Avrei potuto essere uno qualunque

di Milkyna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I genitori di Tom ***
Capitolo 2: *** Crescere in fretta ***
Capitolo 3: *** L'arrivo di Volpolo ***
Capitolo 4: *** L'intrusa ***



Capitolo 1
*** I genitori di Tom ***


Ann Dessie e James Nook erano due tanuki avventurosi, che si erano costruiti una vita nobile, al servizio del prossimo.

Si erano conosciuti durante un evento di beneficenza, e per loro era stato l’inizio di una storia che li aveva portati a viaggiare in lungo e in largo, visitando luoghi sperduti ma romantici, conoscendo popoli dai mille colori e dalle usanze intriganti, e infine aiutando quelli più poveri e bisognosi.

Per trent’anni i coniugi Nook non si erano tirati indietro quando si trattava di prendere un aereo o una nave, e neppure quando c’era da camminare sotto il sole rovente o manovrare una barca a remi con il mare in bonaccia.

Con una vita così movimentata, non avevano avuto figli, allietandosi con i sorrisi e gli abbracci delle miriadi di bambini che conoscevano durante i loro viaggi.

Senonché… Un giorno la signora Nook si era svegliata con forti giramenti di testa; aveva dato la colpa al fatto che avesse ormai cinquant’anni e non avesse più la grinta di un tempo, al caldo torrido della savana che stavano visitando, alla scomodità dell’amaca sulla quale aveva dormito.

Si era consultata con il marito ed i due avevano raggiunto il piccolo ambulatorio del villaggio, e lì avevano fatto una scoperta incredibile: Ann era incinta!

Non lo avrebbe mai creduto possibile, invece era successo.

I signori Nook erano preoccupati, ma anche immensamente felici e decisero di rallentare il loro stile di vita.

Ann era radiosa, con il suo pelo castano scuro morbidamente pettinato ad onde sul capo, e tenuto fermo da una tiara che il marito le aveva regalato per le nozze.

Aveva gli occhi azzurro chiaro e vestiva con abiti bianchi, gonne lunghe ariose e raffinate che ondeggiavano al ritmo del vento tropicale.

Suo marito, James, aveva cinque anni più della moglie e il pelo dorato, leggermente spettinato sulla fronte, e intensi occhi neri.

Aveva gusto ed eleganza, ma non gli piaceva farne vanto, ed era considerato uno zio dai bambini del villaggio.

Dopo due mesi di gravidanza, Ann diede alla luce un bellissimo bimbo, al quale fu dato il nome di Tom.

Tutto il villaggio di Vureko fece grandi festeggiamenti per la nascita del figlio dei suoi benefattori, e i coniugi Nook sentirono il loro cuore sprofondare nella gioia più totale. Non sapevano ancora che tutto ciò era destinato a finire rapidamente.

Sei mesi dopo la nascita di Tom, nel villaggio ci fu un’invasione di zanzare, tanto che gli abitanti di Vureko furono costretti a restarsene rintanati nelle proprie abitazioni per una settimana intera. Tuttavia… alcuni di loro vennero punti e svilupparono una forte febbre; tra questi, i genitori del piccolo Tom.

Ann e James erano debilitati, spossati dalla disidratazione causata dal vomito e dalle febbri alte, tanto che Thao, una saggia okapi a capo del villaggio, consigliò loro di spostarsi nella capitale, Tokera, per poter essere curati a dovere, assieme agli abitanti di Vureko più colpiti dalla malattia.

“Possano queste collane proteggervi. Le abbiamo realizzate con le foglie del nostro albero padre, il baobab. Il Cielo vi benedica.”

Fu un addio con gli occhi lucidi e l’augurio di un futuro migliore, lontano dalla malattia.

I coniugi Nook furono ricoverati nell’ospedale di Tokera, con la malattia che concedeva loro ben poco riposo.

Fortunatamente, il piccolo Tom non era risultato infetto, e poiché la febbre tropicale non si diffondeva tra persona e persona, quello fu già un gran sollievo. La benedizione del baobab aveva funzionato con lui.

Tuttavia… Entrambi i suoi genitori avevano sviluppato la forma emorragica, la quale si portò via James per primo, dopo una lunga notte di dolori, deliri e le mani intrecciate dei due sposi vicini di letto, rimasti così fino all’alba, con Ann che si rifiutava di lasciare la mano ormai fredda del compagno.

Due settimane più tardi, Ann sentì la fine vicina, così prese le zampe dell’infermiera che l’aveva accudita con tanto calore:

“Leen, ti ringrazio per esserti presa cura di noi con tanto zelo. Ora per me è giunto il momento di andare, di ricongiungermi a mio marito. Mi spiace che il nostro bambino rimanga da solo, perciò, ti prego…”

Ann aveva cominciato a piangere, così l’elefantessa si fece più vicina e l’accarezzò con la proboscide per calmarla.

“… Vorrei che mio figlio tornasse a Leafy, il mio paese natio. Noi non abbiamo parenti in vita, ma mi piacerebbe che crescesse lì, accolto da una bella famiglia…”

“… Farò il possibile.” le promise Leen.

Ann, dopo averle sorriso un’ultima volta, si appisolò. Un’ora e mezza più tardi la sua anima lasciò le spoglie mortali.

I corpi degli sfortunati coniugi Nook, dopo un breve quanto intenso funerale nella chiesetta antistante l’ospedale, vennero cremati e trasportati a Leafy, per essere tumulati nella cappelletta di famiglia.

Quanto a Tom, la vicedirettrice dell’orfanotrofio di Leafy si fece carico di venire a prendere il neonato direttamente all’ospedale di Tokera, per ospitarlo nella sua struttura. Il cucciolo di tanuki dormì tranquillo per tutto il tragitto, con il suo pelame color del miele e gli occhioni blu come il mare.

Così, Tom Nook cominciò la sua vita all’orfanotrofio Raggio di Sole, un posto che contrariamente alle aspettative comuni si rivelò essere caldo ed accogliente, per quanto non potesse assolutamente sostituirsi alla malinconia che il bambino provava di tanto in tanto, quando veniva accompagnato davanti alla tomba dei suoi genitori, o quando vedeva che qualcuno veniva adottato…

All’età di otto anni, si era ormai arreso a restare con Susan e Laura, rispettivamente vicedirettrice e direttrice dell’orfanotrofio.

Susan era una cagnolina volpina, era giovane e per i bambini dell’istituto era una sorta di sorella maggiore, mentre Laura era un camoscio dallo stile sobrio e ricercato, capace di tenerezza e severità, dosate con grande maestria.

A Tom non dispiaceva comunque restare a dondolarsi sull’altalena mentre i più piccoli venivano portati in macchina dai loro nuovi genitori, in un certo senso si sentiva in pace, ed era felice per la nuova vita dei suoi fratelli adottivi. Quanto a lui… Sarebbe rimasto al Raggio di Sole fino almeno alla maggiore età, e poi si sarebbe dato da fare come insegnante.

Il destino, però, aveva in serbo per lui ben altri piani.

Stava per abbattersi un uragano sulla vita del timido e tranquillo Tom Nook.

Un uragano arancione.

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Crescere in fretta ***


Citadelle era una sorta di dea urbana per le popolazioni rurali: la grande città, con servizi rapidamente accessibili e più diversificati che nei paesini sperduti tra campagne e colline…

Citadelle era il lusso, erano i gioielli splendenti ben in mostra nelle vetrine, le atmosfere festaiole del Giorno dei Giocattoli, le grida dei bambini di fronte ai mega gelati e il vivace viavai di segretari e commercianti ogni giorno.

Ma Citadelle nascondeva anche indicibili brutture, che dal cuore dorato della città strisciavano verso i sobborghi, le periferie.

Là vivevano coloro che avevano smesso di cercarsi un posto nella società, i derelitti, gli ultimi.

C’erano vicoletti stretti e bui alle estremità di Citadelle, i quali brulicavano di topi neri e bidoni di latta ricolmi di spazzatura.

Giravano dei gran brutti musi, gente che guardava le facce estranee con un misto di famelicità e ostile diffidenza. Un postaccio.

Lo pensava anche Diamond Sun, una giovane volpe dal pelo dorato e due occhi sottili e neri, che nella vita avevano incontrato ogni genere di sconfitta.

Ogni giorno si pettinava la frangia in modi diversi, ogni giorno cambiava gli orecchini, ogni giorno si truccava gli occhi con ombretti glitterati dalle tinte aggressive, che sembravano urlare più dolore che sensualità.

Ogni giorno indossava scarpe col tacco alto, benché non uscisse praticamente quasi mai di casa.

Ogni giorno aveva addosso vestagline provocanti, leggere e lucide come seta sopraffina.

E ogni giorno, nuovi passi entravano nel suo appartamento decadente, con i muri grigi leggermente scrostati e i quadri che a stento riuscivano a coprire le macchie nere della muffa.

Questo era il mondo di Volpolo, tutto ciò che aveva conosciuto da quando era nato, otto anni prima.

Lui aveva una stanzetta tutta per sé, grigia e triste come il resto della casa, e qualche cubetto di legno con il quale giocare. Era già tanto che sua madre si ricordasse di mandarlo a prendere lo scuolabus sotto casa.

Stranamente, al bambino quella vita non pesava, almeno non apparentemente: i brutti ceffi che entravano in casa sua a qualunque ora del giorno rappresentavano per lui una ventata di novità, poiché si divertiva a… derubarli.

Tutte le volte che li sentiva chiudersi in bagno a farsi la doccia, Volpolo forzava la serratura malandata della porta con una forcina della madre e sgattaiolava all’interno cercando di non farsi vedere, e con maestria sfilava pacchetti di sigarette o soldi dai pantaloni di quegli sventurati. Aveva soltanto otto anni Volpolo, ma aveva già capito come andava il mondo, e non si faceva problemi a derubare persone per le quali non provava alcuna stima.

I pacchetti di sigarette li infilava nel suo zainetto giallo e sgualcito, sotto ai quaderni e ai libri, ben nascosti dal fazzoletto di lino e dalla merendina striminzita che sua mamma gli procurava.

Volpolo non prendeva lo scuolabus per tornare a casa, ma si recava nei cortili delle scuole medie e superiori non distanti dal suo istituto, pronto a rivendere le sigarette rubate ai ragazzi grandi, e per almeno cinquecento stelline a pacchetto.

Gli adolescenti inizialmente si sorpresero di vedere quello scricciolo di volpe gironzolare da solo all’uscita delle loro scuole, ben attento a non farsi beccare da bidelli ed insegnanti, ed all’inizio si fecero beffe di lui. Volpolo se lo ricordava bene il primo giorno di “vendita”:

“Ehi, volete fumare?” aveva esclamato, fermando un terzetto di bulletti quattordicenni.

“E questo marmocchio che cosa vuole?” aveva domandato il kappa, continuando a masticare rumorosamente la sua cicca.

“Smamma, lattante, ché mammina ti chiama!” sghignazzò il capetto, un orso dall’aria truce.

“Mia madre ha da fare ora.” rispose Volpolo, piombando improvvisamente in una serietà che impressionò i tre ragazzi più grandi.

In quel momento, Volpolo aprì lo zainetto e tirò fuori tre pacchetti di sigarette nuovi di zecca.

“Ma dove le hai prese ‘ste paglie, cugino?” gli domandò il terzo dei bulletti, un dromedario dall’aria sfatta.

Volpolo sorrise e assunse l’aria più innocente del mondo:

“Le ho rubate a degli stronzi.”

Il gruppetto indietreggiò.

“Oh, raga, ma da dove salta fuori ‘sto ragazzino?” domandò il dromedario ai suoi compari, sottovoce.

“Non lo so, è stato partorito ieri e già va in giro con le ciminiere…” borbottò l’orso, che non riusciva a provare una rancorosa ammirazione per il marmocchietto insolente.

“E allora? Che facciamo?” domandò il kappa.

“Le comprate le sigarette o no? Fanno cinquecento stelline a pacchetto.” li esortò Volpolo, sempre con un sorriso angelico sul volto.

“Sì sì, le prendiamo, fanculo.” ringhiò il capo dei bulli, che aveva un vero e proprio vizio del fumo ed era stato bocciato già due volte.

Volpolo si mise a ridere, le parolacce dei più grandi le trovava esilaranti.

“Ciao cugini!” li salutò, scimmiottando l’intercalare del dromedario.

Aveva guadagnato 1500 stelline e a quel pensiero si mise a saltellare allegramente, zainetto in spalla, come qualunque altro bambino della sua età.

Era già l’una e mezza inoltrata quando Volpolo rientrò a casa. C’era bel tempo ed era appena iniziata la primavera, e il bambino non aveva voglia di chiudersi nel suo triste appartamento. Tra l’altro, aveva già pranzato, con un sandwich al tonno e una lattina di cola pescati da un distributore automatico.

Sospirando, il bambino entrò in casa. Stranamente non c’era nessuno di estraneo, soltanto lui e la mamma.

Già, la mamma… Se ne stava seduta in sala da pranzo, con la testa tra le zampe.

“Ciao mamma!”

Non ebbe risposta.

“Non stai bene?”

In quel momento, il volpacchiotto la vide: una bottiglia di whisky completamente vuota.

“Ho finito l’alcol.”

Diamond non era completamente conscia di essere una madre, dal momento che con il suo stile di vita stava letteralmente parassitando l’infanzia di Volpolo, il quale alternava momenti giocosi a momenti di pragmatismo quasi cinico.

“Devo andare a comprartelo io?” le chiese, e la sua vocina allegra assunse un retrogusto amaro, quasi rancoroso, impercettibile per una donna allo sfascio come Diamond.

“Non dire sciocchezze, non lo vendono l’alcol ai bambini.” mugugnò la donna, sistemandosi meglio sul tavolo.

Volpolo la lasciò a macerare nei suoi lieti pensieri e si chiuse in camera, dove cominciò a disegnare. ADORAVA disegnare, ricopiando le forme delle foglie e dei fiori, oppure inventandosi personaggi di fantasia. Quei brevi momenti di gioia gli permettevano di scappare da una realtà che gli faceva schifo, e nel silenzio della sua triste cameretta poteva finalmente piangere, una lacrima alla volta, stando bene attento a non bagnare il foglio bianco.

Le 1075 stelline che gli erano avanzate dopo il pranzo erano rimaste nello zainetto, non le aveva consegnate alla mamma, perché lei i soldi li buttava via, non faceva nulla per togliersi dalla sporcizia. Questo lo aveva capito perfino lui, un bambino di seconda elementare solo e disperato.

La svolta, nella vita di Volpolo, si ebbe un tragico pomeriggio autunnale.

Come sempre, il ragazzino aveva cercato di sgraffignare i soldi dal portafoglio degli uomini che visitavano casa sua, ma quella volta gli era andata male, malissimo.

Uno di loro se n’era accorto e aveva fatto il diavolo a quattro:

“Moccioso schifoso, cosa credevi di fare, eh?!”

Era successo un pandemonio. Volpolo era sgusciato via da quel pastore tedesco rognoso, e questo aveva cominciato a urlare come un pazzo, ad afferrare oggetti a caso ed a scaraventarli per tutta la casa. Diamond, allarmata dalle grida, era andata incontro al losco individuo e questi le aveva tirato uno schiaffo in pieno volto.

“Hai addestrato bene tuo figlio, complimenti!” le aveva detto, con feroce ironia.

La volpe dorata non capiva.

“Cosa intendi?” gli aveva chiesto.

“NON FARE LA FINTA TONTA CON ME! QUEL MOCCIOSO MI HA RUBATO DEI SOLDI!” aveva urlato l’uomo, ancora più forte.

Gli occhi neri di Diamond si allargarono, e si mise a chiamare Volpolo con voce tremante.

Il bambino si era attaccato al telefono ed aveva chiamato la polizia. Stava già arrivando.

Inutile dire che a quella scena il pastore tedesco perse completamente la bussola: spintonò violentemente Diamond e questa batté la testa contro il muro del corridoio. Poco gli importava, voleva solo andarsene da lì prima dell’arrivo degli sbirri.

Volpolo lo vide correre via come un’ombra marrone e nera, e un brivido gli percorse la schiena.

Era finita, forse era finita davvero quell’orribile vita. Gli pareva di essersi risvegliato dopo un lungo torpore.

Quando i poliziotti arrivarono sul posto, trovarono Volpolo immobile, inginocchiato accanto alla madre che intanto perdeva sangue dalle tempie. Le aveva bagnato la fronte con dell’acqua fredda, non sapeva fare altro.

“E ora?” aveva chiesto alla poliziotta che gentilmente lo aveva preso per la zampa; la ragazza si era ammorbidita parecchio di fronte a quegli occhioni di onice brillante, dolci e profondi come un rotolo di liquirizia.

“Ora ti accompagneremo dalla tua vicina, la signora Emiliana. Si prenderà cura lei di te, e nel frattempo noi penseremo alla tua mamma.”

“Le comprerete l’alcol?” domandò Volpolo, con la speranza di sentirsi rispondere di “no.”

La giovane poliziotta lo guardò a lungo, domandandosi che razza di traversie potesse aver affrontato un ragazzino così piccolo.

“No, tesoro, le compreremo le medicine buone che la faranno stare meglio.”

Purtroppo, quei propositi fiabeschi si scontrarono velocemente con la realtà: Diamond era stata portata all’ospedale di Citadelle, dal momento che il colpo alla testa era stato serio, anche se non letale. Una volta qui, aveva atteso di sentirsi un po’ meglio ed era scappata con il favore delle tenebre e un camice rubato durante un cambio turno tra colleghi infermieri.

Nessuno l’aveva più trovata. Non era più tornata nel Vicolo Buio di Citadelle.

Non era tornata a riprendersi suo figlio, l’unica cosa buona che aveva fatto in vita sua.

Sparita, inghiottita dalla terra, fuggita con qualcuno o con i soli spettri del suo passato.

Volpolo, dal canto suo, non avrebbe potuto vivere per sempre con Emiliana, che era una tartaruga di buon cuore ma parecchio avanti con l’età, impossibilitata a stare dietro ad un giovanotto come il volpino.

Così… Si aprirono per lui le porte dell’orfanotrofio.

Volpolo era figlio di padre ignoto e sua madre aveva rotto i ponti con tutta la sua famiglia, la quale era irrintracciabile.

Si decise di allontanarlo da Citadelle, di farlo crescere nell’orfanotrofio Raggio di Sole, distante cinquanta chilometri da lì.

Leafy era una perla nella campagna, un posto verde e incontaminato, sarebbe stato l’ideale per un bambino traumatizzato come il volpacchiotto.

Così, accompagnato dalla stessa poliziotta che lo aveva rassicurato, il bambino dal pelo arancione salutò Citadelle e tutto il dolore che gli aveva arrecato, e con solo una leggera esitazione, salì i gradini del treno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** L'arrivo di Volpolo ***


Tom era ancora profondamente addormentato nel suo caldo lettino a castello, nonostante fosse ormai mattina e il sole novembrino brillasse piuttosto vivace nel cielo.

All’improvviso Billy, lo scoiattolino che dormiva sotto di lui, si arrampicò sulle scalette del letto e scosse Tom per le spalle.

“Tom, Tom! Svegliati!”

“Mhmm…”

Il tanuki si girò verso il muro e continuò a dormire.

“Dai, Tom! Oggi arriva un nuovo bambino!”

Quelle parole instillarono una scintilla di curiosità nel cucciolo dal pelo castano, così aprì gli occhi e si stiracchiò.

“Davvero? Chi l’ha detto?” domandò.

“La signorina Susan. La direttrice Laura ha detto che fra un’ora sarà qui.”

Dopo essersi lavato, vestito e aver fatto colazione, Tom si recò insieme agli altri ospiti dell’orfanotrofio nel salone principale dell’edificio, in attesa che arrivasse il nuovo compagno.

C’era un notevole fermento tra i ragazzini, con tentativi di indovinare la specie e l’età del nuovo arrivato, e anche aspettative sugli sport da praticare assieme a lui.

Dopo qualche minuto, si udì un suono di tacchi e i trenta ospiti del Raggio di Sole si acquietarono istantaneamente.

Laura aveva un’aria sorridente, e come sempre era impeccabile nel suo tailleur blu notte e l’ombretto lilla.

Dietro di lei c’era Susan, la quale teneva per la zampa un cucciolotto arancione dall’aria vispa.

Laura si pose dietro al microfono dell’aula riunioni, e cominciò a parlare:

“Cari ragazzi, oggi siamo qui riuniti per accogliere tra di noi il qui presente Volpolo. Lui viene da Citadelle, ha otto anni e spera di diventare vostro amico. Per favore, fate del vostro meglio per aiutarlo a inserirsi. Le lezioni riprenderanno dopo pranzo. Buona giornata a tutti!”

Tom si focalizzò su Volpolo: era un kitsune dall’aria sorprendentemente angelica, il ché era piuttosto singolare, dato che nei libri di fiabe che aveva letto i kitsune erano volpi dai ghigni malefici e il pelo arruffato. Volpolo non era niente di tutto questo: aveva due graziose orecchie color crema, gli occhi stretti e neri, il musino appuntito. Indossava una maglia a maniche lunghe nera e un paio di jeans. Sembrava talmente piccolo e indifeso da far venire voglia di abbracciarlo.

Dopo un po’, la folla si disperse e i ragazzi si dedicarono a sistemare le loro stanze, mentre Susan aiutava Volpolo a sistemarsi, in una camera vicina a quella di Tom e Billy.

Il giorno dopo, agli alunni delle elementari venne chiesto di rappresentare un cartellone con un albero dai colori autunnali.

Vennero fatti spostare i banchi, e la maestra stese a terra un cartellone bianco, sopra il quale aveva tracciato a matita un grande albero con la chioma che andava gradualmente a perdere foglie.

Alla spicciolata, i dieci alunni dai sei agli undici anni si disposero attorno al cartellone, ognuno con diversi fogli bianchi, sopra i quali avrebbero disegnato e colorato le foglie da incollare sull’albero.

Tom aveva già iniziato a disegnare, quando si sentì toccare la spalla:

“Scusami, mi presteresti la gomma?”

Era Volpolo, il bambino nuovo.

“Oh… Certo.”

“Grazie.”

Il ragazzino dal pelo arancione cancellò alcune nervature, e Tom ne approfittò per osservare la sua foglia: era veramente bravo, preciso per essere un bambino di soli otto anni, il ché gli diede da pensare che potesse amare il disegno.

“Sei bravo!” gli disse infatti, e Volpolo sorrise.

“Grazie, mi è sempre piaciuto molto disegnare.”

Il cane procione gli sorrise di rimando ed i due ripresero con il loro lavoro.

Dopo due giorni di impegno, l’albero autunnale fu terminato e collocato sopra una parete all’ingresso del Raggio di Sole.

Il tronco era stato dipinto con della tempera marrone, mentre le foglie mostravano le trame più disparate: c’era chi le aveva colorate con un leggero tratto di pastello, chi aveva calcato col pastello a cera, chi aveva usato i pennarelli, chi gli acquerelli…

I dieci bambini batterono le mani nell’osservare il loro operato e ricevettero i complimenti anche dai ragazzi più grandi.

“Ottimo lavoro, bambini. Oggi pomeriggio vi aspetta il club di lettura.” li informò la direttrice Laura, prima di andare nel suo ufficio.

Tom ricevette di nuovo un colpetto sulla spalla:

“Siamo stati bravi, vero?”

Il tanuki sorrise, trovandosi davanti di nuovo quel simpatico volpacchiotto.

“Sì sì, bravissimi!”

Tom e Volpolo si sedettero vicini mentre la maestra Jolie, una giovane e gentile antilope, leggeva la fiaba che aveva tra gli zoccoli.

Avevano fatto amicizia e si sorridevano spesso, commentando a bassa voce qualche passo del racconto.

Ad un tratto, però, la narrazione prese una piega inaspettata:

“E la mamma prese tra le braccia il suo piccolo Echo e gli sussurrò con tenerezza di non avere paura, che il temporale sarebbe passato presto e sarebbe potuto tornare a nuotare nel mare assieme agli altri delfini. Echo la guardò con i suoi occhi cerulei e le lacrime smisero di scorrergli sulle guance. Allora le diede un piccolo bacio e l’abbracciò stretta.”

“Che cosa vuol dire ceruleo?” aveva chiesto uno degli alunni.

“Significa azzurro come il cielo.” rispose Jolie, con dolcezza.

Tom aveva altri pensieri; lui non aveva memoria di sua madre, non ricordava il calore del suo abbraccio, il tepore dei suoi baci, il suono della sua voce.

“Mi sarebbe piaciuto conoscere lei e papà…” aveva sospirato, facendo dondolare le zampe giù dalla sedia.

Per Volpolo era tutta un’altra storia.

Sentire parlare di una madre amorevole, per quanto fittizia, era per lui un trauma non indifferente.

La sua era sparita, l’aveva abbandonato come una scarpa vecchia, e anche quando vivevano insieme i momenti di affetto madre-figlio erano stati veramente risicati.

Gli era venuto da piangere e Jolie se n’era accorta.

“Tutto bene, Volpolo? Stai male?” gli aveva chiesto, alzandosi dalla cattedra per andare a consolarlo.

“La mamma mi ha lasciato da solo! E’ stupida!” aveva gridato, e c’era un tale dolore in quelle parole, una tale rabbia, da aver fatto restare annichiliti tutti i presenti, maestra compresa.

Jolie l’aveva abbracciato:

“Oh, tesoro, sono sicura che la tua mamma non avrebbe voluto fare così, ma non ha avuto scelta…”

Le lacrime seguitavano a scendere dagli occhi del piccolo.

“Ti senti meglio?” gli domandò, con sincera partecipazione.

Volpolo annuì, e non poté fare a meno di notare quanto calore in più avesse quella maestra rispetto alla sua madre scapestrata.

Nel corso delle settimane Volpolo fece amicizia con vari ospiti dell’orfanotrofio, grazie anche al supporto di Tom.

Gli piaceva giocare a calcio, disegnare e mostrare le proprie creazioni, ed anche cantare le canzoni in compagnia.

A Tom faceva piacere vederlo così ben inserito, e anche vedere che la tristezza dovuta all’abbandono della mamma stava lentamente acquietandosi.

La sera, prima di andare a dormire, a Volpolo piaceva entrare nella stanza di Tom e Billy a raccontare storie buffe e divertenti, disegnare loro i ritratti, oppure semplicemente augurare loro la buonanotte con un abbraccio di gruppo.

Una sera, poco prima della Festa dei Giocattoli, Billy sorprese entrambi con un annuncio importante:

“Fra una settimana verranno a prendermi. Avrò una mamma e un papà!”

La felicità riflessa in quel topolino color menta di cinque anni era tangibile, quasi come se fosse composta di materia solida.

I due bambini più grandi, seppur immalinconiti da quella futura partenza, gli accarezzarono i capelli castani:

“Siamo tanto contenti per te!”

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** L'intrusa ***


Trascorsero due anni pacifici.

Tom e Volpolo avevano stretto un’amicizia intensa, e piano piano nei loro discorsi con gli altri ospiti del Raggio di Sole era stato introdotto il termine di “migliore amico” per identificare l’uno o l’altro.

Volpolo aveva voluto creare una squadra di calcio, e l’aveva chiamata “Raggio di Luna” in contrasto con il nome dell’istituto.

Lui faceva il portiere, mentre Tom il difensore. Si divertivano e si sentivano coesi, uniti da una passione sportiva molto forte.

Il volpacchiotto era soddisfatto della sua nuova vita, e anche quando, pensando a sua madre, s’incupiva, gli bastava incrociare il sorriso di Tom per ritrovare l’allegria.

Non era preparato, però, a subire un’intrusione nella sua routine.

Il primo giorno dell’anno 1982, a Leafy arrivò una macchina azzurra carica di bagagli, seguita da un camioncino bianco dei traslochi.

Era una famiglia di ricci con due figlie, una di dieci e l’altra di due anni.

La famiglia Abile, sarti di notevole fama, venuta a stare in quel di Leafy.

Quel trasloco mosse parecchio gossip tra i ragazzi del Raggio di Sole, anche perché i signori Abile erano venuti, qualche giorno dopo il loro arrivo, a donare abiti agli orfani, il che li fece vedere dai ragazzi come figure angelicate.

“Voi avete visto le figlie?”

“No, e voi?”

“Nemmeno.”

Tom si alzava ogni mattina e lungo i corridoi c’era qualcuno intento a mormorare qualcosa sulla famiglia Abile. Lui non provava particolare curiosità, gli faceva semplicemente piacere che fosse gente cordiale e amorevole.

Ironicamente, fu proprio lui il primo degli orfani a conoscere la primogenita degli Abile, Filomena.

Era di ritorno dal consueto giro al cimitero accompagnato da Susan, quando aveva incontrato la riccetta e sua madre, le quali erano andate a comprare il pane e il latte.

“Oh, ma che sorpresa, Miss Susan!” l’aveva salutata la donna.

“Buongiorno, signora Abile! Fa piuttosto freddo oggi, eh?” le domandò la cagnolina, fregando tra di loro le mani guantate.

“Oh sì, non me lo dica! Continua a ghiacciarsi l’acqua del pozzo!”

Mentre le due donne discorrevano del meteo e di Leafy, i due bambini rimasero per qualche minuto a squadrarsi, senza dire una parola.

Passato il primo attimo di timidezza, Tom indicò le calze di nylon di Filomena.

“Che bel disegno che hanno!” disse.

“Grazie, le ha cucite la mamma!” rispose la piccola, afferrando i lembi della sua gonnellina di tartan e arrossendo un poco.

“Devono tenere caldo…”

“Oh sì, e sono pure morbide.”

Fu quello, il primo passo che sancì una nuova amicizia per il piccolo tanuki.

Da quel giorno, infatti, Tom prese a frequentare abitualmente la casa degli Abile durante le pause dalle lezioni, con il consenso di Susan.

Volpolo non lo accompagnava, preferiva dedicarsi al disegno e ad allenarsi assieme ai compagni della Raggio di Luna. Non poteva certo dire che Tom disertasse gli allenamenti, ma il tempo che passava con lui era certamente diminuito. La cosa gli dava un notevole fastidio.

Al piccolo tanuki piaceva osservare la signora Luisa, la mamma di Filomena, mentre cuciva e ricamava con cura magistrale. Era come osservare una magia compiersi davanti ai suoi occhi.

Filomena era orgogliosa dei suoi genitori, e sperava un giorno di poterli eguagliare:

“Quando sarò grande questo sarà il mio negozio!” esclamava, piena d’entusiasmo, e Tom l’ammirava. Quando parlava di cucito, di abiti o del negozio dei suoi genitori, le sue guance prendevano colore e la sua aria di bambina timida e introversa spariva, facendola apparire una farfalla variopinta. Quel pensiero fece avvampare il tanuki.

I due ragazzini trascorrevano interi pomeriggi a bere tè coi biscotti, a creare nuove idee per la signora Luisa, oppure a fare due passi con la piccola Beatrice nel giardino di casa.

“Sembriamo una mamma e un papà con la loro bimba!” aveva pensato un giorno Filomena, diventando rossa dal primo aculeo all’ultimo pelo della coda.

Quando Tom rientrava in orfanotrofio, rimbambiva di chiacchiere il suo compare su quanto fosse carina la sorellina di Filomena, su quanto fosse simpatica la stessa Filomena, su quanto gentili fossero i signori Abile e su quanto gli avrebbe fatto piacere che lui si aggregasse a loro.

Il solo pensiero faceva rizzare il pelo del kitsune; non aveva alcuna voglia di entrare in una casa graziosa, piena di smancerie e fiocchetti ovunque.

Non voleva ammetterlo neanche con se stesso, ma non sopportava l’idea di fare paragoni con il tugurio osceno in cui era vissuto nei primi anni della sua esistenza.

Così, mentre il suo amico parlava, lui riponeva nel suo armadietto l’occorrente per il calcio.

“Scusa, Tom, sono molto stanco, vorrei dormire.”

E così dicendo, s’infilava sotto le coperte del letto a castello che condivideva con Tom, ora che Billy aveva trovato una famiglia.

Sospirando, anche il cane procione si metteva il pigiama e saliva le scalette del letto.

Non riusciva a capire la riluttanza di Volpolo a crearsi una nuova amicizia, ma avrebbe insistito. Di sicuro, una volta conosciuta Filomena, avrebbe finito per apprezzarla pure lui.

Ogni sera, con rinnovato spirito, Tom chiudeva gli occhi e sprofondava in un sonno tranquillo.

Dopo qualche tempo, il ragazzino castano tornò alla carica:

“Oggi vieni a giocare con me e Filomena?”

Volpolo smise di leggere il manualetto sul calcio che Susan gli aveva regalato per il suo decimo compleanno.

“E a cosa giochiamo? A farci truccare?”

Il volpacchiotto non aveva mai nascosto una certa antipatia per la riccetta, pur non avendoci mai parlato. Gli dava stranamente fastidio continuare a sentirne parlare dal suo amico, e forse anche Tom era stato particolarmente martellante in quei due mesi di frequentazione della famiglia Abile.

“Ma no! Potremmo anche fare due tiri col pallone!” rispose il tanuki, entusiasta.

Volpolo lo guardò scettico, con quel luccichio negli occhi d’ossidiana che Tom trovava divertente.

“Eddai, Vol! Filomena è simpatica, te lo giuro! Non ti annoierai, promesso!”

Volpolo sbuffò; non riusciva a dire di no al suo migliore amico, anche se avrebbe volentieri indossato gli scarpini da calcio per un nuovo allenamento piuttosto che trascorrere quel pomeriggio libero con una femminuccia tutta trine e pizzi.

Quando Volpolo vide Filomena, nella sua testa si accese un campanello d’allarme.

Non capiva cosa potesse essere, forse l’aria da signorina perbene, forse i fiocchetti che aveva alla base delle orecchie, forse la sua risatina timida, o forse il suo abitino a quadri verdi e bianchi con tanto di calzette candide e scarpette di vernice nera.

In poche parole: il ritratto della figlia perfetta, della bambina che tutti vorrebbero avere, dell’amichetta che va d’accordo con tutti, di quella che monopolizza l’attenzione del proprio migliore amico.

Era a casa sua da neppure mezz’ora e Volpolo aveva già deciso che aveva ragione, che Filomena non gli sarebbe mai piaciuta.

Stavano giocando con la sua cucinetta e i ragazzi facevano gli ospiti, con la differenza che il tè e i biscotti per merenda gli erano stati serviti davvero, con la cortesia di Luisa.

“Gradisci un altro po’ di tè, Tom?” aveva cinguettato la bambina, con voce dolce e timida.

“Oh, sì, grazie!” aveva risposto lui, con gentilezza.

Ridendo lievemente, la riccia aveva versato dell’altro liquido ambrato dalla bella teiera di porcellana bianca nella tazza decorata a magnolie di Tom.

Volpolo aveva voltato la faccia a quella scenetta zuccherosa, maledicendosi per non essersi messo in porta a parare palloni assieme ai suoi compagni della Raggio di Luna.

“Ne vuoi anche tu, Volpolo?”

“No, grazie, sono a posto.” aveva borbottato lui, con la viva speranza di andarsene in fretta da Casa Abile.

Il pomeriggio proseguì senza intoppi, e Filomena volle togliersi le scarpette di vernice e indossare le scarpe da ginnastica per fare qualche passaggio di calcio con Tom. Volpolo non partecipò a quel quadretto idilliaco, ma si sedette in giardino, afferrando i fili d’erba e staccandoli con gesti secchi; vedere i passaggetti loffi della bambina e Tom ridere come un ebete lo mandava letteralmente ai pazzi. Ma che ci trovava in quella smorfiosetta?

“Oh, Volpolo… Non giochi a calcio?”

La signora Luisa era uscita in giardino ad innaffiare i tulipani.

“No… Sono un po’ stanco.”

La donna sorrise e si mise a dare l’acqua ai fiori; poco dopo dalla porta d’ingresso uscirono il signor Giuseppe e la piccola Beatrice, una scricciolina di due anni desiderosa di correre dappertutto.

Beatrice assomigliava a sua sorella maggiore, ma gli aculei tendevano al prugna e non aveva le lentiggini.

“Bea, aspetta!”

Giuseppe, un signore distinto dagli aculei marrone scuro e i baffi, rideva mentre rincorreva la sua secondogenita, che con le sue gambette raggiunse Volpolo e gli afferrò le ginocchia.

“Scusala, è una peste!”

“Non si preoccupi!” gli rispose subito il ragazzino.

Stranamente, quella bimbetta alta sì e no settanta centimetri non lo indisponeva tanto quanto sua sorella, perciò le fece qualche carezza sulla testina e la prese per la zampetta, accompagnandola dal papà. Beatrice, però, non voleva lasciare la mano del suo nuovo amico, così Giuseppe la prese in braccio.

“Sembra che tu sia simpatico a Bea!” gli disse, e il volpacchiotto sorrise leggermente, in maniera genuina, dimentico del malumore di prima.

“Allora, signorinella… Andiamo a farci un bagnetto?” domandò il padre alla bimba, ottenendo in risposta un gorgheggio allegro.

Una volta rientrati, però, Volpolo si girò verso i suoi due amici e sospirò, vedendoli completamente immersi nel gioco del calcio. Sembrava quasi che si fossero dimenticati di lui. Ora lui si sentiva triste, fiacco, più che arrabbiato.

“Tom!” lo chiamò, sentendo in lontananza sei rintocchi di campana.

Il tanuki fermò il pallone con il piede.

“E’ tardi, dobbiamo rientrare.” disse Volpolo, perentorio.

“Hai ragione. Grazie, Filomena, siamo stati veramente bene. Ci vediamo presto!”

Rossa in volto, la riccia si avvicinò al suo amico e gli scoccò un bacino vicino al naso. Tom non se l’aspettava, e anche il suo viso prese fuoco.

“A presto…”

Sul viale del ritorno, Volpolo era silenzioso, e Tom sentiva che ce l’aveva con lui per qualche motivo.

“Non ti sei divertito da Filomena?”

L’amico non rispose, limitandosi a prendere un filo d’erba e a metterselo in bocca.

“Dai, Vol, parlami.”

“Tu le piaci.” bofonchiò solo, con la graminacea stretta fra i denti.

Tom arrossì ancora un poco al pensiero.

“Tu dici?”

D’un tratto, gli occhi inquisitori di Volpolo si posarono velocemente sull’amico.

“E lei ti piace?”

Pur essendo marzo e non essendoci ancora un clima particolarmente caldo, Tom si sentì sudato.

“Mah… Non lo so… E’ carina, ma…”

Il tanuki non sapeva cosa dire, così si slacciò la felpa e ne sventolò i lembi, come a voler disperdere l’improvviso calore.

Volpolo, dal canto suo, gettò via il gambo della graminacea ed afferrò le spalle del suo migliore amico.

“E’ diventata lei la tua migliore amica adesso?”

Gli occhi color del mare di Tom rischiarono seriamente di far sciogliere la rabbia inespressa del volpino, il quale tuttavia rimase serio.

“Eh? No, figurati… Sei sempre tu!”

“Ah, davvero? Oggi pomeriggio ti sei dimenticato che c’ero anch’io!”

La voce limpida di Volpolo si fece rasposa verso la fine della frase, e a quel punto Tom si mise a ridere, divertito:

“Ma dai! Non dirmi che sei geloso!”

Il ragazzino non rispose, ma guardò altrove; Tom allora gli prese la zampa.

“Dai, non fare così… Filomena è carina ma non mi dimentico di te per questo!”

Tom lo abbracciò di slancio e il volpino restò di stucco, non se lo aspettava.

Dopo qualche istante, però, ricambiò quell’abbraccio. Il suo cuore ne fu rinfrancato.

“Secondo te cosa c’è per cena?” domandò il cane procione all’amico, una volta sciolto l’abbraccio.

“Spero non la solita zuppa di piselli! Io vorrei una bella bistecca!” ridacchiò la volpe, dandogli una gomitata affettuosa.

Quella sera, a cena, Filomena appariva distratta, distante, e mangiava a piccoli bocconi, assorta in chissà quali pensieri.

La madre la richiamò all’attenzione toccandole dolcemente il polso.

“Filomena… Va tutto bene, cara?”

“Stai pensando ad oggi pomeriggio?” le chiese il padre.

La bambina si schermì, sfregandosi le zampette tra di loro con fare timido.

“Sì… Tom è… è…”

Luisa sorrise: aveva capito tutto.

“Ti sei trovata dei buoni amici. Su, ora mangia, altrimenti si raffredda tutto!” la incitò, e la piccola riprese in mano la sua forchetta.

Giuseppe imboccava Beatrice, e la bimbetta mangiava con appetito.

Filomena si teneva stretto il sentimento nascente che le scaldava il petto.

Si stava innamorando di Tom.

 

 

 

 

 

 

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