THE SPACE OPERA

di nachiko_nene
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ***
Capitolo 2: *** LA CENERE PUÒ DANZARE ***
Capitolo 3: *** DI INGRANAGGI E MEDICINA ***
Capitolo 4: *** ¡VIVA DYSTOPIA! ***
Capitolo 5: *** ¡VIVA DYSTOPIA! - seconda parte ***
Capitolo 6: *** IL MALE MINORE ***
Capitolo 7: *** DUE E' MEGLIO DI UNO ***
Capitolo 8: *** L'UOMO CHE NON SANGUINAVA ***
Capitolo 9: *** TITANI E DÈI ***
Capitolo 10: *** LA FUNAMBOLA E IL PIROMANTE ***
Capitolo 11: *** LA SFILATA DEI FOLLI ***
Capitolo 12: *** LA STELLA CHE TI PORTA FUORI ROTTA ***
Capitolo 13: *** LIBERO ARBITRIO ***
Capitolo 14: *** TEMUTO E AMATO ***
Capitolo 15: *** Il Figlio della Rivoluzione (prima parte) ***
Capitolo 16: *** Xyiònn ***



Capitolo 1
*** PROLOGO ***


 

PROLOGO




A metà del ventunesimo secolo il progressivo innalzamento della temperatura dell'atmosfera portò ad un brusco tracollo ambientale, favorito dalla sfrenata mercificazione delle risorse naturali e dalla scarsa volontà degli umani di tutelare il proprio pianeta.

Il predominio degli interessi economici e del profitto aveva prevalso su ogni principio di responsabilità comune, danneggiando per sempre i sistemi vitali della biosfera e compromettendo la capacità della natura di rigenerarsi e sostenere i bisogni degli esseri viventi.

Dalla maestosa foresta Amazzonica alla ricca barriera corallina Australiana, dalla calotta glaciale della Groenlandia ai ghiacciai della Tanzania, gli ecosistemi terrestri iniziarono a collassare uno dopo l'altro creando un flusso di profughi in fuga dalla crisi idrica, dalla carestia e dalle guerre scatenatesi.

Li chiamarono "i profughi climatici", intere popolazioni in corsa verso il Nord Europa e l'Asia settentrionale.
La desertificazione si stava espandendo a macchia d'olio, abbracciando la terra in una dolorosa morsa. A quel punto non fu più possibile ignorare il ticchettio insistente del conto alla rovescia.

Ricordo le estati di fuoco, l'aria irrespirabile e satura di gas.
Fu in una bollente mattina di marzo del 2050, quando davanti ad una folla inorridita comparve in cielo la prima astronave, nera come un oscuro presagio. Se ne aggiunsero altre e poi altre ancora.
Le strade si svuotarono velocemente e consistenti truppe di soldati assediarono ogni angolo della città impartendo ordini dai megafoni.

Allora ero solo un ragazzino e mentre ammiravo quello scenario apocalittico mi chiesi cosa realmente potessimo fare per proteggerci da quei visitatori, avanti a noi migliaia di anni. 
Al calare della sera sperai comparissero spesse nuvole in grado di occultare quei grotteschi veicoli spaziali, ma sfortunatamente il cielo rimase limpido e le luci brillanti illuminarono come fari la città di Göteborg, in un silenzioso monito. Ricordo di avere passato la notte avvolto tra le coperte, nascosto sotto la scrivania della mia stanza, nel tentativo di sottrarmi a quel bagliore insopportabile. Rimasi lì, accovacciato fino all'alba, e quando guardai fuori dalla finestra realizzai con sgomento che nulla era cambiato dal giorno precedente.

Il mondo se ne stava col fiato sospeso e lo sguardo rivolto verso l'alto: le misteriose navicelle erano ancora lì, immobili.

Non accennavano a scendere sul suolo terrestre, né a risalire verso lo spazio.
Avevano intenti bellicosi? Portavano progresso tecnologico? Nessuno poteva rispondere con certezza, ma l'unico pensiero che unì nove miliardi di persone in quelle ore fu la speranza che per quei visitatori, la vita, fosse qualcosa di rilevante, di prezioso.

La situazione rimase paralizzata per diverse settimane.

Alcuni studiosi si sentirono in dovere di tranquillizzarci con impacciato ottimismo. Quella era senza dubbio una prova della sensibilità aliena nei nostri confronti: stavano procedendo con cautela per non turbare ulteriormente la popolazione umana non abituata a visite extraterrestri.

E anche io decisi che doveva essere così.

Se avessero avuto intenti nocivi nei nostri confronti dopo ben cinque settimane non sarebbero rimaste che briciole della civiltà terrestre, invece eravamo ancora lì, in attesa di un qualsiasi segnale dal cielo.

Finalmente, un pomeriggio, la sede centrale del SETI Institute captò un messaggio radio indirizzato al genere umano che andò a spezzare per sempre la precaria quiete creatasi.

Passammo ore e ore seduti davanti al televisore, immobili come sassi, in attesa di un comunicato stampa che infine arrivò. Fu breve e conciso, ma bastò ad aggrovigliarmi le viscere in un moto di angoscia. Eravamo in ascolto del primo e autentico messaggio proveniente da una civiltà aliena le cui prime parole furono: siamo giunti a voi.

"Vi abbiamo osservati per lungo tempo, in silenzio, nella speranza che con le vostre risorse poteste curare le ferite inferte al vostro pianeta.

Ormai il punto di rottura è stato valicato da tempo.

Un'inestimabile perdita.

Un irreparabile danno.

Ma la Terra sarà salva se gli umani accetteranno l'aiuto di Shunna Ra'a."

Ripetei quell'ultimo nome più volte, fino ad impararlo a memoria.

Quello sarebbe stato il primo di una lunga serie di comunicazioni firmate dal Consiglio di Shunna Ra'a, l'antico organo principale della nostra galassia, mediatore nei rapporti economici e politici interplanetari e promotore dello sviluppo delle civiltà.

Ma questo lo scoprimmo in seguito.
Venne stipulato un patto diretto a regolare i rapporti tra le parti: il genere umano si impegnò a collaborare al piano di risanamento planetario sotto l'esperta guida del consiglio galattico, che in cambio garantì il massimo rispetto all'integrità e al benessere della popolazione. 
Non si trattava certo di un'assicurazione, ma ci aggrappammo con tutte le nostre forze a quell'unico pezzo di carta, come se rappresentasse uno scudo con il quale ripararci da eventuali attacchi.

Tuttavia con il passare degli anni la dialettica iniziò a mutare.
Si iniziarono ad usare più frequentemente termini come "colpa e responsabilità" accostati a "sacrificio e soluzione".
Nella ricca varietà della galassia l'ecosistema della Terra era unico e insostituibile, un bene troppo prezioso per essere lasciato nelle nostre inaffidabili mani. Ci venne comunicato che, in un momento così critico per il pianeta, gli esseri umani dovevano accettare di farsi da parte per permetterne la completa guarigione: era necessario procedere ad un piano di evacuazione.
Le soluzioni drastiche vengono prese in considerazione solo quando non ci sono alternative, perciò mi chiesi: davvero quegli esseri eccezionali non avevano altra scelta?

Si intensificarono le campagne di propaganda a favore di Shunna Ra'a e l'importanza di entrare a far parte della società extraterrestre, ma purtroppo le insurrezioni non tardarono ad arrivare.
Gli esseri umani non avevano intenzione di lasciare la loro casa e solo l'idea suscitava rabbia e sconcerto.
Il Consiglio si era riempito la bocca di tante belle parole, promettendo la guarigione del pianeta con tecnologie all'avanguardia e la cooperazione tra i popoli, mentre ciò che aveva in mente sin dal principio era disinfestare la Terra dalla nostra presenza, come liberandola da un dannoso parassita.
Nuove ribellioni nascevano continuamente, ma venivano soppresse con altrettanta velocità: gli umani non avevano il potere necessario per contrastare la volontà del Consiglio.
Ormai era stata presa una decisione per porre rimedio alla questione terrestre e presto ci fu comunicata l'ubicazione della nostra nuova colonia.

Quello sarebbe stato l'inizio dell'esodo umano.

 

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Capitolo 2
*** LA CENERE PUÒ DANZARE ***


Capitolo uno: La Cenere può danzare



Anno 2150 del calendario terrestre

Nave TALELAH LAKROA, Squadra cacciataglie

 

«Presta attenzione, perché questa è l'ultima volta che te lo spiego.»

L'esile creatura si posizionò davanti all'oblò e indicò un piccolo pianeta in prossimità della nave:
«Haeist e la sua banda di mercenari sbarcheranno su Thurania in occasione della celebrazione del Consiglio. Cercheremo di ostacolarli per facilitarne la cattura da parte delle autorità, ma in particolare il nostro gruppo si limiterà a proteggere i civili.»

Nina Björklund fissava ipnotizzata il proprio riflesso senza dare particolare importanza ai discorsi del compagno di squadra.
Sorrise, soddisfatta del risultato finale, sfiorando con la punta delle dita la superficie fredda dello specchio. Filamenti floreali si intrecciavano alle ciocche ramate trattenendole sul capo e solo la corta frangetta sfuggiva ricadendo sbarazzina sulla sua fronte. Indossava un abito bianco che lasciava scoperte le spalle e fasciava dolcemente il busto arrivando all'altezza delle ginocchia.

Non era che un'umana nel fiore dei suoi anni, ebbra di vita e accesa dall'entusiasmo della giovinezza.

Una scintilla di emozione le attraversò gli occhi blu.
Non aveva mai partecipato ad una cerimonia in onore di Shunna Ra'a, e come avrebbe potuto? Gli esseri umani avevano scarse possibilità di essere invitati ad eventi così importanti.
Namuk la riportò bruscamente alla realtà con un sonoro sbuffo.

«Mi stai ascoltando?» ripeté stizzito coprendo lo specchio con un gesto secco.
«Non ho intenzione di commettere errori per colpa della tua sconsideratezza!»

Nina trasalì voltandosi verso il gracile e bluastro socio che la fissava, immobile come un chiodo.
Si trattava di un mediocre esemplare di Tak Tak, originario di Takkan, un pianeta caratterizzato da sconfinate distese di ghiaccio.

Questa particolare specie mal tollerava le temperature miti, ragion per cui, fuori dal loro habitat naturale, era assai comune vederli passeggiare con andatura fiacca e ciondolante in mezzo alla gente. Completamente nudi.
Ciò non intaccava per nulla la sensibilità pubblica, perché la nudità era un concetto socialmente accettato in tutta la galassia.
Nina non poteva dire lo stesso però.
Trovava infatti abbastanza inquietante la conformazione fisica di Namuk, glabra e pressoché amorfa.

«Voglio solo essere presentabile per la cerimonia, dobbiamo confonderci tra loro, l'hai detto tu. Ti stavo ascoltando.»
Esitò qualche secondo, poi lo squadrò da capo a piedi, sfoderando uno stupido sorriso.
«A proposito... io non sono un'esperta di cerimonie, ma temo che il galateo imponga di indossare delle mutandine in questi casi, sai?»

L'essere dalle orecchie appuntite storse la bocca offeso e, stufo dell'insolenza della ragazza, le voltò le spalle allontanandosi.
Lo osservò di sottecchi mentre si dirigeva impettito verso la porta.

«Permaloso... » borbottò a bassa voce tornando a guardare lo specchio.

Nina faceva parte di una quota speciale riservata alle razze entrate solo di recente nel sistema. Si trattava di un particolare provvedimento preso dal Consiglio Galattico per contrastare la xenofobia dilagante e per includere nella società le civiltà più emarginate.
La presenza di Nina a bordo della nave era pura correttezza di facciata.
Le sue capacità infatti erano ritenute pressoché inutili, indesiderate, e i suoi compagni di squadra non si facevano scrupoli a rimarcarlo.
Fece un doloroso sospiro e, ricacciando sul fondo della coscienza quei pensieri, si lasciò cadere sulla sedia a peso morto, in una posizione sgraziata. Accese il monitor, con l'intento di eseguire una piccola ricerca prima dello sbarco. Passò in rassegna dei vari file sui componenti della banda concentrandosi infine sul loro leader. Analizzò minuziosamente le parti più interessanti, saltando le informazioni noiose.
All'improvviso un dettaglio attirò la sua attenzione e, per essere certa di avere compreso bene, tornò a capo per rileggere una seconda volta la frase:

"Nel corso del tempo sono state formulate varie ipotesi sulla razza del capitano dell'Estus, la maggior parte di queste concorda su una probabile origine umana."

«Umano...» sussurrò fissando sovrappensiero lo schermo.

Durante la permanenza sulla nave aveva maturato una bassa opinione della propria specie, influenzata per lo più dalle convinzioni dei compagni di squadra.
Gli stereotipi dipingevano spesso gli uomini come creature arretrate e legate morbosamente al culto degli Dei. Una razza dall'intelletto limitato, ma soprattutto, contraddistinta da una particolare debolezza.
Nulla a che vedere con il capitano dell'Estus, insomma.
Eppure, per un attimo, sentì il bisogno di immaginare l'espressione incredula dei propri compagni nello scoprire che uno tra i più temuti ricercati della galassia fosse in realtà un uomo.
Gongolò tra sé e sé, accontentandosi di quella sensazione di rivalsa.
 

• • • ∆ • • •

 

Thurania

Aveva già sentito parlare di Thurania prima di quel giorno. Era conosciuto anche come “Pianeta Bolla” o “Pianeta Papula”, per via delle migliaia di cupole sparse per la superficie. All’interno di esse erano racchiuse case, edifici o addirittura intere città. Gli abitanti, protetti dalle radiazioni esterne, vivevano per lo più di turismo alieno e, non di rado, mettevano a disposizione le cupole più belle per ospitare eventi importanti.

Nina doveva ammettere che la festa di Celebrazione del Consiglio era stata organizzata dentro una costruzione davvero lussuosa.
Il materiale trasparente della calotta permetteva di ammirare il cielo stellato di Thurania, perennemente notturno, e sul tetto di ogni edificio era presente un osservatorio astronomico.

La sala era colma di creature dalle fattezze più bislacche e, Nina, non ancora pronta per scoprire certe razze, si limitava a guardarle da lontano con malcelato orrore.
Si esprimevano in modo differente, ma la tecnologia fungeva da supporto per garantire un'interazione efficace tra gli individui.

La comunicazione tra esseri viventi di diversa origine era garantita da appositi dispositivi sottocutanei, innestati alla prima imbarcazione. Tutto ciò era estremamente comodo perché quei congegni interagivano tra loro permettendo di comprendere vicendevolmente un linguaggio.
Nina ricordava bene il giorno in cui ricevette il suo e in un certo senso fu abbastanza traumatico: non l'impianto in sé, pressoché indolore, ma essere travolta dalla capacità di comprendere ogni suono circostante la gettò in uno stato di confusione assoluto. Sentiva ronzare nella testa mille parole senza riuscire a concentrarsi realmente su nessuna di esse, con il risultato di non capire comunque nulla.
Il caos che le si era annidato nella mente era talmente snervante che per i primi tre giorni Nina si era ridotta a spostarsi all'interno della nave con dei paraorecchie, in modo da isolarsi da qualsiasi suono. Le ci volle più di un mese per imparare a utilizzare in modo corretto quello strumento, ma finalmente, dopo lunghi esercizi di concentrazione, riuscì a discernere delle parole da quel garbuglio di rumori, e infine, a comprendere frasi di senso compiuto.

Ora sentiva con chiarezza le voci degli invitati dentro le ampie mura del salone mentre commentavano compiaciuti l'opulenza dei banchetti, la lucentezza del pavimento e le lente note musicali che accompagnavano la festa.

«Ma che strano...» mormorò guardandosi intorno stupita «Non balla nessuno.»

Namuk si girò verso di lei interrogativo.

«Che vuoi dire?»

«Guardati attorno, se ne stanno impalati a chiacchierare. Mi pare un peccato non ballare con una musica così bella... fa quasi impressione vederli immobili, vero?»

L'essere dalla pelle bluastra si grattò il mento sempre più confuso.

«Non capisco cosa voglia dire questa parola che continui a ripetere... ballare?»

Nina sgranò gli occhi incredula.
Poteva la danza essere una prerogativa umana nella sconfinata galassia?
In qualsiasi civiltà conosciuta l'arte della musica si era sviluppata in tutte le sue varietà e di conseguenza, ipotizzava Nina, sarebbe dovuta nascere la danza.
Eppure, a pensarci bene, non le sembrò più così scontato.
Lo trovò abbastanza triste.

Rimuginò qualche attimo, fissando distratta i piccoli e confusi occhi neri del compagno. Infine gli rivolse un sorriso.
«D’accordo, sta’ a guardare.»
Fece qualche passo in avanti, verso il centro della sala.
Rimase in ascolto di quella melodia seguendo il ritmo con il piede. Alzò le braccia, unendole in aria, portò il peso del corpo sulle punte dei piedi e fece un respiro profondo. Riportò le braccia a mezz’aria e iniziò a piroettare su sé stessa, ballando davanti agli sguardi incuriositi dei presenti.

Tranquillo Namuk, pensò Nina, è tutto sotto controllo.

Avrebbe deliziato gli invitati con una magistrale dimostrazione di Walzer Viennese, la stessa danza che il nonno aveva insegnato ai suoi genitori il giorno del matrimonio.
Era un peccato non avere un compagno di ballo in quell’occasione, ma a Nina non importava granché. Chiuse gli occhi, volteggiando con movimenti sempre più sicuri e frenetici, i passi corti e veloci. Il brusio degli invitati era talmente animato che quasi copriva le note, ma poi, all’improvviso, tutto tacque.

La giovane avvertì un braccio cingerle i fianchi e delle dita intrecciarsi saldamente alla sua mano. Sentì il calore di un corpo aderire al suo volteggiando in sincronia con lei.
Aprì gli occhi di scatto e alzò lo sguardo. La prima cosa che vide fu la propria espressione meravigliata, riflessa sulla superfice lucida di una maschera a forma di becco.
Quell’unione durò una manciata di secondi, poi l’imponente figura sciolse bruscamente la danza, separandosi dalla ragazza.
Nina rimase imbambolata nel mezzo della sala, fissando a bocca aperta l’individuo che aveva appena ballato con lei.
«Haeist…» emise con un filo di voce, guardandolo estrarre con calma una pistola dal fodero e sparare in aria.

BOOM!

Vide il susseguirsi degli eventi al rallentatore.
Gli invitati colti dal panico si dispersero velocemente per la sala scontrandosi tra loro come una mandria impazzita mentre lei, incapace di muovere un solo muscolo, rimase immobile, venendo spintonata con violenza.
Alle spalle di Haeist comparvero i suoi mercenari, schierati obbedientemente in attesa di ordini. Poi lui fece un cenno con la mano, dando inizio ai giochi.
La giovane umana si ridestò solo quando Namuk la travolse afferrandola per il vestito e trascinandola al riparo.

«Vuoi farti uccidere?!» urlò scrollandola con forza per le spalle, «Ricomponiti, dobbiamo seguire un piano!»
Nina si tirò degli schiaffetti sulle guance lentigginose per riprendersi dallo shock. Si disfò dell'abito, rimanendo con addosso dei pantaloncini  corti e una canottiera.

Iniziò un violento scontro a fuoco tra mercenari e cacciataglie. Nel frattempo la squadra di Nina, quella supporto, riunì un primo gruppo di civili e li scortò fuori dall’edificio caricandoli su una scialuppa di salvataggio.

Tornarono all’interno per recuperarne altri e per ottimizzare i tempi decisero di dividersi, imboccando strade diverse.
Mentre camminava a passo svelto tra le viscere dell’edificio vide che i mercenari avevano ormai deturpato l’intera area, saccheggiando e travolgendo con furia distruttrice ogni cosa.

Si precipitò su per una stretta rampa di scale, dirigendosi verso l’ultimo piano dell’edificio: l’osservatorio.
Diede una rapida occhiata nei dintorni ma non trovò anima viva.
Come da procedura nel momento dell'atterraggio avevano provveduto a inviare le coordinate della loro posizione in modo da essere rapidamente raggiunti dalla Guardia Galattica. Non doveva mancare molto al loro arrivo, ma fino ad allora avevano il compito di fare evacuare tutte quelle persone.Udì un rumore di passi veloci risalire i gradini e con sgomento comprese di trovarsi in trappola. Si guardò intorno presa dal panico e si affrettò a nascondersi dietro un imponente telescopio thuranense.Pochi secondi dopo, un colosso dalla pelle squamata fece capolino dalle scale avvicinandosi alla balaustra. Alzò il muso e si lasciò sfuggire un grugnito.

«Presto, sta scappando!» ruggì, indicando un punto in lontananza. Nina si sporse appena e vide una piccola navicella di salvataggio liberarsi in aria sfrecciando verso la sommità della cupola.
Sopraggiunse un secondo soldato, armato di fucile, e mirò all'obiettivo in corsa.

«Fai attenzione» intervenne il primo strattonando la canna a terra. «Il Comandante lo vuole vivo.»

«E allora che suggerisci di fare? Il Dottore ci sta sfuggendo sotto al muso!» ringhiò l'altro facendo vibrare le grosse zanne ritorte all'insù, ma il compagno lo guardò imperturbato e sciolse la presa sull'arma.

«Ti sto solo consigliando di non sparare se non sei sicuro di ciò che fai, se la nave esplode e il passeggero muore la missione è fallita.»

«Ci risiamo. Fosse per te non dovremmo mai agire per paura dei rischi, e allora sai che ti dico? Potevi rimanertene sul tuo pianeta a intagliare le pietre!»

«Per tua informazione non sono pietre, ma minerali curativi.»

Nina assistette sbalordita alla scena, mentre la navetta si allontanava a gran velocità. Poi, come un'ombra, sopraggiunse alle loro spalle la figura del loro comandante, che li fece ammutolire di colpo.

«Avete finito?»

«Sissignore» mormorarono all'unisono.

«Grazie. Ora levatevi di torno»

Si sbrigarono a fargli spazio e lui senza perdere ulteriore tempo balzò in piedi sulla balaustra, si fece passare il fucile e con movimenti calmi e studiati prese la mira seguendo l’obiettivo in corsa.
La giovane scosse la testa.
È impossibile centrare un bersaglio da questa distanza, pensò scettica, sporgendosi dal nascondiglio per osservare meglio la scena.
Quando premette il grilletto, il proiettile sfrecciò fendendo l’aria in due e perforò l’elica destra facendola scoppiare in un boato sordo. Nina trattenne il respiro e seguì con lo sguardo il velivolo mentre si piegava su un lato, piroettava su sé stesso e lentamente cominciava a perdere quota fino a sprofondare nella sabbia.
Haeist si voltò e con un gesto secco gettò il fucile tra le braccia del proprietario.

«Prendetelo.»

I due soldati lo guardarono ammaliati per qualche secondo, poi si ricomposero e si fiondarono giù per le scale a perdifiato.
Lui invece rimase a scrutare il cielo ancora per qualche attimo.
Facendo attenzione a non fare rumore, Nina si sganciò dalla cinta la pistola e la puntò contro il criminale prendendo la mira.
Non fece in tempo a premere il grilletto perché lui la anticipò e con uno scatto sparò all’impugnatura dell’arma, facendogliela schizzare dalle mani come una saponetta.

«EEKK!» squittì lei, colta alla sprovvista, riparandosi nuovamente dietro il telescopio. Si massaggiò le dita doloranti, sollevata di averle ancora tutte attaccate.

«Sei una cacciatrice di taglie quindi» lo sentì parlare dalla parte opposta della stanza. «Mi chiedevo per quanto tempo ancora saresti rimasta nascosta.»

Nina rimase senza fiato.

Si era già accorto di me?

Fece vagare lo sguardo nella penombra, cercando di individuare la pistola e, quando la vide, si lanciò in avanti per recuperarla.
Haeist sparò ancora e questa volta l’arma esplose in mille pezzi, lasciando Nina nel mezzo della stanza, pietrificata.
«Maledizione.» imprecò a bassa voce.
Si studiarono in silenzio, illuminati solo dal bagliore delle stelle.
La figura incappucciata si avvicinò lentamente.
Era bardato da testa a piedi e un lungo mantello nero lo avvolgeva donandogli un’aura sinistra.
Si trattava di una sfida persa in partenza e Nina ne era perfettamente consapevole. Il suo obiettivo, però, non era acciuffarlo ma trattenerlo lì il più possibile.
I rinforzi sarebbero giunti in loro soccorso da un momento all’altro.

«Sei davvero sicura di volerti immischiare in questa faccenda?»

Nina prese coraggio e si alzò, rivolgendogli il sorriso più sfacciato che poté. «Certamente. Hai rovinato il mio Walzer e ora ho intenzione di vendicarmi» rispose, mettendosi in guardia.

«Capisco» rispose lui in tono divertito. «Ma prima toglimi una curiosità: cosa ci fa una giovane umana in una squadra di cacciatori?»

«Oh, oggi ero libera e non avevo di meglio da fare.»

Haeist rise piano sotto la maschera, poi ripose la pistola nel fodero e le fece un cenno con la mano.

«Bene, fatti avanti allora.»

La giovane Cacciataglie accolse di buon grado l'invito e si fiondò sul criminale provando a colpirlo. E riprovò. E riprovò ancora, ma puntualmente i suoi attacchi venivano respinti con estrema facilità.

«Sei un completo disastro» la prese in giro osservandola rantolare sul pavimento esausta e dolorante, «Dovresti assicurarti di essere all'altezza del nemico prima di uno scontro.»

«Ma stai un po' zitto...» boccheggiò tenendosi con entrambe le mani lo stomaco.

Lui si limitò a passeggiarle intorno, con le mani intrecciate dietro la schiena, in silenzio. La osservò con attenzione mentre si rimetteva in piedi pericolante, sostenendosi al muro, perché non riusciva a rimanere in equilibrio.
Haeist sospirò.

«È divertente vederti fallire, ma ora devo proprio andare» le puntò contro la pistola, «Forza, fatti da parte.»

Nina non mosse un muscolo e si limitò ad osservarlo trattenendo il respiro. Passarono i secondi ma il dito guantato di Haeist rimase posato sul grilletto senza muoversi di un millimetro.

«Perché non mi spari?» sussurrò seria, aggrottando le sopracciglia.

Lui non rispose.
Esitò qualche attimo, dopodiché abbassò l'arma con un gesto seccato.


«Sei una piccola incosciente, perché vuoi rendere tutto più difficile?»

La ragazza aprì la bocca per ribattere ma non fece in tempo a finire la frase, perché l'avversario sparò in un punto preciso del soffitto facendola sobbalzare dalla sorpresa. Poi, in una manciata di secondi venne travolta da qualcosa di molto pesante che la schiacciò a terra con violenza.

Haeist rimase a guardarla mentre perdeva i sensi.

«Addio.»

Le voltò le spalle e si allontanò, dirigendosi verso la nave.
Passarono svariati minuti, poi l'esile figura si contorse debolmente e con estrema fatica riuscì a liberarsi dai detriti. Rimase qualche attimo in ginocchio nel mezzo dell'osservatorio, ferita e confusa. Si asciugò il naso che continuava a sanguinare e si strofinò gli occhi, pieni di polvere.

Poi gattonò verso le scale.
 

•••∆•••

 

L'Estus si trovava ancora nel porto, con i motori accesi e gli scudi alzati. L'intero equipaggio si trovava già a bordo e con l'arrivo del comandante la nave poteva finalmente partire.
«Chiudete l'ingresso.» ordinò, mentre il corpo privo di sensi del prigioniero veniva trascinato nella cella assieme al suo androide da compagnia, una bambina dai lunghissimi capelli verdi che lo seguiva a testa bassa.

«Comandante, laggiù...» la guardia indicò perplessa dietro le sue spalle.

Haeist si voltò e vide Nina barcollare pericolante sul pontile nella loro direzione.

«Ah»

La guardia fissò la ragazza che ridotta ormai a uno straccio si prodigava per raggiungere l'Estus.
«Che umana ostinata...» mormorò colpito il soldato, appoggiandosi con la schiena alla leva di ferro, «Sbaglio o è la stessa con la quale vi siete intrattenuto a...» rifletté qualche secondo confuso, «Beh, non so esattamente cosa stavate facendo.»

Si girò verso di lui incuriosito, in cerca di una risposta, ma solo allora notò il glaciale ed eloquente silenzio che il comandante gli stava rivolgendo.
S'irrigidì distogliendo in fretta lo sguardo.

«Avete sentito il comandante? Si parte!» urlò allontanandosi velocemente.

Nina vedendo il ponte della nave sollevarsi iniziò a correre, rischiando di inciampare ad ogni passo.
«Fermati!» gridò facendo riecheggiare la sua voce per tutto il porticciolo.

«Sei un umano?!»

Haeist fissò Nina senza rispondere.

«SEI UMANO?!»

La nave partì, sbalzando la giovane a terra.
Fu raggiunta poco dopo dai compagni che la soccorsero tempestandola di domande, ma la stanchezza e lo stordimento ebbero la meglio. Le palpebre si fecero sempre più pesanti e le voci divennero lontane, fino a scomparire.

 

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Capitolo 3
*** DI INGRANAGGI E MEDICINA ***


Capitolo due: Di ingranaggi e medicina

 
 
Talelah Lakroa

Il Capitano di Talelah Lakroa, Releim, entrò nell'infermeria senza premurarsi di salutare. Si limitò a lanciare un'occhiata gelida a Nina, seduta sul bordo del letto.
«Hai un aspetto terribile.»
Lei chinò la testa a disagio, cercando di nascondere le ferite.
Rimasero a lungo in silenzio. Poi Releim parlò di nuovo:
«...A dire la verità mi aspettavo ferite più profonde, sembri uscita da una semplice scaramuccia con un tuo simile.»
«Lo so.» mormorò Nina stringendo la coperta tra le dita, «Sono stata fortunata.»
Gli occhi del Capitano vagarono sui graffi e sui lividi che attraversavano il viso della giovane fino a scomparire sotto le bende che fasciavano il collo.
«A quanto pare un civile è stato catturato mentre tentava la fuga.»
«Il Dottore...» pensò ad alta voce Nina, ricordando la scialuppa di salvataggio mentre cadeva dal cielo come un meteorite.
«Kayes è un medico nativo del pianeta Kerlin, ma soprattutto è un sacerdote del culto dei Grandi Spiriti.» spiegò « ormai si è diffusa la notizia del rapimento anche tra i suoi adepti e si è generato il caos.»
Mosse qualche passo verso l'oblò della stanza, ammirando il tessuto di stelle, poi riprese a parlare.
«Sorvolerò su quanto sia stato stupido da parte tua affrontare Haeist da sola, ma non posso ignorare il fatto che tu abbia volontariamente disobbedito al mio ordine e abbandonato la squadra di supporto nel momento più critico della missione.»
Nina si morse il labbro assalita dalla vergogna. Aveva ragione. Si era comportata da vera sciocca lasciando i propri compagni in balia dei criminali, e per cosa poi? Non era nemmeno riuscita a trattenere Haeist.
Il Capitano osservò freddamente l'espressione irrequieta di Nina, consumata dai sensi di colpa, quindi aggiunse:
«Non fraintendermi, penso che non avrebbe fatto alcuna differenza avere il tuo sostegno in missione.» 
 
•••
 
Estus
 
 
Il Dottore rimase per svariate ore accovacciato a terra contro la fredda parete della cella. Teneva stretta tra le braccia la bambina androide cullandola dolcemente e mormorandole all'orecchio un'antica ninna nanna.
Come ubbidendo ad un comando i lunghi capelli verdi della piccola iniziarono improvvisamente a rilucere nella stanza angusta illuminandola quel tanto che bastava per permettere al suo padrone di vedere.
«Jah jah, Edneth...» la ringraziò, venendo ricambiato da un debole sorriso «Non temere, siamo nelle grazie degli Dei, ci salveremo.»
Proprio in quel momento un inquietante tintinnio proveniente dal corridoio attirò la loro attenzione e le luci si accesero di colpo abbagliando il Dottore.
Sulla soglia della stanza comparve lo stesso androide dagli occhi violacei che li aveva scortati in cella poche ore prima. 
Haeist lo chiamava Morlin e sembrava rivolgersi a lui in modo particolarmente gentile rispetto al resto dell'equipaggio, cosa che a Kayes fece supporre una sorta di affezione nei suoi confronti. 
Il pensiero lo confortò, mentre stringeva al petto Edneth. Quel criminale avrebbe anche potuto ucciderlo, ma forse avrebbe risparmiato lei. 
«Seguitemi, il Comandante vi sta aspettando.»
 
•••
 
Heist torreggiava su di loro imperioso, a braccia conserte.
«Benvenuto a bordo dell'Estus, Dottore. Se non le dispiace vorrei scambiare due parole con lei e la sua creatura.»
Il prigioniero contrasse i muscoli della faccia irsuta mostrando i canini appuntiti: 
«Ci avete sparato, trascinati qua contro il nostro volere e messo in gabbia come delle bestie. Non ho nulla da dirti, maledetto.» 
Le catene limitavano i suoi movimenti costringendolo a rimanere inginocchiato a terra impotente, ma la ferocia del suo sguardo stava trapassando come una lama la testa di Haeist, a pochi passi da lui.
«Non siamo abituati ad avere prigionieri vivi.» rispose con semplicità, osservandolo dall'alto.
«A proposito» aggiunse con calma, «Mi lanci ancora una di quelle occhiate e le garantisco che caverò entrambi gli occhi da quella sua cazzo di testa.»
Dopo un breve attimo di esitazione Kayes seguì l'avvertimento e chinò il capo, stritolando compulsivamente la stoffa dei vestiti tra le mani.
Il mercenario se ne compiacque, accomodandosi sul bordo del tavolo.
«Bene.» 
«Cosa volete da noi?»
«Oh, sono felice che me l'abbia chiesto. Ci arriveremo subito, ma prima lasciatevi raccontare un breve aneddoto.»
Si frugò nella tasca ed estrasse una piccola ampolla che sventolò sotto al naso di Kayes. Dentro vi erano tanti minuscoli frammenti simili ad ossa di animale.
I suoi occhi furono attraversati da un bagliore di cupo presentimento.
«Sa, ho passato gran parte della mia esistenza su Aratia. La conosce Dottore? Il mercato nero di Jazaroth è famoso in gran parte della galassia; laggiù si trova l'introvabile e si vende l'invendibile. Si presume che un viandante possa acquistare qualsiasi cosa egli desideri.»
«Si...mi è giunta voce.» mormorò guardandolo con diffidenza.
 
«In effetti è in parte vero, ma conservo un ricordo che mi ha aiutato a comprendere cosa in particolare non può essere trovato. Un giorno giunse a Jazaroth un contadino che stufo degli ingenti danni causati dai gilak, un tipo di bestia selvaggia che tende ad invadere le lande del pianeta, scelse di rivolgersi ai mercanti per risolvere definitivamente il problema. Gli vendettero uno speciale repellente in grado di allontanare qualsiasi tipo di animale; sarebbe bastato ungere il perimetro della sua abitazione e pazientare qualche giorno per goderne i risultati.»
 
Si interruppe qualche secondo studiando la faccia sospettosa e al tempo stesso incuriosita del prigioniero.
 
«Inutile dire che fu un ottimo affare, il contadino seguì alla lettera le indicazioni dategli e nessuna bestia varcò più i confini delle sue terre. Poco tempo dopo però il contadino si ripresentò chiedendo aiuto per un altro problema e la scena si ripeté ancora e ancora poiché il mercato nero si era rivelato la panacea per ogni difficoltà che inaspriva la sua dura vita di agricoltore. Un giorno però giunse avanzando una richiesta insolita: "Desidero diventare forte, così che nessuno osi più picchiarmi e derubarmi del raccolto". Quella purtroppo era una richiesta impossibile da soddisfare per un normale mercante, per cui lo indirizzarono agli unici individui in grado di servirlo...»
«Titari.» Lo interruppe il vecchio con un ringhio gutturale.
«Gli schifosi, immondi, Titari
 
Gli occhi della bambina si accesero di una scintilla di curiosità e non comprendendo il significato di quella parola si voltò verso il padre in cerca di spiegazione. Lui lo notò e si rivolse per un attimo a lei addolcendo lo sguardo: 
«Profanatori di luoghi sacri. Vendono le sante reliquie ad un prezzo salatissimo, chi si rivolge a loro è generalmente un collezionista...»
«Risposta esatta!» si complimentò Haeist, «Reliquie dal potere oscuro un tempo facenti parti di mostruose e gigantesche creature erranti per le galassie: i Titani. Il contadino se ne era fatto un'ossessione ed era pronto a pagare qualunque prezzo, poiché quello era l'unico modo per emanciparsi in una società dove vige la legge del più forte.»
Gettò la piccola ampolla a terra che infrangendosi sparpagliò il contenuto ai loro piedi.
«Purtroppo nonostante le promesse dei Titari tutto ciò che riusciva ad ottenere era un semplice fantoccio o al massimo resti la cui magia era ormai completamente estinta, e di fatto, inutili. Nessuno sa dove vengano custodite le reliquie ancora attive. Nessuno, eccetto i sacerdoti come lei.»
 
Edneth ascoltava la storia rapita, seduta a gambe incrociate accanto a Kayes.
Al contrario del padre non sembrava affatto preoccupata della situazione in cui si trovavano. Ciondolava la testa canticchiando e di tanto in tanto lanciava delle occhiate incuriosite verso Morlin che però la ignorava nel modo più assoluto.
Se non fosse stato per i capelli luminescenti e gli occhi retroilluminati sarebbe stato estremamente facile confonderla per una bambina umana.
Haeist spostò lo sguardo su di lei.
«Ti è piaciuta la mia storia?»
Edneth gli sorrise, ma non disse nulla.
«Lei non parla.» Intervenne bruscamente il Dottore, nel tentativo di dissuaderlo a rivolgersi a lei. 
«E in quanto a me non ti aiuterò a trovare ciò che cerchi.»
Il comandante rise. 
Morlin si mosse verso il prigioniero, ma il suo padrone lo bloccò subito con un cenno della mano «No, ci penso io.»
Si alzò e con calma estrasse un pugnale acuminato.
«D'accordo, sarò più convincente.»
Con uno scatto afferrò la piccola androide per i capelli facendola pigolare per la sorpresa, davanti allo sguardo inorridito del padre.
«EDNETH, NO!» Gracchiò, cercando di soccorrerla, ma le catene lo costringevano a terra impotente.
«Lei non sa nulla, non è programmata come gli altri androidi!»
Haeist fece scivolare la punta del pugnale contro la gola della bambina, con una lentezza straziante, poi si fermò.
«L'intelligenza artificiale è affascinante.» Sussurrò studiando le reazioni di Kayes,
«Non possono morire, poiché non sono mai stati effettivamente vivi. Ma ciò che li rende unici e irripetibili è il complesso di esperienze e ricordi registrati e racchiusi in un piccolo chip dentro i loro corpi. È la loro memoria.»
Aumentò la stretta e la costrinse a inclinare il capo scoprendo maggiormente il collo.
«Anche la nostra amica Edneth ne ha una, proprio qui.» Indicò picchiettando la punta del pugnale contro la carne, «E se decidessi di estrarla e distruggerla la sua coscienza, se così vogliamo chiamarla, andrebbe compromessa per sempre.»
Respiri sofferti riempivano la stanza mentre l'androide, sospesa a mezz'aria, scalciava energicamente per divincolarsi dalla presa, ma con scarsi risultati.
Kayes tremava dalla rabbia, ma non poté fare altro che sbattere i pugni contro il pavimento in uno sbotto di ira.
 
«Tu...non hai idea di cosa stai facendo...» Sibilò in un moto di profonda disperazione, «Tutti voi, alla ricerca di frammenti di Titano, non capite...»
Alzò lo sguardo bruciante verso i suoi aguzzini: «Gli Dèi non ci hanno creati per fare uso delle arti oscure.»
Haeist fece un verso annoiato.
«Ma sentiti, parli a nome di divinità che nemmeno esistono. In realtà sei tu a non sapere nulla, dico bene?»
«La religione non c'entra, ne va della sopravvivenza della galassia. Anche nel malaugurato caso in cui riuscissi a sopravvivere finiresti per perdere il senno diventando a tua volta un mostro. Comuni esseri mortali come me e te non possono gestire un potere del genere!» 
«Forse puoi manipolare i tuoi fedeli, ma non me.» la voce del criminale si inspessì facendosi più aggressiva, «Ora, ti suggerisco di non mettere alla prova la mia pazienza e dirmi dove nascondete le reliquie!» 
«FERMO!»
 
Ci fu un lungo silenzio e negli occhi del sacerdote si susseguirono diverse emozioni contrastanti, poi emise un sospiro sofferto.
«Ti prego...parlerò, ma lascia andare mia figlia.»
Lo sguardo vitreo andò a posarsi sul pavimento. Rimase immobile, con le mani inermi abbandonate mollemente sulle ginocchia.
Haeist mollò la presa su Edneth che si affrettò a sgambettare tra le braccia del padre. Lì osservò mentre si consolavano in silenzio, appoggiati l'uno contro l'altra.
 
«Se mi darai ciò che cerco, libererò entrambi.» 
 

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Capitolo 4
*** ¡VIVA DYSTOPIA! ***


Capitolo tre: ¡VIVA DYSTÒPIA!

 


Dystòpia era un mero surrogato della Terra.
Un luogo dove l'umanità aveva messo radici nel disperato tentativo di ritrovare un senso di normalità.

Un piccolo satellite, con ogni presupposto per accogliere forme di vita: abbastanza distante dalla propria stella per garantire la presenza di acqua allo stato liquido e un'orbita stabile attorno al pianeta Xirria. La superfice, cotta dalla luce stellare, era per lo più arida e terrosa, affollata da città che rievocavano il vecchio Mondo.

Per quanto potesse sembrare arcaico, nell'era Dystopiàna, la religione rappresentava una colonna portante per gli abitanti che ciclicamente si riunivano in pellegrinaggio presso il Sacrario dei Devoti, una terra santa circondata da santuari e templi maestosi.

Più a sud si erigeva La Trenza, un dedalo di edifici tinteggiati da colori sgargianti, con elaborate e fantasiose decorazioni in rilievo su muri e porte.

Esisteva una vera e propria competizione tra gli abitanti della città i quali eleggevano come vincitore chi possedeva la dimora più stravagante.
Erano soprattutto i bambini che armati di pennello e fiera determinazione contribuivano ad abbellire le proprie case, aggirandosi per i quartieri con le vesti inzaccherate di vernice.

Verso ovest, a cavallo della Valle Monjak, era situato il più grande archivio di Dystòpia, il quale conservava le testimonianze materiali della civiltà umana e della Terra: raccoglieva seicento milioni di volumi cartacei consultabili più materiale audio e video. Erano presenti musei archeologici e di scienze naturali, mostre d'arte e giardini botanici protetti all'interno di gigantesche serre.

Si trattava di un complesso di strutture dall'aspetto massiccio, popolate da orde ricercatori ed eruditi, talvolta da comitive in gita scolastica.

E così via.

Dystòpia era questo: un crogiolo di culture, di persone, di divinità.

Gli umani nativi della Terra si potevano ormai contare sulla punta delle dita, gravati dal peso degli anni e dediti a passare gli ultimi giorni della propria esistenza in un mondo straniero. Erano considerati il punto di riferimento degli uomini e avevano il compito di rappresentarli ufficialmente al cospetto di Shunna Ra'a.

La maggior parte dei giovani non avendo mai conosciuto le condizioni umane antecedenti all'esodo, presentavano una naturale rassegnazione e disinteresse per la perdita subita; in fondo, non era possibile sentire la mancanza per qualcosa che non si aveva mai visto, toccato, assaporato.

Agli occhi delle altre civiltà aliene, Dystòpia, appariva senz'altro un luogo bizzarro e curioso, ma ciò che più suscitava sbigottimento e meraviglia era il suo evento principale: il Carnevale.

Ogni anno si presentavano visitatori da qualsiasi angolo della galassia, impazienti di ammirare le parate in maschera, le danze frenetiche e gli spettacoli pirotecnici.
In quell'occasione anche gli umani occupati ai vari angoli della galassia si impegnavano a tornare in patria per ricongiungersi ai propri cari e omaggiare le origini.

Nina era tra questi.

Quando si avvicinava quel periodo dell'anno diventava ogni giorno più irrequieta. Passava intere ore a tessere vestiti, truccarsi e sfilare nella sua stanza.
Spesso si ritrovava a canticchiare sovrappensiero per i corridoi della nave inciampando di tanto in tanto davanti allo sguardo scocciato del suo capitano.
Releim sapeva benissimo che il Carnevale degli umani era alle porte, ma come ogni anno aspettava fosse Nina a fare richiesta formale di un congedo, pregando di concederglielo.
Infine, seppur con fastidio, accordava un breve periodo di ritiro con la promessa di farle recuperare ogni ora di lavoro persa.

Questo a Nina bastava. Non aveva intenzione di avanzare altre richieste oltre a quelle già pattuite, avrebbe rischiato di indispettire ulteriormente il suo capo e non era ciò che desiderava; al contrario, la giovane umana si prodigava continuamente per ottenere la sua approvazione e per dimostrare il proprio valore.

Nina fece un respiro profondo. Era giunto il momento.
Si era preventivamente preparata un discorso che ripeteva da giorni e finalmente aveva trovato il coraggio di chiedere un colloquio con Releim.
Bussò timidamente alla porta per palesare la sua presenza e una voce all'interno della stanza ricevimenti le rispose in tono annoiato:
«Quante volte devo dirti che quel gesto non ha alcun senso per noi? Entra e basta.»
Nina si morse la lingua, entrando titubante nella sfarzosa sala adornata di specchi e luci brillanti.
«È l'abitudine, chiedo scusa.» ridacchiò nervosa, poi si mise sull'attenti aspettando che il capitano le facesse cenno di iniziare a parlare.
Vide il proprio riflesso sulla superfice lucida del pavimento e l'attenzione le cadde sulle ferite non ancora rimarginate alle guance. Cercò di coprire goffamente i graffi con le corte ciocche ramate, ma con scarsi risultati.

«Immagino tu sia qui per chiedermi un periodo di congedo» disse atono rompendo il silenzio, «Congedo per aggregarti ai tuoi simili.» precisò anticipandola.

Il viso le si illuminò dalla sorpresa.

«Sissignore, sono onorata ve ne siate ricordato. Come ben saprà il Carnevale Dystopiàno è una delle ricorrenze più importanti per noi umani e come tutti gli anni è una buona occasione per ricongiungerci alla famiglia...»

Esitò qualche attimo insicura di quello che stava per chiedere:

«Ovviamente il Capitano è invitato a partecipare se ne avesse il piacere. Sarebbe un grande onore presentarvi alla mia gente, e sicuramente mio nonno-»

«Non ho alcun interesse a partecipare alle vostre usanze primitive, per cui risparmiami i tuoi racconti dettagliati sulle tue origini»

Il bagliore negli occhi della ragazza si affievolì e avvertì uno strano formicolio al cuore.

«Ora vai. Non ho bisogno di sapere altro.»

Quattro paia di occhi affilati osservarono le labbra tremanti di Nina mentre mormoravano qualche parola di ringraziamento e si stringevano in una piega dura.

Chinò il capo e uscì da quella stanza.

***

DYSTÒPIAKronen

Tra tutte le città del globo, Kronen, era certamente il luogo migliore dove passare il Carnevale: gli scatenati numeri di danza e le scenografie delle sfilate non avevano eguali e si protraevano per un lunghissimo periodo, giorno e notte.

Le strade brulicavano di persone e a stento si riusciva ad avanzare tra le bancarelle.

L'aria era perennemente torrida e Nina, particolarmente sensibile al calore, sventolava energicamente un grosso ventaglio camminando mollemente sotto i fuochi d'artificio.
I vestiti erano divenuti come una seconda pelle, completamente appiccicati al corpo e le gocce di sudore colavano copiose sugli occhi facendoli bruciare.
Infine, stufa di sentirsi pestare i piedi, decise di rifugiarsi in un locale per attendere l'arrivo dei suoi amici.

Appena varcò la soglia del pub avvertì l'aria refrigerata sfiorarle la schiena e un sospiro di sollievo le sfuggì dalle labbra.

Ma sì, all'inferno la parata.

Raggiunse il banco e dopo avere inviato rapidamente un messaggio, ordinò da bere.
Con sgomento comprese che il suo viso ammaccato doveva suscitare parecchia curiosità tra i presenti, e lo capì grazie ad una serie di occhiate insistenti e commenti divertiti che ricevette mentre aspettava il suo drink.
Innervosita da tutta quella attenzione frugò in mezzo ad una pila di riviste e scegliendone una a caso iniziò a leggerla, nascondendo il naso graffiato tra le pagine, rossa dalla vergogna.

•••


«In nome di Odino, sei caduta dalle scale?»

Una voce profonda attirò l'attenzione di Nina, che ormai stufa di sentirsi ripetere la stessa frase nell'arco di un'ora ignorò completamente l'uomo seduto accanto a lei.

«Hai fatto a botte con qualcuno? Te ne ha date di santa ragione.» insistette lui con una nota divertita, bevendo un sorso di birra.

Nina digrignò i denti guardando di sottecchi lo sconosciuto chiacchierone che non sembrava intenzionato a lasciarla contemplare il vuoto in pace.
«Potresti smetterla di infierire? Sono già occupata ad autocommiserarmi.»

L'uomo rise di gusto.
Passò qualche attimo, poi Nina fece un profondo sospiro di rassegnazione: «È successo durante una missione, dovevo catturare...un tipo.»
«Un tipo?» la incalzò curioso.
«...un uomo.»
«Un uomo?»
Lei esitò un attimo pensierosa, fissando le bollicine sul fondo del bicchiere.
«Sì...credo di sì.»
L'estraneo tamburellò con le dita sul tavolo dopodiché si girò completamente verso di lei ruotando sullo sgabello: «Ed eri sola?»
Nina si strinse nelle spalle a disagio, voltando il viso dalla parte opposta.
«No, ovvio che no, anche la mia squadra si trovava lì. Diciamo che ho agito impulsivamente provando a sbrigarmela da sola.»
Fece una breve pausa, «Mi capita spesso di commettere errori simili e questa volta, devo dirlo, poteva andare decisamente peggio.»

E ho fatto la figura dell'incapace agli occhi di Releim, ancora una volta.
Poteva chiaramente ricordare lo sguardo di disapprovazione sul suo volto mentre faceva rapporto della missione. Sospirò di nuovo, abbattuta, avvertendo una fitta dolorosa al costato.

«Capisco. Ad ogni modo quel tipo non è stato proprio un gentiluomo.» considerò con semplicità, scatenando l'irritazione della rossa che si voltò di scatto verso di lui come un cane rabbioso: «Ma che dici, guarda che in realtà lui avrebbe dovuto uccider-» la voce le si asciugò in gola quando guardò lo straniero in faccia, per la prima volta.

Si trattava di un ragazzo, probabilmente poco più grande di lei, che la stava osservando con uno strano sorriso sul volto.
I capelli corvini erano raccolti in un alto chignon dal quale alcune ciocche ribelli sfuggivano ricadendo sul viso chiaro, incorniciato da una fitta barba scura.
Un paio di sottili occhi grigi studiavano il viso meravigliato di lei, che dopo qualche secondo di smarrimento distolse lo sguardo.

«Co-cos'hai da fissare in quel modo?» balbettò imbarazzata impegnandosi a spazzare dal tavolo briciole inesistenti.
«...ad ogni modo sono fortunata ad essere ancora viva.»

Non ne comprendeva il motivo ma quella situazione la stava agitando più del dovuto, e lo capì dal martellare violento del proprio cuore.
Improvvisamente sentì la testa girarle violentemente, probabilmente per via dell'alcool o per la puzza di sigaretta che aleggiava nell'aria.
Tra quella moltitudine di odori pungenti però ve n'era uno che aveva attirato la curiosità di Nina, e proveniva dal boccale di quell'uomo: era dolciastro e profumava di spezie, simile alla bevanda che aveva ordinato poco prima lei.

«Che cosa dovrebbe essere quella brodaglia? Sembra buona...» chiese sbirciando nel bicchiere.

«Si chiama medovukha, prendi, assaggiala.»
Con un movimento secco fece slittare la bevanda sul bancone passandogliela; Nina la afferrò goffamente colta alla sprovvista. Prima la annusò, riconoscendo il profumo dei chiodi di garofano e la cannella, dopodiché prese un piccolo sorso di quella bevanda ambrata: era dolce e leggera.

Le labbra le si arricciarono in un sorriso.
«Woah, ma è dolcissima!» esclamò restituendo il boccale, «Cosa c'è dentro?»
«È a base di miele.» rispose, divertito dall'entusiasmo di Nina «Sospettavo ti piacesse, è idromele, simile a ciò che hai ordinato tu prima.»

Lei si ammutolì di colpo; da quanto tempo se ne stava lì ad osservarla?
Forse da parecchio, ma essendosi concentrata così intensamente sull'articolo di giornale si era completamente estraniata dalla realtà.

Rimase in silenzio qualche attimo, vergognosa, studiandolo di sottecchi.
Al contrario lui sembrava essere assolutamente a proprio agio: se ne stava appoggiato con un gomito sul banco sorreggendo la testa con la mano, rilassato.

Nina fece vagare lo sguardo sui suoi lineamenti, studiando gli zigomi alti, il naso dritto, gli angoli della bocca leggermente sollevati in un sorriso.

Decise che era bello.

Un pensiero emerse, indugiando nella sua coscienza per qualche secondo e poi svanì.

Continuò a dialogare con quel ragazzo, soffermandosi spesso sul suo tono di voce e sulle gestualità: ancora una volta quel pensiero fece capolino più insistentemente, come un'interferenza.

«Sai io...credo di averti già incontrato da qualche parte...» mormorò sovrappensiero Nina, accarezzandosi il mento graffiato.

Uno strano bagliore attraversò gli occhi cinerei dello sconosciuto.
«Tu dici?» soffiò piano.

«NINAAA!»

Delle voci schiamazzanti fecero trasalire la rossa.
Erano i suoi amici, che dalla parte opposta del locale si sbracciavano facendole segno di raggiungerli.
«Sono arrivati i miei amici.» disse, salutandoli con la mano, «Devo andare.»
Si sbrigò a pagare il conto e sollevò la borsa da terra, poi si voltò timidamente verso il ragazzo.
«Buon Carnevale!» salutò facendo un cenno impacciato con la mano.
«Addio Nina.» rispose piano lui, ponendo enfasi sul suo nome.
Lei rimase imbambolata, in silenzio, fissando ancora per qualche attimo quel sorriso beffardo.

Poi, improvvisamente, fu colta da una scossa di consapevolezza e si rese conto di avere già sentito quella voce, in un'altra occasione.

Trattenne il respiro, si voltò bruscamente e sparì tra la folla.

 

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Capitolo 5
*** ¡VIVA DYSTOPIA! - seconda parte ***


Capitolo quattro: ¡VIVA DYSTÒPIA! - seconda parte

 



Addio Nina. Addio Nina.

In un silenzio funebre la ragazza camminava in mezzo alla comitiva di amici, guardandosi in giro con fare bizzarramente paranoico.

Infine Maeve, stanca, l'afferrò per un gomito facendola fermare.

«Nina, inizio a provare angoscia per te, che succede?»

Sbirciò nella stessa direzione in cui guardava l'amica, ma non vide nulla.

«Stavo solo...cercando una persona.» le bisbigliò piano all'orecchio cercando di non farsi sentire dagli altri, ma Johann si materializzò improvvisamente alle loro spalle.

«Chi era quel tipo al bar?» chiese incupito, con una nota di tensione nella voce.

Nina esitò qualche attimo, non sapendo bene cosa rispondere. Gli occhi di Johann rimasero inchiodati ai suoi, sollecitando una risposta e lei si sentì con le spalle al muro.

«Nessuno.» rispose evasiva, cercando con lo sguardo l'aiuto di Maeve, che però tardò ad arrivare.

«Sembravate parecchio affiatati.»

«Stavamo solo parlando.»

Gli occhi scuri del ragazzo la studiarono con sospetto, oscillando tra le sue gote arrossate e la piccola ruga che le si formava in mezzo alla fronte proprio quando raccontava una bugia.

«Non posso crederci!» sbottò infastidito, facendo un passo indietro.
«Non hai ancora imparato che durante il Carnevale è inutile fare incontri? Domani sarà già su un altro pianeta e non lo rivedrai mai più.» commentò aspramente, ignorando lo spintone di sua sorella Maeve.

Nina avvertì una fitta al cuore che non riuscì a spiegarsi.
Poi per qualche ragione si sentì in dovere di dare delle spiegazioni, sforzandosi di trovare le parole giuste per essere abbastanza convincente:

«Avete frainteso tutto» disse, «Quel tipo era solo un chiacchierone che mi si è avvicinato per ingannare il tempo, probabilmente stava aspettando anche lui qualcuno.»

E Nina decise di credere a quella versione, molto più plausibile.
Haeist non si trovava su Dystòpia e non si era burlato di lei in maniera così sfacciata.
Semplicemente non poteva essere successo davvero.
Le si contorse lo stomaco al solo pensiero e davanti ai suoi occhi passarono in rassegna tutte le immagini della serata.

«Pronto?», la richiamò il ragazzo sventolandole la mano davanti agli occhi, «A cosa stai pensando? Hai uno sguardo spaventoso.»

«ABBIAMO ANCHE BEVUTO DALLO STESSO BOCCALE!!!» urlò disperata, facendo voltare tutte le persone verso di lei.

Johann fece un verso disgustato mentre Maeve ridacchiò imbarazzata.

«Credevo avessi passato quella fase, sei ancora germofobica?»

Nina fece per ribattere ma rimase bloccata, a bocca aperta, fissando con occhi sbarrati un punto preciso nella folla.
Strizzò gli occhi, cercando di mettere bene a fuoco una massa di brillanti capelli verdi che spiccavano in mezzo ai colori del carnevale e istintivamente si portò le mani al volto, sopprimendo malamente un gemito di sorpresa.
Farfugliò qualche scusa senza senso e si allontanò bruscamente dalla comitiva, sfuggendo alle mani di Johann che per un soffio non la acciuffarono.

•••

Dopo essersi allontanati sufficientemente dal centro, Edneth e Kayes imbucarono un vicoletto deserto, illuminato solo dal cielo Dystòpiano.
Seduto sul ciglio del marciapiede li aspettava un uomo che, appena si accorse del loro arrivo, si alzò di scatto avvicinandosi.

Abbassò il cappuccio, rivelando una vistosa capigliatura composta da folti e poco democratici riccioli biondi. Tentò di pettinarli, ma peggiorò la situazione.
Portava al collo una macabra collana fatta di ossa e uno strano copricapo composto da piume. Nella mano destra stringeva un robusto bastone dalla punta arcuata e alcuni simboli incisi sopra.

In effetti, tutto in lui era macabro.
Fece oscillare lo sguardo dal Dottore a Edneth e da Edneth al Dottore, fissando i loro visi stravolti.

«Lode agli Dèi Kayes.»

Il Dottore ricambiò frettolosamente il saluto con un cenno della mano.

«Lode. Grazie per essere giunto fin qui Rey, so che hai dovuto interrompere una missione molto importante e attraversare una tempesta di asteroidi. Mi dispiace molto ma...questa è un'emergenza.»

Si guardò alle spalle nervosamente, assicurandosi di non essere stato seguito. Poi riprese a parlare, quasi sussurrando, tanto che l'uomo dovette avvicinarsi di qualche passo per udire le sue parole.

«Dobbiamo intervenire al più presto o le conseguenze saranno disastrose.»

Rey sollevò un sopracciglio interrogativo.

«Deve essere parecchio grave per costringerti a sbarcare su Dystòpia durante il Carnevale.»

Il Dottore esitò qualche attimo. Poi la sua voce si ruppe e gli occhi si riempirono di lacrime, davanti allo sguardo sorpreso del biondo.

«Rey, ho commesso un errore imperdonabile...imperdonabile...»
Iniziò presto a singhiozzare, stringendo spasmodicamente la spalla della figlia, che per dargli coraggio gli picchiettò sulla mano.
«Aveva preso Edneth, le avrebbe fatto del male...è la mia bambina, capisci? Non potevo permetterlo...»

Rey osservava turbato la disperazione di Kayes, avvertendo un terribile presentimento.
Lo aiutò a sedersi a terra evitando che si accartocciasse su se stesso.

«Kayes, mi senti? Chi voleva fare del male a Edneth?»

Il Dottore, scosso dagli spasmi del pianto, non riuscì a rispondere. La bambina si accucciò dunque a terra, scrivendo qualcosa sulla sabbia rossastra.

Rey lesse e sbarrò gli occhi inorridito.

«Cosa...cosa gli hai detto?»

«Sa tutto, sa tutto»

L'uomo deglutì nervosamente.

«Intendi dire-»

«SA DOVE TROVARE L'ARTE OSCURA!»

Le parole gli morirono in gola, lasciando spazio ad un silenzio soffocante.
La vergogna e il rimorso gli impedivano di guardare negli occhi Rey, che improvvisamente pallido, usò il bastone per sorreggersi.

«Non devi permettere che metta le mani sulla reliquia. Ti prego Rey, devi fermarlo.»

Dopo un momento di smarrimento l'uomo si riprese, facendosi serio.
Si fece raccontare per filo e per segno l'intera vicenda mentre passeggiava avanti e indietro con fare pensoso. Poi si fermò di colpo.

«D'accordo», disse infine, «Ci penserò io. Recupererò la reliquia e la porterò al sicuro.»

Kayes alzò lo sguardo verso la mano di Rey, tesa verso di lui, e la afferrò facendosi issare in piedi.
Anche se nell'ultimo periodo il destino li aveva fatti allontanare, manteneva una fiducia solidissima per quell'uomo; si poteva dire, in effetti, che fosse la persona per cui egli nutrisse più rispetto.
Si rese conto di temere per la sua incolumità, che aveva incoscientemente messo a repentaglio .

«Che farai se dovessi incrociarlo?» Chiese inquieto.

Rey guardò il Dottore e solo allora si accorse di quanto la disperazione avesse segnato il suo volto, improvvisamente invecchiato di vent'anni. Lo vide vulnerabile, spoglio di qualsiasi traccia di alterigia o austerità che tanto lo contraddistinguevano e ne provò compassione.

«Bella domanda», abbozzò un sorriso amaro, «Cercherò di giustiziarlo, suppongo. Non è forse questo il compito assegnatomi dagli Dèi? Punire gli empi profanatori?»

Lo prese gentilmente per un braccio e lo accompagnò fino ad un portone occultato dall'ombra. Fece scivolare la mano sulla maniglia e l'aprì, invitandoli ad entrare.

«Ora vieni, fatti offrire qualcosa. Edneth, anche te.»

Sparirono oltre la soglia lasciandosi alle spalle un silenzio tetro.

Quando il vicolo fu finalmente deserto Nina strisciò fuori dal nascondiglio.
Abbassò lo sguardo a terra e lesse la scritta sulla sabbia.

HAEIST.

 

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Capitolo 6
*** IL MALE MINORE ***


 

Capitolo cinque: Il male minore




Era possibile tramutare la sconfitta in un clamoroso trionfo?

La risposta era sì e lo strumento per cambiare le carte in tavola si trovava proprio davanti al naso di Nina.

Più tempo passava ad osservare Rey, indaffarato nei preparativi pre-partenza, più si convinceva di avere per le mani l'occasione di redimersi dalla propria inettitudine.

L'intima sofferenza che la tormentava da giorni parve appianarsi un poco e venne sostituita da un nuovo sentimento di eccitazione.

Rivelare i subdoli piani di Haeist e offrire alla propria squadra la possibilità di catturarlo le avrebbe assicurato la gloria a cui aspirava. Inoltre, doveva ammetterlo, serbava un certo rancore per l'umiliazione subita su Thurania e l'idea di vendicarsi di quel farabutto la fece palpitare di impazienza.

Sì, la vittoria è mia, si disse sfregandosi le mani.

Pensò alle parole del Dottore a proposito dell'arte oscura e fu scossa da un profondo brivido.
Inevitabilmente le tornarono alla mente i miti e le leggende raccontategli da suo nonno quando era bambina.

Già, le storie del nonno.

La soglia di attenzione di Nina era sempre stata piuttosto bassa, ma quando era lui a narrare, magicamente tutto ciò che la circondava svaniva di colpo e si trovava ipnotizzata ad ascoltare ogni sua parola.

Fece un sospiro trasognante.

Suo nonno era un oratore eccezionale. Sarebbe stato in grado di intrattenere una folla di babbei parlando della forma delle nuvole, del sapore dell'aria o dell'inconsistenza del tempo.

Da piccola, quando giungeva l'ora della buonanotte, insisteva parecchio affinché lui le raccontasse una delle sue storie paurose e, infine, dopo estenuanti battaglie, il nonno cedeva, dando edito alle più grottesche descrizioni: mostruose creature dalla mole colossale che, errabonde, attraversavano intere galassie, prive di coscienza e senza un apparente scopo che le spingesse ad avanzare. Distruttori di pianeti che al termine della propria esistenza implodevano, disperdendo nell'etere cosmico gli scintillanti frammenti delle proprie ossa.

Non aveva mai creduto a tali leggende, eppure, avvertì nel profondo della sua anima una sgradevole sensazione.

Secondo le parole di Kayes quel piccolo oggetto bramato da molti era ubicato su Xirria, un pianeta disabitato e caratterizzato da imponenti catene montuose: laggiù, da qualche parte sui fianchi scoscesi dei monti, si trovava una grotta. Proseguendo in moderata profondità, nelle viscere della roccia, avrebbero trovato un santuario sotterraneo, nominato Tempio di Raimè.

Iniziò ad avvicinarsi a Rey, che ignaro della sua presenza, sfacchinava avanti e indietro tra il magazzino fatiscente e la piccola navetta parcheggiata a pochi metri di distanza.

Lontano dalla città, solo la fosforescenza della vegetazione brillava nella notte, riverberando sulla superficie deteriorata del capannone.
Era un edificio piuttosto rustico, costruito in mezzo agli arbusti e usato come deposito.
Ad un primo sguardo non le sembrò una struttura particolarmente robusta, probabilmente nemmeno a norma di legge, e si chiese con che coraggio quell'uomo vi ci entrasse ogni volta.

Quando fu a pochi metri da lui si bloccò, rimanendo ad osservarlo affascinata. Tutto in lui traboccava bellezza tribale, dalla punta delle piume agli stivali lucidi che strascicavano sulla sabbia.

I loro occhi si incrociarono per un attimo e Rey notò l'espressione meravigliata di Nina. Aspettò che lei parlasse, ma rimase imbambolata a studiare Il piumaggio colorato del suo copricapo, con infantile stupore.

«Se hai qualcosa da dirmi, fallo subito» sbottò infine, visibilmente seccato.

«Di tutti i costumi che ho visto quest'anno» iniziò a parlare, esaminandolo da capo a piedi, «Il tuo, è senza dubbio il più originale» ammise colpita.

«Ma questo non è un costume.»

«Oh»

Proseguì un silenzio imbarazzato, poi Rey tornò al lavoro, come se nulla fosse.

Stava accatastando ai piedi della nave decine di casse piene fino all'orlo di ciarpame: vasi, vassoi, coppe d'ogni forma e materiale, ornamenti vari, ma soprattutto candele. Moltissime candele. Nina pensò di non averne mai viste così tante assieme e si chiese che uso potesse farne quell'uomo.
Probabilmente era uno di quei sacerdoti invasati che giravano per la galassia creando nuovi spazi di culto per la propria setta.

«Non male» disse lui, dandole le spalle, «hai altri spunti interessanti su come proseguire questa conversazione?»

Nina arrossì imbarazzata e affondò la mano nella tasca dei pantaloni, afferrando un piccolo tesserino identificativo. Accanto al suo nome c'era una piccola foto in primo piano di lei, sorridente, ma con entrambi gli occhi chiusi. Glielo mostrò.

«Mi chiamo Nina Björklund e sono una cacciatrice di taglie. Ho bisogno di dirti una cosa che temo ti farà arrabbiare parecchio.»

L'uomo si asciugò il sudore con il dorso della mano, poi si sporse dentro una cassa, allungandosi per raggiungere qualcosa sul fondo.

«Senti, non è serata per le confessioni, credimi.»

«So che Haeist si recherà nel Tempio di Raimè per appropriarsi dell'ultimo frammento di Titano ancora attivo.»

Rey alzò la testa come una molla.

Sembrava che la mascella gli si stesse per staccare da un momento all'altro.
Diverse emozioni attraversarono il volto dell'uomo: Incredulità, disperazione, e infine, rabbia.

«Hai origliato la nostra conversazione?»
abbaiò furioso e in un impeto d'ira si guardò spasmodicamente attorno, cercando qualche oggetto da lanciarle contro, ma poi desistì, stringendo i pugni.

Nina, che si era prontamente riparata dietro una scatola di incensi, fece timidamente capolino, soppesando le sue reazioni.

«Ascolta, mi dispiace, ma sappi che non ho cattive intenzioni.»

Rey la guardò con diffidenza, assottigliando gli occhi a due fessure:
«Sicuro» ringhiò, «Che tu sia maledetta, che cosa vorresti fare ora? Anzi, sai che ti dico, preferisco non saperlo, taci. Nulla di tutto questo ha importanza, tra poco raggiungerò il Tempio e porterò la reliquia lontana da tutti voi. Vattene, tornatene da dove sei venuta.»

Sì affrettò a raccogliere una cassa di attrezzi ai suoi piedi e si avviò a passi pesanti verso la nave.

Nina esitò qualche attimo, poi, tenendosi a debita distanza, continuò a parlare:
«La mia squadra è sulle orme di Haeist da parecchio tempo e tu puoi... noi, possiamo aiutarci a vicenda.»

La ignorò, impegnato a caricare quel guazzabuglio di santonerie a bordo.
«Aspetta» lo pregò, seguendolo, «Non capisci? Se uniremo le forze avremo più probabilità di proteggere il Tempio di Raimè. Non puoi farcela da solo.»

«Prima di tutto» ribatté una volta riacquistata la calma, «Non sono uno sprovveduto. Perché, nel caso ti fossi persa questa informazione, è il mio lavoro.»

La scansò, proseguendo verso il magazzino per recuperare il resto del materiale.

«Secondo: il fatto che, non solo Haeist, ma anche una squinternata come te sia a conoscenza della reliquia è una tragedia. Davvero, non c'è bisogno che altri sappiano.»

«Ma se decidessi di collaborare con noi potresti assicurarti una cospicua somma, stiamo parlando di un obiettivo letale dopotutto. Hai idea di quanto ammonti la taglia di quel criminale?»

Rey fece una smorfia disgustata.
«Tenetevi le vostre ricompense, cacciataglie. Questi sono affari del Culto dei Grandi Spiriti, e io, sono incorruttibile.»

Nina si mordicchiò il labbro nervosa pensando a una tattica per convincerlo.

Poi fu colta da un'illuminazione.

In condizioni normali non si sarebbe mai sognata di sfruttare la propria posizione sociale per ottenere qualcosa, ma in quella particolare situazione decise fosse ragionevole fare uno strappo alla regola.
Fece un passo in avanti e con aria solenne parlò, battendosi una mano sul petto:

«Sono la nipote di Padre Torbjörn.»

Rey inciampò nel mantello e una cassa gli scivolò dalle mani fracassandosi sonoramente a terra, sparpagliando ceri ovunque.

«Dannato sia Mahvati...» ruggì esasperato portandosi le mani ai fianchi.
Osservò per qualche attimo quello che aveva combinato scuotendo la testa.

Sembrava più turbato per la cassa sfracellata che per la rivelazione della ragazza, che rimase a fissarlo allibita mentre si apprestava a raccogliere uno ad uno tutti i ceri, con amorevole delicatezza.

Infine, una volta recuperato l'ultimo pezzo, parlò di nuovo, senza prendersi la briga di voltarsi verso di lei:
«Non mi interessa di chi sei nipote, gira sui tacchi e vattene via.»

Gira sui tacchi e vattene via?

Nina gli puntò l'indice contro, irritata: «Ascolta bene, se non mi porti con te rivelerò a tutti del Tempio di Raimè, a cominciare dalla Guardia
Galattica. Puoi star certo che ti costringeranno loro a collaborare.»

Finalmente, le sue parole sortirono l'effetto desiderato e il biondo fece saettare gli occhi su di lei, oltraggiato.

Un sorriso balenò sul volto della giovane quando lo vide avvicinarsi ad ampie falcate e piantarsi a pochi centimetri da lei. Dovette alzare la testa per guardarlo, perché gli arrivava a malapena sotto il mento.

«Bada», la ammonì serio, «non mi sono mai piaciute le minacce, ma se sono questi i giochi, sappi che non ci metterei molto a legarti e a nasconderti nello scantinato con un calzino in bocca.»

Ora che si trovavano così vicini ebbe modo di osservarlo con maggiore attenzione e solo allora notò un piccolo piercing alla radice del setto nasale, proprio in mezzo agli occhi scuri.
La fissava a braccia conserte, in una posa severa: le sopracciglia bionde aggrottate, la mascella rigidamente contratta, le labbra carnose incurvate in una smorfia.

Nina sostenne lo sguardo con strafottente soddisfazione.

«Non mi interessano i tuoi gingilli sacri. Non ne so molto a riguardo e preferisco rimanere nell'ignoranza, sono mossa unicamente dal desiderio di catturare Haeist. Portami con te e ognuno si concentrerà sul proprio obiettivo. Nessun'altro sarà informato.»

Fece una piccola pausa.

«... e se mi ammazzerà avrai una seccatrice in meno.»

Il biondo studiò l'espressione determinata di Nina perdendo qualche attimo per riflettere.
Poi scosse la testa tra sé e sé, lanciandole un'occhiata dubbiosa:

«La tua storia non avrà un lieto fine, Nina Björklund.»

Andò a sedersi su un piccolo sgabello arrugginito, stanco, come se quella conversazione lo avesse prosciugato di ogni forza, e con un sonoro sospiro le fece segno di salire sulla nave.

Gli occhi di Nina si accesero di gioia e con un urletto di vittoria si fiondò a bordo, in pochi balzi, prima che l'uomo potesse cambiare idea.
Una manciata di secondi più tardi sentì il rumore di qualcosa che si infrangeva all'Interno della nave e Rey scattò in piedi: «FA PIANO!» tuonò, passandosi una mano tra i capelli, più arruffati che mai.

«Questa è la peggiore situazione in cui potessi trovarmi...»

 

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Capitolo 7
*** DUE E' MEGLIO DI UNO ***


Capitolo sei: Due è meglio di uno



Durante il tragitto Nina non gli diede tregua per un momento.

Lo tempestò con la sua vorace curiosità rivolgendogli ogni genere di quesito e, mentre lui si impegnava a fornirle risposte articolate ed esaustive, lei lo interrompeva, ponendogli altre domande.

Per le prime due ore di viaggio Rey si era limitato a risponderle per cortesia: le aveva spiegato la struttura gerarchica della propria casta sacerdotale, alcune funzioni sacre e le varie ricorrenze religiose.
Poi, in preda all'esasperazione, era passato a darle risposte telegrafiche, finendo per scivolare in un profondo mutismo.

Vedendo che Rey non apriva più bocca, Nina decise di prendere in mano le redini della conversazione e parlò ininterrottamente per un'ora.

«... E purtroppo Madre Jezibel e Padre Volkev sono molto malati, quindi mio nonno rimarrà presto l'ultimo nativo terrestre. Triste vero?»

Il biondo rispose emettendo un lungo e sofferto sospiro, ma Nina non ne colse il significato: «Sia chiaro, a lui non pesa per nulla rappresentare gli esseri umani, ritiene sia un onore adempiere ai doveri che gli sono stati affidati... però riesci ad immaginare cosa voglia dire essere l'unico rimasto a custodire una parte così preziosa della nostra storia?»

Nina fece serpeggiare lo sguardo tra le stelle, assorta in una riflessione.

Un secolo prima, quando la sua razza imigrò su Dystòpia, fu sancito il divieto assoluto di transito o sbarco sulla Terra da parte degli umani. Da allora nessun uomo o donna aveva messo piede su quel pianeta.

Il nonno invece era nato lì e fin dal primo vagito i suoi polmoni si erano riempiti di ossigeno terrestre. Aveva trascorso l'infanzia durante il declino ambientale, rincorrendo i gabbiani tra la spuma marina e giocando a Kubb tra i campi secchi di Göteborg.

Rimanendo l'ultimo nativo non avrebbe più trovato il conforto negli occhi di un compagno che come lui, anni orsono, aveva sopportato il dramma dell'esodo.

«... Non avere più nessuno in grado di comprenderti non equivale a rimanere soli?» mormorò la giovane tra sé e sé.

«Ti metti anche a filosofare ora?» ribatté Rey stanco, ma non ottenne risposta.

Di punto in bianco Nina sembrava essersi chiusa in sé stessa, in un remoto anfratto della propria mente. Rivolta verso l'oblò fissava le stelle, o forse stava fissando il suo riflesso sfocato sul vetro, da quell'angolazione Rey non riusciva a capirlo.

La studiò per qualche attimo, colpito da quel cambiamento repentino.

«Immagino sia come dici tu» le rispose allora dopo un lungo silenzio, «Ora però dobbiamo prepararci, manca poco all'atterraggio.»

•••∆•••

XIRRIA

Prima di atterrare Rey optò per sondare la zona dall'alto, assicurandosi che non ci fossero altre navicelle nei paraggi.

Lasciarono la nave ai piedi della cresta montuosa e proseguirono per un sentiero ripido.

Il cielo era coperto da un fitto mantello di nubi scure e presto iniziò a piovere a dirotto rendendo il terreno scivoloso. In poco tempo i due si ritrovarono zuppi e tremanti.

«Rey» chiamò Nina ansante mentre scarpinava a fatica tra le rocce e gli arbusti «Esistono altre vie per arrivare all'ingresso della grotta?»

Lui rallentò un poco l'andatura, permettendole di raggiungerlo.

«Se ti riferisci a delle scorciatoie purtroppo non ce ne sono»

Le sfilò la borsa di dosso e se la caricò in spalla, alleggerendole il cammino.

Impiegarono diversi minuti prima di raggiungere la cima e, quando finalmente furono dinnanzi all'ingresso della grotta, si bloccarono attirati da un rumore sinistro. Percepirono il terreno vibrare e il rombo di un motore crescere sempre di più avvicinandosi a loro. Il cielo a est si illuminò e un'astronave trapassò le spesse nubi sfrecciando come una cometa verso i piedi del monte.

È arrivato, si dissero con gli occhi.

Rey imprecò a bassa voce. Per un attimo si era illuso di risolvere quella faccenda senza spargimenti di sangue.

Rivolse un'occhiata a Nina che si sporgeva dallo strapiombo, cercando con lo sguardo il nemico. Batteva i denti convulsamente, forse perché infreddolita o forse per via dell'agitazione.

L'uomo avvertì un nodo alla gola.
Prima della partenza si era fatto convincere a usarla come diversivo, mentre ora iniziava a sentirsi in apprensione per lei.

Quello l'avrebbe senza dubbio fatta a pezzi.

«Ferma» ordinò l'uomo afferrandola per il cappuccio della giacca «cambio di programma.»
La ragazza si girò guardandolo interrogativa.
«Penserò io ad Haeist. Tu nel frattempo recati al tempio e prendi la reliquia.»

«Cosa? Ma non erano questi gli accordi.» rispose Nina sorpresa, ma Rey era serissimo.

Era la soluzione più ragionevole: avrebbe affrontato quel criminale, magari riuscendo a giustiziarlo. Tuttavia doveva considerare anche le evenienze più drastiche e preferiva sapere che durante il combattimento la reliquia veniva portata in un luogo più sicuro.

«Nina, ascoltami»
Le mise in mano un piccolo e tondo palmare che raffigurava il percorso per arrivare al tempio.
«Se qualcosa dovesse andare storto, promettimi che porterai la reliquia a Kayes.»

Lei fece per ribattere ma, incontrando lo sguardo di Rey, si bloccò. Dopo qualche attimo di titubanza, annuì e strinse tra le dita l'aggeggio.

«Devi resistere, prima di partire ho chiamato la mia squadra e presto saranno qui.»

«Tu hai fatto...COSA?»

«Ma non sanno nulla della reliquia» si affrettò a precisare la ragazza, «sanno solo che Haeist si trova qui!»

L'uomo si massaggiò gli occhi cercando di mantenere la calma. Parlò con un tono di voce pericolosamente tranquillo, senza guardarla in faccia:

«Nina... sono incerto se ammazzare te o Haeist, ti conviene correre.»

La rossa non se lo fece ripetere e sparì a gambe levate nelle profondità dell'antro, venendo inghiottita dalle tenebre.

•••∆•••

Haeist camminava assorto, salendo per il ripido sentiero.

Dopo una lunga discussione con Morlin, aveva deciso di recarsi da solo su quel pianeta. Era una questione che riguardava solo lui e non aveva nessuna intenzione di mettere di nuovo a rischio l'equipaggio.

Da tempo si era promesso di non coinvolgere i ragazzi negli affari personali e, con la missione su Thurania, era venuto meno ai patti. Non aveva costretto nessuno di loro, anzi, si erano offerti di seguirlo in missione, eppure non faceva altro che pensare al pericolo che avevano corso per lui.

Era talmente sovrappensiero che per poco non si accorse della strana figura appollaiata su una roccia a pochi metri di distanza.

Si bloccò di colpo.

C'era un bizzarro uomo avvolto in un mantello color porpora e con un canestro di piume posto sul capo riccioluto. Lo osservò con attenzione mentre si sporgeva in avanti per alzarsi e notò che al collo portava il pendaglio dei Grandi Spiriti.

È un sacerdote. Mi stava aspettando.

Sapeva bene che, una volta libero, Kayes avrebbe contattato qualche sottoposto per fermarlo. Non era uno stupido, ma non si sarebbe mai immaginato una tale rapidità di intervento. Si chiese per quale motivo avesse ingaggiato proprio quel tizio per affrontarlo, non gli parve né forte né sufficientemente equipaggiato per una battaglia. Brandiva un bastone e nulla più. Non una pistola o qualsiasi altra arma.

Le ipotesi erano due: o la gente stava iniziando a sottovalutarlo o era in atto un abbassamento generale dello spirito di sopravvivenza.
Fece vagare lo sguardo su quell'individuo così poco ordinario e in quel momento un fioco raggio di luce penetrò le nubi illuminandolo in uno strano effetto suggestivo.

«Devo essere sincero, speravo proprio di non incontrarti.» disse il sacerdote, indicandolo con il bastone arcuato.


 

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Capitolo 8
*** L'UOMO CHE NON SANGUINAVA ***


 

Capitolo sette: L'uomo che non sanguinava





Il Comandante dell'Estus e il Sacerdote dei Grandi Spiriti rimasero uno di fronte all'altro studiandosi in silenzio.

«Quindi tu chi saresti?»

«Sono il Guardiano dei Templi.» rispose il biondo ergendosi in piedi e spalancando le braccia in una posa teatrale:
«Attraverso la galassia purificandola dagli eretici che come te si appropriano indebitamente delle sacre reliquie.»

Haeist portò lo sguardo sull'arma insolita dell'avversario.

«E in genere li prendi a bastonate?»

Lui strinse con forza il legno, fulminandolo con lo sguardo.
«Gli do la punizione che meritano» rispose piccato, a denti stretti.
Da impermalito appariva ancora più ridicolo, forse per via delle narici dilatate, oppure per la piccola vena che pulsava sulla tempia.
Si tolse il copricapo piumato e il mantello, adagiandoli su una roccia, poi sollevò il bastone in aria impugnandolo alle estremità. Tirò in direzione opposta con le mani e l'asta si aprì, rivelando due sciabole affilate dalla manifattura dorata.

«Ah, Ecco. Adesso potrei anche accettare di battermi con te.» Replicò la figura mascherata mentre estraeva dalla cinta una lama appuntita e la face roteare intorno alle dita guantate, giocherellandoci.

Gli occhi di Rey lo fissavano da dietro le lame, seguendo con attenzione ogni suo movimento.

«Forse non hai compreso la gravità delle tue azioni. La gente come te non solo mette in pericolo tutti noi ma reca una grave offesa agli Dèi.»

Haeist scosse la testa, niente lo annoiava più di quei discorsi teologici.

«Non c'è nessun Dio.»

Lanciò una lama che fendette l'aria e vibrò contro la guancia di Rey tracciando una sottile linea rossa, appena sotto lo zigomo.
Non aveva nemmeno provato a schivarla.
Rimase immobile, senza mostrare il minimo cenno di dolore, osservandolo con uno strano sorriso dipinto sul volto, come in attesa di un misterioso evento.
Poi Haeist si paralizzò: portò lentamente una mano al proprio viso percependo una fitta bruciante sotto la maschera, nello stesso punto in cui aveva colpito Rey.
Lo guardò confuso, poi, con sommo stupore, vide la ferita sul viso dell'avversario rimarginarsi con rapidità fino a scomparire del tutto.

«Qualcosa non va'?» domandò ironico lui, godendosi la reazione del criminale.

Haeist avvertì il taglio sulla propria guancia pulsare sempre più intensamente. Come ci era riuscito?

«Cosa darei per vedere la tua faccia in questo momento.»

Haeist lo fissò qualche attimo strabiliato, poi una volta compreso quanto accaduto annuì tra sé e sé, elargendo un lento applauso:
«Sono impressionato» Si complimentò «Anche se forse avrei dovuto aspettarmelo da un buffone del genere.»

L'uomo dai folti capelli ricci piegò la testa di lato con un'espressione furbesca «Se stai insinuando io abbia usato qualche trucchetto ti sbagli» replicò.
«Vedi, a differenza dei predoni come te, che cercano illecitamente di appropriarsi dell'arte oscura, ho ricevuto questo potere dagli Dèi come ricompensa per i miei servigi e strumento per compiere il loro volere.»

Mosse qualche passo verso Haeist che invece si mantenne a debita distanza.

«Capisci la differenza?» Incalzò.

Haeist ne aveva già sentito parlare.
Prediletti dagli Dèi che, in cambio di fedele servitù, ottenevano abilità eccezionali.
Almeno questo era ciò che i sacerdoti raccontavano in giro, la verità per Haeist era un'altra: in un modo o in un altro, avevano fatto uso dei frammenti di Titano assorbendone il potere. Poiché tale pratica era condannata a ogni angolo della galassia e punito con la morte, a qualcuno era venuto in mente di inventare la messinscena dei sacerdoti prescelti per compiere la missione divina.

Ipocriti.

Era un patetico tentativo di mascherare la corruzione delle sette religiose.
Nessuno era immune alla brama di potere, men che meno quei sedicenti illuminati. Aveva visto con i propri occhi il degrado che li circondava: orde di fedeli con la bava alla bocca, non più in grado di prendere decisioni nella propria vita, miserabili da plasmare e manovrare a piacere.

Aveva ben chiaro di che pasta fossero fatti quei sacerdoti e di certo quello che aveva davanti non era da meno.
Provava il forte desiderio di ucciderlo ma dovette reprimere quell'impulso in favore di una tattica più astuta.

Affrontare incautamente quello scontro poteva tramutarsi in una trappola mortale: quando quell'uomo incassava un colpo sembrava non percepire alcun dolore, la ferita si rimarginava entro pochi secondi e ogni effetto si ritorceva sul corpo dell'avversario.
In pratica, non era possibile ferirlo.

«Contro chi ho il piacere di battermi?»

«Mi chiamo Rey Elmôr Barros e in nome degli Dèi ti condanno a morte.»
 

•••∆•••

 

Più penetrava le profondità della roccia e più risultava complicato orientarsi nel buio assoluto.
Poi Nina iniziò a vedere sulle pareti e sul soffitto dei piccoli puntini luccicanti che illuminavano un poco l'ambiente.
In un primo momento le erano sembrate piccole pietruzze luminescenti incastonate nella roccia, ma quando le vide spostarsi realizzò con disgusto si trattasse di insetti.
Facendo attenzione a non strusciare contro le pareti proseguì, seguendo le indicazioni del piccolo palmare che le aveva lasciato Rey.

Mano a mano che si avvicinava al Tempio il percorso si diramava sempre più in piccoli cunicoli, rendendo difficile imboccare la strada corretta.

Senza una mappa sarebbe risultato impossibile spostarsi all'interno di quell' intreccio senza perdersi e questo la rassicurò un po'.

Non appena gli occhi si furono abituati all'oscurità, intravide un bagliore provenire in fondo alla galleria e quando sbucò dalla parte opposta fu investita da una luce potente.
L'aria pregna di incenso le riempiva le narici dandole un senso di stordimento e si stupì di non averlo sentito prima.

Girò su se stessa con un espressione meravigliata ammirando ciò che la circondava. Giganteschi bracieri di pietra si susseguivano per tutto i perimetro dell'area come un'inquietante cornice e su di essi erano incise in sequenza delle scene rituali.
Ricordò i discorsi di Rey e fu in grado di riconoscerne gran parte: riti di iniziazione, cerimonie in onore del capo religioso e moltissime immagini di adorazione.

In fondo all'ampio spiazzo si alzava da terra la statua di una bestia mostruosa, alta quasi fino al soffitto della grotta.
Si chiese cosa dovesse rappresentare quella creatura: una divinità? Un Titano? Non poteva saperlo, ma notò tra le grinfie della creatura un piccolo globo, simile ad un pianeta, stretto in una morsa spietata.
Deglutì, chiedendosi se il rapporto tra le dimensioni del mostro e quelle del pianeta fossero casuali.

Abbassò lo sguardo e ai piedi della statua individuò finalmente l'altare.


•••∆•••

 

Consapevole di non avere alternativa, Haeist si limitava a schivare e proteggersi dagli attacchi, attento a non arrecargli danni, ma il Sacerdote si accaniva su di lui con sempre più veemenza, animato da un invincibile fiducia nel proprio potere.
Lo vide balzare in avanti, caricando una sciabolata verso il suo fianco e, colto alla sprovvista, fu costretto a respingerlo con un calcio violento sul petto facendolo rotolare a diversi metri di distanza.
Haeist si piegò su se stesso, col respiro spezzato, portandosi una mano al costato.

Cazzo, quello sì che lo aveva sentito.

Era come se si fosse tirato una pedata da solo.

Mentre lo vedeva alzarsi ancora una volta, incolume, capì che si trovavano in una situazione di stallo.
Sebbene le abilità corpo a corpo di quel sacerdote fossero buone non erano sufficienti per ferirlo, tuttavia schivarne i colpi senza infliggere danni e subirne la ritorsione diventava sempre più arduo.
Per quanto lo trovasse frustrante decise di trovare una soluzione alternativa.

Lo vide ripartire alla carica, ma questa volta Haeist lo bloccò per i polsi e con una mossa veloce lo atterrò bloccandolo con il proprio corpo.
Gli strappò di mano le armi, gettandole oltre la rupe e, mentre Rey tentava di divincolarsi ringhiandogli contro ogni genere di invettiva, gli legò le mani dietro la schiena con una fune.

«...Bastardo figlio di-»

«Silenzio.»

Strinse l'altra estremità della corda intorno alle caviglie del biondo e, una volta immobilizzato del tutto, si alzò liberandolo dal suo peso.

Afferrandolo da dietro la nuca lo fece mettere in ginocchio.
Rey si raddrizzò guardandolo con aria grave, come sfidandolo, quindi il comandante si chinò su di lui, a pochi centimetri dalla sua faccia.
Gli lesse negli occhi una rabbia furente.
Ciò che li accomunava in quel momento era il desiderio di prendersi a pugni ma, metaforicamente o meno, avevano le mani legate.
Mimò di sferrargli un colpo sulla guancia, per sfotterlo, dopodiché si alzò e gli diede le spalle.

«Salutami Edneth.» aggiunse con un cenno della mano, mentre si allontanava, e in risposta sentì un rantolo soffocato:

«Nina... ti supplico... »

Haeist si bloccò, voltandosi immediatamente verso Rey.

«Cosa hai detto?»

Il sacerdote non gli diede risposta e chinò il capo, abbandonandosi a una preghiera silenziosa.




*ANGOLO AUTRICE*

Eccoci al settimo capitolo!
Ho deciso di inserire un piccolo spazio per salutare tutti coloro che sono giunti fin qui e ringraziarvi per avere dedicato del tempo alla mia storia che spero vi stia piacendo.
Se ne aveste voglia mi piacerebbe avere un vostro ritorno nei commenti (ovviamente sono aperta a qualsiasi critica purchè costruttiva).

Nel prossimo capitolo Nina e Haeist si incontreranno di nuovo e ne vedremo delle belle!

Curiosi? STAY TUNED!

Un abbraccio,

Marjikka


 

 

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Capitolo 9
*** TITANI E DÈI ***


Capitolo Otto: Dèi e Titani

 

Xirria, Tempio di Raimè

 

Si piegò sulle ginocchia, ponendosi alla stessa altezza della reliquia e la esaminò da vicino, affascinata. Assomigliava ad un piccolo corno dalla forma curvilinea, grande quanto il palmo della sua mano. Era del colore più bianco che avesse mai visto, così puro e pulito da non presentare nemmeno un granello di sabbia o di polvere. Irradiava un'intensa luce violacea, tanto brillante che Nina dovette allontanarsi un poco per non finire abbagliata.

Rey l'aveva messa in guardia: al suo interno palpitava qualcosa di vivo che, come un animale selvatico, attendeva e fiutava, nel tentativo di aggrapparsi ad un altro essere vivente.

Al fine di poterlo maneggiare e trasportare in sicurezza era necessario quindi farlo assopire.

Assopire? Tipo cantando una ninna nanna? Gli aveva chiesto dubbiosa, per niente sicura di avere afferrato.
Il concetto, in effetti, era proprio quello. Esisteva un apposito rituale usato quando, occasionalmente, una reliquia ancora attiva veniva trasportata in un nuovo rifugio. Tale precauzione era essenziale per evitare che la sua l'energia si sprigionasse coinvolgendo il sacerdote incaricato.

Nina cercò di rallentare il respiro nel tentativo di calmarsi e si inginocchiò dinanzi alla teca trasparente che lo conteneva. Si rimboccò le maniche fino ai gomiti e, dopo essersi strofinata i palmi delle mani, li unì.

La sua famiglia, non essendo mai stata particolarmente religiosa, le aveva tramandato ben poco, giusto qualche breve preghiera cattolica. Non era un' ottima oratrice, ma cercò di calarsi quanto più possibile nei panni di un fedele devoto. Si sarebbe rivolta ai Grandi Spiriti, le divinità di Rey, e avrebbe chiesto loro il permesso di portare con sé la reliquia.

«Iniziamo.»

Estrasse dalla tasca della giacca una piccola tavoletta di argilla che le aveva lasciato Rey. Sopra vi era inciso un breve mantra con caratteri terrestri. Cominciò a leggere quelle parole, all'apparenza senza significato, cercando di pronunciarle quanto più correttamente possibile.

«Ub khuau ni uxos baamu yot»

Quando ebbe finito di leggere la prima riga notò nella reliquia un debole sfarfallio di luce che, nel momento stesso in cui smise di parlare, si placò. Qualsiasi cosa avesse appena detto, aveva funzionato. Continuò a recitare il mantra e, una volta giunta alla fine, ricominciò da capo, ripetendo ancora e ancora le stesse parole come una cantilena senza fine.

Con sollievo riconobbe che il bagliore attorno alla reliquia si stava affievolendo sempre più.

È quasi fatta.

«Ancora tu.»

Una voce familiare alle sue spalle la fece paralizzare di colpo. Si girò di scatto con gli occhi sbarrati e lo vide, in piedi, a pochi metri da lei. Gli abiti scuri erano sporchi di terra, segno di un recente combattimento, e il mantello presentava alcuni tagli. Nina si alzò di scatto afferrando la piccola teca di vetro, ma si rese conto di essere con le spalle al muro. Quello non poteva essere davvero Haeist. Non doveva esserlo.

«Che cosa hai fatto a Rey?»

«È stata sua l'idea di farti scendere quaggiù?» Le chiese con voce cupa, ma la giovane ignorò la domanda: «Cosa gli hai fatto?» Ripeté, sempre più tesa, assottigliando lo sguardo.

Haeist rimase in silenzio qualche attimo. Osservò i grandi occhi blu di Nina, lucidi per la preoccupazione, e le labbra tremanti.

«È illeso» rispose infine, leggendo il sollievo sul suo volto. «Ma ora non può raggiungerti.»

Sentendosi in trappola su quell'altare e, spoglia di qualsiasi sicurezza, strinse al petto la teca in un debole tentativo di protezione. Haeist allora alzò le mani a mezz'aria in segno di pace.

«Non intendo combattere contro di te»

Parlò con calma, accennando qualche passo verso di lei.

«Ora però posa quell'affare e allontanati.»

Nina abbassò lo sguardo sulla teca, illuminata da deboli bagliori violacei. Il tempo non si era rivelato magnanimo con lei e il rituale era rimasto incompiuto. Osservò il piccolo frammento osseo mentre si ostinava a pulsare di luce. Come avrebbe fatto ora? Lui ormai era lì, determinato a impossessarsi di quel potere e nulla lo avrebbe fermato, men che meno una debole ragazzetta tremante.

«È impossibile trovare questo posto senza una mappa, come hai fatto?»

Chiese Nina nervosa, indietreggiando di qualche passo.

«Hai lasciato traccia del tuo passaggio»

La voce di Haeist ebbe un attimo di esitazione, incerto se proseguire.

«... e ho riconosciuto il tuo profumo.»

Quelle parole le lasciarono un senso di intorpidimento addosso, proprio come era successo al locale.
Sapeva che lo sconosciuto era lui, ormai ne era certa. Avrebbe voluto porgli così tante domande in quel momento, prima tra tutte, perché l'aveva cercata quella sera? Date le circostanze decise di non fare accenni sull'argomento, rimanendo con il fegato logorato dalla curiosità.

All'improvviso una scossa attraversò la teca e le provocò un urletto di sorpresa. Quasi le cadde dalle mani.

«Ahi! Ma che...»

Abbassò lo sguardo e, quando si rese conto che la luce stava aumentando di intensità, fu colta dal panico. La posò immediatamente a terra e inginocchiandosi davanti ad essa iniziò a recitare con foga il mantra, ma lo stesso non accennava a placarsi: qualsiasi cosa fosse racchiuso al suo interno si stava risvegliando.

Perché non si spegne? Perché non si spegne?

«NINA!»

La chiamò Haeist con rabbia, facendola sobbalzare.

«Levati subito!»

Sentire il suo nome riecheggiare tra quelle mura le provocò un tumulto di emozione nel petto e la sua recita si affievolì sempre più, terminando in un balbettio monosillabico. Si voltò verso di lui e con sgomento si accorse che ormai l'aveva raggiunta.

«N-no!» Protestò Nina, quando lui la sollevò di peso.

«Non sei affezionata alla vita, vero?» disse, allontanandosi dall'altare con lei in braccio.

La luce era più forte che mai ed emanava un calore a stento sopportabile. Emetteva dei palpiti cadenzati, simili al battito di un cuore umano.

TU-TUM TU-TUM.

«Puoi nominare tutti gli Dèi che ti vengono in mente, ma quell'affare non si spegnerà. Piuttosto... Cerca di calmarti, perché sembra reagire alla tua agitazione.»

Lei sopraffatta da quella vicinanza scalpitò, tentando di liberarsi dalla stretta intorno alla vita, con scarsi risultati.

«Come faccio a stare calma se mi tieni appiccicata a te?»

Haeist abbassò lo sguardo su di lei ma, per via della maschera, fu impossibile osservarne l'espressione. Nina, accortasi di ciò che aveva appena detto, arrossì leggermente.

TU-TUM TU-TUM.

«Se non posso fermarlo allora scappiamo insieme! Tu non hai paura di morire?» lo pregò stringendo la stoffa del mantello tra le mani.

Lui fece per rispondere ma la sua voce venne sovrastata da un potente boato alle loro spalle, una forte scossa li fece cadere entrambi a terra.

Nina ne approfittò e riuscì a divincolarsi dalle braccia del criminale, correndo verso l'altare, ma non riuscì a guadagnare molto terreno prima di essere raggiunta. Percepì la mano del suo inseguitore sfiorarle il braccio, quando una seconda ondata di energia proveniente dalla reliquia si propagò per la grotta travolgendoli di nuovo con violenza.

Haeist venne sbalzato a diversi metri di distanza, il corpo di Nina invece andò a sbattere forte contro una lastra di pietra, rimanendo fin troppo vicina a quella fonte di calore insopportabile.

Tentò di proteggersi il volto con le braccia, tenendo a fatica gli occhi aperti.

Capì che quelli probabilmente erano gli ultimi attimi della sua vita e da lì a poco sarebbero morti entrambi. Avrebbe tanto voluto girarsi per vedere come stesse Haeist ma non ci riuscì.

Si trovò a pregare, affondando le dita nella terra.

Dèi, concedetemi un'altra possibilità.

D'un tratto, però, pensò di avere un'allucinazione quando, in mezzo a quel bagliore violaceo, intravide una sagoma sinistra che le rivolse il ghigno più crudele che avesse mai conosciuto.

Poi, tutto divenne bianco.

•••∆•••

La prima cosa che avvertì quando riprese conoscenza fu un bruciore insopportabile agli occhi, così intenso da non riuscire a tenerli aperti senza lacrimare.


Gli enormi bracieri si erano spenti e, a illuminare il tempio, erano rimasti solo dei tizzoni ardenti. Da quanto tempo si trovava là dentro? Minuti? Forse ore.
Si spostò a tentoni nella penombra, tastando il terriccio umido con le mani, finché non incontrò una superficie dura e fredda. Ritirò la mano, come se si fosse scottata. Poi allungò nuovamente il palmo verso l'oggetto e, con sgomento, riconobbe la maschera di Haeist. O meglio, un pezzo.
Proseguendo di qualche metro ne trovò un secondo e un terzo ma, di Haeist, neanche l'ombra.

Se n'è andato. A quanto pare siamo sopravvissuti entrambi.

Si chiese se Haeist fosse effettivamente riuscito a ottenere l'Arte Oscura perché l'esplosione li aveva coinvolti entrambi, eppure non avvertiva nessun tipo di cambiamento.
Mano a mano che si avvicinava all'uscita iniziò a sentire rumori provenienti dall'esterno, riconobbe i colpi degli spari, le grida e i boati: là fuori era in corso uno scontro. Varcata la soglia della grotta fu avvolta dai raggi caldi del giorno e le venne naturale respirare a pieni polmoni, come se avesse trattenuto il fiato per interi minuti. Si avvicinò al bordo del sentiero, sporgendosi leggermente.

Ai piedi della montagna vide un astronave dalla forma ovale schiacciata, appoggiata su quattro spesse zampe metalliche. Era la Talelah Lakroa e il suo equipaggio, poco distante da essa, era occupato in un disordine caotico di fuoco e grida. Nina si guardò intorno e quando vide Haeist ebbe un tuffo al cuore.

Lo riconobbe subito. Lo avrebbe riconosciuto in una folla di persone e, in quel momento, era l'unico umano circondato da decine di cacciatori. Vederlo senza maschera ed esposto agli occhi di così tanti individui suscitò in lei un senso di turbamento, ma ciò passò in secondo piano quando si rese conto che tutte quelle fiamme, in realtà, provenivano da lui.
Generava dalle mani delle lingue di fuoco che sembrava comandare come se fossero un'estensione del proprio corpo. Riusciva a proteggersi dagli spari creando alte mura vermiglie e, i cacciataglie, sbigottiti e impreparati davanti a quel potere, si rifugiavano dietro le rocce urlandosi indicazioni a vicenda.

Nina si lasciò cadere sulle ginocchia, impressionata da quello scenario catastrofico: alla fine, Haeist, ce l'aveva fatta. Di nuovo.

Chinò il capo e il suo sguardo andò a posarsi su una pozzanghera. Il riflesso che incontrò raffigurava un viso pallido caratterizzato da un paio di occhi che non le erano mai appartenuti. Colta dal panico si avvicinò alla fanghiglia per scrutarsi da vicino e, con orrore, constatò che le sue iridi avevano perso ogni sfumatura bluastra, in favore di un intenso colore scarlatto. Cosa era successo al suo corpo?
Si portò una mano alla bocca, sopprimendo un singhiozzo, schiacciata da un'improvvisa consapevolezza. Guardò Haeist mentre maneggiava l'Arte Oscura e capì che da un momento all'altro anche lei si sarebbe incendiata come un fuscello.

Non voglio, non voglio!

Quello che dapprima avvertiva come un peso sul petto dovuto all'ansia si trasformò in qualcosa di più intenso, più bruciante. Era un calore mai provato prima che si propagò per il resto del corpo: qualcosa si era innescato dentro di lei e sentiva di non averne il controllo. Capì che doveva allontanarsi al più presto da quel posto e da tutta quella gente, perché che stava per accadere qualcosa di terribile.

Iniziò a correre, sempre più veloce.
 

•••∆•••


«Ma che cosa...» mormorò Haeist seguendola con lo sguardo mentre correva a perdifiato.

Nina correva, scappava da qualcuno o da qualcosa. Successe così velocemente che non ebbe il tempo di reagire. Vide il suo corpo brillare in una scintilla e in una manciata di secondi si generò una potente esplosione che si allargò in maniera esponenziale, travolgendoli tutti.





 

 

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Capitolo 10
*** LA FUNAMBOLA E IL PIROMANTE ***


Capitolo nove: La Funambola e il Piromante




Dystòpia, Kronen
Palazzo dei Sogni


 

Nel cuore di Kronen sorgeva maestoso il Palazzo dei sogni, il luogo in cui gli antichi nativi terrestri vivevano circondati dai propri cari.
Era un edificio dall'aspetto colorato e fiabesco, caratteristiche che cozzavano con l'architettura moderna della città.
Le piccole tegole laccate in turchino ricordavano le squame di un drago, mentre la superficie della facciata era decorata con incantevoli mosaici dai mille colori.
Sulla porta di ingresso una scritta accoglieva i visitatori: "I sogni derivano dai ricordi„

Appena Nina aprì gli occhi riconobbe subito il soffitto del letto a baldacchino e capì di trovarsi nella propria camera, al piano intermedio del Palazzo. Balzò in piedi come una molla, quasi inciampando nel groviglio di coperte, e si guardò intorno.
Ci mise qualche secondo per ricollegare tutti i ricordi.

«Che cosa ho fatto?» mormorò in un fil di voce, portandosi una mano tremante al viso «Che cosa ho fatto?»

Sentiva ancora la sensazione del fuoco sulla pelle, l'energia vibrante sprigionata dal corpo e la terra che si sgretolava sotto i suoi piedi. Poi il buio assoluto.
Fu assalita da un turbinio di paure e dovette sostenersi alla colonnina del letto per non accasciarsi sul pavimento.
Nelle profondità del Tempio di Raimè era riuscita miracolosamente a sopravvivere, ma il suo corpo era stato contaminato da qualcosa di maledetto.
Senza volerlo, si era macchiata di una colpa che andava ben oltre il peccato religioso o la semplice superstizione. Nella galassia di Shunna Ra'a, chiunque si adoperasse di arti oscure veniva tracciato come traditore, una minaccia per la specie vivente.
Tale reato portava a un'irremovibile e univoca decisione: la pena di morte.

Nina scoppiò in un pianto disperato, riempendo la stanza di forti singhiozzi.

Poi si voltò verso la specchiera, incontrando il suo stesso sguardo. Sembrava un animale impaurito, aggrappata al letto, con gli occhi rossi sbarrati e una capigliatura selvaggia. Il viso pallido rigato dalle lacrime.
Provò un senso di disprezzo per sé stessa.
Lei non era questo. Né una bestia né una minaccia. Una sciocca, forse sì.

Si rialzò, asciugandosi gli occhi.

No, non era giusto. Si trattava di un enorme malinteso. Non era mai stata sua intenzione appropriarsi di quei poteri, e quindi, non poteva essere condannata a causa di un incidente, giusto?
Rimuginò qualche attimo, mordicchiandosi le unghie. Sebbene cercasse di autoconvincersi continuava a non esserne così sicura, ma decise che in un modo o nell'altro sarebbe uscita da quella situazione.

Proprio in quel momento udì un leggero vociare da dietro la porta e pochi attimi dopo il pomello di ottone roteò.
Nina si fiondò tra i cassetti dell'armadio alla ricerca di qualche accessorio per coprire la mutazione degli occhi e, quando trovò un paio di occhiali dalle lenti scure, li indossò.
Girandosi vide suo nonno, a pochi passi di distanza, che le rivolgeva uno sguardo carico di sollievo e affetto.

«Bambina mia, ti sei svegliata.» esclamò abbracciandola impetuosamente. Le schioccò una serie di baci rumorosi tra i capelli facendole solletico con la barba ispida e le rivolse un sorriso gioioso. Aveva la faccia increspata da rughe e le palpebre cadenti riducevano gli occhi a due piccole fessure blu. Il peso degli anni aveva incurvato la sua schiena e costretto a spostarsi con l'ausilio di un bastone.

«Sono ore e ore che dormi, come ti senti? Aspetta, vado a chiamare qualcuno.»

«Baba, sto bene» disse trattenendolo per il gomito ossuto. «Dammi solo un attimo, possiamo parlare?»

L'anziano osservò il volto della nipote e, anche se non parve molto convinto, accantonò l'idea di avvertire l'intera residenza del suo risveglio. Andò a sedersi sul bordo del letto.
«Cos'hanno i tuoi occhi?»
«Oh, è per questi?» chiese lei, aggiustandosi la montatura sul naso. «Sono un po'irritati, li terrò al riparo dalla luce per un po'. Ma ora ti prego, parlami dei miei compagni, come stanno?»

L'espressione di suo nonno mutò e si fece improvvisamente seria. Esitò qualche attimo, tanto che nella mente di Nina si susseguirono gli scenari peggiori.

«È... morto qualcuno?»

L'anziano scosse la testa.

«No, non ci sono state vittime, ma a seguito di una forte esplosione molti di loro sono rimasti feriti. Attualmente il capitano della vostra squadra non si è ancora svegliato ed è tenuto sotto osservazione nella clinica di Kronen.»
Mentre ascoltava le parole del Nonno, Nina sentì lo stomaco rivoltarsi come un calzino.
«Il resto dell'equipaggio che si trovava sulla nave ha avvistato una luce molto forte sulle alture della montagna, poi si è propagata fino a valle travolgendo tutti.»

Fece una pausa, guardandola da sotto le folte sopracciglia.

«... È un miracolo che tu sia completamente illesa, sei stata recuperata nella zona d'origine dell'esplosione.»

«Si... io...credo di essermi riparata in qualche modo. Mi sento ancora confusa, non ricordo bene...» mentì, evitando il suo sguardo. «Hanno capito cosa l'abbia provocata?» indagò, pallida in viso.

«Be', tutti immaginano sia stato un tentativo mal riuscito di Haeist per liberarsi dei cacciatori.»
Nina batté le palpebre, interdetta.
«Mal... riuscito?»
Il vecchio Torbjörn annuì.
«Lo hanno trovato privo di sensi in mezzo ai cacciataglie.»

Nina spalancò la bocca e dopo qualche attimo la richiuse.

«Cosa... non ho capito... »
Suo Nonno allora le porse un quotidiano digitale che teneva nella tasca interna della tunica e con un gesto della mano la sollecitò a leggere.
Lei titubante pigiò un pulsante sullo schermo e appena lesse il titolo emise un gemito di sorpresa.

"CATTURATO HAEIST! È umano e si trova su Dystòpia!„

Fissò la scritta per diversi secondi, incredula.
Forse, se si fosse trovata in una situazione diversa, avrebbe iniziato a piroettare su sé stessa travolta dalla felicità e con un sorriso allargato fino alle orecchie.
Invece il suo corpo rimase immobile, le labbra strette e il capo chino. Non provò né eccitazione né appagamento.

«Ho capito» rispose semplicemente, facendo scorrere l'articolo digitale. «Cosa ne sarà di lui ora?»

«La legge prevede che ogni individuo sconti la pena sul proprio pianeta d'origine che, in questo caso, sarebbe Dystòpia. Esistono tuttavia alcune... eccezioni.»

Torbjörn raccontò che Haeist in quel preciso momento si trovava nella Prigione di Vetro, confinato in una sezione speciale, e stava dando parecchio filo da torcere alle guardie. Erano stati avviati una serie di interrogatori, ma gli agenti, ormai esasperati, non avevano ancora ottenuto una singola informazione da lui.
Questo fece sentire Nina un po' più tranquilla.
In quanto a Rey Elmòr Barros nessuna traccia. Era apparentemente scomparso nel nulla, assieme alla nave.

«Cara, c'è qualcosa di importante che vorresti farmi sapere?»

Nina ebbe l'impulso di buttarsi in ginocchio e confessare tra le lacrime ogni cosa. Sentiva il bisogno di sfogarsi, essere confortata e rassicurata. Poi avrebbero trovato una soluzione, insieme.
Stavolta, però, si trovava davanti a una differenza decisiva e suo nonno non poteva salvarla dal pugno duro della legge.
Mantenne la decisione di tacere, almeno per il momento.
Si schiarì la voce, assumendo il tono più allegro possibile.

«No, Baba» sorrise. «Non c'è altro.»

Dopo averle dato un'ultima occhiata pensierosa, suo nonno uscì dalla stanza e lei rimase sola.
Respirò profondamente accasciandosi sul letto.
Sapeva di trovarsi in una condizione precaria e che in qualsiasi momento Haeist avrebbe potuto rivelare quanto successo.

Se solo riuscissi a parlargli, pensò Nina, potremmo trovare un accordo che torni utile ad entrambi.
Voltò lo sguardo in direzione della finestra, fissando le sfumature aranciate del cielo.

Sì, andrò oggi stesso.

• • • ∆ • • •

 

Prigioni di Vetro, Kronen

L'agente fece un violento sbuffo e colto da esasperazione tirò una manata sul tavolo, gettando le scartoffie a terra.

«Non mi sono mai sentito tanto umiliato in vita mia, io là dentro non ci torno!»
Gli occhi sporgenti sembravano sul punto di schizzare fuori dalle orbite e il viso paffuto era diventato paonazzo.
Si sbottonò l' uniforme gialla e se la scrollò di dosso con rabbia.
«Sappiamo perfettamente di cosa è accusato, a che serve questo interrogatorio? Lasciamolo marcire in prigione fino alla fine dei suoi giorni.»

Il collega gli rivolse un'occhiata divertita. Facendo un sospiro profondo si chinò per raccogliere i fogli e glieli gettò in grembo.

«Te l'avevo detto John, dovevamo scegliere un altro mestiere» cercò di sdrammatizzare, dandogli una pacca sulla spalla.

Era un omone alto, con dei folti baffi neri e dei piccoli occhietti scuri. Sul petto imponente era appeso un cartellino identificativo: Alexander Marwich.

«Sai bene che si tratta di un caso particolare, lo hai visto con i tuoi occhi. Non si è mai visto un essere umano maneggiare delle fiamme, tutti pensiamo alla stessa cosa ma nessuno ha il coraggio di parlarne. Sembra troppo assurdo per essere reale.»

«Uccidiamolo e basta allora» commentò aspramente l'uomo tarchiato, asciugandosi il sudore dalla fronte con un fazzoletto. «Risparmiamo alla Guardia Galattica il disturbo di venire qui.»

Alexander si fece una grassa risata, come se avesse udito la cosa più spassosa del mondo.
«Ma certo, accomodati allora, il leone ti sta aspettando nella gabbia!» replicò ironico indicando la porta, mentre il collega rimaneva a fissarlo immusonito.
«Senti, continuo io, tu va' a farti una pausa» aggiunse infine, sfilando dalla tasca una grossa pipa laccata di nero. «Ah, John, portami una tazza di Yothee, credo ne avrò bisogno. Senza dolcificante, grazie.»

Lasciò l'ufficio, dirigendosi ancora una volta verso la cella.
Benché lo prendesse in giro, comprendeva perfettamente la reazione del collega: lui, un agente plurimedagliato di una certa età, sentirsi svilire in quel modo da un giovanotto. Era lecito imbufalirsi, perfino davanti a un criminale come Haeist.

Varcata la soglia delle celle l'agente studiò il prigioniero.
Si trattava di un giovane uomo che a occhio e croce non doveva avere più di trent'anni.

«Il tuo amico è scappato?»

«Non sei stato molto carino con lui.» ribatté Alexander, sforzandosi di rimanere serio.

«Nemmeno con te, mi pare, eppure eccoti qui.»

«Sono solo più abituato di lui all'impudenza. Ho dodici figli.»

Haeist fischiò.
Aveva un sorriso furbo sulle labbra e l'aria di chi non ha proprio nulla di che preoccuparsi.

«Come sta la ragazza?»

«Ragazza...» Alexander si arricciò i baffi scuri, riflettendo qualche attimo. «Forse tu intendi la nipote dell'Antico Padre Torbjörn.»

Gli occhi di Haeist si accesero d'improvviso interesse.

«Nipote?» fece eco, sollevando appena le sopracciglia.

«Oh sì» rispose Alexander, dando un'ampia boccata alla pipa. «Gentile da parte tua preoccuparti sulle sue condizioni. A quanto ne so sta magnificamente.»
Scrutò il prigioniero in viso e capì di avere trovato qualcosa su cui fare leva per ottenere la sua attenzione.
«Ho parlato con lei giusto poco fa. Ha chiesto il permesso di recarsi qui oggi stesso per risolvere alcune faccende burocratiche, sai, in quanto principale artefice della tua cattura

•••∆•••

Era stata una telefonata piuttosto lunga.

Dagli Uffici di Giustizia era stata rimbalzata alla Centrale di polizia, e infine era riuscita a parlare con un certo Alexander Marwich, l'agente a capo delle indagini.
Si era presentata per la terza volta e finalmente una voce gentile dall'altra parte del ricevitore l'aveva salutata con calore, congratulandosi con lei.

Le fu automaticamente simpatico.

Ebbe la pazienza di spiegarle la situazione e le diede un appuntamento in giornata per avviare la procedura di riscossione della taglia.
Nina a quel punto aveva domandato se fosse stato possibile parlare con il detenuto e lui, seppur con qualche reticenza, aveva acconsentito.

Durante la chiamata l'agente le aveva spiegato che, eccetto il volto, non si conosceva nulla di lui. L'estrazione del profilo genetico inserito nel database Dystopiàno non aveva portato ad alcun risultato, nemmeno per una ricostruzione genealogica. Insomma, zero assoluto.
Era chiaro che quell'uomo provenisse da un altro mondo e risalire alla sua identità si sarebbe rivelata un'impresa.

Una volta arrivata davanti al cancello della struttura individuò un omaccione in divisa che la stava aspettando. Aveva dei lunghi baffoni pettinati in modo impeccabile e una massa di capelli neri sistemati con la riga d'un lato. Quando lo sentì parlare capì che si trattava di Alexander. La scortò all'interno e, dopo averle fatto firmare alcune scartoffie, la condusse alle Prigioni di Vetro. Camminarono per diversi minuti, incrociando una serie di guardie armate dalla testa ai piedi.

Finalmente giunsero alla sezione speciale, isolata da tutte le altre, e lo vide.
«Credevo fosse immobilizzato.» Mormorò Nina.
«Ha bruciato tutto e le guardie non osano avvicinarsi, temono di essere incenerite.» le bisbigliò all'orecchio Alexander.

Come biasimarli, pensò Nina, che aveva visto con i propri occhi la distruttività dell'arte oscura. La parete trasparente che lo conteneva nella cella era abbastanza resistente, ma l'interno non era progettato per resistere ad un calore così alto.
In cima alla stanza fluttuava una leggera nube di fumo che rendeva l'aria irrespirabile.

Osservò l'agente in volto e capì che doveva essere allo stremo della sopportazione. Gli occhi avevano iniziato a lacrimare e gli attacchi di tosse divenivano sempre più frequenti.
Dopo averla messa in guardia su alcune misure di sicurezza fu costretto a lasciarla sola, correndo a prendere una boccata d'aria.

Quando si girò verso il prigioniero, si accorse che la stava osservando con insistenza.
Abbiamo gli stessi occhi, pensò, notando le iridi scarlatte di Haeist, fisse su di lei.
Sul suo viso però non colse né collera né disprezzo.

«Ecco la mia cacciatrice» disse in tono stranamente allegro. «Begli occhiali.»
Nina colse la frecciatina ma la ignorò. Guardò oltre le sue spalle e con sorpresa realizzò che gran parte della cella era stata ridotta ad una rovina carbonizzata.
«Sai» iniziò a parlare, aggiustandosi la montatura sul naso. «Forse non te l'hanno detto, ma passerai parecchio tempo qui. Non ti conviene dare fuoco proprio a tutto

Haeist ridacchiò cupo.

«Non mi aveva avvertito nessuno» ribatté ironico. Poi il suo sguardo indugiò sulle ferite superficiali della ragazza.
«Per essere due "empi profanatori" ce la siamo cavata piuttosto bene.»

Nina spalancò la bocca e la richiuse immediatamente.
«Chiudi il becco!» sibilò tra i denti, guardandosi alle spalle nervosa.

L'uomo batté le palpebre, sorpreso.
Si sporse verso Nina, abbassando anch'egli la voce.
«Sul serio? Non gli hai detto nulla?» chiese incredulo.

Lei rimase in silenzio mordicchiandosi le labbra imbarazzata, al ché lui capì e inclinò la testa di lato con aria canzonatoria.
I suoi occhi brillavano di puro divertimento.
Dopo un breve momento di riflessione Haeist annuì. «Bene.»
Avevano appena stipulato un accordo.
Condividere un segreto così delicato con lui la faceva sentire in scacco, ma se voleva uscirne viva era l'unica strada da seguire.

«Devi smetterla di usare quelle fiamme, hai già destato parecchi sospetti. Ora sono tutti curiosi di scoprirne la provenienza e puoi scommetterci che lo faranno, anche senza la mia testimonianza.»

«Si direbbe quasi che tu sia preoccupata per me.»

«Non dire sciocchezze» borbottò lei rossa in viso, «Tu invece sembri fin troppo calmo, hai idea di cosa significhi essere processati dal Consiglio?»

«Morte, suppongo.»

Lo disse in tono oscenamente tranquillo, come se fosse una cosa di poco conto.

«Be', supponi bene!» esclamò sconcertata.

Nina si sentì sciocca, ma quella spavalderia arrogante non faceva altro che alimentare l'ammirazione che provava nei suoi confronti.
Si raccomandò ancora una volta con l'uomo affinché non peggiorasse inutilmente la sua posizione, ma la porta si spalancò, troncando di netto il suo discorso.
Quando vide Alexander, seguito da un tipetto corpulento, capì che la loro conversazione era giunta al termine.

«Nina» la chiamò Haeist a bassa voce. «Hai fatto un ottimo lavoro.»

La ragazza lo guardò stranita.
Ora che non indossava più la maschera, aveva il vantaggio di vedere la sua espressione e Nina capì che non la stava prendendo in giro. Tutto a un tratto si era fatto serissimo.

«La prossima volta sarò io a venire da te.» sussurrò piano, lasciandola spiazzata.
 

• • • ∆ • • •
 

I due agenti osservarono con interesse i due giovani occupati a scambiarsi sguardi intensi di chi condivide un segreto intimo.
Poi Nina, come destata da un sogno, si voltò verso le guardie, e con sgomento riconobbe sul volto di Alexander un'espressione strana, come se si fosse appena accorto di qualcosa.

Portò una mano al viso, rendendosi conto di avere le guance bollenti. Si allontanò velocemente da Haeist.
«S-se abbiamo concluso la parte burocratica dovrei andare.»
Chinò il capo e senza aspettare una risposta si avviò verso l'uscita a passi spediti.

John e Alexander si scambiarono delle occhiate indecifrabili, poi si sussurrarono due parole all'orecchio.
A quel punto rivolsero l'attenzione ad Haeist, che li stava fissando torvo.

 

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Capitolo 11
*** LA SFILATA DEI FOLLI ***


Capitolo dieci: La Sfilata dei Folli

 





Quella sera Nina scelse di non tornare a Palazzo.

Troppe persone moleste desideravano farle il terzo grado e in quel momento non ne aveva affatto voglia. Senza dire nulla ad anima viva si rifugiò nell'appartamentino da lei acquistato un paio di anni prima, una piccola ma deliziosa mansarda che usava in rare occasioni.

Chiuse bene la porta e non si premurò nemmeno di accendere luci. 
Si avvicinò al divano a sacco posto nel mezzo del soggiorno e vi ci sprofondò dentro.
Rimase lì, a fissare l'ampio lucernario.
Aveva dimenticato quanto fosse rilassante e romantico quel panorama.

Si impegnò a scrutare le costellazioni e i pigmenti delle nebulose, godendosi il silenzio, senza pensare a niente.
Le palpebre calavano per la stanchezza, ma ogni volta che provava a lasciarsi andare vedeva il volto di quell'uomo. 
Si rannicchiò su un fianco, tirando la coperta fin sopra il naso. Si rigirò a destra e a sinistra nel pouf e quando comprese che non si sarebbe addormentata tanto facilmente si rimise a sedere.

Rifletté sulle ultime parole che le aveva rivolto Haeist e fu attraversata da un brivido.

«La prossima volta verrà lui, ha detto...»
Mormorò nascondendosi il viso tra le mani.
«Come dovrei sentirmi adesso?»


 

•••∆•••
 

Quella notte si prospettava rigorosamente bianca per Nina così, dopo essersi crogiolata nel letto, decise di uscire e godersi le ultime ore del Carnevale. I festeggiamenti si sarebbero conclusi proprio quella sera con la Sfilata dei Folli.

Appena scese in città Nina finì proiettata in un carnaio animato da musiche travolgenti e colori accesi. L'aria era carica di odori: alcool, sudore, cibo, fumo. Assomigliava a una grande discoteca a cielo aperto, ma molto più sfrenata e sfarzosa. Nel mezzo della strada sfilavano enormi carri allegorici accompagnati da orchestra e ballerini.

Improvvisamente su tutti gli schermi della città comparve un messaggio lampeggiante scritto a caratteri cubitali.

Nina guardò in su e strizzò gli occhi, non sicura di avere letto bene. Era l'ordinanza di sospendere all'istante ogni festeggiamento e liberare le vie principali della città, alla base di quella richiesta assurda nessuna motivazione.

Nina inarcò le sopracciglia, osservando scettica la folla che incurante continuava a orbitare intorno ai carri e la banda di musicisti. Certe persone, già ubriache fradice, si prendevano gioco dei poliziotti che senza alcuna speranza tentavano di sciogliere il corteo.
I visitatori alieni invece facevano orecchie da mercante, continuando a godersi quella fantasmagoria.

Tese l'orecchio, cercando di captare qualche informazione nel fitto vociare del pubblico:


 

"Più avanti la polizia sta cercando di fare evacuare la gente, ma si rifiutano di darci spiegazioni„

 

"Forse non vogliono scatenare il panico?„

 

"Ehi, mia cugina mi ha appena scritto, dice che nel quartiere di Hoven è appena scoppiato un incendio!„

 

Nina sbiancò, iniziando a capire cosa stava accadendo.

Non può essere, in quel quartiere si trovano le prigioni...che sia...?

Le venne naturale indietreggiare infilandosi in un vicoletto nascosto. Rimase lì per qualche minuto con il fiato sospeso, guardandosi intorno impaurita. Il cuore le rimbalzava nel petto come una pallina impazzita e una sensazione strana si fece largo dentro di lei, come una vibrazione crescente che le contorceva le viscere. Capì che il suo corpo le stava suggerendo di scappare da qualcosa che si avvicinava.

Di colpo le mancò l'aria nei polmoni. Avvertì due forti braccia circondarle la vita in una stretta crudele e una voce le sussurrò all'orecchio:

«Mantengo sempre le promesse»

Nina spalancò la bocca dalla sorpresa ma le fu subito tappata da una mano.

«Sssst...»

Si sforzò di guardare oltre la sua spalla e incontrò un paio di occhi affilati che la fissavano.

«Non urlerai, non cercherai di fuggire o di attirare l'attenzione. Se lo farai sarò costretto a usare i miei poteri in mezzo a tutte queste persone. Afferrato?»

Nina annuì energicamente e dopo una breve esitazione sentì la presa sul suo corpo allentarsi.
Haeist la fece voltare verso di lui, le sfilò gli occhiali dal naso e le alzò il mento esaminandole il viso con attenzione.

«Abbiamo gli stessi occhi» commentò con una nota compiaciuta nella voce. Poi iniziò a farle una serie di domande, con un espressione serissima:

«Qualcuno ti ha vista?»

«No»

«Pensi di avere destato sospetti?»

«No»

«E i tuoi poteri? Riesci a tenerli a bada?»

Fece segno di si con la testa.

«Sicura?»

Nina esitò un attimo, facendo fatica a guardarlo negli occhi.

«Credo di sì.» Rispose in un mormorio.

L'uomo la fissò con intensità, poi abbozzò un sorriso e le strinse le guance tra le dita facendole emettere un lamento contrariato.

«Cos'è tutta questa docilità? Volevo fare un po' il bullo per vendicarmi, ma se continui a guardarmi così mi farai sentire in colpa.»

Tirò su il cappuccio e ignorando le sue deboli proteste la trascinò fuori dal vicolo, mescolandosi tra la folla.
Una volta riacquistato il pieno controllo di sé Nina tornò a parlare:

«Vuoi uccidermi?»

«Non ho ancora deciso.»

Lei spalancò la bocca e solo quando le rivolse un'occhiata divertita capì che la stava prendendo in giro.

Ma che... bastardo.

Haeist diede un piccolo strattone a Nina, impedendole di scontrarsi con un uomo che sorreggeva due enormi boccali di birra.

«In realtà ho bisogno del tuo aiuto» aggiunse poi, parlando a bassa voce. «Il modo più veloce e discreto per allontanarsi dal centro è usare l'Hyperdrive, ma come ben saprai solo i nativi possono farne uso.»

Nina lo guardò sorpresa.
In effetti gli stranieri avevano solo due possibilità per salire a bordo dei mezzi ad alta velocità: con un visto speciale o con la presenza di un accompagnatore dystopiàno. Era una misura discutibile, ma permetteva un maggiore controllo sugli spostamenti.

«Quindi è vero, non sei un Dystopiàno»

Haeist schioccò la lingua.

«No Detective»

Rallentò il passo fino a fermarsi e appoggiò entrambe le mani sulle spalle della ragazza.

«Se mi dai una mano riusciremo a raggiungere la periferia più in fretta, passando per un canale meno trafficato. Niente polizia, niente scontri spiacevoli, niente feriti. È la soluzione migliore»

«Ho poco margine di scelta, non credi?»

«Si, non ne hai» ribatté calmo lui.

La giovane alzò appena la testa, osservandolo da sotto le folte ciglia. «D'accordo, ma in cambio voglio farti alcune domande».

L'uomo alzò le sopracciglia, sorpreso.

«Non sapevo fossi nella posizione per negoziare»

«Allora consideralo un incentivo per spronarmi a collaborare meglio»

«Ah, davvero?» chiese divertito, osservando l'espressione determinata di Nina. Esitò qualche attimo, poi acconsentì con un cenno del capo.

«Bene, allora abbiamo un accordo.»

 

•••∆•••
 

Stazione Hyperdrive

L'Hyperdrive, seppur vetusto e arretrato rispetto ad altri pianeti, era in assoluto il mezzo di trasporto più rapido perché sfruttava la tecnologia spazio-temporale. 
Le cabine erano piuttosto piccole con tre, massimo quattro posti a sedere compreso quello del guidatore. Sostavano in coda sulle rotaie, pronte per attraversare il grosso tunnel a distorsione temporale che avrebbe ridotto di parecchio la durata del viaggio. Ne scelsero una a caso, poi la ragazza appoggiò il polso sullo scanner e una spia verde iniziò a lampeggiare sul display:

Benvenuta a bordo. Hai scelto il veicolo 0-4-8-9-4....

Nina strinse nelle spalle, sbirciando la plancia di comando attraverso il finestrino.

«Be' dovrai guidare te»

Haeist si voltò verso di lei.

«Eh?»

Nina fece spallucce.

«Io questo affare non so guidarlo»

Ci fu un momento di silenzio.

9-8-2-0....

«Non parli sul serio»

«Certo che parlo sul serio.»

Si fissarono per qualche attimo, poi Haeist scosse la testa e andò a sedersi al posto del guidatore.

«Male, male» la rimbeccò. «Non ti stai impegnando a dovere per rispettare il nostro accordo, sappi che potrei ritrattare.»

Entrò anche lei all'interno della cabina e lo sportello si chiuse alle sue spalle facendo un gran baccano. Lo vide armeggiare tra leve e pulsanti e, senza troppa sorpresa, vide il veicolo iniziare a muoversi.

«Visto? Haeist sa fare qualunque cosa» commentò sarcastica accomodandosi lì accanto.

Quel viaggio sarebbe durato una manciata di minuti, giusto il tempo di scambiare due parole con lui.

«Tanto per iniziare» iniziò a parlare Nina, «Mi piacerebbe sapere che ne è stato di Rey.»

Sul viso di Haeist calò un'espressione scocciata.

«Ho lasciato il Sacerdote davanti all'ingresso del Tempio, legato da testa a piedi. È stata l'ultima volta che l'ho visto. Quando sono tornato in superficie era sparito, sfortunatamente

«È riuscito a fuggire?»

«Non ne ho idea e non mi interessa»

Fece una breve pausa, poi riprese a parlare:

«E non dovresti preoccuparti nemmeno te, considerato che sei diventata un suo bersaglio ora.»

Nina scoppiò a ridere guadagnandosi un'occhiataccia.

«REY? Non mi farebbe mai del male!»

«No? Credi che non proverà a ucciderti alla prima occasione? Non so che tipo di rapporto abbiate, né da quanto tempo vi conosciate, ma i Sacerdoti del culto dei Grandi Spiriti fanno esattamente questo: uccidono chi, dal loro punto di vista, è corrotto...e che ti piaccia o no, mia cara, lo sei.»

La crudezza di quelle parole la lasciò di stucco. Non seppe neppure come ribattere, perché quel che diceva Haeist non faceva una piega. Nina però riconosceva la bontà in un uomo ed era certa che, se mai si fossero rincontrati, Rey l'avrebbe ascoltata comprendendo la sua situazione.

Cercò di cambiare discorso.

«Mi dici come ti chiami?» gli chiese a bruciapelo.

«Ah-ah, domanda respinta.»

Nina arricciò il naso e si abbandonò contro il finestrino della cabina emettendo un sonoro sbuffo.

«Intendevo solo il nome» brontolò, «che differenza vuoi che faccia?»
 

Non ricevette risposta e presto solo il ronzio del tunnel riempì il silenzio tra loro.

A pochi passi da lei dentro quell'abitacolo angusto sedeva un criminale letale, eppure in cuor suo sapeva di non correre alcun pericolo. Inverosimilmente iniziava a sentirsi a proprio agio. Perse qualche momento a osservarlo mentre era occupato alla guida. Sulla guancia, proprio sotto la barba scura, si intravedeva un taglio sottile che immaginò fosse opera di Rey. I capelli nerissimi erano perennemente trattenuti in un bun in cima al capo e si chiese quanto fossero lunghi da sciolti.

Assomiglia a un samurai, pensò divertita, immaginandolo con altri abiti addosso.

«Non hai caldo vestito così?» gli chiese nel tentativo di spezzare il silenzio. Lui scrollò le spalle.

«Nel posto dove sono cresciuto le temperature sono ben più alte»

«Dev'essere l'Inferno.»

Haeist si sforzò di rimanere serio ma i suoi occhi sorridevano.

Finalmente, dopo interminabili minuti, giunsero a destinazione. Quando scesero dal veicolo si resero conto di essere gli unici in tutta la stazione.
 

•••∆•••
 

Mentre si allontanavano a passi svelti si chinò su di lei, sussurrandole qualcosa tra i capelli.

Nina si voltò di scatto.

«Davvero?»

Lui le strizzò l'occhio e in risposta vide un sorrisetto allargarsi sul viso della ragazza, nello sguardo una sfumatura di emozione.
 

Lukasz, mimò Nina con le labbra.







 

*Lukasz: pronunciato Lukash

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Capitolo 12
*** LA STELLA CHE TI PORTA FUORI ROTTA ***


Capitolo undici:La stella che ti porta fuori rotta

 


La periferia aveva l'aspetto di una sconfinata distesa di sabbia. Nessuna casa o edificio, nessuna costruzione che facesse supporre la presenza di civiltà. I due umani erano ormai completamente soli nel raggio di miglia e miglia.

L'uomo rimase a fissare la ragazza a braccia conserte, con un'espressione che non presagiva nulla di buono.

«Cosa stai tramando?» chiese Nina guardandolo con sospetto.

«In tutta onestà, trovo il tuo comportamento piuttosto ambiguo» esordì Lukasz scuotendo la testa, «hai mentito alle autorità... sei venuta dritta da me chiedendomi di tenere la bocca chiusa...»

Le lanciò un'occhiata maliziosa.

«Sai, stride un po' con i valori che ti vanti di seguire.»

«Non è come dici tu» rispose lei con la fretta di chi deve difendersi da un'accusa, «ho solo...omesso qualche dettaglio per guadagnare del tempo, è diverso.»

Lui schioccò le dita con un'enfasi teatrale.

«Oh, ma allora è tutta un'altra storia! Scusa se ho mal interpretato le tue nobili intenzioni.»

Nina strinse le labbra in una smorfia, infastidita dal suo sarcasmo.

Ne aveva abbastanza di quelle insinuazioni non troppo velate, con quale razza di faccia tosta si permetteva di giudicarla?

«Senti» gli rispose a denti stretti, «non ho nessuna intenzione di lasciarci la pelle, si è trattato di un maledetto incidente e voglio trovare una soluzione al più presto.»

Lukasz le rivolse un sorriso machiavellico, soddisfatto di quel primo rigurgito di sincerità.

«Moya malen'kaya lysa...» Parlò in una lingua che il traduttore di Nina non riconobbe.

«E dimmi, hai un piano? Intendo a parte startene lì a tergiversare e sperare di non essere scoperta.»

No, non l'aveva. Ma ovviamente tenne per sé quel particolare.

«Che ti importa? Hai ottenuto ciò che volevi, sei riuscito a farla franca e ora hai l'occasione perfetta per scappare. Stai perdendo del tempo prezioso.»

Fece un gesto con le mani come per scacciarlo.

«Forza, vai» lo esortò, «sei libero, corri dai tuoi amici.»

Lui non si schiodò di un centimetro e rimase a fissarla divertito. «I miei amici?» Ripeté alzando un sopracciglio. «D'accordo, mi sembra di capire che tu non abbia un piano.»

Lei roteò gli occhi esasperata.

«Chi è che sembra preoccupato ora?» lanciò quella provocazione nella speranza di farlo desistere, ma lui rimase imperturbato.

«Infatti lo sono» affermò Lukasz con disarmante candore, «l'idea di lasciarti in pasto a quegli agenti non mi piace per niente.»

L'aria di era fatta densa e carica di elettricità.

Si lanciarono degli sguardi univoci, gli stessi che si erano scambiati nelle prigioni di vetro qualche ora prima, e in un momento di timidezza Nina abbassò la testa nascondendo con tenera goffaggine il rossore sulle guance.

Non ebbe il coraggio di chiedergli spiegazioni.

Non covava più rancore o sentimenti ostili nei suoi confronti, ma l'emozione che la pervadeva quando stavano assieme iniziava ad allarmarla.

Tossicchiò mantenendo gli occhi bassi.

«Quindi... che suggerisci di fare?»

«Appena calerà il minimo sospetto su di te saranno proprio i tuoi compagni a tradirti per primi, non si faranno scrupoli. A tal proposito... è da un po' che volevo chiedertelo: sei sicura che su Xirria non ti abbia visto nessun'altro a parte me?»

Nina si mordicchiò le labbra.

Non ne era affatto sicura perché metà dell'equipaggio non aveva ancora ripreso conoscenza e, di conseguenza, mancavano numerosi rapporti sulla missione, primo tra tutti quello del Capitano.

Scosse la testa.

«Lo immaginavo» sospirò lui picchiettando le dita sul braccio, «puoi anche cercare una soluzione per i tuoi poteri ma è chiaro che per il momento non puoi restare qui. Devi fuggire al più presto.»

«E come, non ho nemmeno una nave.»

«Tu no, ma io sì.»

Si guardarono per qualche secondo e Nina lentamente cominciò a capire dove volesse arrivare.

«Non vorrai rapirmi?» chiese guardandolo con orrore.

«E manlevarti da ogni responsabilità? Non credo proprio cara. Voglio che sia te a chiedermelo.»

Nina lo guardò smarrita.

«Chiederti... cosa

«Di portarti con me, ovviamente»

L'assurdità di quelle parole la lasciò impietrita. Dalle sue labbra emersero solo una serie di balbettii.

«I-io... tu... perché?»

«Ti sto dando l'opportunità di salvarti.»
 

«Mi stai... proponendo di diventare una fuorilegge? Non ci penso proprio!» obiettò la ragazza.

«Ma Nina... lo sei già» disse in tono sommesso, «è solo questione di tempo, l'Arte Oscura non è qualcosa che si può nascondere facilmente.» La vide aprire la bocca per ribattere ma lui la interruppe prima che potesse aggiungere altro:

«No, tuo nonno non può fare nulla per contrastare le leggi del Consiglio.»

Le si inumidirono gli occhi e dovette fare un enorme sforzo per trattenersi. «Be' allora... allora preferisco morire!» rispose a fatica per il groppo alla gola che le si era formato.

L'uomo la guardò con un'espressione così severa che a Nina si contorse lo stomaco.

«Non dire così, sappiamo entrambi che non è vero.»

Tacque per qualche momento osservandola pensieroso, mettendosi poi a sedere in mezzo al deserto. Strinse con forza il pugno sinistro e dopo pochi secondi una debole luce bianca iniziò a pulsare a intermittenza sul palmo della sua mano.

«E adesso che stai facendo?»

«Sto chiamando i miei uomini»

Nina lo guardò scioccata. Era un dispositivo di geo localizzazione?

«Intendi rimanere qui ad aspettarli? Ci metteranno una vita.»

«Ma figurati. Sono sopra le nostre teste già da un pezzo, attendevano solo il mio segnale.»

«Vuoi dire che per tutto questo tempo conoscevano la tua posizione?»

Lukasz non rispose e rimase concentrato sulla luce.

Nina alzò il naso per scrutare il cielo ma si sentì subito una sciocca. Era scontato stessero usando gli scudi mimetici per sorvolare indisturbati le terre dystopiàne.

Durante l'attesa si susseguirono minuti di profondo silenzio e lei ebbe modo di riflettere sulla conversazione appena affrontata. Le parole di Lukasz le avevano aperto gli occhi e ora poteva vedere chiaramente la melma in cui stava sguazzando.
Certo, forse era stata tutta una tattica di manipolazione, ma non aveva torto: farsi trasportare passivamente dagli eventi non avrebbe risolto proprio nulla, non era quel tipo di problema.

Com'era quell'espressione che usava spesso suo nonno? Ah sì, non poteva continuare a ignorare l'elefante nella stanza.

Mentre rimuginava tra sé e sé riconobbe che non doveva essere stato semplice nemmeno per lui farle una proposta del genere, eppure era disposto a correrne i rischi.

Già, ma perché?

Forse ora che ho questi poteri preferisce avermi come alleata piuttosto che come nemica.

Una cosa era certa: doveva tornare a tutti i costi alla normalità e forse la risposta ai suoi problemi era nascosta là fuori, da qualche parte nella galassia.

Si sedette anche lei in mezzo agli arbusti, continuando a rimuginare.

 

•••∆•••
 

Dopo interminabili minuti una luce intensa iniziò a calare dal cielo avvicinandosi sempre di più ai due umani.

«È ora di fare la tua scelta» disse Lukasz voltandosi verso di lei, «sto aspettando.» La sollecitò.

Nina se ne stava seduta poco più in là, raggomitolata in mezzo alle dune, in un mutismo ermetico. Presto delle lacrime iniziarono a rigarle le guance e nascose il viso tra le mani.

Lukasz non batté ciglio e la lasciò sfogare rimanendo in un rispettoso silenzio. Ogni resistenza di Nina stava cedendo, pezzo dopo pezzo, e quei singhiozzi ne erano la prova.

Quando riuscì a calmarsi alzò gli occhi lucidi su di lui.

Esitò qualche attimo, come se stesse raccogliendo tutto il coraggio che aveva in corpo.

Emise un respiro tremulo e finalmente parlò:

«Lukasz... portami con te.»

 

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Capitolo 13
*** LIBERO ARBITRIO ***


Capitolo dodici: Libero arbitrio



 

In un fascio di luce l'Estus apparve.

Imperioso e immenso.

Era un gioiello di ingegneria aliena con scudi e cannoni all’avanguardia, così temuto da generare scompiglio al solo avvistamento. Nel momento in cui atterrò una folata di sabbia si alzò da terra investendoli entrambi.

Lukasz si girò verso Nina.

Ne sei sicura? Le domandò prima di salire a bordo.

Lei annuì, ancora con gli occhi lucidi.

Appena varcarono l’ingresso della nave furono circondati da almeno una trentina di mercenari che lo accolsero con fervore dopo una trepidante attesa.
Quella scena la colpì, perché non aveva mai visto un umano suscitare tanto rispetto e devozione tra le altre razze, men che meno in ambienti militari.

Presto però l’attenzione si spostò su Nina, che camminava mestamente dietro di lui e la reazione fu diametralmente opposta: i loro occhi infatti si colmarono di rabbia e fu investita da una serie di grugniti e minacce. Accidentalmente incrociò lo sguardo con un mercenario e vi lesse un odio così feroce che il suo primo impulso fu quello di aggrapparsi al mantello di Lukasz.

«Credo avrò vita breve quassù» bisbigliò Nina, premurandosi di stargli vicino. «Forse valeva la pena restarmene dov’ero. Certo, non sarei sopravvissuta molto, ma almeno sarei arrivata all’alba di domani.»

«Piantala» le rispose lui, «per quanto possano essere contrari si limiteranno ad accettare la mia decisione. Qui nessuno si azzarderebbe a disobbedirmi, per nessuna ragione.»

Fece loro un cenno e ogni ruggito cessò all’istante.

Si addentrarono per i corridoi della nave, allontanandosi da tutta quella attenzione. Varcarono una serie di porte e finalmente furono soli.

«Inoltre…» proseguì, «non credo di esagerare nel dire che ora sei una delle creature più forti della galassia. Non dovresti avere paura di loro.»

Invece di sentirsi rassicurata Nina rabbrividì.

«Non userò mai più quei poteri, per nessuna ragione.»

Lukasz le lanciò un’occhiata enigmatica.

«Vedremo.» disse semplicemente.

Mentre camminavano per i corridoi la ragazza continuava a guardarsi intorno, avida di cogliere informazioni su quel posto dall’aspetto labirintico.

D’un tratto, svoltata una curva, si trovarono faccia a faccia con un individuo dalla statura imponente e con degli spettrali occhi violacei cerchiati di scuro.
Nina capì che si trattava di un androide per via del colore dei capelli, di un inconfondibile verde acceso, contrastante con l’incarnato pallido.

Lo vide accennare un inchino a Lukasz e poi il suo sguardo si spostò su di lei, osservandola con attenzione.

Anche Nina lo studiò incuriosita.

Gli androidi l’avevano sempre messa in soggezione. Non c’entrava nulla la limitata capacità espressiva, era piuttosto il fatto che non sbattessero mai le palpebre. Mai.

Parlavano con gli occhi sbarrati, vacui, fissi sull’interlocutore.

«Lui è Morlin» lo presentò, «conosce i bisogni degli esseri umani e in mia assenza potrai fare riferimento a lui, ma ricorda, risponde solo ai miei ordini.»

Bella fregatura, pensò Nina, un androide che non posso nemmeno comandare.

Morlin non disse niente, continuò a studiarla in modo insistente e dopo qualche attimo si rivolse al padrone.

«Rilevo un dispositivo non sicuro, nella tasca destra.»

Quindi Lukasz si girò verso di lei e protese la mano aspettando che glielo consegnasse.

«Forza» la sollecitò, «bisogna sbarazzarsene subito prima che lo usino per rintracciarci.»

Nina fulminò Morlin con lo sguardo. Quel maledetto si era accorto del telefono.

«Un momento» disse lei portandosi la mano in tasca, «non c’è un modo per renderlo innocuo? Mi sembra di avere letto una guida tempo fa e…»

L’uomo avanzò di un passo e lei arretrò di due.

«Vuoi darmelo te o devo strappartelo dalle mani?»

«Aspetta un attimo voglio solo… e-ehi, fermo… aaah!»

Non le diede tempo di balbettare scuse e in un batter d’occhio le fu addosso prendendolo con la stessa facilità di quando si toglie un gioco a un bambino.

Proprio in quel momento il telefono trillò cogliendoli entrambi di sorpresa e prima che potessero fare qualsiasi cosa una voce squillante iniziò a sbraitare:

«SI PUÒ SAPERE DOVE SEI FINITA!?»

La voce di Johann riecheggiò per tutto il corridoio e Lukasz allontanò bruscamente l’aggeggio, infastidito da tutto quel baccano. Nina invece trattenne il respiro portandosi le mani al volto.

«Ma che diavolo…»

«Eh? E tu chi cazzo sei? Muoviti e passami Nin-»

Lukasz pigiò il tasto e terminò la chiamata sul nascere, rimanendo a fissare il telefono con un’espressione spaventosa, quasi ringhiandoci contro.

Se avesse Johann davanti probabilmente gli darebbe fuoco, pensò lei.

«Ehm…quello poi me lo restituisci, vero?»

L’uomo fece oscillare lo sguardo tra Nina, che lo stava fissando speranzosa e il telefono. Poi si rivolse a Morlin e glielo passò.

«Pensaci te.»

«Sissignore.»

Nina fece per corrergli dietro ma Lukasz l’acchiappò per un braccio bloccandola.

«Ferma dove sei. Mi sono dimostrato più che indulgente con te, ora però è il momento di porre anche le mie condizioni, non trovi? Per prima cosa voglio che mi giuri lealtà. Lo reputo il minimo dopo averti accolta sulla mia nave.»

«Intendi… non ostacolarti, non tradirti e cose del genere?»

«Cose del genere, sì.»

Nina ci pensò un po’ su e convenne che dopotutto quella fosse una richiesta ragionevole.

«Va bene, lo giuro.» rispose in modo frettoloso.

«Un po’ misero come giuramento, puoi fare di meglio» la incalzò, alludendo a qualcosa di più articolato. Lei si guardò intorno, non sapendo bene cosa dire. Non le piacevano i discorsi forzati, le parole faticavano sempre a uscire di bocca.

«Io giuro di-»

«E voglio che mi guardi negli occhi quando mi dai la tua parola.» la interruppe bruscamente, al ché Nina drizzò la testa con espressione frustrata.

«Io, Nina Björklund, giuro di non tradire la tua fiducia, di rispettare l’equipaggio, le leggi della nave…» si sforzava di rimanere seria ma nonostante la situazione le veniva da ridere, «…di essere sempre limpida nelle intenzioni…»

L’uomo intervenne facendole segno con la mano di smettere.

«Va bene, va bene. Basta così, sei imbarazzante» disse, anche lui col sorriso sulle labbra, «per il momento cercherò di accontentarmi.»

Poi sancirono un accordo.

Le offriva la possibilità di separarsi dall’Estus in qualsiasi momento se lo avesse voluto, ma in tal caso non sarebbe più potuta tornare a bordo. Inoltre Lukasz stabilì che durante tutta la permanenza sulla nave era obbligata a rendersi utile al pari degli altri componenti dell’equipaggio e, cosa non meno importante, rispettare la sua autorità.

«Ti concederò qualche deroga» aggiunse, «sarai esonerata dalle missioni esterne, non tutte, ma la maggior parte. Almeno per il momento.»

Nina si sentì in dovere di mettere in chiaro fin da subito una questione.

«Io non sono un’assassina, né una ladra.» lo avvertì, marcando una netta linea di confine. Negli occhi una luce decisa, risoluta. Su quello non sarebbe mai scesa a compromessi.

«Non ti chiederò mai nulla di simile» la rassicurò, «ti do la mia parola.»

La ragazza esitò qualche attimo e infine si strinsero la mano per suggellare il patto.

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Capitolo 14
*** TEMUTO E AMATO ***


Capitolo tredici: Temuto e amato




 

Era chiaro che Lukasz stesse concedendo a Nina il tempo e lo spazio necessari per abituarsi alle nuove circostanze e in un primo momento le fu enormemente grata per questo. Adesso però sentiva il bisogno, anzi l’urgenza, di occupare le giornate in qualche modo.

Il suo unico passatempo era quello di immergersi in lunghe  esplorazioni all’interno della nave. Si trovava a camminare per intere ore, perdendosi nel groviglio di corridoi senza una destinazione precisa.
Le strade si diramavano e si ricongiungevano, s’incurvavano e si interrompevano di colpo. Spesso, dopo aver percorso un corridoio per diversi minuti, era costretta a tornare indietro perché alcune aree le erano precluse e non sarebbe riuscita ad accedervi nemmeno volendo. I sensori delle porte si azionavano solo in presenza del comandante e di pochi altri membri.

Gli spostamenti verticali avvenivano per mezzo di elevatori che permettevano di scendere o salire tra i livelli con estrema rapidità. Grazie a essi era possibile raggiungere in un batter d’occhio la zona intermedia, laddove erano situate le cabine riservate all’equipaggio.
Quella del comandante, invece, era posta all’ultimo livello e sebbene non vi fosse alcuna regola esplicita che ne vietasse l’accesso, tutti si premuravano di starne alla larga.

Da quando Lukasz aveva tenuto un discorso con l’equipaggio ogni  sguardo torvo, atteggiamento aggressivo o minaccia erano cessati.
Tutti sembravano essersi ammansiti di colpo nei confronti di Nina, forse anche troppo, perché ora incrociandoli per i corridoi cambiavano strada o acceleravano il passo superandola.
Se si imbatteva in un gruppo di soldati questi smettevano all’istante di chiacchierare e le passavano accanto a testa bassa, come intimiditi dalla sua presenza.

Un giorno adocchiò un tizio aggirarsi con una pila di casse sulla schiena e gli si avvicinò con una tale sicurezza che questo, colto alla sprovvista, non fece tempo a cambiare strada. Lo salutò e gli offrì una mano per trasportare la merce, ma la creatura rimase a fissarla perplessa.

«Ti manda il comandante?»

Si guardava attorno a disagio, come per controllare che nessuno li vedesse parlare.

«Be’ no… volevo solo essere d’aiuto.»

Lui non parve molto convinto ed esitò qualche attimo, incerto se assecondarla. «Credo dovresti rivolgerti al capo.» disse infine e con una scusa si defilò scomparendo dietro l’angolo.

La ragazza sbuffò.
Rivolgersi al capo? Certo, l’avrebbe fatto volentieri, ma intercettare Lukasz era davvero un’impresa.
Era sempre indaffarato. Saettava da una parte all’altra della nave con una schiera di soldati che gli orbitava perennemente intorno.

Se davvero voleva parlargli a quattr’occhi e senza la presenza di spettatori ficcanaso c’era un’unica soluzione per quanto poco ortodossa. Era umano dopotutto, no? Prima o poi anche lui avrebbe scaricato le energie e si sarebbe ritirato nella propria cabina per riposarsi.
Lì all’ultimo livello della nave dove nessuno osava mettere piede… be’, nessuno tranne lei.
L’unico modo per arrivarci era utilizzare un passaggio apposito, perché gli elevatori arrivavano solo fino al trentesimo e penultimo piano.

Aspettò pazientemente il momento più propizio e quando fu sicura di trovarlo nei suoi alloggi partì alla carica dirigendosi verso le scalette. Nel suo piano perfetto aveva trascurato tuttavia un piccolo, insignificante problema: la mano di Morlin che comparsa dal nulla la afferrò per un braccio facendola arrestare di colpo.

Nina si voltò fulminandolo.

«Lasciami andare. Subito.» lo avvertì seria, per nulla intimidita dalla mole dell’androide che per fortuna la liberò all’istante. «Devo vedere il comandante.» spiegò sistemandosi la maglietta.

«Spiacente, il comandante sta riposando. Potrai parlare con lui quando tornerà in servizio.»

Nina inalò forte dal naso reprimendo l’impulso di scrollarlo per le spalle e fargli scomparire quell’espressione ebete dalla faccia.

«Non hai capito, io ho urgenza di parlare ADESSO con lui.»

«Impossibile, dovrai aspettare che scenda lui.»

Si piazzò proprio davanti alle scale sbarrandole il passaggio e Nina rimase a fissarlo in cagnesco riflettendo sul da farsi.
Durante una conversazione, il modo migliore per avere la meglio su un androide era usare la logica, l’aveva letto in un articolo.

«Morlin, recarsi all’ultimo piano è contro le regole?»

L’androide esitò interdetto.

«Negativo.»

«E se non erro Lukasz ha detto che posso cercarlo come e quando voglio, giusto?»

Questa volta ci fu una lunga pausa di riflessione, come se i suoi ingranaggi fossero in conflitto tra loro.

«È corretto.»

Eccellente.

«E dimmi, oggi ti ha forse raccomandato di non fare passare nessuno?»

«Non l’ha detto.»

Nina si strofinò le mani con impazienza.

«Di conseguenza posso salire, dico bene?»

Lo vide aprire la bocca e richiuderla subito dopo.
Aveva davvero l’aria di un bambino imbrogliato da un giochetto elementare.

«…Affermativo.»

Nina non se lo fece ripetere una seconda volta e gli trottò davanti con fare altezzoso superandolo.

Eheh… stupido androide.

Salì le scale spingendosi fino all’ultimo piano e appena raggiunse la cabina si bloccò. Fu percorsa da un brivido di eccitazione, come se avesse appena raggiunto un traguardo. Quel posto appartato rappresentava la parte più riservata, intima e segreta di Haeist: il suo rifugio.

Alzò il pugno in aria per bussare alla porta.

 

 

•••∆•••

 


Pov Lukasz

Da quanto tempo non dormiva?

Seguire una nave popolata da creature con un ciclo di sonno diverso era assai complicato e spesso finiva per dimenticare le proprie esigenze.
Se non fosse stato per gli insistenti solleciti di Morlin sarebbe rimasto immerso in un’altra sessione di lavoro a discapito della propria salute. Da quando aveva messo le mani sulla reliquia sentiva di avere molta più resistenza rispetto a prima ma, alla fine, rimaneva comunque un umano.

Mentre fissava il soffitto avvertì uno sfrigolio di energia attraversargli il corpo. Era una sensazione piacevole, una vibrazione che aveva sperimentato anche nei giorni passati e si ripeteva ogniqualvolta si trovasse nelle vicinanze di Nina.
Immaginò fosse un fenomeno collegato all’arte oscura che si innescava in presenza di un individuo della stessa specie, una sorta di meccanismo di riconoscimento.
Aveva senso. Condividevano un potere nato dallo stesso frammento e questo, in un modo o nell’altro, li legava.

Rimaneva un solo punto da chiarire.

Cosa ci faceva Nina lassù?

Tese l’orecchio e captò un rumore di passi leggeri che si avvicinavano sempre di più fino a fermarsi davanti alla cabina. Aspettò che bussasse o che palesasse la propria presenza in qualche modo, ma i secondi passarono e tutto tacque.

Si massaggiò le palpebre ed emettendo un profondo sospiro si alzò dal letto.

Aprì la porta e trovò la ragazza con il pugno alzato a mezz’aria, come in procinto di bussare. Colta alla sprovvista scattò indietro e il suo sguardo zigzagò tra i bicipiti scoperti dalle mezze maniche e il tessuto della maglietta che cadeva morbido sul corpo tonico.
Poi si schiarì la voce e alzò gli occhi al soffitto con le guance imporporate.

Accadde tutto in un attimo, ma a lui non sfuggì.

«Nina…» sussurrò piano, con la voce ancora arrochita dal sonno «di solito non ricevo visite qui.» Avanzò di qualche passo chiudendosi la porta alle spalle e si appoggiò con la schiena al muro.

«Credimi, ne avrei fatto volentieri a meno… ho anche avuto una discussione con il tuo androide poco fa, ha cercato di fermarmi…»

L’espressione che assunse quando si riferì a Morlin lo fece sorridere. Forse un giorno avrebbe capito da dove provenisse tutto quell’astio nei confronti degli androidi.

«Il punto è che sono giorni che cerco di parlarti ma sei sempre così…» esitò un attimo, in cerca della parola giusta. «…impegnato

«Dimentichi che sono il comandante, è piuttosto normale. Avanti, ti ascolto, di cosa volevi parlarmi?»

«Mi trovo su questa nave da almeno due settimane e ancora non mi hai dato nulla da fare. Sto passando le giornate camminando per i corridoi, ho imparato a memoria la planimetria della nave e come se non bastasse tutti mi stanno alla larga. Non fraintendermi, sono felice di non ricevere minacce di morte, credo che però tu abbia esagerato un pochino.»

Mentre Nina parlava a ruota libera a Lukasz cadde l’occhio sulla maglietta di almeno due taglie più grande che stava indossando. Bianca e nera le arrivava quasi alle ginocchia.

Bella… ma da dove spuntava?

«Non ricordo di avere mai avuto quella roba a bordo.» la interruppe indicandola confuso. Il viso di Nina si illuminò di colpo, afferrò un lembo della maglietta e gli mostrò dei punti di cucitura.

«Lo so, l’ho fatta io!» rispose con orgoglio rivolgendogli un sorrisone raggiante, «Carina vero? Ho usato la robaccia che mi ha rifilato Morlin e ci ho rimesso mano. Gli studi artistici della mia adolescenza si sono resi finalmente utili, ah ah…»

Lukasz la guardò a bocca aperta.

«…Notevole.»

«Già. Adesso che sai quanto mi sto annoiando, pensi di fare qualcosa a riguardo?»

Lukasz si lisciò la barba pensieroso.
Forse era giunta l’ora di integrarla al resto dell’equipaggio.

«Va bene piccola tessitrice, ero dell’idea di lasciarti ancora qualche giorno di tregua, ma se proprio insisti…»

Mantenne la parola e da quel momento la mise sotto torchio.

 

 

•••∆•••

 


Un giorno le assegnò l’ingrato compito di montare un cannone xolgiano, un bestione che una volta intero risultava alto quasi quanto lei.
Lukasz però non sapeva che Nina era un disastro ad assemblare armi e già dopo una ventina di minuti un gruppetto di curiosi si era messo lì davanti per godersi quello spettacolo penoso.
Poi uno di loro, colto da pietà, decise di intervenire in aiuto alla ragazza che ben contenta gli cedette il posto. Si sistemò accanto a lui osservandolo affascinata mentre lavorava in silenzio.

I suoi arti terminavano con delle grosse e possenti chele che gli permettevano di sollevare, stringere e piegare con facilità i materiali più resistenti.
Per praticità era solito utilizzare strumenti adatti alla conformazione del proprio corpo, oggetti che Nina e nessun’altro umano avrebbe potuto utilizzare. Nonostante ciò, adottando qualche premura in più, riusciva comunque ad afferrare i pezzi più piccoli e assemblare l’artiglieria.

«Che cosa stai facendo?»

La voce del comandante fece congelare tutti i presenti e Pakitàr, il soldato che si era spontaneamente offerto di aiutare Nina, scattò in piedi come un fulmine.

«Signore, l’umana era in difficoltà.»

«Ah sì?»

«Sì, è la verità» intervenne lei scrollando le spalle, «mi dispiace, non sono in grado di assemblare le armi. Anche nella vecchia squadra lo facevano sempre gli altri al mio posto. Posso occuparmi di altro?»

Lukasz si strinse nelle spalle.

«Hai mai pensato che forse è proprio per questo motivo che non sei capace? Se continui a scaricare i compiti sulle spalle dei tuoi compagni non imparerai mai nulla.»

Poi lanciò un’occhiata a Pakitàr che afferrando al volo l’antifona si allontanò con una certa premura.

«Ascolta» provò a farlo ragionare, «ci sto provando da mezz’ora e sono ancora al punto di partenza, se continuo così ti farò solo perdere del tempo.»
Giunse le mani in gesto di supplica rivolgendogli il sorriso più melenso che poté, uno a cui nessun uomo avrebbe potuto resistere. «Per favore, posso occuparmi di altro?»

Anche Lukasz le sorrise.

«Malysh’ka…»

«Sì?»

«Potrai impiegarci anche una settimana, ma ti garantisco che non uscirai di qui finché non l’avrai montato tutto e lo farai da sola.»

Il viso di Nina si rabbuiò.

«Bene, allora ti costruirò anche un bastone, perché quando avrò finito qui sarai VECCHIO!»

«Brava» la liquidò senza darle corda e si rivolse a tutti gli spettatori che li stavano fissando sbigottiti.

«Statemi bene a sentire voi» li avvertì, «non fatevi impietosire perché io non mi farò gli stessi scrupoli con chi si intrometterà in questa faccenda, intesi?»

Detto questo si allontanò a passo marziale, ritornando ai propri doveri.

«È proprio un despota…» borbottò Nina seguendolo con lo sguardo. Si pettinò i capelli dietro le orecchie e prendendo un grosso respiro si chinò di nuovo sull’artiglieria.

«Malysh’ka fai questo, Malysh’ka fai quello…» lo scimmiottò iniziando ad avvitare un bullone, «chissà che vuol dire poi…»

Mentre parlottava tra sé e sé il tempo continuò a scorrere e nessuno osò avvicinarsi.

 

•••∆•••

 

Quando Lukasz tornò indietro trovò Nina seduta esattamente dove l’aveva lasciata. Lo stava aspettando con le braccia incrociate al petto e un sorrisetto beffardo sulle labbra.
Si acquattò accanto a lei per controllare il lavoro svolto: la canna era dritta, i bulloni erano avvitati ben saldi, il cavalletto era stabile.

«Brava Malysh’ka» disse infine, «inizio a pensare che con le giuste imbeccate tu possa fare qualsiasi cosa.»

La ragazza gongolò, beandosi degli elogi del comandante.
Ammirò il frutto delle sue fatiche con evidente soddisfazione.
Sì, aveva fatto davvero un ottimo lavoro e tutto sommato non era stato così difficile.
Lukasz si rialzò e le diede una pacca sulla spalla.

«Be’, complimenti, hai vinto anche gli altri sei cannoni. Li voglio tutti pronti per domani.»

E si allontanò lasciandola impietrita in mezzo alla stanza.

«…MA STIAMO SCHERZANDO?!»


 

*Malysh’ka: piccola, bambina
 

 

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Capitolo 15
*** Il Figlio della Rivoluzione (prima parte) ***


 

Capitolo quattordici: Il Figlio della Rivoluzione (prima parte)


 

Aratia,
Anno 2119 del calendario terrestre


 

Aleksej Mikhaylov osservava il bambino stretto tra le braccia della moglie, mentre la loro figlia maggiore, Vyronika, gli dava dei buffetti affettuosi sulle guance.

«Hai visto, papà? Mi somiglia!»

«Fa’ piano Dushen’ka.» La raccomandò lui. «Vieni, siediti qua con me, lasciali respirare.»
La bambina ubbidì e trottò verso il padre andando a sedersi in braccio a lui.

«Ero così bella appena nata?»

«Anche di più.»

Le accarezzò i lucenti capelli neri, così diversi da quelli di sua moglie Anya, dotata d'una chioma biondissima, così chiara da risultare quasi bianca. Ora gli sorrideva dal fondo della stanza con un’espressione rilassata.

«Avete deciso come chiamarlo?»

Marito e moglie si scambiarono degli sguardi d’intesa.

«In realtà pensavamo di fare scegliere a te.» Disse Anya osservando sua figlia scattare in piedi e lanciare un gridolino eccitato.

«Mama, Papa… Spasiba!»
(Mamma, papà... Grazie!)

Si avvicinò di nuovo al fratellino e rimase a rimuginare per un momento in attesa di qualche illuminazione.
Poi schioccò le dita e incrociò le braccia al petto in una posa fiera.

«… Ho deciso!» Disse infine, alzando il mento con orgoglio.
«Si chiamerà Lukasz

 

***
 

Aratia,
Jazaroth,
Anno 2126

Lukasz camminava in silenzio accanto alla sorella, attento a non pestare qualche Hyana tapàc nascosto tra gli arbusti. I segni del morso dell'ultima volta se n’erano andati dopo ben quattro settimane e non aveva alcuna intenzione di ripetere l’esperienza.
L’habitat di Aratia non era tra i più ospitali, né tra i più sicuri, soprattutto per due cuccioli di essere umano come loro. Dietro ogni angolo si nascondevano insidie: zanne velenose, code spinate, piante carnivore dall’aspetto mostruoso.
Di conseguenza si erano mossi all’alba, quando le bestie selvagge strisciavano nell’umidità delle loro tane per ripararsi dal calore.
Non era certo piacevole viaggiare sotto i raggi cocenti, ma se dovevano scegliere il male minore… era meglio che essere sbranati in mezzo alle lande.

I due fratelli erano scesi in punta di piedi dai loro letti ed erano sgattaiolati fuori dall’uscio di casa mentre tutti gli altri dormivano.
Non era la prima volta che Lukasz seguiva Vyronika nelle sue avventure, ma mai si erano spinti fino a Jazaroth, il centro abitato, da soli.

Se il papà fosse venuto a conoscenza di quella scappatella li avrebbe di certo ammazzati. La mamma… anche peggio.

La ragazza frugò nella borsa e gli passò un piccolo traduttore portatile da agganciare all’orecchio. Lei non ne aveva bisogno in quanto, appena un anno prima, ne aveva impiantato uno sottocutaneo, molto più moderno ed efficiente.

«Ti avverto, se parlerai in russo quando saremo arrivati non ti capirà nessuno.»

Il bambino le lanciò un’occhiata diffidente, come in attesa di qualche scherzo.

«Dico davvero, se vuoi comunicare con le altre razze dovrai usare l’inglese, i traduttori alieni funzionano solo con quello.»

Lukasz non parve convinto.
Fino a quel momento aveva dato per scontato che le due lingue, usate in egual misura dai suoi genitori, fossero intercambiabili e avessero lo stesso valore anche in pubblico.

«A dire la verità nemmeno su Dystòpia è comune usare i dialetti», aggiunse la giovane, «tutti parlano allo stesso modo.»

«E allora perché noi lo facciamo?»

«Per conservare la tradizione.»

«Che cosa stupida.» Replicò Lukasz scrollando le spalle.

Vyronika rise e gli scompigliò i capelli.
«Be’, se ci pensi non è poi così male, possiamo parlare tra di noi senza essere capiti dagli altri. È il nostro linguaggio segreto.» Poi sul suo volto comparve un ghigno. «Posso anche essere sdolcinata quanto mi pare.»

Lo intrappolò in un abbraccio stritolatore sollevandolo da terra.

«Solntze möye, potseluy menya!»
(Mio piccolo raggio di sole, dammi un bacio!)

Esclamò la ragazza mentre Lukasz tentava di sfuggire a quell’aggressione affettuosa.

«Aaargh...che schifo, lasciami Vyronika!»
 

***
 

Più si inoltravano nel cuore del mercato e più l’aria diventava irrespirabile a causa del tanfo delle carni marce di gilak, accatastate tra i banchi e vendute a ottimo prezzo assieme a un intingolo di radici e spezie. Più disgustoso di quella pietanza era vedere chi, dopo aver fatto la coda, la ingurgitava soddisfatto. 
Anche il resto degli alimenti venduti a Jazaroth erano indigesti agli umani, oltre che ripugnanti, per cui i due fratelli si tennero volentieri a debita distanza.

Mentre avanzavano tra i banchetti ricevettero una serie di occhiate torve e insistenti, soprattutto da parte dei mercanti stranieri.

Vyronika continuò a camminare a testa alta, ricambiando uno a uno quegli sguardi, con ostentata insolenza.
Da quando loro madre aveva iniziato a darle lezioni di tiro era diventata più spaccona del solito. Non si separava mai dal suo fucile e Lukasz sospettava ci andasse perfino a dormire assieme. Ovviamente lo aveva con sé anche in quell'occasione e sembrava infonderle un’invincibile sicurezza, come se stesse indossando un’armatura inscalfibile.

«Non farti mettere i piedi in testa da questa gente», disse la ragazza rivolgendosi a suo fratello senza abbassare mai gli occhi, «non mi importa cosa dice papà, non permettergli di mancarti di rispetto.»

Quella vicenda si ripeteva da sempre, per quel che ricordava, anche quando c’erano entrambi i genitori ad accompagnarli.
Non fateci caso, sono solo sorpresi di vedere degli umani.”
Li rassicurava loro padre. “Si abitueranno.”
Ma la verità era ben più amara e Lukasz, sebbene avesse solo sette anni, ne era consapevole.
 

***
 

Non gli aveva ancora riferito dove erano diretti, lo scoprì solo una volta arrivati davanti a una grossa tenda formata da pelli cucite insieme tra loro.
Vyronika si avvicinò all’orecchio del fratellino.

«Sai chi ci vive qui dentro? Una strega.» sussurrò.

Lukasz fece una smorfia.

«Non esistono le streghe.»

«Ti dico di sì, è spaventosa!» Si ingobbì per imitare la vecchia maga. «Per non parlare del fatto che… lei mangia i bambini!»

Lukasz inarcò un sopracciglio fissandola scettico, al ché lei si raddrizzò facendogli l’occhiolino.

«E va bene, è soltanto un’indovina» ammise, «ma vedi di non toccare niente una volta dentro o Rabaca si arrabbierà.»

Varcarono la soglia e furono investiti da un profumo piacevole che li disintossicò dalla puzza di gilak. Proveniva da un piccolo braciere posto nel mezzo della tenda, su cui stava bollendo un pentolino. L’anziana Rabaca era lì incurvata che li stava aspettando.
Aveva una pelle squamosa e perlacea, degli occhi scuri protetti da una doppia membrana. Lunghe dita ossute avvolgevano una costola d’animale che usava per rimescolare un intruglio denso e luminescente.

Salutò entrambi.
Non con la bocca, non possedeva un apparato fonatorio.
Sentirono invece la sua voce riecheggiare nelle loro menti e si scambiarono delle occhiate impressionati. Era la prima volta che sperimentavano la comunicazione telepatica.

Vyronika si presentò per prima e, senza troppi convenevoli, le porse un piccola rete ricolma di pietruzze scintillanti. La vecchia l’afferrò con febbrile cupidigia, quasi strappandogliela di mano, tanto che la ragazza sussultò dalla sorpresa.
Rimasero in attesa, con una punta di impazienza, mentre Rabaca controllava con minuzia ogni sassolino rigirandoselo tra le dita. Infine, soddisfatta, alzò la testa e guardò Vyronika dritta negli occhi.

Ci fu un lungo momento di silenzio e presto Lukasz intuì ci fosse una conversazione in atto tra le due e lui ne era tenuto fuori di proposito. Rimase a osservare il volto di sua sorella cercando di capire che si stessero dicendo ma ormai era in uno stato di trance.
Rigida e immobile, le labbra rosee appena schiuse. Gli occhi chiari coperti da un velo di temporanea incoscienza.
Rabaca invece sembrava lucida, ma non interruppe mai quel contatto visivo. Passarono un paio di minuti finché Vyronika non si ridestò dal torpore e respirò a pieni polmoni, come se avesse corso per un miglio.

Si girò verso di lui con un’espressione estasiata e a Lukasz sfuggì un sospiro di sollievo.
«È stato…incredibile!» esultò eccitata, «Forza Lúnja, tocca a te.»

«Cosa… cosa ti ha detto?»

La fanciulla si arrotolò al dito una lunga ciocca mora con fare civettuolo. «Non te lo dico.» Rispose candidamente, guadagnandosi un’occhiataccia.
«Se sei curioso fatti avanti. Non avere paura, Rabaca mi ha detto che siccome la vita degli uomini è già abbastanza angustiata ci darà solo visioni felici del futuro.»

«Io non ho paura!»

«E allora provaci, sarà divertente!»

Lukasz avrebbe voluto rispondere di no, che non credeva a certe sciocchezze, ma in verità stava morendo dalla voglia di sapere.
Fece un passo in avanti e guardò con determinazione la creatura, facendole capire che era pronto.
Fu un attimo e la sua coscienza fu proiettata in un futuro lontano.
 

***
 

La borsa di Vyronika pesava tre volte tanto rispetto al viaggio di andata. Aveva acquistato una quantità spropositata di balsami, unguenti e stoffe. Una volta giunti a destinazione sarebbe corsa a riporre tutto nel luogo più sicuro e meno controllato della casa, il suo nascondiglio prediletto: la stanza di Lukasz.
Osservò suo fratello che non aveva aperto bocca da quando avevano lasciato la tenda di Rabaca. Ora stava camminando a testa bassa accanto a lei.

«Insomma, si può sapere cosa hai visto?»

Lui non rispose, troppo occupato a rimuginare tra sé e sé.
Poi, colto da un dubbio, aggrottò le sopracciglia e le rivolse una domanda insolita.

«Su Aratia ci sono altri come noi?»

«No, non che io sappia. La maggior parte degli esseri umani si trova su Dystòpia, uomini e donne.»

«Allora voglio andare lì.» disse infine senza darle ulteriori spiegazioni.

 

Calò il silenzio e quando il più piccolo si voltò verso la sorella vide che il suo volto si era rabbuiato di colpo.

«La nostra famiglia… è stata esiliata su questo pianeta.»

«Esiliata.»
Ripeté lui, studiando quella parola sconosciuta.

«Significa che, anche volendo, non potremmo tornare su Dystòpia. Ci hanno cacciati.»

«Non ci vogliono?»

«Sei troppo piccolo, la mamma non vuole che te ne parli.»
Quella risposta non gli piacque e le sbarrò il passaggio piazzandosi davanti a lei a braccia conserte.

«La mamma non voleva nemmeno mi portassi a Jazaroth.»

La stava fissando con un cipiglio serio, fin troppo serio per un bambino della sua età, tanto che Vyronika non riuscì a trattenere un sorriso.

«Oh, Lúnja... ma guardati, sembri il papà in miniatura», esclamò lei ridendo, «ti manca solo la barba!»

Poi, vedendo che continuava a tenerle il broncio, si inginocchiò a terra e gli prese il viso tra le mani.

«Ascolta...», gli disse addolcendo la voce, «ora non potresti capire, ma ti prometto che un giorno ti racconterò tutto, d’accordo?»

I loro occhi cenerini si specchiarono.

«Davvero?»

«Davvero per davvero.»

 

 

Note:

*Łukasz Alekséevich Mikhaylov: è formato da una prima componente polacca, che richiama le origini della madre. Alekséevich invece è un patronimico russo che letteralmente significa “figlio di Aleksej” e a seguire il nome di famiglia.

*Dialetti umani: Per praticità su Dystòpia le lingue al di fuori dell’inglese sono pressoché inutilizzate e considerate quindi alla stregua di lingue morte. Solo in poche famiglie si conserva l’abitudine di parlare nella lingua d’origine e rimane racchiusa tra le mura domestiche.

*Jazaroth: La capitale del mercato nero. Vedi cap.2

*Dushen’ka : Tesoro, Cara.

*Lúnja: una forma diminutiva del nome Lukasz.

 

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Capitolo 16
*** Xyiònn ***


Capitolo quindici: Xyiònn 


Anno 2150

Erano passati più di tre mesi da quando si era unita alla banda di Haeist e doveva ammettere che contrariamente a quanto pronosticato l’ambiente sulla nave si era svelato addirittura piacevole. Cercava qualsiasi escamotage per distrarsi dalle preoccupazioni e dalla malinconia: se al momento non poteva migliorare la propria condizione, allora tanto valeva non pensarci affatto.

Passava la maggior parte del tempo in compagnia dei nuovi compagni e giorno dopo giorno apprendeva nuovi aspetti sulla vita dei mercenari.

Qualche settimana prima parte dell’equipaggio aveva preso parte a una missione e lei aveva insistito tantissimo per essere coinvolta. Desiderava con tutta se stessa uscire all’aria aperta, anche a costo di scalare un ghiacciaio, ma nonostante le sue suppliche Lukasz non gliel’aveva permesso. “Non ancora Malysh’ka” si era limitato a rispondere, e l’aveva lasciata lì, in compagnia di Morlin e qualche altro compagno.

Passarono i giorni e proprio quando Nina stava iniziando a perdere le speranze fu convocata dal Comandante. Quando se lo trovò davanti non riuscì a reprimere una smorfia seccata.

«Mi hai fatto chiamare?» borbottò.

Lukasz se ne stava lì a braccia conserte, scrutandola con un espressione indecifrabile sul volto.

«Siamo in orbita su Xyiónn.» annunciò.

«Bene» rispose Nina senza entusiasmo, «ordini?»

Lui lanciò una lunga occhiata e infine le fece un cenno con il capo.

«Forza, preparati. Usciamo.»

Furono tre semplici parole, ma lei reagì come se avesse udito la più bella dichiarazione d’amore: si portò le mani alla bocca, sgranando gli occhi lucidi dall’emozione. Annuì energicamente e senza farselo ripetere una seconda volta si precipitò in direzione della cabina rischiando di scontrarsi contro un gruppetto di compagni.

Quando poco più tardi scoprì che sarebbero usciti da soli si sentì, se possibile, ancora più elettrizzata. In presenza degli altri Lukasz conservava un atteggiamento per lo più distaccato e autorevole, ma quando rimanevano soli si toglieva di dosso le vesti da comandante e quel cipiglio serio che lo accompagnava durante il giorno.
Spesso si trattava solo di chiacchiere, mentre altre volte si inoltravano in quelle fitte conversazioni esistenziali senza capo né coda che tanto le piacevano. Lukasz era un pozzo di sapienza e Nina, la cui sete di conoscenza era pantagruelica, attingeva da lui assiduamente.

Attendeva speranzosa quei momenti e faceva di tutto affinché si dilungassero il più possibile. Rappresentavano brevi parentesi di normalità in cui provava l’impagabile sensazione di essere compresa da qualcuno simile a lei.

∆•••∆•••∆

Xyiónn

 

Una sferzata d’aria gelida le pizzicò le guance e d’impulso si portò il bavero della giacca fin sopra il naso. Forse qualche strato di stoffa in più non avrebbe guastato ma ormai era troppo tardi per risalire. Si strinse nelle braccia e balzò giù dalla scialuppa per raggiungere Lukasz che l’aspettava poco più avanti.

Xyiónn era un piccolo pianeta dalla forza gravitazionale minima. Ogni movimento fisico risultava più fluido, più veloce, e Nina si sentiva talmente leggera da essere trasportata via come una foglia a ogni folata di vento.

«Niente maschera?»

«Nah, qui non ne ho bisogno.»

«Allora… dove siamo diretti esattamente?»

Lukasz indicò un punto alle sue spalle e lei seguì con lo sguardo la traiettoria del suo indice. «Laggiù, oltre quella coltre di nebbia, si nasconde una mia vecchia conoscenza. È un ex membro dell’equipaggio che decise di ritirarsi su questo pianeta tempo fa per godersi gli ultimi anni di vita nella quiete.»

Nina sollevò le sopracciglia sorpresa. Si aspettava tutto da quello sbarco, recupero di merce, incontro con potenziali clienti, ma di certo non una visita di cortesia e ormai era sicura di conoscere Lukasz abbastanza bene da immaginare ci fosse qualcosa sotto.

«Non ti facevo un tipo da visite.»

«E normalmente avresti ragione.»

«Be', sentiamo, cos’avrebbe di tanto speciale questo tizio per meritarsi questo privilegio?»

«Xolgos. È stato il mio mentore.» Le spiegò. «Tutto ciò che so me lo ha insegnato lui. Probabilmente non sarei nemmeno Haeist se il destino non ci avesse fatti incontrare.» Rifletté qualche secondo e poi aggiunse: «Ma non fargli sapere che ho detto queste parole, quel pallone gonfiato è già fin troppo pieno di sé.»

«Mi ricorda qualcuno, Comandante.» disse iniziando a mordicchiarsi il labbro per non scoppiare a ridere subito dopo. Adorava provocarlo e in genere non rimaneva mai delusa dalle sue reazioni. Lo spiò con la coda dell’occhio e lo vide chinarsi verso di lei.

«Insolente» le sussurrò all’orecchio facendola rabbrividire, «Non tirare troppo la corda o potrei cedere alla tentazione di abbandonarti su questo pianeta.» L’ammonì, ma la sua espressione era tutto fuorché seria.

Le scompigliò i capelli facendola ridacchiare.

 

∆•••∆•••∆

Attraversarono il muro di nebbia e quando sbucarono dalla parte opposta si trovarono circondati da uno scenario spettacolare. La valle era piena zeppa di piccole piante volanti che fluttuavano a mezz’aria con movimenti sinuosi ed eleganti, replicando una danza armoniosa. Nina, che non aveva visto mai nulla di simile, rimase a bocca aperta.

«Queste piante…si muovono!» esclamò.

«Non so come le chiamino gli abitanti di Xyiónn ma sono anche conosciute come Volflore» le spiegò lui. «Possiedono un apparato radicale aereotrasportabile.»

Si sfilò un guanto e allungò la mano per acciuffarne una che svolazzava lì vicino.

«Queste sono molto giovani ma gli esemplari più vecchi possono superare i trenta metri e resistono a raffiche di vento fortissime.»

Nina si avvicinò per osservare la Volflora mentre si arrampicava tra le dita di Lukasz e di tanto in tanto sbatteva le foglie nel tentativo di spiccare il volo. Provò ad accarezzarla e questa iniziò ad avvolgere le radici anche attorno alla sua mano.

«È adorabile… possiamo portarla con noi?»

«Intendi sulla nave?»

Lei ridacchiò mentre giocherellava con i piccoli petali traslucidi.

«Perché no, la libereremo quando sarà più grande.»

«Vuoi dire che sarai ancora con noi?» chiese a bruciapelo cogliendola impreparata.

I loro sguardi s’incrociarono e le parve di risentirsi schiacciata a terra dalla gravità. Ci fu un lungo silenzio ma quella domanda rimase sospesa in aria come le fibre delle Volflore.

 

«Puoi prenderla,» disse infine Lukasz, «ma ti avverto che accorcerai la sua vita di molto.»

 

Nina abbassò lo sguardo sulla piantina.

 

«Oh…» sospirò dispiaciuta, «forse è meglio se rimani con le tue sorelle.»

 

Rimasero un altro po’ così, con le mani intrecciate tra le radici. Poi con delicatezza si districarono e la lasciarono libera di volare.

 


∆•••∆•••∆

 


Man mano che si avvicinavano alla dimora di Xolgos ne veniva svelata la maestosità. Dominava l’orizzonte facendo sfigurare tutte le altre abitazioni circostanti che, nonostante fossero altrettanto belle, messe a confronto parevano granelli di sabbia.
La costruzione assomigliava a una torre con guglie appuntite che si fondevano con il cielo, una scala a chiocciola si snodava per tutta la lunghezza della torre, avvolgendola come una spirale di metallo e sulla sommità un’ampia piattaforma panoramica pendeva sulla valle.

 

«Xolgos… abita là dentro?» Chiese la ragazza con il naso rivolto all’insù.

 

«Piuttosto vistoso, vero? A lui piace così. Dopotutto che senso ha passare la vita ad arricchirsi se alla fine non si gode dei frutti raccolti?»

 

«Frutti raccolti durante saccheggi e commerci illegali, giusto?»

 

«Dimentichi il sicariato,» ammiccò Lukasz, «quello sì che ripaga.»

 

«Giusto, il sicariato.» Mormorò distratta, incantata ad ammirare gli intarsi sulla superficie.

 

Quando giunsero dinnanzi alla torre individuarono una piccola piattaforma rettangolare sul quale era seduto svogliatamente un essere smilzo e minuto. Quando la creatura che faceva la guardia si accorse della loro presenza scattò sull’attenti ma appena li vide bene in faccia sembrò distendersi subito. Nina aprì bocca per parlare ma venne bruscamente troncata.

 

«Non si accettano visitatori, andatevene.» replicò seccato.
Aveva un paio di antenne ritte sul capo che vibravano ogni qualvolta apriva bocca.

 

«Ehi, ma se non ci hai fatto nemmeno presentare!» si lamentò Nina incredula, ma quando sentì la mano di Lukasz sulla spalla tacque.

 

«Siamo ospiti di Xolgos, averci qui è stato un suo desiderio.»

 

«Oh…» La creatura si limitò a osservarli dall’alto al basso con uno sguardo che Nina conosceva fin troppo bene. «Io non credo.» replicò. «Vedete, il Padrone è molto stanco e non vuole essere disturbato per…questioni di poco conto.» Si rimise a sedere, facendo intendere che per lui la conversazione fosse già conclusa. «Ah, e vi consiglio di andarvene da qui. Non è posto per umani, capite?» aggiunse con un sorrisetto maligno.

 

Lukasz strinse gli occhi e rimase a fissarlo per qualche attimo. «Capisco perfettamente.» Rispose in tono spaventosamente calmo. «Potresti portargli un messaggio da parte mia?»

 

«Mmh, sentiamo.»

 

«Digli che Haeist si trova all'ingresso e farà del suo meglio per portare pazienza con la sua servitù.»

 

L’omuncolo si congelò sul posto. Quando i suoi occhietti scuri incrociarono lo sguardo fitto di Lukasz parvero rimpicciolirsi ancora di più e le antenne gli si afflosciarono ai lati del capo.

 

«Ci vorrà un momento.» emise con un filo di voce.
Risalì sulla piattaforma con talmente tanta fretta che quasi scivolò sul gradino e scomparve all’istante in un lampo di luce blu.

 

«Quello si è visto correre la vita davanti agli occhi!» Esclamò Nina appena rimasero soli. In quel momento comprese che uno dei motivi per cui Haeist utilizzava la maschera era anche per evitare questo genere di situazione. Nascondere la propria razza di appartenenza non era piacevole, ma certamente pratico. Non appena la sentinella fu di ritorno fece ammenda per l’increscioso malinteso di poc’anzi.

 

«Sono addolorato Signore, non vi avevo riconosciuto.»

 

Ma non è questo il punto, maledetto razzista. Pensò Nina scuotendo la testa indignata. Lo Xyionniàno invitò entrambi a salire sulla pedana, dopodiché furono teletrasportati all’interno della costruzione.

 

Mentre lo seguivano in silenzio Nina continuava a fissare in cagnesco quella piccola testolina tonda fantasticando di prenderla a calci e Lukasz dovette accorgersene perché le si accostò all’orecchio con un’espressione da predatore.
«Vuoi che lo uccida?» le propose in tono nemmeno troppo basso, tanto che l’ometto davanti a loro sembrò irrigidirsi come un palo.

 

Nina si voltò scandalizzata verso di lui e in risposta vide un angolo delle sue labbra guizzare in un ghigno.

 

«Stavo scherzando.» si limitò a rispondere lui.

 

Una volta arrivati nella sala principale chiese loro di attendere lì. Si scusò un altro paio di volte e dopo essersi congedato se la diede a gambe, accompagnato dallo sguardo felino di Lukasz.

 

All’interno del castello vi erano altri Xyionniàni come lui che correvano su e giù per le scale, animati dall’agitazione tipica di chi non aspettava visite. I loro arti inferiori terminavano con estremità arrotondate con cui si davano la spinta e scivolavano sulla superficie lucida del pavimento, come dei piccoli pattinatori. Ogni tanto sbirciavano incuriositi nella loro direzione, ma nessuno ebbe il coraggio di farsi avanti per accoglierli.

 

«Che strambi.» mormorò Nina seguendoli con lo sguardo mentre saettavano avanti e indietro.

 

Rimasero lì ad aspettare per una manciata di minuti, finché una voce tonante alle loro spalle non attirò la loro attenzione.

 

«GUARDA, GUARDA.»

 

Si voltarono e dovettero entrambi alzare lo sguardo di parecchio. Qualche metro sopra le loro teste lì osservava una creatura dalla mole gigantesca che se ne stava affacciata alla balaustra. Aveva occhi sporgenti e biancastri saettavano impazziti dentro le orbite, finché si bloccarono su di lei. Nina deglutì, messa in soggezione da quello sguardo. Gli si allargò un sorriso per nulla rassicurante, caratterizzato da una schiera di denti aguzzi che le fece accapponare la pelle.

 

«Con che graziosa creatura ti sei accompagnato.»

 

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