Runica - Sorgi e Splendi di Leo_Zanardi (/viewuser.php?uid=1219472)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ritrovarti Qui ***
Capitolo 2: *** All'Ombra della Forgia ***
Capitolo 3: *** I Cancelli di Zoa ***
Capitolo 4: *** Il Ladro ***
Capitolo 5: *** Per il Blu Minore ***
Capitolo 6: *** Battaglia sul Mare ***
Capitolo 7: *** L'Armata Chimerica ***
Capitolo 8: *** MORBANE ***
Capitolo 1 *** Ritrovarti Qui ***
0. RITROVARTI QUI
Il
primo giorno del regno,
sorge
un sole come qualsiasi altro.
– Albraber, storico drailiano
«Ecco, ero sicura di
ritrovarti
qui» commentò Ed tra sé, scocciata.
L’aveva detto, che non
voleva
stare lì. Ma Ed aveva immaginato subito che la mattina dopo
ci sarebbe tornata,
malgrado quello che aveva detto. E il casolare – una vecchia
fabbrica
abbandonata, piena di sacchi di sabbia e altro materiale gettato alla rinfusa
– ora sembrava
diventato quasi un tempio, con tanto di pellegrini in visita. Alla luce
del
mattino sembrava che i muri di mattoni anneriti dal fumo splendessero
un po' più
di prima, quasi che l’intero scenario volesse di proposito
tingersi di una
spoglia sacralità.
«Mi tocca stare in fila.
Che roba».
Fuori dal casolare c’era
una fila
di persone e colei a cui si rivolgeva era all’interno, e
naturalmente non
poteva sentirla. La metafora era appropriata: c’era una massa
di gente tra le
due ragazze, e la comunicazione era impossibile. In un certo senso, non
era mai
stato altro.
«Venite anche voi a
ringraziare,
giovane nana?»
«Ma zitto, vecchio
bacucco».
L’anziano si
allontanò da lei di
un passo, infastidito. Alla fine della fila, una giovane guerriera
dall’aria stanca
che di tanto in tanto, sforzandosi di mantenere un tono gentile,
esortava:
«Avanti, il prossimo, su».
Di certo, anche lei si rendeva
conto dell’assurdità contraddittoria della
situazione in cui tutti loro, di
colpo si erano trovati. O forse no. Forse non se ne rendevano conto
affatto, o
preferivano far finta che fosse così. Era quel che,
dopotutto, si poteva
definire un buon intuito, una capacità di capire dove tira
il vento. Forse lei
non l’aveva.
«Vai a rendere
omaggio?» chiese
una voce.
Sobbalzò appena:
«Ma sei scemo. Non
venirmi alle spalle così».
Gli occhi color senape
dell’elfo
si incontrarono quelli ramati, da nano, di Ed. Nuovamente,
l’elfo scandì
lentamente.
«Vai a rendere
omaggio?»
«Col cazzo»
ribattè lei, sboccata
come spesso era, quando si innervosiva.
«Delicata».
«Vuoi vedere quanto
delicata
posso essere?»
«Su, non roviniamo il
momento.
Questa gente è sollevata».
«E tu ci tieni molto alla
gente, dopotutto».
«Nemmeno un
po'».
La ragazza ridacchiò.
«Uno sviluppo
inaspettato, eh?»
«Forse»
smorzò l’altro con un
sorrisetto.
La fila, intanto, procedeva
lentamente.
«Forse, dice lui.
“Forse”, sì.
Sei proprio un brutto soggetto, lo sai?»
«Sembra che la cosa ti
diverta».
«Tu sei bravissimo a far
finta
che diverta te».
L’altro
allargò le braccia:
«Colpevole. Ma siamo in due, dopotutto».
«Oh, no. No, no, no. Io
non fingo
che non mi freghi. Non mi frega proprio».
L’elfo tacque per qualche
secondo, prima di commentare a bassa voce.
«Fai la fila con gli
altri, così
potrai dirle quanto poco ti frega».
«Ti odio» disse
lei con un
sorrisetto triste che smentiva quelle parole.
Arrivata davanti alla porta, la
guerriera la riconobbe e le diede una pacca sulla spalla con energia.
«Piano, sono ancora
dolorante».
«Non dirlo a
me».
«Allora entro».
«Certo. Le
farà piacere».
«No. Non credo».
Una vecchietta uscì
aprendo
appena il portone di legno, lasciandolo socchiuso. Ed lo
attraversò, e attraversò
il piccolo rudere, che era stato un impianto di lavorazione dello
zolfo, a
giudicare dall’odore. C’erano doni adagiati che lei
sorpassò senza neanche guardare
cosa fossero, avvertendo che c’erano solo per via di profumi
che smorzavano il
residuo sulfureo. Seduta su un sacco di pietrisco, l’altra
alzò lo sguardo.
«Ah, sei tu».
Forse lo sapeva, cosa era venuta a
dirle.
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Capitolo 2 *** All'Ombra della Forgia ***
1. ALL’OMBRA DELLA FORGIA
Il
primo che ha intagliato dalla pietra la prima arma
fu anche il primo a sedere su un trono.
– Fridun Nix, filosofo di Dulinhall
Ed aprì gli occhi e in
un unico, concentrato,
istante fu immediatamente sveglia. Non era insolito, per lei,
svegliarsi in una
frazione di secondo: era come protestare contro il sonno che tante
preziose ore
di lavoro le sottraeva. Cercò con le mani il berretto
accanto al letto, il suo
caro, vecchio berretto “da strillone” come si
diceva in città, perché era
spesso usato dai ragazzi che urlavano le notizie. Lo carezzò
con affetto,
congratulandosi con sé stessa per il suo buono stato.
Se si rovinasse, che penserebbero i
miei amici?
Indossandolo cercò di
togliersi
dal viso le ciocche rosse dei suoi ingovernabili capelli;
ciononostante,
svariati ciuffetti continuavano a finirle ostinatamente sugli occhi e
per
questo imprecò a profusione – sebbene anche questo
rientrasse nella normalità –
poi cercò gli occhiali da fabbro, pulendoli distrattamente
dalla fuliggine, e
li usò per stringere il berretto sui capelli. Si
guardò intorno: lo stanzino
esagonale di pietra chiara che ospitava il suo letto era debolmente
illuminato
dalla luce color crema di un cristallo, vi cercò lo
specchio, una placca
ottagonale che la rifletteva perfettamente: le occhiaie non erano
sparite con
quelle poche ore di sonno. Passò una mano sulle sue guance
nere e lucide come
l’onice, nere come il resto del suo corpo.
Magnifica presenza, un viso
aristocratico degno delle nobili stirpi dei
nani, testimone della purezza del sangue.
Chissà dove tutte le
nobili
stirpi erano andate a finire con la loro purezza? Pur infastidita da
quel
ricordo indesiderato, dovette ammettere con sé stessa che
era stato comodo
avere ancelle sempre dedicate alla sua bellezza, a mantenere lucida la
sua
pelle nera, luminoso ogni riflesso dei suoi capelli ramati, impeccabili
le sue
vesti di aristocratica purosangue; col tempo il lavoro aveva imposto i
suoi segni
sopra tutto questo e lei era troppo impegnata o stanca o distratta per farci qualcosa.
In ogni caso, mi preferisco
così. Sono più bella in questo modo…
diciamo.
Si tirò in piedi,
calpestando la
coperta di pelle d’orso. Pose una mano sulla parete e chiuse
gli occhi,
concentrandosi come solo un nano poteva fare sulle vibrazioni che
percorrevano
il suolo: percepì che la temperatura della superficie era
piuttosto bassa,
quindi infilò sopra i pantaloni dell’uniforme
un gilet rosso scuro in tartan. Un pesante sospiro e,
infilati gli
stivali, non le rimase che girare la valvola e, con essa, la parete
dell’abitacolo cominciò a roteare fino a
schiudersi del tutto. La volta della
galleria le si aprì davanti: tutti gli altri esagoni erano
già aperti e vuoti,
ciascuno degli apprendisti nani che vi riposava era sicuramente
già alla
Forgia, o quasi; sopra la galleria la città era
già sveglia e attiva, poteva
sentire il calpestio della gente che si spargeva sulle strade. La
campana
suonava la nona ora, poté sentirlo anche attraverso le mura
sotterranee, e lei
era di nuovo in ritardo.
***
Jen si sciacquò di nuovo
il volto
con l’acqua fredda del fiume, poi rimise mano al bucato. Da
ormai due anni era
diventata quel che si dice una donna di casa, ma il suo corpo di
sedicenne,
figlia maggiore che era stata coccolata e addirittura – nei
limiti della sua
famiglia, non certo abbiente – quasi viziata,
faticava ad accettare il
cambiamento. Le sei del mattino andavano bene per dormire, non per fare
il
bucato nel fiume gelato. Ma come aveva fatto sua madre a lavorare
così, da
quando suo padre era mancato? Tuttavia, senza dubbio, Jen preferiva
proprio le
ore che precedevano l’alba, quando poteva lavorare in pace
con il sole come
unico compagno, sole che era ancora soltanto un sospetto rossastro
oltre
l’orizzonte. Le ore successive andavano peggiorando, via via
che la costruzione
svettante al centro del lago in fondo alla valle prendeva vita. Suonava
quasi
la nona ora, adesso, e le bocche incandescenti della Forgia sputavano
senza sosta
fumo nero che divideva il cielo in ampie fette di azzurro; e come ogni
giorno,
intorno le volavano in cerchio quelle
cose, che si sarebbe potuto scambiare per uccelli ma che
certamente non lo
erano. Ogni tanto qualcuna doveva spostarsi verso altre
città e passava sopra
le loro teste, spaventando gli animali. Un paio erano atterrate davanti
alla
fattoria, probabilmente avendo scambiato le pecore per un manipolo di
banditi o
qualcosa del genere, ma fortunatamente limitandosi a squadrare Lor e
Yul per un
po’ per poi ritornare al luogo che erano preposti a
custodire. Nel pomeriggio,
la struttura perdeva sempre più i suoi contorni nel cielo
che imbruniva, fino a
lasciare visibili solo le ciminiere accese, come occhi incandescenti di
un
ragno che troneggiava perfido sul lago. Di certo anche da Kalaston, le
cui
bianche case erano pigramente adagiate sul versante opposto, potevano
vedere la
Forgia, ma per loro non avrebbe mai avuto lo stesso significato: per la
città,
la Forgia che sorgeva al centro della valle significava
l’armonia tra umani e
nani, l’espansione del benessere della città, la
dimostrazione della forza di
quella comunità un tempo insignificante; per la campagna,
era un’invasione di
campo, una contaminazione del proprio spazio vitale e in sostanza una
convivenza forzata.
***
Valiel interruppe la meditazione
quasi costringendosi; il sole filtrava tra i raggi illuminando da
diverse
angolazioni proprio ciò che lo aveva disturbato. Era un lupo
enorme, dal manto
striato di diverse tonalità brune, gli occhi profondi
puntati dritti nelle sue
iridi chiare di elfo, due gemme ambrate nel suo viso olivastro.
Alzandosi da
terra, il fogliame che s’intrecciava nel mantello di Valiel
cambiò colore e
forma, abbandonando le verdi foglie ovali del suolo che imitava e
tornando alla
loro reale forma bruna e frastagliata.
Camminò verso
l’animale e gli
pose una mano sulla fronte: «Minacce?»
domandò al lupo in una lingua non umana.
L’animale fece un cenno e
corse
in una direzione ben precisa, tra gli alberi. L’elfo
saltò agilmente tra i rami
per arrivare in alto, così da individuare cosa fosse a
spaventare la foresta, e
guardò nella direzione in cui era corso il lupo. Finalmente
riuscì a vederli:
passarono in fretta, ad una velocità che l’occhio
umano non avrebbe seguito
facilmente, erano in quantità decisamente insolita ed anche
diversi per forma e
dimensione da quelli che volavano intorno alla Forgia poco distante;
sebbene si
spostassero fluidi tra un albero e l’altro era facile capirne
la traiettoria,
erano diretti proprio lì alla Forgia o forse alla
città di Kalaston, poco
oltre. Tuttavia volavano bassi e le loro forme, che gli ricordarono dei
pesci
manta, stavano in verticale tra gli alberi, così da tagliare
l’aria come una
spada e da spostarsi tra gli alti tronchi senza essere visti: se
fossero stati
diretti ad una grande città, quella precauzione non avrebbe
avuto alcun senso.
Sicuramente volevano percorrere la foresta fino a valle e poi
raggiungere la
Forgia nascosti sotto il pelo dell’acqua lacustre. Valiel
rimase per un po’
indeciso sul da farsi; disegnò un ampio semicerchio con lo
sguardo cercando
qualcun altro sui rami, prima di constatare che era l’unico
ramingo nelle
immediate vicinanze. Non sapendo quanto fossero passati vicino a
Evalunith, era
impossibile determinare se altri elfi li avevano notati, se avessero
riportato
qualcosa ai rifugi e se avessero ricevuto ordini dalla regina. In
effetti, come
poter anche solo ipotizzare che fosse qualcosa degna di nota? Se non
vedeva con
i suoi occhi quelle cose tuffarsi nel lago, e quindi riportare alla
Forgia
qualcosa di estremamente importante, estremamente urgente ed
estremamente
segreto, non poteva concludere di aver visto alcunché di
strano. L’unica via,
dunque, era cercare di seguirli.
***
La piastra rovente faceva
sfrigolare il pane al contatto col burro fuso. L’odore di
maiale affumicato e
formaggio stagionato iniziava, con il calore, ad abbandonare il pane
tostato e
a diffondersi nell’aria.
«È bello caldo
ormai, perché non
ci spacchi due uova sopra?»
«È ancora
presto, Ed, non
cuocerebbero».
«Io dico di sì
e ho fretta».
«Ukor sia benedetto! Mi
lasci
lavorare?»
Ed decise di non parlare
più
finché Wulf non decise che era effettivamente il momento di
rompere due uova
sul toast. Si batté una mano sulla fronte nera come a
commentare lo spettacolo
di un individuo senza speranze. Dall’alto partì un
secondo flusso di calore,
che doveva cuocere le uova.
«È
inutile fare il muso.
Non ho colpa se ritardi sempre. E poi è giusto il secondo
stamattina, spero non
ti mangi solo questi per colazione. »
Ed sbuffò guardando di
lato,
mentre le sue dita nere agguantavano il pane ancora rovente. Dovette
aspettare
ad addentarlo: la pelle dei nani resisteva bene al calore, ma la lingua
non
poteva dirsi troppo migliore di quella di un umano o un elfo.
«Prendi solo quello? Sono
due
giorni che mangi come un bimbo. Fattene almeno altri due!»
«Una colazione leggera
andrà
bene, per oggi… non rischio di morire di fame ed ho fretta.
Se volevi che ne
mangiassi quattro dovevi essere il doppio più
svelto» ribatté lei alzandosi.
«Un po’ di
yogurt col miele? Del
formaggio fresco? Birra nera?» insistette l’altro.
«Non ho fame ti
dico!» sbottò
infine mentre già si accaniva senza remora su pane,
prosciutto, formaggio e
uova che soccombevano ai suoi morsi.
«Lasciami stare! Sto a
posto così»
assicurò parlando a bocca piena.
Wulf decise che era il suo turno
di tenerle il broncio. Ed lo notò all’istante.
«Scusa»
sussurrò lei «è che… sono
davvero indietro con quel lavoro… i nervi mi chiudono lo
stomaco…»
Wulf soffiò fuori dalle
narici
tutta la sua insoddisfazione per quel tentativo di scuse. Ma prima che
il
lungo, collaudato e ripetitivo rituale delle scuse tra amici potesse
durare
oltre, un tremito nella parete di roccia segnalò
l’arrivo della funivia che
l’avrebbe portata direttamente alla Forgia passando per il
sottosuolo.
«Mi farò
perdonare! Domani ne
mangio almeno sei!» cercò di scandire Ed tenendo
il toast nei denti, mentre si
avviava.
Si annunciava una pessima
giornata. Doveva arrivare alla Forgia senza passare dalla superficie
per sbrigarsi
e la cosa la indispettiva: aveva proprio voglia di vedere il sole.
Inoltre,
malgrado i Mastri avessero annunciato un giorno importante, la cosa non
aveva
avuto un impatto apprezzabile sulla sua puntualità. Questo
non sarebbe passato
inosservato.
***
Sette giovani nani muovevano il
loro corpo in sincrono, la tensione dell’attesa che esplodeva
in movimenti
spigolosi e decisi secondo un ritmo silenzioso ma ben inciso nella loro
memoria. Sette mani tracciarono in aria delle grandi rune dal medesimo
significato:
“Ukor”. Era l’ultima parola
dell’esercizio e lo concludeva, il nome del dio
patrono dei nani, il grande fabbro, e la parola finale del
ringraziamento
religioso per gioire insieme dell’opera appena creata. Il
potere della runa
richiamò quello di Ukor, il cui nome era appena stato inciso
sette volte
nell’aria, e i segni tracciati si colorarono di un bagliore
incandescente. I
sette apprendisti trascinarono rune fiammeggianti col dito indice, fino
ad
apporle nelle forme metalliche appena create, dove si incisero
oscurando
l’acciaio. Si erano incise in totale tre rune su ciascuna
delle sette lame, e
ciascuna lama aveva quindi ricevuto il medesimo nome: Spada Consacrata
ad Ukor.
Lo stesso nome di migliaia di opere identiche, prima di queste; Ed
osservò la
sua con sguardo annoiato: un’opera uguale a tutte le altre
non poteva dirsi
veramente sua ed era certa che ciascuno dei suoi compagni la pensava
allo
stesso modo. Perché solo lei non si preoccupava di
nasconderlo? Odiavale
ipocrisie anche e soprattutto quando un’intera
società le praticava.
«Bene,
bene…»
Mastro Airon si carezzò
il
pizzetto corto e appuntito e prese a camminare tra loro lasciando
ondeggiare
l’ispida, lunga coda che legava i suoi capelli bianchi. Gli
altri mastri
seguivano Airon con lo sguardo. I suoi lineamenti color cemento si
contrassero
varie volte in maniera appena percettibile e sempre differente, come se
ciascuna di quelle creazioni metalliche apparentemente identiche
meritasse un
discorso a parte; tuttavia, a causa della lente semicircolare che gli
circondava il viso, coprendo completamente gli occhi, era impossibile
determinare chi di volta in volta stesse guardando attraverso la
superficie
riflettente. Dopo aver esaminato ciascuno di loro, parlò.
«Molto bene. Ora provate
a sentire ciò che avete
creato. Ad entrare
in comunione con esso».
Erano oggetti simili a ruote
metalliche; da un lato del cerchio si allungava una lama lunga, larga e
piatta:
erano spade che erano state pensate per non essere impugnate, per
muoversi nell’aria
seguendo la volontà del loro padrone, dato che di solito
questa è più veloce
della mano dello stesso. Ciascun apprendista mise il pugno chiuso sopra
il
cerchio, rivolto verso l’alto, e così
sentì una corrente collegare il dorso
della mano all’epicentro del potere che aveva appena
imbrigliato nel metallo.
Le armi scivolavano nell’aria fino a fissarsi
all’altezza del gomito, così da
essere come una prosecuzione del braccio stesso. In sincrono gli
apprendisti
sollevarono i pugni, che trascinarono con sé, sospese a
mezz’aria, le lame,
mentre come a passo di danza tutti e sette vibravano un colpo di taglio
quasi a
voler tranciare l’aria in due. Ed, proprio come ciascun altro
apprendista,
constatò con soddisfazione che la lama seguiva il braccio,
come doveva.
«Imparate ad usare
l’attrezzo più
importante: la vostra mente. Essa è a sua volta uno
strumento, uno strumento
dell’anima. E così l’anima forgia la
mente ed essa tramite il corpo forgia la
realtà. E se la vostra carne, originata da voi,
può sottomettersi all’impulso
della mente, perché non può farlo il metallo?
Convincetevi di questo!»
L’esortazione urlata dal
Mastro
Airon echeggiò nell’ampia volta della sala
tempestata di incudini di diversa
altezza poste ad ugual distanza, come capitelli ornamentali nella
sterminata
superficie di un tempio. Sembrava che avesse parlato la Forgia, nella
sua
interezza. Era piuttosto vicino ad Ed e quando urlò di nuovo
la fece quasi
sussultare.
«Convincetevi! La vostra
convinzione scolpirà la realtà stessa!
Ora… mostratemelo!»
Lentamente, le lame fluttuanti
presero a roteare su se stesse, come i loro padroni chiedevano loro di
fare.
Ben presto iniziarono a scatenare una pioggia di scintille dai colori
rosso
fiamma e verde acqua, i colori del fuoco sacro di Ukor, la cui vista
ipnotizzava i nani sin dalla nascita. L’energia magica era
intrinsecamente
legata a ciascuna lama, ciascuna runa aveva operato correttamente,
ciascun
apprendista era riuscito nell’intento.
«Il potere di
forgiare» prese a
dire Airon «è un potere creativo. È
nato per costruire e non per distruggere. E
tuttavia, ci è data la possibilità di forgiare
armi. Nell’arma imbrigliamo la
nostra voglia di distruggere, la nostra aggressività, e le
permettiamo di
resistere nel tempo, addirittura possiamo donarla ad altri
perché combattano
per noi o per sé stessi».
Il Mastro tacque per qualche
secondo, come per dare il tempo a ciascuno di pesare bene quelle
parole. Le
lame continuavano a girare descrivendo cerchi perfetti. Nessuno perse
la
concentrazione.
«Invero, quello di creare
armi è
un potere enorme e terribile. E tuttavia alcuni di voi sceglieranno di
usare
questo potere creativo, come abbiamo fatto oggi, proprio per creare
armi che
distruggono. Per combattere per gli altri o per sé stessi.
Ma chi di voi si
sente in grado di piegare tale potere? Di controllarlo? Di
dominarlo?»
Il Mastro passeggiò
pazientemente
tra gli allievi. Constatò con un dispiacere molto ben celato
che nessuno di
loro aveva perso il controllo della lama, che manteneva costanti
velocità e
traiettoria. Tutti loro, dunque, sarebbero probabilmente diventati
fabbri di
armi, un esito che negli anni era sempre più comune al
concludersi degli
apprendistati. Le altre arti, invece, si facevano sempre più
rare. Quasi che i
giovani stessero col tempo maturando una necessità ormai
insopprimibile di
violenza. Veniva da chiedersi che senso avevano avuto, per le
generazioni che
li avevano preceduti, i tanti sforzi per arrivare finalmente a lunghe
parentesi
di pace nella trama della storia, se poi anche nella pace permaneva una
atavica
nostalgia delle epoche insanguinate. Un ciclo infelice in cui gli avi
soffrono
per ottenere una pace che i loro discendenti non tengono in gran conto.
«Molto bene»
concluse a
malincuore «la vostra determinazione è forte. Ora
imponete voi stessi a voi
stessi: che si fermino le lame… ora!»
Le lame erano ormai
indistinguibili, solo cerchi di metallo acuminato e roteante, eppure
appena fu
impartito l’ordine di Airon agli studenti, e dagli studenti
ai loro strumenti,
questi si immobilizzarono a mezz’aria nello spazio di un
frammento di secondo.
Imperlata di sudore, Ed guardò la punta della sua lama
raffreddarsi e perdere
il suo bagliore rossastro mentre le scintille saltellavano spegnendosi
sul
pavimento.
***
Non ci mise molto ad individuare
Svea che passeggiava lungo la balconata, godendosi l’acqua
profonda priva di
increspature del Lago Kalst e le ciminiere che si specchiavano
perfettamente in
esso. Da sempre Ed era affascinata dalla figura del Mastro
Svea, la cui
eleganza e femminilità non avevano nulla da invidiare ad una
principessa
elfica. Dai suoi capelli, bronzei come la pelle di lei, lisci e
perfettamente
sfrangiati, partivano libere, dalla sommità del capo, tre
lunghissime trecce
che scendevano lungo tutta la figura vestita di bianco candido; intorno
al
collo e ai polsi indossava gioielli, si diceva, di sua personale
fattura, che
sembravano come di fuoco liquido e cambiavano costantemente forma,
creazioni
raffinate come Ed non aveva visto da nessun’altra parte.
Secondo l’antica
saggezza dei primi Granmastri, l’artigiano deve in generale
saper parlare con
il suo elemento, comprenderlo, fondersi con esso – creta,
roccia, legno che
fosse. A tale regola fa eccezione il fabbro, che sul fuoco deve prima
di tutto
sapersi imporre con la propria volontà, persino con
violenza; ma Svea
costituiva una ulteriore eccezione: sembrava poter ragionare col fuoco
e i
metalli e domarli come fossero docili animali ammaestrati, spingendoli
a
prendere forma con una precisione e un perfezionismo che le mani, di
umano o
nano, non avrebbero mai ottenuto battendo direttamente sul metallo
rovente. Era
un ideale a cui aspirare non solo per Ed ma per moltissimi giovani
apprendisti,
maschi e femmine. Era, oltre che una forgiatrice eccezionale,
incredibilmente
elegante e nobile nel modo in cui solo una donna può essere,
due tratti che in
lei erano in armonia e non in contrapposizione: un traguardo tanto
ambizioso
che Ed aveva da tempo scelto di rinunciarvi del tutto.
«Mastro!»
chiamò.
Svea si voltò e sorrise
nel
riconoscere la figura nerissima di Ed. L’apprendista corse
entusiasticamente
verso di lei, che si appoggiò delicatamente alla balaustra.
«Un’opera di
ottima fattura,
quella di oggi. Non ti manca molto per concludere
l’apprendistato».
Ed ribatté con una
smorfia
annoiata: «Ottima fattura? Erano tutte uguali».
Svea ridacchiò
sommessamente:
«Sei davvero benedetta da Ukor, oltre alla sua arte possiedi
la sua
impulsività. Devi avere pazienza e affrontare il percorso
per gradi. E poi non
dimostri buonsenso a lamentarti: dopotutto proprio
l’esecuzione perfetta della
prova di oggi ti è valsa il perdono per il tuo ennesimo
ritardo».
Ed sbuffò stravaccandosi
sulla
balconata. Non provò nemmeno a ribattere, si
limitò a riflettere tra sé e sé su
quanto Svea avesse, assieme al potere di affascinarla, quello di
deluderla. Per
quanto la sua mente potesse essere aperta e decisamente geniale, ogni
volta che
si aspettava più comprensione da lei, Svea era un muro di
gomma e non
rinunciava a difendere tutte le regole che governavano la vita nella
Forgia.
Stupide, inutili regole.
«Sai bene che vado molto
oltre
quella roba, Mastro» obiettò debolmente, senza
sperare di convincerla.
Per un momento Svea
sembrò
accennare un assenso: sapeva bene che quella non era semplice vanteria
ma la
sfidò immediatamente: «Perché sei qui,
se lo pensi veramente?»
«Anche qui ci sono cose
che devo
ancora apprendere».
«Non è la vera
ragione» obiettò
Svea ma non insistette oltre: «Sia come sia, devi comunque
fare il tuo percorso
come tutti gli altri. Non è bene iniziare un viaggio dalla
sua meta».
Ed nascose il volto tra le mani:
«Ancora con questi sermoni. Mi annoio talmente tanto che a
volte penso potrei
mummificarmi qui dove sono. Diventerei un caso interessante…
unico…
scriverebbero libri sulla mia mummia. Voglio dire, su di me».
«Col tempo
capirai» con questa
frase Svea intendeva ogni volta, piacesse o no, chiudere
definitivamente il
discorso.
Dopo qualche minuto, Svea riprese
a parlare: «Sei determinata ad abbandonare la Forgia?
Potresti diventare un
vice-Mastro in pochi anni. Renderesti gloria a questo luogo».
«Non
m’interessa la gloria. Anzi,
la evito».
«Allora non ti resta che
il
Pellegrinaggio dell’Apprendista».
«Infatti».
«Hai pensato a che
materia prima
cercare? A cosa creare con essa?»
«Ho alcune
idee» alluse Ed con un
sorriso.
«Sì…
Quaquathor mi ha detto che
hai sfoggiato un sacco di nuove trovate alla Prova della scorsa
settimana».
«Ha detto
così…? Di sicuro in una
luce più negativa».
«Hai pregiudizi su di
lui».
«E lui su di
me» si difese la
giovane.
Quasi come se lo avesse
richiamato, suo marito salì le scale da cui anche Ed
proveniva. Mastro
Quaquathor rappresentava tutto ciò che la sua compagna Svea
non era: aveva la
figura tarchiata, una folta barba e capelli color acciaio tappezzati di
monili
rudimentali che li dividevano in ciuffi spioventi. Gli enormi occhiali
aderenti
agli occhi, che si sarebbero quasi detti piccoli telescopi,
testimoniavano la
violenza con cui Quaquathor litigava con le fiamme, rischiando ogni
volta di
accecarsi con qualche lingua fiammeggiante che sottometteva con la
forza bruta.
E tuttavia questo incredibile impeto lo rendeva noto e temuto ben oltre
i
confini della Forgia stessa. Ma pur rispettando la sua
abilità e la sua forza,
cosa Quaquathor avesse che poteva attrarre Svea, Ed non lo avrebbe mai
capito.
«Salve,
signorina. La sua
opera oggi…»
« …era di
ottima fattura»
concluse Ed sconsolata, con un tono troppo monocorde per potervi
individuare
sarcasmo.
«Precisamente. Tuttavia
non mi
sfugge la vostra ironia. È fuori luogo, considerando il
vostro comportamento e
l’ennesimo ritardo. Signorina, portare il titolo di mastro
forgiatore
significa…»
Ed ascoltò le reprimende
di
Mastro Quaquathor appena lo stretto indispensabile per annuire poco
convintamente, quando era praticamente obbligata a farlo dal discorso.
Ed
rispettava Quaquathor ma non riusciva a entrare in relazione con
ciò che lui
rappresentava: un’altra epoca, un tempo che non esisteva
più. Un tempo passato
in cui i nani passavano la loro vita vedendo il cielo appena una o due
volte,
per lo più sepolti vivi in officine grandi quanto intere
città, dedicando
l’intera vita alla qualità –
sacrificando sé stessi e la loro intera, lunga
esistenza alla perfezione di un unico manufatto – o
altrimenti alla quantità,
ammucchiando oceani di monete d’oro che illuminavano a giorno
le volte di
pietra geometriche e solide. Un passato di nani che correvano qui e
lì lungo le
gallerie, sempre col fiatone e sempre con un boccone quasi strozzato in
gola,
sempre di fretta tra un’opera e l’altra, maschi che
si confrontavano orgogliosi
trecce e ricci delle loro lunghe barbe e donne che si vantavano di
poter
cucinare un montone intero, canzoni sempre nuove – milioni di
canzoni – che
risuonavano martellanti nei saloni sotterranei, mercanti che
negoziavano
nevrotici con gli elfi per acquistare semi e frutti di piante che
crescessero
anche sotto terra e con gli umani per recuperare congegni e macchine su
cui
lavorare. Un tempo di tradizione, identità, consapevolezza.
E anche un tempo
grandioso, di sogni e di gloria, di imprese storiche e grandi conquiste.
«Sì,
Mastro» ripeté ancora e
ancora, persino quando Quaquathor la ammoniva di non dargli ragione in
quel
modo canzonatorio.
Il fatto era che Ed non pensava
realmente che quel tempo fosse finito: piuttosto, che non fosse
esistito mai
realmente. Ogni epoca era condannata a sentire la nostalgia di
un’altra, di un
tempo migliore eppure perduto che – se la mancanza si
avvertiva tanto
marcatamente – doveva
essere
esistito, certamente. Ma era solo un’illusione. Per lei non
c’era gloria o
onore nel passato, né valori o insegnamenti da recuperare e
da riscoprire,
tutt’al più c’era qualche conoscenza
tecnica smarrita che poteva essere
ritrovata. Non c’era nobiltà nella storia della
sua gente, né in quella delle
altre genti. I nani avevano vissuto in un modo e ora vivevano in un
altro: non
c’era un senso dietro
quel fatto. Ma per i nani come
Quaquathor,
che avevano assistito al tramonto di quei tempi, trasmetterne
l’essenza alle
generazioni successive era come una missione.
«Sì,
Mastro» annuì ancora.
Ma Mastro Quaquathor si era
interrotto bruscamente e Ed se ne rese conto. Come sua moglie Svea
rimase
immobile a fissare il lago. Ed impiegò qualche secondo di
strano silenzio per
mettere a fuoco la situazione e rendersi conto che entrambi osservavano
tesi e
concentrati la superficie lacustre. Compreso dove guardavano anche Ed
si
sporse, per vedere qualcosa di decisamente inusuale che ne increspava
la
superficie.
***
Jen fece in tempo a notarli con
la coda dell’occhio, poi l’avevano già
superata. Si erano tuffati nell’erba
alta come pesci che nuotavano tra i fili verdi, come grandi mante
volanti.
Subito avevano cambiato forma diventando più simili a dei
levrieri da caccia,
solo troppo grandi per essere scambiati per cani. L’allarme
era stato
immediato: quelle tre cose si precipitavano, velocissime, verso la
riva. Verso
Lor e Yul. Non ne aveva mai viste di simili a quelle, neppure nel
comportamento: sembravano incuranti di ogni essere vivente che avevano
intorno
e procedevano come dardi, puntando un obiettivo a lei ignoto e non
considerando
nient’altro sulla loro traiettoria. Se aveva sempre trovato
quelle cose
inquietanti, in queste in particolare c’era qualcosa di
persino terrificante. La mente di Jen si fermò e
cancellò ogni pensiero:
realisticamente, il suo intervento non avrebbe potuto cambiare nulla ma
il suo
corpo si mosse comunque da solo, correndo verso la riva.
«LOR! YUL!»
Chiamò più
volte con quel poco
fiato che la corsa le lasciava. Più volte rischiò
di cadere nella discesa, fin
quando finalmente fu abbastanza vicina da vederli. Yul era come era
sempre
stato, dalla scomparsa della madre: immobile, silenzioso e totalmente
celato
dietro i suoi lunghi capelli fluenti; Lor si agitava disperato attorno
ad una
macchia rossastra e sconquassata che imbrattava la scogliera.
«Lor! Lor!»
La capigliatura a porcospino del
ragazzo si sollevò, il suo sguardo dilatato si
staccò dalla poltiglia
sanguinolenta che aveva ai piedi e si portò sul volto della
sorella maggiore.
Il suo solito piglio spavaldo e insolente, da teppista, era sparito:
era
totalmente sconvolto, fuori di sé.
«…Jen…
Jen… io… Tiny… Tiny!»
«…Tiny?»
guardando ancora ai
piedi del fratellino, Jen finalmente comprese dove era finito il loro
cagnolino.
Ma perché quelle cose,
quei golem avrebbero dovuto
attaccare un
cane, si chiese? Che minaccia avrebbe mai potuto rappresentare? E poi,
perché
quei golem erano così diversi dagli altri della Forgia?
«Yul!» al
richiamo determinato
della sorella maggiore, Yul si avvicinò quietamente
«Cos’è successo?»
Venuta meno l’attenzione
della
sorella, Lor riprese a piangere sui resti. Sembrava quasi indeciso
sull’eventualità di raccogliere quei pezzi
smembrati con le nude mani.
«Dei golem sono arrivati.
Erano
strani, diversi. Molto veloci. Tiny è morto».
Jen piantò gli occhi ben
fissi su
quelli inespressivi del ragazzo: «Come è
morto?»
«…Tiny…»
continuava a ripetere
Lor, con voce sempre più debole, quasi con un sussurro.
«Deve averli presi per
dei lupi.
Strani, molto aggressivi. Tiny ha abbaiato contro i golem».
«Forse lui…
voleva proteggerci…»
aggiunse Lor.
«…come faceva
suo padre con le
pecore» assentì Yul con tono indecifrabile.
«Ma era ancora
così piccolo…»
l’inciso di Lor era così sommesso e distante che
avrebbe potuto venire da
sottoterra.
«I golem hanno
reagito» spiegò
Yul per concludere il racconto, lasciando il resto
all’immaginazione.
Jen si rivolse alla Forgia,
ancora immobile sul Lago Kalst. Aveva sempre pensato che prima o poi
tutte le
stranezze di quel posto avrebbero portato guai alla fattoria, era solo
questione di tempo. E il tempo era giunto.
«Corriamo a casa.
Svelti» ordinò.
***
Valiel fece un po’ fatica
a
seguire i golem che schizzavano tra gli alberi ma alla fine
riuscì a
raggiungerli poiché proprio loro rallentarono. Si
fermò sull’ultimo albero
prima che iniziasse la vallata che andava verso il lago, abbastanza in
alto da
seguirne i movimenti. Mutarono rapidamente forma, in una struttura
quadrupede
più adatta a correre nascosta dall’erba alta;
Valiel sapeva che molti golem
potevano farlo ma non aveva mai visto metamorfosi tanto
radicali e
immediate. I golem arrivarono fino ai confini della valle, alla riva
del lago,
passando bruscamente in mezzo a due ragazzini umani e uccidendo un
cucciolo di
cane che calpestarono come per togliersi di torno un fastidio. Poi
accadde
qualcosa di ancor più strano: piuttosto che tuffarsi in
acqua cambiarono di
nuovo forma in qualcosa di simile a un serpente alato, quelli che a est
chiamavano dragoni di Izun; e in questa nuova forma attraversarono il
lago a
pelo d’acqua, come volessero eludere gli sguardi. Ma di chi,
degli estranei
alla Forgia o dei Signori della Forgia stessi? E perché
evitare l’acqua? I
golem non provavano paura per l’acqua, né per
nient’altro… non provavano nulla,
se non le stesse impressioni e idee di chi li controllava. Sulle prime,
Valiel
aveva pensato ad una comunicazione da altre Forge; magari da
L’Argeant o dalle
Isole Ranaluta, riguardanti lo stato della Bocca del Chimaer che si era
schiusa
a nord-est o nuovi studi sul controllo del tempo atmosferico. I nani
pensavano
spesso di tenere per sé stessi queste cose e di comunicarle
agli alleati solo
una volta prese le proprie decisioni, come del resto facevano anche
umani ed
elfi quando si presentava l’occasione – sulle
Bocche del Chimaer comunque c’era
poco da scherzare e ciascuno pensava che fosse meglio fare a modo
proprio.
C’era un’altra possibilità, che
non si trattasse di comunicazioni segrete
ma di un attacco a sorpresa alla Forgia, evidentemente eseguito con
l’aiuto di
un mastro forgiatore nanico. Ma un nemico che pensasse di attaccare la
Forgia
doveva essere pazzo oppure abbastanza potente da impensierire persino
Valiel e
la sua gente. I golem continuavano a sfrecciare sul pelo
dell’acqua zigzagando,
forse tentando di distrarre eventuali osservatori, era difficile dirlo.
Certo
fu che i golem che sorvegliavano le ciminiere, volando in circolo, non
notarono
i nuovi intrusi e li lasciarono passare con facilità.
L’elfo li osservò con
ammirazione cambiare ancora una volta forma e, mutati in figure
vagamente
aracnidi, risalire metodici le pareti della Forgia senza attirare
l’attenzione.
Un potere davvero grande era quello all’opera, di sicuro
c’era dietro un mastro
forgiatore abile e creativo. L’attacco alla Forgia si
consumò in tutta la sua
forza distruttiva in appena una manciata di minuti.
***
Erano passate diverse ore ormai.
Ed trascinava il suo corpo nell’erba con una stanchezza
infinita. Sopra di lei,
il cielo era una coltre nerissima e opprimente che celava potenziali
pericoli.
Tutte le stirpi più antiche dei nani avevano una certa paura
degli spazi aperti
e sconfinati, paura che qualche volta sfociava in una vera e propria
agorafobia, ma mai come in quel momento Ed poteva comprendere il timore
atavico
che la sua gente provava sotto il firmamento notturno vertiginosamente
ampio e
l’impellente necessità di seguire il proprio
istinto e nascondersi sottoterra.
«Nelle
braccia di Isor si culla Ukor, dormono i nani protetti sotto la
terra degli elfi» recitò con amara
ironia, sputando il sangue che aveva
succhiato dal suo labbro spaccato e rimpiangendo di non avere una bella
tana
profonda in cui rifugiarsi.
Si voltò ancora,
d’istinto, pur
consapevole dell’impossibilità di determinare dove
fosse il pericolo. L’erba,
chiazzata qua e là dal sangue che le sgorgava dal braccio,
aveva lasciato un
sentiero di fili spezzati a testimoniare quanto a lungo aveva
camminato: aveva
fatto pochi passi, fu costretta a constatare, molti meno di quanti le
erano
sembrati – la riva, nera di tenebre, la Forgia in preda alla
confusione e alle
fiamme, erano ancora vicini, eppure ogni passo le era pesato
indicibilmente.
«Zahnrad!»
chiamò, ma poi si rese
conto che aveva paura di farsi sentire e si rannicchiò su
sé stessa come se le
sue parole potessero tornare indietro e colpirla.
«Zahnrad! Dove diavolo
sei?»
nessuna risposta.
Il corpo decise che non ce la
faceva più. Si lasciò cadere a terra e
strisciò fin dove le sembrò che l’erba
coprisse la sua figura. E finalmente la sua giornata ebbe fine. La
stanchezza
era tale che persino in quel giaciglio le sembrò di riposare
meravigliosamente,
per delle ore che fluirono con naturalezza una dopo l’altra.
Il risveglio fu
caratterizzato dall’amara realizzazione che la giornata
precedente, che tanto
bruscamente era cambiata nell’arco di pochi istanti,
apparteneva alla realtà e
non al mondo dei sogni che aveva appena lasciato. La Forgia ora era
avvolta dal
fumo bianco, mutilata di una delle sue ciminiere ma comunque quasi
tornata alla
normalità di una giornata di lavoro – era
difficile del resto che dei nani che
non fossero gravemente invalidati interrompessero il loro abituale
ritmo di
lavoro, se non erano obbligati. Ed la scrutò tra le fronde,
badando a non
uscire troppo allo scoperto, e provò un senso di sollievo ma
anche una
istintiva tristezza: non poteva che fuggire lasciandosi dietro una vita
interrotta e non era la prima volta che era costretta a farlo.
Guardò il cielo
e le colline circostanti: di certo, i golem non avevano lasciato la
zona e la
tenevano, per quanto possibile, sott’occhio.
Avanzò verso gli alberi, dove
sarebbe stato più difficile individuarla, piegata e
intirizzita dal freddo:
scegliendo di fuggire a nuoto nel lago, la sera prima, la sua posizione
non era
stata scovata né intuita ma aveva dovuto fare i conti con la
pessima attitudine
della sua specie al nuoto e passare in acqua diverse ore.
«Muoviti, Yul!»
Ed sobbalzò e subito
dopo cercò
di farsi tanto piccola da scomparire: non aveva la benché
minima intenzione di
scoprire a chi appartenesse la voce. Con il palmo della mano sinistra
accarezzò
la pelle nerissima del braccio destro, fino a individuare una delle
numerose
rune incise sull’avambraccio, e percorse la forma della runa
col dito; il
simbolo risplendette di giallo e divenne un varco tra lo spazio e il
tempo,
attraverso il quale poté richiamare a sé una daga
d’acciaio.
«Zahnrad!
Vieni, Zahnrad!»
Niente da fare. Doveva
accontentarsi dell’arma che aveva.
«Ma vai a
quel…»
Si zittì. Gli occhi non
abbandonavano i fili d’erba, cercando la possibile posizione
del ragazzo che
aveva sentito o dell’altro che aveva chiamato. I movimenti le
dissero che erano
vicini e le parve di stringere tanto forte il pugnale che quasi lo
frantumò:
detestava l’idea di assalire qualcuno di nascosto ma in quel
momento era
disposta a tutto pur di evitare anche la minima eventualità
di essere ritrovata
da quelle cose. Qualcuno le passò davanti, doveva essere
quel tale Yul o la
persona che lo aveva appena chiamato, ma date la corporatura e le
calzature
doveva comunque trattarsi di due giovani contadini. La sua mano intorno
all’elsa si rilassò, come tutto il suo corpo,
registrando che non aveva da
temere. Dietro il ragazzo che calpestava energicamente l’erba
a pochi passi da
lei ne arrivò un altro, con passo più lento e
tranquillo. Poi in una frazione
di secondo entrambi si immobilizzarono e anche lei percepì
con chiarezza quelle
cose, quei golem, che passavano in volo sopra di loro. Uno dei due
ragazzi fece
un movimento brusco, come volesse saltare verso il cielo, e
urlò una serie di
ingiurie oggettivamente indistinguibili. Poi fu atterrato
dall’altro ragazzo,
evidentemente determinato a non attirare l’attenzione dei
golem: non bastò, era
tardi ormai. Ed ne sentì uno planare verso di loro. Si
presentavano ben poche
alternative: fuggire ancora, rischiando di essere scovata comunque e
abbandonando i due ragazzi al loro destino oppure affrontare
direttamente i
suoi inseguitori e semplicemente vedere come andava a finire.
***
Finalmente Valiel poteva vederne
uno a terra, intento a battersi. Certamente non poteva dire di aver mai
visto
golem così meravigliosamente elaborati e potenti: i corpi,
realizzati non con
minerali lavorati ma da una massa fluente di sabbia finissima, senza
dubbio
tenuta insieme da rune molto potenti e complesse, ora modellatisi come
umanoidi
alti e slanciati, erano mutevoli ed inafferrabili. Invece la maschera,
un volto
inumano dal lungo naso appuntito e occhi vuoti, sembrava di un
materiale simile
alla ceramica intarsiata di centinaia di caratteri runici microscopici.
«Scappate, rustici
idioti!
Levatevi dai piedi!»
La giovane nana dalla pelle nera
che si avventava contro il golem doveva essere gravemente ferita, a
giudicare
dalla lentezza con cui muoveva un braccio. Dietro di lei
c’erano due ragazzini
umani, uno intento a dimenarsi in preda ad una furia incontrollabile,
l’altro a
trattenerlo con tutta la sua forza. La ragazza lanciò una
spada corta verso il
corpo del golem ma la sabbia lo inglobò senza subire alcun
danno. Cercò con le
dita una runa nell’avambraccio e da essa evocò un
maglio imponente, quasi
troppo grande per reggerlo con un braccio solo.
«Qui! Vieni da me, brutto
schifoso!» provocò lei preparandosi a colpire con
una postura che Valiel
giudicò non eccezionale ma sopra la media.
Dal nulla aveva fatto apparire
un’arma: la profondità delle conoscenze runiche
era davvero eccessiva per una
semplice allieva della Forgia, anche se l’elfo ebbe
l’impressione che non fosse
altrettanto esperta nel combattimento corpo a corpo. Ne conosceva i
principi
teorici, però: faceva roteare la mazza in una danza di
eleganza e forza a cui
il golem rispondeva minuziosamente, opponendo armoniose schivate ad
attacchi
altrettanto fluidi, ma nei pochi secondi che la creatura aveva
impiegato ad
abituarsi al ritmo degli attacchi la nana, che aveva aspettato appunto
questo,
accelerò bruscamente finendo per colpirlo in pieno. Il
metallo attraversò il
torso sabbioso come un coltello nel burro caldo, ma subito il corpo del
golem
si ricompose identico a prima. La nana sembrava intenzionata a colpire
la
maschera dall’alto verso il basso ma un braccio del golem
cambiò forma in lungo
sperone che cercò di trapassarle il ginocchio;
nell’atto di salvarsi la gamba
lei perse l’equilibrio e cadde di lato, lasciandosi sfuggire
l’arma dalle mani
per atto della forza che lei stessa le aveva impresso, complice la
debolezza
del braccio ferito.
«Lasciamelo
ammazzare!» gli parve
di distinguere nelle urla del ragazzo umano irrequieto ma
l’altro lo tratteneva
con forza, rimanendo impassibile.
Il ragazzo era pazzo o stupido:
se una forgiatrice abile come quella non reggeva il confronto,
figurarsi un
giovane contadino. Il golem tentò una seconda volta,
modellando il suo braccio
come una palla chiodata, di rompere una gamba alla ragazza, che
evitò il colpo
rotolando pietosamente, tradendo così tutta la sua
stanchezza. Il suo
avversario di sabbia sembrò seguire i movimenti di lei con
calma misurata, come
se fosse ormai certo del risultato; in quel momento il ragazzo irruento
riuscì
a liberarsi dall’altro e a precipitarsi sul golem, che si
voltò di scatto
pronto a reagire. In quella frazione di secondo, Valiel seppe che il
Trattato
dei Popoli era violato: un golem, evidentemente frutto della scienza
runica dei
nani, aggrediva un umano, un membro di un’altra specie, e
questo lo autorizzava
ad intervenire; non impiego più di una frazione di secondo a
decidere di
piazzargli un pugnale nella fronte. Il lancio fu preciso, la lama
interruppe il
complesso circolo di rune che animava la creatura e un corposo mucchio
di
sabbia si sparse inanimato nell’erba. La ragazza
crollò sfinita e i due umani
si paralizzarono, indecisi sul da farsi. Valiel rimase quieto sul suo
ramo.
***
Le costò
un’enorme fatica
riaprire gli occhi, le palpebre erano pesanti e le sembrò
che l’aria stessa
bruciasse. Nelle orecchie, che sembravano farle male
dall’interno, le ronzava
una odiosa canzoncina dal ritmo melodico e sdolcinato, del tutto
estranea ai
ritmi serrati e incalzanti delle canzoni naniche. Si guardò
intorno, cercando
una qualche presenza con lo sguardo, e subito individuò la
fonte di quella
canzone: era una ragazza umana alta e bionda, imbacuccata in vestiti
troppo
larghi per lei, curva su un calderone di qualcosa che ribolliva,
rilasciando un
odore di verdure (per quel poco che poteva sentire, col naso
semichiuso)
piuttosto sciapo e privo di carattere.
«Come sta Lor?»
Una voce piatta rispose alla
ragazza da qualche parte che Ed non vedeva: «Non si
alza dal letto».
Si guardò intorno: mura
di legno
umili, attrezzi rudimentali ricavati dal riciclaggio di altri, diversi
barattoli di conserve impolverati e qualche marmittone. Ma
c’era anche un tocco
di femminilità nella stanza: fasci di spighe dorate e di
piante dalle grandi
foglie verdi, fiori lilla e grossi frutti lucidi color rosso vino. Era
la casa
di una contadina, senza dubbio, probabilmente di colei che stava
cucinando.
«Bè, tanto
sarebbe impossibile
lavorare con questa tempesta, quindi che faccia come gli
pare».
Ed drizzò le orecchie:
sì, poteva
sentire fuori il battere incessante di grosse gocce, il vento che
soffiava
senza riposo e pochi spazi di silenzio tra un tuono e
l’altro. Pioveva: doveva
trattenersi per non scoppiare a ridere fino a morirne.
«Al… sei stato
fregato».
Lo bisbigliò appena ma
la ragazza
reagì subito alle sue parole e si voltò. Ed la
studiò con quel poco di occhi
che riusciva a tenere aperti: i capelli sembravano paglia giallastra e
strapazzata, gli occhi azzurri erano ben incassati nelle occhiaie,
scavate
dalla stanchezza che rovinava i suoi lineamenti dolci, le forme un
po’ troppo
abbondanti tradivano la tipica alimentazione dei contadini che non
giovava né
alla salute né alla linea. Era complessivamente una ragazza
che avrebbe potuto
essere bella se fosse cresciuta in un ambiente aristocratico.
«… Al? Chi è Al?»
Piuttosto che rispondere, Ed
alzò
di nuovo gli occhi al soffitto e si abbandonò nuovamente ai
pendii scivolosi
del dormiveglia. La ragazza non sembrò voler insistere e si
rimise a trafficare
attorno al pentolone. Lo stato letargico durò fino a quando
un rumore di porta
che sbatteva annunciò l’arrivo di una folata di
vento gelido e umido nella
stanza; Ed sgranò subito gli occhi, sorpresa dal freddo. Un
ragazzino emaciato,
dai lunghi capelli fluenti color paglia, si svelò
togliendosi di dosso un manto
inzuppato.
«E allora?»
«Dorme ancora».
«Digli che la pianti,
Yul, non
può passare tre giorni a lutto per un cane».
«Non credo che a Lor
importi»
constatò l’altro, neutro.
«Importa a me. Digli che
scenda
dal fienile domattina o nessuno gli porterà più
da mangiare».
Yul reagì con quella che
poteva
essere la stretta di spalle di qualcuno che non voleva neppure sprecare
troppe
energie per stringersi le spalle.
«Invece dimmi, che fanno
le
nostre vecchie signore?» chiese la ragazza dopo un
po’ che il ragazzino si
stiracchiava sul pavimento davanti al fuoco come un gatto.
«Il temporale non le
spaventa più
ormai, solo i vitellini hanno paura. Ma sono sotto controllo».
«Speriamo
bene… ci aspetta almeno
una settimana di pioggia».
Al pensiero Ed riprese a ridere
sommessamente ma di gusto, prima di rigirarsi nel letto decidendo di
disinteressarsi a qualsiasi altra cosa quel tale Yul e la misteriosa
padrona di
casa si sarebbero detti.
***
Addentando una enorme fetta di
soffice torta al miele, Ed guardò ancora una volta Jen di
sottecchi. Dopo una
abbondante sorsata di latte caldo si rifugiò un
po’ di più sotto le coperte
come volesse rifuggire lo sguardo della ragazza.
«Capisco che hai la
febbre ma
potresti almeno parlare. Sono tre giorni che dormi, mangi e non
spiccichi una
parola».
Per tutta risposta, Ed
lasciò sul
vassoio di legno la torta e il latte e spinse il vassoio verso Jen, con
aria di
sfida. La contadina ci mise qualche secondo a decifrare le azioni della
giovane
nana. Poi afferrò il latte e la torta smangiucchiata con
aria di sufficienza.
«Ah, è
così? Immagino che una
giovane massaia non sia degna della considerazione di una Maestra
Forgiatrice».
«L’hai
detto».
Jen, già in piedi e di
spalle, si
paralizzò di colpo. Sentiva la voce di Ed per la prima
volta, tagliente e
leggermente annoiata. Si voltò, rossa in volto.
«Come, prego?»
«Hai sentito»
tagliò corto Ed
cercando di rimettersi a dormire.
«Siete tutti
uguali!»
«…tutti?»
ripeté Ed inarcando
appena un sopracciglio «Tutti chi?»
«Voi! Voi nani! Vi
credete chissà
chi perché portate l’industria, il progresso, e
tutti i vostri congegni
spaventosi. Ebbene…»
«Usi un sacco di parolone
difficili per una contadinotta sciupata» disse, riprendendo
irrispettosamente
la torta dalle mani di lei e sbocconcellandola «I tuoi
genitori pidocchiosi ti
hanno pagato la scuola di città? Bè, vero
è che a Kalaston anche la scuola è
piena di caproni».
Ed dovette appena inarcare la
testa all’indietro per evitare il vigoroso schiaffo che Jen
cercò di darle.
«Bella mira, brava. Voi
umani
siete tanto lenti da sembrare fermi».
«Perché ti
comporti così? Ti ho
salvato la vita, lo sai questo?»
«E io quella dei tuoi
stupidi
fratellini» ribatté a bocca piena, sorridendo e
sputacchiando briciole «Quindi direi
che siamo pari, no?»
Jen restò in silenzio,
non
sapendo cosa obiettare, ma respirando rumorosamente come un toro
infuriato.
«Giusto… siamo
pari».
«Ecco, così mi
piaci. Il vero
problema… è che non so davvero come».
L’espressione di Jen si
colorò di
curiosità: «Come scusa?»
«Non so come ho fatto.
Quel golem
avrebbe dovuto fare a pezzi i tuoi fratelli e poi…
prendermi. Invece s’è
sfasciato. Strano davvero. Ma sia come sia…» un
dito di Ed indicò il cielo
rabbuiato dalle nuvole, che si vedeva appena dalla finestra
«…appena finirà la
pioggia, sarete tutti morti».
Jen balzò in piedi, col
volto
dilatato dall’orrore: «Cosa?»
«Rilassati, stavo
scherzando.
Forse».
«Forse?»
«Già. Forse.
Però sarà davvero un
bel casino quando finisce la pioggia. E non so davvero cosa
farci».
Jen l’afferrò
per il bavero,
stavolta fu troppo brusca perché Ed trovasse la presenza di
spirito per
reagire: «Non sai cosa farci?» non era in lacrime o
fuori controllo, anzi
sembrava fredda e determinata «Certo che sai cosa farci. Sono
golem. Siete voi
che li costruite. Mi stai dicendo che torneranno?»
«Finita la
pioggia… sì.
Probabilmente».
«E poi cosa faranno?
Dimmi tutto
quello che sai!»
«…altrimenti?»
provocò lei.
«Altrimenti non ti
dirò come
scappare».
La giovane nana si
bloccò,
sorpresa: «Scappare? Perché pensi che vorrei
scappare da qualche parte?»
«Non sono idiota. Hai
detto che
quel coso doveva ammazzare i miei fratelli e prendersi
te. Quindi cercava te, per portarti da qualche parte dove
non vuoi andare».
«Mi sembra
sensato».
Jen alluse ad uno dei vestiti di
Ed, l’unico che non era steso in un filo che passava in mezzo
alla stanza, poco
oltre il suo giaciglio: una uniforme di maglie esagonali che
scintillavano,
lucenti.
«E vieni dalla Forgia ma
nessuno
della Forgia è venuto a chiedere di te. Danno per scontato
che tu sia stata… presa…
come dici tu. E se d’altro canto
potessero proteggerti, l’avrebbero già fatto
prima. Quindi… certamente non vuoi
tornare lì e non hai miglior occasione per
scappare».
«Molto acuta».
si congratulò
acidamente l’altra «Quindi?»
Jen prese un respiro, come
esitasse un momento, prima di decidere di proseguire il discorso.
«Io so come farti andare
ovunque
tu voglia immediatamente e senza essere vista. È un mio
segreto. Ma in cambio
mi dirai come evitare che ne vengano altri e infastidiscano me o la mia
famiglia. E lo farai adesso. Tutto chiaro?»
Ed scostò delicatamente
le mani
della ragazza dal vestito che stringevano: sentendo la delicatezza del
tocco,
Jen accettò di mollare la presa.
«Tu… mi sei
proprio simpatica».
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Capitolo 3 *** I Cancelli di Zoa ***
2. I CANCELLI DI ZOA
Popolo
dei draghi, signori di Zoa, figli di Arrok dea
del mare, accogliete alle corti vostre il nostro figlio
perduto…
– augurio
funebre della Marina del Mohtam
«Quand’è
che arriviamo? Questo
posto mi mette i brividi».
«Credevo che i nani
amassero i
cunicoli» obiettò Jen «o forse hai paura
del buio? Dopotutto sembri molto più
giovane di me…»
«Non sono molto
più giovane, non ho paura del buio e certamente
non ne ho
degli spazi stretti, ci sono nata». si difese Ed
«È di queste oscene scale
a pioli che ho paura e
della botola di legno marcio che ci sta sopra la testa e di questi
mattoni
tagliati male che abbiamo intorno. Voi umani costruite roba che sembra
fatta
apposta per cadere a pezzi. È imbarazzante. Io sarei
imbarazzata, se fossi in
te».
«Scusa, non ho sentito
niente di
quello che hai detto, credo sia colpa dell’incompetente umano
che ha costruito
un pozzo con una acustica tanto pessima. Che vuoi farci».
«Allora vuoi che ripeta
tutto più
lentamente e scandendo le parole?»
«Incredibile, continuo a
non
sentire niente di quello che dici. Sento solo una specie di
ronzio».
Nel silenzio del pozzo si sparse
una risata sommessa: «Sei proprio uno spasso. Davvero, dico.
Ma mi sono
stufata. Dove cavolo stiamo andando?»
Dalla semioscurità sotto
Ed non
provenne alcuna risposta, solo un tonfo.
«Ehi bionda…
ci sei?»
«Siamo
arrivati» la voce di Jen
rimbombò come se lo spazio intorno a lei si fosse allargato.
Anche Ed si lasciò
cadere. I suoi
piedi furono accolti da una superficie di pietra aguzza, corrosa da
acqua
salmastra che non poteva vedere, ma di cui sentiva l’odore e
l’umidità, oltre
che qualche sporadico rumore di gocce.
«Si direbbe un lago
sotterraneo»
osservò Ed «ma qui non si vede un tubo».
Jen osservò alla sua
destra due
anelli di crescente luminosità. Le iridi della giovane nana
si stringevano
lasciando spazio alle pupille, e acquistavano un lucore dorato: come si
diceva,
gli occhi dei nani potevano adattarsi perfettamente al buio.
«Anzi… qui non
si vede un tubo
perché non c’è… un
tubo».
«Non al momento,
no» confermò
Jen, prima di piombare di nuovo nel silenzio.
«Al
momento no. E quando invece sì?»
Un fischio di Jen, estremamente
acuto, segnò la fine tanto del silenzio quanto del buio.
Un’entità luminescente
e multicolore apparve sotto la superficie dell’acqua
assolutamente liscia e la
ruppe, emergendo con rapidità. La roccia su cui Ed e Jen si
trovavano era
separata da svariati metri di acqua ora illuminata ma tra essa e
l’oggetto che
era emerso sembrarono sbocciare delle enormi foglie di ninfea, come
fossero
pronte ad accompagnare le due ragazze. Ed spalancò gli occhi
e rimase svariati
secondi a bocca aperta, incapace di parlare. Jen sorrise, piena di
sicurezza.
«Eccolo qua».
«Ma questo
è… quello che penso che
sia?»
«Probabilmente. Tu cosa
pensi che
sia?»
Un ventaglio di corallo e anemoni
splendenti si apriva intorno ad un oggetto ovoidale, simile ad uno
specchio di
materiale lucido del colore del mare più scuro. I colori
d’arancio, ametista,
azzurro, danzavano sulle increspature dell’acqua in un
arcobaleno screziato.
«Un Cancello di
Zoa… come fa a
stare sotto la tua baracca marcia una cosa così? Il suo
valore è…»
«Il suo valore non ti
riguarda
affatto» la interruppe bruscamente Jen
«è nascosta da tutti ed è esattamente
così che deve rimanere».
Ed impiegò qualche
minuto a
riprendere il controllo, mentre i suoi occhi squadravano ogni
millimetro di
quella architettura che nessuna arte ingegneristica avrebbe potuto mai
sperare
di ricreare.
«Bè, voglio
dire… è una specie di
scherzo? Come pensi di farmi fuggire con questa cosa? Voglio
dire… tu sei un
essere umano, non…»
Jen interruppe Ed per la terza
volta, scandendo a voce alta: «Tronni,
Thesaigan ono Youma!»
La superficie lucida si
aprì
simmetricamente in due, come le palpebre di un occhio, rivelando una
superficie
più scura e trasparente, che dava l’impressione di
essere gelatinosa.
«Non riconosce il mio
sangue ma
la mia voce».
«Sei davvero in grado di
aprirlo…»
«Già. Di
solito si aprono per
volontà loro, giusto? Credo di poter anche decidere dove ti
porterà».
«Puoi…
dove… tu… hai davvero
studiato più di quanto potessi immaginare, mia sorprendente
zappaterra».
Jen abbassò gli occhi,
rabbuiandosi per un momento in volto: «Stai continuando a
occuparti dei fatti
miei. Come vedi posso rispettare il nostro patto, quindi…
rispetta la tua parte
dell’accordo».
Ed si sedette sulla roccia
appoggiando la faccia sulla mano, contemplando interessata la massa al
centro
della struttura.
«Scusa, a differenza di
te non
credo di poterlo fare».
«Co…
come?»
«È inutile
fare quel tono
minaccioso. Se quella cosa funziona come dovrebbe, sparirò
da qui e ricomparirò
a… uhm… alle Isole Ranaluta, giusto? In tempi
passati erano chiamate Arcipelago
Youma… e Youma è una parola nella lingua dei
draghi».
«Ehm…
sì. Certamente» annuì Jen,
poco convinta.
«Sinceramente il mio
piano,
chiamiamolo così, era di farmi seguire da quei golem fuori
dalla tua fattoria
così che ti lasciassero in pace. Ma se non mi vedono uscire
da qui… non
concluderai niente. E se me ne andrò con il
Cancello di Zoa non mi
vedranno e non potranno seguirmi – anzi, entreranno nella tua
casa a cercarmi,
di sicuro».
Si buttò
all’indietro,
sdraiandosi e appoggiando la testa sulle mani congiunte:
«Bella grana, eh?»
Jen non rispose, sembrava essere
raggelata. Non era stato facile convincersi a mostrarglielo,
l’aveva nascosto
per anni, eppure ci aveva messo meno di un secondo a deciderlo, se
poteva far
sparire Ed e il pericolo che rappresentava dalla sua casa. Invece, per
una specie
di beffa crudele, neanche questo sacrificio era servito.
«Potrebbe essere tra le
prime
dieci o venti
reliquie del Regno
Sottomarino di Zoa… in tutto il mondo…
perché non ti associ a qualche studioso
di Kalaston? Ti rifaresti a nuovo la fattoria, no, che dico, ti
trasferiresti
in una reggia!»
«Basta
impicciarsi!» sbraitò con
una punta d’isteria.
La struttura sembrò
reagire al
cambiamento del tono di voce, perché si richiuse per
inabissarsi
immediatamente, come fosse spaventata o offesa. Improvvisamente, nella
grotta
fu di nuovo buio.
«Tu devi dirmelo! Devi
dirmi come
fare!»
«E che ne so?»
***
«Dai ancora da bere al
moccioso?
Se capitano un paio di guardie passerai i guai, vecchio mio».
«Non gli do proprio
niente. E
comunque, già tu sei una guardia, Bedge».
«Un templare»
precisò lui «ed il
mio unico incarico oggi è riportare il tenente Wiggs a casa
mostrando il meno
possibile in giro per Kalaston la sua… temporanea
incapacità di camminare».
«Temporanea, eh? Passa
più tempo
qui che al muro settentrionale».
Bedge prese un respiro prima di
aggiungere: «O a casa sua».
«Ancora guai con la
moglie?»
chiese l’oste, cercando un’espressione comprensiva
da esibire per l’occasione.
«Shhh! Se sapesse che ne
parliamo…»
«E allora non parlarne ma
mi
sembra tardi, tutta Kalaston sa che…»
«Shhh! Non so se dorme o
è solo
accasciato».
Wiggs stravaccato sul divanetto
con una gamba pigramente distesa sul tavolo era uno spettacolo quasi
blasfemo,
dopotutto il corpetto metallico che indossava sopra la camicia a righe
color
rosso cadmio scuro, parlava chiaro: gli intarsi d’argento
sull’acciaio, che
ricordavano nuvole in tempesta, testimoniavano inequivocabilmente il
suo status
di templare guerriero, uno status che esigeva un’apparenza di
decoro. Bedge
ringraziò la Dea, o chi per lei, che fosse una settimana di
temporali e che la
locanda fosse sostanzialmente vuota, salvo l’oste, loro due e
il cosiddetto
moccioso, un nano praticamente addormentato su uno scricchiolante
tavolino di
legno.
«Certo che la vita della
Cinta
Nord non lo aiuta… non succede mai nulla»
sviò l’oste con una delle sue
migliori banalità da repertorio.
«Già. Invece
al muro meridionale
hanno visto tutto l’incidente di una settimana fa. Si dice
che non sia stato
proprio un incidente. Si dice… che una apprendista della
Forgia sia sparita.
Forse è morta».
«Una
apprendista?» intervenne il
giovane nano, che alzò la testa dalla superficie del tavolo
con un gesto tanto
improvviso che l’oste fece quasi un salto: «E poi
un’altra birra si può avere o
no?»
«Credevo che i nani
reggessero
bene l’alcol. Non è che sei troppo giovane per
bere?»
«Sono astemio, tergente
Beggar».
«Sono il sergente Bedge e
non ho
mai sentito parlare di un nano astemio. E se sei astemio
perché bevi?»
«Nella vita servono
conferme. Non
lo confermi forse anche tu? Ti confermo che confermerei se fossi in
te».
«Sembri un po’
troppo lucido dopo
cinque birre, per essere astemio».
«Sia ringraziato Ukor,
sono
guarito allora! Festeggiamo con una birra. Rossa, per favore. Lo
confermo. Tu
lo confermi? Dovresti».
Il giovane ed irritante nano si
era alzato in piedi. Doveva essere povero in canna: il cappotto giallo
che
indossava doveva essere appartenuto ad un nobile kalastoniano,
perché era un
complesso intreccio di senape e ocra finemente ricamato e ornato di
gemme occhio-di-tigre
anche se era stato lacerato a mezza altezza per adattarlo
all’attuale
indossatore a cui comunque stava larghissimo. Di sicuro era uno di
quegli abiti
aristocratici appartenuti a qualche feudatario che, caduto in
disgrazia,
rivendeva i suoi averi al mercato, capitava spesso che nani o elfi
desiderosi
di mischiarsi tra gli umani e di recidere i legami con le loro culture
originarie scegliessero quel tipo di abbigliamento. Certo, quello era
un nano
piuttosto anticonvenzionale: la pelle era praticamente uguale, per
colore ed
aspetto, alla pelle umana olivastra, com’era tipico dei nani
di basso
lignaggio, e non era tesa dalla solita muscolatura robusta della sua
specie, al
contrario ricordava un ragazzino umano un po’ smagrito; senza
il rosso scuro rivelatore
della capigliatura spettinata e sporca, non si sarebbe potuto affermare
appartenesse al popolo del Mondo Sotterraneo. Il signor Brea, oste
onorato da
trentadue anni, non aveva mai visto un nano (anzi, un essere vivente)
che più
di quello gli desse l’impressione di esser nato come un pesce
fuor d’acqua ed
essere destinato a morirci.
«È sbronzo
fradicio, guarda gli
occhi. E barcolla. È davvero un nano astemio, che la Dea ci
fulmini tutti!
Senti, ragazzo, non berrai altro oggi».
«Ma io posso
pagare!» si lamentò
il giovane, prima di aggiungere frugandosi le tasche
«cioè non posso. Però…
paga lui!»
«Il tenente Wiggs non
paga
proprio un accidente».
«Il senziente ha detto
che
offriva lui a tutti».
«Era ubriaco quando
l’ha detto e
la locanda era vuota. E comunque la parola è tenente,
non senziente».
«Così venite
meno agli impegni,
bergente Sedge».
«Ser-gen-te! Cosa
c’è di
difficile nel ricordare te-nen-te e ser-gen-te?»
Inutile insistere, su
quell’argomento come su altri: il nano si allungava
già verso la botticella più
vicina per servirsi da solo. L’oste afferrò le
braccia smilze e lo ricacciò ben
lontano dal balcone.
«Vatti a fare una doccia
fredda,
piccola canaglia!»
Il nano si lasciò cadere
su una
sedia, scuotendo la mano per il dolore: «Insomma, come
passate il tempo in
questa città? Piove da quasi dieci giorni ormai».
«Almeno una volta o due
l’anno
succede così, poi torna il sole».
«Quando?»
«Che ti frega? Vorresti
bere per
dieci giorni di fila? Torna a casa».
«A
casa…» spingendo con i piedi,
si lasciò cadere indietro con tutta la sedia e
arrivò violentemente a terra con
la nuca; non si mosse più.
«Sentimi bene…
ehi ma… ora
dorme?»
***
«Si può sapere
che accidenti
fai?»
Il vento accarezzava il grano
scompigliando i corti capelli rossi di Ed. Jen dovette scostare una
lunga
ciocca bionda che le era finita dritta negli occhi per guardarla
meglio:
sembrava serena, perfettamente a suo agio come una lucertola che si
gode l’aria
e il sole.
«Mi godo questo
suggestivo
scorcio di vita bucolica. Bella giornata oggi».
Jen rimase sovrappensiero per un
po’, accanto alla giovane nana. Entrambe immobili come scogli
nel mare verde
delle ultime spighe ancora immature.
«Hai deciso di farti
trovare da
quelle cose, in modo da evitare che se la prendano con noi?»
«Non direi. Sono una
pessima
scelta come cavaliere ardente che si sacrifica per i deboli. Poi
neanche potrei
montarlo, un cavallo dico. E comunque, se anche fosse,
perché ora mi staresti
accanto?»
«E tu perché
hai deciso di
correre questo rischio? Sembravi molto spaventata quando ieri ha smesso
di
piovere».
Per la prima volta Jen vide il
suo volto assolutamente serio. Ed le piantò gli occhi
addosso e quasi la prese
per il bavero.
«Chiariamo una cosa. Io
non ho
paura. Capito?»
«Ehm… va
bene?»
«No, non va bene.
Mettitelo in
testa. Non ho paura!»
«Che bambinata, vuoi
dirmi che
non hai paura di nulla?»
«Non dire scemenze.
Voglio dire
che non ne ho qui e ora.»
«Come vuoi tu! Mi spieghi
cosa facciamo
qua fuori?»
Ed rimase ancora un po’
in
silenzio, respirando profondamente. Il suo sguardo andò da
una riva all’altra
del lago e alla Forgia chiaramente deturpata dall’evento di
due settimane
prima. Wulf, mastro Airon, mastro Svea e mastro Quaquathor e i suoi
compagni di
studio: tutti loro stavano per sparire dalla sua vita per sempre, per
sbiadire
lentamente nei ricordi.
«Ho un ottimo affare da
proporti.
Credo che quelli non attaccheranno tanto presto. Di sicuro aspettano
che io sia
isolata da potenziali vittime casuali».
«Non mi sembravano tanto
scrupolosi quei...».
«Golem. Non si tratta di
scrupoli, certo che voi umani mettete sempre i problemi pratici in
fondo alla
lista. Pensaci su: hanno attirato molto l’attenzione
ultimamente e c’è un
limite all’attenzione che chiunque può attirare su
di sé. Aspetteranno, prima
della prossima mossa, o meglio aspetterà chi li muove. Anche
se di sicuro mi
stanno puntando… anche adesso, mentre parliamo».
Jen rabbrividì pensando
che ogni
altura o albero poteva nascondere quei golem intenti ad attendere e
studiarle.
Per un solo istante provò ammirazione per la nana e per il
sangue freddo che
mostrava.
«A…
allora… quale sarebbe questo
affare?»
«Hai aperto un Cancello
di Zoa
davanti ai miei occhi. Credo tu sia l’unica che potrebbe fare
una cosa simile,
no?»
«Non… non ne
ho idea».
Ed si grattò la testa,
come se
stesse cercando di farsi uscire un concetto dal cervello:
«Sì, dev’essere così.
Come puoi esserne capace? Voglio dire, tu non sei…»
«Inutile insistere! Non
te lo dirò!»
«Sì…
ho afferrato il concetto, è
un segreto segretissimo. Ma dimmi questo: pensi che potresti aprirne un
altro,
altrove?»
Jen aprì bocca per
richiuderla
subito, come se una seconda idea avesse fermato la prima.
Guardò alla sua
destra come se qualcuno avesse scritto la risposta lì.
«Potrei esserne capace.
Direi di
sì».
Ed mimò con le dita
degli
occhiali, poi assunse un tono di voce baritonale: «Lei sta
andando
magnificamente, signorina. Un’ultima domanda e concluderemo
l’esame con
successo».
«Falla finita,
buffona».
«Non vanno
così, gli esami nelle
scuole per umani?»
«Che ne so? I figli dei
nobili
vanno a scuola!»
«Ma tu qualcosa hai
studiato, no?
Come fai a parlare in-»
«Quale era la dannata
domanda?»
«A-ehm. Dicevamo. Pensi
che… i
tuoi fratelli potrebbero gestire la fattoria in tua assenza?»
«Ma questo cosa
c’entra? E
comunque…»
«Aspetta, non rispondere.
Ho
appena realizzato che di questo non mi frega un accidente, in
effetti».
Distante da loro due, un elfo
scrutava tra i cespugli. Vide la giovane nana tendere la mano alla
ragazza
umana, due figure piccole e deboli contro
l’immensità del Lago Kalst che
scintillava al sole come una distesa di luce screziata. Dopo una certa
esitazione,
la ragazza prese la mano della nana e se la strinsero con fermezza.
«Cosa succede tra quelle
due?»
Una donnola che si era portata
accanto a Valiel sussurrò in una lingua che solo i raminghi
potevano
comprendere.
«Dovremmo andare via,
elfo».
«Che problema
hai?»
«Il cielo è
funesto».
«Il giorno è
luminoso, il cielo
sgombro e…»
Alzò gli occhi e rimase
per un
po’ a fissare l’azzurro sopra di loro.
«Cosa sono
quelli?» si domandò,
ma poi si rispose da solo: «Aviani… bestie piumate
mangia-uomini. Ma così in alto…
non sono qui per cacciare. Cosa fanno così in fondo
nell’entroterra?»
«È un cattivo
presagio» sussurrò
la donnola, nascondendosi tra le radici.
Dopo
essersi guardate a lungo le due ragazze
lasciarono la mano l’una dell’altra. La ragazza
bionda si diresse verso la sua
fattoria. Gli aviani volarono in cerchio per un po', poi sembrarono
disperdersi.
«Devo riferire ogni
cosa» si
ripromise Valiel.
***
La foresta si aprì
innanzi agli
occhi di Valiel rivelando un’ampia laguna piatta, circondata
da alti alberi
secolari. Mancavano pochi minuti e il sole sarebbe tramontato del
tutto. Si
sedette su una grossa radice, incerto su come lasciar trascorrere il
tempo.
Come volessero rispondergli, le mani e le dita iniziarono a muoversi da
sole,
pizzicando le corde di un’arpa inesistente, seguendo con la
memoria le note di
una melodia che da troppo tempo non sentiva più,
un’arte musicale che non
esercitava da decine e decine di anni da quando aveva sacrificato, tra
le prime
cose, proprio la musica, con dispiacere ma senza rimpianto. Rimase
così, a
contemplare nostalgicamente quanto aveva perduto, a mimare nei gesti un
altro
Valiel, di un altro tempo, per una mezz’ora buona. Poi,
finalmente, un primo
raggio di luna colpì l’acqua e la coltre
d’illusioni che copriva l’aria si
diradò. Si disegnarono, tra i ciuffi d’erba
acquatica, dei grandi alberi
coperti di muschi bianchi che quasi splendevano per rispondere al
bagliore
lunare, alberi contorti e ramosi che sembravano crescere dentro e
intorno ad
imponenti palazzi, alte costruzioni a pagoda chiuse da molteplici tetti
larghi
e ricurvi – in effetti si sarebbe potuto dire,
all’opposto, che erano stati gli
edifici a sbocciare in mezzo ai rami. Sotto ciascun tetto ampie
finestre
argentee adorne riflettevano il paesaggio circostante, permettendo solo
a chi
era all’interno di guardare fuori e non viceversa. Evalunith
era una città nota
per essere poco aperta persino ai visitatori elfici e del resto anche
per tale
ragione che Valiel poteva vivere in quel territorio meglio che in altri.
«Mal trovato al chiaro di
luna,
Valadwen Yun Valiel».
Valiel non si preoccupò
neppure
di cercare l’origine della voce nel buio tra due grossi rami
fosforescenti. Si
alzò pigramente.
«Elzen, quanto tempo.
Talmente
tanto che si potrebbe quasi pensare che non apprezziamo le reciproche
compagnie».
«Invero sì,
qualcuno potrebbe crederlo.
Quali affari ti portano, certo brevemente, a lasciare il tuo posto di
ramingo?»
Elzen uscì dalle
tenebre. I suoi
curatissimi capelli argentei e corti, perfettamente separati in una
linea
centrale, i tatuaggi che gli disegnavano dei rami d’edera
smeraldini sul volto,
la pelle scura come terra bruciata e le vesti cerimoniali di seta
cinerea:
sembrava che per Evalunith Dia Elzen gli ultimi trent’anni
non fossero
trascorsi affatto, mentre sulle vesti di Valiel si erano accumulate
foglie
secche, gusci di lumaca, scalda gambe di pelliccia, toppe su
innumerevoli
strappi e una cintura di pugnali da lancio sbeccati dal troppo uso.
Sembrava
quel che era: che avesse vissuto per anni come un animale nella foresta.
«Come sai, mi sforzo al
mio
meglio per prolungare quanto più possibile le nostre
dolorose separazioni. Ma
in questo caso, avendo informazioni piuttosto complesse da comunicare
e, posso
immaginare, apprestandomi ad averne di altrettanto complesse da
ricevere, sono
venuto di persona».
«Bene, allora. Dimmi che
affari
hai qui così che tu possa tornare a fare il ramingo ed io a
custodire… la mia
città».
Per appena un secondo Elzen
indicò il tatuaggio color corallo sullo zigomo di Valiel,
che aveva la forma di
un groviglio di rovi e che ricordava antiche tradizioni ormai perdute
in quelle
terre. Valiel ne colse immediatamente il senso: era la sua
città e non quella
di Valiel, così come non era certo la città
ciò che l’elfo rimaneva a custodire
e anche ciò che realmente custodiva (voleva fargli capire)
apparteneva più a
lui che a Valiel. Questi ne approfittò per ricambiare la sua
scortesia.
«Noto anche con malcelato
piacere
che sei ancora un arcidruido. Quale fortuna per la nostra…
la tua gente, gli
elfi della Luna tutti. Peccato non ci si possa sposare».
«Questi»
ribatté Elzen indicando
col dito le foglie d’edera disegnate sul viso, luccicanti
come gemme «non
possono essere cancellati, come ben sai. Sono tanto monili distintivi
quanto
catene infrangibili per chi consacra la propria vita alla Signora della
Terra
Isor».
«Chissà chi ha
più rimpianti? Io
per i miei errori o tu per le tue rinunce?»
«Rinuncia è
una parola che hai
scelto tu, non io».
«Alla fine abbiamo perso
entrambi
la stessa identica cosa. E in un certo senso non l’abbiamo
mai persa del tutto,
entrambi. Non lo trovi ironico?»
«Ti sembrerà
incredibile» glissò
l’altro «ma questa conversazione è
durata più di quanto desiderassi. Ti chiedo
nuovamente che cosa sei venuto a fare ad Evalunith».
«Preferirei parlarne con
la
nostra signora. Potremmo porre fine alla reciproca compagnia se mi
conducessi
da lei ma in caso contrario provvederò ad andarci da
solo».
Il volto dell’elfo si
scurì
notevolmente, si prese dei secondi di silenzio come volesse rendersi
conto
appieno della situazione: «Valiel… ma allora
tu… non sai niente?»
Valiel sgranò gli occhi:
c’era
solo una cosa che poteva causare quel mutamento d’espressione
e quello sguardo
in Elzen.
«Lyes? Le è
successo qualcosa?»
Tutta l’arroganza che
l’arcidruido aveva mostrato prima si dissolse in sincera
contrizione: «Avevo
dato disposizioni che ti avvertissero quanto prima. Credo che non
l’abbiano
fatto per farti dispetto, avrei dovuto pensarci. Ti chiedo scusa, per
questo».
«Come sta
Lyes?» Valiel sembrava
incapace di sentire qualsiasi altra cosa.
«Ti assicurò
che punirò chi ti ha
fatto questo scherzo e…»
«Lyes!»
interruppe lui,
perentorio.
Elzen sospirò come
dovesse
rassegnarsi a parlare: «E va bene. Mesi fa… la
Bocca di Chimaer settentrionale
si è allargato e ha… insomma, tu sai cosa
succede. Ha preso la foresta,
l’ha divorata per intero. I Quattro Re ne hanno
sofferto tutti, senza eccezione, ma in particolare la nostra Lyes e
forse Re
Hion a Vonselas. Di fatto noi arcidruidi siamo reggenti qui, per ora.
Non so bene
la situazione a Vonselas».
I due vecchi rivali rimasero a
lungo in silenzio. I primi elfi evaluniani intanto uscivano dai palazzi
per
dedicarsi alla loro vita notturna. Un paio notarono
l’arcidruido discutere con
un ramingo dall’aria trasandata. Qualcuno, a giudicare dagli
sguardi sorpresi,
sembrò riconoscerli ma non osò avvicinarli.
Nessuno dei due badò a niente di
tutto ciò.
«Credo»
azzardò Elzen «che
dovresti vedere Lyes. Per quanto poco possa farmi piacere, sono certo
che lei
vorrebbe vederti. Forse la farebbe star meglio. Puoi anche dire a lei
quello
che devi, anche se sarà il consesso dei Druidi a decidere
sul da farsi».
«Ti sono profondamente
grato»
rispose con tutta la sincerità che poteva, e poi aggiunse
supplicante «Portami
da lei, ti prego»
«Certamente»
confermò l’altro,
con dolcezza.
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Capitolo 4 *** Il Ladro ***
3. IL
LADRO
La
parola della Dea segue le persone, non i confini
dei regni. Così anche il templare opera senza confini e non
conosce legge oltre
la nostra legge, la giustizia della Dea stessa.
– estratto
dal Concordato dei Sette
La fattoria dei Thorn dove Jen
era nata e cresciuta era ormai sparita dietro di loro, come Lor e Yul
che la
salutavano confusi e arrabbiati. Camminavano da un po’ in un
campo delle prime
spighe mature, un paesaggio dorato che ondeggiava al vento,
com’era tanto
comune nel regno del Draile.
«Su, zappaterra mia,
piede
svelto! Passi lunghi e ben distesi!»
Jen continuava a guardare di
lato. Era certa che qualche sorta di animale li stesse seguendo tra le
spighe.
«Ehi…
tu… Ed!»
«Cosa…?»
Jen indicò a lato senza
dire
altro mentre la cosa strisciava nel grano.
«Oh!»
saltellò Ed, soddisfatta
«Temevo di aver sbagliato! Invece!»
Jen gettò un urlo acuto
quando
una specie di grossa scolopendra metallica si sollevò come
una serpe dalle
spighe. Al contrario Ed le tese la mano e la creatura le si avvolse
intorno al
braccio.
«Cosa cosa cosa!
Cos’è?!?»
«È
Zahnrad… è mia». spiegò Ed
con
semplicità.
Jen si avvicinò
cautamente: non
era un insetto e non era nemmeno una cosa vivente. Era un insieme di
tasselli
di varie forme geometriche, di una specie di pietra grigia e liscia.
Qualcosa
che Jen non sapeva definire, come una ragnatela di luce arancione, ne
teneva
insieme i pezzi mentre questi si componevano e scomponevano in forme
diverse.
«È…
è…»
«Sì.
Affascinante, vero? Temevo
di non essere riuscita a insegnarle questa forma. Invece funziona.
Riesce a
trovarmi! Non lo trovi entusiasmante?»
«Sì…
come no».
L’oggetto chiamato
Zahnrad si
ricompose in una forma più piccola e compatta, come un
bracciale largo e spesso
che ricordava vagamente la sagoma di un ingranaggio.
«Devo… devo
ammettere che è
affascinante a suo modo…»
«Come sarebbe
“a suo modo”?»
ribatté Ed, risentita «Bè, se non ti
piace non me ne frega niente».
«Io non ho detto
che…»
Ed le fece un cenno
inequivocabile e Jen tacque. La giovane nana gettò lo
sguardo in varie
direzioni e Jen non ebbe difficoltà a capire
perché.
«Ci seguono anche
ora?» sussurrò.
Ed non reagì come si
sarebbe
aspettata: piuttosto che spaventata, l’espressione che
assunse era più che
altro offesa o infastidita.
«VAI A FARTI
FOTTERE!» urlò con
tutta la voce che aveva così che risuonasse per
l’intera vallata e Jen saltò su
due piedi per lo spavento.
«
…eh?» fece Jen, sbalordita «A
chi urli?»
«Uno che ama mettermi
ansia.
Andiamocene» disse infine Ed prendendole rabbiosamente la
mano.
***
Prima che Valiel potesse varcare
la soglia della sala con il suo corpo, fu la sua mente a farlo,
entrando nel
Trono della Regina Elfica che esisteva nei suoi ricordi. Ricordava il
pavimento, un mosaico di pietre preziose color avorio attraversato da
disegni
azzurri, blu e violetti di pietre lucide e splendenti. Al centro della
ruota di
figure leggendarie tratteggiate dai mosaici, stava quello che si
sarebbe potuto
definire un immenso giglio tigrato, bianco latte, e al centro di questi
stava
la potente figura di lei, che proiettava incessantemente una colonna di
fulmini
fino alla volta del salone: un pilastro scintillante che manifestava
esplicitamente lo sconfinato potere di un sovrano elfico. La sua
figura,
avvolta in un mantello di grandi petali bianchi, lasciava libero solo
il volto
ingenuo di eterna ragazzina, la pelle liscia e bruna, i corti capelli
nerissimi,
e quei grandi occhi appassionati color del cielo, che accompagnavano
Valiel con
infinita dolcezza e rimpianto.
«Lyes»
chiamò debolmente.
La Lyes che apparteneva al tempo
presente alzò il volto asciugato e solcato di rughe e
aprendo appena e con visibile
sforzo gli occhi per distinguere chi la chiamava, attraversò
con uno sguardo
intorpidito il salone coperto da una persistente cappa di penombra
grigia.
«Lyes»
chiamò a sua volta Elzen
«Valiel è venuto a trovarti. Per sapere come
stai».
Persino Valiel non poté
che
essere grato per la dolcezza con cui Elzen aveva parlato. La loro
feroce
rivalità arrivava solo fin dove non feriva i sentimenti di
Lyes, questo era
chiaro a entrambi, ma in quell’occasione Elzen si
dimostrò più sensibiledi
quanto Valiel sperasse.
Lyes stirò a fatica uno
dei
sorrisi ironici che Valiel ricordava nitidamente, anche se il volto era
così
diverso da quello che lui ricordava: «Non mi trovi nella mia
forma migliore
Val… scusa».
«È…?»
chiese Valiel, ricordandosi
bene Lyes in quello stato.
«Sì,
è il Chimaer, come
ho detto». spiegò Elzen e Lyes lo
lasciò fare,
evidentemente troppo stanca per parlare a lungo «Ha divorato
buona parte delle
pinete tra il Draile e le Terre di Rah. Erano grandi foreste, con
alberi forti,
antichi e nobili».
«È
irrimediabile?»
«Come saperlo?
È una Bocca del
Chimaer. Lo sai come vanno queste cose».
«E Re Hion?»
Lyes tossì ed entrambi
si
zittirono di colpo, per concentrare ogni sguardo e pensiero unicamente
su di
lei. Dopo qualche minuto, dato che non sembrò fare
nient’altro di preoccupante,
si rivolsero nuovamente l’uno all’altro.
«Te l’ho
già detto, non sappiamo
nulla di Vonselas. Non erano isolati quanto noi, avevano scambi con due
o tre
paesini montani nelle Lande di Rah, quindi stiamo cercando di
ricontattarli. Ci
vorrà qualche anno perché Lyes stia meglio ma
forse Hion potrebbe riprendersi
anche prima».
«Posso fare qualcosa per
lei?»
Elzen riacquistò tutta
la sua
fredda durezza: «Sei un ramingo al servizio della regina di
Evalunith. Dedicati
a quello che ti compete. Non eri venuto per informarci della situazione
al Lago
di Kalst?»
«Che marcisca il dannato
Lago di
Kalst! Ci deve essere qualcosa che posso fare… qualsiasi
cosa!»
Si rese conto troppo tardi di
aver sbagliato ampiamente scelta di parole. Lyes alzò di
nuovo il capo e a
Valiel sembrò che un vento inquieto, carico di
elettricità statica, avesse
preso a vorticare dal centro della stanza. Tutta la gentilezza di Lyes
era
sparita.
«Qualsiasi cosa!
Sì, tu faresti qualsiasi cosa.
È la tua specialità».
Ogni parola gli sembrò
un tuono
che si scagliava a pochi metri da lui. Ad Elzen tremavano addirittura
le mani:
evidentemente, a differenza di Valiel, aveva visto altre volte Lyes
tanto
infuriata e ciò che ne seguiva.
«Credi di essere
speciale. Che le
nostre leggi non valgano per te. Tu puoi violare le nostre sciocche
regole. Tu
puoi fare qualsiasi cosa serva».
«Lyes, io
…»
«Bene, invece stavolta
farai
esattamente quanto devi e nulla più, non importa quanto
futile, banale o
indegno ritieni il tuo compito».
«Ascoltami,
io…»
«Non ascolterò
proprio nulla! Non
sprecarti a parlare. Non ti allontanerai da me più di quanto
hai già fatto. Non
avrai mai più a che fare con il Chimaer ovunque si manifesti
in tutti i Sei
Regni. Non vedrai mai la Bocca settentrionale. Non darai alcun aiuto ai
nostri
guardiani, mai. Mi hai capito? Mai!»
L’ultimo
“mai” fu seguito da un
lampo che illuminò a giorno la sala e poi da un istante di
buio. Dopo ancora
tutto sembrò penombra e silenzio, come se la
normalità si fosse di colpo
imposta nuovamente sulla magia. Valiel ed Elzen chinarono il capo senza
fiatare.
«Ora» riprese
Elzen, con la voce
ancora tremante «racconta alla regina cos’hai
visto».
Valiel tirò un gran
respiro, poi
si decise: «Mia regina, la Forgia del Lago di Kalst
è stata attaccata».
Elzen e, per quanto poteva, Lyes,
sgranarono gli occhi in segno di sorpresa.
«I chimerici, dalla Bocca
a
nord-est?» scandì Lyes, per poi aggiungere:
«Che siano giunti fino a… no. Non
l’ho percepito… non può
essere.»
«No, mia signora. Ho
capito
subito che non avevano nulla a che fare con esso, tuttavia ho anche
consultato
uno stormo di corvi che ha sorvolato la rotta dalle Lande di Rah al
Draile per
esserne sicuro. I corvi confermano che nulla è uscito dalla
spiaggia di
Fjaran-Marmar, nel Rah… la Bocca del Chimaer è
irrequieta, ma stabile per ora».
«È soprattutto
merito dei nostri raminghi»
si vantò Elzen «nulla potrebbe entrare nella
foresta senza che noi ce
accorgessimo».
«Noi siamo qui per
questo»
concordò stizzosamente Valiel.
«Già. Anche tu
hai fatto la tua
parte» riconobbe l’altro, con fastidio
«ma il quesito rimane. Se non un
chimerico, allora cosa? Nessuno ha mai attaccato quella Forgia da che
ho
memoria… o vuoi dirmi che è stata
l’opera di qualche bestia selvaggia?»
«L’avremmo
notata molto prima che
arrivasse al lago, non diversamente che un chimerico. No. Non sono
esperto in
materia ma direi che si trattava di golem. Molto elaborati e potenti,
difatti
alcuni mastri forgiatori hanno cercato di trattenerli e ci sono
riusciti a
fatica».
«L’arte dei
mastri di Kalst è
pari o superiore alla magia di molti dei nostri arcidruidi. Un nemico
pericolso
per i nani… e per chiunque» la preoccupazione di
Elzen sembrava crescere di
minuto in minuto.
«Quel che non mi spiego
è quale
fosse lo scopo dell’attacco. Non so se fossero in grado di
distruggere la
Forgia o uccidere qualche mastro forgiatore in particolare, ma
sicuramente non
si sono impegnati per questo. Piuttosto sembravano interessati ad una
giovane
apprendista nana che è scappata appena ha potuto».
«Una
apprendista?»
«Sì, una
ragazza abile, direi. Ma
non abbastanza da disturbare quei golem. Ho dovuto interferire, anche
se non
sono stato visto».
«Come sarebbe a dire che
hai dovuto interferire?»
«Hanno cercato di colpire
due
contadini umani. Il Trattato dei Popoli mi autorizza a
intervenire».
«Così
è» intervenne Lyes «ma
tutto questo è… davvero inquietante. Un mastro
forgiatore che ne attacca altri,
senza curarsi di suscitarne l’ira… che aggredisce
degli innocenti umani, in
sfregio al Trattato dei Popoli… tutto promette
disgrazia».
«Dovremmo tenere sotto
controllo
la Forgia…»
«Non credo»
corresse Valiel
«secondo me dovremmo tenere d’occhio quella giovane
apprendista. Un paio di
topi con cui ho rapporti la seguono, credo vada verso Tuinsy al
momento. Dei
raminghi potrebbero andare lì e…»
«Tu. Tu sei un ramingo.
Tu andrai
lì».
«Lyes, finché
sei in queste
condizioni…»
«Te lo ordino come tua
regina.
Stammi lontano. Non voglio più che tu mi veda,
finché sono in questo stato. Ti
proibisco di agire – e se potessi ti proibirei di pensare
– per la mia salute.
Non chiedere ad altri di me. Non mettere piede ad Evalunith.
Concentrati sul
tuo compito e solo su quello».
Valiel sentì il suo
cuore
accelerare. Ogni fibra del suo essere gli impose di non mostrare alcuna
emozione. Accanto a lui, Elzen sembrava turbato quanto lui dalla
durezza di
quell’ordine.
«Lyes, non
posso…»
«Devi».
«Finché stai
così…»
«Se mai… se
mai…» cercò di finire
la frase ma un altro colpo di tosse la piegò tanto da farla
sembrare chinata.
Entrambi gli elfi fecero per
avvicinarsi ma subito alzò lo sguardo di nuovo e gli occhi
di lei,
inflessibili, imposero la giusta distanza tra la regina ed i suoi
servitori.
«Se mai… ti
è davvero importato
di me… fai come ti ho chiesto. Ti prego».
«Farò…
farò come chiedi…»
«Prometti!»
Gli tornò alla mente,
come un
lampo, un giorno di venti anni prima. Anche allora gli aveva chiesto di
promettere e lui l’aveva fatto.
… basta sangue, basta
tradimenti, basta complotti. E soprattutto, basta con
la mia malattia…. Prometti!
Te lo prometto, Lyes, si era infine rassegnato lui.
«Prometto,
Lyes» ripeté in quel
momento, ripensando a quel giorno lontano; quel giorno aveva mentito,
così come
stava mentendo ancora.
***
Emergevano dalle onde di spighe
come frammenti arrugginiti di qualcosa di troppo grande
perché Jen potesse
concepirlo, saldamente conficcati nella terra come scagliati da una
divinità
infuriata. Pochi rampicanti tentavano ostinatamente di aggredire ai
lati quelle
forme metalliche oblique corrose dal tempo ma anche dalle forze
dirompenti che
ne avevano inconfondibilmente alterato le forme, come Jen
poté dedurre
soprattutto da una delle strutture più massicce, scavata da
parte a parte in
tutti i suoi numerosi strati da qualche potere irresistibile che aveva
lasciato
un ampio foro perfettamente circolare.
«Le vecchie torri
pendenti…»
osservò con la voce colma del fascino che quelle forme
avevano sempre
esercitato su di lei, sin da bambina.
«Ma quali torri? Sono
relitti.
Resti del Mondo Antico».
«A Kalaston le chiamiamo
torri
pendenti».
«Se ti chiamo cane non ti
metterai ad abbaiare, giusto? Sono navi, vascelli da guerra
probabilmente».
«Navi in mezzo alla
prateria»
ridacchiò Jen «Ma cosa dici?»
«Navi volanti,
è ovvio» precisò
Ed, piccata.
«Esistono navi in grado
di
volare?» si stupì Jen.
«Ce n’erano
tante… un tempo. Le
torri pendenti, come le chiami tu… non sono certo le
uniche… sono tracce del
Mondo Antico intorno a noi».
«Io… non mi
sono mai chiesta da
dove venissero le torri pendenti. Ma cosa c’entra
con…»
Le morirono le parole in gola. Ed
la stava scrutando con uno sguardo penetrante, colmo di sospetto. Le
sue
pupille si dilatarono tanto da ricordarle come gli occhi di lei si
erano
trasformati per vedere al buio, poi si strinsero di colpo, come
volessero
pungerla.
«Tu… tu non
sai un accidente.
Dov’è che hai studiato? Come mai proprio tu sai
aprire un Cancello di Zoa?»
Jen rimase incerta per un
momento. Furono interrotte da un clangore metallico ritmico. Stavolta
Jen vide
chiaramente la minaccia e soffocò l’urlo in tempo,
per poi gettarsi a terra
coperta dalle spighe. Ed si abbassò con più
calma, senza paura.
«Che hai?»
«Mia madre diceva
sempre… “chi
disturba le torri pendenti suscita l’ira dei cavalieri di
ruggine”. E infatti
eccoli...».
«I… cavalieri di ruggine. Sicuro, come no.
Intendi quelli?»
Formando un cerchio intorno a uno
dei giganteschi rottami, incedevano a passi lenti figure simili a
grossi
scafandri arrugginiti, armature semoventi di placche consunte e
ingranaggi
cigolanti. Era facile riconoscerli per i cimieri, simili alla ruota di
un carro
che girasse incessantemente, o per le armi di pietra incisi di rune:
erano i
guardiani di quelle rovine sparse qua e là come giocattoli
rotti nei campi del
Draile, soldati metallici rimasti da secoli senza alcuna guerra da
combattere
eppure determinati nel proseguire il loro compito di custodi. A tutti i
viaggiatori del regno toccava conoscerli, rispettarli ed evitarli se
non
volevano subirne l’incomprensibile violenza. Dato che erano
considerati di
malaugurio e che se indisturbati erano innocui, né i
templari né la guardia
civile si occupava di distruggerli.
«Voi umani avete un nome
cretino
per ogni cosa» si lamentò Ed
«…cavalieri
di ruggine… sono solo golem, semplici golem. Come
quelli della Forgia. O
come quelli che ci hanno aggredito».
«Se è il tuo
modo di
tranquillizzarmi, fa schifo».
«Sono anche vecchi. E
scemi come
un ciuco. Guarda!»
Con un movimento della mano il
bracciale, Zahnrad come Ed lo chiamava, cambiò massa e forma
in una valigia
allungata con due manici.
«Ma
cosa…»
La valigia si aprì in
due per
lungo lasciando fuoriuscire due archi metallici con una rete di
cordicelle ben
tese.
«È
una… come si chiama… una
balestra?»
«Uhm sì. Ho
pensato questa forma
mesi fa» spiegò alzandosi e reggendo la valigia o
balestra o qualsiasi cosa
fosse con entrambe le mani.
«Non vorrai colpirli?
Aspet…»
Un dardo sfrecciò in
volo verso
la cima di una torre distante e ci si piantò emettendo un
incredibile fracasso,
come il rintocco di una campana. Gli oblò nei volti dei
cavalieri di ruggine si
illuminarono e tutti loro si voltarono verso il punto che era stato
colpito,
dirigendosi al rottame con passo lento ma deciso, spinti da antiche
direttive
che erano tutto ciò che c’era in loro.
«Ecco. Ora ci
ignoreranno. Visto?
Scemi come ciuchi».
«Avevo un asino ed era
molto
intelligente» protestò Jen.
«Sì,
bè… argomento affascinante,
gli asini».
Zahnrad riprese rapidamente la
sua forma di bracciale ma Jen vide che risplendeva come fosse
incandescente e
sentì odore di bruciato.
«Ahia» si
lamentò Ed senza troppa
convinzione «è ancora difficile mutarne la massa
così radicalmente».
«Ma… che magia
è questa?»
«Non è magia.
Scienza runica»
puntualizzò Ed.
«Non capisco la
differenza…»
«E io non capisco
l’intelligenza
degli asini. Ognuno ha il suo campo di competenza, pare».
Prima che potesse rispondere
all’insulto, la nana aveva già ripreso a camminare
con passo spedito.
«Su, prima che quelle
vecchie
carcasse arrugginite tornino qui. Dobbiamo passare tra questi
relitti».
«Ma
dov’è che andiamo?»
«Alla miniera al Picco
del
Matto».
«A cercar diamanti come
il matto
della leggenda?» chiese Jen.
«Sei anche spiritosa.
Possibile
che tu sia la donna perfetta? Vorrei essere maschio, così
potrei sposarti e
fare cose da sposati».
«Cose… da
sposati?»
«Sì,
sai… farti cucinare, lavare,
lavorare e lamentarmi tutto il tempo offendendo la tua
dignità. Non fare quella
faccia, dopotutto è così che finirai quindi
meglio saperlo prima».
La cosa che più
colpì Jen non fu
il sarcasmo della giovane nana ma come finito di prenderla in giro
voltò
serenamente le spalle non solo a lei ma anche ai cavalieri di ruggine.
Li aveva
distratti con un semplice trucco e ora li ignorava, sembrava le fossero
familiari
quanto a Jen potevano esserlo le mucche. Tutti gli umani percepivano da
sempre
che elfi e nani erano molto più avvezzi di loro alla magia e
ai suoi prodigi ma
vederne gli effetti palesarsi a tal punto faceva un certo effetto: per
Ed ciò
che per Jen era misterioso e inquietante era banale e prevedibile, su
di lei
l’enigma e l’arcano non avevano potere. Ma, si
chiese, questo perché
appartenevano a razze diverse? O forse il potere dell’ignoto
non era, in fondo,
costruito dalla stessa mente di coloro che lo subiscono?
***
Il grosso roditore corse fino ad
una massa di funghetti grigiastri. Una porzione di questi si
sollevò, mutando
forma nel velo di foglie secche che componevano il cappuccio di Valiel.
«Allora?»
«Molto strano»
commentò il
roditore «Le due ragazze sono molto
tese…»
«Non ti avranno visto
mentre le
seguivi?»
«La fai facile, ramingo,
tu stai
fermo qui ad aspettare, bel modo di cacciare».
«Esistono tanti modi di
cacciare.
I più complessi li chiamiamo con altre parole ma alla fine
è sempre la stessa
operazione».
Il roditore inclinò la
testa di
lato: «Non ti capisco. Ad ogni modo umani e nani non
capiscono la nostra lingua
e poiché non ci parlano, nemmeno ci notano. Oggi non
c’è stata eccezione».
«Ma hai detto che sono
tese…?»
«Perché
qualcosa le segue. E loro
lo sanno. Non siamo noi… ma è qualcosa. Qualcosa
che fa paura».
«Golem di
sabbia» concluse l’elfo
senza sforzo «Da dove verranno?»
«Non so nulla di
costrutti
nanici, ramingo. La foresta disprezza questo genere di intrusi. Stanno
bene a
casa dei nani».
Valiel tirò fuori un
pugno di
noci sgusciate: «Bene e ora… come promesso, fedele
amico».
Il roditore si fiondò
sulle noci
con felicità.
«Vedi»
commentò Valiel sarcastico
«anche tu hai sviluppato un modo complesso per sgusciare le
noci, che passa per
farle sgusciare a me».
Si volse verso il Picco del
Matto. Dove andavano quelle due? Perché erano braccate?
Sentì un incontenibile
istinto di urlare quanto poco gliene importasse e tornare indietro.
Tornare da
Lyes. Occuparsi del male che la divorava, studiare l’avanzata
del Chimaer…
invece doveva seguire quelle due piccole fuggiasche. Sospirò
rassegnato: non
era certo la prima volta che un incarico di Lyes si rivelava, in buona
sostanza, una forma di esilio.
***
Jen si svegliò di
soprassalto. Il
buio intorno a loro era totale, solo il cristallo che stava tra i due
sacchi a
pelo emetteva una debole luce biancastra, rinchiudendole in un piccolo
cerchio
di mondo visibile. Ed, con le gambe coperte dal sacco, tracciava dei
segni sul
terriccio col dito. Si guardò a destra, cercando di
affondare lo sguardo nel
nero denso del buio: ormai l’entrata della miniera non era
più neanche un
sospetto di luce dietro una parete di roccia lontana, era tanto
distante che si
poteva persino dubitare che fosse mai esistita. Anche distinguere
giorno e
notte era diventato impossibile.
«Dovresti dormire, tu che
puoi»
disse Ed senza guardarla.
«Scusa… ti ho
disturbato? Cosa
stai facendo?»
«Piuttosto che chiedermi
se mi
hai disturbato, perché non smetti di disturbarmi?
Buonanotte» parlava a voce bassissima,
come se non le interessasse di poter essere udita da Jen.
Jen si girò con uno
scatto
nervoso, stendendosi e dandole le spalle. Nella direzione in cui
guardava ora
c’erano nuovamente solo tenebre, presumibilmente fino alla
parete della vecchia
miniera.
«È colpa tua,
sai! Continuo a
sognare i miei fratelli… la fattoria fatta a pezzi e loro
uccisi dalle vostre
bestie di pietra!»
«Golem. Non sono bestie.
E non
attaccano gli umani inermi senza ragione».
«Li fate voi…
vero?»
«Noi?
Intendi, noi nani? Sì».
«Perché?»
«Sono armi. Armi
viventi».
«E perché fate
armi?»
Ed strinse le spalle:
«Forgiamo
perché è la nostra arte. Perché armi?
Immagino che sia perché è la cosa che
frutta di più».
«È questo che
fate… nel lago».
«Fanno,
non fate. Io non tornerò mai più
lì».
«Anche armi come spade o
come
quelle… che fanno rumore e luce, le armi da forno?»
«Armi
da fuoco, non forno. No, perlopiù golem. Ma che
tri frega?»
«Ho solo paura che Lor e
Yul non
se la cavino senza di me. Mi hai chiesto molto! Te ne rendi conto? Loro
sono
ragazzini e…»
«Sono molto interessata
ai tuoi
problemi» la interruppe Ed, sarcasticamente «ma sto
cercando di ragionare qui.
Se non vuoi dormire, perché non mi dai una mano? Ah
già: non ci capisci un
accidente di queste cose. Quindi dormi o quantomeno fai
finta».
«Sai»
insisté Jen «non credo che
abbia a che fare col fatto che sei un nano. Devi essere una persona
terribile e
basta. Anche tra la tua gente».
«Già»
concesse Ed «terribile.
Però sono molto fortunata: non faccio che incontrare gente
piena di idee su
come potrei essere meno terribile. Mi spiace solo non avere altrettanti
buoni
consigli da restituire. Mi piacerebbe per esempio poterti aiutare nel
tuo
difficile rapporto col mondo reale».
«Mi sembra che il mio
rapporto
con la realtà sia molto migliore del tuo».
«Viaggi da una settimana
con una
sconosciuta. Ci siamo infilate in una vecchia miniera umana e ne ho
fatto
crollare l’entrata. Come sai, dall’altro lato ci
potrebbero essere i nostri
comuni amici sabbiosi che mi hanno quasi gambizzata e hanno spappolato
il tuo
cane. Ma tu sei preoccupata che i tuoi fratelli possano incasinarsi a
badare
vacche e polli e non ci dormi la notte. Che pericolo corrono loro
rispetto a
noi due? Che qualche covone di fieno se li mangi? Ti sembra di essere
tutta
giusta?»
Jen si rimise di nuovo a sedere e
guardò i disegni geometrici nel terriccio: «Mi
pareva di capire che facesse
tutto parte di un piano».
«Certamente; se ricordo
la nostra
visita istruttiva qui con Mastro Quaquathor, ci toccherà
solo prendere un
cunicolo naturale, che non risulta sulle mappe, e seguirlo. Non
appariremo mai
dove siamo attese, invece sbucheremo tra il campi di Mar
D’Oro e Tuinsy. Sempre
che i nostri – bè, ad essere giusti, i
miei – inseguitori non si aspettino proprio questo
o che il cunicolo non
sia franato o non mi sia dimenticata dov’era oppure che la
miniera, che ci
tengo a precisare è di fattura umana, non ci frani addosso o
ancora che non ci
si sia stabilita qualche bestia sotterranea. Che poi è la
ragione per la quale
io a differenza tua, sto sveglia e parlo a bassa voce».
Jen si nascose la testa sotto
l’orlo del sacco, appoggiandola alle ginocchia:
«Devo sembrarti proprio una
palla al piede».
«Oh, sì. Ma
non più di quanto non
mi aspettassi, almeno. E se davvero puoi aprire i cancelli del regno
perduto,
mi riterrò ripagata comunque».
«Già…»
Le cadde lo sguardo su un oggetto
allungato che era poggiato sulla spalla di lei, una mazza lunga e
pesante, il
corpo contundente cilindrico però ne rivelava la natura: era
un insieme di
frammenti regolari di pietra uniti da una fievole luminescenza
arancione, come
di metallo caldo. Era Zahnrad, che aveva cambiato forma ancora una
volta.
«Quella cosa
è… non credevo che i
nani potessero costruire cose simili».
«Non possono, infatti.
Non è
certo un oggetto comune. L’ho realizzato con un materiale a
dir poco unico. Mai
sentito parlare dell’ukoritium?»
«No».
«Il metallo
divino?»
«No».
«Il dono del dio Ukor al
suo
popolo diletto?»
«No».
«La pietra
polimorfica?»
«No».
«Uff… insomma,
il punto è non
troverai niente di simile in giro» disse brandendo il lungo
manico con una
smorfia di orgoglio.
«E come mai tu invece ce
l’hai?»
Ed si fermò a riflettere
un
momento, prima di dire: «L’ho rubato, tanto tempo
fa».
«Ah…
è per questo che… ti
cercano?»
Ci fu un altro momento di pausa
prima che Ed rispondesse: «Sì».
Jen dubitò
immediatamente della
sincerità della risposta ma si innervosì
comunque: «Quindi è per questo che
stiamo rischiando la vita? Perché sei una ladra?»
«Che importa
ormai?»
«Come sarebbe
“che importa”?
Certo che importa!»
«Non farla
lunga… sto cercando di
tirarti fuori da qualsiasi guaio posso aver causato. E non intendevo
certo
causarlo, credimi, nemmeno sapevo che esistevi e sinceramente stavo
benissimo
così. Ora siamo in questa storia entrambe. Ma del resto
potrai usare quei
cancelli per tornare dai tuoi preziosi marmocchi in ogni
momento».
«Tornare alla
fattoria… con i
Cancelli di Zoa?»
«Esattamente. Fa parte
del piano.
Per quanto lontano io ti possa portare, tu potrai tornare comunque alla
fattoria in un batter d’occhio. E da quel momento i casini
saranno tutti solo
miei».
«Con i Cancelli di
Zoa…»
«Al mondo ne esistono,
è
documentato, non più di sette, otto se contiamo quello
nascosto sotto la tua
proprietà. Tre non si aprono più da anni, gli
altri quattro funzionano ma non
sono controllabili. Non da qualcuno che non sia tu, comunque».
Jen non emise neppure un suono
malgrado Ed avesse cercato di ottenere una qualche risposta da lei; la
nana si
rassegnò e riprese a parlare.
«Purtroppo due di questi
sono
letteralmente all’altro capo del continente e uno
è addirittura oltre. Il più
vicino è proprio alle Isole Ranaluta. Quindi attraverseremo
con qualche nave il
Blu Minore, poi ci faremo dare un passaggio da qualche carovana
mercantile che
arriverà al confine con il Nadorhai, cioè alle
isole. Sicuramente sarò seguita
fino a lì. Da laggiù, dopo, potrai tornare alla
fattoria riutilizzando lo
stesso Cancello di Zoa che si trova là e sparire nel nulla
senza essere
seguita».
«Tornare alla fattoria
con i
Cancelli di Zoa…» ripeté Jen, come
imbambolata.
«Perché
continui a ripeterlo?
Servono a questo, no? Sei strana tu che hai questo potere e non lo
coltivi. A
proposito, non sarebbe ora di dirmi come mai sai utilizzarli?»
«…seguirò
il tuo consiglio e
dormirò».
«Ti propongo un nuovo
affare: se
mi dici come hai imparato, io ti dico perché ti voglio
portare là. Ti
interessa?»
«Buonanotte».
«Per la gloria di Ukor,
non ti
sopporto».
***
«Me lo ripeta:
è assolutamente
certo?»
«Glielo ripeto: sono
assolutamente certo» sbuffò il vecchio.
«Ma lasci che le mostri
ancora il
ritratto e…»
«Insomma Bedge, sei
rincretinito?
Ha detto di sì. Diamoci un taglio».
«Sì, tenente,
però… voglio dire…
le implicazioni del caso…»
Nihilus Wiggs strattonò
il suo
sottoposto, per parlargli all’orecchio: «Le capisco
da solo le implicazioni.
Fai uscire questo bacucco e chiamami il prossimo testimone».
Bedge obbedì senza
insistere.
«E se qualche bifolco
della
guardia cittadina dice che il caso è di sua competenza,
striglialo così terrà a
mente che in questo buco di città la Chiesa è
padrona» gli urlò dietro mentre
Bedge usciva.
Appena rientrò nella
camera, si
sedette davanti al tenente, squadrandolo e leggendo in lui la sua
stessa
irrequietezza. Grattava i capelli cinerei e spettinati, impensierito,
poi si
carezzava la barba appena incolta, infine si accese una sigaretta.
«Arriverà a
momenti, capo. Che si
fa? Se si scoprisse che abbiamo bevuto gomito a gomito col principale
sospettato…»
«E chi lo
dirà? L’oste? Gli
lascio praticamente lo stipendio intero e mi dovrebbe almeno due
matrimoni
felici e una carriera onorata».
«Non vedo come potrebbe
restituirteli…»
«È un modo di
dire. Se serve,
comunque, lo corromperemo. Questo gli cucirà la
bocca».
«Una volta eravamo noi a
prendere
mazzette».
«Che vuoi che ti dica,
non c’è
più nulla di sacro a questo mondo. È un pezzo che
non seguo seriamente un vero
caso ma ogni tanto bisogna scendere a compromessi» si
alzò pigramente «Arriva
questo testimone? Altrimenti farei una capatina al bagno».
«Faccia come fosse a casa
sua,
tenente».
Wiggs uscì in corridoio,
ripetendosi mentalmente quanto incredibile fosse la capacità
del suo lavoro di
frapporsi tra un’ora di perdizione e la successiva. Una sorta
di parentesi di
“devo” che fastidiosamente si inseriva nel
“voglio” a cui preferiva dedicarsi.
Proprio in quel momento, gli passò accanto una esile figura
sinuosa, avvolta in
uno splendido manto blu scuro ricamato di figure d’argento e
d’oro. Le labbra e
il mento erano tutto ciò che poteva vedere, il resto del
viso era celato da una
maschera argentea la cui forma poteva ricordare un arco o un paio
d’ali
abbassate.
«Salute, Sacerdotessa
Norna».
Lei ricambiò con un
sorriso
stirato. La diffidenza e il disprezzo tra sacerdotesse e templari era
mutuo e
ben radicato: le prime vedevano i templari come gendarmi violenti e
rozzi,
incapaci di controllare i fedeli con la parola; i secondi vedevano le
sacerdotesse come orpelli al potere della Chiesa, potere che vedevano
come –
sostanzialmente – militare. Entrambi indossavano il paramento
sacro della
Chiesa: una stola annodata sulle spalle a mò di pallio; la
fantasia di cui era
ricamata riproduceva volute e spirali di nuvole ammassate, percorse per
lungo
da una folgore, il fulmine che simboleggiava la loro Dea, Genaa
dell’Aria.
Quella di Norna era di un bianco abbagliante, a simboleggiare la
purezza della
fede; quella di Wiggs era argentea e sembrava lucida come acciaio
temprato, a
ricordare che i templari facevano valere le leggi della Chiesa con il
ferro.
«Un caso
d’eresia, tenente
Wiggs?»
«Lo trovo difficile.
Credo un semplice
furto, anche se di consistente entità».
«Ricordatevi allora di
concertare
ogni cosa con la guardia cittadina».
«Contateci,
Sacerdotessa».
Appena lei lo
oltrepassò, la
mandò a quel paese con un gestaccio.
«Entrate pure»
chiamava intanto
Bedge, ancora seduto alla scrivania.
Il successivo testimone era un
maggiordomo della Casata degli Ensland. Il distinto signore si sedette
al
tavolo, appena dopo esser stato urtato da Wiggs, e contemplò
la bizzarra figura
di un templare emaciato dall’aria nevrotica e depressa, con i
capelli appuntiti
all’insù e un unico tondo monocolo di cristallo
azzurrino sull’occhio destro.
Si trattenne appena dal chiedere di poter parlare con il templare che
doveva
interrogarlo, perché dalle vesti comprese che lo aveva
proprio davanti. Su una
lunga e stretta veste color avorio che si allargava morbidamente sulle
gambe, portava
anche lui, come Wiggs, la stola sacra dei templari, nella filigrana
metallizzata. Come molti, anche l’uomo salutò la
sola vista di quell’indumento
con un cenno di deferenza.
«Non si siede?»
«Chiedo scusa, milord.
Samus
Jasparro, per servirvi».
«Umpf.
Sì… certo… bè…
Balder
Bedge, sergente degli Alti Templari, divisione settentrionale di
Kalaston,
chierico di seconda classe. Il tenente Wiggs è uscito un
attimo per… consultare
la documentazione sul caso. Quindi…»
avvicinò una tazza di caffè al maggiordomo
«…cosa può dirmi, signor
Jasparro?»
«Non credo
d’aver molto
d’aggiungere, milord, a quanto le avranno già
detto gli innumerevoli passanti
trovantisi giusto all’infuori della magione. Personalmente,
posso arricchire il
bagaglio delle sue conoscenze affermando che ho effettivamente visto il
tappetto sfondare il muro della sala delle armature e poi quello che
dava sul
giardino».
«Sfondare?»
«Bè,
tecnicamente è stato il
pezzo da collezione di Padron Ensland a devastare ambedue i
muri».
Bedge guardò verso
l’alto
respirando profondamente. Poi si tolse il monocolo e iniziò
a pulirne la lente.
Il tenente Wiggs ci stava mettendo un tempo davvero eccessivo a
rientrare nella
stanza degli interrogatori e Bedge se lo immaginò intento a
fumare una
sigaretta nascosto tra le logge nel giardino interno della Cattedrale,
ben
determinato a lasciargli il lavoro. Magari stava anche ridendo di lui.
Strinse
le spalle: non poteva farci niente, né gli era mai
interessato farlo.
«Signor Jasparro, che
idea si è
fatto della faccenda?»
«I tappetti hanno
un’idea
peculiare della proprietà, milord. Ritengono che
ciò che uno di loro ha
lavorato appartiene per sempre al loro popolo. Quest’idea
incivile
contraddistingue tutta la loro cultura».
«E lei ritiene che per
questo il
nano abbia trafugato» prese in mano un foglio un
po’ strapazzato e lesse «un
golem dell’epoca Ozmatt del peso di quattro tonnellate in
ferro argentato, del
valore di circa centodiciottomila geon…?»
Bedge ripensò alla
serata alla
locanda, la settimana prima. Il giovane nano astemio tutto sembrava
fuorché uno
zelante tradizionalista pronto a vendicare l’onore della sua
gente. Peraltro
non aveva mai realmente avuto notizia diretta o indiretta, recente o
remota, di
un nano che cercasse di riprendersi un artefatto nanico dagli umani con
la
forza. Sospettava che si trattasse di una diceria bella e buona senza
alcuna
base fattuale.
«Certamente. Si
dev’essere
trattato di un proditorio atto di sfida alle nostre tradizioni. Se
milord
consente, esprimerò una posizione personale».
«Consento»
rispose Bedge
sporgendosi verso di lui.
«Da ormai cinque secoli
capita
che umani, elfi e nani costruiscano le loro case fianco a fianco.
Ebbene questo
non ci rende pari agli altri. I tappetti…»
«Si esprime in maniera
piuttosto
erudita, mi sorprende che usi un termine rozzo quale tappetti
per descrivere delle persone» lo gelò
immediatamente Bedge
«Mi permetta una domanda: il nano ha fatto o detto qualcosa
che avvalorasse
questa sua ipotesi sul movente?»
Il maggiordomo si mosse un
po’
nella sedia, come se avesse prurito. Guardò la luce tremula
delle candele della
sala e finalmente sembrò nervoso proprio come dovrebbe
esserlo un testimone
convocato alla cattedrale della Chiesa della Dea.
«Se sforzo la memoria,
milord,
rammento che in effetti mi ha solo detto di… ecco, non
stargli fra i piedi. I
piedi del pezzo da collezione, intendo. Perché il nano,
lui… sedeva sulle sue
spalle. Sa, come un bimbo che gioca sulle spalle del padre…
e mi ha detto di
togliermi dai piedi».
«E
nient’altro».
«Nient’altro».
Bedge portò le braccia,
congiunte, sul tavolo. La mano destra prese a giocare con un grosso
rosario di
lucide sfere azzurro elettrico che gli giravano intorno al collo. Era
un pezzo
molto raro, persino un profano di monili sacri qual era il maggiordomo
Jasparro
se ne rendeva facilmente conto. Le dita della mano destra presero a
sgranare
una ad una le sfere, che assorbivano appena la luce della candela. Alla
sesta
sfera, le mani sembrarono bloccarsi di colpo.
«Sa, ho cercato
più e più volte
di visualizzare la scena ma mi manca qualcosa».
«Prego?»
«Voglio dire, il palazzo
non è
ben sorvegliato da tutti i lati? Come può aver fatto il
giovane nano ad
entrare?»
Il maggiordomo guardò a
sinistra,
come si fa quando si richiama una memoria visiva: «Signore,
lo stato in cui
versa la sala delle armature di Padron Ensland parla molto chiaro.
È arrivato
dal sottosuolo. Del resto, suppongo sia normale per un tappetto
spostarsi
attraverso tunnel e gallerie, la loro… specie…
viene da lì».
«Sì»
ribatté Bedge infastidito
dalla lentezza con cui doveva condurre il testimone ad offrirgli le
informazioni rilevanti «certamente però non tutti
i nani sono capaci di
sfondare svariati metri di granito. Anzi, la maggior parte non ne sono
capaci.
Quindi non sappiamo tutt’ora come esattamente sia
entrato».
«Potrebbe aver utilizzato
qualche
artefatto magico o il potere di un golem, signore. Oppure…
la magia».
«I nani rifuggono la
pratica
diretta della magia, quindi scarterei l’ultima ipotesi.
Evidentemente aveva il
potere per farlo. E ora mi dica: perché mai un mastro nanico
tanto potente
viene a rubare un golem di cui evidentemente non ha bisogno?»
«Se mi chiede
un’altra volta un
parere, vorrei tornare su quel discorso del concetto di
proprietà tipico dei
tappetti, che…»
«Si levi immediatamente
dalle
scatole».
***
Rimase per un solo istante a
bocca aperta, prima che Ed le togliesse bruscamente il cristallo dalle
mani. Lo
stretto cunicolo naturale che avevano imboccato si era aperto in una
ampia
caverna di cui, a giudicare dal sospiro di sorpresa, Ed non immaginava
l’esistenza. Davanti a loro c’erano rocce
irregolari che emergevano casualmente
da un profondo pozzo di acqua trasparente ma malgrado questo Ed fece
comunque
venir meno la luce del cristallo, loro unica guida. Prima che Jen
potesse
chiederne il motivo, le tappò la bocca con una mano.
«Non fiatare»
lo disse pianissimo
ma nel tono più imperativo che Jen avesse mai udito.
Una cosa enorme e luminescente
uscì quietamente dall’acqua, colorando la cava
della fioca luce violacea che
emanava. La forma ricordò a Jen una lucertola o qualche
forma anfibia ma era
evidente che non era niente che la natura potesse produrre. La stessa
materia
di cui era composto era una massa nera punteggiata
di
cobalto e ametista che dava una vertiginosa sensazione di
vuoto, come se
la sua stessa sagoma fosse un pozzo affacciato su un immenso scorcio di
cielo
notturno. Eppure era una creatura senziente e vivente, questo era
chiaro; anzi,
attraverso il suo corpo ultraterreno era possibile vedere una sorta di
scheletro o di rete nervosa.
«Cos’è
quello?» provò a dire ma
riuscì solo a bofonchiare qualcosa di sconnesso nel palmo
della mano di Ed.
La cosa si mosse lentamente in
cerchio, come se volesse minacciarle. Poi ricominciò la sua
quieta discesa in
acqua e la luminescenza si andò affievolendo. Ed le
lasciò la bocca.
«È andata
via?» chiese Jen,
pianissimo.
«Forse
sì».
La testa piatta del rettile o
qualsiasi cosa fosse sbucò dall’acqua e protuse
all’infuori quattro occhi in
cima a delle antenne flessuose, come fosse una lumaca; tuttavia Jen
notò che
sebbene sembrasse una enorme salamandra senza esserlo, al medesimo modo
non era
una lumaca o niente di imparentato ad essa: in cima alle antenne che
aveva
estroflesso non c’erano occhi, ma grandi terminazioni simili
a mani umanoidi.
«Un…
mostro…?»
La creatura sputò una
lunga
lingua che o forse un fiotto di pece nera, un tentacolo…
difficile definirlo.
Ed spinse Jen di lato e si buttò a terra a sua volta, la
biondina non ci pensò
nemmeno a muoversi e rimase sostanzialmente paralizzata a terra. La
lingua non
si ritrasse come Jen si aspettava, anzi strisciò in modo
lento e calcolato come
una biscia.
«Forse no, eh
eh» ridacchiò Ed
nervosamente «Sta ferma lì».
Zahnrad prese la forma di uno
scudo di pietra circolare sul suo avambraccio sinistro. Ed mantenne
fermo il
contatto visivo con il barbiglio nero, che tastava cercandole come un
cieco che
tastasse l’ambiente per riconoscerlo.
«…e chi si
muove…»
La cosa, dal lato della caverna,
studiò Ed molto attentamente. La punta della lingua divenne
una specie di
artiglio umanoide e splendette di giada e smeraldo, per poi piombare su
Ed per
graffiarla. Lei parò immediatamente e il disco di pietra
sfrigolò a contatto
con quell’artiglio, senza però scalfirsi nemmeno.
La lingua si ritrasse un po’,
ondeggiando nell’ombra e cambiando colore di continuo, come
uno spettacolo di
luci.
«Mmmh!» Jen
fece per urlare ma Ed
le tappò nuovamente la bocca.
Aveva guardato verso
l’alto, la
volta della grotta. Dove prima non c’era nulla ora
c’era un altro essere
rettiliforme, simile al primo, anche lui enorme. La testa si
attorcigliò come
se il corpo purpureo fosse fatto di pasta di pane e girò su
sé stessa fino a
che non puntò dritto le due ragazze; anche lui, come il suo
simile, estroflesse
delle antenne che terminavano con delle mani intente a tastare
l’aria, come
fosse cieca. Jen si aspettò che la creatura si lasciasse
cadere su di loro,
lasciandole senza scampo. Invece si voltò di nuovo in quel
modo innaturale,
ignorandole.
«Vienimi vicino!
Adesso!»
Jen chiamò a raccolta il
coraggio
e corse accanto a lei. Dove la cosa, che ancora li scrutava dal pelo
dell’acqua, avrebbe dovuto avere gli occhi, si aprirono due
fori. E da questi
schizzarono fuori altre due lingue uguali alla prima e Ed e Jen, ormai
vicinissime, si trovarono circondate da mani pronte ad afferrarle per
fare di
loro solo la Dea sapeva cosa. Ma appena piombarono sulle due ragazze lo
scudo
si ruppe in più frammenti e si distribuì come una
cupola protettiva intorno a
loro.
«Cosa… come
hai fatto?»
«Sta zitta. Devo stare
concentrata».
Gli artigli premevano contro la
membrana arancione che i frammenti di Zahnrad avevano in qualche modo
steso
intorno alle due ragazze, graffiavano e percuotevano con forza ma non
riuscivano a penetrare quella bolla magica.
«Ascolta. Appena te lo
dico,
corriamo verso quel buco. Ok?»
«…certo…»
I frammenti iniziarono a vibrare
emettendo una specie di ronzio. Jen afferrò al volo il
concetto: quella forma
dell’arma, quella protezione sferica, poteva durare appena
qualche secondo.
Infatti Zahnrad si richiuse l’istante successivo, riprendendo
la forma di scudo
circolare.
«Corri!»
Corse lasciando Ed indietro.
Doveva lasciarla lì? In effetti se l’avesse fatto
si sarebbe liberata
immediatamente di lei, sarebbe potuta tornare subito alla sua fattoria.
Ma non
le doveva qualcosa per aver salvato i suoi fratelli? Eppure le sembrava
una
persona davvero tremenda, questo non doveva contare qualcosa?
«Muoviti!»
I suoi pensieri furono
interrotti: Ed la stava già spingendo nella
cavità, mentre gli artigli di
quell’essere ultraterreno brancolavano nell’aria.
***
Nihilus Wiggs spense la terza
sigaretta nel posacenere del salone davanti all’espressione
piuttosto
disgustata del suo anfitrione, che aveva eroicamente celato il suo
fastidio per
il fumo, arrivando addirittura a fargli portare un posacenere,
finché
finalmente a metà della terza sigaretta aveva ceduto
lasciando che la faccia
tradisse tutta la sofferenza delle sue narici.
«Fastidio se ne fumo
un’altra?»
chiese Wiggs flemmatico, senza attendere la risposta.
Lexington Ensland, figlio di
Lionellus Ensland, a sua volta generato da una infinita lista di
nobilissimi
Ensland era per status giusto un gradino sotto la Dea in persona a
Kalaston ma
prossimo allo zero assoluto appena si fosse trovato abbastanza lontano
dalle
mura cittadine da non vedere più le rive del Kalst. Invece,
la Chiesa della Dea
poteva vantare ampi potere ed influenza lungo tutto il Draile, le sue
sparute
città e i suoi sterminati campi di grano dorati, sopra
nobili di rango non
inferiore agli Ensland come sopra le anonime masse di villici
zappaterra che
sciamavano lungo i campi come formiche operose, e persino oltre il
Draile sopra
umani, elfi e nani che vivevano nei Sei Regni. Per tutte queste ragioni
Wiggs,
che non poteva vantare alcun merito di sorta rispetto al rampollo degli
Ensland, poteva permettersi di non temerlo, né rispettarlo e
addirittura di
insultarlo non troppo sottilmente, semplicemente in virtù
delle diverse
istituzioni che ciascuno dei due vantava alle proprie spalle. La dolce
prepotenza era un piacere irrinunciabile per lui, come per molti altri
templari, ma lo era tanto più quando esercitata su altri a
loro volta abituati
normalmente ad essere arroganti.
«Dunque, alto templare
Wiggs… che
mi dite?»
«Quello che ho
già detto, nelle
ultime due ore e mezzo» insistette lui, rilasciando una
sgradita quantità di
fumo denso nell’aria ad ogni parola.
«Le ho già
detto che siamo
disposti ad alzare il prezzo, in maniera consistente».
Wiggs non riusciva davvero a
comprendere da dove quell’incontro e contestuale discussione
venissero né dove
fossero destinati ad andare. Non aveva voglia di lasciare Kalaston,
affrontando
ulteriori e più duraturi malumori di sua moglie, e non aveva
nessun particolare
obbligo a farlo. Inoltre, cosa alquanto congeniale alle sue inesistenti
ambizioni, non aveva nessun peculiare talento per cui dovesse proprio
lui
risultare indicato per quel ruolo, data la generale
mediocrità della sua vita.
Non c’era proprio alcun senso intellegibile: si vide
costretto a chiederlo
apertamente.
«Perché mai ci
tenete tanto che
siano i templari ad occuparsi di un furto e a dare la caccia ad un
ladro che
certamente non è più nei confini della
città? Non siamo cacciatori di teste,
come saprà».
«Ufficialmente i templari
agiscono solo se c’è in ballo la fede o culti
pericolosi per il popolo o ancora
se la guardia civile chiede loro aiuto. Sappiamo entrambi che voi non
operate
affatto entro questi angusti confini».
«Dove opera la Chiesa
della Dea
non spetta a voi deciderlo, lord Ensland. E non giustifica che io mi
metta alla
ricerca di un vostro bene andato perso. Lei continua a farmi proposte
sempre
più allettanti senza dirmi realmente in cosa mi vado a
immischiare».
Lexington Ensland passò
accuratamente una mano sul suo cranio assolutamente calvo.
Guardò in basso come
si vergognasse di qualcosa.
«La storia di quello
specifico
pezzo da collezione non è… tra le più
nobili pagine sulla mia altrimenti nobilissima
famiglia. Lo abbiamo ottenuto in tempi molto antichi quando…
i rapporti tra i
quattro grandi popoli non erano quelli di adesso».
«Affascinante»
commentò il
templare, con un tono che smentiva il contenuto «Ma a me non
cambia nulla».
Il giovane aristocratico si
sporse, quasi come a sottolineare di essere finalmente giunti al cuore
del
discorso: «Per intenderci, alto templare… lei
certamente sa quanto lunga può
essere la memoria dei nani quando si tratta di riparare antichi torti.
Noi
temiamo che questo possa essere il primo di una lunga serie di furti,
se non
peggio di attentati, che avranno luogo in svariate città del
Draile e di
Nistria e che punteranno a ricomporre un ampio patrimonio di artefatti
nanici
che secondo alcuni studiosi appartenevano ad un unico
padrone».
«Sembra un bel casino.
Una
vendetta ancestrale di qualche vecchio casato nanico? O addirittura
qualche
Cerchio dell’Innocenza ancora attivo? Sa bene che i re dei
nani non prendono
più alla leggera queste faccende. Che se ne occupino
loro».
Com’era prevedibile, nel
sentire
nominare i Cerchi dell’Innocenza Lexington Ensland fu scosso
da un brivido. I
Cerchi disapprovavano che un umano potesse vantare in casa propria
oggetti o
opere d’arte appartenute ad altre razze ed in passato avevano
fatto valere
questa disapprovazione in molti modi, a volte avevano raso al suolo le
case
macchiate da tale colpa e chiunque ci vivesse dentro senza badare a
provenienza, importanza o grado di nobiltà.
«Preferiremmo di gran
lunga non
avere direttamente a che fare con questo genere di faccende».
«Oh! Adesso è
chiaro. Se sarà la
Chiesa ad occuparsi di questa brutta gente, non se la prenderanno
né col vostro
nobile parentado né con altri vostri amici a Talaxaur o
Tuinsy. Ecco perché
sareste disposti a sborsare tanto. Certe paure hanno radici robuste,
vero?»
«Invero
sì!» sbottò l’altro,
perdendo per un attimo tutto il suo aplomb «Voi non avreste
paura? Non tutti
viviamo sotto la confortante ala della Chiesa. Se ci fosse un Cerchio
dietro
questa cosa…»
«Sì, ho
afferrato il concetto».
lo interruppe Wiggs, con sguardo spento «Ma
sentiamo… come potremmo
giustificare il dislocamento di due, tre, o quattro degli undici
templari di
stanza a Kalaston? Inseguire un golem ed un nano in giro per
il Draile
esula abbastanza dalle competenze ufficiali del mio ordine».
«Non mi prenda in giro,
sa meglio
di me che potete inventarvi un’inquisizione per sospetta
eresia come e quando
credete. E c’è un motivo se è proprio a
voi che ci siamo rivolti: siete
notoriamente molto capace in questa pratica, Nihilus Wiggs».
«Un punto a favore
vostro: sono
sicuramente navigato in materia di maneggi e abusi. Ma ecco
un’altra domanda:
come potremmo mai indovinare dove vanno il ladro e la refurtiva mano
nella
mano?»
«A questo, le posso
garantire,
abbiamo pensato per tempo. Abbiamo un artefatto nanico che consente di
ritrovare qualsiasi oggetto uscito da questa casa, se porta un apposito
marchio. La nostra famiglia aveva un antico amore per le collezioni e
siamo
attrezzati a recuperarle».
«Felicitazioni. Ma tutto
ciò non
risolve la questione principale, cioè perché mai
dovrei dare la disponibilità
dei templari a sbrigare questa spinosa faccenda per un compenso che
francamente
non vale certamente l’eventualità di lasciarci la
pelle»
«Quanto a questo dovrete
parlare
con mio padre».
«Lionellus Ensland non
può avere
molto da dire che mi faccia cambiare idea».
«Ne sarete
sorpreso».
***
«Cos’erano?»
Ed stava ancora cercando di
respirare normalmente dopo aver rivisto il cielo all’uscita
della galleria
rocciosa. Era presa da un attacco di agorafobia tipico di un nano dopo
momenti
di forte tensione. Anche Jen, comunque, si ritrovava il cuore a
galoppare ben
più del dovuto.
«Allora? Che cavolo
erano?»
Ed scavò nella sabbia
bagnata con
i piedi fino a tracciare due profondi solchi. Inspirò
l’aria ricca di salsedine
e arrivò a poggiarsi il mento sulle ginocchia.
«Ti ho
chiesto…»
Ed la interruppe battendo un
pugno che si piantò a fondo nella sabbia della battigia:
«Perché non lo chiedi
alla tua Chiesa che cosa sono? Voi li lasciate scorrazzare in giro per
il
mondo. O non ne sai nulla? Cos’è che hai studiato,
esattamente?»
Stavolta Jen non si
disturbò
neppure a farle sapere che non avrebbe risposto e preferì
insistere: «No, non
ne so niente! Smettila di trattarmi così! Che diavolo era
quello? Perché non
l’hai combattuto come hai fatto quella volta nella mia
fattoria?»
«Se lo avessi
colpito… poteva succedere
qualsiasi cosa! Con il Chimaer è così che vanno
le cose. O non hai mai sentito
parlare neanche di questo?»
«Tutti conoscono la Bocca
del
Chimaer» ribatté Jen, ma poi fu come colpita da
una illuminazione e aggiunse:
«…ma allora quelli… erano i mostri del
creati dal Chimaer?»
«Secondo una
interpretazione, sì.
Secondo un’altra, sono parte di una unica entità
che… non importa. La tua gente
li chiama chimerici».
«Uno ci ha aggredito
mentre
l’altro ci ha ignorato…
perché?»
«Chi lo sa cosa pensano
quelli…»
Per Jen fu come una intuizione
alla rovescia: per la prima volta si rendeva distintamente conto di non
sapere
una cosa, aveva la precisa percezione di una risposta che non aveva e
che
avrebbe invece dovuto avere. La consapevolezza improvvisa di non aver
mai posto
la domanda, senza che ce ne fosse apparente motivo.
«Ma…
cos’è veramente il Chimaer?»
Ed sembrò quasi essersi
calmata.
Si alzò in piedi e guardò la ragazza dritta negli
occhi: «E va bene. Vieni con
me!»
Prendendole la mano, la
strattonò
trascinandola su per la spiaggia, da dove si vedeva già
all’orizzonte la città
di Tuinsy divisa tra il faraglione e la scogliera, appena legati dalle
maestose
arcate del Ponte Azzurro, su per le dune che iniziavano a chiazzarsi
delle
prime piante, finché non furono sul ciglio della collina.
Una cintura di colli
e vallate teneva separati i due mari: quello vero, il vasto oceano, e
quello
che i drailiani chiamavano il Mar D’Oro, la sconfinata
distesa di spighe di
grano dorato che scintillava alla luce del sole e ondeggiava fluida con
il
vento. Proprio quelle messi sempre abbondanti facevano del Draile la
nazione in
assoluto più ricca di cibo tra tutti i Sei Regni. Altri
gusci metallici
punteggiavano le distese di spighe, altre di quelle che Jen chiamava
“le torri
pendenti”. La giovane nana le indicò con un dito.
«Sai cosa dovrebbe
caratterizzare
gli umani? La ragione. Il dubbio. La curiosità. Voi invece
vi lasciate
insegnare come reprimerle. La verità lascia tracce, ovunque
intorno a voi,
proprio come il Mondo Antico ha lasciato queste rovine nei vostri
campi. Ma non
siete più capaci di farvi domande. E quando le domande sono
inevitabili,
cercate di evitare le risposte. Cos’è veramente il
Chimaer? Perché non riuscite
a darvi una risposta?»
Jen si divincolò
bruscamente
dalla stretta di Ed. Sentendosi così aggredita e
disprezzata, ebbe l’impulso
paradossale di prendere le difese di quella stessa sua ignoranza che
l’aveva
inquietata.
«Chi lo dice che farsi
delle
domande sia la cosa migliore? Chi lo dice che avere risposte sia un
bene?»
sbottò lei, poi le voltò le spalle
«È a Tuinsy che stiamo andando, vero?
Andiamo allora, così potrò tornare alla mia
fattoria il prima possibile».
E s’incamminò,
con passo svelto,
lasciandosi dietro le imprecazioni della sua compagna di viaggio.
***
Alef Astal era un nano abbastanza
felice. L’animale sconosciuto che aveva adocchiato sembrava
ben pasciuto e
invitante, pareva proprio tutto ciò che doveva fare per
catturare quella specie
di grosso ratto era stendere il moccioso che se lo portava in giro
tutto
contento. Ma doveva tramortire il marmocchio quando era ben lontano dai
genitori, altrimenti avrebbe sollevato un putiferio e avrebbe dovuto
risolverlo
eliminando due famiglie di mercanti girovaghi o fuggendo e lasciando
tracce
ancor più vistose di quelle che aveva lasciato alla Forgia e
a Kalaston. Era
abbastanza preferibile evitarlo, altrimenti presto o tardi sarebbe
incappato in
qualcuno con l’intenzione e la capacità di fargli
la pelle. Ma tutto sommato un
pasto piuttosto lauto era a portata di mano, questo era più
di quanto si
potesse dire degli ultimi giorni passati in superficie. Si strinse bene
nel suo
abito giallo lacero, che aveva rubato mesi prima ad un nobiluomo mentre
era in
viaggio in Nistria, perché fu investito da una folata di
vento freddo. Quel
signorotto locale che lo aveva praticamente obbligato per giorni a
subire la
sua compagnia e rispondere alle sue domande insistenti, appena beveva
un po’
perdeva tutta la sua parvenza di civiltà e raffinatezza: lo
aveva chiamato
sporco nano, tappo, piccoletto, talpa e non ricordò quanti
altri insulti
razzisti, prima di sputargli addosso: decisamente troppo per aver osato
vomitargli sulle scarpe (dopo l’ennesimo tentativo di
affinare una dignitosa resistenza
all’alcol che fosse comparabile a quella dei nani suoi
simili). Lo aveva ucciso
con una mazzolata sul cranio appena quello aveva finito di prenderlo a
calci e
si era voltato dandogli le spalle. La maggior parte degli umani era
troppo
insignificante o debole per essere uccisa da un artefatto nanico,
tantomeno di
sua fattura: un solido mattone che gli frantumasse il teschio era il
massimo
che potessero meritare. Però aveva sempre invidiato
l’arte tessile degli umani,
una delle poche arti manuali in cui i nani avevano molto più
da imparare dagli
umani che non il contrario, così aveva preso dalla carcassa
quel bell’abito
lungo di regali tonalità giallo scuro. Era stato
problematico, però, perché lo
aveva identificato pochi giorni più tardi come il probabile
assassino di uno
dei più illustri mecenati del regno di Nistria –
lui ci aveva pensato, che chi
viveva in quella reggia non poteva essere certo un signor nessuno, ma
infine
non gli era importato abbastanza da non ucciderlo lo stesso. Era stata
una fuga
lunga e faticosa e lo aveva ampiamente distolto dal vero obiettivo di
quel
viaggio. Di certo, per i molti giorni persi senza troppe
giustificazioni
plausibili avrebbe, nei mesi a venire, assaggiato una volta di
più la rabbia
del suo Re: un pensiero per nulla gradevole, su cui preferiva non
soffermarsi.
Il pensiero gradevole era quel lauto banchetto quadrupede che, quasi
avesse
spontaneamente deciso di assecondare i suoi bisogni, si era lanciato in
corsa
verso i pochi alberi in cui Alef se ne stava acquattato e infreddolito.
All’ultimo istante però, il bambino
sembrò perdere interesse per la farfalla
colorata che inseguiva e, malgrado gli avvertimenti degli adulti
accampati
intorno alle carovane, si mise all’inseguimento
dell’animale.
«Ahiahi».
Non gli venne in mente una buona
soluzione e così di colpo se li trovò addosso: un
grosso quadrupede peloso che
non sapeva bene cosa fosse e un piccolo umano che guardava con
meraviglia la
sua figura di nano con i capelli spelacchiati a riccio e delle scure
occhiaie a
solcargli il viso.
«Ciao».
«Ciao».
«Sei un
bambino?»
«No. Sono un
nano».
Il bambino sorrise e si mise a
saltellare: «Un vero nano? Davvero?»
«Sì»
confermò Alef, sempre più
incerto sul da farsi.
«Ho visto degli elfi una
volta».
«Questo
è… interessante. E… come
sono?»
«Alti».
«…giusto».
Il piccolo umano alzò lo
sguardo.
Sgranò gli occhi, osservando delle strane presenze che
penzolavano dai grossi
rami di un albero. Si sarebbero potute definire come grandi gocce di
sabbia che
fluiva su sé stessa senza mai cadere al suolo, ciascuna
grande quanto un uomo.
Sulle estremità basse sbucavano delle maschere di ceramica,
inespressive e
vuote, eppure inconfondibilmente intente a fissarlo con
intensità.
«Uao. Cosa sono quelli,
signor
nano?»
«Quelli? Quelli? Quelli
sono…
comesidice… uccelli. Sì. Grandi
uccelli».
Il bambino alzò
criticamente un
sopracciglio: «Ma dai… non è
vero…»
«Come no?»
gesticolò Alef «Come
no? Guarda tu stesso!»
Alef si volse alle creature
sabbiose gesticolando nervosamente: «Sciò!
Sciò! Pussa via!»
Le loro forme compatte si
aprirono in ali sottili e volarono verso altri alberi dove il bambino
non poté
più vederli. Alef si volse trionfalmente al bimbo, che li
seguiva incuriosito
con gli occhi.
«Visto? Visto?
Eh?»
«Sei un nano simpatico.
Perché non
smetti di fissare il mio cane?»
«Il tuo… ah,
quello… bè io…»
In quel momento esatto la terra
fresca incorniciata dalle radici degli alberi si sollevò in
una forma
perfettamente circolare, come una bolla su una zuppa molto densa. La
terra si
ruppe e tra il bimbo e Alef si stagliava ora un’altra figura,
una figura di
metallo argenteo inciso in ogni centimetro, incastrato in un complesso
gioco di
meccanica. Chi l’aveva costruita le aveva scolpito una
faccia, ma là dove
avrebbero dovuto esserci il naso, gli occhi e la fronte c’era
invece un globo
luminoso dove turbinavano infiniti colori, freddi ma vivaci come il
bambino non
ne aveva mai visti.
«Uao… uao.
Uao!»
Alef si concentrò con lo
sguardo
su quel globo multicolore, borbottando frasi sconnesse. Le forme
colorate sul
globo parvero prendere solidità e coerenza ma il bambino non
le avrebbe mai
potute capire del tutto. Il giovane nano si avvicinò tanto
alla figura
metallica che sembrava stesse quasi per baciarla.
«Cosa… cosa
stai facendo, signor
nano?»
Il nano lo ignorò per
ancora
qualche secondo, poi si voltò.
«Senti, tu… ti
piace questo?»
chiese battendo irrispettosamente la mano sul globo luminoso.
«Questo qui…
cos’è?»
«È un golem di
Ozmatt. Può
accompagnarti sempre dove vuoi e fare tutto quello che chiedi. Inoltre
sa
trovare qualsiasi cosa sotto terra».
«Qualsiasi
cosa?»
«Sì, qualsiasi
cosa! Il suo
occhio vede tutto ciò che è sottoterra. E se
glielo chiedi ti farà vedere tutto
quello che ha visto».
«Sembra
fichissimo…»
«Bene! Te lo cedo per
quel pranz…
quel cane. Tanto a me non serve più. Che ne dici?»
«Quel coso
enorme… per un cane…?»
il bimbo iniziò a grattarsi la testa come se sperasse di
scavarsi il cranio e
trovarci dentro la sua decisione.
«Già!
Già! Che ne dici?»
«Uhm…
okay».
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Capitolo 5 *** Per il Blu Minore ***
PER IL BLU MINORE
Va per
mare chi sogna la terra dall’altro lato e chi
vuol dimenticare quella che si lascia alle spalle.
– proverbio
di Port du Cerul
Tuinsy era esattamente tutto
quello che Jen si aspettava da una delle città principali
del Draile: esotica,
affascinante, allegra. L’unica città che avesse
visto prima di quella era
Kalaston e di Kalaston aveva detestato ogni vicolo: sembrava voler
ricordare ad
ogni metro di strada le divisioni gerarchiche del Draile, con le sue
ville
ornate da alberelli sempre coperti di fiori sgargianti – un
colore diverso per
ogni famiglia di proprietari terrieri – ben piazzate sui
punti rialzati di modo
che le si potesse ammirare svettanti sulle mura malconce delle strade
degli
artigiani chiusi nelle loro botteghe, botteghe a loro volta pronte ad
essere
ammirate a bocca aperta dai contadini che, come suo padre aveva fatto
per anni,
raggiungevano le mura nella speranza di vendere ceste di frutta o di
ortaggi
che sarebbero poi state rivendute al doppio o al triplo.
«Un giro panoramico sul
nostro
battello! Solo venti geon!»
«Venite ad ammirare i
nostri
giocolieri, tre geon per vederli!»
«Accidenti quanto
urlano» si
lagnò Ed camminandole accanto.
«Pescato fresco, dieci
geon al
chilo! Granchi freschissimi!»
Tuinsy, il borgo blu, non era
niente di simile a tutto quello che era Kalaston: voleva accogliere
passanti e
turisti con allegria e ospitalità senza guardare chi fossero
e riusciva
perfettamente in questo. Le piccole mattonelle quadrate di pietra blu,
che
pavimentavano le strade disponendosi secondo disegni semicircolari e le
case di
leggero tufo bianco sembravano imitare e voler ricordare le onde
spumeggianti
del fresco mare dove ci si poteva tuffare dopo poche ore di strada; lo
stesso
valeva per gli infiniti gusci, coralli, conchiglie e pesci imbalsamati
che le
bancarelle proponevano ai passanti e per gli odori invitanti del cibo
di
strada, spesso preparato direttamente sulla bancarella con delle vere
performance artistiche: ogni cosa sembrava richiamare e incoraggiare il
divertimento, la spensieratezza e la voglia di compagnia.
«Prima volta a Tuinsy,
eh?» fece
Ed sogghignando.
«Cosa…
io… sì, cioè… ci andavo da
piccola ma non ne ricordo molto».
Ci vollero diverse ore di
passeggio senza meta con Ed perché Jen iniziasse a
sospettare che fosse tutta
un’illusione: la città era accogliente,
sì, ma solo con
chi aveva soldi da spendere, con i ricchi
signori che dal Nanad o dalla Nistria venivano a ridurre i loro averi
per concedersi
una vacanza; non erano certamente uguali a questi, né si
consideravano tali, le
frotte di mercanti e intrattenitori che probabilmente imploravano la
Dea in
persona, dietro i sorrisi disinvolti, perché qualche nobile
turista acquistasse
qualsiasi cosa per quanto frivola, né liberi e spensierati
dovevano essere
coloro che avevano lavorato per procurare quelle merci, la cui
esistenza doveva
evidentemente essere censurata agli aristocratici occhi dei clienti,
tanto che
sgusciavano come ombre imbarazzate dal solo fatto di esistere, tra un
retrobottega e un altro. In effetti era più simile ad un
palcoscenico che a una
vera città: solo l’aspetto bello e colorato delle
cose era degno di essere
mostrato al pubblico pagante, la fatica e il sudore andavano nascosti e
dimenticati.
«È un posto
strano…»
«No, è un
posto come tutti gli
altri» ribatté Ed.
Anche i palazzi più
belli e
particolari, dalle bianchissime forme appariscenti e capricciose, erano
comunque lì a beneficio di pochi: signori e dame da
Talaxaur, Kalaston e
certamente da molti luoghi oltre il Draile di cui Jen poteva solo
immaginare
l’esistenza. Così, alla diciassettesima ora del
giorno, mentre Ed chiedeva al
quinto ostello se fosse disponibile una stanza per i pochi soldi che
Jen aveva
potuto mettere insieme per il viaggio, la magia di Tuinsy non le faceva
più
molto effetto ed anzi iniziava a trovarla un po’ stucchevole.
«Allora stammi bene e
schiatta,
schifoso grassone tirchio e maniaco porco!»
Jen inseguì Ed che
sbatteva la
porta e s’infilava rapidamente nella zona d’ombra
della strada per sfuggire al
sole che riscaldava l’aria.
«Maniaco…
porco? Non mi era
sembrato che ci guardasse in quel modo».
«Infatti non lo faceva,
ma
passerà il resto del giorno a domandarsi se dà
quest’impressione. Gli sta bene
giusto?»
«…giusto?
Bè, non saprei… Ma tu
sei ancora sicura del tuo piano?»
«Sì. Salperemo
nel Blu Minore per
Port de Cerul, attraverseremo la Nistria, arriveremo al Cancello di Zoa
nelle
Isole Ranaluta, poi ognuno per sé».
«Già, tutto
chiaro ma a quanto ho
capito volevi intrufolarti di nascosto nel vascello che salpa domani. E
oggi
non abbiamo dove dormire…»
«Salpano due mercantili
oggi… ma
intrufolarsi in un mercantile continentale è più
difficile».
«Ehi… non puoi
far apparire dei
soldi come fai apparire le altre cose?»
«Io non faccio apparire
un bel
niente. Sposto certi oggetti, da un punto ben preciso ad un altro e con
diverse
limitazioni».
Jen fece un’espressione
scettica
ed irritata: «A me sembrava proprio che tu facessi comparire
oggetti dal nulla
con quella magia strana».
«Scienza
runica» corresse Ed per
l’ennesima volta.
«Che limiti avrebbe
questa
scienza runica?»
«Potenzialmente
direi… che non ne
ha».
«Vorresti forse dire che
sei
onnipotente?» obiettò Jen, scocciata.
Ed elencò sulle dita:
«Posso far
andare e tornare gli oggetti solo finché non esaurisco il
mio potere e solo da
un luogo ben preciso, comunque solo se prima sono predisposte le rune
giuste
sugli oggetti, sul luogo che li custodisce… e sul luogo dove
appaiono».
Indicò i vari simboli
geometrici
che sembravano tatuati, o più propriamente incisi, sui suoi
avambracci.
«Sembra che possa far
male»
chiese Jen, un po’ ammorbidita.
«Fa male,
infatti» confermò Ed
«Vedi sono almeno tre limiti, solo per cominciare;
cionondimeno, la scienza
runica è in continua espansione e… lascia
stare».
Chiuse le dita per significare
che aveva concluso la spiegazione ma Jen era ancor più
curiosa di prima: «E
cosa c’è nel tuo luogo… nella tua
armeria?»
Il volto di Ed sembrò
quasi
illuminarsi, felicemente sorpreso dalla domanda; la contentezza di
poter
illustrare la sua collezione fu facile da leggere persino per Jen che
non la
conosceva: «Circa tredici mazze pesanti… dodici,
ne ho persa una alla tua
fattoria. Sette daghe di diverse leghe d’acciaio, due
scudi… alcuni tipi di
polvere esplosiva, perché non si sa mai; sei golem unici
che… ho creato… con un
certo aiuto e altri due vecchi golem che avevo… preso in
prestito dalla forgia
al lago. Ho lavorato per tre anni a questa armeria. Non è
fichissima?»
«Ma…
c’è abbastanza roba da
andarci a fare una guerra!» si sbalordì la bionda.
«E allora? Ti sembro un
tipo
violento?» minimizzò Ed.
«Ma non
c’è niente che ci possa
aiutare adesso… certo se si potesse vendere uno solo di
quegli oggetti varrebbe
molto più di un viaggio per la Nistria…»
Ed ebbe un’intuizione che
il suo
volto nemmeno tentò di nascondere: «Grande! Mi hai
fatto venire una buona
pensata!»
«Davvero?»
chiese speranzosa Jen
«E quale?»
«Fatti miei. Uhm ora devo
pensare
a come fare…»
«Sei molto cortese,
davvero».
«Grazie, accetto sempre i
complimenti sinceri».
Jen appesantì il suo
sarcasmo: «E
scusa se ti ho disturbato con le domande».
«Ti perdono»
concesse lei,
piatta.
***
Passeggiarono ancora un
po’,
mentre Ed rifletteva sul da farsi, fin quando si fermò di
colpo e si
inginocchiò ad un muro alla sua destra. Jen
guardò immediatamente il muro,
incuriosita come non mai dall’improvvisa deferenza di una
ragazza solitamente
tanto brusca. Era una effige, Jen l’aveva vista tante volte
incisa dentro
alcune botteghe d’artigianato nanico a Kalaston. Poteva
essere una ruota o un
ingranaggio dalla dentellatura circonvoluta in mille spirali o
altrettanto
probabilmente un sole incoronato di fiamme. Tra i tratti
d’oro, arancio e rosso
c’era un volto dal sorriso sornione, dai tratti tanto esotici
e al contempo
tanto perfetti da essere quasi impossibili, il volto di un bambino
infinitamente ed eternamente giovane. E davanti a
quell’effige così strana, Ed
stava facendo qualcosa che si poteva definire alquanto simile ad una
preghiera.
«Cosa fai?»
Ed si prese tutto il tempo che
voleva prima di rimettersi in piedi e rispondere: «Onoro il
nostro dio, Ukor il
Primogenito, signore del fuoco».
«U–cosa?
Pensavo che voi nani veneraste i morti…»
«I morti? Vuoi dire i
Granmastri?» rispose Ed alzando curiosamente un sopracciglio.
«Gran…
che?»
Ed sospirò, prima di
sedersi sul
ciglio della strada, evidentemente stanca di girovagare, e disse:
«I Granmastri
sono i nani che ci precedono nella Grande Opera. I nostri padri e
madri, nonni
e nonne e così via».
Jen si sedette accanto a lei:
«Grande Opera… di che opera si tratta?»
Ed si grattò la testa
sotto il
berretto: «È difficile spiegarlo ad
un’umana».
«Provaci!» si
stizzì lei.
«Diciamo che…
questa cosa, questo
universo che ci ricomprende tutti è quello che la mia gente chiama la Grande Opera.
Noi vediamo la realtà
come una materia prima destinata ad essere modellata in eterno e
costantemente
migliorata dal lavoro di ciascuno di noi. Noi non abbiamo il concetto
di
“universo” o di “creato”
immutabile ed esterno a noi che hanno gli umani. Noi
pensiamo la realtà come… bè, una
Grande Opera, appunto».
Jen alzò lo sguardo,
impensierita.
«Dice il Testamento di
Tessla…
che gli dei hanno modellato l’universo, quando
l’hanno creato, quindi a loro
dobbiamo ogni cosa. Ma solo Genaa dell’Aria ci ha donato la
ragione e la
civiltà permettendoci di non vivere come bestie.
Bè sì, è un concetto…
simile,
ma in fondo molto diverso».
Ed colse al volo
l’occasione:
«Oh! Hai studiato con il Chiesa quindi?»
«È davvero
un’ossessione la tua.
No, l’ho sentito dai predicatori itineranti».
«Predicatori itineranti!
E cosa
ti possono dire questi degli altri dei, di Ukor, di Arrok, di
Isor?»
«Che odiano gli umani e
non
dobbiamo quindi offenderli né venerarli».
«Sì,
sì. E poi cos’altro?»
«…
cos’altro?»
«La tua ignoranza
è sconfinata.
Come posso spiegarti le basi del culto di Ukor? Uhm…
supponiamo che, come dici
tu e come diceva quel Tessla, un bel giorno una qualche
divinità abbia preso il
caos e l’abbia modellato nell’universo che
conosciamo. Se vuoi posso chiamarlo
la Dea o il Sommo Pollo Sacro o la Divina Pentola Parlante…
sicuramente tutte
le opinioni hanno» si fermò per tracciare in aria
delle virgolette con le mani
«…eguale dignità e
validità».
«Grazie di questa gentile
concessione».
Jen fu del tutto ignorata:
«Ora
rispondi a questo: supponiamo, come dicevo, che un bel giorno questa
divinità
abbia plasmato l’universo, perché dovremmo
venerare questa entità, che ha dato
forma all’universo in un momento in cui non c’era
nessuno a vederlo, e non
tutti coloro che hanno contribuito a formare il mondo dopo di lui,
coloro che
hanno lavorato mentre tutti eravamo lì e potevamo esserne
certi? Coloro che con
le loro gesta ci hanno preceduto, lasciando il segno sulla Grande Opera
e
dandoci il loro esempio, dovrebbero essere ricordati. Chi ci insegna
l’arte che
possediamo è un Mastro, mentre chi ci ha dato esempio per
poi lasciare questo
mondo è un Granmastro. Chiaro, no?»
«Da come la metti si
direbbe che
pensi che tuo nonno o il tuo bisnonno siano semidei. Hai faccia tosta a
dire
che sono io a credere cose assurde».
«Non la vedi nella giusta
prospettiva. Certo, mio nonno non è una divinità,
né mai lo sarò io quando
schiatterò. Ma in tutto c’è una
scintilla del potere di modellare la realtà
secondo il proprio volere, scintilla che ancora arde. Questo
è ciò che
chiamiamo il Fuoco di Ukor… in ognuno di noi
c’è il divino».
Jen non ribatté
più. Persa nella
riflessione, seguiva con lo sguardo una coppia di turisti con due
figlie
femmine, che sembravano incerte se voler camminare diligentemente al
seguito
dei genitori o saltellare in una specie di danza mano nella mano.
Nemmeno Ed
sembrò interessata ad aggiungere altro, anche se Jen aveva
capito che la testa
della giovane nana era popolata da problemi molto più
pratici e immediati.
«Sai, devo dire che
è un pensiero
molto bello. Tu… lo credi veramente?»
«No»
sbuffò Ed «ovviamente no. Ma
è il credo del mio popolo e ci si aspetta che io lo conosca,
lo onori e lo
predichi. Quindi tanto vale farlo».
Jen scattò in avanti con
la
schiena, abbandonando la sua postura rilassata: «Sei davvero
assurda! Mi stai
dicendo che il simbolo su cui hai appena pregato, i discorsi che hai
fatto proprio ora, per te sono
tutta
apparenza? Non significa niente tutto quello che hai appena finito di
dire?»
Di nuovo, Ed non sembrò
innervosirsi: «L’Effige di Ukor significa qualcosa
per me, certo. Rappresenta
tutte le volte che mi hanno strigliato o chiuso in camera o preso a
schiaffi
perché facevo le linguacce a questa stupida faccia
fiammeggiante. Finché non ho
imparato che era meglio agire e parlare come tutti gli altri ed evitare
problemi. Così ho imparato a inginocchiarmi, venerare il mio
dio, venerare i
miei antenati e criticare chiunque la pensi diversamente e sono stata
lasciata
in pace…» s’interruppe per un attimo,
per poi aggiungere cupamente «…bè,
lasciata in pace almeno su questo».
Jen si grattò la testa e
si
lasciò di nuovo cadere sul muretto:
«Bè, io non sono d’accordo. Non si
dovrebbe
fare quello che fanno gli altri giusto per non avere guai».
«Sì? Allora
guida una
rivoluzione, rustica audace. Dimmi un po’, perché
nessuno sa né deve sapere che
puoi usare una reliquia di Zoa? Certo, la tua vita sarebbe parecchio
più
movimentata se condividessi le tue conoscenze, ma a te non
importerebbe, no?»
«Non mi sembra che la tua
di vita
sia molto tranquilla».
Qualcosa si ruppe
nell’espressione di Ed. Era visibilmente ferita.
«La mia vita era
tranquilla
eccome, nell’ultimo anno. I miei problemi più
gravi erano giustificare i miei
ritardi o chiedere quando cavolo iniziava il Pellegrinaggio. E mi
piaceva… oh,
bè, ormai è andata così
immagino».
«Tu… come sei
coinvolta in
quell’affare alla Forgia del Lago?»
«E tu come mai sapevi
aprire un
Cancello di Zoa?» contrattaccò lei, prontamente.
Stavolta Jen balzò
completamente
in piedi. Alzò tanto la voce da preoccuparsi di essere
sentita, e presa per
pazza, dai passanti di Tuinsy.
«Piantala, per la Dea
Sfolgorante! Me lo chiedi più o meno ogni ora! Non voglio
dirtelo, non ci
arrivi? Lasciami in pace!»
Ma Ed si era già
nuovamente
trincerata dietro il suo muro d’indifferenza e
indicò distrattamente con
l’indice il punto esatto in cui Jen era seduta poco prima.
«Ti converrebbe
rimetterti a
sedere. Non possiamo alloggiare da nessuna parte quindi non faremo
altro che
aspettare il prossimo mercantile».
«Potresti almeno dirmi
che idea
hai avuto».
«Certo che potrei. Come
tu
potresti dirmi…»
«Ho capito, sta
zitta».
***
Bedge agitò di nuovo la
ruota di
pietra tra le sue mani. La freccia cristallina incastonata al centro si
fece
giallo intenso quando puntò verso le distese del Mar
d’Oro, poi virò verso uno
screziato verdazzurro quando in linea d’aria passò
Tuinsy, distante fin troppe
miglia perché ne potessero vedere anche solo le
estremità, per ritrovarsi
puntata direttamente sul mare.
«È davvero un
oggetto
meraviglioso. La collezione degli Ensland è davvero
eccezionale».
Wiggs rispose sbuffando con
disinteresse mentre le due famiglie di mercanti rassettavano le
vettovaglie e
preparavano le carovane per ripartire. Bedge puntò di nuovo
la freccia verso il
golem di Ozmatt e di nuovo si colorò di rosso acceso,
segnalando l’oggetto che
era stata incantata per ritrovare.
«Bè,
signore… siamo nei casini,
no?»
«Direi»
confermò Wiggs
staccandogli l’artefatto magico dalle mani «ci ha
effettivamente guidato alla
refurtiva ma ci siamo persi il ladro».
«Magari gli Ensland
sarebbero
soddisfatti così?»
«Non dire
assurdità. Quale nano scambia
a occhi chiusi un golem d’antiquariato con un
bastardino?» ripose la reliquia
in una sacca che penzolava dalla sella del suo cavallo, quasi con
disprezzo.
«Suppongo che sia
qualcuno per
cui questo golem non abbia molto valore».
«Appunto. Ma questo golem
ha un
valore eccome, è oggettivo. Quel che il nostro ladro voleva
dimostrare,
probabilmente, è che non ne ha alcuno per lui. È
un gesto di disprezzo, di
provocazione».
Bedge si tolse
dall’occhio il
monocolo e prese a lucidarlo con un fazzoletto, mentre il suo sguardo
assorto
vagava. Uno dei figli dei mercanti giocherellava intorno al golem di
Ozmatt,
convinto che fosse “suo”, e gli dava vari, semplici
ordini che il costrutto era
stato, in tutta evidenza, vincolato ad eseguire dal mastro che
l’aveva risvegliato.
Prima di ripartire Wiggs e Bedge avrebbero dovuto tirare a sorte per
chi
avrebbe avuto l’ingrato compito di spiegare ai mercanti che
erano obbligati ad
abbandonare le rotte commerciali per riportare il golem ai legittimi
proprietari, a Kalaston, se non volevano incorrere in catastrofiche
conseguenze. Ma se avesse perso il tiro a sorte, Wiggs avrebbe comunque
affibbiato a lui l’incombenza di sorbirsi le suppliche e le
lamentele dei
mercanti su quanto avrebbero perso cambiando rotta e la prassi di
minacciarli
pesantemente per indurli all’obbedienza. Piuttosto seccante.
«Sta cercando di dire che
sarebbe
l’agire tipico di un Cerchio?» si
domandò, e appena il tenente Wiggs annuì
aggiunse «Credevo volessimo evitare il più
possibile i Cerchi dell’Innocenza…?»
La risposta fu qualcosa di
inaspettato per il sergente Bedge: un’espressione.
Un’espressione di amarezza,
quasi di rabbia, sul volto del suo superiore, il quale per poco non
tranciò di
netto la sigaretta che si stava fumando stringendo i denti. Se ne
preoccupò. La
vita di Bedge era stata una continua esecuzione di direttive, mediocre
ma
diligente, senza convinzione ma altresì senza dubbio. Non
aveva messo in
discussione i suoi genitori, che lo avevano destinato alla chiesa per
toglierlo
di mezzo e far ereditare il fratello minore, né i dogmi
della chiesa stessa, in
cui credeva ben poco, né i segreti oscuri dei templari. Non
aveva discusso gli
incarichi né le gerarchie e da quando era stato posto al
servizio del tenente
degli Alti Templari Nihilus Wiggs non si era dedicato a molto altro che
ad
assecondare ogni ordine, istinto o persino capriccio del suo superiore;
conosceva a memoria la mappa del suo volto e le note musicali del suo
tono in
ogni variazione, ne intuiva la stanchezza così come la
solerzia semplicemente
dal ritmo dei suoi passi, ne comprendeva a fondo
l’immoralità e l’arroganza
quanto i suoi nascosti sensi di colpa e il disprezzo per sé
stesso. Tutto ciò
non per dedizione o lealtà, ma semplicemente per il livello
di familiarità
assoluta che aveva raggiunto nei confronti dell’oggetto e
soggetto della sua
unica occupazione quotidiana. Un corso infinito, immutabile, squallido
ma
rassicurante.
«Tutto bene,
capo?»
No, non andava tutto bene.
Quell’espressione non aveva niente di familiare o
riconoscibile, niente da
ricondurre alla rigida routine della loro lunga collaborazione. Veniva
da
qualche parte recondita dell’animo del tenente Wiggs, da
qualcosa dentro di lui
che poteva ancora provare interesse per la vita, addirittura
infuriarsi. Da un
Wiggs di un altro tempo, ancora capace di tenere a qualcosa o a
qualcuno.
«Capo…»
prese a dire Bedge,
calcolando attentamente la delicatezza del tono
«…voi volete inseguire il ladro
comunque, giusto?»
L’improvvisa emozione sul
volto
di Wiggs si spense rapidamente: «I golem di Ozmatt li usavano
i nani in guerra
con altri nani. Il loro potere gli consente di vedere con chiarezza il
sottosuolo e gli esseri viventi che si spostano nelle vie
sotterranee».
Bedge annuì, accettando
tacitamente il desiderio di Wiggs di cambiare argomento: «Ne
ho nozione, in
effetti. Quindi?»
«Credo che da queste
parti
passino i tunnel che usavano i contrabbandieri per collegare Tuinsy e
Talaxaur.
Alcuni di questi si incrociano certamente con le Vie Minerarie
Centrali, che
come sai sono ancora usate dai mastri forgiatori di Kalst attraverso il
Picco
del Matto».
«Credo di aver capito
dove vuole
andare a parare. A Tuinsy ci sono almeno due ottimi bersagli, la coppia
di
golem di corallo nella collezione di Lord Rendowe di Onnisbrock e il
Chiostro
Arpeggiante con cui gli elfi resero omaggio alla Dama Blu di
Tuinsy».
«Esatto. Un Cerchio
dell’Innocenza potrebbe puntare a rubare i primi o a
distruggere quest’ultimo o
a ucciderne i proprietari». mentre parlava, Wiggs stava
già rimontando a
cavallo.
«O magari a prendere un
battello
per le coste nistriane, lì i bersagli possibili sono
praticamente infiniti per
un Cerchio».
Nihilus Wiggs annuì,
continuando
a caricare il cavallo.
«A Tuinsy
quindi?» chiese Bedge.
«A Tuinsy,
sì».
***
«State
scherzando?» ridacchiò
l’uomo con la barba bianca, che aveva uno dei due occhi ormai
completamente
cieco.
«Se fosse, stiamo andando
bene
visto che stai ridendo». ribatté Ed serafica.
Jen era sempre più
convinta che
non sarebbero mai salite sul mercantile, la fiducia assoluta di Ed non
era
minimamente contagiosa. Eppure sentì quasi una punta di
emozione a guardare la
nave: era veramente grande, quasi un piccolo palazzo mobile. Il suo
corpo di
metallo lavorato, originario di qualche grande nave del Mondo Antico,
era
completato o arricchito qui e lì da complesse costruzioni in
legno, come se una
seconda nave di legno traballante crescesse sulla più antica
di solido acciaio.
«Cercherò di
ripetere il
ragionamento» fece il capitano, scandendo lentamente le
parole «non siamo un
traghetto e men che meno una nuova specie di nave per poveracce dove si
può non
pagare il biglietto in cambio del proprio – non utile, non
qualificato e non
richiesto – lavoro manuale. C’è la fila
per lavorare su questa nave e non ho
motivo di caricare due sconosciute inutili».
Ed non sembrava demordere:
«Non
siamo inutili. E se prendi noi due, posso aggiungere
l’equivalente di due
uomini forzuti all’equipaggio. Gratis, li offre la
casa».
«Due uomini forzuti! E
dove
sarebbero?»
Per tutta risposta, Ed punto un
palmo aperto verso il cielo. Con il dito percorse una delle rune
tatuate sul
braccio destro. Due masse luminescenti salirono in alto e poi
precipitarono
pesantemente a terra. Vedendo per la prima volta da vicino le creature
che
aveva sempre visto volare in cerchio intorno alla forgia, Jen
riuscì a non
sobbalzare solo perché se lo impose per non sfigurare
davanti al capitano, che
era tutto fuorché impressionato. Le due masse avevano
infatti preso la forma di
creature di grezza antracite, che andarono incontro al marinaio con
passo
pigro: una struttura di umanoide alto, con braccia lunghe e gambe corte
e un
incedere vagamente goffo e straniante. Non aiutava la strana testa, un
po’
simile a un pesce martello, con gli occhi cavi e privi di vita, a
differenza
delle poche rune di luce bianca sparse qui e lì che
evidentemente permettevano
ai due golem di muoversi.
«Rune spazio-temporali.
Che
brava, così giovane».
«Tutto qui? Brava e
basta?
Pazienza, comunque ecco qui due marinai nuovi di zecca. Cioè
nuovi un corno,
sono vecchi e il modello è brutto e banale, ma garantisco
che hanno olio di
gomito».
«Credevo che tutti i
mastri
forgiatori fossero ricchi. Perché non ti paghi un
traghetto?»
«Io non sono ricca, mi
hanno
licenziato da mesi dalla corte a cui lavoravo come artiere»
mentì Ed con
disinvoltura assoluta «Per questo voglio cambiare paese. Ma
questi due
ragazzoni di pietra ti garantisco faranno qualsiasi lavoro faticoso o
pericoloso
ordinerò loro, senza lamentarsi, senza mangiare, senza paga
e molto meglio di
qualsiasi umano o persino di altri nani o orchi che puoi avere a bordo.
Non ti
pare un buon affare?»
Il capitano si carezzò
pensosamente la barba squadrando i due golem.
«Sei molto determinata a
salpare
subito. Mi son fatto l’idea che siate due
fuggiasche».
A quel punto, Ed
impallidì tanto
quanto Jen.
«Le condizioni sono
queste: non
vi pagherò, avrete solo un pasto al giorno ed oltre a quei
due bestioni farete
anche voi la vostra parte di lavoro come mozzi. Se, inoltre, qualche
guardia o
qualche templare dovesse fermarci prima della partenza o dopo o
all’arrivo
dicendo che siete ricercate, foss’anche per furto di una
torta di mele, vi
consegnerò immediatamente a loro senza perderci il
sonno».
«Ho sempre odiato le
clausole per
fuggiasche» protestò Ed con un risolino nervoso,
ma tese la mano e il capitano
la strinse «ma ci sto. Hai fatto un affare,
capitano».
«Lo credo, sono un uomo
d’affari
dopotutto». disse calcandosi il cappello da capitano sulla
testa «Allora a
dopo, signore».
Si allontanò urlando
alcune
istruzioni agli uomini. Jen si rimboccò preventivamente le
maniche ma non fece
in tempo a pentirsi di quello che stava facendo, perché gli
occhi della giovane
nana erano già fissi sul suo braccio sinistro.
«Che guardi?»
«Cos’è?»
«Non è
niente!» si srotolò la
manica sinistra, coprendo il braccio.
«Col cavolo che non
è niente, era
un tatuaggio ed è pure uno complesso».
«Già»
ammise Jen distogliendo lo
sguardo.
«E anche molto
interessante. Cosa
rappresenta, un serpente? Quei simboli sulle scaglie avevano una certa
regolarità… non proprio come rune, ma quasi. Che
lingua- »
«Inutile chiedermelo, non
so cosa
sia! So solo che non vorrei averlo».
Ed alzò le sopracciglia,
dubbiosa: «E perché?»
«Me lo ha fatto mia
madre. Non so
cosa rappresenti. Non rappresenta niente! Non per me! Aveva senso solo
per lei.
Me lo ha fatto per sé stessa, non per me. Come
se… prendesse un appunto. Lo
detesto. Non so… non mi aspetto che tu lo capisca,
ma…»
Invece di insistere con una
seconda domanda come faceva di solito, Ed le stava già dando
le spalle e le
parlò con inaspettata gentilezza: «Va bene, ho
capito. Non parliamone più.
Andiamo a dare un’occhiata alla nave, eh?»
***
La struttura sulla cima del
faraglione era carezzata dalla brezza marina con una delicatezza quasi
affettuosa. Dalla volta cristallina scendevano, ben tesi e agganciati a
delle
statue di figure snelle e danzanti, dei fasci di fili argentati
incrociati tra loro
ad arte, in modo che il soffio del vento producesse dei suoni simili
alla
melodia di un’arpa. Ammantato di fiori azzurri, il Chiostro
Arpeggiante era
anche chiamato “Gioiello di Tuinsy” e gli elfi
della Luna, la gente di Lyes ed
Elzen, lo avevano costruito per onorare la loro amicizia con gli umani
che
secoli prima regnavano sulla città balneare. Mentre spingeva
in acqua la
piccola imbarcazione, Valiel guardò con disprezzo il
Chiostro che svettava
sopra di lui, simbolo di tutto ciò che aveva odiato troppo
tempo addietro
perché potesse ormai contare qualcosa. Allungò la
mano verso il cielo e per un
gioco di prospettiva gli sembrò di poter stringere nelle
mani l’intera
struttura e di poterla schiacciare semplicemente chiudendo le dita.
«Salve, ramingo di
Evalunith».
Valiel guardò la prua
della nave.
Si era posato un barbagianni bianchissimo e perfetto,
dall’aria infastidita.
Non era certamente fatto per volare di giorno né al caldo,
ma il patto con i
raminghi come Valiel lo vincolava a farlo, se richiesto.
«Salve, amico dei cieli
notturni».
Il lieve cenno deferente del capo
non impressionò particolarmente l’uccello. Anzi,
era facile scorgere sul suo
volto, benché animale, l’ironia.
«Ebbene, amico ramingo?
Il favore
che mi hai chiesto non va forse contro i tuoi voti alla tua stessa
regina?»
L’espressione di Valiel
si
indurì: «I volatili sono sempre dei ficcanaso.
Dunque? Vorresti forse fare la
spia?»
«No»
rassicurò l’uccello, con
tono indifferente «queste meschinità sono per voi
specie civilizzate. Noi
badiamo ai fatti nostri».
«E se così
è, perché
semplicemente non parli?» chiese l’elfo,
spazientito.
Un bambino umano si era fermato a
fissarli, dopo essere uscito dalla chiara acqua marina nella quale
aveva
sguazzato per rinfrescarsi. Era immobile ad osservare due forme di vita
a lui
sconosciute – era evidente che non avesse mai visto
né un barbagianni né un
elfo – comunicare tra loro in una lingua che lui non capiva.
Un’occhiataccia di
Valiel fu sufficiente a convincerlo a levarsi di torno.
L’uccello guardò impassibile
il ragazzino correre via impaurito e poi tornò sul suo
interlocutore.
«Sia come vuoi, amico
ramingo:
parlerò, gli affari con la tua gente sono un problema solo
tuo. Ho chiesto a
chi dovevo e costoro, orgogliosi stormi di albatri del Mar Bianco,
hanno fatto
altrettanto». il tono del volatile si rattristò
sensibilmente «Metà dell’Isola
Boscosa è caduta, le spiagge delle Lande di Rah lo sono
probabilmente anch’esse
o cadono mentre parliamo».
Valiel strinse i denti
rabbiosamente: «Così male…?»
«Il signore degli umani
di quelle
terre ama le sfide» disse riferendosi a Olster, il Re-Lupo di
quelle terre
selvagge «Ha mobilitato un manipolo di raminghi e branchi di
lupi bianchi per
contenere i danni sul versante orientale. Ma…
potrà fermare la corruzione per
poco».
«La Bocca del Chimaer si
stende
verso oriente dunque… il Draile è salvo. Ma Lyes
è legata all’Isola Boscosa…»
«Il Signore degli elfi a
est
rischia molto di più. Le tue priorità sono
originali, ramingo... fuori dalla
foresta che ti ha dato i natali, non devi forse fedeltà a
ciascun elfo in egual
misura?»
«Continui a farti gli
affari
altrui anche mentre neghi di volerlo fare. E comunque… Re
Hion saprà
cavarsela».
Lo aveva detto senza convinzione,
né reale interesse. Elfo e uccello se ne resero entrambi
conto.
«E comunque, seguo
l’apprendista
forgiatrice come la mia regina comanda. I miei sentimenti appartengono
a me
solo e su quelli non decide nessuno».
E detto questo montò
sulla barca,
mentre il barbagianni rimaneva immobile sulla prua a scrutarlo.
«Sei un elfo divertente,
Valadwen
Yun Valiel» l’animale iniziò a sbattere
le ali «Ti auguro fortuna».
In un battito d’ali, il
barbagianni fu lontano, in cerca di posti più bui e freschi.
Valiel spiegò la
vela enorme, simile alle pinne di un pesce in stecchi di legno e tela
bianca,
tenendo gli occhi fissi sul vascello che mollava gli ormeggi dal porto
di
Tuinsy.
***
All’ennesima onda che per
un bel
pezzo fece danzare la nave, la voglia di vomitare di Jen aveva
raggiunto picchi
prima di allora mai toccati. Ma anche Ed non se la passava tanto
meglio, i
segni della nausea erano evidenti sul suo viso. Le stradine assolate di
Tuinsy,
sempre più lontana dietro di loro, le sembravano sempre
più attraenti,
considerando quale ampia porzione del Blu Minore avevano ancora davanti
prima
di giungere alle coste nistriane.
«Avanti con quelle
spugne! Che
razza di mozzi siete?»
«Sei sicura di aver fatto
un buon
affare?» chiese Jen sottovoce.
Ed soffriva il mare, se ne
rendeva conto sempre di più guardandola: il colorito nero
ossidiana della sua
pelle era sbiadito in un opaco piombo imperlato di sudore.
«Forgiatrice,»
chiamò il capitano
mentre si rigirava una mappa in mano «non siamo neanche
salpati che già stai
male?»
«Io? Sto una
favola».
«Non è che se
ti senti male impazziscono
anche i tuoi golem, sottocoperta?»
«Non
c’è rischio, capitano.
Continueranno il loro lavoro fino ad un mio diverso ordine».
Il capitano strinse le spalle:
«Va bene, voglio fidarmi. Ritarderemo la partenza di un
po’, c’è stato un incidente
al molo sud».
«È…
è molto gentile da parte
vostra, capitano…» ringraziò Jen.
Il capitano scoppiò a
ridere: «Se
non si potesse più fuggire per mare, del resto, che mondo
sarebbe mai?»
«Un incidente…
che tipo di
incidente?» chiese Ed ancora in preda alla nausea, ma con una
nota di sospetto
nella voce.
«Non
s’è ben capito, forse una
rissa con un mago» fece allontanandosi pensieroso.
Jen le si avvicinò,
mettendole
una mano sulla fronte.
«Ehi che cavolo
fai?»
«Ehm…
niente… vedevo come stavi,
no? Come… come ti senti?»
Ed sbuffò:
«Perché te ne curi? Tu
non mi sopporti».
Jen arrossì,
innervosendosi «Che
c’entra? Curarsi di qualcuno che sta male è un
gesto naturale».
«Bè, mi sento
male. Questo fetore
di pesce non lo sopporto».
«Non è pesce,
è l’odore del mare».
«Ah, questo cambia tutto.
Ukor mi
aiuti, che schifo».
«Se posso fare
qualcosa…»
«Sì: bada ai
cavoli tuoi» tagliò
corto bruscamente rimettendosi al lavoro.
Jen sospirò, esasperata.
***
«Provi a ripetermelo.
Magari
facendolo ritroverà nella memoria dettagli che le apparivano
perduti».
Nihilus Wiggs grattò la
spalla
per combattere un prurito insistente, ne cercò con ferocia
la fonte sotto le
maniche a sbuffo di velluto rosso cadmio che fiorivano dal corpetto di
pelle
scura. Ma in realtà il pizzicorio che lo tormentava sotto le
vesti era dato dal
disagio. La cortesia e la meticolosità di Bedge erano
sprecate, di fronte ad
uno sfacelo di quella portata, stavano sostanzialmente consumando il
loro tempo
senza trarne alcun profitto.
«Senta, anche ripetendo
la storia,
non vedo cosa potrei aggiungere. Le ho descritto il
ragazzo…»
«Nano. Non era un giovane
umano,
era un nano».
«Sì, immagino
di sì. Il ragazzo,
cioè il nano…»
Wiggs uscì sbuffando e
prese un
bel respiro di quel che restava dell’aria di Tuinsy che
fondeva gli odori
salmastri del mare alle fragranze portate dai campi. Non
riuscì a goderne
appieno: la nube di polvere sollevata dalla baracca ridotta in frantumi
appesantiva l’aria. Il templare seguì con lo
sguardo il cucciolo dal pelame
bianco, che di certo sarebbe divenuto negli anni un bel molosso, che
trascinava
con soddisfazione un grosso pesce finito sulla battigia, insieme a
molti altri,
con la distruzione del peschereccio ormeggiato. Il cane lo agitava su
è giù
come per spappolarlo contro il terreno, così da poterlo
mangiare, e Wiggs lo
trovò piuttosto buffo. Non riuscì a trovare la
voglia di rientrare tra quelle
quattro pareti di legno sconquassato, del resto udì il
barcaiolo ripetere per
la terza volta la stessa identica storia.
«Quel nano
dall’aria idiota è
arrivato con un cane e ha proposto di scambiarlo con una barca; la
ragione,
secondo lui, sta nel fatto che non aveva idea di come scuoiare
l’animale e
mangiarlo».
«Voi che avete
fatto?»
«Quello ci ha messo tempo
a
capire che lo stavamo prendendo in giro per la proposta: secondo me era
ritardato…»
Eccetera, eccetera, eccetera:
rendendosi finalmente conto che la sua richiesta non sarebbe mai stata
accettata, aveva preteso una barca comunque, poi era passato alle
minacce, poi
era stato il turno del barcaiolo e dei suoi aiutanti di non comprendere
la situazione.
Avevano pensato di usare la forza per costringere quello strano
individuo a
togliere il disturbo e questi aveva, a sentir loro, scatenato una
devastazione
innaturale che non si era mai vista, per poi requisire
un’imbarcazione
lasciando per l’appunto il molo devastato. In effetti
sembrava che una banda di
golem fosse sbucata dal nulla e avesse devastato prima la baracca e poi
il molo
ed ancora diverse barche e cassoni quando svariati pescatori avevano
pensato di
dare manforte al barcaiolo. Tuttavia ciascuno di loro non aveva capito
molto
bene cosa di preciso fosse accaduto in quel frangente, la miglior
descrizione
che aveva avuto era che “la spiaggia si era animata e aveva
scagliato la sua
ira sui pescatori”. Seguendo il percorso suggerito dal cane,
Wiggs prese a
passeggiare appunto per la spiaggia in questione, riflettendo su questo
concetto. Non sarebbe stato difficile produrre quell’effetto
con una magia
elementale, aveva sentito dire di maghi capaci di dominare sia la terra
che
l’aria e di unirli per dominare la sabbia; ma a differenza
dei druidi elfici, e
dei chierici umani, i nani non ricorrevano volentieri a quel tipo di
magia, la
chiamavano “magia volatile” e la consideravano
inaffidabile e imprecisa
rispetto al loro modo di incatenare la magia nei simboli runici o
all’arte dei
bardi elfici di risvegliare la magia con le note musicali. Un adepto di
un
Cerchio dell’Innocenza, comunque, preferiva metodi
più conservatori e
soprattutto più devastanti per portare distruzione, quindi
poteva escludere
l’eventualità di un nano che si sentisse in vena
di sperimentare magie
elementali o canti bardici. L’ipotesi più
probabile era che avesse utilizzato
golem che i marinai non erano neppure in grado di riconoscere come
tali. Ma ciò
che realmente lo preoccupava era il fatto che aveva ignorato dei
bersagli in
Tuinsy che sicuramente potevano interessare un Cerchio
dell’Innocenza,
contrariamente a quanto lui e Bedge avevano messo in conto. Il cane
accelerò
bruscamente il passo, aveva individuato uno scoglio che avrebbe
certamente
agevolato il suo piano di spappolare il pesce per mangiarselo e lui
decise di
non seguirlo più, facendo invece marcia indietro verso il
molo devastato. Si
accinse a fumare una sigaretta, la dodicesima quella mattina,
imprecando più
volte ai vari falliti tentativi di accenderla. Ma ancora una volta, era
altra
la vera origine della sua irritazione: se quel nano non era di un
Cerchio,
l’Alto Templare Nihilus Wiggs era un emerito imbecille, che
si era lasciato
gabbare esattamente nel modo più prevedibile e da lui stesso
previsto,
nonostante avesse preferito scommettere sul caso contrario o forse
qualcuno
avrebbe detto che aveva preferito illudersi. Si domandò
quanto fosse il caso di
condividere i suoi dubbi e quindi il reale scopo di quella ricerca con
il suo
secondo in comando e concluse senza indugi che era assolutamente meglio
evitarlo.
***
Jen rischiò di cadere
all’indietro per lo spavento quando quelle cose piombarono in
picchiata dal
cielo, ruppero la superficie del mare e poi ne riuscirono fuori per
saettare
ancora verso l’alto. Non erano pesci né uccelli, e
certamente non erano neppure
vivi sebbene somigliassero nella forma ad entrambi, dato che erano
composti di
travi, stecchi e vele come le vecchie navi della marina di Mohtam.
Quegli strani
trabiccoli si tuffavano e rituffavano in acqua con ritmo regolare ed
ordinato
ed evitavano con cura il loro mercantile ed una piccola flotta di tre
chiatte
che li seguivano a breve distanza. Provò a seguirli con lo
sguardo e quel che
trovò fu ancora più stupefacente: non
girovagavano liberi per i cieli ma
andavano e venivano da diverse strutture, che Jen non aveva notato
prima
supponendo che le ampie ombre proiettate sul mare fossero frutto di
nubi dense.
«Zeiss»
commentò Ed e per la
prima volta Jen sentì una nota sognante nel suo tono di voce.
Era come un’isola che
fosse stata
strappata al suo arcipelago e sollevata fino al cielo. Ampie pale
volteggiavano
in cima alle torri, sembrava che la traghettassero nell’aria,
reggendola dalle
varie estremità di quella zolla di terra fluttuante, come
mulini capaci di
generare essi stessi il vento che li muoveva. Il mercantile
finì esattamente
sotto l’isola, la cui parte inferiore era tempestata di
edifici, questi
capovolti verso il basso. Erano edifici strani, tonde costruzioni di
metallo
lucido che ruotavano e si incastravano incessantemente; qua e
là si potevano
notare enormi strutture trasparenti che sembravano tenere imprigionate
le
saette ma persino lei arrivava a capire che erano quelle stesse
strutture a generare
quell’energia, quella forza che muoveva l’intera
struttura. Erano salpati da
diverse ore ma quella terra volante era come sbucata dal nulla, apparsa
tra le
nuvole come non fosse neppure esistita prima.
«Pescarelitti!»
urlò un marinaio
dalla coffa, poco davanti ad Ed e Jen che si prendevano una pausa dal
lavoro.
«Pescarelitti!»
rimbalzò di voce
in voce nel mercantile e in lontananza si udiva
quell’avvertimento anche dalle
chiatte. Le navi rallentarono, così da permettere a quei
marchingegni volanti
di proseguire la loro attività con maggior certezza di non
colpire le
imbarcazioni di passaggio. Nessuno dei marinai sembrò troppo
colpito:
evidentemente erano abituati a quella vista.
«Zeiss…?»
chiese alla sua
compagna di viaggio, mentre due di quelle cose uscivano
dall’acqua più
lentamente, avendo agganciato un grande oggetto di forma spigolosa,
coperto di
vegetazione marina, con qualcosa di simile a grosse ancore. Era
piuttosto
evidente che la funzione di quelle macchine era portare verso
l’alto oggetti del
Mondo Antico come quello, non troppo diverso da quelli piantati nel
suolo, che
conosceva come torri pendenti.
Per risposta, Ed strinse la
ragazza a sé con un braccio: era un gesto brusco, ma a suo
modo inteso a
rassicurarla.
«Zeiss, l’Isola
Meccanica, una
delle poche terre fluttuanti ancora integre. Una delle cose
più splendide e
incredibili che voi umani abbiate mai realizzato. È anche
chiamato Trono di
Genaa».
«Genaa? Non è
il nome antico
della Dea?»
«Sì e
no» corresse Ed, di nuovo
riprendendo la sua espressione saccente «la Dea Sfolgorante,
Protettrice dei
Giusti, l’entità che voi umani venerate,
è solo un riadattamento di un culto
molto più antico… della prima divinità
venerata dalla tua gente, Genaa Che
Nacque per Terza, la Signora dell’Aria, patrona degli uccelli
e custode delle
scienze».
«Non capisco niente di
quello che
dici… le divinità sono sempre state quattro e la
Signora dell’Aria è sempre
stata la madre dell’umanità»
constatò Jen.
«Bè, la cosa
non mi…» Ed si volse
verso la ragazza con una smorfia sarcastica di trionfo ma appena le
posò gli
occhi addosso qualcosa in lei sembrò fermarla per qualche
secondo; poi riprese
a parlare, con un tono di voce piuttosto diverso.
«Guarda…»
indicò in alto due
colonne dorate che ruotavano su sé stesse, poi due nastri
che scorrevano
collegando tra loro distanti piloni «…questa
è la Scienza Perduta. L’arte degli
uomini con la quale hanno quasi distrutto il mondo. Zeiss è
l’unico luogo
felice dove è ancora coltivata liberamente e senza vincoli.
I codardi che non credono
in sé stessi né nella loro gente, nella tua
gente, hanno chiamato Genaa con un
altro nome e hanno distorto il suo culto; la libertà, la
curiosità, la ricerca
del sapere, li hanno accantonati sperando di seppellirli assieme a
questa
Scienza».
«La Dea Genaa si
è sempre
chiamata Genaa e l’Evangelista Tessla si è sempre
chiamato Tessla, mi sembra
che tu non stia contestando niente di tutto ciò. Quindi non
capisco». ribatté
Jen, difendendo istintivamente la religione che la sua gente le aveva,
sia pure
blandamente, trasmesso sin dall’infanzia.
«Tessla era un vecchio
strampalato che pensava che Ordine e Caos fossero due entità
senzienti e non
due concetti. Ha creato la Dea e ha creato il Diavolo con la sua penna,
certamente non sono stati loro a creare lui, né gli angeli o
i demoni che
secondo lui servono l’una e l’altro. La tua Chiesa
è nata perché un gruppo di
signori potenti ha appiccicato i deliri di quel Tessla
sull’antico culto di
Genaa per i loro interessi. Così hanno conquistato la tua
gente senza neppure
combattere».
«Non è proprio
come dici, no? Chi
non è d’accordo può ancora usare la
Scienza Perduta e costruire cose come
questa che abbiamo sopra la testa».
Ed la schernì con una
smorfia:
«Non è come pensi. La Chiesa ritiene di avere la
prerogativa di questa scienza,
di poter decidere se, come e quando è permesso usare una
macchina. Del resto fa
lo stesso con la magia. Zeiss è tra le poche
città cui la Chiesa ha consentito,
nel Concordato dei Sette, di studiare e sviluppare le macchine ed
è anche
l’unica comunità per la quale è lecito
commerciare tali macchine. Commerciare
con la tua Chiesa, principalmente. Non c’è
libertà in tutto questo, solo
contraddizioni e bugie».
Jen si divincolò dalla
sua presa,
profondamente irritata. Ed sembrò piuttosto sorpresa.
«Perché mi
stai dicendo queste
cose? Detesti così tanto la mia gente e i nostri
usi?»
La giovane nana sgranò
gli occhi.
Sembrò quasi dispiaciuta.
«Io… non penso
affatto che le
superstizioni del mio popolo siano migliori di quelle che opprimono il
tuo. Non
intendevo offenderti».
«Sì?
Bè, allora vuoi dirmi che
disprezzi egualmente tutti, la mia gente e la tua. Bene, grazie di
avermelo
fatto sapere… di nuovo. E adesso che lo so? Dovrei
ringraziarti immagino,
dopotutto deve darti fastidio che il mondo sia pieno di tanta
immondizia. E a
parte te stessa chi è che ti va bene?»
«Insomma»
ribatté Ed,
sinceramente confusa «volevo solo farti piacere, dirti
qualcosa che non
sapevi».
«Non avrei mai
immaginato»
contrattaccò lei, piena di sarcasmo «che pensassi
di saperne più di me su
qualche argomento. E ora rispondi a questo, illustre filosofa del
nostro
secolo: hai appena detto che questo sapere perduto ha rischiato di
distruggere
il mondo. Per quale ragione mai sarebbe sbagliato cercare di farlo
sparire?».
«Ho detto che gli uomini
hanno
fatto questo, non la loro conoscenza. La conoscenza può fare
del bene o del
male a seconda di come si utilizza. E se qualcuno ne ha fatto un
cattivo uso,
persino un uso catastrofico, non significa che l’ignoranza
sia la soluzione».
Jen rimase incerta per qualche
secondo su cosa rispondere ma bastò: Ed decise in tutta
evidenza di ignorarla
da quel momento in poi dedicandosi all’osservazione delle
fondamenta di Zeiss.
«Ho cercato di fare
conversazione, per una volta» commentò laconica,
senza guardarla, mente si
sdraiava su una cassa «Tu sai qualcosa che forse nessun altro
al mondo sa. Ho
pensato potesse interessarti sapere altro. Ma per qualche ragione
sembra
proprio che tu non sappia nient’altro della mia gente
né della tua. Pensavo di
farti piacere. Ma ho sbagliato a provarci: sei una massaia ignorante e
lo sei
per vocazione, non per nascita».
La biondina decisamente non ne
potè più e afferrò Ed per il bavero.
Di nuovo, Ed fu disorientata dalla rabbia
della ragazza, che arrivava ancora una volta a trascurare
l’abissale differenza
tra i loro poteri.
«Sentimi bene…
abbiamo un patto
ma…»
«Vedi di non scuotermi,
mi…»
«… non include
che io debba
sopportare…»
«… fa venire
il mal di mare, ti…»
«… il tuo
carattere impossibile…»
«…
finirò per vomitare addosso
e…»
Non riuscì a terminare
ed iniziò
davvero a vomitare, conducendosi a stento alla balaustra per lasciar
finire il
resto del suo pranzo in mare. Jen rimase a fissare la macchia,
inorridita.
***
«Zeiss» fece
Valiel come per
chiamarla mentre curava le vele della barca, delle sottili strutture di
tela
bianca simili alle pinne di un pesce.
Quanto tempo fa aveva lasciato
quella città di pietra e metallo, elettricità e
vapore? Provò a ricordare.
Quand’è che aveva deciso di vivere lì?
Sì, lo ricordava. Era stato trentasei
anni prima. Ben trentasei anni! Persino nella lunga vita di un elfo era
difficile non sentirne il passaggio.
Credo che andrò a Zeiss.
Zeiss? Perché Zeiss?
Voglio comprendere meglio la
scienza e la tecnologia che gli umani
custodiscono e a Zeiss si studia liberamente. Forse lì
troverò le risposte che
questi quattro macellai non sanno darci.
Un elfo che studia la Scienza
Perduta… sarai considerato un abominio!
L’ammonimento di Elzen
non
l’aveva scoraggiato nemmeno un po’. Eppure, era
stato inutile: anche Zeiss – la
città che ora aveva davanti, fluttuante sopra il mare
– l’aveva deluso, così
come i molti inutili anni trascorsi a sondare i misteri degli studiosi
che lì
avevano regno. Quanto ancora doveva cercare? Perché nessuno
voleva capire,
perché nessuno voleva cercare fin dove lui arrivava a
spingersi? Una folata di
vento freddo e intriso di odore del mare gli investì il
viso, riportandolo al
presente. Zeiss stava adagiata tra le nubi come la prima volta che
l’aveva
vista, trentasei anni prima. L’aveva ammirata con meraviglia
e pieno di
speranza, con sentimenti che adesso, ovviamente, non provava
più. Come se negli
anni di infruttuosa ricerca il mondo si fosse scolorito, svuotato di
bellezza e
colore e riempito del suo senso di sconforto e ingiustizia. Alla fine
nel mondo
rimanevano e vincevano solo la rassegnazione e l’abitudine,
che in fondo erano
ciò che lo spingeva a servire Lyes ed eseguire incarichi
inutili come
quell’inseguimento.
***
La flottiglia di chiatte, salpata
poche ore dopo il grande mercantile, gli si avvicinava sempre
più; tutte le
navi scivolavano sotto l’ombra di Zeiss, che fluttuava su di
loro.
«Allora, dobbiamo tirarla
per le
lunghe?»
L’orco abbassò
il capo rasato
emettendo una specie di grugnito nervoso: le effigi sulle stole di
Wiggs e
Bedge, il fulmine che scendeva lungo la loro schiena sulla stoffa
argentea,
erano abbastanza per intimidire chiunque non avesse voglia di sfidare
la Chiesa.
«Signore, la protezione
del
carico privato di questa nave è un compito che mi
è stato affidato da…»
Non fece in tempo a dire da chi:
un semplice passo di Wiggs verso di lui fu abbastanza per farlo
deglutire con
timore.
«Ostacolare una indagine
per
sospetta eresia è un crimine contro la Chiesa della Dea. Lo
sai, faccia da
porco?»
L’orco strinse le zanne,
la pelle
bruna lucida per il sudore: tanto più era difficile
– per quei pochi orchi che
ci provavano – integrarsi tra gli umani, tanto più
facile era indurli in
agitazione con vaghe minacce.
«Signore… non
c’è traccia di
eretici in questa nave e se anche ci fosse cosa c’entrerebbe
mai il carico del
mio padrone? Non c’è legame tra...».
Anche Bedge si avvicinò
e di
nuovo bastò quel piccolo gesto ad ammutolirlo.
«Ah no? Sei forse un
esperto, tu?
Gli eretici non sono mica mostri, bestione. Hanno tutti
l’aspetto di semplici
persone, indistinguibili tra le altre. Tra questi molti meritano una
semplice
scomunica ma ci sono quei pochi che trafficano con la demonologia o la
necromanzia e che rappresentano un pericolo per tutti gli onesti
cittadini,
anche questi ultimi sono indistinguibili tra gli altri eretici. Con
quale
autorità, di preciso, sostieni che non ci sono eretici su
questa nave?»
«O forse»
aggiunse Wiggs «lo sai
bene che ci sono e li proteggi?»
L’orco chinò
il capo: «Vi farò
ispezionare il carico in assoluta libertà e riservatezza ma
vi prego,
smettetela».
«Così va
meglio». annuì Wiggs.
Come si aspettavano, si trattava
in massima parte di preziosi troppo grandi per nasconderli, sicuramente
appartenenti ad una collezione privata. Ma c’era anche una
decina di monete di
vecchio conio, tanto diverse dai geon che avrebbero potuto anche essere
risalenti al Mondo Antico, e una discreta quantità di rubini
grezzi. Piazzarli
nel mercato nero non sarebbe certamente stato difficile, Bedge provvide
a
nasconderli nella borsa.
«Che giornata
grama». si lamentò
Bedge.
«Meglio di niente,
oltretutto è
una cosa improvvisata, giusto perché siamo di
passaggio». commentò Wiggs
buttando un paio di portagioie troppo appariscenti e ingombranti nella
cassa da
cui li aveva presi.
«Capo, è
sicuro che la flottiglia
e il mercantile abbiano la stessa rotta?»
«Certamente, il
mercantile è
diretto a Port de Cerul, nelle coste nistriane».
«Ed è sicuro
che il nostro
ricercato punti a quel mercantile?»
«Sicuro al cento per
cento? No,
però ha requisito il battello nell’ora esatta in
cui salpava il mercantile e da
come ha principiato la sua rotta, voleva chiaramente aggirare le
vedette. Cosa
ti fa pensare?»
«Che il tizio…
voglia arrembare
il mercantile in alto mare».
«Quindi non pensi che
appena
finiamo di intascare il possibile qui dovremmo occuparci della
cosa?»
***
«Tutto bene?»
ritentò Jen.
«Cosa te ne
frega?» mormorò Ed,
china sulla balaustra.
Jen era determinata a sforzarsi
di rimanere gentile, almeno finché Ed stava così
male: «Perché non ti riposi un
po’?»
«Se mi addormentassi i
golem
potrebbero smettere di lavorare di colpo. Sono come le mie braccia o le
mie
gambe, capisci? Non si muovono senza di me. Non pensi si accorgerebbero
giù
sottocoperta se cadono giù come birilli? E il capitano
sarebbe capace di
gettarci in mare».
«Mi piacerebbe capire
come
funzionano quelle… cose. Le ho sempre trovate
incomprensibili».
«Capire i golem proprio
tu…»
Il tono e l’espressione
preannunciarono un ennesimo insulto a cui Jen già si
preparava ma Ed non finì
mai quella frase. Balzò all’indietro di scatto,
spaventata, cadendo a sedere.
«Tutto bene?»
Rimase seduta, ma strisciava
all’indietro tremando, con gli occhi dilatati. Sembrava un
animale in trappola,
alla ricerca disperata di un nascondiglio.
«Cosa… cosa ti
prende…?»
Non riusciva neppure a spiccicare
parola. A Jen non restò che volgersi verso la sorgente di
tanta paura. Anche
alcuni marinai fissavano quella direzione, distogliendo lo sguardo
dall’Isola
Meccanica dalla cui ombra il mercantile stava rapidamente uscendo.
«Nave sconosciuta a
babordo!»
urlò un marinaio appollaiato sulle sartie «Un
battello da pesca!»
«Pirati?»
chiese il capitano,
accanto al timone, armeggiando con il binocolo «Non
è mica il Mar Giallo…»
«Non sono
pirati» confermò il
navigatore, correndo verso il capitano.
Non era difficile capire
perché
quel battello disturbasse tanto i marinai. Anzitutto, qualsiasi persona
o cosa
stesse remando imprimeva una rotazione tale ai remi da far andare
l’imbarcazione veloce quanto un gabbiano in volo; in secondo
luogo, una delle
uniche due figure visibili a bordo, che reggeva il timone, non era
certamente
umano e Jen non ebbe difficoltà a riconoscerlo come uno dei
golem di sabbia che
le inseguivano entrambe; altre due creature seguivano pazientemente in
volo il
battello che schizzava leggiadro spezzando le onde. Di animali di
quella forma
Jen ne aveva visto solo uno, morto e imbalsamato, al mercato, anni
addietro, un
dragone-serpente dei mari di Izun, molto simile a quello che
raffigurava il suo
stesso tatuaggio. Quelli però non erano esattamente uguali,
piuttosto erano
come masse sabbiose che fossero costantemente modellate da uno scultore
invisibile per assumere e mantenere quella forma mentre ondeggiavano, a
stento
distinguibili, sul pelo dell’acqua. Non erano che altri due
golem, solo in
forma diversa.
Ed rideva nervosamente,
spaventata: «Fa sul serio… eh eh eh fa sul serio
dannazione. Arrivare a questo…
eh eh eh… allora va bene».
«Ed… Che ti
prende?»
Ed non sembrava padrona di
sé
stessa o della situazione più di lei. I marinai non stavano
invece perdendo
tempo: l’istinto diceva che qualsiasi cosa fosse quel
battello, andava
abbattuto. I nani a bordo si industriavano già con gli unici
due cannoni su quel
lato del mercantile, mentre un uomo nerboruto cercava di spostare uno
degli
altri due da tribordo. In pochissimo tempo, la nave si
riempì di gente che
sbraitava o sfrecciava da una parte all’altra, indaffarata,
mentre il capitano
cercava invano di imporre un ordine sensato ai loro gesti. Due
“pescarelitti”
presero a seguire la scena, incuriositi, invece di virare di nuovo
verso Zeiss,
mentre sulle tre chiatte a tribordo molti si affacciavano cercando di
capire
cosa succedeva sul mercantile.
«Ed! Cosa
facciamo?»
La nana la sorprese
un’ennesima
volta. Si volse verso di lei con occhi gonfi, affranti; sembrava che
stesse per
piangere.
«Ah, tu. Scusami.
Scusami…» si
alzò in piedi strofinandosi gli occhi, come se cercasse di
recuperare fermezza
«Farò di tutto perché almeno tu non
muoia oggi».
«…questa
affermazione stranamente
non mi rassicura…»
«Fai ironia eh? Sei un
tipo
tosto» disse con un sorriso amaro, ma sembrò quasi
farsi coraggio.
Partì una cannonata. Una
delle
due creature divenne come una cupola di sabbia intorno al battello e
prese in
pieno l’impatto. Esplose in una nube sabbiosa, ma
l’imbarcazione ne uscì
illesa. L’altra creatura assunse una forma diversa, come un
pesce manta, e si
librò in alto. Sottile nella forma e imprevedibile nei
movimenti, neutralizzò
un unico, disperato tentativo di colpirla, provocando la rassegnazione
di
quegli improvvisati cannonieri. Un marinaio, più pronto di
spirito di altri,
pensò a quel punto di mirare di nuovo al battello, rimasto
senza la protezione
di quegli esseri sabbiosi; ma appena ebbe puntato sul battello la
creatura
volante accelerò in un tuffo verso la balaustra, affilata
come una spada, e
come una spada tagliò in due l’uomo, dipingendo
una vistosa scia di sangue
lungo il legno della coperta. Jen si sentì gelare. Un grido
riempì l’aria,
sovrastando quello di terrore dell’equipaggio. Un grido
disperato, colmo di
tristezza e desiderio. Un grido che chiamava un unico nome.
«Edrin! Edrin!»
Ed la sorpassò. Tremava
ma la sua
espressione era ferma. Sospirò.
«Edrin!»
continuava a chiamare la
voce, ossessivamente.
Ed salì in piedi sulla
balaustra
di babordo, calcandosi il cappello e gli occhiali perché non
volassero mentre
il vento le sferzava il viso. Anche lei gridò un nome.
«Alef!»
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Capitolo 6 *** Battaglia sul Mare ***
\
5. BATTAGLIA SUL MARE
La
violenza ha preceduto la parola. Questa in fondo
altro non è se non una più sottile forma
di oppressione.
– aforismi
degli elfi d’autunno
I marinai della chiatta si
affaccendavano intorno alle scialuppe, urlavano avvertimenti alla
chiatta più
lontana dal mercantile, intanto le cannonate si susseguivano con
evidente
insuccesso. Il templare più giovane, dei due imbarcati, era
tutto concentrato
sul suo attrezzo: un’arma che poteva sembrare una lancia
dalla lama lunga da
un’estremità e uno scettro dall’altra il
quale, incastonato in un’ala di
metallo lavorato, portava una specie di ovale di vetro appannato. Era
stato
facile riconoscere l’attrezzo sin dall’inizio, era
un’asta da combattimento per
maghi, ma solo in quel momento lo splendore azzurro elettrico della
pietra
parlava chiaro all’equipaggio della nave: uno scontro di
magie stava per avere
luogo, tra quel chierico e un nemico sconosciuto. La paura per il
subbuglio nel
vascello principale aveva già provato i marinai, a questa si
aggiunse la paura
di essere coinvolti anche loro nella battaglia, che fece loro
dimenticare ogni
prudenza e ogni interesse verso il loro carico. Era una cosa comune:
più
capillare si faceva l’influenza della Chiesa, più
controllato e raro era l’uso
della magia, che diventava sempre più estranea, misteriosa e
inquietante nella
coscienza popolare. Persino l’orco che avevano intimidito
poco prima si nascose
sottocoperta per non uscirne più.
«Lo vedi?»
chiese l’altro templare
mentre, col naso all’insù, fissando il vascello.
«No» rispose
Bedge, concentrato
sul raccogliere energie magiche.
«Bella forza portarsi
dietro un
chierico di seconda classe».
«Ho il dono della magia,
non
quello della vista telescopica» Bedge sopportava di buon
grado qualsiasi forma
di bistrattamento ma nel corso di un incantesimo diventava irritabile.
«A giudicare dai
movimenti sulla
coperta, loro stanno subendo l’attacco, non ne sono
l’origine. Forse da
un’imbarcazione dall’altro lato, che il vascello
non ci permette di vedere.
Come avevamo ipotizzato».
«Tutto chiaro»
replicò Bedge
«vedo cosa posso fare per colpirli da qui o ci
avviciniamo?»
«Avviciniamo…
come?»
«Direi…
abbordiamo il vascello?»
«Pessima idea per le
nostre
pellacce» obiettò Wiggs, ma dopo aver osservato
ancora qualche secondo la
confusione sul grosso mercantile aggiunse «Da qui non capisco
un accidente.
Continua a fare quello che stai facendo ed io mi occupo di…
dell’abbordaggio... eh!
Dovevo fare il
pirata…»
«Sicuramente si adattava
meglio
alla vostra indole».
«Concentrati invece di
dire
cretinate».
Bedge continuò a muovere
delicatamente la mano intorno all’ovale luminescente,
bisbigliando qualcosa.
Wiggs, invece, estrasse uno dei tozzi fucili dalla custodia e
sparò un colpo in
aria. I marinai che non si stavano litigando le scialuppe si bloccarono
di
colpo.
«Potete fuggire dove
volete» urlò
Wiggs «ma ci serve almeno uno che stia al timone ancora per
qualche minuto. Se
non viene subito qui un timoniere, sparerò alle gambe di uno
di voi a caso».
Gli uomini, d’istinto, si
rimisero subito in fuga ma uno di loro crollò a terra dopo
uno schianto che gli
squarciò il polpaccio. Wiggs caricò subito
un’altra cartuccia, mentre estraeva
il secondo fucile per tenere tutta la ciurma sotto controllo.
«Non fatemelo ripetere.
Questa è
una inquisizione dei templari per sospetta eresia! Obbedire
è un dovere verso
la vostra Chiesa, disobbedire mi autorizza ad ogni tipo
contromisura».
In segno di ribellione, uno dei
più grossi tra gli uomini della ciurma si avventò
su Bedge. Ma in quell’istante
lui aveva concluso la meditazione. In un attimo, il templare
staccò la mano
dall’ovale e mosse sapientemente l’asta in un
movimento rotatorio che fece
finire la punta della lama esattamente sulla gola del marinaio. Questi
arretrò
immediatamente. Bedge, nonostante questo, fece mulinare
l’asta una seconda
volta colpendo una coscia, tingendo di sangue le ali metalliche che
decoravano
la lama. Anche lui cadde a terra. Lo stordì con una pedata
in volto senza
troppo entusiasmo.
«E sono due a
terra». osservò il
tenente Wiggs «Ancora non c’è un
volontario?»
«Smettetela
subito» esordì uno
degli uomini, dal piglio calmo e ragionevole «io so tenere il
timone. Lasciate
stare gli altri».
«Abbiamo un
vincitore» avvertì
stancamente Bedge.
«Già. Gli
altri vadano pure a
crepare dove preferiscono, magari portatevi dietro questi due cretini
feriti»
dichiarò Wiggs a voce alta, poi si volse al loro nuovo
timoniere: «Sai fare una
manovra d’arrembaggio?»
«No, inoltre questo non
è un
galeone pirata. Ma suppongo che dovrò arrangiare qualcosa
comunque, giusto?»
chiese lo sconosciuto, in tono provocatorio.
«Sei anche sveglio. Mi
piaci».
***
«Sono qui, Al!»
urlò ancora Ed,
in piedi sulla balaustra.
Ed mosse il polso in una ampio
semicerchio e Zahnrad esplose in decine di frammenti, per ricomporsi in
una
sorta lastra semicircolare. Questa si aprì a sua volta in
sei punti e Jen vide
con stupore una piccola bocca di cannone uscire da ciascuna delle
aperture.
Nello spazio di un respiro Ed sembrava diventata una fortezza ambulante.
«Prendi!»
Partì una salva di
cannonate ma
quasi tutti i colpi si risolsero solo in alti spruzzi d’acqua
marina, uno
frantumò un angolo del battello, un altro mancò
di poco la faccia del loro
inseguitore, che non si scompose neppure.
«Accidenti a me e alla
mia mira
schifosa! Prendi!»
Una seconda salva
sorpassò
totalmente il battello senza il minimo risultato.
«Ancora!»
Non riuscì a sparare una
terza
volta, aveva portato Zahnrad ben oltre il suo limite,
l’artefatto riprese la
sua forma originale di bracciale compatto ma era annerito. Era tanto
rovente
che il polso di Ed sfrigolò sprigionando una nuvoletta di
fumo.
«Maledizione!»
sbraitò agitando
la mano in preda al dolore.
Jen distinse appena una delle due
creature di sabbia afferrare al volo il ragazzo sul battello, per poi
volare
sopra le loro teste. Fu scaricato dall’alto e
atterrò in piedi, con un botto,
proprio dietro di loro. Era un ragazzino umano o un nano molto
smagrito? Jen
non riuscì a distinguerlo chiaramente, anche se il rosso
scuro dei capelli
risolse i suoi dubbi. Due masse sabbiose colpirono il legno della
coperta alla
destra ed alla sinistra dell’individuo, per sollevarsi
formando le figure
umanoidi innaturalmente alte e longilinee che Jen ricordava bene, le
figure che
avevano ucciso il suo cane e spezzato la quiete della sua vita nella
fattoria.
Le maschere intarsiate dei due golem di sabbia avevano una forma
diversa da
quella col lungo becco che aveva aggredito i suoi fratelli ed Ed
settimane
prima, notandole Jen dedusse che ciascuno di essi era diverso e che uno
dei
golem era effettivamente stato distrutto cercando di parare la
cannonata di
poco fa. Cercò un cannone con lo sguardo prima di realizzare
che non aveva idea
di come si usassero.
«Ed»
chiamò il misterioso individuo
che la nana aveva chiamato Al, con tono indecifrabile.
Ed si concentrò e Jen
vide subito
perché: i due golem che aveva portato a bordo uscirono allo
scoperto,
portandosi accanto a lei. Immediatamente una delle due
creature che
accompagnavano il ragazzo in giallo si librò in cielo,
riprendendo la forma di
drago-serpente, e i golem di pietra decisero in tutta evidenza di
seguirla:
dietro la testa e le spalle si allungarono delle strutture come lunghe
pinne di
pesce ricurve, un ombrello vitreo che li portò in aria con
grazia. In cielo, il
loro avversario di sabbia spalancò le fauci. Jen non seppe
dire se urlava o
soffiava ma in un caso come nell’altro i due golem di pietra
furono sbilanciati
dallo spostamento d’aria e dondolarono scompostamente; un
secondo attacco
uguale al primo li sbilanciò del tutto, la cosa si mosse
sinuosa e rapidissima
verso uno dei due, lo strinse nelle sue spire e in qualche modo
riuscì a
scagliarlo verso l’altro, ancora disorientato. Entrambi si
ruppero,
precipitando giù fino a squarciare una vela e finire in
acqua danneggiando la
chiglia della nave. Il golem di sabbia riprese con disciplina il suo
posto
accanto al suo padrone e all’altro suo simile.
«Fine degli esercizi di
riscaldamento» commentò nervosamente Ed, a denti
stretti.
«Come ti sei
arrugginita» si
lamentò l’altro.
***
«Una battaglia di golem
sul
mercantile. La vedi da qui?»
«Ovvio che sì.
I forgiatori sono
solo due, credo. Saliamo, capo?»
Wiggs stava quasi per rispondere
quando uno di quegli esseri sabbiosi piombò sulla chiatta
come un sasso che
cadeva dall’alto, frantumando il legno della coperta. Era un
golem,
evidentemente chi li controllava li aveva visti attraverso di esso e
ora intuiva
che volevano interferire.
«Mentre combatte
lassù, tiene
d’occhio anche noi» constatò Wiggs
ridendo nervosamente «Dev’essere tosto
questo bastardo».
Puntò subito entrambi i
fucili e
sparò ripetutamente. I proiettili si conficcavano nella
sabbia scomponendo il
corpo, che però tornava integro quasi subito. Lo
rallentavano ma senza ferirlo.
«Bedge!»
chiamò agitato mentre
ricaricava.
Dietro di lui, Bedge mormorava
senza rispondere.
«Akar
havo… »
«Bedge!»
riprovò sparando altre
munizioni altrettanto infruttuosamente «Muoviti!»
Il golem di sabbia
sembrò voler
smettere di aspettare e cambiò forma in una struttura canina
che sembrava più
agile, schivò i proiettili senza rallentare e in un paio di
balzi fu addosso a
Wiggs.
«Bedge,
accidenti!» urlò mentre
teneva a fatica le fauci del canide lontane dalla gola.
«…valius…
nai… difo».
Una lingua d’acqua
limpida si
allungò dalla pietra magica dell’asta di Bedge.
Agitando l’asta, il chierico
provò a frustare la creatura appena Wiggs riuscì
a scollarsela di dosso ma il
golem evitò diverse sferzate balzando qua e là
con tempismo.
«Sì, bravo,
bravo! Non lo prendi
nemmeno se dorme, maledizione!» si lamentò Wiggs
strisciando indietro e
ricaricando i fucili in tutta fretta «Indietro, mandalo
indietro».
D’un tratto la lingua si
mosse
come un serpente e non più come una frusta e sì
attorcigliò. Per evitarlo, la
creatura canina saltò indietro.
«Continua
così… verso quel
barile» spiegò Wiggs senza muoversi.
«La fai facile, capo. Akar havo maltius… vajrus…
nai difo».
Una scintilla
d’elettricità
viaggiò lungo il filo d’acqua, il golem
arretrò come un animale spaventato, era
ora abbastanza vicino al barile come Wiggs aveva voluto e fu proprio
Wiggs a
centrare il barile con un proiettile. L’olio dentro il barile
esplose,
avvolgendo il golem in un’ondata di calore e luce. I due si
guardarono per
diversi secondi, tramortiti dall’urto
dell’esplosione.
«Anche questa
è sbrigata» valutò
infine Bedge con tono piatto mentre il golem bruciava.
«Che golem complicato.
Chi
diavolo sarà il tipo sul mercantile?»
«Andiamo via!»
implorò il
marinaio al timone, ancora mezzo assordato dal boato.
«Tu sta zitto,
idiota!» sbraitò
Wiggs puntandogli il fucile contro «Tieni le mani sul
timone!»
Il golem si rialzò,
tintinnando
come una cascata di monete, sotto gli occhi increduli dei due templari
e del
marinaio. Ora il suo corpo era un insieme scomposto di schegge di vetro
scintillante che sbattevano l’uno contro l’altro,
un piccolo corpicino simile a
quello di un esile umano, ma con grossi e affilati artigli lucenti.
«Che situazione
del…»
Il golem si avventò su
Bedge che
si difese malamente con l’asta. La lama dell’asta
si dimostrò inutile in quel
corpo frammentato e a stento fermò le artigliate del
costrutto, che cercava
furiosamente di staccargli l’arma.
«Capo» disse
Bedge, avvinghiato
nella lotta, senza agitarsi «maschera. La maschera!»
«La
maschera…?»
«Akar
havo» pronunciò Bedge, di fretta
«maltius vajrus…
ega… kiar!»
Scintille di elettricità
guizzarono lungo tutta l’asta, scaricandosi sul corpo
dell’aggressore. Ma
questi non diede alcun segno di sofferenza.
Wiggs era ancora sovrappensiero:
«…maschera… ah. Giusto».
La maschera di pietra era
l’unica
cosa che era rimasta uguale, dopo che la sabbia era diventata vetro per
il
calore. Del resto, perché il golem mantenesse una forma
coerente dopo la
vetrificazione la cosa doveva essere stata prevista dal suo creatore e
incisa
in una apposita runa e le rune potevano trovarsi solo sulla maschera.
Un
proiettile centrò la maschera, la ruppe in due e le schegge
di vetro si
sparsero a terra senza più alcuna energia a muoverle. Wiggs
e Bedge guardarono
entrambi la maschera spezzata per un momento.
«Un forgiatore potente e
anche
fantasioso» osservò Bedge.
«Non aveva certo animato
la
sabbia della spiaggia, a Tuinsy. Deve aver usato questo
golem».
«E pensa ancora che sia
il
ragazzo della taverna… il ladro degli Ensland?»
I rumori dell’agitazione
nell’altra nave non facevano che aumentare.
«Andiamo a conoscere
meglio
questo casinaro, Bedge».
«Io vorrei solo che ci
allontanassimo»
protestò il marinaio insistendo con rabbia contenuta.
«Tutti vogliamo un sacco
di
cose».
***
Jen rimase assolutamente senza
fiato: né Ed né questo misterioso Al avevano
battuto ciglio, eppure era certa
che in qualche modo erano stati loro due a guidare mentalmente quello
scontro
aereo tra pietra e sabbia. Cos’era davvero la scienza delle
rune? Aveva limiti
quel potere?
«Che modo di battersi,
non ti si
addice. Perché non attacchi anche tu?»
Ed digrignò i denti di
fronte
all’evidente disinvoltura del suo avversario: «E
tu, perché non lo fai?»
«Sai la
risposta» rispose Al con
semplicità.
«E tu sai la
mia»
«Interessante»
notò Al con tono
quasi professorale «Allora…vuoi usare solo i
golem? Così, in effetti, possiamo
concentrarci molto meglio sui loro movimenti. Sembrerà
più un duello di maghi
che di forgiatori. Uno spettacolo di marionette, in un certo senso.
È
divertente, no?»
La giovane nana
sussultò: era
evidente persino per Jen la capacità di quel ragazzo di
suscitare in lei rabbia
e dolore.
«Credi che sia un gioco?
Una
prova d’abilità? O cos’altro? »
«Direi che è
un cos’altro. »
«Tornatene a casa,
Al…»
Era una minaccia o una supplica,
si chiese Jen? C’era qualcosa di distorto nelle loro
interazioni.
«Curioso che sia tu a
dirlo a me.
Tornare a casa...».
«Come vuoi»
concluse lei,
cercando di darsi coraggio «Basta chiacchiere, allora.
Iniziamo».
Si pose le mani sulle rune nella
spalla e sembrò a Jen che lanciasse due frammenti
incandescenti in aria, ai
suoi lati atterrarono due figure, in maniera del tutto simmetrica a
quella del
suo rivale. Ma i due costrutti che atterrarono erano molto diversi,
quasi
ridicoli.
«E questi…
cosi… che sarebbero?»
«Chiappa…»
presentò Ed indicando il primo dei due.
Era un omino tarchiato e
panciuto, il cui volto era completamente coperto da un grosso cilindro
calcato,
esclusa una lunga e setosa chioma arricciata, così come ogni
centimetro del suo
corpo era coperto da vesti quasi sfarzose di velluto color panna e
nocciola
malamente cuciti e rattoppati insieme, persino il suo viso non era che
un sacco
di pezza cucita. Jen notò che calzoni e le maniche, gonfi
oltremisura, non
erano effettivamente neanche vere maniche, ma enormi fasci di filamenti
di seta
infilati a forza in guanti e stivali. Era una massa di seta argentea
fluente,
quasi viva, infilata a forza in quei vestiti e da essi contenuti a
fatica.
«… e Beccuccio».
La seconda figura invece sembrava
un largo e massiccio cavaliere in una armatura consunta, ma in effetti
era
composto di vecchia ferraglia usata: le ampie spalliere erano teiere
arrugginite, l’elmo era una caffettiera malridotta e
così via. Sbuffava
regolarmente nuvolette di vapore bianco che gli rimanevano intorno,
dense e
pesanti, formando come un mantello biancheggiante, una cappa densa ma
impalpabile che scendeva dal suo corpo gonfiandosi e sgonfiandosi col
ritmo di
un battito cardiaco. L’arma che teneva in mano, che a Jen era
sembrato un
martello, era in effetti un tubo di lavandino che finiva con un ferro
da stiro.
«Chiappa e
Beccuccio» ripeté Al,
persino lui incredulo di fronte ad avversari così
improbabili.
«Mie creazioni. Belli
vero?»
«Sì,
bellissimi» ammise Al, con
l’ammirazione di un vero intenditore.
«Ma non puoi
averli» si vantò Ed,
che ancora tremante di paura si forzava a riacquistare un pizzico della
solita
arroganza.
Al continuava a guardare i due
nuovi golem con curiosità. Jen non aveva mai assistito ad
uno scontro diretto
tra mastri forgiatori nanici ma le circostanze furono esplicite: non
uno solo,
tra i nerboruti uomini dell’equipaggio, sentì
l’impulso di avvicinarsi ai due
nani che si guardavano in faccia. Anzi, era lei la più
vicina al duo e provava
al contrario una gran voglia di allontanarsi.
***
Come ogni imbarcazione elfica
degna di questo nome, anche questa era di legno leggerissimo e con vele
grandi
e robuste, progettata di proposito per scorrere veloce
sull’acqua opponendo la
minima resistenza al vento e alle onde. Ma neppure Valiel aveva potuto
tenere
il passo con il battello malconcio che schizzava sulla superficie del
mare
mosso da remi innaturalmente veloci. Nessun umano, nano o elfo avrebbe
potuto
remare con tanto inarrestabile vigore, solo un golem – e
Valiel aveva una idea
di chi poteva essere a manovrarlo. Adesso, invece, il battello si
lasciava
superare placidamente, andando malconcio alla deriva. Anche il
comportamento
delle chiatte mercantili non era del tutto normale: mentre il vascello
principale stava quasi uscendo dall’ombra della
città fluttuante, le altre
chiatte cercavano – eccetto una – di staccarsi dal
vascello, quasi di invertire
rotta. Il mare intorno si riempiva di scialuppe. L’istinto da
cacciatore di
Valiel non dovette nemmeno sforzarsi troppo: il suo obiettivo era sul
vascello
e stava, per la seconda volta in poche settimane, attirando guai su di
sé.
Gettò un fischio.
«Pochi raminghi viaggiano
per
mare, specie di questi tempi» osservò un gabbiano
che prese a volare piano a
fianco dell’imbarcazione elfica.
«Signore delle nuvole,
amico
degli elfi nei mari inesplorati, ti chiedo di essere i miei occhi e le
mie
orecchie. Su quel…»
«Sulla casa che nuota, la
casa
degli umani» interruppe il gabbiano «vuoi sapere
cosa accade».
«Proprio
così».
«Due del popolo
sotterraneo si
scontrano».
«Due…? Chi
sono?» chiese
speranzoso – che potesse finalmente conoscere
l’identità del misterioso
aggressore di Kalaston?
«…chi è chi, non è
una domanda per noi. E non ci avvicineremo certo
per scoprirlo. L’amicizia con il tuo popolo non ci vincola a
rischiare le
nostre vite, ramingo».
Il gabbiano si alzò
più in alto e
si unì ad uno stormo che stava deviando per non infilarsi
sotto il terreno di
Zeiss o forse, più probabilmente, per allontanarsi dalla
nave. Un ramingo sa
fidarsi dell’istinto degli animali e sa farlo proprio: e
l’istinto gli diceva
di tenersi alla larga da quei due nani sconosciuti. Eppure, per quanto
tempo
potesse passare nella foresta senza incontrare nessuno, Valiel non era
né
sarebbe mai stato un animale.
***
La chioma artificiale del golem
che Ed aveva chiamato Chiappa prese vita, seguendo i movimenti delle
dita della
sua padrona, un fascio di seta sinuoso come un serpente si
scagliò come una
massa di fruste, allungandosi sempre più, contro Al. I due
golem sabbiosi ai
lati avevano dato alle braccia la forma di grossi scudi tondi che
seguivano
pignoli ogni sferzata, come Ed aveva previsto. Ma ad ogni sferzata, la
massa
fluente si spargeva in più fasci, sempre più
difficili da distinguere anche per
chi, come loro, non vedeva con gli occhi ma percepiva gli spostamenti
d’aria. La
difesa meticolosa di Al, che Ed conosceva a menadito, non riusciva
più a
seguire i fili di seta e perdeva sempre più ritmo,
finché un fascio scivolò dal
basso e il golem sabbioso non fece in tempo a intercettarlo. Subito
intrappolò
Al come una ragnatela, stringendolo in un bozzolo.
«La tua difesa
infallibile ha
fallito. Ora che mi dici?» sogghignò la ragazza
guardandolo con soddisfazione.
«Oltre la difesa
c’è sempre
l’offesa» rispose l’altro, quasi annoiato
mentre la seta lo costringeva
all’immobilità.
I due golem di Al erano rimasti
immobili per qualche secondo, ma rapidamente saltarono in aria verso
Ed, le
mani avevano preso la forma di mannaie pesanti pronte a distruggere
Chiappa e
Beccuccio. Ed aveva visto e rivisto questa scena nella sua mente per
anni,
aveva prefigurato questa eventualità e questo momento. Con
un rapido movimento
della mano mosse per la prima volta Beccuccio: ogni fessura del corpo
metallico
sprigionò degli spruzzi densi di vapore bianchissimo.
Tuffandosi nella coltre
bianca di vapore acqueo i golem atterrarono impastati
dall’umidità, lenti e
impacciati. Non erano più fluenti ed eleganti ma lenti e
appiccicosi, due masse
fangose che Al non controllava più propriamente. Non solo
non centrarono i loro
bersagli ma atterrarono pesanti, si mossero barcollando e poi caddero
in
avanti, come sciogliendosi. Tutto era andato come Ed aveva previsto,
eppure
aveva sempre voluto evitare quel momento, essendo intimamente certa che
non
avrebbe potuto farcela contro Alef. Invece le sue paure si erano
rivelate
infondate: aveva vinto.
«Oh,
interessante» commentò Al,
divertito, prima di sporgersi verso Ed.
«Oh,
interessante» gli fece il
verso lei.
I golem sabbiosi stavano
prendendo la forma come di grosse lumache di fango di cui solo la
maschera
ricordava la forma precedente e si alzarono in tutta la loro massa
molliccia ai
lati di Ed. Jen si fece l’idea che si preparassero a scattare
contro Ed come
serpi pronte a mordere.
«Non pensarci nemmeno.
Aspettavo
proprio questo» ridacchiò Ed.
Il golem che aveva chiamato
Beccuccio scattò, i suoi avversari erano ora troppo lenti
per reagire,
sfracellò con un colpo di mazza una maschera intarsiata di
uno dei due e appena
l’altro si sforzò di reagire saltò
sulla maschera di questo centrandola con una
martellata: i golem si scomposero, ormai non più vincolati
dalle rune appena
distrutte. Al cercava ancora di muoversi, ma la morsa dei fili era
sempre più
stretta.
«Fermo lì, se
non vuoi essere
stritolato dai fili di Chiappa».
«Oh,
interessante» ripeté Alef
con voce monocorde.
«L’hai
già detto, sei diventato
scemo?»
«Oh,
interresante» fece ancora
prima di spaccarsi in mille lucidi pezzi.
***
«La trave, usiamo quella
trave»
esortò Wiggs.
«Certo, come
no» commentò il
giovane uomo al timone «non è una nave pirata, ve
lo ripeto».
«Abbiamo un ingegnere
navale tra
noi» ribatté Wiggs «Taci e tieni la
rotta! Sembra che tu debba convincermi a
spararti a tutti i costi».
«Tenente, devo spostarla
da solo
la trave?»
«E smetti di lagnarti
anche tu».
Balder Bedge guardò la
figura del
suo superiore investita dal vento, coperta dall’ombra della
terra fluttuante.
Sembrava indemoniato, gli occhi li aveva quasi fuori dalle orbite.
«Signore, non dovrebbe
darsi una
calmata?»
«Mi calmerò
fra pochissimo»
rispose mettendosi anche lui a sollevare la trave «Quel
bastardo è lì!
Dev’essere lì! Lo prenderemo!»
«Certamente
sì, signor tenente,
ma…»
«Lo prenderemo e gli
faremo
sputare i nomi di ogni altro del suo Cerchio» si
fermò per sbuffare dalla
fatica «creperanno tutti! Tutti! Tutti sepolti nella segreta
più lurida e
schifosa e lì…sentirò le loro urla! E
poi… e poi…»
Non si curò di terminare
il
concetto o forse coprì le sue ultime parole il vento che
soffiava sempre più
forte. Wiggs scosse la testa per non avere i capelli negli occhi mentre
cercava
di allungare la trave verso il vascello che sovrastava la chiatta. A
Bedge
quell’immagine si impresse sgradevolmente nella mente. I
momenti che decidevano
il corso della sua vita, come quello in cui i suoi genitori gli avevano
detto che
avrebbe studiato presso la Chiesa o quando aveva rivelato la sua
attitudine
alla magia e quindi il suo destino come chierico e ancora il momento
esatto in
cui gli avevano presentato l’allora sergente Nihilus Wiggs,
tutti questi
momenti avevano il singolare potere di marchiarsi nella sua memoria e
di
rimanere immobili come ritratti. E così si impresse quel
momento, in cui Wiggs
rideva come un invasato colpito in viso da aria ed acqua e sale, rideva
con una
risata che aveva un che di liberatorio e in egual misura era malsana,
con uno
stato d’animo che Bedge non gli riconosceva, qualcosa dentro
di lui che si
agitava, qualcosa di totalmente alieno nelle loro vite abitudinarie.
***
La parte di testa superiore alla
mascella rotolò fino ai piedi di Jen, rimanendo impassibile
e orrida anche
quando si fermò a pochi centimetri da lei contemplando il
cielo con occhi
vitrei. Non era umano e neppure vivo: era un oggetto, qualcosa che
ricordava
una bambola di porcellana o una marionetta. Ecco cos’era: un
burattino, di dimensioni
umane.
«Hai… hai
vinto?» chiese la
ragazza.
Ed non rispose, ancora tesa come
una corda di violino. Si girò in due direzioni e
così anche Chiappa e Beccuccio
seguirono i movimenti della loro padrona.
«Ma lui…
era… una marionetta?»
Come per rispondere, i pezzi di
porcellana del giovane nano si radunarono, Jen poté
distinguere dal luccichio
controluce i fili di sottilissimo acciaio che tenevano insieme ogni
pezzo,
anche se ora non sembrava più una fedele riproduzione di un
umano: la testa era
troppo staccata dalla mascella, come
le
braccia dai gomiti e il torso dalle gambe. Un avambraccio
sorpassò Ed con uno
scatto e descrisse un’ampia semicerchio con i fili, tagliando
diverse casse
come fili d’erba.
«Fottiti!»
esclamò nervosamente
Ed abbassandosi per evitare i fili d’acciaio.
L’altro braccio
scattò e
Beccuccio saltò indietro per non essere segato, mentre
l’altro golem, Chiappa,
non fece in tempo e fu tagliato in due per orizzontale. Ma dentro
quella cosa
artificiale Jen vide solo una massa vibrante di filamenti di seta
bianca.
«Noioso! Noiosissimo,
cazzo!»
imprecò Ed e fece un cenno al corpo tranciato di Chiappa.
I filamenti si stesero in aria e
si compattarono in due masse, come due enormi girini che partivano
dallo
stomaco del golem, ancora in piedi benché aperto in due. Le
“teste” schiusero
bocche dentate che si avventarono ciascuna su uno dei bracci della
marionetta,
immobilizzandole entrambe. Due fauci di seta si confrontavano con due
braccia
di porcellana.
«Questo…
questo è uno scontro tra
due mastri forgiatori?» disse Jen piano, come per paura che
la sentissero.
Era spaventata ma anche
affascinata: sebbene non avesse una idea di come
Ed facesse o a quali regole doveva sottostare, era chiaro che
si scontravano
due grandi poteri che però agivano con premeditazione e
precisione. Come due
giganti che s’affrontano in punta di fioretto. Anche se era
persino difficile
definirlo uno “scontro”: era un continuo mutare di
forme ed esplodere di poteri
che dall’esterno sembrava non seguire alcuna regola, se non
quella
dell’irrealtà tipica di un sogno, o di una
allucinazione.
«Esatto» disse
una voce dietro di
lei, che riconobbe subito appartenere al capitano della nave
«hai portato a
bordo una persona davvero pericolosa».
«…io...».
«Inutile giustificarsi,
ormai»
interruppe il capitano
«Qui si abbandona
la nave, se sei furba anche tu farai lo stesso».
Il
capitano le voltò le spalle e si diresse in tutta fretta
verso un altro lato
della nave. La sorprese che non guardasse Ed nemmeno per un istante: il
suo
unico interesse era allontanarsi, non chi lei fosse o per cosa
combattesse. Nel
momento in cui Ed e l’essere che aveva chiamato Al si erano
scontrati quel
mercantile era diventato per tutti gli altri come il luogo di un
disastro
naturale in corso. Non si poteva discutere, né partecipare,
né reagire: solo
fuggire. C’era un che di vomitevole, che a Jen dava la
nausea, nella logica
sottintesa in quei comportamenti: come se quei due fossero dei,
divinità
furibonde in lotta dove i miseri omuncoli come il capitano, come Jen
stessa,
potevano solo terrorizzarsi e scappare, pregando per la loro vita.
«Fiacco!»
ringhiò Ed.
La
marionetta, mentre le braccia erano paralizzate in una morsa contro la
seta,
aveva tentato di allungare una gamba e colpire Ed alle caviglie, ma
Beccuccio
era immediatamente scattato bloccando il piede di ceramica con il suo.
«Basta
con questo catorcio» si lamentò la giovane nana.
Corse
tra le braccia della marionetta e arrivò a toccare con la mano un simbolo che
splendeva di un viola tenue, nel petto del pupazzo. Tracciò
rapida e precisa
dei segni con le dita e la tensione sparì dai fili, il
pupazzo si scompose di
nuovo, stavolta per sempre.
«Non scherziamo, un
trucco
vecchio come questo. Che delusione» commentò
calciando via la testa di ceramica
con disprezzo.
Jen si avvicinò appena
di un
passo, ma subito esitò: «Cosa… come hai
fatto?»
«Se conosci la runa puoi
anche
cancellarla. Per questo il “vero nome” di un golem
va sempre tenuto segreto. I
golem-marionetta hanno tutti nomi simili… facili da capire.
Rune facili da
cancellare».
«Quella cosa
era… un altro
golem...?»
Aveva sentito dire una volta, in
paese, che esistevano golem simili a bambole costruiti per sembrare
persone ma
fino a quel momento ci aveva creduto poco, era una storia per
spaventare
ragazzini.
«Molto sagace, Jen. E tu
perché
non sei ancora scappata, comunque?»
Non ho nessuna intenzione di
scappare come se tu avessi il diritto di
terrorizzarmi.
Lo pensò, ma non lo disse.
«Bè,
ma… hai vinto, no?»
Con stupore di Jen, la parte
superiore del corpo del golem Chiappa si portò sopra le
gambe e si rattoppò da
sola, chiudendo il taglio con dei punti a croce. Sia lui, sia
l’altro golem,
rimasero fermi come fossero all’erta.
Ed scosse la testa, poi disse tra
sé: «Dov’è quello
vero?»
«Quello…
vero?»
«Vieni fuori,
cretino!» urlò Ed,
senza avere risposta.
Poi intuì qualcosa e
alzò la
testa: si trovò Al placidamente appoggiato
sull’albero maestro, sembrava quasi
che sonnecchiasse. All’improvviso la situazione parve a Jen
ben poco
incoraggiante: sembrava che questo Al, tutto sommato, avesse la
perfetta
padronanza dello scontro e delle sue evoluzioni, a differenza della sua
compagna di viaggio.
Il ragazzo sbadigliò:
«Ce ne hai
messo con quello…»
«Golem-marionetta.
Mezzucci da
vecchie cariatidi».
«Non dovresti dire
così»
contraddisse Al, annoiato «Ti ha fregato comunque, quindi
sminuire la mia mossa
è come sminuire te stessa».
«Odio i tuoi stronzi
giochetti di
parole. Scendi!»
Ma al movimento di Ed per muovere
i suoi golem contro di lui, Al rispose con uno molto più
rapido. Si afferrò la
scarpa e se la tolse.
«Ma
cosa…»
Capovolgendo la scarpa, un filo
di polvere sottile e nera cadde dritto sul legno della coperta, in un
istante
prese vita e sorpassò una terrorizzata Jen come una biscia,
infine colpì in
qualche maniera – troppo rapida per distinguerla –
sia Chiappa che Beccuccio
scagliandoli in due direzioni diverse. Lo schianto li fece stramazzare
sul
pavimento di assi, immobili. La massa nera non era sabbia, dati i
riflessi
lucidi: doveva essere una polvere di qualche sorta di metallo, concluse
Jen.
«Ma dai, Ed, sono passati
anni.
Pensavi non avessi inventato cose nuove?»
Si lasciò cadere
giù, prese dal
pavimento l’abito giallo che il burattino a sua immagine e
somiglianza aveva
indossato, e lo indossò a sua volta lasciando penzolare
comicamente le maniche
troppo lunghe. Intanto accanto a lui la massa nera formò una
nuova figura
allungata, ma molto diversa: non aveva una maschera visibile, e quindi
– a
giudicare dalla scena di prima – era privo di reali punti
deboli, quantomeno
esposti. La testa era sostituita da una piramide triangolare acuminata,
ancor
più inespressiva e spaventosa, divisa da una lunga bocca
rozzamente seghettata.
«Be…
bellissimo…» mormorò Ed
mentre arretrava spaventata.
«Sì, non
è vero? Non sai che
fatica forgiarlo».
Forse perché aveva
trovato il
coraggio, forse spaventato da quella ulteriore apparizione inquietante, uno dei marinai, un nano,
riuscì a trovare la
forza d’animo di muoversi e diresse il cannone verso la nuova
apparizione
mentre lo accendeva. Un braccio di quella cosa si allungò in
una lama lunghissima
ma sottile e trafisse il nano che aveva minacciato il suo padrone in
mezzo agli
occhi. Jen fissò il cannone, la cui miccia era ormai accesa
e la palla ormai
caricata mentre il suo cannoniere era stato privato della vita in una
frazione
di secondo e cadeva al suolo senza quasi un suono. Se qualcun altro tra
i
marinai che non erano già saltati in acqua aveva pensato di
intervenire, quella
rapida esecuzione gli aveva tolto ogni voglia.
«Evitate, per piacere, di
farvi
uccidere» chiese Al con cortesia e Jen fu colta dai brividi.
Poi il golem di polvere metallica
si scagliò su una disorientata Ed, ancora incapace di
formulare una
contromossa.
«Come… come
hai potuto fare…?»
Era sempre risultato impossibile
ai nani creare delle rune che vincolassero una massa di polvere
ferrosa, fine
ma pesantissima. Schivò a fatica il colpo e, osservando la
scura lucentezza del
metallo polverizzato, dedusse quale geniale soluzione aveva seguito Al.
«Questa polvere
è magnetizzata…»
«Esatto. Non è
una buona idea?
Una grande idea?»
«Sì,
Al» ammise, tremando.
«Ho sempre voluto
mostrartelo!»
esclamò l’altro con un grande sorriso
«Sapevo che lo avresti adorato!»
Chiappa e Beccuccio, i due golem
che Ed aveva chiamato, si erano rialzati a fatica scagliandosi dai due
lati
contro quello di Al, ma le braccia di questo si erano allungate in
grossi e
spessi prismi quadrangolari e li avevano colpiti come martellate in
faccia.
«Ma piantala»
si lagnò Al «Che
inutilità».
«Già»
ammise Ed «inutile.
Merdissima».
La giovane schivò un
colpo di
lama ulteriore e inciampò all’indietro in una
sartia attorcigliata. Il golem fu
subito su di lei, troppo vicino per tentare di usare una runa senza
essere
trafitti in un solo secondo: lo scontro si chiudeva, era in scacco.
«Scappa, sei ancora qui
idiota?»
disse rivolgendosi a Jen «Lui vuole solo me…
vattene via!»
Ma dove Ed si era girata, Jen non
c’era più. La cercò invano con lo
sguardo, mentre un artiglio del golem si
scomponeva e ricomponeva in un anello di metallo scuro, certamente
pensato per
immobilizzarla e trasportarla.
«Andiamo»
sussurrò Al, con voce
finalmente facile da comprendere: era colmo di felicità.
L’esplosione della
cannonata fu
assordante. Jen non sapeva accendere il cannone ma era stato acceso da
altri
per lei e lei aveva solo dovuto strisciare verso di esso, per poi
spostarlo con
tutto il peso del suo corpo di modo che puntasse la creatura metallica.
Il
risultato, però, fu diverso da quello sperato: la palla di
piombo si era
spiaccicata sulla testa piramidale del golem, prendendone la forma,
come fosse
stata una polpetta. Evidentemente, quando la polvere metallica si
solidificava
diventava incredibilmente resistente. La palla deformata
finì pigramente a
terra e il golem volse il muso appuntito verso Jen.
«No»
urlò Ed, mettendosi in piedi
«vuoi me! Vuoi me! Lasciala stare!»
Fece qualche passo indietro fino
ad arrivare a fianco di Al.
«Va bene»
concesse Al, con tono
comprensivo e il golem si fermò «La lascio stare,
come vuoi. Però ora basta con
questi capricci».
«Capricci?»
ringhiò Ed, indignata
«Capricci! Li chiami ancora così!»
«Akar
havo maltius vajrus volfred…»
sussurrò una voce, ma Ed non
capì da dove venisse.
«Ed…»
«…nuth».
Al non fece in tempo a dire
qualsiasi cosa volesse dire né Jen fece in tempo a capire il
senso di quella
conversazione. Perché ogni cosa, ormai, era esplosa nella
luce sfolgorante del
tuono.
***
Bedge interruppe il flusso di
elettricità che andava dal diadema sulla sua asta fino alla
creatura metallica
ma non vide quello che si aspettava. La creatura continuava a
contorcersi e
sembrava mutare costantemente forma e sputare dal suo corpo altra
elettricità.
«Che… che
razza di magia hai
usato?»
Un fulmine saettò fuori
dalla
creatura e colpì un mozzo accucciato a pochi centimetri da
Wiggs.
«La solita
roba» si giustificò
Bedge, guardandosi la mano con confusione «Ma
quello… non dev’essere semplice
ferro come pensavo».
Il golem produsse un altro
scoppio accecante, era come se cercasse a tutti i costi di mantenersi
integro
senza riuscirci.
«Voglio dire…
è strano come
conduce l’elettricità…»
Una saetta attraversò
l’aria tra
i due mancandoli per puro caso.
«Non mi dire!»
si lamentò Wiggs
mentre entrambi cercavano con lo sguardo un posto sicuro al riparo da
quella
strana reazione.
«Forse
dovremmo…»
Le ultime parole sfuggirono
all’udito del tenente, perché un ennesimo lampo
azzurro precedette
l’incendiarsi dell’albero maestro.
L’essere metallico continuava a contorcersi
e sembrava quasi che urlasse. Il suo corpo si gonfiava e scoppiettava
quasi
ribollendo.
«Eccolo!»
notò Wiggs, trionfante:
il giovane nano che avevano visto alla taverna di Kalaston era steso,
il suo corpo
emanava un po’ di fumo, e sembrava tramortito.
«Al!» chiamava
la giovane nana
dalla pelle nerissima, segno di nobiltà, curva sopra di lui
e in lacrime: «Al!
Al! Ti prego svegliati! Svegliati, Alef!»
Prima che potessero decidere il
da farsi, una ragazza bionda si avventò sulla nana e la
prese per le spalle.
«Ed! Andiamocene
via!»
Alla creatura metallica succedeva
qualcosa. La sua massa si era compressa tutta in una sfera di metallo
nero che
fluttuava instabile, emettendo un suono simile ad un fischio. Poi
esplose.
Wiggs e Bedge finirono a terra, i due nani e la bionda erano stati
protetti da
un bizzarro golem di ferraglia che li circondava con le braccia, a sua
volta
sorretto dalle spalle di un altro costrutto più piccolo,
coperto di stoffe
chiare ora bruciacchiate e lacere. I due golem sparirono in due puntini
fiammeggianti che si posarono delicatamente sulle spalle della giovane
nana.
Wiggs le guardò,
soddisfatto:
«Bene bene, una complice. O forse no. Ci spiegherete diverse
cose…»
Appena realizzato che il nano
steso stava ancora respirando, la nana cambiò completamente
espressione. Subito
dopo qualche istante di sollievo, volse lo sguardo verso i templari,
infastidita. «Voi due chi cazzo sareste?»
Bedge s’intromise:
«Non potremmo
parlarne in un secondo momento? La nave brucia e dall’odore
credo che portasse
un carico infiammabile…»
«I-infiammabile…?»
balbettò Jen.
Ed disse sovrappensiero:
«Ora che
ci penso è possi-»
***
La nave, che era stata avvolta da
bagliori azzurrini intermittenti per una manciata di secondi, dopo un
susseguirsi di piccoli scoppi si spaccò al centro della
chiglia vomitando fuoco
direttamente in mare. Valiel notò che praticamente
l’intero equipaggio l’aveva
già abbandonata ma nessuno di quelli che poteva vedere sulle
scialuppe rispondeva
all’immagine dell’apprendista forgiatrice che
doveva seguire, né della bionda
contadina che si accompagnava alla nana.
«Ehi,
voi…» chiamava invano,
perché nessuno degli uomini sulle scialuppe perdeva tempo a
rispondere.
«Non andate in quella
direzione!»
urlò uno ma poi non si fermò oltre.
Anche le chiatte si allontanavano
sempre più, le scialuppe si dividevano tra chi puntava alle
lontane coste ai
confini del Draile e chi più realisticamente cercava di
raggiungere proprio le
chiatte.
«Marinaio…!»
chiamò ancora un
altro
«Che succede a quel mercantile,
laggiù?»
«Magia
e sventura!» urlò quello senza girarsi
«Non avvicinarti, elfo, per il tuo
bene!»
«Magia?
Che magia?»
Il
marinaio non si voltò più.
La nave cominciava a spezzarsi e
i due pezzi a sprofondare l’uno verso l’altro. La
sua imbarcazione viaggiava
proprio nel tratto d’acqua sotto la terra fluttuante di Zeiss
e in quel
ritaglio di cielo coperto non c’erano uccelli;
d’altro canto, Valiel non
conosceva la lingua dei pesci, come molti altri raminghi. Non poteva
che
basarsi sull’istinto e sulla logica ed entrambi dicevano che
l’oggetto della
sua ricerca era su quella nave che si stava distuggendo, per finire
sotto il
mare fra le rovine di Zoa. Che fare? La nave scagliò ben
lontano un pezzo di
sé, questo volò fino a tuffarsi in acqua vicino
ad una scialuppa che si
ribaltò, lasciando diversi marinai in acqua a chiedere aiuto
alle altre
scialuppe.
«Un
disastro…»
«Puoi dirlo,
ramingo». commentò
un gabbiano fermandosi un istante tra le correnti vicino a lui
«Quando i
costrutti degli umani muoiono, piangono fiamme e veleni».
«Sai cosa succede
laggiù?»
«Per nulla e anzi ti
dico: stanne
alla larga. Rovina a chi si avvicina troppo».
In effetti Valiel notò
che
persino i pescarelitti di Zeiss volavano alla larga dal vascello,
così come in
tutta fretta si allontanava un’ultima chiatta che era rimasta
indietro.
«Può
esplodere…?»
«Domande per umani, non
per noi.
Vola via, ramingo!» suggerì il gabbiano,
allontanandosi.
Aguzzò la vista ma anche
così non
riuscì a distinguere la presenza di chicchessia ancora a
bordo. Non poté
trattenersi dal sorridere per l’amarezza: a lui non importava
assolutamente
niente di quella apprendista né di scoprire chi avesse
attaccato la Forgia del
Lago Kalst settimane prima, e men che meno del destino di quella
insignificante
nave commerciale di Tuinsy. Eppure l’unico fatto
veramente rilevante era
che Lyes aveva detto di occuparsene e lui non poteva concepire di
generare
ulteriore disappunto, sconcerto o delusione in Lyes. Ecco come sarebbe
morto
Valadwen Yun Valiel: sarebbe morto svolgendo un incarico inutile cui
era stato
assegnato appositamente per tenerlo fuori dai guai, dopo tutto quello
che aveva
realizzato, dopo tutto quello che aveva costruito, dopo tutto quello
che aveva
conquistato e perso; sarebbe morto per un affare poco chiaro dei nani
di cui
non gli importava un accidente.
«È questo che
vuoi per me, Lyes?
E per te stessa? Per la nostra gente?»
Fu seriamente tentato di
invertire la rotta e lasciar perdere, fu davvero vicino a quel punto di
rottura
che talvolta dice alla coscienza di mandare all’aria tutto e
di fare quello che
si è realmente, sempre, desiderato fare a scapito di quello
che, all’opposto,
sono le circostanze a costringerci a fare. Ma gli mancò il
coraggio o forse,
d’altro canto, non gli mancò: seduta sul suo trono
ad Evalunith, Lyes attendeva
notizie di quell’incarico. Che notizie avrebbe avuto Lyes?
Avrebbe constato per
l’ennesima volta quanto inaffidabile fosse Valiel, come fosse
da considerare
alla stregua di quegli umani che si intossicano e si rendono dipendenti
da
sostanze che ne alterano l’umore: incapace di rispondere alle
sue stesse
azioni, condannato ad umiliare sé stesso ripetendo gli
stessi errori, schiavo
di qualcosa che era strettamente connaturato a lui eppure non era lui.
Un drogato, dicevano gli umani,
anche se la
sua maledizione non era una sostanza ma una persona. Certo, Lyes
avrebbe
pensato che la colpa era sua e solo sua, se Valiel era diventato quello
che era
diventato. Lyes avrebbe sofferto, l’avrebbe odiato e avrebbe
odiato sé stessa.
Tutto sommato, si disse, era allora meglio morire in quel modo inutile,
se così
doveva essere. Si diresse quindi con fermezza verso la carcassa fumante
che si
inabissava sempre più in fretta, scoppiettando.
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Capitolo 7 *** L'Armata Chimerica ***
L’ARMATA CHIMERICA
In uno
scontro militare, la prima battaglia è
tra le menti dei generali, ciascuno cerca di comprendere a fondo
l’altro e di
vincerne l’intelligenza. Carpite le chiavi
dell’intelletto nemico, questi è
perduto. Si crea un paradosso: che sia l’intelligenza il
punto debole di un
esercito?
– Luger
Clow Camden, Riflessioni
Irisa diede un ultimo colpo a
Fulvospirito perché accelerasse il galoppo. Il cavallo
sembrò quasi non
aspettare altro ed accelerò bruscamente verso la loro ultima
fermata che si
intravedeva con chiarezza sulla cima del promontorio: Svalir-Bae, uno
dei sei
villaggi costruiti lungo la catena montuosa di Sky-Enda. Sotto di lei,
sotto le
cime montuose che percorreva da giorni, le coste dov’era
avvenuto il disastro e
i villaggi a valle erano per lo più coperti da un manto
bianco di nebbia che
scintillava incantevole rispondendo alla luce del sole. Solo oltre era
possibile vedere qualche stralcio del Mar Bianco, anch’esso
era uno specchio
d’argento liquido che mozzava il fiato. Sembrava che tutto il
mondo di sotto
fosse avvolto in una calma ed in un silenzio che lo rendevano una
unica,
infinita massa di bellezza e serenità priva
d’eventi. Ma era vero il contrario.
«Vai, bello,
vai!»
Fulvospirito, come ogni cavallo
del regno delle amazzoni, era cresciuto con lei, conosceva intimamente
la forma
del corpo di Irisa adagiato al suo e ogni tono, gesto, addirittura
pensiero che
esprimeva attraverso di esso. E adesso, sebbene non potesse
comprenderne il
motivo, coglieva l’angoscia di lei. Si fermò solo
quando la palizzata che
costituiva il cancello di Svalir-Bae si chiuse dietro di loro,
circondata da
una piccola platea.
«Gente del Rah»
annunciò Irisa a
voce alta, smontando da cavallo «la mia signora la Regina
Aryl, Padrona di
Runeh, Sovrana del Nadorhai, Sommo Comandante delle Amazzoni, vi porge
i
saluti».
Per quanto fosse risultato
evidente dal primo istante che si trattava di una amazzone giunta dal
Nadorhai,
il suo aspetto lasciò molti montanari, specialmente maschi,
a bocca aperta. La
sua figura snella e atletica era chiusa in una uniforme di robusta
pelle color
nocciola, che si chiudeva con un girocollo di pelliccia chiara. La
grossa spada
lunga, curva e sottile, così come l’elmo dalle
grandi corna e le bardature a
stecche, erano di un minerale lucido: la rossa ceramica di Rikila che
si diceva
fosse leggera come carta eppure robusta abbastanza da farne
un’arma. Era nel
complesso un’apparizione esotica, elegante e potente per
loro. Ma non ci misero
molto a cambiare radicalmente opinione: appena Irisa tolse
l’elmo il suo viso
scuro da ragazzina, gli occhi vagamente a mandorla colmi
d’inesperienza e
incerti sotto i chiari capelli con la coda arruffata, molti sorrisero
scettici.
«Salute, guerriera del
Nadorhai»
esordì un uomo imponente e barbuto dal piccolo gruppo che la
accoglieva, in
tutta evidenza un capo villaggio o qualcosa di simile «dunque
la Regina Aryl ha
risposto alla chiamata del nostro re?»
Irisa assentì col capo e
aggiunse: «La Quinta Cavalleggeri delle Amazzoni è
stata distaccata per intero.
Precedo la mia comandante di appena tre giorni».
Tuttavia, pensò Irisa,
nei volti
non c’era tanto sollievo quanto si aspettava di vederne. In
effetti nessuno
sembrò particolarmente felice o tranquillizzato, nemmeno
l’uomo che si era
rivolto a lei per primo.
«C’è
qualcosa che dovrei sapere,
signor…?»
«Folar» si
presentò «sono il capo
villaggio… cioè lo sono finché mio
zio… il precedente capo non tornerà».
Irisa aggrottò la
fronte:
«Tornerà… da dove?»
L’assembramento
iniziò
rapidamente a disperdersi. Evidentemente molti di loro avevano
già sentito la
storia innumerevoli volte e non pensavano che Irisa avesse
nient’altro di
rilevante da dire loro. Seguì il taciturno Folar fino a che
non si sedettero su
una roccia da cui si vedeva buona parte della vallata, erano solo loro
due e
pochi altri, evidentemente amici fidati del montanaro. La
fissò negli occhi.
«Insomma, mi
risponda».
«Re Olster ha radunato
tutti i
vecchi clan di guerrieri di Sky-Enda, Graent-Halli e Fjaran-Marmar.
Parliamo di
decine e decine di clan che hanno discendenze…
bè, centenarie… risalenti a
quando i nostri antenati barbari giunsero qui e sfidarono gli elfi per
colonizzare le Lande di Rah. È una chiamata a cui chiunque
abbia onore e
rispetti le nostre tradizioni non può sottrarsi».
«E vostro zio, che
avrebbe dovuto
accogliere qui a Svalir-Bae la Comandante della Quinta Cavalleggeri in
persona,
ha imbracciato una spada che a stento saprà ancora reggere
ed ha lasciato il
villaggio in mano a nessuno?» il tono di Irisa si fece
severo: le amazzoni
erano pragmatiche e queste abitudini rituali le consideravano
pressappoco come
la Chiesa della Dea, tollerabili o forse condivisibili ma comunque
fastidiose e
in definitiva inutili.
«Zio Rudreg non
può ignorare una
chiamata agli antichi clan…» insistette Folar,
abbassando la testa per la
contrizione.
«Va bene, capisco. In
ogni caso
non temete per il vostro vecchio zio, anche noi dobbiamo congiungerci
alle
forze alleate di Re Olster fra pochi giorni. Appena lo
troverò, farò il
possibile per farlo tornare al villaggio».
Folar sgranò gli occhi,
significando che Irisa non aveva capito qualcosa di essenziale. Si
guardò
intorno, aspettando che fossero rimasti in pochi intorno a loro.
«Mi scusi, sto girando
intorno al
problema. Lo zio non tornerà, signora. Prima ho detto a quel
modo per non
allarmare le donne e i bambini. Nessuno dei nostri tornerà a
Sky-Enda».
«Non dite
così. Le forze
alleate…»
«Signora, le forze
alleate… non
esistono più. Sono svanite tre giorni fa».
«Svaniti? Vuole dire che
sono
caduti in battaglia?»
Sembrò quasi che il
montanaro la
compatisse: «Svaniti vuol dire proprio… svaniti.
Sono scomparsi, da un giorno
all’altro. Per l’esattezza il giorno dopo il loro
schieramento su Fjaran-Marmar.
Se ci fosse stata una battaglia la nebbia non ce l’avrebbe
fatta vedere, specie
da questa distanza, ma ne avremmo comunque avuto notizia. Invece non
abbiamo
ricevuto notizie di alcun genere».
«Mi faccia
capire» chiese Irisa
con una punta di nervosismo «fra tre giorni la Quinta
Cavalleggeri del Nadorhai
arriverà qui per confluire nel vostro esercito. Un esercito
che non esiste».
«Che non esiste
più» corresse
lui.
«E come è
possibile tutto
questo?»
«Speravamo che potesse
dircelo
lei…»
***
Passarono due giorni. Irisa
alloggiò in una piccola locanda con appena due stanze di
legno inumidito dalle
nevicate invernali. Pensò e ripensò a quello che
sapeva dei chimerici, a quello
che ciascuna amazzone sapeva: dove veniva il Chimaer, solitamente
veniva anche
l’armata di creature. Erano loro a richiamare il Chimaer o
piuttosto erano essi
stessi partoriti da esso laddove si manifestava? Le ipotesi erano
innumerevoli;
il loro numero, le loro tattiche e la loro forza erano sempre
differenti, volta
per volta, andavano osservati sul campo – molti eserciti del
passato,
inorgogliti dalle prime facili vittorie, erano caduti al secondo o
terzo
scontro senza riuscire a spiegarsi come e perché; il Chimaer
si allargava e
quando lo faceva la terra diveniva inabitabile, a quel punto combattere
l’orda
di chimerici per riconquistare terreno non aveva senso, tanto valeva
ritirarsi
e difendere i territori ancora liberi dallaq nefasta influenza del
Chimaer, si
trattava in sostanza di formare un cordone di contenimento; infine,
nessuno
sapeva esattamente spiegare che aspetto avessero o di che natura
fossero gli
strani esseri; alcuni raccontavano di averne trucidati a decine mentre
questi
rimanevano immobili e impassibili a contemplare il nulla, anche se
queste
storie si consideravano vaneggiamenti.
«Non so praticamente
niente»
ammise infine con nervosismo all’ennesima richiesta di Folar.
«Ma… non siete
voi forse una
amazzone? Non venite educati per combattere i chimerici?»
Irisa scosse la testa,
infastidita.
«Le amazzoni sono la
forza
d’elite del Nadorhai».
«Elite?»
«Ci sono insegnate cose
che gli
uomini apprendono con più difficoltà e lentezza,
tra cui le arti della guerra
che richiedono un certo rapporto con gli animali, le arti marziali
armoniche
basate sulla danza, lo studio approfondito della guerra psicologica e
della
storia della strategia…»
«Pensavo che i chimerici
fossero
vostra competenza» mormorò Folar con malcelato
disappunto.
«Non mi fraintenda. Siamo
il
meglio che il regno può offrire, ecco perché la
Regina ci affida gli incarichi
più duri… inclusi quelli che hanno a che fare con
il Chimaer».
«Dunque dovete conoscere
il
Chimaer!» insistette l’uomo.
«Non è
così semplice. Ci viene
insegnato a rendere la nostra mente flessibile, le strategie
adattabili,
l’osservazione pronta e acuta. Una armata di chimerici non va
nominata, cioè etichettata, ma
studiata sul campo: si
presenta con infiniti aspetti e comportamenti, stabilire quali
strategie usare
nell’infinito repertorio dei nostri generali e quando usarle
è la chiave per
avere successo. Mi ha capito?»
«No»
tagliò corto Folar.
L’ultima sera
notò che ormai i
montanari la guardavano con occhi diversi: erano sfiduciati e
spaventati,
convinti che fondamentalmente il suo arrivo non avrebbe cambiato nulla,
che non
poteva liberarli dalla paura del Chimaer, che era poi la paura
dell’ignoto. Non
per nulla, pensò, si diceva che le nella vita di una
amazzone la battaglia con
i chimerici rappresentava un punto di passaggio unico nel suo genere.
Imparare
centinaia e centinaia di schemi e tattiche e arti marziali, poi
liberare la
mente da tutti, poi riprendere solo quello che serve: il suo generale
ci
sarebbe riuscito?
«Certo che
sì» disse a sé stessa
prima di addormentarsi, perché la sua fiducia nel suo
generale era assoluta.
All’alba del terzo
giorno, Svalir-Bae
fu occupata dalla Quinta Cavalleggeri dell’esercito amazzone
proveniente dal Nadorhai.
Alla sua guida c’era una donna con una uniforme simile a
quella di Irisa, con
due enormi corna d’ariete di ceramica rossa ornate di
tintinnanti cerchi d’oro
zecchino. La differenza d’abbigliamento suggeriva
immediatamente una differenza
di gerarchia, sebbene la comandante trattasse Irisa come sua pari. Del
resto,
l’esercito amazzone preferiva al concetto di gerarchia quello
della
suddivisione di compiti e responsabilità. Come Irisa , anche
la comandante –
Ariadne – si tolse l’elmo per salutare il capo
villaggio Folar, rivelando
lunghi capelli chiari e un viso regolare ma dall’espressione
severa
eloquentemente segnato da una brutta cicatrice obliqua. A differenza di
Irisa la Comandante
Ariadne fu subito
accolta come un veterano degno di rispetto, sebbene fosse ancor
più esile e
minuta della sua sottoposta – fatto questo che non stupiva
nessuno, perché la
forza militare del Nadorhai si basava sulla disciplina, la grazia e la
flessibilità, non su forza e resistenza. Ariadne si
consultò a lungo con alcune
sue compagne e poi chiese più volte a Folar un resoconto
degli avvenimenti di
quegli ultimi giorni, o meglio dell’assenza di avvenimenti,
poi ringraziò il
capo villaggio e tutti i suoi compaesani per
l’ospitalità, annunciando la
smobilitazione della Quinta Cavalleggeri nel corso della mattinata
seguente.
Quando in cielo apparve l’aurora boreale, Irisa fu svegliata
e montò in sella a
Fulvospirito per cavalcare a fianco di Sirescuro, il possente stallone
di
Ariadne.
«Cosa faremo, Ariad-
voglio dire,
Comandante?» chiese Irisa dopo qualche ora di trotto sotto il
cielo
multicolore.
«Non lo so ancora.
Dovremo
recarci sul Fjaran-Marmar e vedere da noi».
«Ma quale forza potrebbe
spazzare
via una forza simile in pochi giorni senza lasciar traccia?»
«Sai bene che non ci sono
certezze
nelle terre infestate dal Chimaer».
«Sì»
sospirò Irisa «lo so. Ma
anche se le forze del Rah fossero state sconfitte, avrebbero dovuto
lasciare
qualche traccia… un messaggio… almeno qualche
sopravvissuto… insomma… sono
spariti!»
Ariadne si volse tristemente in
basso: «Non conosci i chimerici.
Ma
lo capirai presto».
«Tu invece? Tu conosci i
chimerici?»
«No. Ma ho sentito storie
di
alcune guerriere andate e venute dall’Oceano Orientale dove
la Bocca del
Chimaer minaccia le coste del Mohtam e del Nadorhai. E ho sentito di
eventi
molto più inquietanti di questo».
Irisa strinse i pugni e fece un
gesto d’esortazione: «Meglio così! Devo
essere pronta anche io a combattere… la
Bocca del Chimaer che minaccia le nostre terre non
sarà molto diversa da
questa… immagino».
Ariadne rise nervosamente:
«Chi
può dirlo? Si dice che non esistano due Bocche
uguali».
Irisa sbuffò:
«Queste
conversazioni finiscono sempre allo stesso modo».
«È
vero».
Il Nadorhai e il vicino regno di
Mohtam erano sotto costante minaccia della Bocca del Chimaer
dell’Oceano Orientale,
che si era aperto tra il “Grande Astro”, il
continente chiamato Astermagna in
cui i due regni erano situati e le “Sabbie Cieche”,
o Nerimkora. Entrambi i
continenti, e tutti coloro che ci vivevano, sentivano quella minaccia
costantemente sulle loro teste; eppure ogni domanda sul Chimaer riceveva da sempre quello
stesso tipo di risposta
sconsolata e vaga, come se una legge non scritta avesse imposto a tutti
coloro
che ne avevano esperienza diretta di rispondere allo stesso modo. Non
serviva
insistere, né mostrarsi spaventati, men che meno mostrarsi
spavaldi: nessuno si
sentiva di dare risposte più chiare e a nessuno capitava di
riceverle, in tutta
l’Astermagna, in tutta la Nerimkora. Niente di strano.
Dopo un’altra ora di
silenzio,
Ariadne parlò nuovamente: «Avremo degli alleati
comunque».
«Alleati? Ma se le truppe
regolari del Rah sono annientate…»
«Infatti non appartengono
alle
Lande… sono mercenari» illustrò Ariadne
con tono di disapprovazione e aggiunse
con tono severo «non creare problemi quando li
vedrai».
***
Quando Irisa li trovò
ammassati
lungo la vallata non trattenne un’espressione di disgusto.
Non avevano una
formazione chiara né minimamente ordinata, certamente non
avevano nemmeno
uniformi ed anzi portavano masse di pelli, pellicce, zanne, ossa,
teschi e
monili di pietre colorate indossate da ciascuno in diverso modo,
neppure
portavano armi ben identificabili dato che era impossibile distinguere
se
questa o quella forma intagliata nella selce fosse spada o mazza, scudo
o
ascia, pugnale o falcetto. Si muovevano scompostamente e si impegnavano
nelle
più triviali attività: qualcuno sghignazzava con
dei compagni, qualcuno
mangiava con la grazia di una bestia, qualcuno faceva a botte con il
commilitone più vicino.
«Orchi!?!» si
sbalordì Irisa
guardando Ariadne.
La Comandante Ariadne
cercò di
trattenere il disgusto, ma ora che li vedeva da vicino anche lei non
poteva
dissimulare totalmente le sue reazioni: «Truppe
mercenarie… come ho detto».
«Orchi
mercenari» sottolineò l’altra,
innervosita.
Originari della Nerimkora, gli
orchi erano un popolo di orgogliosi guerrieri per vocazione tanto
quanto per
necessità: passavano la maggior parte delle loro vite nomadi
a combattere
marchingegni del Mondo Antico che vagavano senza posa tra le dune del
loro continente
desertico. Ma da quando erano salpati per conoscere altre terre ed
erano
approdati nel Nadorhai, gli attriti con il regno delle amazzoni erano
stati
innumerevoli e anche la pace, raggiunta dieci anni prima con coraggio e
fatica
di entrambe le parti, traballava. Non poteva essere diversamente: nel
credo
orchesco, ogni forma di legge o regola era una forma di vigliaccheria e
lo
scopo vero della “civiltà” era far
apparire forti i deboli che non vivono i
propri istinti. All’opposto, Irisa era cresciuta secondo i
Comandamenti di
Runeh, le leggi più importanti che i nadoriani ponevano
persino al di sopra
della Chiesa della Dea. Cresciuta nel dovere e nella
servitù, come ogni
cittadina o cittadino del Nadorhai, era stata studiata fin da piccola
per
ricevere a quattordici anni il compito che si confaceva alla sua indole
e,
sempre come ogni altra nadoriana, il senso della sua vita stava nel
perfezionarsi sempre più nel suo compito, non nel liberarsi
da esso. Poiché
nella cultura marziale del Nadorhai era il desiderio a fondare
l’infelicità,
reprimere il desiderio e concentrarsi sul dovere portava
l’ordine e la pace.
Erano due culture che si negavano reciprocamente e ciascuna era
obbligata a
vedere l’esistenza dell’altra come una minaccia.
«Dobbiamo
combattere… con gli
orchi?»
«Dobbiamo e lo faremo,
per
richiesta del sovrano del Rah. È impensabile contravvenire
ad una richiesta di
Re Olster nelle sue stesse terre, bada. Se può confortarti,
non credo che a
loro spiaccia meno che a noi».
«Non vedo come una cosa
simile
potrebbe confortare chicchessia ».
Irisa dovette mordersi la lingua:
un primo gruppetto di orchi veniva già verso di loro. Erano
tanto alti in piedi
da superare quasi i loro cavalli, ma le zanne sporgenti e storte e le
narici
larghe e deformi toglievano ogni sorta di solennità a quelle
figure possenti e
atletiche.
«Ciao, ragazze dei
cavalli»
grugnì un orco con il volto coperto da un mascherone
«anche voi siete qui per rendere la
vita?»
Nessuno si scompose: era
notoriamente il modo degli orchi per chiedere se si andava in cerca di
battaglie.
«Salute, voi del Quarto
Popolo»
rispose Ariadne annuendo.
Gli orchi grugnirono soddisfatti:
quell’appellativo era un grande riconoscimento per loro, che
avevano faticato
molto per entrare nel Trattato dei Popoli stipulato quasi un secolo
addietro.
«Marceremo insieme,
dunque»
ridacchiò un altro orco ancora.
Irisa capì subito che
non c’era
gerarchia in quella marmaglia armata, quindi ciascuno parlava quando
meglio
credeva. Con un breve passaparola l’assembramento apprese
quella decisione – o
era più corretto dire che la decisione veniva presa
collettivamente, nel
momento stesso in cui si diffondeva? Irisa non sapeva distinguere con
certezza
le due cose – e si mise in movimento, animato da molta
più curiosità che diffidenza
al pensiero di combattere a fianco delle “ragazze dei
cavalli” che tante volte
i loro padri e alcuni dei più anziani avevano affrontato in
battaglia nelle
praterie del Nadorhai.
«Questa situazione mi
disgusta»
puntualizzò Irisa dopo mezz’ora di marcia.
Le file ordinate della Quinta
Cavalleggeri, che marciavano tutte alla stessa velocità
cercando di mantenersi
parallele mentre discendevano la pineta, erano ora frammiste a bande
scoordinate, schiamazzanti e spesso incomprensibilmente gioiose, come
se quegli
orchi fossero ansiosi di sperimentare la loro probabile morte imminente
contro
la minaccia più angosciante del mondo conosciuto.
«Sopporta in
silenzio» ordinò
Ariadne «tieni presente che probabilmente questa che vedi
è tutta la forza
militare rimasta alle Lande di Rah».
«Altre parole di
conforto».
«A proposito di
questo… in caso
non ce la facessimo, occorre che un gruppo di sei che sceglierai tu
tornino
indietro».
«Come…?»
«Hai capito
perfettamente. Non
possiamo rischiare che chiunque combatta dopo di noi sia senza alcuna
informazione come lo siamo noi ora».
«Informazioni,
eh?» s’intromise
un orco basso e curvo che stava alla destra di Irisa, quello col
mascherone di
terracotta rossa ornato da un ventaglio di piume multicolori; avanzava
zoppicando e appoggiandosi ad un bastone spesso dove erano graffiate
innumerevoli tacche, forse significanti il numero di nemici uccisi.
Sulla
schiena portava un enorme lama curva di legno che gli orchi chiamavano boomerang e che si diceva tornasse
sempre in mano a chi l’aveva lanciata, se era abile
abbastanza.
«Ci trovi qualcosa di
divertente,
orco?» si stizzì Irisa notando che il suo volto
mascherato sussultava come
quando si ride sotto i baffi.
«Voi e il vostro modo di
andare
in guerra! Le vostre tattiche macchinose e contorte si schianteranno
contro i
mostri del Chimaer come vento contro le montagne. Vedrete presto cosa
può fare
la vera forza, dove può spingere il vero coraggio».
«Credi?»
ribatté la ragazza prima
che Ariadne potesse intromettersi «Allora vedremo alla fine
della settimana chi
sarà ancora vivo».
Un altro orco si aggiunse alla
conversazione: «Oh, lo vedremo di certo, ragazza dei cavalli.
Ma sappi che
abbiamo un vantaggio: non speriamo affatto di essere
vivi alla fine della
settimana».
***
Calò la sera e dopo una
giornata
di marcia era sempre più difficile mantenere le file
ordinate e parallele di
cavalieri tra i fitti pini, persino gli orchi che si muovevano come un
branco
di animali della foresta avevano difficoltà. Inoltre erano
ormai nel versante
settentrionale del Graent-Halli, esposto ai venti gelidi del Mar
Bianco, così
che la temperatura pareva scendere ad ogni passo. Ma la cosa
più inquietante
era che da diverse ore molti si erano convinti, sebbene non passassero
mai
dallo stesso punto, che in qualche modo stessero ugualmente girando in
tondo.
In effetti, dietro i pini illuminati da un pallido sole,
c’erano solo altri
pini, illuminati allo stesso modo, altri stretti sentieri, altro
sottobosco
umido. Come se il mondo fosse diventato una unica sconfinata pineta.
«Cos’è
quello?» chiese un orco
indicando qualcosa di bianco che si muoveva tra gli alberi.
Irisa e Ariadne fermarono la loro
fila e, com’erano addestrate a fare, tutte le altre capofila
fecero lo stesso.
La macchia guizzò da un albero all’altro, come
indecisa se mostrarsi del tutto,
poi prese a correre senza incertezze verso di loro. Era una volpe dal
pelame
candido e dalla immensa coda, che si fermò solo quando fu
esattamente innanzi
alla punta del gruppo. Col muso allungato ma espressivo, troppo per un
semplice
animale, sembrò scambiarsi un cenno con la comandante, che
smontò da cavallo.
«Sono Ariadne Anistos,
comandante
della Quinta Cavalleggeri dell’Esercito Amazzone al servizio
di sua Maestà la
Regina Aryl del Nadorhai».
La volpe sembrò
accogliere quella
presentazione con una specie di sorriso, prima di compiere un movimento
rapido
e inaspettato con la coda. In un attimo, era stata sostituita da un
elfo
vestito di pelliccia bianca, dai colori talmente candidi da sembrare
quasi
albino. Sugli occhi glauchi inforcò un paio di piccoli
occhiali, prima di
profondersi in un vistoso inchino.
«Salute a voi, Ariadne
Anistos.
Sono Vonselas Sul Seix, arcidruido al servizio di Re Hion, Sovrano di
Vonselas
e di tutti gli elfi della neve».
Dopo un attimo di indecisione,
sembrò accorgersi degli orchi. Li squadrò tutti
con calma prima di concentrarsi
su quello che indossava il mascherone.
«Voi comandate questi
guerrieri
del Quarto Popolo, signore?»
L’orco gli venne incontro
claudicante e poi gli tese la mano che non reggeva il bastone inciso.
Irisa
notò per un attimo che la mano tesa non era rugosa o callosa
come quella di
altri orchi e la cosa la insospettì.
«Nessuno comanda chi
decide per
sé e gli orchi decidono per sé. Ma sono comunque
il più anziano in questa
tribù. Abrai Kub-Rul. Lieto di conoscervi, elfo della
neve».
La mano delicata
dell’arcidruido
strinse quella grande e forte di Abrai.
«Vonselas?» si
chiese Irisa a
bassa voce.
«La conosci?»
fece una sua
compagna.
«Come si potrebbe non
conoscerla?
In Astermagna sono rimaste solo quattro grandi città
elfiche…»
Ma, per quanto ricordava, era ben
distante dalla strada che avevano in mente di percorrere da Svalir-Bae
al Fjaran-Marmar.
«Siamo vicini a
Vonselas… ci
siamo persi, dunque?» osservò Ariadne
L’arcidruido Seix
stirò un
sorriso: «Non siete i primi. Le pinete del Graent-Halli
sembrano a volte voler
smarrire i pellegrini di proposito. Accetterete, credo,
l’ospitalità degli elfi
della neve?»
L’anziano Abrai si
grattò la nuca
e si diresse verso altri orchi. Non essendoci un vero capo, dovevano
decidere
il da farsi. Ariadne chiamò a sé le capofila con
un cenno, spiegando che
mancavano evidentemente diversi giorni di marcia per Fjaran-Marmar.
Irisa non
smise di fissare l’elfo, cortese nelle parole e nei modi, ma
freddo nello
sguardo. Quando tornò volpe, lo seguirono per ore tra i pini
e Irisa ebbe la
netta sensazione che, qualsiasi strada stesse facendo, nessuno avrebbe
mai
potuto trovare la stessa strada se non in quel modo.
«Un’illusione?
Una magia…»
ipotizzò Irisa mentre seguivano la volpe.
«Credo di
sì» soppesò la
comandante.
Si diceva che gli elfi della neve
fossero tanto ospitali e cortesi quanto determinati a controllare
rigidamente i
propri ospiti, ora riusciva a comprendere meglio il senso di quella
diceria: se
gli elfi della neve non avessero deciso di accoglierli, avrebbero
vagato nella
pineta per giorni, forse sarebbero semplicemente morti di fame e freddo
in quei
boschi.
«Non rilassiamoci
troppo»
sussurrò Ariadne.
Il sole era ormai scomparso dal
cielo, lasciandovi solo i residui della sua luce, quando finalmente la
pineta
si aprì e si ritrovarono in campo aperto. Certo, non poteva
esattamente
definirsi un campo: era piuttosto una sconfinata lastra di ghiaccio,
evidentemente una baia che racchiudeva una porzione di mare gelato. A
riconferma di ciò, la punta di una gigantesca nave
metallica, di quelle
risalenti al Mondo Antico, si affacciava obliqua dal ghiaccio come se
avesse
cercato di salvarsi dalle acque.
«Comandante, è
quantomeno strano.
Chi è questo elfo? Perché ci fidiamo di lui? E
come può, come possiamo pensare
di far passare un contingente armato a piedi sul ghiaccio?»
Alle parole di una delle
più
giovani, Irisa stava quasi per scattare a difendere Ariadne ma si
trattenne.
«Mi fido di lui
perché so dove ci
porta» affermò Ariadne senza indecisioni
«quel vascello in rovina, quello del
Mondo Antico… marca l’entrata a Vonselas, di
questo sono certa… è segnato nelle
mappe. Eravamo evidentemente fuori dal sentiero prestabilito e di
parecchio».
«Ma come possiamo aver
fatto un
errore del genere?» chiese la giovane amazzone senza perdere
di vista l’elfo in
forma di volpe che gironzolava sul ghiaccio come cercasse qualcosa.
«Nessun errore»
spiegò Abrai
intento, pareva, a grattarsi la schiena con vari frammenti conficcati
nel
bastone «è un sortilegio degli elfi della neve.
Quando temono per la loro
città, fanno in modo che chi entra nelle pinete del
Graent-Halli si smarrisca».
«È logica
circolare» obiettò
Irisa «dite che gli elfi ci avrebbero stregato
perché abbiamo invaso le loro
terre ma è proprio il loro sortilegio che ci ha portati
nelle loro terre».
«Forse è il
loro modo per
convocarci» suppose l’orco.
«Ho studiato a fondo la
civiltà
elfica e non ho mai sentito di questa usanza. Gli elfi ci hanno fatto
un grave
sgarbo, di proposito».
«Non lo avete sentito,
questo è
certo» concesse Abrai «ma questo perché
i vostri testi riportano solo tutto ciò
che è provato e certo. Ma esistono le dicerie, le leggende,
le fiabe, i miti. E
spesso aiutano a comprendere più dei dati e dei
documenti».
«Certo amate molto far
filosofia,
per essere un orco».
Prima che Abrai potesse
rispondere, l’arcidruido Seix era già tornato da
loro, stavolta in forma di
elfo.
«Potete attraversare
adesso. Il
ghiaccio vi reggerà tutti, purché teniate le file
serrate».
In effetti ad Irisa parve che
l’aspetto della calotta fosse cambiato leggermente, ma non
sapeva mettere a
fuoco in cosa. Ad ogni modo, attraversarono senza problemi, il ghiaccio
sotto i
loro piedi solido come pietra.
***
Uscendo dal caseggiato dal tetto
appuntito, ma con tutti i tratti dell’architettura elfica
– contorni morbidi,
decori floreali, pietra chiara – la sensazione di fastidio
agli occhi si acuì
sensibilmente. Irisa riusciva a stento a tenere aperti gli occhi e
capì subito
il perché: ad eccezione delle calde luci delle vetrate,
tutta la città elfica
di Vonselas era avvolta in un innaturale bagliore azzurrino che ora,
sotto il
cielo notturno, risaltava in maniera quasi impressionante. Eppure era
una città
molto viva: fino al tramonto gli elfi avevano occupato le strade come
in
qualsiasi capitale umana, c’erano comitive che
chiacchieravano, bambini che
giocavano e mercanti che esponevano la merce; a parte i loro modi
eccessivamente pacati, gli elfi della neve sembravano del tutto simili
agli
umani nelle città del Nadorhai. Solo quel persistente
azzurro era in qualche
maniera alienante, eppure nessuno di loro sembrava esserne disturbato.
«Strano, vero?»
Irisa sobbalzò e quasi
mise mano
all’arma prima di riconoscere dietro di sé
l’orco anziano, Abrai.
«Siete voi, Abrai
Kub-Rul. Cosa
sarebbe strano?»
«Come sarebbe a dire,
cosa?
Questo luogo è strano».
Indicò col bastone uno
dei molti,
maestosi alberi che si innalzavano dalla membrana di ghiaccio su cui
era
edificata la città.
«Provate, ad esempio, ad
avvicinarvi a quello».
Irisa accolse il suggerimento e
rimase immediatamente a bocca aperta: l’albero non era
realmente un albero, ma
ghiaccio che sembrava cristallizzato spontaneamente in una forma quasi
identica
ad una grossa quercia dal tronco scuro e dai rami spogli e contorti,
eppure
vagamente illuminato da quella iridescenza azzurra.
«Questo
è… ghiaccio! Ghiaccio in
questa forma. Mi… mi domandavo perché ci fossero
degli alberi così diversi
dagli aghifogli del Rah… ma questo è…
sbalorditivo».
«Già,
sbalorditivo, vero?
Immagino che anche voi siate infastidita da questa luce azzurra. Ora
capite che
questo luogo non segue le ordinarie leggi della natura. In un certo
senso, la
città stessa è una manifestazione di magia
elfica. Del resto, come potrebbe una
città reggersi su di un lago ghiacciato?»
Irisa toccò il ghiaccio
con mano,
ancora incredula. In tutta la città c’erano altre
formazioni simili a cespugli
fioriti, piante grasse, frutti tondeggianti: era tutto scolpito nel
ghiaccio,
tutto attraversato dalle sfumature più fredde
dell’arcobaleno. Era puro potere,
manifestato in quella forma sotto gli occhi di ogni cittadino di
Vonselas, ogni
giorno.
«Non avrei immaginato mai
di
vedere un luogo del genere in tutta la mia vita…
è così… diverso da tutto
ciò a
cui sono abituata».
«Questo significa
diventare più
saggi: conoscere il diverso».
«Parlate in modo davvero
strano,
per un orco».
Gli sembrò di percepire
che
sogghignava sotto la maschera: «Non mi avete prestato
attenzione, mi pare».
Non fece in tempo a finire la
frase che entrambi furono distratti da qualcos’altro. La
Comandante Ariadne e
l’arcidruido Seix venivano verso di loro con passo deciso
seguendo la strada
principale tra le case appuntite.
«Qualcosa non va, ragazza
dei
cavalli?» chiese Abrai.
Ariadne non spiccicò
parola, fu
Seix a parlare: «Il Re di Vonselas vi chiede udienza, orco
anziano».
«Non posso parlare e
decidere per
la mia tribù. Essa non ha nessun capo sopra di
sé».
«Ma a noi occorre un
rappresentante con cui parlare».
«Posso…
cercare di accontentarvi.
Ma dovrò parlarne col resto della
tribù».
Irisa guardò la sua
Comandante
cercando di capire cosa stava accadendo, ma non vi lesse nulla.
«E sia, orco anziano. Vi
aspetteremo nella piazza principale».
Andando di fretta,
l’andatura
zoppicante di Abrai era ancora più evidente.
«Sono convocata anche io.
Ci è
permesso portare con noi un guardiano» disse improvvisamente
Ariadne «e vorrei
che venissi tu con me, Irisa».
«Perché?»
chiese la ragazza,
sempre più disorientata.
«Vieni e basta».
***
Dopotutto, nel continente erano
rimasti solo quattro assembramenti stabili di elfi e quindi solo
quattro
Sovrani Elfici. Era normale, pensava Irisa, essere intimorita al
cospetto di
una delle persone più influenti del continente. Ma la
realtà superò ogni
aspettativa. Da fuori, il cancello della dimora di Re Hion sembrava un
edificio
come tanti altri, che si aprì al minimo cenno di una mano di
Seix (Irisa
sospettò che non si sarebbe aperto in nessuna altra maniera)
incassato nella
fiancata di una montagna. Avevano percorso un largo corridoio di legno
intarsiato per diversi metri, fino a entrare in una ampia sala ovale.
«Maestà»
salutò semplicemente
Seix inginocchiandosi.
Il ghiaccio intorno a loro non
era vuoto. Intrappolati nel bianco Irisa poteva vedere un bel numero
– ad
occhio nudo ne poteva già distinguere mezza dozzina
– di creature immense
risalenti ad un’altra era. Erano rettili giganteschi dalle
forme molto diverse
tra loro, ma tutti possenti e feroci, perfettamente conservati come in
una teca
di cristallo.
«Ma
cosa…»
Non concluse la frase, vedendo
che Ariadne si inginocchiava pensò piuttosto ad imitarla
subito. Con sua
sorpresa, nemmeno Abrai si astenne dal chinare la testa, subito seguito
dalla
sua guardia, un giovane orco impostato con un’ascia bipenne
sulle spalle.
«Maestà, ecco
i visitatori».
Il minuto corpo di Hion, avvolto
in una morbida pelliccia nera, riposava a gambe incrociate al centro di
una
struttura formata da una bolla vitrea, un trono trasparente per quel
piccolo
sovrano. Sul suo volto di elfo bambino c’era
un’espressione serena e quasi
sognante.
«Salute, guerriere
amazzoni.
Salute, gente del quarto popolo».
Non appena aprì gli
occhi,
incredibilmente, anche gli esseri preistorici nel ghiaccio fecero lo
stesso,
sgranarono i loro occhi inumani fissando tutti loro. A Irisa
sembrò che
l’intera sala ghiacciata avesse emesso un respiro che le era
arrivato come una
vibrazione, fino alle ossa. Ogni cosa, a Vonselas, era creata dalla
magia;
quella sala era il cuore di quella magia, il nucleo da cui si emanava,
ad Irisa
sembrò che le rizzasse i capelli in testa.
«Salute a voi,
maestà»
ribatterono Ariadne e Abrai sostanzialmente in coro.
Irisa si sentì tremare,
impressionata da quel ragazzino dall’immenso potere. Poteva
sentire in lui il
malessere che ogni sovrano elfico era costretto a provare se la sua
terra
soffriva, come stavano certamente soffrendo le terre che circondavano
Vonselas;
percepiva il dolore e l’angoscia fremere sotto la pelle del
Re, eppure la sua
espressione ed il suo tono non lasciavano trasparire nulla nonostante
in
qualche modo quel dolore ora fosse entrato dentro tutti loro.
«Ci inchiniamo umilmente
al
vostro cospetto, maestà. A nome della Regina Aryl vi porto i
saluti del Regno
del Nadorhai e, personalmente, vi esprimo tutta la nostra gratitudine
per
l’ospitalità dimostrata».
Hion sorrise: «Grazie,
Comandante
Ariadne. Vi chiederete perché vi ho convocato qui».
L’idea di Abrai, che gli
elfi li
avessero sostanzialmente costretti con la magia a deviare verso la loro
città,
trovò conferma in quelle parole.
«Immagino sia per darci
un
messaggio» esordì Abrai «so che, per la
sua posizione, la Bocca del Chimaer vi
ha impedito la maggior parte delle comunicazioni con il Rah».
Hion annuì con la testa:
«Esattamente,
orco anziano. Saprete che Re Olster ha mobilitato alcuni clan guerrieri
delle
sue terre e un vero e proprio esercito dei suoi lupi guardiani per
difendere Fjaran-Marmar.
E saprete che questo dispiego di forze è sparito nel
nulla».
Seguì un breve silenzio:
nessuno
aveva bisogno di confermare quelle parole.
«Vi posso dire con
assoluta
certezza cosa ha inghiottito
quell’esercito. Si è trattato di uno spasmo della
Bocca del Chimaer».
«Uno… spasmo? Che significa?»
Ariadne sembrò voler
incenerire Irisa
con lo sguardo per aver parlato quando non doveva, ma non ne ebbe il
tempo. Re
Hion, per nulla infastidito dall’intrusione, si
spiegò immediatamente.
«L’influenza
del Chimaer non ha
un raggio stabile. A volte si espande all’improvviso e in
quei casi corrompe
qualcosa nel suo raggio d’azione. A volte corrompe solo gli
oggetti inanimati,
altre volte solo gli esseri senzienti, altre volte ancora solo certe
categorie
di oggetti. Come certamente saprete, non ci sono criteri precisi.
Chiamiamo
queste vibrazioni improvvise spasmi della
Bocca del Chimaer».
«Quindi state
dicendo…»
«…che uno
spasmo della Bocca del
Chimaer ha inghiottito e corrotto le forze mobilitate sulla
spiaggia» concluse
Hion completando la frase di Ariadne.
«Ebbene, qual
è il messaggio da
recapitare?» tagliò corto Abrai.
«È molto
semplice. Noi chiediamo
formalmente a Re Olster e a chiunque altro voglia sostenerlo di non
inviare
altri soldati nel Fjaran-Marmar».
Pur semicoperta dall’elmo
rosso,
l’espressione sgomenta di Ariadne si distingueva benissimo.
«Non… non
direte sul serio».
«Io comprendo il modo di
pensare
dei Re umani. Se non si inviassero eserciti nei pressi della Bocca del
Chimaer,
il vostro popolo penserebbe che non siete in grado di occuparvi del
problema.
Sarebbe il panico, il terrore, la follia forse. Ma inviare dei soldati,
laddove
non possono fare altro che morire per cotali ragioni, è
quasi un sacrificio
umano. La mia gente non lo gradisce, né io intendo
permetterlo d’ora in poi».
«Maestà»
obiettò Ariadne dopo
qualche minuto di un silenzio di ghiaccio, dove Irisa non aveva neanche
la
forza per parlare «il nostro compito è combattere
le creature che la Bocca del
Chimaer partorisce sulle nostre terre. Se nessuno se ne
occupasse…»
«Se e quando
l’orda arrivasse
alle nostre porte, avrebbe senso combatterla. Prima di allora,
avvicinare degli
uomini ad una Bocca del Chimaer non produce alcun risultato utile. Nel
caso in
questione le armate non sono semplicemente state trucidate, ma invece
sono
state corrotte dall’influsso del Chimaer. Sono chimerici
adesso… parte dell’orda
che dite di voler combattere. È stato peggio che lasciarli a
difendere le loro
case, non trova?»
«È questo il
messaggio, allora»
fece l’orco, stranamente ben poco turbato dalle parole del
sovrano elfico.
«Noi consegneremo il
messaggio
come voi chiedete, maestà. Ma non potete non considerare
cosa accadrebbe alle
Lande di Rah se si lasciasse incustodito la Bocca del Chimaer del Mar
Bianco».
Hion sospirò appena:
«Cosa
accadrà alle Lande, dite? E cosa invece accadrà
al mondo intero? Questo è il
terzo caso di Bocca aperta
nel mondo
conosciuto. Se ne apriranno altri? Ancora chiedo: se bastassero
già questi a
inghiottire tutto?»
«Ma alcuni sono stati
chiusi!»
sbottò Irisa, indignata dallo scherno verso il suo esercito
e la sua lotta; ma
appena fece per alzarsi, Ariadne le afferrò una spalla quasi
artigliandola e la
costrinse a rimanere in ginocchio.
«Chiusi? Certo, alcuni lo
hanno
detto, ma la verità spesso si perde nella storia. Sono stati
chiusi o si sono
chiusi da soli? Ricorderete di maghi che secoli fa si vantarono di aver
chiuso
con le loro arti la Bocca del Chimaer nelle isole degli elfi del
Sole… che poi
si diressero a quella nel continente che in un tempo ancor
più antico ospitava
la mia gente e i loro domini. Non fu mai sigillata, quella Bocca del
Chimaer… e
oggi chiamiamo quella terra il Continente Rubato… la terra
che il Chimaer ha
sottratto alla mia gente».
«Maestà,
queste sono leggende
che…»
«Conosco le vostre leggi
e i
vostri principi» interruppe Hion e poi recitò con
tono rispettoso: «“Solo ciò
che può essere documentato fa parte della
Storia”… non dice così un Comandamento
di Runeh?»
«Pur supponendo che
esista un
cosiddetto Continente Rubato» insistette Ariadne
«volendo seguire quest’ordine
di pensieri, vi chiedo: se una sola Bocca ha potuto inghiottire un
continente
in passato, cosa dobbiamo pensare ora che l’Astermagna
è toccata da due di esse,
da nord e da est?»
«Chi può
dirlo? Un tempo c’erano
tre Bocche del Chimaer schiuse
intorno all’Isola di Tamerlyn eppure oggi sono
richiuse».
«Perché gli
arcidruidi degli elfi
del Sole le hanno sigillate».
«Questo è
quanto sostengono
loro».
«Questo dice la
storia».
Irisa sentì i due orchi
accanto a
loro ridacchiare: per loro, tutte queste disquisizioni di principio
erano una
perdita di tempo e dibattere se la storia dovesse basarsi su precise
documentazioni piuttosto che su leggende tramandate da sculture e
disegni
allegorici era interessante quanto discutere di che forma dovessero
avere i
sassi.
«La storia è
assai meno oggettiva
di quanto credete, Comandante. Ma non voglio rischiare di offendere la
vostra
cultura con questa diatriba. Quanto intendevo è chiaro,
spero…»
«Intendete dire che sia
la mia
gente che la vostra vanta una comprensione ed un controllo sule Bocche
del
Chimaer che non possiede. Questo ovviamente non è del tutto
infondato, ma ciò
non significa che schierare i nostri eserciti contro la Bocca del
Chimaer sia
insensato».
“Non significa che sia
insensato”? Come sarebbe? Se davvero non ne sappiamo
nulla cosa stiamo andando a fare?
Irisa si sorprese di sé
stessa,
di aver avuto quel pensiero improvviso che sembrava spuntato dal nulla
e al
contempo gli suonava molto più semplice e naturale di quello
che Ariadne
sosteneva.
«Capisco la vostra
posizione»
concesse Re Hion «la mia è una semplice richiesta
che, date le mie difficoltà
nel comunicare col mondo esterno, vi sto chiedendo di consegnare a chi
può
considerarla».
Irisa digrignò
inavvertitamente i
denti: quella conversazione era risultata alquanto sgradevole.
«Neppure io voglio
offendere voi,
maestà. Vi prego di perdonarmi per avervi contraddetto e
ovviamente vi
garantisco che consegneremo il messaggio. Tuttavia concedetemi di
dirvelo
un’ultima volta: non comprendo. Da come parlate, sembra non
ci si possa basare
su nulla, che l’unica certezza sia l’incertezza.
Che profitto viene dal pensare
così?»
Re Hion non rispose
immediatamente, anzi scambiò uno sguardo col suo consigliere
come fosse incerto
su cosa rispondere.
«Profitto» ripeté «forse
avete ragione, non c’è alcun profitto a
chiamare l’ignoto col suo nome. Ma è una
professione di verità».
«E
questo è tutto quello che c’è da dire?
Che l’ignoto è ignoto?»
s’intromise di
nuovo Irisa ma stavolta Ariadne, sovrappensiero, non ci badò.
«Non è forse
questa l’essenza
stessa del Chimaer? La punizione per ciò che noi mortali
abbiamo realizzato nel
Mondo Antico… non smettiamo mai di sperare di poterlo
governare, di
comprenderlo… ma se così fosse come potremmo
espiare le nostre colpe?»
«In
quest’ordine di idee, come si
potrebbe escludere che questa espiazione non porti con sé la
fine del mondo
stesso?»
Re Hion e il suo consigliere Seix
si scambiarono una rapida occhiata, prima che lo sguardo rassegnato del
piccolo
elfo tornasse sui quattro che stavano inginocchiati al suo cospetto.
«Vi ho forse fatto
credere che
sto escludendo tale eventualità?»
Nessuno aggiunse altro. Uno ad
uno i rettili preistorici intrappolati nel ghiaccio chiusero gli occhi,
il
ragazzino seduto sulla bolla di vetro li chiuse per ultimo, dando a
Irisa
l’impressione che il giovane elfo non fosse Re Hion, ma solo
la bocca con cui
l’entità nota come Hion parlava ai mortali.
«Sua altezza vi ringrazia
per
l’attenzione» concluse Seix.
***
Irisa si svegliò di
colpo
rovesciando le coperte. Le venne da strofinarsi gli occhi e
cercò
svogliatamente la fonte della luce calda che invadeva la stanza. Era un
fuoco
acceso nel camino, dall’altro lato della stanza. Ariadne era
seduta davanti ad
esso, ancora nuda, con uno sguardo mobile eppure perso, quasi fosse
tutta presa
dall’arredamento elfico intorno a loro. Irisa per prima cosa
si legò d’istinto
i capelli in alto, nella sua solita coda arruffata, quindi
poggiò i piedi sul
pavimento freddo e le venne accanto in silenzio, inginocchiandosi e
ponendole
la testa sulle gambe.
«Non riesci a
dormire?»
Ariadne le carezzò la
testa:
«Scusa, ti ho svegliata?»
«No… immagino
di essere nervosa,
stanotte».
Irisa le baciò un fianco
e poi si
sollevò un po’ per finire contro il suo seno, quel
seno grande e morbido che le
aveva sempre invidiato. Con un dito carezzò le sue labbra.
«Sei
preoccupata?»
Ariadne se la portò
vicino con le
mani e Irisa accettò di buon grado, supponendo che lei
volesse baciarla. Invece
la fissava con una serietà ed una tristezza che lei non gli
aveva mai visto nei
suoi grandi occhi color miele.
«E tu? Un sovrano elfico
ha
appena detto che tu… che tutte noi siamo carne da macello e
che forse il mondo
stesso è condannato. Non sei preoccupata? O
meglio… arrabbiata?»
Fu lei a baciarla brevemente, per
poi stendersi di nuovo su di lei, guardando fuori una di quelle strane
strutture di ghiaccio così incredibilmente simili ad alberi,
quel segno
concreto di magia.
«Questi elfi non sono
cattivi, ma
sono gente strana. Fra un paio di giorni avremo raggiunto Fjaran-Marmar
e
abbattuto ogni singolo chimerico che troveremo. Qualsiasi cosa pensino
loro non
fa differenza per me. Credo nei Comandamenti, credo nella Regina, credo
nel mio
esercito e quello che so e che ha sempre funzionato è
questo: che tutto ciò che
esce da una Bocca del Chimaer va sterminato».
«Ci
credi…»
Irisa fu attraversata per un
unico istante dal desiderio di confessare ad Ariadne che aveva
dubitato,
profondamente, di quell’insieme di idee e certezze su cui
basavano le loro
azioni. Ma l’istinto le consigliò di evitarlo.
«Ma certo. E voglio
dimostrarlo,
lo voglio davvero… sono anni che lo voglio… come
tutte le altre, certamente».
Ariadne disse quasi bisbigliando:
«In me… in me credi?»
Si voltò di scatto: non
l’aveva
mai sentita con una voce così rotta, così
vulnerabile. Forse anche Ariadne non
voleva confessare gli stessi timori?
«Che dici? Certo che
credo in te…
l’ho sempre fatto. Come Comandante… come sorella
amazzone… e come mia
compagna».
«Sei certa di quello che
dici?
C’è un ordine che devo darti».
Irisa stirò un
sorrisetto
imbarazzato: «Non ho mai disobbedito ad un tuo ordine, men
che meno quando
siamo entrambe nude…»
Rimase profondamente delusa.
Provocava molto raramente e quando lo faceva Ariadne reagiva sempre con
il
massimo dell’entusiasmo. Invece stavolta parve non averla
nemmeno sentita.
«Non ti
piacerà, Irisa».
Era davvero seria, pensò
prendendole
entrambe le mani e baciandole: «Farò tutto quello
che vuoi, Ari».
«Ti ho chiesto di
scegliere sei
ragazze che possano tornare indietro per fare rapporto sulla situazione
nel
caso perdessimo la battaglia».
«Non la perderemo, ma me
ne
ricordo. Ci ho già pensato».
«Tu devi essere una delle
sei».
Irisa le lasciò le mani
con tanta
fulmineità che sembrò aver preso la scossa. Ebbe
l’impulso di allontanarsi da
lei e lo assecondò, così rapidamente che
inciampò all’indietro sul tappeto di
pelliccia. Poi un secondo impulso le fece domandare se non era stata
troppo
brusca, se forse non l’aveva ferita. Ma alzando la testa
verso la sua compagna,
vide che anche in quel caso non aveva mutato espressione.
«Tu devi essere una delle
sei»
ripeté, quasi meccanicamente.
«No».
«Hai detto che avresti
fatto
qualsiasi cosa».
«Non mi stai dando un
ordine da
Comandante, ma da mia fidanzata, e oltre ad essere ingiusto
è anche offensivo.
No. Assolutamente no».
Si alzò: sentiva
addirittura la
necessità di rivestirsi. Parlava freneticamente, senza
riuscire a concludere le
frasi e riusciva a stento a maneggiare i suoi vestiti.
«E poi tu… ed
io non… io…»
«Irisa…»
«Non… non ci
credo… non ci credo
che vuoi farmi questo!»
«Irisa».
«Perché,
perché ora?»
«Irisa Floran!»
Si fermò, ma non
riusciva a
guardarla in faccia. Parlò ancora piena di rabbia.
«Sei sempre stata chiara
con me.
Se volevo amarti, non dovevano esserci dubbi sul fatto che non
favorissi me
sopra le altre. Ho accettato di essere cauta, di non farti nemmeno una
carezza
in pubblico. Ho accettato tutti i compiti più pesanti o
più pericolosi che mi
hai affidato. Se ci scoprissero, nessuna corte marziale ti potrebbe
contestare,
nessuno oserebbe dire che mi hai trattato meglio delle altre. In cambio
di
tutto questo, non ho mai neppure una volta potuto baciarti alla luce
del sole…
è stata dura, molto dura!»
«Lo so» ammise
l’altra, ma senza
dare segni di cedimento.
«Un anno di sacrifici! E
ora…
proprio ora! Prima della battaglia più importante della mia
vita, mi chiedi di
scappare? Proprio adesso metti la mia vita al di sopra di quella delle
nostre
compagne!»
Stava sbagliando qualcosa in
quella conversazione e lo sapeva: neanche in quel caso Ariadne
cambiò
espressione. Cosa non le stava dicendo?
«Non ti ho chiesto di
andare come
mia fidanzata, ma come mia subordinata. C’è una
ragione ben precisa».
Irisa attese un po’, poi
lasciò
cadere i vestiti, di nuovo nuda davanti a lei: il senso di quel gesto
era
chiaro, ma lo esplicitò comunque con le parole.
«Scusami, io…
devo lasciarti
spiegare, credo… dovrei saperlo che tu… non ti
abbasseresti a questo… non coscientemente».
«Neanche
inconsciamente» precisò
con fermezza «c’è un motivo, ti
ripeto».
Irisa tornò
silenziosamente
accanto alla sua compagna. Tremava di freddo, Ariadne coprì
lei e sé stessa con
una coperta.
«Non mi sono mai
vergognata di
essere tua, prima di stanotte. Se c’è un motivo
dimmelo, ti prego. Il solo
dubbio che tu possa… favorirmi, mi distrugge. Mi
umilia».
«C’è
un motivo, ti ripeto. Una
Comandante non può abbandonare le sue sorelle amazzoni in
battaglia. Eccetto
me, però, solo quei due orchi – che non considero
– e infine tu, avete udito
quel messaggio. Non voglio darlo ad altre, ma non voglio nemmeno che
vada
perduto».
Irisa spalancò gli
occhi,
stupita: «Cosa stai dicendo? Quel messaggio era una
farneticazione! Abbiamo
passato ogni singolo mese in accademia a farci ripetere quanto non ci
sia
peggior minaccia dei chimerici. Quell’elfo ci ha gentilmente
chiesto di
lasciarli perdere e fare come se non ci fossero. Vuoi riportare questo messaggio alle orecchie della
Regina Aryl?»
Ariadne la strinse con forza, ma
senza dolcezza: come l’aveva stretta già
un’altra volta, quel giorno, al
cospetto del Re Hion.
«Ho solo un dubbio. Solo
un
piccolo dubbio che quel messaggio non sia un delirio. Un dubbio minimo,
ma…»
«Il senso di quel
messaggio… di
tutto quello che l’elfo ha detto… è che
niente di quello che facciamo ha
realmente senso. Se fosse vero, a chi mai dovremmo dirlo?»
Ma a quel punto della
conversazione, il pensiero di confessare i suoi dubbi ad Ariadne non
sembrava
più inopportuno,
bensì piuttosto spaventoso.
Ariadne la strinse ancora
più
forte, scuotendola: «Iri! Quante volte hai sentito parlare
dei chimerici, nella
tua vita?»
«Quante…
volte…? Non lo ricordo…
tantissime…» ormai l’incerto terreno di
quella conversazione sconfinava
nell’angoscia.
«E quante volte qualcuno
ti ha
parlato delle loro origini? O di come mai spariscono di colpo? O di
cosa
vogliano i chimerici, in realtà, di perché li
combattiamo?»
«A… Ari, mi
stai facendo male…
lasciami».
«Rispondi! Quante
volte?»
«Mai! Lo sai…
la Chiesa si occupa
di queste cose! È solo a questo che serve, quella dannata
Chiesa. Sono tutte
cose che mi hai insegnato tu, Ari! Che ti prende stanotte?»
La lasciò, ma
contrariamente alle
sue previsioni Irisa non uscì dalla coperta che le avvolgeva
entrambe, né si
allontanò.
«Anche a me le
insegnò una
sorella di grado più alto. Anni fa come poi io
l’ho insegnato alle mie sorelle
minori… come te. Però…»
«Però…?»
Le venne un dubbio. Forse, molto
semplicemente, il momento della grande prova rappresentato dalla Bocca
del
Chimaerv si avvicinava e Ariadne non aveva altro che una naturale e ben
comprensibile paura. Forse quel che avrebbe davvero voluto erano
rassicurazioni.
«Ari!»
chiamò, carezzandole una
guancia «Facciamo un patto. Arriveremo lì con le
altre… combatterò e vincerò,
ne sono certa. Ma se invece le cose si dovessero mettere
male… allora andrò.
Andrò subito, appena lo ordinerai! Riporterò
quello che è successo e il
messaggio di Re Hion. D’accordo?»
«Sicura che lo
farai?»
«Sicura. Come sono sicura
che non
ce ne sarà bisogno».
La baciò con passione.
«È solo paura.
Sarà una battaglia
importante. Abbiamo solo un po’ di paura, è
normale» la rassicurò ancora e
ancora, senza però convincere per prima sé stessa.
***
Passeggiò per un
po’ lungo la
strada ghiacciata: la luce gelida dell’alba si
allargò rapidamente su tutta
quella città innaturale che era Vonselas. Sebbene fosse
molto presto, diversi
elfi iniziavano a traversare le strade pronti a intraprendere le loro
faccende
quotidiane.
«Cosa fate
qui?» chiese Irisa
all’orco che trovò seduto sotto un grande albero
di ghiaccio, su un promontorio
da cui si vedeva una buona porzione di città.
«La mia tribù
preferisce rimanere
accampata fuori. A me invece piace questa città»
spiegò Abrai togliendosi il
mascherone dal viso.
«Ma…!»
Era senza parole: a volto
scoperto Abrai Kub-Rul aveva una barba grigia ben curata, tagliata
tutta alla
stessa lunghezza, come i capelli intorno alle tempie. Si
aggiustò gli
occhialini tondi dall’aria preziosa che gli stavano
scivolando sul naso. Aveva
qualcosa di raffinato e austero nello sguardo, se non fosse stato per
le zanne
ricurve e i vestiti di pelli, sarebbe stato l’individuo
più distinto che Irisa
ricordasse di aver mai visto.
«Hai un viso…
diverso da quello
che pensavo, sotto la maschera».
L’orco rise:
«Già! Ti immaginavi
un muso da guerriero pieno di cicatrici, eh?»
«Bè,
sì».
«E invece no. Sono
tornato alla
mia tribù qualche anno fa. Per la maggior parte della mia
vita ho vissuto come
poeta di corte in Nistria».
«Un orco
poeta?!?»
«Ci sono anche orchi
pittori e
musici, cosa credi?» ribatté indispettito
«Ero anche molto apprezzato. Forse
senza saperlo hai studiato qualche mio sonetto da piccola. Se fossi
nistriana
ne sapresti qualcuno a memoria, so che li insegnano nelle
scuole».
«Oh. Eri…
felice?»
Abrai sospirò:
«Ma certo. La vita
di corte è fantastica. Cibo raffinato, ottime letture,
persino belle donne ho
avuto».
«Risparmiami i
dettagli»
interruppe Irisa con un piccolo brivido di disgusto.
«Ehi, sei un
po’ razzista,
ragazza».
«Io? Non è
vero! Io…»
Si voltarono entrambi: erano
piuttosto sicuri di aver visto un’ombra immensa, una massa
scura muoversi sotto
la calotta di ghiaccio su cui Vonselas era costruita, come qualcosa di
indefinibile che nuotava sotto la superficie. Ma nessuno degli elfi che
sotto
di loro si affaccendavano reagirono come se la cosa potesse
rappresentare una
minaccia. Per loro era normale come vedere gli uccelli in cielo.
«Che… che
posto assurdo…»
«Già, ma mi
piace scoprire luoghi
come questo» ammise Abrai osservando il suo mascherone.
Irisa gli si sedette accanto.
«Allora, orco…
perché sei tornato
alla tribù?»
Abrai guardò il cielo
come se i
ricordi volassero lì tra le nuvole e dovesse riacciuffarli
con lo sguardo.
«Avevo avuto molte
dispute con la
mia famiglia. Ero un guerriero talentuoso, dicevano, un giovane
promettente. Ma
a me... non interessava molto. Ho vissuto come ho voluto. Poi mio padre
è
morto, poi mio fratello, sono rimaste solo le mie sorelle e mia madre.
Sono
vecchio ormai, volevo provare… a farle contente. Morire come
un vero orco.
Quindi tre anni fa… sono tornato».
«Morire»
ripeté Irisa «perché voi
orchi siete convinti che si vada in guerra per morire?
Sembra quasi che ci speriate».
«Sciocca bambina, cosa
credi che
sia la guerra?» chiese Abrai Kub-Rul rialzandosi e indossando
nuovamente il
mascherone «Non è altro che questo…
migliaia di storie che si interrompono, che
spariscono… prima sono uniche…
speciali… poi… finiscono nella spazzatura senza
che nessuno le ricordi. Prepararsi a diventare spazzatura…
morire mangiati dai
corvi… significa solo avere chiaro il senso di
ciò che si fa».
Irisa rimase sovrappensiero.
«È stato bello
parlarti, ragazza
dei cavalli. Ora devo…»
«Aspetta»
scattò lei «c’è una
cosa che voglio chiederti».
Abrai assentì con un
breve e
ironico inchino.
«Chiedi allora».
Avrebbe voluto chiedere se i
timori di Ariadne e i suoi – tanto profondi che non aveva
avuto il coraggio di
confessarli a nessuno – fossero in qualche modo giustificati,
se erano un segno
da non sottovalutare. Ma ovviamente non poteva chiederlo a lui.
«Quello che abbiamo
sentito… da
Re Hion… tu cosa ne pensi?»
Abrai si strinse le spalle:
«Perché ti turba?»
Irisa abbassò il viso:
«Il
Chimaer è un mistero. Rappresenta l’ignoto. Questo
lo so. Ma arrivare a
definirci dei sacrifici umani...».
Abrai iniziò a
discendere dal
promontorio verso le strade della periferia di Vonselas, dandole le
spalle.
Parlò piano, senza voltarsi a guardarla.
«Tutti i soldati sono
sacrifici
umani. Credono di sapere perché vanno in guerra, ma non lo
sanno. E prima di
accorgersene… sono finiti nella spazzatura».
***
All’alba di due giorni
dopo
raggiunsero una spiaggia di ciottoli chiari stesa su un mare grigio e
immobile.
Quella costa bianca, che si spandeva per chilometri, costituiva la
regione
delle Lande di Rah nota come Fjaran-Marmar.
«E…
eccolo» annunciò Ariadne dopo
una brevissima occhiata.
«Io…»
Irisa non riuscì a
spiccicare più un’altra parola e si
rammaricò amaramente di non avere una Dea
da pregare, a differenza dei fedeli sparsi negli altri cinque regni.
Abrai si avvicinò ai
loro
cavalli: «È proprio lui».
Traslucida, evanescente, la Bocca del Chimaer si allungava per
diversi chilometri in tutta la sua innaturalezza. Se Irisa avesse
voluto
descriverlo, poteva solo paragonarlo ad una gigantesca spina dorsale
appartenuta ad un animale crestato, un oggetto morto che galleggiava
pigramente
sull’acqua, ma anche quella descrizione non rifletteva a
pieno ciò che era, non
rifletteva i suoi movimenti ritmici come se si spostasse pigramente sul
fondale
marino, i suoi innaturali colori di un nero cielo notturno trapuntato
da un
firmamento rosso violaceo e il fumo nero che veniva progressivamente
spruzzato
– o forse, espirato – fuori in densi getti sottili.
Il fumo nero era a sua
volta incredibile, perché appena era libero in aria si
condensava in forme
geometriche, forme che poi fluttuavano senza scopo formando una nube di
prismi
neri al di sopra di quella cresta. Era, nel complesso, una forma che
non aveva
significato, non aveva funzione, non rispondeva ad alcuna
classificazione; solo
in un punto, verso il centro, la cresta si inarcava e sembrava tenere
incastonato in sé un globo perfettamente sferico.
«Ecco»
osservò Abrai emozionato,
indicando col bastone quella sfera «è proprio vero
che ciascuna Bocca del
Chimaer è diversa dagli altri, questa non assomiglia per
niente a quella che
vidi da bambino. Ma quel globo è uguale a quello che vedono
i pochi che tornano
dal cuore della Bocca del Chimaer nell’Oceano Orientale.
Quello… è la fonte del
Chimaer».
«La fonte del
Chimaer…» fece eco
Irisa , tremando: stava osservando quel globo e questo, per qualche
ragione, le
dava una sensazione che oltrepassava di parecchio quella che avrebbe
saputo
definire come vertigine.
«Smetti di fissarlo,
Irisa»
raccomandò Ariadne e la ragazza fu felice di sentire la voce
della sua
Comandante e compagna.
Si rese conto che se non avesse
sentito quella voce non avrebbe avuto idea dello stato in cui la sua
mente
avrebbe potuto essere in quel momento, dove quella sfera avrebbe potuto
risucchiarla semplicemente guardandola fissa. Distolse lo sguardo,
avvertendo
subito una grande emicrania.
«L’orda
chimerica… dov’è?» chiese
appena fu di nuovo in sé.
«Ecco che arriva
qualcuno»
avvertì l’orco, inspiegabilmente felice, rivolto
ad uno stormo di strane figure
volanti.
Irisa li vide. Un tempo erano
stati umani, forse bambini, ma certamente non lo erano più.
Quello che era
stato il cranio si era gonfiato e riempito di buchi, come una grossa
spugna, e
li faceva fluttuare in aria come mongolfiere umanoidi. La cosa
più strana era
la materia di cui erano fatti, che certamente non era carne; sembrava
come una
porzione di firmamento stellato strappato al cielo e rimodellato, ma di
un
assurdo impasto di colori salmone e avorio. Nella massa puntinata e
semitrasparente scorse per un attimo, per l’appunto, gli
accenni dell’ossatura
di bambini umani e questo le suscitò quasi un conato di
vomito. Aveva assistito
qualche volta a invocazioni di angeli o demoni, ma nessuna apparizione
dava il
senso di straniamento, di alterità, che davano quelle cose.
«Chimerici. Coloro che
sono
toccati dal Chimaer» commentò l’orco
anziano «Brutta storia davvero. Se questa
Bocca è instabile può avere uno spasmo e toccarci
tutti. Finiremmo come
quelli».
«A…
allora… dobbiamo andarcene
subito!» commentò un’amazzone al fianco
di Ariadne.
La Comandante non riuscì
a
parlare, o forse non volle, ma fu Irisa a farlo: «No. Siamo
qui per presidiare
queste coste, ricordatelo. Neppure un chimerico può
oltrepassare questa
regione!»
Gli umanoidi in aria ammutolirono
e si paralizzarono di colpo. Le loro teste sembrarono farsi
improvvisamente
pesantissime e li fecero precipitare come sassi nell’acqua
marina.
«Ma tu faresti meglio ad
andartene, Irisa» disse Ariadne «Ricordi, giusto?
Serve che informi qualcuno.
Ci vogliono maghi… maghi potenti, per chiudere una Bocca del
Chimaer, e questo
è chiaramente ancora aperto».
Irisa si lasciò sfuggire
una
smorfia irritata da sotto l’elmo. Non aveva forse espresso,
qualche notte
prima, il dubbio che le Bocche del Chimaer non potessero essere chiuse
in
qualsiasi maniera? L’unica funzione di quelle parole era di
dare una
giustificazione alle altre per mandare via solo lei. Non le piaceva,
non
riusciva a scrollarsi di dosso l’idea che Ariadne la volesse
favorire e così le
sembrava di ingannare le sue sorelle d’armi.
Abrai sbuffò:
«Maghi? Eh eh eh.
Sono balle. La Bocca del Chimaer non viene chiusa da nessuno, al
massimo si
chiude da sé».
«La Bocca del Chimaer
può essere
domata».
«No, non può,
è la sua stessa
natura che ce lo dice».
«Questo lo dicono quelli
che non
credono nel futuro!» sbottò Irisa e a stento si
trattenne dal chiedergli ancora
se credeva alle parole del Re degli elfi della neve, ma
preferì fermarsi lì.
«O quelli che non credono
alle
favole» insistette l’orco, senza scomporsi
«ma fate come credete, ragazze dei
cavalli. Niente fa più differenza, ora».
Impugnò il robusto
bastone come
una mazza, e proprio allora, come l’avesse evocata,
l’orda uscì dall’acqua. Si
mosse rapidissima e compatta, come una unica fiumana di individui, e
descrisse
un semicerchio percorrendo diversi metri di spiaggia per poi invertire
marcia e
rituffarsi in acqua. Sembrava di osservare la spira di un enorme
serpente che
usciva e rientrava nella sua tana, ignorando totalmente orchi ed
amazzoni in
egual modo.
«Cosa… cosa
fanno?»
Non aveva mai visto una cosa del
genere: correvano verso di loro – ma non stavano guardando
loro – invertivano
marcia e si rituffavano in acqua. Nessun esercito avrebbe mai potuto
muoversi
così, prestare il fianco agli avversari schierati con tanta
sconsideratezza. Ma
proprio per l’evidente idiozia di quel movimento,
né le amazzoni né gli orchi
aggredivano. Rimanevano basiti a guardare quella massa di esseri eterei
e
multiformi.
«Cosa diavolo
fanno!?»
«Chi lo sa?»
rispose l’orco,
senza muoversi «le azioni dei chimerici non hanno alcun senso
comprensibile.
Spero che decidano di aggredirci presto, perché potrebbero
passare giorni prima
che si accorgano di noi. Sarebbe una bella noia. Forse è
meglio aggredirli
subito».
Aggredirli, pensò Irisa,
con che
cosa? Con la manovra a tenaglia flessibile? L’accerchiamento
immobile? Le
tattiche di guerriglia a spirale? Tutte le strategie che le amazzoni
sapevano
eseguire con la perfezione di una danza elegante si basavano sempre e
comunque
sull’indovinare e anticipare il ragionamento del nemico. E
ovviamente
anticipare ciò che faceva e pensava un chimerico era
impossibile, bisognava
osservarlo sul campo, ma…
«Ci
stanno…»
«…ignorando
del tutto».
…ma cosa si poteva fare,
invece,
se il nemico che non ragionava affatto?
Se era mosso, come sembrava, dalla pura irrazionalità? In
quel caso osservare un
chimerico sul campo era del tutto inutile. Non c’erano
risposte giuste, perché
non c’erano domande.
«Ariadne…?»
«Non parlarmi ora. Sto
pensando».
Ma a cosa si poteva pensare?
Senza trovare risposta, provava una paura profonda e indescrivibile ed
una
unica certezza: non avrebbe mai voluto essere lasciata sola ad
affrontare
quella paura, quindi non poteva nemmeno immaginare di essere lei ad
abbandonare
la prima linea lasciando le sue compagne faccia a faccia con i
chimerici.
«I- io… non
voglio andarmene.
Rimarrò qui…»
«La
vera guerriera è non chi imbraccia l’arma e taglia
teste, ma chi
esegue gli ordini assicurando la vittoria»
ribatté Ariadne citando un motto
tipico dell’esercito amazzone.
«Anche
l’ordine più insignificante, l’incarico
più umile, è decisivo ben
più di un campione che vada in battaglia secondo il suo
capriccio» proseguì
recitando Irisa.
Ariadne annuì verso la
sua
compagna, compiaciuta. Ma forse dentro di lei sapeva che quelle parole
Irisa le
aveva pronunciate senza sentirle sue.
«Non indugiare,
vai».
Irisa osservava
quell’esercito
rapidissimo e quel poco che vedeva spiegava ben poco. L’unico
tratto in comune
era la massa di nero e polvere iridescente di cui erano composti, che
ricordava
un ammasso di astri, anche se ciascuno era di un diverso insieme di
colori
brillanti, e gli accenni di ossa visibili all’interno, unico
memento di ciò che
erano prima della corruzione. A parte quello era difficile trovare due
elementi, tra tutti, che fossero almeno simili per aspetto. Molte,
moltissime
altre forme di quell’orda che non poteva essere definita,
classificata o
spiegata, Irisa non riuscì neppure a distinguerle, certo
erano stati
qualcos’altro, prima che il Chimaer li toccasse alterando la
trama stessa della
realtà, ma ora erano solo incroci e ibridi di cose
preesistenti, senza una
precisa identità, forme come ombre che erano un
po’ animali e un po’ vegetali,
un po’ persone e un po’ oggetti. Creature
indefinite, senza scopo o con uno
scopo inconoscibile e incomunicabile, pronte a spargersi nel continente
senza
che nessuno potesse prevedere o capire il loro comportamento che poteva
variare
dalla stasi totale alla violenza raccapricciante e immotivata. Erano la
follia
stessa, ma più solidi e concreti di qualsiasi pensiero, una
follia che
camminava tra i mortali e invadeva il loro mondo di ragioni e
sentimenti senza
spiegazione alcuna. Erano i chimerici e in quel nome unico
c’era tutta la loro
unicità.
«Non ci
attaccano…» si lamentò
uno degli orchi.
Irisa si sorprese della calma e
della compostezza degli orchi, da sempre convinti che
l’essenza della vittoria
fosse prendere l’iniziativa per primi con audacia e
aggressività. Nessuno di
loro si sognò di scagliarsi su quelle creature per primo e
lei ne comprese
rapidamente il motivo: non pensavano di poterla sopraffare, quindi il
senso
dello scontro sarebbe stato sopravvivere a oltranza tenendo il litorale
il più
a lungo possibile, come una diga di carne ed ossa che la vita stessa,
la vita
come Irisa la conosceva, poneva a difesa per evitare di essere sommersa
dall’insensata esistenza di quella fiumana. E
così, per una volta, persino gli
orchi non attaccavano prima di essere attaccati.
«Forse
stann…»
Le parole di una compagna accanto
a lei si persero, perché la moltitudine accelerò
il passo producendo un fragore
che copriva ogni altro suono. Infine, seguendo la loro rotta priva di
scopo, si
erano tutti rituffati in acqua ed erano svaniti in un mare
improvvisamente
immobile e silenzioso.
«Sono… andati
via?» chiese Irisa.
«Per ora»
ribatté Ariadne «per
giorni, forse, o per qualche minuto. Devi andare! È un
ordine!»
Irisa deglutì,
amareggiata. In
una società definita da legge, disciplina e – se
necessario – dall’annullamento
di sé stessi, solo una cosa poteva seguire un ordine:
l’obbedienza. Strinse le
briglie di Fulvospirito.
«Come desideri,
Comandante.
Vado».
Le sembrò che Ariadne la
stesse
fregando: gli unici argomenti che poteva opporre a quel preciso ordine
riguardavano la loro relazione e lei non poteva usarli
perché l’ordine era
stato impartito in pubblico. La guardò fisso e anche lei
ricambiò lo sguardo.
Cosa devo dire alla ragazza che
amo, con cui potrei aver fatto l’amore per
l’ultima volta? si chiese ossessivamente in quella
manciata di
secondi.
Forse Ariadne lo vide,
perché
anche i suoi occhi si fecero dolci e tristi. Ma non ci fu tempo di dire
nulla.
Un’unica gigantesca onda si era sollevata, ed era chiaro che
l’acqua era molto
meno trasparente di come avrebbe dovuto essere, piena di un arcobaleno
di
fosforescenze che solo i chimerici potevano produrre; il muro
d’acqua marina si
curvò sulla spiaggia e sembrò sputare
volontariamente le prime creature multiformi
sul terreno di Fjaran-Marmar. Le stesse che prima avevano ignorato i
due
eserciti ora si scagliavano contro bersagli sparsi, urlando con un odio
che una
creatura mortale non sapeva provare e che non era stato scatenato da
alcuna
causa precisa. A fianco di Irisa, Abrai Kub-Rul urlava con voce
estatica, con
quella particolare inflessione di voce di chi si vede venire incontro
un caro
vecchio amico, un’unica parola ripetuta.
«Morte! Morte!»
Si fiondò su un
chimerico blu e
giallo che poteva ricordare qualcosa tra un rinoceronte e un ometto
gobbo e lo
colpì col bastone con tutta la violenza che aveva. La
creatura fu percossa più
volte facendo finta che l’orco non esistesse, prima di
reagire d’improvviso con
l’enorme chela da granchio che aveva sul braccio destro. Ma
da quell’istante si
fece un avversario tenace e preparato e Abrai prese a parare a fatica,
arretrando.
«Ari».
Irisa ignorò ogni cosa.
Una cosa
verdastra simile ad una figura di donna stirata per lungo si era
fiondata
vicino ad Ariadne, aggredendola con un lungo braccio dritto come un
arpione.
L’amazzone l’aveva affrontata con sapienti
mulinazioni dello spadone senza cadere
da Sirescuro. L’istinto di Irisa era stato di correre verso
di lei a darle
manforte, ma non ne aveva avuto il tempo: uno dei minuti
umanoidi-mongolfiera
era volato sopra di loro ed era caduto a testa in giù,
esplodendo in un rosa
accecante. Al diradarsi della luce, Ariadne e la sua avversaria erano
ormai
polvere, solo una gamba di Sirescuro, che ancora si muoveva convulsa,
ricordava
che Ariadne era esistita. Si era consumato tutto in una manciata di
secondi.
«Ari».
«Morte!
Morteeeeeeeeeeee!»
Abrai Kub-Rul aveva disintegrato
quella che poteva essere la testa della cosa, che si era rotta come
frammenti
di roccia. Ma il corpo continuava a vibrare colpi, seppure adesso
procedendo
alla cieca. Altre di quelle creature piombarono sulla folla esplodendo.
«Ari…»
Alla terza volta che non
ricevette risposta, una compagna le si avvicinò:
«Irisa, l’ordine della
Comandante! Devi andare, devi andare subito!»
«Io…»
«Irisa, mi
senti?»
Un essere lungo e snodato come un
serpente, ma dal torso più simile ad un gatto di montagna,
avvolse la compagna
che la chiamava nelle sue spire di luce nero e lilla e la strinse,
spingendola
a strabuzzare gli occhi e a vomitare sangue.
«Iris- »
La creatura strappò la
testa
della ragazza con una zampata.
«Ari»
ripeté Irisa, mentre la creatura
le saltava addosso lasciando penzolare il corpo straziato della
compagna sul
suo cavallo.
Reagì
d’istinto, si abbassò
flessuosamente rimanendo attaccata a Fulvospirito solo per le gambe,
lasciandosi scavalcare dalla creatura, la attraversò per
lungo con la spada,
dalle fauci fino a metà del corpo.
«Irisa!» le
corse incontro
un’altra, giovanissima, lei riconobbe a stento che era una
delle cinque che
aveva selezionato per accompagnarle, le altre quattro non riusciva a
vederle.
«Irisa, dobbiamo andare
via!»
La ragazza e il suo cavallo si
difendevano caparbiamente a colpi di spada e zoccoli da chimerici che
ricordavano ombre o piuttosto umani appiattiti sul pavimento e
strisciavano
rapidi come lucertole.
«Irisa,
ascoltami!»
Dietro di loro,
l’avversario di
Abrai Kub-Rul rotolava a terra sconfitto mentre l’orco, con
diversi suoi
compagni, si avventava su un grosso chimerico ripugnante: il corpo
color vino
era di enorme cinghiale con zanne sproporzionate mentre al posto del
viso stava
un corpo umanoide, impossibilmente obeso, che rideva in maniera oscena,
quasi
sessuale, mentre camminava lentamente sui corpi di alcune ragazze
schiacciandole col suo peso. Irisa si voltò tenendo salde le
briglie, pronta a
prendere parte a quell’assedio di gruppo contro
quell’essere schifoso.
«Ascoltami,
dannazione!» fece la
più giovane fermandole il braccio e scuotendola
«l’ordine della Comandante!
Dobbiamo andare!»
Finalmente si decise ad obbedire
a quell’ordine, anche se chi lo aveva impartito non
c’era più.
***
Per giorni, Irisa non avrebbe
ricordato altro che le ultime immagini di quella battaglia assurda, la
crudeltà
insensata con cui quelle creature variopinte e multiformi schiacciavano
le sue
compagne d’armi e i mercenari orchi mentre questi cercavano
di improvvisare
qualche sorta di difesa. Le forme surreali facevano rapidamente
sparire, alle
sue spalle, tutto ciò che era stato familiare mentre davanti
a lei c’era solo
la cinta di colline tra Fjaran-Marmar e Graent-Halli, contro la quale
colma di
rimorso si lanciava con tutta la foga di cui era capace. I rumori dello
scontro
si allontanavano rapidamente. Dopo pochi minuti, dietro di
sé sentì appena un
grido soffocato, una voce di ragazzina che spariva, soffocata.
«E…
ehi..:?»
Dietro di lei, la sua compagna
non c’era più. Erano seguite? In ogni caso, era
rimasta sola. Scosse le briglie
e Fulvospirito accelerò.
«Corri!
Corri…»
Il cavallo corse per ore,
finché
tutto ciò che rimase erano gli zoccoli di lui che dava ogni
scintilla della sua
energia nel galoppo, in sincrono con la volontà del suo
cavaliere interamente
concentrata sul compito di portare notizia di quella inevitabile
disfatta. E
forse, per effetto di quel legame misterioso che univa ciascuna
guerriera
amazzone al suo cavallo, Fulvospirito riusciva anche a sentirne la
rabbia e
l’indignazione che ribollivano dentro di lei, senza sapere
bene su cosa o su
chi abbattersi. Dopotutto, nel Nadorhai si parlava della Bocca del
Chimaer più
o meno ogni giorno, eppure né lei né le sue
compagne, nemmeno una, erano
minimamente preparate a ciò che aveva visto. Quasi che la
Bocca del Chimaer
fosse una realtà ineluttabile, persino paragonabile alla
morte, contro cui non
aveva senso organizzare tattiche e addestrare eserciti. Era davvero
così?
Davvero ogni tentativo era affidato unicamente al caso, come sosteneva
Re Hion,
come aveva detto anche Abrai Kub-Rul, proprio come un cavaliere,
persino il più
potente e saggio e ben addestrato non può nulla contro la
morte, se non sperare
di vivere un giorno in più? E se era così,
perché questa verità non veniva
insegnata loro sin dall’inizio?
«Fulvospirito!
Fulvospirito!»
urlò il nome del cavallo ancora e ancora, e ormai
più che tenere le briglie ne
abbracciava il collo muscoloso.
Non c’era
null’altro che lei e il
cavallo, adesso. I pini di Graent-Halli si erano diradati, lasciando
spazio
alle sterminate Steppe Cinerine, che coprivano quasi un terzo delle
Lande di
Rah. Era solo silenzio rotto dal galoppo del cavallo e dalla sua voce
tremante
che ne chiamava il nome di una delle poche creature, forse, che non
avevano
mentito a lei ed alle sue compagne d’arme. Sullo sfondo della
terra grigia si
stagliava lontanissima la ripida montagna sopra la quale si ergeva,
addirittura
oltre le nubi, l’Ubervorour, città da cui Re
Olster controllava tutte le Lande;
ma lei si era ormai addormentata mentre il cavallo continuava la sua
cavalcata,
ignorando la capitale del regno, e dirigendosi d’istinto
verso il Nadorhai,
lungo la strada che aveva percorso nei mesi scorsi e che ricordava bene.
«Fulvospirito…»
chiamò ancora il
cavallo quando, il giorno dopo, si svegliò.
L’andatura del cavallo le
fece
immediatamente capire il suo errore: era sfinito e, non si fossero
fermati,
sarebbe presto stramazzato al suolo. Le montagne, dalle rocce di
diversi
colori, le maestose cascate e la vegetazione rigogliosa che invadeva
prepotentemente vecchissime rovine di cemento le fecero immediatamente
realizzare che doveva aver avvicinato da qualche ora i confini del Rah
e che
presto avrebbe cavalcato nel Nanad, al bordo dell’Entroterra
Selvaggio. Non
aveva amici nel Regno di Mezzo, ma ciononostante doveva per forza
sostare
altrimenti l’animale sarebbe morto. E così fece,
fermandosi sotto un grosso
albero caduto che si affacciava su una splendida vallata. Appena
interrotto il
movimento, sia lei che il cavallo piombarono nel sonno più
profondo,
addormentandosi stremati .
«Aah!»
urlò nello svegliarsi,
perché sognava ancora la battaglia del Fjaran-Marmar.
Guardò il cielo
stellato, prima
di notare con suo sommo orrore una porzione di cielo cambiare colore in
qualcosa di scarlatto e vermiglio, magenta e cremisi. Balzò
in piedi portando
la mano allo spadone ricurvo sulla schiena.
«Maledizione…»
Non ci aveva pensato: se i
chimerici agivano senza ragione, perché non potevano
scegliere di mettersi
all’inseguimento di un singolo soldato? Dopotutto,
conoscevano solo il
capriccio. Quindi, come pensava, la sua compagna era davvero stata
raggiunta e
uccisa. Anche Fulvospirito si agitava, terrorizzato.
«Ca… capisci
quello che dico?»
Avvolto in bagliori di tutti i
toni del rosso, il chimerico non rispose. Cosa poteva essere stato un
tempo? La
testa di un ippocampo, un torso umano scarno a sormontare un corpo
equino
emaciato, ma più di tutto la colpirono gli arti: ripiegate
indietro come ali,
il chimerico sfoggiava due paia chele affilate come quelle di una
mantide che
con ogni evidenza erano armi letali.
«Perché non mi
hai aggredito
subito?»
Era evidente: non capiva niente
di quello che lei diceva. Strinse più saldamente
l’elsa. Attaccare o non attaccare?
Ma appena fece un movimento, dal muso a tubicino di quella cosa
uscì un verso
come il richiamo di un uccello e subito scattarono le chele veloci e
precise
come spade, evitò le prime tre ma l’ultima si
allungò maggiormente, tagliando
il tronco con la precisione di una sega.
Non era difficile capire cosa sarebbe successo se avesse
centrato lei.
Stringendo la lama di ceramica rossa con la mano, Irisa
studiò il suo nemico.
Era più probabile che lui battesse lei in
velocità d’esecuzione, quindi cosa
aspettava per un secondo attacco?
«Ehi!»
Come si aspettava, prese
l’urlo
come una provocazione e cercò di tagliare esattamente il
punto in cui Irisa si
trovava. Schivò e cercò di mozzargli un arto, ma
fu inutile: tornò indietro più
in fretta, come una molla. Il paio di chele inferiori scattò
insieme, Irisa
saltellò indietro per non farsi trafiggere i piedi e
schivò a fatica l’ultimo
colpo. Ma aveva notato una cosa: il momento in cui estrofletteva
l’arto non era
lo stesso in cui la faceva scendere per colpire, quindi quella frazione
di
secondo in cui le chele erano ferme era il momento per colpirle. Ultimo
tentativo: l’avrebbe mutilato, o sarebbe stata tagliata in
due.
«Ehi!»
Ma stavolta non era stata lei a
urlare, sebbene ne avesse l’intenzione. Un robusto figuro a
cavallo era
piombato giù dalla collina e, appena il chimerico lo aveva
notato, una lama
curva di duro legno era volata nella notte. Il boomerang
staccò la testa del
chimerico di netto per poi ritornare indietro ed essere ripreso con
maestria.
Irisa si sentì cedere le gambe per la stanchezza
«Buono bello,
buono» cercò di
calmare Fulvospirito mentre si lasciava cadere sul tronco.
Il nuovo arrivato smontò
da
cavallo e quello subito scappò via: non era suo, in tutta
evidenza.
«Ecco un
altro… che è finito nella
spazzatura».
«Tu
sei…»
«Sì, sono
io» confermò
l’orco-poeta, con uno strano fiatone.
«Accidenti, ragazza, dei
cavalli…
non ti sei accorta che ti seguiva?»
«Abrai, tu…
Grazie. Ma perché mi
hai seguita?» si lasciò scivolare ancor di
più, fino a finire seduta sull’erba.
«Ho cercato di
riprenderti… ma
poi è stato il cavallo, ha fatto tutto da solo».
Continuava ad avere una voce
strana.
Si sedette
pesantemente accanto a lei e prese un bel
respiro. Guardarono il corpo del chimerico che si sgonfiava, perdeva
luminosità
e poi iniziava a sbriciolarsi. In qualche minuto, non ne rimase nulla.
«Eh. Questi mostri sono
pieni di
aria».
Rise, ma era come se ad ogni
frase che pronunciava gli venisse sottratto qualcosa che Irisa non
individuava
con precisione.
«Io… devo
davvero ringraziarti,
orco… anzi, Abrai».
«Eh! Prego. Peccato sia
finita
così… non morirò come poeta
né come orco. Che fregatura».
«Chi ti dice che non
morirai come
orco?»
«Bè»
disse con una punta di
ironia amara «un nostro detto dice: orco,
non morirai con onore se morirai per una ferita alla schiena».
Irisa sgranò gli occhi,
alzandosi
a fatica: «Fammi vedere la schiena!»
«È inutile. Ho
passato giorni a
inseguire te e quel mostro… ho perso troppo
sangue» spiegò e finalmente Irisa
capì che ad ogni parola si indeboliva.
«Fammi vedere!»
«E allora cosa farai? Sei
un
medico forse?»
«Non puoi andartene
così!»
«E chi lo dice, ragazza
dei
cavalli?»
«Tu! Non hai detto che
volevi
morire da orco? Finisce così la tua storia?»
«Sei una bambina sciocca.
Te l’ho
detto che la guerra è così… non
importa che storia hai… chi sei… finisce
tutto…
nella spazzatura».
Rise ancora, ma stavolta era
debolissimo. Era come se avesse messo tutto quello che era rimasto
della sua
vita nel colpo che aveva ucciso il chimerico.
«Sai, forse è
meglio così.
Non muoio da orco, uccidendo. Ma muoio salvando una
vita. Sì, è
bello. È come il finale di un poema… la mia
ultima poesia…»
«Fammi vedere la ferita,
stupido
orco!» si alzò e cercò di sollevare
quel corpo pesante per le spalle.
«Lasciami dormire,
sciocca
bambina… vai a fare quello che devi».
«E
cos’è? Cos’è che devo fare,
eh? Cosa devo fare?» chiese scuotendolo.
Ma Abrai Kub-Rul, orco poeta, non
disse più niente.
***
Seppellì Abrai in
mattinata,
scavando con le mani.
«Non finirai nella
spazzatura…
non finirai mangiato dai corvi».
Fu un lavoro pesante, le mani le
dolevano. Andò a sciacquarsi in un fiumiciattolo
lì vicino, dove anche
Fulvospirito poté bere un poco.
«Bevi, bello,
riposa…»
Il fiumiciattolo scendeva lungo
un pendio roccioso, fino ad una valle piena di enormi rovine del Mondo
Antico,
alti palazzi squadrati invasi dalla vegetazione. Era l’ultima
vallata prima
dell’Entroterra Selvaggio, una parte del Nanad che preferiva
di gran lunga
evitare. Cavalcò nei giorni seguenti con l’unico
obiettivo di non sconfinare in
quelle giungle, pericolose forse quanto i chimerici stessi.
«Ehi, e
quella?» disse dopo
giorni di cavalcata, avvistando una sagoma dalla forma curiosa.
Una specie di cittadella di
ciminiere fumanti sorgeva su di un plateau, dalla cui base sembrava
stata
asportata da un enorme cucchiaio una porzione circolare di pietra,
così che
nella cavità tondeggiante si accampavano molti viaggiatori.
La riconobbe, ne
aveva sentito parlare.
«La Forgia di
Juelrok…» era una
città-officina la cui popolazione era per lo più
composta da elfi e nani di
superficie.
«Coraggio, Fulvospirito.
Ci
fermeremo lì»
Lei sostò con il cavallo
sotto la
volta della cavità, sui cui arrivavano di riflesso i raggi
del sole, facendo
splendere di mille colori la sostanza cristallina che la componeva,
come se
un’ondata di calore avesse fuso e poi vetrificato quella
parte della roccia.
Secondo alcune leggende, le avrebbe spiegato un mercante nanico nel
corso della
serata, Juelrok era stata formata proprio così durante la
Grande Guerra del
Mondo Antico, dove si scatenavano poteri tanto grandi da rendere
verosimile una
simile cicatrice impressa nella terra. Era un luogo accogliente, ricco
di vita,
di fascino e di storia, e dopo giorni di fatica e angoscia quella
serenità era
allettante come una droga. Fu quasi tentata di rimanerci, ma proprio
per questo
fu assalita ancora dai rimorsi: a quest’ora, era probabile,
nessuna compagna
era ancora viva o addirittura era diventata un chimerico. Magari
proprio in
quel momento la Regina Aryl decideva di inviare un altro contingente,
non meno
ignorante di quanto non fosse stata la Quinta Cavalleggeri, verso le
Lande di
Rah, o magari perché no, esortava gli altri re dei Sei Regni
a fare lo stesso.
L’urgenza di consegnare il messaggio di Re Hion, di sentire
la risposta della
Regina, di impedire un’altra inutile spedizione,
tornò pressante:
l’ingiustificabile privilegio di essere ancora viva, a
differenza di tutti
quelli che erano rimasti sulla costa, aveva senso solo se fosse
riuscita in
questa missione.
«Perdonami, Fulvospirito.
So che
sei stanco ma… ancora uno sforzo, ti prego. Per
Ari… per Sirescuro… per le
nostre compagne».
Rimontò alla fine della
mattinata, nonostante il cavallo fosse tutto fuorché
ristabilito, poi seguì un
altro giorno di corsa e di silenzio e stavolta lei nemmeno ne chiamava
il nome
certa com’era che persino la bestia, malgrado la totale
comprensione che
avevano l’uno per i sentimenti dell’altra, fosse
risentita per il trattamento
che riceveva. Solo nella notte fonda dello stesso giorno si rese conto
che non
si ricordava di mangiare da ormai tre giorni e a quel punto la
debolezza le
piombò addosso tutta insieme, come di colpo, facendola
svenire sul cavallo.
All’alba del quarto giorno, il suo miglior amico e destriero
era moribondo e
lei riusciva a stento a sollevare il collo senza chiudere gli occhi.
Alla sera
del quarto giorno una divisione dei templari del Nanad raccolse una
giovane
ragazza stremata e incapace di reggersi in piedi, che piangeva
disperata sul
corpo di un cavallo morto.
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Capitolo 8 *** MORBANE ***
7. MORBANE
Il
piccolo regno di Morbane rifiutò i Sei Re e
l’unica
Chiesa e come volse le spalle alla Dea, così a Dea le
voltò ai suoi abitanti e
certo essi pagarono per ciò un alto prezzo.
– da
“Cronistoria del Concordato dei Sette”
Suo padre guidava il carretto
sulla strada sterrata con mano sicura ma le arance che sobbalzavano
nelle
cassette di legno la preoccupavano, lui sembrava convinto di poterle
tenere a
posto col pensiero mentre lei era sicura che si sarebbero rovesciate in
strada.
Sua madre, davanti a loro, leggeva uno di quei libri con quelle
meravigliose
copertine piene di immagini variopinte che forse erano simboli, forse
disegni,
lei non riusciva mai a distinguerlo.
«Sarà una vera
svolta, una vera
svolta per questa famiglia».
Nessuno di loro, né lei
né sua
madre, né Lor né Yul, gli diede retta –
ma gli ultimi due, appena tre anni a
testa, erano giustificati – eppure sua madre gli rivolse
comunque un accenno di
sorriso condiscendente. Ma suo padre, cresciuto nei campi, sebbene
incolto era
tutt’altro che stupido: reagì con una smorfia di
disappunto che non tentava di
celare la stizza. Sentiva di non avere il dovuto riconoscimento.
«Se non avessimo grano e
arance e
miele e latte, di cosa vivremmo? Ci pensate mai, voi là
dietro?»
Lo disse appena sottovoce ma sua
madre lo sentì. Jen non capiva mai se fosse per autentica
comprensione o
piuttosto per pietà ma anche in questo caso chiuse il libro
e lo guardò con
qualcosa nello sguardo in cui suo padre seppe, o forse volle, leggere
delle
scuse.
«Sono sicuro che
apprezzeranno i
nostri prodotti, amore mio».
«Certo che lo faranno. E
se
inizieremo a vendere a Tuinsy, la nostra vita cambierà!
Diventeremo… bé, non
ricchi… ma meno poveri» ribadì con uno
sforzo di incondivisibile ottimismo
agitando l’indice.
Di nuovo, Jen non seppe decidere
se era fiducia o condiscendenza quella che sua madre rivolse al padre
con il
suo gesto di assenso, fatto sta che tornò subito a
concentrarsi sul suo volume.
Jen amava e odiava quei misteriosi oggetti che erano i libri della
madre, come
finestre su un mondo totalmente diverso da quello del resto della
famiglia,
dalla loro realtà fatta di noia, abitudine, fatica e
sacrificio. Cosa facevano
quelle pagine a sua madre? La conducevano in un posto migliore di
quello o
piuttosto la risucchiavano via dalla vita vera? E cosa facevano, cosa
avrebbero
potuto fare, a lei? Cosa custodivano quegli intrecci di parole e colori
e
forme, un dono o una maledizione?
«Ci fermiamo!»
disse suo padre di
botto e com’era sua abitudine agì prima di
apprendere cosa ne pensavano gli
altri.
«Perché,
papà?» chiese Jen.
Suo padre fece un cenno alla loro
destra e lei, Lor e Yul rimasero tutti e tre a bocca aperta.
C’era, oltre una
barriera di canne, una striscia di terra chiara e fine mai vista prima
e subito
dopo più acqua di quanta ne avessero mai visto assieme,
acqua a perdita
d’occhio, una distesa liquida e scintillante sotto il sole
tiepido dei mattini
del Draile.
«Non si va a Tuinsy senza
vedere
il mare» spiegò suo padre «e voi non lo
avete mai visto. Facciamo un bel bagno,
ragazzi!»
«Arriveremo tardi per
l’esposizione, papà…» disse
Jen, preoccupata.
«Anche questo
è importante.
Andate a farvi il bagno e basta».
Cercò lo sguardo di sua
madre.
Questo si staccò giusto un attimo dalle pagine e le fece
comprendere che doveva
obbedire, poi tornò immediatamente alla lettura. Jen prese
per mano Lor e Yul
per invitarli a scendere dal carretto, poi corsero tutti e tre verso
l’acqua.
Fu il primo momento della sua vita in cui sentì il tocco
della sabbia e del
mare.
***
Dal suo primo istante di
coscienza, Jen concentrò ognuno dei suoi cinque sensi nel
capire dove si
trovasse. C’era la sabbia e c’era il mare. Ma
c’era anche qualcosa che
rimarcava quanto diversi fossero quel mare, infestato di alghe scure, e
quella
sabbia, macchiata da cenere e pece, da quelli che ricordava. Il cielo
sopra di
lei era innaturalmente scuro e plumbeo, non limpido e azzurro come uno
specchio
del mare stesso, l’aria fresca ricca di salsedine sostituita
da un sottile ma
persistente fetore. Il mare di quel momento presente sembrava voler
sottolineare in ogni modo la sua differenza con quello esistente nella
memoria
di lei.
Voglio credere che la vita sia /
Come un unico fiume che scorre / Perché se non è
questo / è allora un insieme
di cose / perdute per sempre, / divorate da un mostro invincibile. / Il
nome
del mostro è il nome del tempo.
Erano versi che sua madre
recitava spesso. Più che una poesia, era un manifesto di
pensiero, un credo di
un mondo che non era più, una civiltà che ora
esisteva nello studio di chi,
come sua madre, voleva rivivere un’epoca perduta. Poi si
girò sulla battigia e
vide l’individuo sedutole accanto sulla sabbia, a pochi passi
dalle onde.
«Siete sveglia».
Jen aveva visto molti elfi ma
nessuno le poteva piacere meno di quello. Era coperto di foglie secche
e vesti
lacere e aveva una strana espressione concentrata, come di un animale a
caccia.
Le ricordò le storie che udiva da piccola, di cacciatori che
braccando le
stesse prede per mesi nella foresta, pensando come loro e condividendo
le loro
abitudini, diventavano bestie essi stessi, storie terrificanti, di
uomini
snaturati e maledetti, e Jen non dubitava – seppur dopo
appena uno sguardo –
che quell’elfo venisse da una vita, da una storia, molto
simile.
«State bene?»
L’apparente cortesia non
bastò a
cancellare quell’impressione ferina che dava. Non era sinceramente preoccupato per lei, ne era
certa. Balzò a sedere e si
allontanò da lui spingendo con i piedi sulla sabbia.
«I-io mi… mi
chiamo Jen. Molto
lieta».
«Non risponde alla
domanda» disse
con un sorriso comprensivo, che tuttavia era assolutamente falso
«tuttavia mi
presenterò anch’io, a questo punto. Il mio nome
è Valadwen Yun Valiel, sono un
ramingo al servizio della Regina Elfica di Evalunith».
«Evalunith?
Quella… Evalunith?»
chiese Jen sgranando gli occhi.
«L’unica e
sola» il sorriso
innaturale sembrò cristallizzarsi sul suo volto e non se ne
andò più.
«Evalunith…»
Jen aveva sentito molte volte
parlare di Evalunith, una delle più grandi città
elfiche al mondo. Tra tutte,
però, era la più difficile da raggiungere
perché si diceva che fosse nascosta
nelle foreste sulle montagne oltre il Lago Kalst, resa invisibile agli
occhi
umani grazie alla magia dei druidi. Tuttavia, capitava che qualche
viandante
smarrito vi arrivasse comunque, per caso, per tornare raccontando
trasognato le
meraviglie della dimora degli elfi della Luna, la città dai
colori di platino e
perla. Proprio lei, con Yul, aveva ascoltato le storie incantate di una
compagnia di girovaghi che sosteneva di esserci stata per addirittura
una
settimana. Era un luogo di fiaba, bello e irraggiungibile e confortante
come un
sogno. Era strano pensare che quel tipo inquietante venisse da
lì.
«Sei…
nato… ad Evalunith?»
desiderò subito di non averlo detto ma i pensieri le erano
usciti di bocca
troppo in fretta.
L’espressione
dell’elfo mutò per
una frazione di secondo appena ma poi tornò subito
sorridente prima che Jen
potesse leggervi qualche emozione precisa: «Strana domanda
per iniziare una
conoscenza. No, signorina, io sono nato a Valadwen, patria degli elfi
d’autunno. Mai sentita?»
«Ehm…
no… era solo curiosità,
comunque».
Valiel non accennava a dismettere
quella insopportabile espressione condiscendente e ipocrita:
«Bene! Malgrado il
nome, c’è ben poco da sapere su un posto come
quello. Al contrario di questo
luogo, purtroppo».
Jen si guardò intorno,
osservando
la sabbia sporca e il mare fetido. Oltre la spiaggia si apriva un bayou
innaturalmente contorto e fitto, intrappolati tra la vegetazione e il
fango
potevano vedersi rifiuti, scarti e relitti dalle forme ormai
indistinguibili.
Ancora oltre il bayou, svettava contro il cielo scuro una massa di
edifici in
rovina dai tetti divelti e i muri crepati che, data l’altezza
e la maestosità,
dovevano aver composto in passato una città grande e
gloriosa.
«Dove… ci
troviamo?»
«Morbane,
l’isola a metà tra il
Contine Rubato e l’Astermagna».
«Continente
Rubato…?»
«Gomorroindra. Mai
sentito?»
«Gomo
…»
«Lascia
perdere».
«E di quale isola
parli?»
«Morbane, come ho
detto» ribadì
dondolando la testa come chi vuol dire: “Purtroppo
è proprio così”.
Jen comprese che la spiegazione
avrebbe dovuto dirle qualcosa ma non era così.
L’Astermagna, ovviamente, era il
continente dove i Sei Regni dimoravano: Mohtam, Nanad, Nistria,
Nadorhai, Rah e
il Draile dov’era nata e cresciuta. Ad est di questa vi era
la Nerimkora, le
Sabbie Cieche, da cui venivano gli orchi; a nord-ovest si trovava
l’ “Imperiale
Bianco”: Keiserbana, terra innevata di villaggi sparuti e
delle grandi città
sotterranee dei nani. E poi… nient’altro. Non si
parlava mai di altri
continenti, anche se non aveva mai visto o cercato una vera mappa del
mondo.
Nessuno le aveva mai detto espressamente: “Non
c’è altro” ma nessuno aveva mai
nominato altre terre.
«Gomorroindra
… il Continente
Rubato?»
Valiel fissò Jen per
qualche
secondo, poi disse solo: «Comunque, non importa» e
aggiunse dopo una breve
pausa «Incamminiamoci».
«I-incamminiamoci? E
verso dove?»
***
Sosha si affacciò dal
balcone
incrostato del pulviscolo nero che si era stratificato su quello che un
tempo
era il palazzo del Municipio, osservando la città sotto di
lui. Le ciminiere
delle vecchie fabbriche, ormai adibite semplicemente a giganteschi
falò, continuavano
ad affumicare chi aveva voluto dimorare negli alloggi più
alti – questi erano i
cittadini più sfigurati e deformi, talmente ripugnanti alla
vista persino per
gli standard della sua gente che preferivano vivere reclusi, lontani
dai
bassifondi. I rioni stretti e bui erano invasi dai pochi averi dei
cittadini
che vi stendevano panni, sistemavano divani, cuocevano carne,
scaricavano
spazzatura.
«Quale dunque il bilancio
questo
mese, dopo il carico dall’Astermagna?»
L’uomo che si era
trascinato
nella sua stanza sulle stampelle – non aveva gambe
– alzò il capo da terra e
disse: «Sire, la percentuale di storpi e invalidi
è scesa, invece aumenta
quella di appestati e contagiati. Principalmente li scaricano dalla
Nistria e
dal Nanad così da tenerli lontani dai loro amati, sanissimi,
perfetti pargoli».
Sosha rifletté appena un
attimo:
«Un cambiamento piuttosto netto. Mi domando cosa lo
cagioni».
«Posso rispondervi, sire.
C’è una
nuova forma di pestilenza in Astermagna. La Chiesa della Dea va
sforzandosi di
nasconderla. Chi non può essere curato…
è invitato ad andarsene»
«E ci riempiono di
piagati. È un
bene questo: i malati contagiosi scoraggiano gli
indesiderati».
Era un ottimo deterrente per chi
voleva tentare un assalto militare o anche solo una scorreria.
Arrivavano
parecchi gruppi, chi per soddisfare la propria ipocrita sete di
pietà e chi per
sfruttare la loro miseria o anche per corrompere l’onesta
anarchia delle loro
vite con leggi ingannevoli spacciate per soluzioni salvifiche a tutti i
loro
problemi, venivano e dovevano essere ricacciati indietro. Con la forza
non
sarebbe stato possibile, con la ripugnanza invece era fin troppo
facile.
Morbane, il regno-discarica, non temeva alcun esercito.
«Altro?»
«I ratti sono
più grossi e feroci
dell’anno precedente ed è un bene anche questo: da
qualche mese la carne non è
più un lusso per i pochi fortunati che catturano qualche
bestia senza nome nel
bayou».
«Me ne rallegro. Il
popolo deve
pur mangiare».
Sosha alzò lo sguardo
oltre le
ultime case consunte: le guardie di Morbane, i suoi fidi monatti,
perlustravano
le strade, completamente coperti di tuniche stracciate e da maschere
dal lungo
naso – queste finalizzate a purificare il più
possibile l’aria che respiravano
– e, grazie ad un cargo di robivecchi giunto quasi due anni
prima, giravano
meglio armati di un tempo: mannaie sbeccate, pale consunte, forconi e
rastrelli
erano gli strumenti più in voga per mantenere il minimo di
ordine necessario
nelle strade. Come trentottesimo Re di Morbane, sotto il suo regno
tutto andava
decisamente meglio di quanto chiunque potesse ricordare.
«E
dell’imbarcazione elfica che
si è arenata ieri notte, che mi sai dire?»
***
«L’ho detto e
lo ripeto» spiegò
gentilmente Valiel «non vogliamo niente dal Re se non un
mezzo per lasciare la
vostra isola».
La città di Morbane era
per Jen
come un incubo ad occhi aperti. Sembrava che non ci fosse assolutamente
niente
che non fosse corrotto o marcescente, muschiato per
l’umidità o annerito per
gli scarichi tossici. Non aveva visto una sola persona in salute, solo
mendicanti, barboni e derelitti afflitti dalle più varie
malattie, qualcuno lo
era al punto da non poterlo più paragonare ad un essere
umano o umanoide. Anche
le guardie con cui Valiel si sforzava di comunicare dovevano essere
ritardate o
addirittura sorde.
«La mia imbarcazione si
è rotta.
Non mento, è la verità. Se trovassimo un altro
modo di andarcene, ce ne
andremmo subito».
Non ricevette alcun tipo di
reazione dalle guardie stranamente abbigliate.
«Signor
Valiel… andiamo via».
Si pentì subito di
averlo
suggerito: il bayou, un ammasso fetido di spazzatura, acqua, funghi e
vegetazione, era stato molto più spaventoso in pochi minuti
di traversata di
quanto la città potesse mai essere. Dopotutto là
abitavano esseri umani, mentre
le cose curve simili a blatte che si aggiravano nel bayou non avrebbe
nemmeno
saputo con che nome chiamarle. Ma a giudicare dalla reazione della
gente, lei e
l’elfo con la loro sanità fisica erano non meno
ripugnanti per i morbaniani di
quanto non fosse il contrario.
«Dato che non mi lasciate
altra
scelta, chiedo formalmente udienza al Re Sosha».
Non accennarono a spostarsi
dall’arco di pietra erosa che avrebbe permesso loro di
passare dal bayou al
quartiere esterno della città. Per strano che potesse
sembrare, erano loro a
non volere Jen e Valiel, come se potessero contaminarli con qualcosa di
molto
peggio di ciò che già consumava quella enorme
città un tempo magnifica. Valiel
si appoggiò pigramente ad una colonna spezzata, conficcata
nella terra umida.
«Perché non ci
vogliono nemmeno
parlare?» domandò Jen.
«Il mondo preferisce non
pensare
all’esistenza di Morbane. E quindi Morbane rifiuta questo
mondo tanto quanto si
sente rifiutata. È persino legittimo in un certo
senso».
«Non capisco…
cos’è questo luogo?
Cos’è successo qui?»
La maschera dell’elfo si
incrinò,
svelando un sorriso amareggiato: «Non sai nemmeno questo?
Cinquecento anni fa,
dopo la Grande Guerra, gli abitanti di questo piccolo regno si
ammalarono di
una piaga sconosciuta; ma non vollero abbandonare la loro terra,
perché la
amavano, anche se pare che proprio maltrattare la terra abbia scatenato
la
piaga. Allora, poiché erano così vicini al
Continente Rubato, i signori degli
uomini decisero ciò che pareva loro meglio: usare questo
regno come discarica
per tutti gli umani che altrove non fossero desiderati. Era un regno
piccolo e
indifeso che non accettava la sottomissione ma non valeva la pena di
una
conquista, quindi era perfetto per questo scopo».
«Indesiderati?
Perché mai
dovrebbero esistere persone che nessuno vuole?»
Valiel guardò verso
l’alto, scuro
in viso: «Vorrei sapere la risposta. Forse gli umani non
vogliono pensare alla
loro morte, alla fragilità e vulnerabilità della
vita. Perciò allontanano chi
gliela ricorda. Del resto, presto i nani e gli elfi hanno iniziato
anche loro a
mandare la gente in quarantena qui a Morbane. Forse le specie
civilizzate sono
capaci, e solo loro, di infliggere certe crudeltà ai propri
simili. Anzi, forse
sta nella crudeltà il senso stesso della cosiddetta
civiltà».
Jen si appoggiò anche
lei,
stancamente, alla stessa colonna e si lasciò cadere a sedere
su una roccia
circondata da funghi minuscoli che si affollavano intorno ad essa.
«Lei mi sembra triste.
Arrabbiato
e triste».
L’elfo rimise
immediatamente su
quell’espressione di cortesia insincera che la spaventava:
«Oh, non si
preoccupi per me».
Jen rifletté: che senso
aveva
mantenere segreti, a quel punto? Non sapeva dove si trovava,
né cosa stava
succedendo. Non sapeva che fine avesse fatto Ed, né
perché Ed ci tenesse tanto
ad essere accompagnata alle Isole Ranaluta da lei. Né,
d’altro canto, lei aveva
rivelato tutto ad Ed. E se Ed era morta o scomparsa, il suo unico
obiettivo
doveva essere tornare nel Draile, alla sua fattoria. Che arma aveva se
non
l’onesta, aperta richiesta di aiuto?
«Signor
Valiel…»
«Va bene solo
Valiel».
«Valiel, allora. Posso
capire
perché vuoi lasciare questo luogo. Ma perché vuoi
lasciarlo insieme a me?
Perché non mi hai lasciato in spiaggia dopo avermi raccolto
in mare?»
Valiel non rispose subito. Jen
ebbe l’impressione che stesse valutando anche lui se essere
sincero o meno.
«Sto seguendo la nana che
accompagnavi, la forgiatrice. Per ordine della mia regina, dovrei
scoprire cos’è successo alla Forgia del
Lago Kalst settimane fa e che
ruolo aveva lei. E soprattutto chi le dà la caccia e
perché, perché il fatto
che qualcuno la stia braccando è fuori discussione e
possiamo dire per certo
che è qualcuno di pericoloso».
Jen rabbrividì
rimettendo a fuoco
come era arrivata lì: la nave che andava in pezzi, i marinai
in fuga… tutto
scaturito dall’apparizione di un singolo individuo, di quello
sconclusionato
nano in giallo… lo scontro di incredibili poteri tra lei e
Ed, che sembravano
modellare la materia con una naturalezza per lei incomprensibile. Ed
sconfitta…
il naufragio.
«Insomma, devo solo farle
delle
domande. Non hai ragione di preoccuparti per lei, almeno non per causa
mia».
Era un’altra menzogna,
Jen lo
avvertiva distintamente, ma si preoccupò di precisare:
«Non è mia amica».
C’era cascata: Valiel
aveva
aspettato proprio il momento per porre quella domanda:
«Allora perché la
seguivi?»
Desiderò di essersi
morsa la
lingua: «Perché… bè,
lei… aveva salvato i miei fratelli da alcuni…
golem, si
chiamano così, no? E allora per sdebitarmi le vado dietro
per… per servirla».
«Non siete
sincera» insistette
pacatamente l’elfo, calcando ancora di più la nota
di gentilezza forzata per
nascondere l’impazienza «Cosa mai potreste fare voi
per una apprendista
forgiatrice di quel talento? Dev’essere qualcosa di preciso,
di specifico».
«Vi sbagliate!
Io…»
«E comunque»
interruppe lui «non
è stata lei a salvare i suoi fratelli, ma io, anche se forse
non lo crederete».
Jen ripensò alle parole
di Ed,
così inusuali per una spaccona come lei: «Non
so come ho fatto…»
«Invece vi
credo» ammise dopo
qualche secondo «È stata proprio lei ad ammettere
che qualcun altro aveva
distrutto il golem e non lei… suppongo quindi che dovrei
ringraziarvi».
«Non dovete affatto,
l’ho fatto
solo perché era il mio dovere come ramingo e per il rispetto
del Trattato dei
Popoli. E per la stessa ragione vorrei comprendere appieno cosa
succede. Chi è
questa ragazza? Perché fugge? E perché fugge con
voi?» più calmo e apparentemente
casuale era il suo tono, peggiore era l’effetto che le faceva.
Sbottò:
«Kalaston! Vi dirò tutto,
tutto quello che so» esclamò, stavolta mentendo
lei «Fatemi solo tornare a
Kalaston! Dalla mia famiglia!» si pose esattamente davanti a
lui «Io non
c’entro niente con questa storia, ne so poco e vorrei saperne
ancora meno.
Voglio solo dimenticarmela».
Di nuovo, l’elfo
sorrideva in
modo strano, colmo di tristezza e rabbia invisibili ma al contempo
impossibili
da non notare.
«Credetemi,
c’entro meno di voi».
***
Sosha bevve una coppa di vino
inacidito prima di mettersi in bocca una radice cotta male per
masticarla con
un certo sforzo. Quando fu ridotta ad una poltiglia fibrosa e ostinata,
dal
quale aveva succhiato via ogni sapore, la sputò sotto il
tavolaccio di legno.
Subito accorse qualche sorta di piccolo roditore arboricolo che gli si
era
infilato in casa da qualche finestra, rubò il bolo masticato
e fuggì mentre il
Re di Morbane gli calciava contro una coppa sbeccata, finita a terra.
Malgrado
l’oggettiva scomodità della sua sala da pranzo,
provava solo e soltanto
disgusto e rabbia per i Re dei Sei Regni, che si diceva vivessero una
vita
niente affatto paragonabile a quella dei loro sudditi: che razza di
regnanti
erano, se non conoscevano la vita della loro gente? Lui, invece, era
appartenuto a Morbane sin dal suo primo ricordo ed era cresciuto in
essa e ne
era fiero. La miseria dei suoi sudditi e la sua si compenetravano a
vicenda,
erano parte di un’unica trama.
«Sire»
sibilò un monatto che gli
era strisciato accanto mentre lui osservava l’animaletto
dileguarsi.
«Parla
pure» concesse, con
la voce roca per il catarro.
«Dalle porte a sud est
una
ragazza umana ed un elfo hanno chiesto di entrare. Vorrebbero comprare
una
barca, credo, per lasciare l’isola».
«Nulla si compra a
Morbane. Le
cose si trovano, si raccattano o si elemosinano. È una delle
Tredici Leggi, non
devo certo ricordartelo».
«Perdonatemi, Re Sosha.
Non ho
espressamente sottolineato che questi due non sono dei
nostri».
«Come?» il
giovane monarca sgranò
gli occhi. Trangugiò dell’altro vino prima di
alzarsi dal pavimento dov’era
seduto, rovesciando senza curarsene il tavolo malamente arrangiato con
dei
mattoni e tavole di legno tarlato. Il vino e le radici caddero
spargendosi a
terra e per buona misura Sosha lasciò volontariamente che la
coppa gli cadesse
dalla mano, sulla macchia di sporco che si andava allargando.
«Sono forse dei reietti
arrivati
qui per conto loro?»
«Sono perfettamente sani,
sire.
Non appartengono a noi, in nessun senso possibile».
La parola sani
fece sussultare Sosha: «Gente sana nella nostra
terra non può
volere niente di buono. Devono essere giunti con la barca
elfica».
Rovesciò
l’ammasso di pelli e
stracci che gli faceva da letto e trovò sotto questo,
nascosta in un buco del
pavimento, la sua arma personale, simbolo del Re di Morbane.
«Li riceverò.
Conducili alla mia
corte».
***
Jen attraversò
l’intera città di
Morbane cercando di non vedere, né sentire, né
odorare alcunché. Ma arrivata
alla Sala del Trono di Re Sosha si confuse e suo malgrado non
riuscì a celarlo.
Persino Valiel si guardò intorno, meravigliato. La sala
doveva essere stata, un
tempo, un giardino rettangolare – ora integralmente ricoperto
da rifiuti e
cianfrusaglie – sul cui fondo stava il trono. Ai lati stavano
giganteschi
alberi morti, i cui rami si annodavano incessantemente su sé
stessi come
avessero tentato di sfuggire alla morte; i tronchi avevano ricevuto,
per mano
di abili scultori, un lavoro certosino che aveva intarsiato nei loro
tronchi le
figure di re e regine del passato, la cui perfezione era
però odiata dagli
attuali abitanti, che avevano quindi sfregiato con tagli grossolani ma
profondi, grossi chiodi e bruciature ciascuna singola figura, maschile
e
femminile: ora i monumenti dei grandi re erano sfregiati e deformati
non meno
dei sudditi che vivevano nel presente. Sul fondo stava il trono,
anch’esso
scolpito in un tronco nodoso, depredato di ogni singola gemma e di ogni
grammo
d’oro e sfregiato anch’esso, non ne era rimasto che
lo scheletro. Sotto ogni
albero stavano in attesa delle figure integralmente incappucciate i cui
volti
erano perlopiù bendati: dovevano essere i cortigiani di
Sosha.
«Ehm…
salve…» disse nervosamente
ma il trono era vuoto.
Entrò, barcollando come
un
ubriaco, un giovane uomo con qualcosa di lungo e pesante appoggiato su
una
spalla. Aveva lunghi capelli acconciati in treccine e una barba
tagliata
irregolarmente, gli occhi truccati di nero e il fisico scavato, la
pelle
butterata da chissà quante piaghe. Dai lineamenti, si capiva
che doveva essere
stato un bel ragazzo, pensò Jen, e come spesso accade la
commistione di
bellezza e sofferenza le mise addosso la voglia di stringerlo, di
consolarlo,
quasi di salvarlo. Ma le passò subito: negli occhi di quel
ragazzo, per loro,
c’era solo uno sdegno troppo forte e radicato per poterlo
dissimulare. Sedette
sul trono e con un gesto plateale mostrò a tutti
l’oggetto che portava: era una
spada spezzata, tanto che ne mancava metà, la quale era
stata evidentemente
ricavata da un blocco di roccia grezzamente scolpito e non dalla
fusione di un
metallo; una catena partiva dal pomello e si legava attorno a tutto il
suo
avambraccio, legando indissolubilmente la spada e l’uomo.
Sebbene la scritta
rossa sulla lama fosse illeggibile, quando fece rintoccare
l’arma contro il
pavimento la reazione intimorita dei cortigiani fugò ogni
dubbio su cosa
rappresentasse quell’oggetto: rappresentava la
regalità a Morbane.
«Cosa volete da noi, cari
amici
dall’Astermagna?» chiese colmo di sarcasmo il
giovane monarca, senza salutarli;
la conversazione non si apriva certo nel migliore dei modi.
Nessuno dei cortigiani si mosse
più, erano concentrati con ogni fibra sulle parole del loro
monarca. Jen notò
che i tetti che circondavano il giardino, definendone i confini, si
affollavano
di quelle strane guardie mascherate col becco che aveva visto in giro
per la
città. I viaggiatori non dovevano essere
all’ordine del giorno, a Morbane.
«Una nave, sire, solo una
nave»
rispose Valiel, deferente «o un qualsiasi altro mezzo per
tornare in Astermagna
e liberarvi dal mortificante disturbo della nostra presenza».
Jen intuì subito che
l’enfasi con
cui Valiel si piegò in ginocchio non era frutto di un suo
personale capriccio e
si inginocchiò immediatamente anche lei, tanto quasi da
toccare il pavimento
sudicio con la fronte.
«Bene»
commentò Sosha, mostrando
i denti consunti in un sorriso malevolo «sono lieto di vedere
che sapete stare
al vostro posto».
Valiel non alzò la testa
neppure
di un millimetro. Jen faceva quasi fatica a guardarlo, da quella
posizione
esageratamente prostrata. Re Sosha rifletté per un
po’.
«Che fareste, comunque,
con una
nave? Non vorrete certo salpare verso l’Oceano del Blu
Maggiore per raggiungere
il Continente Rubato, no?»
«Chi viaggia nelle terre
infestate
dal Chimaer è un pericolo per sé stesso e per gli
altri. No, maestà, non
abbiamo alcun affare in quelle terre e mai
l’avremo».
Il Chimaer, aveva detto Valiel, e
per la seconda volta quel giorno Jen si ritrovò a pensare
alle parole di Ed e
alla creatura luminescente che le aveva aggredite nella grotta; anche
Ed aveva
parlato del Chimaer, ricordava bene. Ma cos’era il Chimaer,
se non una delle
molte minacce incomprensibili, da cui la Chiesa metteva in guardia i
fedeli in
maniera vaga?
«Sarà meglio.
Non si torna dal
Continente Rubato. Non si sfugge al Chimaer che domina quelle
terre».
Eppure, c’era sempre
qualcuno che
sembrava saperne più di lei e di qualsiasi compaesano con
cui avesse mai
parlato e quel pensiero non le piacque per niente. Jen era cresciuta
pensando
di possedere qualcosa di unico e prezioso: nascondendo un segreto, una
conoscenza che non doveva essere condivisa con il resto del mondo.
Invece, dal
giorno dell’incidente, sembrava che chiunque sapesse qualcosa
di più di lei sul
mondo e sulle sue regole. Si faceva strada in lei
l’impressione che chi, come
la sua famiglia, si occupava della terra e del lavoro, vivesse in una
specie di
realtà fittizia da cui tutta una serie di concetti erano
stati rimossi,
censurati, nascosti alla coscienza comune. Spesso suo padre lamentava
che non
erano le persone come loro a
decidere
il corso della storia, che altri decidevano nell’ombra sulla
loro pelle. Perché
non avrebbero dovuto anche decidere cosa sapevano e non sapevano le
persone
come Jen? Strinse i pugni per la rabbia e con l’idea che il
vero saggio, in
famiglia, fosse stato sempre e solo suo padre. Si sentì
ignorante e impotente.
La voce di Re Sosha la
riportò al
presente: «In ogni caso, non permetterò a due
sprovveduti del continente di
venire qui a fare i propri comodi ed andarsene. Ho pensato giusto ad un
modo
per trattarvi come meritate».
«Sire?» chiese
Valiel con tono
supplichevole ma Jen colse una sfumatura strana nella sua voce; in
qualche modo
fu certa che, nel caso le cose degenerassero, Valiel era preparato
– e
assolutamente disposto – a ricorrere alla violenza:
anche lui stringeva i
pugni, la tensione nel suo corpo saliva. Jen avrebbe dato qualsiasi
cosa per
essere in un altro posto.
«Voi continentali avete
la
cosiddetta legge del mercato. “Niente in cambio di
niente”, giusto? Ebbene,
anche voi avrete quanto chiedete: arriverà presto un carico
di scarti al porto
e potrete andare via con quella nave quando ripartirà. Ma
avrete questo solo in
cambio di qualcos’altro. Un piccolo servizio».
«A vostra disposizione,
sire».
Il tono di Re Sosha
cambiò
leggermente, si colorò quasi di una nota allusiva:
«Sotto le fondamenta della
città vive un mostro. Una creatura abominevole la cui sola
esistenza minaccia
le nostre».
Jen avvertì il fremito
nei
cortigiani di Sosha. Qualcosa nelle sue parole doveva sembrargli
stimolante o
addirittura divertente.
«Una creatura troppo
potente per
le mie guardie, siamo tutti malati o mutilati, del resto. Ma forse un
ramingo
elfico avrebbe qualche possibilità in più. E
quindi vi chiedo…»
«…di uccidere
ciò che dimora nelle
fondamenta della città» concluse Valiel, con una
punta di noia.
***
La spada spezzata fu ricongiunta
all’altro frammento, che trapassava una incudine ottagonale.
Sosha impresse
molta forza per farla girare e presto venne soccorso da due monatti che
lo aiutarono
nella torsione. Le misteriose incisioni sulla lama rozzamente scolpita
si
illuminarono di un rosso violaceo per un attimo, quindi
l’incudine girò.
Ciascuna delle mattonelle a spicchio che circondavano
l’incudine sprofondò
verso il basso, ognuna fermandosi ad una diversa altezza. In pochi
secondi la
saletta circolare si era trasformata in una scala a chiocciola che
scendeva
ripida verso il sottosuolo. Il sovrano di Morbane guardò
l’elfo e la ragazza
con aria di sfida.
«Una serratura
nanica» osservò
Valiel «può essere preoccupante, credo».
Iniziò immediatamente la
discesa
e Jen non ci pensò un attimo a seguirlo. Appena li vide
sparire Sosha spezzò di
nuovo la spada, che smise di splendere. Gli scalini si ricomposero
nuovamente
in un unico disco di pietra e così l’apertura fu
di nuovo sigillata. Uno dei
suoi cortigiani si avvicinò strisciando sulle ginocchia e
volse l’occhio,
l’unica cosa che le bende avevano lasciato libera, verso il
suo re, mentre gli
altri si disperdevano.
«Sire… siete
sicuro che non
faranno ritorno?»
«Non
c’è nulla che sia sicuro. Se
faranno ritorno, data la difficoltà dell’impresa,
ne prenderò atto e arrangerò
il loro imbarco».
«Ma la cosa che dimora
laggiù non
può certo essere uccisa con semplici armi. Che senso ha
questa prova?»
Sosha sogghignò:
«C’è una ragione
per cui questo è da sempre il castigo che riserviamo ai
viaggiatori del
continente. La conosci?»
L’uomo deforme scosse la
testa
bendata. Camminarono per un po’ lasciando la saletta,
l’uomo inseguiva il suo
Re e le sue risposte.
«Non so come
quell’essere sia
finito laggiù e nemmeno so se davvero un giorno ne
verrà fuori. Neanche so come
i miei antenati l’abbiano rinchiuso e neppure mi interessa.
Ma ecco cosa so:
Morbane è un luogo che il mondo non vuol vedere, che non
vuole ammettere che
esista. Per uno scherzo del destino, la cosa che dimora sotto di noi
è
anch’essa una esistenza che il mondo non accetta. Ecco
perché infligge il
castigo ideale a chi ci rifiuta».
Re Sosha sorrise, mentre i
monatti si facevano di lato per lasciarlo tornare alle sale del palazzo
reale,
ormai invase da muschio e funghi e infestate da giganteschi coleotteri
brulicanti, che si cibavano di sporco incuranti degli umani che
passavano loro
vicino.
«Ma!» fece il
cortigiano,
incuriosito, venendogli dietro «Di che verità si
tratta, mio signore?»
«Non posso saperlo per
certo»
ridacchiò il re «ma in fondo Morbane rappresenta
la prima verità a cui nessun
uomo debole di mente può pensare: la verità della
morte. C’è solo un’altra
verità che terrorizzi altrettanto».
Sosha alzò un dito verso
l’alto,
con un gesto plateale. Il cortigiano diresse l’occhio verso
la volta della sala
dov’erano appena entrati. I muri erano tappezzati dai rozzi
graffiti che i
primi signori di Morbane a contrarre la malattia avevano disegnato.
Erano
disegni privi di senso, evocativi di qualcosa di indefinito legato al
sesso,
alla violenza, all’infermità. Si accavallavano tra
loro fino a formare un unico
inquietante murale: la manifestazione visibile dei loro incubi, delle
loro
menti che si sbriciolavano sotto i colpi del male sconosciuto che li
devastava,
terrorizzandoli.
«La follia. Ecco
l’unica paura
che può competere con la morte. La verità
dell’assenza di qualsiasi verità. Mi
capisci?»
L’uomo abbassò
la testa, come
fosse mortificato. Diversi tra i cortigiani di Sosha un tempo erano
stati
filosofi e sapienti di altri paesi, lui invece era stato un giudice.
Ciò a cui
ambiva era comprendere l’essenza di quel castigo che era
l’estrema punizione a
Morbane ma non riusciva ad afferrarla. Né riusciva a capire
cosa venisse
effettivamente punito, se non l’incapacità di
sopportare una verità
insopportabile. Ma quale?
«Non comprendo, sire, mi
spiace»
ammise infine.
«Mettiamola
così» spiegò Re Sosha
portandosi la spada spezzata sulla spalla «se usciranno vivi
da lì, non vedo
ragione di punirli. Ma io non credo che la cosa che dimora
laggiù abbia mai
ucciso qualcuno. Credo piuttosto che chiunque l’abbia vista
si sia tolto la
vita».
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