto Kouyou ed ecco perché siete tanto legati.”

“Appena ho avuto i soldi per aprire la clinica, me ne sono andato,” si affrettò ad aggiungere Mori.

Dazai non commentò la cosa in nessun modo.

Ah, ti sto annoiando. A Mori quasi venne da ridere. 

“E chi sarebbe tuo figlio?” Era quello il dettaglio che aveva colpito il quattordicenne più di qualunque altro.

“Il bambino mio e del mio amante tedesco, che non è mai nato,” rispose Mori. E non si sorprese di vedere la confusione sul viso del ragazzino. “Ti ho raccontato della trasformazione del mio corpo, no? Bene, non era solo una questione estetica.”

Dazai impiegò un istante a fare due più due. “Oh…”

“Tornai in Giappone per dirlo alla mia famiglia,” raccontò Mori, poi scosse la testa. “Ma non era nel mio destino dare alla luce una vita. Capita più di quanto si pensi.”

“Il Generale non ne era così sicuro…”

“Il Generale deve aver pensato che tu sia il bambino che ho avuto durante la guerra e che, durante gli ultimi quattordici anni, ho nascosto in Germania. I tempi sarebbero quelli giusti… Perché stai facendo quell’espressione disgustata?!”

“Niente,” rispose Dazai, ma la sua faccia urlava quanto gli sarebbe dispiaciuto essere imparentato in qualche modo al Boss della Port Mafia. “Voglio fare colazione. Ho fame.” Aggiunse, con fare capriccioso.

“Mi dia qualche minuto e-“ Hirotsu venne interrotto dal suo superiore.

“No, no,” disse, poi indicò le scale al quattordicenne. “Forza, usa le gambette, un passo avanti l’altro.”

Dazai sbuffò e uscì dalla sala, trascinando i piedi per terra.

Mori aspettò di sentirlo arrivare in fondo alla rampa, poi si spostò nel salotto adiacente in tutta fretta, facendo cenno al leader della Black Lizard di seguirlo. 

Nel caminetto c’erano ancora le braci della notte precedente, ma erano completamente inutili. 

“Faccio io,” si offrì Hirotsu. “Lei è ancora ferito e scosso dagli ultimi eventi.”

Giusto, la ferita. Mori se ne era completamente dimenticato. Più tardi avrebbe dovuto cambiare la medicazione e assicurarsi che gli antibiotici stessero facendo il loro effetto. Si rese conto di quanto era stanco solo quando si sedette sul divano e lasciò che lo sguardo si perdesse nel vuoto.

Hirotsu gli lanciò un’occhiata con la coda dell’occhio. “Voleva solo una morte veloce,” disse. “Sapeva che avrebbe sparato, per questo l’ha provocata fino all’esasperazione.”

“Lo so,” disse Mori, massaggiandosi la fronte. Non gli piaceva come era andata a finire. Non perché aveva perso il controllo, ma per la velocità con cui l’assassino materiale della sua famiglia era uscito di scena. Doveva ingoiare quella delusione e lasciar perdere: metterlo a tacere era stato più importante.

Mori vide le fiamme alzarsi nel camino con la coda dell’occhio, ma fu lo sguardo insistente del leader della Black Lizard ad attirare la sua attenzione. “Che cosa c’è?” Domandò.

Hirotsu aveva un ginocchio appoggiato a terra, quasi volesse sottolineare il rispetto che provava per lui. “Mi concede di parlare liberamente?”

Mori annuì

“In tutta onestà, Boss, lo avrei riconosciuto anche se non lo avessi visto al suo fianco. Il Generale la conosceva fin da bambino, non mi sorprende che abbia visto la stessa cosa che ho visto io,” disse. “Quando si è presentato col nome Dazai Osamu, non ho avuto dubbi, ma a Yokohama è un dettaglio che conosciamo solo io e lei.”

Mori non rispose subito. In fin dei conti, non era sorpreso che Hirotsu fosse riuscito a vedere attraverso le sue bugie. Proprio lui, tra tutti, che gli era rimasto accanto anche in Germania, fino a che la guerra non li aveva divisi.

Mori infilò la mano nella tasca interna della giacca e ne tirò fuori i documenti che aveva nascosto nella cassetta di metallo rossa, insieme al taccuino di Johann Goethe. Una foto di se stesso a diciotto anni rispose al suo sguardo.

“Se mi posso permettere… Come lo ha ritrovato?” Domandò Hirotsu.

“Non l’ho ritrovato,” rispose Mori, passando l’indice sul nome falso scritto sul passaporto, insieme al resto dei suoi dati: Dazai Osamu. Non ricordava perché aveva pensato proprio a quel nome, non era certo di essere stato nemmeno lui a metterlo insieme. “Una persona lo ha riportato da me.” Gettò il documento nel fuoco, mandando in cenere l’ultima cosa che era rimasta a legare la sua persona al nome di Dazai Osamu.




 

In cucina, Dazai trovò una fila di pane fresco e un barattolo di marmellata. Era una proposta che non lo allettava affatto, ma aveva davvero troppa fame per fare lo schizzinoso. Qualcuno doveva aver ripulito tutto l’ambiente durante la notte, perché la stanza era troppo linda e pinta per lo stato di semi-abbandono in cui la villa versava. Trovò un coltello nel primo cassetto che aprì, ma non si disturbò a cercare un tagliere. Mentre ricavava tre fette dal tozzo di pane, riuscì miracolosamente e non tagliarsi un dito. Disseminò molliche dappertutto: sul piano della cucina, sul pavimento, arrivarono persino al lavandino. Era troppo pigro per fare quello che chiunque con un minimo di senso civico avrebbe fatto. Decise che se agli uomini della Port Mafia piaceva tanto pulire, avrebbero fatto il lavoro sporco al posto suo.

Aprì il barattolo di marmellata, ma nemmeno guardò a che gusto era: già sapeva che gli avrebbe fatto schifo, ma questo non gli avrebbe impedito di buttarla giù. Sì, era capriccioso, ma sapeva anche cosa voleva dire soffrire la fame. Prese un tovagliolo, lo aprì sul tavolo e vi appoggiò le sue tre fette di pane e marmellata.

Dazai si mise seduto e, col sole ormai alto, addentò la sua colazione.

Un istante dopo, un uomo sfondò la porta che dava sul retro. 

Il quattordicenne non mosse un muscolo. L’intruso si dimostrò più sorpreso di vederlo di quanto lo fosse lui. Aveva i capelli chiarissimi e indossava un kimono color verde militare. Dazai non prestò particolare attenzione al suo vestiario, quanto alla katana che gli puntava contro. “Se vuoi usarla, non oppongo resistenza,” disse, con la bocca piena. “Ma niente rituali da samurai o che so io. Una cosa veloce.” Dazai sollevò la mano destra e imitò il gesto di una lama contro il suo collo. “Un colpo e via. Io non sento nulla, minimo sforzo per te e siamo tutti contenti.”

Confuso dalle parole del ragazzino, l’uomo ripose l’arma e lo squadrò da capo a piedi. “Sei della Port Mafia?”

Vedendo la possibilità di morire in modo semplice e veloce sfumare, Dazai sbuffò e tornò a mangiare la sua colazione. “Qualcosa del genere.”

L’uomo dai capelli chiari mosse qualche passo all’interno della cucina, spostandosi dalla parte opposta del tavolo. C’era della curiosità nei suoi occhi - erano chiari, come il cielo d’estate - e Dazai non aveva alcun motivo di nascondersi. “Qualcosa non va?” Domandò, come se l’altro non avesse fatto irruzione con un’arma alla mano.

Lo sconosciuto aprì e chiuse la bocca un paio di volte. “Nel bosco non c’erano guardie.”

Dazai scrollò le spalle. “Mori dice che nessuno conosce questo posto,” rispose. “Evidentemente, si sbaglia.”

“Io conosco questo posto.”

“Sì, lo vedo.”

L’uomo si chinò per guardarlo meglio. “Sei della famiglia Mori?”

A Dazai venne da ridere, ma per poco non si strozzò con il boccone che aveva in bocca. “Spiacente…” Scosse la testa. 

“Strano,” commentò l’altro. “Hai la faccia di un Mori.”

Dazai abbandonò la sua ultima fetta di pane e marmellata sul tavolo. “Bene.” Allargò le braccia. “Nemmeno il tempo delle presentazioni e già piovono insulti pesanti.”

L’uomo aggrottò la fronte: non aveva capito dove stava l’offesa e il quattordicenne non aveva alcuna voglia di spiegarglielo.

“Sei un uomo del Generale?” Domandò, diretto.

“No.”

“Per chi lavori?”

“Per nessuno.”

“Un samurai, che lavora per nessuno e che irrompe in casa del Boss della Port Mafia armato di Katana.” Dazai storse la bocca in una smorfia. “Ha molto senso.”

“Questa è anche casa mia,” disse l’uomo senza nome, lanciando un’occhiata alla porta che conduceva all’ingresso e alle scale.

Dazai spalancò occhi e bocca. Quell’incontro si fece improvvisamente interessante. “La guardia del corpo!” Esclamò.

L’uomo lo guardò negli occhi. “Prego?”

“Mori ha parlato di una vecchia guardia del corpo con cui divideva questa casa, o qualcosa del genere!”

L’intruso boccheggiò, come un pesce fuor d’acqua. “Non era… Non era esattamente così.”

“Oh, sì, sei la sua guardia del corpo!” Dazai si mise in piedi con un saltello. “Raccontami qualcosa!” Ordinò. “Qualcosa di assurdamente umiliante, che possa mettere Mori in cattiva luce!”

“Mori è qui?” Domandò l’uomo. “Sta bene?”

“Se non stesse bene, la Port Mafia starebbe mettendo a ferro e fuoco l’intera Yokohama,” rispose Dazai. “Avanti, raccontami qualcosa di compromettente!”

“Stai parlando da solo, moccioso?” Domandò Mori, varcando la porta della cucina. Fece due passi all’interno della stanza, i suoi occhi incrociarono quelli dell’intruso e si fermò, come se fosse stato pietrificato. “Che cosa ci fai qui?” Domandò, quasi con rancore.

Il viso di Dazai s’illuminò come quello di un bambino al parco giochi. “È la guardia del corpo, vero?” Cercò conferma. 

Un istante più tardi, Hirotsu intervenne sulla scena. La presenza dell’intruso ebbe su di lui lo stesso effetto che aveva avuto su Mori, ma fu più svelto a riprendersi. “Vieni Dazai,” disse, fermo, esaurendo la distanza tra sé e il ragazzino.

“Non sto facendo niente,” si difese il quattordicenne, che non si sarebbe perso quella scena per nessuna ragione al mondo.

“Ascolta Hirotsu e vai di sopra,” ordinò Mori, freddo, senza staccare gli occhi di dosso dal samurai.

“Ma-“ L’obiezione di Dazai morì con un’occhiata tagliente da parte del Boss della Port Mafia. Sbuffò sonoramente e seguì il leader della Black Lizard fuori dalla cucina.

Rimasti soli, Fukuzawa fu il primo a parlare. “Mori-“

“Andiamo fuori,” disse il mafioso, superandolo ed uscendo dalla porta mezza scardinata.




 

Mori camminò, fino a che non fu certo di essere invisibile dalle finestre della villa: Dazai poteva fingersi obbediente, ma mollare non faceva parte del suo carattere.

Quando fu certo di aver raggiunto una distanza di sicurezza utile, si voltò di colpo. “Che cosa sei venuto fare?” Domandò, gelido, come se la presenza dell’altro uomo fosse paragonabile a quella di una mosca fastidiosa nel bel mezzo di una giornata già piuttosto brutta.

“I miei vecchi contatti sono ancora attivi,” rispose Fukuzawa. “Ho saputo dell’attentato.”

Mori allargò le braccia. “Sono vivo,” disse e le lasciò ricadere lungo i fianchi. “Ti serve altro?”

Fukuzawa lo guardò da capo a piedi: non era la prima volta che lo vedeva indossare le vesti di un principe della Mafia, ma ora era tutto diverso. Non si trattava del completo elegante, del cappotto nero che distingueva i membri di alto rango della Port Mafia, ma era una questione di portamento, quasi di atmosfera.

“Sei diverso,” commentò l’uomo che era stato il Lupo d’Argento del Governo.

Mori emise una risata senza gioia. “Davvero?” La sua voce era invelenita dal sarcasmo. “In quattro anni possono cambiare molte cose, ma tu sei sempre lo stesso. Te lo chiedo per l’ultima volta: che cosa sei venuto a fare?”

Fukuzawa non aveva mai avuto dalla sua una particolare predisposizione all’oratoria o una lingua tagliente. Quelli erano i talenti di Mori, insieme alla recitazione, la menzogna e la manipolazione.

Nonostante fosse cresciuto per essere un uomo del Governo, Fukuzawa non era mai stato in grado di dire delle bugie efficaci. Piuttosto, era sua abitudine rimanere in silenzio e passare all’azione. In quella circostanza, non era lì per combattere Mori e non poteva fare muro con il suo mutismo.

Non gli restava che essere sincero: “volevo vederti.”

E ogni volta che lo faceva, Mori rimaneva senza parole. 

Passò un minuto, poi il Boss della Port Mafia ingoiò a vuoto. “Mi hai visto,” disse. “Sono vivo. La mia morte non è ancora un pensiero con cui tormentarti.”

Fukuzawa strinse le labbra, fino a farle diventare una linea sottile. “Tu riesci a tramutare le mie parole in qualsiasi cosa tu voglia,” ribatté. “Lo hai sempre fatto e lo fai ancora.”

“Perdonami, Fukuzawa, ma davvero non riesco a trovare un senso alla tua visita,” disse. “Siamo usciti dalla vita l’uno dell’altro da quattro anni e non la ricordo una cosa indolore.”

“Non è stata una mia scelta.”

Mori rise di nuovo, quasi isterico. Erano successe troppe cose in troppo poco tempo: aveva appena ucciso l’assassino della sua famiglia, ventiquattro ore dopo essere scampato a un attentato contro la sua persona. Era ferito e non dormiva da giorni. Potevano dargli del maledetto e chiamarlo Demone quanto volevano, ma sanguinava e aveva dei limiti come ogni essere umano. 

Vedere Fukuzawa Yukichi non era esattamente quello che gli serviva per stare meglio.

“Non intendo discutere con te di quegli eventi,” disse Mori. “È uno spreco di tempo e la mia attenzione è richiesta altrove.” Fece per andarsene, ma quando l’altro lo afferrò per il braccio, non fece nulla per liberarsi. Poteva sentire la mano calda di Fukuzawa attraverso la stoffa del cappotto. Le aveva sempre avute calde.

“Sei il Boss della Port Mafia.” C’era rassegnazione nella voce dell’uomo che era stato suo partner sul lavoro e suo compagno per una stagione di vita.

“Sono il Boss della Port Mafia,” confermò Mori, guardando gli alberi di fronte a sé.

Fukuzawa lo spinse gentilmente indietro, per poterlo vedere in faccia. “Ne è valsa la pena?” Domandò. “La vendetta, l’ascesa al potere e tutto il resto?”

L’espressione di Mori tradì qualcosa di nostalgico. “Ne parli ancora come se mi fosse stata data una scelta.”

“Tutti abbiamo una scelta, Mori.”

“No.” Il giovane Boss scosse la testa. “È una bella favola che in molti raccontano, ma anche se abbiamo la possibilità di cambiare vita, non è detto che siamo capaci di viverla. Tu ti trovi bene sulla strada che hai scelto?”

Fukuzawa non rispose. 

“Mi fa piacere, Detective,” disse Mori. “Non hai più un collare intorno al collo, né quello del Governo né il mio. Deve essere una bella sensazione.”

Fukuzawa lo lasciò andare. “Tu non mi hai mai legato.”

“Ne sei sicuro?” Domandò Mori, con un sorriso perfido. “Per metà del tempo, io ti stuzzicavo e tu a stento mi tolleravi,” si umettò le labbra. “L’altra metà la passavamo a fare l’amore.”

Fukuzawa alzò gli occhi al cielo e prese le distanze.

Mori rise. “Hai trentasette anni, non ti puoi ancora imbarazzare per questo!”

Quegli occhi azzurri tornarono subito sui suoi. “Sai in che cosa ti sei cacciato?”

“È il mio mondo, Fukuzawa. Sono un principe della Mafia dalla nascita, questa è solo la mia naturale evoluzione.”

“Pochi mesi e per poco non ti riducevano a brandelli.”

“Quella che sento è preoccupazione?”

Il fondatore dell’Agenzia Armata di Detective non rispose. 

Mori sospirò. “È troppo complicato ammettere che vi è ancora interesse dove dovrebbe esserci solo indifferenza?” Scrollò le spalle. “Credo che sia utile sottolineare che se sei qui, qualcosa deve voler dire.”

“Non mi sono pentito della mia decisione, Mori,” disse Fukuzawa.

“Nemmeno io,” ribatté il Boss, secco. “E dopo questa piccola perdita di tempo, penso che possiamo tornare entrambi alle vite che ci siamo scelti.”

Fukuzawa non lo fermò una seconda volta e Mori tirò un sospiro di sollievo: si era liberato anche di quella scocciatura. Aveva bisogno di dormire e di un antidolorifico - non per forza di quelli legali.

Rintarou.”

Al suono di quel nome, il cuore del Boss della Port Mafia - perché ne aveva uno - saltò un battito. Non riuscì a muovere un passo di più.

Non seguì altro.

Mori strinse i pugni fino a farsi male. “Cosa?” Sibilò, all’indirizzo del Detective. 

Fukuzawa rimase in silenzio.

“Non puoi chiamarmi in quel modo e poi startene zitto!” 

La maschera era caduta a terra. Il Boss Mori Ougai era scomparso, lasciando il posto a un giovane che negli archivi della Grande Guerra risultava morto in Germania, ma che si era concesso un ultimo alito di vita tra le braccia dell’uomo che gli era davanti. “Dici che non è stata una tua scelta?” Mori esaurì la distanza tra loro. “Il rifiuto è una forma di scelta e tu hai rifiutato me, Yukichi!”

“Aspetta…” Fukuzawa lo afferrò per le braccia e l’altro s’irrigidì. “Sei ferito?” Intuì.

Mori si liberò con uno strattone. “Non è più affar tuo,” disse, portando la mano al fianco leso. “Non è solo per vendetta o per potere. Tutto questo ha uno scopo più grande, ma tu non sei mai riuscito a comprenderlo!”

Fukuzawa scosse la testa. “Non potevo seguirti nelle tenebre, Rintarou.”

Io sono le tenebre di cui parli,” ribatté Mori, deciso. “Io sono la Port Mafia. Ma tu volevi la luce... È per questo che hai lasciato il Governo e hai deciso di cambiare vita.” Inspirò profondamente dal naso. “Quello che siamo non si può cambiare. Non eravamo destinati l’uno all’altro. Perciò, sii coerente con te stesso, e stai lontano dalle tenebre che hai rifiutato.”

Fukuzawa fece per aggiungere qualcosa, poi ci ripensò. “Almeno, cerca di restare vivo, Rintarou.”

Se la mia vita ti è tanto cara, potevi rimanere al mio fianco, Mori non lo disse. Non lo avrebbe fatto neanche tra un milione di anni. Se Fukuzawa Yukichi lo aveva ferito, non aveva più importanza.

Il Boss della Port Mafia non conosceva altro modo di combattere, se non da solo. 

“Addio, Fukuzawa.”




 

Mori rientrò dalla porta sul retro. Era mezza scardinata, ma non ci fece nemmeno caso. Lanciò una breve occhiata al piccolo disastro che Dazai aveva combinato per prepararsi la colazione, mentre attraversava la cucina a passo svelto.

Una volta nell’atrio, Mori si fermò, gli occhi fissi nel vuoto. Fece un passo di lato e appoggiò la schiena alla parete, poi inspirò aria dalla bocca, concentrandosi sul suo petto che si alzava e si abbassava.

Quattro anni. A lui sembravano quaranta.

Alla sua età, Mori Ougai - nato Mori Rintarou - poteva già dividere la sua vita in molte stagioni, troppe per gli anni che aveva effettivamente vissuto. Quella che aveva condiviso con Fukuzawa Yukichi era la più difficile da cancellare: nessuno dei protagonisti era finito sotto terra. 

“Hai parlato di vecchi contatti,” mormorò Mori, all’atrio vuoto e polveroso. “Mi hai confessato, senza farlo davvero, che continui a tenermi d’occhio.”

Gli sfuggì un sorriso.

“Scivolone un po’ grave per un Detective, Yukichi.”

“Ora sei tu a parlare da solo…”

Le labbra di Mori disegnarono una linea retta, poi portò lo sguardo sulla rampa di scale. Seduto sui gradini, Dazai lo fissava attraverso le colonne della balaustra. Hirotsu era accanto a lui.

“Il signorino si è rifiutato di salire di sopra,” si giustificò il veterano. “Abbiamo fatto un compromesso e ci siamo fermati a metà delle scale.”

Suo malgrado, Mori rise. “Sai, Hirotsu, devo capire se quello che hai con i ragazzini è talento naturale, oppure sono io a essere stato un buon addestramento.”

“Non mi sognerei mai di prendermi tutto il merito, Boss.”

Dazai passò gli occhi dall’uno all’altro. “Eri vecchio anche quando questo qua aveva la mia età?” Domandò, sfacciato.

Mori sbuffò, attraversando l’atrio per salire le scale. “Hirotsu non è affatto vecchio e questo qua ha un nome.” Non gli piaceva quando il quattordicenne aveva quei modi sgarbati. Avrebbe avuto a che fare con molte personalità importanti e Mori doveva assicurarsi che imparasse a usare quella lingua tagliente in modo costruttivo.

“Hirotsu, che ne dici di pensare al pranzo. Il sole si sta facendo alto.”

Dazai allargò le braccia. “Ho appena fatto colazione.”

“Hai mangiato una fetta di pane e mezzo,” ribatté Mori. “E non t’illudere che qualcun altro rimedierà al casino che hai fatto in cucina.”

Dazai gonfiò le guance.

Il leader della Black Lizard si alzò in piedi. “Qualche preferenza per il pranzo, Boss?”

Mori fece per rispondere.

“Granchio in scatola,” rispose Dazai, prima di lui.

Il Boss gli lanciò un’occhiata storta. “Qualsiasi cosa che non sia granchio in scatola andrà benissimo,” disse, guadagnandosi uno sguardo rancoroso dal ragazzino.

Prima di andarsene, Hirotsu chinò la testa in segno di rispetto, come sempre.

Una volta soli, Mori si sedette due gradini sotto quello di Dazai, guardandolo dal basso verso l’alto. “Era molto faticoso salire gli ultimi dieci scalini?”

Il quattordicenne assottigliò gli occhi. “Ero certo che sareste rientrati in cucina urlando.”

“Oh, non volevi perderti lo spettacolo. Capisco.”

“Era lui, vero?” Dazai non avrebbe smesso d’insistere, fino a che non avrebbe ottenuto una risposta. “Era la guardia del corpo di cui mi hai parlato.”

Mori fece il finto tonto. “Boh, non me lo ricordo.”

“Non mi hai mai mentito,” gli ricordò Dazai. “E hai detto che non avresti cominciato a farlo adesso.”

Mori si chiese quanto si sarebbe arrabbiato, se avesse scoperto quanto aveva omesso. “Sì, quell’uomo era la mia guardia del corpo.”

I lineamenti di Dazai si distesero. Era soddisfatto. “Non aveva un’aria sveglia.”

Mori scoppiò a ridere. “Devi applicare un filtro tra il tuo cervello e la tua bocca. Non puoi dire sempre quello che pensi.”

“Anche tu credi non sia un tipo sveglio.”

“Però ha anche dei difetti,” disse Mori, poi sospirò. “Non mi sono venduto per il potere,” disse, riportando entrambi alle ultime parole del Generale. “È importante che tu lo capisca.”

“Perché?” Domandò Dazai. “So che non fai quello che fai per il mero potere. Qualche volta, ho l’impressione che tu nemmeno voglia essere nella posizione in cui sei. Ho già capito, non mi devi spiegare niente.”

Mori non avrebbe dovuto sorprendersi di quanto era sveglio, eppure ancora gli capitava. “Non te l’ho mai chiesto, ma-“

“No,” lo bloccò Dazai. “No, non mi sono mai trovato nella posizione di dovermi vendere per sopravvivere. Beh, credo mi sarei lasciato morire e basta.”

Mori alzò gli occhi al cielo. “Oh, giusto…”

“Ti disprezzava per cose futili.” Dazai si riferiva al Generale. “Nulla che avesse a che fare con l’onore e l’orgoglio di cui parlava.”

“Grazie per aver applicato il filtro,” disse Mori, un poco divertito. “Ora dillo in modo esplicito.”

Dazai esitò un istante. “Gli faceva schifo vedere la Port Mafia guidata da una prostituta.”

Mori ridacchiò. “In breve, sì.” Si perse nei suoi pensieri per un istante, poi guardò il ragazzino dritto negli occhi. “A te non succederà mai.”

“Che cosa?”

“Nessuno ti toccherà senza il tuo consenso,” giurò Mori. “Non finché io avrò vita.”

Per la prima volta dall’inizio del loro strano legame, Dazai non seppe come replicare. “E adesso che cosa facciamo?” Domandò, cambiando completamente argomento.

Usò il plurale e Mori ne fu piacevolmente sorpreso. Forse inconsciamente, Dazai stava cominciando a dedicargli uno spazio nella sua vita che non fosse quello dell’intruso scomodo e noioso. 

Rifletté su una risposta da dargli, poi si ricordò della lettera piegata alla male e peggio nella tasca sul retro dei suoi pantaloni. Mentre la tirava fuori, Mori non aveva ancora un piano preciso, solo un’idea di cui non riusciva a tracciare i contorni.

Dazai scivolò di due gradini, arrivandogli accanto. “Non l’hai ancora buttata?” Domandò.

Il Boss non si disturbò nemmeno ad aprirla. Le parole che vi erano scritte non erano importanti, ma la firma di chi le aveva scritte, invece, sì.

Il tuo vecchio amico George. Lord Byron.

Mori sventolo la missiva come se fosse un ventaglio.

“A cosa stai pensando?” Gli fece pressione Dazai.

“Che Yokohama non è sicura.” Quella era un’ovvietà. “Non ancora.”

“Vuoi scappare?”

“No,” rispose Mori. “Voglio che smettiamo di essere il problema e diveniamo la soluzione.”

Dazai lo guardò fisso. “Lord Byron ti ha ispirato una soluzione?”

“Una successione come la nostra-“

Tua. Io ero solo lì.”

“-non può avvenire senza fare rumore. Se si punta al cambiamento, è necessario prendere in considerazione il caos.”

Dazai scrollò le spalle. “Hai ucciso tre dei vecchi Dirigenti in meno di un anno. Due di loro hanno tentato di far scoppiare una guerra interna alla Port Mafie e l’ultimo ha cercato di eliminarti. Direi che la fase del caos c’è tutta.”

Mori sfoderò il più furbo dei suoi sorrisi. “Allora partiamo con il cambiamento.”

“Come?” Dazai era esasperato da tanti giri di parole. “Ti sono rimasti due Dirigenti. Uno ti ha portato veterani dell’esercito disillusi e delle armi che coprono al massimo la Black Lizard. L’altro è Randou.”

“Povero Randou, non disprezzarlo così.”

“Per i tre posti vacanti rimasti, hai solo due candidati: Hirotsu e Kouyou. Nessuno dei due può aggiungere qualcosa a quello che hai già.”

“Arriva al dunque, che cosa ci manca?”

“Io devo arrivare al dunque?” Dazai si premette l’indice contro il petto. “Stai parlando da mezz’ora senza dire niente, quando è chiaro che hai già un piano in testa.”

E Mori si divertiva da morire a farlo. “La lezione è per te, non deludermi. Che cosa ci serve per concretizzare il cambiamento e promettere stabilità allo stesso tempo?”

Dazai impiegò dodici secondi a rispondere e, sì, il Boss li contò a mente uno per uno: “soldi.”

Mori smise di agitare la lettera, la piegò in quattro parti e la batté giocosamente sul naso del ragazzino, che si ritrasse. “E Lord Byron è uno degli uomini più ricchi di tutta la Gran Bretagna,” concluse, alzandosi in piedi. “Prepara le valigie, andiamo in Svizzera, a Ginevra!”




 

Fine Primo Atto





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Capitolo 8
*** VIII ***


0.2

 

Ernst Jünger era inquieto.

Il suo campo sorgeva a una cinquantina di chilometri da Colonia e aveva a sua disposizione abbastanza uomini da tenere il confine, ma erano sprovvisti di portatori di abilità. Di fatto, non stavano andando da nessuna parte.

Una striscia di fango, sangue e filo spinato divideva le forze tedesche da quelle francesi. Quest'ultime, inoltre, potevano godere dell’appoggio del vicino alleato Belgio. L’epica guerra - la Grande Guerra - tra semi-divinità, di cui già scrivevano i romanzieri e cantavano i poeti dell’età contemporanea, si era spostata più a sud. 

Ernst Jünger era l’unico possessore di abilità sul quel campo di battaglia, ma il suo potere non era utile in una strategia di attacco. La sconfitta di Parigi era stata troppo per il Governo di Germania. 

“Il Generale Jünger non si è dimostrato idoneo al compito assegnatogli.” Erano state le parole del portavoce del consiglio. “Per tanto, la Germania non lo ritiene più in grado di restare alla testa dell’Armata di Dotati di Abilità. Non verrà, tuttavia, privato del suo grado. Non appena il Consiglio di Guerra avrà valutato con attenzione la sua situazione, verrà riassegnato a un’altra armata, su di un nuovo fronte. Da oggi in poi, verrà tenuto all’oscuro di ogni piano top secret del Dipartimento Speciale.”

Ernst Jünger era stato mandato a combattere una guerra di trincea tra comuni esseri umani, dove gli uomini morivano come topi su entrambi i fronti ed erano più i proiettili sprecati che quelli che centravano un bersaglio vivo.

Se qualcuno avesse vinto la guerra non sarebbe accaduto lì e, soprattutto, non sarebbe mai avvenuto per sua mano. Per il suo orgoglio di uomo e di soldato non esisteva sconfitta e umiliazione peggiore. La storia si sarebbe ricordata di lui nel più pietoso dei modi e tutto per colpa di un moccioso di poco più di vent’anni, che si era rifiutato di usare il suo potere per decimare un’intera nazione.

Che Johann Goethe fosse maledetto, insieme ai suoi alti principi morali e alla sua puttana giapponese. Che bruciassero tutti e due all’inferno, insieme a quell’abominio che avevano messo al mondo. 

L’Arma di Weimar. Jünger sperava con ogni fibra del suo essere che il Governo di Germania prendesse quella bambina e ne facesse ciò che riteneva più utile per le sorti della guerra. Solo allora Johann Goethe e Mori Rintarou sarebbero stati dilaniati a sufficienza dagli eventi di quel conflitto, così come lo era ora lui.

L’aria della notte penetrava nella tenda gelida e fastidiosa, ma Ernst Jünger, seduto con gli stivali affondati nel fango, non sentiva il freddo, né i crampi della fame - era da un po’ che non mangiava. La sua barba si era fatta incolta e i capelli biondi erano unti e gli ricadevano scompostamente sugli occhi. L’immagine del soldato integerrimo era ormai un lontano ricordo. Andava avanti nel suo lavoro per pura inerzia, perché della Germania non gli importava sinceramente più nulla.

Al centro della sua scrivania, tra le mappe del campo di battaglia scarabocchiate con la posizione dei suoi soldati e quella dei nemici, saltava all’occhio una lettera che portava il sigillo dell’esercito tedesco. Era lì da almeno una settimana e, a causa dell’umidità, cominciava a ripiegarsi su se stessa. 

Jünger l’aveva letta una sola volta. Non era servita una seconda occhiata: il messaggio di poche parole era molto chiaro nel suo tragico significato. Forse avrebbe dovuto scrivere a sua moglie. Se lei lo aveva fatto, era probabile che le lettere fossero rimasta bloccate a Colonia e non c’era altro mezzo di comunicazione per raggiungerlo lì, dov’era.

La schietta e crudele verità era che a Jünger non importava più nulla nemmeno della donna che aveva sposato. La sola ragione per cui non estraeva la pistola e non si piantava una pallottola in testa era perché la sua natura di soldato glielo impediva. Le sostanze stupefacenti erano la sua unica consolazione, un vizio che aveva fatto suo ben prima che quel conflitto di dotati di abilità cominciasse. Era illegale, sì, ma gli permetteva di evadere dalla realtà quanto bastava per evitare di fare di peggio.

Certo, la Grande Guerra lo avrebbe ucciso, ma lo avrebbe fatto come si addiceva a un uomo del suo calibro: sul campo di battaglia.

Nella notte, giunse alle sue orecchie l’urlo di dolore di un uomo in lontananza. Doveva trattarsi di uno dei feriti o di qualcuno tornato alla realtà, dopo un incubo particolarmente violento. Il vento si fece più impetuoso e l’ingresso della sua tenda si aprì per pochi secondi, mostrandogli un’immagine veloce del campo silenzioso. Ma non vide solo quello.

Attirato dall’impressione di aver scorto qualcosa nel buio, il Generale Jünger sollevò la testa e aspettò che il vento sollevasse il tendaggio una seconda volta. Accadde: la figura si era fatta più vicina e, per il tempo di un respiro, Jünger riuscì a vedere i suoi occhi. Brillavano di una luce violacea.

“Rintarou…” Chiamò. 

Il giovane dai capelli corvini emerse dall’oscurità, facendo due passi all’interno della tenda. Jünger inspirò dal naso: nella notte, gli era parso un Demone e, invece, era solo un ragazzo. Quanti anni aveva? Forse venti. Jünger ricordava solo che era poco più giovane di Johann.

“Che cosa ci fai qui?” Domandò il Generale. 

Rintarou non rispose. Il suo viso non indossava nessuna espressione in particolare e i suoi occhi erano due pozzi neri, senza luce. Aveva addosso la divisa dell’esercito tedesco, ma era sporca di fango e sangue.

Per nulla interessato alle ragioni che avevano spinto quel giovane ad affrontare un viaggio da Weimar a Colonia, Jünger si alzò in piedi. “Ascolta,” disse, stancamente. “Come saprai, non sono più al comando dell’Armata Speciale e tutto ciò che concerne Johann non mi riguar-“

Forse per la stanchezza, forse per le sostanze chimiche che circolavano nel suo sangue, Jünger non vide Rintarou muoversi. No, sentì solo la lama che penetrava nell’addome, sul lato sinistro. 

“Quando ero bambino, mio padre mi raccontò che, un tempo, la nostra era una famiglia di samurai,” gli sussurrò Rintarou all’orecchio, come se gli stesse rivelando un segreto. “Forse è per questo che le lame mi affascinano più delle armi da fuoco.” Fece un passo indietro.

Jünger barcollò per un paio di metri in un misero tentativo di mettersi in salvo, poi cadde riverso sul terreno fangoso. Nella confusione accentuata dal dolore cercò l’elsa del pugnale, ma Rintarou fermò la sua mano tremante premendovi sopra il tacco dello stivale. Vi appoggiò tutto il peso del corpo e le ossa si ruppero con un sonoro crick.

Jünger emise un lamento gutturale e tossì sangue.

Rintarou storse la bocca in una smorfia contrariata. “Penso di averti preso il fegato, avrei dovuto pugnalarti più in basso. Perdonami, sono giovane e mi serve ancora tanta pratica.”

Sul terreno, Jünger si dimenava, cercando con la mano sana qualcosa che non c’era: la pistola era rimasta sulla scrivania. 

“Johann è morto,” disse Rintarou e un bagliore violaceo illuminò i suoi occhi scuri. “Mi hanno consegnato la sua testa. Il viso era deturpato. Non ho idea di dove sia il resto del corpo.”

Jünger apprese quella notizia con gioia. Nonostante il sapore del sangue in bocca, sorrise come un uomo completamente privo di ragione. 

Rintarou premette lo stivale vicino alla ferita che gli aveva inferto e il Generale urlò di dolore, sputando altro sangue, che si andò a mischiare col fango.

Il giovane dai capelli corvini s’inginocchio accanto alla sua testa. “Johann non è caduto in battaglia, ma è stato assassinato,” disse. “Sei tu il mandante?”

Jünger gli sputò addosso, ma riuscì solo a sporcargli la parte alta degli stivali col proprio sangue.

Rintarou alzò gli occhi al cielo. “Diciamo che sei tu il mandante, ma sei troppo snob per andarti a sporcare le mani in una maniera tanto macabra. No, a te piace dare ordini. Bene, a chi hai ordinato di uccidere Hans?”

Jünger rideva. La compostezza che lo distingueva era ormai andata al diavolo. La morte stava arrivando e il Generale le rideva in faccia, sprezzante.

“Avete pagato il prezzo per la vostra superbia, mocciosi,” sibilò, come un serpente velenoso. “Credevate davvero che il mondo avrebbe giocato secondo le vostre regole? Johann Goethe ha condannato se stesso nel momento in cui non ha decimato la Francia e i suoi alleati e ha trascinato nell’abisso anche te!”

Mori strinse le labbra, poi allungò la mano sull’elsa del pugnale, rigirando la lama nella carne. Jünger prese a urlare e dimenarsi, mentre altro sangue risaliva su per la gola.

“Sì, penso di averti preso il fegato,” disse Rintarou, spostandosi sopra di lui per tenerlo fermo. “Pazienza, non morirai velocemente comunque. Usa quell’inutile abilità che ti ritrovi e dimmi dove si trovano gli assassini di Hans,” ordinò, gelido. “Anche ammesso che tu non abbia nulla a che fare con questa storia, ne conosci senza dubbio i colpevoli.”

Non appena smesso di urlare, Jünger cominciò ad annaspare, come se gli mancasse aria.

“Piantala, i tuoi polmoni funzionano ancora benissimo.” Rintarou lo torturava con la stessa calma con cui avrebbe aperto un cadavere per la lezione di anatomia del giorno. Johann Goethe non aveva avuto il coraggio di massacrare una nazione, ma Mori Rintarou era nato per uccidere.

Da parte sua, Jünger non aveva più nulla da perdere ed era troppo pragmatico per sprecare tempo a invocare pietà. “Non vuoi sapere dov’è la piccola Elise, Rintarou?”

Qualcosa cambiò nello sguardo del più giovane. Il gelo si tramutò in fuoco e un nuovo bagliore violaceo illuminò quelle iridi scure. Jünger poteva avere una lama infilata nel fegato, ma il giovane Rintarou ne aveva una nel cuore.

“Ah, ti hanno portato via anche lei.”

Rintarou digrignò i denti, come una belva pronta a sbranare la sua preda. “Dimmi dov’è?” Gli bastò così poco per perdere il controllo.

Jünger glielo lesse negli occhi: l’assassinio di Johann passava in secondo piano, se c’era una possibilità di riavere sua figlia viva.

“Dimmi dov’è e ti sarà risparmiata l’agonia!” Urlò Rintarou. 

Era partito bene: freddo e controllato. Nel momento in cui Jünger aveva nominato ciò che amava di più al mondo, aveva smesso di essere l’assassino a sangue freddo per essere solo un giovane genitore disperato. 

“Vedi la lettera sulla mia scrivania?” Domandò Jünger.

Rintarou non si voltò nemmeno.

“È la comunicazione ufficiale dell’esercito che m’informa che mio figlio è morto in battaglia,” proseguì il Generale. “Era uno dei dispersi di Parigi, la sconfitta che Johann avrebbe potuto evitare, se avesse seguito la tua strategia fino in fondo. Ha tradito te, prima di tradire l’intera Germania!”

Rintarou non lo ascoltava. Lo afferrò per il bavero della divisa da soldato. “Dimmi dov’è Elise!”

Jünger allargò le braccia. “Il Governo mi ha chiuso fuori da tutte le missioni e tutti i progetti top secret. Sappiamo entrambi che puntavano a tua figlia da quando è nata.”

“Voglio sapere dove si trova!”

“Lo stai chiedendo al mio potere, Rintarou?” Domandò Jünger. “Ho il bel faccino d’angelo di tua figlia impresso in testa. Non importa dove si trovi in questo momento. Se è ancora viva, il mio potere potrebbe essere in grado di trovarla senza errori…” Una pausa crudele. “Se tua figlia non fosse l’abominio in grado di annullare tutte le abilità. È un’arma, Rintarou, e il suo destino è quello di cui tu e Johann avevate tanto paura e non c’è alcuna cosa che tu possa fare per-“

Rintarou non gli permise di aggiungere una parola di più. Afferrò l’elsa del pugnale e usò tutta la forza del braccio per spingerla in su, verso le costole. Jünger urlò come non aveva mai sentito urlare nessun essere umano. Quando non riuscì più a usare la voce, si contorse. Rintarou ebbe difficoltà a tenerlo fermo.

Quando sentì il polso destro tremare per lo sforzo, il giovane si aiutò con la mano sinistra. Il sangue zampillava in ogni dove: sul suo viso, sui suoi vestiti e sul terreno fangoso.

Andò avanti per quelle che parvero ore, ma furono pochi, terribili, minuti.

Quando si rese conto che Ernst Jünger non si muoveva più, Rintarou si fermò.

Sollevò la schiena, il fiato corto per lo sforzo e il corpo completamente indolenzito. Guardò quanto aveva fatto e non gli fece alcun effetto.

“Maledizione!” Urlò. Si sollevò in piedi e prese a calci il cadavere dell’uomo, fino a che non scivolò a terra, privo di forze. Ignorando il sangue sulle sue mani, infilò le dita tra i capelli corvini. Aveva la gola chiusa e stava per mettersi a piangere di nuovo. Il potere era lì, in fondo al suo petto e batteva veloce come il suo cuore. 

Rintarou non provò a sopprimerlo ma, al contrario, concentrò tutta la sua rabbia su di esso. Sollevò lo sguardo e lo rivolse fuori dalla tenda, verso la notte.

I suoi occhi scuri divennero un viola vibrante.

Un respiro più tardi, un bagliore dello stesso colore ridusse a pezzi tutto ciò che aveva intorno. 

Vite umane comprese. 



 

VIII
Secondo Atto


-12 anni dopo-


Mori svegliò Dazai di buon’ora e lo portò con sé al quartier generale della Port Mafia.

Quando varcò la porta dell’ufficio in cima al grattacielo principale, il quattordicenne non era ancora riuscito a liberarsi del tutto del sonno. Mori alzò le tapparelle elettriche senza nemmeno disturbarsi ad avvisarlo. Il sole che sorgeva inondò la stanza e Dazai fu costretto a stringere gli occhi e a coprirli con entrambe le mani.

“Mori!” Si lagnò ad alta voce. 

“Non abbiamo tempo da perdere,” disse Mori, quasi cinguettando. 

Era troppo presto per essere tanto allegri.

Irritato oltre l’inverosimile, Dazai lo spiò attraverso le dita aperte. “Pensavo non volessi più mettere piede qui,” disse. “Almeno per un po’.”

“Vero,” confermò il Boss, togliendosi sia il cappotto nero che la giacca per abbandonarli in modo sgraziato sopra la scrivania. “Ma dobbiamo preparare il tuo debutto in Europa e questo è il posto più sicuro per farlo.”

Dazai allontanò le mani dal viso, animato da un’espressione orripilata. “Il mio ?”

“Non puoi presentarti al cospetto di un Lord inglese con la maniere che hai.”

“Hai descritto quello stesso Lord inglese nel peggiore dei modi,” gli ricordò Dazai.

Mori si afferrò il mento, fingendo di non ricordare. “Dettagli,” disse, alla fine della recita. “Lui può essere un nobile decaduto, ma il trucco sta nel nascondere la nostra decadenza.”

Dazai allargò le braccia. “E io che ho a che fare con tutto questo?”

Mori si slacciò il bottone del polsino destro e arrotolò la manica fino al gomito, poi fece lo stesso con la sinistra. Il processo richiese tanto di quel tempo che a Dazai scappò uno sbadiglio. “Hai finito?”

Il Boss annuì, entusiasta come non mai. “Bene!” Esclamò. “Cominciamo.”

“Cosa?”

“Il tuo addestramento.”

“Il mio che?”

Mori sospirò. “Hai fatto qualcosa per distruggerti l’udito e non me lo hai detto?”

“Quando deliri, è difficile anche per me fingere di capire quello che dici,” rispose Dazai. Non solo il medico lo aveva svegliato con il cielo ancora scuro, ma ora pretendeva anche che partecipasse attivamente a qualunque diavoleria avesse in mente? Si sarebbe buttato dal tetto di quello stesso grattacielo, piuttosto.

L’allegria infantile di Mori finì lì. “Non ne abbiamo mai parlato,” iniziò, “ma tu odi la tua abilità, non è così?”

Dazai lo fissò con quella sua espressione un po’ inquietante, un po’ annoiata e totalmente disincantata. “L’intuizione del secolo,” rispose, sprezzante. “Non sono l’unico in questa stanza, per quel che ne so.”

“Nah!” Mori fece un gesto con la mano, come a dirgli di lasciar perdere. “Odiavo Vita Sexualis alla tua età, quando la subivo, invece di comandarla.”

“Il modo in cui la comandi non ha senso,” commentò Dazai. “Sprechi energie per parlare con una proiezione della tua stessa coscienza. Ridicolo.”

“Dazai, oggi non sono dell’umore per ignorare i tuoi insulti,” lo informò Mori. “Non esagerare: potrei perdere la pazienza.”

Il ragazzino alzò gli occhi al cielo. “Allora sii chiaro e dimmi perché mi hai buttato giù dal letto a quest’ora!”

“Oh, povero bambino, avevi sonno?” Lo prese in giro Mori, facendo un paio di passi in avanti. “La natura della mia abilità è complicata,” aggiunse. “Ma la tua…” Fece una pausa e sorrise. “Se avessi combattuto la Grande Guerra, non ci sarebbe stata storia: la nazione che avresti servito avrebbe vinto.”

Dazai storse le labbra in un ghignetto. “E perché avrei dovuto servire una nazione?”

“Vuoi la verità? Mi sorprende che qualche Governo non ti abbia trovato e cresciuto sotto una campana di vetro, di quelle da rompere in caso di emergenza.”

Dazai scosse la testa. “Perché dobbiamo fare questo discorso?”

“Perché l’ho rimandato troppo a lungo,” confessò Mori. “Ora ti dirò cosa ho capito della tua abilità e ti sarei grato se riempissi le lacune.” Sollevò il pollice della mano destra. “Uno, ogni abilità che entra in contatto fisico con te viene annullata, indifferentemente dalla propria natura o raggio di azione. Mettiamo che io voglia farti a pezzi come è accaduto con gli uomini del Generale, non riuscirei nemmeno a farti un graffio.” Seguì l’indice. “Due, tu non hai alcun controllo su questo processo. In breve: se il tuo potere avesse un interruttore, sarebbe perennemente acceso. Non sai direzionarlo. Non sai amplificarlo e, tantomeno, spegnerlo.” Infine, toccò al dito medio. “Tre, penso che gran parte della tua condizione psicologica sia dovuta proprio al dono con cui sei nato. Anche se tu non lo vivi come un dono, certo. Il motivo per cui percepisci te stesso come uno zero, l’incarnazione del nulla, è a causa di questa terribile potenzialità che hai… Almeno in parte.”

“Terribile?” Domandò Dazai. “È un’abilità invisibile. Nessuno la definirebbe terribile.”

“A parte te.”

Il quattordicenne sorvolò su quel punto. “Vuoi spingermi a controllare la mia abilità?” Intuì.

Mori scrollò le spalle. “Lo faccio per te!” Esclamò con aria drammatica.

Dazai non ci pensò due volte: si voltò e prese la direzione della porta. “Io me ne vado. Torno alla villa a piedi, non scomodarti. Magari c’è ancora in giro qualche uomo del Generale disposto a spararmi a vista!”

Mori appoggiò la schiena alla scrivania. “Tu hai il potere di far cadere le divinità.”

Dazai si bloccò con la mano sulla maniglia della porta e il Boss seppe di aver centrato il punto. “Te lo hanno già detto, non è vero?”

Il ragazzino esitò per pochi secondi, poi tornò a guardarlo. 

Mori sorrise, paziente. “È un modo di parlare tipico delle due generazioni che ti hanno preceduto,” spiegò. “Mi riferisco a quelle che hanno combattuto la Grande Guerra. Tu sai che si è trattato del primo conflitto tra possessori di abilità. Per i Governi che servivamo eravamo un’arma. La nostra utilità dipendeva da cosa eravamo capaci di fare, da quanto potevamo uccidere.”

“La mia abilità non uccide,” sottolineò Dazai

“La mia può farlo,” ribatté Mori. “A diciotto anni non sapevo usarla in quel modo. Non sono mai stato un soldato della prima linea per la Germania. Johann lo era.”

“Il tedesco con cui sei fuggito,” ricordò Dazai. “Quello che ha scritto quel taccuino di poesie per te.”

Mori annuì due volte. “Sai nulla della Battaglia di Parigi?”

Dazai si allontanò dalla porta lentamente. “So che i tedeschi arrivarono alle porte della città, probabilmente con un piano per far cadere tutta la Francia con un singolo attacco. Nei libri non ci sono i dettagli, c’è scritto solo che un violento e improvviso terremoto investì le truppe nemiche fuori Parigi e, di fatto, salvò la nazione.” Una pausa. “Che cosa avessero in mente i tedeschi per spingersi tanto in là e che cosa li abbia sconfitti in realtà non è dato saperlo in modo ufficiale. Per i più interessati esistono molte teorie a riguardo.”

Mori lo guardò con aspettativa. “E la tua qual'è?"

“Chi ti dice che abbia perso tempo a crearmene una?”

“Dazai, ti conosco, accettalo.” Disse Mori, piegando le labbra in un sorriso intenerito. “Non sei uno storico, certo. Quando però la tua mente è posta davanti a un problema, elabora una soluzione quasi in modo automatico. È la maledizione dei geni, facci l’abitudine.”

Dazai inarcò le sopracciglia. “Stai dando del genio a me o a te stesso?”

Mori scrollò le spalle. “Se non fossimo entrambi neurodivergenti, non staremmo qui a parlare.” Era un commento molto da medico. “Quindi?” Lo incalzò. “Qual è la tua teoria?”

Dazai inspirò dal naso, come se si stesse rassegnando al fatto che non era lui a condurre il gioco. “Credo che i tedeschi avessero tra le mani il potere di commettere un genocidio o qualcosa di altrettanto grande,” rispose. “A Parigi devono averlo capito. Non so quando, non so come. So solo che tutto ciò che era fuori la capitale è stato raso al suolo, provocando moltissime vittime francesi. È stata un’azione disperata.”

Mori annuì. “Stai dando per scontato che quel terremoto non fosse naturale,” dedusse.

Dazai sbuffò. “Quale idiota lo crederebbe? La Germania ha mandato avanti un possessore di abilità dal potenziale altamente distruttivo e la Francia si è difesa giocando la stessa carta, a costo di perdere le vite di molti civili. Quello che non ha senso è il tempismo.”

“Vai avanti,” disse Mori.

“Perché i tedeschi hanno esitato?” Domandò Dazai. “I francesi non hanno avuto informazioni sul piano nemico per tempo, altrimenti avrebbero evacuato le zone che poi hanno distrutto con le loro mani. Immagino che l’attacco della Germania fosse iniziato, ma qualcosa deve averli fermati… Ed ecco perché i francesi hanno ricorso a una strategia tanto disperata.”

Mori piegò le labbra in un sorriso malinconico. “La gentilezza di un animo umano,” disse. “È una variante a cui gli storici non pensano mai. Quel giorno, fece la differenza.”

Dazai sgranò gli occhi e si diede dell’idiota per non esserci arrivato prima. “Tu eri lì.”

Mori annuì. “Hai ragione quando parli delle intenzioni della Germania. Beh… Si può dire che hai ragione su tutto, in realtà.”

Il quattordicenne rifletté velocemente. “Johann era quello a dover commettere quel genocidio,” concluse. “Alla fine, non ha avuto la forza di farlo, non è così?”

Mori non rispose ma la sua espressione bastò a dare al ragazzino la conferma che gli serviva.

“E tu…” Riprese il Boss. “Tu avresti potuto annullare tutto. Ogni cosa. Se fossi stato lì, né Johann né il francese che ha provocato il terremoto avrebbero potuto fare niente. Niente. Capisci la portata del potere che hai, adesso?”

Dazai scosse la testa. “Io non sono in grado di agire su larga scala in quel modo.”

“Ed è per questo che siamo qui,” disse Mori. “Le abilità si possono manipolare, bisogna solo esercitarsi a fa-“

“Non ci pensare neanche!” Urlò Dazai. “Se pensi che me ne starò qui a farmi addestrare come un soldato, ti sbagli di grosso!” Quegli occhi scuri ardevano d’ira.

Mori si era aspettato delle obiezioni, ma una risposta tanto violenta non era riuscito a prevederla. “Ho bisogno che tu sia capace di difenderti da solo,” disse con voce quasi gentile. Aveva bisogno che il ragazzino ragionasse.

Dazai rise e fu un suono spiacevole. “Ancora non lo hai capito?” Domandò, esasperato. “Vivere non m’interessa. Essere ucciso è uno dei miei desideri più grandi, mi risparmierebbe un sacco di seccature!”

Mori esaurì la distanza tra loro, torreggiando su di lui in modo minaccioso. “Ti ho già detto di non farmi arrabbiare, Dazai. Questo non è un gioco.” Non era il metodo giusto da usare, lo sapeva. Tuttavia, non sapeva in che altro modo agire. Aveva visto Dazai arrabbiato, ma questa volta era diverso. 

Il quattordicenne ingoiò a vuoto ma non abbassò lo sguardo, “Bene, non mi piace giocare,” disse. “Hai detto che Byron non ha un’abilità, giusto? Se decidesse di spararci addosso, la mia sarebbe completamente inutile!”

“Questo è vero, ma-“

Ma niente!” Quella di Dazai non era semplice rabbia, era ira pura.

Suo malgrado, Mori sapeva che se era difficile ragionarci in situazioni normali, figurarsi in quel modo. Tra l’altro, non poteva prenderlo a schiaffi e obbligarlo ad annullare tutte le abilità presenti nel quartiere. 

Abort Mission. 

Ma c’era una cosa che Mori aveva bisogno che Dazai sapesse. “Byron non deve sapere della tua abilità per nessun motivo. È chiaro?”

Dazai non si disturbò a indagare sulle ragioni di una simile richiesta. “E come Diavolo potrebbe mai scoprirla, se non ne ha una? Piuttosto, preoccupati di tenere quella ridicola incarnazione della tua coscienza lontano da me!” Sbottò. “Se qualcosa può tradirci, è solo quella!” Si voltò una seconda volta, dirigendosi verso la porta a passo di marcia. “E non seguirmi!”

Mori finse di sentirsi minacciato. “E dove vorresti andare, di grazia?”

“Vado di sotto a sparare su un bersaglio, immaginando che sia tu!” Tuonò Dazai. “Se riesco a colpirlo, ci sono buone possibilità che possa difendermi con un’arma. Sicuramente mi sarà più utile delle tue geniali idee!” 

“Dovresti trovarle un nome,” aggiunse Mori, con voce calma. “Alla tua abilità, intendo.”

“Vai al diavolo, Mori!” Dazai se ne andò sbattendo la porta.





 

L’aria di marzo era pungente e gli feriva il viso, sebbene non vi fosse molto vento. Più che essere alle porte della primavera, sembrava che stesse per arrivare una bufera di neve. In quella stagione dell’anno, non sarebbe stata la prima volta. Mori ricordava nitidamente l’immagine dei ciliegi in fiori sposarsi con quella della città di Yokohama completamente ricoperta da una coltre di neve.

In quel momento, mentre scendeva dall’auto che si era fermata direttamente a lato della pista di decollo, una perturbazione era davvero l’ultima cosa di cui aveva bisogno. Il jet privato della Port Mafia era di un nero lucido. Di quale altro colore avrebbe mai potuto essere? Mori apprezzava la coerenza, ma cominciava a sentirsi annoiato da tutto quel monocromo.

“Che cos’è l’arma di Weimar?” La voce di Dazai lo raggiunse dall’interno dell’auto. Aveva freddo e non si era azzardato a fare una mossa verso la portiera dal suo lato per scendere. Da quel loro litigio nell’ufficio del Boss, il ragazzino aveva preso a leggere libri su libri riguardanti la Grande Guerra. 

Mori accennò un sorriso, accontentandosi del fatto che avesse scelto un libro in autonomia per intrattenersi da solo. 

“Era un’arma scoperta dal Governo della Germania, poco dopo l’inizio della guerra,” rispose, rivolgendo lo sguardo alla sua città. I cinque grattacieli neri erano visibili anche a quella distanza. Lo stavano salutando o lo deridevano per la sua codardia?

Dazai che gli afferrava la manica e tirava lo distrasse da quel pensiero infantile. “Sì, ma che significa?”

Mori prese un respiro profondo: erano appena le cinque del mattino, si erano svegliati con la luna ancora alta e quel ragazzino, risaputamente pigro, aveva voglia di fare conversazione. 

“Nessuno lo sa con esattezza,” disse. “Quando ero un soldato, nel mio ambiente si vociferava che solo quella sarebbe bastata a porre fine alla guerra.” 

Oramai Dazai gli sedeva accanto, tanto vicino che la spalla gli toccava il fianco. “E perché non è stata usata?” 

Se fosse stato meno stanco, Mori avrebbe maledetto il destino per aver guidato l’attenzione del più giovane proprio su quel particolare capitolo della storia della Grande Guerra. Era anche il meno interessante, composto più da congetture che da fatti reali.

“È andata perduta,” tagliò corto. “Il Governo tedesco lo aveva reso un progetto top secret, ma la Grande Guerra fu combattuta più dalle spie che dai soldati sul campo. Per quel che ne sappiamo, alla fine del conflitto poteva anche trovarsi in Russia.” Non aveva altro da dire a proposito.

Per sua fortuna, Dazai richiuse il libro e lo guardò dal basso. “Sai che questo aereo non subisce un’adeguata manutenzione da anni?”

Mori non lo guardò in faccia, perché sapeva che lo avrebbe visto sorridere con aspettativa e non era il caso di cominciare quel viaggio dando uno schiaffo al braccio destro che non aveva chiesto di avere. “Hirotsu mi ha informato,” si limitò a dire.

“Sai quante possibilità abbiamo di schiantarci e morire tragicamente?” L’allegria nella voce di Dazai era una provocazione.

Mori aveva imparato a capirlo e faceva tutto quello che era in suo potere per ignorarlo. La verità era che, trentadue anni o meno, era un infantile patentato anche lui e quando lo punzecchiava in quel modo, Dazai sapeva benissimo quello che faceva.

“Se ci schianteremo,” disse Mori, sadico, “spero che accada sulla cima di una montagna, dove recuperarci sarà pressoché impossibile. E spero che tu sia l’unico a sopravvivere, così sarai costretto a scegliere se morire di fame - e, credimi, è una dipartita molto dolorosa - o cibarti di cadaveri.” Abbassò lo sguardo solo a quel punto: Dazai non sorrideva più, anzi lo guardava con disprezzo.

“Potrei prenderti la pistola e spararmi in testa,” ribatté il quattordicenne. 

“Se ti rompessi le braccia e le gambe nello schianto, non ci riusciresti.” Mori condì quella possibilità di dettagli sempre più macabri. “Pensaci. Da solo, immobilizzato, impossibilitato a fare qualsiasi cosa, a parte aspettare la morte. Quanto pensi che soffriresti?”

Dazai assottigliò gli occhi. “Ti odio.”

Mori sbuffò. “Quando ti porterò a morire in qualche modo macabro e doloroso, allora ti darò il permesso di odiarmi,” replicò. “Ma, mi duole dirtelo, stiamo andando a Ginevra, in una ridente villa dispersa tra le montagne che circondano la città.”

“Ah, come l’inizio di una storia horror dalle atmosfere gotiche.”

“Scendi dall’auto,” disse Mori, secco. “E allacciati quel cappotto. Fa freddo, non ho alcuna intenzione di passare tutto il nostro soggiorno all’esterno a sentire te lamentarti perché hai il naso che cola.”

Per mettere piede sulla pista di decollo, Dazai lo spintonò da un lato. Mori si ritrovò solo a fare un passo verso destra, ma la tentazione di afferrarlo per il bavero del cappotto e sbatterlo con la schiena contro l’auto fu tanta.

“Siete sicuri di voler partire da soli, voi due?” Domandò Kouyou, scendendo dallo sportello anteriore, lato del passeggero. Aveva insistito per dormire in clinica e fare l’alzataccia con loro. 

“Pensi davvero di poter andartene senza salutarmi ai piedi della scaletta del jet?” Aveva domandato Kouyou, fingendo un’aria tragica, come se fosse una moglie che lascia partire l’adorato marito per la guerra.

Mori la guardò, mentre si stringeva nel suo cappotto blu scuro, adornato da un collo di pelliccia azzurra. “Dazai, vai a controllare che Hirotsu non abbia bisogno di aiuto con i bagagli,” disse al quattordicenne fermo al suo fianco, indicando il mezzo nero con un cenno del capo. 

Dazai gli lanciò un’occhiata eloquente. “Se vuoi restare solo con lei, basta che me lo dici,” borbottò e si avvicinò all’uomo con il monocolo, impegnato a dirigere il carico dei bagagli nella stiva.

Mori non riuscì a tenersi l’insulto per sé. “Piccolo, moccioso di mer-“

“Di che cosa volevi parlarmi?” Domandò Kouyou, serafica, aggrappandosi al suo braccio, come se fossero davvero una coppia sposata.

Il Boss della Port Magia decise di non girarci troppo intorno: infilò la mano nella tasca interna della giacca e ne tirò fuori una busta piena di soldi. Quando la porse alla giovane donna, l’espressione di lei si fece subito oscura. “Oh, adesso mi paghi?” Domandò offesa. “Eri l’unico uomo a non averlo ancora fatto.”

“Stai mal interpretando il gesto,” disse Mori, gentilmente, ma le strinse il braccio sotto il proprio per evitare che si allontanasse. 

“Cos’è?” Domandò Kouyou. Non lo guardava più negli occhi. “Il mio anticipo come nuovo Dirigente?”

“Vuoi che lo sia?”

Lei lo trafisse con lo sguardo. Per una volta, non rise in faccia alla sua proposta “Smettila con questo gioco,” disse. “Non puoi scegliere i tuoi Dirigenti solo seguendo i tuoi gusti personali. A tal proposito, dovresti smetterla di molestare Hirotsu.”

“Ma perché tutti mi date del molestatore o del maniaco?” Domandò Mori, esasperato. “Per la cronaca, se non ritengo una persona degna di stima e fiducia, non ha senso dargli una poltrona al mio tavolo.”

“Sì, ma io non posso aiutarti a rendere la Port Mafia più forte di quella che è,” ribatté Kouyou. “E quella che hai ora è un’organizzazione che non sopravviverebbe a nessuna guerra. Vuoi il mio sincero pensiero? Se al posto tuo, ci fosse stato chiunque altro, quei cinque grattacieli non avrebbero retto tutti i contraccolpi interni dovuti alla tua ascesa.”

“Proprio per questo devi prendere questo denaro,” insistette Mori, sollevando la busta sotto il naso di lei. “L’Europa è un altro mondo. Ginevra è lontana. Randou e il Colonello reggono il forte in mia assenza, ma in caso qualcosa vada storto…” Lasciò la frase sospesa.

Fu il turno di Kouyou di sbuffare. “Ti credevo un realista, non un pessimista.”

“Sono un realista,” confermò. “E, realisticamente, qualcuno potrebbe approfittarsi della mia assenza per fare qualcosa. Nel caso questa eventualità si verifichi, non posso salvare tutti, solo quelli di cui m’importa.”

Kouyou guardò l’offerta di denaro con reticenza, poi gli angoli della sua bocca si sollevarono un poco. “Allora non è vero quello che dicono,” prese la busta e la nascose nella sua borsetta. “Se t’importa di qualcuno, non puoi essere un Demone.”

Mori lasciò andare un risatina. “Anche il cuore dei Demoni batte, di tanto in tanto…” Guardò Dazai starsene al fianco di Hirotsu. Il veterano gli spiegava qualcosa che il Boss non poteva sentire, ma il ragazzino lo ascoltava con interesse.

Tornati a casa, avrebbe chiesto a Hirotsu di passare più tempo con Dazai. Era certo che potesse insegnargli cose della Port Mafia che al Boss stesso sfuggivano.

“E se l’eventualità peggiore si verificasse?” Domandò Kouyou, timorosa.

Mori le sorrise, rassicurante. “L’Europa è molto più di una casa per me, mia cara,” disse. “È la mia tomba. So come muovermi. Nel peggiore dei casi, le nostre strade s’incontreranno ancora. Ho già dato istruzioni a Hirotsu. Nel prossimo futuro, resterai con lui. È stata la mia guardia del corpo all’inizio di un conflitto mondiale e so che può dare l’impressione di un uomo che non ha mai messo piedi fuori dalla sua città, ma non ha nulla da invidiare a una spia internazionale, credimi.”

Kouyou annuì distrattamente, ingoiando a vuoto. Ricacciò indietro alcune lacrime galeotte e guardò Mori dritto negli occhi, come se quella fosse l’ultima volta. “E se l'eventualità peggiore si verificasse,” ripeté, “che cosa ne sarà di lui?”

Non c’era alcun bisogno di chiedere a chi si riferiva.

I bagagli erano tutti a bordo e il portellone della stiva si chiuse.

Hirotsu e Dazai si voltarono nello stesso momento, ma gli occhi scuri del Boss della Port Mafia furono tutti per il ragazzino.

“Lo porterò con me,” rispose, fermamente. “Qualunque cosa accada.”

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Capitolo 9
*** IX ***


0.3

 

Mori scivolò fuori dal letto senza far rumore. Raccolse una delle due camicie finite a terra: la più grande. Mentre la infilava, lanciò un’occhiata al suo amante addormentato. Era in quei momenti che realizzava quanta fiducia Fukuzawa Yukichi riponeva in lui - sebbene il Lupo d’Argento ci tenesse a sostenere tutto il contrario - perché nessun ex Spia governativa del suo calibro si sarebbe addormentata tanto profondamente nel letto di un principe della malavita.

Principe.

Quel nomignolo gli faceva alzare gli occhi al cielo e, al contempo, lo faceva sorridere con aria nostalgica. C’era stato un tempo in cui si era sentito tale, prima di Hans, della Germania e della Grande Guerra. Poi era cresciuto e si era accorto che i principi, anche quelli neri, esistevano solo nelle favole.

Scese in cucina a piedi scalzi, prese due calici dalla credenza e aprì una bottiglia di vino rosso. Quando risalì, lo fece lentamente, stando attento a dove metteva i piedi. Non era abitudine di Mori fare quelle carinerie. Era cresciuto nel lusso, anche se i suoi genitori gli aveva insegnato a non dare nulla per scontato e la vita glielo aveva fatto provare sulla propria pelle nel peggiore dei modi. Gli piaceva essere viziato.

Fukuzawa non era quel genere di uomo.

Dire che c’era del romanticismo tra loro era pura follia.

Quella sera, Mori era solo felice di sapere che Fukuzawa Yukichi si sarebbe presentato al suo fianco alla festa di gala della Port Mafia e voleva celebrare l’evento in qualche modo, oltre al sesso.

S’infilò dentro la porta della camera da letto lasciata socchiusa, ma Fukuzawa era già stato svegliato dal posto vuoto accanto a lui. “Vino?” Domandò, assottigliando gli occhi azzurri.

“Vino,” confermò Mori, sedendosi in fondo al letto, mentre l’amante si accomodava contro i cuscini. La camicia che il mafioso aveva addosso gli impediva di sentire freddo sulle spalle ma, in realtà, non copriva nulla e gli andava benissimo così.

“Sai che non reggo bene qualsiasi alcolico all’infuori del sakè," disse Fukuzawa, accettando il suo calice di malavoglia.

“Meglio così,” disse Mori, appoggiando la schiena a una delle colonne di legno del baldacchino. “Se il vino ti sale alla testa, posso approfittarmi di te per un’altra piacevole mezz’ora.”

A Fukuzawa piaceva il sesso, era solo troppo timido e ben educato per essere passionale. Mori era tutto il contrario. Era stato cresciuto in una famiglia tradizionale, malavitosamente parlando, ma questo non gli aveva impedito di lasciare il suo paese a quindici anni per seguire il suo primo amore.

Ci aveva pensato la scuola della vita a indurlo a restare coi piedi per terra e smettere di avere la testa persa tra le nuvole. Tuttavia, nulla, nemmeno il tempo passato a prostituirsi alla Casa dei Fiori, aveva convinto Mori che dividere il letto con una persona non aveva come scopo primario il divertimento reciproco. Al diavolo la buona educazione!

“Sei di buon umore,” commentò Fukuzawa, abbandonando il suo calice di vino sul comodino dopo appena un sorso.

Mori scrollò le spalle. “Mi piace fare il complicato, ma in realtà sono molto semplice: i miei desideri si realizzano e sono felice.”

“Ci tieni così tanto che venga a quel ballo?”

“Non è propriamente un ballo. La fai sembrare una cosa da secolo scorso.” Il medico prese un sorso di vino. “È un evento di gala. Quando ero un ragazzino, io e le mie sorelle restavano a guardare mia madre prepararsi per ore. Loro erano convinte che lei e nostro padre andassero a uno di quei balli, come li chiami tu, ma con le carrozze, i cavalli, i castelli dalle alte torri bianche… Ricordo la delusione di Hasu, la più grande, quando si rese conto che le torri bianche in questione erano solo i grattacieli neri che vedevamo tutti i giorni.” Gli sfuggì un sorriso nostalgico. “Sto di nuovo parlando da solo,” concluse, bevendo altro vino.

Fukuzawa inarcò il sopracciglio destro. “Da solo? Io sono proprio qui.”

“Già…” Mori si sporse verso destra, posando il suo calice a terra. Scivolò sulla coperta fino a sedersi a cavalcioni del suo amante. “Noi manteniamo l’equilibrio di questa città nell’ombra, senza che nessuno lo sappia. Poi ci nascondiamo in questa villa, lontano dalla Yokohama che tanto diciamo di amare e ci perdiamo in sesso e ricordi.”

Fukuzawa posò il palmo aperto su una delle cosce nivee. “Che cos’è che non ti torna?”

“Un tempo, avresti definito un simile legame pericoloso.”

“Un tempo, avevo una fidanzata,” gli ricordò Fukuzawa.

Mori rise. “Ah, giusto, la fanciulla senza nome.”

“Ce l’ha un nome, ma tu insisti a dimenticarlo.”

“Perché ricordare qualcosa di tanto superfluo?” Mori sapeva tutto della relazione tra Fukuzawa e quella fanciulla di buona famiglia. Se Natsume Soseki non li avesse messi insieme, forse sarebbero convolati a giuste nozze nel giro di qualche anno.

Invece, ecco che un principe nero si era infilato in mezzo a rovinare la bella favola della poverina. 

“Perché l’hai lasciata?” Domandò Mori.

Fukuzawa non gli rispose, si limitò a lanciargli uno sguardo eloquente. 

E il medico rise. “Sei un uomo troppo onesto, Fukuzawa Yukichi.”

“No, non lo sono,” ribatté l’uomo dai capelli chiari. “Se lo fossi stato, l’avrei corteggiata come si conviene, l’avrei sposata e poi avrei fatto tutto il resto.”

Mori storse la bocca in una smorfia disgustata. “Ti prego, il sesso tra due verginelli non è divertente.”

“Sì, me lo ha detto anche lei.”

Mori sbatté le palpebre un paio di volte. “Prego?”

“Quando l’ho lasciata, adducendo al fatto che le mie scelte lavorative non si sposavano bene con le aspettative di lei, ci ha tenuto a informarmi che il sesso con me era una cosa disastrosa.”

Se Mori fosse stato un uomo con un poco di sensibilità, se ne sarebbe rimasto in silenzio. Invece, rise in faccia al suo amante senza ritegno. “Il sesso è come la guerra,” disse, sporgendosi al punto d’appoggiare la fronte a quella dell’altro. “Tutti bravi a dichiararsi amanti e soldati e, alla fine, solo in pochi lo sono davvero.” Posò un bacio a stampo sulle labbra della sua guardia del corpo. “Ciò non toglie a nessuno la possibilità d’imparare.”

“Mi accusò di avere un’amante,” aggiunse Fukuzawa, sollevando la mano per arrotolare una ciocca corvina intorno all’indice.

Mori corrugò la fronte e cercò di ricollegare tempi ed eventi. “Quando siamo divenuti amanti, eravate ancora una coppia?” Ci mancò poco che si mettesse di nuovo a ridere.

“Mi disse che aveva notato delle differenze.”

“Nel sesso?”

“Nel sesso,” confermò Fukuzawa. “Di colpo, riuscivo a farla venire.”

Per un attimo, Mori non seppe che cosa dire, poi lanciò un’occhiata al calice sul comodino. Era mezzo vuoto. “Va bene, sta parlando il vino.”

L’espressione imperturbabile di Fukuzawa non lasciava intravvedere nulla, ma doveva essere piuttosto alticcio. Mori si appoggiò alle spalle dell’amante per farsi più vicino. “Mi stai confessando che sono il tuo maestro nell’arte del piacere, Fukuzawa Yukichi?” Il pensiero lo riempiva di un’intima soddisfazione.

Fukuzawa gli prese il viso tra le mani e il modo in cui lo guardò… Mori non seppe come descriverlo, seppe solo che era troppo

Saltò giù dal letto e allacciò un paio di bottoni della camicia per darsi un minimo di contegno. Sapeva bene che, in breve tempo, si sarebbe ritrovato di nuovo completamente nudo, steso al centro di quel letto a baldacchino, con Fukuzawa tra le gambe. Ma, sì, era venuto il momento di tornare con i piedi per terra e prendere le dovute distanze di sicurezza da un qualcosa che - se lo ripeteva spesso - non era più in grado di provare.

“Come sta il tuo ragazzino?” Domandò Mori, afferrando il calice che aveva lasciato a terra e avvicinandosi alla finestra. Il paesaggio non gli interessava davvero e nemmeno di avere informazioni sull’orfano che Fukuzawa aveva preso sotto la sua custodia. Alle volte, in cuor suo, Mori desiderava che sparisse. Si era convinto che quel moccioso - nemmeno ricordava il suo nome - fosse l’unico ostacolo insormontabile tra Fukuzawa e quello che Mori desiderava diventassero.

“Ha quattordici anni ed è un inferno starci in compagnia,” rispose Fukuzawa, abbandonandosi completamente contro i cuscini del letto.

“Quattordici anni…” Mori ridacchiò, notando che i cinque grattacieli erano visibili anche da lì, oltre il mare di alberi. “Quando sono volato in Germania con Hans, avevo solo un anno più di lui.”

Nel riflesso del vetro, vide Fukuzawa scuotere la testa. “I suoi quattordici anni e i tuoi non possono essere paragonati.”

“Perché io sono un figlio della Port Mafia e lui no?”

“Perché lui è un genio dell’intuizione quando gli pare e poi non riesce ad attraversare da solo un tornello della metro.”

Con il calice di vino premuto contro le labbra, Mori si voltò a guardarlo. “Ah…” Commentò. “È quel tipo di genialità.”

Fukuzawa lo fissò speranzoso. “Se la capisci, fammi uno schema. Abbiamo dei seri problemi di comunicazione.”

“Nah!” Mori rise. “Avete dei seri problemi di comunicazione perché ha quattordici anni. Passerà.”

“Adesso sei esperto di genitorialità?”

“Se me lo avessero permesso, lo sarei.” Quando Mori si rese conto di aver parlato, era troppo tardi per tornare indietro.

Fukuzawa lo guardava fisso, immobile, quasi avesse paura di muoversi. Sapeva, da uomo di guerra, di essere stato spinto su un terreno minato. Qualunque mossa avesse fatto, sarebbe stata quella sbagliata.

Mori sospirò, tornò vicino al letto e appoggiò il calice sul comodino, prima di stendersi tra le coperte. “Io e Hans abbiamo avuto una bambina,” confessò. Quando tornò a guardare l’amante in faccia, gli occhi azzurri di Fukuzawa erano ancora fissi su di lui. Lo aveva ammutolito.

Mori sorrise. “Perché mi guardi così?” Domandò. “Lo sai come va qui: sesso e ricordi. Questo è solo un capitolo della mia storia che mi sono dimenticato di raccontarti.”

“Dimenticato?”

“Oh, il gatto non ti ha mangiato la lingua.”

“L’hai…” Fukuzawa chiuse la bocca e ci pensò. “Insomma, sei stato tu a-“

Mori lo derise. “Vieni a letto con me da tempo. Conosci il mio corpo e cosa la mia abilità può fare,” gli ricordò. “Sai anche che sei l’unico, dopo Hans, a cui ho concesso di prendermi sotto quella forma.”

Fukuzawa aprì e chiuse la bocca un paio di volte. “Tu mi…” Fece difficoltà a dirlo esplicitamente. “Tu mi lasci venire dentro. Tutte le volte.”

Mori rise in modo esagerato. “Dovresti vedere la tua faccia!”

“Rintarou, sul serio…”

“Sai che mi piace, quando mi vieni dentro.”

“Sì, ma non credevo che tu-“

Mori si sporse verso di lui, premendogli l’indice contro le labbra. “Non sono più un ragazzino di diciassette anni,” disse. “So come evitare simili incidenti. Al tempo, nemmeno io credevo di poter dare alla luce una vita.”

Fukuzawa si rilassò. “Avevi diciassette anni?” Solo tre in più di Ranpo.

“A diciassette l’ho concepita e a diciotto l’ho partorita,” raccontò Mori, appoggiandosi alla sua spalla. “È nata durante la prima estate della guerra. Ha quasi dieci anni, ormai.”

Fukuzawa intuì che aveva bisogno di sentirlo vicino, così appoggiò la guancia tra quei capelli corvini. “Dove si trova?”

Mori scosse la testa. “Non ne ho idea,” rispose, senza nessuna particolare intonazione. “Me l’hanno portata via quando aveva due anni.”

“Quando hai perso anche Hans,” ricordò Fukuzawa. “Quando hai ucciso Jünger e hai deciso di lasciar morire Mori Rintarou.”

Il medico annuì lentamente. “Hai mai sentito parlare dell’arma di Weimar?”

Fukuzawa fu preso in contropiede da quella domanda. “Nessuno sa con esattezza se fosse una leggenda di guerra o un progetto top secret.”

“Era molto reale,” disse Mori, gli occhi scuri persi nel vuoto. “Tanto reale che l’ho tenuta tra le braccia.”

A quel punto, Fukuzawa Yukichi riuscì a porre solo una semplice domanda. “Come si chiama?”

Un sorriso triste graziò le labbra di Mori. “Elise…”




 

IX



 

-4 anni dopo-


Mori Ougai venne svegliato da una turbolenza. Si era addormentato con il viso appoggiato al pugno chiuso, la tempia contro il vetro dell’oblò. All’esterno, vi era una distesa di nuvole, il cielo era incendiato dalle luci del tramonto. Non sapeva quante ore fossero passate dal decollo né quante ne mancassero per arrivare a destinazione. 

Aspettò di tornare completamente presente a se stesso per alzarsi e andare a chiedere informazioni al pilota. Un peso contro la spalla lo fece desistere.

Accanto a lui, anche Dazai si era addormentato e, nel sonno, era scivolato dalla sua parte, fino ad appoggiarsi completamente a lui. Il ragazzino se ne stava con le ginocchia strette al petto e il cappotto lo copriva a mo di coperta.

Non era la migliore delle posizioni in cui riposare, eppure Dazai dormiva profondamente. Mori poteva capirlo dal ritmo del suo respiro. Gli sarebbe bastato muoversi un poco per destarlo e liberarsi di quel fardello che, pur sotto peso, gli stava facendo addormentare il braccio destro.

Decise di non farlo. 

No, non era corretto. 

Non fu un vero e proprio atto di volontà a convincere Mori a rimanere immobile. Semplicemente, il suo sguardo si posò sul giovane viso addormentato e ne restò incantato. L’esperienza gli aveva insegnato che la fisionomia dei volti cambiava enormemente in due occasioni completamente ordinarie: durante il sonno e dopo la morte. Quella metamorfosi, tuttavia, non aveva lo stesso aspetto su tutti.

Durante la sua adolescenza, prima che la Grande Guerra gli portasse via tutto, Mori Rintarou aveva passato notti intere a cercare di memorizzare ogni dettaglio del viso addormentato di Johann Goethe, mentre giaceva accanto a lui. E ci era riuscito.

Quando si era ritrovato tra le mani la sua testa mozzata, non aveva avuto dubbi sull’identità del morto, ma in quell’orribile maschera già in stato di decomposizione non era riuscito a ritrovare nulla del suo Hans.

In quel preciso momento, mentre Dazai gli dormiva addosso, Mori non vedeva altro che il bambino di quattordici anni, quello che credeva di essere stato partorito dall’oscurità stessa. Di sicuro, le ombre lo avevano nutrito fin dalla tenera età, tanto da sottrarre alle sue iridi scure ogni barlume di speranza o di nostalgia per un passato felice. C’erano delle volte in cui Mori Ougai aveva paura di studiare quegli occhi, che tanto gli ricordavano i propri, per paura di essere inghiottito dall’abisso che contenevano e che era ben più profondo e pericoloso di quello che il Boss stesso celava dentro.

Mori Rintarou era morto a vent’anni tra atroci sofferenze, ma aveva amato ed era stato amato. La vita lo aveva maledetto, ma questo non gli aveva impedito di scrivere la sua storia a testa alta, fino alla tragica fine.

Qualcuno aveva abbracciato Mori Rintarou e, lontano dal calore del sole, qualcun altro aveva fatto lo stesso anche per Mori Ougai. Per Dazai Osamu non c’era mai stato nessuno.

Mori aprì e chiuse le dita della mano sinistra, come se l’arto fosse intorpidito e dovesse recuperarne la sensibilità. In realtà, era solo mosso dall’indecisione.

Sarebbe bastato un niente per allungare una carezza tra i capelli di Dazai. Un gesto di affetto di cui Mori Ougai non si era ritenuto capace per molto tempo e che il ragazzino, da sveglio, avrebbe rifiutato categoricamente. Eppure, ora che Morfeo gli rivelava le vere fattezze di quel Demone fanciullo, che aveva fatto chinare la testa anche al più vecchio Dirigente della Port Mafia, Mori avvertiva qualcosa da tempo dimenticato. Sul momento, non seppe neanche dargli un nome preciso. In fondo alla sua coscienza, Dazai stava pian piano occupando un ruolo che non aveva nulla a che fare con la Port Mafia in sé. Lo stesso che aveva cercato di far interpretare a Elise. 

Mori si rendeva conto solo ora della portata del suo fallimento. 

Ora non siamo più soli, aveva detto la sua bella bambina dai capelli dorati.

Questo era il potere che Dazai aveva, inconsapevolmente, su Mori: lo privava della solitudine dietro cui si era barricato e lo spingeva a disprezzarla.

Non era una questione di presenza fisica o il fatto che Dazai, da solo, rappresentava un lungo catalogo di preoccupazione che mai lo avevano sfiorato prima. Era qualcosa di più profondo, intimo, che non aveva conosciuto né con Hans né con Fukuzawa.

Quando Mori cercava gli occhi di Dazai e il ragazzino rispondeva al suo sguardo, sapeva di avere davanti qualcuno come lui. 

Alla fine, il Boss della Port Mafia si convinse a sollevare la mano sinistra. 

Forse svegliato da un incubo, Dazai si drizzò di colpo, prima che l’uomo potesse sfiorargli i capelli. Mori riadagiò il braccio lungo il fianco, facendo finta di nulla.

Il ragazzino si umettò le labbra un paio di volte, il tempo necessario per ricordare dov’era e perchè, poi lo guardò. “Siamo arrivati?” Domandò, col tono di un moccioso impaziente e petulante.

Mori ricacciò indietro tutte le sue riflessioni profonde per alzare gli occhi al cielo, sinceramente seccato. Il quattordicenne non aveva proferito parola fino a ora. Tempo di pronunciarne due e Mori già rimpiangeva il silenzio. “Non cominciare,” si lamentò.

Dazai lo guardò malissimo. “Cominciare cosa?” Domandò, spazientito. “Non ho neanche parlato.”

“Bravo, continua a rimanere in silenzio e non tediarmi.”

“Perché sei di cattivo umore?”

“Non sono di cattivo umore,” ribatté Mori, evidentemente di cattivo umore. 

“Bah…” Dazai scrollò le spalle, voltando lo sguardo verso gli oblò dal lato opposto del jet. “Fai un po’ come ti pare, non m’interessa.”

I fatti erano semplici: Mori Ougai era affetto da una certa allergia ai sentimenti, che lo rendeva irritabile. E Dazai era molto bravo a toccare tutti i suoi nervi, sia quelli scoperti che non. 

“Fai qualcosa di utile,” disse il Boss della Port Mafia in tono più cortese. “Vai a chiedere al pilota a che punto siamo.” Suonava come una richiesta, ma era un ordine.

Dazai sbuffò. “Non ho voglia di alzarmi.”

“Non m’interessa se hai voglia o meno.”

“E a me non interessa che a te non interessi.”

“Giochiamo a rimpiattino con le parole, adesso?”

Dazai gli lanciò un’occhiata eloquente. “Abbiamo mai fatto altro?” Qualcosa lo portò ad abbassare lo sguardo. Aggrottò la fronte. “Che cosa sono quelli?”

Mori impiegò una decina di secondi per comprendere che gli stava fissando i piedi. “Ah, questi!” Sollevò la gamba destra orgoglioso, mostrando lo stivale in stile militare. “Ti piacciono? Ne ho messi un paio per te anche in valigia. Ci sarà quasi sicuramente la neve sulle montagne fuori Ginevra e-“

“Sono orribili,” commentò Dazai, secco. “Dove li hai ritrovati, in fondo al tuo vecchio baule della guerra?”

“Io non ho nessun baule della guerra,” disse Mori. “Casomai si dice li hai trovati sul fondo dell’armadio, quando ci si vuole riferire a qualcosa di vecchio.”

“Quelli non sono vecchi, sono da guerra,” insistette Dazai. “Erano della tua divisa?”

Mori scosse la testa, annoiato dall’ennesima discussione inutile tra loro ma di cui non riusciva mai ad avere l’ultima parola. “Ne avevo due. Quella tedesca e quella giapponese. Non so nemmeno che fine abbiano fatto.” Non era vero. Le aveva bruciate entrambe. “In ogni caso, sono comodi e belli. Al diavolo quelle scarpe di vernice!” Esclamò. “Mi hanno distrutto il tallone!”

Dazai lo giudicò con lo sguardo, poi a parole: “quando torneremo a casa, andrai in ufficio così?”

Mori assottigliò gli occhi, minaccioso. “Chi saresti per darmi consigli di stile?” Domandò, sarcastico. “Quando avevo quattordici anni, nemmeno mio padre m’imponeva di vestirmi come vai in giro tu. E ho sempre pensato che fosse un tipo da giacca e cravatta fin dalla culla.”

Dazai fece una smorfia, come a dire che non gli fregava nulla del suo giudizio. “Almeno io non vado in giro con gli stivali da cavallerizzo.”

“Non sono da cavallerizzo!” 

“Sai andare a cavallo, almeno?”

“Sì, ci so andare… Ma cosa centra adesso?”

“Non lo so,” ammise Dazai, soprapensiero. “Mi sto preparando psicologicamente a te che cavalchi con aria drammatica per i sentieri coperti di neve, sulle montagne fuori Ginevra.”

Mori aprì e chiuse la bocca un paio di volte: la scena appena descritta dal ragazzino poteva essersi verificatasi un paio di volte, anni prima, in compagnia di Hans. Non lo avrebbe confessato al moccioso neanche sotto tortura, ma un po’ lo disturbava il modo in cui Dazai aveva imparato a conoscerlo.

Animato da grande maturità, il Boss della Port Mafia fu svelto a sferrare il suo contrattacco. “Adesso che mi ci fai pensare. George aveva dei bellissimi cavalli a Ginevra. Se non li ha venduti per i debiti, t’insegno-

“No.”

“Non hai possibilità di scelta.”

“Se minaccio di far imbizzarrire un cavallo volontariamente per cadere e rompermi l’osso del collo, ce l’ho eccome.”

Mori fissò Dazai e il ragazzino fissò il Boss.

Quello scontro di sguardi andò avanti, fino a che l’adulto decise di smorzare l’atmosfera e mettersi a ridere. “Inciampi da seduto,” disse, divertito. “Non si tratta di condotta suicida, sei goffo e sbadato e basta. Metterti in sella a un cavallo non è la migliore delle idee. Non arrivi nemmeno a cinquanta chili di peso, potresti rimbalzare via.”

Dazai non lo ascoltava. Era tornato a fissare gli stivali, oggetto principale di quella conversazione. “Non hanno neanche la zip,” notò. “Come hai fatto a infilarci dentro i pantaloni?” Domandò, perplesso.

“Quante possibilità ci sono che te ne stia zitto a leggere un libro, fino a che non atterriamo?”

“Molto basse,” ammise Dazai, innocentemente. “Annoiarti mi diverte più che leggere.”

Suo malgrado, Mori Ougai dovette confermare a se stesso che, sì, erano uguali.

E questo lo faceva sentire sollevato e condannato al tempo stesso.




 

All’aeroporto di Ginevra, un’auto nera li venne a prendere direttamente sulla pista di atterraggio. Nonostante il suo esilio dall’Olimpo dei dotati di abilità, George Gordon Byron sembrava essere ancora in possesso di tutto quello che gli serviva per attirare l’attenzione di un’organizzazione oscura, ancora sofferente per una successione burrascosa e con le casse vuote.

Mori non conosceva l’autista che aprì la portiera a lui e Dazai, invitandoli a mettersi comodi. Notò subito che era giovane, troppo per aver combattuto la guerra, forse anche per ricordarla. Era solo, ma non si lamentò della fatica che fece a caricare tutti i loro bagagli. Al contrario, quando salì in auto, chiese scusa per averli fatti aspettare tanto.

“Nessun problema,” disse Mori con un sorriso cordiale, in francese. 

“La ringrazio.” Il ragazzo gli lanciò un breve sorriso attraverso lo specchietto retrovisore. Sì, confermò il Boss a se stesso, era molto giovane, al massimo l’età di Kouyou. Dal modo in cui si muoveva e da come portava i vestiti - il nodo della cravatta era tutto storto - essere l’autista di Byron non era il suo mestiere. 

Mori fu svelto a fare due più due e non si sorprese del risultato. Mentre il giovane sollevava il vetro a specchio che divideva i sedili posteriori dal posto guida, il Boss della Port Mafia guardò il quattordicenne seduto alla sua destra. “Che mi dici?” Domandò.

Dazai, che aveva appena premuto il tasto start di un videogioco scaricato sul cellulare, alzò gli occhi al cielo e ripose l’apparecchio nella tasca del cappotto: se Mori voleva fare di quel viaggio in auto una lezione, era inutile tentare di far qualsiasi altra cosa.

“Riguardo?” Domandò. 

Mori sospirò. “Ti sei distratto.”

“A quanti fusi orari di distanza da casa siamo?” Dazai allargò le braccia. “Essere ipervigilante non è una mia caratteristica. È tipica dei sopravvissuti alla guerra, guarda un po’.”

“Non è vero,” ribatté Mori. “Lo sei anche tu. Devi esserlo diventato a causa del luogo in cui sei cresciuto e che ti ha convinto ad amare tanto la vita.”

Dazai lo guardò storto. “Non fare il simpatico. Non ti riesce.”

“Vero…” Mori si aggiustò contro il sedile di pelle nera. “Avanti, fammi un’analisi.”

Dazai s’imbronciò, ma la sua risposta arrivò meno di dieci secondi dopo: “non è un autista di professione,” disse, secco. 

“Bene.” Mori annuì, ma voleva i dettagli. “Che altro?”

“È nervoso. Il nodo della cravatta è al contrario: qualcuno l’ha stretto per lui e l’ha fatto guardandolo in faccia. È un errore stupido.”

Mori scrollò le spalle. “Non è un sicarico. Probabilmente andava di fretta e aveva il padre a portata di mano.”

“Si richiede impeccabilità ad autisti di questo calibro.”

“Ma il ragazzo non è un autista. Quindi, che cosa ci fa qui?”

Fu il turno di Dazai di scrollare le spalle. “Lavoro semplice, pagato esageratamente,” concluse. “Sono certo che per la cifra che riceverà, l’autista si dimenticherà di noi in men che non si dica. E, siamo onesti, se Byron deciderà di prenderci in ostaggio, le nostre foto segnaletiche non arriveranno ai canali ufficiali. Questo ragazzo non saprà mai cosa ne è stato di noi e un cittadino qualunque è più difficile da rintracciare di un professionista. Nemmeno la Port Mafia riuscirebbe ad arrivare a lui.”

“Se la chiave è non lasciare tracce, chi gli ha dato il lavoro?” Domandò Mori.

“Probabilmente lo stesso tipo anonimo che ha consegnato la lettera a Hirotsu,” rispose Dazai. “O qualcuno della ristretta cerchia dei Byron.”

Mori annuì. “Il buon caro vecchio George non vede l’ora di averci come ospiti,” disse. “Eppure, si premura che nessuno in città sappia del nostro arrivo.”

“A Yokohama lo sanno,” ribatté Dazai. “In ogni caso, abbiamo le spalle coperte.”

Mori si fece serio. “Non è così semplice,” disse. Per la prima volta dall’inizio della lezione, il quattordicenne alzò gli occhi scuri sul suo maestro.

“Svizzera… Giappone…” Mormorò Mori. “Non sottovalutare la distanza politica tra il luogo in cui siamo e quello da cui veniamo. A dispetto di quello che un idealista potrebbe credere, ai Governi non piace toccarsi. E noi, in quanto membri della Port Mafia, siamo invasori su terra europea in tutto e per tutto.”

“Mi stai dicendo che il nemico è in ogni angolo, escluso Byron?”

“Ti sto dicendo che siamo su di un campo minato,” disse Mori. “Un campo minato su cui qualcuno ha voluto farci arrivare. Quando abbiamo chiesto il permesso di atterrare, nessuno ha obiettato. Ci stavano aspettando.”

“Non è la prassi?”

“Mi spiego meglio: stavano aspettando il Boss della Port Mafia in persona.” Mori sorrise, diabolico. “In una circostanza diversa, ci avrebbero dirottato o le cose sarebbero state più complesse. Invece, no, qualcuno ci vuole qui.”

Qualcuno che non è Byron,” concluse Dazai. 

“Esattamente.”

Gli occhi del quattordicenne si tinsero di curiosità. “Per riassumere: siamo ospiti segreti di un Lord, che è oggetto d’interesse per qualcuno dall’alto, magari un membro delle Nazioni Unite stesse.”

Mori aggrottò la fronte. “Su questo non sono sicuro di poterci scommettere.”

Dazai sbatté le palpebre un paio di volte. “Spiegati meglio.”

“Certamente Byron ci vuole qui e, altrettanto certamente, questo qualcuno vuole che siamo suoi ospiti.” Il Boss prese a battere l’indice sul mento. “Ma chi dei due è il vero obiettivo? Il leader della Port Mafia appena salito in carica o l’esiliato George Gordon Byron?”

Dazai ridacchiò. “E perché non entrambi?”

Mori si voltò a guardarlo: l’idea di finire in un fuoco incrociato divertiva quel ragazzino più di qualsiasi altra cosa al mondo. L’uomo scrollò le spalle: aveva tutta la libertà di fantasticare sulla sua dipartita, ma aveva tirato fuori un punto di vista molto interessante.

Byron era una pedina o un giocatore?

Mori era il fine ultimo o qualcos’altro?

Non era una trappola: Byron era troppo ricco e troppo disperato e l’Europa cosa ci ricavava a usarlo come specchietto per le allodole per arrivare a lui, Mori Ougai?

No, decise il Boss, massaggiandosi la fronte, stava solo vedendo troppo a fondo in qualcosa che, conoscendo Byron, doveva essere scontata e superficiale.

Il pensiero, di certo, non turbava Dazai, che aveva cacciato fuori dalla tasca il suo cellulare per riprendere la partita al suo videogioco.

Come era prevedibile, il ragazzino si annoiò in fretta.

Lasciò cadere il cellulare sul sedile e decise di dare un’opportunità al paesaggio fuori dal finestrino. Con il gomito sul poggiabraccia, Mori non guardava fuori, ma lui. Osservava il modo in cui la luce esterna giocava sul suo viso, mettendo in risalto alcuni linearmenti, rispetto ad altri. Quando qualcosa lo interessava, lo vedeva sporgersi e anche il Boss tentava di fare lo stesso, per capire che cosa aveva attirato la sua attenzione.

Un’ora dopo, il paesaggio urbano venne sostituito da quello delle montagne e cominciarono a salire. Dazai si massaggiò l’orecchio destro un paio di volte, ma non se ne lamentò. Mori dedusse che era per la pressione. La loro destinazione era lontana dalla città e piuttosto sopra il livello del mare. Più salivano e più i cumuli di neve ai bordi della strada si facevano alti.

“Sembra che quassù sia una stagione diversa,” commentò Dazai, osservando il paesaggio farsi sempre più bianco.

“Ti avevo avvertito di mettere gli stivali,” disse Mori, divertito, sollevando il piede destro per mostrare le proprie calzature.

Dazai lo giudicò con una smorfia. “Tu, da solo, sei abbastanza ridicolo per tutti e due.”

“Cielo, che lingua tagliente che hai, Dazai.”

“Come se non lo sapessi…” Ma c’era qualcos’altro di cui il ragazzino voleva parlare. “Tu pensi che finiremo in un fuoco incrociato?”

“Non confondere i miei pensieri con le tue speranze,” lo ammonì Mori. “Se pensi che ti abbia trascinato in una trappola mortale, ti sbagli di grosso.”

“E come fai a essere così sicuro?” Domandò Dazai, annoiato da tutta quella autostima basata sul niente. Suo malgrado, Mori Ougai rimaneva l’uomo che aveva fatto sua la Port Mafia con relativa facilità, ma che non riusciva a far partire la lavatrice. Lì, tra le montagne di Ginevra, come a Yokohama, Dazai lo guardava e non lo comprendeva affatto. 

“Piuttosto,” aggiunse il ragazzino, prima che il Boss potesse rispondere. “Perché non ti è venuto il dubbio che ci fosse qualcuno dietro Byron già a Yokohama?” Domandò. “Perché tirarlo fuori ora che siamo qui, in terra straniera?”

“Una risposta alla volta,” disse Mori, sollevando l’indice. “Primo, ho sospettato del coinvolgimento di una terza parte nel momento in cui Hirotsu mi ha descritto l’uomo che gli ha recapitato la lettera.”

“Non poteva semplicemente essere un cane di Byron?” Ipotizzò Dazai.

“No.” Mori scosse la testa, sicuro. “Ha parlato a Hirotsu come se lo conoscesse. Nessuno dei Byron può vantare tanta familiarità con lui.”

Dazai lo fissò. Assottigliò gli occhi, quasi volesse scrutargli dentro. “Tu sai chi è la terza persona coinvolta.”

Mori allargò le braccia. “È solo un’intuizione.” Più una speranza, pensò, ma non serve che tu lo sappia.

“Fammi indovinare: qualcuno dei tempi della guerra?” Domandò Dazai.

“Questa non ti vale nessun punto,” lo informò Mori. “Sai benissimo che ero un soldato e non è difficile immaginare che dei miei compagni d’armi siano divenuti agenti governativi.”

“Ciò non risolve il quesito finale,” disse il quattordicenne. “Chi è il vero obiettivo?” Domandò. “Tu o Byron?”

Mori non gli rispose. Sul suo viso comparvero delle sfumature che Dazai aveva visto raramente e comprese che la situazione era più intricata di quel che credeva. “È qualcosa di personale?” Domandò, annoiato.

Mori batté l’indice sulla punta del naso del ragazzino, fino a che questi non si fece indietro. “Bravissimo.”

Di colpo, Dazai sentì il bisogno di aprire la portiera e di buttarsi dall’auto in corsa. “Tu pensi che ci sia un Agente governativo dietro a Byron e speri che sia Johann G.?”

“Nessuno avrebbe potuto avvicinare Hirotsu in quel modo,” disse Mori. “Ha fatto di tutto per non farsi riconoscere, ma non ne sono sicuro.”

“Johann G. ti ha fatto avere una lettere firmata da Byron.” Più i pezzi venivano fuori e meno Dazai riusciva a farli combaciare. “Byron vuole la gloria all’interno di un’organizzazione che guarda il mondo dall’alto in basso ed è disposto a pagare per averla. Johann G. che ha da guadagnarci in questa storia?”

Mori scrollò le spalle. “Forse l’Europa non vuole che l’ultimo discendente di una delle sue famiglie più importanti, seppur un emarginato, si accosti alla Port Mafia.”

“Allora perché darti la lettera?” Dazai stava perdendo la pazienza. “Mori, ti volevano qui! Non importa se per volontà di Byron o di Johann G. qualcuno ti voleva qui per uno scopo!”

“Esattamente…” Rispose Mori, rilassato.

Dazai lo detestò per quel suo atteggiamento da superiore. Il Boss della Port Mafia se ne stava lì a sorridergli, convinto che tutti i pezzi presenti sulla scacchiera si sarebbero mossi solo e unicamente a suo comando. Se avesse detto che quell’uomo non aveva mai fatto errori di calcolo, Dazai avrebbe mentito, ma si era risollevato ogni volta senza versare una goccia di sudore - ma diverse di sangue.

La pietà per il Generale e la sua successiva dipartita erano l’esempio più lampante.

Ma c’era una cosa che Dazai non riusciva proprio a sopportare: “non mi stai facendo giocare.” 

Mori lo aveva relegato a ruolo di scacco e non di co-giocatore.

L’espressione del Boss della Port Mafia si fece più gentile. “Non sei nemmeno sulla scacchiera,” gli assicurò. “Sei qui,” appoggiò la mano sui venti centimetri che li dividevano, “accanto a me.”

“E cosa faccio?” Domandò Dazai, annoiato. “Resto a guardarti giocare con il tuo ex amante e un emarginato della Torre dell’Orologio?”

“Farai quello che fanno tutti i bambini,” rispose Mori. “Guarda e impara.”

L’auto prese una curva a gomito con un po’ troppa velocità. Mori fu svelto a reggersi, ma Dazai si schiantò contro il petto del Boss. 

“Un primo consiglio,” disse quest’ultimo. “Impara a prevedere i cambi di direzione improvvisi e non avere paura di prenderli.”

Dazai si sollevò a sedere. Il paesaggio si era aperto e la luce contro la neve era quasi accecante. Stavano costeggiando un lago ghiacciato. 

“Siamo quasi arrivati,” disse Mori, premendo l’indice contro il vetro per indicare una costruzione che si vedeva a stento, sulla sponda opposta. “È proprio come la ricordavo.”

“Sembra l’illustrazione di un libro di favole,” commentò Dazai, mentre la villa si faceva sempre più vicina.

“La prima volta che sono stato qui, vi era neve ovunque proprio come adesso,” raccontò Mori. “Ho avuto il tuo stesso pensiero, poi siamo entrati e ci siamo ritrovati nel bel mezzo di un evento che era un po’ un rave e un po’ un’orgia.”

Gli occhi scuri di Dazai divennero enormi, disgustati. “Aspetto fuori,” disse, secco. “Congelerò. È un buon modo di morire.”

Mori fece un gesto con la mano, come a dire di lasciar perdere. “Al tempo, Byron era famoso per offrire ai giovani della buona società divertimenti che poco si sposavano con l’etichetta. Era il suo biglietto da visita, il suo modo per avere un posto in un mondo che non gli sarebbe mai appartenuto davvero.”

“Non ti ci vedo in un contesto simile,” ammise Dazai.

“Infatti, rimasi nella mia stanza per la maggior parte del tempo e Johann impiegò diverso tempo a farsi perdonare.”

“Ho letto le sue poesie,” disse Dazai. “Non lo facevo un tipo da orge e rave.”

“Non lo era,” confermò Mori. “Non credo che sia una cosa che tu possa capire: non hai il carattere adatto. Non fraintendermi: non lo avevo neanche io. Per farla breve: tutti parlavano delle feste alla villa di Byron, tra le montagne di Ginevra, come una di quelle esperienze da fare almeno una volta nella vita. Fu per stupidità giovanile - e forse un po’ di curiosità - che accettammo. Le uniche parentesi piacevoli furono i brevi momenti di sobrietà collettiva, in cui il dialogare diveniva l’attività principale.”

“E a te piace tanto dialogare.”

“Ce ne andammo appena la neve ce lo permise,” concluse Mori. “Se vidi Byron in altre occasioni, non lo ricordo.”

Dazai inarcò le sopracciglia. “Byron ti ha cercato facendo appello a un incontro per nulla piacevole avvenuto quindici anni fa?”

Per me non fu piacevole,” sottolineò Mori. “Beh… Quando era del tutto in sé, era un giovane interessante, ma non provai mai per lui quello che voleva.”

Dazai aprì e chiuse la bocca un paio di volte, poi si lasciò cadere contro il sedile con aria drammatica. “Non bastava la guardia del corpo a Yokohama,” borbottò. “Ora mi trascini anche in un fuoco incrociato tra un tuo ex amante e un Lord che aveva una cotta per te.”

“Non sono certo che Johann sia coinvolto, te l’ho detto.”

“Ma Byron, sì!” Esclamò Dazai. “E farà di tutto per parlare dei vecchi tempi, di quanto erano belli e di come sono andati perduti e… Merda, voglio morire.”

“Linguaggio ragazzino,” lo ammonì il Boss della Port Mafia.

Un istante dopo, l’auto si fermò. “Bene,” disse Mori, allacciandosi il cappotto fino al collo. “Siamo arrivati. Sei contento?”

L’occhiata scura che Dazai gli lanciò fu una risposta più che sufficiente. 




 

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Capitolo 10
*** X ***


 

0.3


C’era stato un tempo in cui vedere quei cinque grattacieli neri da ogni angolo di Yokohama lo aveva fatto sentire al sicuro. Crescendo, erano divenuti il simbolo della gabbia dorata in cui era costretto. Li aveva odiati al punto che era fuggito dall’altra parte del mondo per dimenticare. Non c’era riuscito. 

A quindici anni, aveva lasciato quella città a testa alta, pronto a dimostrare a chiunque che il figlio maledetto dei Mori non aveva ragione di temere il mondo. Forse, al contrario, il mondo avrebbe imparato a temere lui.

Tre anni dopo, Rintarou ripensava a quel ragazzino e provava sincera invidia per tutta la forza d’animo con cui aveva ribaltato completamente la propria posizione.

Aveva freddo - l’inverno non era mai gentile a Yokohama - ed era stanco - suo padre aveva chiesto e preteso che se ne andasse dalla città nel cuore della notte, lontano da occhi indiscreti - e non era certo se casa fosse quella che stava lasciando per la seconda volta o quella a Weimar, in Germania, da Hans.

In Europa c’era la guerra ma lì, nella sua città natale, di sicuro non regnava la pace.

Non c’era più un posto sicuro, non per Mori Rintarou.

Nel buio della sala, il rumore dei tacchi lo raggiunse prima della voce della sua accompagnatrice. “Buon compleanno.”

Rintarou sbatté le palpebre un paio di volte, poi allontanò gli occhi scuri dalle luci di quei cinque grattacieli maledetti per incontrare quelli gentili della propria madre. La donna che lo aveva cresciuto, non quella che lo aveva messo al mondo.

“È passata la mezzanotte,” spiegò Mori Hasu[1], rimanendo in piedi al suo fianco. “È il diciassette febbraio. Auguri per i tuoi diciotto anni, tesoro.”

“Grazie,” disse Rintarou, ma il sorriso che le rivolse non raggiunse i suoi occhi.

Hasu non ne fu sorpresa, ciò non le impedì di dispiacersi. “Io e tuo padre abbiamo pensato a questo giorno per tanto tempo, sai?” Si sedette accanto a lui. 

Il giovane scrollò le spalle. “Perché dovrebbe essere un compleanno diverso dagli altri? È solo un numero, un anno in più.”

“Non hai mai mostrato timidezza nel celebrare te stesso, Rintarou.”

“Un sacco di cose a cui davo importanza non ne hanno più.”

Hasu sorrise, comprensiva. “È esattamente questo di cui parlo,” disse. “Sei diventato grande. Diciotto può essere solo un numero, ma per un genitore fa un certo effetto quando è accostato all’età del proprio primogenito.”

Rintarou scivolò contro lo schienale del suo posto, assumendo una posizione decisamente più sgraziata. “Ci sono altri tre diciottesimi compleanni nel vostro futuro. Il mio non è poi un evento così unico nella nostra famiglia.”

“Lo è,” insistette sua madre. “Io e tuo padre ci emozioneremo anche per le tue sorelle, ma tu sei il primo. Tu sei e sarai sempre il primo.”

Rintarou non sapeva davvero come replicare a quell’affermazione. Non aveva ricevuto più o meno amore delle proprie sorelle. Era solo stato il figlio più propenso a dare preoccupazioni e gli ultimi eventi non facevano che confermare quel tipo di condotta. “Me ne sono andato di casa a quindici anni. Non credo che la mia maggiore età vi abbia fatto realizzare di colpo che sono diventato grande,” disse. “Piuttosto, credo che il punto dolente sia sapere che il vostro primo figlio avrà presto un bambino.”

Hasu sollevò una mano per giocare coi suoi capelli e il ragazzo la lasciò fare. “Non chiamarlo punto dolente.”

“Mamma, per favore-“

“Io e tuo padre siamo qui, Rintarou,” lo interruppe lei, ferma. “Il timore con cui sei tornato a casa è più che comprensibile, ma non esitare mai più a chiederci aiuto. Il tuo bene e quello delle tue sorelle sono la nostra prima priorità.”

Rintarou abbassò lo sguardo, fissando la punta delle proprie scarpe. “Papà non mi vuole qui.”

“Non è vero e lo sai.”

“Allora c’è qualcosa che non va.” Rintarou strinse i pugni. “Perché tutta questa segretezza? Perché questo muoversi in silenzio, quasi in punta di piedi? Di che cosa avete paura?”

Sua madre gli aggiustò una ciocca di capelli corvini dietro l’orecchio. “È meglio per te restare insieme a Goethe.”

“Hans sta combattendo una guerra mondiale, mamma,” ribatté Rintarou. “Il fatto che l’Europa sia il centro di tutto non significa che il resto del globo resterà sicuro. Non esiste un qualcosa che sia meglio per me. È esattamente il contrario. È tutto sbagliato!”

“Rintarou.” Hasu fece scivolare la mano sulla nuca del figlio, spingendolo a guardarla negli occhi. “Il potere di Goethe può fare la differenza in questa storia. Inoltre, anche se tuo padre non lo considera un punto a suo favore, è il padre del tuo bambino e la persona che hai scelto per te. È giusto che stiate insieme.”

“Non ho mai detto che non voglio stare con Hans,” replicò il più giovane. “Vorrei non dover fare questa cosa con lui o con voi. Vorrei solo che tu e papà foste sinceri con me.”

“Non abbiamo nulla da nascondere.”

“Avete nascosto me. Perché?”

Hasu si umettò le labbra. “Non sei un ingenuo, Rintarou.”

No, non lo era e proprio per questo aveva bisogno di risposte esaustive e non di quei continui messaggi tra le righe a cui non riusciva a dare una degna interpretazione. “Che cosa sta succedendo alla Port Mafia?” Aveva fatto la stessa domanda a suo padre e non era servito a niente.

La sua speranza era che sua madre fosse meno evasiva.

Ma i coniugi Mori erano sempre stati in grado di portare avanti un ottimo gioco di squadra. Non si sarebbero traditi mai, nemmeno di fronte a uno dei loro quattro figli. “Il tuo Hans starà bene,” lo rassicurò sua madre, anche se non glielo aveva mai chiesto. “Se insieme siete riusciti ad avere la meglio su tuo padre, una guerra non è poi così difficile d’affrontare.”

“Non è divertente, mamma.”

“So benissimo che non lo è, tesoro. Vuoi che ti dica che avrei voluto qualcosa di diverso per te? Se ami Goethe e lui ti ama, non c’è veramente nulla su cui posso obiettare. Avrei voluto qualcosa di diverso per me e tuo padre, questo sì. Perdonaci, Rintarou, è solo l’egoismo di due genitori che avrebbero voluto vederti diventare grande ed essere felice sotto i loro occhi e non dall’altra parte del mondo.”

Rintarou artigliò la stoffa del cappotto nero. Era grato che fosse inverno perché i vestiti gli permettevano di celare qualcosa che già si vedeva, ma che non era pronto a condividere col mondo. Forse non lo sarebbe mai stato. 

Come aveva detto Hasu, Rintarou non era timido e attirare gli sguardi gli veniva naturale come respirare. Suo figlio era una cosa diversa, che era disposto a condividere solo con Hans e le persone che considerava famiglia.

“Non preoccuparti, mamma,” disse, pensieroso. “Il karma saprà come punirmi.” 

“Non vederla così. Penso che gli errori dei genitori servano a spingere i figli a diventare migliori di loro.”

Rintarou strinse la mano di Hasu e si rese conto di quanto era piccola, rispetto alla propria. Un tempo, stupidamente, aveva associato il concetto di diventare grande a quello di libertà. L’esperienza gli aveva insegnato che era completamente il contrario. Il cuore del giovane Mori era diviso in due: da una parte, vi era la nostalgia per i giorni in cui i suoi genitori lo tenevano per mano e tanto bastava a farlo sentire al sicuro; dall’altra vi era il desiderio di fare lo stesso con suo figlio e il timore di non riuscire a dargli quello che aveva ricevuto lui.

“Immagino che il commettere errori vada di pari passo con l’essere un genitore che fa il meglio che può,” disse Rintarou. “So di essere stato arrabbiato con voi per un po’. Eppure, se avete fatto degli errori, ora non me li ricordo più.”

Perché era diventato grande, perché aveva imparato a vedere tutto in prospettiva. Perché ora la libertà non era una fuga dall’altra parte del mondo, ma la possibilità di stare con chi amava, senza che nessuna minaccia invisibile - come qualunque cosa stesse succedendo all’interno della Port Mafia - o visibile - come la guerra in Europa - impedisse loro di essere felici.

Rintarou non si accorse che Hasu stava piangendo, fino a che non la sentì tirare su col naso. Si allarmò. “Mamma-“

“Hai le mani fredde.” Hasu si tolse la sciarpa nera che aveva intorno al collo e si sollevò in piedi per avvolgerla intorno al proprio primogenito. 

Alla fine di quella storia, Rintarou sarebbe anche potuto tornare a Yokohama nelle vesti di un ufficiale medico, di un eroe di guerra e anche di genitore, ma questo non gli avrebbe impedito di continuare a essere un figlio.

“È indispensabile che impari a prenderti cura di te stesso,” disse Hasu. “Non dovrai farlo solo fino alla nascita del bambino, ma anche dopo. D’ora in avanti, non ci si gioca più il tutto e per tutto.” Aggiustò i capelli corvini dietro le orecchie del figlio e il neo diciottenne alzò gli occhi per guardarla. “Non avrai più il lusso di pensare a te stesso come sacrificabile. Hai capito?”

Rintarou aggrottò la fronte. “Se paragonato a mio figlio-“

“Il sacrificio estremo per un figlio è una cosa stupida,” disse sua madre, schietta. “In questo mondo, un bambino senza qualcuno che lo protegga è condannato. Sei cresciuto alla Casa dei Fiori, sai da dove vengono la maggior parte di quelle fanciulle.”

“Mi stai dicendo di farmi da parte?” Domandò Rintarou. “Tu hai cresciuto me, hai avuto le mie sorelle e non l’hai mai fatto.”

“Sono due le parole chiave: rischi calcolati.”

“Non esistono veri rischi calcolati. L’imprevisto fa parte del gioco.”

Hasu si chinò per prendere il viso del figlio tra le mani. “E tu dovrai essere più bravo del gioco,” disse. “No, tu dovrai essere il gioco. Non deve accadere nulla che tu non abbia già preventivato, compresi gli errori dei tuoi alleati o le vittorie dei tuoi nemici.”

Rintarou non capiva. “Questi non sono consigli da genitore, questa è una lezione di guerra.”

Hasu gli prese la mano e lo invitò a portarsela in grembo. “Non ha importanza cosa farai e chi diventerai, tutto inizia e finisce con lei.”

Il diciottenne inarcò il sopracciglio destro e un sorriso curioso comparve sulle sue labbra. “Lei?”

Hasu scrollò le spalle. “Considerala l’intuizione di una mamma,” disse.

Rintarou chiuse la mano a pugno. “Non ci ho mai pensato,” ammise. “Non mi sono mai fermato davvero a pensare a quello che mi sta succedendo.”

Hasu sorrise, comprensiva. “La terrai tra le braccia, la guarderai e non saprai spiegarti come sia possibile che sia lì, con te.”

Non era nella natura di Rintarou credere a quel genere di storie. “Sono un medico, mamma, so benissimo il come e il perché e non ne parlerò con uno dei miei genitori, mi dispiace.”

Hasu rise. “Quando lo hai scoperto non lo hai creduto possibile, no?” Gli ricordò. “Non permettere a questo mondo di prenderti alle spalle, Rintarou, è pericoloso. Lei però… Lei saprà sorprenderti.”

Il ragazzo alzò gli occhi al cielo. “Dopo tre femmine, non hai voglia di variare un po’?”

Sua madre gli lanciò un’occhiata eloquente. “Vuoi davvero deludere le tue sorelle?”

“Per carità…” 

“Allora è deciso, amore mio, dai alla luce una bella bambina sana.”

La conversazione finì lì. 

L’eco dei passi di Hirotsu li raggiunse prima che la sua figura fosse visibile nella sala d’aspetto buia. “Mia signora, il jet per il signorino è pronto.”

Rintarou si alzò in piedi. “Mi accompagni?”

Come quando era bambino, sua madre gli prese la mano. “Certo, tesoro.”

Hirotsu fece strada. Quando arrivarono all’ascensore che li avrebbe condotti alla pista di decollo, Rintarou ebbe l’impressione che il momento di partire fosse arrivato troppo presto. “Non c’è pericolo che vi perdiate l’evento,” disse Rintarou, guardando sua madre. “La bambina dovrebbe arrivare a luglio. È mia intenzione tornare a casa in primavera, quando non mi sarà ancora troppo difficile viaggiare. Voglio che nasca qui, a Yokohama.” Una pausa. “Certo, nella speranza che non avvenga la fine del mondo.”

Alla sua battuta, Hasu sorrise ma quell’espressione non raggiunse i suoi occhi.

Rintarou se ne accorse. “Mamma?”

Le porte dell’ascensore si aprirono

Hasu strinse le braccia intorno a suo figlio con forza, come se avesse di colpo paura di vederlo partire. Rintarou ricambiò l’abbraccio, esitante. “Mamma, che cosa-“

“Sei la cosa più bella che tuo padre mi abbia mai dato,” disse Hasu, baciandogli la guancia. “E sono certa che un giorno penserai lo stesso anche di tua figlia.”

Mori Rintarou non poteva saperlo, ma quella fu l’ultima volta che sua madre lo abbracciò.


X

 

-14 anni dopo-


Dazai si pentì di non aver indossato gli stivali nel momento in cui mise piede fuori dall’auto. La neve sul vialetto era stata raschiata via per permettere all’auto di passare, ma il sottile strato che vi era rimasto era divenuto una perfetta lastra di ghiaccio. Tempo di fare un passo e, per poco, Dazai non si ritrovò con il sedere per terra. Per sua fortuna, i riflessi di Mori erano ancora abbastanza allenati da riuscire ad acciuffare un ragazzino in caduta.

Il Boss gli lanciò un’occhiata per comunicargli: te l’avevo detto.

Il quattordicenne gonfiò le guance, offeso, e rimase in silenzio.

Non c’era vento ma il solo respirare congelava i polmoni. Dazai non era abituato a quel genere di freddo, ma Mori non ne era affatto disturbato. 

“Benvenuti a Villa Diodati, miei signori.” 

Dazai sollevò gli occhi scuri e solo allora vide l’uomo anziano che li attendeva sotto il colonnato dell’abitazione. Era vecchio, molto vecchio. Anche Hirotsu aveva i capelli e i baffi grigi, eppure Dazai era certo che quell’individuo potesse essere suo padre. I suoi abiti - che lo facevano sembrare un maggiordomo di altri tempi - non erano affatto adatti alla temperatura esterna. Ciò nonostante, se ne stava con la schiena dritta - per quel che la sua gobba gli permetteva - ad attendere che gli ospiti lo raggiungessero.

Mori mosse un passo in avanti, come se non credesse ai suoi stessi occhi. “Impossibile…” Mormorò.

Dazai notò che era sinceramente sorpreso.

“Fletcher[2], è davvero lei?” Domandò il Boss della Port Mafia.

Il vecchio chinò appena la testa. “È un onore per me rivederla dopo tanti anni, signorino Rintarou.”

Mori ridacchiò, salendo le scale dell’ingresso. “Temo di non essere più un signorino da diversi anni, ormai.”

Dazai lo seguì, stando attento a non scivolare sui gradini. Le scarpe ai suoi piedi erano a dir poco inadatte per quel luogo e la neve era arrivata a bagnargli sia l’orlo del pantaloni che i calzini.

“Non è invecchiato di un giorno,” commentò Mori, ignorando le tribolazioni del giovane alle sue spalle.

A Dazai venne da ridere. Se lo fosse, sarebbe mummificato. Pensò.

Quando arrivò al fianco del Boss della Port Mafia, aveva il fiatone e, nonostante il freddo, sentiva il sudore appiccicargli la camicia alla schiena. Se non si fosse cambiato in fretta, si sarebbe preso un bel raffreddore, forse una polmonite. Di colpo, l’idea non lo disturbò poi così tanto: se un’infezione gli bucava i polmoni, Dazai sarebbe morto soffocando nel proprio sangue ma velocemente.

Non ebbe il tempo di esporre quel pensiero al medico al suo fianco, che gli occhi del vecchio lo inchiodarono sul posto. Aveva il viso arcigno, reso spigoloso dall’età avanzata. Se la villa sembrava uscita da una fiaba, lui ne era lo stregone malefico.

“Perdonate, Rintarou-“

Mori, prego,” lo interruppe il Boss della Port Mafia.

“Ai tempi della prima estate della Grande Guerra, si vociferava della nascita di una figlia vostra e del giovane Johann,” disse Fletcher, completamente preso in contropiede dalla presenza di un ragazzino.

Dazai inarcò le sopracciglia: Mori aveva parlato di un figlio suo e del suo amante tedesco, sì, ma gli aveva anche detto che non era mai venuto al mondo. 

“Temo che si sbagli, Fletcher,” disse Mori, come se si trattasse di un errore da poco. “Io e Johann non abbiamo mai avuto figli. Non ho idea di chi sia la bambina di cui parla.”

L’espressione di Fletcher non cambiò di una virgola. “Come devo considerare il signorino?” Domandò, fissando Dazai da capo a piedi.

“Non come un signorino,” rispose Mori. “Il suo nome è Dazai Osamu. È un orfano sotto la mia custodia e mio assistente.”

A Dazai continuava a non piacere quel termine, ma stava cominciando a farci l’abitudine.

Fletcher storse la bocca in una smorfia. “Strano,” commentò, con una libertà che nessun domestico avrebbe dovuto avere. “Guardandolo, avrei giurato che fosse figlio suo, Mori.”

Il Boss prese la cosa a ridere. “No, per carità. Ho commesso tanti crimini e peccati nella mia vita ma questo…” Indicò Dazai, come a sottolineare che non era responsabile in alcun modo per la sua esistenza.

Il ragazzino alzò gli occhi al cielo. “Ho freddo,” disse, schietto. “Voglio entrare.”

Mori si finse esasperato. “Suvvia, Dazai, un po’ di pazienza ed educazione.”

“Lord Byron vi sta già aspettando nel salone della musica. Immagino lo ricordiate, Mori.”

L’uomo annuì. “Come dimenticare la mattina in cui ho svegliato l’intera villa suonando il pianoforte a coda in quella stanza!”

“Ah…” Commentò Dazai, che era stanco di venir ignorato. “Eri noioso anche allora. Per non dire un rompico-“

“Le volte che hai detto una parolaccia in mia presenza le posso contare sulle dita di una mano sola,” disse Mori, seriamente irritato. “Vuoi cambiare condotta proprio adesso?”

“Ho freddo!” Si lamentò Dazai ad alta voce.

E ora chi sarebbe il rompicoglioni? Mori si tenne quella domanda per sé o nessuno dei presenti sarebbe vissuto abbastanza per vedere la fine di quella discussione - Fletcher non di sicuro.

Per un attimo, il vecchio maggiordomo li ignorò per rivolgersi al loro giovane autista, intento a scaricare i bagagli dalla macchina. “Porta tutto nelle cucine, passando dalla porta sul retro,” ordinò Fletcher. “Quando hai finito, aspettami lì e parleremo del tuo compenso.”

Dazai avvertì qualcosa di sinistro in quelle parole, ma non diede voce ai propri dubbi o sarebbero rimasti a congelare sotto quel colonnato per davvero. 

“Prego, miei signori, seguitemi,” disse Fletcher, entrando nel portone d’ingresso della villa col passo incerto di chi avrebbe bisogno di un bastone per camminare, ma è troppo orgoglioso per accettarlo.

Non appena l’aria calda della grande casa accarezzò le guance di Dazai, rendendole bollenti e rosse per il repentino cambio di temperatura, sentì Mori premergli la mano tra le scapole. “Qualunque cosa accada, rimani al mio fianco,” lo istruì il Boss della Port Mafia. “Mai un passo indietro. Voglio poterti vedere in ogni momento.”

Dazai si limitò ad annuire e ripresero a camminare. Le loro scarpe sporche di fango e neve lasciarono delle tracce spiacevoli sull’enorme tappeto dell’ingresso, ma Fletcher non sembrò curarsene. “Da questa parte,” disse il vecchio, guidandoli nella sala alla destra dell’ingresso. 

Mentre lo attraversavano, Dazai diede un’occhiata alla scalinata in marmo bianco che portava al piano di sopra. Era certo che avrebbero esplorato quella zona della villa più tardi, ma ora era il turno dell’ingresso in scena di Lord Byron.

La prima cosa che Dazai vide nell’entrare nella sala della musica fu il pianoforte a coda di cui Mori aveva parlato. Dal modo in cui gli occhi scuri dell’uomo indugiarono sullo strumento, il quattordicenne fu persuaso a credere che fosse lo stesso che aveva suonato tanti anni prima.

Il padrone di casa li aspettava poco più avanti, con il gomito appoggiato sul davanzale del caminetto acceso e un calice di vino rosso stretto nel pugno. Mori non aveva speso molte parole per descrivere Byron a Dazai e questo era bastato al ragazzino per convincersi che fosse un personaggio privo di fascino. Pur non avendo alcuna aspettative, quando lo vide, rimase deluso.

“Rintarou!” George si allontanò dal fuoco e porse la mano destra al vecchio conoscente per dargli il benvenuto. “Ma guarda un po’...” L’incanto nei suoi occhi a Dazai diede quasi fastidio. “Trentadue anni e non sei cambiato di una virgola da quando ne avevi diciassette.”

Mori forzò un sorriso cortese. “Non posso dire lo stesso di te, George.”

Era ovvio che Mori non avrebbe perso tempo in parole lusinghiere senza fondamento. Dazai non aveva conosciuto il giovane Byron, ma era certo che un tempo i riccioli neri fossero rigogliosi e non radi, che non fosse tanto stempiato e che, soprattutto, non dimostrasse almeno dieci anni di più di Mori, di cui era quasi coetaneo. Una vita fatti di vizi e sregolatezza aveva spinto George Gordon Byron verso una vecchiaia precoce e che non si addiceva per nulla alla sua antica fama di rubacuori.

Il padrone di casa non prese a male il commento del suo ospite. Al contrario, rise, come se ne fosse deliziato. “Sapevo che per avere una conversazione degna di tale nome dovevo invitare te!” Esclamò, appoggiando il calice di vino sul davanzale del caminetto. “Lo avevo detto. Vero, Fletcher?”

Il maggiordomo annuì, senza nessuna particolare espressione ad animargli il viso. “Lo avevate detto, sì, signore.”

Subito dopo, Byron fece un gesto annoiato nella sua direzione, come a dire di togliersi di mezzo. “Vai a occuparti del ragazzo che ha accompagnato i nostri ospiti. Ti ho già dato istruzioni, mi pare.”

“Sarà fatto, My Lord.” Fletcher chinò la testa, poi lasciò la sala, richiudendosi la porta alla spalle.

“Te lo confesso, Rintarou, non credevo avresti mai-“ Byron s’interruppe non appena vide il ragazzino al fianco del Boss della Port Mafia. 

La sorpresa nello sguardo dell’uomo bastò ad annoiare Dazai più di quanto già non fosse. 

Abort Mission.

Lord Byron era l’ombra dell’uomo che era stato e non aveva assolutamente niente d’interessante da offrire. Dazai quasi sperò che Mori gli chiedesse la somma di denaro di cui avevano bisogno lì, sul momento, senza troppe cerimonie.

“Sta tremando,” commentò Byron.

Quando Dazai si accorse che parlava di lui, rimpianse di non essere più invisibile.

“Non ha voluto mettere i vestiti adatti e ora ha tutti i piedi bagnati,” spiegò Mori, come un genitore esasperato dalla condotta ribelle del proprio figlio adolescente.

“Posso chiedere a Fletcher di far preparare un bagno per lui e dei vestiti caldi,” disse Byron.

“Non è necessario,” ribatté Mori. “Farà il bagno più tardi, quando ci ritireremo nelle nostre stanze.”

Dazai capì di non aver alcuna voce in capitolo e nemmeno si disturbò a parlare. 

Byron scrollò le spalle. “Allora, sedetevi pure!”

Vi erano due poltrone alla destra del camino e un divano sulla sinistra. Mori e Dazai optarono per quest’ultimo, senza nemmeno guardarsi.

“Allora, Rintarou…” Byron si sedette e incrociò le gambe. “Questo secondo Fiore d’Oriente è opera tua?”

Dazai aggrottò la fronte: quest’uomo delirava, non c’era altra spiegazione.

Tuttavia, Mori rise, come se quello che aveva appena detto avesse alcun senso. “Credimi, non sarebbe un fiore neanche se m’impegnassi anima a corpo a renderlo tale.”

Dazai impiegò un istante di troppo a capire che stavano parlando di lui. “Cosa sarei?” Domandò, disgustato.

“Un Fiore d’Oriente,” disse Byron, felice di sentire la voce del ragazzino. “Era così che tutta Europa chiamava Rintarou, quando era solo un adolescente. Quanti anni hai…”

“Dazai,” si presentò il ragazzino. “Il mio nome è Dazai Osamu e ho quattordici anni.”

“Osamu…” Ripeté Byron, facendo pratica con il suono di quel nome straniero. Si rivolse a Mori: “di chi è?”

Mori finse di non capire. “È sotto la mia custodia. Legalmente, è mio.”

Non ho firmato da nessuna parte per una simile condanna, replicò Dazai, nella sua testa.

Byron rise. “Avanti, Ribtarou, mi vuoi dire che non è figlio tuo? Non solo ti somiglia, quando parla, ha anche il tuo stesso tono seccato.”

Quell’errore di valutazione due volte di seguito era un po’ troppo per i nervi di Dazai. “Sono figlio del Nulla,” lo disse ad alta voce, così che al padrone di casa fosse chiaro.

Byron aggrottò la fronte. “Affermazione bizzarra.”

“È la pura e semplice verità,” disse Dazai, gelido.

Mori allungò la mano e l’appoggiò sulla sua gamba. “Non essere insolente,” lo avverti. “Anzi, perché non vai a farti quel bagno?” Propose. “Le labbra ti stanno diventando blu.”

“Chiamo Fletcher.” Byron fece per alzarsi.

“Non è necessario,” disse il Boss della Port Mafia. Con un breve bagliore viola, Elise comparve accanto al divano. “Ricordiamo dove si trova la nostra camera,” disse la bambina. “Non c’è alcun bisogno di disturbare nessuno.”

Byron sgranò gli occhi. “Interessante…” Commentò. “Non te lo avevo mai visto fare.”

“Trucchetti che s’imparano crescendo e facendo pratica,” disse Mori, poi si rivolse a Dazai. “Resta con Elise,” disse, nascondendo l’ordine con tono gentile. “Non allontanarti da lei.”

Dazai voleva obiettare in mille modi. Non solo non voleva essere escluso da quella conversazione, ma rimanere da solo con Elise era l’ultimo dei suoi desideri. Qualcosa lo fermò dal fare i capricci come suo solito. Un dettaglio che Mori aveva nascosto tra le righe proprio perché era lui.

Resta con Elise. Non allontanarti da lei. Il Boss della Port Mafia non era stato schietto, non gli aveva ordinato di non toccarla. Come gli aveva già anticipato a Yokohama, Mori stava nascondendo la sua abilità a Byron di proposito.

Si alzò in piedi e mentre Elise saltellava fuori dalla stanza, la seguì.

I suoi occhi non lasciarono quelli di Mori, fino a che la porta non li separò.





 

“Sul serio, chi è quel ragazzino?” Domandò Byron, avvicinandosi al tavolo dei liquori per versare del vino rosso al suo ospite.

“Come ho detto anche al tuo vecchio Fletcher,” rispose Mori, accettando il calice pieno a metà. “È un orfano che ho preso sotto la mia custodia. Lo sto educando perché divenga un pezzo grosso all’interno della Port Mafia. La cosa non dovrebbe sorprenderti, ti ho raccontato come funzionano le cose nel mio mondo. Il sangue non è tutto, non come voi nobili.”

“Ricordò bene le nostre conversazioni riguardo il mondo delle tenebre da cui vieni.” Byron tornò alla sua poltrona. “Quello che mi sorprende è che rammento perfettamente di aver visto quelle ombre nei tuoi occhi, durante l’inverno che tu e Johann passaste qui. Un attimo fa, mi è sembrato di rivederle anche in quelli del fanciullo…”

Mori simulò un’espressione malinconica. “Dazai è un figlio della guerra. Tutti i bambini della sua generazione hanno quelle ombre negli occhi. Non significa niente.”

Byron prese un sorso di vino. “Forse…” Concordò, ma con poca convinzione. “È vero che persone per nulla legate tra loro si somigliano senza alcun motivo, eppure ammetto di aver avvertito un brivido lungo la schiena nel guardarlo.”

Mori alzò gli occhi al cielo. “La tua memoria ti gioca brutti scherzi,” disse. “Sono i capelli scuri e gli occhi grandi dello stesso colore a ingannarti. È tutto un gioco di chiaroscuri."

Byron ridacchiò. “Se continuate a vestirvi di nero…”

“È il colore della Port Mafia.”

“Male, non lo amo particolarmente.”

Mori osservò il completo a tre pezzi che il padrone di casa indossava. Era elegante, color marrone, e doveva essere costato un occhio della testa. Lo sguardo attento del Boss della Port Mafia si accorse che era liso, forse vecchio di anni e le cuciture erano state riprese in più punti. 

Mori storse la bocca in una smorfia delusa: Byron poteva essere invecchiato male a causa della sua vita dissoluta, ma se non riusciva a permettersi nemmeno un completo nuovo per far colpo su di lui, forse la ragione che aveva spinto lui e Dazai a compiere quel viaggio non esisteva. Doveva scoprirlo in fretta. Aveva lasciato una Yokohama sospesa, in equilibrio precario e se l’esiliato della Torre dell’Orologio non poteva riempire le sue casse, la sua presenza era richiesta altrove.

“Mi hai scritto una lettera.” Mori arrivò dritto al punto.

Ogni traccia di allegria scomparve dal viso di Byron. “Ti ho scritto una lettera,” confermò.

“In quella lettera chiedevi un posto nel mondo dei dotati di abilità.” Mori non aveva alcuno scrupolo a umiliarlo, se questo serviva a raggiungere in fretta la verità. “Mi hai scritto di essere in possesso della somma necessaria per comprarti un posto da Dirigente.”

Byron allargò le braccia. “Ho le mie fonti,” disse. “Una successione per omicidio è pur sempre turbolenta e delle casse piene di denaro aiutano molto a equilibrare le cose.” Fissò l’uomo dai capelli corvini dritto negli occhi. “Perché hai ucciso il tuo predecessore, non è vero?”

Mori non si sentì sotto pressione: la morte del Boss Folle all’Europa faceva solo comodo e a nessuno importava come si era consumata. Le sue labbra si piegarono in un sorriso diabolico. “Ho fatto quel che andava fatto,” disse.

Gli occhi di Byron si riempirono di entusiasmo. “Io l’avevo detto!” Esclamò, puntando l’indice contro il suo ospite. “L’avevo detto prima di chiunque altro, anche prima di Johann stesso. Mentre nessuno di noi ti dava la giusta attenzione, saresti arrivato sopra tutti. Il tempo mi ha dato ragione.”

“Tanto ragione che non hai esitato a farti sentire e a propormi il tuo sostegno,” aggiunse Mori. “Tuttavia…” Si guardò intorno. “Dove sono le garanzie, George? Questa villa è in stato di semiabbandono. Il ragazzo che ci ha raccolti in aeroporto non è il tuo autista di fiducia e il vecchio Fletcher è l’unico domestico che ti è rimasto. Forse nemmeno lo paghi. Sono certo che resterebbe al tuo fianco solo per lealtà nei tuoi confronti.” Il Boss della Port Mafia si sporse in avanti, appoggiando il calice di vino sul basso tavolino tra di loro. “Dici di volerti comprare il posto da Dirigente e, per quanto non sia il genere di condotta che mi piace seguire, sono disposto ad accettare la tua proposta per le ragioni che hai già detto. Ma dove sarebbero tutte queste ricchezze? La fama dei Byron ti precedeva quindici anni fa, ma ora sei rimasto solo tu, con i tuoi scandali e il tuo esilio della Gran Bretagna.”

Mori prese un respiro profondo dal naso, appoggiandosi allo schienale del divano e incrociando le gambe. “Io non vedo l’uomo che ha battuto tutti andando contro l’etichetta e il sistema, vedo solo l’ombra di un giovane che era leggenda in tutta Europa.”

Fu il turno di Byron di abbandonare il proprio calice. Le sue labbra erano tirate in un sorriso che non raggiungeva i suoi occhi. “Non giudicarmi del mio aspetto,” lo pregò. “Né da quello della mia casa,” aggiunse. “La verità, Rintarou, è che non provo alcun interesse per la mia persona da molto tempo. Respiro, mi nutro e mi alzo dal letto ogni mattina, ma non ricordo l’ultima volta che ho sentito la scintilla della vita animare il mio petto.”

Mori non ne era sorpreso. Quella era la fine a cui andavano incontro la maggior parte degli uomini come Byron: volevano di più, sempre di più, finché non c’era altro da ottenere e non rimaneva che il vuoto.

“Il denaro che mi è rimasto è sufficiente a far gola alla Torre dell’Orologio stessa,” disse Byron. “Ma non devo altro che disprezzo a quelle persone. Ho vissuto fuori dalle loro regole tutta la vita e voglio concludere in bellezza, come Dirigente della tua Port Mafia.”

Mori appoggiò il mento al pugno chiuso. “Vuoi dirmi che le ricchezze ci sono, ma che tu non hai più interesse ad usarle per te stesso.”

“Ho fatto tutto quello che un uomo può fare su questa terra,” ammise Byron. “Ho fatto mio ogni vizio, ogni fonte di piacere. Ti confesso che neanche il sesso riesce più ad appagarmi.”

“Non m’interessa.”

“La Grande Guerra non ha distrutto solo il mondo tuo e di Johann, Rintarou,” disse Byron. “Quello che ti chiedo è un senso agli anni che mi rimangono. Le mie mani sono sporche di sangue. Sono già un criminale sotto molti punti di vista. Dammi quella poltrona da Dirigente, fammi sentire ancora vivo!”

Mori avrebbe mentito se avesse detto che non si era aspettato una cosa del genere. George Gordon Byron era sempre stato alla spasmodica ricerca di qualcosa, un posto da poter occupare e chiamare suo. Non riuscendoci, aveva tentato di appartenere a ogni luogo, di far sua ogni storia del mondo. Aveva reso se stesso un personaggio, qualcuno di cui parlare e, alla fine, si era perso. Senza radici, senza una casa o una famiglia da cui tornare, si era rifugiato dove i suoi anni migliori gli avevano dato le emozioni più forti ed era rimasto lì, nella polvere, ad aspettare un’occasione per vivere di nuovo.

Mori scrollò le spalle. “Hai dei documenti contabili?” Domandò. “Non posso accettare nessuna proposta sulla parola, penso che questo tu possa capirlo.”

“Domani!” Promise Byron, con entusiasmo. “Questa sera tu e il ragazzino sarete distrutti dal viaggio. Mangiate, riposate e domani parleremo di affari.”

Mori annuì, poi cercò Elise con la mente: la trovò al fianco di Dazai, nella stessa sala da bagno in cui si era lavato quindici anni prima. Parlavano, ma Mori non aveva ragione di origliare quella conversazione. Più tardi, ogni parola che Elise si era scambiata con Dazai sarebbe comparsa sotto forma di ricordo direttamente nella sua mente, come se Mori fosse stato presente per tutto il tempo.

“Sul serio non è tuo?” Domandò Byron.

Mori tornò presente a se stesso. “Prego?”

“Da quando Osamu ha lasciato la stanza, sei più teso. Sei preoccupato?” Domandò il padrone di casa. “Che cosa vuoi che accada nella mia dimora? Siamo lontano da tutto e da tutti.”

Mori si umettò le labbra. “Non credo ti faccia piacere ricordare che i tuoi salotti erano frequentati anche da individui raccapriccianti.”

Byron sgranò gli occhi e si fece rigido, cogliendo l’allusione senza alcuna difficoltà. “Nell’inverno che tu e Johann passaste qui, ancora non si sapeva nulla di chi fosse realmente Louis De Sade.” Era un tentativo di giustificarsi, di lavarsi dalla coscienza le morti che erano seguite.

“Ciò non toglie che molte delle sue vittime successive le ha conosciute qui, tra queste mura,” disse Mori, gelido. “E hai davanti agli occhi l’unica che è sopravvissuta.”

Byron ingoiò a vuoto. “Louis De Sade è morto in guerra.”

“Louis De Sade è scomparso nella polveriera che è stata la Grande Guerra, ma nessuno sa che fine abbia fatto,” lo corresse Mori. “Dato che ho un ragazzino di quattordici anni sotto la mia custodia, puoi garantirmi la sua sicurezza all’interno di queste mura?”

“Non devi neanche chiedermelo,” disse Byron. “È un bambino, non farei niente per attentare alla sua incolumità. Gli unici in questa villa siamo io, te, Fletcher e il piccolo Osamu. Il vostro autista tornerà in città non appena riceverà il suo compenso. Non hai nulla da temere da me, Rintarou. Sono un uomo che ha smarrito l’orgoglio e mendica un posto nel mondo in cambio delle sue ricchezze, nulla di più.”

Mori si alzò in piedi. “Domani mostrami i documenti contabili e potremo cominciare a discutere in modo serio,” disse. “Ora penso che raggiungerò il piccolo Osamu e mi assicurerò che si prepari per la cena.”




 

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Note:

[1] Il termine giapponese per indicare il fiore di loto è hasu 蓮 e significa "purezza dell'anima". Non è una citazione. Mi è piaciuto immaginare tutte le donne della famiglia Mori con un nome di fiore.

[2]William Fletcher fu il maggiordomo personale di George Gordon Byron.

 

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Capitolo 11
*** XI ***


0.4

 

Poco meno di vent’anni prima dello scoppio della Grande Guerra, l’Europa si vide costretta ad affrontare una minaccia invisibile a cui nessuno riuscì a dare un nome per molto tempo. I bambini sparivano e non nel modo saltuario e circoscritto in cui simili disgrazie erano solite avvenire. Il target era molto preciso: le vittime erano tutte figli di famiglie conosciute in Europa in quanto possessori di abilità da generazioni. Tra queste vi erano anche quelle che lavoravano sotto il diretto ordine della Torre dell’Orologio. Fu un’emergenza internazionale che, per motivi di sicurezza globale, non raggiunse mai i canali ufficiali delle notizie.

I servizi segreti di tutti gli stati vennero schierati per trovare il colpevole di tali rapimenti, scoprire le ragioni che vi erano dietro e riportare a casa i bambini vivi. Fu l’era delle spie, delle guerre silenziose, dei segreti che nessuno avrebbe mai voluto rivelare.

Ci volle più di un decennio perché l’Europa trovasse un nome: Mephistopheles.[1]

Di questo individuo non si seppe mai nulla con esattezza, nemmeno se fosse uomo o donna. Fu l’estensione della sua Organizzazione a spaventare la Torre dell’Orologio stessa: aveva risorse in ogni stato, talpe dove era più comodo posizionarle e un talento mai visto prima nel muoversi dell’ombra.

Attraverso un’azione militare mandata avanti dall’allora Comandante Jünger, il suo quartier generale principale - un orfanotrofio in mezzo al nulla, nel nord-est Europa - venne preso d’assedio e conquistato. Lì trovarono gran parte dei bambini scomparsi - non tutti vivi o abbastanza presenti a loro stessi da pensare che ci fosse possibilità di salvezza per loro. Dopo quel colpo, Mephistopheles scomparve nel nulla.

Una delle vittime tratte in salvo, Johann Goethe, considerato primo testimone del caso per via della sua vicinanza al carnefice, non fu in grado di fornire informazioni precise riguardo un eventuale piano di fuga di Mephistopheles. Pur non conoscendo con esattezza la vastità delle aree d’influenza del proprio secondino, non ebbe dubbi nell’affermare che era lungi dall’essere sconfitto, che esistevano altre branche dell'Organizzazione nel resto del mondo e che sarebbe stato impossibile sopprimerle tutte.

Il secondo testimone, Victor Hugo, recuperato in stato quasi catatonico, non fu in grado di dire nulla di comprensibile. Nella sala degli interrogatori, pianse a basta.

Quando arrivò il suo turno, William Shakespeare disse poche, inquietanti parole: “l’Inferno è vuoto. E tutti i diavoli sono qui.” [2]

Nel periodo immediatamente successivo a una tale tragedia, in Europa cominciarono a sbocciare i primi fiori di una nuova generazione di possessori di abilità con i mezzi necessari per far conoscere se stessi nell’alta società.

Johann Goethe fu solo il primo, forse il più ribelle dei tanti. Le dorate proposte del Governo Tedesco non servirono mai a niente - nemmeno quelle fatte dal Comandante Jünger in persona, suo salvatore. Appena adolescente, si ritirò nelle proprietà della sua famiglia e si riscoprì poeta. 

Affidò alla parola scritta tutto ciò che era pronto a urlare al mondo, senza preoccuparsi delle conseguenze. La sua condotta non fu mai scandalosa nel modo in cui lo era quella dei suoi coetanei più disinibiti. 

Johann aveva una mente sveglia e gli era impossibile non dargli voce, anche quando rischiava di essere biasimato per le proprie idee. Era un tipo vivace, ma solitario. Sì, era un falso estroverso che si sentiva a suo agio solo con un pugno di persone, per le quali sarebbe stato disposto a dare la vita.

Il suo amico William Shakespeare assomigliava più a un giovane della propria estrazione sociale. Intellettuale, certo. Donnaiolo, perché no? Una volta uscita dalla fornace dell’inferno in cui Mephistopheles lo aveva forgiato, La Torre dell’Orologio lo aveva accolto a braccia aperte. Li faceva pentire di quella scelta nove giorni su dieci. Poi arrivava quel decimo giorno in cui, come per miracolo, William si dimostrava indispensabile in una situazione di emergenza. E, niente, a Londra erano costretti a dargli vitto e alloggio, chiudendo un occhio su tutto il resto.

Victor Hugo era l’immagine del giovane integerrimo. Fin dal suo salvataggio, il Governo Francese lo aveva coccolato affinché servisse il popolo con la propria abilità. Troppo gentile per il suo bene e poco incline a riconoscere in se stesso un qualche valore, Victor aveva accettato, tentato dal fatto di poter dare uno scopo alla propria esistenza salvando le persone. 

In questa Europa piena di speranze e giovani fiori sul punto di sbocciare, Mori Rintarou arrivò senza preavviso, attirando su di sé l’attenzione di un intero continente. E avere al proprio fianco l'irraggiungibile Johann Goethe non fece che aumentare il volume delle voci sul suo conto.

Fu proprio questo a spingere uno dei personaggi più controversi di quella generazione di possessori di abilità ad avvicinarlo.


Per quella notte Lord Byron aveva pensato a tutto un altro tipo di divertimento.

“Prima che il nostro tempo si esaurisca, una festa in maschera è quantomeno d’obbligo!” Aveva esclamato un paio di giorni prima.

In molti avevano esultato. Rintarou era rimasto composto, al fianco di Johann, chiedendosi come si potesse organizzare un evento del genere in meno di quarantotto ore, ma se c’era una cosa che George Gordon Byron gli aveva insegnato era che i soldi non erano solo un mezzo potente per gestire gli equilibri del potere, ma anche per concretizzare i più futili capricci. 

Ed eccoli lì, in quella nottata di neve nel bel mezzo del nulla, vestiti come se i fasti dell’Impero di Napoleone fossero cosa loro. E Rintarou apprezzava l’estetica, davvero. Gli piaceva il completo di velluto viola che Johann aveva scelto per lui - perché il Principe della Port Mafia non sarebbe mai uscito dalla sua camera per tirarsi i capelli con gli altri mocciosi viziati che volevano essere i pavoni della scena - era una pausa elegante e goliardica dal nero che lo aveva accompagnato per tutta la vita. Nulla di più e nulla di meno.

Rintarou e Johann avevano ballato insieme fino a tarda sera, poi Hugo e Shakespeare avevano preteso la partecipazione del loro amico a una conversazione che ruotava intorno alla minaccia di una guerra contro non si sapeva né cosa né chi. Pur amando i dialoghi impegnativi, Rintarou aveva preferito allontanarsi e rifugiarsi nella stanza della musica. 

Fu felice di non trovare nessuno impegnato a fornicare sul pianoforte o si sarebbe sentito moralmente costretto a dargli fuoco.

Si sedette sullo sgabello imbottito, accompagnato solo dai raggi argentei della luna.

Rintarou prese un respiro profondo, con le dita sospese sopra le chiavi nere e bianche. Si godette il silenzio per qualche respiro. Era così difficile avere del tempo per sé in quella villa e, sebbene fosse stato il primo a pensare che sarebbe stato interessante conoscere la giovane élite fuori dagli schemi inibitori dell’etichetta, Rintarou doveva riconoscere i limiti della sua educazione. Era spregiudicato, sì, era innegabile, ma i suoi natali gli imponevano un certo pudore. Accoppiarsi come animali dove capitava e con meno lucidità di un ubriaco per strada gli suscitava ribrezzo. Non era bigotto, per carità, ma sua madre insegnava alle sue allieve come rendere il piacere un'arte e non avrebbe accettato come clienti nessuno dei bifolchi che si atteggiavano da grandi amanti in quei salotti. Byron per primo.

Rintarou si aggiustò un ciuffo di capelli corvini dietro l’orecchio.

In assenza del suo poeta, quel pianoforte sapeva essere un perfetto compagno.

Uno di cui Johann non sarebbe stato geloso.

Cominciò con Für Elise, semplice, rilassante, portatrice di bei ricordi e subito sentì il petto farsi più leggero. Fu un sollievo breve. 

Non appena Rintarou sollevò le mani dalle chiavi del pianoforte, la stanza semibuia venne riempita dal rumore di un applauso.

Preso alla sprovvista, Rintarou balzò in piedi.

“Oh, scusami…” Disse l’uomo che era entrato senza farsi udire. “Non volevo spaventarti.”

Ma Rintarou non era un ingenuo.

“Di certo non ti sei annunciato in alcun modo,” disse, cortese ma con una lieve sfumatura velenosa. Non aveva certo paura di essere avvicinato da uno dei rampolli dell’aristocrazia europea, ma quando capitava, a meno che non si trattasse di un membro della cerchia di Johann, non erano mai molto rispettosi nei suoi confronti.

“Hai ragione…” 

Lo sconosciuto si fece avanti, lasciandosi investire dalla luce della luna. Era evidentemente giovane, con gli occhi piccoli e scuri, ma penetranti come degli spilli. 

“Mori Rintarou, giusto?” 

Rintarou non si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo a quella domanda.

“Se avessi una moneta, di qualsiasi valuta, per ogni volta che si sono approcciati a me con questa domanda-“

“Non ti servirebbe, sei già ricco, no?” Il nuovo arrivato si prese la libertà di farsi più vicino. “Il Principe della Port Mafia, giusto?”

Strano. Si era aspettato di essere definito il Fiore d’Oriente di Johann Goethe per l’ennesima volta.

“Chi sei?” Domandò Rintarou.

Il giovane fece un inchino esagerato, come un attore su di un palcoscenico.

“Il Marchese De Sade, monsieur,” si presentò. “O, se preferite, Louis Sade.”

Rintarou non rispose immediatamente, ma tese ogni muscolo del corpo, pronto a difendersi se si fosse rivelato necessario.

“Oh, bene…” Commentò De Sade, raddrizzando la schiena. “Vedo che la mia fama mi precede. Johann vi ha per caso parlato di me?”

Ha evitato accuratamente di parlare di te.

“No,” rispose Rintarou. “Ma il tuo nome è mormorato da molti in Europa.”

De Sade sospirò.

“La gente guarda con sospetto chiunque sia baciato dalla fortuna, penso sarai d’accordo,” disse, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni. “Riportare in auge il nome di una famiglia caduta in disgrazia non è un’impresa per tutti, ma è il maggiore dei miei vanti.”

Rintarou stirò le labbra in un sorriso che non raggiunse i suoi occhi.

“Siete il ritratto della modestia,” lo canzonò. “Da quanto sei qui? Non ci hanno mai presentati…”

“Sono qui da settimane,” confessò il Marchese. “Solo Byron sa chi sono, agli altri mi sono presentato con un nome fittizio.”

“Per quale ragione?”

“La reazione che hai avuto nell’udire il mio nome è una ragione più che sufficiente.”

“Non ricordo nemmeno di averti mai incrociato e questa villa è grande, ma non così grande.”

“Sono bravo a rendermi invisibile.” Ogni parola era un passo. Ormai il Marchese poteva quasi toccare il pianoforte. “Mi piace osservare…”

Aveva fascino, Rintarou doveva ammetterlo ma, al contempo, aveva qualcosa di viscido nel suo atteggiamento che gli faceva accapponare la pelle.

“E quale sarebbe la ragione che ti ha spinto a svelare il tuo segreto a me?” Domandò. “Hai condannato definitivamente la tua copertura così.”

Johann sarebbe venuto a sapere di lui non appena avrebbe lasciato quella stanza ed era certo che anche Shakespeare e Hugo avrebbero ritenuto quell’informazione interessante.

“Perché tu sei l’unica creatura qui a meritare la mia attenzione,” rispose il Marchese De Sade.

Rintarou inarcò le sopracciglia, per nulla colpito.

“Siete francese, vero? Voi francesi avete un problema con le lusinghe gratuite…”

“Nulla di gratuito.” De Sade si sedette sullo sgabello lasciato libero dal giovane giapponese. “Suonate incantevole.”

“Molti qui lo sanno fare.”

“Imitazioni. Pappagalli che ripetono a comando, nulla di più.”

“Non sono un’artista, Marchese,” tagliò corto Rintarou. “Amo l’arte e cercò di avvicinarmi a essa come posso, tutto qui. Posso sapere il motivo che vi ha spinto a seguirmi? Perché se vi piace osservare è ovvio che siete rimasto a guardarmi tutta la sera, aspettando di cogliermi da solo.”

Il Marchese suonò un’ottava, senza mai togliergli gli occhi di dosso.

“Lo sapevo che non eri come loro.”

Rintarou si stava esasperando.

“Senti-“

“Lo pensi anche tu, no?” De Sade accarezzò le chiavi bianche con la punta delle dita. “Quando sei arrivato, hai provato a guardarti intorno ma, no, non hai trovato nessuno degno di nota. Stai sempre accanto a Johann perché è il solo che ritieni al tuo livello e tolleri la presenza dei suoi amici perché sei tanto intelligente da capire che per lui sono importanti, ma è un genere di affetto che non sentì.”

Rintarou lo scrutò, gelido e si guardò bene dall’aprile bocca.

“È la prima volta, vero?” Domandò il Marchese.

“Di cosa?”

“Che t’innamori…”

Per qualche strana ragione, quella parola uscita dalla bocca di quell’uomo suonò a Rintarou come una blasfemia. Decise di stare al gioco, tanto per rassicurare l’altro che non c’erano speranze che avesse il coltello dalla parte del manico contro di lui.

“E il Marchese come sarebbe arrivato a una simile conclusione?” Domandò, incrociando le braccia sopra il pianoforte.

“Basta guardarvi,” rispose De Sade puntando sgraziatamente il gomito contro i tasti bianchi, provocando un suono fastidioso. “È la prima volta anche per lui, sai? Questo non l’ho intuito, lo so per certo.”

“Conosci Johann?”

“Non è importante…” Il Marchese appoggiò il viso al pugno chiuso. “Perché quando lo osservo mentre è con te, potrebbe tranquillamente essere un estraneo. Lui ti guarda e vede tutte le stelle dell’universo nei tuoi occhi. È l’amore di cui cantano i poeti come lui, deve averne scritto centinaia senza conoscerlo… Ed ecco che arrivi tu. In Europa dicono le cose più volgari su di te.”

Era brutale, ma sincero.

“Eppure col mio nome si riempiono la bocca,” ribatté Rintarou, orgoglioso.

“È anche la prima volta che uno straniero riesce ad attirare su di sé tutti gli sguardi dell’Antico Continente. Hai un talento, Mori Rintarou.”

Il Marchese De Sade si alzò in piedi.

Rintarou rimase dov’era, i pugni stretti.

“Se tutti quegli idioti si prendessero un momento per guardarvi, come faccio io, sentirebbero quanto è profondo quello che vi lega. Siete il ritratto del primo amore, quello tanto intenso da rendere folli, il solo che pensi al concetto di per sempre e lo creda reale.”

Rintarou non sapeva dove l’altro voleva arrivare. Quella conversazione non aveva avuto senso fin dal principio e peggiorava di parola in parola.

Il Marchese fece volteggiare la mano accanto alla sua testa, come se fosse indeciso se toccarlo o meno. Se lo avesse fatto, si sarebbe ritrovato senza un braccio.

“Mi chiedo quanto potente potrebbe essere il dolore nato dalla fine di un amore così…”

Il Marchese De Sade prese tra le dita il nastro viola che legava i capelli di Rintarou e lo sciolse. Il giovane di Yokohama si fece indietro e le ciocche corvine gli ricaddero davanti agli occhi, mentre le sue iridi si accendevano di un sinistro colore violaceo.

Un distintivo rumore di vetri in frantumi interruppe la scena.

Rintarou sussultò e sentì la forza del suo potere venire meno. Si voltò.

Johann era sulla porta, il braccio teso in avanti e l’espressione furente. Vi erano dei frammenti per terra, lì, dove il bicchiere aveva colpito il pianoforte, andando in mille pezzi.

“Johann!” Chiamò il Marchese, allontanandosi subito dal giapponese. “Che piacere rive-“

“Sotto quale sasso ti eri nascosto, maledetta serpe?” Domandò Johann, trattenendo a stento l’ira.

Rintarou decise di rimanere dov’era. Aveva molte domande, ma non era quello il luogo e il momento giusto a cui dare loro risposta.

“Colpa tua e dei nostri amici non avermi notato,” ribatté De Sade. “Poco male, ho avuto una piacevole conversazione con il tuo Fiore D’Oriente e-“

“Ti voglio fuori da questa casa entro stanotte.”

Il Marchese rise, deridendolo.

“Il padrone di casa sa benissimo che-“

“Il padrone di casa non si può permettere di andare contro la Torre dell’Orologio. Pur averti invitato per creare scandalo, tipico di Byron. Ciò nonostante, non può gestire un’accusa di favoreggiamento da parte mia.”

“Favoreggiamento di cosa, Johann.” Il Marchese aprì le braccia. “Tutti parlano di me e nessuno ha una prova che mi possa rovinare.”

“Solo fino a che impongo a me stesso un certo obbligo morale,” disse Johann, gelido.

Da dove si trovava, Rintarou non poteva guardare in faccia Louis Sade, ms qualcosa gli diceva che non si divertiva più.

“E tu che fingi ancora di non essere un guerriero, indossando la maschera del poeta,” disse il francese. “È stato un piacere, Rintarou,” aggiunse, senza voltarsi a guardare il diretto interessato negli occhi. 

“Ci rivedremo presto.”



 

XI
 

-15 anni dopo-



 

“Vieni con me, Osamu.” Elise gli porse la mano. Un gesto stupido a cui Dazai non diede seguito.

“Ops!” Esclamò lei, ridacchiando. “Hai ragione, non dobbiamo toccarci.”

Il ragazzino storse la bocca in una smorfia e fu tentato di farle il verso, ma si trattenne. Era un gioco, una sorta di telefono senza fili ma in cui non era ammesso commettere errori. Mori, senza essere presente, metteva alla prova il suo giovane assistente - a Dazai quell’etichetta proprio non andava giù - tramite Elise. 

Porgergli la mano era stata la prima prova, forse per vedere se il quattordicenne fosse attento.

“Tra noi due, l’idiota non sono io,” borbottò, seguendo la personificazione dell’abilità di Mori su per le scale di marmo. 

Elise continuava a parlargli ma il ragazzino non gli prevista alcuna attenzione. I suoi occhi scuri si posavano su ogni superficie della villa, giudicando aspramente lo stato di semiabbandono in cui versava. Mori doveva ricordare quel luogo in modo molto diverso. Da parte sua, Dazai non poteva negare che l’atmosfera gotica che aleggiava per tutto l’edificio fosse affascinante, ma se ne sarebbe stancato presto.

Non era di facili entusiasmi, a differenza dell’idiota che parlava col padrone di casa al piano di sotto e la noia era la sua migliore amica.

Dazai l’avrebbe volentieri sostituita con la morte, ma la fortuna non voleva proprio assisterlo in quel senso. Appoggiò una mano sul corrimano di marmo della scale. Rimase presto deluso dallo scoprire che era polveroso, certo, ma non di sicuro pericolante. Non poteva volare accidentalmente giù dalle scale e spaccarsi la testa in due. Non ci avrebbe creduto nessuno.

Un paio di gradini sopra di lui, Elise si fermò. “Pensa se, invece di morire, finissi per ferirti in modo da essere costretto a letto,” disse, forse intuendo i suoi pensieri. “Immagina come sarebbe dover dipendere da Rintarou in tutto e per tutto, magari per sempre. Se ti lesionassi la colonna vertebrale in modo grave, non guariresti. Puoi immaginare un’intera vita così?”

La bambina non si voltò, ma Dazai poteva intuire il sorriso sinistro che doveva avere in viso dal suono della sua voce. Sbuffò. “Procediamo?” Aveva freddo, tremava e voleva farsi quel maledetto bagno caldo.

Elise riprese a salire le scale, sempre saltellando. Dazai lasciò da una parte i suoi intenti suicidi per concentrarsi su un altro tipo di violenza: se avesse fatto del male a quella bambina, Mori avrebbe provato dolore?

Si diede preso dello stupida: il solo toccarla sarebbe bastato a farla scomparire.

Non poteva sfogare il suo malumore su di lei. Peccato.

Arrivati al secondo piano dell’abitazione, la mente di Dazai stava ancora cercando un modo per scacciare la noia. Quanto lo disturbava rendersi conto che la presenza di Mori, per quanto irritante, era un buon diversivo per lui. Fin tanto che il Boss della Port Mafia gli gravitava intorno riusciva quasi a dimenticare il suo desiderio di morire, in favore di quello di uccidere.

Dazai era certo che Mori lo facesse a posta: essere insopportabile era l’unico modo in cui riusciva a esistere. Questo portava la mente del quattordicenne a Johann Goethe, che era rimasto al fianco di Rintarou per ben cinque anni. No, non erano una vita intera ma era comunque troppo.

Dazai aveva perso il conto dei mesi che erano trascorsi da quando Soseki lo aveva lasciato nel mani di quel medico da strapazzo, ma era certo di essere invecchiato di un decennio nel mentre.

“Osamu, stai attento a non perderti,” disse Elise, premurosa.

Vi erano due corridoi, uno a destra e uno a sinistra. Un po’ gli ricordava la vecchia villa in cui lui e Mori si erano rifugiati dopo l’attentato alla vita di quest’ultimo, ma nemmeno lì aveva trovato tanta polvere e tanto buio.

Dazai cominciò a chiedersi se il bagno in cui avrebbe dovuto lavarsi esistesse davvero o fosse solo un’altra stanza lasciata alla rovina, in balia del tempo e della mancata manutenzione.

“Vieni, da questa parte.” Elise scelse il corridoio di sinistra.

Il ragazzino lo seguì senza fare domande, tenendo gli occhi fissi sul pavimento: c’era poca luca e nessuno gli assicurava che il pavimento fosse intatto. I tappeti che lo ricoprivano emettevano un odore stantio e anche se vi camminava sopra con le scarpe, gli faceva schifo.

Si chiese in che stato avrebbe trovato le lenzuola del proprio letto. Sempre ammesso che vi fosse ancora un letto lì e non un ammasso di muffa.

Elise smise di saltellare a metà del corridoio. “Siamo arrivati!” Esclamò, felice. La porta che scelse non aveva nulla di diverso da tutte le altre. La spalancò e Dazai ebbe la prima bella sorpresa di tutta la giornata.

“Oh, il padrone di casa ci ha trattato davvero bene,” commentò Elise, soddisfatta. 

Dazai entrò dopo di lei e quel che vide gli alleggerì il petto: i pavimenti erano lucidi, liberi da qualsiasi tappeto in fase di decomposizione; il letto era un vero letto, con una coperta calda e delle lenzuola fresche di bucato e, ultima ma non ultimo, vi era un allegro fuoco a scoppiettare nel caminetto.

Il ragazzino vi s’inginocchiò davanti senza troppe cerimonie. Non si rese conto di quanto era gelato prima di sentire le guance farsi calde troppo velocemente.

“Così non va bene,” disse Elise, richiudendo la porta. “Devi riscaldarti gradualmente, altrimenti il cuore si sforza troppo e rischi di collassare. Non sei esattamente un tipo robusto, sai?”

No, era pelle e ossa e ne era perfettamente consapevole. Ciò non significava che volesse sentirselo dire da lei. Al contrario, voleva solo che stesse zitta.

Elise non si preoccupò del suo silenzio. Passò oltre, esplorando la camera nei dettagli. Aprì l’armadio e sorrise soddisfatta. “I nostri bagagli sono già stati disfatti.”

“Che velocità,” commentò Dazai, senza nessun entusiasmo.

Se possibile, tremava ancor di più.

Quel piccolo Demone dai capelli biondi aveva ragione: stava per collassare, forse gli era anche venuta la febbre. Tutto perché si era imputato a non voler ascoltare Mori. Se si fosse preso un’influenza, avrebbe dovuto sorbirsi lamentele inutili per un’eternità.

Sbuffò, prendendosela con se stesso. 

“Osamu, dai, vieni a farti un bagno,” lo invitò Elise, col tono comprensivo di chi percepisce lo stato miserabile di qualcun altro.

Dazai sapeva che non era lei

Lei, in quanto essere, non era nemmeno reale.

Era Mori a parlargli, a prendersi cura di lui sotto mentite spoglie.

E Dazai non lo sopportava.

“Te lo preparo io!” Si offrì Elise, con entusiasmo, trotterellando verso la porta del bagno.

Dazai si voltò, il viso gli andava a fuoco. “Faccio da solo.”

Per la prima volta da quanto erano rimasti soli, gli occhi azzurri della bambina incontrarono quelli scuri dell’adolescente. Non c’era niente di Mori sul viso di Elise, eppure Dazai la vide assumere la stessa espressione con cui il Boss della Port Mafia era solito guardarlo quando faceva i capricci. “Sei davvero capace di fare qualcosa da solo?” Lo derise, velenosa.

Dazai la fissò, rancoroso. Anche se gli girava la testa e sentiva il corpo pesante, si costrinse a restare in piedi e a varcare la porta del bagno. Anche lì la situazione non era male: lo stile era un po’ vintage, con la vasca al centro della stanza, ma ogni superficie era tirata a lucido. 

Si sorresse contro lo stipite della porta. “Quel maggiordomo vecchio di secoli sembra avere più vitalità di me.” Faceva fatica a credere che fosse riuscito a rendere queste due stanza vivibili, mentre il resto della casa cadeva a pezzi.

Alle sue spalle, Elise rise. “Non ci vuole molto per essere più vitali di te, Osamu.”

Con una smorfia, Dazai fu costretto a darle ragione ma lo fece in silenzio. Si trascinò fino alla vasca da bagno. Era una di quelle con un rubinetto per l’acqua calda e un’altra per quella fredda e dovette star lì a regolare i due flussi per ottenere la temperatura desiderata.

Una volta soddisfatto, Dazai si lasciò scivolare sul pavimento, con la schiena appoggiata al bordo di ceramica bianca. Elise lo guardava dalla porta, con lo sguardo di chi si aspetta una richiesta d’aiuto da un momento all’altro. 

Piuttosto la morte, pensò il quattordicenne. Niente di nuovo, era la sua soluzione ogni volta che si ritrovava nella posizione di soccombere o fare qualcosa che non voleva.

Elise sospirò, rassegnata come una donna di quarant’anni. “Ti prendo dei vestiti puliti.”

“Faccio da solo,” ribatté Dazai, ma lei aveva già aperto l’armadio. La vide scegliere un completo a tre pezzi completamente nero, camicia compresa. Doveva averlo comprato Mori di sua iniziativa, perché il ragazzino non ricordava di averlo mai visto.

“Sarà la prima cena a cui presenzierai come Principe della Port Mafia,” spiegò Elise.

“Principe di che cosa?”

“Rintarou ci tiene che tu sia elegante.”

Rintarou insiste nel ricordare a tutti che non sono un signorino, poi crede di poter decidere come vestirmi.” Dazai si alzò in piedi e si accorse che la vasca era piena quanto bastava. Chiuse entrambi i rubinetti. “Se vuole usare la sua abilità per crearsi una bambola viva, faccia pure,” aggiunse. “Io non starò allo stesso gioco.”

Si tolse i vestiti pur sapendo che Elise - e, di conseguenza, anche Mori - lo stava guardando dalla porta. Più tardi, avrebbe potuto usare quel breve episodio per dare al Boss del maniaco ancora una volta, tanto per fargli saltare i nervi. La verità era un’altra: dopo che Mori gli aveva raccontato di come si era ritrovato prigioniero di un corpo non suo, Dazai non sentiva più la necessità di nascondersi. Ovviamente, questo allo stronzo idiota non lo avrebbe mai detto. Ci mancava solo che Mori s’illudesse di avere la sua fiducia e si montasse la testa.

Dazai s’immerse nell’acqua calda col più profondo dei sospiri. Appoggiò la nuca al bordo freddo e chiuse gli occhi. Era stanco e forse stava soffrendo i primi effetti del jet-lag, oltre ad avere il principio di un malore che poteva essere un comune raffreddore o un vero e proprio attacco di febbre.

Poco importava. Mori si sarebbe arrabbiato con lui in ogni caso, ormai era certo e non aveva vie di fuga.

“Osamu…”

Il quattordicenne aprì gli occhi e quando vide la bambina bionda aggrappata al bordo della vasca, sobbalzò con tanta violenza che dell’acqua sì rovesciò sul pavimento. Non l’aveva sentita avvicinarsi.

“Non farlo mai più,” sibilò, rabbioso.

Elise non smise di sorridere. “Non ti piace essere preso di sorpresa.”

“C‘è qualcuno a cui piace?”

“Le sorprese, per loro definizione, dovrebbero rendere felici le persone.”

Dazai alzò gli occhi al cielo: era il genere di discorso stupido che avrebbe fatto Mori per parlare di qualcosa senza farlo davvero. “Il Boss è stato colpito alla schiena molte volte.” Ricordò la notte dell’omicidio del vecchio folle, quando il medico si era liberato dei vestiti sporchi di sangue e Dazai non era riuscito a tenere il conto di tutte le cicatrici sulla sua pelle. Non che lui versasse in uno stato migliore. “Dubito che quelle sorprese lo abbiano reso felice,” aggiunse, sarcastico.

“Rintarou era un soldato,” ribatté Elise. “Non tutti i segni che ha addosso hanno alle spalle una storia di tradimento. La maggior parte sono souvenir della Grande Guerra.”

“Giusto, la Grande Guerra…” Dazai continuava a dimenticare che il giovane Mori Rintarou era morto in Germania, durante quel conflitto mondiale. Non poteva fare a meno di pensare che suonava terribilmente tragico, nel senso più poetico del termine. Mori Rintarou, per come lo raccontava la sua versione trentaduenne, sembrava più il personaggio di un romanzo che una persona vera. Nato Principe della Mafia, fuggito in Europa a quindici col suo primo amore, divenuto soldato proprio per restare con l’uomo che gli aveva rubato il cuore, un figlio perso - anche se Fletcher aveva parlato di una bambina - l’amante per cui aveva dato tutto era caduto in battaglia…

“Che melodramma!” Commentò aspramente Dazai, come se si trattasse di un lavoro di narrativa scadente e non della tragedia personale di una persona.

Elise lo scrutò, curiosa. “A che cosa ti riferisci?”

Gli occhi scuri del ragazzino continuarono a fissare il soffitto del bagno. “Elise…” Mormorò.

“Sì, sono qui,” rispose la bambina, stupidamente.

Dazai drizzò il collo e rispose allo sguardo di quegli occhi azzurri. Quando parlò, non fu a lei che si rivolse. “Era il nome che volevi dare a tua figlia, vero?” 

Elise continuò a sorridergli, come se non avesse compreso le sue parole.

“Mi hai mentito a Yokohama,” concluse il quattordicenne. “Il Generale era certo dell’esistenza di un figlio, tu l’hai messo a tacere prima che potesse dirlo chiaramente. Subito dopo mi hai raccontato quella balla sull’aborto spontaneo, ma il vecchio Fletcher era piuttosto certo dell’esistenza di tua figlia.” 

La bambina continuò a guardarlo serena, muta, come una bambola rotta.

“Un Dirigente della Port Mafia e il maggiordomo di un Lord inglese,” proseguì Dazai. “Non si sono mai incontrati e ti hanno messo in difficoltà con la medesima storia, pochi dettagli a parte. Non hai perso nessun bambino. Tua figlia è nata ed è morta.”

Elise sparì in un veloce bagliore viola. Dazai sollevò gli occhi scuri e trovò quelli di Mori che lo fissavano dalla porta. 

“Bravo,” il Boss della Port Mafia lo guardava soddisfatto, ma anche stanco. “Sei riuscito a mettere insieme i pezzi di cui ti stavo privando e hai visto la verità oltre le mie bugie. I miei complimenti, Dazai.”

“Non sei arrabbiato.” Dazai non nascose la sorpresa.

Mori scrollò le spalle. “Perché dovrei esserlo? Se sei bravo, sei bravo e il mio obiettivo è che tu divenga il migliore, quindi… Posso avvicinarmi?”

L’acqua copriva già tutto quello che c’era da vedere, ma Dazai si strinse comunque le ginocchia al petto. “Sì,” rispose, alla fine.

Mori non andò subito da lui, si avvicinò al mobile accanto alla porta e prese a cercare qualcosa dietro le ante. “Ti sei immerso senza prendere ciò che serve per rendere un bagno degno di tale nome.” Si avvicinò con tre bottigliette diverse strette tra le dita e un asciugamano bianco sotto il braccio.

“Mi vuoi avvelenare?” Domandò Dazai.

Mori sbuffò. “Questa tua fissa per i veleni va un attimo rivista.” Si sedette sul pavimento a gambe incrociate, come se il ragazzino di quattordici anni fosse lui. “Sta a vedere la magia.” Prese una delle tre bottigliette - quella rossa - e ne versò gran parte del contenuto nell’acqua. 

Dazai lo guardò come se si fosse completamente rincitrullito. “E quindi?”

Parliamo,” rispose Mori, “aspettando che si compia la magia, intendo.”
“Vuoi davvero parlare di Elise?”

“Se lo vuoi anche tu.”

Dazai era sorpreso dalla serenità con cui il Boss affrontava l’argomento. Lo aveva visto ribollire di rabbia di fronte al traditore che aveva organizzato il massacro della sua famiglia, ma il ricordo della figlia morta non sembrava colpirlo con altrettanta ferocia. 

“Era figlia di Johann?” Dazai lo chiese pur conoscendo la risposta.

Mori sollevò l’angolo destro della bocca. “La risposta è un tantino scontata.”

In effetti.

“Come è morta?” Domandò quattordicenne.

“Per parlarti della sua morte, dovrei parlarti di quella di Hans,” rispose Mori. “Non sono sicuro che tu abbia la pazienza.”

“Ti sembra che stia tentando la fuga?” Domandò Dazai, sarcastico. Notò che la vasca si stava riempiendo di schiuma. “Hai fatto veramente quello che credo?”

“Oh, avanti!” Esclamò Mori. “Tutti amano i bagni pieni di schiuma! Non fare il guastafeste!”

Sì, Dazai non aveva assolutamente alcuna difficoltà a immaginare l’attuale Boss della Port Mafia mentre canticchiava in falsetto, girandosi e rigirandosi in una vasca da cui fuoriuscivano bolle di sapone.

“Non pensavo che fossimo venuti qui a Ginevra per girare lo spot di uno shampoo,” si lamentò il ragazzino.

Mori rise, di gusto. “Questa mi è piaciuta!” Esclamò. “Allora, vuoi sentire questa storia o no?”

“Accomodati.”

Contro ogni aspettativa del più giovane, il Boss non allontanò lo sguardo da lui nel raccontare. “Vivemo a Weimar,” cominciò. “Quando non eravamo in battaglia, avevano una casa fuori città. La chiamavamo la casa con giardino, per distinguerla dalla proprietà principale, che si trovava in centro e in cui non andavamo quasi mai. Quella che sto per raccontarti è la mia verità, ma sappi che gli ultimi eventi mi stanno facendo ricredere su molte cose.”

Dazai annuì per dirgli che aveva capito. “Vai avanti.”
“Non so chi ci abbia attaccati,” ammise Mori. “Al tempo, sospettai addirittura del Governo di Germania, ma non ho prove. Non so chi sia entrato in quella casa e abbia fatto quello che ha fatto.”

“E cosa ha fatto?”

“In realtà, su Elise c’è poco da dire,” ammise Mori. “L’avevo lasciata nella sua culla e quando sono tornato, ho trovato solo la sua copertina sporca di sangue.”

Per chiunque, quelle parole sarebbero state sconvolgenti. Quale mostro avrebbe mai potuto far del male a una bambina in fasce? Dazai Osamu non aveva il lusso di porsi certe domande, perché in mezzo a quei mostri era cresciuto. Fare del male a un essere umano così piccolo non era così difficile come alla gente comune piaceva credere.

“E Johann?”

“Qui viene la parte interessante,” disse Mori. “Di lui ho trovato solo la testa.”

Dazai sgranò gli occhi. “Mentre venivamo qui, mi hai detto di avere il sospetto che Johann Goethe sia la terza parte coinvolta nella storia di Byron.”

“E lo credo.”

“Hai appena detto di aver trovato la sua testa.”

“Avanti, Dazai, sei intelligente,” lo sfidò Mori. “So che hai già capito dove voglio andare a parare.”
Il quattordicenne non dovette pensarci. “Pensi non fosse Johann Goethe?”
“Penso che avevo appena vent’anni, piangevo come non ho mai pianto in vita mia, era buio e quel viso era stato sfregiato.”

“Allora perché ti sei convinto fosse Johann?”

“Perché non poteva essere nessun altro,” rispose Mori. “Perché aveva gli stessi capelli biondi, perché l’unico occhio che gli era rimasto era azzurro. Perché c’erano solo lui e Elise in quella casa. Chi altri poteva mai essere?”

Dazai non poteva dargli torto. “Pensi che abbiano finto la morte di Johann per separarlo da te?”

“Non riesco a fare ipotesi su questo.” Mori guardò verso la finestra: la neve continuava a cadere. “So che al tempo avevamo tanti nemici da non poterli contare. Subito dopo la tragedia, io me la presi con il sospettato più plausibile e feci perdere le mie tracce. Mori Rintarou è morto allora, subito dopo Johann ed Elise.”

Dazai circondò le ginocchia con le braccia e fissò la schiuma farsi sempre più densa. “Ammettiamo che Johann Goethe sia viva per davvero,” ipotizzò. “Prendiamo per vera la teoria secondo cui lui è l’uomo ad aver consegnato la lettera di Byron a Hirotsu. Perché?”

“Ci siamo già posti questa domanda, Dazai.”

“No, mi sono spiegato male,” aggiunse il quattordicenne. “Perché adesso? Dove è stato negli ultimi…”

“Dodici.”

“Ecco, dove è stato negli ultimi dodici anni?” Si domandò Dazai. “Lo hanno rinchiuso per tutto questo tempo e ora, non sappiamo come né perché, è libero di volare fino a Yokohama per mettere in moto un piano che non sappiamo se è a nostro favore o sfavore?”
“Mi pongo le stesse domande, Dazai,” lo rassicurò Mori. 

Dazai lo fissò e quello sguardo bastò a preannunciare le parole che seguirono. “Se sai che potrebbe essere nostro nemico, perché ci speri tanto?”

Mori sorrise amaramente. “Non posso proprio nasconderti più niente,” concluse. “Non va bene.” Si sollevò sulle ginocchia, raccolse un po’ di schiuma sul palmo della mano e la sbatté contro il viso del ragazzino.

“Ma che diavolo!” Imprecò Dazai, pulendosi gli occhi.

Mori non gli diede il tempo di riprendersi: prese la seconda bottiglietta - di colore blu - e versò il contenuto sulla testa del ragazzino. Si spostò alle sue spalle e affondò le dita tra i ribelli capelli scuri per insaponarli.

Dazai tentò di ribellarsi. “Toglimi le mani di dosso!”
“Su, su, li devi curare questi capelli o finiranno per divenire un nido di rondini.”

“Non sono affari tuoi!”

“Oh, lo sono eccome!” Ribatté il Boss della Port Mafia, alzandosi in piedi alla ricerca di un pettino. Quando lo trovò, si voltò a guardare il suo giovane assistente e per poco non scoppiò a ridere: a causa del sapone, Dazai aveva tutti i capelli dritti.

Il quattordicenne lo guardò malissimo. “Sei un idiota.”
“Linguaggio, ragazzino.” Mori gli tornò accanto e prese a pettinargli i capelli per districare i nodi.

Dazai borbottò per tutto il tempo, ma gli fece la grazia di stare fermo. 

“Hai dei bei capelli,” commentò il medico, arricciando le punte intorno alle dita.

Il ragazzino tentò di voltarsi, ma le mani dell’altro glielo impedirono. “Ti perdi in complimenti, adesso?” Domandò, sarcastico. “Perché non mi dici di cosa avete parlato tu e Byron.”
“Prima di tutto, sembra interessato più a te che a me.”

Dazai gli lanciò un’occhiata orripilata da sopra la spalla. “Vuoi vedermi, dì la verità?”

Mori rise di gusto per la seconda volta in pochi minuti. “Temo che nemmeno George Gordon Byron abbia abbastanza denaro per comprarti.”

“Oh, adesso ho un prezzo?”

“No, hai un valore,” ribatté Mori. “Tu puoi non riconoscerlo in te stesso, ma io non posso fare a meno di notarlo. Immergiti con la testa all’indietro.”

Dazai ubbidì e quando tornò in superficie, i suoi capelli erano perfettamente lisci e completamente tirati all’indietro.

Mori gli rivolse uno sguardo che tradì un poco di tenerezza. “Sì, hai davvero un bel faccino.”

“La pianti?” Domandò Dazai. C’era un limite a quanto poteva sentirsi orripilato in una sola giornata. “Questi maledetti soldi ci sono?”
“Lo scopriremo con certezza solo domani,” rispose Mori. Afferrò l’asciugamano da terra e si alzò in piedi. “Avanti,” disse, aprendolo, “prima ti asciughi e meno soffrirai dello sbalzo di temperatura. Se sei fortunato, ti beccherai solo un raffreddore.”
Dazai si sollevò dall’acqua, stando attento a rimanere di spalle. Fu una precauzione inutile, perché Mori non tardò ad avvolgerlo nell’asciugamano. 

Non appena il Boss della Port Mafia si fu allontanato, il quattordicenne si voltò per scavalcare il bordo della vasca. Prima di porre la sua prossima domanda, puntò gli occhi scuri contro la schiena dell’uomo. “Se Johann Goethe è vivo, pensi che lo sia anche Elise?”

Mori si fermò sulla porta del bagno, come se si fosse trovato davanti a un muro invisibile. “No, non credo,” rispose, infine. “Ho smesso di cercarla molto tempo fa.”

Dazai non riusciva a capire. “Del sangue in una culla non è niente,” disse. “Non puoi nemmeno sapere se fosse suo e-”
“L’ultima volta che ho parlato faccia a faccia con mia madre, mi ha detto una cosa che non ho più scordato,” lo interruppe Mori. “Il sacrificio estremo per un figlio è una cosa stupida, perché, in questo mondo, un bambino senza nessuno che lo protegga è condannato. Forse Elise non è morta quella notte, ma sono certo che non c’è più.”

A quel punto c’era un dubbio che Dazai aveva bisogno di togliersi. “L’amavi?”

Nonostante la sua impudenza, Mori fu abbastanza gentile da rispondergli sinceramente: “più della mia stessa vita.”

Più quella conversazione andava avanti, meno il ragazzino riusciva a dare un senso all’uomo che gli era di fronte. Già a Yokohama aveva trovato difficoltà. “E come fai a stare in piedi?” 

“Elise era la figlia di Rintarou e Johann,” rispose il Boss della Port Mafia. 

Dazai capì l’antifona. “E Mori Rintarou è morto in Germania, durante la Grande Guerra,” concluse con per conto suo. 

“Proprio così, Dazai.” Il medico gli fece cenno di avvicinarsi. “Vieni qui. Questa sarà la tua prima cena nelle vesti di un Principe della malavita e voglio porre attenzione anche ai dettagli.”

Dazai alzò gli occhi al cielo. “Che cos’è questa novità?” Domandò, già esasperato. “Guai a chiamarmi signorino, ma adesso sono vostra altezza?”

“Non ti sto educando per diventare il mio segretario,” gli ricordò Mori. 

“Io non diventerò un bel niente, perché io morirò prima che finisca il mio primo anno nella tua vita!”
“Se ne sei convinto…” Il Boss aveva ormai imparato che era inutile contraddirlo, tanto valeva lasciarlo libero di dire le sue fesserie. “In ogni caso, sappi che puoi presentarti a questa cena come Principe della Port Mafia o sopportare che Byron ti dia del Fiore d’Oriente per tutto il nostro soggiorno qui.”

Dazai fu svelto a cambiare idea. “Principe della Port Mafia va benissimo.” Se doveva ereditare uno dei titoli di quel folle che si spacciava per suo tutore, meglio optare per quello meno umiliante.

Mori sorrise soddisfatto. “Molto bene, vostra altezza.”


Note:
[1]
Mephistopheles è il nome ricorrente soprattutto nella cultura folkloristicatedesca per indicare un diavolo. Viene spesso dato a una rappresentazione di Satana. È anche il nome con cui viene chiamato il demonio nel mito di Faust - che ispirò il “Faust” di Goethe.
[2] citazione da “La tempesta” di William Shakespeare.

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