Runica - Sorgi e Splendi

di Leo_Zanardi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ritrovarti Qui ***
Capitolo 2: *** All'Ombra della Forgia ***
Capitolo 3: *** I Cancelli di Zoa ***
Capitolo 4: *** Il Ladro ***
Capitolo 5: *** Per il Blu Minore ***
Capitolo 6: *** Battaglia sul Mare ***
Capitolo 7: *** L'Armata Chimerica ***
Capitolo 8: *** MORBANE ***



Capitolo 1
*** Ritrovarti Qui ***


0. RITROVARTI QUI

 

Il primo giorno del regno,

sorge un sole come qualsiasi altro.

 – Albraber, storico drailiano

 

«Ecco, ero sicura di ritrovarti qui» commentò Ed tra sé, scocciata.

L’aveva detto, che non voleva stare lì. Ma Ed aveva immaginato subito che la mattina dopo ci sarebbe tornata, malgrado quello che aveva detto. E il casolare – una vecchia fabbrica abbandonata, piena di sacchi di sabbia e altro materiale gettato alla rinfusa – ora sembrava diventato quasi un tempio, con tanto di pellegrini in visita. Alla luce del mattino sembrava che i muri di mattoni anneriti dal fumo splendessero un po' più di prima, quasi che l’intero scenario volesse di proposito tingersi di una spoglia sacralità.

«Mi tocca stare in fila. Che roba».

Fuori dal casolare c’era una fila di persone e colei a cui si rivolgeva era all’interno, e naturalmente non poteva sentirla. La metafora era appropriata: c’era una massa di gente tra le due ragazze, e la comunicazione era impossibile. In un certo senso, non era mai stato altro.

«Venite anche voi a ringraziare, giovane nana?»

«Ma zitto, vecchio bacucco».

L’anziano si allontanò da lei di un passo, infastidito. Alla fine della fila, una giovane guerriera dall’aria stanca che di tanto in tanto, sforzandosi di mantenere un tono gentile, esortava: «Avanti, il prossimo, su».

Di certo, anche lei si rendeva conto dell’assurdità contraddittoria della situazione in cui tutti loro, di colpo si erano trovati. O forse no. Forse non se ne rendevano conto affatto, o preferivano far finta che fosse così. Era quel che, dopotutto, si poteva definire un buon intuito, una capacità di capire dove tira il vento. Forse lei non l’aveva.

«Vai a rendere omaggio?» chiese una voce.

Sobbalzò appena: «Ma sei scemo. Non venirmi alle spalle così».

Gli occhi color senape dell’elfo si incontrarono quelli ramati, da nano, di Ed. Nuovamente, l’elfo scandì lentamente.

«Vai a rendere omaggio?»

«Col cazzo» ribattè lei, sboccata come spesso era, quando si innervosiva.

«Delicata».

«Vuoi vedere quanto delicata posso essere?»

«Su, non roviniamo il momento. Questa gente è sollevata».

«E tu ci tieni molto alla gente, dopotutto».

«Nemmeno un po'».

La ragazza ridacchiò.

«Uno sviluppo inaspettato, eh?»

«Forse» smorzò l’altro con un sorrisetto.

La fila, intanto, procedeva lentamente.

«Forse, dice lui. “Forse”, sì. Sei proprio un brutto soggetto, lo sai?»

«Sembra che la cosa ti diverta».

«Tu sei bravissimo a far finta che diverta te».

L’altro allargò le braccia: «Colpevole. Ma siamo in due, dopotutto».

«Oh, no. No, no, no. Io non fingo che non mi freghi. Non mi frega proprio».

L’elfo tacque per qualche secondo, prima di commentare a bassa voce.

«Fai la fila con gli altri, così potrai dirle quanto poco ti frega».

«Ti odio» disse lei con un sorrisetto triste che smentiva quelle parole.

Arrivata davanti alla porta, la guerriera la riconobbe e le diede una pacca sulla spalla con energia.

«Piano, sono ancora dolorante».

«Non dirlo a me».

«Allora entro».

«Certo. Le farà piacere».

«No. Non credo».

Una vecchietta uscì aprendo appena il portone di legno, lasciandolo socchiuso. Ed lo attraversò, e attraversò il piccolo rudere, che era stato un impianto di lavorazione dello zolfo, a giudicare dall’odore. C’erano doni adagiati che lei sorpassò senza neanche guardare cosa fossero, avvertendo che c’erano solo per via di profumi che smorzavano il residuo sulfureo. Seduta su un sacco di pietrisco, l’altra alzò lo sguardo.

«Ah, sei tu».

Forse lo sapeva, cosa era venuta a dirle.

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Capitolo 2
*** All'Ombra della Forgia ***


 

 

1. ALL’OMBRA DELLA FORGIA

 

Il primo che ha intagliato dalla pietra la prima arma fu anche il primo a sedere su un trono.

 – Fridun Nix, filosofo di Dulinhall

 

Ed aprì gli occhi e in un unico, concentrato, istante fu immediatamente sveglia. Non era insolito, per lei, svegliarsi in una frazione di secondo: era come protestare contro il sonno che tante preziose ore di lavoro le sottraeva. Cercò con le mani il berretto accanto al letto, il suo caro, vecchio berretto “da strillone” come si diceva in città, perché era spesso usato dai ragazzi che urlavano le notizie. Lo carezzò con affetto, congratulandosi con sé stessa per il suo buono stato.

Se si rovinasse, che penserebbero i miei amici?

Indossandolo cercò di togliersi dal viso le ciocche rosse dei suoi ingovernabili capelli; ciononostante, svariati ciuffetti continuavano a finirle ostinatamente sugli occhi e per questo imprecò a profusione – sebbene anche questo rientrasse nella normalità – poi cercò gli occhiali da fabbro, pulendoli distrattamente dalla fuliggine, e li usò per stringere il berretto sui capelli. Si guardò intorno: lo stanzino esagonale di pietra chiara che ospitava il suo letto era debolmente illuminato dalla luce color crema di un cristallo, vi cercò lo specchio, una placca ottagonale che la rifletteva perfettamente: le occhiaie non erano sparite con quelle poche ore di sonno. Passò una mano sulle sue guance nere e lucide come l’onice, nere come il resto del suo corpo.

Magnifica presenza, un viso aristocratico degno delle nobili stirpi dei nani, testimone della purezza del sangue.

Chissà dove tutte le nobili stirpi erano andate a finire con la loro purezza? Pur infastidita da quel ricordo indesiderato, dovette ammettere con sé stessa che era stato comodo avere ancelle sempre dedicate alla sua bellezza, a mantenere lucida la sua pelle nera, luminoso ogni riflesso dei suoi capelli ramati, impeccabili le sue vesti di aristocratica purosangue; col tempo il lavoro aveva imposto i suoi segni sopra tutto questo e lei era troppo impegnata o stanca o distratta per  farci qualcosa.

In ogni caso, mi preferisco così. Sono più bella in questo modo… diciamo.

Si tirò in piedi, calpestando la coperta di pelle d’orso. Pose una mano sulla parete e chiuse gli occhi, concentrandosi come solo un nano poteva fare sulle vibrazioni che percorrevano il suolo: percepì che la temperatura della superficie era piuttosto bassa, quindi infilò sopra i pantaloni dell’uniforme  un gilet rosso scuro in tartan. Un pesante sospiro e, infilati gli stivali, non le rimase che girare la valvola e, con essa, la parete dell’abitacolo cominciò a roteare fino a schiudersi del tutto. La volta della galleria le si aprì davanti: tutti gli altri esagoni erano già aperti e vuoti, ciascuno degli apprendisti nani che vi riposava era sicuramente già alla Forgia, o quasi; sopra la galleria la città era già sveglia e attiva, poteva sentire il calpestio della gente che si spargeva sulle strade. La campana suonava la nona ora, poté sentirlo anche attraverso le mura sotterranee, e lei era di nuovo in ritardo.

***

Jen si sciacquò di nuovo il volto con l’acqua fredda del fiume, poi rimise mano al bucato. Da ormai due anni era diventata quel che si dice una donna di casa, ma il suo corpo di sedicenne, figlia maggiore che era stata coccolata e addirittura – nei limiti della sua famiglia, non certo abbiente –  quasi viziata, faticava ad accettare il cambiamento. Le sei del mattino andavano bene per dormire, non per fare il bucato nel fiume gelato. Ma come aveva fatto sua madre a lavorare così, da quando suo padre era mancato? Tuttavia, senza dubbio, Jen preferiva proprio le ore che precedevano l’alba, quando poteva lavorare in pace con il sole come unico compagno, sole che era ancora soltanto un sospetto rossastro oltre l’orizzonte. Le ore successive andavano peggiorando, via via che la costruzione svettante al centro del lago in fondo alla valle prendeva vita. Suonava quasi la nona ora, adesso, e le bocche incandescenti della Forgia sputavano senza sosta fumo nero che divideva il cielo in ampie fette di azzurro; e come ogni giorno, intorno le volavano in cerchio quelle cose, che si sarebbe potuto scambiare per uccelli ma che certamente non lo erano. Ogni tanto qualcuna doveva spostarsi verso altre città e passava sopra le loro teste, spaventando gli animali. Un paio erano atterrate davanti alla fattoria, probabilmente avendo scambiato le pecore per un manipolo di banditi o qualcosa del genere, ma fortunatamente limitandosi a squadrare Lor e Yul per un po’ per poi ritornare al luogo che erano preposti a custodire. Nel pomeriggio, la struttura perdeva sempre più i suoi contorni nel cielo che imbruniva, fino a lasciare visibili solo le ciminiere accese, come occhi incandescenti di un ragno che troneggiava perfido sul lago. Di certo anche da Kalaston, le cui bianche case erano pigramente adagiate sul versante opposto, potevano vedere la Forgia, ma per loro non avrebbe mai avuto lo stesso significato: per la città, la Forgia che sorgeva al centro della valle significava l’armonia tra umani e nani, l’espansione del benessere della città, la dimostrazione della forza di quella comunità un tempo insignificante; per la campagna, era un’invasione di campo, una contaminazione del proprio spazio vitale e in sostanza una convivenza forzata.

***

Valiel interruppe la meditazione quasi costringendosi; il sole filtrava tra i raggi illuminando da diverse angolazioni proprio ciò che lo aveva disturbato. Era un lupo enorme, dal manto striato di diverse tonalità brune, gli occhi profondi puntati dritti nelle sue iridi chiare di elfo, due gemme ambrate nel suo viso olivastro. Alzandosi da terra, il fogliame che s’intrecciava nel mantello di Valiel cambiò colore e forma, abbandonando le verdi foglie ovali del suolo che imitava e tornando alla loro reale forma bruna e frastagliata.

Camminò verso l’animale e gli pose una mano sulla fronte: «Minacce?» domandò al lupo in una lingua non umana.

L’animale fece un cenno e corse in una direzione ben precisa, tra gli alberi. L’elfo saltò agilmente tra i rami per arrivare in alto, così da individuare cosa fosse a spaventare la foresta, e guardò nella direzione in cui era corso il lupo. Finalmente riuscì a vederli: passarono in fretta, ad una velocità che l’occhio umano non avrebbe seguito facilmente, erano in quantità decisamente insolita ed anche diversi per forma e dimensione da quelli che volavano intorno alla Forgia poco distante; sebbene si spostassero fluidi tra un albero e l’altro era facile capirne la traiettoria, erano diretti proprio lì alla Forgia o forse alla città di Kalaston, poco oltre. Tuttavia volavano bassi e le loro forme, che gli ricordarono dei pesci manta, stavano in verticale tra gli alberi, così da tagliare l’aria come una spada e da spostarsi tra gli alti tronchi senza essere visti: se fossero stati diretti ad una grande città, quella precauzione non avrebbe avuto alcun senso. Sicuramente volevano percorrere la foresta fino a valle e poi raggiungere la Forgia nascosti sotto il pelo dell’acqua lacustre. Valiel rimase per un po’ indeciso sul da farsi; disegnò un ampio semicerchio con lo sguardo cercando qualcun altro sui rami, prima di constatare che era l’unico ramingo nelle immediate vicinanze. Non sapendo quanto fossero passati vicino a Evalunith, era impossibile determinare se altri elfi li avevano notati, se avessero riportato qualcosa ai rifugi e se avessero ricevuto ordini dalla regina. In effetti, come poter anche solo ipotizzare che fosse qualcosa degna di nota? Se non vedeva con i suoi occhi quelle cose tuffarsi nel lago, e quindi riportare alla Forgia qualcosa di estremamente importante, estremamente urgente ed estremamente segreto, non poteva concludere di aver visto alcunché di strano. L’unica via, dunque, era cercare di seguirli.

***

La piastra rovente faceva sfrigolare il pane al contatto col burro fuso. L’odore di maiale affumicato e formaggio stagionato iniziava, con il calore, ad abbandonare il pane tostato e a diffondersi nell’aria.

«È bello caldo ormai, perché non ci spacchi due uova sopra?»

«È ancora presto, Ed, non cuocerebbero».

«Io dico di sì e ho fretta».

«Ukor sia benedetto! Mi lasci lavorare?»

Ed decise di non parlare più finché Wulf non decise che era effettivamente il momento di rompere due uova sul toast. Si batté una mano sulla fronte nera come a commentare lo spettacolo di un individuo senza speranze. Dall’alto partì un secondo flusso di calore, che doveva cuocere le uova.

 «È inutile fare il muso. Non ho colpa se ritardi sempre. E poi è giusto il secondo stamattina, spero non ti mangi solo questi per colazione. »

Ed sbuffò guardando di lato, mentre le sue dita nere agguantavano il pane ancora rovente. Dovette aspettare ad addentarlo: la pelle dei nani resisteva bene al calore, ma la lingua non poteva dirsi troppo migliore di quella di un umano o un elfo.

«Prendi solo quello? Sono due giorni che mangi come un bimbo. Fattene almeno altri due!»

«Una colazione leggera andrà bene, per oggi… non rischio di morire di fame ed ho fretta. Se volevi che ne mangiassi quattro dovevi essere il doppio più svelto» ribatté lei alzandosi.

«Un po’ di yogurt col miele? Del formaggio fresco? Birra nera?» insistette l’altro.

«Non ho fame ti dico!» sbottò infine mentre già si accaniva senza remora su pane, prosciutto, formaggio e uova che soccombevano ai suoi morsi.

«Lasciami stare! Sto a posto così» assicurò parlando a bocca piena.

Wulf decise che era il suo turno di tenerle il broncio. Ed lo notò all’istante.

«Scusa» sussurrò lei «è che… sono davvero indietro con quel lavoro… i nervi mi chiudono lo stomaco…»

Wulf soffiò fuori dalle narici tutta la sua insoddisfazione per quel tentativo di scuse. Ma prima che il lungo, collaudato e ripetitivo rituale delle scuse tra amici potesse durare oltre, un tremito nella parete di roccia segnalò l’arrivo della funivia che l’avrebbe portata direttamente alla Forgia passando per il sottosuolo.

«Mi farò perdonare! Domani ne mangio almeno sei!» cercò di scandire Ed tenendo il toast nei denti, mentre si avviava.

Si annunciava una pessima giornata. Doveva arrivare alla Forgia senza passare dalla superficie per sbrigarsi e la cosa la indispettiva: aveva proprio voglia di vedere il sole. Inoltre, malgrado i Mastri avessero annunciato un giorno importante, la cosa non aveva avuto un impatto apprezzabile sulla sua puntualità. Questo non sarebbe passato inosservato.

***

Sette giovani nani muovevano il loro corpo in sincrono, la tensione dell’attesa che esplodeva in movimenti spigolosi e decisi secondo un ritmo silenzioso ma ben inciso nella loro memoria. Sette mani tracciarono in aria delle grandi rune dal medesimo significato: “Ukor”. Era l’ultima parola dell’esercizio e lo concludeva, il nome del dio patrono dei nani, il grande fabbro, e la parola finale del ringraziamento religioso per gioire insieme dell’opera appena creata. Il potere della runa richiamò quello di Ukor, il cui nome era appena stato inciso sette volte nell’aria, e i segni tracciati si colorarono di un bagliore incandescente. I sette apprendisti trascinarono rune fiammeggianti col dito indice, fino ad apporle nelle forme metalliche appena create, dove si incisero oscurando l’acciaio. Si erano incise in totale tre rune su ciascuna delle sette lame, e ciascuna lama aveva quindi ricevuto il medesimo nome: Spada Consacrata ad Ukor. Lo stesso nome di migliaia di opere identiche, prima di queste; Ed osservò la sua con sguardo annoiato: un’opera uguale a tutte le altre non poteva dirsi veramente sua ed era certa che ciascuno dei suoi compagni la pensava allo stesso modo. Perché solo lei non si preoccupava di nasconderlo? Odiavale ipocrisie anche e soprattutto quando un’intera società le praticava.

«Bene, bene…»

Mastro Airon si carezzò il pizzetto corto e appuntito e prese a camminare tra loro lasciando ondeggiare l’ispida, lunga coda che legava i suoi capelli bianchi. Gli altri mastri seguivano Airon con lo sguardo. I suoi lineamenti color cemento si contrassero varie volte in maniera appena percettibile e sempre differente, come se ciascuna di quelle creazioni metalliche apparentemente identiche meritasse un discorso a parte; tuttavia, a causa della lente semicircolare che gli circondava il viso, coprendo completamente gli occhi, era impossibile determinare chi di volta in volta stesse guardando attraverso la superficie riflettente. Dopo aver esaminato ciascuno di loro, parlò.

«Molto bene. Ora provate a sentire ciò che avete creato. Ad entrare in comunione con esso».

Erano oggetti simili a ruote metalliche; da un lato del cerchio si allungava una lama lunga, larga e piatta: erano spade che erano state pensate per non essere impugnate, per muoversi nell’aria seguendo la volontà del loro padrone, dato che di solito questa è più veloce della mano dello stesso. Ciascun apprendista mise il pugno chiuso sopra il cerchio, rivolto verso l’alto, e così sentì una corrente collegare il dorso della mano all’epicentro del potere che aveva appena imbrigliato nel metallo. Le armi scivolavano nell’aria fino a fissarsi all’altezza del gomito, così da essere come una prosecuzione del braccio stesso. In sincrono gli apprendisti sollevarono i pugni, che trascinarono con sé, sospese a mezz’aria, le lame, mentre come a passo di danza tutti e sette vibravano un colpo di taglio quasi a voler tranciare l’aria in due. Ed, proprio come ciascun altro apprendista, constatò con soddisfazione che la lama seguiva il braccio, come doveva.

«Imparate ad usare l’attrezzo più importante: la vostra mente. Essa è a sua volta uno strumento, uno strumento dell’anima. E così l’anima forgia la mente ed essa tramite il corpo forgia la realtà. E se la vostra carne, originata da voi, può sottomettersi all’impulso della mente, perché non può farlo il metallo? Convincetevi di questo!»

L’esortazione urlata dal Mastro Airon echeggiò nell’ampia volta della sala tempestata di incudini di diversa altezza poste ad ugual distanza, come capitelli ornamentali nella sterminata superficie di un tempio. Sembrava che avesse parlato la Forgia, nella sua interezza. Era piuttosto vicino ad Ed e quando urlò di nuovo la fece quasi sussultare.

«Convincetevi! La vostra convinzione scolpirà la realtà stessa! Ora… mostratemelo!»

Lentamente, le lame fluttuanti presero a roteare su se stesse, come i loro padroni chiedevano loro di fare. Ben presto iniziarono a scatenare una pioggia di scintille dai colori rosso fiamma e verde acqua, i colori del fuoco sacro di Ukor, la cui vista ipnotizzava i nani sin dalla nascita. L’energia magica era intrinsecamente legata a ciascuna lama, ciascuna runa aveva operato correttamente, ciascun apprendista era riuscito nell’intento.

«Il potere di forgiare» prese a dire Airon «è un potere creativo. È nato per costruire e non per distruggere. E tuttavia, ci è data la possibilità di forgiare armi. Nell’arma imbrigliamo la nostra voglia di distruggere, la nostra aggressività, e le permettiamo di resistere nel tempo, addirittura possiamo donarla ad altri perché combattano per noi o per sé stessi».

Il Mastro tacque per qualche secondo, come per dare il tempo a ciascuno di pesare bene quelle parole. Le lame continuavano a girare descrivendo cerchi perfetti. Nessuno perse la concentrazione.

«Invero, quello di creare armi è un potere enorme e terribile. E tuttavia alcuni di voi sceglieranno di usare questo potere creativo, come abbiamo fatto oggi, proprio per creare armi che distruggono. Per combattere per gli altri o per sé stessi. Ma chi di voi si sente in grado di piegare tale potere? Di controllarlo? Di dominarlo?»

Il Mastro passeggiò pazientemente tra gli allievi. Constatò con un dispiacere molto ben celato che nessuno di loro aveva perso il controllo della lama, che manteneva costanti velocità e traiettoria. Tutti loro, dunque, sarebbero probabilmente diventati fabbri di armi, un esito che negli anni era sempre più comune al concludersi degli apprendistati. Le altre arti, invece, si facevano sempre più rare. Quasi che i giovani stessero col tempo maturando una necessità ormai insopprimibile di violenza. Veniva da chiedersi che senso avevano avuto, per le generazioni che li avevano preceduti, i tanti sforzi per arrivare finalmente a lunghe parentesi di pace nella trama della storia, se poi anche nella pace permaneva una atavica nostalgia delle epoche insanguinate. Un ciclo infelice in cui gli avi soffrono per ottenere una pace che i loro discendenti non tengono in gran conto.

«Molto bene» concluse a malincuore «la vostra determinazione è forte. Ora imponete voi stessi a voi stessi: che si fermino le lame… ora!»

Le lame erano ormai indistinguibili, solo cerchi di metallo acuminato e roteante, eppure appena fu impartito l’ordine di Airon agli studenti, e dagli studenti ai loro strumenti, questi si immobilizzarono a mezz’aria nello spazio di un frammento di secondo. Imperlata di sudore, Ed guardò la punta della sua lama raffreddarsi e perdere il suo bagliore rossastro mentre le scintille saltellavano spegnendosi sul pavimento.

***

Non ci mise molto ad individuare Svea che passeggiava lungo la balconata, godendosi l’acqua profonda priva di increspature del Lago Kalst e le ciminiere che si specchiavano perfettamente in esso.  Da sempre Ed era affascinata dalla figura del Mastro Svea, la cui eleganza e femminilità non avevano nulla da invidiare ad una principessa elfica. Dai suoi capelli, bronzei come la pelle di lei, lisci e perfettamente sfrangiati, partivano libere, dalla sommità del capo, tre lunghissime trecce che scendevano lungo tutta la figura vestita di bianco candido; intorno al collo e ai polsi indossava gioielli, si diceva, di sua personale fattura, che sembravano come di fuoco liquido e cambiavano costantemente forma, creazioni raffinate come Ed non aveva visto da nessun’altra parte. Secondo l’antica saggezza dei primi Granmastri, l’artigiano deve in generale saper parlare con il suo elemento, comprenderlo, fondersi con esso – creta, roccia, legno che fosse. A tale regola fa eccezione il fabbro, che sul fuoco deve prima di tutto sapersi imporre con la propria volontà, persino con violenza; ma Svea costituiva una ulteriore eccezione: sembrava poter ragionare col fuoco e i metalli e domarli come fossero docili animali ammaestrati, spingendoli a prendere forma con una precisione e un perfezionismo che le mani, di umano o nano, non avrebbero mai ottenuto battendo direttamente sul metallo rovente. Era un ideale a cui aspirare non solo per Ed ma per moltissimi giovani apprendisti, maschi e femmine. Era, oltre che una forgiatrice eccezionale, incredibilmente elegante e nobile nel modo in cui solo una donna può essere, due tratti che in lei erano in armonia e non in contrapposizione: un traguardo tanto ambizioso che Ed aveva da tempo scelto di rinunciarvi del tutto.

«Mastro!» chiamò.

Svea si voltò e sorrise nel riconoscere la figura nerissima di Ed. L’apprendista corse entusiasticamente verso di lei, che si appoggiò delicatamente alla balaustra.

«Un’opera di ottima fattura, quella di oggi. Non ti manca molto per concludere l’apprendistato».

Ed ribatté con una smorfia annoiata: «Ottima fattura? Erano tutte uguali».

Svea ridacchiò sommessamente: «Sei davvero benedetta da Ukor, oltre alla sua arte possiedi la sua impulsività. Devi avere pazienza e affrontare il percorso per gradi. E poi non dimostri buonsenso a lamentarti: dopotutto proprio l’esecuzione perfetta della prova di oggi ti è valsa il perdono per il tuo ennesimo ritardo».

Ed sbuffò stravaccandosi sulla balconata. Non provò nemmeno a ribattere, si limitò a riflettere tra sé e sé su quanto Svea avesse, assieme al potere di affascinarla, quello di deluderla. Per quanto la sua mente potesse essere aperta e decisamente geniale, ogni volta che si aspettava più comprensione da lei, Svea era un muro di gomma e non rinunciava a difendere tutte le regole che governavano la vita nella Forgia. Stupide, inutili regole.

«Sai bene che vado molto oltre quella roba, Mastro» obiettò debolmente, senza sperare di convincerla.

Per un momento Svea sembrò accennare un assenso: sapeva bene che quella non era semplice vanteria ma la sfidò immediatamente: «Perché sei qui, se lo pensi veramente?»

«Anche qui ci sono cose che devo ancora apprendere».

«Non è la vera ragione» obiettò Svea ma non insistette oltre: «Sia come sia, devi comunque fare il tuo percorso come tutti gli altri. Non è bene iniziare un viaggio dalla sua meta».

Ed nascose il volto tra le mani: «Ancora con questi sermoni. Mi annoio talmente tanto che a volte penso potrei mummificarmi qui dove sono. Diventerei un caso interessante… unico… scriverebbero libri sulla mia mummia. Voglio dire, su di me».

«Col tempo capirai» con questa frase Svea intendeva ogni volta, piacesse o no, chiudere definitivamente il discorso.

Dopo qualche minuto, Svea riprese a parlare: «Sei determinata ad abbandonare la Forgia? Potresti diventare un vice-Mastro in pochi anni. Renderesti gloria a questo luogo».

«Non m’interessa la gloria. Anzi, la evito».

«Allora non ti resta che il Pellegrinaggio dell’Apprendista».

«Infatti».

«Hai pensato a che materia prima cercare? A cosa creare con essa?»

«Ho alcune idee» alluse Ed con un sorriso.

«Sì… Quaquathor mi ha detto che hai sfoggiato un sacco di nuove trovate alla Prova della scorsa settimana».

«Ha detto così…? Di sicuro in una luce più negativa».

«Hai pregiudizi su di lui».

«E lui su di me» si difese la giovane.

Quasi come se lo avesse richiamato, suo marito salì le scale da cui anche Ed proveniva. Mastro Quaquathor rappresentava tutto ciò che la sua compagna Svea non era: aveva la figura tarchiata, una folta barba e capelli color acciaio tappezzati di monili rudimentali che li dividevano in ciuffi spioventi. Gli enormi occhiali aderenti agli occhi, che si sarebbero quasi detti piccoli telescopi, testimoniavano la violenza con cui Quaquathor litigava con le fiamme, rischiando ogni volta di accecarsi con qualche lingua fiammeggiante che sottometteva con la forza bruta. E tuttavia questo incredibile impeto lo rendeva noto e temuto ben oltre i confini della Forgia stessa. Ma pur rispettando la sua abilità e la sua forza, cosa Quaquathor avesse che poteva attrarre Svea, Ed non lo avrebbe mai capito.

«Salve, signorina.  La sua opera oggi…»

« …era di ottima fattura» concluse Ed sconsolata, con un tono troppo monocorde per potervi individuare sarcasmo.

«Precisamente. Tuttavia non mi sfugge la vostra ironia. È fuori luogo, considerando il vostro comportamento e l’ennesimo ritardo. Signorina, portare il titolo di mastro forgiatore significa…»

Ed ascoltò le reprimende di Mastro Quaquathor appena lo stretto indispensabile per annuire poco convintamente, quando era praticamente obbligata a farlo dal discorso. Ed rispettava Quaquathor ma non riusciva a entrare in relazione con ciò che lui rappresentava: un’altra epoca, un tempo che non esisteva più. Un tempo passato in cui i nani passavano la loro vita vedendo il cielo appena una o due volte, per lo più sepolti vivi in officine grandi quanto intere città, dedicando l’intera vita alla qualità – sacrificando sé stessi e la loro intera, lunga esistenza alla perfezione di un unico manufatto – o altrimenti alla quantità, ammucchiando oceani di monete d’oro che illuminavano a giorno le volte di pietra geometriche e solide. Un passato di nani che correvano qui e lì lungo le gallerie, sempre col fiatone e sempre con un boccone quasi strozzato in gola, sempre di fretta tra un’opera e l’altra, maschi che si confrontavano orgogliosi trecce e ricci delle loro lunghe barbe e donne che si vantavano di poter cucinare un montone intero, canzoni sempre nuove – milioni di canzoni – che risuonavano martellanti nei saloni sotterranei, mercanti che negoziavano nevrotici con gli elfi per acquistare semi e frutti di piante che crescessero anche sotto terra e con gli umani per recuperare congegni e macchine su cui lavorare. Un tempo di tradizione, identità, consapevolezza. E anche un tempo grandioso, di sogni e di gloria, di imprese storiche e grandi conquiste.

«Sì, Mastro» ripeté ancora e ancora, persino quando Quaquathor la ammoniva di non dargli ragione in quel modo canzonatorio.

Il fatto era che Ed non pensava realmente che quel tempo fosse finito: piuttosto, che non fosse esistito mai realmente. Ogni epoca era condannata a sentire la nostalgia di un’altra, di un tempo migliore eppure perduto che – se la mancanza si avvertiva tanto marcatamente – doveva essere esistito, certamente. Ma era solo un’illusione. Per lei non c’era gloria o onore nel passato, né valori o insegnamenti da recuperare e da riscoprire, tutt’al più c’era qualche conoscenza tecnica smarrita che poteva essere ritrovata. Non c’era nobiltà nella storia della sua gente, né in quella delle altre genti. I nani avevano vissuto in un modo e ora vivevano in un altro: non c’era un senso dietro quel fatto. Ma per i nani come Quaquathor, che avevano assistito al tramonto di quei tempi, trasmetterne l’essenza alle generazioni successive era come una missione.

«Sì, Mastro» annuì ancora.

Ma Mastro Quaquathor si era interrotto bruscamente e Ed se ne rese conto. Come sua moglie Svea rimase immobile a fissare il lago. Ed impiegò qualche secondo di strano silenzio per mettere a fuoco la situazione e rendersi conto che entrambi osservavano tesi e concentrati la superficie lacustre. Compreso dove guardavano anche Ed si sporse, per vedere qualcosa di decisamente inusuale che ne increspava la superficie.

***

Jen fece in tempo a notarli con la coda dell’occhio, poi l’avevano già superata. Si erano tuffati nell’erba alta come pesci che nuotavano tra i fili verdi, come grandi mante volanti. Subito avevano cambiato forma diventando più simili a dei levrieri da caccia, solo troppo grandi per essere scambiati per cani. L’allarme era stato immediato: quelle tre cose si precipitavano, velocissime, verso la riva. Verso Lor e Yul. Non ne aveva mai viste di simili a quelle, neppure nel comportamento: sembravano incuranti di ogni essere vivente che avevano intorno e procedevano come dardi, puntando un obiettivo a lei ignoto e non considerando nient’altro sulla loro traiettoria. Se aveva sempre trovato quelle cose inquietanti, in queste in particolare c’era qualcosa di persino terrificante. La mente di Jen si fermò e cancellò ogni pensiero: realisticamente, il suo intervento non avrebbe potuto cambiare nulla ma il suo corpo si mosse comunque da solo, correndo verso la riva.

«LOR! YUL!»

Chiamò più volte con quel poco fiato che la corsa le lasciava. Più volte rischiò di cadere nella discesa, fin quando finalmente fu abbastanza vicina da vederli. Yul era come era sempre stato, dalla scomparsa della madre: immobile, silenzioso e totalmente celato dietro i suoi lunghi capelli fluenti; Lor si agitava disperato attorno ad una macchia rossastra e sconquassata che imbrattava la scogliera.

«Lor! Lor!»

La capigliatura a porcospino del ragazzo si sollevò, il suo sguardo dilatato si staccò dalla poltiglia sanguinolenta che aveva ai piedi e si portò sul volto della sorella maggiore. Il suo solito piglio spavaldo e insolente, da teppista, era sparito: era totalmente sconvolto, fuori di sé.

«…Jen… Jen… io… Tiny… Tiny!»

«…Tiny?» guardando ancora ai piedi del fratellino, Jen finalmente comprese dove era finito il loro cagnolino.

Ma perché quelle cose, quei golem avrebbero dovuto attaccare un cane, si chiese? Che minaccia avrebbe mai potuto rappresentare? E poi, perché quei golem erano così diversi dagli altri della Forgia?

«Yul!» al richiamo determinato della sorella maggiore, Yul si avvicinò quietamente «Cos’è successo?»

Venuta meno l’attenzione della sorella, Lor riprese a piangere sui resti. Sembrava quasi indeciso sull’eventualità di raccogliere quei pezzi smembrati con le nude mani.

«Dei golem sono arrivati. Erano strani, diversi. Molto veloci. Tiny è morto».

Jen piantò gli occhi ben fissi su quelli inespressivi del ragazzo: «Come è morto?»

«…Tiny…» continuava a ripetere Lor, con voce sempre più debole, quasi con un sussurro.

«Deve averli presi per dei lupi. Strani, molto aggressivi. Tiny ha abbaiato contro i golem».

«Forse lui… voleva proteggerci…» aggiunse Lor.

«…come faceva suo padre con le pecore» assentì Yul con tono indecifrabile.

«Ma era ancora così piccolo…» l’inciso di Lor era così sommesso e distante che avrebbe potuto venire da sottoterra.

«I golem hanno reagito» spiegò Yul per concludere il racconto, lasciando il resto all’immaginazione.

Jen si rivolse alla Forgia, ancora immobile sul Lago Kalst. Aveva sempre pensato che prima o poi tutte le stranezze di quel posto avrebbero portato guai alla fattoria, era solo questione di tempo. E il tempo era giunto.

«Corriamo a casa. Svelti» ordinò.

***

Valiel fece un po’ fatica a seguire i golem che schizzavano tra gli alberi ma alla fine riuscì a raggiungerli poiché proprio loro rallentarono. Si fermò sull’ultimo albero prima che iniziasse la vallata che andava verso il lago, abbastanza in alto da seguirne i movimenti. Mutarono rapidamente forma, in una struttura quadrupede più adatta a correre nascosta dall’erba alta; Valiel sapeva che molti golem potevano farlo ma non aveva mai visto metamorfosi tanto radicali e immediate. I golem arrivarono fino ai confini della valle, alla riva del lago, passando bruscamente in mezzo a due ragazzini umani e uccidendo un cucciolo di cane che calpestarono come per togliersi di torno un fastidio. Poi accadde qualcosa di ancor più strano: piuttosto che tuffarsi in acqua cambiarono di nuovo forma in qualcosa di simile a un serpente alato, quelli che a est chiamavano dragoni di Izun; e in questa nuova forma attraversarono il lago a pelo d’acqua, come volessero eludere gli sguardi. Ma di chi, degli estranei alla Forgia o dei Signori della Forgia stessi? E perché evitare l’acqua? I golem non provavano paura per l’acqua, né per nient’altro… non provavano nulla, se non le stesse impressioni e idee di chi li controllava. Sulle prime, Valiel aveva pensato ad una comunicazione da altre Forge; magari da L’Argeant o dalle Isole Ranaluta, riguardanti lo stato della Bocca del Chimaer che si era schiusa a nord-est o nuovi studi sul controllo del tempo atmosferico. I nani pensavano spesso di tenere per sé stessi queste cose e di comunicarle agli alleati solo una volta prese le proprie decisioni, come del resto facevano anche umani ed elfi quando si presentava l’occasione – sulle Bocche del Chimaer comunque c’era poco da scherzare e ciascuno pensava che fosse meglio fare a modo proprio. C’era un’altra possibilità, che non si trattasse di comunicazioni segrete ma di un attacco a sorpresa alla Forgia, evidentemente eseguito con l’aiuto di un mastro forgiatore nanico. Ma un nemico che pensasse di attaccare la Forgia doveva essere pazzo oppure abbastanza potente da impensierire persino Valiel e la sua gente. I golem continuavano a sfrecciare sul pelo dell’acqua zigzagando, forse tentando di distrarre eventuali osservatori, era difficile dirlo. Certo fu che i golem che sorvegliavano le ciminiere, volando in circolo, non notarono i nuovi intrusi e li lasciarono passare con facilità. L’elfo li osservò con ammirazione cambiare ancora una volta forma e, mutati in figure vagamente aracnidi, risalire metodici le pareti della Forgia senza attirare l’attenzione. Un potere davvero grande era quello all’opera, di sicuro c’era dietro un mastro forgiatore abile e creativo. L’attacco alla Forgia si consumò in tutta la sua forza distruttiva in appena una manciata di minuti.

***

Erano passate diverse ore ormai. Ed trascinava il suo corpo nell’erba con una stanchezza infinita. Sopra di lei, il cielo era una coltre nerissima e opprimente che celava potenziali pericoli. Tutte le stirpi più antiche dei nani avevano una certa paura degli spazi aperti e sconfinati, paura che qualche volta sfociava in una vera e propria agorafobia, ma mai come in quel momento Ed poteva comprendere il timore atavico che la sua gente provava sotto il firmamento notturno vertiginosamente ampio e l’impellente necessità di seguire il proprio istinto e nascondersi sottoterra.

«Nelle braccia di Isor si culla Ukor, dormono i nani protetti sotto la terra degli elfi» recitò con amara ironia, sputando il sangue che aveva succhiato dal suo labbro spaccato e rimpiangendo di non avere una bella tana profonda in cui rifugiarsi.

Si voltò ancora, d’istinto, pur consapevole dell’impossibilità di determinare dove fosse il pericolo. L’erba, chiazzata qua e là dal sangue che le sgorgava dal braccio, aveva lasciato un sentiero di fili spezzati a testimoniare quanto a lungo aveva camminato: aveva fatto pochi passi, fu costretta a constatare, molti meno di quanti le erano sembrati – la riva, nera di tenebre, la Forgia in preda alla confusione e alle fiamme, erano ancora vicini, eppure ogni passo le era pesato indicibilmente.

«Zahnrad!» chiamò, ma poi si rese conto che aveva paura di farsi sentire e si rannicchiò su sé stessa come se le sue parole potessero tornare indietro e colpirla.

«Zahnrad! Dove diavolo sei?» nessuna risposta.

Il corpo decise che non ce la faceva più. Si lasciò cadere a terra e strisciò fin dove le sembrò che l’erba coprisse la sua figura. E finalmente la sua giornata ebbe fine. La stanchezza era tale che persino in quel giaciglio le sembrò di riposare meravigliosamente, per delle ore che fluirono con naturalezza una dopo l’altra. Il risveglio fu caratterizzato dall’amara realizzazione che la giornata precedente, che tanto bruscamente era cambiata nell’arco di pochi istanti, apparteneva alla realtà e non al mondo dei sogni che aveva appena lasciato. La Forgia ora era avvolta dal fumo bianco, mutilata di una delle sue ciminiere ma comunque quasi tornata alla normalità di una giornata di lavoro – era difficile del resto che dei nani che non fossero gravemente invalidati interrompessero il loro abituale ritmo di lavoro, se non erano obbligati. Ed la scrutò tra le fronde, badando a non uscire troppo allo scoperto, e provò un senso di sollievo ma anche una istintiva tristezza: non poteva che fuggire lasciandosi dietro una vita interrotta e non era la prima volta che era costretta a farlo. Guardò il cielo e le colline circostanti: di certo, i golem non avevano lasciato la zona e la tenevano, per quanto possibile, sott’occhio. Avanzò verso gli alberi, dove sarebbe stato più difficile individuarla, piegata e intirizzita dal freddo: scegliendo di fuggire a nuoto nel lago, la sera prima, la sua posizione non era stata scovata né intuita ma aveva dovuto fare i conti con la pessima attitudine della sua specie al nuoto e passare in acqua diverse ore.

«Muoviti, Yul!»

Ed sobbalzò e subito dopo cercò di farsi tanto piccola da scomparire: non aveva la benché minima intenzione di scoprire a chi appartenesse la voce. Con il palmo della mano sinistra accarezzò la pelle nerissima del braccio destro, fino a individuare una delle numerose rune incise sull’avambraccio, e percorse la forma della runa col dito; il simbolo risplendette di giallo e divenne un varco tra lo spazio e il tempo, attraverso il quale poté richiamare a sé una daga d’acciaio.

 «Zahnrad! Vieni, Zahnrad!»

Niente da fare. Doveva accontentarsi dell’arma che aveva.

«Ma vai a quel…»

Si zittì. Gli occhi non abbandonavano i fili d’erba, cercando la possibile posizione del ragazzo che aveva sentito o dell’altro che aveva chiamato. I movimenti le dissero che erano vicini e le parve di stringere tanto forte il pugnale che quasi lo frantumò: detestava l’idea di assalire qualcuno di nascosto ma in quel momento era disposta a tutto pur di evitare anche la minima eventualità di essere ritrovata da quelle cose. Qualcuno le passò davanti, doveva essere quel tale Yul o la persona che lo aveva appena chiamato, ma date la corporatura e le calzature doveva comunque trattarsi di due giovani contadini. La sua mano intorno all’elsa si rilassò, come tutto il suo corpo, registrando che non aveva da temere. Dietro il ragazzo che calpestava energicamente l’erba a pochi passi da lei ne arrivò un altro, con passo più lento e tranquillo. Poi in una frazione di secondo entrambi si immobilizzarono e anche lei percepì con chiarezza quelle cose, quei golem, che passavano in volo sopra di loro. Uno dei due ragazzi fece un movimento brusco, come volesse saltare verso il cielo, e urlò una serie di ingiurie oggettivamente indistinguibili. Poi fu atterrato dall’altro ragazzo, evidentemente determinato a non attirare l’attenzione dei golem: non bastò, era tardi ormai. Ed ne sentì uno planare verso di loro. Si presentavano ben poche alternative: fuggire ancora, rischiando di essere scovata comunque e abbandonando i due ragazzi al loro destino oppure affrontare direttamente i suoi inseguitori e semplicemente vedere come andava a finire.

***

Finalmente Valiel poteva vederne uno a terra, intento a battersi. Certamente non poteva dire di aver mai visto golem così meravigliosamente elaborati e potenti: i corpi, realizzati non con minerali lavorati ma da una massa fluente di sabbia finissima, senza dubbio tenuta insieme da rune molto potenti e complesse, ora modellatisi come umanoidi alti e slanciati, erano mutevoli ed inafferrabili. Invece la maschera, un volto inumano dal lungo naso appuntito e occhi vuoti, sembrava di un materiale simile alla ceramica intarsiata di centinaia di caratteri runici microscopici.

«Scappate, rustici idioti! Levatevi dai piedi!»

La giovane nana dalla pelle nera che si avventava contro il golem doveva essere gravemente ferita, a giudicare dalla lentezza con cui muoveva un braccio. Dietro di lei c’erano due ragazzini umani, uno intento a dimenarsi in preda ad una furia incontrollabile, l’altro a trattenerlo con tutta la sua forza. La ragazza lanciò una spada corta verso il corpo del golem ma la sabbia lo inglobò senza subire alcun danno. Cercò con le dita una runa nell’avambraccio e da essa evocò un maglio imponente, quasi troppo grande per reggerlo con un braccio solo.

«Qui! Vieni da me, brutto schifoso!» provocò lei preparandosi a colpire con una postura che Valiel giudicò non eccezionale ma sopra la media.

Dal nulla aveva fatto apparire un’arma: la profondità delle conoscenze runiche era davvero eccessiva per una semplice allieva della Forgia, anche se l’elfo ebbe l’impressione che non fosse altrettanto esperta nel combattimento corpo a corpo. Ne conosceva i principi teorici, però: faceva roteare la mazza in una danza di eleganza e forza a cui il golem rispondeva minuziosamente, opponendo armoniose schivate ad attacchi altrettanto fluidi, ma nei pochi secondi che la creatura aveva impiegato ad abituarsi al ritmo degli attacchi la nana, che aveva aspettato appunto questo, accelerò bruscamente finendo per colpirlo in pieno. Il metallo attraversò il torso sabbioso come un coltello nel burro caldo, ma subito il corpo del golem si ricompose identico a prima. La nana sembrava intenzionata a colpire la maschera dall’alto verso il basso ma un braccio del golem cambiò forma in lungo sperone che cercò di trapassarle il ginocchio; nell’atto di salvarsi la gamba lei perse l’equilibrio e cadde di lato, lasciandosi sfuggire l’arma dalle mani per atto della forza che lei stessa le aveva impresso, complice la debolezza del braccio ferito.

«Lasciamelo ammazzare!» gli parve di distinguere nelle urla del ragazzo umano irrequieto ma l’altro lo tratteneva con forza, rimanendo impassibile.

Il ragazzo era pazzo o stupido: se una forgiatrice abile come quella non reggeva il confronto, figurarsi un giovane contadino. Il golem tentò una seconda volta, modellando il suo braccio come una palla chiodata, di rompere una gamba alla ragazza, che evitò il colpo rotolando pietosamente, tradendo così tutta la sua stanchezza. Il suo avversario di sabbia sembrò seguire i movimenti di lei con calma misurata, come se fosse ormai certo del risultato; in quel momento il ragazzo irruento riuscì a liberarsi dall’altro e a precipitarsi sul golem, che si voltò di scatto pronto a reagire. In quella frazione di secondo, Valiel seppe che il Trattato dei Popoli era violato: un golem, evidentemente frutto della scienza runica dei nani, aggrediva un umano, un membro di un’altra specie, e questo lo autorizzava ad intervenire; non impiego più di una frazione di secondo a decidere di piazzargli un pugnale nella fronte. Il lancio fu preciso, la lama interruppe il complesso circolo di rune che animava la creatura e un corposo mucchio di sabbia si sparse inanimato nell’erba. La ragazza crollò sfinita e i due umani si paralizzarono, indecisi sul da farsi. Valiel rimase quieto sul suo ramo.

***

Le costò un’enorme fatica riaprire gli occhi, le palpebre erano pesanti e le sembrò che l’aria stessa bruciasse. Nelle orecchie, che sembravano farle male dall’interno, le ronzava una odiosa canzoncina dal ritmo melodico e sdolcinato, del tutto estranea ai ritmi serrati e incalzanti delle canzoni naniche. Si guardò intorno, cercando una qualche presenza con lo sguardo, e subito individuò la fonte di quella canzone: era una ragazza umana alta e bionda, imbacuccata in vestiti troppo larghi per lei, curva su un calderone di qualcosa che ribolliva, rilasciando un odore di verdure (per quel poco che poteva sentire, col naso semichiuso) piuttosto sciapo e privo di carattere.

«Come sta Lor?»

Una voce piatta rispose alla ragazza da qualche parte che Ed non vedeva: «Non si alza dal letto».

Si guardò intorno: mura di legno umili, attrezzi rudimentali ricavati dal riciclaggio di altri, diversi barattoli di conserve impolverati e qualche marmittone. Ma c’era anche un tocco di femminilità nella stanza: fasci di spighe dorate e di piante dalle grandi foglie verdi, fiori lilla e grossi frutti lucidi color rosso vino. Era la casa di una contadina, senza dubbio, probabilmente di colei che stava cucinando.

«Bè, tanto sarebbe impossibile lavorare con questa tempesta, quindi che faccia come gli pare».

Ed drizzò le orecchie: sì, poteva sentire fuori il battere incessante di grosse gocce, il vento che soffiava senza riposo e pochi spazi di silenzio tra un tuono e l’altro. Pioveva: doveva trattenersi per non scoppiare a ridere fino a morirne.

«Al… sei stato fregato».

Lo bisbigliò appena ma la ragazza reagì subito alle sue parole e si voltò. Ed la studiò con quel poco di occhi che riusciva a tenere aperti: i capelli sembravano paglia giallastra e strapazzata, gli occhi azzurri erano ben incassati nelle occhiaie, scavate dalla stanchezza che rovinava i suoi lineamenti dolci, le forme un po’ troppo abbondanti tradivano la tipica alimentazione dei contadini che non giovava né alla salute né alla linea. Era complessivamente una ragazza che avrebbe potuto essere bella se fosse cresciuta in un ambiente aristocratico.

 «… Al? Chi è Al?»

Piuttosto che rispondere, Ed alzò di nuovo gli occhi al soffitto e si abbandonò nuovamente ai pendii scivolosi del dormiveglia. La ragazza non sembrò voler insistere e si rimise a trafficare attorno al pentolone. Lo stato letargico durò fino a quando un rumore di porta che sbatteva annunciò l’arrivo di una folata di vento gelido e umido nella stanza; Ed sgranò subito gli occhi, sorpresa dal freddo. Un ragazzino emaciato, dai lunghi capelli fluenti color paglia, si svelò togliendosi di dosso un manto inzuppato.

«E allora?»

«Dorme ancora».

«Digli che la pianti, Yul, non può passare tre giorni a lutto per un cane».

«Non credo che a Lor importi» constatò l’altro, neutro.

«Importa a me. Digli che scenda dal fienile domattina o nessuno gli porterà più da mangiare».

Yul reagì con quella che poteva essere la stretta di spalle di qualcuno che non voleva neppure sprecare troppe energie per stringersi le spalle.

«Invece dimmi, che fanno le nostre vecchie signore?» chiese la ragazza dopo un po’ che il ragazzino si stiracchiava sul pavimento davanti al fuoco come un gatto.

«Il temporale non le spaventa più ormai, solo i vitellini hanno paura. Ma sono sotto controllo».

«Speriamo bene… ci aspetta almeno una settimana di pioggia».

Al pensiero Ed riprese a ridere sommessamente ma di gusto, prima di rigirarsi nel letto decidendo di disinteressarsi a qualsiasi altra cosa quel tale Yul e la misteriosa padrona di casa si sarebbero detti.

***

Addentando una enorme fetta di soffice torta al miele, Ed guardò ancora una volta Jen di sottecchi. Dopo una abbondante sorsata di latte caldo si rifugiò un po’ di più sotto le coperte come volesse rifuggire lo sguardo della ragazza.

«Capisco che hai la febbre ma potresti almeno parlare. Sono tre giorni che dormi, mangi e non spiccichi una parola».

Per tutta risposta, Ed lasciò sul vassoio di legno la torta e il latte e spinse il vassoio verso Jen, con aria di sfida. La contadina ci mise qualche secondo a decifrare le azioni della giovane nana. Poi afferrò il latte e la torta smangiucchiata con aria di sufficienza.

«Ah, è così? Immagino che una giovane massaia non sia degna della considerazione di una Maestra Forgiatrice».

«L’hai detto».

Jen, già in piedi e di spalle, si paralizzò di colpo. Sentiva la voce di Ed per la prima volta, tagliente e leggermente annoiata. Si voltò, rossa in volto.

«Come, prego?»

«Hai sentito» tagliò corto Ed cercando di rimettersi a dormire.

«Siete tutti uguali!»

«…tutti?» ripeté Ed inarcando appena un sopracciglio «Tutti chi?»

«Voi! Voi nani! Vi credete chissà chi perché portate l’industria, il progresso, e tutti i vostri congegni spaventosi. Ebbene…»

«Usi un sacco di parolone difficili per una contadinotta sciupata» disse, riprendendo irrispettosamente la torta dalle mani di lei e sbocconcellandola «I tuoi genitori pidocchiosi ti hanno pagato la scuola di città? Bè, vero è che a Kalaston anche la scuola è piena di caproni».

Ed dovette appena inarcare la testa all’indietro per evitare il vigoroso schiaffo che Jen cercò di darle.

«Bella mira, brava. Voi umani siete tanto lenti da sembrare fermi».

«Perché ti comporti così? Ti ho salvato la vita, lo sai questo?»

«E io quella dei tuoi stupidi fratellini» ribatté a bocca piena, sorridendo e sputacchiando briciole «Quindi direi che siamo pari, no?»

Jen restò in silenzio, non sapendo cosa obiettare, ma respirando rumorosamente come un toro infuriato.

«Giusto… siamo pari».

«Ecco, così mi piaci. Il vero problema… è che non so davvero come».

L’espressione di Jen si colorò di curiosità: «Come scusa?»

«Non so come ho fatto. Quel golem avrebbe dovuto fare a pezzi i tuoi fratelli e poi… prendermi. Invece s’è sfasciato. Strano davvero. Ma sia come sia…» un dito di Ed indicò il cielo rabbuiato dalle nuvole, che si vedeva appena dalla finestra «…appena finirà la pioggia, sarete tutti morti».

Jen balzò in piedi, col volto dilatato dall’orrore: «Cosa?»

«Rilassati, stavo scherzando. Forse».

«Forse?»

«Già. Forse. Però sarà davvero un bel casino quando finisce la pioggia. E non so davvero cosa farci».

Jen l’afferrò per il bavero, stavolta fu troppo brusca perché Ed trovasse la presenza di spirito per reagire: «Non sai cosa farci?» non era in lacrime o fuori controllo, anzi sembrava fredda e determinata «Certo che sai cosa farci. Sono golem. Siete voi che li costruite. Mi stai dicendo che torneranno?»

«Finita la pioggia… sì. Probabilmente».

«E poi cosa faranno? Dimmi tutto quello che sai!»

«…altrimenti?» provocò lei.

«Altrimenti non ti dirò come scappare».

La giovane nana si bloccò, sorpresa: «Scappare? Perché pensi che vorrei scappare da qualche parte?»

«Non sono idiota. Hai detto che quel coso doveva ammazzare i miei fratelli e prendersi te. Quindi cercava te, per portarti da qualche parte dove non vuoi andare».

«Mi sembra sensato».

Jen alluse ad uno dei vestiti di Ed, l’unico che non era steso in un filo che passava in mezzo alla stanza, poco oltre il suo giaciglio: una uniforme di maglie esagonali che scintillavano, lucenti.

«E vieni dalla Forgia ma nessuno della Forgia è venuto a chiedere di te. Danno per scontato che tu sia stata… presa… come dici tu. E se d’altro canto potessero proteggerti, l’avrebbero già fatto prima. Quindi… certamente non vuoi tornare lì e non hai miglior occasione per scappare».

«Molto acuta». si congratulò acidamente l’altra «Quindi?»

Jen prese un respiro, come esitasse un momento, prima di decidere di proseguire il discorso.

«Io so come farti andare ovunque tu voglia immediatamente e senza essere vista. È un mio segreto. Ma in cambio mi dirai come evitare che ne vengano altri e infastidiscano me o la mia famiglia. E lo farai adesso. Tutto chiaro?»

Ed scostò delicatamente le mani della ragazza dal vestito che stringevano: sentendo la delicatezza del tocco, Jen accettò di mollare la presa.

«Tu… mi sei proprio simpatica».

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Capitolo 3
*** I Cancelli di Zoa ***


2. I CANCELLI DI ZOA

 

Popolo dei draghi, signori di Zoa, figli di Arrok dea del mare, accogliete alle corti vostre il nostro figlio perduto…

augurio funebre della Marina del Mohtam

 

«Quand’è che arriviamo? Questo posto mi mette i brividi».

«Credevo che i nani amassero i cunicoli» obiettò Jen «o forse hai paura del buio? Dopotutto sembri molto più giovane di me…»

«Non sono molto più giovane, non ho paura del buio e certamente non ne ho degli spazi stretti, ci sono nata». si difese Ed «È di queste oscene scale a pioli che ho paura e della botola di legno marcio che ci sta sopra la testa e di questi mattoni tagliati male che abbiamo intorno. Voi umani costruite roba che sembra fatta apposta per cadere a pezzi. È imbarazzante. Io sarei imbarazzata, se fossi in te».

«Scusa, non ho sentito niente di quello che hai detto, credo sia colpa dell’incompetente umano che ha costruito un pozzo con una acustica tanto pessima. Che vuoi farci».

«Allora vuoi che ripeta tutto più lentamente e scandendo le parole?»

«Incredibile, continuo a non sentire niente di quello che dici. Sento solo una specie di ronzio».

Nel silenzio del pozzo si sparse una risata sommessa: «Sei proprio uno spasso. Davvero, dico. Ma mi sono stufata. Dove cavolo stiamo andando?»

Dalla semioscurità sotto Ed non provenne alcuna risposta, solo un tonfo.

«Ehi bionda… ci sei?»

«Siamo arrivati» la voce di Jen rimbombò come se lo spazio intorno a lei si fosse allargato.

Anche Ed si lasciò cadere. I suoi piedi furono accolti da una superficie di pietra aguzza, corrosa da acqua salmastra che non poteva vedere, ma di cui sentiva l’odore e l’umidità, oltre che qualche sporadico rumore di gocce.

«Si direbbe un lago sotterraneo» osservò Ed «ma qui non si vede un tubo».

Jen osservò alla sua destra due anelli di crescente luminosità. Le iridi della giovane nana si stringevano lasciando spazio alle pupille, e acquistavano un lucore dorato: come si diceva, gli occhi dei nani potevano adattarsi perfettamente al buio.

«Anzi… qui non si vede un tubo perché non c’è… un tubo».

«Non al momento, no» confermò Jen, prima di piombare di nuovo nel silenzio.

«Al momento no. E quando invece sì?»

Un fischio di Jen, estremamente acuto, segnò la fine tanto del silenzio quanto del buio. Un’entità luminescente e multicolore apparve sotto la superficie dell’acqua assolutamente liscia e la ruppe, emergendo con rapidità. La roccia su cui Ed e Jen si trovavano era separata da svariati metri di acqua ora illuminata ma tra essa e l’oggetto che era emerso sembrarono sbocciare delle enormi foglie di ninfea, come fossero pronte ad accompagnare le due ragazze. Ed spalancò gli occhi e rimase svariati secondi a bocca aperta, incapace di parlare. Jen sorrise, piena di sicurezza.

«Eccolo qua».

«Ma questo è… quello che penso che sia?»

«Probabilmente. Tu cosa pensi che sia?»

Un ventaglio di corallo e anemoni splendenti si apriva intorno ad un oggetto ovoidale, simile ad uno specchio di materiale lucido del colore del mare più scuro. I colori d’arancio, ametista, azzurro, danzavano sulle increspature dell’acqua in un arcobaleno screziato.

«Un Cancello di Zoa… come fa a stare sotto la tua baracca marcia una cosa così? Il suo valore è…»

«Il suo valore non ti riguarda affatto» la interruppe bruscamente Jen «è nascosta da tutti ed è esattamente così che deve rimanere».

Ed impiegò qualche minuto a riprendere il controllo, mentre i suoi occhi squadravano ogni millimetro di quella architettura che nessuna arte ingegneristica avrebbe potuto mai sperare di ricreare.

«Bè, voglio dire… è una specie di scherzo? Come pensi di farmi fuggire con questa cosa? Voglio dire… tu sei un essere umano, non…»

Jen interruppe Ed per la terza volta, scandendo a voce alta: «Tronni, Thesaigan ono Youma!»

La superficie lucida si aprì simmetricamente in due, come le palpebre di un occhio, rivelando una superficie più scura e trasparente, che dava l’impressione di essere gelatinosa.

«Non riconosce il mio sangue ma la mia voce».

«Sei davvero in grado di aprirlo…»

«Già. Di solito si aprono per volontà loro, giusto? Credo di poter anche decidere dove ti porterà».

«Puoi… dove… tu… hai davvero studiato più di quanto potessi immaginare, mia sorprendente zappaterra».

Jen abbassò gli occhi, rabbuiandosi per un momento in volto: «Stai continuando a occuparti dei fatti miei. Come vedi posso rispettare il nostro patto, quindi… rispetta la tua parte dell’accordo».

Ed si sedette sulla roccia appoggiando la faccia sulla mano, contemplando interessata la massa al centro della struttura.

«Scusa, a differenza di te non credo di poterlo fare».

«Co… come?»

«È inutile fare quel tono minaccioso. Se quella cosa funziona come dovrebbe, sparirò da qui e ricomparirò a… uhm… alle Isole Ranaluta, giusto? In tempi passati erano chiamate Arcipelago Youma… e Youma è una parola nella lingua dei draghi».

«Ehm… sì. Certamente» annuì Jen, poco convinta.

«Sinceramente il mio piano, chiamiamolo così, era di farmi seguire da quei golem fuori dalla tua fattoria così che ti lasciassero in pace. Ma se non mi vedono uscire da qui… non concluderai  niente. E se me ne andrò con il Cancello di Zoa non mi vedranno e non potranno seguirmi – anzi, entreranno nella tua casa a cercarmi, di sicuro».

Si buttò all’indietro, sdraiandosi e appoggiando la testa sulle mani congiunte: «Bella grana, eh?»

Jen non rispose, sembrava essere raggelata. Non era stato facile convincersi a mostrarglielo, l’aveva nascosto per anni, eppure ci aveva messo meno di un secondo a deciderlo, se poteva far sparire Ed e il pericolo che rappresentava dalla sua casa. Invece, per una specie di beffa crudele, neanche questo sacrificio era servito.

«Potrebbe essere tra le prime dieci o  venti reliquie del Regno Sottomarino di Zoa… in tutto il mondo… perché non ti associ a qualche studioso di Kalaston? Ti rifaresti a nuovo la fattoria, no, che dico, ti trasferiresti in una reggia!»

«Basta impicciarsi!» sbraitò con una punta d’isteria.

La struttura sembrò reagire al cambiamento del tono di voce, perché si richiuse per inabissarsi immediatamente, come fosse spaventata o offesa. Improvvisamente, nella grotta fu di nuovo buio.

«Tu devi dirmelo! Devi dirmi come fare!»

«E che ne so?»

***

«Dai ancora da bere al moccioso? Se capitano un paio di guardie passerai i guai, vecchio mio».

«Non gli do proprio niente. E comunque, già tu sei una guardia, Bedge».

«Un templare» precisò lui «ed il mio unico incarico oggi è riportare il tenente Wiggs a casa mostrando il meno possibile in giro per Kalaston la sua… temporanea incapacità di camminare».

«Temporanea, eh? Passa più tempo qui che al muro settentrionale».

Bedge prese un respiro prima di aggiungere: «O a casa sua».

«Ancora guai con la moglie?» chiese l’oste, cercando un’espressione comprensiva da esibire per l’occasione.

«Shhh! Se sapesse che ne parliamo…»

«E allora non parlarne ma mi sembra tardi, tutta Kalaston sa che…»

«Shhh! Non so se dorme o è solo accasciato».

Wiggs stravaccato sul divanetto con una gamba pigramente distesa sul tavolo era uno spettacolo quasi blasfemo, dopotutto il corpetto metallico che indossava sopra la camicia a righe color rosso cadmio scuro, parlava chiaro: gli intarsi d’argento sull’acciaio, che ricordavano nuvole in tempesta, testimoniavano inequivocabilmente il suo status di templare guerriero, uno status che esigeva un’apparenza di decoro. Bedge ringraziò la Dea, o chi per lei, che fosse una settimana di temporali e che la locanda fosse sostanzialmente vuota, salvo l’oste, loro due e il cosiddetto moccioso, un nano praticamente addormentato su uno scricchiolante tavolino di legno.

«Certo che la vita della Cinta Nord non lo aiuta… non succede mai nulla» sviò l’oste con una delle sue migliori banalità da repertorio.

«Già. Invece al muro meridionale hanno visto tutto l’incidente di una settimana fa. Si dice che non sia stato proprio un incidente. Si dice… che una apprendista della Forgia sia sparita. Forse è morta».

«Una apprendista?» intervenne il giovane nano, che alzò la testa dalla superficie del tavolo con un gesto tanto improvviso che l’oste fece quasi un salto: «E poi un’altra birra si può avere o no?»

«Credevo che i nani reggessero bene l’alcol. Non è che sei troppo giovane per bere?»

«Sono astemio, tergente Beggar».

«Sono il sergente Bedge e non ho mai sentito parlare di un nano astemio. E se sei astemio perché bevi?»

«Nella vita servono conferme. Non lo confermi forse anche tu? Ti confermo che confermerei se fossi in te».

«Sembri un po’ troppo lucido dopo cinque birre, per essere astemio».

«Sia ringraziato Ukor, sono guarito allora! Festeggiamo con una birra. Rossa, per favore. Lo confermo. Tu lo confermi? Dovresti».

Il giovane ed irritante nano si era alzato in piedi. Doveva essere povero in canna: il cappotto giallo che indossava doveva essere appartenuto ad un nobile kalastoniano, perché era un complesso intreccio di senape e ocra finemente ricamato e ornato di gemme occhio-di-tigre anche se era stato lacerato a mezza altezza per adattarlo all’attuale indossatore a cui comunque stava larghissimo. Di sicuro era uno di quegli abiti aristocratici appartenuti a qualche feudatario che, caduto in disgrazia, rivendeva i suoi averi al mercato, capitava spesso che nani o elfi desiderosi di mischiarsi tra gli umani e di recidere i legami con le loro culture originarie scegliessero quel tipo di abbigliamento. Certo, quello era un nano piuttosto anticonvenzionale: la pelle era praticamente uguale, per colore ed aspetto, alla pelle umana olivastra, com’era tipico dei nani di basso lignaggio, e non era tesa dalla solita muscolatura robusta della sua specie, al contrario ricordava un ragazzino umano un po’ smagrito; senza il rosso scuro rivelatore della capigliatura spettinata e sporca, non si sarebbe potuto affermare appartenesse al popolo del Mondo Sotterraneo. Il signor Brea, oste onorato da trentadue anni, non aveva mai visto un nano (anzi, un essere vivente) che più di quello gli desse l’impressione di esser nato come un pesce fuor d’acqua ed essere destinato a morirci.

«È sbronzo fradicio, guarda gli occhi. E barcolla. È davvero un nano astemio, che la Dea ci fulmini tutti! Senti, ragazzo, non berrai altro oggi».

«Ma io posso pagare!» si lamentò il giovane, prima di aggiungere frugandosi le tasche «cioè non posso. Però… paga lui!»

«Il tenente Wiggs non paga proprio un accidente».

«Il senziente ha detto che offriva lui a tutti».

«Era ubriaco quando l’ha detto e la locanda era vuota. E comunque la parola è tenente, non senziente».

«Così venite meno agli impegni, bergente Sedge».

«Ser-gen-te! Cosa c’è di difficile nel ricordare te-nen-te e ser-gen-te?»

Inutile insistere, su quell’argomento come su altri: il nano si allungava già verso la botticella più vicina per servirsi da solo. L’oste afferrò le braccia smilze e lo ricacciò ben lontano dal balcone.

«Vatti a fare una doccia fredda, piccola canaglia!»

Il nano si lasciò cadere su una sedia, scuotendo la mano per il dolore: «Insomma, come passate il tempo in questa città? Piove da quasi dieci giorni ormai».

«Almeno una volta o due l’anno succede così, poi torna il sole».

«Quando?»

«Che ti frega? Vorresti bere per dieci giorni di fila? Torna a casa».

«A casa…» spingendo con i piedi, si lasciò cadere indietro con tutta la sedia e arrivò violentemente a terra con la nuca; non si mosse più.

«Sentimi bene… ehi ma… ora dorme?»

***

«Si può sapere che accidenti fai?»

Il vento accarezzava il grano scompigliando i corti capelli rossi di Ed. Jen dovette scostare una lunga ciocca bionda che le era finita dritta negli occhi per guardarla meglio: sembrava serena, perfettamente a suo agio come una lucertola che si gode l’aria e il sole.

«Mi godo questo suggestivo scorcio di vita bucolica. Bella giornata oggi».

Jen rimase sovrappensiero per un po’, accanto alla giovane nana. Entrambe immobili come scogli nel mare verde delle ultime spighe ancora immature.

«Hai deciso di farti trovare da quelle cose, in modo da evitare che se la prendano con noi?»

«Non direi. Sono una pessima scelta come cavaliere ardente che si sacrifica per i deboli. Poi neanche potrei montarlo, un cavallo dico. E comunque, se anche fosse, perché ora mi staresti accanto?»

«E tu perché hai deciso di correre questo rischio? Sembravi molto spaventata quando ieri ha smesso di piovere».

Per la prima volta Jen vide il suo volto assolutamente serio. Ed le piantò gli occhi addosso e quasi la prese per il bavero.

«Chiariamo una cosa. Io non ho paura. Capito?»

«Ehm… va bene?»

«No, non va bene. Mettitelo in testa. Non ho paura!»

«Che bambinata, vuoi dirmi che non hai paura di nulla?»

«Non dire scemenze. Voglio dire che non ne ho qui e ora.»

«Come vuoi tu! Mi spieghi cosa facciamo qua fuori?»

Ed rimase ancora un po’ in silenzio, respirando profondamente. Il suo sguardo andò da una riva all’altra del lago e alla Forgia chiaramente deturpata dall’evento di due settimane prima. Wulf, mastro Airon, mastro Svea e mastro Quaquathor e i suoi compagni di studio: tutti loro stavano per sparire dalla sua vita per sempre, per sbiadire lentamente nei ricordi.

«Ho un ottimo affare da proporti. Credo che quelli non attaccheranno tanto presto. Di sicuro aspettano che io sia isolata da potenziali vittime casuali».

«Non mi sembravano tanto scrupolosi quei...».

«Golem. Non si tratta di scrupoli, certo che voi umani mettete sempre i problemi pratici in fondo alla lista. Pensaci su: hanno attirato molto l’attenzione ultimamente e c’è un limite all’attenzione che chiunque può attirare su di sé. Aspetteranno, prima della prossima mossa, o meglio aspetterà chi li muove. Anche se di sicuro mi stanno puntando… anche adesso, mentre parliamo».

Jen rabbrividì pensando che ogni altura o albero poteva nascondere quei golem intenti ad attendere e studiarle. Per un solo istante provò ammirazione per la nana e per il sangue freddo che mostrava.

«A… allora… quale sarebbe questo affare?»

«Hai aperto un Cancello di Zoa davanti ai miei occhi. Credo tu sia l’unica che potrebbe fare una cosa simile, no?»

«Non… non ne ho idea».

Ed si grattò la testa, come se stesse cercando di farsi uscire un concetto dal cervello: «Sì, dev’essere così. Come puoi esserne capace? Voglio dire, tu non sei…»

«Inutile insistere! Non te lo dirò!»

«Sì… ho afferrato il concetto, è un segreto segretissimo. Ma dimmi questo: pensi che potresti aprirne un altro, altrove?»

Jen aprì bocca per richiuderla subito, come se una seconda idea avesse fermato la prima. Guardò alla sua destra come se qualcuno avesse scritto la risposta lì.

«Potrei esserne capace. Direi di sì».

Ed mimò con le dita degli occhiali, poi assunse un tono di voce baritonale: «Lei sta andando magnificamente, signorina. Un’ultima domanda e concluderemo l’esame con successo».

«Falla finita, buffona».

«Non vanno così, gli esami nelle scuole per umani?»

«Che ne so? I figli dei nobili vanno a scuola!»

«Ma tu qualcosa hai studiato, no? Come fai a parlare in-»

«Quale era la dannata domanda?»

«A-ehm. Dicevamo. Pensi che… i tuoi fratelli potrebbero gestire la fattoria in tua assenza?»

«Ma questo cosa c’entra? E comunque…»

«Aspetta, non rispondere. Ho appena realizzato che di questo non mi frega un accidente, in effetti».

Distante da loro due, un elfo scrutava tra i cespugli. Vide la giovane nana tendere la mano alla ragazza umana, due figure piccole e deboli contro l’immensità del Lago Kalst che scintillava al sole come una distesa di luce screziata. Dopo una certa esitazione, la ragazza prese la mano della nana e se la strinsero con fermezza.

«Cosa succede tra quelle due?»

Una donnola che si era portata accanto a Valiel sussurrò in una lingua che solo i raminghi potevano comprendere.

«Dovremmo andare via, elfo».

«Che problema hai?»

«Il cielo è funesto».

«Il giorno è luminoso, il cielo sgombro e…»

Alzò gli occhi e rimase per un po’ a fissare l’azzurro sopra di loro.

«Cosa sono quelli?» si domandò, ma poi si rispose da solo: «Aviani… bestie piumate mangia-uomini. Ma così in alto… non sono qui per cacciare. Cosa fanno così in fondo nell’entroterra?»

«È un cattivo presagio» sussurrò la donnola, nascondendosi tra le radici.

 Dopo essersi guardate a lungo le due ragazze lasciarono la mano l’una dell’altra. La ragazza bionda si diresse verso la sua fattoria. Gli aviani volarono in cerchio per un po', poi sembrarono disperdersi.

«Devo riferire ogni cosa» si ripromise Valiel.

***

La foresta si aprì innanzi agli occhi di Valiel rivelando un’ampia laguna piatta, circondata da alti alberi secolari. Mancavano pochi minuti e il sole sarebbe tramontato del tutto. Si sedette su una grossa radice, incerto su come lasciar trascorrere il tempo. Come volessero rispondergli, le mani e le dita iniziarono a muoversi da sole, pizzicando le corde di un’arpa inesistente, seguendo con la memoria le note di una melodia che da troppo tempo non sentiva più, un’arte musicale che non esercitava da decine e decine di anni da quando aveva sacrificato, tra le prime cose, proprio la musica, con dispiacere ma senza rimpianto. Rimase così, a contemplare nostalgicamente quanto aveva perduto, a mimare nei gesti un altro Valiel, di un altro tempo, per una mezz’ora buona. Poi, finalmente, un primo raggio di luna colpì l’acqua e la coltre d’illusioni che copriva l’aria si diradò. Si disegnarono, tra i ciuffi d’erba acquatica, dei grandi alberi coperti di muschi bianchi che quasi splendevano per rispondere al bagliore lunare, alberi contorti e ramosi che sembravano crescere dentro e intorno ad imponenti palazzi, alte costruzioni a pagoda chiuse da molteplici tetti larghi e ricurvi – in effetti si sarebbe potuto dire, all’opposto, che erano stati gli edifici a sbocciare in mezzo ai rami. Sotto ciascun tetto ampie finestre argentee adorne riflettevano il paesaggio circostante, permettendo solo a chi era all’interno di guardare fuori e non viceversa. Evalunith era una città nota per essere poco aperta persino ai visitatori elfici e del resto anche per tale ragione che Valiel poteva vivere in quel territorio meglio che in altri.

«Mal trovato al chiaro di luna, Valadwen Yun Valiel».

Valiel non si preoccupò neppure di cercare l’origine della voce nel buio tra due grossi rami fosforescenti. Si alzò pigramente.

«Elzen, quanto tempo. Talmente tanto che si potrebbe quasi pensare che non apprezziamo le reciproche compagnie».

«Invero sì, qualcuno potrebbe crederlo. Quali affari ti portano, certo brevemente, a lasciare il tuo posto di ramingo?»

Elzen uscì dalle tenebre. I suoi curatissimi capelli argentei e corti, perfettamente separati in una linea centrale, i tatuaggi che gli disegnavano dei rami d’edera smeraldini sul volto, la pelle scura come terra bruciata e le vesti cerimoniali di seta cinerea: sembrava che per Evalunith Dia Elzen gli ultimi trent’anni non fossero trascorsi affatto, mentre sulle vesti di Valiel si erano accumulate foglie secche, gusci di lumaca, scalda gambe di pelliccia, toppe su innumerevoli strappi e una cintura di pugnali da lancio sbeccati dal troppo uso. Sembrava quel che era: che avesse vissuto per anni come un animale nella foresta.

«Come sai, mi sforzo al mio meglio per prolungare quanto più possibile le nostre dolorose separazioni. Ma in questo caso, avendo informazioni piuttosto complesse da comunicare e, posso immaginare, apprestandomi ad averne di altrettanto complesse da ricevere, sono venuto di persona».

«Bene, allora. Dimmi che affari hai qui così che tu possa tornare a fare il ramingo ed io a custodire… la mia città».

Per appena un secondo Elzen indicò il tatuaggio color corallo sullo zigomo di Valiel, che aveva la forma di un groviglio di rovi e che ricordava antiche tradizioni ormai perdute in quelle terre. Valiel ne colse immediatamente il senso: era la sua città e non quella di Valiel, così come non era certo la città ciò che l’elfo rimaneva a custodire e anche ciò che realmente custodiva (voleva fargli capire) apparteneva più a lui che a Valiel. Questi ne approfittò per ricambiare la sua scortesia.

«Noto anche con malcelato piacere che sei ancora un arcidruido. Quale fortuna per la nostra… la tua gente, gli elfi della Luna tutti. Peccato non ci si possa sposare».

«Questi» ribatté Elzen indicando col dito le foglie d’edera disegnate sul viso, luccicanti come gemme «non possono essere cancellati, come ben sai. Sono tanto monili distintivi quanto catene infrangibili per chi consacra la propria vita alla Signora della Terra Isor».

«Chissà chi ha più rimpianti? Io per i miei errori o tu per le tue rinunce?»

«Rinuncia è una parola che hai scelto tu, non io».

«Alla fine abbiamo perso entrambi la stessa identica cosa. E in un certo senso non l’abbiamo mai persa del tutto, entrambi. Non lo trovi ironico?»

«Ti sembrerà incredibile» glissò l’altro «ma questa conversazione è durata più di quanto desiderassi. Ti chiedo nuovamente che cosa sei venuto a fare ad Evalunith».

«Preferirei parlarne con la nostra signora. Potremmo porre fine alla reciproca compagnia se mi conducessi da lei ma in caso contrario provvederò ad andarci da solo».

Il volto dell’elfo si scurì notevolmente, si prese dei secondi di silenzio come volesse rendersi conto appieno della situazione: «Valiel… ma allora tu… non sai niente?»

Valiel sgranò gli occhi: c’era solo una cosa che poteva causare quel mutamento d’espressione e quello sguardo in Elzen.

«Lyes? Le è successo qualcosa?»

Tutta l’arroganza che l’arcidruido aveva mostrato prima si dissolse in sincera contrizione: «Avevo dato disposizioni che ti avvertissero quanto prima. Credo che non l’abbiano fatto per farti dispetto, avrei dovuto pensarci. Ti chiedo scusa, per questo».

«Come sta Lyes?» Valiel sembrava incapace di sentire qualsiasi altra cosa.

«Ti assicurò che punirò chi ti ha fatto questo scherzo e…»

«Lyes!» interruppe lui, perentorio.

Elzen sospirò come dovesse rassegnarsi a parlare: «E va bene. Mesi fa… la Bocca di Chimaer settentrionale si è allargato e ha… insomma, tu sai cosa succede. Ha preso la foresta, l’ha divorata per intero. I Quattro Re ne hanno sofferto tutti, senza eccezione, ma in particolare la nostra Lyes e forse Re Hion a Vonselas. Di fatto noi arcidruidi siamo reggenti qui, per ora. Non so bene la situazione a Vonselas».

I due vecchi rivali rimasero a lungo in silenzio. I primi elfi evaluniani intanto uscivano dai palazzi per dedicarsi alla loro vita notturna. Un paio notarono l’arcidruido discutere con un ramingo dall’aria trasandata. Qualcuno, a giudicare dagli sguardi sorpresi, sembrò riconoscerli ma non osò avvicinarli. Nessuno dei due badò a niente di tutto ciò.

«Credo» azzardò Elzen «che dovresti vedere Lyes. Per quanto poco possa farmi piacere, sono certo che lei vorrebbe vederti. Forse la farebbe star meglio. Puoi anche dire a lei quello che devi, anche se sarà il consesso dei Druidi a decidere sul da farsi».

«Ti sono profondamente grato» rispose con tutta la sincerità che poteva, e poi aggiunse supplicante «Portami da lei, ti prego»

«Certamente» confermò l’altro, con dolcezza.

 

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Capitolo 4
*** Il Ladro ***


3. IL LADRO

 

La parola della Dea segue le persone, non i confini dei regni. Così anche il templare opera senza confini e non conosce legge oltre la nostra legge, la giustizia della Dea stessa.

estratto dal Concordato dei Sette

 

La fattoria dei Thorn dove Jen era nata e cresciuta era ormai sparita dietro di loro, come Lor e Yul che la salutavano confusi e arrabbiati. Camminavano da un po’ in un campo delle prime spighe mature, un paesaggio dorato che ondeggiava al vento, com’era tanto comune nel regno del Draile.

«Su, zappaterra mia, piede svelto! Passi lunghi e ben distesi!»

Jen continuava a guardare di lato. Era certa che qualche sorta di animale li stesse seguendo tra le spighe.

«Ehi… tu… Ed!»

«Cosa…?»

Jen indicò a lato senza dire altro mentre la cosa strisciava nel grano.

«Oh!» saltellò Ed, soddisfatta «Temevo di aver sbagliato! Invece!»

Jen gettò un urlo acuto quando una specie di grossa scolopendra metallica si sollevò come una serpe dalle spighe. Al contrario Ed le tese la mano e la creatura le si avvolse intorno al braccio.

«Cosa cosa cosa! Cos’è?!?»

«È Zahnrad… è mia». spiegò Ed con semplicità.

Jen si avvicinò cautamente: non era un insetto e non era nemmeno una cosa vivente. Era un insieme di tasselli di varie forme geometriche, di una specie di pietra grigia e liscia. Qualcosa che Jen non sapeva definire, come una ragnatela di luce arancione, ne teneva insieme i pezzi mentre questi si componevano e scomponevano in forme diverse.

«È… è…»

«Sì. Affascinante, vero? Temevo di non essere riuscita a insegnarle questa forma. Invece funziona. Riesce a trovarmi! Non lo trovi entusiasmante?»

«Sì… come no».

L’oggetto chiamato Zahnrad si ricompose in una forma più piccola e compatta, come un bracciale largo e spesso che ricordava vagamente la sagoma di un ingranaggio.

«Devo… devo ammettere che è affascinante a suo modo…»

«Come sarebbe “a suo modo”?» ribatté Ed, risentita «Bè, se non ti piace non me ne frega niente».

«Io non ho detto che…»

Ed le fece un cenno inequivocabile e Jen tacque. La giovane nana gettò lo sguardo in varie direzioni e Jen non ebbe difficoltà a capire perché.

«Ci seguono anche ora?» sussurrò.

Ed non reagì come si sarebbe aspettata: piuttosto che spaventata, l’espressione che assunse era più che altro offesa o infastidita.

«VAI A FARTI FOTTERE!» urlò con tutta la voce che aveva così che risuonasse per l’intera vallata e Jen saltò su due piedi per lo spavento.

« …eh?» fece Jen, sbalordita «A chi urli?»

«Uno che ama mettermi ansia. Andiamocene» disse infine Ed prendendole rabbiosamente la mano.

***

Prima che Valiel potesse varcare la soglia della sala con il suo corpo, fu la sua mente a farlo, entrando nel Trono della Regina Elfica che esisteva nei suoi ricordi. Ricordava il pavimento, un mosaico di pietre preziose color avorio attraversato da disegni azzurri, blu e violetti di pietre lucide e splendenti. Al centro della ruota di figure leggendarie tratteggiate dai mosaici, stava quello che si sarebbe potuto definire un immenso giglio tigrato, bianco latte, e al centro di questi stava la potente figura di lei, che proiettava incessantemente una colonna di fulmini fino alla volta del salone: un pilastro scintillante che manifestava esplicitamente lo sconfinato potere di un sovrano elfico. La sua figura, avvolta in un mantello di grandi petali bianchi, lasciava libero solo il volto ingenuo di eterna ragazzina, la pelle liscia e bruna, i corti capelli nerissimi, e quei grandi occhi appassionati color del cielo, che accompagnavano Valiel con infinita dolcezza e rimpianto.

«Lyes» chiamò debolmente.

La Lyes che apparteneva al tempo presente alzò il volto asciugato e solcato di rughe e aprendo appena e con visibile sforzo gli occhi per distinguere chi la chiamava, attraversò con uno sguardo intorpidito il salone coperto da una persistente cappa di penombra grigia.

«Lyes» chiamò a sua volta Elzen «Valiel è venuto a trovarti. Per sapere come stai».

Persino Valiel non poté che essere grato per la dolcezza con cui Elzen aveva parlato. La loro feroce rivalità arrivava solo fin dove non feriva i sentimenti di Lyes, questo era chiaro a entrambi, ma in quell’occasione Elzen si dimostrò più sensibiledi quanto Valiel sperasse.

Lyes stirò a fatica uno dei sorrisi ironici che Valiel ricordava nitidamente, anche se il volto era così diverso da quello che lui ricordava: «Non mi trovi nella mia forma migliore Val… scusa».

«È…?» chiese Valiel, ricordandosi bene Lyes in quello stato.

«Sì, è il Chimaer, come ho detto». spiegò Elzen e Lyes lo lasciò fare, evidentemente troppo stanca per parlare a lungo «Ha divorato buona parte delle pinete tra il Draile e le Terre di Rah. Erano grandi foreste, con alberi forti, antichi e nobili».

«È irrimediabile?»

«Come saperlo? È una Bocca del Chimaer. Lo sai come vanno queste cose».

«E Re Hion?»

Lyes tossì ed entrambi si zittirono di colpo, per concentrare ogni sguardo e pensiero unicamente su di lei. Dopo qualche minuto, dato che non sembrò fare nient’altro di preoccupante, si rivolsero nuovamente l’uno all’altro.

«Te l’ho già detto, non sappiamo nulla di Vonselas. Non erano isolati quanto noi, avevano scambi con due o tre paesini montani nelle Lande di Rah, quindi stiamo cercando di ricontattarli. Ci vorrà qualche anno perché Lyes stia meglio ma forse Hion potrebbe riprendersi anche prima».

«Posso fare qualcosa per lei?»

Elzen riacquistò tutta la sua fredda durezza: «Sei un ramingo al servizio della regina di Evalunith. Dedicati a quello che ti compete. Non eri venuto per informarci della situazione al Lago di Kalst?»

«Che marcisca il dannato Lago di Kalst! Ci deve essere qualcosa che posso fare… qualsiasi cosa!»

Si rese conto troppo tardi di aver sbagliato ampiamente scelta di parole. Lyes alzò di nuovo il capo e a Valiel sembrò che un vento inquieto, carico di elettricità statica, avesse preso a vorticare dal centro della stanza. Tutta la gentilezza di Lyes era sparita.

«Qualsiasi cosa! Sì, tu faresti qualsiasi cosa. È la tua specialità».

Ogni parola gli sembrò un tuono che si scagliava a pochi metri da lui. Ad Elzen tremavano addirittura le mani: evidentemente, a differenza di Valiel, aveva visto altre volte Lyes tanto infuriata e ciò che ne seguiva.

«Credi di essere speciale. Che le nostre leggi non valgano per te. Tu puoi violare le nostre sciocche regole. Tu puoi fare qualsiasi cosa serva».

«Lyes, io …»

«Bene, invece stavolta farai esattamente quanto devi e nulla più, non importa quanto futile, banale o indegno ritieni il tuo compito».

«Ascoltami, io…»

«Non ascolterò proprio nulla! Non sprecarti a parlare. Non ti allontanerai da me più di quanto hai già fatto. Non avrai mai più a che fare con il Chimaer ovunque si manifesti in tutti i Sei Regni. Non vedrai mai la Bocca settentrionale. Non darai alcun aiuto ai nostri guardiani, mai. Mi hai capito? Mai!»

L’ultimo “mai” fu seguito da un lampo che illuminò a giorno la sala e poi da un istante di buio. Dopo ancora tutto sembrò penombra e silenzio, come se la normalità si fosse di colpo imposta nuovamente sulla magia. Valiel ed Elzen chinarono il capo senza fiatare.

«Ora» riprese Elzen, con la voce ancora tremante «racconta alla regina cos’hai visto».

Valiel tirò un gran respiro, poi si decise: «Mia regina, la Forgia del Lago di Kalst è stata attaccata».

Elzen e, per quanto poteva, Lyes, sgranarono gli occhi in segno di sorpresa.

«I chimerici, dalla Bocca a nord-est?» scandì Lyes, per poi aggiungere: «Che siano giunti fino a… no. Non l’ho percepito… non può essere.»

«No, mia signora. Ho capito subito che non avevano nulla a che fare con esso, tuttavia ho anche consultato uno stormo di corvi che ha sorvolato la rotta dalle Lande di Rah al Draile per esserne sicuro. I corvi confermano che nulla è uscito dalla spiaggia di Fjaran-Marmar, nel Rah… la Bocca del Chimaer è irrequieta, ma stabile per ora».

«È soprattutto merito dei nostri raminghi» si vantò Elzen «nulla potrebbe entrare nella foresta senza che noi ce accorgessimo».

«Noi siamo qui per questo» concordò stizzosamente Valiel.

«Già. Anche tu hai fatto la tua parte» riconobbe l’altro, con fastidio «ma il quesito rimane. Se non un chimerico, allora cosa? Nessuno ha mai attaccato quella Forgia da che ho memoria… o vuoi dirmi che è stata l’opera di qualche bestia selvaggia?»

«L’avremmo notata molto prima che arrivasse al lago, non diversamente che un chimerico. No. Non sono esperto in materia ma direi che si trattava di golem. Molto elaborati e potenti, difatti alcuni mastri forgiatori hanno cercato di trattenerli e ci sono riusciti a fatica».

«L’arte dei mastri di Kalst è pari o superiore alla magia di molti dei nostri arcidruidi. Un nemico pericolso per i nani… e per chiunque» la preoccupazione di Elzen sembrava crescere di minuto in minuto.

«Quel che non mi spiego è quale fosse lo scopo dell’attacco. Non so se fossero in grado di distruggere la Forgia o uccidere qualche mastro forgiatore in particolare, ma sicuramente non si sono impegnati per questo. Piuttosto sembravano interessati ad una giovane apprendista nana che è scappata appena ha potuto».

«Una apprendista?»

«Sì, una ragazza abile, direi. Ma non abbastanza da disturbare quei golem. Ho dovuto interferire, anche se non sono stato visto».

«Come sarebbe a dire che hai dovuto interferire?»

«Hanno cercato di colpire due contadini umani. Il Trattato dei Popoli mi autorizza a intervenire».

«Così è» intervenne Lyes «ma tutto questo è… davvero inquietante. Un mastro forgiatore che ne attacca altri, senza curarsi di suscitarne l’ira… che aggredisce degli innocenti umani, in sfregio al Trattato dei Popoli… tutto promette disgrazia».

«Dovremmo tenere sotto controllo la Forgia…»

«Non credo» corresse Valiel «secondo me dovremmo tenere d’occhio quella giovane apprendista. Un paio di topi con cui ho rapporti la seguono, credo vada verso Tuinsy al momento. Dei raminghi potrebbero andare lì e…»

«Tu. Tu sei un ramingo. Tu andrai lì».

«Lyes, finché sei in queste condizioni…»

«Te lo ordino come tua regina. Stammi lontano. Non voglio più che tu mi veda, finché sono in questo stato. Ti proibisco di agire – e se potessi ti proibirei di pensare – per la mia salute. Non chiedere ad altri di me. Non mettere piede ad Evalunith. Concentrati sul tuo compito e solo su quello».

Valiel sentì il suo cuore accelerare. Ogni fibra del suo essere gli impose di non mostrare alcuna emozione. Accanto a lui, Elzen sembrava turbato quanto lui dalla durezza di quell’ordine.

«Lyes, non posso…»

«Devi».

«Finché stai così…»

«Se mai… se mai…» cercò di finire la frase ma un altro colpo di tosse la piegò tanto da farla sembrare chinata.

Entrambi gli elfi fecero per avvicinarsi ma subito alzò lo sguardo di nuovo e gli occhi di lei, inflessibili, imposero la giusta distanza tra la regina ed i suoi servitori.

«Se mai… ti è davvero importato di me… fai come ti ho chiesto. Ti prego».

«Farò… farò come chiedi…»

«Prometti!»

Gli tornò alla mente, come un lampo, un giorno di venti anni prima. Anche allora gli aveva chiesto di promettere e lui l’aveva fatto.

… basta sangue, basta tradimenti, basta complotti. E soprattutto, basta con la mia malattia…. Prometti!

Te lo prometto, Lyes, si era infine rassegnato lui.

«Prometto, Lyes» ripeté in quel momento, ripensando a quel giorno lontano; quel giorno aveva mentito, così come stava mentendo ancora.

***

Emergevano dalle onde di spighe come frammenti arrugginiti di qualcosa di troppo grande perché Jen potesse concepirlo, saldamente conficcati nella terra come scagliati da una divinità infuriata. Pochi rampicanti tentavano ostinatamente di aggredire ai lati quelle forme metalliche oblique corrose dal tempo ma anche dalle forze dirompenti che ne avevano inconfondibilmente alterato le forme, come Jen poté dedurre soprattutto da una delle strutture più massicce, scavata da parte a parte in tutti i suoi numerosi strati da qualche potere irresistibile che aveva lasciato un ampio foro perfettamente circolare.

«Le vecchie torri pendenti…» osservò con la voce colma del fascino che quelle forme avevano sempre esercitato su di lei, sin da bambina.

«Ma quali torri? Sono relitti. Resti del Mondo Antico».

«A Kalaston le chiamiamo torri pendenti».

«Se ti chiamo cane non ti metterai ad abbaiare, giusto? Sono navi, vascelli da guerra probabilmente».

«Navi in mezzo alla prateria» ridacchiò Jen «Ma cosa dici?»

«Navi volanti, è ovvio» precisò Ed, piccata.

«Esistono navi in grado di volare?» si stupì Jen.

«Ce n’erano tante… un tempo. Le torri pendenti, come le chiami tu… non sono certo le uniche… sono tracce del Mondo Antico intorno a noi».

«Io… non mi sono mai chiesta da dove venissero le torri pendenti. Ma cosa c’entra con…»

Le morirono le parole in gola. Ed la stava scrutando con uno sguardo penetrante, colmo di sospetto. Le sue pupille si dilatarono tanto da ricordarle come gli occhi di lei si erano trasformati per vedere al buio, poi si strinsero di colpo, come volessero pungerla.

«Tu… tu non sai un accidente. Dov’è che hai studiato? Come mai proprio tu sai aprire un Cancello di Zoa?»

Jen rimase incerta per un momento. Furono interrotte da un clangore metallico ritmico. Stavolta Jen vide chiaramente la minaccia e soffocò l’urlo in tempo, per poi gettarsi a terra coperta dalle spighe. Ed si abbassò con più calma, senza paura.

«Che hai?»

«Mia madre diceva sempre… “chi disturba le torri pendenti suscita l’ira dei cavalieri di ruggine”. E infatti eccoli...».

«I… cavalieri di ruggine. Sicuro, come no. Intendi quelli?»

Formando un cerchio intorno a uno dei giganteschi rottami, incedevano a passi lenti figure simili a grossi scafandri arrugginiti, armature semoventi di placche consunte e ingranaggi cigolanti. Era facile riconoscerli per i cimieri, simili alla ruota di un carro che girasse incessantemente, o per le armi di pietra incisi di rune: erano i guardiani di quelle rovine sparse qua e là come giocattoli rotti nei campi del Draile, soldati metallici rimasti da secoli senza alcuna guerra da combattere eppure determinati nel proseguire il loro compito di custodi. A tutti i viaggiatori del regno toccava conoscerli, rispettarli ed evitarli se non volevano subirne l’incomprensibile violenza. Dato che erano considerati di malaugurio e che se indisturbati erano innocui, né i templari né la guardia civile si occupava di distruggerli.

«Voi umani avete un nome cretino per ogni cosa» si lamentò Ed «…cavalieri di ruggine… sono solo golem, semplici golem. Come quelli della Forgia. O come quelli che ci hanno aggredito».

«Se è il tuo modo di tranquillizzarmi, fa schifo».

«Sono anche vecchi. E scemi come un ciuco. Guarda!»

Con un movimento della mano il bracciale, Zahnrad come Ed lo chiamava, cambiò massa e forma in una valigia allungata con due manici.

«Ma cosa…»

La valigia si aprì in due per lungo lasciando fuoriuscire due archi metallici con una rete di cordicelle ben tese.

«È una… come si chiama… una balestra?»

«Uhm sì. Ho pensato questa forma mesi fa» spiegò alzandosi e reggendo la valigia o balestra o qualsiasi cosa fosse con entrambe le mani.

«Non vorrai colpirli? Aspet…»

Un dardo sfrecciò in volo verso la cima di una torre distante e ci si piantò emettendo un incredibile fracasso, come il rintocco di una campana. Gli oblò nei volti dei cavalieri di ruggine si illuminarono e tutti loro si voltarono verso il punto che era stato colpito, dirigendosi al rottame con passo lento ma deciso, spinti da antiche direttive che erano tutto ciò che c’era in loro.

«Ecco. Ora ci ignoreranno. Visto? Scemi come ciuchi».

«Avevo un asino ed era molto intelligente» protestò Jen.

«Sì, bè… argomento affascinante, gli asini».

Zahnrad riprese rapidamente la sua forma di bracciale ma Jen vide che risplendeva come fosse incandescente e sentì odore di bruciato.

«Ahia» si lamentò Ed senza troppa convinzione «è ancora difficile mutarne la massa così radicalmente».

«Ma… che magia è questa?»

«Non è magia. Scienza runica» puntualizzò Ed.

«Non capisco la differenza…»

«E io non capisco l’intelligenza degli asini. Ognuno ha il suo campo di competenza, pare».

Prima che potesse rispondere all’insulto, la nana aveva già ripreso a camminare con passo spedito.

«Su, prima che quelle vecchie carcasse arrugginite tornino qui. Dobbiamo passare tra questi relitti».

«Ma dov’è che andiamo?»

«Alla miniera al Picco del Matto».

«A cercar diamanti come il matto della leggenda?» chiese Jen.

«Sei anche spiritosa. Possibile che tu sia la donna perfetta? Vorrei essere maschio, così potrei sposarti e fare cose da sposati».

«Cose… da sposati?»

«Sì, sai… farti cucinare, lavare, lavorare e lamentarmi tutto il tempo offendendo la tua dignità. Non fare quella faccia, dopotutto è così che finirai quindi meglio saperlo prima».

La cosa che più colpì Jen non fu il sarcasmo della giovane nana ma come finito di prenderla in giro voltò serenamente le spalle non solo a lei ma anche ai cavalieri di ruggine. Li aveva distratti con un semplice trucco e ora li ignorava, sembrava le fossero familiari quanto a Jen potevano esserlo le mucche. Tutti gli umani percepivano da sempre che elfi e nani erano molto più avvezzi di loro alla magia e ai suoi prodigi ma vederne gli effetti palesarsi a tal punto faceva un certo effetto: per Ed ciò che per Jen era misterioso e inquietante era banale e prevedibile, su di lei l’enigma e l’arcano non avevano potere. Ma, si chiese, questo perché appartenevano a razze diverse? O forse il potere dell’ignoto non era, in fondo, costruito dalla stessa mente di coloro che lo subiscono?

***

Il grosso roditore corse fino ad una massa di funghetti grigiastri. Una porzione di questi si sollevò, mutando forma nel velo di foglie secche che componevano il cappuccio di Valiel.

«Allora?»

«Molto strano» commentò il roditore «Le due ragazze sono molto tese…»

«Non ti avranno visto mentre le seguivi?»

«La fai facile, ramingo, tu stai fermo qui ad aspettare, bel modo di cacciare».

«Esistono tanti modi di cacciare. I più complessi li chiamiamo con altre parole ma alla fine è sempre la stessa operazione».

Il roditore inclinò la testa di lato: «Non ti capisco. Ad ogni modo umani e nani non capiscono la nostra lingua e poiché non ci parlano, nemmeno ci notano. Oggi non c’è stata eccezione».

«Ma hai detto che sono tese…?»

«Perché qualcosa le segue. E loro lo sanno. Non siamo noi… ma è qualcosa. Qualcosa che fa paura».

«Golem di sabbia» concluse l’elfo senza sforzo «Da dove verranno?»

«Non so nulla di costrutti nanici, ramingo. La foresta disprezza questo genere di intrusi. Stanno bene a casa dei nani».

Valiel tirò fuori un pugno di noci sgusciate: «Bene e ora… come promesso, fedele amico».

Il roditore si fiondò sulle noci con felicità.

«Vedi» commentò Valiel sarcastico «anche tu hai sviluppato un modo complesso per sgusciare le noci, che passa per farle sgusciare a me».

Si volse verso il Picco del Matto. Dove andavano quelle due? Perché erano braccate? Sentì un incontenibile istinto di urlare quanto poco gliene importasse e tornare indietro. Tornare da Lyes. Occuparsi del male che la divorava, studiare l’avanzata del Chimaer… invece doveva seguire quelle due piccole fuggiasche. Sospirò rassegnato: non era certo la prima volta che un incarico di Lyes si rivelava, in buona sostanza, una forma di esilio.

***

Jen si svegliò di soprassalto. Il buio intorno a loro era totale, solo il cristallo che stava tra i due sacchi a pelo emetteva una debole luce biancastra, rinchiudendole in un piccolo cerchio di mondo visibile. Ed, con le gambe coperte dal sacco, tracciava dei segni sul terriccio col dito. Si guardò a destra, cercando di affondare lo sguardo nel nero denso del buio: ormai l’entrata della miniera non era più neanche un sospetto di luce dietro una parete di roccia lontana, era tanto distante che si poteva persino dubitare che fosse mai esistita. Anche distinguere giorno e notte era diventato impossibile.

«Dovresti dormire, tu che puoi» disse Ed senza guardarla.

«Scusa… ti ho disturbato? Cosa stai facendo?»

«Piuttosto che chiedermi se mi hai disturbato, perché non smetti di disturbarmi? Buonanotte» parlava a voce bassissima, come se non le interessasse di poter essere udita da Jen.

Jen si girò con uno scatto nervoso, stendendosi e dandole le spalle. Nella direzione in cui guardava ora c’erano nuovamente solo tenebre, presumibilmente fino alla parete della vecchia miniera.

«È colpa tua, sai! Continuo a sognare i miei fratelli… la fattoria fatta a pezzi e loro uccisi dalle vostre bestie di pietra!»

«Golem. Non sono bestie. E non attaccano gli umani inermi senza ragione».

«Li fate voi… vero?»

«Noi? Intendi, noi nani? Sì».

«Perché?»

«Sono armi. Armi viventi».

«E perché fate armi?»

Ed strinse le spalle: «Forgiamo perché è la nostra arte. Perché armi? Immagino che sia perché è la cosa che frutta di più».

«È questo che fate… nel lago».

«Fanno, non fate. Io non tornerò mai più lì».

«Anche armi come spade o come quelle… che fanno rumore e luce, le armi da forno?»

«Armi da fuoco, non forno. No, perlopiù golem. Ma che tri frega?»

«Ho solo paura che Lor e Yul non se la cavino senza di me. Mi hai chiesto molto! Te ne rendi conto? Loro sono ragazzini e…»

«Sono molto interessata ai tuoi problemi» la interruppe Ed, sarcasticamente «ma sto cercando di ragionare qui. Se non vuoi dormire, perché non mi dai una mano? Ah già: non ci capisci un accidente di queste cose. Quindi dormi o quantomeno fai finta».

«Sai» insisté Jen «non credo che abbia a che fare col fatto che sei un nano. Devi essere una persona terribile e basta. Anche tra la tua gente».

«Già» concesse Ed «terribile. Però sono molto fortunata: non faccio che incontrare gente piena di idee su come potrei essere meno terribile. Mi spiace solo non avere altrettanti buoni consigli da restituire. Mi piacerebbe per esempio poterti aiutare nel tuo difficile rapporto col mondo reale».

«Mi sembra che il mio rapporto con la realtà sia molto migliore del tuo».

«Viaggi da una settimana con una sconosciuta. Ci siamo infilate in una vecchia miniera umana e ne ho fatto crollare l’entrata. Come sai, dall’altro lato ci potrebbero essere i nostri comuni amici sabbiosi che mi hanno quasi gambizzata e hanno spappolato il tuo cane. Ma tu sei preoccupata che i tuoi fratelli possano incasinarsi a badare vacche e polli e non ci dormi la notte. Che pericolo corrono loro rispetto a noi due? Che qualche covone di fieno se li mangi? Ti sembra di essere tutta giusta?»

Jen si rimise di nuovo a sedere e guardò i disegni geometrici nel terriccio: «Mi pareva di capire che facesse tutto parte di un piano».

«Certamente; se ricordo la nostra visita istruttiva qui con Mastro Quaquathor, ci toccherà solo prendere un cunicolo naturale, che non risulta sulle mappe, e seguirlo. Non appariremo mai dove siamo attese, invece sbucheremo tra il campi di Mar D’Oro e Tuinsy. Sempre che i nostri – bè, ad essere giusti, i miei – inseguitori non si aspettino proprio questo o che il cunicolo non sia franato o non mi sia dimenticata dov’era oppure che la miniera, che ci tengo a precisare è di fattura umana, non ci frani addosso o ancora che non ci si sia stabilita qualche bestia sotterranea. Che poi è la ragione per la quale io a differenza tua, sto sveglia e parlo a bassa voce».

Jen si nascose la testa sotto l’orlo del sacco, appoggiandola alle ginocchia: «Devo sembrarti proprio una palla al piede».

«Oh, sì. Ma non più di quanto non mi aspettassi, almeno. E se davvero puoi aprire i cancelli del regno perduto, mi riterrò ripagata comunque».

«Già…»

Le cadde lo sguardo su un oggetto allungato che era poggiato sulla spalla di lei, una mazza lunga e pesante, il corpo contundente cilindrico però ne rivelava la natura: era un insieme di frammenti regolari di pietra uniti da una fievole luminescenza arancione, come di metallo caldo. Era Zahnrad, che aveva cambiato forma ancora una volta.

«Quella cosa è… non credevo che i nani potessero costruire cose simili».

«Non possono, infatti. Non è certo un oggetto comune. L’ho realizzato con un materiale a dir poco unico. Mai sentito parlare dell’ukoritium?»

«No».

«Il metallo divino?»

«No».

«Il dono del dio Ukor al suo popolo diletto?»

«No».

«La pietra polimorfica?»

«No».

«Uff… insomma, il punto è non troverai niente di simile in giro» disse brandendo il lungo manico con una smorfia di orgoglio.

«E come mai tu invece ce l’hai?»

Ed si fermò a riflettere un momento, prima di dire: «L’ho rubato, tanto tempo fa».

«Ah… è per questo che… ti cercano?»

Ci fu un altro momento di pausa prima che Ed rispondesse: «Sì».

Jen dubitò immediatamente della sincerità della risposta ma si innervosì comunque: «Quindi è per questo che stiamo rischiando la vita? Perché sei una ladra?»

«Che importa ormai?»

«Come sarebbe “che importa”? Certo che importa!»

«Non farla lunga… sto cercando di tirarti fuori da qualsiasi guaio posso aver causato. E non intendevo certo causarlo, credimi, nemmeno sapevo che esistevi e sinceramente stavo benissimo così. Ora siamo in questa storia entrambe. Ma del resto potrai usare quei cancelli per tornare dai tuoi preziosi marmocchi in ogni momento».

«Tornare alla fattoria… con i Cancelli di Zoa?»

«Esattamente. Fa parte del piano. Per quanto lontano io ti possa portare, tu potrai tornare comunque alla fattoria in un batter d’occhio. E da quel momento i casini saranno tutti solo miei».

«Con i Cancelli di Zoa…»

«Al mondo ne esistono, è documentato, non più di sette, otto se contiamo quello nascosto sotto la tua proprietà. Tre non si aprono più da anni, gli altri quattro funzionano ma non sono controllabili. Non da qualcuno che non sia tu, comunque».

Jen non emise neppure un suono malgrado Ed avesse cercato di ottenere una qualche risposta da lei; la nana si rassegnò e riprese a parlare.

«Purtroppo due di questi sono letteralmente all’altro capo del continente e uno è addirittura oltre. Il più vicino è proprio alle Isole Ranaluta. Quindi attraverseremo con qualche nave il Blu Minore, poi ci faremo dare un passaggio da qualche carovana mercantile che arriverà al confine con il Nadorhai, cioè alle isole. Sicuramente sarò seguita fino a lì. Da laggiù, dopo, potrai tornare alla fattoria riutilizzando lo stesso Cancello di Zoa che si trova là e sparire nel nulla senza essere seguita».

«Tornare alla fattoria con i Cancelli di Zoa…» ripeté Jen, come imbambolata.

«Perché continui a ripeterlo? Servono a questo, no? Sei strana tu che hai questo potere e non lo coltivi. A proposito, non sarebbe ora di dirmi come mai sai utilizzarli?»

«…seguirò il tuo consiglio e dormirò».

«Ti propongo un nuovo affare: se mi dici come hai imparato, io ti dico perché ti voglio portare là. Ti interessa?»

«Buonanotte».

«Per la gloria di Ukor, non ti sopporto».

***

«Me lo ripeta: è assolutamente certo?»

«Glielo ripeto: sono assolutamente certo» sbuffò il vecchio.

«Ma lasci che le mostri ancora il ritratto e…»

«Insomma Bedge, sei rincretinito? Ha detto di sì. Diamoci un taglio».

«Sì, tenente, però… voglio dire… le implicazioni del caso…»

Nihilus Wiggs strattonò il suo sottoposto, per parlargli all’orecchio: «Le capisco da solo le implicazioni. Fai uscire questo bacucco e chiamami il prossimo testimone».

Bedge obbedì senza insistere.

«E se qualche bifolco della guardia cittadina dice che il caso è di sua competenza, striglialo così terrà a mente che in questo buco di città la Chiesa è padrona» gli urlò dietro mentre Bedge usciva.

Appena rientrò nella camera, si sedette davanti al tenente, squadrandolo e leggendo in lui la sua stessa irrequietezza. Grattava i capelli cinerei e spettinati, impensierito, poi si carezzava la barba appena incolta, infine si accese una sigaretta.

«Arriverà a momenti, capo. Che si fa? Se si scoprisse che abbiamo bevuto gomito a gomito col principale sospettato…»

«E chi lo dirà? L’oste? Gli lascio praticamente lo stipendio intero e mi dovrebbe almeno due matrimoni felici e una carriera onorata».

«Non vedo come potrebbe restituirteli…»

«È un modo di dire. Se serve, comunque, lo corromperemo. Questo gli cucirà la bocca».

«Una volta eravamo noi a prendere mazzette».

«Che vuoi che ti dica, non c’è più nulla di sacro a questo mondo. È un pezzo che non seguo seriamente un vero caso ma ogni tanto bisogna scendere a compromessi» si alzò pigramente «Arriva questo testimone? Altrimenti farei una capatina al bagno».

«Faccia come fosse a casa sua, tenente».

Wiggs uscì in corridoio, ripetendosi mentalmente quanto incredibile fosse la capacità del suo lavoro di frapporsi tra un’ora di perdizione e la successiva. Una sorta di parentesi di “devo” che fastidiosamente si inseriva nel “voglio” a cui preferiva dedicarsi. Proprio in quel momento, gli passò accanto una esile figura sinuosa, avvolta in uno splendido manto blu scuro ricamato di figure d’argento e d’oro. Le labbra e il mento erano tutto ciò che poteva vedere, il resto del viso era celato da una maschera argentea la cui forma poteva ricordare un arco o un paio d’ali abbassate.

«Salute, Sacerdotessa Norna».

Lei ricambiò con un sorriso stirato. La diffidenza e il disprezzo tra sacerdotesse e templari era mutuo e ben radicato: le prime vedevano i templari come gendarmi violenti e rozzi, incapaci di controllare i fedeli con la parola; i secondi vedevano le sacerdotesse come orpelli al potere della Chiesa, potere che vedevano come – sostanzialmente – militare. Entrambi indossavano il paramento sacro della Chiesa: una stola annodata sulle spalle a mò di pallio; la fantasia di cui era ricamata riproduceva volute e spirali di nuvole ammassate, percorse per lungo da una folgore, il fulmine che simboleggiava la loro Dea, Genaa dell’Aria. Quella di Norna era di un bianco abbagliante, a simboleggiare la purezza della fede; quella di Wiggs era argentea e sembrava lucida come acciaio temprato, a ricordare che i templari facevano valere le leggi della Chiesa con il ferro.

«Un caso d’eresia, tenente Wiggs?»

«Lo trovo difficile. Credo un semplice furto, anche se di consistente entità».

«Ricordatevi allora di concertare ogni cosa con la guardia cittadina».

«Contateci, Sacerdotessa».

Appena lei lo oltrepassò, la mandò a quel paese con un gestaccio.

«Entrate pure» chiamava intanto Bedge, ancora seduto alla scrivania.

Il successivo testimone era un maggiordomo della Casata degli Ensland. Il distinto signore si sedette al tavolo, appena dopo esser stato urtato da Wiggs, e contemplò la bizzarra figura di un templare emaciato dall’aria nevrotica e depressa, con i capelli appuntiti all’insù e un unico tondo monocolo di cristallo azzurrino sull’occhio destro. Si trattenne appena dal chiedere di poter parlare con il templare che doveva interrogarlo, perché dalle vesti comprese che lo aveva proprio davanti. Su una lunga e stretta veste color avorio che si allargava morbidamente sulle gambe, portava anche lui, come Wiggs, la stola sacra dei templari, nella filigrana metallizzata. Come molti, anche l’uomo salutò la sola vista di quell’indumento con un cenno di deferenza.

«Non si siede?»

«Chiedo scusa, milord. Samus Jasparro, per servirvi».

«Umpf. Sì… certo… bè… Balder Bedge, sergente degli Alti Templari, divisione settentrionale di Kalaston, chierico di seconda classe. Il tenente Wiggs è uscito un attimo per… consultare la documentazione sul caso. Quindi…» avvicinò una tazza di caffè al maggiordomo «…cosa può dirmi, signor Jasparro?»

«Non credo d’aver molto d’aggiungere, milord, a quanto le avranno già detto gli innumerevoli passanti trovantisi giusto all’infuori della magione. Personalmente, posso arricchire il bagaglio delle sue conoscenze affermando che ho effettivamente visto il tappetto sfondare il muro della sala delle armature e poi quello che dava sul giardino».

«Sfondare?»

«Bè, tecnicamente è stato il pezzo da collezione di Padron Ensland a devastare ambedue i muri».

Bedge guardò verso l’alto respirando profondamente. Poi si tolse il monocolo e iniziò a pulirne la lente. Il tenente Wiggs ci stava mettendo un tempo davvero eccessivo a rientrare nella stanza degli interrogatori e Bedge se lo immaginò intento a fumare una sigaretta nascosto tra le logge nel giardino interno della Cattedrale, ben determinato a lasciargli il lavoro. Magari stava anche ridendo di lui. Strinse le spalle: non poteva farci niente, né gli era mai interessato farlo.

«Signor Jasparro, che idea si è fatto della faccenda?»

«I tappetti hanno un’idea peculiare della proprietà, milord. Ritengono che ciò che uno di loro ha lavorato appartiene per sempre al loro popolo. Quest’idea incivile contraddistingue tutta la loro cultura».

«E lei ritiene che per questo il nano abbia trafugato» prese in mano un foglio un po’ strapazzato e lesse «un golem dell’epoca Ozmatt del peso di quattro tonnellate in ferro argentato, del valore di circa centodiciottomila geon…?»

Bedge ripensò alla serata alla locanda, la settimana prima. Il giovane nano astemio tutto sembrava fuorché uno zelante tradizionalista pronto a vendicare l’onore della sua gente. Peraltro non aveva mai realmente avuto notizia diretta o indiretta, recente o remota, di un nano che cercasse di riprendersi un artefatto nanico dagli umani con la forza. Sospettava che si trattasse di una diceria bella e buona senza alcuna base fattuale.

«Certamente. Si dev’essere trattato di un proditorio atto di sfida alle nostre tradizioni. Se milord consente, esprimerò una posizione personale».

«Consento» rispose Bedge sporgendosi verso di lui.

«Da ormai cinque secoli capita che umani, elfi e nani costruiscano le loro case fianco a fianco. Ebbene questo non ci rende pari agli altri. I tappetti…»

«Si esprime in maniera piuttosto erudita, mi sorprende che usi un termine rozzo quale tappetti per descrivere delle persone» lo gelò immediatamente Bedge «Mi permetta una domanda: il nano ha fatto o detto qualcosa che avvalorasse questa sua ipotesi sul movente?»

Il maggiordomo si mosse un po’ nella sedia, come se avesse prurito. Guardò la luce tremula delle candele della sala e finalmente sembrò nervoso proprio come dovrebbe esserlo un testimone convocato alla cattedrale della Chiesa della Dea.

«Se sforzo la memoria, milord, rammento che in effetti mi ha solo detto di… ecco, non stargli fra i piedi. I piedi del pezzo da collezione, intendo. Perché il nano, lui… sedeva sulle sue spalle. Sa, come un bimbo che gioca sulle spalle del padre… e mi ha detto di togliermi dai piedi».

«E nient’altro».

«Nient’altro».

Bedge portò le braccia, congiunte, sul tavolo. La mano destra prese a giocare con un grosso rosario di lucide sfere azzurro elettrico che gli giravano intorno al collo. Era un pezzo molto raro, persino un profano di monili sacri qual era il maggiordomo Jasparro se ne rendeva facilmente conto. Le dita della mano destra presero a sgranare una ad una le sfere, che assorbivano appena la luce della candela. Alla sesta sfera, le mani sembrarono bloccarsi di colpo.

«Sa, ho cercato più e più volte di visualizzare la scena ma mi manca qualcosa».

«Prego?»

«Voglio dire, il palazzo non è ben sorvegliato da tutti i lati? Come può aver fatto il giovane nano ad entrare?»

Il maggiordomo guardò a sinistra, come si fa quando si richiama una memoria visiva: «Signore, lo stato in cui versa la sala delle armature di Padron Ensland parla molto chiaro. È arrivato dal sottosuolo. Del resto, suppongo sia normale per un tappetto spostarsi attraverso tunnel e gallerie, la loro… specie… viene da lì».

«Sì» ribatté Bedge infastidito dalla lentezza con cui doveva condurre il testimone ad offrirgli le informazioni rilevanti «certamente però non tutti i nani sono capaci di sfondare svariati metri di granito. Anzi, la maggior parte non ne sono capaci. Quindi non sappiamo tutt’ora come esattamente sia entrato».

«Potrebbe aver utilizzato qualche artefatto magico o il potere di un golem, signore. Oppure… la magia».

«I nani rifuggono la pratica diretta della magia, quindi scarterei l’ultima ipotesi. Evidentemente aveva il potere per farlo. E ora mi dica: perché mai un mastro nanico tanto potente viene a rubare un golem di cui evidentemente non ha bisogno?»

«Se mi chiede un’altra volta un parere, vorrei tornare su quel discorso del concetto di proprietà tipico dei tappetti, che…»

«Si levi immediatamente dalle scatole».

***

Rimase per un solo istante a bocca aperta, prima che Ed le togliesse bruscamente il cristallo dalle mani. Lo stretto cunicolo naturale che avevano imboccato si era aperto in una ampia caverna di cui, a giudicare dal sospiro di sorpresa, Ed non immaginava l’esistenza. Davanti a loro c’erano rocce irregolari che emergevano casualmente da un profondo pozzo di acqua trasparente ma malgrado questo Ed fece comunque venir meno la luce del cristallo, loro unica guida. Prima che Jen potesse chiederne il motivo, le tappò la bocca con una mano.

«Non fiatare» lo disse pianissimo ma nel tono più imperativo che Jen avesse mai udito.

Una cosa enorme e luminescente uscì quietamente dall’acqua, colorando la cava della fioca luce violacea che emanava. La forma ricordò a Jen una lucertola o qualche forma anfibia ma era evidente che non era niente che la natura potesse produrre. La stessa materia di cui era composto era una massa nera punteggiata di cobalto e ametista che dava una vertiginosa sensazione di vuoto, come se la sua stessa sagoma fosse un pozzo affacciato su un immenso scorcio di cielo notturno. Eppure era una creatura senziente e vivente, questo era chiaro; anzi, attraverso il suo corpo ultraterreno era possibile vedere una sorta di scheletro o di rete nervosa.

«Cos’è quello?» provò a dire ma riuscì solo a bofonchiare qualcosa di sconnesso nel palmo della mano di Ed.

La cosa si mosse lentamente in cerchio, come se volesse minacciarle. Poi ricominciò la sua quieta discesa in acqua e la luminescenza si andò affievolendo. Ed le lasciò la bocca.

«È andata via?» chiese Jen, pianissimo.

«Forse sì».

La testa piatta del rettile o qualsiasi cosa fosse sbucò dall’acqua e protuse all’infuori quattro occhi in cima a delle antenne flessuose, come fosse una lumaca; tuttavia Jen notò che sebbene sembrasse una enorme salamandra senza esserlo, al medesimo modo non era una lumaca o niente di imparentato ad essa: in cima alle antenne che aveva estroflesso non c’erano occhi, ma grandi terminazioni simili a mani umanoidi.

«Un… mostro…?»

La creatura sputò una lunga lingua che o forse un fiotto di pece nera, un tentacolo… difficile definirlo. Ed spinse Jen di lato e si buttò a terra a sua volta, la biondina non ci pensò nemmeno a muoversi e rimase sostanzialmente paralizzata a terra. La lingua non si ritrasse come Jen si aspettava, anzi strisciò in modo lento e calcolato come una biscia.

«Forse no, eh eh» ridacchiò Ed nervosamente «Sta ferma lì».

Zahnrad prese la forma di uno scudo di pietra circolare sul suo avambraccio sinistro. Ed mantenne fermo il contatto visivo con il barbiglio nero, che tastava cercandole come un cieco che tastasse l’ambiente per riconoscerlo.

«…e chi si muove…»

La cosa, dal lato della caverna, studiò Ed molto attentamente. La punta della lingua divenne una specie di artiglio umanoide e splendette di giada e smeraldo, per poi piombare su Ed per graffiarla. Lei parò immediatamente e il disco di pietra sfrigolò a contatto con quell’artiglio, senza però scalfirsi nemmeno. La lingua si ritrasse un po’, ondeggiando nell’ombra e cambiando colore di continuo, come uno spettacolo di luci.

«Mmmh!» Jen fece per urlare ma Ed le tappò nuovamente la bocca.

Aveva guardato verso l’alto, la volta della grotta. Dove prima non c’era nulla ora c’era un altro essere rettiliforme, simile al primo, anche lui enorme. La testa si attorcigliò come se il corpo purpureo fosse fatto di pasta di pane e girò su sé stessa fino a che non puntò dritto le due ragazze; anche lui, come il suo simile, estroflesse delle antenne che terminavano con delle mani intente a tastare l’aria, come fosse cieca. Jen si aspettò che la creatura si lasciasse cadere su di loro, lasciandole senza scampo. Invece si voltò di nuovo in quel modo innaturale, ignorandole.

«Vienimi vicino! Adesso!»

Jen chiamò a raccolta il coraggio e corse accanto a lei. Dove la cosa, che ancora li scrutava dal pelo dell’acqua, avrebbe dovuto avere gli occhi, si aprirono due fori. E da questi schizzarono fuori altre due lingue uguali alla prima e Ed e Jen, ormai vicinissime, si trovarono circondate da mani pronte ad afferrarle per fare di loro solo la Dea sapeva cosa. Ma appena piombarono sulle due ragazze lo scudo si ruppe in più frammenti e si distribuì come una cupola protettiva intorno a loro.

«Cosa… come hai fatto?»

«Sta zitta. Devo stare concentrata».

Gli artigli premevano contro la membrana arancione che i frammenti di Zahnrad avevano in qualche modo steso intorno alle due ragazze, graffiavano e percuotevano con forza ma non riuscivano a penetrare quella bolla magica.

«Ascolta. Appena te lo dico, corriamo verso quel buco. Ok?»

«…certo…»

I frammenti iniziarono a vibrare emettendo una specie di ronzio. Jen afferrò al volo il concetto: quella forma dell’arma, quella protezione sferica, poteva durare appena qualche secondo. Infatti Zahnrad si richiuse l’istante successivo, riprendendo la forma di scudo circolare.

«Corri!»

Corse lasciando Ed indietro. Doveva lasciarla lì? In effetti se l’avesse fatto si sarebbe liberata immediatamente di lei, sarebbe potuta tornare subito alla sua fattoria. Ma non le doveva qualcosa per aver salvato i suoi fratelli? Eppure le sembrava una persona davvero tremenda, questo non doveva contare qualcosa?

«Muoviti!»

I suoi pensieri furono interrotti: Ed la stava già spingendo nella cavità, mentre gli artigli di quell’essere ultraterreno brancolavano nell’aria.

***

Nihilus Wiggs spense la terza sigaretta nel posacenere del salone davanti all’espressione piuttosto disgustata del suo anfitrione, che aveva eroicamente celato il suo fastidio per il fumo, arrivando addirittura a fargli portare un posacenere, finché finalmente a metà della terza sigaretta aveva ceduto lasciando che la faccia tradisse tutta la sofferenza delle sue narici.

«Fastidio se ne fumo un’altra?» chiese Wiggs flemmatico, senza attendere la risposta.

Lexington Ensland, figlio di Lionellus Ensland, a sua volta generato da una infinita lista di nobilissimi Ensland era per status giusto un gradino sotto la Dea in persona a Kalaston ma prossimo allo zero assoluto appena si fosse trovato abbastanza lontano dalle mura cittadine da non vedere più le rive del Kalst. Invece, la Chiesa della Dea poteva vantare ampi potere ed influenza lungo tutto il Draile, le sue sparute città e i suoi sterminati campi di grano dorati, sopra nobili di rango non inferiore agli Ensland come sopra le anonime masse di villici zappaterra che sciamavano lungo i campi come formiche operose, e persino oltre il Draile sopra umani, elfi e nani che vivevano nei Sei Regni. Per tutte queste ragioni Wiggs, che non poteva vantare alcun merito di sorta rispetto al rampollo degli Ensland, poteva permettersi di non temerlo, né rispettarlo e addirittura di insultarlo non troppo sottilmente, semplicemente in virtù delle diverse istituzioni che ciascuno dei due vantava alle proprie spalle. La dolce prepotenza era un piacere irrinunciabile per lui, come per molti altri templari, ma lo era tanto più quando esercitata su altri a loro volta abituati normalmente ad essere arroganti.

«Dunque, alto templare Wiggs… che mi dite?»

«Quello che ho già detto, nelle ultime due ore e mezzo» insistette lui, rilasciando una sgradita quantità di fumo denso nell’aria ad ogni parola.

«Le ho già detto che siamo disposti ad alzare il prezzo, in maniera consistente».

Wiggs non riusciva davvero a comprendere da dove quell’incontro e contestuale discussione venissero né dove fossero destinati ad andare. Non aveva voglia di lasciare Kalaston, affrontando ulteriori e più duraturi malumori di sua moglie, e non aveva nessun particolare obbligo a farlo. Inoltre, cosa alquanto congeniale alle sue inesistenti ambizioni, non aveva nessun peculiare talento per cui dovesse proprio lui risultare indicato per quel ruolo, data la generale mediocrità della sua vita. Non c’era proprio alcun senso intellegibile: si vide costretto a chiederlo apertamente.

«Perché mai ci tenete tanto che siano i templari ad occuparsi di un furto e a dare la caccia ad un ladro che certamente non è più nei confini della città? Non siamo cacciatori di teste, come saprà».

«Ufficialmente i templari agiscono solo se c’è in ballo la fede o culti pericolosi per il popolo o ancora se la guardia civile chiede loro aiuto. Sappiamo entrambi che voi non operate affatto entro questi angusti confini».

«Dove opera la Chiesa della Dea non spetta a voi deciderlo, lord Ensland. E non giustifica che io mi metta alla ricerca di un vostro bene andato perso. Lei continua a farmi proposte sempre più allettanti senza dirmi realmente in cosa mi vado a immischiare».

Lexington Ensland passò accuratamente una mano sul suo cranio assolutamente calvo. Guardò in basso come si vergognasse di qualcosa.

«La storia di quello specifico pezzo da collezione non è… tra le più nobili pagine sulla mia altrimenti nobilissima famiglia. Lo abbiamo ottenuto in tempi molto antichi quando… i rapporti tra i quattro grandi popoli non erano quelli di adesso».

«Affascinante» commentò il templare, con un tono che smentiva il contenuto «Ma a me non cambia nulla».

Il giovane aristocratico si sporse, quasi come a sottolineare di essere finalmente giunti al cuore del discorso: «Per intenderci, alto templare… lei certamente sa quanto lunga può essere la memoria dei nani quando si tratta di riparare antichi torti. Noi temiamo che questo possa essere il primo di una lunga serie di furti, se non peggio di attentati, che avranno luogo in svariate città del Draile e di Nistria e che punteranno a ricomporre un ampio patrimonio di artefatti nanici che secondo alcuni studiosi appartenevano ad un unico padrone».

«Sembra un bel casino. Una vendetta ancestrale di qualche vecchio casato nanico? O addirittura qualche Cerchio dell’Innocenza ancora attivo? Sa bene che i re dei nani non prendono più alla leggera queste faccende. Che se ne occupino loro».

Com’era prevedibile, nel sentire nominare i Cerchi dell’Innocenza Lexington Ensland fu scosso da un brivido. I Cerchi disapprovavano che un umano potesse vantare in casa propria oggetti o opere d’arte appartenute ad altre razze ed in passato avevano fatto valere questa disapprovazione in molti modi, a volte avevano raso al suolo le case macchiate da tale colpa e chiunque ci vivesse dentro senza badare a provenienza, importanza o grado di nobiltà.

«Preferiremmo di gran lunga non avere direttamente a che fare con questo genere di faccende».

«Oh! Adesso è chiaro. Se sarà la Chiesa ad occuparsi di questa brutta gente, non se la prenderanno né col vostro nobile parentado né con altri vostri amici a Talaxaur o Tuinsy. Ecco perché sareste disposti a sborsare tanto. Certe paure hanno radici robuste, vero?»

«Invero sì!» sbottò l’altro, perdendo per un attimo tutto il suo aplomb «Voi non avreste paura? Non tutti viviamo sotto la confortante ala della Chiesa. Se ci fosse un Cerchio dietro questa cosa…»

«Sì, ho afferrato il concetto». lo interruppe Wiggs, con sguardo spento «Ma sentiamo… come potremmo giustificare il dislocamento di due, tre, o quattro degli undici templari di stanza a  Kalaston? Inseguire un golem ed un nano in giro per il Draile esula abbastanza dalle competenze ufficiali del mio ordine».

«Non mi prenda in giro, sa meglio di me che potete inventarvi un’inquisizione per sospetta eresia come e quando credete. E c’è un motivo se è proprio a voi che ci siamo rivolti: siete notoriamente molto capace in questa pratica, Nihilus Wiggs».

«Un punto a favore vostro: sono sicuramente navigato in materia di maneggi e abusi. Ma ecco un’altra domanda: come potremmo mai indovinare dove vanno il ladro e la refurtiva mano nella mano?»

«A questo, le posso garantire, abbiamo pensato per tempo. Abbiamo un artefatto nanico che consente di ritrovare qualsiasi oggetto uscito da questa casa, se porta un apposito marchio. La nostra famiglia aveva un antico amore per le collezioni e siamo attrezzati a recuperarle».

«Felicitazioni. Ma tutto ciò non risolve la questione principale, cioè perché mai dovrei dare la disponibilità dei templari a sbrigare questa spinosa faccenda per un compenso che francamente non vale certamente l’eventualità di lasciarci la pelle»

«Quanto a questo dovrete parlare con mio padre».

«Lionellus Ensland non può avere molto da dire che mi faccia cambiare idea».

«Ne sarete sorpreso».

***

«Cos’erano?»

Ed stava ancora cercando di respirare normalmente dopo aver rivisto il cielo all’uscita della galleria rocciosa. Era presa da un attacco di agorafobia tipico di un nano dopo momenti di forte tensione. Anche Jen, comunque, si ritrovava il cuore a galoppare ben più del dovuto.

«Allora? Che cavolo erano?»

Ed scavò nella sabbia bagnata con i piedi fino a tracciare due profondi solchi. Inspirò l’aria ricca di salsedine e arrivò a poggiarsi il mento sulle ginocchia.

«Ti ho chiesto…»

Ed la interruppe battendo un pugno che si piantò a fondo nella sabbia della battigia: «Perché non lo chiedi alla tua Chiesa che cosa sono? Voi li lasciate scorrazzare in giro per il mondo. O non ne sai nulla? Cos’è che hai studiato, esattamente?»

Stavolta Jen non si disturbò neppure a farle sapere che non avrebbe risposto e preferì insistere: «No, non ne so niente! Smettila di trattarmi così! Che diavolo era quello? Perché non l’hai combattuto come hai fatto quella volta nella mia fattoria?»

«Se lo avessi colpito… poteva succedere qualsiasi cosa! Con il Chimaer è così che vanno le cose. O non hai mai sentito parlare neanche di questo?»

«Tutti conoscono la Bocca del Chimaer» ribatté Jen, ma poi fu come colpita da una illuminazione e aggiunse: «…ma allora quelli… erano i mostri del creati dal Chimaer?»

«Secondo una interpretazione, sì. Secondo un’altra, sono parte di una unica entità che… non importa. La tua gente li chiama chimerici».

«Uno ci ha aggredito mentre l’altro ci ha ignorato… perché?»

«Chi lo sa cosa pensano quelli…»

Per Jen fu come una intuizione alla rovescia: per la prima volta si rendeva distintamente conto di non sapere una cosa, aveva la precisa percezione di una risposta che non aveva e che avrebbe invece dovuto avere. La consapevolezza improvvisa di non aver mai posto la domanda, senza che ce ne fosse apparente motivo.

«Ma… cos’è veramente il Chimaer?»

Ed sembrò quasi essersi calmata. Si alzò in piedi e guardò la ragazza dritta negli occhi: «E va bene. Vieni con me!»

Prendendole la mano, la strattonò trascinandola su per la spiaggia, da dove si vedeva già all’orizzonte la città di Tuinsy divisa tra il faraglione e la scogliera, appena legati dalle maestose arcate del Ponte Azzurro, su per le dune che iniziavano a chiazzarsi delle prime piante, finché non furono sul ciglio della collina. Una cintura di colli e vallate teneva separati i due mari: quello vero, il vasto oceano, e quello che i drailiani chiamavano il Mar D’Oro, la sconfinata distesa di spighe di grano dorato che scintillava alla luce del sole e ondeggiava fluida con il vento. Proprio quelle messi sempre abbondanti facevano del Draile la nazione in assoluto più ricca di cibo tra tutti i Sei Regni. Altri gusci metallici punteggiavano le distese di spighe, altre di quelle che Jen chiamava “le torri pendenti”. La giovane nana le indicò con un dito.

«Sai cosa dovrebbe caratterizzare gli umani? La ragione. Il dubbio. La curiosità. Voi invece vi lasciate insegnare come reprimerle. La verità lascia tracce, ovunque intorno a voi, proprio come il Mondo Antico ha lasciato queste rovine nei vostri campi. Ma non siete più capaci di farvi domande. E quando le domande sono inevitabili, cercate di evitare le risposte. Cos’è veramente il Chimaer? Perché non riuscite a darvi una risposta?»

Jen si divincolò bruscamente dalla stretta di Ed. Sentendosi così aggredita e disprezzata, ebbe l’impulso paradossale di prendere le difese di quella stessa sua ignoranza che l’aveva inquietata.

«Chi lo dice che farsi delle domande sia la cosa migliore? Chi lo dice che avere risposte sia un bene?» sbottò lei, poi le voltò le spalle «È a Tuinsy che stiamo andando, vero? Andiamo allora, così potrò tornare alla mia fattoria il prima possibile».

E s’incamminò, con passo svelto, lasciandosi dietro le imprecazioni della sua compagna di viaggio.

***

Alef Astal era un nano abbastanza felice. L’animale sconosciuto che aveva adocchiato sembrava ben pasciuto e invitante, pareva proprio tutto ciò che doveva fare per catturare quella specie di grosso ratto era stendere il moccioso che se lo portava in giro tutto contento. Ma doveva tramortire il marmocchio quando era ben lontano dai genitori, altrimenti avrebbe sollevato un putiferio e avrebbe dovuto risolverlo eliminando due famiglie di mercanti girovaghi o fuggendo e lasciando tracce ancor più vistose di quelle che aveva lasciato alla Forgia e a Kalaston. Era abbastanza preferibile evitarlo, altrimenti presto o tardi sarebbe incappato in qualcuno con l’intenzione e la capacità di fargli la pelle. Ma tutto sommato un pasto piuttosto lauto era a portata di mano, questo era più di quanto si potesse dire degli ultimi giorni passati in superficie. Si strinse bene nel suo abito giallo lacero, che aveva rubato mesi prima ad un nobiluomo mentre era in viaggio in Nistria, perché fu investito da una folata di vento freddo. Quel signorotto locale che lo aveva praticamente obbligato per giorni a subire la sua compagnia e rispondere alle sue domande insistenti, appena beveva un po’ perdeva tutta la sua parvenza di civiltà e raffinatezza: lo aveva chiamato sporco nano, tappo, piccoletto, talpa e non ricordò quanti altri insulti razzisti, prima di sputargli addosso: decisamente troppo per aver osato vomitargli sulle scarpe (dopo l’ennesimo tentativo di affinare una dignitosa resistenza all’alcol che fosse comparabile a quella dei nani suoi simili). Lo aveva ucciso con una mazzolata sul cranio appena quello aveva finito di prenderlo a calci e si era voltato dandogli le spalle. La maggior parte degli umani era troppo insignificante o debole per essere uccisa da un artefatto nanico, tantomeno di sua fattura: un solido mattone che gli frantumasse il teschio era il massimo che potessero meritare. Però aveva sempre invidiato l’arte tessile degli umani, una delle poche arti manuali in cui i nani avevano molto più da imparare dagli umani che non il contrario, così aveva preso dalla carcassa quel bell’abito lungo di regali tonalità giallo scuro. Era stato problematico, però, perché lo aveva identificato pochi giorni più tardi come il probabile assassino di uno dei più illustri mecenati del regno di Nistria – lui ci aveva pensato, che chi viveva in quella reggia non poteva essere certo un signor nessuno, ma infine non gli era importato abbastanza da non ucciderlo lo stesso. Era stata una fuga lunga e faticosa e lo aveva ampiamente distolto dal vero obiettivo di quel viaggio. Di certo, per i molti giorni persi senza troppe giustificazioni plausibili avrebbe, nei mesi a venire, assaggiato una volta di più la rabbia del suo Re: un pensiero per nulla gradevole, su cui preferiva non soffermarsi. Il pensiero gradevole era quel lauto banchetto quadrupede che, quasi avesse spontaneamente deciso di assecondare i suoi bisogni, si era lanciato in corsa verso i pochi alberi in cui Alef se ne stava acquattato e infreddolito. All’ultimo istante però, il bambino sembrò perdere interesse per la farfalla colorata che inseguiva e, malgrado gli avvertimenti degli adulti accampati intorno alle carovane, si mise all’inseguimento dell’animale.

«Ahiahi».

Non gli venne in mente una buona soluzione e così di colpo se li trovò addosso: un grosso quadrupede peloso che non sapeva bene cosa fosse e un piccolo umano che guardava con meraviglia la sua figura di nano con i capelli spelacchiati a riccio e delle scure occhiaie a solcargli il viso.

«Ciao».

«Ciao».

«Sei un bambino?»

«No. Sono un nano».

Il bambino sorrise e si mise a saltellare: «Un vero nano? Davvero?»

«Sì» confermò Alef, sempre più incerto sul da farsi.

«Ho visto degli elfi una volta».

«Questo è… interessante. E… come sono?»

«Alti».

«…giusto».

Il piccolo umano alzò lo sguardo. Sgranò gli occhi, osservando delle strane presenze che penzolavano dai grossi rami di un albero. Si sarebbero potute definire come grandi gocce di sabbia che fluiva su sé stessa senza mai cadere al suolo, ciascuna grande quanto un uomo. Sulle estremità basse sbucavano delle maschere di ceramica, inespressive e vuote, eppure inconfondibilmente intente a fissarlo con intensità.

«Uao. Cosa sono quelli, signor nano?»

«Quelli? Quelli? Quelli sono… comesidice… uccelli. Sì. Grandi uccelli».

Il bambino alzò criticamente un sopracciglio: «Ma dai… non è vero…»

«Come no?» gesticolò Alef «Come no? Guarda tu stesso!»

Alef si volse alle creature sabbiose gesticolando nervosamente: «Sciò! Sciò! Pussa via!»

Le loro forme compatte si aprirono in ali sottili e volarono verso altri alberi dove il bambino non poté più vederli. Alef si volse trionfalmente al bimbo, che li seguiva incuriosito con gli occhi.

«Visto? Visto? Eh?»

«Sei un nano simpatico. Perché non smetti di fissare il mio cane?»

«Il tuo… ah, quello… bè io…»

In quel momento esatto la terra fresca incorniciata dalle radici degli alberi si sollevò in una forma perfettamente circolare, come una bolla su una zuppa molto densa. La terra si ruppe e tra il bimbo e Alef si stagliava ora un’altra figura, una figura di metallo argenteo inciso in ogni centimetro, incastrato in un complesso gioco di meccanica. Chi l’aveva costruita le aveva scolpito una faccia, ma là dove avrebbero dovuto esserci il naso, gli occhi e la fronte c’era invece un globo luminoso dove turbinavano infiniti colori, freddi ma vivaci come il bambino non ne aveva mai visti.

«Uao… uao. Uao!»

Alef si concentrò con lo sguardo su quel globo multicolore, borbottando frasi sconnesse. Le forme colorate sul globo parvero prendere solidità e coerenza ma il bambino non le avrebbe mai potute capire del tutto. Il giovane nano si avvicinò tanto alla figura metallica che sembrava stesse quasi per baciarla.

«Cosa… cosa stai facendo, signor nano?»

Il nano lo ignorò per ancora qualche secondo, poi si voltò.

«Senti, tu… ti piace questo?» chiese battendo irrispettosamente la mano sul globo luminoso.

«Questo qui… cos’è?»

«È un golem di Ozmatt. Può accompagnarti sempre dove vuoi e fare tutto quello che chiedi. Inoltre sa trovare qualsiasi cosa sotto terra».

«Qualsiasi cosa?»

«Sì, qualsiasi cosa! Il suo occhio vede tutto ciò che è sottoterra. E se glielo chiedi ti farà vedere tutto quello che ha visto».

«Sembra fichissimo…»

«Bene! Te lo cedo per quel pranz… quel cane. Tanto a me non serve più. Che ne dici?»

«Quel coso enorme… per un cane…?» il bimbo iniziò a grattarsi la testa come se sperasse di scavarsi il cranio e trovarci dentro la sua decisione.

«Già! Già! Che ne dici?»

«Uhm… okay».

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Capitolo 5
*** Per il Blu Minore ***


PER IL BLU MINORE

 

Va per mare chi sogna la terra dall’altro lato e chi vuol dimenticare quella che si lascia alle spalle.

proverbio di Port du Cerul

 

Tuinsy era esattamente tutto quello che Jen si aspettava da una delle città principali del Draile: esotica, affascinante, allegra. L’unica città che avesse visto prima di quella era Kalaston e di Kalaston aveva detestato ogni vicolo: sembrava voler ricordare ad ogni metro di strada le divisioni gerarchiche del Draile, con le sue ville ornate da alberelli sempre coperti di fiori sgargianti – un colore diverso per ogni famiglia di proprietari terrieri – ben piazzate sui punti rialzati di modo che le si potesse ammirare svettanti sulle mura malconce delle strade degli artigiani chiusi nelle loro botteghe, botteghe a loro volta pronte ad essere ammirate a bocca aperta dai contadini che, come suo padre aveva fatto per anni, raggiungevano le mura nella speranza di vendere ceste di frutta o di ortaggi che sarebbero poi state rivendute al doppio o al triplo.

«Un giro panoramico sul nostro battello! Solo venti geon!»

«Venite ad ammirare i nostri giocolieri, tre geon per vederli!»

«Accidenti quanto urlano» si lagnò Ed camminandole accanto.

«Pescato fresco, dieci geon al chilo! Granchi freschissimi!»

Tuinsy, il borgo blu, non era niente di simile a tutto quello che era Kalaston: voleva accogliere passanti e turisti con allegria e ospitalità senza guardare chi fossero e riusciva perfettamente in questo. Le piccole mattonelle quadrate di pietra blu, che pavimentavano le strade disponendosi secondo disegni semicircolari e le case di leggero tufo bianco sembravano imitare e voler ricordare le onde spumeggianti del fresco mare dove ci si poteva tuffare dopo poche ore di strada; lo stesso valeva per gli infiniti gusci, coralli, conchiglie e pesci imbalsamati che le bancarelle proponevano ai passanti e per gli odori invitanti del cibo di strada, spesso preparato direttamente sulla bancarella con delle vere performance artistiche: ogni cosa sembrava richiamare e incoraggiare il divertimento, la spensieratezza e la voglia di compagnia.

«Prima volta a Tuinsy, eh?» fece Ed sogghignando.

«Cosa… io… sì, cioè… ci andavo da piccola ma non ne ricordo molto».

Ci vollero diverse ore di passeggio senza meta con Ed perché Jen iniziasse a sospettare che fosse tutta un’illusione: la città era accogliente, sì, ma solo  con chi aveva soldi da spendere, con i ricchi signori che dal Nanad o dalla Nistria venivano a ridurre i loro averi per concedersi una vacanza; non erano certamente uguali a questi, né si consideravano tali, le frotte di mercanti e intrattenitori che probabilmente imploravano la Dea in persona, dietro i sorrisi disinvolti, perché qualche nobile turista acquistasse qualsiasi cosa per quanto frivola, né liberi e spensierati dovevano essere coloro che avevano lavorato per procurare quelle merci, la cui esistenza doveva evidentemente essere censurata agli aristocratici occhi dei clienti, tanto che sgusciavano come ombre imbarazzate dal solo fatto di esistere, tra un retrobottega e un altro. In effetti era più simile ad un palcoscenico che a una vera città: solo l’aspetto bello e colorato delle cose era degno di essere mostrato al pubblico pagante, la fatica e il sudore andavano nascosti e dimenticati.

«È un posto strano…»

«No, è un posto come tutti gli altri» ribatté Ed.

Anche i palazzi più belli e particolari, dalle bianchissime forme appariscenti e capricciose, erano comunque lì a beneficio di pochi: signori e dame da Talaxaur, Kalaston e certamente da molti luoghi oltre il Draile di cui Jen poteva solo immaginare l’esistenza. Così, alla diciassettesima ora del giorno, mentre Ed chiedeva al quinto ostello se fosse disponibile una stanza per i pochi soldi che Jen aveva potuto mettere insieme per il viaggio, la magia di Tuinsy non le faceva più molto effetto ed anzi iniziava a trovarla un po’ stucchevole.

«Allora stammi bene e schiatta, schifoso grassone tirchio e maniaco porco!»

Jen inseguì Ed che sbatteva la porta e s’infilava rapidamente nella zona d’ombra della strada per sfuggire al sole che riscaldava l’aria.

«Maniaco… porco? Non mi era sembrato che ci guardasse in quel modo».

«Infatti non lo faceva, ma passerà il resto del giorno a domandarsi se dà quest’impressione. Gli sta bene giusto?»

«…giusto? Bè, non saprei… Ma tu sei ancora sicura del tuo piano?»

«Sì. Salperemo nel Blu Minore per Port de Cerul, attraverseremo la Nistria, arriveremo al Cancello di Zoa nelle Isole Ranaluta, poi ognuno per sé».

«Già, tutto chiaro ma a quanto ho capito volevi intrufolarti di nascosto nel vascello che salpa domani. E oggi non abbiamo dove dormire…»

«Salpano due mercantili oggi… ma intrufolarsi in un mercantile continentale è più difficile».

«Ehi… non puoi far apparire dei soldi come fai apparire le altre cose?»

«Io non faccio apparire un bel niente. Sposto certi oggetti, da un punto ben preciso ad un altro e con diverse limitazioni».

Jen fece un’espressione scettica ed irritata: «A me sembrava proprio che tu facessi comparire oggetti dal nulla con quella magia strana».

«Scienza runica» corresse Ed per l’ennesima volta.

«Che limiti avrebbe questa scienza runica?»

«Potenzialmente direi… che non ne ha».

«Vorresti forse dire che sei onnipotente?» obiettò Jen, scocciata.

Ed elencò sulle dita: «Posso far andare e tornare gli oggetti solo finché non esaurisco il mio potere e solo da un luogo ben preciso, comunque solo se prima sono predisposte le rune giuste sugli oggetti, sul luogo che li custodisce… e sul luogo dove appaiono».

Indicò i vari simboli geometrici che sembravano tatuati, o più propriamente incisi, sui suoi avambracci.

«Sembra che possa far male» chiese Jen, un po’ ammorbidita.

«Fa male, infatti» confermò Ed «Vedi sono almeno tre limiti, solo per cominciare; cionondimeno, la scienza runica è in continua espansione e… lascia stare».

Chiuse le dita per significare che aveva concluso la spiegazione ma Jen era ancor più curiosa di prima: «E cosa c’è nel tuo luogo… nella tua armeria?»

Il volto di Ed sembrò quasi illuminarsi, felicemente sorpreso dalla domanda; la contentezza di poter illustrare la sua collezione fu facile da leggere persino per Jen che non la conosceva: «Circa tredici mazze pesanti… dodici, ne ho persa una alla tua fattoria. Sette daghe di diverse leghe d’acciaio, due scudi… alcuni tipi di polvere esplosiva, perché non si sa mai; sei golem unici che… ho creato… con un certo aiuto e altri due vecchi golem che avevo… preso in prestito dalla forgia al lago. Ho lavorato per tre anni a questa armeria. Non è fichissima?»

«Ma… c’è abbastanza roba da andarci a fare una guerra!» si sbalordì la bionda.

«E allora? Ti sembro un tipo violento?» minimizzò Ed.

«Ma non c’è niente che ci possa aiutare adesso… certo se si potesse vendere uno solo di quegli oggetti varrebbe molto più di un viaggio per la Nistria…»

Ed ebbe un’intuizione che il suo volto nemmeno tentò di nascondere: «Grande! Mi hai fatto venire una buona pensata!»

«Davvero?» chiese speranzosa Jen «E quale?»

«Fatti miei. Uhm ora devo pensare a come fare…»

«Sei molto cortese, davvero».

«Grazie, accetto sempre i complimenti sinceri».

Jen appesantì il suo sarcasmo: «E scusa se ti ho disturbato con le domande».

«Ti perdono» concesse lei, piatta.

***

Passeggiarono ancora un po’, mentre Ed rifletteva sul da farsi, fin quando si fermò di colpo e si inginocchiò ad un muro alla sua destra. Jen guardò immediatamente il muro, incuriosita come non mai dall’improvvisa deferenza di una ragazza solitamente tanto brusca. Era una effige, Jen l’aveva vista tante volte incisa dentro alcune botteghe d’artigianato nanico a Kalaston. Poteva essere una ruota o un ingranaggio dalla dentellatura circonvoluta in mille spirali o altrettanto probabilmente un sole incoronato di fiamme. Tra i tratti d’oro, arancio e rosso c’era un volto dal sorriso sornione, dai tratti tanto esotici e al contempo tanto perfetti da essere quasi impossibili, il volto di un bambino infinitamente ed eternamente giovane. E davanti a quell’effige così strana, Ed stava facendo qualcosa che si poteva definire alquanto simile ad una preghiera.

«Cosa fai?»

Ed si prese tutto il tempo che voleva prima di rimettersi in piedi e rispondere: «Onoro il nostro dio, Ukor il Primogenito, signore del fuoco».

«U–cosa? Pensavo che voi nani veneraste i morti…»

«I morti? Vuoi dire i Granmastri?» rispose Ed alzando curiosamente un sopracciglio.

«Gran… che?»

Ed sospirò, prima di sedersi sul ciglio della strada, evidentemente stanca di girovagare, e disse: «I Granmastri sono i nani che ci precedono nella Grande Opera. I nostri padri e madri, nonni e nonne e così via».

Jen si sedette accanto a lei: «Grande Opera… di che opera si tratta?»

Ed si grattò la testa sotto il berretto: «È difficile spiegarlo ad un’umana».

«Provaci!» si stizzì lei.

«Diciamo che… questa cosa, questo universo che ci ricomprende tutti è quello che la mia gente  chiama la Grande Opera. Noi vediamo la realtà come una materia prima destinata ad essere modellata in eterno e costantemente migliorata dal lavoro di ciascuno di noi. Noi non abbiamo il concetto di “universo” o di “creato” immutabile ed esterno a noi che hanno gli umani. Noi pensiamo la realtà come… bè, una Grande Opera, appunto».

Jen alzò lo sguardo, impensierita.

«Dice il Testamento di Tessla… che gli dei hanno modellato l’universo, quando l’hanno creato, quindi a loro dobbiamo ogni cosa. Ma solo Genaa dell’Aria ci ha donato la ragione e la civiltà permettendoci di non vivere come bestie. Bè sì, è un concetto… simile, ma in fondo molto diverso».

Ed colse al volo l’occasione: «Oh! Hai studiato con il Chiesa quindi?»

«È davvero un’ossessione la tua. No, l’ho sentito dai predicatori itineranti».

«Predicatori itineranti! E cosa ti possono dire questi degli altri dei, di Ukor, di Arrok, di Isor?»

«Che odiano gli umani e non dobbiamo quindi offenderli né venerarli».

«Sì, sì. E poi cos’altro?»

«… cos’altro?»

«La tua ignoranza è sconfinata. Come posso spiegarti le basi del culto di Ukor? Uhm… supponiamo che, come dici tu e come diceva quel Tessla, un bel giorno una qualche divinità abbia preso il caos e l’abbia modellato nell’universo che conosciamo. Se vuoi posso chiamarlo la Dea o il Sommo Pollo Sacro o la Divina Pentola Parlante… sicuramente tutte le opinioni hanno» si fermò per tracciare in aria delle virgolette con le mani «…eguale dignità e validità».

«Grazie di questa gentile concessione».

Jen fu del tutto ignorata: «Ora rispondi a questo: supponiamo, come dicevo, che un bel giorno questa divinità abbia plasmato l’universo, perché dovremmo venerare questa entità, che ha dato forma all’universo in un momento in cui non c’era nessuno a vederlo, e non tutti coloro che hanno contribuito a formare il mondo dopo di lui, coloro che hanno lavorato mentre tutti eravamo lì e potevamo esserne certi? Coloro che con le loro gesta ci hanno preceduto, lasciando il segno sulla Grande Opera e dandoci il loro esempio, dovrebbero essere ricordati. Chi ci insegna l’arte che possediamo è un Mastro, mentre chi ci ha dato esempio per poi lasciare questo mondo è un Granmastro. Chiaro, no?»

«Da come la metti si direbbe che pensi che tuo nonno o il tuo bisnonno siano semidei. Hai faccia tosta a dire che sono io a credere cose assurde».

«Non la vedi nella giusta prospettiva. Certo, mio nonno non è una divinità, né mai lo sarò io quando schiatterò. Ma in tutto c’è una scintilla del potere di modellare la realtà secondo il proprio volere, scintilla che ancora arde. Questo è ciò che chiamiamo il Fuoco di Ukor… in ognuno di noi c’è il divino».

Jen non ribatté più. Persa nella riflessione, seguiva con lo sguardo una coppia di turisti con due figlie femmine, che sembravano incerte se voler camminare diligentemente al seguito dei genitori o saltellare in una specie di danza mano nella mano. Nemmeno Ed sembrò interessata ad aggiungere altro, anche se Jen aveva capito che la testa della giovane nana era popolata da problemi molto più pratici e immediati.

«Sai, devo dire che è un pensiero molto bello. Tu… lo credi veramente?»

«No» sbuffò Ed «ovviamente no. Ma è il credo del mio popolo e ci si aspetta che io lo conosca, lo onori e lo predichi. Quindi tanto vale farlo».

Jen scattò in avanti con la schiena, abbandonando la sua postura rilassata: «Sei davvero assurda! Mi stai dicendo che il simbolo su cui hai appena pregato, i discorsi che hai fatto proprio ora, per te sono tutta apparenza? Non significa niente tutto quello che hai appena finito di dire?»

Di nuovo, Ed non sembrò innervosirsi: «L’Effige di Ukor significa qualcosa per me, certo. Rappresenta tutte le volte che mi hanno strigliato o chiuso in camera o preso a schiaffi perché facevo le linguacce a questa stupida faccia fiammeggiante. Finché non ho imparato che era meglio agire e parlare come tutti gli altri ed evitare problemi. Così ho imparato a inginocchiarmi, venerare il mio dio, venerare i miei antenati e criticare chiunque la pensi diversamente e sono stata lasciata in pace…» s’interruppe per un attimo, per poi aggiungere cupamente «…bè, lasciata in pace almeno su questo».

Jen si grattò la testa e si lasciò di nuovo cadere sul muretto: «Bè, io non sono d’accordo. Non si dovrebbe fare quello che fanno gli altri giusto per non avere guai».

«Sì? Allora guida una rivoluzione, rustica audace. Dimmi un po’, perché nessuno sa né deve sapere che puoi usare una reliquia di Zoa? Certo, la tua vita sarebbe parecchio più movimentata se condividessi le tue conoscenze, ma a te non importerebbe, no?»

«Non mi sembra che la tua di vita sia molto tranquilla».

Qualcosa si ruppe nell’espressione di Ed. Era visibilmente ferita.

«La mia vita era tranquilla eccome, nell’ultimo anno. I miei problemi più gravi erano giustificare i miei ritardi o chiedere quando cavolo iniziava il Pellegrinaggio. E mi piaceva… oh, bè, ormai è andata così immagino».

«Tu… come sei coinvolta in quell’affare alla Forgia del Lago?»

«E tu come mai sapevi aprire un Cancello di Zoa?» contrattaccò lei, prontamente.

Stavolta Jen balzò completamente in piedi. Alzò tanto la voce da preoccuparsi di essere sentita, e presa per pazza, dai passanti di Tuinsy.

«Piantala, per la Dea Sfolgorante! Me lo chiedi più o meno ogni ora! Non voglio dirtelo, non ci arrivi? Lasciami in pace!»

Ma Ed si era già nuovamente trincerata dietro il suo muro d’indifferenza e indicò distrattamente con l’indice il punto esatto in cui Jen era seduta poco prima.

«Ti converrebbe rimetterti a sedere. Non possiamo alloggiare da nessuna parte quindi non faremo altro che aspettare il prossimo mercantile».

«Potresti almeno dirmi che idea hai avuto».

«Certo che potrei. Come tu potresti dirmi…»

«Ho capito, sta zitta».

***

Bedge agitò di nuovo la ruota di pietra tra le sue mani. La freccia cristallina incastonata al centro si fece giallo intenso quando puntò verso le distese del Mar d’Oro, poi virò verso uno screziato verdazzurro quando in linea d’aria passò Tuinsy, distante fin troppe miglia perché ne potessero vedere anche solo le estremità, per ritrovarsi puntata direttamente sul mare.

«È davvero un oggetto meraviglioso. La collezione degli Ensland è davvero eccezionale».

Wiggs rispose sbuffando con disinteresse mentre le due famiglie di mercanti rassettavano le vettovaglie e preparavano le carovane per ripartire. Bedge puntò di nuovo la freccia verso il golem di Ozmatt e di nuovo si colorò di rosso acceso, segnalando l’oggetto che era stata incantata per ritrovare.

«Bè, signore… siamo nei casini, no?»

«Direi» confermò Wiggs staccandogli l’artefatto magico dalle mani «ci ha effettivamente guidato alla refurtiva ma ci siamo persi il ladro».

«Magari gli Ensland sarebbero soddisfatti così?»

«Non dire assurdità. Quale nano scambia a occhi chiusi un golem d’antiquariato con un bastardino?» ripose la reliquia in una sacca che penzolava dalla sella del suo cavallo, quasi con disprezzo.

«Suppongo che sia qualcuno per cui questo golem non abbia molto valore».

«Appunto. Ma questo golem ha un valore eccome, è oggettivo. Quel che il nostro ladro voleva dimostrare, probabilmente, è che non ne ha alcuno per lui. È un gesto di disprezzo, di provocazione».

Bedge si tolse dall’occhio il monocolo e prese a lucidarlo con un fazzoletto, mentre il suo sguardo assorto vagava. Uno dei figli dei mercanti giocherellava intorno al golem di Ozmatt, convinto che fosse “suo”, e gli dava vari, semplici ordini che il costrutto era stato, in tutta evidenza, vincolato ad eseguire dal mastro che l’aveva risvegliato. Prima di ripartire Wiggs e Bedge avrebbero dovuto tirare a sorte per chi avrebbe avuto l’ingrato compito di spiegare ai mercanti che erano obbligati ad abbandonare le rotte commerciali per riportare il golem ai legittimi proprietari, a Kalaston, se non volevano incorrere in catastrofiche conseguenze. Ma se avesse perso il tiro a sorte, Wiggs avrebbe comunque affibbiato a lui l’incombenza di sorbirsi le suppliche e le lamentele dei mercanti su quanto avrebbero perso cambiando rotta e la prassi di minacciarli pesantemente per indurli all’obbedienza. Piuttosto seccante.

«Sta cercando di dire che sarebbe l’agire tipico di un Cerchio?» si domandò, e appena il tenente Wiggs annuì aggiunse «Credevo volessimo evitare il più possibile i Cerchi dell’Innocenza…?»

La risposta fu qualcosa di inaspettato per il sergente Bedge: un’espressione. Un’espressione di amarezza, quasi di rabbia, sul volto del suo superiore, il quale per poco non tranciò di netto la sigaretta che si stava fumando stringendo i denti. Se ne preoccupò. La vita di Bedge era stata una continua esecuzione di direttive, mediocre ma diligente, senza convinzione ma altresì senza dubbio. Non aveva messo in discussione i suoi genitori, che lo avevano destinato alla chiesa per toglierlo di mezzo e far ereditare il fratello minore, né i dogmi della chiesa stessa, in cui credeva ben poco, né i segreti oscuri dei templari. Non aveva discusso gli incarichi né le gerarchie e da quando era stato posto al servizio del tenente degli Alti Templari Nihilus Wiggs non si era dedicato a molto altro che ad assecondare ogni ordine, istinto o persino capriccio del suo superiore; conosceva a memoria la mappa del suo volto e le note musicali del suo tono in ogni variazione, ne intuiva la stanchezza così come la solerzia semplicemente dal ritmo dei suoi passi, ne comprendeva a fondo l’immoralità e l’arroganza quanto i suoi nascosti sensi di colpa e il disprezzo per sé stesso. Tutto ciò non per dedizione o lealtà, ma semplicemente per il livello di familiarità assoluta che aveva raggiunto nei confronti dell’oggetto e soggetto della sua unica occupazione quotidiana. Un corso infinito, immutabile, squallido ma rassicurante.

«Tutto bene, capo?»

No, non andava tutto bene. Quell’espressione non aveva niente di familiare o riconoscibile, niente da ricondurre alla rigida routine della loro lunga collaborazione. Veniva da qualche parte recondita dell’animo del tenente Wiggs, da qualcosa dentro di lui che poteva ancora provare interesse per la vita, addirittura infuriarsi. Da un Wiggs di un altro tempo, ancora capace di tenere a qualcosa o a qualcuno.

«Capo…» prese a dire Bedge, calcolando attentamente la delicatezza del tono «…voi volete inseguire il ladro comunque, giusto?»

L’improvvisa emozione sul volto di Wiggs si spense rapidamente: «I golem di Ozmatt li usavano i nani in guerra con altri nani. Il loro potere gli consente di vedere con chiarezza il sottosuolo e gli esseri viventi che si spostano nelle vie sotterranee».

Bedge annuì, accettando tacitamente il desiderio di Wiggs di cambiare argomento: «Ne ho nozione, in effetti. Quindi?»

«Credo che da queste parti passino i tunnel che usavano i contrabbandieri per collegare Tuinsy e Talaxaur. Alcuni di questi si incrociano certamente con le Vie Minerarie Centrali, che come sai sono ancora usate dai mastri forgiatori di Kalst attraverso il Picco del Matto».

«Credo di aver capito dove vuole andare a parare. A Tuinsy ci sono almeno due ottimi bersagli, la coppia di golem di corallo nella collezione di Lord Rendowe di Onnisbrock e il Chiostro Arpeggiante con cui gli elfi resero omaggio alla Dama Blu di Tuinsy».

«Esatto. Un Cerchio dell’Innocenza potrebbe puntare a rubare i primi o a distruggere quest’ultimo o a ucciderne i proprietari». mentre parlava, Wiggs stava già rimontando a cavallo.

«O magari a prendere un battello per le coste nistriane, lì i bersagli possibili sono praticamente infiniti per un Cerchio».

Nihilus Wiggs annuì, continuando a caricare il cavallo.

«A Tuinsy quindi?» chiese Bedge.

«A Tuinsy, sì».

***

«State scherzando?» ridacchiò l’uomo con la barba bianca, che aveva uno dei due occhi ormai completamente cieco.

«Se fosse, stiamo andando bene visto che stai ridendo». ribatté Ed serafica.

Jen era sempre più convinta che non sarebbero mai salite sul mercantile, la fiducia assoluta di Ed non era minimamente contagiosa. Eppure sentì quasi una punta di emozione a guardare la nave: era veramente grande, quasi un piccolo palazzo mobile. Il suo corpo di metallo lavorato, originario di qualche grande nave del Mondo Antico, era completato o arricchito qui e lì da complesse costruzioni in legno, come se una seconda nave di legno traballante crescesse sulla più antica di solido acciaio.

«Cercherò di ripetere il ragionamento» fece il capitano, scandendo lentamente le parole «non siamo un traghetto e men che meno una nuova specie di nave per poveracce dove si può non pagare il biglietto in cambio del proprio – non utile, non qualificato e non richiesto – lavoro manuale. C’è la fila per lavorare su questa nave e non ho motivo di caricare due sconosciute inutili».

Ed non sembrava demordere: «Non siamo inutili. E se prendi noi due, posso aggiungere l’equivalente di due uomini forzuti all’equipaggio. Gratis, li offre la casa».

«Due uomini forzuti! E dove sarebbero?»

Per tutta risposta, Ed punto un palmo aperto verso il cielo. Con il dito percorse una delle rune tatuate sul braccio destro. Due masse luminescenti salirono in alto e poi precipitarono pesantemente a terra. Vedendo per la prima volta da vicino le creature che aveva sempre visto volare in cerchio intorno alla forgia, Jen riuscì a non sobbalzare solo perché se lo impose per non sfigurare davanti al capitano, che era tutto fuorché impressionato. Le due masse avevano infatti preso la forma di creature di grezza antracite, che andarono incontro al marinaio con passo pigro: una struttura di umanoide alto, con braccia lunghe e gambe corte e un incedere vagamente goffo e straniante. Non aiutava la strana testa, un po’ simile a un pesce martello, con gli occhi cavi e privi di vita, a differenza delle poche rune di luce bianca sparse qui e lì che evidentemente permettevano ai due golem di muoversi.

«Rune spazio-temporali. Che brava, così giovane».

«Tutto qui? Brava e basta? Pazienza, comunque ecco qui due marinai nuovi di zecca. Cioè nuovi un corno, sono vecchi e il modello è brutto e banale, ma garantisco che hanno olio di gomito».

«Credevo che tutti i mastri forgiatori fossero ricchi. Perché non ti paghi un traghetto?»

«Io non sono ricca, mi hanno licenziato da mesi dalla corte a cui lavoravo come artiere» mentì Ed con disinvoltura assoluta «Per questo voglio cambiare paese. Ma questi due ragazzoni di pietra ti garantisco faranno qualsiasi lavoro faticoso o pericoloso ordinerò loro, senza lamentarsi, senza mangiare, senza paga e molto meglio di qualsiasi umano o persino di altri nani o orchi che puoi avere a bordo. Non ti pare un buon affare?»

Il capitano si carezzò pensosamente la barba squadrando i due golem.

«Sei molto determinata a salpare subito. Mi son fatto l’idea che siate due fuggiasche».

A quel punto, Ed impallidì tanto quanto Jen.

«Le condizioni sono queste: non vi pagherò, avrete solo un pasto al giorno ed oltre a quei due bestioni farete anche voi la vostra parte di lavoro come mozzi. Se, inoltre, qualche guardia o qualche templare dovesse fermarci prima della partenza o dopo o all’arrivo dicendo che siete ricercate, foss’anche per furto di una torta di mele, vi consegnerò immediatamente a loro senza perderci il sonno».

«Ho sempre odiato le clausole per fuggiasche» protestò Ed con un risolino nervoso, ma tese la mano e il capitano la strinse «ma ci sto. Hai fatto un affare, capitano».

«Lo credo, sono un uomo d’affari dopotutto». disse calcandosi il cappello da capitano sulla testa «Allora a dopo, signore».

Si allontanò urlando alcune istruzioni agli uomini. Jen si rimboccò preventivamente le maniche ma non fece in tempo a pentirsi di quello che stava facendo, perché gli occhi della giovane nana erano già fissi sul suo braccio sinistro.

«Che guardi?»

«Cos’è?»

«Non è niente!» si srotolò la manica sinistra, coprendo il braccio.

«Col cavolo che non è niente, era un tatuaggio ed è pure uno complesso».

«Già» ammise Jen distogliendo lo sguardo.

«E anche molto interessante. Cosa rappresenta, un serpente? Quei simboli sulle scaglie avevano una certa regolarità… non proprio come rune, ma quasi. Che lingua- »

«Inutile chiedermelo, non so cosa sia! So solo che non vorrei averlo».

Ed alzò le sopracciglia, dubbiosa: «E perché?»

«Me lo ha fatto mia madre. Non so cosa rappresenti. Non rappresenta niente! Non per me! Aveva senso solo per lei. Me lo ha fatto per sé stessa, non per me. Come se… prendesse un appunto. Lo detesto. Non so… non mi aspetto che tu lo capisca, ma…»

Invece di insistere con una seconda domanda come faceva di solito, Ed le stava già dando le spalle e le parlò con inaspettata gentilezza: «Va bene, ho capito. Non parliamone più. Andiamo a dare un’occhiata alla nave, eh?»

***

La struttura sulla cima del faraglione era carezzata dalla brezza marina con una delicatezza quasi affettuosa. Dalla volta cristallina scendevano, ben tesi e agganciati a delle statue di figure snelle e danzanti, dei fasci di fili argentati incrociati tra loro ad arte, in modo che il soffio del vento producesse dei suoni simili alla melodia di un’arpa. Ammantato di fiori azzurri, il Chiostro Arpeggiante era anche chiamato “Gioiello di Tuinsy” e gli elfi della Luna, la gente di Lyes ed Elzen, lo avevano costruito per onorare la loro amicizia con gli umani che secoli prima regnavano sulla città balneare. Mentre spingeva in acqua la piccola imbarcazione, Valiel guardò con disprezzo il Chiostro che svettava sopra di lui, simbolo di tutto ciò che aveva odiato troppo tempo addietro perché potesse ormai contare qualcosa. Allungò la mano verso il cielo e per un gioco di prospettiva gli sembrò di poter stringere nelle mani l’intera struttura e di poterla schiacciare semplicemente chiudendo le dita.

«Salve, ramingo di Evalunith».

Valiel guardò la prua della nave. Si era posato un barbagianni bianchissimo e perfetto, dall’aria infastidita. Non era certamente fatto per volare di giorno né al caldo, ma il patto con i raminghi come Valiel lo vincolava a farlo, se richiesto.

«Salve, amico dei cieli notturni».

Il lieve cenno deferente del capo non impressionò particolarmente l’uccello. Anzi, era facile scorgere sul suo volto, benché animale, l’ironia.

«Ebbene, amico ramingo? Il favore che mi hai chiesto non va forse contro i tuoi voti alla tua stessa regina?»

L’espressione di Valiel si indurì: «I volatili sono sempre dei ficcanaso. Dunque? Vorresti forse fare la spia?»

«No» rassicurò l’uccello, con tono indifferente «queste meschinità sono per voi specie civilizzate. Noi badiamo ai fatti nostri».

«E se così è, perché semplicemente non parli?» chiese l’elfo, spazientito.

Un bambino umano si era fermato a fissarli, dopo essere uscito dalla chiara acqua marina nella quale aveva sguazzato per rinfrescarsi. Era immobile ad osservare due forme di vita a lui sconosciute – era evidente che non avesse mai visto né un barbagianni né un elfo – comunicare tra loro in una lingua che lui non capiva. Un’occhiataccia di Valiel fu sufficiente a convincerlo a levarsi di torno. L’uccello guardò impassibile il ragazzino correre via impaurito e poi tornò sul suo interlocutore.

«Sia come vuoi, amico ramingo: parlerò, gli affari con la tua gente sono un problema solo tuo. Ho chiesto a chi dovevo e costoro, orgogliosi stormi di albatri del Mar Bianco, hanno fatto altrettanto». il tono del volatile si rattristò sensibilmente «Metà dell’Isola Boscosa è caduta, le spiagge delle Lande di Rah lo sono probabilmente anch’esse o cadono mentre parliamo».

Valiel strinse i denti rabbiosamente: «Così male…?»

«Il signore degli umani di quelle terre ama le sfide» disse riferendosi a Olster, il Re-Lupo di quelle terre selvagge «Ha mobilitato un manipolo di raminghi e branchi di lupi bianchi per contenere i danni sul versante orientale. Ma… potrà fermare la corruzione per poco».

«La Bocca del Chimaer si stende verso oriente dunque… il Draile è salvo. Ma Lyes è legata all’Isola Boscosa…»

«Il Signore degli elfi a est rischia molto di più. Le tue priorità sono originali, ramingo... fuori dalla foresta che ti ha dato i natali, non devi forse fedeltà a ciascun elfo in egual misura?»

«Continui a farti gli affari altrui anche mentre neghi di volerlo fare. E comunque… Re Hion saprà cavarsela».

Lo aveva detto senza convinzione, né reale interesse. Elfo e uccello se ne resero entrambi conto. 

«E comunque, seguo l’apprendista forgiatrice come la mia regina comanda. I miei sentimenti appartengono a me solo e su quelli non decide nessuno».

E detto questo montò sulla barca, mentre il barbagianni rimaneva immobile sulla prua a scrutarlo.

«Sei un elfo divertente, Valadwen Yun Valiel» l’animale iniziò a sbattere le ali «Ti auguro fortuna».

In un battito d’ali, il barbagianni fu lontano, in cerca di posti più bui e freschi. Valiel spiegò la vela enorme, simile alle pinne di un pesce in stecchi di legno e tela bianca, tenendo gli occhi fissi sul vascello che mollava gli ormeggi dal porto di Tuinsy.

***

All’ennesima onda che per un bel pezzo fece danzare la nave, la voglia di vomitare di Jen aveva raggiunto picchi prima di allora mai toccati. Ma anche Ed non se la passava tanto meglio, i segni della nausea erano evidenti sul suo viso. Le stradine assolate di Tuinsy, sempre più lontana dietro di loro, le sembravano sempre più attraenti, considerando quale ampia porzione del Blu Minore avevano ancora davanti prima di giungere alle coste nistriane.

«Avanti con quelle spugne! Che razza di mozzi siete?»

«Sei sicura di aver fatto un buon affare?» chiese Jen sottovoce.

Ed soffriva il mare, se ne rendeva conto sempre di più guardandola: il colorito nero ossidiana della sua pelle era sbiadito in un opaco piombo imperlato di sudore.

«Forgiatrice,» chiamò il capitano mentre si rigirava una mappa in mano «non siamo neanche salpati che già stai male?»

«Io? Sto una favola».

«Non è che se ti senti male impazziscono anche i tuoi golem, sottocoperta?»

«Non c’è rischio, capitano. Continueranno il loro lavoro fino ad un mio diverso ordine».

Il capitano strinse le spalle: «Va bene, voglio fidarmi. Ritarderemo la partenza di un po’, c’è stato un incidente al molo sud».

«È… è molto gentile da parte vostra, capitano…» ringraziò Jen.

Il capitano scoppiò a ridere: «Se non si potesse più fuggire per mare, del resto, che mondo sarebbe mai?»

«Un incidente… che tipo di incidente?» chiese Ed ancora in preda alla nausea, ma con una nota di sospetto nella voce.

«Non s’è ben capito, forse una rissa con un mago» fece allontanandosi pensieroso.

Jen le si avvicinò, mettendole una mano sulla fronte.

«Ehi che cavolo fai?»

«Ehm… niente… vedevo come stavi, no? Come… come ti senti?»

Ed sbuffò: «Perché te ne curi? Tu non mi sopporti».

Jen arrossì, innervosendosi «Che c’entra? Curarsi di qualcuno che sta male è un gesto naturale».

«Bè, mi sento male. Questo fetore di pesce non lo sopporto».

«Non è pesce, è l’odore del mare».

«Ah, questo cambia tutto. Ukor mi aiuti, che schifo».

«Se posso fare qualcosa…»

«Sì: bada ai cavoli tuoi» tagliò corto bruscamente rimettendosi al lavoro.

Jen sospirò, esasperata.

***

«Provi a ripetermelo. Magari facendolo ritroverà nella memoria dettagli che le apparivano perduti».

Nihilus Wiggs grattò la spalla per combattere un prurito insistente, ne cercò con ferocia la fonte sotto le maniche a sbuffo di velluto rosso cadmio che fiorivano dal corpetto di pelle scura. Ma in realtà il pizzicorio che lo tormentava sotto le vesti era dato dal disagio. La cortesia e la meticolosità di Bedge erano sprecate, di fronte ad uno sfacelo di quella portata, stavano sostanzialmente consumando il loro tempo senza trarne alcun profitto.

«Senta, anche ripetendo la storia, non vedo cosa potrei aggiungere. Le ho descritto il ragazzo…»

«Nano. Non era un giovane umano, era un nano».

«Sì, immagino di sì. Il ragazzo, cioè il nano…»

Wiggs uscì sbuffando e prese un bel respiro di quel che restava dell’aria di Tuinsy che fondeva gli odori salmastri del mare alle fragranze portate dai campi. Non riuscì a goderne appieno: la nube di polvere sollevata dalla baracca ridotta in frantumi appesantiva l’aria. Il templare seguì con lo sguardo il cucciolo dal pelame bianco, che di certo sarebbe divenuto negli anni un bel molosso, che trascinava con soddisfazione un grosso pesce finito sulla battigia, insieme a molti altri, con la distruzione del peschereccio ormeggiato. Il cane lo agitava su è giù come per spappolarlo contro il terreno, così da poterlo mangiare, e Wiggs lo trovò piuttosto buffo. Non riuscì a trovare la voglia di rientrare tra quelle quattro pareti di legno sconquassato, del resto udì il barcaiolo ripetere per la terza volta la stessa identica storia.

«Quel nano dall’aria idiota è arrivato con un cane e ha proposto di scambiarlo con una barca; la ragione, secondo lui, sta nel fatto che non aveva idea di come scuoiare l’animale e mangiarlo».

«Voi che avete fatto?»

«Quello ci ha messo tempo a capire che lo stavamo prendendo in giro per la proposta: secondo me era ritardato…»

Eccetera, eccetera, eccetera: rendendosi finalmente conto che la sua richiesta non sarebbe mai stata accettata, aveva preteso una barca comunque, poi era passato alle minacce, poi era stato il turno del barcaiolo e dei suoi aiutanti di non comprendere la situazione. Avevano pensato di usare la forza per costringere quello strano individuo a togliere il disturbo e questi aveva, a sentir loro, scatenato una devastazione innaturale che non si era mai vista, per poi requisire un’imbarcazione lasciando per l’appunto il molo devastato. In effetti sembrava che una banda di golem fosse sbucata dal nulla e avesse devastato prima la baracca e poi il molo ed ancora diverse barche e cassoni quando svariati pescatori avevano pensato di dare manforte al barcaiolo. Tuttavia ciascuno di loro non aveva capito molto bene cosa di preciso fosse accaduto in quel frangente, la miglior descrizione che aveva avuto era che “la spiaggia si era animata e aveva scagliato la sua ira sui pescatori”. Seguendo il percorso suggerito dal cane, Wiggs prese a passeggiare appunto per la spiaggia in questione, riflettendo su questo concetto. Non sarebbe stato difficile produrre quell’effetto con una magia elementale, aveva sentito dire di maghi capaci di dominare sia la terra che l’aria e di unirli per dominare la sabbia; ma a differenza dei druidi elfici, e dei chierici umani, i nani non ricorrevano volentieri a quel tipo di magia, la chiamavano “magia volatile” e la consideravano inaffidabile e imprecisa rispetto al loro modo di incatenare la magia nei simboli runici o all’arte dei bardi elfici di risvegliare la magia con le note musicali. Un adepto di un Cerchio dell’Innocenza, comunque, preferiva metodi più conservatori e soprattutto più devastanti per portare distruzione, quindi poteva escludere l’eventualità di un nano che si sentisse in vena di sperimentare magie elementali o canti bardici. L’ipotesi più probabile era che avesse utilizzato golem che i marinai non erano neppure in grado di riconoscere come tali. Ma ciò che realmente lo preoccupava era il fatto che aveva ignorato dei bersagli in Tuinsy che sicuramente potevano interessare un Cerchio dell’Innocenza, contrariamente a quanto lui e Bedge avevano messo in conto. Il cane accelerò bruscamente il passo, aveva individuato uno scoglio che avrebbe certamente agevolato il suo piano di spappolare il pesce per mangiarselo e lui decise di non seguirlo più, facendo invece marcia indietro verso il molo devastato. Si accinse a fumare una sigaretta, la dodicesima quella mattina, imprecando più volte ai vari falliti tentativi di accenderla. Ma ancora una volta, era altra la vera origine della sua irritazione: se quel nano non era di un Cerchio, l’Alto Templare Nihilus Wiggs era un emerito imbecille, che si era lasciato gabbare esattamente nel modo più prevedibile e da lui stesso previsto, nonostante avesse preferito scommettere sul caso contrario o forse qualcuno avrebbe detto che aveva preferito illudersi. Si domandò quanto fosse il caso di condividere i suoi dubbi e quindi il reale scopo di quella ricerca con il suo secondo in comando e concluse senza indugi che era assolutamente meglio evitarlo.

***

Jen rischiò di cadere all’indietro per lo spavento quando quelle cose piombarono in picchiata dal cielo, ruppero la superficie del mare e poi ne riuscirono fuori per saettare ancora verso l’alto. Non erano pesci né uccelli, e certamente non erano neppure vivi sebbene somigliassero nella forma ad entrambi, dato che erano composti di travi, stecchi e vele come le vecchie navi della marina di Mohtam. Quegli strani trabiccoli si tuffavano e rituffavano in acqua con ritmo regolare ed ordinato ed evitavano con cura il loro mercantile ed una piccola flotta di tre chiatte che li seguivano a breve distanza. Provò a seguirli con lo sguardo e quel che trovò fu ancora più stupefacente: non girovagavano liberi per i cieli ma andavano e venivano da diverse strutture, che Jen non aveva notato prima supponendo che le ampie ombre proiettate sul mare fossero frutto di nubi dense.

«Zeiss» commentò Ed e per la prima volta Jen sentì una nota sognante nel suo tono di voce.

Era come un’isola che fosse stata strappata al suo arcipelago e sollevata fino al cielo. Ampie pale volteggiavano in cima alle torri, sembrava che la traghettassero nell’aria, reggendola dalle varie estremità di quella zolla di terra fluttuante, come mulini capaci di generare essi stessi il vento che li muoveva. Il mercantile finì esattamente sotto l’isola, la cui parte inferiore era tempestata di edifici, questi capovolti verso il basso. Erano edifici strani, tonde costruzioni di metallo lucido che ruotavano e si incastravano incessantemente; qua e là si potevano notare enormi strutture trasparenti che sembravano tenere imprigionate le saette ma persino lei arrivava a capire che erano quelle stesse strutture a generare quell’energia, quella forza che muoveva l’intera struttura. Erano salpati da diverse ore ma quella terra volante era come sbucata dal nulla, apparsa tra le nuvole come non fosse neppure esistita prima.

«Pescarelitti!» urlò un marinaio dalla coffa, poco davanti ad Ed e Jen che si prendevano una pausa dal lavoro.

«Pescarelitti!» rimbalzò di voce in voce nel mercantile e in lontananza si udiva quell’avvertimento anche dalle chiatte. Le navi rallentarono, così da permettere a quei marchingegni volanti di proseguire la loro attività con maggior certezza di non colpire le imbarcazioni di passaggio. Nessuno dei marinai sembrò troppo colpito: evidentemente erano abituati a quella vista.

«Zeiss…?» chiese alla sua compagna di viaggio, mentre due di quelle cose uscivano dall’acqua più lentamente, avendo agganciato un grande oggetto di forma spigolosa, coperto di vegetazione marina, con qualcosa di simile a grosse ancore. Era piuttosto evidente che la funzione di quelle macchine era portare verso l’alto oggetti del Mondo Antico come quello, non troppo diverso da quelli piantati nel suolo, che conosceva come torri pendenti.

Per risposta, Ed strinse la ragazza a sé con un braccio: era un gesto brusco, ma a suo modo inteso a rassicurarla.

«Zeiss, l’Isola Meccanica, una delle poche terre fluttuanti ancora integre. Una delle cose più splendide e incredibili che voi umani abbiate mai realizzato. È anche chiamato Trono di Genaa».

«Genaa? Non è il nome antico della Dea?»

«Sì e no» corresse Ed, di nuovo riprendendo la sua espressione saccente «la Dea Sfolgorante, Protettrice dei Giusti, l’entità che voi umani venerate, è solo un riadattamento di un culto molto più antico… della prima divinità venerata dalla tua gente, Genaa Che Nacque per Terza, la Signora dell’Aria, patrona degli uccelli e custode delle scienze».

«Non capisco niente di quello che dici… le divinità sono sempre state quattro e la Signora dell’Aria è sempre stata la madre dell’umanità» constatò Jen.

«Bè, la cosa non mi…» Ed si volse verso la ragazza con una smorfia sarcastica di trionfo ma appena le posò gli occhi addosso qualcosa in lei sembrò fermarla per qualche secondo; poi riprese a parlare, con un tono di voce piuttosto diverso.

«Guarda…» indicò in alto due colonne dorate che ruotavano su sé stesse, poi due nastri che scorrevano collegando tra loro distanti piloni «…questa è la Scienza Perduta. L’arte degli uomini con la quale hanno quasi distrutto il mondo. Zeiss è l’unico luogo felice dove è ancora coltivata liberamente e senza vincoli. I codardi che non credono in sé stessi né nella loro gente, nella tua gente, hanno chiamato Genaa con un altro nome e hanno distorto il suo culto; la libertà, la curiosità, la ricerca del sapere, li hanno accantonati sperando di seppellirli assieme a questa Scienza».

«La Dea Genaa si è sempre chiamata Genaa e l’Evangelista Tessla si è sempre chiamato Tessla, mi sembra che tu non stia contestando niente di tutto ciò. Quindi non capisco». ribatté Jen, difendendo istintivamente la religione che la sua gente le aveva, sia pure blandamente, trasmesso sin dall’infanzia.

«Tessla era un vecchio strampalato che pensava che Ordine e Caos fossero due entità senzienti e non due concetti. Ha creato la Dea e ha creato il Diavolo con la sua penna, certamente non sono stati loro a creare lui, né gli angeli o i demoni che secondo lui servono l’una e l’altro. La tua Chiesa è nata perché un gruppo di signori potenti ha appiccicato i deliri di quel Tessla sull’antico culto di Genaa per i loro interessi. Così hanno conquistato la tua gente senza neppure combattere».

«Non è proprio come dici, no? Chi non è d’accordo può ancora usare la Scienza Perduta e costruire cose come questa che abbiamo sopra la testa».

Ed la schernì con una smorfia: «Non è come pensi. La Chiesa ritiene di avere la prerogativa di questa scienza, di poter decidere se, come e quando è permesso usare una macchina. Del resto fa lo stesso con la magia. Zeiss è tra le poche città cui la Chiesa ha consentito, nel Concordato dei Sette, di studiare e sviluppare le macchine ed è anche l’unica comunità per la quale è lecito commerciare tali macchine. Commerciare con la tua Chiesa, principalmente. Non c’è libertà in tutto questo, solo contraddizioni e bugie».

Jen si divincolò dalla sua presa, profondamente irritata. Ed sembrò piuttosto sorpresa.

«Perché mi stai dicendo queste cose? Detesti così tanto la mia gente e i nostri usi?»

La giovane nana sgranò gli occhi. Sembrò quasi dispiaciuta.

«Io… non penso affatto che le superstizioni del mio popolo siano migliori di quelle che opprimono il tuo. Non intendevo offenderti».

«Sì? Bè, allora vuoi dirmi che disprezzi egualmente tutti, la mia gente e la tua. Bene, grazie di avermelo fatto sapere… di nuovo. E adesso che lo so? Dovrei ringraziarti immagino, dopotutto deve darti fastidio che il mondo sia pieno di tanta immondizia. E a parte te stessa chi è che ti va bene?»

«Insomma» ribatté Ed, sinceramente confusa «volevo solo farti piacere, dirti qualcosa che non sapevi».

«Non avrei mai immaginato» contrattaccò lei, piena di sarcasmo «che pensassi di saperne più di me su qualche argomento. E ora rispondi a questo, illustre filosofa del nostro secolo: hai appena detto che questo sapere perduto ha rischiato di distruggere il mondo. Per quale ragione mai sarebbe sbagliato cercare di farlo sparire?».

«Ho detto che gli uomini hanno fatto questo, non la loro conoscenza. La conoscenza può fare del bene o del male a seconda di come si utilizza. E se qualcuno ne ha fatto un cattivo uso, persino un uso catastrofico, non significa che l’ignoranza sia la soluzione».

Jen rimase incerta per qualche secondo su cosa rispondere ma bastò: Ed decise in tutta evidenza di ignorarla da quel momento in poi dedicandosi all’osservazione delle fondamenta di Zeiss.

«Ho cercato di fare conversazione, per una volta» commentò laconica, senza guardarla, mente si sdraiava su una cassa «Tu sai qualcosa che forse nessun altro al mondo sa. Ho pensato potesse interessarti sapere altro. Ma per qualche ragione sembra proprio che tu non sappia nient’altro della mia gente né della tua. Pensavo di farti piacere. Ma ho sbagliato a provarci: sei una massaia ignorante e lo sei per vocazione, non per nascita».

La biondina decisamente non ne potè più e afferrò Ed per il bavero. Di nuovo, Ed fu disorientata dalla rabbia della ragazza, che arrivava ancora una volta a trascurare l’abissale differenza tra i loro poteri.

«Sentimi bene… abbiamo un patto ma…»

«Vedi di non scuotermi, mi…»

«… non include che io debba sopportare…»

«… fa venire il mal di mare, ti…»

«… il tuo carattere impossibile…»

«… finirò per vomitare addosso e…»

Non riuscì a terminare ed iniziò davvero a vomitare, conducendosi a stento alla balaustra per lasciar finire il resto del suo pranzo in mare. Jen rimase a fissare la macchia, inorridita.

***

«Zeiss» fece Valiel come per chiamarla mentre curava le vele della barca, delle sottili strutture di tela bianca simili alle pinne di un pesce.

Quanto tempo fa aveva lasciato quella città di pietra e metallo, elettricità e vapore? Provò a ricordare. Quand’è che aveva deciso di vivere lì? Sì, lo ricordava. Era stato trentasei anni prima. Ben trentasei anni! Persino nella lunga vita di un elfo era difficile non sentirne il passaggio.

Credo che andrò a Zeiss.

Zeiss? Perché Zeiss?

Voglio comprendere meglio la scienza e la tecnologia che gli umani custodiscono e a Zeiss si studia liberamente. Forse lì troverò le risposte che questi quattro macellai non sanno darci.

Un elfo che studia la Scienza Perduta… sarai considerato un abominio!

L’ammonimento di Elzen non l’aveva scoraggiato nemmeno un po’. Eppure, era stato inutile: anche Zeiss – la città che ora aveva davanti, fluttuante sopra il mare – l’aveva deluso, così come i molti inutili anni trascorsi a sondare i misteri degli studiosi che lì avevano regno. Quanto ancora doveva cercare? Perché nessuno voleva capire, perché nessuno voleva cercare fin dove lui arrivava a spingersi? Una folata di vento freddo e intriso di odore del mare gli investì il viso, riportandolo al presente. Zeiss stava adagiata tra le nubi come la prima volta che l’aveva vista, trentasei anni prima. L’aveva ammirata con meraviglia e pieno di speranza, con sentimenti che adesso, ovviamente, non provava più. Come se negli anni di infruttuosa ricerca il mondo si fosse scolorito, svuotato di bellezza e colore e riempito del suo senso di sconforto e ingiustizia. Alla fine nel mondo rimanevano e vincevano solo la rassegnazione e l’abitudine, che in fondo erano ciò che lo spingeva a servire Lyes ed eseguire incarichi inutili come quell’inseguimento.

***

La flottiglia di chiatte, salpata poche ore dopo il grande mercantile, gli si avvicinava sempre più; tutte le navi scivolavano sotto l’ombra di Zeiss, che fluttuava su di loro.

«Allora, dobbiamo tirarla per le lunghe?»

L’orco abbassò il capo rasato emettendo una specie di grugnito nervoso: le effigi sulle stole di Wiggs e Bedge, il fulmine che scendeva lungo la loro schiena sulla stoffa argentea, erano abbastanza per intimidire chiunque non avesse voglia di sfidare la Chiesa.

«Signore, la protezione del carico privato di questa nave è un compito che mi è stato affidato da…»

Non fece in tempo a dire da chi: un semplice passo di Wiggs verso di lui fu abbastanza per farlo deglutire con timore.

«Ostacolare una indagine per sospetta eresia è un crimine contro la Chiesa della Dea. Lo sai, faccia da porco?»

L’orco strinse le zanne, la pelle bruna lucida per il sudore: tanto più era difficile – per quei pochi orchi che ci provavano – integrarsi tra gli umani, tanto più facile era indurli in agitazione con vaghe minacce.

«Signore… non c’è traccia di eretici in questa nave e se anche ci fosse cosa c’entrerebbe mai il carico del mio padrone? Non c’è legame tra...».

Anche Bedge si avvicinò e di nuovo bastò quel piccolo gesto ad ammutolirlo.

«Ah no? Sei forse un esperto, tu? Gli eretici non sono mica mostri, bestione. Hanno tutti l’aspetto di semplici persone, indistinguibili tra le altre. Tra questi molti meritano una semplice scomunica ma ci sono quei pochi che trafficano con la demonologia o la necromanzia e che rappresentano un pericolo per tutti gli onesti cittadini, anche questi ultimi sono indistinguibili tra gli altri eretici. Con quale autorità, di preciso, sostieni che non ci sono eretici su questa nave?»

«O forse» aggiunse Wiggs «lo sai bene che ci sono e li proteggi?»

L’orco chinò il capo: «Vi farò ispezionare il carico in assoluta libertà e riservatezza ma vi prego, smettetela».

«Così va meglio». annuì Wiggs.

Come si aspettavano, si trattava in massima parte di preziosi troppo grandi per nasconderli, sicuramente appartenenti ad una collezione privata. Ma c’era anche una decina di monete di vecchio conio, tanto diverse dai geon che avrebbero potuto anche essere risalenti al Mondo Antico, e una discreta quantità di rubini grezzi. Piazzarli nel mercato nero non sarebbe certamente stato difficile, Bedge provvide a nasconderli nella borsa.

«Che giornata grama». si lamentò Bedge.

«Meglio di niente, oltretutto è una cosa improvvisata, giusto perché siamo di passaggio». commentò Wiggs buttando un paio di portagioie troppo appariscenti e ingombranti nella cassa da cui li aveva presi.

«Capo, è sicuro che la flottiglia e il mercantile abbiano la stessa rotta?»

«Certamente, il mercantile è diretto a Port de Cerul, nelle coste nistriane».

«Ed è sicuro che il nostro ricercato punti a quel mercantile?»

«Sicuro al cento per cento? No, però ha requisito il battello nell’ora esatta in cui salpava il mercantile e da come ha principiato la sua rotta, voleva chiaramente aggirare le vedette. Cosa ti fa pensare?»

«Che il tizio… voglia arrembare il mercantile in alto mare».

«Quindi non pensi che appena finiamo di intascare il possibile qui dovremmo occuparci della cosa?»

***

«Tutto bene?» ritentò Jen.

«Cosa te ne frega?» mormorò Ed, china sulla balaustra.

Jen era determinata a sforzarsi di rimanere gentile, almeno finché Ed stava così male: «Perché non ti riposi un po’?»

«Se mi addormentassi i golem potrebbero smettere di lavorare di colpo. Sono come le mie braccia o le mie gambe, capisci? Non si muovono senza di me. Non pensi si accorgerebbero giù sottocoperta se cadono giù come birilli? E il capitano sarebbe capace di gettarci in mare».

«Mi piacerebbe capire come funzionano quelle… cose. Le ho sempre trovate incomprensibili».

«Capire i golem proprio tu…»

Il tono e l’espressione preannunciarono un ennesimo insulto a cui Jen già si preparava ma Ed non finì mai quella frase. Balzò all’indietro di scatto, spaventata, cadendo a sedere.

«Tutto bene?»

Rimase seduta, ma strisciava all’indietro tremando, con gli occhi dilatati. Sembrava un animale in trappola, alla ricerca disperata di un nascondiglio.

«Cosa… cosa ti prende…?»

Non riusciva neppure a spiccicare parola. A Jen non restò che volgersi verso la sorgente di tanta paura. Anche alcuni marinai fissavano quella direzione, distogliendo lo sguardo dall’Isola Meccanica dalla cui ombra il mercantile stava rapidamente uscendo.

«Nave sconosciuta a babordo!» urlò un marinaio appollaiato sulle sartie «Un battello da pesca!»

«Pirati?» chiese il capitano, accanto al timone, armeggiando con il binocolo «Non è mica il Mar Giallo…»

«Non sono pirati» confermò il navigatore, correndo verso il capitano.

Non era difficile capire perché quel battello disturbasse tanto i marinai. Anzitutto, qualsiasi persona o cosa stesse remando imprimeva una rotazione tale ai remi da far andare l’imbarcazione veloce quanto un gabbiano in volo; in secondo luogo, una delle uniche due figure visibili a bordo, che reggeva il timone, non era certamente umano e Jen non ebbe difficoltà a riconoscerlo come uno dei golem di sabbia che le inseguivano entrambe; altre due creature seguivano pazientemente in volo il battello che schizzava leggiadro spezzando le onde. Di animali di quella forma Jen ne aveva visto solo uno, morto e imbalsamato, al mercato, anni addietro, un dragone-serpente dei mari di Izun, molto simile a quello che raffigurava il suo stesso tatuaggio. Quelli però non erano esattamente uguali, piuttosto erano come masse sabbiose che fossero costantemente modellate da uno scultore invisibile per assumere e mantenere quella forma mentre ondeggiavano, a stento distinguibili, sul pelo dell’acqua. Non erano che altri due golem, solo in forma diversa.

Ed rideva nervosamente, spaventata: «Fa sul serio… eh eh eh fa sul serio dannazione. Arrivare a questo… eh eh eh… allora va bene».

«Ed… Che ti prende?»

Ed non sembrava padrona di sé stessa o della situazione più di lei. I marinai non stavano invece perdendo tempo: l’istinto diceva che qualsiasi cosa fosse quel battello, andava abbattuto. I nani a bordo si industriavano già con gli unici due cannoni su quel lato del mercantile, mentre un uomo nerboruto cercava di spostare uno degli altri due da tribordo. In pochissimo tempo, la nave si riempì di gente che sbraitava o sfrecciava da una parte all’altra, indaffarata, mentre il capitano cercava invano di imporre un ordine sensato ai loro gesti. Due “pescarelitti” presero a seguire la scena, incuriositi, invece di virare di nuovo verso Zeiss, mentre sulle tre chiatte a tribordo molti si affacciavano cercando di capire cosa succedeva sul mercantile.

«Ed! Cosa facciamo?»

La nana la sorprese un’ennesima volta. Si volse verso di lei con occhi gonfi, affranti; sembrava che stesse per piangere.

«Ah, tu. Scusami. Scusami…» si alzò in piedi strofinandosi gli occhi, come se cercasse di recuperare fermezza «Farò di tutto perché almeno tu non muoia oggi».

«…questa affermazione stranamente non mi rassicura…»

«Fai ironia eh? Sei un tipo tosto» disse con un sorriso amaro, ma sembrò quasi farsi coraggio.

Partì una cannonata. Una delle due creature divenne come una cupola di sabbia intorno al battello e prese in pieno l’impatto. Esplose in una nube sabbiosa, ma l’imbarcazione ne uscì illesa. L’altra creatura assunse una forma diversa, come un pesce manta, e si librò in alto. Sottile nella forma e imprevedibile nei movimenti, neutralizzò un unico, disperato tentativo di colpirla, provocando la rassegnazione di quegli improvvisati cannonieri. Un marinaio, più pronto di spirito di altri, pensò a quel punto di mirare di nuovo al battello, rimasto senza la protezione di quegli esseri sabbiosi; ma appena ebbe puntato sul battello la creatura volante accelerò in un tuffo verso la balaustra, affilata come una spada, e come una spada tagliò in due l’uomo, dipingendo una vistosa scia di sangue lungo il legno della coperta. Jen si sentì gelare. Un grido riempì l’aria, sovrastando quello di terrore dell’equipaggio. Un grido disperato, colmo di tristezza e desiderio. Un grido che chiamava un unico nome.

«Edrin! Edrin!»

Ed la sorpassò. Tremava ma la sua espressione era ferma. Sospirò.

«Edrin!» continuava a chiamare la voce, ossessivamente.

Ed salì in piedi sulla balaustra di babordo, calcandosi il cappello e gli occhiali perché non volassero mentre il vento le sferzava il viso. Anche lei gridò un nome.

«Alef!»

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Capitolo 6
*** Battaglia sul Mare ***


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5. BATTAGLIA SUL MARE

 

La violenza ha preceduto la parola. Questa in fondo altro non è se non una più sottile forma di oppressione.

aforismi degli elfi d’autunno

 

I marinai della chiatta si affaccendavano intorno alle scialuppe, urlavano avvertimenti alla chiatta più lontana dal mercantile, intanto le cannonate si susseguivano con evidente insuccesso. Il templare più giovane, dei due imbarcati, era tutto concentrato sul suo attrezzo: un’arma che poteva sembrare una lancia dalla lama lunga da un’estremità e uno scettro dall’altra il quale, incastonato in un’ala di metallo lavorato, portava una specie di ovale di vetro appannato. Era stato facile riconoscere l’attrezzo sin dall’inizio, era un’asta da combattimento per maghi, ma solo in quel momento lo splendore azzurro elettrico della pietra parlava chiaro all’equipaggio della nave: uno scontro di magie stava per avere luogo, tra quel chierico e un nemico sconosciuto. La paura per il subbuglio nel vascello principale aveva già provato i marinai, a questa si aggiunse la paura di essere coinvolti anche loro nella battaglia, che fece loro dimenticare ogni prudenza e ogni interesse verso il loro carico. Era una cosa comune: più capillare si faceva l’influenza della Chiesa, più controllato e raro era l’uso della magia, che diventava sempre più estranea, misteriosa e inquietante nella coscienza popolare. Persino l’orco che avevano intimidito poco prima si nascose sottocoperta per non uscirne più.

«Lo vedi?» chiese l’altro templare mentre, col naso all’insù, fissando il vascello.

«No» rispose Bedge, concentrato sul raccogliere energie magiche.

«Bella forza portarsi dietro un chierico di seconda classe».

«Ho il dono della magia, non quello della vista telescopica» Bedge sopportava di buon grado qualsiasi forma di bistrattamento ma nel corso di un incantesimo diventava irritabile.

«A giudicare dai movimenti sulla coperta, loro stanno subendo l’attacco, non ne sono l’origine. Forse da un’imbarcazione dall’altro lato, che il vascello non ci permette di vedere. Come avevamo ipotizzato».

«Tutto chiaro» replicò Bedge «vedo cosa posso fare per colpirli da qui o ci avviciniamo?»

«Avviciniamo… come?»

«Direi… abbordiamo il vascello?»

«Pessima idea per le nostre pellacce» obiettò Wiggs, ma dopo aver osservato ancora qualche secondo la confusione sul grosso mercantile aggiunse «Da qui non capisco un accidente. Continua a fare quello che stai facendo ed io mi occupo di… dell’abbordaggio... eh! Dovevo fare il pirata…»

«Sicuramente si adattava meglio alla vostra indole».

«Concentrati invece di dire cretinate».

Bedge continuò a muovere delicatamente la mano intorno all’ovale luminescente, bisbigliando qualcosa. Wiggs, invece, estrasse uno dei tozzi fucili dalla custodia e sparò un colpo in aria. I marinai che non si stavano litigando le scialuppe si bloccarono di colpo.

«Potete fuggire dove volete» urlò Wiggs «ma ci serve almeno uno che stia al timone ancora per qualche minuto. Se non viene subito qui un timoniere, sparerò alle gambe di uno di voi a caso».

Gli uomini, d’istinto, si rimisero subito in fuga ma uno di loro crollò a terra dopo uno schianto che gli squarciò il polpaccio. Wiggs caricò subito un’altra cartuccia, mentre estraeva il secondo fucile per tenere tutta la ciurma sotto controllo.

«Non fatemelo ripetere. Questa è una inquisizione dei templari per sospetta eresia! Obbedire è un dovere verso la vostra Chiesa, disobbedire mi autorizza ad ogni tipo contromisura».

In segno di ribellione, uno dei più grossi tra gli uomini della ciurma si avventò su Bedge. Ma in quell’istante lui aveva concluso la meditazione. In un attimo, il templare staccò la mano dall’ovale e mosse sapientemente l’asta in un movimento rotatorio che fece finire la punta della lama esattamente sulla gola del marinaio. Questi arretrò immediatamente. Bedge, nonostante questo, fece mulinare l’asta una seconda volta colpendo una coscia, tingendo di sangue le ali metalliche che decoravano la lama. Anche lui cadde a terra. Lo stordì con una pedata in volto senza troppo entusiasmo.

«E sono due a terra». osservò il tenente Wiggs «Ancora non c’è un volontario?»

«Smettetela subito» esordì uno degli uomini, dal piglio calmo e ragionevole «io so tenere il timone. Lasciate stare gli altri».

«Abbiamo un vincitore» avvertì stancamente Bedge.

«Già. Gli altri vadano pure a crepare dove preferiscono, magari portatevi dietro questi due cretini feriti» dichiarò Wiggs a voce alta, poi si volse al loro nuovo timoniere: «Sai fare una manovra d’arrembaggio?»

«No, inoltre questo non è un galeone pirata. Ma suppongo che dovrò arrangiare qualcosa comunque, giusto?» chiese lo sconosciuto, in tono provocatorio.

«Sei anche sveglio. Mi piaci».

***

«Sono qui, Al!» urlò ancora Ed, in piedi sulla balaustra.

Ed mosse il polso in una ampio semicerchio e Zahnrad esplose in decine di frammenti, per ricomporsi in una sorta lastra semicircolare. Questa si aprì a sua volta in sei punti e Jen vide con stupore una piccola bocca di cannone uscire da ciascuna delle aperture. Nello spazio di un respiro Ed sembrava diventata una fortezza ambulante.

«Prendi!»

Partì una salva di cannonate ma quasi tutti i colpi si risolsero solo in alti spruzzi d’acqua marina, uno frantumò un angolo del battello, un altro mancò di poco la faccia del loro inseguitore, che non si scompose neppure.

«Accidenti a me e alla mia mira schifosa! Prendi!»

Una seconda salva sorpassò totalmente il battello senza il minimo risultato.

«Ancora!»

Non riuscì a sparare una terza volta, aveva portato Zahnrad ben oltre il suo limite, l’artefatto riprese la sua forma originale di bracciale compatto ma era annerito. Era tanto rovente che il polso di Ed sfrigolò sprigionando una nuvoletta di fumo.

«Maledizione!» sbraitò agitando la mano in preda al dolore.

Jen distinse appena una delle due creature di sabbia afferrare al volo il ragazzo sul battello, per poi volare sopra le loro teste. Fu scaricato dall’alto e atterrò in piedi, con un botto, proprio dietro di loro. Era un ragazzino umano o un nano molto smagrito? Jen non riuscì a distinguerlo chiaramente, anche se il rosso scuro dei capelli risolse i suoi dubbi. Due masse sabbiose colpirono il legno della coperta alla destra ed alla sinistra dell’individuo, per sollevarsi formando le figure umanoidi innaturalmente alte e longilinee che Jen ricordava bene, le figure che avevano ucciso il suo cane e spezzato la quiete della sua vita nella fattoria. Le maschere intarsiate dei due golem di sabbia avevano una forma diversa da quella col lungo becco che aveva aggredito i suoi fratelli ed Ed settimane prima, notandole Jen dedusse che ciascuno di essi era diverso e che uno dei golem era effettivamente stato distrutto cercando di parare la cannonata di poco fa. Cercò un cannone con lo sguardo prima di realizzare che non aveva idea di come si usassero.

«Ed» chiamò il misterioso individuo che la nana aveva chiamato Al, con tono indecifrabile.

Ed si concentrò e Jen vide subito perché: i due golem che aveva portato a bordo uscirono allo scoperto, portandosi accanto a lei.  Immediatamente una delle due creature che accompagnavano il ragazzo in giallo si librò in cielo, riprendendo la forma di drago-serpente, e i golem di pietra decisero in tutta evidenza di seguirla: dietro la testa e le spalle si allungarono delle strutture come lunghe pinne di pesce ricurve, un ombrello vitreo che li portò in aria con grazia. In cielo, il loro avversario di sabbia spalancò le fauci. Jen non seppe dire se urlava o soffiava ma in un caso come nell’altro i due golem di pietra furono sbilanciati dallo spostamento d’aria e dondolarono scompostamente; un secondo attacco uguale al primo li sbilanciò del tutto, la cosa si mosse sinuosa e rapidissima verso uno dei due, lo strinse nelle sue spire e in qualche modo riuscì a scagliarlo verso l’altro, ancora disorientato. Entrambi si ruppero, precipitando giù fino a squarciare una vela e finire in acqua danneggiando la chiglia della nave. Il golem di sabbia riprese con disciplina il suo posto accanto al suo padrone e all’altro suo simile.

«Fine degli esercizi di riscaldamento» commentò nervosamente Ed, a denti stretti.

«Come ti sei arrugginita» si lamentò l’altro.

***

«Una battaglia di golem sul mercantile. La vedi da qui?»

«Ovvio che sì. I forgiatori sono solo due, credo. Saliamo, capo?»

Wiggs stava quasi per rispondere quando uno di quegli esseri sabbiosi piombò sulla chiatta come un sasso che cadeva dall’alto, frantumando il legno della coperta. Era un golem, evidentemente chi li controllava li aveva visti attraverso di esso e ora intuiva che volevano interferire.

«Mentre combatte lassù, tiene d’occhio anche noi» constatò Wiggs ridendo nervosamente «Dev’essere tosto questo bastardo».

Puntò subito entrambi i fucili e sparò ripetutamente. I proiettili si conficcavano nella sabbia scomponendo il corpo, che però tornava integro quasi subito. Lo rallentavano ma senza ferirlo.

«Bedge!» chiamò agitato mentre ricaricava.

Dietro di lui, Bedge mormorava senza rispondere.

«Akar havo… »

«Bedge!» riprovò sparando altre munizioni altrettanto infruttuosamente «Muoviti!»

Il golem di sabbia sembrò voler smettere di aspettare e cambiò forma in una struttura canina che sembrava più agile, schivò i proiettili senza rallentare e in un paio di balzi fu addosso a Wiggs.

«Bedge, accidenti!» urlò mentre teneva a fatica le fauci del canide lontane dalla gola.

«…valius… nai… difo».

Una lingua d’acqua limpida si allungò dalla pietra magica dell’asta di Bedge. Agitando l’asta, il chierico provò a frustare la creatura appena Wiggs riuscì a scollarsela di dosso ma il golem evitò diverse sferzate balzando qua e là con tempismo.

«Sì, bravo, bravo! Non lo prendi nemmeno se dorme, maledizione!» si lamentò Wiggs strisciando indietro e ricaricando i fucili in tutta fretta «Indietro, mandalo indietro».

D’un tratto la lingua si mosse come un serpente e non più come una frusta e sì attorcigliò. Per evitarlo, la creatura canina saltò indietro.

«Continua così… verso quel barile» spiegò Wiggs senza muoversi.

«La fai facile, capo. Akar havo maltius… vajrus… nai difo».

Una scintilla d’elettricità viaggiò lungo il filo d’acqua, il golem arretrò come un animale spaventato, era ora abbastanza vicino al barile come Wiggs aveva voluto e fu proprio Wiggs a centrare il barile con un proiettile. L’olio dentro il barile esplose, avvolgendo il golem in un’ondata di calore e luce. I due si guardarono per diversi secondi, tramortiti dall’urto dell’esplosione.

«Anche questa è sbrigata» valutò infine Bedge con tono piatto mentre il golem bruciava.

«Che golem complicato. Chi diavolo sarà il tipo sul mercantile?»

«Andiamo via!» implorò il marinaio al timone, ancora mezzo assordato dal boato.

«Tu sta zitto, idiota!» sbraitò Wiggs puntandogli il fucile contro «Tieni le mani sul timone!»

Il golem si rialzò, tintinnando come una cascata di monete, sotto gli occhi increduli dei due templari e del marinaio. Ora il suo corpo era un insieme scomposto di schegge di vetro scintillante che sbattevano l’uno contro l’altro, un piccolo corpicino simile a quello di un esile umano, ma con grossi e affilati artigli lucenti.

«Che situazione del…»

Il golem si avventò su Bedge che si difese malamente con l’asta. La lama dell’asta si dimostrò inutile in quel corpo frammentato e a stento fermò le artigliate del costrutto, che cercava furiosamente di staccargli l’arma.

«Capo» disse Bedge, avvinghiato nella lotta, senza agitarsi «maschera. La maschera!»

«La maschera…?»

«Akar havo» pronunciò Bedge, di fretta «maltius vajrus… ega… kiar

Scintille di elettricità guizzarono lungo tutta l’asta, scaricandosi sul corpo dell’aggressore. Ma questi non diede alcun segno di sofferenza.

Wiggs era ancora sovrappensiero: «…maschera… ah. Giusto».

La maschera di pietra era l’unica cosa che era rimasta uguale, dopo che la sabbia era diventata vetro per il calore. Del resto, perché il golem mantenesse una forma coerente dopo la vetrificazione la cosa doveva essere stata prevista dal suo creatore e incisa in una apposita runa e le rune potevano trovarsi solo sulla maschera. Un proiettile centrò la maschera, la ruppe in due e le schegge di vetro si sparsero a terra senza più alcuna energia a muoverle. Wiggs e Bedge guardarono entrambi la maschera spezzata per un momento.

«Un forgiatore potente e anche fantasioso» osservò Bedge.

«Non aveva certo animato la sabbia della spiaggia, a Tuinsy. Deve aver usato questo golem».

«E pensa ancora che sia il ragazzo della taverna… il ladro degli Ensland?»

I rumori dell’agitazione nell’altra nave non facevano che aumentare.

«Andiamo a conoscere meglio questo casinaro, Bedge».

«Io vorrei solo che ci allontanassimo» protestò il marinaio insistendo con rabbia contenuta.

«Tutti vogliamo un sacco di cose».

***

Jen rimase assolutamente senza fiato: né Ed né questo misterioso Al avevano battuto ciglio, eppure era certa che in qualche modo erano stati loro due a guidare mentalmente quello scontro aereo tra pietra e sabbia. Cos’era davvero la scienza delle rune? Aveva limiti quel potere?

«Che modo di battersi, non ti si addice. Perché non attacchi anche tu?»

Ed digrignò i denti di fronte all’evidente disinvoltura del suo avversario: «E tu, perché non lo fai?»

«Sai la risposta» rispose Al con semplicità.

«E tu sai la mia»

«Interessante» notò Al con tono quasi professorale «Allora…vuoi usare solo i golem? Così, in effetti, possiamo concentrarci molto meglio sui loro movimenti. Sembrerà più un duello di maghi che di forgiatori. Uno spettacolo di marionette, in un certo senso. È divertente, no?»

La giovane nana sussultò: era evidente persino per Jen la capacità di quel ragazzo di suscitare in lei rabbia e dolore.

«Credi che sia un gioco? Una prova d’abilità? O cos’altro? »

«Direi che è un cos’altro. »

«Tornatene a casa, Al…»

Era una minaccia o una supplica, si chiese Jen? C’era qualcosa di distorto nelle loro interazioni.

«Curioso che sia tu a dirlo a me. Tornare a casa...».

«Come vuoi» concluse lei, cercando di darsi coraggio «Basta chiacchiere, allora. Iniziamo».

Si pose le mani sulle rune nella spalla e sembrò a Jen che lanciasse due frammenti incandescenti in aria, ai suoi lati atterrarono due figure, in maniera del tutto simmetrica a quella del suo rivale. Ma i due costrutti che atterrarono erano molto diversi, quasi ridicoli.

«E questi… cosi… che sarebbero?»

«Chiappa…» presentò Ed indicando il primo dei due.

Era un omino tarchiato e panciuto, il cui volto era completamente coperto da un grosso cilindro calcato, esclusa una lunga e setosa chioma arricciata, così come ogni centimetro del suo corpo era coperto da vesti quasi sfarzose di velluto color panna e nocciola malamente cuciti e rattoppati insieme, persino il suo viso non era che un sacco di pezza cucita. Jen notò che calzoni e le maniche, gonfi oltremisura, non erano effettivamente neanche vere maniche, ma enormi fasci di filamenti di seta infilati a forza in guanti e stivali. Era una massa di seta argentea fluente, quasi viva, infilata a forza in quei vestiti e da essi contenuti a fatica.

«… e Beccuccio».

La seconda figura invece sembrava un largo e massiccio cavaliere in una armatura consunta, ma in effetti era composto di vecchia ferraglia usata: le ampie spalliere erano teiere arrugginite, l’elmo era una caffettiera malridotta e così via. Sbuffava regolarmente nuvolette di vapore bianco che gli rimanevano intorno, dense e pesanti, formando come un mantello biancheggiante, una cappa densa ma impalpabile che scendeva dal suo corpo gonfiandosi e sgonfiandosi col ritmo di un battito cardiaco. L’arma che teneva in mano, che a Jen era sembrato un martello, era in effetti un tubo di lavandino che finiva con un ferro da stiro.

«Chiappa e Beccuccio» ripeté Al, persino lui incredulo di fronte ad avversari così improbabili.

«Mie creazioni. Belli vero?»

«Sì, bellissimi» ammise Al, con l’ammirazione di un vero intenditore.

«Ma non puoi averli» si vantò Ed, che ancora tremante di paura si forzava a riacquistare un pizzico della solita arroganza.

Al continuava a guardare i due nuovi golem con curiosità. Jen non aveva mai assistito ad uno scontro diretto tra mastri forgiatori nanici ma le circostanze furono esplicite: non uno solo, tra i nerboruti uomini dell’equipaggio, sentì l’impulso di avvicinarsi ai due nani che si guardavano in faccia. Anzi, era lei la più vicina al duo e provava al contrario una gran voglia di allontanarsi.

***

Come ogni imbarcazione elfica degna di questo nome, anche questa era di legno leggerissimo e con vele grandi e robuste, progettata di proposito per scorrere veloce sull’acqua opponendo la minima resistenza al vento e alle onde. Ma neppure Valiel aveva potuto tenere il passo con il battello malconcio che schizzava sulla superficie del mare mosso da remi innaturalmente veloci. Nessun umano, nano o elfo avrebbe potuto remare con tanto inarrestabile vigore, solo un golem – e Valiel aveva una idea di chi poteva essere a manovrarlo. Adesso, invece, il battello si lasciava superare placidamente, andando malconcio alla deriva. Anche il comportamento delle chiatte mercantili non era del tutto normale: mentre il vascello principale stava quasi uscendo dall’ombra della città fluttuante, le altre chiatte cercavano – eccetto una – di staccarsi dal vascello, quasi di invertire rotta. Il mare intorno si riempiva di scialuppe. L’istinto da cacciatore di Valiel non dovette nemmeno sforzarsi troppo: il suo obiettivo era sul vascello e stava, per la seconda volta in poche settimane, attirando guai su di sé. Gettò un fischio.

«Pochi raminghi viaggiano per mare, specie di questi tempi» osservò un gabbiano che prese a volare piano a fianco dell’imbarcazione elfica.

«Signore delle nuvole, amico degli elfi nei mari inesplorati, ti chiedo di essere i miei occhi e le mie orecchie. Su quel…»

«Sulla casa che nuota, la casa degli umani» interruppe il gabbiano «vuoi sapere cosa accade».

«Proprio così».

«Due del popolo sotterraneo si scontrano».

«Due…? Chi sono?» chiese speranzoso – che potesse finalmente conoscere l’identità del misterioso aggressore di Kalaston?

«…chi è chi, non è una domanda per noi. E non ci avvicineremo certo per scoprirlo. L’amicizia con il tuo popolo non ci vincola a rischiare le nostre vite, ramingo».

Il gabbiano si alzò più in alto e si unì ad uno stormo che stava deviando per non infilarsi sotto il terreno di Zeiss o forse, più probabilmente, per allontanarsi dalla nave. Un ramingo sa fidarsi dell’istinto degli animali e sa farlo proprio: e l’istinto gli diceva di tenersi alla larga da quei due nani sconosciuti. Eppure, per quanto tempo potesse passare nella foresta senza incontrare nessuno, Valiel non era né sarebbe mai stato un animale.

***

La chioma artificiale del golem che Ed aveva chiamato Chiappa prese vita, seguendo i movimenti delle dita della sua padrona, un fascio di seta sinuoso come un serpente si scagliò come una massa di fruste, allungandosi sempre più, contro Al. I due golem sabbiosi ai lati avevano dato alle braccia la forma di grossi scudi tondi che seguivano pignoli ogni sferzata, come Ed aveva previsto. Ma ad ogni sferzata, la massa fluente si spargeva in più fasci, sempre più difficili da distinguere anche per chi, come loro, non vedeva con gli occhi ma percepiva gli spostamenti d’aria. La difesa meticolosa di Al, che Ed conosceva a menadito, non riusciva più a seguire i fili di seta e perdeva sempre più ritmo, finché un fascio scivolò dal basso e il golem sabbioso non fece in tempo a intercettarlo. Subito intrappolò Al come una ragnatela, stringendolo in un bozzolo.

«La tua difesa infallibile ha fallito. Ora che mi dici?» sogghignò la ragazza guardandolo con soddisfazione.

«Oltre la difesa c’è sempre l’offesa» rispose l’altro, quasi annoiato mentre la seta lo costringeva all’immobilità.

I due golem di Al erano rimasti immobili per qualche secondo, ma rapidamente saltarono in aria verso Ed, le mani avevano preso la forma di mannaie pesanti pronte a distruggere Chiappa e Beccuccio. Ed aveva visto e rivisto questa scena nella sua mente per anni, aveva prefigurato questa eventualità e questo momento. Con un rapido movimento della mano mosse per la prima volta Beccuccio: ogni fessura del corpo metallico sprigionò degli spruzzi densi di vapore bianchissimo. Tuffandosi nella coltre bianca di vapore acqueo i golem atterrarono impastati dall’umidità, lenti e impacciati. Non erano più fluenti ed eleganti ma lenti e appiccicosi, due masse fangose che Al non controllava più propriamente. Non solo non centrarono i loro bersagli ma atterrarono pesanti, si mossero barcollando e poi caddero in avanti, come sciogliendosi. Tutto era andato come Ed aveva previsto, eppure aveva sempre voluto evitare quel momento, essendo intimamente certa che non avrebbe potuto farcela contro Alef. Invece le sue paure si erano rivelate infondate: aveva vinto.

«Oh, interessante» commentò Al, divertito, prima di sporgersi verso Ed.

«Oh, interessante» gli fece il verso lei.

I golem sabbiosi stavano prendendo la forma come di grosse lumache di fango di cui solo la maschera ricordava la forma precedente e si alzarono in tutta la loro massa molliccia ai lati di Ed. Jen si fece l’idea che si preparassero a scattare contro Ed come serpi pronte a mordere.

«Non pensarci nemmeno. Aspettavo proprio questo» ridacchiò Ed.

Il golem che aveva chiamato Beccuccio scattò, i suoi avversari erano ora troppo lenti per reagire, sfracellò con un colpo di mazza una maschera intarsiata di uno dei due e appena l’altro si sforzò di reagire saltò sulla maschera di questo centrandola con una martellata: i golem si scomposero, ormai non più vincolati dalle rune appena distrutte. Al cercava ancora di muoversi, ma la morsa dei fili era sempre più stretta.

«Fermo lì, se non vuoi essere stritolato dai fili di Chiappa».

«Oh, interessante» ripeté Alef con voce monocorde.

«L’hai già detto, sei diventato scemo?»

«Oh, interresante» fece ancora prima di spaccarsi in mille lucidi pezzi.

***

«La trave, usiamo quella trave» esortò Wiggs.

«Certo, come no» commentò il giovane uomo al timone «non è una nave pirata, ve lo ripeto».

«Abbiamo un ingegnere navale tra noi» ribatté Wiggs «Taci e tieni la rotta! Sembra che tu debba convincermi a spararti a tutti i costi».

«Tenente, devo spostarla da solo la trave?»

«E smetti di lagnarti anche tu».

Balder Bedge guardò la figura del suo superiore investita dal vento, coperta dall’ombra della terra fluttuante. Sembrava indemoniato, gli occhi li aveva quasi fuori dalle orbite.

«Signore, non dovrebbe darsi una calmata?»

«Mi calmerò fra pochissimo» rispose mettendosi anche lui a sollevare la trave «Quel bastardo è lì! Dev’essere lì! Lo prenderemo!»

«Certamente sì, signor tenente, ma…»

«Lo prenderemo e gli faremo sputare i nomi di ogni altro del suo Cerchio» si fermò per sbuffare dalla fatica «creperanno tutti! Tutti! Tutti sepolti nella segreta più lurida e schifosa e lì…sentirò le loro urla! E poi… e poi…»

Non si curò di terminare il concetto o forse coprì le sue ultime parole il vento che soffiava sempre più forte. Wiggs scosse la testa per non avere i capelli negli occhi mentre cercava di allungare la trave verso il vascello che sovrastava la chiatta. A Bedge quell’immagine si impresse sgradevolmente nella mente. I momenti che decidevano il corso della sua vita, come quello in cui i suoi genitori gli avevano detto che avrebbe studiato presso la Chiesa o quando aveva rivelato la sua attitudine alla magia e quindi il suo destino come chierico e ancora il momento esatto in cui gli avevano presentato l’allora sergente Nihilus Wiggs, tutti questi momenti avevano il singolare potere di marchiarsi nella sua memoria e di rimanere immobili come ritratti. E così si impresse quel momento, in cui Wiggs rideva come un invasato colpito in viso da aria ed acqua e sale, rideva con una risata che aveva un che di liberatorio e in egual misura era malsana, con uno stato d’animo che Bedge non gli riconosceva, qualcosa dentro di lui che si agitava, qualcosa di totalmente alieno nelle loro vite abitudinarie.

***

La parte di testa superiore alla mascella rotolò fino ai piedi di Jen, rimanendo impassibile e orrida anche quando si fermò a pochi centimetri da lei contemplando il cielo con occhi vitrei. Non era umano e neppure vivo: era un oggetto, qualcosa che ricordava una bambola di porcellana o una marionetta. Ecco cos’era: un burattino, di dimensioni umane.

«Hai… hai vinto?» chiese la ragazza.

Ed non rispose, ancora tesa come una corda di violino. Si girò in due direzioni e così anche Chiappa e Beccuccio seguirono i movimenti della loro padrona.

«Ma lui… era… una marionetta?»

Come per rispondere, i pezzi di porcellana del giovane nano si radunarono, Jen poté distinguere dal luccichio controluce i fili di sottilissimo acciaio che tenevano insieme ogni pezzo, anche se ora non sembrava più una fedele riproduzione di un umano: la testa era troppo staccata dalla mascella, come  le braccia dai gomiti e il torso dalle gambe. Un avambraccio sorpassò Ed con uno scatto e descrisse un’ampia semicerchio con i fili, tagliando diverse casse come fili d’erba.

«Fottiti!» esclamò nervosamente Ed abbassandosi per evitare i fili d’acciaio.

L’altro braccio scattò e Beccuccio saltò indietro per non essere segato, mentre l’altro golem, Chiappa, non fece in tempo e fu tagliato in due per orizzontale. Ma dentro quella cosa artificiale Jen vide solo una massa vibrante di filamenti di seta bianca.

«Noioso! Noiosissimo, cazzo!» imprecò Ed e fece un cenno al corpo tranciato di Chiappa.

I filamenti si stesero in aria e si compattarono in due masse, come due enormi girini che partivano dallo stomaco del golem, ancora in piedi benché aperto in due. Le “teste” schiusero bocche dentate che si avventarono ciascuna su uno dei bracci della marionetta, immobilizzandole entrambe. Due fauci di seta si confrontavano con due braccia di porcellana.

«Questo… questo è uno scontro tra due mastri forgiatori?» disse Jen piano, come per paura che la sentissero.

Era spaventata ma anche affascinata: sebbene non avesse una idea di come Ed facesse o a quali regole doveva sottostare, era chiaro che si scontravano due grandi poteri che però agivano con premeditazione e precisione. Come due giganti che s’affrontano in punta di fioretto. Anche se era persino difficile definirlo uno “scontro”: era un continuo mutare di forme ed esplodere di poteri che dall’esterno sembrava non seguire alcuna regola, se non quella dell’irrealtà tipica di un sogno, o di una allucinazione.

«Esatto» disse una voce dietro di lei, che riconobbe subito appartenere al capitano della nave «hai portato a bordo una persona davvero pericolosa».

«…io...».

«Inutile giustificarsi, ormai» interruppe il capitano «Qui si abbandona la nave, se sei furba anche tu farai lo stesso».

Il capitano le voltò le spalle e si diresse in tutta fretta verso un altro lato della nave. La sorprese che non guardasse Ed nemmeno per un istante: il suo unico interesse era allontanarsi, non chi lei fosse o per cosa combattesse. Nel momento in cui Ed e l’essere che aveva chiamato Al si erano scontrati quel mercantile era diventato per tutti gli altri come il luogo di un disastro naturale in corso. Non si poteva discutere, né partecipare, né reagire: solo fuggire. C’era un che di vomitevole, che a Jen dava la nausea, nella logica sottintesa in quei comportamenti: come se quei due fossero dei, divinità furibonde in lotta dove i miseri omuncoli come il capitano, come Jen stessa, potevano solo terrorizzarsi e scappare, pregando per la loro vita.

«Fiacco!» ringhiò Ed.

La marionetta, mentre le braccia erano paralizzate in una morsa contro la seta, aveva tentato di allungare una gamba e colpire Ed alle caviglie, ma Beccuccio era immediatamente scattato bloccando il piede di ceramica con il suo.

«Basta con questo catorcio» si lamentò la giovane nana.

Corse tra le braccia della marionetta e arrivò a toccare con la mano un simbolo che splendeva di un viola tenue, nel petto del pupazzo. Tracciò rapida e precisa dei segni con le dita e la tensione sparì dai fili, il pupazzo si scompose di nuovo, stavolta per sempre.

«Non scherziamo, un trucco vecchio come questo. Che delusione» commentò calciando via la testa di ceramica con disprezzo.

Jen si avvicinò appena di un passo, ma subito esitò: «Cosa… come hai fatto?»

«Se conosci la runa puoi anche cancellarla. Per questo il “vero nome” di un golem va sempre tenuto segreto. I golem-marionetta hanno tutti nomi simili… facili da capire. Rune facili da cancellare».

«Quella cosa era… un altro golem...?»

Aveva sentito dire una volta, in paese, che esistevano golem simili a bambole costruiti per sembrare persone ma fino a quel momento ci aveva creduto poco, era una storia per spaventare ragazzini.

«Molto sagace, Jen. E tu perché non sei ancora scappata, comunque?»

Non ho nessuna intenzione di scappare come se tu avessi il diritto di terrorizzarmi. Lo pensò, ma non lo disse.

«Bè, ma… hai vinto, no?»

Con stupore di Jen, la parte superiore del corpo del golem Chiappa si portò sopra le gambe e si rattoppò da sola, chiudendo il taglio con dei punti a croce. Sia lui, sia l’altro golem, rimasero fermi come fossero all’erta.

Ed scosse la testa, poi disse tra sé: «Dov’è quello vero?»

«Quello… vero?»

«Vieni fuori, cretino!» urlò Ed, senza avere risposta.

Poi intuì qualcosa e alzò la testa: si trovò Al placidamente appoggiato sull’albero maestro, sembrava quasi che sonnecchiasse. All’improvviso la situazione parve a Jen ben poco incoraggiante: sembrava che questo Al, tutto sommato, avesse la perfetta padronanza dello scontro e delle sue evoluzioni, a differenza della sua compagna di viaggio.

Il ragazzo sbadigliò: «Ce ne hai messo con quello…»

«Golem-marionetta. Mezzucci da vecchie cariatidi».

«Non dovresti dire così» contraddisse Al, annoiato «Ti ha fregato comunque, quindi sminuire la mia mossa è come sminuire te stessa».

«Odio i tuoi stronzi giochetti di parole. Scendi!»

Ma al movimento di Ed per muovere i suoi golem contro di lui, Al rispose con uno molto più rapido. Si afferrò la scarpa e se la tolse.

«Ma cosa…»

Capovolgendo la scarpa, un filo di polvere sottile e nera cadde dritto sul legno della coperta, in un istante prese vita e sorpassò una terrorizzata Jen come una biscia, infine colpì in qualche maniera – troppo rapida per distinguerla – sia Chiappa che Beccuccio scagliandoli in due direzioni diverse. Lo schianto li fece stramazzare sul pavimento di assi, immobili. La massa nera non era sabbia, dati i riflessi lucidi: doveva essere una polvere di qualche sorta di metallo, concluse Jen.

«Ma dai, Ed, sono passati anni. Pensavi non avessi inventato cose nuove?»

Si lasciò cadere giù, prese dal pavimento l’abito giallo che il burattino a sua immagine e somiglianza aveva indossato, e lo indossò a sua volta lasciando penzolare comicamente le maniche troppo lunghe. Intanto accanto a lui la massa nera formò una nuova figura allungata, ma molto diversa: non aveva una maschera visibile, e quindi – a giudicare dalla scena di prima – era privo di reali punti deboli, quantomeno esposti. La testa era sostituita da una piramide triangolare acuminata, ancor più inespressiva e spaventosa, divisa da una lunga bocca rozzamente seghettata.

«Be… bellissimo…» mormorò Ed mentre arretrava spaventata.

«Sì, non è vero? Non sai che fatica forgiarlo».

Forse perché aveva trovato il coraggio, forse spaventato da quella ulteriore apparizione inquietante,  uno dei marinai, un nano, riuscì a trovare la forza d’animo di muoversi e diresse il cannone verso la nuova apparizione mentre lo accendeva. Un braccio di quella cosa si allungò in una lama lunghissima ma sottile e trafisse il nano che aveva minacciato il suo padrone in mezzo agli occhi. Jen fissò il cannone, la cui miccia era ormai accesa e la palla ormai caricata mentre il suo cannoniere era stato privato della vita in una frazione di secondo e cadeva al suolo senza quasi un suono. Se qualcun altro tra i marinai che non erano già saltati in acqua aveva pensato di intervenire, quella rapida esecuzione gli aveva tolto ogni voglia.

«Evitate, per piacere, di farvi uccidere» chiese Al con cortesia e Jen fu colta dai brividi.

Poi il golem di polvere metallica si scagliò su una disorientata Ed, ancora incapace di formulare una contromossa.

«Come… come hai potuto fare…?»

Era sempre risultato impossibile ai nani creare delle rune che vincolassero una massa di polvere ferrosa, fine ma pesantissima. Schivò a fatica il colpo e, osservando la scura lucentezza del metallo polverizzato, dedusse quale geniale soluzione aveva seguito Al.

«Questa polvere è magnetizzata…»

«Esatto. Non è una buona idea? Una grande idea?»

«Sì, Al» ammise, tremando.

«Ho sempre voluto mostrartelo!» esclamò l’altro con un grande sorriso «Sapevo che lo avresti adorato!»

Chiappa e Beccuccio, i due golem che Ed aveva chiamato, si erano rialzati a fatica scagliandosi dai due lati contro quello di Al, ma le braccia di questo si erano allungate in grossi e spessi prismi quadrangolari e li avevano colpiti come martellate in faccia.

«Ma piantala» si lagnò Al «Che inutilità».

«Già» ammise Ed «inutile. Merdissima».

La giovane schivò un colpo di lama ulteriore e inciampò all’indietro in una sartia attorcigliata. Il golem fu subito su di lei, troppo vicino per tentare di usare una runa senza essere trafitti in un solo secondo: lo scontro si chiudeva, era in scacco.

«Scappa, sei ancora qui idiota?» disse rivolgendosi a Jen «Lui vuole solo me… vattene via!»

Ma dove Ed si era girata, Jen non c’era più. La cercò invano con lo sguardo, mentre un artiglio del golem si scomponeva e ricomponeva in un anello di metallo scuro, certamente pensato per immobilizzarla e trasportarla.

«Andiamo» sussurrò Al, con voce finalmente facile da comprendere: era colmo di felicità.

L’esplosione della cannonata fu assordante. Jen non sapeva accendere il cannone ma era stato acceso da altri per lei e lei aveva solo dovuto strisciare verso di esso, per poi spostarlo con tutto il peso del suo corpo di modo che puntasse la creatura metallica. Il risultato, però, fu diverso da quello sperato: la palla di piombo si era spiaccicata sulla testa piramidale del golem, prendendone la forma, come fosse stata una polpetta. Evidentemente, quando la polvere metallica si solidificava diventava incredibilmente resistente. La palla deformata finì pigramente a terra e il golem volse il muso appuntito verso Jen.

«No» urlò Ed, mettendosi in piedi «vuoi me! Vuoi me! Lasciala stare!»

Fece qualche passo indietro fino ad arrivare a fianco di Al.

«Va bene» concesse Al, con tono comprensivo e il golem si fermò «La lascio stare, come vuoi. Però ora basta con questi capricci».

«Capricci?» ringhiò Ed, indignata «Capricci! Li chiami ancora così!»

«Akar havo maltius vajrus volfred…» sussurrò una voce, ma Ed non capì da dove venisse.

«Ed…»

«…nuth».

Al non fece in tempo a dire qualsiasi cosa volesse dire né Jen fece in tempo a capire il senso di quella conversazione. Perché ogni cosa, ormai, era esplosa nella luce sfolgorante del tuono.

***

Bedge interruppe il flusso di elettricità che andava dal diadema sulla sua asta fino alla creatura metallica ma non vide quello che si aspettava. La creatura continuava a contorcersi e sembrava mutare costantemente forma e sputare dal suo corpo altra elettricità.

«Che… che razza di magia hai usato?»

Un fulmine saettò fuori dalla creatura e colpì un mozzo accucciato a pochi centimetri da Wiggs.

«La solita roba» si giustificò Bedge, guardandosi la mano con confusione «Ma quello… non dev’essere semplice ferro come pensavo».

Il golem produsse un altro scoppio accecante, era come se cercasse a tutti i costi di mantenersi integro senza riuscirci.

«Voglio dire… è strano come conduce l’elettricità…»

Una saetta attraversò l’aria tra i due mancandoli per puro caso.

«Non mi dire!» si lamentò Wiggs mentre entrambi cercavano con lo sguardo un posto sicuro al riparo da quella strana reazione.

«Forse dovremmo…»

Le ultime parole sfuggirono all’udito del tenente, perché un ennesimo lampo azzurro precedette l’incendiarsi dell’albero maestro. L’essere metallico continuava a contorcersi e sembrava quasi che urlasse. Il suo corpo si gonfiava e scoppiettava quasi ribollendo.

«Eccolo!» notò Wiggs, trionfante: il giovane nano che avevano visto alla taverna di Kalaston era steso, il suo corpo emanava un po’ di fumo, e sembrava tramortito.

«Al!» chiamava la giovane nana dalla pelle nerissima, segno di nobiltà, curva sopra di lui e in lacrime: «Al! Al! Ti prego svegliati! Svegliati, Alef!»

Prima che potessero decidere il da farsi, una ragazza bionda si avventò sulla nana e la prese per le spalle.

«Ed! Andiamocene via!»

Alla creatura metallica succedeva qualcosa. La sua massa si era compressa tutta in una sfera di metallo nero che fluttuava instabile, emettendo un suono simile ad un fischio. Poi esplose. Wiggs e Bedge finirono a terra, i due nani e la bionda erano stati protetti da un bizzarro golem di ferraglia che li circondava con le braccia, a sua volta sorretto dalle spalle di un altro costrutto più piccolo, coperto di stoffe chiare ora bruciacchiate e lacere. I due golem sparirono in due puntini fiammeggianti che si posarono delicatamente sulle spalle della giovane nana.

Wiggs le guardò, soddisfatto: «Bene bene, una complice. O forse no. Ci spiegherete diverse cose…»

Appena realizzato che il nano steso stava ancora respirando, la nana cambiò completamente espressione. Subito dopo qualche istante di sollievo, volse lo sguardo verso i templari, infastidita. «Voi due chi cazzo sareste?»

Bedge s’intromise: «Non potremmo parlarne in un secondo momento? La nave brucia e dall’odore credo che portasse un carico infiammabile…»

«I-infiammabile…?» balbettò Jen.

Ed disse sovrappensiero: «Ora che ci penso è possi-»

 

***

La nave, che era stata avvolta da bagliori azzurrini intermittenti per una manciata di secondi, dopo un susseguirsi di piccoli scoppi si spaccò al centro della chiglia vomitando fuoco direttamente in mare. Valiel notò che praticamente l’intero equipaggio l’aveva già abbandonata ma nessuno di quelli che poteva vedere sulle scialuppe rispondeva all’immagine dell’apprendista forgiatrice che doveva seguire, né della bionda contadina che si accompagnava alla nana.

«Ehi, voi…» chiamava invano, perché nessuno degli uomini sulle scialuppe perdeva tempo a rispondere.

«Non andate in quella direzione!» urlò uno ma poi non si fermò oltre.

Anche le chiatte si allontanavano sempre più, le scialuppe si dividevano tra chi puntava alle lontane coste ai confini del Draile e chi più realisticamente cercava di raggiungere proprio le chiatte.

«Marinaio…!» chiamò ancora un altro «Che succede a quel mercantile, laggiù?»

«Magia e sventura!» urlò quello senza girarsi «Non avvicinarti, elfo, per il tuo bene!»

«Magia? Che magia?»

Il marinaio non si voltò più.

La nave cominciava a spezzarsi e i due pezzi a sprofondare l’uno verso l’altro. La sua imbarcazione viaggiava proprio nel tratto d’acqua sotto la terra fluttuante di Zeiss e in quel ritaglio di cielo coperto non c’erano uccelli; d’altro canto, Valiel non conosceva la lingua dei pesci, come molti altri raminghi. Non poteva che basarsi sull’istinto e sulla logica ed entrambi dicevano che l’oggetto della sua ricerca era su quella nave che si stava distuggendo, per finire sotto il mare fra le rovine di Zoa. Che fare? La nave scagliò ben lontano un pezzo di sé, questo volò fino a tuffarsi in acqua vicino ad una scialuppa che si ribaltò, lasciando diversi marinai in acqua a chiedere aiuto alle altre scialuppe.

«Un disastro…»

«Puoi dirlo, ramingo». commentò un gabbiano fermandosi un istante tra le correnti vicino a lui «Quando i costrutti degli umani muoiono, piangono fiamme e veleni».

«Sai cosa succede laggiù?»

«Per nulla e anzi ti dico: stanne alla larga. Rovina a chi si avvicina troppo».

In effetti Valiel notò che persino i pescarelitti di Zeiss volavano alla larga dal vascello, così come in tutta fretta si allontanava un’ultima chiatta che era rimasta indietro.

«Può esplodere…?»

«Domande per umani, non per noi. Vola via, ramingo!» suggerì il gabbiano, allontanandosi.

Aguzzò la vista ma anche così non riuscì a distinguere la presenza di chicchessia ancora a bordo. Non poté trattenersi dal sorridere per l’amarezza: a lui non importava assolutamente niente di quella apprendista né di scoprire chi avesse attaccato la Forgia del Lago Kalst settimane prima, e men che meno del destino di quella insignificante nave commerciale di Tuinsy.  Eppure l’unico fatto veramente rilevante era che Lyes aveva detto di occuparsene e lui non poteva concepire di generare ulteriore disappunto, sconcerto o delusione in Lyes. Ecco come sarebbe morto Valadwen Yun Valiel: sarebbe morto svolgendo un incarico inutile cui era stato assegnato appositamente per tenerlo fuori dai guai, dopo tutto quello che aveva realizzato, dopo tutto quello che aveva costruito, dopo tutto quello che aveva conquistato e perso; sarebbe morto per un affare poco chiaro dei nani di cui non gli importava un accidente.

«È questo che vuoi per me, Lyes? E per te stessa? Per la nostra gente?»

Fu seriamente tentato di invertire la rotta e lasciar perdere, fu davvero vicino a quel punto di rottura che talvolta dice alla coscienza di mandare all’aria tutto e di fare quello che si è realmente, sempre, desiderato fare a scapito di quello che, all’opposto, sono le circostanze a costringerci a fare. Ma gli mancò il coraggio o forse, d’altro canto, non gli mancò: seduta sul suo trono ad Evalunith, Lyes attendeva notizie di quell’incarico. Che notizie avrebbe avuto Lyes? Avrebbe constato per l’ennesima volta quanto inaffidabile fosse Valiel, come fosse da considerare alla stregua di quegli umani che si intossicano e si rendono dipendenti da sostanze che ne alterano l’umore: incapace di rispondere alle sue stesse azioni, condannato ad umiliare sé stesso ripetendo gli stessi errori, schiavo di qualcosa che era strettamente connaturato a lui eppure non era lui. Un drogato, dicevano gli umani, anche se la sua maledizione non era una sostanza ma una persona. Certo, Lyes avrebbe pensato che la colpa era sua e solo sua, se Valiel era diventato quello che era diventato. Lyes avrebbe sofferto, l’avrebbe odiato e avrebbe odiato sé stessa. Tutto sommato, si disse, era allora meglio morire in quel modo inutile, se così doveva essere. Si diresse quindi con fermezza verso la carcassa fumante che si inabissava sempre più in fretta, scoppiettando.

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Capitolo 7
*** L'Armata Chimerica ***


 

L’ARMATA CHIMERICA

 

In uno scontro militare, la prima battaglia è  tra le menti dei generali, ciascuno cerca di comprendere a fondo l’altro e di vincerne l’intelligenza. Carpite le chiavi dell’intelletto nemico, questi è perduto. Si crea un paradosso: che sia l’intelligenza il punto debole di un esercito?

Luger Clow Camden, Riflessioni

 

Irisa diede un ultimo colpo a Fulvospirito perché accelerasse il galoppo. Il cavallo sembrò quasi non aspettare altro ed accelerò bruscamente verso la loro ultima fermata che si intravedeva con chiarezza sulla cima del promontorio: Svalir-Bae, uno dei sei villaggi costruiti lungo la catena montuosa di Sky-Enda. Sotto di lei, sotto le cime montuose che percorreva da giorni, le coste dov’era avvenuto il disastro e i villaggi a valle erano per lo più coperti da un manto bianco di nebbia che scintillava incantevole rispondendo alla luce del sole. Solo oltre era possibile vedere qualche stralcio del Mar Bianco, anch’esso era uno specchio d’argento liquido che mozzava il fiato. Sembrava che tutto il mondo di sotto fosse avvolto in una calma ed in un silenzio che lo rendevano una unica, infinita massa di bellezza e serenità priva d’eventi. Ma era vero il contrario.

«Vai, bello, vai!»

Fulvospirito, come ogni cavallo del regno delle amazzoni, era cresciuto con lei, conosceva intimamente la forma del corpo di Irisa adagiato al suo e ogni tono, gesto, addirittura pensiero che esprimeva attraverso di esso. E adesso, sebbene non potesse comprenderne il motivo, coglieva l’angoscia di lei. Si fermò solo quando la palizzata che costituiva il cancello di Svalir-Bae si chiuse dietro di loro, circondata da una piccola platea.

«Gente del Rah» annunciò Irisa a voce alta, smontando da cavallo «la mia signora la Regina Aryl, Padrona di Runeh, Sovrana del Nadorhai, Sommo Comandante delle Amazzoni, vi porge i saluti».

Per quanto fosse risultato evidente dal primo istante che si trattava di una amazzone giunta dal Nadorhai, il suo aspetto lasciò molti montanari, specialmente maschi, a bocca aperta. La sua figura snella e atletica era chiusa in una uniforme di robusta pelle color nocciola, che si chiudeva con un girocollo di pelliccia chiara. La grossa spada lunga, curva e sottile, così come l’elmo dalle grandi corna e le bardature a stecche, erano di un minerale lucido: la rossa ceramica di Rikila che si diceva fosse leggera come carta eppure robusta abbastanza da farne un’arma. Era nel complesso un’apparizione esotica, elegante e potente per loro. Ma non ci misero molto a cambiare radicalmente opinione: appena Irisa tolse l’elmo il suo viso scuro da ragazzina, gli occhi vagamente a mandorla colmi d’inesperienza e incerti sotto i chiari capelli con la coda arruffata, molti sorrisero scettici.

«Salute, guerriera del Nadorhai» esordì un uomo imponente e barbuto dal piccolo gruppo che la accoglieva, in tutta evidenza un capo villaggio o qualcosa di simile «dunque la Regina Aryl ha risposto alla chiamata del nostro re?»

Irisa assentì col capo e aggiunse: «La Quinta Cavalleggeri delle Amazzoni è stata distaccata per intero. Precedo la mia comandante di appena tre giorni».

Tuttavia, pensò Irisa, nei volti non c’era tanto sollievo quanto si aspettava di vederne. In effetti nessuno sembrò particolarmente felice o tranquillizzato, nemmeno l’uomo che si era rivolto a lei per primo.

«C’è qualcosa che dovrei sapere, signor…?»

«Folar» si presentò «sono il capo villaggio… cioè lo sono finché mio zio… il precedente capo non tornerà».

Irisa aggrottò la fronte: «Tornerà… da dove?»

L’assembramento iniziò rapidamente a disperdersi. Evidentemente molti di loro avevano già sentito la storia innumerevoli volte e non pensavano che Irisa avesse nient’altro di rilevante da dire loro. Seguì il taciturno Folar fino a che non si sedettero su una roccia da cui si vedeva buona parte della vallata, erano solo loro due e pochi altri, evidentemente amici fidati del montanaro. La fissò negli occhi.

«Insomma, mi risponda».

«Re Olster ha radunato tutti i vecchi clan di guerrieri di Sky-Enda, Graent-Halli e Fjaran-Marmar. Parliamo di decine e decine di clan che hanno discendenze… bè, centenarie… risalenti a quando i nostri antenati barbari giunsero qui e sfidarono gli elfi per colonizzare le Lande di Rah. È una chiamata a cui chiunque abbia onore e rispetti le nostre tradizioni non può sottrarsi».

«E vostro zio, che avrebbe dovuto accogliere qui a Svalir-Bae la Comandante della Quinta Cavalleggeri in persona, ha imbracciato una spada che a stento saprà ancora reggere ed ha lasciato il villaggio in mano a nessuno?» il tono di Irisa si fece severo: le amazzoni erano pragmatiche e queste abitudini rituali le consideravano pressappoco come la Chiesa della Dea, tollerabili o forse condivisibili ma comunque fastidiose e in definitiva inutili.

«Zio Rudreg non può ignorare una chiamata agli antichi clan…» insistette Folar, abbassando la testa per la contrizione.

«Va bene, capisco. In ogni caso non temete per il vostro vecchio zio, anche noi dobbiamo congiungerci alle forze alleate di Re Olster fra pochi giorni. Appena lo troverò, farò il possibile per farlo tornare al villaggio».

Folar sgranò gli occhi, significando che Irisa non aveva capito qualcosa di essenziale. Si guardò intorno, aspettando che fossero rimasti in pochi intorno a loro.

«Mi scusi, sto girando intorno al problema. Lo zio non tornerà, signora. Prima ho detto a quel modo per non allarmare le donne e i bambini. Nessuno dei nostri tornerà a Sky-Enda».

«Non dite così. Le forze alleate…»

«Signora, le forze alleate… non esistono più. Sono svanite tre giorni fa».

«Svaniti? Vuole dire che sono caduti in battaglia?»

Sembrò quasi che il montanaro la compatisse: «Svaniti vuol dire proprio… svaniti. Sono scomparsi, da un giorno all’altro. Per l’esattezza il giorno dopo il loro schieramento su Fjaran-Marmar. Se ci fosse stata una battaglia la nebbia non ce l’avrebbe fatta vedere, specie da questa distanza, ma ne avremmo comunque avuto notizia. Invece non abbiamo ricevuto notizie di alcun genere».

«Mi faccia capire» chiese Irisa con una punta di nervosismo «fra tre giorni la Quinta Cavalleggeri del Nadorhai arriverà qui per confluire nel vostro esercito. Un esercito che non esiste».

«Che non esiste più» corresse lui.

«E come è possibile tutto questo?»

«Speravamo che potesse dircelo lei…»

***

Passarono due giorni. Irisa alloggiò in una piccola locanda con appena due stanze di legno inumidito dalle nevicate invernali. Pensò e ripensò a quello che sapeva dei chimerici, a quello che ciascuna amazzone sapeva: dove veniva il Chimaer, solitamente veniva anche l’armata di creature. Erano loro a richiamare il Chimaer o piuttosto erano essi stessi partoriti da esso laddove si manifestava? Le ipotesi erano innumerevoli; il loro numero, le loro tattiche e la loro forza erano sempre differenti, volta per volta, andavano osservati sul campo – molti eserciti del passato, inorgogliti dalle prime facili vittorie, erano caduti al secondo o terzo scontro senza riuscire a spiegarsi come e perché; il Chimaer si allargava e quando lo faceva la terra diveniva inabitabile, a quel punto combattere l’orda di chimerici per riconquistare terreno non aveva senso, tanto valeva ritirarsi e difendere i territori ancora liberi dallaq nefasta influenza del Chimaer, si trattava in sostanza di formare un cordone di contenimento; infine, nessuno sapeva esattamente spiegare che aspetto avessero o di che natura fossero gli strani esseri; alcuni raccontavano di averne trucidati a decine mentre questi rimanevano immobili e impassibili a contemplare il nulla, anche se queste storie si consideravano vaneggiamenti.

«Non so praticamente niente» ammise infine con nervosismo all’ennesima richiesta di Folar.

«Ma… non siete voi forse una amazzone? Non venite educati per combattere i chimerici?»

Irisa scosse la testa, infastidita.

«Le amazzoni sono la forza d’elite del Nadorhai».

«Elite?»

«Ci sono insegnate cose che gli uomini apprendono con più difficoltà e lentezza, tra cui le arti della guerra che richiedono un certo rapporto con gli animali, le arti marziali armoniche basate sulla danza, lo studio approfondito della guerra psicologica e della storia della strategia…»

«Pensavo che i chimerici fossero vostra competenza» mormorò Folar con malcelato disappunto.

«Non mi fraintenda. Siamo il meglio che il regno può offrire, ecco perché la Regina ci affida gli incarichi più duri… inclusi quelli che hanno a che fare con il Chimaer».

«Dunque dovete conoscere il Chimaer!» insistette l’uomo.

«Non è così semplice. Ci viene insegnato a rendere la nostra mente flessibile, le strategie adattabili, l’osservazione pronta e acuta. Una armata di chimerici non va nominata, cioè etichettata, ma studiata sul campo: si presenta con infiniti aspetti e comportamenti, stabilire quali strategie usare nell’infinito repertorio dei nostri generali e quando usarle è la chiave per avere successo. Mi ha capito?»

«No» tagliò corto Folar.

L’ultima sera notò che ormai i montanari la guardavano con occhi diversi: erano sfiduciati e spaventati, convinti che fondamentalmente il suo arrivo non avrebbe cambiato nulla, che non poteva liberarli dalla paura del Chimaer, che era poi la paura dell’ignoto. Non per nulla, pensò, si diceva che le nella vita di una amazzone la battaglia con i chimerici rappresentava un punto di passaggio unico nel suo genere. Imparare centinaia e centinaia di schemi e tattiche e arti marziali, poi liberare la mente da tutti, poi riprendere solo quello che serve: il suo generale ci sarebbe riuscito?

«Certo che sì» disse a sé stessa prima di addormentarsi, perché la sua fiducia nel suo generale era assoluta.

All’alba del terzo giorno, Svalir-Bae fu occupata dalla Quinta Cavalleggeri dell’esercito amazzone proveniente dal Nadorhai. Alla sua guida c’era una donna con una uniforme simile a quella di Irisa, con due enormi corna d’ariete di ceramica rossa ornate di tintinnanti cerchi d’oro zecchino. La differenza d’abbigliamento suggeriva immediatamente una differenza di gerarchia, sebbene la comandante trattasse Irisa come sua pari. Del resto, l’esercito amazzone preferiva al concetto di gerarchia quello della suddivisione di compiti e responsabilità. Come Irisa , anche la comandante – Ariadne – si tolse l’elmo per salutare il capo villaggio Folar, rivelando lunghi capelli chiari e un viso regolare ma dall’espressione severa eloquentemente segnato da una brutta cicatrice obliqua. A differenza di Irisa  la Comandante Ariadne fu subito accolta come un veterano degno di rispetto, sebbene fosse ancor più esile e minuta della sua sottoposta – fatto questo che non stupiva nessuno, perché la forza militare del Nadorhai si basava sulla disciplina, la grazia e la flessibilità, non su forza e resistenza. Ariadne si consultò a lungo con alcune sue compagne e poi chiese più volte a Folar un resoconto degli avvenimenti di quegli ultimi giorni, o meglio dell’assenza di avvenimenti, poi ringraziò il capo villaggio e tutti i suoi compaesani per l’ospitalità, annunciando la smobilitazione della Quinta Cavalleggeri nel corso della mattinata seguente. Quando in cielo apparve l’aurora boreale, Irisa fu svegliata e montò in sella a Fulvospirito per cavalcare a fianco di Sirescuro, il possente stallone di Ariadne.

«Cosa faremo, Ariad- voglio dire, Comandante?» chiese Irisa dopo qualche ora di trotto sotto il cielo multicolore.

«Non lo so ancora. Dovremo recarci sul Fjaran-Marmar e vedere da noi».

«Ma quale forza potrebbe spazzare via una forza simile in pochi giorni senza lasciar traccia?»

«Sai bene che non ci sono certezze nelle terre infestate dal Chimaer».

«Sì» sospirò Irisa «lo so. Ma anche se le forze del Rah fossero state sconfitte, avrebbero dovuto lasciare qualche traccia… un messaggio… almeno qualche sopravvissuto… insomma… sono spariti!»

Ariadne si volse tristemente in basso: «Non conosci i chimerici. Ma lo capirai presto».

«Tu invece? Tu conosci i chimerici?»

«No. Ma ho sentito storie di alcune guerriere andate e venute dall’Oceano Orientale dove la Bocca del Chimaer minaccia le coste del Mohtam e del Nadorhai. E ho sentito di eventi molto più inquietanti di questo».

Irisa strinse i pugni e fece un gesto d’esortazione: «Meglio così! Devo essere pronta anche io a combattere… la Bocca del Chimaer che minaccia le nostre terre non sarà molto diversa da questa… immagino».

Ariadne rise nervosamente: «Chi può dirlo? Si dice che non esistano due Bocche uguali».

Irisa sbuffò: «Queste conversazioni finiscono sempre allo stesso modo».

«È vero».

Il Nadorhai e il vicino regno di Mohtam erano sotto costante minaccia della Bocca del Chimaer dell’Oceano Orientale, che si era aperto tra il “Grande Astro”, il continente chiamato Astermagna in cui i due regni erano situati e le “Sabbie Cieche”, o Nerimkora. Entrambi i continenti, e tutti coloro che ci vivevano, sentivano quella minaccia costantemente sulle loro teste; eppure ogni domanda sul Chimaer riceveva da sempre quello stesso tipo di risposta sconsolata e vaga, come se una legge non scritta avesse imposto a tutti coloro che ne avevano esperienza diretta di rispondere allo stesso modo. Non serviva insistere, né mostrarsi spaventati, men che meno mostrarsi spavaldi: nessuno si sentiva di dare risposte più chiare e a nessuno capitava di riceverle, in tutta l’Astermagna, in tutta la Nerimkora. Niente di strano.

Dopo un’altra ora di silenzio, Ariadne parlò nuovamente: «Avremo degli alleati comunque».

«Alleati? Ma se le truppe regolari del Rah sono annientate…»

«Infatti non appartengono alle Lande… sono mercenari» illustrò Ariadne con tono di disapprovazione e aggiunse con tono severo «non creare problemi quando li vedrai».

***

Quando Irisa li trovò ammassati lungo la vallata non trattenne un’espressione di disgusto. Non avevano una formazione chiara né minimamente ordinata, certamente non avevano nemmeno uniformi ed anzi portavano masse di pelli, pellicce, zanne, ossa, teschi e monili di pietre colorate indossate da ciascuno in diverso modo, neppure portavano armi ben identificabili dato che era impossibile distinguere se questa o quella forma intagliata nella selce fosse spada o mazza, scudo o ascia, pugnale o falcetto. Si muovevano scompostamente e si impegnavano nelle più triviali attività: qualcuno sghignazzava con dei compagni, qualcuno mangiava con la grazia di una bestia, qualcuno faceva a botte con il commilitone più vicino.

«Orchi!?!» si sbalordì Irisa guardando Ariadne.

La Comandante Ariadne cercò di trattenere il disgusto, ma ora che li vedeva da vicino anche lei non poteva dissimulare totalmente le sue reazioni: «Truppe mercenarie… come ho detto».

«Orchi mercenari» sottolineò l’altra, innervosita.

Originari della Nerimkora, gli orchi erano un popolo di orgogliosi guerrieri per vocazione tanto quanto per necessità: passavano la maggior parte delle loro vite nomadi a combattere marchingegni del Mondo Antico che vagavano senza posa tra le dune del loro continente desertico. Ma da quando erano salpati per conoscere altre terre ed erano approdati nel Nadorhai, gli attriti con il regno delle amazzoni erano stati innumerevoli e anche la pace, raggiunta dieci anni prima con coraggio e fatica di entrambe le parti, traballava. Non poteva essere diversamente: nel credo orchesco, ogni forma di legge o regola era una forma di vigliaccheria e lo scopo vero della “civiltà” era far apparire forti i deboli che non vivono i propri istinti. All’opposto, Irisa era cresciuta secondo i Comandamenti di Runeh, le leggi più importanti che i nadoriani ponevano persino al di sopra della Chiesa della Dea. Cresciuta nel dovere e nella servitù, come ogni cittadina o cittadino del Nadorhai, era stata studiata fin da piccola per ricevere a quattordici anni il compito che si confaceva alla sua indole e, sempre come ogni altra nadoriana, il senso della sua vita stava nel perfezionarsi sempre più nel suo compito, non nel liberarsi da esso. Poiché nella cultura marziale del Nadorhai era il desiderio a fondare l’infelicità, reprimere il desiderio e concentrarsi sul dovere portava l’ordine e la pace. Erano due culture che si negavano reciprocamente e ciascuna era obbligata a vedere l’esistenza dell’altra come una minaccia.

«Dobbiamo combattere… con gli orchi?»

«Dobbiamo e lo faremo, per richiesta del sovrano del Rah. È impensabile contravvenire ad una richiesta di Re Olster nelle sue stesse terre, bada. Se può confortarti, non credo che a loro spiaccia meno che a noi».

«Non vedo come una cosa simile potrebbe confortare chicchessia ».

Irisa dovette mordersi la lingua: un primo gruppetto di orchi veniva già verso di loro. Erano tanto alti in piedi da superare quasi i loro cavalli, ma le zanne sporgenti e storte e le narici larghe e deformi toglievano ogni sorta di solennità a quelle figure possenti e atletiche.

«Ciao, ragazze dei cavalli» grugnì un orco con il volto coperto da un mascherone «anche voi siete qui per rendere la vita

Nessuno si scompose: era notoriamente il modo degli orchi per chiedere se si andava in cerca di battaglie.

«Salute, voi del Quarto Popolo» rispose Ariadne annuendo.

Gli orchi grugnirono soddisfatti: quell’appellativo era un grande riconoscimento per loro, che avevano faticato molto per entrare nel Trattato dei Popoli stipulato quasi un secolo addietro.

«Marceremo insieme, dunque» ridacchiò un altro orco ancora.

Irisa capì subito che non c’era gerarchia in quella marmaglia armata, quindi ciascuno parlava quando meglio credeva. Con un breve passaparola l’assembramento apprese quella decisione – o era più corretto dire che la decisione veniva presa collettivamente, nel momento stesso in cui si diffondeva? Irisa non sapeva distinguere con certezza le due cose – e si mise in movimento, animato da molta più curiosità che diffidenza al pensiero di combattere a fianco delle “ragazze dei cavalli” che tante volte i loro padri e alcuni dei più anziani avevano affrontato in battaglia nelle praterie del Nadorhai.

«Questa situazione mi disgusta» puntualizzò Irisa dopo mezz’ora di marcia.

Le file ordinate della Quinta Cavalleggeri, che marciavano tutte alla stessa velocità cercando di mantenersi parallele mentre discendevano la pineta, erano ora frammiste a bande scoordinate, schiamazzanti e spesso incomprensibilmente gioiose, come se quegli orchi fossero ansiosi di sperimentare la loro probabile morte imminente contro la minaccia più angosciante del mondo conosciuto.

«Sopporta in silenzio» ordinò Ariadne «tieni presente che probabilmente questa che vedi è tutta la forza militare rimasta alle Lande di Rah».

«Altre parole di conforto».

«A proposito di questo… in caso non ce la facessimo, occorre che un gruppo di sei che sceglierai tu tornino indietro».

«Come…?»

«Hai capito perfettamente. Non possiamo rischiare che chiunque combatta dopo di noi sia senza alcuna informazione come lo siamo noi ora».

«Informazioni, eh?» s’intromise un orco basso e curvo che stava alla destra di Irisa, quello col mascherone di terracotta rossa ornato da un ventaglio di piume multicolori; avanzava zoppicando e appoggiandosi ad un bastone spesso dove erano graffiate innumerevoli tacche, forse significanti il numero di nemici uccisi. Sulla schiena portava un enorme lama curva di legno che gli orchi chiamavano boomerang e che si diceva tornasse sempre in mano a chi l’aveva lanciata, se era abile abbastanza.

«Ci trovi qualcosa di divertente, orco?» si stizzì Irisa notando che il suo volto mascherato sussultava come quando si ride sotto i baffi.

«Voi e il vostro modo di andare in guerra! Le vostre tattiche macchinose e contorte si schianteranno contro i mostri del Chimaer come vento contro le montagne. Vedrete presto cosa può fare la vera forza, dove può spingere il vero coraggio».

«Credi?» ribatté la ragazza prima che Ariadne potesse intromettersi «Allora vedremo alla fine della settimana chi sarà ancora vivo».

Un altro orco si aggiunse alla conversazione: «Oh, lo vedremo di certo, ragazza dei cavalli. Ma sappi che abbiamo un vantaggio: non speriamo  affatto di essere vivi alla fine della settimana».

***

Calò la sera e dopo una giornata di marcia era sempre più difficile mantenere le file ordinate e parallele di cavalieri tra i fitti pini, persino gli orchi che si muovevano come un branco di animali della foresta avevano difficoltà. Inoltre erano ormai nel versante settentrionale del Graent-Halli, esposto ai venti gelidi del Mar Bianco, così che la temperatura pareva scendere ad ogni passo. Ma la cosa più inquietante era che da diverse ore molti si erano convinti, sebbene non passassero mai dallo stesso punto, che in qualche modo stessero ugualmente girando in tondo. In effetti, dietro i pini illuminati da un pallido sole, c’erano solo altri pini, illuminati allo stesso modo, altri stretti sentieri, altro sottobosco umido. Come se il mondo fosse diventato una unica sconfinata pineta.

«Cos’è quello?» chiese un orco indicando qualcosa di bianco che si muoveva tra gli alberi.

Irisa e Ariadne fermarono la loro fila e, com’erano addestrate a fare, tutte le altre capofila fecero lo stesso. La macchia guizzò da un albero all’altro, come indecisa se mostrarsi del tutto, poi prese a correre senza incertezze verso di loro. Era una volpe dal pelame candido e dalla immensa coda, che si fermò solo quando fu esattamente innanzi alla punta del gruppo. Col muso allungato ma espressivo, troppo per un semplice animale, sembrò scambiarsi un cenno con la comandante, che smontò da cavallo.

«Sono Ariadne Anistos, comandante della Quinta Cavalleggeri dell’Esercito Amazzone al servizio di sua Maestà la Regina Aryl del Nadorhai».

La volpe sembrò accogliere quella presentazione con una specie di sorriso, prima di compiere un movimento rapido e inaspettato con la coda. In un attimo, era stata sostituita da un elfo vestito di pelliccia bianca, dai colori talmente candidi da sembrare quasi albino. Sugli occhi glauchi inforcò un paio di piccoli occhiali, prima di profondersi in un vistoso inchino.

«Salute a voi, Ariadne Anistos. Sono Vonselas Sul Seix, arcidruido al servizio di Re Hion, Sovrano di Vonselas e di tutti gli elfi della neve».

Dopo un attimo di indecisione, sembrò accorgersi degli orchi. Li squadrò tutti con calma prima di concentrarsi su quello che indossava il mascherone.

«Voi comandate questi guerrieri del Quarto Popolo, signore?»

L’orco gli venne incontro claudicante e poi gli tese la mano che non reggeva il bastone inciso. Irisa notò per un attimo che la mano tesa non era rugosa o callosa come quella di altri orchi e la cosa la insospettì.

«Nessuno comanda chi decide per sé e gli orchi decidono per sé. Ma sono comunque il più anziano in questa tribù. Abrai Kub-Rul. Lieto di conoscervi, elfo della neve».

La mano delicata dell’arcidruido strinse quella grande e forte di Abrai.

«Vonselas?» si chiese Irisa a bassa voce.

«La conosci?» fece una sua compagna.

«Come si potrebbe non conoscerla? In Astermagna sono rimaste solo quattro grandi città elfiche…»

Ma, per quanto ricordava, era ben distante dalla strada che avevano in mente di percorrere da Svalir-Bae al Fjaran-Marmar.

«Siamo vicini a Vonselas… ci siamo persi, dunque?» osservò Ariadne

L’arcidruido Seix stirò un sorriso: «Non siete i primi. Le pinete del Graent-Halli sembrano a volte voler smarrire i pellegrini di proposito. Accetterete, credo, l’ospitalità degli elfi della neve?»

L’anziano Abrai si grattò la nuca e si diresse verso altri orchi. Non essendoci un vero capo, dovevano decidere il da farsi. Ariadne chiamò a sé le capofila con un cenno, spiegando che mancavano evidentemente diversi giorni di marcia per Fjaran-Marmar. Irisa non smise di fissare l’elfo, cortese nelle parole e nei modi, ma freddo nello sguardo. Quando tornò volpe, lo seguirono per ore tra i pini e Irisa ebbe la netta sensazione che, qualsiasi strada stesse facendo, nessuno avrebbe mai potuto trovare la stessa strada se non in quel modo.

«Un’illusione? Una magia…» ipotizzò Irisa mentre seguivano la volpe.

«Credo di sì» soppesò la comandante.

Si diceva che gli elfi della neve fossero tanto ospitali e cortesi quanto determinati a controllare rigidamente i propri ospiti, ora riusciva a comprendere meglio il senso di quella diceria: se gli elfi della neve non avessero deciso di accoglierli, avrebbero vagato nella pineta per giorni, forse sarebbero semplicemente morti di fame e freddo in quei boschi.

«Non rilassiamoci troppo» sussurrò Ariadne.

Il sole era ormai scomparso dal cielo, lasciandovi solo i residui della sua luce, quando finalmente la pineta si aprì e si ritrovarono in campo aperto. Certo, non poteva esattamente definirsi un campo: era piuttosto una sconfinata lastra di ghiaccio, evidentemente una baia che racchiudeva una porzione di mare gelato. A riconferma di ciò, la punta di una gigantesca nave metallica, di quelle risalenti al Mondo Antico, si affacciava obliqua dal ghiaccio come se avesse cercato di salvarsi dalle acque.

«Comandante, è quantomeno strano. Chi è questo elfo? Perché ci fidiamo di lui? E come può, come possiamo pensare di far passare un contingente armato a piedi sul ghiaccio?»

Alle parole di una delle più giovani, Irisa stava quasi per scattare a difendere Ariadne ma si trattenne.

«Mi fido di lui perché so dove ci porta» affermò Ariadne senza indecisioni «quel vascello in rovina, quello del Mondo Antico… marca l’entrata a Vonselas, di questo sono certa… è segnato nelle mappe. Eravamo evidentemente fuori dal sentiero prestabilito e di parecchio».

«Ma come possiamo aver fatto un errore del genere?» chiese la giovane amazzone senza perdere di vista l’elfo in forma di volpe che gironzolava sul ghiaccio come cercasse qualcosa.

«Nessun errore» spiegò Abrai intento, pareva, a grattarsi la schiena con vari frammenti conficcati nel bastone «è un sortilegio degli elfi della neve. Quando temono per la loro città, fanno in modo che chi entra nelle pinete del Graent-Halli si smarrisca».

«È logica circolare» obiettò Irisa «dite che gli elfi ci avrebbero stregato perché abbiamo invaso le loro terre ma è proprio il loro sortilegio che ci ha portati nelle loro terre».

«Forse è il loro modo per convocarci» suppose l’orco.

«Ho studiato a fondo la civiltà elfica e non ho mai sentito di questa usanza. Gli elfi ci hanno fatto un grave sgarbo, di proposito».

«Non lo avete sentito, questo è certo» concesse Abrai «ma questo perché i vostri testi riportano solo tutto ciò che è provato e certo. Ma esistono le dicerie, le leggende, le fiabe, i miti. E spesso aiutano a comprendere più dei dati e dei documenti».

«Certo amate molto far filosofia, per essere un orco».

Prima che Abrai potesse rispondere, l’arcidruido Seix era già tornato da loro, stavolta in forma di elfo.

«Potete attraversare adesso. Il ghiaccio vi reggerà tutti, purché teniate le file serrate».

In effetti ad Irisa parve che l’aspetto della calotta fosse cambiato leggermente, ma non sapeva mettere a fuoco in cosa. Ad ogni modo, attraversarono senza problemi, il ghiaccio sotto i loro piedi solido come pietra.

***

Uscendo dal caseggiato dal tetto appuntito, ma con tutti i tratti dell’architettura elfica – contorni morbidi, decori floreali, pietra chiara – la sensazione di fastidio agli occhi si acuì sensibilmente. Irisa riusciva a stento a tenere aperti gli occhi e capì subito il perché: ad eccezione delle calde luci delle vetrate, tutta la città elfica di Vonselas era avvolta in un innaturale bagliore azzurrino che ora, sotto il cielo notturno, risaltava in maniera quasi impressionante. Eppure era una città molto viva: fino al tramonto gli elfi avevano occupato le strade come in qualsiasi capitale umana, c’erano comitive che chiacchieravano, bambini che giocavano e mercanti che esponevano la merce; a parte i loro modi eccessivamente pacati, gli elfi della neve sembravano del tutto simili agli umani nelle città del Nadorhai. Solo quel persistente azzurro era in qualche maniera alienante, eppure nessuno di loro sembrava esserne disturbato.

«Strano, vero?»

Irisa sobbalzò e quasi mise mano all’arma prima di riconoscere dietro di sé l’orco anziano, Abrai.

«Siete voi, Abrai Kub-Rul. Cosa sarebbe strano?»

«Come sarebbe a dire, cosa? Questo luogo è strano».

Indicò col bastone uno dei molti, maestosi alberi che si innalzavano dalla membrana di ghiaccio su cui era edificata la città.

«Provate, ad esempio, ad avvicinarvi a quello».

Irisa accolse il suggerimento e rimase immediatamente a bocca aperta: l’albero non era realmente un albero, ma ghiaccio che sembrava cristallizzato spontaneamente in una forma quasi identica ad una grossa quercia dal tronco scuro e dai rami spogli e contorti, eppure vagamente illuminato da quella iridescenza azzurra.

«Questo è… ghiaccio! Ghiaccio in questa forma. Mi… mi domandavo perché ci fossero degli alberi così diversi dagli aghifogli del Rah… ma questo è… sbalorditivo».

«Già, sbalorditivo, vero? Immagino che anche voi siate infastidita da questa luce azzurra. Ora capite che questo luogo non segue le ordinarie leggi della natura. In un certo senso, la città stessa è una manifestazione di magia elfica. Del resto, come potrebbe una città reggersi su di un lago ghiacciato?»

Irisa toccò il ghiaccio con mano, ancora incredula. In tutta la città c’erano altre formazioni simili a cespugli fioriti, piante grasse, frutti tondeggianti: era tutto scolpito nel ghiaccio, tutto attraversato dalle sfumature più fredde dell’arcobaleno. Era puro potere, manifestato in quella forma sotto gli occhi di ogni cittadino di Vonselas, ogni giorno.

«Non avrei immaginato mai di vedere un luogo del genere in tutta la mia vita… è così… diverso da tutto ciò a cui sono abituata».

«Questo significa diventare più saggi: conoscere il diverso».

«Parlate in modo davvero strano, per un orco».

Gli sembrò di percepire che sogghignava sotto la maschera: «Non mi avete prestato attenzione, mi pare».

Non fece in tempo a finire la frase che entrambi furono distratti da qualcos’altro. La Comandante Ariadne e l’arcidruido Seix venivano verso di loro con passo deciso seguendo la strada principale tra le case appuntite.

«Qualcosa non va, ragazza dei cavalli?» chiese Abrai.

Ariadne non spiccicò parola, fu Seix a parlare: «Il Re di Vonselas vi chiede udienza, orco anziano».

«Non posso parlare e decidere per la mia tribù. Essa non ha nessun capo sopra di sé».

«Ma a noi occorre un rappresentante con cui parlare».

«Posso… cercare di accontentarvi. Ma dovrò parlarne col resto della tribù».

Irisa guardò la sua Comandante cercando di capire cosa stava accadendo, ma non vi lesse nulla.

«E sia, orco anziano. Vi aspetteremo nella piazza principale».

Andando di fretta, l’andatura zoppicante di Abrai era ancora più evidente.

«Sono convocata anche io. Ci è permesso portare con noi un guardiano» disse improvvisamente Ariadne «e vorrei che venissi tu con me, Irisa».

«Perché?» chiese la ragazza, sempre più disorientata.

«Vieni e basta».

***

Dopotutto, nel continente erano rimasti solo quattro assembramenti stabili di elfi e quindi solo quattro Sovrani Elfici. Era normale, pensava Irisa, essere intimorita al cospetto di una delle persone più influenti del continente. Ma la realtà superò ogni aspettativa. Da fuori, il cancello della dimora di Re Hion sembrava un edificio come tanti altri, che si aprì al minimo cenno di una mano di Seix (Irisa sospettò che non si sarebbe aperto in nessuna altra maniera) incassato nella fiancata di una montagna. Avevano percorso un largo corridoio di legno intarsiato per diversi metri, fino a entrare in una ampia sala ovale.

«Maestà» salutò semplicemente Seix inginocchiandosi.

Il ghiaccio intorno a loro non era vuoto. Intrappolati nel bianco Irisa poteva vedere un bel numero – ad occhio nudo ne poteva già distinguere mezza dozzina – di creature immense risalenti ad un’altra era. Erano rettili giganteschi dalle forme molto diverse tra loro, ma tutti possenti e feroci, perfettamente conservati come in una teca di cristallo.

«Ma cosa…»

Non concluse la frase, vedendo che Ariadne si inginocchiava pensò piuttosto ad imitarla subito. Con sua sorpresa, nemmeno Abrai si astenne dal chinare la testa, subito seguito dalla sua guardia, un giovane orco impostato con un’ascia bipenne sulle spalle.

«Maestà, ecco i visitatori».

Il minuto corpo di Hion, avvolto in una morbida pelliccia nera, riposava a gambe incrociate al centro di una struttura formata da una bolla vitrea, un trono trasparente per quel piccolo sovrano. Sul suo volto di elfo bambino c’era un’espressione serena e quasi sognante.

«Salute, guerriere amazzoni. Salute, gente del quarto popolo».

Non appena aprì gli occhi, incredibilmente, anche gli esseri preistorici nel ghiaccio fecero lo stesso, sgranarono i loro occhi inumani fissando tutti loro. A Irisa sembrò che l’intera sala ghiacciata avesse emesso un respiro che le era arrivato come una vibrazione, fino alle ossa. Ogni cosa, a Vonselas, era creata dalla magia; quella sala era il cuore di quella magia, il nucleo da cui si emanava, ad Irisa sembrò che le rizzasse i capelli in testa.

«Salute a voi, maestà» ribatterono Ariadne e Abrai sostanzialmente in coro.

Irisa si sentì tremare, impressionata da quel ragazzino dall’immenso potere. Poteva sentire in lui il malessere che ogni sovrano elfico era costretto a provare se la sua terra soffriva, come stavano certamente soffrendo le terre che circondavano Vonselas; percepiva il dolore e l’angoscia fremere sotto la pelle del Re, eppure la sua espressione ed il suo tono non lasciavano trasparire nulla nonostante in qualche modo quel dolore ora fosse entrato dentro tutti loro.

«Ci inchiniamo umilmente al vostro cospetto, maestà. A nome della Regina Aryl vi porto i saluti del Regno del Nadorhai e, personalmente, vi esprimo tutta la nostra gratitudine per l’ospitalità dimostrata».

Hion sorrise: «Grazie, Comandante Ariadne. Vi chiederete perché vi ho convocato qui».

L’idea di Abrai, che gli elfi li avessero sostanzialmente costretti con la magia a deviare verso la loro città, trovò conferma in quelle parole.

«Immagino sia per darci un messaggio» esordì Abrai «so che, per la sua posizione, la Bocca del Chimaer vi ha impedito la maggior parte delle comunicazioni con il Rah».

Hion annuì con la testa: «Esattamente, orco anziano. Saprete che Re Olster ha mobilitato alcuni clan guerrieri delle sue terre e un vero e proprio esercito dei suoi lupi guardiani per difendere Fjaran-Marmar. E saprete che questo dispiego di forze è sparito nel nulla».

Seguì un breve silenzio: nessuno aveva bisogno di confermare quelle parole.

«Vi posso dire con assoluta certezza cosa ha inghiottito quell’esercito. Si è trattato di uno spasmo della Bocca del Chimaer».

«Uno… spasmo? Che significa?»

Ariadne sembrò voler incenerire Irisa con lo sguardo per aver parlato quando non doveva, ma non ne ebbe il tempo. Re Hion, per nulla infastidito dall’intrusione, si spiegò immediatamente.

«L’influenza del Chimaer non ha un raggio stabile. A volte si espande all’improvviso e in quei casi corrompe qualcosa nel suo raggio d’azione. A volte corrompe solo gli oggetti inanimati, altre volte solo gli esseri senzienti, altre volte ancora solo certe categorie di oggetti. Come certamente saprete, non ci sono criteri precisi. Chiamiamo queste vibrazioni improvvise spasmi della Bocca del Chimaer».

«Quindi state dicendo…»

«…che uno spasmo della Bocca del Chimaer ha inghiottito e corrotto le forze mobilitate sulla spiaggia» concluse Hion completando la frase di Ariadne.

«Ebbene, qual è il messaggio da recapitare?» tagliò corto Abrai.

«È molto semplice. Noi chiediamo formalmente a Re Olster e a chiunque altro voglia sostenerlo di non inviare altri soldati nel Fjaran-Marmar».

Pur semicoperta dall’elmo rosso, l’espressione sgomenta di Ariadne si distingueva benissimo.

«Non… non direte sul serio».

«Io comprendo il modo di pensare dei Re umani. Se non si inviassero eserciti nei pressi della Bocca del Chimaer, il vostro popolo penserebbe che non siete in grado di occuparvi del problema. Sarebbe il panico, il terrore, la follia forse. Ma inviare dei soldati, laddove non possono fare altro che morire per cotali ragioni, è quasi un sacrificio umano. La mia gente non lo gradisce, né io intendo permetterlo d’ora in poi».

«Maestà» obiettò Ariadne dopo qualche minuto di un silenzio di ghiaccio, dove Irisa non aveva neanche la forza per parlare «il nostro compito è combattere le creature che la Bocca del Chimaer partorisce sulle nostre terre. Se nessuno se ne occupasse…»

«Se e quando l’orda arrivasse alle nostre porte, avrebbe senso combatterla. Prima di allora, avvicinare degli uomini ad una Bocca del Chimaer non produce alcun risultato utile. Nel caso in questione le armate non sono semplicemente state trucidate, ma invece sono state corrotte dall’influsso del Chimaer. Sono chimerici adesso… parte dell’orda che dite di voler combattere. È stato peggio che lasciarli a difendere le loro case, non trova?»

«È questo il messaggio, allora» fece l’orco, stranamente ben poco turbato dalle parole del sovrano elfico.

«Noi consegneremo il messaggio come voi chiedete, maestà. Ma non potete non considerare cosa accadrebbe alle Lande di Rah se si lasciasse incustodito la Bocca del Chimaer del Mar Bianco».

Hion sospirò appena: «Cosa accadrà alle Lande, dite? E cosa invece accadrà al mondo intero? Questo è il terzo caso di Bocca aperta nel mondo conosciuto. Se ne apriranno altri? Ancora chiedo: se bastassero già questi a inghiottire tutto?»

«Ma alcuni sono stati chiusi!» sbottò Irisa, indignata dallo scherno verso il suo esercito e la sua lotta; ma appena fece per alzarsi, Ariadne le afferrò una spalla quasi artigliandola e la costrinse a rimanere in ginocchio.

«Chiusi? Certo, alcuni lo hanno detto, ma la verità spesso si perde nella storia. Sono stati chiusi o si sono chiusi da soli? Ricorderete di maghi che secoli fa si vantarono di aver chiuso con le loro arti la Bocca del Chimaer nelle isole degli elfi del Sole… che poi si diressero a quella nel continente che in un tempo ancor più antico ospitava la mia gente e i loro domini. Non fu mai sigillata, quella Bocca del Chimaer… e oggi chiamiamo quella terra il Continente Rubato… la terra che il Chimaer ha sottratto alla mia gente».

«Maestà, queste sono leggende che…»

«Conosco le vostre leggi e i vostri principi» interruppe Hion e poi recitò con tono rispettoso: «“Solo ciò che può essere documentato fa parte della Storia”… non dice così un Comandamento di Runeh?»

«Pur supponendo che esista un cosiddetto Continente Rubato» insistette Ariadne «volendo seguire quest’ordine di pensieri, vi chiedo: se una sola Bocca ha potuto inghiottire un continente in passato, cosa dobbiamo pensare ora che l’Astermagna è toccata da due di esse, da nord e da est?»

«Chi può dirlo? Un tempo c’erano tre Bocche del Chimaer schiuse intorno all’Isola di Tamerlyn eppure oggi sono richiuse».

«Perché gli arcidruidi degli elfi del Sole le hanno sigillate».

«Questo è quanto sostengono loro».

«Questo dice la storia».

Irisa sentì i due orchi accanto a loro ridacchiare: per loro, tutte queste disquisizioni di principio erano una perdita di tempo e dibattere se la storia dovesse basarsi su precise documentazioni piuttosto che su leggende tramandate da sculture e disegni allegorici era interessante quanto discutere di che forma dovessero avere i sassi.

«La storia è assai meno oggettiva di quanto credete, Comandante. Ma non voglio rischiare di offendere la vostra cultura con questa diatriba. Quanto intendevo è chiaro, spero…»

«Intendete dire che sia la mia gente che la vostra vanta una comprensione ed un controllo sule Bocche del Chimaer che non possiede. Questo ovviamente non è del tutto infondato, ma ciò non significa che schierare i nostri eserciti contro la Bocca del Chimaer sia insensato».

“Non significa che sia insensato”? Come sarebbe? Se davvero non ne sappiamo nulla cosa stiamo andando a fare?

Irisa si sorprese di sé stessa, di aver avuto quel pensiero improvviso che sembrava spuntato dal nulla e al contempo gli suonava molto più semplice e naturale di quello che Ariadne sosteneva.

«Capisco la vostra posizione» concesse Re Hion «la mia è una semplice richiesta che, date le mie difficoltà nel comunicare col mondo esterno, vi sto chiedendo di consegnare a chi può considerarla».

Irisa digrignò inavvertitamente i denti: quella conversazione era risultata alquanto sgradevole.

«Neppure io voglio offendere voi, maestà. Vi prego di perdonarmi per avervi contraddetto e ovviamente vi garantisco che consegneremo il messaggio. Tuttavia concedetemi di dirvelo un’ultima volta: non comprendo. Da come parlate, sembra non ci si possa basare su nulla, che l’unica certezza sia l’incertezza. Che profitto viene dal pensare così?»

Re Hion non rispose immediatamente, anzi scambiò uno sguardo col suo consigliere come fosse incerto su cosa rispondere.

«Profitto» ripeté «forse avete ragione, non c’è alcun profitto a chiamare l’ignoto col suo nome. Ma è una professione di verità».

«E questo è tutto quello che c’è da dire? Che l’ignoto è ignoto?» s’intromise di nuovo Irisa ma stavolta Ariadne, sovrappensiero, non ci badò.

«Non è forse questa l’essenza stessa del Chimaer? La punizione per ciò che noi mortali abbiamo realizzato nel Mondo Antico… non smettiamo mai di sperare di poterlo governare, di comprenderlo… ma se così fosse come potremmo espiare le nostre colpe?»

«In quest’ordine di idee, come si potrebbe escludere che questa espiazione non porti con sé la fine del mondo stesso?»

Re Hion e il suo consigliere Seix si scambiarono una rapida occhiata, prima che lo sguardo rassegnato del piccolo elfo tornasse sui quattro che stavano inginocchiati al suo cospetto.

«Vi ho forse fatto credere che sto escludendo tale eventualità?»

Nessuno aggiunse altro. Uno ad uno i rettili preistorici intrappolati nel ghiaccio chiusero gli occhi, il ragazzino seduto sulla bolla di vetro li chiuse per ultimo, dando a Irisa l’impressione che il giovane elfo non fosse Re Hion, ma solo la bocca con cui l’entità nota come Hion parlava ai mortali.

«Sua altezza vi ringrazia per l’attenzione» concluse Seix.

***

Irisa si svegliò di colpo rovesciando le coperte. Le venne da strofinarsi gli occhi e cercò svogliatamente la fonte della luce calda che invadeva la stanza. Era un fuoco acceso nel camino, dall’altro lato della stanza. Ariadne era seduta davanti ad esso, ancora nuda, con uno sguardo mobile eppure perso, quasi fosse tutta presa dall’arredamento elfico intorno a loro. Irisa per prima cosa si legò d’istinto i capelli in alto, nella sua solita coda arruffata, quindi poggiò i piedi sul pavimento freddo e le venne accanto in silenzio, inginocchiandosi e ponendole la testa sulle gambe.

«Non riesci a dormire?»

Ariadne le carezzò la testa: «Scusa, ti ho svegliata?»

«No… immagino di essere nervosa, stanotte».

Irisa le baciò un fianco e poi si sollevò un po’ per finire contro il suo seno, quel seno grande e morbido che le aveva sempre invidiato. Con un dito carezzò le sue labbra.

«Sei preoccupata?»

Ariadne se la portò vicino con le mani e Irisa accettò di buon grado, supponendo che lei volesse baciarla. Invece la fissava con una serietà ed una tristezza che lei non gli aveva mai visto nei suoi grandi occhi color miele.

«E tu? Un sovrano elfico ha appena detto che tu… che tutte noi siamo carne da macello e che forse il mondo stesso è condannato. Non sei preoccupata? O meglio… arrabbiata?»

Fu lei a baciarla brevemente, per poi stendersi di nuovo su di lei, guardando fuori una di quelle strane strutture di ghiaccio così incredibilmente simili ad alberi, quel segno concreto di magia.

«Questi elfi non sono cattivi, ma sono gente strana. Fra un paio di giorni avremo raggiunto Fjaran-Marmar e abbattuto ogni singolo chimerico che troveremo. Qualsiasi cosa pensino loro non fa differenza per me. Credo nei Comandamenti, credo nella Regina, credo nel mio esercito e quello che so e che ha sempre funzionato è questo: che tutto ciò che esce da una Bocca del Chimaer va sterminato».

«Ci credi…»

Irisa fu attraversata per un unico istante dal desiderio di confessare ad Ariadne che aveva dubitato, profondamente, di quell’insieme di idee e certezze su cui basavano le loro azioni. Ma l’istinto le consigliò di evitarlo.

«Ma certo. E voglio dimostrarlo, lo voglio davvero… sono anni che lo voglio… come tutte le altre, certamente».

Ariadne disse quasi bisbigliando: «In me… in me credi?»

Si voltò di scatto: non l’aveva mai sentita con una voce così rotta, così vulnerabile. Forse anche Ariadne non voleva confessare gli stessi timori?

«Che dici? Certo che credo in te… l’ho sempre fatto. Come Comandante… come sorella amazzone… e come mia compagna».

«Sei certa di quello che dici? C’è un ordine che devo darti».

Irisa stirò un sorrisetto imbarazzato: «Non ho mai disobbedito ad un tuo ordine, men che meno quando siamo entrambe nude…»

Rimase profondamente delusa. Provocava molto raramente e quando lo faceva Ariadne reagiva sempre con il massimo dell’entusiasmo. Invece stavolta parve non averla nemmeno sentita.

«Non ti piacerà, Irisa».

Era davvero seria, pensò prendendole entrambe le mani e baciandole: «Farò tutto quello che vuoi, Ari».

«Ti ho chiesto di scegliere sei ragazze che possano tornare indietro per fare rapporto sulla situazione nel caso perdessimo la battaglia».

«Non la perderemo, ma me ne ricordo. Ci ho già pensato».

«Tu devi essere una delle sei».

Irisa le lasciò le mani con tanta fulmineità che sembrò aver preso la scossa. Ebbe l’impulso di allontanarsi da lei e lo assecondò, così rapidamente che inciampò all’indietro sul tappeto di pelliccia. Poi un secondo impulso le fece domandare se non era stata troppo brusca, se forse non l’aveva ferita. Ma alzando la testa verso la sua compagna, vide che anche in quel caso non aveva mutato espressione.

«Tu devi essere una delle sei» ripeté, quasi meccanicamente.

«No».

«Hai detto che avresti fatto qualsiasi cosa».

«Non mi stai dando un ordine da Comandante, ma da mia fidanzata, e oltre ad essere ingiusto è anche offensivo. No. Assolutamente no».

Si alzò: sentiva addirittura la necessità di rivestirsi. Parlava freneticamente, senza riuscire a concludere le frasi e riusciva a stento a maneggiare i suoi vestiti.

«E poi tu… ed io non… io…»

«Irisa…»

«Non… non ci credo… non ci credo che vuoi farmi questo!»

«Irisa».

«Perché, perché ora?»

«Irisa Floran!»

Si fermò, ma non riusciva a guardarla in faccia. Parlò ancora piena di rabbia.

«Sei sempre stata chiara con me. Se volevo amarti, non dovevano esserci dubbi sul fatto che non favorissi me sopra le altre. Ho accettato di essere cauta, di non farti nemmeno una carezza in pubblico. Ho accettato tutti i compiti più pesanti o più pericolosi che mi hai affidato. Se ci scoprissero, nessuna corte marziale ti potrebbe contestare, nessuno oserebbe dire che mi hai trattato meglio delle altre. In cambio di tutto questo, non ho mai neppure una volta potuto baciarti alla luce del sole… è stata dura, molto dura!»

«Lo so» ammise l’altra, ma senza dare segni di cedimento.

«Un anno di sacrifici! E ora… proprio ora! Prima della battaglia più importante della mia vita, mi chiedi di scappare? Proprio adesso metti la mia vita al di sopra di quella delle nostre compagne!»

Stava sbagliando qualcosa in quella conversazione e lo sapeva: neanche in quel caso Ariadne cambiò espressione. Cosa non le stava dicendo?

«Non ti ho chiesto di andare come mia fidanzata, ma come mia subordinata. C’è una ragione ben precisa».

Irisa attese un po’, poi lasciò cadere i vestiti, di nuovo nuda davanti a lei: il senso di quel gesto era chiaro, ma lo esplicitò comunque con le parole.

«Scusami, io… devo lasciarti spiegare, credo… dovrei saperlo che tu… non ti abbasseresti a questo… non coscientemente».

«Neanche inconsciamente» precisò con fermezza «c’è un motivo, ti ripeto».

Irisa tornò silenziosamente accanto alla sua compagna. Tremava di freddo, Ariadne coprì lei e sé stessa con una coperta.

«Non mi sono mai vergognata di essere tua, prima di stanotte. Se c’è un motivo dimmelo, ti prego. Il solo dubbio che tu possa… favorirmi, mi distrugge. Mi umilia».

«C’è un motivo, ti ripeto. Una Comandante non può abbandonare le sue sorelle amazzoni in battaglia. Eccetto me, però, solo quei due orchi – che non considero – e infine tu, avete udito quel messaggio. Non voglio darlo ad altre, ma non voglio nemmeno che vada perduto».

Irisa spalancò gli occhi, stupita: «Cosa stai dicendo? Quel messaggio era una farneticazione! Abbiamo passato ogni singolo mese in accademia a farci ripetere quanto non ci sia peggior minaccia dei chimerici. Quell’elfo ci ha gentilmente chiesto di lasciarli perdere e fare come se non ci fossero. Vuoi riportare questo messaggio alle orecchie della Regina Aryl?»

Ariadne la strinse con forza, ma senza dolcezza: come l’aveva stretta già un’altra volta, quel giorno, al cospetto del Re Hion.

«Ho solo un dubbio. Solo un piccolo dubbio che quel messaggio non sia un delirio. Un dubbio minimo, ma…»

«Il senso di quel messaggio… di tutto quello che l’elfo ha detto… è che niente di quello che facciamo ha realmente senso. Se fosse vero, a chi mai dovremmo dirlo?»

Ma a quel punto della conversazione, il pensiero di confessare i suoi dubbi ad Ariadne non sembrava più inopportuno, bensì piuttosto spaventoso.

Ariadne la strinse ancora più forte, scuotendola: «Iri! Quante volte hai sentito parlare dei chimerici, nella tua vita?»

«Quante… volte…? Non lo ricordo… tantissime…» ormai l’incerto terreno di quella conversazione sconfinava nell’angoscia.

«E quante volte qualcuno ti ha parlato delle loro origini? O di come mai spariscono di colpo? O di cosa vogliano i chimerici, in realtà, di perché li combattiamo?»

«A… Ari, mi stai facendo male… lasciami».

«Rispondi! Quante volte?»

«Mai! Lo sai… la Chiesa si occupa di queste cose! È solo a questo che serve, quella dannata Chiesa. Sono tutte cose che mi hai insegnato tu, Ari! Che ti prende stanotte?»

La lasciò, ma contrariamente alle sue previsioni Irisa non uscì dalla coperta che le avvolgeva entrambe, né si allontanò.

«Anche a me le insegnò una sorella di grado più alto. Anni fa come poi io l’ho insegnato alle mie sorelle minori… come te. Però…»

«Però…?»

Le venne un dubbio. Forse, molto semplicemente, il momento della grande prova rappresentato dalla Bocca del Chimaerv si avvicinava e Ariadne non aveva altro che una naturale e ben comprensibile paura. Forse quel che avrebbe davvero voluto erano rassicurazioni.

«Ari!» chiamò, carezzandole una guancia «Facciamo un patto. Arriveremo lì con le altre… combatterò e vincerò, ne sono certa. Ma se invece le cose si dovessero mettere male… allora andrò. Andrò subito, appena lo ordinerai! Riporterò quello che è successo e il messaggio di Re Hion. D’accordo?»

«Sicura che lo farai?»

«Sicura. Come sono sicura che non ce ne sarà bisogno».

La baciò con passione.

«È solo paura. Sarà una battaglia importante. Abbiamo solo un po’ di paura, è normale» la rassicurò ancora e ancora, senza però convincere per prima sé stessa.

***

Passeggiò per un po’ lungo la strada ghiacciata: la luce gelida dell’alba si allargò rapidamente su tutta quella città innaturale che era Vonselas. Sebbene fosse molto presto, diversi elfi iniziavano a traversare le strade pronti a intraprendere le loro faccende quotidiane.

«Cosa fate qui?» chiese Irisa all’orco che trovò seduto sotto un grande albero di ghiaccio, su un promontorio da cui si vedeva una buona porzione di città.

«La mia tribù preferisce rimanere accampata fuori. A me invece piace questa città» spiegò Abrai togliendosi il mascherone dal viso.

«Ma…!»

Era senza parole: a volto scoperto Abrai Kub-Rul aveva una barba grigia ben curata, tagliata tutta alla stessa lunghezza, come i capelli intorno alle tempie. Si aggiustò gli occhialini tondi dall’aria preziosa che gli stavano scivolando sul naso. Aveva qualcosa di raffinato e austero nello sguardo, se non fosse stato per le zanne ricurve e i vestiti di pelli, sarebbe stato l’individuo più distinto che Irisa ricordasse di aver mai visto.

«Hai un viso… diverso da quello che pensavo, sotto la maschera».

L’orco rise: «Già! Ti immaginavi un muso da guerriero pieno di cicatrici, eh?»

«Bè, sì».

«E invece no. Sono tornato alla mia tribù qualche anno fa. Per la maggior parte della mia vita ho vissuto come poeta di corte in Nistria».

«Un orco poeta?!?»

«Ci sono anche orchi pittori e musici, cosa credi?» ribatté indispettito «Ero anche molto apprezzato. Forse senza saperlo hai studiato qualche mio sonetto da piccola. Se fossi nistriana ne sapresti qualcuno a memoria, so che li insegnano nelle scuole».

«Oh. Eri… felice?»

Abrai sospirò: «Ma certo. La vita di corte è fantastica. Cibo raffinato, ottime letture, persino belle donne ho avuto».

«Risparmiami i dettagli» interruppe Irisa con un piccolo brivido di disgusto.

«Ehi, sei un po’ razzista, ragazza».

«Io? Non è vero! Io…»

Si voltarono entrambi: erano piuttosto sicuri di aver visto un’ombra immensa, una massa scura muoversi sotto la calotta di ghiaccio su cui Vonselas era costruita, come qualcosa di indefinibile che nuotava sotto la superficie. Ma nessuno degli elfi che sotto di loro si affaccendavano reagirono come se la cosa potesse rappresentare una minaccia. Per loro era normale come vedere gli uccelli in cielo.

«Che… che posto assurdo…»

«Già, ma mi piace scoprire luoghi come questo» ammise Abrai osservando il suo mascherone.

Irisa gli si sedette accanto.

«Allora, orco… perché sei tornato alla tribù?»

Abrai guardò il cielo come se i ricordi volassero lì tra le nuvole e dovesse riacciuffarli con lo sguardo.

«Avevo avuto molte dispute con la mia famiglia. Ero un guerriero talentuoso, dicevano, un giovane promettente. Ma a me... non interessava molto. Ho vissuto come ho voluto. Poi mio padre è morto, poi mio fratello, sono rimaste solo le mie sorelle e mia madre. Sono vecchio ormai, volevo provare… a farle contente. Morire come un vero orco. Quindi tre anni fa… sono tornato».

«Morire» ripeté Irisa «perché voi orchi siete convinti che si vada in guerra per morire? Sembra quasi che ci speriate».

«Sciocca bambina, cosa credi che sia la guerra?» chiese Abrai Kub-Rul rialzandosi e indossando nuovamente il mascherone «Non è altro che questo… migliaia di storie che si interrompono, che spariscono… prima sono uniche… speciali… poi… finiscono nella spazzatura senza che nessuno le ricordi. Prepararsi a diventare spazzatura… morire mangiati dai corvi… significa solo avere chiaro il senso di ciò che si fa».

Irisa rimase sovrappensiero.

«È stato bello parlarti, ragazza dei cavalli. Ora devo…»

«Aspetta» scattò lei «c’è una cosa che voglio chiederti».

Abrai assentì con un breve e ironico inchino.

«Chiedi allora».

Avrebbe voluto chiedere se i timori di Ariadne e i suoi – tanto profondi che non aveva avuto il coraggio di confessarli a nessuno – fossero in qualche modo giustificati, se erano un segno da non sottovalutare. Ma ovviamente non poteva chiederlo a lui.

«Quello che abbiamo sentito… da Re Hion… tu cosa ne pensi?»

Abrai si strinse le spalle: «Perché ti turba?»

Irisa abbassò il viso: «Il Chimaer è un mistero. Rappresenta l’ignoto. Questo lo so. Ma arrivare a definirci dei sacrifici umani...».

Abrai iniziò a discendere dal promontorio verso le strade della periferia di Vonselas, dandole le spalle. Parlò piano, senza voltarsi a guardarla.

«Tutti i soldati sono sacrifici umani. Credono di sapere perché vanno in guerra, ma non lo sanno. E prima di accorgersene… sono finiti nella spazzatura».

***

All’alba di due giorni dopo raggiunsero una spiaggia di ciottoli chiari stesa su un mare grigio e immobile. Quella costa bianca, che si spandeva per chilometri, costituiva la regione delle Lande di Rah nota come Fjaran-Marmar.

«E… eccolo» annunciò Ariadne dopo una brevissima occhiata.

«Io…» Irisa non riuscì a spiccicare più un’altra parola e si rammaricò amaramente di non avere una Dea da pregare, a differenza dei fedeli sparsi negli altri cinque regni.

Abrai si avvicinò ai loro cavalli: «È proprio lui».

Traslucida, evanescente, la Bocca del Chimaer si allungava per diversi chilometri in tutta la sua innaturalezza. Se Irisa avesse voluto descriverlo, poteva solo paragonarlo ad una gigantesca spina dorsale appartenuta ad un animale crestato, un oggetto morto che galleggiava pigramente sull’acqua, ma anche quella descrizione non rifletteva a pieno ciò che era, non rifletteva i suoi movimenti ritmici come se si spostasse pigramente sul fondale marino, i suoi innaturali colori di un nero cielo notturno trapuntato da un firmamento rosso violaceo e il fumo nero che veniva progressivamente spruzzato – o forse, espirato – fuori in densi getti sottili. Il fumo nero era a sua volta incredibile, perché appena era libero in aria si condensava in forme geometriche, forme che poi fluttuavano senza scopo formando una nube di prismi neri al di sopra di quella cresta. Era, nel complesso, una forma che non aveva significato, non aveva funzione, non rispondeva ad alcuna classificazione; solo in un punto, verso il centro, la cresta si inarcava e sembrava tenere incastonato in sé un globo perfettamente sferico.

«Ecco» osservò Abrai emozionato, indicando col bastone quella sfera «è proprio vero che ciascuna Bocca del Chimaer è diversa dagli altri, questa non assomiglia per niente a quella che vidi da bambino. Ma quel globo è uguale a quello che vedono i pochi che tornano dal cuore della Bocca del Chimaer nell’Oceano Orientale. Quello… è la fonte del Chimaer».

«La fonte del Chimaer…» fece eco Irisa , tremando: stava osservando quel globo e questo, per qualche ragione, le dava una sensazione che oltrepassava di parecchio quella che avrebbe saputo definire come vertigine.

«Smetti di fissarlo, Irisa» raccomandò Ariadne e la ragazza fu felice di sentire la voce della sua Comandante e compagna.

Si rese conto che se non avesse sentito quella voce non avrebbe avuto idea dello stato in cui la sua mente avrebbe potuto essere in quel momento, dove quella sfera avrebbe potuto risucchiarla semplicemente guardandola fissa. Distolse lo sguardo, avvertendo subito una grande emicrania.

«L’orda chimerica… dov’è?» chiese appena fu di nuovo in sé.

«Ecco che arriva qualcuno» avvertì l’orco, inspiegabilmente felice, rivolto ad uno stormo di strane figure volanti.

Irisa li vide. Un tempo erano stati umani, forse bambini, ma certamente non lo erano più. Quello che era stato il cranio si era gonfiato e riempito di buchi, come una grossa spugna, e li faceva fluttuare in aria come mongolfiere umanoidi. La cosa più strana era la materia di cui erano fatti, che certamente non era carne; sembrava come una porzione di firmamento stellato strappato al cielo e rimodellato, ma di un assurdo impasto di colori salmone e avorio. Nella massa puntinata e semitrasparente scorse per un attimo, per l’appunto, gli accenni dell’ossatura di bambini umani e questo le suscitò quasi un conato di vomito. Aveva assistito qualche volta a invocazioni di angeli o demoni, ma nessuna apparizione dava il senso di straniamento, di alterità, che davano quelle cose.

«Chimerici. Coloro che sono toccati dal Chimaer» commentò l’orco anziano «Brutta storia davvero. Se questa Bocca è instabile può avere uno spasmo e toccarci tutti. Finiremmo come quelli».

«A… allora… dobbiamo andarcene subito!» commentò un’amazzone al fianco di Ariadne.

La Comandante non riuscì a parlare, o forse non volle, ma fu Irisa a farlo: «No. Siamo qui per presidiare queste coste, ricordatelo. Neppure un chimerico può oltrepassare questa regione!»

Gli umanoidi in aria ammutolirono e si paralizzarono di colpo. Le loro teste sembrarono farsi improvvisamente pesantissime e li fecero precipitare come sassi nell’acqua marina.

«Ma tu faresti meglio ad andartene, Irisa» disse Ariadne «Ricordi, giusto? Serve che informi qualcuno. Ci vogliono maghi… maghi potenti, per chiudere una Bocca del Chimaer, e questo è chiaramente ancora aperto».

Irisa si lasciò sfuggire una smorfia irritata da sotto l’elmo. Non aveva forse espresso, qualche notte prima, il dubbio che le Bocche del Chimaer non potessero essere chiuse in qualsiasi maniera? L’unica funzione di quelle parole era di dare una giustificazione alle altre per mandare via solo lei. Non le piaceva, non riusciva a scrollarsi di dosso l’idea che Ariadne la volesse favorire e così le sembrava di ingannare le sue sorelle d’armi.

Abrai sbuffò: «Maghi? Eh eh eh. Sono balle. La Bocca del Chimaer non viene chiusa da nessuno, al massimo si chiude da sé».

«La Bocca del Chimaer può essere domata».

«No, non può, è la sua stessa natura che ce lo dice».

«Questo lo dicono quelli che non credono nel futuro!» sbottò Irisa e a stento si trattenne dal chiedergli ancora se credeva alle parole del Re degli elfi della neve, ma preferì fermarsi lì.

«O quelli che non credono alle favole» insistette l’orco, senza scomporsi «ma fate come credete, ragazze dei cavalli. Niente fa più differenza, ora».

Impugnò il robusto bastone come una mazza, e proprio allora, come l’avesse evocata, l’orda uscì dall’acqua. Si mosse rapidissima e compatta, come una unica fiumana di individui, e descrisse un semicerchio percorrendo diversi metri di spiaggia per poi invertire marcia e rituffarsi in acqua. Sembrava di osservare la spira di un enorme serpente che usciva e rientrava nella sua tana, ignorando totalmente orchi ed amazzoni in egual modo.

«Cosa… cosa fanno?»

Non aveva mai visto una cosa del genere: correvano verso di loro – ma non stavano guardando loro – invertivano marcia e si rituffavano in acqua. Nessun esercito avrebbe mai potuto muoversi così, prestare il fianco agli avversari schierati con tanta sconsideratezza. Ma proprio per l’evidente idiozia di quel movimento, né le amazzoni né gli orchi aggredivano. Rimanevano basiti a guardare quella massa di esseri eterei e multiformi.

«Cosa diavolo fanno!?»

«Chi lo sa?» rispose l’orco, senza muoversi «le azioni dei chimerici non hanno alcun senso comprensibile. Spero che decidano di aggredirci presto, perché potrebbero passare giorni prima che si accorgano di noi. Sarebbe una bella noia. Forse è meglio aggredirli subito».

Aggredirli, pensò Irisa, con che cosa? Con la manovra a tenaglia flessibile? L’accerchiamento immobile? Le tattiche di guerriglia a spirale? Tutte le strategie che le amazzoni sapevano eseguire con la perfezione di una danza elegante si basavano sempre e comunque sull’indovinare e anticipare il ragionamento del nemico. E ovviamente anticipare ciò che faceva e pensava un chimerico era impossibile, bisognava osservarlo sul campo, ma…

«Ci stanno…»

«…ignorando del tutto».

…ma cosa si poteva fare, invece, se il nemico che non ragionava affatto? Se era mosso, come sembrava, dalla pura irrazionalità? In quel caso osservare un chimerico sul campo era del tutto inutile. Non c’erano risposte giuste, perché non c’erano domande.

«Ariadne…?»

«Non parlarmi ora. Sto pensando».

Ma a cosa si poteva pensare? Senza trovare risposta, provava una paura profonda e indescrivibile ed una unica certezza: non avrebbe mai voluto essere lasciata sola ad affrontare quella paura, quindi non poteva nemmeno immaginare di essere lei ad abbandonare la prima linea lasciando le sue compagne faccia a faccia con i chimerici.

«I- io… non voglio andarmene. Rimarrò qui…»

«La vera guerriera è non chi imbraccia l’arma e taglia teste, ma chi esegue gli ordini assicurando la vittoria» ribatté Ariadne citando un motto tipico dell’esercito amazzone.

«Anche l’ordine più insignificante, l’incarico più umile, è decisivo ben più di un campione che vada in battaglia secondo il suo capriccio» proseguì recitando Irisa.

Ariadne annuì verso la sua compagna, compiaciuta. Ma forse dentro di lei sapeva che quelle parole Irisa le aveva pronunciate senza sentirle sue.

«Non indugiare, vai».

Irisa osservava quell’esercito rapidissimo e quel poco che vedeva spiegava ben poco. L’unico tratto in comune era la massa di nero e polvere iridescente di cui erano composti, che ricordava un ammasso di astri, anche se ciascuno era di un diverso insieme di colori brillanti, e gli accenni di ossa visibili all’interno, unico memento di ciò che erano prima della corruzione. A parte quello era difficile trovare due elementi, tra tutti, che fossero almeno simili per aspetto. Molte, moltissime altre forme di quell’orda che non poteva essere definita, classificata o spiegata, Irisa non riuscì neppure a distinguerle, certo erano stati qualcos’altro, prima che il Chimaer li toccasse alterando la trama stessa della realtà, ma ora erano solo incroci e ibridi di cose preesistenti, senza una precisa identità, forme come ombre che erano un po’ animali e un po’ vegetali, un po’ persone e un po’ oggetti. Creature indefinite, senza scopo o con uno scopo inconoscibile e incomunicabile, pronte a spargersi nel continente senza che nessuno potesse prevedere o capire il loro comportamento che poteva variare dalla stasi totale alla violenza raccapricciante e immotivata. Erano la follia stessa, ma più solidi e concreti di qualsiasi pensiero, una follia che camminava tra i mortali e invadeva il loro mondo di ragioni e sentimenti senza spiegazione alcuna. Erano i chimerici e in quel nome unico c’era tutta la loro unicità.

«Non ci attaccano…» si lamentò uno degli orchi.

Irisa si sorprese della calma e della compostezza degli orchi, da sempre convinti che l’essenza della vittoria fosse prendere l’iniziativa per primi con audacia e aggressività. Nessuno di loro si sognò di scagliarsi su quelle creature per primo e lei ne comprese rapidamente il motivo: non pensavano di poterla sopraffare, quindi il senso dello scontro sarebbe stato sopravvivere a oltranza tenendo il litorale il più a lungo possibile, come una diga di carne ed ossa che la vita stessa, la vita come Irisa la conosceva, poneva a difesa per evitare di essere sommersa dall’insensata esistenza di quella fiumana. E così, per una volta, persino gli orchi non attaccavano prima di essere attaccati.

«Forse stann…»

Le parole di una compagna accanto a lei si persero, perché la moltitudine accelerò il passo producendo un fragore che copriva ogni altro suono. Infine, seguendo la loro rotta priva di scopo, si erano tutti rituffati in acqua ed erano svaniti in un mare improvvisamente immobile e silenzioso.

«Sono… andati via?» chiese Irisa.

«Per ora» ribatté Ariadne «per giorni, forse, o per qualche minuto. Devi andare! È un ordine!»

Irisa deglutì, amareggiata. In una società definita da legge, disciplina e – se necessario – dall’annullamento di sé stessi, solo una cosa poteva seguire un ordine: l’obbedienza. Strinse le briglie di Fulvospirito.

«Come desideri, Comandante. Vado».

Le sembrò che Ariadne la stesse fregando: gli unici argomenti che poteva opporre a quel preciso ordine riguardavano la loro relazione e lei non poteva usarli perché l’ordine era stato impartito in pubblico. La guardò fisso e anche lei ricambiò lo sguardo.

Cosa devo dire alla ragazza che amo, con cui potrei aver fatto l’amore per l’ultima volta? si chiese ossessivamente in quella manciata di secondi.

Forse Ariadne lo vide, perché anche i suoi occhi si fecero dolci e tristi. Ma non ci fu tempo di dire nulla. Un’unica gigantesca onda si era sollevata, ed era chiaro che l’acqua era molto meno trasparente di come avrebbe dovuto essere, piena di un arcobaleno di fosforescenze che solo i chimerici potevano produrre; il muro d’acqua marina si curvò sulla spiaggia e sembrò sputare volontariamente le prime creature multiformi sul terreno di Fjaran-Marmar. Le stesse che prima avevano ignorato i due eserciti ora si scagliavano contro bersagli sparsi, urlando con un odio che una creatura mortale non sapeva provare e che non era stato scatenato da alcuna causa precisa. A fianco di Irisa, Abrai Kub-Rul urlava con voce estatica, con quella particolare inflessione di voce di chi si vede venire incontro un caro vecchio amico, un’unica parola ripetuta.

«Morte! Morte!»

Si fiondò su un chimerico blu e giallo che poteva ricordare qualcosa tra un rinoceronte e un ometto gobbo e lo colpì col bastone con tutta la violenza che aveva. La creatura fu percossa più volte facendo finta che l’orco non esistesse, prima di reagire d’improvviso con l’enorme chela da granchio che aveva sul braccio destro. Ma da quell’istante si fece un avversario tenace e preparato e Abrai prese a parare a fatica, arretrando.

«Ari».

Irisa ignorò ogni cosa. Una cosa verdastra simile ad una figura di donna stirata per lungo si era fiondata vicino ad Ariadne, aggredendola con un lungo braccio dritto come un arpione. L’amazzone l’aveva affrontata con sapienti mulinazioni dello spadone senza cadere da Sirescuro. L’istinto di Irisa era stato di correre verso di lei a darle manforte, ma non ne aveva avuto il tempo: uno dei minuti umanoidi-mongolfiera era volato sopra di loro ed era caduto a testa in giù, esplodendo in un rosa accecante. Al diradarsi della luce, Ariadne e la sua avversaria erano ormai polvere, solo una gamba di Sirescuro, che ancora si muoveva convulsa, ricordava che Ariadne era esistita. Si era consumato tutto in una manciata di secondi.

«Ari».

«Morte! Morteeeeeeeeeeee!»

Abrai Kub-Rul aveva disintegrato quella che poteva essere la testa della cosa, che si era rotta come frammenti di roccia. Ma il corpo continuava a vibrare colpi, seppure adesso procedendo alla cieca. Altre di quelle creature piombarono sulla folla esplodendo.

«Ari…»

Alla terza volta che non ricevette risposta, una compagna le si avvicinò: «Irisa, l’ordine della Comandante! Devi andare, devi andare subito!»

«Io…»

«Irisa, mi senti?»

Un essere lungo e snodato come un serpente, ma dal torso più simile ad un gatto di montagna, avvolse la compagna che la chiamava nelle sue spire di luce nero e lilla e la strinse, spingendola a strabuzzare gli occhi e a vomitare sangue.

«Iris- »

La creatura strappò la testa della ragazza con una zampata.

«Ari» ripeté Irisa, mentre la creatura le saltava addosso lasciando penzolare il corpo straziato della compagna sul suo cavallo.

Reagì d’istinto, si abbassò flessuosamente rimanendo attaccata a Fulvospirito solo per le gambe, lasciandosi scavalcare dalla creatura, la attraversò per lungo con la spada, dalle fauci fino a metà del corpo.

«Irisa!» le corse incontro un’altra, giovanissima, lei riconobbe a stento che era una delle cinque che aveva selezionato per accompagnarle, le altre quattro non riusciva a vederle.

«Irisa, dobbiamo andare via!»

La ragazza e il suo cavallo si difendevano caparbiamente a colpi di spada e zoccoli da chimerici che ricordavano ombre o piuttosto umani appiattiti sul pavimento e strisciavano rapidi come lucertole.

«Irisa, ascoltami!»

Dietro di loro, l’avversario di Abrai Kub-Rul rotolava a terra sconfitto mentre l’orco, con diversi suoi compagni, si avventava su un grosso chimerico ripugnante: il corpo color vino era di enorme cinghiale con zanne sproporzionate mentre al posto del viso stava un corpo umanoide, impossibilmente obeso, che rideva in maniera oscena, quasi sessuale, mentre camminava lentamente sui corpi di alcune ragazze schiacciandole col suo peso. Irisa si voltò tenendo salde le briglie, pronta a prendere parte a quell’assedio di gruppo contro quell’essere schifoso.

«Ascoltami, dannazione!» fece la più giovane fermandole il braccio e scuotendola «l’ordine della Comandante! Dobbiamo andare!»

Finalmente si decise ad obbedire a quell’ordine, anche se chi lo aveva impartito non c’era più.

***

Per giorni, Irisa non avrebbe ricordato altro che le ultime immagini di quella battaglia assurda, la crudeltà insensata con cui quelle creature variopinte e multiformi schiacciavano le sue compagne d’armi e i mercenari orchi mentre questi cercavano di improvvisare qualche sorta di difesa. Le forme surreali facevano rapidamente sparire, alle sue spalle, tutto ciò che era stato familiare mentre davanti a lei c’era solo la cinta di colline tra Fjaran-Marmar e Graent-Halli, contro la quale colma di rimorso si lanciava con tutta la foga di cui era capace. I rumori dello scontro si allontanavano rapidamente. Dopo pochi minuti, dietro di sé sentì appena un grido soffocato, una voce di ragazzina che spariva, soffocata.

«E… ehi..:?»

Dietro di lei, la sua compagna non c’era più. Erano seguite? In ogni caso, era rimasta sola. Scosse le briglie e Fulvospirito accelerò.

«Corri! Corri…»

Il cavallo corse per ore, finché tutto ciò che rimase erano gli zoccoli di lui che dava ogni scintilla della sua energia nel galoppo, in sincrono con la volontà del suo cavaliere interamente concentrata sul compito di portare notizia di quella inevitabile disfatta. E forse, per effetto di quel legame misterioso che univa ciascuna guerriera amazzone al suo cavallo, Fulvospirito riusciva anche a sentirne la rabbia e l’indignazione che ribollivano dentro di lei, senza sapere bene su cosa o su chi abbattersi. Dopotutto, nel Nadorhai si parlava della Bocca del Chimaer più o meno ogni giorno, eppure né lei né le sue compagne, nemmeno una, erano minimamente preparate a ciò che aveva visto. Quasi che la Bocca del Chimaer fosse una realtà ineluttabile, persino paragonabile alla morte, contro cui non aveva senso organizzare tattiche e addestrare eserciti. Era davvero così? Davvero ogni tentativo era affidato unicamente al caso, come sosteneva Re Hion, come aveva detto anche Abrai Kub-Rul, proprio come un cavaliere, persino il più potente e saggio e ben addestrato non può nulla contro la morte, se non sperare di vivere un giorno in più? E se era così, perché questa verità non veniva insegnata loro sin dall’inizio?

«Fulvospirito! Fulvospirito!» urlò il nome del cavallo ancora e ancora, e ormai più che tenere le briglie ne abbracciava il collo muscoloso.

Non c’era null’altro che lei e il cavallo, adesso. I pini di Graent-Halli si erano diradati, lasciando spazio alle sterminate Steppe Cinerine, che coprivano quasi un terzo delle Lande di Rah. Era solo silenzio rotto dal galoppo del cavallo e dalla sua voce tremante che ne chiamava il nome di una delle poche creature, forse, che non avevano mentito a lei ed alle sue compagne d’arme. Sullo sfondo della terra grigia si stagliava lontanissima la ripida montagna sopra la quale si ergeva, addirittura oltre le nubi, l’Ubervorour, città da cui Re Olster controllava tutte le Lande; ma lei si era ormai addormentata mentre il cavallo continuava la sua cavalcata, ignorando la capitale del regno, e dirigendosi d’istinto verso il Nadorhai, lungo la strada che aveva percorso nei mesi scorsi e che ricordava bene.

«Fulvospirito…» chiamò ancora il cavallo quando, il giorno dopo, si svegliò.

L’andatura del cavallo le fece immediatamente capire il suo errore: era sfinito e, non si fossero fermati, sarebbe presto stramazzato al suolo. Le montagne, dalle rocce di diversi colori, le maestose cascate e la vegetazione rigogliosa che invadeva prepotentemente vecchissime rovine di cemento le fecero immediatamente realizzare che doveva aver avvicinato da qualche ora i confini del Rah e che presto avrebbe cavalcato nel Nanad, al bordo dell’Entroterra Selvaggio. Non aveva amici nel Regno di Mezzo, ma ciononostante doveva per forza sostare altrimenti l’animale sarebbe morto. E così fece, fermandosi sotto un grosso albero caduto che si affacciava su una splendida vallata. Appena interrotto il movimento, sia lei che il cavallo piombarono nel sonno più profondo, addormentandosi stremati .

«Aah!» urlò nello svegliarsi, perché sognava ancora la battaglia del Fjaran-Marmar.

Guardò il cielo stellato, prima di notare con suo sommo orrore una porzione di cielo cambiare colore in qualcosa di scarlatto e vermiglio, magenta e cremisi. Balzò in piedi portando la mano allo spadone ricurvo sulla schiena.

«Maledizione…»

Non ci aveva pensato: se i chimerici agivano senza ragione, perché non potevano scegliere di mettersi all’inseguimento di un singolo soldato? Dopotutto, conoscevano solo il capriccio. Quindi, come pensava, la sua compagna era davvero stata raggiunta e uccisa. Anche Fulvospirito si agitava, terrorizzato.

«Ca… capisci quello che dico?»

Avvolto in bagliori di tutti i toni del rosso, il chimerico non rispose. Cosa poteva essere stato un tempo? La testa di un ippocampo, un torso umano scarno a sormontare un corpo equino emaciato, ma più di tutto la colpirono gli arti: ripiegate indietro come ali, il chimerico sfoggiava due paia chele affilate come quelle di una mantide che con ogni evidenza erano armi letali.

«Perché non mi hai aggredito subito?»

Era evidente: non capiva niente di quello che lei diceva. Strinse più saldamente l’elsa. Attaccare o non attaccare? Ma appena fece un movimento, dal muso a tubicino di quella cosa uscì un verso come il richiamo di un uccello e subito scattarono le chele veloci e precise come spade, evitò le prime tre ma l’ultima si allungò maggiormente, tagliando il tronco con la precisione di una sega.  Non era difficile capire cosa sarebbe successo se avesse centrato lei. Stringendo la lama di ceramica rossa con la mano, Irisa studiò il suo nemico. Era più probabile che lui battesse lei in velocità d’esecuzione, quindi cosa aspettava per un secondo attacco?

«Ehi!»

Come si aspettava, prese l’urlo come una provocazione e cercò di tagliare esattamente il punto in cui Irisa si trovava. Schivò e cercò di mozzargli un arto, ma fu inutile: tornò indietro più in fretta, come una molla. Il paio di chele inferiori scattò insieme, Irisa saltellò indietro per non farsi trafiggere i piedi e schivò a fatica l’ultimo colpo. Ma aveva notato una cosa: il momento in cui estrofletteva l’arto non era lo stesso in cui la faceva scendere per colpire, quindi quella frazione di secondo in cui le chele erano ferme era il momento per colpirle. Ultimo tentativo: l’avrebbe mutilato, o sarebbe stata tagliata in due.

«Ehi!»

Ma stavolta non era stata lei a urlare, sebbene ne avesse l’intenzione. Un robusto figuro a cavallo era piombato giù dalla collina e, appena il chimerico lo aveva notato, una lama curva di duro legno era volata nella notte. Il boomerang staccò la testa del chimerico di netto per poi ritornare indietro ed essere ripreso con maestria. Irisa si sentì cedere le gambe per la stanchezza

«Buono bello, buono» cercò di calmare Fulvospirito mentre si lasciava cadere sul tronco.

Il nuovo arrivato smontò da cavallo e quello subito scappò via: non era suo, in tutta evidenza.

«Ecco un altro… che è finito nella spazzatura».

«Tu sei…»

«Sì, sono io» confermò l’orco-poeta, con uno strano fiatone.

«Accidenti, ragazza, dei cavalli… non ti sei accorta che ti seguiva?»

«Abrai, tu… Grazie. Ma perché mi hai seguita?» si lasciò scivolare ancor di più, fino a finire seduta sull’erba.

«Ho cercato di riprenderti… ma poi è stato il cavallo, ha fatto tutto da solo».

Continuava ad avere una voce strana.

Si sedette  pesantemente accanto a lei e prese un bel respiro. Guardarono il corpo del chimerico che si sgonfiava, perdeva luminosità e poi iniziava a sbriciolarsi. In qualche minuto, non ne rimase nulla.

«Eh. Questi mostri sono pieni di aria».

Rise, ma era come se ad ogni frase che pronunciava gli venisse sottratto qualcosa che Irisa non individuava con precisione.

«Io… devo davvero ringraziarti, orco… anzi, Abrai».

«Eh! Prego. Peccato sia finita così… non morirò come poeta né come orco. Che fregatura».

«Chi ti dice che non morirai come orco?»

«Bè» disse con una punta di ironia amara «un nostro detto dice: orco, non morirai con onore se morirai per una ferita alla schiena».

Irisa sgranò gli occhi, alzandosi a fatica: «Fammi vedere la schiena!»

«È inutile. Ho passato giorni a inseguire te e quel mostro… ho perso troppo sangue» spiegò e finalmente Irisa capì che ad ogni parola si indeboliva.

«Fammi vedere!»

«E allora cosa farai? Sei un medico forse?»

«Non puoi andartene così!»

«E chi lo dice, ragazza dei cavalli?»

«Tu! Non hai detto che volevi morire da orco? Finisce così la tua storia?»

«Sei una bambina sciocca. Te l’ho detto che la guerra è così… non importa che storia hai… chi sei… finisce tutto… nella spazzatura».

Rise ancora, ma stavolta era debolissimo. Era come se avesse messo tutto quello che era rimasto della sua vita nel colpo che aveva ucciso il chimerico.

«Sai, forse è meglio così. Non  muoio da orco, uccidendo. Ma muoio  salvando una vita. Sì, è bello. È come il finale di un poema… la mia ultima poesia…»

«Fammi vedere la ferita, stupido orco!» si alzò e cercò di sollevare quel corpo pesante per le spalle.

«Lasciami dormire, sciocca bambina… vai a fare quello che devi».

«E cos’è? Cos’è che devo fare, eh? Cosa devo fare?» chiese scuotendolo.

Ma Abrai Kub-Rul, orco poeta, non disse più niente.

***

Seppellì Abrai in mattinata, scavando con le mani.

«Non finirai nella spazzatura… non finirai mangiato dai corvi».

Fu un lavoro pesante, le mani le dolevano. Andò a sciacquarsi in un fiumiciattolo lì vicino, dove anche Fulvospirito poté bere un poco.

«Bevi, bello, riposa…»

Il fiumiciattolo scendeva lungo un pendio roccioso, fino ad una valle piena di enormi rovine del Mondo Antico, alti palazzi squadrati invasi dalla vegetazione. Era l’ultima vallata prima dell’Entroterra Selvaggio, una parte del Nanad che preferiva di gran lunga evitare. Cavalcò nei giorni seguenti con l’unico obiettivo di non sconfinare in quelle giungle, pericolose forse quanto i chimerici stessi.

«Ehi, e quella?» disse dopo giorni di cavalcata, avvistando una sagoma dalla forma curiosa.

Una specie di cittadella di ciminiere fumanti sorgeva su di un plateau, dalla cui base sembrava stata asportata da un enorme cucchiaio una porzione circolare di pietra, così che nella cavità tondeggiante si accampavano molti viaggiatori. La riconobbe, ne aveva sentito parlare.

«La Forgia di Juelrok…» era una città-officina la cui popolazione era per lo più composta da elfi e nani di superficie.

«Coraggio, Fulvospirito. Ci fermeremo lì»

Lei sostò con il cavallo sotto la volta della cavità, sui cui arrivavano di riflesso i raggi del sole, facendo splendere di mille colori la sostanza cristallina che la componeva, come se un’ondata di calore avesse fuso e poi vetrificato quella parte della roccia. Secondo alcune leggende, le avrebbe spiegato un mercante nanico nel corso della serata, Juelrok era stata formata proprio così durante la Grande Guerra del Mondo Antico, dove si scatenavano poteri tanto grandi da rendere verosimile una simile cicatrice impressa nella terra. Era un luogo accogliente, ricco di vita, di fascino e di storia, e dopo giorni di fatica e angoscia quella serenità era allettante come una droga. Fu quasi tentata di rimanerci, ma proprio per questo fu assalita ancora dai rimorsi: a quest’ora, era probabile, nessuna compagna era ancora viva o addirittura era diventata un chimerico. Magari proprio in quel momento la Regina Aryl decideva di inviare un altro contingente, non meno ignorante di quanto non fosse stata la Quinta Cavalleggeri, verso le Lande di Rah, o magari perché no, esortava gli altri re dei Sei Regni a fare lo stesso. L’urgenza di consegnare il messaggio di Re Hion, di sentire la risposta della Regina, di impedire un’altra inutile spedizione, tornò pressante: l’ingiustificabile privilegio di essere ancora viva, a differenza di tutti quelli che erano rimasti sulla costa, aveva senso solo se fosse riuscita in questa missione.

«Perdonami, Fulvospirito. So che sei stanco ma… ancora uno sforzo, ti prego. Per Ari… per Sirescuro… per le nostre compagne».

Rimontò alla fine della mattinata, nonostante il cavallo fosse tutto fuorché ristabilito, poi seguì un altro giorno di corsa e di silenzio e stavolta lei nemmeno ne chiamava il nome certa com’era che persino la bestia, malgrado la totale comprensione che avevano l’uno per i sentimenti dell’altra, fosse risentita per il trattamento che riceveva. Solo nella notte fonda dello stesso giorno si rese conto che non si ricordava di mangiare da ormai tre giorni e a quel punto la debolezza le piombò addosso tutta insieme, come di colpo, facendola svenire sul cavallo. All’alba del quarto giorno, il suo miglior amico e destriero era moribondo e lei riusciva a stento a sollevare il collo senza chiudere gli occhi. Alla sera del quarto giorno una divisione dei templari del Nanad raccolse una giovane ragazza stremata e incapace di reggersi in piedi, che piangeva disperata sul corpo di un cavallo morto.

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Capitolo 8
*** MORBANE ***


7. MORBANE

 

Il piccolo regno di Morbane rifiutò i Sei Re e l’unica Chiesa e come volse le spalle alla Dea, così a Dea le voltò ai suoi abitanti e certo essi pagarono per ciò un alto prezzo.

da “Cronistoria del Concordato dei Sette”

 

Suo padre guidava il carretto sulla strada sterrata con mano sicura ma le arance che sobbalzavano nelle cassette di legno la preoccupavano, lui sembrava convinto di poterle tenere a posto col pensiero mentre lei era sicura che si sarebbero rovesciate in strada. Sua madre, davanti a loro, leggeva uno di quei libri con quelle meravigliose copertine piene di immagini variopinte che forse erano simboli, forse disegni, lei non riusciva mai a distinguerlo.

«Sarà una vera svolta, una vera svolta per questa famiglia».

Nessuno di loro, né lei né sua madre, né Lor né Yul, gli diede retta – ma gli ultimi due, appena tre anni a testa, erano giustificati – eppure sua madre gli rivolse comunque un accenno di sorriso condiscendente. Ma suo padre, cresciuto nei campi, sebbene incolto era tutt’altro che stupido: reagì con una smorfia di disappunto che non tentava di celare la stizza. Sentiva di non avere il dovuto riconoscimento.

«Se non avessimo grano e arance e miele e latte, di cosa vivremmo? Ci pensate mai, voi là dietro?»

Lo disse appena sottovoce ma sua madre lo sentì. Jen non capiva mai se fosse per autentica comprensione o piuttosto per pietà ma anche in questo caso chiuse il libro e lo guardò con qualcosa nello sguardo in cui suo padre seppe, o forse volle, leggere delle scuse.

«Sono sicuro che apprezzeranno i nostri prodotti, amore mio».

«Certo che lo faranno. E se inizieremo a vendere a Tuinsy, la nostra vita cambierà! Diventeremo… bé, non ricchi… ma meno poveri» ribadì con uno sforzo di incondivisibile ottimismo agitando l’indice.

Di nuovo, Jen non seppe decidere se era fiducia o condiscendenza quella che sua madre rivolse al padre con il suo gesto di assenso, fatto sta che tornò subito a concentrarsi sul suo volume. Jen amava e odiava quei misteriosi oggetti che erano i libri della madre, come finestre su un mondo totalmente diverso da quello del resto della famiglia, dalla loro realtà fatta di noia, abitudine, fatica e sacrificio. Cosa facevano quelle pagine a sua madre? La conducevano in un posto migliore di quello o piuttosto la risucchiavano via dalla vita vera? E cosa facevano, cosa avrebbero potuto fare, a lei? Cosa custodivano quegli intrecci di parole e colori e forme, un dono o una maledizione?

«Ci fermiamo!» disse suo padre di botto e com’era sua abitudine agì prima di apprendere cosa ne pensavano gli altri.

«Perché, papà?» chiese Jen.

Suo padre fece un cenno alla loro destra e lei, Lor e Yul rimasero tutti e tre a bocca aperta. C’era, oltre una barriera di canne, una striscia di terra chiara e fine mai vista prima e subito dopo più acqua di quanta ne avessero mai visto assieme, acqua a perdita d’occhio, una distesa liquida e scintillante sotto il sole tiepido dei mattini del Draile.

«Non si va a Tuinsy senza vedere il mare» spiegò suo padre «e voi non lo avete mai visto. Facciamo un bel bagno, ragazzi!»

«Arriveremo tardi per l’esposizione, papà…» disse Jen, preoccupata.

«Anche questo è importante. Andate a farvi il bagno e basta».

Cercò lo sguardo di sua madre. Questo si staccò giusto un attimo dalle pagine e le fece comprendere che doveva obbedire, poi tornò immediatamente alla lettura. Jen prese per mano Lor e Yul per invitarli a scendere dal carretto, poi corsero tutti e tre verso l’acqua. Fu il primo momento della sua vita in cui sentì il tocco della sabbia e del mare.

***

Dal suo primo istante di coscienza, Jen concentrò ognuno dei suoi cinque sensi nel capire dove si trovasse. C’era la sabbia e c’era il mare. Ma c’era anche qualcosa che rimarcava quanto diversi fossero quel mare, infestato di alghe scure, e quella sabbia, macchiata da cenere e pece, da quelli che ricordava. Il cielo sopra di lei era innaturalmente scuro e plumbeo, non limpido e azzurro come uno specchio del mare stesso, l’aria fresca ricca di salsedine sostituita da un sottile ma persistente fetore. Il mare di quel momento presente sembrava voler sottolineare in ogni modo la sua differenza con quello esistente nella memoria di lei.

Voglio credere che la vita sia / Come un unico fiume che scorre / Perché se non è questo / è allora un insieme di cose / perdute per sempre, / divorate da un mostro invincibile. / Il nome del mostro è il nome del tempo.

Erano versi che sua madre recitava spesso. Più che una poesia, era un manifesto di pensiero, un credo di un mondo che non era più, una civiltà che ora esisteva nello studio di chi, come sua madre, voleva rivivere un’epoca perduta. Poi si girò sulla battigia e vide l’individuo sedutole accanto sulla sabbia, a pochi passi dalle onde.

«Siete sveglia».

Jen aveva visto molti elfi ma nessuno le poteva piacere meno di quello. Era coperto di foglie secche e vesti lacere e aveva una strana espressione concentrata, come di un animale a caccia. Le ricordò le storie che udiva da piccola, di cacciatori che braccando le stesse prede per mesi nella foresta, pensando come loro e condividendo le loro abitudini, diventavano bestie essi stessi, storie terrificanti, di uomini snaturati e maledetti, e Jen non dubitava – seppur dopo appena uno sguardo – che quell’elfo venisse da una vita, da una storia, molto simile.

«State bene?»

L’apparente cortesia non bastò a cancellare quell’impressione ferina che dava. Non era sinceramente preoccupato per lei, ne era certa. Balzò a sedere e si allontanò da lui spingendo con i piedi sulla sabbia.

«I-io mi… mi chiamo Jen. Molto lieta».

«Non risponde alla domanda» disse con un sorriso comprensivo, che tuttavia era assolutamente falso «tuttavia mi presenterò anch’io, a questo punto. Il mio nome è Valadwen Yun Valiel, sono un ramingo al servizio della Regina Elfica di Evalunith».

«Evalunith? Quella… Evalunith?» chiese Jen sgranando gli occhi.

«L’unica e sola» il sorriso innaturale sembrò cristallizzarsi sul suo volto e non se ne andò più.

«Evalunith…»

Jen aveva sentito molte volte parlare di Evalunith, una delle più grandi città elfiche al mondo. Tra tutte, però, era la più difficile da raggiungere perché si diceva che fosse nascosta nelle foreste sulle montagne oltre il Lago Kalst, resa invisibile agli occhi umani grazie alla magia dei druidi. Tuttavia, capitava che qualche viandante smarrito vi arrivasse comunque, per caso, per tornare raccontando trasognato le meraviglie della dimora degli elfi della Luna, la città dai colori di platino e perla. Proprio lei, con Yul, aveva ascoltato le storie incantate di una compagnia di girovaghi che sosteneva di esserci stata per addirittura una settimana. Era un luogo di fiaba, bello e irraggiungibile e confortante come un sogno. Era strano pensare che quel tipo inquietante venisse da lì.

«Sei… nato… ad Evalunith?» desiderò subito di non averlo detto ma i pensieri le erano usciti di bocca troppo in fretta.

L’espressione dell’elfo mutò per una frazione di secondo appena ma poi tornò subito sorridente prima che Jen potesse leggervi qualche emozione precisa: «Strana domanda per iniziare una conoscenza. No, signorina, io sono nato a Valadwen, patria degli elfi d’autunno. Mai sentita?»

«Ehm… no… era solo curiosità, comunque».

Valiel non accennava a dismettere quella insopportabile espressione condiscendente e ipocrita: «Bene! Malgrado il nome, c’è ben poco da sapere su un posto come quello. Al contrario di questo luogo, purtroppo».

Jen si guardò intorno, osservando la sabbia sporca e il mare fetido. Oltre la spiaggia si apriva un bayou innaturalmente contorto e fitto, intrappolati tra la vegetazione e il fango potevano vedersi rifiuti, scarti e relitti dalle forme ormai indistinguibili. Ancora oltre il bayou, svettava contro il cielo scuro una massa di edifici in rovina dai tetti divelti e i muri crepati che, data l’altezza e la maestosità, dovevano aver composto in passato una città grande e gloriosa.

«Dove… ci troviamo?»

«Morbane, l’isola a metà tra il Contine Rubato e l’Astermagna».

«Continente Rubato…?»

«Gomorroindra. Mai sentito?»

«Gomo …»

«Lascia perdere».

«E di quale isola parli?»

«Morbane, come ho detto» ribadì dondolando la testa come chi vuol dire: “Purtroppo è proprio così”.

Jen comprese che la spiegazione avrebbe dovuto dirle qualcosa ma non era così. L’Astermagna, ovviamente, era il continente dove i Sei Regni dimoravano: Mohtam, Nanad, Nistria, Nadorhai, Rah e il Draile dov’era nata e cresciuta. Ad est di questa vi era la Nerimkora, le Sabbie Cieche, da cui venivano gli orchi; a nord-ovest si trovava l’ “Imperiale Bianco”: Keiserbana, terra innevata di villaggi sparuti e delle grandi città sotterranee dei nani. E poi… nient’altro. Non si parlava mai di altri continenti, anche se non aveva mai visto o cercato una vera mappa del mondo. Nessuno le aveva mai detto espressamente: “Non c’è altro” ma nessuno aveva mai nominato altre terre.

«Gomorroindra … il Continente Rubato?»

Valiel fissò Jen per qualche secondo, poi disse solo: «Comunque, non importa» e aggiunse dopo una breve pausa «Incamminiamoci».

«I-incamminiamoci? E verso dove?»

***

Sosha si affacciò dal balcone incrostato del pulviscolo nero che si era stratificato su quello che un tempo era il palazzo del Municipio, osservando la città sotto di lui. Le ciminiere delle vecchie fabbriche, ormai adibite semplicemente a giganteschi falò, continuavano ad affumicare chi aveva voluto dimorare negli alloggi più alti – questi erano i cittadini più sfigurati e deformi, talmente ripugnanti alla vista persino per gli standard della sua gente che preferivano vivere reclusi, lontani dai bassifondi. I rioni stretti e bui erano invasi dai pochi averi dei cittadini che vi stendevano panni, sistemavano divani, cuocevano carne, scaricavano spazzatura.

«Quale dunque il bilancio questo mese, dopo il carico dall’Astermagna?»

L’uomo che si era trascinato nella sua stanza sulle stampelle – non aveva gambe – alzò il capo da terra e disse: «Sire, la percentuale di storpi e invalidi è scesa, invece aumenta quella di appestati e contagiati. Principalmente li scaricano dalla Nistria e dal Nanad così da tenerli lontani dai loro amati, sanissimi, perfetti pargoli».

Sosha rifletté appena un attimo: «Un cambiamento piuttosto netto. Mi domando cosa lo cagioni».

«Posso rispondervi, sire. C’è una nuova forma di pestilenza in Astermagna. La Chiesa della Dea va sforzandosi di nasconderla. Chi non può essere curato… è invitato ad andarsene»

«E ci riempiono di piagati. È un bene questo: i malati contagiosi scoraggiano gli indesiderati».

Era un ottimo deterrente per chi voleva tentare un assalto militare o anche solo una scorreria. Arrivavano parecchi gruppi, chi per soddisfare la propria ipocrita sete di pietà e chi per sfruttare la loro miseria o anche per corrompere l’onesta anarchia delle loro vite con leggi ingannevoli spacciate per soluzioni salvifiche a tutti i loro problemi, venivano e dovevano essere ricacciati indietro. Con la forza non sarebbe stato possibile, con la ripugnanza invece era fin troppo facile. Morbane, il regno-discarica, non temeva alcun esercito.

«Altro?»

«I ratti sono più grossi e feroci dell’anno precedente ed è un bene anche questo: da qualche mese la carne non è più un lusso per i pochi fortunati che catturano qualche bestia senza nome nel bayou».

«Me ne rallegro. Il popolo deve pur mangiare».

Sosha alzò lo sguardo oltre le ultime case consunte: le guardie di Morbane, i suoi fidi monatti, perlustravano le strade, completamente coperti di tuniche stracciate e da maschere dal lungo naso – queste finalizzate a purificare il più possibile l’aria che respiravano – e, grazie ad un cargo di robivecchi giunto quasi due anni prima, giravano meglio armati di un tempo: mannaie sbeccate, pale consunte, forconi e rastrelli erano gli strumenti più in voga per mantenere il minimo di ordine necessario nelle strade. Come trentottesimo Re di Morbane, sotto il suo regno tutto andava decisamente meglio di quanto chiunque potesse ricordare.

«E dell’imbarcazione elfica che si è arenata ieri notte, che mi sai dire?»

***

«L’ho detto e lo ripeto» spiegò gentilmente Valiel «non vogliamo niente dal Re se non un mezzo per lasciare la vostra isola».

La città di Morbane era per Jen come un incubo ad occhi aperti. Sembrava che non ci fosse assolutamente niente che non fosse corrotto o marcescente, muschiato per l’umidità o annerito per gli scarichi tossici. Non aveva visto una sola persona in salute, solo mendicanti, barboni e derelitti afflitti dalle più varie malattie, qualcuno lo era al punto da non poterlo più paragonare ad un essere umano o umanoide. Anche le guardie con cui Valiel si sforzava di comunicare dovevano essere ritardate o addirittura sorde.

«La mia imbarcazione si è rotta. Non mento, è la verità. Se trovassimo un altro modo di andarcene, ce ne andremmo subito».

Non ricevette alcun tipo di reazione dalle guardie stranamente abbigliate.

«Signor Valiel… andiamo via».

Si pentì subito di averlo suggerito: il bayou, un ammasso fetido di spazzatura, acqua, funghi e vegetazione, era stato molto più spaventoso in pochi minuti di traversata di quanto la città potesse mai essere. Dopotutto là abitavano esseri umani, mentre le cose curve simili a blatte che si aggiravano nel bayou non avrebbe nemmeno saputo con che nome chiamarle. Ma a giudicare dalla reazione della gente, lei e l’elfo con la loro sanità fisica erano non meno ripugnanti per i morbaniani di quanto non fosse il contrario.

«Dato che non mi lasciate altra scelta, chiedo formalmente udienza al Re Sosha».

Non accennarono a spostarsi dall’arco di pietra erosa che avrebbe permesso loro di passare dal bayou al quartiere esterno della città. Per strano che potesse sembrare, erano loro a non volere Jen e Valiel, come se potessero contaminarli con qualcosa di molto peggio di ciò che già consumava quella enorme città un tempo magnifica. Valiel si appoggiò pigramente ad una colonna spezzata, conficcata nella terra umida.

«Perché non ci vogliono nemmeno parlare?» domandò Jen.

«Il mondo preferisce non pensare all’esistenza di Morbane. E quindi Morbane rifiuta questo mondo tanto quanto si sente rifiutata. È persino legittimo in un certo senso».

«Non capisco… cos’è questo luogo? Cos’è successo qui?»

La maschera dell’elfo si incrinò, svelando un sorriso amareggiato: «Non sai nemmeno questo? Cinquecento anni fa, dopo la Grande Guerra, gli abitanti di questo piccolo regno si ammalarono di una piaga sconosciuta; ma non vollero abbandonare la loro terra, perché la amavano, anche se pare che proprio maltrattare la terra abbia scatenato la piaga. Allora, poiché erano così vicini al Continente Rubato, i signori degli uomini decisero ciò che pareva loro meglio: usare questo regno come discarica per tutti gli umani che altrove non fossero desiderati. Era un regno piccolo e indifeso che non accettava la sottomissione ma non valeva la pena di una conquista, quindi era perfetto per questo scopo».

«Indesiderati? Perché mai dovrebbero esistere persone che nessuno vuole?»

Valiel guardò verso l’alto, scuro in viso: «Vorrei sapere la risposta. Forse gli umani non vogliono pensare alla loro morte, alla fragilità e vulnerabilità della vita. Perciò allontanano chi gliela ricorda. Del resto, presto i nani e gli elfi hanno iniziato anche loro a mandare la gente in quarantena qui a Morbane. Forse le specie civilizzate sono capaci, e solo loro, di infliggere certe crudeltà ai propri simili. Anzi, forse sta nella crudeltà il senso stesso della cosiddetta civiltà».

Jen si appoggiò anche lei, stancamente, alla stessa colonna e si lasciò cadere a sedere su una roccia circondata da funghi minuscoli che si affollavano intorno ad essa.

«Lei mi sembra triste. Arrabbiato e triste».

L’elfo rimise immediatamente su quell’espressione di cortesia insincera che la spaventava: «Oh, non si preoccupi per me».

Jen rifletté: che senso aveva mantenere segreti, a quel punto? Non sapeva dove si trovava, né cosa stava succedendo. Non sapeva che fine avesse fatto Ed, né perché Ed ci tenesse tanto ad essere accompagnata alle Isole Ranaluta da lei. Né, d’altro canto, lei aveva rivelato tutto ad Ed. E se Ed era morta o scomparsa, il suo unico obiettivo doveva essere tornare nel Draile, alla sua fattoria. Che arma aveva se non l’onesta, aperta richiesta di aiuto?

«Signor Valiel…»

«Va bene solo Valiel».

«Valiel, allora. Posso capire perché vuoi lasciare questo luogo. Ma perché vuoi lasciarlo insieme a me? Perché non mi hai lasciato in spiaggia dopo avermi raccolto in mare?»

Valiel non rispose subito. Jen ebbe l’impressione che stesse valutando anche lui se essere sincero o meno.

«Sto seguendo la nana che accompagnavi, la forgiatrice. Per ordine della mia regina, dovrei scoprire cos’è successo alla Forgia del Lago Kalst settimane fa e che ruolo aveva lei. E soprattutto chi le dà la caccia e perché, perché il fatto che qualcuno la stia braccando è fuori discussione e possiamo dire per certo che è qualcuno di pericoloso».

Jen rabbrividì rimettendo a fuoco come era arrivata lì: la nave che andava in pezzi, i marinai in fuga… tutto scaturito dall’apparizione di un singolo individuo, di quello sconclusionato nano in giallo… lo scontro di incredibili poteri tra lei e Ed, che sembravano modellare la materia con una naturalezza per lei incomprensibile. Ed sconfitta… il naufragio.

«Insomma, devo solo farle delle domande. Non hai ragione di preoccuparti per lei, almeno non per causa mia».

Era un’altra menzogna, Jen lo avvertiva distintamente, ma si preoccupò di precisare: «Non è mia amica».

C’era cascata: Valiel aveva aspettato proprio il momento per porre quella domanda: «Allora perché la seguivi?»

Desiderò di essersi morsa la lingua: «Perché… bè, lei… aveva salvato i miei fratelli da alcuni… golem, si chiamano così, no? E allora per sdebitarmi le vado dietro per… per servirla».

«Non siete sincera» insistette pacatamente l’elfo, calcando ancora di più la nota di gentilezza forzata per nascondere l’impazienza «Cosa mai potreste fare voi per una apprendista forgiatrice di quel talento? Dev’essere qualcosa di preciso, di specifico».

«Vi sbagliate! Io…»

«E comunque» interruppe lui «non è stata lei a salvare i suoi fratelli, ma io, anche se forse non lo crederete».

Jen ripensò alle parole di Ed, così inusuali per una spaccona come lei: «Non so come ho fatto…»

«Invece vi credo» ammise dopo qualche secondo «È stata proprio lei ad ammettere che qualcun altro aveva distrutto il golem e non lei… suppongo quindi che dovrei ringraziarvi».

«Non dovete affatto, l’ho fatto solo perché era il mio dovere come ramingo e per il rispetto del Trattato dei Popoli. E per la stessa ragione vorrei comprendere appieno cosa succede. Chi è questa ragazza? Perché fugge? E perché fugge con voi?» più calmo e apparentemente casuale era il suo tono, peggiore era l’effetto che le faceva.

Sbottò: «Kalaston! Vi dirò tutto, tutto quello che so» esclamò, stavolta mentendo lei «Fatemi solo tornare a Kalaston! Dalla mia famiglia!» si pose esattamente davanti a lui «Io non c’entro niente con questa storia, ne so poco e vorrei saperne ancora meno. Voglio solo dimenticarmela».

Di nuovo, l’elfo sorrideva in modo strano, colmo di tristezza e rabbia invisibili ma al contempo impossibili da non notare.

«Credetemi, c’entro meno di voi».

***

Sosha bevve una coppa di vino inacidito prima di mettersi in bocca una radice cotta male per masticarla con un certo sforzo. Quando fu ridotta ad una poltiglia fibrosa e ostinata, dal quale aveva succhiato via ogni sapore, la sputò sotto il tavolaccio di legno. Subito accorse qualche sorta di piccolo roditore arboricolo che gli si era infilato in casa da qualche finestra, rubò il bolo masticato e fuggì mentre il Re di Morbane gli calciava contro una coppa sbeccata, finita a terra. Malgrado l’oggettiva scomodità della sua sala da pranzo, provava solo e soltanto disgusto e rabbia per i Re dei Sei Regni, che si diceva vivessero una vita niente affatto paragonabile a quella dei loro sudditi: che razza di regnanti erano, se non conoscevano la vita della loro gente? Lui, invece, era appartenuto a Morbane sin dal suo primo ricordo ed era cresciuto in essa e ne era fiero. La miseria dei suoi sudditi e la sua si compenetravano a vicenda, erano parte di un’unica trama.

«Sire» sibilò un monatto che gli era strisciato accanto mentre lui osservava l’animaletto dileguarsi.

 «Parla pure» concesse, con la voce roca per il catarro.

«Dalle porte a sud est una ragazza umana ed un elfo hanno chiesto di entrare. Vorrebbero comprare una barca, credo, per lasciare l’isola».

«Nulla si compra a Morbane. Le cose si trovano, si raccattano o si elemosinano. È una delle Tredici Leggi, non devo certo ricordartelo».

«Perdonatemi, Re Sosha. Non ho espressamente sottolineato che questi due non sono dei nostri».

«Come?» il giovane monarca sgranò gli occhi. Trangugiò dell’altro vino prima di alzarsi dal pavimento dov’era seduto, rovesciando senza curarsene il tavolo malamente arrangiato con dei mattoni e tavole di legno tarlato. Il vino e le radici caddero spargendosi a terra e per buona misura Sosha lasciò volontariamente che la coppa gli cadesse dalla mano, sulla macchia di sporco che si andava allargando.

«Sono forse dei reietti arrivati qui per conto loro?»

«Sono perfettamente sani, sire. Non appartengono a noi, in nessun senso possibile».

La parola sani fece sussultare Sosha: «Gente sana nella nostra terra non può volere niente di buono. Devono essere giunti con la barca elfica».

Rovesciò l’ammasso di pelli e stracci che gli faceva da letto e trovò sotto questo, nascosta in un buco del pavimento, la sua arma personale, simbolo del Re di Morbane.

«Li riceverò. Conducili alla mia corte».

 

***

Jen attraversò l’intera città di Morbane cercando di non vedere, né sentire, né odorare alcunché. Ma arrivata alla Sala del Trono di Re Sosha si confuse e suo malgrado non riuscì a celarlo. Persino Valiel si guardò intorno, meravigliato. La sala doveva essere stata, un tempo, un giardino rettangolare – ora integralmente ricoperto da rifiuti e cianfrusaglie – sul cui fondo stava il trono. Ai lati stavano giganteschi alberi morti, i cui rami si annodavano incessantemente su sé stessi come avessero tentato di sfuggire alla morte; i tronchi avevano ricevuto, per mano di abili scultori, un lavoro certosino che aveva intarsiato nei loro tronchi le figure di re e regine del passato, la cui perfezione era però odiata dagli attuali abitanti, che avevano quindi sfregiato con tagli grossolani ma profondi, grossi chiodi e bruciature ciascuna singola figura, maschile e femminile: ora i monumenti dei grandi re erano sfregiati e deformati non meno dei sudditi che vivevano nel presente. Sul fondo stava il trono, anch’esso scolpito in un tronco nodoso, depredato di ogni singola gemma e di ogni grammo d’oro e sfregiato anch’esso, non ne era rimasto che lo scheletro. Sotto ogni albero stavano in attesa delle figure integralmente incappucciate i cui volti erano perlopiù bendati: dovevano essere i cortigiani di Sosha.

«Ehm… salve…» disse nervosamente ma il trono era vuoto.

Entrò, barcollando come un ubriaco, un giovane uomo con qualcosa di lungo e pesante appoggiato su una spalla. Aveva lunghi capelli acconciati in treccine e una barba tagliata irregolarmente, gli occhi truccati di nero e il fisico scavato, la pelle butterata da chissà quante piaghe. Dai lineamenti, si capiva che doveva essere stato un bel ragazzo, pensò Jen, e come spesso accade la commistione di bellezza e sofferenza le mise addosso la voglia di stringerlo, di consolarlo, quasi di salvarlo. Ma le passò subito: negli occhi di quel ragazzo, per loro, c’era solo uno sdegno troppo forte e radicato per poterlo dissimulare. Sedette sul trono e con un gesto plateale mostrò a tutti l’oggetto che portava: era una spada spezzata, tanto che ne mancava metà, la quale era stata evidentemente ricavata da un blocco di roccia grezzamente scolpito e non dalla fusione di un metallo; una catena partiva dal pomello e si legava attorno a tutto il suo avambraccio, legando indissolubilmente la spada e l’uomo. Sebbene la scritta rossa sulla lama fosse illeggibile, quando fece rintoccare l’arma contro il pavimento la reazione intimorita dei cortigiani fugò ogni dubbio su cosa rappresentasse quell’oggetto: rappresentava la regalità a Morbane.

«Cosa volete da noi, cari amici dall’Astermagna?» chiese colmo di sarcasmo il giovane monarca, senza salutarli; la conversazione non si apriva certo nel migliore dei modi.

Nessuno dei cortigiani si mosse più, erano concentrati con ogni fibra sulle parole del loro monarca. Jen notò che i tetti che circondavano il giardino, definendone i confini, si affollavano di quelle strane guardie mascherate col becco che aveva visto in giro per la città. I viaggiatori non dovevano essere all’ordine del giorno, a Morbane.

«Una nave, sire, solo una nave» rispose Valiel, deferente «o un qualsiasi altro mezzo per tornare in Astermagna e liberarvi dal mortificante disturbo della nostra presenza».

Jen intuì subito che l’enfasi con cui Valiel si piegò in ginocchio non era frutto di un suo personale capriccio e si inginocchiò immediatamente anche lei, tanto quasi da toccare il pavimento sudicio con la fronte.

«Bene» commentò Sosha, mostrando i denti consunti in un sorriso malevolo «sono lieto di vedere che sapete stare al vostro posto».

Valiel non alzò la testa neppure di un millimetro. Jen faceva quasi fatica a guardarlo, da quella posizione esageratamente prostrata. Re Sosha rifletté per un po’.

«Che fareste, comunque, con una nave? Non vorrete certo salpare verso l’Oceano del Blu Maggiore per raggiungere il Continente Rubato, no?»

«Chi viaggia nelle terre infestate dal Chimaer è un pericolo per sé stesso e per gli altri. No, maestà, non abbiamo alcun affare in quelle terre e mai l’avremo».

Il Chimaer, aveva detto Valiel, e per la seconda volta quel giorno Jen si ritrovò a pensare alle parole di Ed e alla creatura luminescente che le aveva aggredite nella grotta; anche Ed aveva parlato del Chimaer, ricordava bene. Ma cos’era il Chimaer, se non una delle molte minacce incomprensibili, da cui la Chiesa metteva in guardia i fedeli in maniera vaga?

«Sarà meglio. Non si torna dal Continente Rubato. Non si sfugge al Chimaer che domina quelle terre».

Eppure, c’era sempre qualcuno che sembrava saperne più di lei e di qualsiasi compaesano con cui avesse mai parlato e quel pensiero non le piacque per niente. Jen era cresciuta pensando di possedere qualcosa di unico e prezioso: nascondendo un segreto, una conoscenza che non doveva essere condivisa con il resto del mondo. Invece, dal giorno dell’incidente, sembrava che chiunque sapesse qualcosa di più di lei sul mondo e sulle sue regole. Si faceva strada in lei l’impressione che chi, come la sua famiglia, si occupava della terra e del lavoro, vivesse in una specie di realtà fittizia da cui tutta una serie di concetti erano stati rimossi, censurati, nascosti alla coscienza comune. Spesso suo padre lamentava che non erano le persone come loro a decidere il corso della storia, che altri decidevano nell’ombra sulla loro pelle. Perché non avrebbero dovuto anche decidere cosa sapevano e non sapevano le persone come Jen? Strinse i pugni per la rabbia e con l’idea che il vero saggio, in famiglia, fosse stato sempre e solo suo padre. Si sentì ignorante e impotente.

La voce di Re Sosha la riportò al presente: «In ogni caso, non permetterò a due sprovveduti del continente di venire qui a fare i propri comodi ed andarsene. Ho pensato giusto ad un modo per trattarvi come meritate».

«Sire?» chiese Valiel con tono supplichevole ma Jen colse una sfumatura strana nella sua voce; in qualche modo fu certa che, nel caso le cose degenerassero, Valiel era preparato – e assolutamente disposto –  a ricorrere alla violenza: anche lui stringeva i pugni, la tensione nel suo corpo saliva. Jen avrebbe dato qualsiasi cosa per essere in un altro posto.

«Voi continentali avete la cosiddetta legge del mercato. “Niente in cambio di niente”, giusto? Ebbene, anche voi avrete quanto chiedete: arriverà presto un carico di scarti al porto e potrete andare via con quella nave quando ripartirà. Ma avrete questo solo in cambio di qualcos’altro. Un piccolo servizio».

«A vostra disposizione, sire».

Il tono di Re Sosha cambiò leggermente, si colorò quasi di una nota allusiva: «Sotto le fondamenta della città vive un mostro. Una creatura abominevole la cui sola esistenza minaccia le nostre».

Jen avvertì il fremito nei cortigiani di Sosha. Qualcosa nelle sue parole doveva sembrargli stimolante o addirittura divertente.

«Una creatura troppo potente per le mie guardie, siamo tutti malati o mutilati, del resto. Ma forse un ramingo elfico avrebbe qualche possibilità in più. E quindi vi chiedo…»

«…di uccidere ciò che dimora nelle fondamenta della città» concluse Valiel, con una punta di noia.

***

La spada spezzata fu ricongiunta all’altro frammento, che trapassava una incudine ottagonale. Sosha impresse molta forza per farla girare e presto venne soccorso da due monatti che lo aiutarono nella torsione. Le misteriose incisioni sulla lama rozzamente scolpita si illuminarono di un rosso violaceo per un attimo, quindi l’incudine girò. Ciascuna delle mattonelle a spicchio che circondavano l’incudine sprofondò verso il basso, ognuna fermandosi ad una diversa altezza. In pochi secondi la saletta circolare si era trasformata in una scala a chiocciola che scendeva ripida verso il sottosuolo. Il sovrano di Morbane guardò l’elfo e la ragazza con aria di sfida.

«Una serratura nanica» osservò Valiel «può essere preoccupante, credo».

Iniziò immediatamente la discesa e Jen non ci pensò un attimo a seguirlo. Appena li vide sparire Sosha spezzò di nuovo la spada, che smise di splendere. Gli scalini si ricomposero nuovamente in un unico disco di pietra e così l’apertura fu di nuovo sigillata. Uno dei suoi cortigiani si avvicinò strisciando sulle ginocchia e volse l’occhio, l’unica cosa che le bende avevano lasciato libera, verso il suo re, mentre gli altri si disperdevano.

«Sire… siete sicuro che non faranno ritorno?»

«Non c’è nulla che sia sicuro. Se faranno ritorno, data la difficoltà dell’impresa, ne prenderò atto e arrangerò il loro imbarco».

«Ma la cosa che dimora laggiù non può certo essere uccisa con semplici armi. Che senso ha questa prova?»

Sosha sogghignò: «C’è una ragione per cui questo è da sempre il castigo che riserviamo ai viaggiatori del continente. La conosci?»

L’uomo deforme scosse la testa bendata. Camminarono per un po’ lasciando la saletta, l’uomo inseguiva il suo Re e le sue risposte.

«Non so come quell’essere sia finito laggiù e nemmeno so se davvero un giorno ne verrà fuori. Neanche so come i miei antenati l’abbiano rinchiuso e neppure mi interessa. Ma ecco cosa so: Morbane è un luogo che il mondo non vuol vedere, che non vuole ammettere che esista. Per uno scherzo del destino, la cosa che dimora sotto di noi è anch’essa una esistenza che il mondo non accetta. Ecco perché infligge il castigo ideale a chi ci rifiuta».

Re Sosha sorrise, mentre i monatti si facevano di lato per lasciarlo tornare alle sale del palazzo reale, ormai invase da muschio e funghi e infestate da giganteschi coleotteri brulicanti, che si cibavano di sporco incuranti degli umani che passavano loro vicino.

«Ma!» fece il cortigiano, incuriosito, venendogli dietro «Di che verità si tratta, mio signore?»

«Non posso saperlo per certo» ridacchiò il re «ma in fondo Morbane rappresenta la prima verità a cui nessun uomo debole di mente può pensare: la verità della morte. C’è solo un’altra verità che terrorizzi altrettanto».

Sosha alzò un dito verso l’alto, con un gesto plateale. Il cortigiano diresse l’occhio verso la volta della sala dov’erano appena entrati. I muri erano tappezzati dai rozzi graffiti che i primi signori di Morbane a contrarre la malattia avevano disegnato. Erano disegni privi di senso, evocativi di qualcosa di indefinito legato al sesso, alla violenza, all’infermità. Si accavallavano tra loro fino a formare un unico inquietante murale: la manifestazione visibile dei loro incubi, delle loro menti che si sbriciolavano sotto i colpi del male sconosciuto che li devastava, terrorizzandoli.

«La follia. Ecco l’unica paura che può competere con la morte. La verità dell’assenza di qualsiasi verità. Mi capisci?»

L’uomo abbassò la testa, come fosse mortificato. Diversi tra i cortigiani di Sosha un tempo erano stati filosofi e sapienti di altri paesi, lui invece era stato un giudice. Ciò a cui ambiva era comprendere l’essenza di quel castigo che era l’estrema punizione a Morbane ma non riusciva ad afferrarla. Né riusciva a capire cosa venisse effettivamente punito, se non l’incapacità di sopportare una verità insopportabile. Ma quale?

«Non comprendo, sire, mi spiace» ammise infine.

«Mettiamola così» spiegò Re Sosha portandosi la spada spezzata sulla spalla «se usciranno vivi da lì, non vedo ragione di punirli. Ma io non credo che la cosa che dimora laggiù abbia mai ucciso qualcuno. Credo piuttosto che chiunque l’abbia vista si sia tolto la vita».

 

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