Fuga nella notte

di Spoocky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Questa, miei cari, è la mia ultima (in senso cronologico) fatica.
Sto cercando di cimentarmi in una sorta di racconto romantico/gotico. E' un esperimento e vado un po' alla cieca.
Oltretutto è un lavoro in corso quindi non so in quanto effettivamente riuscirò a finirlo, spero di ricevere qualche commento che funga da stimolo per proseguire.
Intanto vi ringrazio per l'attenzione.

Buona lettura ^^


Conrad corse su per le scale con la sciabola sguainata e sfondò la porta con una spallata.
Si ritrovò in una stanza illuminata da lampade appese al muro, piena di macchinari e strumenti spaventosi.
Prima che riuscisse ad individuare chi stava cercando, venne assalito da un omaccione inferocito.
Senza battere ciglio, l’abbatté con un tondo fulmineo.
Voltandosi di scatto vide un altro avventarglisi contro con un coltellaccio, ma finì a terra dopo un colpo ben assestato alla tempia.
Hancock non lo degnò di un secondo sguardo: gli importava solo della figura longilinea appesa per i polsi in fondo alla stanza.

Quando finalmente la raggiunse, sentì il cuore spezzarglisi nel petto.
I lunghi capelli castani gli ricadevano sul viso, ma non appena gli prese il mento tra le dita non ebbe più dubbi: quello era Nathan Bertrand.
La rabbia feroce che gli era divampata nel petto fino a quel momento tornò più forte di prima nel vedere che il corpo tremante del suo secondo era un affresco di lividi e sangue rappreso. Si sforzò di dominarsi, però, perché Nathan aveva bisogno del suo aiuto e non della sua rabbia.
Incurante del fatto che fosse completamente nudo, gli avvolse un braccio intorno ai fianchi e gli fece passare l’altro sotto le ginocchia, sollevandolo abbastanza da fare in modo che i suoi polsi straziati non dovessero più reggerne il peso.
Immobile tra le sue braccia, il giovane emise un flebile lamento, ma non diede altro cenno di vita.
Quanto male potevano avergli fatto in un giorno?

All’improvviso apparve alle sue spalle Rafael, il suo contatto in quella zona.
Non essendo alto quanto Conrad, il catalano dovette arrampicarsi su uno sgabello per armeggiare con le catene che imprigionavano i polsi del giovane: “A quanto pare le dicerie del villaggio erano giuste.” disse nel suo inglese sospettosamente privo d’accento “Li avete uccisi tutti?”
“Uno solo: quello vicino alla porta. L’altro dev’essere solo stordito. L’ho colpito alla testa con l’elsa della sciabola ma non credo sia morto.”
“Muy bien, perché quello è il nostro informatore principale. O meglio, lo sarà quando lo faremo parlare. Attento ora: sto per lasciarlo andare. Lo tenete?”
“Sì, sono pronto.”
“Bien. Ecco, ora il ragazzo può riavere i suoi polsi.”
Hancock non batté ciglio nel ricevere il peso morto del giovane sulle braccia.
Sistemandoselo addosso perché gli poggiasse il capo sulla spalla, cominciò a guardarsi intorno per cercare un posto dove adagiarlo.
Fu Rafael a trovarlo per lui: “Qui, mettetelo qui.” Lo avvertì indicando una sedia imbottita, probabilmente usata dai carcerieri tra una sessione di tortura e l’altra.

Attento a non provocargli dolore inutile, Conrad depose il suo fardello sulla poltrona.
Poiché ancora tremava, si tolse di dosso il pastrano e lo avvolse attorno alle spalle insanguinate dell’altro. Era tanto più magro del suo superiore che l’indumento parve inghiottirlo e, nonostante fosse foderato in velluto, doveva comunque aver strusciato malamente contro le sue ferite, perché gli strappò un gemito.
Sforzandosi di trattenere la rabbia, Conrad raccolse i capelli del giovane in un codino e li legò con un nastro per restituirgli un po’ della dignità che gli era stata strappata. Senza l’ingombro della sua folta capigliatura, il suo volto offriva un ben triste spettacolo. Fatta eccezione per le occhiaie che gli coprivano le palpebre ed un rivolo di sangue che gli usciva dal naso era pallido come un fantasma.
Hancock gli depose il capo contro lo schienale della sedia e gli si genuflesse di fronte. Prese le sue mani gelide tra le proprie, strofinandole per scaldarle. Non erano massacrate come quelle di altri agenti, ma anche a lui avevano strappato le unghie, e aveva le nocche spaccate: segno che aveva lottato per difendersi.
Dopo alcuni minuti, Conrad sentì le mani di Bertrand fremere e contrarsi tra le sue, come se cercasse di stringerle.

Subito dopo, il giovane emise un altro lamento e cercò di sollevare la testa senza riuscirci. Gemette di nuovo e aprì gli occhi.
Batté lentamente le palpebre, come risvegliandosi da un lungo sonno, mentre dalle sue labbra spaccate uscì un sussurro rauco: “Acqua… vi prego… acqua.”
Rafael, che portava una borraccia appesa alla cintura, l’aprì e la passò subito a Conrad: “Ecco, Nathan. Ecco, bevete tutta quella che volete.”
Gli sollevò la testa e gli accostò la borraccia alle labbra, ma, nonostante le sue premure, molta finì comunque per scorrere lungo il mento del giovane.
Quando Nathan gli fece cenno di non volerne più, Conrad volle asciugargli il viso con il proprio fazzoletto. Gli tamponò dolcemente le labbra e le narici, insistendo nei punti dove il sangue aveva ricominciato a scorrere.
“Grazie.” Sussurrò Bertrand, con un filo di voce.
“Shh, non vi sforzate.” Lo rassicurò Conrad “E’ tutto finito. Siete al sicuro, adesso.”
“Continuavano a fare domande.” Gemette il giovane, sempre più agitato “Chiedevano… tante cose…  io non … non ho … oh, Dio mio. Dio mio.”
S’accasciò ansante sulla poltrona, tremando come una foglia.

Non sapendo cosa fare senza fargli male, l’agente rimase immobile, sopraffatto dalla rabbia per quello che gli avevano fatto.
Poi però il giovane alzò una mano tremante e, con un dito insanguinato, indicò un mucchio di stracci: ciò che restava dei suoi vestiti. Conrad capì subito cosa cercasse di comunicare e si mise a frugare tra gli indumenti laceri.
Quando trovò ciò che restava del panciotto estrasse un pugnale dalla cinta e lo aprì, rivelando un messaggio cifrato nascosto dal ricamo e visibile solo all’interno dell’indumento. Trovò anche la seconda copia del messaggio, vergata su un pezzo di carta nascosto tra due toppe sulle brache. Nathan non aveva ceduto: le informazioni che portava erano ancora al sicuro.

Vedendolo tergiversare, tuttavia, Rafael si decise a prendere in mano la situazione: “Dobbiamo portarlo via di qui, non ce la fa più.”
Riscuotendosi, Hancock annuì: “Coraggio, Nathan. Vi portiamo al sicuro. No, non cercate di alzarvi, vi porto io.”
.“Signore, io non…”
“Nessun disonore per voi, signor Bertrand: nelle vostre condizioni non siete in grado di reggervi in piedi. E, se anche lo foste, non mi sento in tutta coscienza di tentare la sorte. Coraggio, ora, poggiatevi a me e stringete i denti.”

Nonostante Conrad avesse adoperato tutta la cautela di cui fosse capace, il movimento strappò al poveretto un grido straziante.
Accomodandoselo in braccio come fosse un bambino, esattamente come aveva fatto con altri colleghi, lo sollevò di peso e lo portò fuori da quell’anticamera dell’inferno, nascondendo alla sua vista le figure inerti dei suoi aguzzini.
Scese le scale con calma, facendo attenzione a non provocargli scossoni.
Se lo strinse al petto quando arrivarono alla porta del torrione, per evitare che prendesse freddo nella notte gelida.
Sorpassando rapidamente la mesta linea degli uomini presi prigionieri dai catalani di Rafael, Hancock si diresse verso il carro coperto che avrebbe costituito il loro mezzo di fuga.

Ad aspettarlo c’era Pedro, fratello maggiore di Rafael.
“Ahi. Esto poro nino.” Commentò scuotendo la testa prima di aiutare Conrad a stendere il giovane sul pagliericcio che gli avevano preparato nel retro del carro.
Memore delle ferite che aveva sulla schiena, Hancock lo fece coricare sul fianco e s’accertò che fosse ben avvolto nel pastrano prima di stendergli addosso una coperta dopo l’altra.
“Eccoci, hijo.” Lo rassicurò Pedro, poggiandogli una coltre piegata sotto la testa come cuscino “Non è un granché, ma starai al caldo.”
“Grazie.” Sussurrò Bertrand, tentando di raggomitolarsi nel suo giaciglio.
“Cercate di riposare un poco, adesso. Dio sa quanto ne avete bisogno.”
Conrad gli diede una stretta affettuosa sul braccio e si sedette accanto a lui, posizionandosi in modo che
potesse raggiungerlo facilmente tendendo una mano.

Rafael mise dentro la testa: “E’ tutto a posto?”
Sia Conrad che Pedro gli fecero cenno di sì e lui si ritrasse, chiudendo il telo a copertura del carro.
Lo sentirono montare a cassetta e annunciare: “Vámonos, Ernesto.”

 


Il viaggio non fu semplice: la mulattiera che dovevano percorrere era dissestata e i frequenti scossoni del carro erano un’agonia per il povero Nathan, al punto da strappargli delle grida strazianti.
Più volte, nel corso del tragitto, dovettero fermarsi per fargli riprendere fiato.
In quelle brevi pause, alla luce della lanterna di Pedro, Conrad gli sollevava la testa, gli asciugava il sudore dalla fronte e le lacrime dalle guance. Cercava di fargli bere qualche sorso ma, come nella prigione, molta dell’acqua che gli dava finiva per scorrergli addosso, tanto era debole.
Alla fine si risolse a bagnare un fazzoletto ed umettagli le labbra come poteva, per dargli almeno un poco di sollievo.
Ogni volta lo riadagiava sul suo giaciglio e gli prendeva la mano, sperando che stringere la sua lo avrebbe aiutato a sopportare il dolore.
Avevano ormai perso il conto di quante volte avessero ripetuto quella sorta di rituale quando il giovane, stremato da quel calvario, s’accasciò privo di sensi tra le loro braccia.
 


Il monastero di Sant’Agostino si ergeva solitario su una scogliera a picco sul mare, circondato da una fitta foresta.
Per arrivarci era necessario percorrere una stradina tortuosa che costeggiava il bosco fino al portone principale del monastero. Come tutte le proprietà della Chiesa, era considerata terreno sacro ed inviolabile dai soldati del Re di Spagna: il nascondiglio perfetto per delle spie straniere in attesa del rimpatrio.
Trattandosi di un luogo sacro, non vi erano presidi armati nelle vicinanze ma, qualora ce ne fossero stati, il carro coperto dei catalani non avrebbe destato alcun sospetto perché simile in tutto e per tutto a uno dei tanti che ogni settimana portavano ai monaci quelle poche provviste che non riuscivano ad autoprodurre e ritiravano i loro prodotti per il mercato del villaggio vicino.

Quando il carro entrò nel cortile interno del monastero il Sole era già sorto e i suoi raggi ancora acerbi illuminavano il giorno di una luce tersa.
Le numerose soste fatte lungo la strada si rivelarono una fortuna perché arrivarono nel breve intervallo tra la l’Ora Prima e le Lodi mattutine. Furono accolti da due barellieri, che aiutarono Conrad e Pedro a adagiare il corpo inerte di Nathan su una lettiga per portarlo nell’infermeria del monastero, dove Padre Antonio Ramirez, erborista e medico, ed il suo novizio Miguel si sarebbero presi cura di lui.
Conrad venne invece indirizzato verso il refettorio, dove avrebbe potuto consumare un pasto caldo prima di ritirarsi nella stanza che gli era stata preparata per riposare un poco.
Pedro e Rafael, insieme al cugino Ernesto, tornarono invece da dov’erano venuti: il loro compito non era ancora terminato.
Dovevano ancora interrogare gli aguzzini dell’agente inglese e, dopo aver visto in quali condizioni lo avevano ridotto, smaniavano al pensiero di somministrare loro una dose abbondante della loro stessa medicina.
 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Non sono morta, scusate!
Sono solo molto impegnata con lo studio ed il lavoro, per cui questa storia - a cui voglio dedicare il giusto tempo ed attenzione - avrà uno sviluppo molto lento, mi dispiace.
Ad ogni modo, ecco finalmente il secondo capitolo. Se tutto va come spero, il terzo dovrebbe arrivare entro fine marzo.


“Mettetelo qui sul tavolo. Fate piano, mi raccomando, piano.”
Il giovane inglese era ancora avvolto nel pastrano del suo superiore, il cui lembo ne copriva pudicamente l’inguine, ma lasciava intravedere un corpo deperito, straziato da piaghe e lividi a diversi stadi di guarigione: i suoi aguzzini avevano usato la mano pesante.
Le mani sottili, che sporgevano appena dalle larghe maniche del pastrano, erano incrostate di sangue secco, i polsi erano nascosti dalla stoffa, che copriva i tagli causati dalle catene, profondi quasi fino all’osso, ma profondi lividi scuri si susseguivano fino alle nocche. Sui fianchi e sulle spalle, già coperti di lividi, s’intravedevano dei tagli profondi e sottili, segni inconfondibili di un flagello in cuoio usato con brutale maestria.
Nonostante ciò, il giovane era stato adagiato sulla schiena e Miguel, che stentava a capirne il motivo, ne ebbe ragione appena si chinò sul suo torace, costellato di lividi. Il petto s’alzava e s’abbassava ad intervalli irregolari, con evidente fatica per il poveretto, e ad ogni esalazione corrispondeva un raschiare sinistro: “Sono i polmoni, vero?”
Padre Antonio smise per un momento di trafficare con i suoi strumenti e si voltò verso il ragazzo: “Gli hanno spezzato le costole.” Annuì “E deve anche aver preso freddo. Sarei molto sorpreso se nei prossimi giorni non sviluppasse una polmonite.”
“Vivrà, Padre?” chiese preoccupato il giovane osservando il corpo inerte del ferito.
“E’ nelle mani di Nostro Signore.” Rispose il frate, ma lo disse con un sorriso rassicurante, come se ciò bastasse a garantire la sopravvivenza del giovane sofferente “Ed Egli guiderà le nostre mani affinché possiamo curarlo.” Aggiunse, porgendo all’altro un grembiule di cuoio.

Voltarono con delicatezza il ferito su un fianco per sfilargli il pastrano.
Il tessuto, però era aderito alle ferite, attaccandosi alla carne viva. Forte di decenni d’esperienza, Padre Antonio non si scompose, ma intervenne bagnando il tessuto con abbondante acqua tiepida. Bertrand sussultò e gemette, ma non riprese conoscenza.
 Standogli così vicino sentirono chiaramente i rumori che produceva respirando e s’accorsero che le sue labbra avevano una lieve sfumatura violacea, che nulla aveva a che vedere con i lividi.
Miguel ne sapeva abbastanza da capire che non era un buon segno, ma riuscì a domare un poco le proprie preoccupazioni quando, dopo aver vuotato l’ultimo bacile d’acqua sporca, il profumo delle erbe medicinali poste ad essiccare sul camino sostituì l’odore ferroso del sangue.

In quel momento Nathan, che era rimasto immobile e silenzioso sul tavolo, con asciugamano steso pudicamente attorno alla vita, si mosse come per voltarsi su un fianco. Il movimento gli provocò una fitta lancinante nella schiena mentre alcune delle ferite si riaprirono con uno strappo della pelle. Diede un grido di dolore e forse sarebbe anche caduto a terra se Padre Antonio non fosse accorso a sostenerlo. In un inglese molto stentato riuscì a convincere il suo paziente a stare fermo e calmarsi, non gli avrebbero fatto del male.
Nathan aveva solo un vago ricordo di Conrad che lo portava via dalla prigione, un’immagine al confine tra sogno e realtà. Quando però vide la premura negli occhi dell’uomo che lo sorreggeva, e riconobbe i sai dei francescani, capì di essere al sicuro. Era comunque allo stremo delle forze, e s’accasciò sul braccio che lo sosteneva.
I suoi ansiti sfociarono allora in un doloroso attacco di tosse.
Vedendo la schiena del giovane, ridotta a brandelli dalla frusta, sussultare e coprirsi di sangue fresco ad ogni colpo di tosse, Miguel non riuscì a trattenere un brivido d’orrore. Recitando il rosario, meditava due volte a settimana i Misteri del Dolore, compresa la Flagellazione e la Crocifissione di Cristo, ma quella che aveva davanti era carne viva. Un uomo come lui, che sanguinava e soffriva per la crudeltà di altri.
Mentre Padre Ramirez sorreggeva il poveretto, aiutandolo a riprendere fiato, Miguel iniziò a tamponare le sue ferite, premendovi sopra uno straccio per arrestare l’emorragia
.
Nathan gridò per il forte dolore e, subito dopo, un altro accesso di tosse lo travolse. Padre Ramirez lo strinse a sé per impedirgli di farsi male ma, sentandosi contenuto, il giovane tentò disperatamente di divincolarsi, fino a crollare ansante contro il petto dell’uomo, che si stava prodigando per calmarlo, senza successo. Crollò per mancanza di forze, più che di volontà.
Quando lo distesero di nuovo sul tavolo, adagiandolo sul fianco con un asciugamano sotto la testa, tentò di rannicchiarsi, senza riuscirci.
Padre Antonio si chinò su di lui e gli asciugò il sudore con una pezza: “Va tutto bene, ti stiamo curando.”
In un momento di lucidità, Nathan riconobbe l’accento e, con voce flebile, chiese in spagnolo: “Dove mi trovo?”
Il frate gli accostò una tazza d’acqua alle labbra: “Sei nel monastero di Sant’Agostino, figliolo. Sei al sicuro, non preoccuparti: il tuo amico ti ha accompagnato qui.”

Tutti i pezzi andarono al proprio posto, rendendogli il quadro completo, e Nathan poté tranquillizzarsi. Data l’esperienza appena passata, non si sentiva a proprio agio con il giovane monaco alle sue spalle che gli puliva le ferite sulla schiena. Cercò di non dare troppo peso a quel disagio, concentrandosi sul respiro nel tentativo di tenere a bada il dolore, ma anche respirare era molto doloroso.
Sapeva per certo di avere delle costole rotte, le aveva sentite spezzarsi sotto i colpi dei suoi aguzzini, e aveva sentito il respiro farsi più difficile mentre pendeva inerme dal soffitto, nudo ed indifeso sotto la gragnuola di colpi che lo tartassava. Le fratture da sole potevano giustificare la fatica che faceva a respirare, ma sentiva un peso sui polmoni che nulla aveva a che vedere con le ossa rotte.
Suo malgrado emetteva un rantolo ad ogni esalazione e prendere fiato gli era difficile. Stare sdraiato sul fianco di certo non lo aiutava, anche se capiva che era l’unico modo per medicare la sua schiena flagellata.
Percepiva vagamente un camino acceso nella stanza, ma continuava a sentire freddo e il dolore non lo abbandonava. Aveva la testa pesante e si sentiva confuso, come ubriaco, e gli sembrava di essere sospeso in una fitta nebbia.
Si chiese dove fosse Conrad, se stesse bene, ma soprattutto si preoccupò per le informazioni che trasportava: sarebbero state fondamentali per le sorti dell’Inghilterra e, se anche non aveva rivelato nulla ai suoi torturatori, perderle sarebbe stato un danno altrettanto grave.
Gli tornò in mente Conrad che raccoglieva il suo panciotto da terra e apriva la toppa dei pantaloni, estraendo il biglietto in essa contenuto, un’immagine troppo vivida per essere frutto della sua mente sconvolta.
Trasse un sospiro di sollievo, che però degenerò subito in un feroce attacco di tosse.
Ogni sussulto del suo torace gli provocava una fitta di dolore lancinante e riprendere fiato gli divenne impossibile.
Il monaco di prima gli bagnò di nuovo le labbra e gli disse qualcosa, presumibilmente per tranquillizzarlo, ma non capì una parola.
Sentì gli occhi roteargli nel capo, poi perse la consapevolezza di tutto.

Padre Antonio adagiò la testa del ferito sullo straccio che gli faceva da cuscino: “Poveretto.” sospirò, scuotendo il capo “Non ce la faceva più. A che punto sei, Miguel?”
“Ho finito, padre. Non sanguina quasi più.”
“Bene, molto bene. Possiamo iniziare a ricucirlo.”
Sciacquarono ogni sua ferita con aceto e spirito di vino prima di riavvicinarne i labbri e richiuderli con la stessa cura che usavano per rilegare i testi sacri. Terminata ogni sutura, Padre Antonio tamponava la pelle livida con un unguento oleoso per lenirne i traumi, prima di applicare una garza per proteggerla.
Fasciarono con cura il torace del ferito, prestando particolare attenzione alle costole danneggiate, e lo ridistesero sul dorso. Gemette mentre lo spostavano, ma dopo quel primo momento sembrò respirare meglio.
Mentre gli spalmava un medicamento sulle nocche spaccate e sulle ulcere rimaste al posto delle unghie, Miguel si ritrovò a pensare ad un’icona della Deposizione che aveva dipinto e, dopo un breve calcolo, realizzò con orrore che avevano saltato le Lodi.
“Scusate, Padre.”
“Dimmi, Miguel.”
“Non è peccato mancare la Liturgia?”
“Un uomo della Samaria, che era in viaggio, lo vide e ne ebbe compassione. Gli andò vicino, versò olio e vino sulle sue ferite e gliele fasciò. Poi lo caricò sul suo asino, lo portò a una locanda e fece tutto il possibile per aiutarlo.[1]” Recitò il frate, senza alzare lo sguardo dalla ferita che stava medicando “Non è forse Parola del Signore?”
“Sì, Padre.”
“Allora medita su questo, mentre la metti in pratica: perché avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuto a visitarmi.[2]
“Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.[3]” Concluse Miguel, rimettendosi al lavoro.

Le ferite al torso, per quanto terribile fosse il loro aspetto, erano solo una parte di quelle che straziavano il corpo del povero Nathan.
Le sue spalle erano rigide per essere state costrette troppo a lungo in una posizione innaturale e forzate a reggere tutto il peso del corpo. Le massaggiarono con un balsamo all’arnica ed applicarono degli impacchi caldi, ma erano certi che avrebbero continuato a dolere ancora a lungo.
Come i polsi, anche le caviglie presentavano dei gravi segni di costrizione.
Stinchi e ginocchia mostravano abrasioni profonde quasi fino all’osso, e le piante dei piedi erano coperte di lividi profondi e tagli come solo una canna rigida poteva lasciarne.
I suoi aguzzini non dovevano avergli lasciato un momento di respiro, e il fatto che aveva resistito a tanto aveva dell’incredibile.

I monaci ebbero un bel da fare a medicare, lenire e fasciare ogni ferita, livido e piaga. Quando finirono era ormai mattino inoltrato.
Cercando di non strattonarlo troppo, gli infilarono una morbida tunica in cotone, che copriva quasi del tutto le fasciature. A parte le mani bendate, il respiro irregolare, e il volto pesto, sembrava che dormisse.
Miguel intinse una spugna nell’acqua tiepida ed iniziò a lavargli i capelli, e Padre Antonio gli rasò con cura il viso. Piccole attenzioni volte a restituirgli la dignità che i suoi carcerieri avevano cercato di portargli via.
 


Nell’ala opposta del monastero, Conrad Hancock passeggiava avanti e indietro nella stanza che gli avevano messo a disposizione. I suoi pesanti stivali di cuoio rimbombavano nella cella dell’abate di un secolo prima, ma aveva frequentato il monastero abbastanza a lungo da sapere che gli spessi muri di pietra avrebbero impedito che il suono disturbasse le attività dei monaci.
Era la camminata nervosa di un leone in gabbia.
Non solo era profondamente turbato per gli eventi della notte precedente, le condizioni in cui aveva trovato il suo agente non lo lasciavano tranquillo, ma anche per il contenuto del foglio che reggeva tra le dita. Prima di essere catturato, e ridotto in fin di vita, Nathan era riuscito a portare a termine la sua missione, la prima parte almeno.

Le informazioni che aveva ricevuto, prima che qualcuno lo smascherasse e lo consegnasse agli spagnoli, confermavano i peggiori timori di Sir Joseph Banks: Napoleone stava mettendo in atto dei preparativi concreti per invadere la Spagna. Fino all’ultimo, gli agenti del Servizio Informazioni della Corona avevano sperato si trattasse di una voce infondata, ma il corso maledetto si era dimostrato, ancora una volta, ben più avventato di quanto supponessero.
Hancock non riusciva a farsene una ragione. Il territorio spagnolo era un ginepraio di relazioni precarie ed antagonismi in cui nessun condottiero dotato di buon senso avrebbe voluto mettere piede. Eppure, era proprio quello che Bonaparte puntava a fare nel prossimo futuro.
Per come la vedeva Hancock, le possibilità erano due: o Napoleone era uscito di testa e, ebbro delle vittorie sul Continente, voleva tentare l’ennesima impresa all’apparenza impossibile, oppure – ed era l’ipotesi peggiore – disponeva di armi e strumenti di cui non erano a conoscenza e che gli avrebbero assicurato la vittoria anche in quel caso.
Se le cose stavano così, l’Inghilterra sarebbe stata l’unica potenza in grado di arginare la tracotanza di Bonaparte e le informazioni in loro possesso sarebbero state la chiave per permettere il contrattacco.

Tutto questo, però, era di là da venire.
I Francesi non sarebbero stati pronti prima di alcuni mesi, in quel momento la questione più importante era cercare di capire chi avesse tradito e a che punto della catena degli informatori si trovava. Era impellente capire di chi si potessero ancora fidare e di chi no.
Sul fatto, invece, che le notizie reperite da Nathan fossero attendibili non aveva dubbi: non l’avrebbero torturato per recuperarle, altrimenti.
Con una lunga carriera da agente alle spalle, Hancock era riuscito a farsi un’idea della situazione. Qualcuno, piuttosto in alto nella catena degli informatori, aveva cercato di rimangiarsi la parola data, ma l’aveva fatto in ritardo, quando ormai il meccanismo era già stato avviato. Chiunque fosse quella persona, era arrivata dannatamente vicina a raggiungere il suo scopo: se quelle informazioni vitali erano giunte a destinazione lo si doveva solo alla tenacia del giovane Bertrand, e alla rapidità del loro intervento perché se fosse morto – e, visto lo stato in cui era, sicuramente sarebbe morto prima di parlare – i suoi carcerieri non avrebbero impiegato troppo tempo a capire cosa nascondesse e dove.
Erano stati fortunati.

Hancock interruppe il suo passeggiare e tese l’orecchio, cercando di capire se i monaci avessero finito di medicare il suo agente e se lo stessero portando in stanza.
Niente.
Del resto, anche se erano passate ore dal loro arrivo, non c’era da stupirsi che ci volesse del tempo: le sue ferite erano gravi e i monaci dovevano dedicarvi la giusta attenzione.
Quando sarebbe stato in grado di parlare, magari avrebbe potuto aiutarlo a ricostruire il quadro completo, ma per ora l’importante era che si riprendesse abbastanza da affrontare il viaggio di ritorno. Lasciarlo lì, per quanto il monastero fosse un luogo sicuro, avrebbe voluto dire voltargli le spalle e non meritava un trattamento del genere, non dopo quello che aveva sofferto.
Del resto, bisognava pure aspettare che il suo torturatore parlasse, ma per quello, se conosceva Rafael e i suoi consanguinei, ci sarebbe voluto molto, molto meno.
 

 
Sotto lo sguardo attento di Padre Ramirez, due confratelli trasportavano la lettiga su cui giaceva Nathan Bertrand, avvolto in una coperta, come in una processione li seguiva il giovane Miguel, con tutto il necessario per la stanza del malato.

Lo portarono nella stanza adiacente a quella di Conrad. Una delle poche ad avere un vero letto, già pronto con lenzuola pulite e coperte, e un camino, in cui già ardeva un fuoco vivace.
I monaci adagiarono con cura la barella a terra, scoprirono il giovane e, maneggiandolo con la stessa cura che avrebbero usato per una reliquia, lo deposero sul letto, rimboccandogli con cura la coperta sulle spalle.
Sul comodino al capezzale, Miguel posò un catino con una brocca d’acqua, alcune pezzuole pulite, ed un bicchiere per permettere al giovane di dissetarsi se ne avesse avuto bisogno.
Congedati i barellieri, Padre Ramirez s’attardò al capezzale del ferito per controllargli il polso, rapido ma più regolare di quando era arrivato sul suo tavolo, e la temperatura della fronte. Sotto i lividi, la pelle del ferito era pallida, fredda, e madida di sudore. Sintomi di una grave perdita di sangue e di uno stato di profonda sofferenza, anche se l’assenza di febbre lasciava ben sperare.
Gli aggiustò addosso le coperte e si rialzò, lasciandolo dormire.

Qualche colpo leggero alla porta annunciò l’arrivo di Conrad.
Padre Ramirez lo accolse con rispettoso sussiego: “Prego, agente, accomodatevi: lo abbiamo appena messo a letto.”
“Vi ringrazio, padre.” Lo salutò l’inglese, dirigendosi al capezzale del giovane “Come sta?” domandò poi, chinandosi sul suo viso pallido e immobile. Una mano sospesa a mezz’aria, come se volesse toccarlo, per offrirgli conforto o accertarsi che fosse davvero ancora vivo, ma si trattenesse per paura di fargli del male.
Padre Ramirez gli si pose alle spalle, le mani nascoste nelle profonde maniche del saio, incrociate sul petto: “Siete arrivati appena in tempo. E’ molto grave: poche ore ancora, e per lui non ci sarebbe stata più speranza.”
Conrad annuì in silenzio, lo sguardo fisso sul volto del suo subordinato e la fronte aggrottata per la preoccupazione, ma le sue spalle si raddrizzarono un poco, come se avessero lasciato andare parte del peso che vi gravava sopra.
Vedendolo più tranquillo, il frate continuò: “Ha perso molto sangue, e sofferto molto, ma è molto forte: ce la farà.”
“Tra quanto sarà in grado di viaggiare?”
Padre Ramirez si strinse nelle spalle: “Se non s’aggrava, dovrà restare costretto a letto per almeno un paio di settimane. Il che è un bene, per voi: vi permetterà di guadagnare tempo mentre si calmano le acque.” A quel punto, però, il frate s’accorse dell’espressione cupa che adombrava il volto dell’agente e si sporse addirittura a mettergli una mano sulla spalla “Non abbiate timore: qui siete al sicuro, e il nostro giovane amico sta ricevendo le migliori cure. Ha solo bisogno di riposare.”
Conrad annuì di nuovo, e il frate si sentì finalmente tranquillo a lasciarlo solo con il ferito.
Chiamò con sé Miguel e si chiuse con discrezione la porta alle spalle.

Rimasto solo, Conrad sedette al capezzale di Nathan.
Le coperte erano già lisce come se gliele avessero inamidate addosso, ma passò comunque la mano in corrispondenza del suo petto, come per lisciare delle pieghe inesistenti.
Gli posò le nocche su una tempia, e il giovane emise un lieve gemito, piegando il capo nella sua direzione, come a cercare un maggiore contatto. Il gesto si trasformò allora in una vera e propria carezza, con cui Conrad gli scostò dolcemente i capelli dal viso: “Tranquillo, Nathan. Siamo al sicuro, adesso. E’ finita.” Il giovane emise una specie di sospiro tra i denti, sapendo per esperienza che la sua voce lo stava tranquillizzando, Conrad continuò “Va tutto bene, Nathan, tranquillo. E’ finita. E’ finita.”

 
Note:
[1] Luca 10, 33-34
[2] Matteo 25, 35- 36
[3] Matteo 25, 40

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Carissimi, stavolta non ho impiegato un'infinità per aggiornare, spero per vostro gradimento.
Purtroppo, ho una vita molto impegnata che mi sta lasciando pochissimo tempo ed energie per scrivere. Se tutto va bene, nelle prossime settimane il ritmo dovrebbe allentarsi un poco.
Mi dispiace moltissimo avere dei tempi così lunghi, anche se non dipende dalla mia volontà.
Un ringraziamento particolarmente sentito, dunque, a chi ha avuto la pazienza di restare a seguire questo racconto, che d'ora in poi spero di poter aggiornare con maggiore frequenza.

In questo capitolo entreranno in gioco alcuni personaggi storici reali. Le azioni e le decisioni che imputo loro non hanno alcuna pretesa di essere reali, solo verosimili dato il contesto storico d'appartenenza. E' possibile che abbiano fatto o pensato qualcosa del genere ma la Storia non ne ha serbato memoria, quindi ho lavorato di fantasia. A parte la storia del Bragadin, quella è vera.

Buona Lettura ^^



Il rumore del secchio riverberò come il suono di una campana a morto quando Ernesto lo colpì con il bastone. Attese paziente che smettesse di vibrare prima di colpirlo altre due volte.
A qualche passo di distanza, ritto in piedi con le braccia incrociate sul petto, Rafael osservava l’operato del cugino con occhio critico: Ernesto era di poche parole, anche con loro parlava poco e difficilmente apriva bocca se non interrogato, e questo lo rendeva particolarmente affidabile.
Aveva anche un talento fuori dall’ordinario per qualsiasi compito pratico gli venisse affidato e, soprattutto, era molto creativo.
Specie se si doveva far parlare qualcuno che non ne aveva voglia.
Dopo aver assestato un colpo particolarmente potente al secchio, Ernesto aspettò che si assestasse e, con calma misurata, lo sfilò dalla testa del suo attuale cliente.

L’uomo, il francese che aveva supervisionato la tortura di Nathan, scivolò giù dalla sedia e si accasciò faccia a terra.
Pedro si mosse per ricacciarlo in piedi di forza ma Rafael gli fece cenno di aspettare: “Dobbiamo avere pazienza. Troppo tempo sotto torchio e non parlerà mai più. Diamogli il tempo di riprendersi.”
“Rafi, non abbiamo tempo!”
“Lo so, ma è la nostra unica possibilità di capirci qualcosa. Se muore, potremmo non venirne mai a capo, e il ragazzo avrebbe sofferto per niente.”
Quell’argomentazione fu sufficiente a convincere Pedro che, pur recalcitrante, si mise tranquillo in un angolo a preparare un pasto spartano per tutti. Ernesto, invece, si lasciò cadere sulla poltrona imbottita, la stessa che aveva accolto Nathan la notte precedente, e, incrociate le mani sulla pancia, allungò le gambe, mettendosi a dormire.
Rafael sedette dirimpetto a Pedro, ed iniziò a controllare la corrispondenza che aveva trovato nei cassetti dei sequestratori, sperando di trovare un qualche indizio importante.

Si mise a parlare con il fratello, come faceva di solito quando aveva bisogno di riordinare i pensieri: “A questo punto, ormai mi sembra chiaro che questi signori siano l’ultimo anello di una lunga catena che ha le sue radici ben più in alto.”
“Tutti spagnoli?” chiese Pedro addentando una fetta di pane e formaggio.
Rafael annuì: “La maggior parte piccoli criminali o lavoratori a giornata a cui era stata messa in mano un’arma ed una moneta d’oro senza che sapessero cosa stessero difendendo e da chi, tranne due francesi: uno lo ha ucciso Hancock per liberare Bertrand, l’altro è questo qui.”
“Sicuramente un pesce piccolo.”
“Lo penso anch’io. Ma non è comunque l’ultimo arrivato: hai visto come si comporta.”
“Ernesto riuscirà a farlo parlare.” lo rassicurò il fratello, tendendogli la sua porzione di pane imburrato e prosciutto.
Rafael l’accettò scuotendo la testa: “Lo so, ma ci sta mettendo troppo. Di solito ci vuole molto meno.”
“Certi agenti sono addestrati per sopportare la tortura, hermano, e tu lo sai.”
“Proprio questo mi preoccupa: se questo qui è così ben addestrato vuol dire che non è qui per caso e, di sicuro, non è solo. E non sto parlando di quello che abbiamo seppellito stamattina: ci dev’essere per forza qualcun altro in giro.”
“Non mi piace dire ‘te l’avevo detto ’, ma te l’ho appena detto: il tempo stringe. Se c’è un altro di questi brutti ceffi nei paraggi, gli inglesi sono ancora in pericolo. Non li lasceranno tornare indietro. Non senza aver tentato tutto il possibile. Ogni minuto che passa è un punto a favore di Napoleone.” sputò per terra, come se il solo pronunciare quel nome gli avesse lasciato un sapore amaro in bocca.
Rafael sospirò: “Uomo morto non racconta storie, Pablo. Non abbiamo scelta: dobbiamo aspettare che si riprenda per farlo parlare.”
“E parlerà, ve lo assicuro.” intervenne Ernesto, senza disturbarsi ad aprire gli occhi “Che lo voglia o no.”
 


Era una tranquilla giornata d’autunno.
Il sole già alto aveva portato con sé gli ultimi strascichi d’estate, diffondendo un gradevole calore. I gabbiani si rincorrevano nel cielo terso, e le loro grida si mescolavano con lo scrosciare delle onde che s’infrangevano sulla scogliera in cima alla quale era arroccato il monastero di Sant’Agostino.
Le sue spesse mura risuonavano dei canti dei monaci che cantavano la Messa. Le loro voci sembravano vibrare a tono con i suoni del vento e del mare, come se avessero avuto il potere di rendere il Creato in completa armonia.

Nella cella che era appartenuta ad un nobile abate tanti secoli prima, i suoni della natura e i canti giungevano attutiti, come se anch’essi si facessero riguardo per la vita fragile che le sue pareti custodivano.
Un fuoco vivace crepitava nel camino e costituiva la principale fonte di luce nella stanza.
Per non disturbare il sonno del ferito, gli scuri della finestra erano stati chiusi quasi del tutto, e solo qualche timido raggio di sole raggiungeva il pavimento.
Nathan Bertrand giaceva immobile, come abbandonato. Il suo magro torace s’alzava e si abbassava sotto le coperte con movimenti lenti e irregolari, ogni respiro accompagnato da un rantolo profondo, come se avesse avuto qualcosa incastrato nel petto che non gli permetteva di respirare bene.
Era molto pallido, e le gocce di sudore che gl’imperlavano il viso rilucevano alla luce della fiamma. Gli avevano bendato le mani con delle garze immacolate, e le macchie arrossate dove gli erano state strappate le unghie sembravano più scure di quanto non fossero.

Su una sedia di legno al suo capezzale, Conrad lo fissava con l’intensità di un falco.
La luce del sole non arrivava che ai piedi del letto ed il suo volto era nascosto nella penombra, appena sfiorato dal calore delle fiamme.
Sedeva incurvato in avanti, i gomiti puntati sulle ginocchia, mento e labbra premuti contro le mani intrecciate, del tutto immobile.
Era in quella posizione ormai da ore, non sentiva nemmeno più il fastidio dei muscoli che si erano irrigiditi da tempo. Era abituato a rimanere immobile per tanto tempo, appostato come un cobra in attesa di un bersaglio inconsapevole o nascosto in un angolo buio con l’orecchio teso ad ascoltare conversazioni a cui non avrebbe dovuto assistere.
In quel momento tutti i suoi sensi erano all’erta, pronti a captare ogni minimo cambiamento nella figura che giaceva di fronte a lui. Il suo giovane agente, in quelle condizioni, era più che mai vulnerabile, del tutto indifeso. Non si sarebbe mai perdonato se gli avessero fatto altro male.

All’improvviso, Nathan sussultò. Il suo respiro, già affaticato, si fece ancor più superficiale. Era troppo debole per muoversi, e il laudano che gli avevano somministrato per alleviare il dolore delle sue numerose ferite gli aveva lasciato una pesantezza innaturale nelle membra.
Socchiuse gli occhi, e Conrad vide che erano velati dalla droga e dallo sfinimento: non era cosciente di dove fosse. Si chinò su di lui, cercando di non intimorirlo.
Prima che potesse fare nulla, un sussurro tremante uscì dalle labbra screpolate del giovane: “Cosa succede?” le sue iridi saettarono sotto le palpebre livide, sembrava terrorizzato “Cosa volete farmi?”
Avvezzo a scene simili, Conrad gli sistemò addosso le coperte, gli passò piano una mano su un braccio e gli parlò con un tono calmo, rassicurante: “Non preoccuparti. Sei qui con me. Sei al sicuro. Va tutto bene.”
Continuò a ripetere quelle parole, come una litania, mentre tergeva con delicatezza il sudore dalla fronte del ferito, tamponandolo con la pezzuola umida. Per tutto il tempo gli tenne l’altra mano sul braccio, senza interrompere il contatto.
A poco a poco, Nathan si rilassò di nuovo, abbandonandosi sul cuscino.
“Bravo ragazzo. Va tutto bene, vedi? Riposa, ora. Riposa tranquillo.”
Conrad non tornò a sedersi finché il respiro del giovane non gli fece capire che si era riaddormentato, ma, anche allora, continuò a tenere una mano sulla sua.
 


“Sto cominciando a perdere la pazienza.” sibilò Rafael, chinandosi sul prigioniero seduto di fronte a lui. Nel farlo, ebbe cura di pesarsi sulle mani del suddetto, che Ernesto aveva già conciato a dovere: gli aveva rotto quattro dita a mani nude, arrotolandole e schiacciandole nel palmo della mano. Una piccola parte dell’escalation di tormenti a cui lo avevano sottoposto.
Il francese, che avevano inteso chiamarsi Pierre, si ritrasse con un suono acuto, una specie di squittio: ”Per favore.” singhiozzò “Ne va della mia vita.”
“Non ti sei fatto scrupoli con il ragazzo.” lo interruppe Pedro nella sua lingua, bloccandogli le spalle contro lo schienale della sedia a cui lo avevano legato “Anche se scommetto che lui non urlava come te.”
Il francese non rispose, chinò solo il capo per la cocente umiliazione.
Rafael si piegò sotto di lui, costringendolo a guardarlo negli occhi: “Come ti ho detto, sto perdendo la pazienza. E sono sicuro che nemmeno a te piace stare qui con noi. Vero o no?”
Tremando, il francese scosse il capo.
“Allora ti dirò come andrà a finire: tu ci dirai quello che vogliamo sapere. Puoi scegliere se farlo e sopravvivere o dircelo in punto di morte. Per noi non cambia.”

“Lascia perdere.” Brontolò Ernesto, mentre affilava un coltello, accertandosi di essere nel campo visivo del prigioniero “Questo qui è come il Bragadin: vuole fare il martire.”
“Chi?” balbettò il francese, sconvolto.
“Marcantonio Bragadin. Un generale veneziano che fu catturato dai Turchi a Famagosta.” l’informò Rafael, fingendo indifferenza “Prima gli tagliarono il naso” e torse quello del suo prigioniero fino a romperlo “poi le orecchie” Pedro gli tirò le orecchie tanto forte da fargli male “poi lo lasciarono a morire di stenti in una gabbia. Siccome non voleva convertirsi, gli diedero cento frustate e lo scuoiarono vivo, partendo dalla testa. Nostra nonna ci raccontava sempre la sua storia, per farci paura. Da allora, Ernesto è rimasto curioso di sapere cosa succede quando uno viene scorticato. Che dici, lo accontentiamo?”
Di nuovo, il francese squittì, cercando di farsi più piccolo.
“Non preoccuparti.” Lo rabbonì Pedro, un tono rassicurante, massaggiandogli le spalle “Con te non inizieremo mica dalla faccia. Partiremo dalle dita dei piedi, che tanto quelle non ti servono: così potrai dirci quando fermarci.”

Ad un suo cenno, Ernesto si piegò a sfilare uno stivale del prigioniero, che lo interruppe con un grido, nonostante il sangue che gli colava dal naso rotto gli finisse in bocca: “Voi non capite! Lui non me la farà passare liscia! Si rifarà sulla mia famiglia!”
“Dovevi pensarci prima di intraprendere questa vitaccia.” Lo sfotté Pedro, impietoso.
“Comunque possiamo proteggerti, se tu ci vieni incontro.” intervenne Rafael, più tranquillo.
“Voi non capite!” gridò di nuovo Pierre “Lui sa sempre tutto! Ha appoggi dappertutto, arriva dappertutto! Mi troverà anche in capo al mondo!”
“Ma chi è questo lui?!” Gli urlò in faccia Rafael, per scompensarlo del tutto.
“Talleyrand!” Rispose il francese, ormai scosso dai singhiozzi.
Incredulo, lo spagnolo fece un passo indietro: il gran ciambellano di Napoleone era la stessa persona che si era messa in contatto con loro per informare gli agenti inglesi dei piani futuri del generale corso sull’Europa. A quella rivelazione, i catalani ammutolirono, sgomenti.
Non ebbero tuttavia bisogno di fare altre domande: il francese era ormai un fiume in piena: “Qualche giorno dopo aver allertato voi, Monsieur è riuscito a far accettare al Papa di benedire l’Incoronazione a Imperatore di Bonaparte e ha rivalutato le sue speranze di conquistare la Spagna. Noi eravamo a Roma come agenti dormienti. Ci ha convocato di persona per ordinarci di intercettare gli agenti inglesi prima che fossero messi al corrente della situazione. Siamo arrivati tardi e, come sapete, non abbiamo avuto modo di recuperare le informazioni. Questo è quanto.”
Chinò il capo, continuando a piangere in silenzio, mentre i catalani cercavano di digerire quel macigno.
 


Nella penombra della cella, Nathan aveva ripreso ad agitarsi sotto le coperte.
L’effetto del laudano stava scemando e, insieme al dolore, gli stava salendo la febbre. In quelle condizioni, gli era impossibile riposare: il suo respiro era rapido e superficiale, il volto pallido e sudato contratto in una smorfia di sofferenza mentre le mani artigliavano le coperte all’altezza del petto.
Seduto sul letto accanto a lui, Conrad guardava di continuo l’orologio sul comodino, in spasmodica attesa del momento di somministrargli un’altra dose del farmaco, che però sembrava non arrivare mai. Poiché anche il minimo contatto fisico sembrava causargli dolore, l’agente non poteva far altro che passargli la pezzuola umida sul viso e parlargli per cercare di distrarlo.
“Ti ricordi il tuo primo incarico? Avevamo portato quel tale in una bettola sulla riva sud del Tamigi. Sapevamo che era un agente in incognito ma non ne voleva sapere di sbottonarsi. Lo hai fatto ubriacare tanto che alla fine si era quasi spogliato completamente e cantava La Marsigliese in piedi sul tavolo. La vera sfida è stata portarlo via da lì prima che lo linciassero.”

Un angolo della bocca di Nathan si tese in una specie di sorriso, che però fu subito seguito da una brusca inalazione e da un gemito di dolore.
“Tranquillo.” Cercò di rassicurarlo Conrad, premendogli lo straccio sulla fronte sudata “Respira. Respira piano. Va tutto bene.”
Gli prese un polso tra le dita, contando a mente i battiti, mentre continuava a cercare di rassicurarlo. Continuò così finché il meccanismo nell’orologio scattò e la sveglia l’avvertì che era il momento di somministrargli la medicina.
Versò le gocce necessarie nel bicchiere e allungò il farmaco con l’acqua. Passò una mano dietro la nuca di Nathan: “Cerca di bere questo, allevierà il dolore.”
Obbediente, il giovane mandò giù qualche sorso, poi, però, scosse il capo per indicare che non ce la faceva più.
A malincuore, Conrad dovette insistere: “Tutto.” Lo incoraggiò, premendogli il bordo del bicchiere sulle labbra “Devi berlo tutto. Coraggio, fa’ un piccolo sforzo. Poi potrai riposare.”
Guidato dalle sue parole, Nathan finì la medicina, anche se con grande fatica.

Il laudano fece effetto in pochi minuti, durante i quali Conrad continuò a carezzare piano i capelli e la fronte del ferito, per aiutarlo a prendere sonno.
Quando si fu riaddormentato, gli aggiustò con cura le coperte sul petto, attardandosi a lisciare delle pieghe inesistenti, e gli sistemò le mani sul copriletto, perché fosse più comodo. Intinse la pezzuola nella bacinella d’acqua tiepida, la strizzò e gliela stese su fronte ed occhi, per lenire il calore della febbre che saliva inesorabile.
Gli sistemò i cuscini sotto la testa per aiutarlo a respirare meglio e, alzandosi, si assicurò che le coperte fossero in ordine e, di nuovo, s’attardò a sistemare delle pieghe inesistenti.
Si premurò di mettere altra legna sul fuoco e ravvivarlo prima di tornare alla sua veglia silenziosa.

Tutta la premura dell’agente Hancock non gli garantiva il dono dell’onniscienza.
Non poteva in alcun modo sapere che, proprio in quel momento, una figura incappucciata era scivolata da sotto il carro di un contadino entrato al monastero per far provvista di fieno.
Il suo viaggio era stato lungo e difficile, ma pareva non averne risentito affatto. Sgusciò in silenzio, senza farsi notare, nell’ombra del chiostro.
Teneva il cappuccio calato sul visto, sicché sarebbe stato impossibile riconoscerlo e, sulla tonaca da monaco agostiniano, portava il simbolo di chi sceglieva di fare il voto di silenzio.
Certo che nessuno avrebbe osato rivolgergli la parola, avrebbe potuto agire indisturbato.


 

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Carissimi lettori e lettrici, ecco a voi un nuovo capitolo di questa intricata vicenda, nella speranza che non vi sia venuta del tutto a noia.
Purtroppo, la vita mi lascia poco tempo da dedicare alla scrittura, ma sto cercando di fare del mio meglio.
Nel frattempo, un cordiale ringraziamento a chiunque abbia trovato due minuti da dedicare al mio lavoro e sopratutto a chi ha lasciato un pensiero.
Grazie infinite.


Buona lettura ^^

Nella penombra della cella, Nathan si agitava sotto le coperte.
Quel poco di pelle lasciato scoperto dalle bende era arrossato e il sudore malsano dovuto all’emorragia aveva lasciato il posto a quello, anche più preoccupante, causato da una febbre che non sembrava voler smettere di alzarsi.
La temperatura alta non faceva che esacerbare il senso di smarrimento e confusione causati dal laudano e il giovane non riusciva a trovare pace nel suo letto.
Al suo capezzale, Conrad aveva il suo bel daffare a cercare di tenerlo tranquillo: gli parlava piano e gli tamponava viso, collo, e braccia con la pezzuola umida per cercare di tenere la febbre sotto controllo.
Tutte le sue cure, per quanto accorate, non sembravano sortire alcun effetto benefico.
Anzi, più cercava di avvicinarsi, più il giovane tentava di sottrarsi al suo tocco: “Fermatevi.” Sussurrava, tra gli ansiti “Fa male. Basta. Fa male.”
Quelle suppliche disperate lo ferirono nell’animo, ma si sforzò di non dare loro troppo peso. Con la febbre così alta, il laudano e il calvario che aveva appena subito, non poteva essere consapevole di quello che diceva.

Finché, a un certo punto, Nathan aprì gli occhi.
Pur lucidi per la febbre e sofferenti, quando incontrarono quelli di Conrad sembravano del tutto consapevoli.
Ne ebbe la conferma quando, allungando cauto una mano verso la sua tempia, il giovane strinse gli occhi di riflesso, ma non tentò di sottrarsi. Gli sfiorò i capelli con i polpastrelli per pettinarglieli e, vedendolo più tranquillo, continuò con un tocco delicato e gentile, che non lo spaventasse: “Bentornato, signor Bertrand. Come vi sentite?”
Il respiro affaticato del giovane si trasformò in un accesso di tosse appena schiuse le labbra per rispondere.  
Muovendosi con cautela, per non fargli male, Conrad lo tirò a sedere passandogli un braccio dietro le spalle e, sorreggendolo in quella posizione, gli accostò una tazza alle labbra e lo aiutò a bere un infuso, ormai freddo, che i monaci gli avevano preparato.
Quand’ebbe finito di bere, il giovane gli appoggiò il capo sulla spalla, come se avesse bisogno del contatto per sentirsi protetto.

Conrad non lo respinse, ma, avendolo così vicino, sentiva bene i suoni che produceva respirando e venne pervaso dalla preoccupazione. Si guardò bene, tuttavia, dal dire nulla al suo sottoposto.
Gli pose invece la mano sul petto, attento a non fare pressione, e glielo strofinò disegnando dei cerchi, per aiutarlo a respirare. Ne approfittò per raddrizzargli le fasciature, che si erano spostate mentre si agitava.
“Grazie.” Un filo di voce, a malapena udibile, sfiorò l’orecchio dell’agente che, come unica risposta, se lo tirò più vicino.
Non lo lasciò andare subito, anche perché in quella posizione sembrava respirare meglio, ma s’appoggiò con la schiena alla testata del letto, per poterlo sorreggere con più agio.
Il respiro del giovane, per quanto affaticato, si fece più regolare.
Cercando di non disturbarlo, Conrad gli portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e, con due dita, gli massaggiò la tempia con dei movimenti circolari, che alternava a delle lievi carezze sulle sopracciglia con il polpastrello.
A poco a poco, sentì il respiro del giovane rallentare e il suo corpo magro si fece più morbido e pesante addosso al suo, mentre sprofondava nel sonno.
Solo quando fu sicuro che fosse addormentato lo riadagiò con cura sul materasso, avendo cura di fargli scivolare un cuscino sotto le spalle per aiutarlo a respirare meglio.
Gli posò un braccio sul ventre ed uno allungato sul fianco, prima di rimboccargli le coperte sulle spalle.
 


Aveva appena disteso il giovane nel lettuccio, quando un rumore gli fece drizzare le orecchie.
Il monastero, di per sé, era tutt’altro che silenzioso: attraverso le spesse mura di pietra giungevano, seppure attutiti, nella cella i canti del coro che provava per la Messa, i rumori degli attrezzi nell’officina del fabbro, le litanie dei monaci che lavoravano nell’orto, le chiacchiere dei garzoni nel cortile, le strida dei gabbiani e l’onnipresente scrosciare delle onde.
Tutti quei suoni, legati dalla rigida ripartizione oraria della Regola, s’intrecciavano tra loro in un’armonia quasi orchestrale, che li rendeva quasi parte integrante del luogo.
Quello che invece rimbombava nel corridoio, facendosi sempre più vicino, era apparso subito all’orecchio dell’agente come una nota stonata.
Un qualcosa di non ben classificabile, che però sembrava non trovare spazio nel preciso equilibrio del monastero. Qualcosa che riconobbe subito come estraneo, fuori luogo.
Qualcosa che lo mise in allarme.

Impiegò qualche minuto di troppo per rendersi conto di cosa fosse quel rumore.
Un po’ perché i muri erano molto spessi, un po’ perché era uno degli ultimi suoni che si sarebbe aspettato di udire in quel luogo.
Erano i passi di un uomo che camminava lungo il corridoio. Un uomo che calzava pesanti stivali in cuoio.
Peccato che i monaci non indossassero stivali.
Non appena riconobbe il suono, mentre i passi si facevano sempre più vicini, Conrad scattò sulla difensiva, portandosi con le spalle contro al muro, defilato rispetto alla porta, in modo da poter vedere subito chiunque avesse cercato di entrare.
Un moto istintivo gli fece portare la mano alla cintura, dove, di norma, si trovava l’impugnatura della sua pistola. Trasse un impercettibile sospiro di sollievo nel trovarla al suo posto.
Nonostante avesse avuto la previdenza, più per abitudine che altro, di tenere l’arma a portata di mano, si maledisse a mezza voce, sibilando un’imprecazione a denti stretti. Aveva abbassato la guardia, di poco, per pochi istanti, e rischiava di costargli caro.
Soprattutto, Nathan era di nuovo in pericolo, e questo non poteva accettarlo.

Abituato a combattere, Conrad si guardò intorno e, in pochi secondi, si fece un quadro completo della stanza.
Le pareti, di spessa roccia, avrebbero attutito i rumori della colluttazione, ma avrebbero anche amplificato oltre misura il suono dello sparo. Tuttavia, era appena iniziata la Messa e i monaci erano tutti radunati in chiesa, mentre i garzoni e gli assistenti pranzavano. Nessuno sarebbe accorso in suo aiuto.
La finestra, con gli scuri socchiusi, era comunque troppo piccola per far uscire una persona e il camino costituiva la principale fonte di luce.
Questo avrebbe giocato in suo favore: i suoi occhi, ormai, erano abituati alla semi-oscurità della stanza, ma chiunque fosse entrato avrebbe avuto bisogno di qualche secondo per orientarsi. Un intervallo misero, ma pur sempre un vantaggio.
Non da ultimo, veniva il problema di Nathan: partiva già in svantaggio dovendo proteggere anche lui. Nelle condizioni in cui versava era del tutto indifeso, non poteva permettere che gli si avvicinassero. Avrebbe dovuto tenere il potenziale aggressore lontano dal ferito, ad ogni costo.
Si posizionò dunque tra il letto e la porta, in modo da poter balzare addosso a chiunque fosse entrato. Nel farlo, i suoi muscoli si tesero e percepì la rigida presenza del pugnale che teneva nello stivale.
Trasse un altro sbuffo stizzito, era una situazione che mai si sarebbe aspettato di dover gestire, ma aveva i mezzi per gestirla, e la buona sorte gli aveva consentito di accorgersi della minaccia in tempo utile.
Poteva farcela.
Come ultima precauzione, si sfilò la giacca e mise un cuscino di scorta sulla sedia che aveva occupato fino a quel momento, avvolgendolo nell’indumento.
Si pose dunque in attesa, ad aspettare, i muscoli contratti come un serpente pronto a scattare. Chiunque fosse entrato da quella porta, non avrebbe avuto vita facile.

La sua prudenza fu premiata quando, pochi istanti dopo, la porta si socchiuse con un cigolio sinistro e spuntò un bastoncino cavo, sottile, puntato verso la sedia dove aveva appeso la giacca.
Un sibilo acuto gli risuonò nelle orecchie, sferzando il silenzio della stanza, e un dardo acuminato si conficcò nel cuscino, dove fino a poco prima si trovava la sua schiena.
Trattenne il respiro, mentre il bastoncino si ritraeva, ed estrasse il coltello.
Quando vide il braccio dell’aggressore rientrare, questa volta con una pistola, l’istinto, catalizzato da anni d’addestramento, prese il sopravvento.
In due balzi raggiunse la porta e vi si scagliò contro con tutto il suo peso.
Il braccio dell’assalitore rimase schiacciato tra lo stipite ed il pesante uscio di legno. La pistola cadde con un tonfo sul pavimento e Conrad ebbe la soddisfazione di sentire un grido di dolore, accompagnato dallo schiocco sonoro del gomito che si spezzava.

Senza perdere un secondo, l’agente aprì del tutto la porta e si lanciò addosso al sicario, un uomo incappucciato vestito come uno stalliere, prima che questi potesse riprendersi dallo spavento.
Con entrambe le mani gli afferrò il braccio ferito e lo tirò, sbilanciandolo verso di sé. Tentò di farlo cadere ma l’altro agì di riflesso, tirandoselo contro e gettandosi con la schiena a terra.
Puntandogli un piede contro lo stomaco, riuscì a proiettarlo su di sé, con l’intento di scaraventarlo schiena a terra. Il gomito disarticolato, tuttavia, gl’impedì di portare a termine l’azione come avrebbe voluto.
Conrad, non cadde a terra, rimase dov’era, con i piedi ben piantati a terra. Decise tuttavia di assecondare il movimento del suo assalitore, dandosi lo slancio con i piedi, per liberarsi da quella situazione di svantaggio. Anziché finire tramortito sul pavimento, rotolò alla testa del sicario, da dove si rialzò in piedi in posizione di guardia.
Nella concitazione, il suo avversario era rimasto a capo scoperto.

Era un uomo dai folti ricci neri, raccolti con un nastro dietro la testa, con un profondo sfregio che gli tagliava il sopracciglio destro per poi proseguire lungo la guancia fino al mento. François Gervais, un agente francese molto vicino alle sfere di potere, con cui Conrad non aveva mai avuto a che fare di persona, ma che conosceva di fama.
Era noto, infatti, per agire nell’ombra, senza mai uscire allo scoperto, tanto che alcuni dubitavano della sua stessa esistenza o lo ritenevano uno spettro senza volto, famoso per risolvere senza lasciare tracce le situazioni più turpi in cui i Servizi francesi s’andavano a trovare.
Con un gesto di cui temeva di potersi pentire, Conrad rinfoderò il coltello. Gervais valeva molto più da vivo che da morto.
Tenendosi il braccio rotto, l’uomo si tirò in piedi.
“Anglais sans-couilles!” sputò per terra “Altri prima di te hanno provato a farmi fuori e non sono vissuti per raccontarlo.”
Come una fiera, il francese rischiava di essere più pericoloso da ferito. Soprattutto, ora che lo aveva visto in faccia, non avrebbe potuto lasciarlo vivere.
Era, ormai, una questione di vita o di morte, per entrambi.

Si studiarono per qualche secondo, di cui Conrad approfittò per mettersi tra il francese e la porta della cella, ma Gervais, fulmineo, si sfilò un coltello dalla manica e lo lanciò nella direzione dell’inglese che, per schivarlo, dovette rotolare di lato.
Il sicario gli diede un calcio nello stomaco, che lo fece piegare in due, e lo superò con un salto, avventandosi sulla porta.
Conrad scalciò e gli fu subito addosso ma quello fu più veloce, e guadagnò la stanza.

L’inglese s’avventò su di lui e lo atterrò appena prima che riuscisse a mettere le mani addosso a Nathan, ma entrambi atterrarono sul letto, svegliando il giovane.
Nonostante la febbre e il dolore lo stordissero, Bertrand capì subito che qualcosa non andava.
Ignorando il dolore delle proprie ferite, si piegò in avanti e gettò le braccia al collo del francese, stringendolo in una morsa.
Era molto debole, forse più di quanto si fosse reso conto, e sentì subito le forze affievolirsi. Con uno sforzo sovrumano, tenne duro ed ebbe la soddisfazione di sentire il francese singultare nel tentativo di riprendere fiato, prima che una gomitata nelle costole già danneggiate non lo costringesse a mollare la presa, piegandosi in due con un grido soffocato.

Conrad scagliò un potente gancio destro allo zigomo del francese che, stordito dall’asfissia, non riuscì a schivarlo e cadde a terra.
Pur boccheggiando, con uno scatto repentino, si gettò addosso all’inglese, che avvertì una fitta bruciante al fianco, ma intrappolò il suo braccio sano in una presa ferrea, in cui riuscì a fargli lasciare la lama dello stiletto.
Lo tirò in piedi di peso, sbilanciandolo, e di nuovo lo colpì al viso.
Gervais sputò del sangue, ma questa volta non cadde.
Si lanciò, invece, di nuovo in un attacco che somigliava più alla carica di un toro inferocito che all’azione di un uomo razionale.
Conrad sfruttò il suo impeto afferrandolo per le braccia e tirandolo di lato. Il francese perse l’equilibrio e cadde, andando a sbattere una tempia contro la base in pietra del camino.

Ansimante, con i capelli che gli cadevano sul viso e il sudore che gli colava dalla fronte, Conrad si chinò su di lui, per controllare che respirasse.
Accertatosi che fosse, almeno per il momento, ancora vivo, trasse da una tasca interna della giacca dei lunghi lacci di cuoio, con cui legò mani e piedi del francese. Gli congiunse le due legature dietro la schiena, rendendolo inoffensivo.
Certo che non avrebbe potuto fare danni per un po’, l’inglese se lo lasciò alle spalle per accorrere al capezzale del suo giovane collega, che era piegato su sé stesso, le braccia avvolte attorno al magro torace bendato, e respirava a fatica.
“Va tutto bene, ragazzo, è tutto finito.” Lo rassicurò, ponendogli con delicatezza le mani sulle spalle “Ti aiuto a risistemarti, adesso. Piano. Piano”
Lo aiutò a sistemarsi con la schiena contro i cuscini, lasciando che si prendesse tutto il tempo che gli serviva per non sforzare le ferite. Quando fu comodo, raccolse le coperte, che erano cadute nella colluttazione, e gliele stese addosso, rimboccandogliele sul petto.
Riempì una tazza d’acqua e l’aiutò a sorbirla a piccoli sorsi.
Mentre il giovane riprendeva fiato, intinse la pezzuola nella bacinella, la strizzò, e iniziò a tergergli il sudore da viso e collo.
Conrad stava ripetendo a mezza voce una litania di rassicurazioni, senza capire se le stesse rivolgendo a Nathan o a sé stesso.

All’improvviso, la porta si spalancò con un boato che li fece sobbalzare.
Subito, Conrad strinse a sé il giovane ferito, con l’istinto di proteggerlo. Quello che vide alle sue spalle, tuttavia, lo lasciò senza parole.
All’entrata della cella c’era un monaco incappucciato, con il simbolo di chi ha fatto voto di silenzio.
Per alcuni istanti un silenzio tombale calò nella stanza.

Poi il monaco proruppe in una sfilza di orrende imprecazioni e bestemmie in catalano.

 

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