ACKNOWLEDGE ME

di Nina Ninetta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I - Eric ***
Capitolo 2: *** Capitolo II - Maria - ***
Capitolo 3: *** Capitolo III - Franco - ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV - Ben - ***



Capitolo 1
*** Capitolo I - Eric ***


NdR
Questa storia non ha un vero e proprio finale, poiché sarà il giudice del contest alla quale partecipa a decidere la sorte dei miei personaggi.
[Cito testualmente dal bando] "Ogni pacchetto sarà legato a un certo evento X che avrà luogo alla fine della vostra storia. Una serie di conseguenze, che voi non potrete conoscere fino alla pubblicazione delle valutazioni finali, saranno legate al Contesto e potrebbero essere influenzate in modo più o meno determinante dalle vostre scelte."
Quando il contest scadrà e avrò la mia valutazione, con tanto di finale a sorpresa, sarà mia briga riportarlo per filo e per segno.
Fino ad allora, buona lettura a tutti,
Nina^^

 
 

ACKNOWLEDGE ME
 
 
Capitolo I
- Eric -
 

 
Eric si trascinò lungo la rampa di scale, puntellandosi ora con la spalla destra contro il muro sudicio e imbrattato del palazzo, ora con il bacino contro la ringhiera celestina e scorticata, di ferro vecchio e freddo. Nella mano stringeva una bottiglia di vino scadente che aveva comprato al market a pochi isolati da lì. L’aveva aperta appena fuori dal negozio e se ne era già scolata una metà.
Era arrivato al secondo piano, solo altri due e avrebbe raggiunto il suo.
Si udiva il pianto di un neonato, sembrava disperato, come se gli fosse capitata la cosa peggiore della sua vita. Illuso. Cosa gli poteva mai capitare di così brutto a pochi mesi dalla nascita, quando in pratica si hanno le funzioni vitali e cerebrali di una scimmia?
Il cane della signora disabile del piano terra cominciò ad abbaiare, i suoi versi divennero sempre più simili a un latrato, pareva che rispondesse al pianto del bambino.
Chissà, forse tra bestioline si comprendevano, pensò cinico Eric arricciando le labbra in un sorriso.
Finalmente raggiunse il quarto piano, attraversò un corridoio stretto e lungo, le cui pareti erano ricoperte da carte da parati in stile barocco, sebbene su più punti fossero state disegnate sagome oscene e offensive. Le porte delle abitazioni si trovavano solo su un lato, quello sinistro, e la sua era giù in fondo. Con mani non proprio salde rimestò nella tasca del giubbotto e, tra spiccioli vari e vecchi scontrini, trovò le chiavi. Gli caddero, finendo sulla moquette bordeaux, perciò si chinò a prenderle accompagnando il gesto con un lamento (non aveva più vent’anni da un po’ oramai), poi le inserì nella serratura.
La porta si mosse cigolando, rivelando un monolocale buio e angusto. Un lezzo caldo, oleoso, lo investì in pieno volto, provocandogli un forte senso di nausea. Prima ancora di accendere la luce richiuse la porta con un calcio e si mosse in direzione dell’unica finestra, spalancandola.
Il freddo della notte di Chicago lo colse simile a uno schiaffo, ma Eric non si lasciò intimorire: alzò la bottiglia, come se volesse brindare alle stelle, e ne bevve un lungo sorso.
In lontananza rimbombarono le sirene della polizia e il guaire dei randagi.
Eric si voltò indietro, osservando la casa che ormai abitava da qualche mese, chiedendosi come diavolo ci fosse finito lì? Quando era successo, dannazione?
Fece per raggiungere la poltrona di pelle marrone, consunta e con le molle rotte ma ancora utile, urtando con il piede una bottiglia di vetro riversa sulle mattonelle e per poco non ruzzolò a terra.
«Ma che cazzVaffanculo!» Urlò al silenzio assoluto del locale, dalla finestra arrivò un rumore metallico: forse un gatto aveva rovesciato un bidone della spazzatura. O era stato un topo? Lungo la West Side i roditori erano grossi quanto felini siamesi.
Eric diede un calcio alla bottiglia, questa rotolò fino a raggiungerne un’altra che, come lei, giaceva inerme da chissà quanti giorni.  
Grazie alla luce arancione del lampione che filtrava dalle ante spalancate, raggiunse il frigorifero, facendo attenzione a non inciampare di nuovo. Lo aprì, sbirciandovi all’interno: sul fondo giaceva un unico involucro di carta velina che conteneva un sandwich. Lo scartò annusandolo: sapeva di vomito stantio, perciò preferì gettarlo nella spazzatura.
Perfetto, sospirò, l’ennesima giornata senza cena!
Stringendo ancora la bottiglia di vino che aveva comprato quella sera stessa – cavolo, era uscito di proposito! –, si accomodò pesantemente sulla poltrona, le cui molle cigolarono sinistre. Eric bevve ancora un sorso, quindi chiuse gli occhi e si sostenne la fronte con la mano libera, il gomito poggiato sul bracciolo strappato, da cui fuoriusciva la spugna consumata.
 
Aveva pensato più di una volta di farla finita, ci aveva anche provato seriamente – in
una sola occasione –, ma si era rivelato troppo vigliacco anche per togliersi la vita. Era successo una settimana dopo che viveva in quella topaia, quando credeva che non sarebbe sopravvissuto un giorno in più a quello schifo. Aveva fatto una ricerca su Google e visto video su Youtube su come ammazzarsi senza provare dolore. Si era stupito di quanti link, video e consigli ci fossero in rete riguardanti l’argomento. Incredibile. Il tentativo più plausibile gli era sembrato il cocktail di farmaci. Per un momento, aveva anche optato di bere varichina – sicuramente il metodo meno costoso –, ma stando alle esperienze dei sopravvissuti, la scelta del detersivo poteva risultare infinitamente dolorosa. Infatti, prima di tirare le cuoia, lo stomaco sembrava andare a fuoco e si cominciava a schiumare dalla bocca, quindi, se non ci avesse pensato il veleno a uccidere, l’avrebbe fatto la saliva e alla fine si sarebbe schiattati strozzati.
Tagliarsi le vene? Banale, doloroso e sporco. Lui voleva un lavoro pulito.
Perciò, aveva comprato due tipi di antidepressivi (consigliatissimi da uno che se ne intendeva!) e ne aveva ingerito appena due compresse quando, terrorizzato, si era portato un paio di dita alla gola causandosi il vomito. Era poi rimasto a piangere per qualche minuto, aggrappato alla tazza del suo water, simile a un tossico strafatto.
Da quella notte erano trascorsi diversi mesi, tre per la precisione, abituandosi anche a ciò che non aveva mai creduto: quella miseria.
Si stupiva sempre, Eric, di quanto grande potesse essere la capacità di adattamento dell’essere umano.
 
Le tempie iniziavano a martellargli, gli effetti dell’alcool si facevano sentire ogni sera sempre più presto; d’altronde, lui non era mai stato uno che amava bere, neanche quando era ragazzo.
Si alzò a fatica, lasciando finalmente la presa sul collo della bottiglia che adagiò momentaneamente sopra al davanzale della finestra, prima di dirigersi in bagno. Accese la lampadina davanti allo specchio, la luce tremò per qualche istante e infine si stabilizzò, mentre osservava il proprio volto riflesso nello specchio sporco e ombroso. Non si riconosceva neanche più, l’uomo che stava fissando non poteva essere lui: quella barbetta incolta, brizzolata, non gli apparteneva; quei capelli spettinati e senza un taglio preciso, spenti, senza colore, grigi, non erano i suoi; gli occhi castani, un tempo vispi e intelligenti, erano spariti, soppiantati da due pupille vuote, inespressive.
«Sei un fallito» disse a se stesso nello specchio, poi aprì lo sportello sbilenco del mobile sopra al lavabo e, come aveva fatto pocanzi con il frigorifero, ne osservò l’interno per un po’, nonostante ci fossero davvero poche cose tra cui scegliere: una schiuma da barba con il fondo arrugginito, uno spazzolino dalle spatole spiegazzate, un tubicino di dentifricio spremuto fino allo stremo e un flacone di Ibuprofen. Prese quest’ultimo, si lasciò cadere una pillola direttamente in bocca e poi rimise a posto il tutto, tornando in cucina. Qui afferrò nuovamente la bottiglia di vino e ne bevve un lungo sorso, quando qualcosa attirò la sua attenzione.
 
All’incrocio, tra Pearson Avenue e Cicero, qualcuno sbucò correndo. Inciampò per guardarsi alle spalle, ma riuscì comunque a restare in piedi e a proseguire lungo la strada deserta. Era un ragazzo e, appena qualche secondo dopo, ne spuntarono altri tre, intenti a raggiungerlo, era evidente. Uno di questi ci riuscì e lo atterrò afferrandolo per le gambe, in una presa classica da bloccaggio di football americano.
I due ruzzolarono sul marciapiede, lottando tra di loro. Ben presto furono raggiunti anche dagli altri, i quali se l’erano presa comoda. Anzi, quello più alto pareva proprio crogiolarsi nella sua andatura lenta e sicura, da spaccone. Doveva essere il boss, non c’erano dubbi.
Nel frattempo, l’altro aiutò il compare a mettere in piedi il fuggitivo, prima di sbatterlo con la schiena contro il muro; quest’ultimo tentò di divincolarsi, senza riuscirci.
Eric bevve un altro sorso di vino, la cosa si faceva interessante.
Il boss, che era rimasto per tutto il tempo a guardare, si avvicinò piano, tenendo i pugni chiusi uno nell’altro, forse stava facendo schioccare le dita, quindi assestò un pugno in pieno stomaco al povero malcapitato. Questo si chinò in due, poi quello che lo aveva colpito gli si accostò ancora di più, afferrandolo per il collo e costringendolo a guardarlo, mentre gli parlava a una spanna dal viso.
Eric si chiese cosa gli stesse dicendo. Che fosse un regolamento di conti era chiaro come la luce del sole. Un brivido gli corse lungo la schiena e, per ignorarlo, bevve un altro po’.
Di nuovo il capobanda lo picchiò con una serie di pugni all’addome, infine lo colpì in pieno volto, quindi diede ordine che fosse liberato – Eric lo capì poiché i suoi scagnozzi si allontanarono dal ragazzo. Tutti e tre si ficcarono le mani in tasca e gli diedero le spalle, pronti ad allontanarsi, guappi e sbruffoni come chi sa che usando la violenza si ottiene sempre ciò che si vuole. Ma avevano fatto male i conti, dal momento che il poveraccio alzò la testa e si scagliò contro il capobranco, cogliendolo alla sprovvista.
Eric scattò sull’attenti.
La sua esperienza gli aveva insegnato a riconoscere un combattente quando ne vedeva uno, e quel ragazzo aveva tutta l’aria di esserlo. Chiunque, dopo aver ricevuto una serie di colpi allo stomaco e un altro ben assestato al volto, sarebbe rimasto accasciato per ore prima di potersi muovere, quantomeno ci avrebbe pensato la paura a paralizzarlo. Quel giovane, invece, non si era mai piegato, mai!
Letteralmente, il ragazzo saltò sulla schiena del boss che finì disteso sulla strada, mentre gli premeva una guancia sull’asfalto ruvido e con l’altra mano lo menava di brutto. Ci vollero entrambi i due leccapiedi per toglierglielo di dosso, strappandoglielo via. Il pezzo da novanta, lì, rimase qualche secondo carponi, scuotendo il capo per riprendersi dal frastornamento, poi si rialzò su gambe non proprio ferme e quando uno degli scagnozzi cercò di aiutarlo lui lo allontanò con sgarbo. Per il giovane sarebbe finita, davvero, l’avrebbero sfracellato come un pezzo di carne al macello se non avessero udito le sirene della polizia che da lontano si facevano sempre più vicine. I due leccapiedi lasciarono perdere il giovane e trascinarono via con sé il loro capo, dileguandosi ben presto nel buio della fredda notte di Chicago.
 
Eric si aggrappò al davanzale della finestra per sporgersi oltre e accettarsi che quei manigoldi fossero davvero spariti, quindi afferrò le chiavi di casa e uscì di gran carriera, facendo le scale a due a due, con il timore di non trovarlo più.
Non poteva farselo scappare. Era il suo contrappasso, forse. Era un segno del destino, forse. Ma non poteva almeno non provarci.
Aprì il portone con foga e balzò oltre i quattro scalini che lo precedevano. Quasi gli mancò un battito: del giovane pestato non vi era traccia, poi vide la sua sagoma ingobbita allontanarsi lentamente e lo rincorse, senza sapere bene cosa gli avesse detto una volta che se lo sarebbe trovato di fronte.
«Ehi, ciao, ma lo sai che potresti essere un pugile provetto? Vuoi lavorare con me e farmi diventare ricco sfondato?»
Cielo, no! Lo avrebbe preso per un pazzo.
Intanto lo aveva quasi raggiunto, mentre cercava di richiamare la sua attenzione con un braccio alzato:
«Ehi, scusa, tu! Ehi!»
Il giovane si fermò per voltarsi indietro, dando tempo a Eric di avvicinarlo, sebbene d’istinto si arrestò a debita distanza.
In fondo, chi lo conosceva?
«Ehi, ciao! Scusa, ero alla finestra prima…» Eric indicò il suo appartamento, più per evitare di guardarlo negli occhi ferini. «… e ho visto che…»
«Che cazzo vuoi? Sei frocio, per caso?»
«Io… cosa? Oh, no no. Volevo solo…»
«E allora che cazzo vuoi?»
«Aiutarti» disse d’un tratto Eric, indicando il taglio sul sopracciglio, sicuramente causato dal pugno che aveva ricevuto dal capobranco pocanzi. Sanguinava e la cute cominciava già a scurirsi. «Hai un occhio messo male.»
«Mi curo da solo.»
«Hai una copertura assicurativa?»
L’altro lo guardò, per la prima volta abbassò il capo, ricordando un animale in difficoltà.
«Ecco, appunto. Dai vieni, ti offro anche qualcosa da bere.» Eric accompagnò l’invito con un gesto della mano.
«Ehi, amico, sei sicuro di non essere gay?»
«Ancora con questa storia? Ti ho già risposto!»
Insieme tornarono verso il palazzo, Eric gli tenne il portone aperto mentre l’altro entrava nell’androne. Il bambino appena nato piangeva di nuovo, o più probabilmente non aveva mai smesso.
Iniziarono a salire le scale, Eric era qualche passo avanti e di tanto in tanto si voltava indietro per accettarsi che il giovane lo seguisse.
«Io mi chiamo Eric, comunque. Piacere.»
«Io sono Ben» rispose il potenziale pugile. «Ma puoi anche chiamarmi Benny, come preferisci.»
«Ben, sarebbe il diminutivo di?»
Avevano ormai raggiunto il terzo piano ed Eric non aveva potuto fare a meno di notare come il ragazzo si guardasse attorno, soffermandosi a ogni piano per osservare il corridoio che vi si dipanava.
«Benito.»
Eric fischiò. «Hai un nome storicamente importante!»
«Ah si?! E perché?»
«Lascia stare. Siamo arrivati.»
Ancora una volta, Eric lo precedette per il corridoio, la moquette ai loro piedi attutiva i passi. Entrarono nel monolocale e questa volta Eric accese la luce e chiuse la finestra, la quale aveva lasciato aperta nella furia di uscire. Sperando di non essere visto, nascose la bottiglia di vino dietro la poltrona e quando si voltò per dire a Ben di accomodarsi, lo trovò al centro della stanza, gli occhi che andavano da una parete all’altra.
«Non te la passi granché, eh amico?»
«Mi chiamo Eric.»
Il ragazzo si avvicinò a una foto adagiata sul frigorifero, la prese e la osservò: quella vecchia istantanea ritraeva un Eric più giovane, con la toga e il tocco, mentre teneva in mano una tesi, la cui copertina era di colore rosso, e una corona di alloro. Ad ambo i lati c’erano due persone, un uomo e una donna, ormai avanti con l’età, ma non proprio anziani.
«Un laureato che vive sulla West Side?» Il tono di Ben era irrisorio. Eric gli strappò di mano il portafotografie e lo riadagiò dove l’aveva preso, ma a testa in giù. Quindi gli disse di sedersi senza toccare nulla, avrebbe cercato qualcosa in bagno per tamponare la ferita.
Eric si chiuse nella toilette, chiedendosi cosa diamine gli fosse venuto in mente? Un pugile? Quello? Pesava si e no ottanta chili, leggero come un fringuello, e da sotto la felpa che indossava non sembravano esserci muscoli.
Eppure…
Eppure qualcosa doveva fare! Non poteva restare con le mani in mano, prima o poi quelli lo avrebbero scovato e si sarebbero presentati sotto casa, muniti di revolver e Dio solo sapeva che cosa! Non era gente che scherzava, quella. A confronto, il boss che aveva menato Ben pareva un agnellino!
Cercò un asciugamano pulito, ma non ne trovò. Perciò inumidì l’unico che teneva appeso e prese il flaconcino di Ibuprofen dallo stipetto, ma quando tornò di là di Ben non c’era traccia.
Lo trovò nella camera da letto, l’altra unica stanza della casa, nella quale entrava molto di rado poiché ormai si addormentava su quella poltrona sgangherata e lì si risvegliava il mattino seguente.
Di nuovo, Ben era intento a frugare nei suoi affetti. Questa volta l’attenzione era rivolta alla cornice appesa, la quale attestava il conseguimento della Laurea in Studi Giuridici e Diritto, presso l’università del Michigan, al dottor Enrico La Manna.
Benny sembrava completamente preso da quella visione, poi lesse a voce alta:
«Enrico La Manna.»
«Ho origini italiane.»
«E perché ti presenti come Eric?»
«Enrico è troppo italiano», si vergognò nel pronunciare la verità, ma non aveva scusanti. Si era sempre vergognato della sua famiglia numerosa e chiassosa, della lasagna che la madre portava al lago durante i weekend, o di quando gli si rivolgeva con il vezzo di a ‘mammà. Cielo, i suoi compagni di liceo lo avevano preso in giro per anni. Ma quando era andato via di casa, per seguire i corsi universitari, si era ripromesso di tenere fuori dalla propria vita la sua ingombrante famiglia. Quella Little Italy nella quale era stato costretto a vivere fino ai vent’anni circa. Lì, nel campus, poteva essere chiunque, cominciare una nuova vita, farsi chiamare come gli pareva e il nome Eric gli era apparso un buon inizio per presentarsi al mondo e sentirsi accettato.
«Rinneghi le tue origini?» La voce di Ben era diventata più bassa, di nuovo lo stava guardando con distacco, come prima in strada.
«Non ne vado fiero, ma sì. Ora vieni di là e smettila di farti gli affari miei.»
Eric si scostò di lato per permettergli di passare e tornare in cucina, poi spense la luce della camera da letto e chiuse la porta. A chiave.
Mentre Ben si accomodava al piccolo tavolo di plastica bianca, al centro della stanza, Eric aprì il freezer e fu sollevato di trovarvi almeno una birra gelata, la quale arrotolò nell’asciugamano che gli porse, dicendogli di metterlo sulla ferita dove il sangue si era ormai raggrumato. Quindi si sedette di fronte a lui e gli passò il flacone di pillole, consigliandogli di prenderne almeno un paio se non voleva ritrovarsi con dolori dappertutto e soprattutto un fortissimo mal di testa.
Ben guardò il flaconcino, abbassando momentaneamente il braccio che reggeva la bottiglia.
«Sei sicuro che non debba andare al pronto soccorso?»
Eric si allungò e gli alzò il gomito, portando nuovamente l’asciugamano sul sopracciglio.
«Non è grave, ha già smesso di sanguinare. E adesso dimmi cosa volevano quei tipi da te?»
«Come fai a sapere che non è grave? E se ho una – come si chiama? – cosa cerebrale?»
«Commozione, intendi? Lo escluderei, non hai picchiato la testa. Non così forte perlomeno, inoltre parli e ti muovi senza problemi.»
Ben abbassò ancora una volta il braccio e ancora una volta Eric glielo alzò con pazienza.
«Sei anche un medico?»
«No, ma di queste cose un pochino me ne intendo. E adesso dimmi perché quei tipi ti hanno malmenato. Hai un conto in sospeso con loro?»
Ben assottigliò lo sguardo. Aveva gli occhi scurissimi, quasi non si distinguevano le pupille.
«Se credi di sfilarmi dei soldi perché sei un avvocato caduto in disgrazia e magari ti aspetti che denunci quei tre, beh… ti sbagli di grosso, amico!»
«Nulla di tutto questo» Eric alzò le mani in segno di resa. «La mia è mera curiosità, ma se non vuoi dirmelo, sei liberissimo di…»
«È per Maria» disse tutto d’un fiato Ben, assumendo di nuovo l’aria del cane bastonato. Il braccio che teneva la bottiglia tornò ad abbassarsi e mentre parlava Eric glielo rialzò.
«Chi è Maria?»
«Maria è la mia ragazza. O meglio, lo era, adesso sta con quel cojone di Alejandro.»
«Alejandro sarebbe quello che…?»
«Che mi ha menato. Gli altri due sono i suoi leccaculo.»
«Chiarissimo» in effetti, a questo Eric ci era già arrivato da solo.
«Io e Maria stavamo insieme, poi un giorno mi ha detto che mi lasciava perché era incinta, ma il bambino non era mio.»
Eric fischiò. Quanto avrebbe voluto bere un sorso di vino dalla bottiglia che giaceva inoperosa ai piedi della poltrona.
«Ma io sono sicuro che invece il figlio è mio!»
Ben aveva un forte accento sudamericano. Non aveva ancora avuto possibilità di chiedergli da dove venisse, ma era chiaro dal colore ambrato della pelle e dalla cadenza che non era uno yankee. Gli sembrava irrispettoso domandargli subito quali fossero le sue origini, quindi attese e lo lasciò sfogare.
«Quel cojone ha sempre desiderato Maria, faceva di tutto per averla, anche quando stavamo insieme. Le mandava rose rosse a lavoro, le dedicava serenate durante le notti di luna piena. Aspettava che uscisse dal negozio quando pioveva per offrirle un passaggio.»
«E che lavoro fa Maria?»
«La parrucchiera» Ben abbandonò l’asciugamano con la bottiglia sul tavolo e questa volta Eric non fece nulla. «Io sono sicuro che il figlio è il mio, ma non avendo abbastanza denaro per crescerlo, Maria ha accettato di andare a vivere con Alejandro.»
Eric scosse il capo e aggrottò la fronte:
«Fammi capire bene: il figlio è tuo, ma Maria ti ha mentito e ti ha detto che in realtà è di Alejandro solo perché lui c’ha i soldi e può crescerlo?»
«Sì.»
«Ma è ridicolo!» Eric scoppiò a ridere. «Cazzo, questo Alejandro deve essere davvero un gran cojone se si beve una storia simile! Dovrebbero essere stati prima insieme per potergli far credere che il figlio è il suo, no?!»
Lo sguardo tagliente tornò a riaffacciarsi sul volto del giovane ragazzo, il quale scattò in piedi, affermando che fosse davvero tardi e doveva andare. O non aveva mai pensato a quell’eventualità – e allora dimostrava tutta la sua stoltezza – o ci aveva pensato, ma sentirselo dire in faccia da un estraneo era tutt’altra faccenda.
Eric lo trattenne per un polso:
«Ehi, no no! Scusami, mi è scappato. Sono stato indelicato. Ti chiedo perdono, ma torna a sederti, ho qualcosa che voglio discutere con te.» Silenzio. «Per piacere.»
Ben sospirò, assecondandolo, tuttavia tenne il broncio come fanno i bambini, evitando chiaramente di guardarlo dritto negli occhi.
«Vuoi una birra? È l’ultima, ce la dividiamo» Eric srotolò la bottiglia avvolta nell’asciugamano, facendo attenzione a non toccare le parti sporche di sangue. Sarebbe dovuto andare a comprare due asciugamani puliti l’indomani, non ne aveva praticamente più, neanche per asciugarsi il culo.
Ben scosse il capo:
«Non bevo.»
Eric sorrise, un altro punto a suo favore, non solo perché ciò significava che aveva la birra tutta per sé, ma che il fisico del ragazzo non era intossicato dall’alcool. Ne aveva conosciuti di pugili, in passato, le cui carriere erano state stroncate da quel brutto vizio.
«Fumi?» gli chiese poi.
«Che? No!»
Perfetto! Se non era un segno del destino quello!
Eric guardò la bottiglia di birra, decidendo alla fine di conservarla. Adesso, aveva bisogno di tutte le sue facoltà mentali al massimo per fare un bel discorsetto a quel giovane futuro pugile.
«Ascolta Ben, te ne intendi di boxe?»
L’altro scosse il capo in segno di negazione.
«Bene, bene. Io sono un agente. Sai che significa?»
Di nuovo Ben fece di no con la testa.
«Vuol dire che il mio lavoro è procacciare giovani promesse del pugilato» Eric batté un palmo sul tavolo prima di indicarlo. «Come te!»
«Meee?» La –e finale si prolungò nella tipica cadenza sudamericana.
«Si, tu! Ascolta…» gli afferrò entrambe le ginocchia con le dita, sporgendosi in avanti. «Ho visto come ti sei rimesso in piedi dopo i colpi presi, ho visto la grinta nei tuoi occhi, la fama di diventare qualcuno, lo scatto che hai fatto avventandoti su coso, lì, Alejandro. C’è una bestia in te che cerca solo di venire fuori!»
«Tu sei pazzo!» Ben si alzò, non scattando come aveva fatto prima, ma comunque intento ad allontanarsi da Eric.
«No, Benny, ascoltami! Io e te, insieme, possiamo fare grandi cose! Possiamo arrivare al top, far parlare il mondo di noi!» Anche Eric La Manna adesso era in piedi. Erano alti quasi uguali, li separava appena qualche centimetro, eppure Ben sembrava più slanciato, forse dovuto al fatto che fosse magro. «Quanti anni hai, Benny?»
«Ve-ventidue.»
«Ventidue anni! Alla tua età bisognerebbe desiderare di spaccare il mondo! Quali sono le tue origini?»
«Sono portoricano. Cioè, i miei nonni lo erano, sono emigrati qui dopo la guerra…»
«Lo vedi, cazzo! Lo vedi che io e te siamo simili! Veniamo entrambi da famiglie straniere, da popoli che hanno dovuto lottare per trovare il proprio posto nel mondo. E allora? Non vuoi far sentire la tua voce?» Ora lo teneva per le spalle, scuotendolo appena, ma era evidente che al ragazzo la vicinanza fisica lo infastidiva, perciò con una scrollata se lo tolse di dosso.
«Tu sei pazzo, amico! Fatti vedere da uno bravo! Diventare un pugile? Che fesserie vai raccontando? Ci vediamo, stammi bene!» Ben si mosse verso la porta.
«No, no, ehi! Aspetta, ma dove vai? Ben? Benny?»
Ma quest’ultimo era già andato via, lasciando che Eric sprofondasse nuovamente in quel silenzio lugubre e mesto.
Si chinò dietro la poltrona e afferrò la bottiglia di vino, bevendo fino all’ultimo goccio che ne era rimasto.
Fuori dalla finestra, a est, il sole stava già sorgendo.
Eric si voltò a fissare i raggi aranciati che si allungavano sui tetti delle case grigie e tutte uguali, come la vita delle persone in quella parte di mondo.
«Buongiorno un cazzo!» esclamò, sollevando la bottiglia al cielo.


 

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Capitolo 2
*** Capitolo II - Maria - ***




Capitolo II
Maria
 


Benito Sanchez consultò l’orologio da quattro soldi che teneva al polso. Tra meno di dieci minuti sarebbero state le tredici e Maria avrebbe raccattato le sue cose per tornare a casa, durante la pausa pranzo. Dalla sua postazione non riusciva a vederla, il salone di parrucchieri nel quale lavorava aveva le vetrate tappezzate di manifesti, i quali ritraevano giovani donne con tagli demodé dai colori ormai sbiaditi.
Di nuovo il ragazzo controllò l’ora, altri cinque minuti o poco più. Si voltò di spalle, per specchiarsi nella vetrina del negozio di alimentari. L’occhio che aveva ricevuto il pugno si era gonfiato e la pelle intorno era diventata di un viola melenzana. Avrebbe dovuto spalmarci una pomata, ma non aveva i soldi neanche per quella. Sua madre gli aveva affettato una patata, dicendogli che così almeno il gonfiore si sarebbe attutito, ma lui si era rifiutato categoricamente di mettersi quelle fettine sull’occhio e sua madre aveva risposto che le avrebbe fritte!
Si acconciò i capelli corti e ricciuti, poi decise di calarsi il cappuccio della felpa chiara sul capo, quando vide riflessa la figura di Maria che finalmente usciva dal locale. La raggiunse attraversando la strada e chiamandola per nome. Lei si voltò, sembrava spazientita di vederlo lì, di nuovo.
«Ben, che vuoi ancora?»
«Ciao Maria, passavo di qui e… come sei bella!» Lui allungò una mano con la speranza di accarezzarle il volto, ma la ragazza indietreggiò per evitare il contatto, mentre si guardava attorno con circospezione, temendo evidentemente di essere osservata.
Sapeva, infatti, che se Alejandro l’avesse vista anche solo sfiorare la mano di Ben si sarebbe arrabbiato parecchio e Dio solo sapeva cosa avesse potuto fare. Inoltre, niente escludeva che uno dei suoi scagnozzi fosse nascosto chissà dove a spiarla.
Ben la osservò, comprendendo il suo essere scostante: Alejandro era capace di tutto. La pancia spiccava ogni giorno di più al di sotto degli abiti, ormai si notava nonostante il giubbotto invernale. Se possibile, la gravidanza aveva reso Maria ancora più bella: i capelli biondi – seppur tinti – erano lunghi e setosi; la pelle ambrata liscia e senza imperfezioni; le labbra carnose erano velate di lucidalabbra; gli occhi neri avevano ciglia folte che il mascara e l’eyeliner rendevano ancora più scure.
Lei alzò lo sguardo su di lui – non era alta, arrivava si e no al metro e sessanta, ma gli stivali con la zeppa le conferivano qualche centimetro in più –, e notando l’occhio tumefatto non ebbe dubbi su cosa fosse accaduto.
«Hai litigato di nuovo con Ale?»
«Per riaverti sarei disposto a prendere mazzate ogni giorno!»
Maria scosse il capo, stanca di quella situazione, stanca del lavoro, stanca a causa della gravidanza.
«Ben, io non so più in che lingua dirtelo: sto con Ale adesso! Devi smetterla di venirmi dietro, di venire qui davanti un giorno sì e uno no!»
«Maria, io voglio solo controllare che voi stiate bene.»
«Voi chi? Questo bambino» così dicendo la ragazza posò un palmo sul pancione, «non è tuo! E anche se fosse, non potresti crescerlo. Non hai un soldo!» La voce di lei si fece più bassa, accusatoria.
«Non ci credo. I-io non posso crederci!» Benny l’afferrò per le spalle, scuotendola appena, aveva le lacrime agli occhi. «Lo dici solo perché sai che non ho i soldi per mantenervi, perciò ti sei inventata questa storia che il figlio è di quel cojone
Maria si liberò dalla presa con fermezza, abbozzando un sorrisetto all’insù.
«Quanto sei ingenuo, povero Ben! Hai ventidue anni, ma il cervello di un dodicenne.»
Il giovane sembrò non averla neanche sentita, nella sua testa si riaffacciarono le parole di quello strano avvocato da strapazzo che lo aveva soccorso nella nottata. Lentamente, quasi balbettando le prime parole continuò:
«Se-se trovassi i soldi per mantenerci, torneresti da me?»
Maria aggrottò la fronte, confusa.
«Non vuoi proprio capire…» sospirò, dandogli le spalle per allontanarsi da lui. «Riguardati Ben, e cerca di crescere! Il mondo è una merda per quelli come noi.»
«Combatterò per voi, Maria, giuro che lotterò solo per voi!».
 


 
Eric tornava quasi ogni giorno sotto l’ufficio che aveva occupato per diverso tempo. Si trovava al quinto piano di un palazzo di vetro, il quale svettava tra altri simili nella cosiddetta Downtown Chicago: il quartiere degli affari. E lui, lì, di affari ne aveva conclusi diversi. Alcuni si erano rivelati un fiasco, ma l’ultimo che aveva siglato… caspita, avrebbe potuto vivere di rendita per il resto dei suoi giorni! Certo, non si sarebbe potuto permettere un attico a Central Chicago, ma una villetta a due piani, con un ampio giardino e una piscina in cui crogiolarsi durante il giorno, nel lato nord della città, non gliela avrebbe tolta nessuno.
Qualcosa però era andato storto – va sempre storto qualcosa! – e non solo si era ritrovato dalla sera alla mattina sbattuto letteralmente fuori dal suo ufficio (e pensare che si era fatto fare una targhetta in argento con incise le iniziali del suo nome da appendere davanti alla porta), ma si era anche ritrovato in uno dei quartieri peggiori di Chicago, lungo la West Side, costretto a vivere in un tugurio senza balconi, a sentire gli spari che durante la notte rimbombavano da un muro all’altro, mentre le sirene della polizia facevano da sottofondo costante.
Senza contare il fatto che aveva alle calcagna una delle peggiori gang italo-americane. Tipi loschi, che immaginava fossero sulle sue tracce poiché sapeva come funzionavano quelle cose. All’inizio erano tutti simpatici, amiconi, poi quando qualcosa non andava come loro avevano previsto, ecco che diventavi il ricercato numero uno e non si fermavano fin quando non ti avevano trovato e fatta pagare.
A modo loro, si intende.
Eric La Manna teneva gli occhi all’insù, puntati sulla finestra che un tempo era stato il suo studio. Si chiese se fosse occupato da qualcun altro adesso, magari intento a fare telefonate varie per accaparrarsi i migliori incontri di pugilato. Gli sembrava di potersi ancora rivedere, con i piedi allungati sulla scrivania, un sigaro in bocca – sebbene odiasse il fumo, infatti non lo aveva mai acceso – la cornetta fra orecchio e spalla e un mare di fogli da consultare, freschi di stampa, bookmakers e scommesse sulle quali puntare. Poi, di solito, sotto mezzogiorno chiamava il suo pupillo: Steve Mckay, un pugile inglese di rara tecnica e armonia, un out-fighter, uno stilista purosangue, scaltro e abile.
Dio, gli aveva voluto bene come a un figlio!
Eric sentì i muscoli del collo che cominciavano a irrigidirsi a causa della posizione, perciò abbassò il capo e si massaggiò la nuca. Le persone che lo superavano indossavano abiti firmati, vestiti classici i cui toni grigi facevano pendant con il cielo plumbeo sopra le loro teste. Ognuno preso dai propri affari, con le rigide valigie di pelle che strette in un pugno arrivavano alle ginocchia.
Nessuno badava a lui. Nessuno badava agli altri in generale, a dire il vero.
Steve era un tipo sveglio, gli bastava uno sguardo del suo agente Eric La Manna per capire come sarebbe dovuto finire l’incontro, la loro sintonia era perfetta. Ma, come tutte le storie d’amore fantastiche, anche la loro era giunta al termine. Steve l’aveva tradito, si era venduto a un offerente migliore e l’aveva lasciato nella merda, letteralmente parlando.
Quella sera, la cosca che adesso gli stava alle costole, aveva puntato una somma di denaro davvero ingente sulla vittoria di Steve. In fondo, il suo avversario era un ragazzino imberbe alle prime armi, non sarebbe dovuto essere difficile per un pugile come lui mandarlo K.O. Inoltre, Eric aveva preso accordi sul trionfo del proprio campione, stringendo la mano a un cinese poco raccomandabile mentre gli assicurava che Steve avrebbe stracciato il pivellino.
Peccato che Steve Mckay stesse facendo praticamente la stessa cosa, promettendo l’inverso, ossia di perdere quel match. Un’altra gang mafiosa gli aveva offerto una specie di bonus extra se fosse andato al tappeto senza più rialzarsi alla fine del terzo inning.
Quando Eric l’aveva raggiunto nello spogliatoio, a fine gara, lo aveva trovato a proprio agio, rilassato, intanto che si toglieva di dosso le fatiche dell’incontro. L’agente gli aveva urlato contro, affermando che non erano quelli i patti, che avrebbe dovuto vincere il match e che adesso lo aveva messo in una situazione scomoda con quelli della malavita.
«Vedrai che riuscirai a cavartela anche questa volta, Eric!»
«Si, con una pallottola in fronte!»
Steve aveva riso, mentre si tamponava il fisico con l’asciugamano.
«Come sei esagerato!»
Eric l’aveva guardato male.
«Cosa avrei dovuto fare? Rifiutare tutti quei soldi?» Steve gli si era avvicinato, lo sovrastava di qualche centimetro, abbassò il tono di voce per non farsi sentire da eventuali ficcanaso. «Tu lo capisci che mi sono fatto il pane per la vecchiaia?» Si era poi allontanato, continuando nelle sue mansioni di vestimento. «A proposito, non avrei voluto dirtelo in questo momento, ma non penso ci sia un momento adatto per farlo.»
I sensi di Eric erano scattati in allerta, avvertivano un nuovo colpo basso in arrivo.
«Mi hanno offerto una serie di incontri da disputare in Europa. Diciamo che fa parte del pacchetto bonus e…»
All’improvviso un barlume di speranza si era riaffacciato nel suo cuore, forse non tutto era perduto, forse aveva ancora una possibilità di uscire integro da quella storia.
«… ovviamente sarò sotto contratto con il loro agente. Mi dispiace, Eric.»
Quest’ultimo non aveva avuto neanche la forza di controbattere. Nella sua testa si erano mischiate una moltitudine di parole, perlopiù insulti, gli aveva puntato un indice contro, pronto a dirgliene di ogni, invece dalla sua bocca non uscì alcun verso. Semplicemente aveva aperto la porta, lasciando la stanza.
Da quel giorno, di Steve Mckay non aveva più avuto notizie.
Appena fuori dal palazzetto però due membri della cosca, che aveva scommesso sulla vittoria del suo assistito, lo avevano afferrato per le braccia e trascinato di peso nel vicolo più vicino. Non lo avevano toccato fisicamente, si erano limitati alle minacce, ma tanto era bastato per fargli prendere la decisione di sparire dalla circolazione, con la speranza che quei tipi si dimenticassero di lui.
Rivolevano indietro tutti i soldi che avevano versato per la scommessa, non gli fregava come e quando li avrebbe racimolati, si sentivano truffati e pretendevano fino all’ultimo centesimo.
Centosessanta mila dollari.
Eric La Manna aveva temporeggiato, supplicandoli di dargli un po’ di tempo, non disponeva di una cifra del genere nell’immediato, ma sicuramente avrebbe trovato un modo per metterla insieme e pagare il debito. Gli avevano concesso una settimana, non di più.
Il giorno seguente era tornato nel suo ufficio e si era messo subito al lavoro, alla ricerca di una nuova stella del pugilato. Ma non era semplice, sapeva che Steve era stato un puntino di luce nell’oscurità, un salvagente in mezzo al mare, un’occasione più unica che rara, di quelle che capitano una sola volta nella vita. Tuttavia, essere fuori dal giro significava anche non fare soldi e i suoi risparmi si stavano consumando giorno per giorno, a causa delle spese da pagare per il fitto della casa in Near South Side e di quello dell’ufficio che gli piaceva tanto.
La settimana passò velocemente, senza che lui avesse raccolto un centesimo. Anzi, i suoi soldi erano diminuiti, senza alcuna entrata sarebbe stato difficile mantenere quel tenore di vita. Perciò, aveva deciso di lasciare la casa da miliardario in cui abitava e di trasferirsi in una soluzione decisamente più economica, forse troppo, oltre il fiume, nella West Side.
Aveva però tenuto il suo ufficio, il cui fitto era già pagato per altri quindici giorni, peccato che allo scoccare dell’ottavo era stato fermato dal portiere, giù all’ingresso:
«Mi spiace signor La Manna, non può passare.»
«Mike, sono io!»
«Spiacente, devo pregarla di lasciare subito l’edificio.»
«Ma che dici? Devo andare a lavoro…»
«La prego, non mi costringa a chiamare la vigilanza, signore.»
Eric allora aveva capito: senza Steve Mckay, la star Steve Mckay, lui non era nessuno. L’uomo alla reception che gli aveva dato il buongiorno ogni mattina, da qualche mese a quella parte, si era rivelato un essere freddo e senza sentimenti, che non si era fatto scrupoli a metterlo alla porta. Anzi, Eric non aveva più visto né sentito alcuna persona con la quale gli era sembrato di intessere un qualche rapporto fino a quel momento.
Ognuno per la sua strada, quindi.
La cosca mafiosa, dal canto suo, sembrava anche fin troppo trepidante di incontrarlo per scambiare due chiacchiere. Era Eric però a farsi desiderare e, dopo le continue minacce ricevute, ora pareva che le acque si fossero calmate. Da quando viveva in quello schifo di quartiere nessuno si era preso la briga di andare a cercarlo fin lì. Forse non credevano avesse il coraggio di vivere in quella topaia, forse pensavano fosse andato via da Chicago, o semplicemente avevano affari più grandi a cui badare.
Fino a quel giorno.
Qualcuno lo urtò, distraendolo dai suoi pensieri. Era un giovane uomo in carriera, con la ventiquattrore color cuoio stretta in una mano e il cellulare nell’altra, così intento a parlare al telefono da non essersi nemmeno accorto di aver quasi spinto Eric sul marciapiede.
«Ehi!» Gli urlò dietro quest’ultimo, ma l’altro parve non sentirlo neanche.
Eric diede un’ennesima occhiata intorno a sé, era inutile indugiare ulteriormente in quella zona di Chicago, inoltre non poteva rischiare di essere visto dai suo aguzzini, perciò sarebbe stato meglio tornare lungo la West Side e magari mangiare qualcosa. Si frugò nella tasca del cappotto (ultimo baluardo della sua amata vita agiata) e ne pescò pochi spiccioli. Erano diverse ore che non metteva qualcosa sotto i denti, qualcosa di solido, soppesò l’idea di compare una bottiglia di vino, ma il solo pensiero di quel liquido rossastro gli dava il voltastomaco. Con i soldi che aveva avrebbe potuto fermarsi da qualsiasi venditore ambulante di hot-dog e, se avesse rinunciato alle salse, magari si sarebbe potuto permettere una birretta da poco. Meglio di niente comunque.
 
Quando quella sera rientrò erano le 18 passate. Stando alle previsioni, avrebbe dovuto piovere e invece il tempo aveva retto, al costo però di un cielo livido e un’aria pesante, umida, con i vapori dei veicoli che non riuscivano ad alzarsi, rimanendo sospesi nell’atmosfera. Nei giorni come quelli riusciva difficile respirare, sembrava che l’aria rimanesse invischiata nella gola, senza raggiungere i polmoni.
Eric svoltò lungo la Pearson Avenue, dove un venticello freddo lo colse alla sprovvista, quindi si alzò il bavero del cappotto scuro e proseguì ingobbito fino a raggiungere la propria misera abitazione. In una mano teneva una lattina di birra scadente: la sua cena. Alla fine aveva mangiato l’hot-dog (senza salse era stato come ingurgitare polistirolo) e tenuto la bevanda per la sera, sperando si sentirsi meno solo.
Alzò gli occhi sul palazzo grigio, senza balconi, così simile a tutti gli altri, che si innalzava ritto e squadrato verso nubi basse e plumbee. Eric cercava di passare meno tempo possibile nel tugurio in cui viveva. All’inizio usciva di casa la mattina presto e si recava nei quartieri degli affari, dove lo conoscevano, sperando di trovare un nuovo pugile a cui fare da agente. Era stato anche nelle palestre, aveva ingaggiato qualche giovane – senza contratto, ovvio –, ma quando lo aveva presentato a chi contava, a chi stava nel giro, aveva scoperto che nessuno era più disposto a contrattare con lui. Nessuno pareva disposto a dargli una seconda chance e lui, che un pochino ci aveva bazzicato in quell’ambiente e sapeva come andava, aveva compreso di aver perso ogni stima. Un agente che non fosse capace di farsi rispettare dal proprio cliente era un fallito, un senza palle, uno che poteva essere manipolato a proprio piacimento e questa cosa non andava bene, non in quel frangente. Era una specie di mina vagante, a cui non poter dare credito poiché la sua parola valeva meno di zero.
Così aveva smesso di andare alla ricerca di nuovi talenti, ma non passava giorno che non facesse visita al suo vecchio ufficio, come un uomo miserabile che torna ogni notte sotto alla finestra della propria amata con la speranza che questa lo ricambi.
Eric infilò la chiave nella serratura del portone, ma non riuscì a fare il primo scatto che sentì una presenza alle sue spalle e lo seppe fin da subito: lo avevano scovato.
«Signor Eric La Manna? O forse dovremmo chiamarla Enrico?» La voce rauca, dal tipico accento italiano – maccheronico – scatenò alcune risatine.
Eric si voltò piano, senza tuttavia togliere la chiave dall’imboccatura, il viso pallidissimo, mentre cominciava già a sudare sulla fronte e lungo la nuca. Si sforzò di sorridere, erano tre in tutto: due cinesi e quello al centro, colui che aveva parlato.
«Enrico è un bel nome, altisonante, dimostra da dove vieni, perché ti fai chiamare Eric?» Quasi biascicò l’ultima parola, teneva un sigaro fra le dita grassocce e gesticolava molto. «Eric…» ripeté, guardando i suoi accompagnatori. «Sembra un nome da checca: Eric.»
Gli altri risero, di nuovo, invece Eric non si mosse di una virgola, era pietrificato, incapace anche solo di pensare. Avrebbe potuto far fare un altro giro alla chiave nella toppa e il portone si sarebbe aperto, quindi avrebbe potuto sgattaiolare all’interno e richiuderlo. Certo, sarebbe stato salvo per il momento, ma sapeva che già l’indomani avrebbe dovuto cambiare casa, di nuovo.
Lo fece, mentre gli sgherri se la ridevano (l’italo-americano rideva e tossiva insieme, intanto che la sua enorme pancia tonda andava su e giù: era il classico uomo che sarebbe morto d’infarto intorno ai sessant’anni). Eric girò la chiave nella serratura, il portone si aprì e lui fece per oltrepassarlo, ma i cinesi furono più svelti e afferrandolo per il collo del cappotto lo trascinarono all’indietro, facendolo finire con il culo sull’asfalto. La lattina di birra scoppiò, spargendo il liquido biondo e schiumoso tutt’intorno.
Perfetto, pensò, non solo adesso le prenderò di brutto, ma non avrò neanche qualcosa non cui consolarmi dopo.
Il ciccione occidentale lo fissò dall’alto, inspirando un tiro dal sigaro e rilasciando il fumo che si addensò intorno alla sua faccia tonda, poi ordinò ai cinesi di rimetterlo in piedi. Questi obbedirono, avvicinandogli il volto a quello del loro capo, mentre lo tenevano per entrambe le braccia. Eric sentì un forte odore di dopobarba, misto a quello acre del fumo e non poté evitare di tossire.
«Che c’è Enrico? Ti dà fastidio il fumo?» Rise l’omone, mostrando denti gialli e cariati.
«Per piacere, per favore, non fatemi del male!» piagnucolò Eric.
«Vedi, Enrico, noi non vogliamo farti del male. Devi credermi quando ti dico che vogliamo solo il bene per le persone. Ma queste a volte ci deludono, ci tradiscono. Allora ci sentiamo presi in giro e questa cosa non va bene.» Il mafioso si muoveva avanti e indietro mentre parlava, continuando a gesticolare. Eric non cercò neanche di liberarsi dalla presa dei cinesi.
«Siamo persone comprensive, noi. Non siamo come le banche, quelle sanguisughe, che se ne fregano di come vivrai, di dove vivrai, se riuscirai a mangiare. Loro ti portano via tutto e ti lasciano in mutande in mezzo alla strada. Noi no! Noi siamo compassionevoli!» L’omaccione si fermò di nuovo di fronte a Eric, colpendosi più volte il centro del petto con la punta delle dita mentre pronunciava il pronome “noi”.
«Ma non facciamo beneficenza, quella la lasciamo alle associazioni succhiacazzi dei politicanti. Noi diamo il tempo alle persone di rimettersi in sesto, di vivere la propria vita ma…» alzò un indice, «ma ogni tanto ci piace passare a ricordare il debito. Sai, con tutta questa vita frenetica, uno potrebbe anche dimenticarsene.»
Per un attimo l’omone ed Eric si fissarono negli occhi, poi il primo spalancò le braccia e con aria bonaria chiese:
«Quindi, caro Enrico, dove cazzo sono i miei soldi?»
«Io-io non ce li ho ancora.»
L’altro allungò il muso a cuoricino e fece schioccare la lingua contro il palato, fingendosi dispiaciuto.
«Sono davvero costernato di questa risposta, sai?! Perché adesso sono costretto, costretto cazzo, a ricordarti del debito che ci devi.» Con uno scatto fulmineo afferrò Eric per i capelli e gli parlò così vicino che i loro nasi si toccavano, tanto che l’ex procacciatore di talenti poteva avvertire non solo il suo alito pestilenziale, ma anche tutte le goccioline di saliva che gli imbrattavano il volto.
«Per colpa tua e del tuo essere senza palle ho perso parecchi dollari, senza contare la reputazione che mi precede! E visto che sei già un senza palle, caro Enrico, potremmo darti una mano a diventarlo anche fisicamente, oltre che spiritualmente, eh? Che ne dici?»
«No, vi prego, vi prego… troverò il modo di ripagarvi…»
«Di ripagarvi fino all’ultimo centesimo»
«… sì, sì, fino all’ultimo centesimo, lo giuro. Ma vi prego, vi scongiuro, non fatemi del male.»
L’italo-americano lo lasciò e si acconciò la camicia, i cui bottoni sembravano facessero una fatica immane per restare ancorati alle asole.
«Vedi, Enrico, io non vorrei mai arrivare a tanto, ma se adesso non ti diamo una lezione, chi mi assicura che il messaggio ti sia arrivato? È come i genitori con i bambini: se questi fanno una marachella e non vengono sculacciati, la prossima volta la faranno di nuovo e poi ancora e ancora. Capisci? Devo insegnarti la lezione, è mio dovere morale accettarmi che-»
«Lasciatelo andare.»
Una voce chiara e cristallina giunse alle loro spalle, ferma e sicura.
Benito era a qualche metro sul marciapiede, la felpa chiara calata sul capo e le mani ficcate nelle tasche dei jeans.
Vedendolo, Eric quasi pianse di gioia.
«E tu chi cazzo sei? È un tuo amico?» Domandò l’omone rivolto a Eric, ma, senza aspettare la risposta di questo, si mosse in direzione del giovane, indicando Eric alle sue spalle. «Sei un suo amico?»
Benny non rispose e non abbassò lo sguardo, né indietreggiò quando l’altro gli posò una mano grossa e sudaticcia alla base del collo, colpendolo con un paio di buffetti.
«Sei un pugile, eh?»
«No» rispose con onestà Ben. «Ma voglio diventarlo.»
L’italo-americano rise, buttando la testa all’indietro, poi tirò un paio di volte dal sigaro, tossendo e ridendo contemporaneamente, come al solito.
«Perché non me l’hai detto subito, Enrico, che avevi questo futuro Mohamed Alì fra le mani?» Questa volta l’uomo indicò Eric La Manna, ancora trattenuto dai cinesi. «Ti concedo una settimana di tempo, poi un mio uomo di fiducia verrà a farti visita e ti darà data, ora e luogo dell’incontro che dovrai disputare per saldare il tuo debito. Hai capito?»
«S-sì.»
L’uomo guardò un’ultima volta il ragazzo con la felpa, inspirando a fondo; una nuvola di fumo si alzò dalla sua persona, mentre di allontanava seguito a ruota dai cinesi, ridendo e tossendo insieme.


 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo III - Franco - ***



Capitolo III
Franco
 

 
Benny lo aveva accompagnato fin dentro casa. Eric non aveva subito alcun pestaggio, eppure le gambe non lo reggevano. Questa volta ci era andato vicino a rompersi un osso e sapeva che la prossima volta non se la sarebbe cavata così bene, che anche fuggire e cambiare nuovamente indirizzo non sarebbe servito a molto. Lo avrebbero scovato, ancora e ancora.
L’arrivo del giovane era stata una vera fortuna, sentirgli dire che non era un pugile ma era lì per diventarlo poi… avrebbe fatto salti di gioia se la situazione non fosse stata tanto drammatica.
Una volta al sicuro nel tugurio, il ragazzo gli aveva chiesto come fare per trasformarsi in un pugile.
Con il bacino contro i mobili della cucina e un bicchiere d’acqua in mano, l’avvocato gli aveva domandato il motivo per cui aveva cambiato idea. Benny Sanchez gli aveva risposto che lo faceva solo per riprendersi Maria e il figlio che portava in grembo.
A Eric La Manna era sembrata una buona causa: la motivazione era ciò che spingeva quelli come lui ad avere successo nella vita, qualsiasi essa fosse stata. Gli aveva allora dato appuntamento al mattino seguente, sarebbero andati insieme a trovare un suo vecchio amico.
Adesso camminavano diretti nella stessa direzione, con Eric qualche passo avanti a fare strada. Attraversarono diversi vicoletti sporchi e puzzolenti, con i bidoni dell’immondizia pieni e i gatti randagi che vi scavavano all’interno. Benny lo seguiva senza fiatare, solo una volta gli aveva chiesto dove stessero andando e l’altro aveva risposto in modo vago che gli sarebbe piaciuto.
«Cosa?» Aveva continuato il giovane.
«Chi, vorrai dire.» Eric aveva sorriso. «Franco.»
«E chi è Franco?»
«Franco è un ex marines. Da quando si è ritirato dalle forze armate a causa di un incidente – a proposito, cerca di non farglielo notare – ha aperto una palestra per i ragazzi di strada. Li aiuta a scaricare la rabbia, ecco.»
Mentre parlavano, nascosta tra vecchi e decadenti palazzi, spuntò un’insegna sghemba e con i neon fulminati che citava semplicemente “Palestra di Franco”.
Benny seguì il suo compare all’interno di questa, senza riuscire a trattenere una smorfia di disgusto per il tanfo pungente che gli pizzicò il naso e la gola. Era un misto di sudore stantio, muffa e qualcos’altro che non riuscì a identificare.
Il locale non era molto ampio, non c’era una reception all’ingresso, si arrivava direttamente nell’ambiente scarno. Sulla destra c’era un ring, sul quale due ragazzi se le davano di santa ragione, con i guantoni e il paradenti in bocca. Diversi sacchi erano appesi al soffitto, alcuni già occupati da giovani intenti a prenderli a pugni.
«Franco!» Eric spalancò le braccia in direzione di un uomo dalle spalle larghe e le cosce muscolose. Indossava una vecchia divisa militare e un berretto dei marines calato sulla testa. Quando si voltò non dimostrò lo stesso entusiasmo di Eric La Manna, non pareva neanche felice di vederlo a dirla tutta. Gli lanciò un’occhiata veloce, per poi indugiare sul giovane ancora fermo all’ingresso, quindi tornò con l’attenzione sull’incontro che si stava tenendo sul ring.
«Non ho nessuno da mandare al macello» disse Franco, la voce roca a causa del fumo.
Eric gli posò un braccio intorno alle spalle e lo voltò verso Benny, presentandoglielo.
I due si studiarono per qualche secondo e solo allora il ragazzo notò un occhio di vetro al posto di quello destro, immobile e spaventoso. Quello sinistro invece era chiaro, di un azzurro profondo, vigile e attento. Franco tra l’altro si puntellava a un vecchio bastone di legno: la gamba destra era rigida alla pari del suo sostegno.
«È troppo magro» sentenziò l’ex militare, tornando a guardare i due atleti sul ring. «Alza quel cazzo di gomito, Bill! È un montante, non una carezza!» Urlò poi.
Eric gli passò di nuovo il braccio intorno alle spalle e si allontanò di qualche metro con lui, parlandogli nell’orecchio.
«L’ho visto tenere testa a tre energumeni, Frank! L’ho visto con i miei occhi, quella luce, quella forza, quella voglia di redenzione.»
Franco spiò il giovane di sottecchi, mentre questo studiava i poster dei pugili più famosi al mondo appesi alle pareti.
«Diamogli una chance, Frank!»
«Sei nella merda, vero?»
«Fino al collo» ammise Eric.
Franco annuì con il capo, poi con passo claudicante si accostò a Benny e puntandogli il bastone contro gli fece cenno di salire sul ring.
«Bill, dagli i tuoi guanti.»
Bill e Benny si scambiarono di posto e dal centro del quadrato il giovane guardò prima Eric, poi Franco, infine il suo avversario di poco più anziano di lui.
«Fammi vedere che sai fare, ragazzo!»
Benito scambiò un’occhiata veloce con il suo rivale, il quale gli mollò un pugno sul naso che lo fece tentennare.
«È troppo magro!» Ripeté Franco, scuotendo il capo.
«Forza, Benny!» Lo incitò Eric dal canto suo.
Benny subì un altro paio di colpi, finendo ginocchioni, poi con un urlo si lanciò contro l’avversario, lo afferrò per la cintura e sbattendolo al suolo lo prese a pugni.
«Ecco il mio ragazzo!» Disse Eric su di giri.
«Ehi, ehi!» Franco fece segno a Bill di dividere quei due prima che potessero ferirsi seriamente. «Non ha nessuna nozione tecnica, né tattica. Ed è troppo magro!»
«È un picchiatore!» A Eric brillavano gli occhi mentre lo diceva, senza riuscire a distogliere lo sguardo dal suo pupillo.
Franco lo fissò, ma non controbatté, mentre Eric La Manna si muoveva in direzione di un poster incollato al muro da decine di anni, ormai vecchio e sbiadito. L’immagine in bianco e nero era quella di un uomo dal fisico asciutto, i capelli scuri e ricci sul capo, il naso troppo grosso per il viso smunto e gli occhi così neri da non riuscire a distinguerne la pupilla.
Eric vi batté il palmo un paio di volte, prima di aggiungere:
«Rocky Marciano, il più grande slugger della storia del pugilato professionistico.»
Franco indugiò per qualche secondo sulla faccia dell’ex pugile, poi si rivolse a Benny, ancora al centro del ring.
«Gli allenamenti cominciano alle sei. Saranno faticosi, lunghi e dolorosi. Non voglio lamentele, suppliche o altre cose da femminucce. Ah, un’altra cosa: fai cinque minuti di ritardo e ti sbatto fuori! Hai capito?»
«Sissignore!»
Franco lo guardò dal basso verso l’alto, con il solo occhio buono che gli restava.
«Perché combatti, ragazzo?»
«Per la famiglia» fu la risposta e l’ex marines annuì. Per ora, come risposta, gli bastava.
 
 
 
Dopo una settimana il fisico mingherlino di Benito era già cambiato. I muscoli delle braccia erano diventati più definiti e sebbene continuasse a difettare di tecnica, il fiato sicuramente non gli mancava. Era diventato più veloce di gamba, iniziava a capire quali fossero le mosse proibite e quelle invece accettate.
«Niente colpi sotto la cintura, Ben! Non è una scazzottata fra delinquentelli questa!» Franco scuoteva più volte il capo durante gli allenamenti, continuando a essere del parere che questa volta il procacciatore di talenti si era lasciato abbagliare da un pezzo di metallo color oro e nulla più.
Di sera il giovane portoricano passava il tempo ascoltando le lezioni di Eric sul regolamento del pugilato, sulla storia di questo sport e le vite dei grandi atleti che lo avevano reso famoso in tutto il mondo. Guardavano insieme documentari per imparare i vari stili di combattimento, sebbene La Manna fosse certo di avere davanti un picchiatore puro, un cosiddetto slugger. Lo vedeva nei movimenti svelti, nella potenza naturale dei pugni, nella completa assenza di tecnica.
Eric La Manna aveva anche smesso di bere. Ora che aveva un obiettivo da raggiungere doveva restare lucido il più possibile e curarsi della propria persona. Aveva comprato asciugamani puliti, sapone per lavarsi e detersivi alla lavanda per disinfettare il bagno e la cucina. Il frigorifero adesso traboccava di bevande energetiche e il freezer di cibi pronti all’uso. Non proprio una dieta salutare, ma quantomeno accettabile.
Un giorno, di ritorno dalla palestra di Franco, aveva trovato davanti al portone uno dei due cinesi che l’aveva aggredito sere addietro. Una paura viscerale gli aveva attanagliato lo stomaco e fatto tremare le gambe. Non aveva biascicato mezza parola mentre l’asiatico gli parlava a una spanna dal viso, in stile telegramma:
«Sabato sera. Club “The Loser”. Unico match. Vincente.» Il cinese lo aveva fissato negli occhi, con il suo sguardo inespressivo. «Hai capito?»
«S-si.»
«Bene.»
Quindi era andato via.
Quei bastardi pretendevano che il suo assistito vincesse l’incontro. Perdere sarebbe stato troppo semplice, ovvio. Pretendevano che un giovane pugile, alla sua prima esperienza, vincesse contro un atleta magari più vecchio e blasonato. Era una follia, una pura follia. Eppure, era l’unica via di scampo se voleva sperare di tornare a una vita normale, fuori da quella stalla in cui viveva.
Consultò il calendario attaccato al muro, cerchiando di rosso la data di sabato: mancavano ancora – solo – cinque giorni, ma il peggio, il cosiddetto imprevisto che ormai lo perseguitava da qualche tempo, era dietro l’angolo.
 
La sera prima dell’incontro, Eric La Manna si vide piombare in casa Benito Sanchez, bianco come un cencio e con la mano destra fasciata alla bell’e meglio. Piangeva in singhiozzi convulsi.
«Ben! Cristo santo, cosa è successo?!» Eric si era spostato di lato per lasciarlo entrare, poi lo aveva accompagnato alla sedia per farlo sedere. Mille pensieri intanto si stavano sovrapponendo nella sua testa, quella mano, le bende sporche di… sangue?
Oh, Signore – pregò – non di nuovo, per carità.
«Ma-Maria» balbettò il ragazzo. «Maria si sposa.»
Eric sospirò profondamente, prendendogli con delicatezza la mano ferita per togliergli il bendaggio, il quale si rivelò essere una vecchia T-Shirt ormai inutilizzabile. Le nocche erano sporche di sangue incrostato, mentre gli sembrava di notare schegge di vetro ancora infilzate nella carne.
«Santo cielo, Ben! Che cazzo hai fatto? Hai rotto un vetro?»
«Sì.»
«Sì? SI?! Sai dire solo questo? Domani hai un incontro, cazzo! Il tuo fottutissimo, importantissimo, primo incontro del cazzo
Eric si portò entrambe le mani alla testa, muovendosi avanti e indietro per la cucina. Doveva pensare. Doveva riflettere.
E se quella mano fosse rotta?
E se qualche scheggia fosse penetrata così a fondo da aver bisogno di un bisturi per essere estratta?
L’avrebbero ammazzato! Questa volta non avrebbe avuto via di fuga con quelli là!
«Mi dispiace» biascicò il giovane e finalmente Eric si calmò, soprattutto quando la sua parte razionale gli fece notare un fattore determinante: Ben aveva detto di voler diventare un pugile per fare soldi e poter così mettere su famiglia con Maria, ma se ora questa si sposava… Ben avrebbe anche potuto rinunciare a tutto.
Dannazione!
«Prendo qualcosa in bagno per medicarti, tu intanto raccontami cosa è accaduto.»
«Sono andato a salutare Maria, ho aspettato che finisse di lavorare. Abbiamo fatto un po’ di strada insieme e le ho detto che domani avrei avuto il mio primo incontro ufficiale.» Ben tirò su con il naso, mentre Eric metteva sul tavolo garze pulite, un asciugamano piccolo e rettangolare, alcool e una pinzetta per le sopracciglia. Il ragazzo non trattenne una smorfia di dolore intanto che l’avvocato gli tamponava le nocche per ripulirle.
«Continua, non fermarti» lo incitò Eric.
«Lei non ci credeva che sarei diventato un pugile vero. Diceva che non avevo abbastanza forza di volontà per lavorare, figuriamoci sostenere gli allenamenti. Ma quando le ho detto che avrei combattuto sul serio si è rattristata.»
Ed era stato allora che la ragazza gli aveva confessato che presto avrebbe sposato Alejandro. Ben l’aveva supplicata di attendere, che i soldi sarebbero arrivati, ne avrebbe conservato una parte solo per loro due, anzi loro tre. Che il suo obiettivo era lasciare quella città di merda e trasferirsi in campagna, dove il bambino sarebbe potuto crescere con aria pulita e lontano da quella melma.
Maria aveva scosso il capo, dicendogli per l’ennesima volta che il bambino che portava in grembo non era figlio suo, ma di Alejandro – che presto avrebbe sposato – e che lei non aveva nessuna intenzione di lasciare quel posto.
«Maria, guardami negli occhi e dimmi che hai davvero intenzione di sposare quel cojone!» Lui le aveva afferrato le spalle e scossa appena. Maria aveva piantato i suoi occhietti scuri in quelli di lui, dello stesso colore del cioccolato, e aveva proferito parole che lo avevano ferito come mille pugnali.
«Io sposerò Alejandro perché lo amo e perché sono incinta di lui.»
Benito era indietreggiato di qualche passo, guardandola come si farebbe con un insetto schifoso, poi aveva urlato di frustrazione e dato un pugno alla macchina alla sua destra, rompendone il finestrino. Il dolore era stato lancinante, immediato. Si era stretto la mano nell’altra, sporcandola di sangue, mentre Maria gli aveva dato dell’idiota.
«Vattene» gli aveva detto lui, allontanandola. «Non mi serve il tuo aiuto.»
La ragazza era rimasta colpita dalla sua freddezza, mai Benny aveva usato quel tono così duro con lei e sentirsi respingere con tale fermezza l’aveva offesa, tuttavia si era sforzata di comprendere le motivazioni del ragazzo e di accettare le conseguenze delle sue scelte. Aveva preso dalla borsa la T-Shirt di ricambio che portava sempre con sé quando andava a lavoro, in caso si fosse sporcata, e gli aveva fasciato la mano senza dire nulla. Inizialmente aveva pensato che la respingesse di nuovo, invece l’aveva lasciata fare, entrambi sforzandosi di ignorare le lacrime dell’altro.
 
Eric intanto aveva finito la medicazione. Per fortuna non sembravano esserci pezzi di vetro incastrati nella carne, le ferite parevano pulite. Non sarebbe stato nulla di grave, se il ragazzo non avesse avuto un incontro di pugilato la sera successiva. Gli diede un antinfiammatorio per il dolore e lo scortò sul letto, sperando che la pillola facesse effetto anche sul suo sistema nervoso.
«Eric» nella penombra della camera la voce di Ben gli arrivò bassa e stanca appena prima che socchiudesse la porta.
«Si?»
«Non hai nulla da dirmi?»
«Riposati, domani hai un incontro importante.»
Detto ciò, La Manna tornò in cucina. Sul tavolo c’era ancora tutta la roba che aveva usato per lavare e disinfettare la ferita. Tra queste, lo sguardo cadde sulla maglia sporca di sangue. La pizzicò a un angolo e la tenne su, davanti al suo viso. In effetti, era una T-Shirt da donna, completamente bianca, fatta eccezione per un gagliardetto sul lato destro che citava “Il Salotto delle Acconciature” a caratteri cubitali, mentre in minuscolo era riportato l’indirizzo e un numero di telefono. Eric trascrisse la via a penna sull’agenda che aveva ripreso a riempire di impegni e numeri vari, quindi gettò via la maglia. Era arrivato il momento di andare a fare la conoscenza di questa famigerata Maria.
 
 

 
Dall’alto della sua esperienza, Eric La Manna sapeva che il giorno di un incontro era sacro. Niente distrazioni, niente deviazioni di percorso, ma quello era diverso. Ben non era un vero pugile, non ancora per lo meno. Se aveva la stoffa per diventarlo? Iniziava ad avere dei dubbi, ma non sulle sue capacità fisiche, quanto su quelle psichiche e l’avvocato era consapevole che il corpo senza la mente serviva a poco.
Quando era uscito di casa, Ben dormiva profondamente nel suo letto, perciò gli aveva lasciato un bigliettino in cui gli diceva di andare da Franco quando si fosse svegliato e di fargli controllare la ferita alla mano. L’ex militare avrebbe saputo cosa fare. Lui aveva un impegno improrogabile, lo avrebbe raggiunto in palestra appena possibile.
Infine, il messaggio era accompagnato da un post scriptum: mangia!
Il luogo in cui viveva Benito era la zona più a ovest della città, quella che attraversava il fiume omonimo di Chicago e veniva ufficialmente chiamato Humboldt Park, detto anche Little Puertorico e a Eric non fu difficile comprenderne il motivo. Gli sembrò di sprofondare in una classica cittadina del Sud America: gli odori erano forti e penetranti, l’idioma più sentito quello spagnolo, i volti olivastri lo scrutavano senza dargli tregua. Era evidente che non dovessero ricevere troppo visite straniere lì. Ma Eric non si lasciò intimidire: era andato fin là per uno scopo ben preciso.
Non gli fu difficile trovare il salone in cui lavorava Maria dopo aver chiesto qualche informazione in giro. Si soffermò qualche istante davanti le vetrate del negozio per scorgere attraverso il vetro chi delle quattro ragazze che lavoravano al suo interno fosse quella che cercava lui. Anche questa volta la caccia si rivelò alquanto semplice, poiché solo una teneva in bella mostra il pancione. Decise di entrare, acconciandosi un’ultima volta il bavero del cappotto buono (l’unico indumento di valore che ancora teneva nell’armadio, per le grandi occasioni, appunto).
Lo accolse un brusio continuo di phon accesi, il calore tipico di quei luoghi, un buon odore di shampoo e balsamo e soprattutto la voce squillante dell’uomo dietro alla reception.
«Posso fare qualcosa per voi?»
«Sì. Sto cercando Maria.»
L’uomo, giovane e con una folta capigliatura scura, lanciò un’occhiata in direzione della ragazza.
«Posso chiederle lei chi è?»
«Un amico.»
«Non l’ho mai vista.»
«Neanche io ho mai visto lei.» Eric sfoggiò il suo sorriso migliore.
«Aspetti qui.»
Così dicendo, il titolare del salone raggiunse la ragazza con la pancia prominente e le disse qualcosa, indicando Eric fermo all’entrata. Questo la salutò con un cenno della mano. I due scambiarono ancora qualche parola, poi lui tornò indietro.
«Ha detto di attendere la prossima pausa caffè.»
«Bene. Aspetterò seduto all’interno di quel bar.» Eric indicò il locale dall’altra parte della strada.
 
Dopo più di un’ora, finalmente Maria oltrepassò la soglia della porta, facendo tintinnare la campanella. Osservò Eric seduto da solo a un tavolino, prima di raggiungerlo attese che anche lui la notasse e le facesse segno di accomodarsi. La ragazza però rimase in piedi qualche secondo.
«Sono Eric La Manna, ti prego, siediti.»
«Sei un amico di Benny?»
«Sì. Sono il suo agente.»
Maria si accomodò, la pancia ingombrante sfiorava il tavolo.
«Allora è vero, diventerà un pugile professionista?!» Parve volersi dare una conferma più che chiederlo realmente a Eric, ma questo annuì lo stesso.
«Cameriere, mi scusi…» L’avvocato fece cenno al ragazzo di avvicinarsi. «Cosa prendi?»
«Acqua. Solo acqua.»
«Un altro espresso e una bottiglia d’acqua.»
Maria attese che il cameriere si allontanasse, prima di proseguire.
«Benny sta bene?»
«Secondo te?»
«Potrà disputare l’incontro?»
«No.»
Maria alzò lo sguardo, rammaricata.
«Ma lo farà comunque, perché è forte e determinato. Ha una grande forza di volontà, l’avrai notato anche tu.»
La ragazza tornò a chinare il capo.
«Non volevo fargli del male, lui è così avventato
«Non sono venuto fin qui per rimproverarti, so come è fatto Ben, so che ti ama più di ogni altra cosa al mondo. Cavolo, ha deciso di mettersi a combattere per te! Perciò ti chiedo…»
Proprio in quel momento tornò il cameriere con le loro ordinazioni, lasciò tutto sul tavolo e si allontanò, non prima di aver lanciato uno sguardo prolungato a Maria, la quale lo notò senza però replicare.
«Puoi aspettarlo?»
Lei alzò nuovamente la testa, fissandolo negli occhi.
«Non posso» fu la risposta.
«Perché sei innamorata di Alejandro?» Eric prese a girare il suo caffè ristretto. Maria si sporse in avanti, non aveva neanche ancora aperto la sua bottiglia di acqua.
«Hai visto il cameriere? È un conoscente di Alejandro. Questa sera tornerò a casa e dovrò inventarmi una palla su chi tu sia se non voglio risvegliarmi con un livido sul braccio domani mattina.»
«E allora perché lo sposi?! Io ho conosciuto Alejandro, la sera che lui e i suoi leccapiedi pestarono Ben davanti casa mia. È un poco di buono! Vuoi davvero passare la vita con uno come lui?»
Maria non rispose, tornando con le spalle contro lo schienale della sedia. Eric ne approfittò per osservarla meglio: non aveva nulla di particolare, non era brutta ma non era neanche particolarmente bella. Si chiese cosa ci trovasse in lei Ben per uscire completamente di senno. Eppure, lei era l’ago della bilancia per il buon proseguimento della sua carriera.
«Il bambino è davvero di Alejandro?»
Maria si accarezzò il pancione.
«Te lo chiedo in modo diverso e già da ora mi scuso per la franchezza: sei stata con Alejandro prima o dopo aver saputo della gravidanza?»
Lei sollevò ancora lo sguardo sul volto pallido di Eric, gli occhi sgranati.
«Te l’ha detto Benny?»
«Ben? No, figurati! Quello è convinto che Alejandro ti stia sposando pur sapendo che il figlio non sia il suo. Crede che tu e lui non siate mai andati a letto insieme. Crede alle favole, il nostro Ben. È un bravo ragazzo.»
«Alejandro mi ha sempre corteggiata. Non so cosa gli piacesse di me, quelli come lui possono avere tutte le donne che vogliono.»
«È l’ebbrezza del proibito, forse.»
«Ma ti giuro che sono stata sempre fedele a Benny, fin quando non ho scoperto di essere incinta. Lui non aveva un lavoro, casa sua è un manicomio di gente che vive alla giornata, casa mia non ne parliamo proprio e con il mio stipendio mi sarei potuta appena permettere pannolini e pappe. Così, la sera stessa che ho scoperto di essere in dolce attesa, ho lasciato Benny e sono andata a piangere fra le braccia di Alejandro.» Maria distolse lo sguardo. «Non ne vado fiera, ma una donna ha il dovere di badare a sé e al proprio bambino, no?»
Eric non si sentiva di giudicarla, né di biasimarla, nonostante un forte senso di tristezza gli stava pervadendo lo stomaco. Quanta forza doveva celare un corpo così piccolo?
«Se questa sera tutto andrà per il verso giusto, Ben avrà la strada spianata verso il successo. Non ti dirò che sarà facile, che i soldi arriveranno subito e a palate, ma lui ha bisogno di tranquillità.»
Maria consultò l’orologio, i dieci minuti di pausa erano già scaduti.
«Devo andare» fece per alzarsi, ma Eric la fermò per un braccio.
«Aspetta, se puoi. Rimanda le nozze quanto più possibile. Se poi vuoi davvero sposare quel mostro… beh, allora questa è un’altra storia.»
La ragazza non rispose, semplicemente andò via, dimenticando di portare con sé la bottiglietta d’acqua, ancora intatta sul tavolo.
 

 
 
Il match si tenne in una stanza sotterranea del club che gli aveva indicato il cinese. Il ring si ergeva al centro, circondato da una rete a maglie strette, ma non eccessivamente rigida: si sarebbe potuta rompere con un urto ben assestato. Tutt’intorno c’erano gli spettatori, per lo più gente che amava quel tipo di incontri senza regole, clandestini, dove speravano o credevano di uscire di lì con una ingente somma di denaro. Eric La manna sapeva di persone che sì, avevano vinto cifra quintuplicate rispetto a quella investita nell’incontro, ma che una volta fuori erano stati pestati a sangue e il loro bottino rubato da coloro che glielo avevano appena consegnato.
Brutte storie, insomma. Brutta gente, la stessa con la quale lui si era invischiato credendo di farla franca.
Accomodato fra il pubblico, salutò con un cenno del capo il boss italo-americano che era andato a fargli visita settimane prima e un brivido freddo gli corse lungo la spina dorsale. Guardò poi Ben seduto all’angolo del ring, Franco era con lui, gli stava massaggiando il collo mentre gli sussurrava chissà cosa all’orecchio. Pregò un Dio al quale si rivolgeva solo per casi urgenti – e quello era un caso urgente – affinché la mano ferita non gli desse grandi problemi. Il suo avversario era grande il doppio, saltellava sul posto sferrando ogni tanto qualche destro di potenza per scaldare i muscoli. Le cicatrici sulle braccia e il setto nasale deviato lasciavano presagire che fosse uno temprato, e non di primo pelo come, invece, era Benito. Doveva solo auspicare che l’altro avesse ricevuto l’ordine di perdere il match e, riflettendoci, era una soluzione plausibile.
Eric osservò la gente che prendeva posto sugli spalti, la maggior parte di loro era vestita bene, magari erano lì con la speranza di racimolare un bel gruzzoletto oppure perché erano dei disperati in cerca di soldi facili. Se fosse stato uno di loro e non avesse capito nulla di pugilato, avrebbe puntato tutto su quello più grosso, con le ferite da guerra sparse sul corpo e la faccia cattiva, quindi poteva funzionare il discorso che avesse ricevuto il messaggio di perdere la partita.
Eric lo sperò davvero.
 
L’arbitro raggiunse il centro del ring, presentò i due combattenti, assicurandosi che avessero indossato i guantoni e il paradenti, ricordando velocemente ad entrambi le mosse proibite.
Non c’erano giudici per quegli incontri, la gara sarebbe terminata con un K.O. tecnico o per resa.
Benito era al suo primo vero match. Si sarebbe aspettato il batticuore, la paura che invadeva le viscere e la mente. Invece, si riscoprì concentrato, sicuro di sé, fu come se tutto sparisse intorno a lui, come se non ci fosse nessun altro al mondo se non lui, il ring e l’avversario dal volto deformato che gli sorrideva cinico, mostrando il paradenti nero. Un essere mostruoso, un alieno.
Neanche più il pensiero di Maria, prossima alle nozze, sembrava turbarlo, anche lei sparita in fondo al buio della memoria, chiusa in una scatolina e risposta al sicuro. La mano, tuttavia, gli pulsava. Di tanto in tanto sembrava mandare scariche elettriche a tutto il braccio e per un attimo pensò di ritirarsi, non sarebbe mai riuscito a combattere in quelle condizioni, eppure il dolore che sentiva pareva parte di lui, quasi un prezzo da pagare per essere lì. E mentre pensava a tutte quelle cose, mentre il fastidio che provava lo richiamava con l’attenzione al match, l’arbitro fece cenno di poter suonare il gong.
L’alieno spaventoso si rivelò da subito aggressivo, scagliandosi contro Ben dopo avergli detto qualcosa di offensivo che lui neanche riuscì a comprendere. Il giovane portoricano si parò il capo alzando entrambe le braccia, mentre quello continuava a sferrargli cazzotti senza uno schema preciso. Aveva un buon movimento di gambe, ma era lento e tendeva a portare l’avversario alle corde per non dargli troppa libertà di movimento. Ben, dal canto suo, non riusciva a fare altro se non proteggersi da quella serie ripetuta di diretti. Nessun montante, pensò Eric dagli spalti, nessun gancio, quel pugile combatteva con il classico mexican style. Se Ben fosse riuscito ad uscire dalla guardia non sarebbe stato difficile per lui metterlo K.O. I pugili che adottavano quello stile erano aggressivi e nulla più: né abili nella difesa, né intelligenti nella tecnica.
Si alzò in piedi quando l’arbitrò decretò la fine del primo round e non senza difficoltà si avvicinò quanto più possibile al ring, urlando a Ben che poteva farcela, lui era più forte di un omone grosso e stupido, senza tattica alcuna.
«Non farti spaventare dalla sua stazza!»
Franco si voltò indietro e gli disse di tornare a sedersi per godersi lo spettacolo:
«Gli hai fasciato per bene la mano destra? Era ridotta male.»
«Lasciami fare il mio mestiere. Tu pensa al tuo, agente.»
Il secondo round riprese dopo un minuto e si capì immediatamente che la musica era cambiata.
Il mexican style si avventò di nuovo su Ben, il quale questa volta schivò il primo diretto e lo colpì al mento con un montante ben assestato. Per la botta e la sorpresa, l’altro vacillò all’indietro e scosse il capo per riprendersi dall’intontimento, ma il giovane Benito gli fu velocemente addosso e prese a colpirlo con una combinazione vincente di ganci e diretti. La mano riprese a pulsare e lo faceva sempre più man mano che sferrava i colpi, ma il dolore non era un problema, tutt’altro. Più ne provava, più ne voleva. Era eccitante, adrenalinico. Da pazzi, forse, ma inebriante. L’avversario, dal canto suo, era rimasto scosso dal primo colpo e sembrava non essersi ripreso ancora. Forse era davvero solo grande e grosso e nulla più. Ben lo vedeva incassare i colpi senza reagire o quantomeno provare a difendersi, sapeva che se avesse rincarato la dose l’incontro sarebbe potuto terminare anche in quel momento e così fece. Aumentò la velocità delle braccia, a discapito della potenza, ma era tutto calcolato per sferrare il montante finale per – sperava – mandarlo definitivamente al tappeto. In realtà, non ci fu neanche bisogno di andare troppo oltre, poiché quello si accasciò ai piedi di Ben, prima di finire disteso sul ring. L’arbitro scattò in ginocchio e prese a contare, mentre il giovane Benito aveva già alzato al cielo un pugno in segno di vittoria.
 
 

 
 
Eric La Manna li attese all’uscita del Club “The Loser”. Ben e Franco lo raggiunsero diversi minuti dopo, quando ormai la maggior parte degli spettatori era già andata via, delusa dall’incontro e dai soldi che aveva investito e perduto.
Ben trovò un Eric al settimo cielo, quasi stentò a riconoscerlo con quel sorriso smagliate che gli illuminava il viso e non poté fare a meno di sorridere a sua volta quando l’agente gli passò un braccio intorno al collo, schioccandogli un sonoro bacio sulla testa rasata.
«Bravo il mio ragazzo!» Esclamò poi, facendo l’occhiolino a Franco che intanto si era acceso una sigaretta. «Sei stato strepitoso! Gli organizzatori faranno la fila per accaparrarsi un match con la giovanissima promessa della boxe!»
«Esagerato!» Rispose Ben, nascondendo un pizzico di rossore per il complimento. Ripensò a quanto si era sentito bene fra le corde, alla sensazione di adrenalina che aveva provato, quasi come se scorresse nelle sue vene, simile a un’iniezione che senti defluire in tutto il corpo. La mente finalmente libera dai pensieri pressanti della vita, libera da Maria e dal suo pancione.
«Siamo dei poveri squattrinati» continuò il giovane portoricano.
«Ehi, ehi, ehi! Cos’è quel tono dismesso!» Eric gli batté un palmo sul petto, mentre insieme si allontanavo dal club, lungo una strada fatta di piccoli bar e locali notturni. «Questo è stato una specie di rito di iniziazione. Il tuo battesimo. Non puoi pretendere denaro già il primo giorno…»
«Soprattutto perché il procacciatore di talenti qui aveva un debito grosso quanto una casa con la mafia locale» sghignazzò Franco, tossendo.
Eric gli lanciò un’occhiata bieca.
«È vero, ma ho comunque racimolato qualcosa per pagarci una bella cena a base di pizza e cola.» La Manna sventolò una banconota da cinquanta dollari come se fosse un assegno da mille, riportando il buonumore.
A volte non c’era bisogno di un’ingente somma di denaro per essere felici, bastavano pochi dollari, due buoni amici e una fetta di pizza in una tavola calda alla periferia di Chicago.


 

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Capitolo 4
*** Capitolo IV - Ben - ***




Capitolo IV
- Ben -


 
 
Eric La Manna fu costretto a rifiutare le telefonate di incontri che gli vennero proposte nei giorni a venire, a causa del taglio sulla mano del suo nuovo pupillo. Dopo il match che gli aveva spalancato le porte della boxe – o almeno così amava definirlo Eric – la mano al di sotto della fasciatura e del guantone si era rivelata gonfia, arrossata e dolorante. La mattina successiva, invece, il rossore si era convertito al violaceo e Franco aveva concluso che ci sarebbero volute almeno due settimane per evitare di compromettere una carriera agli albori.
Per questo motivo, l’agente aveva iniziato a confermare le date degli incontri nei quindici giorni successivi al battesimo sul ring di Ben.
Nel giro di un paio di mesi, Eric lasciò finalmente la casa lungo la West Side. Non poteva ancora permettersi un appartamento nei quartieri alti di Chicago, ma riuscì a trovare un bilocale nel lato sud della città, abitato da gente normale, come li definiva lo stesso Eric.
«Cosa intendi precisamente per normale?» Gli chiese Benny aiutandolo con il trasloco. Non aveva molte cose da portare con sé a dire il vero, ma l’agente aveva comunque preteso che lo aiutasse a salire le due scatole di affetti al primo piano della sua nuova casa. Forse, solo per fargli vedere che non abitava più in quella topaia e che con i sacrifici gli obiettivi si raggiungono sempre.
Benito adagiò l’ultima scatola all’ingresso, fischiando in segno di approvazione mentre si guardava attorno: nulla a che vedere con la vecchia casupola. Qui i mobili erano migliori, di seconda mano, ma ben tenuti; la pittura non si scrostava dalle pareti e nella cucina non c’era odore di stantio. Eric La Manna stava adagiando la foto con i suoi genitori sul frigo.
«Intendo persone che hanno un lavoro vero e mogli che sfornano dolci alle mele per i loro bambini.»
Voltandosi indietro notò che a quelle parole Benito si era incupito: le nozze di Maria e Alejandro si sarebbero tenute il mese successivo, poi anche loro sarebbero stati una famiglia.
«Scusa, Ben. Non volevo…»
«Tranquillo, amico. Non è colpa tua.»
«Ehi, adesso sei una star della boxe!» Eric finse di colpirlo con un paio di diretti e il giovane sorrise, seppur triste. «Beh, ti piace?» L’agente cambiò discorso, allargando le braccia a volergli mostrare la sua nuova abitazione.
«Niente male…» Ben accarezzò la superficie liscia dell’isola collegata alla cucina moderna, nei toni del grigio.
«Potresti prenderne anche tu una, magari qui vicino…»
«Così potrai tenermi sotto controllo h24? No, grazie. Ho bisogno della mia libertà. Cielo, sei peggio di una fidanzata gelosa!»
Sorrisero entrambi, quella era una frase tipica di Franco.
«O magari potresti acquistarne una più grande per tutta la tua numerosa famiglia» la buttò lì Eric, dandogli le spalle mentre prendeva dal frigo una Sprite e gliene porgeva una.
«Ah, sì? E con quali soldi?»
Dal suo primo incontro di boxe, Ben ne aveva disputati diversi in giro per la città e non sempre clandestini. Aveva partecipato a un vero torneo amatoriale, organizzato da un’associazione di ex commilitoni, ed era finalmente riuscito a mettere da parte un po’ di soldi per le spese giornaliere, ma il vero salto di qualità quello no, era ancora lontano. A volte gli sembrava di combattere per diletto e non per lavoro. Ma era una cosa che gli piaceva fare: lottare. Sentirsi potente, artefice del proprio destino. Se vinceva era merito suo, se perdeva altrettanto. Nessuno con cui prendersela, neppure con il destino. Aveva vinto la maggior parte degli incontri che aveva disputato, più nessuno gli aveva detto cosa fare: vincere o perdere dipendeva solo ed esclusivamente da lui.
Ben stappò la lattina e un po’ di schiuma gli bagnò le dita e il dorso della mano mentre ne beveva un sorso, poi Eric fece scivolare verso di lui una lettera. Il giovane la guardò prima di prenderla.
«Che cos’è?» Chiese.
«Il tuo pass per l’immortalità.» Eric sollevò la sua lattina. «A te, star della boxe.»
La lettera portava il timbro di New York. Benito sentì il cuore fare un salto nel petto, adagiò la Sprite sulla superficie del tavolo e prese il foglio contenuto all’interno della busta bianca, cominciando a leggere.
«Quando l’hai ricevuta?»
«Una settimana fa.»
«Me l’hai tenuta nascosta? Pensi sia una presa in giro?»
«No. Non volevo distrarti prima del tuo ultimo incontro. E poi avevo bisogno di fare un paio di telefonate per accettarmi che fosse tutto vero. Guarda meglio nella busta.» Eric la indicò con un dito e rimase in attesa mentre Ben tirava fuori due biglietti aerei per New York.
«Si parte fra due giorni.» Concluse l’agente emozionato.
 
 
 
Maria uscì da “Il Salone della Acconciature” più affaticata che mai. Era ormai arrivata al settimo mese di gravidanza e stare in piedi tutte quelle ore la stancava oltremodo. Contava i giorni che la separavano dal fatidico giorno, quello del matrimonio, quando finalmente si sarebbe potuta fermare e riposare almeno per un anno, poi chissà… Alejandro non sembrava troppo entusiasta che lei lavorasse, diceva che sua moglie doveva fare la signora e non la sguattera. Eppure, lei sguattera non si era mai sentita, veniva da una famiglia in cui sia suo padre sia sua madre lavoravano e non le era mai mancato nulla, anzi! Pensava che il lavoro nobilitasse l’uomo, ma soprattutto desse dignità alla donna.
Si tamponò la fronte sudaticcia – e non per il caldo, dato che le temperature erano ancora fresche – con un fazzoletto di stoffa con incise le sue iniziali. Un regalo di sua nonna, morta qualche anno addietro di cancro, quando si fermò di colpo: Ben era di fronte a lei, in piedi, con le mani ficcate nelle tasche di un giubbotto scuro, nuovo, di buona qualità. Lo osservò in volto, i capelli erano più corti, gli occhi come induriti ma comunque gentile, un sorriso velato lungo le labbra. Era più muscoloso, più alto (possibile?), più bello che mai.
«Benny» sussurrò. «Non ti ho più visto in giro. Stai bene?»
Lui si strinse nelle spalle, quasi scusandosi di essere lì.
«Ciao, Maria. Come stai? Mi sembri stanca.»
«Lo sono, stanca. Lo sono.» Sospirò.
«Dovresti riposarti, nelle tue condizioni…»
«Ce la faccio. Eri di… passaggio?»
«Eh?» Benny riconobbe in quella domanda la scusa che usava sempre quando l’aspettava fuori dal negozio, solo per parlarle. «No. No, sono passato per salutarti. Parto.»
«Parti? E dove…?» Maria dovette fermarsi per timore che la voce si deformasse a causa del pianto.
«Vado a New York. Mi hanno offerto un buon contratto. Sai, di quelli che non puoi rifiutare…»
«E quando tornerai?»
Ben fece spallucce, non lo sapeva, sperò mai ma lo tenne per sé.
«Alla fine aveva ragione quel tipo, il tuo agente, saresti diventato uno che conta con la tua forza di volontà.»
Ben si meravigliò di quelle parole.
«Il mio agente? Eric?»
«Sì, lui. Venne a parlarmi prima del tuo incontro, quando ti feristi alla mano. A proposito, come va?»
«Be-bene. Perché Eric ha parlato con te?»
«Per chiedermi di starne fuori, avevi bisogno di tranquillità. Mi dispiace, forse non avrei dovuto dirtelo.» Maria abbassò lo sguardo, evitando di dirgli la verità per intero, ossia che quell’uomo le aveva chiesto di rinviare le nozze, di attendere che Ben fosse diventato uno famoso.
«No. No, hai fatto bene. Ciao, Maria. Riguardati.»
Ben andò via, senza attendere la risposta di lei.
 
Bussò con foga alla porta di Eric, indispettendo quest’ultimo.
«Ehi! Guarda che se si rompe devo pagarla io!»
Ben entrò in casa senza neanche aspettare che lui si facesse da parte per farlo passare e per poco non lo travolse.
«Sei stato da Maria?»
Eric chiuse la porta con garbo e gli disse di calmarsi, era troppo agitato.
«Rispondi! Hai parlato con Maria?»
«Sì, Ben. Ci ho parlato…»
«Perché?» Urlò il giovane portoricano.
«Devi calmarti, ok?»
«Perché cazzo sei andato a parlare con lei?»
«Perché questo è l’effetto che ti fa quella donna, Cristo!» Eric urlò più di lui. «Guardati, cazzo, sei fuori di senno! Se affrontassi ogni incontro con questa rabbia, accecato da questa rabbia, non ne avresti vinto uno!»
«Non erano affari tuoi, Eric! Ti sei messo in mezzo a fatti che non ti riguardavano! Lo fai sempre! Lo fai di continuo! Perché non hai una vita tua? Perché devi immischiarti in quella degli altri?!»
«Le ho chiesto di aspettarti, l’ho fatto per te!» Eric gli puntò un indice contro. «Le ho chiesto se fosse sicura che il figlio fosse di Alejandro e vuoi sapere cosa mi ha risposto? Eh, lo vuoi sapere?»
Ben non rispose, semplicemente strinse i pugni lungo i fianchi, serrando la mascella.
«Sai una cosa? Non sta a me rivelartelo! Non devo più mischiarmi in fatti che non mi riguardano. Hai ragione.»
«Parla, cazzo! Lo sai? Tu lo sai?» Ben lo afferrò per il collo della maglia, spingendolo contro la parete dell’ingresso. Una cornice appesa cadde e si scheggiò: ritraeva loro due con la coppa per il primo posto del torneo degli ex commilitoni.
«Le avevo chiesto di rimandare le nozze, di credere in te e nella tua carriera. Non lo so chi è il padre, Ben.» Mentì Eric e sentì il cuore spezzarsi per quel giovane. «Non lo so.»
Benito lo lasciò andare, girò sui tacchi e uscì.
 
Nessuno dei due toccò più l’argomento. Il viaggio nella Grande Mela fu un ottimo diversivo per accantonare quella discussione e fingere che non fosse mai avvenuta. Ma fingere che qualcosa non sia esistita non significa cancellarla per sempre.
Eric e Ben furono accolti all’aeroporto da una grande macchina scura che li accompagnò nella sede centrale della BGG (sigla della prestigiosa associazione newyorchese Boxe Golden Gloves) che gestiva ufficialmente la maggior parte degli incontri di pugilato che si tenevano nel Paese. Eric La Manna sapeva che i suoi agenti erano sparsi sul territorio nazionale, sempre in cerca di nuovi talenti, per questo motivo si era stupito quando aveva ricevuto quell’invito a presentarsi nella loro sede centrale, ma non meravigliato.
La macchina virò nei parcheggi sotterranei di un’imponente struttura in vetro che svettava alta, in mezzo a tutti gli altri grattacieli di Manhattan. I due furono accompagnati da una giovane signorina all’ottavo piano del palazzo, poi la stessa invitò Eric a scendere, i dirigenti della BGG lo stavano attendendo in sala conferenze, mentre lei avrebbe accompagnato personalmente il giovane Ben a visitare la palestra a disposizione dei loro atleti.
Eric e Benito fecero appena in tempo a lanciarsi un’occhiata interrogativa, prima che le porte automatiche dell’ascensore si richiudessero per dividerli. L’egente si ritrovò da solo, con le scarpe buone piantate su una moquette tirata a lucido e una enorme porta di legno lucido dinnanzi a sé. Proprio mentre stava pensando a cosa fare, questa si spalancò, rivelando un uomo della sua stessa età, con addosso un vestito da mille dollari e scarpe da settecento, il quale lo accolse con un sorriso da tremila dollari o poco più. I suoi denti somigliavano a ballerine di ceramica bianca, impressionante, pensò Eric, ricordavano vagamente le bomboniere dei battesimi dei suoi cugini, ai quali prendeva parte quando era bambino.
«Signor La Manna! Ci stavamo chiedendo se per caso non avesse cambiato idea! Ma prego, prego! Si accomodi pure!» L’uomo si fece di lato per farlo passare, i suoi modi gentili erano falsi come i denti che teneva in bocca.
 
Eric attese Benito alla caffetteria del piano terra. Il giovane lo raggiunse e finalmente pareva che il broncio gli fosse passato.
«Accidenti Eric, dovresti vedere che palestra hanno! C’è anche una sauna e una vasca con il ghiaccio per tonificare i muscoli. Fantastico!»
Una giovane e carina cameriera gli passò di fianco, lanciando un’occhiata che Ben colse al volo, scrutando le gambe slanciate e nude della ragazza.
«Ben» lo chiamò Eric.
«Potrei abituarmi a tutto questo, sai?!»
«Ben!» Eric batté il palmo sul tavolo, la tazzina con l’espresso tintinnò sul piattino.
«Dobbiamo parlare» aggiunse quando ebbe l’attenzione del ragazzo e quest’ultimo, notando il tono grave, tornò serio.
Eric La Manna sapeva che quello che stava per dire al suo assistito non gli sarebbe piaciuto, neanche un pochino. Onestamente, neanche a lui piaceva e in circostanze diverse forse non si sarebbe neppure seduto al tavolino per parlarne, avrebbe scelto personalmente, in fondo quello era il suo lavoro. Ma questa volta era diverso. Questa volta la scelta non poteva spettare solo a lui, non dopo quello che era accaduto la sera precedente fra i due.
In quella sala aveva trovato altre due persone ad attenderlo, ugualmente gentili e garbati nei suoi confronti, ma un garbo che non era stato tanto diverso da quello del boss mafioso con il quale aveva avuto a che fare all’inizio della sua avventura con Benito. Un garbo fasullo, un pugno in una carezza. Dopo i vari convenevoli, l’uomo che gli aveva aperto la porta aveva preso la parola e cominciato a blaterare di casistica e destino. Di opportunità mancate per orgoglio, e di umiltà. Di riflettori puntati addosso e di castelli di sabbia crollati alla prima onda. Eric aveva fatto fatica a seguire il discorso, poi lentamente i pezzi si erano uniti e il disegno era venuto fuori, chiaro e infame.
I dirigenti della BGG l’avevano convocato poiché, dai talent scout insediati a Chicago, avevano ricevuto segnalazioni di un giovane e brillante pugile portoricano che stava rimescolano le carte della boxe. Tra meno di una settimana si sarebbe tenuto un evento speciale al Madison Square Garden e, tra i tanti incontri in programma, ci sarebbe stato anche quello di esordio del loro nuovo pupillo, la loro nuova punta di diamante come non se ne vedevano da tempo – disse l’uomo con bomboniere al posto dei denti. Era tutto organizzato nel minimo dettaglio, avevano speso una fortuna per pubblicizzare l’evento anche al di fuori dello Stato di New York e avevano scelto con cura l’avversario da mettergli contro.
«Perché, come lei sa signor La Manna, un buon antagonista è l’anticamera del successo per l’eroe» era intervenuto un altro di loro, facendogli l’occhiolino.
Ma, il caso aveva voluto che proprio quest’ultimo si fosse infortunato durante un allenamento e il posto era rimasto vuoto, così rischiava di saltare tutto ed economicamente parlando non potevano permetterselo. Avevano investito troppo per rimandare l’incontro, per questo motivo si erano messi alla ricerca di un pugile che potesse sopperire alla mancanza dell’avversario e – guarda caso – il profilo migliore era risultato proprio Ben.
«Quindi il mio assistito dovrebbe combattere al posto del pugile infortunato un incontro di battesimo per il vostro nuovo pupillo?»
«Esattamente» aveva risposto il terzo dirigente, mentre beveva un Martini e snocciolava olive verdi.
«Ovviamente riceverete il giusto compenso» aveva aggiunto il secondo uomo.
«Noi sappiamo riconoscere un gioiellino quando ne vediamo uno» denti di ceramica gli sorrideva mentre faceva scivolare verso di lui un biglietto. «Lo capovolga, Eric. Posso chiamarla Eric?»
Eric La Manna lo fece, capovolse il biglietto e lesse la cifra riportata. Senza distogliere lo sguardo chiese.
«È un incontro deciso a tavolino?»
«Che brutta espressione! Deciso a tavolino. Diciamo piuttosto collaudato» l’uomo con le olive aveva bevuto altro Martini.
 
Ben ascoltò a braccia conserte l’intero racconto, senza interromperlo neanche una volta né lasciando trapelare emozioni dal suo viso. Solo alla fine domandò.
«Di quanto parliamo?»
«Un attico in piena Central Chicago» Eric l’aveva fissato dritto negli occhi. «Uno a testa.»
«Devo perdere?»
«Sì.»
«No.» Benito si era alzato e aveva lasciato la caffetteria, seguito a ruota dal suo agente che si ritrovò a rincorrerlo fra i newyorchesi.
«Ben, ehi, Ben! Aspetta, dannazione!» Quando gli fu vicino lo afferrò per un braccio e lo voltò verso di sé, bisbigliandogli a una spanna dal viso. «Hai capito cosa ti ho detto? Potremmo sistemarci entrambi per il resto della nostra vita.»
«Ti avevo già detto che non avrei mai più accettato un incontro deciso prima. Sono io l’artefice del mio destino, non gli altri!»
«E hai ragione, ma anche in questo caso puoi decidere di scegliere di vivere una vita agiata.»
«Agiata e vergognosa. No. Torniamo a Chicago con il primo volo…» Ben si liberò dalla presa e fece per riprendere il cammino, quando le parole di Eric lo arrestarono nuovamente.
«Con quei soldi potresti fare il test di paternità e prendere un avvocato.»
Si guardarono per qualche secondo, poi il giovane portoricano sentenziò.
«Questo è l’ultimo incontro che combatto. Dopo New York io e te ci salutiamo, per sempre.»
Eric La Manna annuì.
 
 

 
Il Madison Square Garden vantava una fama che lo aveva reso famoso in ogni angolo di mondo. I migliori si erano esibiti in quell’arena, di ogni genere. Eric avrebbe raccomandato l’anima al diavolo pur di mettere piede lì dentro un giorno, mentre Ben non l’aveva sognato neanche nei suoi desideri più folli. E invece adesso si trovavano lì, insieme, per un’ultima volta.
Il primo ad essere annunciato fu proprio lo sfidante portoricano, il quale venne accolto da una serie di fischi e buu, solo pochi lo applaudirono, forse ispanici come lui. Eric La Manna lo seguiva a ruota, per quella sera sarebbe stato il suo secondo a bordo ring, il manager che si fa allenatore. Franco non era stato inviato a New York e forse neanche gli sarebbero piaciute tutte quelle moine, o scendere a compromessi. Lui era uno che non lo faceva mai.
La star della serata, la punta di diamante della Boxe Golden Gloves, era un trentenne alto un metro e novanta per almeno cento chili, i capelli chiari e gli occhi color ghiaccio erano accompagnati da un tipico nome tedesco: Günther. Il pubblico esplose in una vera ovazione quando questo salì al centro del ring e alzò entrambi i guantoni al cielo. Non degnò neanche di uno sguardo Ben, immobile all’angolo opposto del suo.
Eric gli parlò nell’orecchio, massaggiandogli la base del collo per rilassargli i muscoli. Cielo, come gli sarebbe piaciuto dirgli parole per incitarlo, per caricarlo, per spronarlo a vincere quel match e vaffanculo i patti e i soldi! Vincere contro un pugile di quel calibro, durante un evento al Madison Square Garden organizzato dalla BGG sarebbe valso tutto l’oro del mondo. Ma, purtroppo non si vive di sola fama e soddisfazioni, c’è bisogno di quattrini per mangiare e andare avanti nella vita. C’è bisogno di compromessi. Per questo motivo, semplicemente, ricordò a Ben della loro promessa e di resistere quanti più inning possibile: magari qualche altra importante associazione l’avrebbe notato e chissà… se voleva Dio, quello non sarebbe stato il loro ultimo match.
Ben neanche gli rispose, indossò il paradenti e si portò al centro del ring, saltellando da un piede all’altro. Günther era alto almeno quindici centimetri in più, ma lento come un elefante. Ci avrebbe messo un po’, ma alla fine sarebbe riuscito a mandarlo al tappeto e vincere l’incontro.
Il gong risuonò nell’arena gremita e, come era prevedibile, il tedesco gli fu subito addosso, immobilizzandogli il capo con entrambe le braccia. L’arbitro li divise, ammonendo Günther per il bloccaggio: non si poteva fare.
Eric notò i giudici seduti a bordo ring prendere nota.
Il pugile della BGG continuava a sferrare diretti e qualche gancio, ma niente di più. Günther non era agile, ma prevedibile e potente. Ben non aveva problemi a schivare i suoi pugni, anzi, sembrava quasi divertirsi nell’evitarli, facendo così andare in bestia l’avversario che, irritato dal suo comportamento canzonatorio, lo prese appena sotto la cintura, facendolo piegare in due dal dolore. Di nuovo l’arbitro fu costretto ad allontanare il tedesco e ad avvertirlo per la seconda volta: un altro di quei colpi proibiti e sarebbe stato costretto a sospendere il match.
Il pugile biondo urlò di rabbia, mentre i giudici prendevano nota ancora una volta, guardandosi di sottecchi.
Il primo round terminò.
Ben si sedette pesantemente al suo angolo, tamponandosi il sudore con un asciugamano, intanto che Eric gli diceva di continuare così, ma anche di farsi colpire ogni tanto, o quello avrebbe davvero rischiato di perdere l’incontro per espulsione.
«Non è colpa mia se quelli della BGG hanno preso un decerebrato.»
«Ben…» il match riprese e il portoricano si alzò di scatto. «Dannazione…» Eric lanciò uno sguardo furtivo al punto dinnanzi a sé, dove erano seduti i dirigenti con cui aveva parlato solo qualche giorno prima. Nessuno dei tre sorrideva.
 
Günther ricominciò la ripresa da dove l’aveva interrotta: aggressivo e violento come un animale da combattimento. Ben però non intendeva restare a guardare come aveva fatto durante il primo round, voleva divertirsi, giocare un po’ con il biondo e il pubblico sugli spalti.
Il portoricano schivò l’ennesimo diretto di Günther e lo colpì con un gancio, il tedesco rimase meravigliato e lo fissò negli occhi, rabbioso per l’affronto. Di nuovo si lanciò contro Benito, e di nuovo questo deviò il pugno sfiorandogli il mento con un montante, poi gli fece il gesto di farsi avanti:
«Biondone» gli mandò un bacetto.
Günther non se lo fece ripetere due volte e con un urlo gli fu addosso, ma Ben riuscì a evitare ogni diretto, gancio o montante che quello menava grazie al suo gioco di gambe, svelto e imprevedibile. Saltellava a destra e a manca sul ring, girandogli intorno e facendosi beffe dell’altro che si arrabbiava sempre più. Il viso era diventato paonazzo dall’ira, si sentiva preso in giro senza riuscire a fare nulla, se solo fosse riuscito a colpire quel folletto almeno una volta, sarebbe riuscito a fermarlo e poi a suonargliele quanto più poteva. Invece, il portoricano sembrava conoscere e prevedere ogni sua mossa, anticipandolo fastidiosamente. Anche il pubblico adesso pareva fare il tifo per lui, li stava facendo divertire come bambini al circo. Ecco cos’erano diventati lì, al centro del ring, due fenomeni da baraccone. E mentre pensava a tutte quelle cose e si stancava senza riuscire a concludere nulla e la lucidità veniva sempre meno a causa del nervosismo, Ben lo colpì alla guancia con un diretto ben assestato. Il pubblicò urlò e incitò il giovane di continuare, di menarlo ancora e ancora e Ben lo fece, dimentico di tutto: del patto con la BGG, di Eric all’angolo che gli chiedeva che cazzo stava facendo, di Maria che si sarebbe sposata tra meno di un mese, del suo pancione appuntito che era agli sgoccioli. Di nuovo, come gli capitava ogni volta che saliva sul ring, esistevano solo lui e il suo avversario e nulla più. Il mondo spariva, tutto si faceva sbiadito: i colori, i suoni, le sensazioni.
Benny lo colpì una volta e poi un’altra, e giù di combinazioni semplici ed efficaci – sinistro sinistro destro – e ricominciava. Günther non era in grado di difendersi, il sangue prese a scorrergli dal naso e da una vecchia ferita sul labbro superiore, poi finalmente parve riprendersi e si portò i guantoni davanti al volto, alzando la guardia, ma era troppo tardi. Il gong segnò la fine del secondo round e questa volta il vincitore era stato il pugile di Chicago, non c’era bisogno di aspettare i voti dei giudici.
Ben si sedette al suo angolo e Eric La Manna non perse tempo a rimproverarlo, guardandolo dritto negli occhi.
«Sei impazzito, eh? Vuoi farci ammazzare?»
«Ammazzare? Che c’è, hai paura di perdere la tua bella casetta da impiegato mediocre di Chicago?»
«Non me ne fotte niente della casa, Ben. Quelli non scherzano, indosseranno abiti costosi, ma non sono brave persone come non lo erano i mafiosi che avevo alle costole mesi fa.»
Ben alzò gli occhi per studiare i dirigenti della BGG, questi sostennero il suo sguardo, i visi torvi.
«Ben, ehi Ben!» Eric gli afferrò la mascella affinché lo guardasse. «Non ti sto chiedendo di farlo per me, ma per Maria. Ben, le ho chiesto di aspettarti, di rimandare le nozze per te…»
«Che hai fatto?»
«… il bambino è tuo, Ben. Lo so, me lo ha fatto capire. Mantieni i patti, Ben, mantieni i patti per lei.»
Gli occhi scuri del portoricano si indurirono, sembrarono svuotarsi di ogni emozione.
«Che figlio di puttana che sei! Sei un lurido pezzo di merda!» Il ragazzo si alzò, l’arbitro stava invitando i due concorrenti a tornare al centro del ring per l’ultimo round.
«Ben! Ben!» Eric sussurrò il suo nome sperando che il giovane si voltasse almeno a guardarlo, ma questo non lo fece e l’ultima ripresa incominciò.
 
Questa volta Benito Sanchez non attese che il suo avversario facesse la prima mossa, fu lui a prendere l’iniziativa, prendendolo alla sprovvista con un diretto in pieno volto. Il naso dell’altro, giù arrossato, gonfio e medicato alla bell’e meglio con un tampone ficcato su per una narice, riprese a sanguinare.
 
Lui lo sapeva. Eric sapeva che il figlio che Maria portava in grembo era suo e non gli aveva detto nulla. Nulla. Come se non bastasse, gli aveva anche mentito, non una, ma due volte. La prima volta quando non gli aveva detto che era stato da Maria, la seconda quando gli aveva chiesto se sapesse chi fosse il padre di quel bambino.
Era lui.
Lui era il padre.
Lo aveva sempre saputo, così come lo sapeva Maria. Eppure, era disposta a sposare quel cojone di Alejandro per dare a suo figlio una vita dignitosa, permettergli scuole migliori delle loro e una casa con un giardino, lontano dalle strade pericolose e sudice del loro quartiere.
 
Il pubblico era in visibilio per quel giovane pugile portoricano venuto da Chicago, anche chi all’inizio aveva omaggiato l’ingresso del tedesco. Adesso erano tutti con lui, scandendo il suo nome in un unico coro ritmato. In fondo, si finisce sempre per tifare il pesce più piccolo, si spera che almeno una volta il più debole abbia la meglio sul più forte. Che la squadra di football con meno soldi riesca a battere la super titolata del campionato; che il novellino vinca sul pluripremiato campione; che un giovane pugile dai lineamenti ispanici colpisca così forte un lottatore grande, grosso e biondo da mandarlo al tappeto.
Oppure che una giovane neo mamma sposi l’uomo che ami e non il boss della cosca solo per avere una vita più facile.
Girava sempre, tutto, intorno ai soldi.
Ben si fermò di colpo quando l’arbitro si frappose fra lui e Günther. Quest’ultimo aveva il volto che era una maschera di sangue, barcollava all’indietro, tenendosi su gambe non proprio ferme, mentre gli occhi erano fermi su un punto non proprio preciso sopra di loro.
Soldi.
Eric aveva parlato di una cifra che avrebbe sistemato entrambi. Sarebbe potuto tornare a Chicago, nella sua Little Puerto Rico, prendere Maria e andare lontano, in un paesino di campagna, nel Maine magari, aveva sentito parlare di immensi laghi e distese incontaminate di verde.
 Gli sarebbe piaciuto vivere lì…
(«Ben, dannazione! Ci farai ammazzare entrambi!»)
La voce di Eric gli giungeva quasi ovattata, mischiandosi a tutte le altre che ritmicamente intonavano il suo nome.
(«Pensa a Maria, Ben! Pensa a lei, cazzo!»)
Benito Sanchez sollevò lo sguardo, puntandolo contro il suo avversario, il quale pareva essersi ripreso dallo shock. Gli fece cenno di farsi sotto e quando Günther avanzò verso di lui, restando in piedi per miracolo, lo colpì così forte da farlo vacillare all’indietro, ma Ben incassò il pugno e aprì la bocca per sorridergli. Ne uscì un ghigno spaventoso. Il tedesco continuò a picchiarlo, nella foga a volta mancava il bersaglio, ma non si fermò e Ben lo lasciò fare: era un buon incassatore, lo era sempre stato, il dolore non lo spaventava, poteva sopportarlo.
Günther era una maschera di sangue e anche il portoricano lo stava diventando. Non riusciva più a pensare, era in trance agonistica, l’adrenalina era così tanta che non avvertiva neanche più il dolore per i tanti colpi subiti. Ben si era trasformato in una specie di fantoccio da poter prendere a pugni come meglio credeva, e non si fermò neppure quando cadde disteso sul ring, ormai privo di sensi. Günther gli fu cavalcioni in un secondo, continuando a colpirlo alla testa, all’addome, al volto. L’arbitro lo tirò via di peso, mentre Eric era praticamente saltato sul ring cercando di coprire Ben con il suo corpo.
«Ben, ehi, Benny!» Ma quest’ultimo non rispose, i respiri rochi uscivano a fatica dalla gola. Eric sentiva le lacrime bagnargli il viso, quel giovane si era fatto letteralmente pestare a morte, il suo volto era irriconoscibile. D’istinto glielo ripulì dal sangue con la manica del vestito buono, continuando a sussurrargli che gli dispiaceva, gli dispiaceva tantissimo.
Intanto l’arbitro aveva afferrato Günther per un polso alzandogli il braccio al cielo per incoronarlo vincitore; il pubblico tutt’intorno lo stava sommergendo di fischi e insulti vari.
 
L’agente Eric La Manna tenne lo sguardo dritto verso i dirigenti della Boxe Golden Gloves, fissandoli senza smettere, mentre sorreggeva fra le braccia il capo del suo assistito, simile a una principessa con il proprio amato. I tre uomini in giacca e cravatta erano in piedi ad applaudire il loro pupillo, nessuno sorrideva…


 
 
 
 

Ciao Lettori!
La storia termina qui... adesso attendiamo il responso finale del giudice Ghostro per capire la fine che spetta ai personaggi...
Grazie a chiunque abbia letto e recensito, ve ne sono grata,
Nina^^

 

 
 


Segue ipotesi di finale:


Nonostante l’agio ottenuto e Maria di nuovo al suo fianco, Ben non perdonerà mai Eric. Aver assaggiato per quelle poche ma intense settimane il brivido della ribalta, il calore di un sogno, dopo aver passato ventidue anni di meschine parole di disprezzo, invidia, o piatta saggezza, ha lasciato sulle sue labbra un amaro che l’amore e la quotidianità non possono liberare. Persino la nuova vita, i doveri di padre, quel magnifico luogo di paradiso fuori dalla città, da sogno di tramuterà ben presto in catene. Aveva riconquistato Maria, ma il brivido dell’euforia ben presto si è macchiato nella consapevolezza della sporcizia e la polvere che giace sotto quel teatrino di apparente felicità. Per riaverla aveva dovuto vendere l’anima al diavolo, diventare un cojone come Alejandro: uno scarto di uomo che ha comprato ciò che ha. Una falsa stabilità, il dubbio onnipresente che, per qualsiasi motivo, per un litigio più intenso, o per un capriccio, lei possa fuggire di nuovo. Non vuole dare ragione a Eric, odia ciò che ha fatto. Ma persino una volontà ferrea come la sua, un amore nonostante tutto vero come il suo, può essere erosa del rimpianto e vecchie ruggini che non sono mai state lavate del tutto.
All’improvviso alcol diventa il miglior amico e il peggior nemico…
Al funerale di Ben, Eric è distrutto. Ha ottenuto tutto ciò che aveva perso: rispetto, soldi, la vita che aveva sempre desiderato ottenere. Non aveva mai capito quanto alto era stato il prezzo della sua felicità. Vedere Ben, per caso mesi prima, trascinarsi ubriaco sul ciglio della strada. Sentire il suo alito puzzolente mentre lo caricava in taxi. La storia si era ripetuta e non se n’era nemmeno accorto. Adesso era lui il carnefice. Adesso era lui che aveva ridotto quel povero, magro ragazzo, nella parodia di sé stesso.
Avrebbe potuto essere qualcuno, avrebbero potuto essere qualcuno.
Perché i soldi, per quanto appetibili, non danno la felicità. E all’improvviso capisci cos’è che davvero ti aveva spinto a sopravvivere finora: sognare, e avere un amico con cui instaurare quella complicità che dura una vita. Una vera, sincera.
Quel giorno Eric non aveva perso solo un amico, al prezzo di qualche moneta sonante: aveva perso la grinta. E all’improvviso, anche l’attico più lussuoso della città diventava lurido e solitario come quella vecchia casa diroccata.
E allora, di ritorno dal funerale, quella notte fissa in silenzio la parete spoglia di fronte al divano.
Immaginandola riempita dei trofei e le foto che avrebbero potuto essere. Ma che non ci saranno mai…

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